Lo spirito misterioso che in lui aveva dischiuso la poesia lo aveva reso libero e pronto per altre soddisfazioni umane, per l'amore; o forse era vero il contrario, ed era stato l'amore a dischiudere in lui la poesia? Sembrava persino che avesse influito sul suo lavoro. Mentre macinava il caffè, rifletté sulle piccole ambiguità della vita. Quando ancora non gli veniva spontanea la poesia, anche il suo lavoro gli era parso fastidioso e addirittura repellente. Adesso era abbastanza felice per lasciare che Rickards invadesse la sua solitudine e lo usasse come cassa di risonanza. Quella nuova e benevola pazienza gli riusciva un tantino sconcertante: un successo moderato faceva molto meglio al carattere di un fallimento, ma un eccesso gli avrebbe fatto perdere tutto il suo acume. E cinque minuti dopo, quando portò le due tazze in salotto e tornò ad accomodarsi in poltrona, poté apprezzare il contrasto fra la preoccupazione di Rickards per la violenza di uno psicopatico e la pace che regnava al mulino. Il fuoco di legna, che adesso non scoppiettava più, emanava un tepore piacevole e il vento, che raramente mancava sul promontorio, si muoveva come uno spirito benigno sibilando intorno alla costruzione. Per Dalgliesh era un sollievo pensare che non fosse compito suo catturare il Fischiatore. Fra tutti gli omicidi, quelli commessi in serie erano senza dubbio i più frustranti, i più difficili da risolvere. L'indagine era sottoposta alla chiassosa pressione dell'opinione pubblica, che chiedeva a gran voce di catturare il mostro per esorcizzarlo definitivamente. Ma non era un caso che lo riguardava: poteva discuterne con il distacco di un uomo che ha un interesse professionale ma nessuna responsabilità diretta. E poteva comprendere il bisogno di Rickards: il suo problema non era trovare buoni consigli, poiché conosceva il mestiere, ma qualcuno di cui fidarsi e che afferrasse il suo linguaggio, qualcuno che poi se ne sarebbe andato senza tornare a ricordargli continuamente le sue incertezze. In poche parole, aveva bisogno di un collega con il quale riflettere tranquillamente a voce alta. Aveva i suoi collaboratori, ed era troppo puntiglioso per non metterli a parte dei suoi pensieri. Ma aveva bisogno di articolare le sue personali teorie e adesso era libero di esporle, di ricamarci sopra, di scartarle o esplorarle senza l'inquietante timore che il sergente in deferente ascolto, con la faccia scrupolosamente inespressiva, stesse in realtà pensando: santo Dio, questo farnetica! Oppure: il vecchio comincia a dare i numeri.

Rickards disse: «Non ci serviamo di Holmes. La polizia di Londra dice che il sistema è già impegnato al massimo, attualmente, e comunque abbiamo il nostro computer. Certo, i dati non sono molti. Pubblico e stampa sanno di Holmes, naturalmente, me lo chiedono in tutte le conferenze: "Vi servite del computer speciale degli Interni, quello che prende il nome da Sherlock Holmes?". "No" rispondo io, "ma ci serviamo del nostro." Domanda sottintesa: "Allora perché diavolo non l'avete ancora preso?". Credono che basti inserire due dati perché schizzi fuori l'identikit perfetto del mostro, corredato di impronte digitali, circonferenza collo e gusti musicali».

«Sì» convenne Dalgliesh, «ormai siamo così sommersi dai prodigi della scienza, che è un po' sconcertante scoprire che la tecnologia può fare tutto meno ciò che vorremmo davvero.»

«Quattro donne, finora, e Valerie Mitchell non sarà l'ultima se non lo cattureremo in fretta. Ha cominciato quindici mesi fa. La prima vittima fu trovata poco dopo mezzanotte in una baracca in fondo alla passeggiata di Easthaven; era la puttana locale, fra parentesi, anche se forse lui non lo sapeva o non se ne curava. Poi sono passati otto mesi prima che tornasse a colpire. Per lui, credo, fu un caso, un semplice caso fortunato: una maestra trentenne che rincasava a Hunstanton in bicicletta, una gomma a terra su una strada solitaria. Poi un'altra pausa, sei mesi soltanto, quindi uccide una barista di Ipswich, che era venuta a trovare la nonna e aveva commesso la sciocchezza di aspettare l'autobus da sola, a tarda sera. Quando l'autobus arriva, alla fermata non c'è nessuno; scendono due giovani del posto, sbronzi e dunque poco attenti, in ogni caso non vedono e non sentono niente... niente tranne ciò che poi descriveranno come una specie di fischio lamentoso proveniente dall'interno del bosco.»

Rickards sorbì un sorso di caffè e continuò: «Abbiamo richiesto allo psicologo della centrale una valutazione della sua personalità. Non so proprio perché ci prendiamo tanto disturbo, in fondo potrei farlo anch'io. Ci ha consigliato di cercare un tipo solitario cresciuto in una famiglia dissestata e problematica, forse con una figura materna di tipo ossessivo e dominante. Non lega con la gente, in particolare con le donne; potrebbe essere impotente, scapolo, separato o divorziato, con moti di risentimento o di odio verso l'altro sesso. Be', non ci aspettavamo certo che fosse un dirigente di banca felicemente sposato, con quattro figli adorabili ed equilibrati. Questi omicidi in serie sono diabolici. Non c'è un movente... almeno, non c'è un movente che una persona razionale possa comprendere. E potrebbe arrivare da chissà dove: Ipswich, Norwich, persino Londra. È pericoloso supporre che agisca soltanto su un particolare territorio, ma sembra proprio che sia così: evidentemente conosce bene queste località. E sembra che si attenga sempre al medesimo modus operandi. Sceglie un incrocio, ferma la macchina o il furgone sul bordo di una strada, attraversa e aspetta dall'altra parte. Poi trascina la vittima fra i cespugli e gli alberi, la uccide, torna alla macchina e si dilegua. Negli ultimi tre omicidi sembra sia stato un puro caso se gli è capitata fra le mani la vittima giusta».

Dalgliesh pensò che era giunto il momento di dire qualcosa. «Se non sceglie la vittima, come evidentemente è accaduto negli ultimi tre casi, sarà costretto a lunghe attese. Il che indica che esce per abitudine dopo l'imbrunire. È uno che lavora di notte, un acchiappatalpe, un boscaiolo, un guardacaccia, qualcosa del genere. E si muove preparato ad agire, pronto ad uccidere in fretta.»

«Sì, anch'io la vedo nello stesso modo» disse Rickards. «Quattro vittime, finora, tre delle quali fortuite. Ma con ogni probabilità va in giro da tre o più anni. Potrebbe far parte del fascino dell'avventura. "Stanotte potrei fare un colpo, stanotte potrei avere fortuna." E per Dio, di fortuna ne ha anche troppa. Due vittime nelle ultime sei settimane!»

«E il suo segno di riconoscimento? Il fischio?»

«L'hanno udito tre persone arrivate sulla scena poco dopo il delitto di Easthaven. Uno ha sentito soltanto un fischio, uno ha detto che sembrava un inno e il terzo testimone, una donna molto religiosa, ha dichiarato che era in grado di identificarlo con esattezza: Ora il giorno è finito. Non ne abbiamo mai dato notizia. Potrebbe essere un indizio utile, quando ci troviamo alle prese con i soliti mitomani che affermano di essere il Fischiatore. Ma pare non ci siano dubbi: fischia davvero.»

«Ora il giorno è finito / la notte si avvicina / le ombre della sera / calano sul cielo» disse Dalgliesh. «È un inno della scuola domenicale: non il classico inno di lode, direi.»

Lo ricordava dall'infanzia: una melodia lugubre che, a dieci anni, sapeva già suonare al pianoforte del salotto. C'era ancora qualcuno che cantava quell'inno? Era stato uno dei preferiti della signorina Barnett, nei lunghi e bui pomeriggi d'inverno, prima del termine delle lezioni della scuola domenicale, quando fuori la luce si affievoliva e il piccolo Adam Dalgliesh pensava con preoccupazione agli ultimi venti metri di strada che lo separavano da casa, là dove il viale della canonica si piegava in una curva e i cespugli diventavano più fitti. La notte era diversa dal giorno luminoso: aveva odori e suoni differenti, e le cose note assumevano forme nuove. Una potenza aliena e sinistra governava le tenebre. Quei venti metri di ghiaia scricchiolante, dove le luci della casa restavano momentaneamente nascoste, erano il suo incubo settimanale. Una volta varcato il cancello del viale era libero di camminare in fretta, ma non troppo, perché la potenza oscura della notte sentiva l'odore della sua paura, come i cani. Sua madre, ne era certo, non avrebbe mai preteso di fargli percorrere da solo quel tratto se soltanto avesse saputo del suo atavico panico: ma lo ignorava, e piuttosto di rivelarglielo lui sarebbe morto. E suo padre? Suo padre avrebbe voluto che lui fosse coraggioso, gli avrebbe detto che Dio era il Signore delle Tenebre non meno che della Luce. Dopotutto, esistevano almeno una dozzina di testi che avrebbe potuto citargli con cognizione di causa: "Tenebra e Luce sono per Te la medesima cosa". Purtroppo non lo erano però per un ragazzino di dieci anni notevolmente sensibile. In quelle camminate solitarie aveva avuto la prima intuizione di una verità sostanzialmente adulta: a causarci le sofferenze più grandi sono coloro che più ci amano. Disse: «Dunque state cercando un uomo del posto, un solitario che abbia un lavoro notturno, che disponga di un mezzo e che conosca inni antichi e moderni. Be', tutto questo dovrebbe facilitarvi il compito».

«Già, si direbbe proprio, non è vero?» rispose Rickards. E dopo un minuto di silenzio: «Ora gradirei quel whisky, signor Dalgliesh, se per lei non è un disturbo».

Se ne andò dopo mezzanotte. Dalgliesh lo accompagnò fino alla macchina, dove Rickards si fermò a scrutare verso il promontorio. «È là, nascosto chissà dove a spiare e attendere. Quando sono sveglio, non c'è momento in cui non pensi a lui e all'aspetto che potrebbe avere, a dov'è e a cosa gli frulla per la testa. La madre di Susie è una cara persona. Ultimamente non ho avuto molto tempo da dedicare a mia moglie. E quando lo prenderemo, quest'incubo finirà. Eh, ogni cosa passa e se ne va. Lui no, ma noi sì. E alla fine si sa tutto, o si crede di sapere tutto: dove, quando, chi, come. Se si è fortunati, si può anche scoprire perché. Eppure, in sostanza, continuiamo a non sapere nulla. Tanta malvagità... non è necessario spiegarla o comprenderla, o fare qualcosa: l'importante è che cessi. Coinvolgimento senza responsabilità. Nessuna responsabilità per ciò che lui ha fatto e per ciò che gli succederà poi. Queste sono decisioni che spettano al giudice e alla giuria. Si è coinvolti senza esserlo veramente. È questo che l'affascina nel suo lavoro, signor Dalgliesh?»

Era una domanda che Dalgliesh non si sarebbe aspettato neppure da un amico, e Rickards non era un amico. «C'è qualcuno di noi che può rispondere a una domanda simile?» ribatté.

«Ricorda perché ho lasciato la polizia di Londra, signor Dalgliesh?»

«I due casi di corruzione? Sì, ricordo perché ha lasciato la polizia di Londra.»

«E lei è rimasto. Non le piaceva più di quanto piacesse a me. Non avrebbe mai toccato quelle bustarelle. Però è rimasto. Osservava tutto con distacco, vero? Le interessava.»

«È sempre interessante quando un uomo che credi di conoscere si comporta in maniera anomala rispetto al suo carattere» disse Dalgliesh.

E Rickards era fuggito da Londra. In cerca di cosa? Di un romantico sogno di pace agreste, di un'Inghilterra ormai finita, di un modo di essere poliziotto più umano e gentile, di un'onestà totale? Chissà se li aveva trovati.

 

LIBRO II

Da giovedì 22 settembre

a venerdì 23 settembre

 

11

 

Erano le sette e dieci e il bar del pub Duke of Clarence era già zeppo di fumo e palpitante di rumore, e la folla aumentava. A Christine Baldwin, quinta vittima del Fischiatore, restavano esattamente venti minuti di vita. Era seduta su un seggiolino a ridosso del muro e sorseggiava il secondo sherry della serata, centellinandolo al massimo perché sapeva che Colin era impaziente di ordinare un altro giro. Incontrò lo sguardo di Norman, sollevò il polso sinistro e indicò l'orologio. Erano già trascorsi dieci minuti dall'orario prefissato, e lui lo sapeva. Si erano accordati: solo un drink prima della cena insieme a Colin e Yvonne, il limite di tempo e di consumo di alcolici era stato stabilito fra lei e Norman prima di uscire di casa. Era un accordo tipico dei loro nove mesi di matrimonio, sostenuto non tanto da interessi compatibili quanto da una serie di concessioni negoziate. Quella sera era toccato a lei cedere, ma l'aver accettato di passare un'ora al Clarence insieme ai due amici non significava che fosse obbligata a trovare gradevole la loro compagnia.

Aveva detestato Colin fin dalla prima volta in cui si erano incontrati: era bastata un'occhiata perché il rapporto si fissasse su uno stereotipo di antagonismo tra la nuova fidanzata e il vecchio e discutibile compagno di scuola e di bevute. Colin era stato testimone alle loro nozze (per quella capitolazione era stato necessario un formidabile accordo prematrimoniale) e aveva assolto i suoi doveri con un tale miscuglio di inettitudine, volgarità e irriverenza da riuscire a rovinarle completamente il ricordo di quella grande giornata, cosa che Christine rammentava di continuo a Norman. Anche la scelta del pub era tipica di Colin: un locale volgare e di bassa lega. Ma almeno si poteva star certi di una cosa: non era un posto dove si corresse il rischio di incontrare qualcuno della centrale, o almeno qualcuno di importante. Christine detestava tutto del Clarence: la moquette ruvida, il velluto sintetico che rivestiva le pareti, i cesti d'edera costellati di fiori artificiali sopra il bancone, la sgargiante passatoia. Vent'anni prima era stato un intimo localino in stile vittoriano, frequentato quasi esclusivamente da clienti abituali, con un bel fuoco acceso nel camino e lucidi finimenti da cavallo appesi alle travi nere. L'oste, un individuo piuttosto cupo, si riteneva in dovere di tenere alla larga gli estranei e gli occasionali, e a questo scopo aveva fatto ricorso a un impressionante arsenale di silenzi, occhiate malevole, birre tiepide e sgarbi nel servizio. Ma negli anni '60 il vecchio pub era stato distrutto da un incendio, e quindi sostituito da un locale più amichevole e redditizio. Del vecchio edificio non restava nulla, e la lunga estensione del bar, insignita del titolo di Sala Banchetti, offriva alla clientela un luogo in cui organizzare feste e ricevimenti, mentre nelle serate normali vi si serviva un monotono menu di scampi o minestra, bistecca o pollo e macedonia con gelato. Bene, almeno Christine si era opposta con fermezza all'idea di cenare lì. Avevano calcolato il loro budget mensile fino all'ultima sterlina, e se Norman credeva che fosse disposta a mangiare simili porcherie a prezzi esorbitanti quando a casa, nel frigo, li aspettava un'ottima cenetta fredda e un bello spettacolo alla TV, ebbene si sbagliava. E potevano spendere i loro soldi in modo migliore che non per starsene lì a bere con Colin e la sua nuova sgualdrinella, una che, stando alle voci, aveva allargato le gambe a mezza Norwich. C'erano le rate della macchina e dei mobili del salotto, per non parlare del mutuo della casa. Christine cercò nuovamente di attirare l'attenzione di Norman, ma lui teneva gli occhi incollati su Yvonne: impresa che non si rivelava difficile. Colin si tese verso di lei, con un'espressione a metà beffarda e a metà invitante: era convinto che ogni donna dovesse cadere ai suoi piedi.

«Calmati, tesoro. Tuo marito si sta divertendo. Tocca a te offrire, Norm.»

Ignorandolo completamente, Christine si rivolse a Norman: «Dobbiamo proprio scappare. Eravamo d'accordo di andare alle sette».

«Oh, andiamo, Chrissie, lascialo respirare un po'. Ancora un giro.»

Senza degnarla di uno sguardo, Norman chiese: «Cosa prendi, Yvonne? Lo stesso? Sherry?».

«Passiamo a qualcosa di più forte» propose Colin. «Io opto per un Johnny Walker.»

Lo faceva apposta. Christine sapeva che il whisky non gli piaceva. «Sentite» disse, «ne ho abbastanza di questo posto. Il chiasso mi fa venire il mal di testa.»

«Il mal di testa? È sposata da nove mesi e ha già cominciato a farsi venire il mal di testa? Dammi retta, Norm, stasera è inutile correre a casa troppo presto.»

Yvonne ridacchiò.

Rossa in viso, Christine sbottò di nuovo: «Sei sempre stato un tipo volgare, Colin Lomas, e non riesci neppure a divertirmi. Voi tre fate pure quello che volete. Io vado a casa. Dammi le chiavi della macchina».

Colin si appoggiò allo schienale e sorrise. «Hai sentito cos'ha detto la tua signora? Vuole le chiavi della macchina.»

Senza dire una parola, ma con aria estremamente imbarazzata, Norman estrasse le chiavi dalla tasca e le mise sul tavolo. Christine le prese, si alzò, passò accanto a Yvonne e corse alla porta. Era sul punto di mettersi a piangere dalla rabbia. Impiegò un minuto per aprire la portiera. Poi sedette tremando al volante e attese che le mani tornassero salde e tranquille. Accese il motore. Le sembrava di sentire ciò che sua madre le aveva detto il giorno in cui aveva ufficialmente annunciato il fidanzamento: «Be', hai trentadue anni, e se questo è l'uomo che desideri, immagino tu sappia cosa stai facendo. Ma non te ne verrà nulla di buono: è un pappamolla, dammi retta». Christine aveva creduto il contrario, e quella casetta alla periferia di Norwich rappresentava nove mesi di duro lavoro dall'esito felice. L'anno successivo Norman avrebbe ottenuto una promozione all'ufficio assicurativo, lei avrebbe potuto lasciare il posto di segretaria nel dipartimento di fisica medica della centrale di Larksoken e avrebbe messo al mondo il primo dei due figli che intendeva avere. Allora, avrebbe avuto trentaquattro anni. Tutti sapevano che dopo una certa età restare incinta è rischioso.

Dopo il matrimonio aveva dato gli esami di guida e quella era la prima volta che andava in macchina da sola, di notte. Procedeva adagio e con prudenza, scrutando davanti a sé con occhi ansiosi. Per fortuna il percorso le era familiare. Si chiese cosa avrebbe fatto Norman quando avesse visto che la macchina non c'era più. Quasi sicuramente prevedeva di trovarla seduta ad aspettarlo, seccata ma niente di più. Invece avrebbe dovuto farsi dare un passaggio da Colin, che certo non avrebbe gioito all'idea di fare quella lunga deviazione. E se pensavano che avrebbe invitato Colin e Yvonne a entrare per un drink, si sbagliavano di grosso. Il pensiero del disappunto che Norman avrebbe provato nel vedere che se n'era andata la consolò un poco. Premette l'acceleratore, desiderosa di allontanarsi il più possibile da quei tre e di arrivare a casa, al sicuro. Ma all'improvviso il motore tossì e si spense. Doveva essere piuttosto distratta, perché si ritrovò ferma in mezzo alla strada con la macchina di traverso. Era un brutto punto per rimanere bloccati, un tratto solitario di una strada di campagna fiancheggiata dagli alberi. Soltanto allora le venne in mente: Norman aveva detto che dovevano fare il pieno e che dopo aver lasciato il Clarence avrebbero dovuto fermarsi al self service più vicino. Era ridicolo essere rimasti quasi a secco, ma soltanto tre giorni prima avevano discusso per stabilire a chi toccava andare a fare rifornimento e pagare. Collera e frustrazione tornarono ad assalirla. Per un attimo restò seduta a battere i pugni sul volante e a girare disperatamente la chiave nella speranza che il motore si riaccendesse. Ma era tutto inutile. Poi l'irritazione cominciò a cedere il passo ai primi fremiti di paura. La strada era deserta e anche se fosse passato un automobilista e si fosse fermato, come avrebbe potuto essere sicura che non si trattasse di uno stupratore o addirittura del mostro? Proprio quell'anno era avvenuto l'orribile delitto della A3. Ormai non ci si poteva più fidare di nessuno. E non poteva nemmeno piantare la macchina dov'era, in mezzo alla strada. Cercò di ricordare quando aveva superato l'ultima casa, o l'ultima cabina del telefono, ma le sembrava di aver guidato in aperta campagna per almeno dieci minuti. Anche se avesse abbandonato il precario riparo offertole dalla vettura, non sapeva in quale direzione puntare per cercare aiuto. La assalì un'ondata di panico, forte come la nausea, e dovette resistere alla tentazione di precipitarsi fuori dalla macchina per nascondersi fra gli alberi. Ma a cosa sarebbe servito? Lui poteva essere in agguato da qualunque parte.

All'improvviso, un miracolo: udì un rumore di passi, si voltò e scorse una donna che si avvicinava. Indossava un paio di calzoni, un impermeabile, e aveva i capelli biondi sotto un berretto aderente. Al suo fianco trotterellava al guinzaglio un cagnolino a pelo liscio. Immediatamente, le ansie di Christine svanirono. La donna avrebbe potuto aiutarla a spingere la macchina sul bordo della strada, le avrebbe saputo indicare in che direzione sorgeva la casa più vicina e forse l'avrebbe accompagnata. Senza neppure preoccuparsi di chiudere la portiera, scese in strada e chiamò allegramente la signora con il cane, correndo sorridente incontro all'orrore della fine.

 

12

 

La cena era stata eccellente e il vino, uno Château Potensac del '78, una scelta interessante con cui accompagnare la portata principale. Sebbene Dalgliesh conoscesse la reputazione di Alice Mair come esperta di cucina, non aveva mai letto i suoi libri e non sapeva neppure a quale scuola gastronomica appartenesse. Aveva temuto di vedersi offrire la solita creazione artistica affogata in un mare di salsa e accompagnata da un contorno di mange tout e carote poco cotte. Ma le anatre selvatiche tagliate da Alex Mair erano senza dubbio anatre, e la salsa piccante, una novità per lui, esaltava il sapore dei volatili senza dominarlo, mentre le rape con prezzemolo e panna costituivano una piacevole aggiunta ai pisellini freschi. Poi avevano mangiato un sorbetto all'arancia seguito da formaggi e frutta. Era un menu convenzionale ma studiato per soddisfare gli invitati, anziché per mostrare l'ingegnosità della cuoca.

Il quarto ospite, Miles Lessingham, inspiegabilmente non si era presentato; ma Alice non aveva modificato la disposizione della tavola e la sedia e il bicchiere vuoti ricordavano in modo un po' inquietante lo spettro di Banquo. Dalgliesh sedeva di fronte a Hilary Robarts. Il ritratto, pensava, doveva essere stato ancora più potente di quanto avesse immaginato, se riusciva a condizionare fino a quel punto la sua reazione fisica alla donna in carne e ossa. Era la prima volta che si incontravano, anche se Dalgliesh conosceva da tempo la sua esistenza, come conosceva l'esistenza del gruppo di persone che vivevano, come dicevano gli abitanti di Lydsett, "di là dal cancello". Era un po' strano che non si fossero mai conosciuti prima. La Golf rossa di Hilary Robarts si vedeva spesso sul promontorio e, dall'alto del mulino della zia, il suo cottage aveva spesso attratto lo sguardo di Dalgliesh. Adesso che le sedeva di fronte, gli era difficile staccarle gli occhi di dosso, e la persona reale e l'immagine del quadro parevano fondersi in una presenza unica e inquietante. Aveva un bel viso, da modella, forse, con gli zigomi alti, il naso lungo, le labbra grandi e carnose e gli occhi scuri e guizzanti incassati sotto le energiche sopracciglia. I capelli trattenuti da due pettinini le ricadevano sulle spalle. Dalgliesh la immaginava con la bocca umida e aperta, le anche sporgenti, mentre fissava l'obiettivo del fotografo con la classica aria risentita e arrogante delle riviste di moda. Mentre Hilary Robarts si tendeva per staccare un altro chicco d'uva dal grappolo e gettarselo in bocca, Dalgliesh scorse le lentiggini sulla sua fronte scura e il velo di peluria che le decorava il labbro superiore.

Dirimpetto alla padrona di casa sedeva Meg Dennison, che sbucciava i chicchi d'uva delicatamente e senza enfasi, con le unghie laccate di rosso. La bellezza passionale di Hilary Robarts sottolineava per contrasto il suo aspetto grazioso, all'antica, ben curato, un volto che a Dalgliesh ricordava le donne degli anni '30. L'abbigliamento era altrettanto contrastante: Hilary indossava uno chemisier di cotone indiano multicolore, con i primi tre bottoni slacciati; Meg Dennison aveva una lunga gonna nera e una camicetta di seta azzurra, con un fiocco al collo. Ma la più elegante restava la padrona di casa. Il lungo abito di lana marrone, indossato con una pesante collana di argento e ambra, nascondeva le angolosità facendo risaltare la forza e la regolarità dei suoi lineamenti. Accanto a lei, la grazia di Meg Dennison pareva quasi insipida e l'abito vistoso di Hilary Robarts appariva decisamente sfacciato.

La stanza in cui stavano cenando doveva aver fatto parte del cottage originario. A quelle travi annerite dal fumo, Agnes Poley aveva appeso il bacon e i mazzi d'erbe secche. In un paiolo sopra il grande focolare aveva cucinato i pasti della famiglia e forse, alla fine, in mezzo al rombo delle fiamme, aveva udito crepitare le fascine del suo martirio. Davanti alla finestra erano sfilati gli elmi del corteo. Del passato il cottage conservava un ricordo solamente nel nome. Il tavolo da pranzo e le sedie erano moderni, come il servizio di Wedgwood e gli eleganti bicchieri. In salotto, dove avevano bevuto lo sherry, Dalgliesh aveva avuto la sensazione di stare in una stanza che rifiutava deliberatamente ogni richiamo al tempo passato, un luogo che non conteneva nulla in grado di violare la privacy dei proprietari. Nessun accenno alla storia della famiglia, nessuna foto né ritratto, nessuna scialba eredità esibita per nostalgia, sentimentalismo o pietà familiare, né oggetti d'antiquariato collezionati nel corso degli anni. Anche i pochi quadri (tre di John Piper) erano moderni. I mobili lussuosi e comodi, troppo semplici per apparire in qualche modo fuori posto. Ma il cuore del cottage non era lì: era nella grande cucina, accogliente, calda e profumata.

Dalgliesh aveva ascoltato distrattamente la conversazione, e ora si impose di comportarsi da invitato più accomodante. Erano chiacchiere generiche, con le candele che illuminavano i visi dei protagonisti tesi verso la tavola, e le mani che sbucciavano la frutta o stringevano i bicchieri singolari quanto i volti. Le mani forti ed eleganti e le unghie corte di Alice Mair, le dita lunghe e nodose di Hilary Robarts, quelle delicate di Meg Dennison, con i polpastrelli lievemente arrossati dai lavori domestici. Alex Mair stava dicendo: «D'accordo, prendiamo un dilemma tipicamente moderno. Sappiamo che possiamo usare i tessuti umani dei feti abortiti per curare il morbo di Parkinson e probabilmente anche quello di Alzheimer. Forse lo trovereste eticamente accettabile se l'aborto fosse spontaneo o legale, ma non se fosse indotto allo scopo precipuo di fornire tali tessuti. Tuttavia, si può sostenere che una donna ha il diritto di usare ciò che il suo corpo produce. Se fosse particolarmente affezionata a qualcuno colpito dal morbo di Alzheimer e volesse aiutarlo producendo un feto, chi avrebbe il diritto di opporsi? Un feto non è un bambino».

«Naturalmente, stai dando per scontato che il malato da aiutare sia un maschio» osservò Hilary Robarts. «Penso che si sentirebbe in diritto di usare il corpo di una donna per questo scopo come farebbe per qualsiasi altro. Ma non capisco perché diavolo dovrebbe farlo. Non posso immaginare che una donna che abbia avuto un aborto sia disposta a ripetere la stessa esperienza per il comodo di un uomo.»

Pronunciò quelle parole con estrema amarezza. Per un attimo calò il silenzio, poi Mair disse con calma: «Il morbo di Alzheimer è qualcosa di più di un incomodo. E la mia non è una proposta concreta. In ogni caso, secondo la legge vigente si tratterebbe di un'azione illegale».

«E questo ti preoccuperebbe?»

Mair la guardò negli occhi. «Certo. Per fortuna è una decisione che non dovrò mai prendere. Ma non stiamo parlando di legalità, ricordi? Stiamo parlando di etica morale.»

«Fa qualche differenza?» intervenne Alice Mair.

«Il problema è proprio questo, no? Lei cosa ne pensa, Adam?»

Era la prima volta che Alex Mair lo chiamava per nome. «Lei presume che esista una morale assoluta, indipendente dal tempo e dalle circostanze» rispose Dalgliesh.

«Per lei non è così?»

«Sì, credo di sì, ma non sono uno specialista in materia.»

La signora Dennison alzò gli occhi dal piatto, arrossì lievemente e disse: «Io considero sempre con un certo sospetto la scusa che un peccato può essere giustificabile se viene compiuto a beneficio di qualcuno che amiamo. Possiamo anche pensare che sia così, ma di solito serve soltanto a noi stessi. Il pensiero di dover assistere qualcuno affetto dal morbo di Alzheimer potrebbe farmi star male, e allora mi chiedo se quando difendiamo l'eutanasia non lo facciamo in realtà per porre fine alle nostre sofferenze, piuttosto che a quelle del malato? Concepire deliberatamente un figlio per ucciderlo allo scopo di usarne i tessuti... è un'idea assolutamente ripugnante».

«Potrei ribattere che quello che uccide non è un bambino e che la ripugnanza per un atto non prova che questo sia immorale» osservò Alex Mair.

«Ma siamo sicuri che non lo sia?» intervenne nuovamente Dalgliesh. «La naturale ripugnanza manifestata dalla signora Dennison non ci dice forse qualcosa a proposito della moralità dell'atto?»

Meg Dennison gli rivolse un breve sorriso di gratitudine e riprese: «E quest'uso di un feto non è poi particolarmente pericoloso? Potrebbe indurre i più poveri a concepire e vendere i feti nell'interesse dei ricchi. Mi pare esista già un mercato nero degli organi di trapianto: pensate che un multimilionario bisognoso di un trapianto di cuore e polmoni sia forse costretto a rinunciarvi per qualche motivo?».

Alex Mair sorrise a sua volta. «Purché lei non stia sostenendo che dobbiamo sopprimere di proposito la conoscenza e contrastare il progresso scientifico solo in quanto è possibile abusare delle nuove scoperte. Se vi sono abusi, allora occorrono leggi che li vietino.»

«A sentir lei sembra tutto così facile! Se fosse sufficiente creare leggi contro i mali sociali, il signor Dalgliesh, tanto per fare un esempio, dovrebbe essere disoccupato» protestò Meg.

«Non è facile, ma bisogna tentare. È ciò che significa essere umani, sicuramente: usare la nostra intelligenza per discriminare nelle scelte.»

Alice Mair si alzò. «Bene, è ora di operare una scelta su un piano molto più materiale, direi: chi vuole il caffè? E come lo vuole? In cortile ci sono un tavolo e sedie per tutti. Pensavo che potremmo accendere le luci e prenderlo all'aperto.»

Passarono in salotto e Alice aprì la porta-finestra che dava sul patio. Subito il rombo del mare penetrò nella stanza come una forza vibrante e irresistibile. Ma quando uscirono all'aria fresca, il rumore parve paradossalmente diminuire, e il mare divenne un ruggito lontano. Il patio era chiuso, dalla parte della strada, da un alto muro di pietra che, a sud e a est, si incurvava e si abbassava fino a poco più di un metro di altezza per consentire una vista panoramica del promontorio in direzione del mare.

Pochi minuti dopo, Alex Mair uscì reggendo il vassoio del caffè. Tutti presero a girovagare con la tazza in mano fra i grandi vasi di terracotta; sembravano estranei desiderosi di sottrarsi al giro di presentazioni, o attori sul palcoscenico impegnati a ricordare le battute del copione, in attesa dell'inizio delle prove.

Erano senza giacca, ma il tepore della notte era solo un'illusione. Quasi di comune accordo, si mossero per tornare nel cottage, ma proprio in quel momento sulla strada, da sud, spuntarono i fari di una macchina che si avvicinava a grande velocità.

«È la Porsche di Lessingham» disse Mair.

Nessuno parlava. Rimasero in silenzio mentre la macchina frenava con violenza davanti alla casa e quindi, come in un rito preordinato, si raggrupparono in semicerchio alle spalle di Alex Mair. Aveva tutta l'aria di un'accoglienza ufficiale, ma un'accoglienza timorosa di qualche brutto guaio. Dalgliesh si accorse subito della tensione crescente: lievi vibrazioni di ansia che riempivano l'aria profumata di salmastro concentrandosi in direzione della portiera della macchina e sull'alta figura che si districava dalla cintura di sicurezza, scavalcava agilmente il muro di pietra e si apprestava a raggiungerli. Lessingham ignorò Mair e si diresse verso Alice. Le prese la mano e gliela baciò, un gesto teatrale che, almeno così parve a Dalgliesh, la colse di sorpresa e che gli altri osservarono con un'innaturale attenzione critica.

«Chiedo scusa, Alice» disse Lessingham, «so di essere in ritardo per la cena, ma spero di avere ancora l'onore di bere un drink insieme a voi. E per Dio, ne ho proprio bisogno.»

«Dove sei stato? Ti abbiamo aspettato per quaranta minuti prima di metterci a tavola.» Hilary Robarts gli rivolse quella prevedibile domanda in un altrettanto prevedibile tono accusatore da moglie stizzita.

Lessingham non staccò gli occhi da Alice. «Negli ultimi venti minuti mi sono chiesto più volte come rispondere a questa domanda. Ci sono molte possibilità interessanti. Potrei dire che ho aiutato la polizia nelle indagini. O che sono rimasto coinvolto in un omicidio. O che c'è stato un piccolo inconveniente lungo la strada. In realtà, tutte e tre le cose sono vere. Il Fischiatore ha ucciso di nuovo. Ho trovato io il cadavere.»

«L'hai trovato... come? E dove?» chiese bruscamente Hilary Robarts.

Lessingham la ignorò anche questa volta, e disse ad Alice Mair: «Potrei avere quel drink? Poi vi darò tutti i particolari della vicenda. È il meno che possa fare, dopo avervi costretti ad aspettare quaranta minuti».

Mentre tornavano in salotto, Alex Mair presentò Dalgliesh. Lessingham gli lanciò un'attenta occhiata e gli strinse la mano. Il palmo che per un attimo toccò quello di Dalgliesh era umido e freddo.

«Perché non hai telefonato?» chiese Alex. «Ti avremmo tenuto da parte qualcosa.»

La domanda era piuttosto fuori luogo, ma Lessingham rispose: «Sai, me ne sono completamente dimenticato. Anzi, in realtà non ci ho pensato prima che la polizia finisse di interrogarmi, e dopo non mi è sembrato opportuno. Sono stati molto gentili, ma avevano l'impressione che i miei impegni personali non fossero particolarmente importanti. Tra parentesi devo dire che la polizia non pare mai eccessivamente riconoscente a chi gli ritrova un cadavere. Il loro atteggiamento è una cosa tipo "Mille grazie, signore, senza dubbio molto spiacevole, ma ora penseremo noi al da farsi. Vada a casa e cerchi di non pensarci più". Ma ho l'impressione che non sarà molto facile».

Alex Mair aggiunse un paio di ceppi nel camino e andò a prendere da bere. Lessingham aveva rifiutato il whisky a favore di un bicchiere di vino. A Dalgliesh sembrava che dal momento dell'arrivo il suo atteggiamento fosse leggermente cambiato, quasi si fosse caricato di un potere misterioso ma in qualche modo familiare. E pensò: ha acquisito l'aria del narratore. Mentre osservava il cerchio di volti attenti, illuminati dal fuoco, gli venne in mente la sua prima scuola del villaggio, i bambini raccolti intorno alla signorina Douglas alle tre di un venerdì pomeriggio, per la mezz'ora dedicata alle favole. E provò una fitta di nostalgia per quei giorni perduti di innocenza e di amore. Era sorprendente quanto nitido fosse riaffiorato il ricordo, e che fosse tornato proprio in quel momento. Ma stavolta la storia era diversa... e non era adatta alle orecchie dei bambini.

Lessingham disse: «Avevo un appuntamento con il mio dentista alle cinque, a Norwich. Poi sono andato a trovare un amico nel Close. Quindi ho ripreso la macchina per venire qui, senza passare da casa. Avevo appena lasciato la B 1150 a Fairstead, quando per poco non sono andato a sbattere contro una macchina a fari spenti, piazzata di traverso sulla strada. Ho pensato che era una follia parcheggiare proprio lì, mettiamo che il guidatore fosse sceso a far pipì fra i cespugli... Poi ho pensato che poteva trattarsi di un incidente. La portiera di destra era aperta, cosa che mi è sembrata un po' strana. Mi sono fermato e sono sceso a dare un'occhiata. Nessuno. Non so perché sono andato a guardare fra gli alberi, una specie d'istinto, credo. Era troppo buio per vedere qualcosa, e non sapevo se era il caso di chiamare. Poi mi sono detto che stavo comportandomi come uno stupido, e ho deciso di andarmene. È stato allora che sono quasi inciampato nella donna».

Bevve un altro sorso di vino. «Continuavo a non vedere niente, ma mi sono inginocchiato e sono andato a tastoni. Ho toccato qualcosa... la coscia, credo, ma non ne sono sicuro. Comunque la carne umana, anche morta, è inconfondibile. Sono tornato alla macchina e ho preso la torcia elettrica. Ho puntato la luce sui piedi, e poi su, fino alla faccia. Allora ho capito che era stato il Fischiatore.»

«Dev'essere stato terribile» commentò gentilmente Meg Dennison.

Lessingham capì dal suo tono di voce che Meg Dennison non provava morbosità, ma autentica simpatia: era come se avesse capito che lui aveva bisogno di parlare. La guardò per un momento, come se la vedesse per la prima volta, quindi fece una pausa e rifletté su quella sua domanda retorica.

«Più sconvolgente, che terribile. Ora che ci penso, sono stato investito da un miscuglio di emozioni complicate, da un senso di orrore, incredulità e... sì, vergogna. Mi sentivo un voyeur. I morti, dopotutto, sono così svantaggiati... Sembrava grottesca, un tantino ridicola, addirittura, con quei ciuffi di peli che le spuntavano dalla bocca come se li stesse masticando. Era orribile, certo, ma anche sciocco: provavo l'impulso irresistibile di mettermi a ridere. Lo so, è sata una reazione allo shock, ma non certo ammirevole. E tutta la scena era così... ecco, direi scontata. Se mi aveste chiesto di descrivere una vittima del Fischiatore, è esattamente così che l'avrei vista. E ci si aspetta sempre che la realtà sia diversa dall'immaginazione.»

«Forse perché di solito l'immaginazione travalica ogni limite» disse Alice Mair.

Meg Dennison insisté invece con la sua usuale gentilezza: «Doveva essere terrorizzato. Io lo sarei stata, sola, al buio, con davanti quell'orrore...»

Lessingham si tese verso di lei e parlò quasi che la comprensione di Meg fosse improvvisamente diventata la cosa più importante per lui. «No, non ero terrorizzato, e questa è stata la cosa più sorprendente. Mi sono spaventato, certo, ma solo per qualche secondo. Dopotutto, non pensavo che l'assassino fosse ancora lì intorno. Si era già divertito abbastanza, e gli uomini non gli interessano. Mi sono sorpreso a pensare cose normali, comuni: non devo toccare niente, non devo distruggere le prove, devo chiamare la polizia. Poi, mentre tornavo alla macchina, ho cominciato a pensare a quello che avrei raccontato, come se preparassi una mia versione dei fatti. Cercavo di spiegare perché mi ero addentrato nei cespugli, ci tenevo che le mie mosse sembrassero tutte ragionevoli.»

«Cosa c'era da giustificare?» intervenne Alex Mair. «Hai fatto quello che hai fatto. A me pare piuttosto sensato. La macchina di traverso sulla strada era pericolosa. Sarebbe stato da irresponsabili continuare come se niente fosse.»

«Mi sembravano necessarie un mucchio di spiegazioni. Forse è per via del fatto che tutte le frasi dei poliziotti cominciano con un perché, ma alla fine ti ritrovi morbosamente sensibile nei confronti delle tue stesse motivazioni. È come se dovessi convincere te stesso che non sei il colpevole.»

Hilary Robarts chiese, impaziente: «Ma il corpo... quando sei tornato a prendere la torcia e l'hai vista... eri proprio sicuro che fosse morta?».

«Oh, sì, certo.»

«Ma come potevi saperlo? Poteva anche essere successo da pochissimo. Perché non hai tentato di rianimarla, di farle la respirazione bocca a bocca? Forse sarebbe valsa la pena di superare la tua naturale ripugnanza.»

Dalgliesh udì Meg Dennison lasciarsi sfuggire un suono soffocato, una via di mezzo fra un ansito e un gemito. Lessingham fissò Hilary Robarts e rispose freddamente: «L'avrei fatto, se avesse avuto un senso. Sapevo che era morta, ecco tutto. Ma non preoccuparti, se mai troverò te in extremis mi sforzerò di superare la mia naturale ripugnanza, te lo assicuro».

Hilary si rilassò e sfoggiò un sorrisino soddisfatto, come se fosse contenta di averlo punto sul vivo e di averlo costretto a quella risposta. Con voce più sciolta, disse: «Mi sorprende che non ti abbiano trattato come un sospetto. Dopotutto, sei stato il primo a comparire sulla scena del delitto, ed è la seconda volta che assisti a una morte, o quasi. Sta diventando un'abitudine, a quanto pare».

Pronunciò le ultime parole quasi sottovoce, ma gli occhi erano fissi sul viso di Lessingham. Lui sostenne lo sguardo e con la stessa calma rispose: «Ma c'è una differenza, no? Ho dovuto veder morire Toby, ricordi? E questa volta nessuno cercherà di fingere che non sia stato un omicidio».

Il fuoco scoppiettò all'improvviso e un ceppo rotolò fra le braci. Mair lo assestò rabbiosamente, il volto arrossato.

Perfettamente calma, Hilary Robarts si rivolse invece a Dalgliesh. «Ma ho ragione io, no? Di solito la polizia non sospetta della persona che trova il cadavere?»

«Non sempre.»

Lessingham aveva posato sulla mensola del camino la bottiglia di Borgogna, e ora si riempì di nuovo il bicchiere. «Avrebbero potuto sospettare di me, credo, se non ci fossero state diverse circostanze a deporre in mio favore. Ho un alibi per almeno due degli omicidi precedenti; non ero macchiato di sangue e si sono accorti, immagino, che mi trovavo in leggero stato di shock. Inoltre, non c'era traccia del cappio che ha strangolato la donna, né del coltello.»

«Quale coltello?» chiese subito Hilary. «Il Fischiatore strangola le sue vittime, lo sanno tutti.»

«Oh, non l'ho detto, vero? La donna era stata strangolata... almeno credo. Non ho tenuto la torcia puntata sulla sua faccia più a lungo del necessario. Ma il Fischiatore marchia le sue vittime, oltre a riempirgli la bocca di peli. I peli del pube, fra parentesi. L'ho visto io. E c'era la lettera L incisa sulla fronte. Inconfondibile. Un agente che ha parlato con me più tardi mi ha spiegato che è uno dei segni di riconoscimento del Fischiatore. Secondo lui, la L può stare per Larksoken, e forse il Fischiatore vuole protestare in questo modo contro l'energia nucleare.»

«Questo non ha senso» ribatté bruscamente Alex Mair. Poi, con più calma: «La televisione e i giornali non hanno mai parlato di segni incisi sulla fronte delle vittime».

«La polizia lo tiene segreto, o almeno ci prova. È il classico tipo di dettaglio che può servire a riconoscere le false confessioni. Ce n'è già stata una mezza dozzina, a quanto sembra. E i media non hanno parlato neppure dei peli, ma questo sgradevole particolare sembra ormai noto a tutti. In fondo, io non sono poi l'unico ad aver trovato un cadavere. La gente parla.»

«A quanto ne so io, non è stato scritto o detto che si tratta di pelo pubico» precisò Hilary Robarts.

«Infatti, la polizia lo tiene nascosto, e non è proprio il tipo di dettaglio che si può pubblicare su un giornale o una rivista per famiglie. Comunque non è sorprendente. Pur non essendo uno stupratore, è inevitabile che ci sia una componente di natura sessuale in quello che fa.»

Era uno dei dettagli che Rickards aveva rivelato a Dalgliesh la sera prima, ma Lessingham avrebbe fatto meglio a tenerlo per sé, soprattutto a una cena. Dopo questo pensiero, Dalgliesh rimase un po' sorpreso dalla propria sensibilità, forse addirittura eccessiva: probabilmente era stata l'occhiata al viso sconvolto di Meg Dennison. Poi captò un rumore sommesso; si girò in direzione della porta spalancata della sala da pranzo e scorse l'esile figura di Theresa Blaney, ritta nell'ombra. Si chiese quanto avesse sentito del racconto di Lessingham, e decise che, per quanto poco, sarebbe stato comunque troppo. Quasi senza accorgersi della severità del proprio tono, disse: «L'ispettore capo Rickards non le ha forse raccomandato di non rivelare queste informazioni?».

Calò un silenzio imbarazzato. Dalgliesh pensò: per un momento devono aver dimenticato che sono un poliziotto.

Poi Lessingham si girò verso di lui. «È quel che intendo fare. Rickards non vuole che diventino di dominio pubblico e non lo diventeranno. Nessuno dei presenti le diffonderà.»

Ma la domanda, che aveva rammentato a tutti chi era e cosa rappresentava, fece scendere una sorta di gelo nella stanza, trasformando in un imbarazzato disagio l'interesse affascinato e inorridito. E quando, un minuto dopo, si alzò per accomiatarsi e ringraziare la padrona di casa, Dalgliesh notò propagarsi un senso di sollievo quasi palpabile. Sapeva che l'imbarazzo non aveva nulla a che fare con il timore di eventuali domande o critiche, con la paura che un poliziotto potesse muoversi tra loro come una spia. Non si occupava di quel caso, e dovevano sapere che non era un tipo allegro ed estroverso, lusingato di trovarsi al centro dell'attenzione mentre lo bombardavano di domande sui metodi dell'ispettore capo Rickards, sulle speranze di catturare il Fischiatore, sulle sue personali teorie in merito agli assassini psicopatici, sulla sua esperienza nel campo degli omicidi a catena. Nelle loro menti era impressa l'immagine di quel volto di donna, la bocca semiaperta e riempita di peli, gli occhi ciechi e sbarrati, e la presenza di Dalgliesh non faceva altro che rendere più nitido e intenso il quadro. L'orrore e la morte erano di sua competenza, e, come un becchino, egli portava con sé il contagio della propria professione.

Era già sulla porta quando, d'impulso, si voltò e disse a Meg Dennison: «Mi pare abbia detto di essere venuta a piedi dalla Vecchia Canonica, signora Dennison. Posso accompagnarla a casa, se per lei non è troppo presto?».

Alex Mair cominciò a dire che naturalmente avrebbe potuto accompagnarla lui, ma Meg si alzò dalla sedia con un movimento impacciato e disse, un po' troppo precipitosamente: «Le sarei davvero grata. Farò volentieri due passi, e così Alex non dovrà tirar fuori l'auto».

«È ora che anche Theresa torni a casa» intervenne Alice Mair. «Avremmo dovuto accompagnarla già un'ora fa. Telefonerò a suo padre. A proposito, dov'è finita?»

«Mi pare che un minuto fa stesse ancora sparecchiando la tavola» disse Meg.

«Bene, ora la cercherò, e Alex potrà riportarla a casa.»

La serata era giunta al termine. Hilary Robarts se ne stava abbandonata sulla poltrona, gli occhi fissi su Lessingham. Ora si alzò e disse: «Torno al mio cottage. Non è necessario che qualcuno mi accompagni. Come ha già detto Miles, per questa notte il Fischiatore ha ormai avuto la sua dose di divertimento».

«Preferirei che aspettassi» ribatté Alex. «Ti porterò io, dopo aver accompagnato Theresa.»

Hilary si strinse nelle spalle e, senza guardarlo, disse: «D'accordo, se proprio insisti, aspetterò».

Andò alla finestra e guardò fuori, nel buio. Soltanto Lessingham era rimasto seduto, e si stava riempiendo il bicchiere. Dalgliesh notò che Alex Mair aveva messo un'altra bottiglia stappata sulla mensola del camino. Si chiese se Alice avrebbe invitato Lessingham a passare la notte al Martyr's Cottage, o se lei o il fratello l'avrebbero accompagnato a casa più tardi: non era certo in condizione di guidare.

Dalgliesh stava aiutando Meg Dennison a infilarsi la giacca, quando il telefono squillò rompendo con un suono innaturale e stridulo il silenzio della stanza. Si sentì percorrere da uno strano brivido di paura, e per un momento strinse le mani sulle spalle di Meg. Poi udirono la voce di Alex Mair.

«Sì, l'abbiamo saputo. Il signor Miles Lessingham è qui e ci ha dato i dettagli. Sì, capisco. Sì. Grazie per avermelo comunicato.» Un silenzio più lungo, poi di nuovo la voce di Mair. «Completamente fortuito, direi. No? Dopotutto, abbiamo cinquecentotrenta dipendenti. Ma naturalmente a Larksoken tutti troveranno sconvolgente la notizia, soprattutto le donne. Sì, domani sarò in ufficio, se posso esserle d'aiuto. La famiglia è già stata informata, immagino? Sì, capisco. Buonanotte, ispettore capo.»

Alex Mair posò il ricevitore. «Era Rickards. Hanno identificato la vittima: Christine Baldwin. È... era una dattilografa della centrale. Non l'hai riconosciuta, Miles?»

Lessingham tornò a riempirsi il bicchiere, lentamente, poi disse: «La polizia non mi ha rivelato il nome, e anche se l'avesse fatto non l'avrei ricordato. No, Alex, non l'ho riconosciuta. Immagino di aver visto Christine Baldwin, a Larksoken, ma quella che ho visto stasera non era lei. E ti assicuro che non l'ho inquadrata con la torcia più di quanto fosse necessario per capire che non restava nulla da fare».

Hilary si staccò dalla finestra. «Christine Baldwin» ripeté. «Trentatré anni, era con noi da undici mesi. Si è sposata l'anno scorso ed era appena stata trasferita al dipartimento di fisica medica. Se vi interessa, posso dirvi anche a che velocità stenografava e batteva a macchina.» Poi si voltò a guardare in faccia Alex Mair. «Sembra che il Fischiatore si stia avvicinando, eh? In tutti i sensi.»

 

13

 

Scambiati gli ultimi saluti, uscirono dall'odore di legno combusto, vino e pietanze, da una stanza che Dalgliesh cominciava a trovare spiacevolmente calda, e passarono nell'aria fresca e profumata di mare. Occorse qualche minuto perché i suoi occhi si abituassero alla semioscurità e la grande distesa del promontorio diventasse visibile, con le forme misteriosamente alterate sotto le stelle lontane. A nord, la centrale era una galassia splendente di luci bianche: la sua sagoma netta e geometrica sembrava assorbita dallo sfondo nerazzurro del cielo.

Si fermarono a osservarla per un momento, poi Meg Dennison disse: «Quando venni qui da Londra per la prima volta mi fece un po' paura per le sue dimensioni e il modo in cui domina il paesaggio. Ma mi sto abituando. È ancora inquietante, certo, ma ha una sua grandiosità. Alex cerca di demistificarla, dice che ha l'unica funzione di produrre energia elettrica per la rete nazionale in modo efficiente e pulito, e che la differenza fondamentale tra questa e tutte le altre centrali elettriche è che non ha accanto un'enorme e inquinante piramide di polvere di carbone. Ma per la mia generazione, l'energia nucleare significa ancora quella nube a forma di fungo. E adesso significa anche Chernobil. Ma se qui ci fosse un antico castello, a profilarsi contro il cielo, se ciò che vedremo domattina fossero torri e merli, probabilmente adesso noi diremmo che è magnifico».

«Se ci fossero merli e torri la sagoma sarebbe diversa. Perciò capisco cosa vuol dire. Preferirei il promontorio senza la centrale, ma ho l'impressione che stia cominciando ad assumere l'aria di chi ha il diritto di starsene dove si trova» commentò Dalgliesh.

Si voltarono contemporaneamente, dopo aver contemplato le luci scintillanti, e guardarono verso sud, in direzione del simbolo diroccato di una potenza molto diversa. Davanti a loro, sull'orlo del precipizio, sgretolata contro il cielo come un castello di sabbia reso amorfo dall'incalzare delle maree, si ergeva l'abbazia benedettina. Dalgliesh riusciva appena a distinguere il grande arco vuoto della finestra orientale e, più oltre, il luccichio del Mare del Nord, mentre in alto, come un incensiere, galleggiava il disco giallo e maculato della luna. Quasi involontariamente, lasciarono il sentiero e mossero qualche passo in quella direzione. «Vogliamo andare?» propose Dalgliesh. «Ha tempo? E le sue scarpe?»

«Sono abbastanza robuste. Sì, mi piacerebbe. È così bella, la notte. E non ho fretta. I Copley non sono rimasti alzati ad aspettarmi. Domani, quando dovrò dirgli che il Fischiatore si sta avvicinando, forse non mi andrà più di lasciarli soli dopo l'imbrunire. Può darsi che questa sia la mia ultima notte di libertà per qualche tempo.»

«Non penso corrano pericoli, purché la porta sia chiusa a chiave. Finora, tutte le vittime sono state donne giovani, e poi il Fischiatore uccide all'aperto.»

«È quel che continuo a ripetermi. E non credo che i Copley avrebbero molta paura. A volte, i vecchi sembrano aver superato quel genere di timore. I piccoli fastidi della vita quotidiana assumono un'enorme importanza, ma in compenso le grandi tragedie si sopportano meglio. La loro figlia, però, telefona di continuo e insiste perché vadano a stare con lei nel Wiltshire, fino a che non sarà stato preso il mostro. Loro non vogliono, ma è molto decisa e insistente, e se telefona di sera e non mi trova, la pressione sarà più forte.» Meg tacque per un momento, poi riprese: «È stata una conclusione orribile per una cena interessante e inconsueta. Sarebbe stato meglio se il signor Lessingham avesse tenuto per sé i dettagli, ma immagino che parlarne gli abbia fatto bene, soprattutto se vive solo».

«Sarebbe stato necessario un autocontrollo sovrumano per tacere. Ma vorrei anch'io che avesse omesso i dettagli più morbosi.»

«Anche per Alex sarà diverso, ora. Già adesso molte dipendenti chiedono di essere accompagnate a casa dopo i turni di notte. Alice mi ha detto che non sarà facile per lui organizzare tutto. Le donne accetteranno un accompagnatore solo se avrà un alibi inattaccabile per uno dei delitti del Fischiatore. La gente diventa irrazionale, in questi casi, anche se conosce una persona da anni.»

«È una conseguenza logica dei delitti di questo genere. Miles Lessingham ha accennato a un'altra morte: Toby. Era il giovane che si è ucciso nella centrale? Mi sembra di aver letto la notizia su un giornale.»

«È stata una tragedia spaventosa. Toby Gledhill era uno dei giovani scienziati più brillanti del team di Alex. Si ruppe il collo gettandosi sul reattore.»

«Quindi non ci furono misteri?» chiese Dalgliesh.

«Oh, assolutamente no, anche se nessuno capì mai perché l'avesse fatto. Il signor Lessingham era presente. Mi sorprende che lei se ne ricordi. La stampa nazionale ne ha parlato pochissimo. Alex aveva cercato di evitare la pubblicità per proteggere i genitori del morto.»

E la centrale, pensò Dalgliesh. Si chiese per quale motivo Lessingham avesse detto che la morte di Gledhill era stata un omicidio, ma non fece altre domande. L'affermazione era stata pronunciata a voce tanto bassa, che con ogni probabilità Meg Dennison non l'aveva neppure sentita. Chiese invece: «Si trova bene, sul promontorio?».

La domanda non sorprese la sua interlocutrice quanto Dalgliesh stesso, come del resto lo sorprendeva il fatto che stessero camminando così amichevolmente, l'uno di fianco all'altra. Era una compagnia riposante. Gli piaceva la tranquilla gentilezza di lei, la sua mancanza di aggressività, e poi aveva una voce simpatica, e per lui le voci contavano moltissimo. Ma sei mesi prima tutto questo non sarebbe bastato a indurlo a stare con lei più di quanto non imponesse la cortesia. L'avrebbe accompagnata alla Vecchia Canonica e poi, dopo aver portato a termine quel piccolo dovere sociale, si sarebbe avviato con sollievo verso l'abbazia, avvolgendosi nella solitudine come in un mantello. Quella solitudine gli era ancora indispensabile. Non poteva tollerare il trascorrere delle ventiquattr'ore se non ne passava la maggior parte da solo. Ma un misterioso cambiamento che si era operato in lui, l'avanzare inesorabile degli anni, il successo, il ritorno della poesia, forse l'inizio incerto dell'amore, sembravano renderlo socievole. Non sapeva ancora se abbandonarvisi e gioirne od opporvi resistenza.

Si accorse che Meg Dennison stava riflettendo sulla sua ultima domanda.

«Sì, credo di sì. A volte sono molto felice. Ero venuta qui spinta dal desiderio di sottrarmi ai problemi della mia vita a Londra e, senza rendermene conto, mi sono spinta il più possibile verso est.»

«E si è trovata a fronteggiare due pericoli diversi: la centrale e il Fischiatore.»

«Terrificanti tutti e due perché misteriosi, radicati nell'orrore dell'ignoto. Ma la minaccia non è personale, non è diretta specificamente contro di me. Comunque sono fuggita, e credo che tutti i fuggiaschi si portino dietro il peso di un rimorso. E poi mi mancano i bambini. Forse avrei dovuto restare e continuare a combattere. Ma stava diventando una guerra pubblica, e non sono adatta al ruolo di eroina popolare della stampa più reazionaria. Volevo solo essere lasciata in pace per poter svolgere il lavoro che conoscevo e amavo. Ma tutti i libri che usavo, tutte le parole che pronunciavo venivano analizzati con la lente d'ingrandimento. Non si può insegnare in un'atmosfera di sospetto rancoroso. Alla fine, mi sono accorta che non potevo più vivere in quel clima.»

Dava per scontato che Dalgliesh conoscesse la sua storia, come tutti coloro che avevano letto i giornali.

«È possibile combattere l'intolleranza, la stupidità e il fanatismo quando si affrontano uno alla volta» disse. «Ma quando sono alleati, con ogni probabilità è meglio andarsene, se non altro per non perdere la ragione.»

Si stavano avvicinando all'abbazia e l'erba diventava più fitta, a ciuffi. Meg Dennison incespicò e Dalgliesh le tese la mano per sostenerla. «Alla fine, tutto si ridusse a tre parole: sostenevano che il nero di China doveva essere chiamato semplicemente inchiostro di China» commentò amaramente Meg. «Io continuo a non credere che una persona di buon senso, quale che sia il colore della sua pelle, possa offendersi se l'inchiostro si chiama "nero di China". È di China ed è nero. La parola nero, in se stessa, non può in nessun modo suonare offensiva. L'ho chiamato così per tutta la vita: perché cercano di costringermi a cambiare il modo in cui parlo la mia lingua? Eppure, in questo momento, su questo promontorio e sotto questo cielo, in questa immensità, tutto sembra così meschino. Forse ho elevato una banalità al livello di un principio.»

«Agnes Poley avrebbe capito» disse Dalgliesh. «Mia zia aveva controllato alcuni antichi documenti e mi aveva parlato di lei. Era salita sul rogo, pare, per la sua ostinata fedeltà alla propria visione dell'universo. Non poteva accettare che il corpo di Cristo fosse presente nel sacramento e contemporaneamente sedesse in cielo alla destra del Padre. Diceva che era contrario a qualsiasi buon senso. Forse Alex Mair potrebbe sceglierla come patrona della centrale... una santa della razionalità.»

«Ma era diverso. Agnes Poley credeva che fosse in pericolo la sua anima immortale.»

«Chissà cosa credeva? Io penso fosse animata da una divina ostinazione. E lo trovo ammirevole.»

«Io invece credo che il signor Copley sosterrebbe che aveva torto, non per l'ostinazione ma per la sua visione così terrena del sacramento. Non sono in grado di discuterne. Ma affrontare una morte atroce per sostenere la propria visione dell'universo mi sembra un gesto grandioso. Non vado mai a trovare Alice senza soffermarmi a leggere la targa: è un piccolo omaggio. Eppure al Martyr's Cottage non avverto la presenza di Agnes. E lei?»

«No, affatto. Sospetto che il riscaldamento centralizzato e i mobili moderni siano nemici dei fantasmi. Conosceva Alice Mair prima di venire qui?»

«Non conoscevo nessuno. Risposi a un annuncio dei Copley, sul "The Lady". Offrivano vitto e alloggio gratis a una ragazza disposta a fare qualche lavoretto domestico. È un eufemismo per spolverare, ma le cose non si fermano mai lì. Alice è stata fondamentale, per me. Non mi rendevo conto di quanto mi mancasse un'amicizia femminile. A scuola c'erano solo alleanze, offensive e difensive. Non c'era mai nulla che superasse le divisioni politiche.»

«Agnes Poley avrebbe compreso anche quell'atmosfera: era la stessa che respirava lei» disse Dalgliesh.

Proseguirono in silenzio per qualche istante, ascoltando il fruscio dell'erba alta sotto i loro piedi. Dalgliesh si chiese perché, quando ci si avvicinava al mare, c'era un momento in cui il suo rombo ingigantiva all'improvviso, come se un'entità pericolosa, fino a quell'attimo tranquilla e benigna, si fosse accorta della propria potenza. Guardò il cielo, la miriade di punti luminosi, ed ebbe l'impressione di sentire la terra girargli sotto i piedi, gli parve che il tempo si fosse misteriosamente arrestato, fondendo in un unico momento il passato, il presente e il futuro: l'abbazia in rovina, le costruzioni ostinatamente tenaci dell'ultima guerra, le difese sgretolate della scogliera, il mulino a vento e la centrale nucleare. E si chiese se era stato in quel limbo spazio-temporale, ispirandosi al suono del mare perennemente irrequieto, che i precedenti proprietari del Martyr's Cottage avevano scelto la citazione biblica dell'iscrizione. All'improvviso, la sua compagna si fermò e disse: «C'è una luce fra le rovine. Due piccoli lampi, come una torcia elettrica».

Rimasero a scrutare in silenzio. Non videro nulla. Poi Meg disse, quasi in tono di scusa: «Sono sicura di averla vista. E c'era un'ombra, qualcosa o qualcuno che si muoveva contro la finestra orientale. Non l'ha vista anche lei?».

«Guardavo il cielo.»

«Ormai non c'è più» mormorò la donna, una sfumatura di rammarico nella voce. «Ma forse me lo sono immaginato.»

E quando, cinque minuti più tardi, si avviarono cautamente sull'erba addentrandosi nel cuore delle rovine, non c'era davvero nulla da vedere. Senza parlare, varcarono la breccia della finestra orientale, arrivarono sul ciglio dello strapiombo e scorsero soltanto la spiaggia imbiancata dalla luna che si stendeva a nord e a sud, orlata dalla sottile frangia di candida spuma. Se lì c'era stato qualcuno, pensò Dalgliesh, aveva avuto mille possibilità di nascondersi dietro i blocchi di cemento o nei crepacci della scogliera. Cercarlo non aveva dunque molto senso, anche se avessero conosciuto la direzione in cui era sparito. E poi, la gente aveva il diritto di passeggiare sola, la notte. Meg disse ancora: «Forse l'ho solo immaginato, però non credo. Comunque, adesso se n'è andata».

«Andata?»

«Oh, sì, non l'ho detto? Ho avuto l'impressione piuttosto netta che si trattasse di una donna.»

 

14

 

Alle quattro del mattino, quando Alice Mair si destò dall'incubo con un grido disperato, si stava alzando il vento. Tese la mano per accendere la lampada sul comodino, diede un'occhiata all'orologio e si riadagiò sul letto, mentre il panico si placava. I suoi occhi fissarono il soffitto e, adesso che cominciava a riconoscerlo per ciò che era in realtà, il sogno perse la sua nitidezza. Era un vecchio fantasma ritornato dopo tanti anni, evocato dagli avvenimenti di quella sera e dal reiterarsi della parola "assassinio" che, da quando il Fischiatore aveva iniziato la sua strage, sembrava aleggiare permanentemente nell'aria. A poco a poco rientrò nel mondo reale: quello dei piccoli rumori della notte, del gemito del vento tra i comignoli, del fruscio del lenzuolo stretto fra le sue mani convulse, del ticchettio regolare dell'orologio e, soprattutto, del rettangolo di luce chiara in corrispondenza della finestra aperta e delle tende scostate, che le offrivano una magnifica vista del cielo stellato.

L'incubo non aveva bisogno di interpretazioni. Era soltanto una versione aggiornata di un antico orrore, meno terribile dei sogni dell'infanzia, ma più razionale e adulto. Lei e Alex erano di nuovo bambini e tutta la famiglia viveva con i Copley nella Vecchia Canonica. In sogno la cosa non le sembrava affatto strana: la Vecchia Canonica era a sua volta una versione più grande e meno pretenziosa di Sunnybank... un nome ridicolo, perché sorgeva su un terreno pianeggiante e non su un argine, e il sole non penetrava mai dalle finestre. Erano due costruzioni vittoriane di solidi mattoni rossi, entrambe isolate, entrambe con un giardino privato. Nel sogno, lei e suo padre camminavano insieme tra i cespugli. Lui portava la roncola ed era vestito come in quell'ultimo, terribile pomeriggio d'autunno, con la maglia macchiata di sudore, i calzoni corti che, a ogni passo, rivelavano la protuberanza del suo sesso, le gambe bianche irte di peli neri dalle ginocchia in giù. Lei era preoccupata perché sapeva che i Copley la stavano aspettando per il pranzo. Il signor Copley, con la tonaca e la cotta ondeggiante, camminava spazientito avanti e indietro sul prato dietro la casa, apparentemente ignaro della loro presenza. Suo padre le stava spiegando qualcosa con quella sua voce pignola e troppo alta che usava per rivolgersi a sua madre. Diceva: «So che sei troppo stupida per capire, ma parlerò forte e chiaro e spero che tu non voglia mettere troppo alla prova la mia pazienza. Alex non avrà quel lavoro. Farò in modo che non l'abbia. Non nomineranno un uomo che ha assassinato il proprio genitore».

E mentre così parlava, brandiva la roncola, e Alice vedeva che la punta della lama era rossa di sangue. Poi, all'improvviso, lui si voltava con gli occhi sfolgoranti, sollevava la roncola, e Alice sentiva la punta penetrarle nella pelle della fronte, e il sangue le scendeva a fiotti negli occhi. Adesso, sveglia e ansimante come se avesse corso, si portò la mano alla fronte e comprese che quel freddo velo di umidità era soltanto sudore.

Aveva poche speranze di riaddormentarsi; non ne aveva mai, quando si svegliava così presto. Poteva alzarsi, indossare la vestaglia, scendere a prepararsi un tè, correggere le bozze, leggere, ascoltare il World Service della BBC, oppure poteva prendere uno dei suoi sonniferi. Dio lo sapeva: erano abbastanza forti per farla precipitare nell'oblio. Ma stava cercando di disabituarsi, e se avesse ceduto proprio ora avrebbe riconosciuto la potenza dell'incubo. Si sarebbe alzata e avrebbe preparato un tè. Non temeva di disturbare Alex: aveva il sonno profondo, lui, non si svegliava nemmeno con le peggiori bufere invernali. Ma prima restava un piccolo esorcismo da compiere. Se voleva che il sogno perdesse il suo potere e non si ripetesse, doveva affrontare di nuovo il ricordo di quel pomeriggio di quasi trent'anni prima.

Era una calda giornata d'autunno, all'inizio di ottobre, e lei, Alex e il padre lavoravano in giardino. Lui stava tagliando una fitta siepe di rovi e di cespugli, invisibili dalla casa, e li aggrediva con una roncola mentre lei e Alex trascinavano via i rami staccati per accendere un falò. Suo padre indossava indumenti leggeri, e ciononostante sudava. Alice vedeva il suo braccio alzarsi e abbassarsi, udiva lo schianto dei rami, mentre le spine le pungevano le dita, e ascoltava gli ordini del padre. All'improvviso, lui aveva lanciato un grido. Forse il ramo era marcio, o forse aveva sbagliato la mira. La roncola era affondata nella coscia nuda, e quando lei si era voltata, aveva visto il fiotto di sangue zampillare incurvandosi nell'aria. Aveva visto suo padre stramazzare a terra come un animale ferito, le mani brancolanti nel vuoto. Gli era caduta la roncola e si era teso verso di lei, tremante, il palmo rivolto verso l'alto, l'aveva guardata con un'espressione supplichevole, come un bambino. Aveva cercato di parlare, ma lei non riusciva a distinguere le parole. Si era mossa verso di lui, come stregata, e all'improvviso si era sentita afferrare il braccio: era Alex che la trascinava con sé lungo il sentiero, fra gli allori, in direzione del frutteto.

Alice aveva gridato: «Alex! Basta, basta! Sta sanguinando! Sta per morire! Dobbiamo cercare aiuto».

Non ricordava se aveva veramente pronunciato quelle parole; più tardi aveva rammentato solo la forza delle mani del fratello sulle sue spalle, le mani che la spingevano contro il tronco di un melo e la tenevano imprigionata, impotente. E Alex aveva detto un'unica parola: «No».

Tremante di terrore, con il cuore che le martellava nel petto, non avrebbe potuto liberarsi neppure se avesse voluto. E ora sapeva che quell'impotenza era stata fondamentale per il fratello: in quel modo, il gesto era suo, esclusivamente suo. Dominata e assolta, Alice non aveva avuto scelta. E adesso, a trent'anni di distanza, mentre giaceva irrigidita con gli occhi incollati al soffitto, ricordava quell'unica parola, quegli occhi che fissavano i suoi, le mani che le stringevano le spalle, la corteccia dell'albero che le graffiava la schiena attraverso il tessuto sottile della camicetta. Il tempo era parso fermarsi. Non ricordava per quanto lui l'avesse tenuta prigioniera, ma le sembrava un'eternità.

Alla fine, lui aveva sospirato, e aveva detto: «Bene, ora possiamo andare».

E anche quello la sorprendeva: che avesse saputo riflettere con tanta lucidità e calcolare il tempo necessario. L'aveva trascinata fino al corpo del padre. E quando aveva guardato il braccio ancora proteso, gli occhi spalancati e vitrei, la grande macchia scarlatta penetrata nella terra, aveva finalmente compreso che era un cadavere, che se n'era andato per sempre e non aveva più da temerlo. Alex si era girato verso di lei pronunciando ogni parola con voce alta e chiara, quasi stesse parlando a una bambina ritardata: «Qualunque cosa ti facesse, non la farà più. Mai più. Ascoltami, ti dirò io cosa è successo: l'abbiamo lasciato e siamo andati ad arrampicarci sui meli. Poi abbiamo deciso di tornare. L'abbiamo trovato così. È molto semplice. Non dovrai dire altro. Lascia parlare me. Guardami, Alice, guardami. Capisci?».

E quando lei aveva risposto, la sua voce sembrava quella di una vecchia, incrinata e tremula, forzata. «Sì, capisco.»

Allora lui l'aveva presa per mano e aveva attraversato il prato di corsa, quasi rischiando di slogarle il braccio, aveva varcato la porta della cucina e aveva gridato a voce tanto alta che sembrava un urlo di trionfo. Alice aveva visto sua madre impallidire, come se anche lei stesse morendo dissanguata. E intanto Alex diceva: «È papà. Ha avuto un incidente. Chiama un dottore, presto».

Era rimasta sola nella cucina. Faceva molto freddo. C'erano le mattonelle che le raffreddavano i piedi, e la superficie del tavolo di legno sul quale appoggiava la testa era gelida contro le sue guance. Non era venuto nessuno. Aveva sentito una voce che telefonava dal corridoio, e poi altre voci, altri passi. Qualcuno che piangeva. Altri passi ancora, e lo scricchiolio delle ruote di una macchina sulla ghiaia.

Alex aveva avuto ragione. Era stato molto semplice: nessuno l'aveva interrogata, nessuno si era insospettito. Avevano accettato la sua versione dei fatti. Non era andata all'inchiesta, ma più tardi qualcuno, il medico di famiglia, l'avvocato, qualche amica della madre, erano tornati e si erano riuniti per un tè piuttosto inconsueto, con i sandwich e la torta di frutta fatta in casa. Erano stati gentili con lei e Alex. Qualcuno le aveva accarezzato la testa. Una voce aveva detto: «È stata una tragedia che non ci fosse lì nessuno. Un po' di buon senso e una conoscenza rudimentale del pronto soccorso l'avrebbero salvato».

Ma adesso quel ricordo evocato di proposito aveva completato l'esorcismo. L'incubo era stato privato dei suoi terrori. Con un po' di fortuna, non sarebbe tornato per mesi. Alice lanciò le gambe fuori dal letto e prese la vestaglia.

Aveva appena versato l'acqua bollente sul tè, quando udì il passo di Alex sulla scala. Si voltò e lo vide sulla soglia della cucina. Aveva un'aria da bambino, quasi vulnerabile, stretto nella sua solita vestaglia di velluto a coste. Si passò le mani fra i capelli spettinati. Sorpresa, perché di solito il fratello dormiva un sonno pesante, chiese: «Ti ho disturbato? Scusami».

«No, mi ero svegliato e non sono più riuscito ad addormentarmi. Abbiamo cenato troppo tardi per aspettare Lessingham, e così fatico a digerire. Il tè è già fatto?»

«Quasi pronto.»

Alex prelevò una seconda tazza dalla credenza e versò il tè per tutti e due. Alice sedette su una sedia di vimini e accettò la sua tazza senza parlare.

«Senti che vento» disse Alex.

«Sì, è un'ora che soffia sempre più forte.»

Alex andò alla porta e aprì il pannello superiore. Un'improvvisa sensazione di freddo candido e turbinoso, privo di odori, invase la stanza cancellando il lieve aroma del tè, e Alice udì il ringhio sordo del mare. Lo sentì impennarsi, e con un piacevole fremito di falso terrore si immaginò che le scogliere basse e friabili si fossero finalmente sgretolate e che la spuma bianca e turbolenta stesse per avventarsi su di loro, pronta ad abbattersi contro la porta e a investire con una frustata il viso di Alex. Lo guardò mentre scrutava nella notte, e provò uno slancio di affetto puro e privo di complicazioni come il flusso di aria fredda che gli sferzava il volto. La fuggevole intensità di quel sentimento la colse di sorpresa: Alex faceva talmente parte di lei, che non aveva mai avuto bisogno di soffermarsi troppo su ciò che le ispirava. Era una sottile e tranquilla soddisfazione averlo con sé nel cottage, udire i suoi passi al piano di sopra, dividere con lui la cena preparata al termine della giornata. Eppure, nessuno dei due pretendeva qualcosa dall'altro. Persino il matrimonio di lui non aveva fatto nessuna differenza. Alice non si era stupita di quell'evento, perché trovava Elizabeth piuttosto simpatica, ma non si era stupita nemmeno quando si erano separati. Le sembrava improbabile che Alex si risposasse, ma tra loro nulla sarebbe comunque cambiato, qualunque fosse il numero delle mogli che potevano entrare o cercare di entrare nella vita del fratello. A volte, come ora, lei sorrideva ironicamente: sapeva in che modo gli estranei vedevano il loro rapporto. Quanti ritenevano che il cottage fosse proprietà di lui, e non di Alice, e quanti la giudicavano un povera donna nubile dipendente da Alex per una casa, un po' di compagnia e uno scopo nella vita. Altri, più acuti ma non per questo più vicini alla verità, erano colpiti dalla loro reciproca indipendenza, dai loro disinvolti andirivieni. Alice ricordava ciò che Elizabeth le aveva detto poco dopo il fidanzamento: «Sai, siete un duo che intimidisce», e lei aveva avuto la tentazione di rispondere: «Oh, sì, è proprio vero».

Alice aveva acquistato il Martyr's Cottage prima che suo fratello venisse nominato direttore della centrale, e lui era andato a stabilirvisi dietro tacito accordo che si trattava di una soluzione temporanea, mentre decideva se tenere l'appartamento di Barbican come residenza principale, oppure venderlo e comprare una casa a Norwich e un pied-à-terre più piccolo a Londra. Alex era sostanzialmente un animale urbano, e lei proprio non riusciva a immaginarselo stabilmente trapiantato in un posto che non fosse una città. Se con il nuovo incarico fosse tornato a Londra, non l'avrebbe seguito; e lui non avrebbe preteso che lo facesse. Sì, su quella costa flagellata dal mare Alice aveva finalmente trovato una vera casa. Il fatto che Alex potesse andare e venire senza preannunciarsi non la rendeva meno sua.

Doveva essere l'una passata, pensò Alice bevendo il tè, quando era tornato dopo aver accompagnato a casa Hilary Robarts. Si chiese per quale motivo si fosse trattenuto tanto. Avendo difficoltà ad addormentarsi, aveva fatto in tempo a sentire la chiave nella serratura e il passo sulle scale. Adesso erano quasi le cinque del mattino. Non doveva quindi aver dormito più di qualche ora. Come se si fosse all'improvviso accorto del freddo, Alex chiuse il battente superiore della porta, tirò il catenaccio, poi andò a sedere sulla poltrona di fronte a quella di Alice, stringendo la tazza fra le mani.

«È una seccatura che Caroline Amphlett non voglia lasciare Larksoken» disse. «Non mi va di incominciare un nuovo lavoro, soprattutto come questo, con un'assistente che non conosco. Caroline conosce i miei metodi, avevo dato per scontato che sarebbe venuta a Londra con me. È un vero fastidio.»

Doveva essere qualcosa di più, pensò Alice. Erano in gioco l'orgoglio e il prestigio. Altri dirigenti si portavano dietro l'assistente personale, quando cambiavano incarico. La riluttanza di una segretaria di fronte alla prospettiva di separarsi dal suo capo era una lusinghiera affermazione di devozione personale. Alice poteva comprendere molto bene il rincrescimento del fratello, ma non lo trovava sufficiente per tenerlo sveglio anche la notte.

Alex riprese: «Ci sono ragioni personali, o almeno così dice lei. Presumo si tratti di Jonathan Reeves. Dio sa che cosa ci trova in quell'individuo. Non è neppure un bravo tecnico».

Alice nascose un sorriso. «Non credo che l'interesse di Caroline sia di natura tecnica.»

«Be', se è di natura sessuale, allora ha meno capacità di discriminazione di quel che pensassi.»

Non era un cattivo giudice in fatto di uomini e donne, pensò Alice. Gli capitava di rado di sbagliarsi clamorosamente e forse non gli succedeva mai nel giudicare le capacità scientifiche di qualcuno. Ma non capiva le straordinarie complessità e irrazionalità delle motivazioni e del comportamento umano. Sapeva che l'universo era intricato, ma era pur sempre certo che obbedisse a delle leggi, anche se, considerava Alice, lui non avrebbe usato una parola come "obbedire", con tutte le relative implicazioni di scelta cosciente. È così che si comporta il mondo fisico, avrebbe detto. È aperto alla ragione umana e, in misura limitata, al controllo umano. La gente lo sconcertava perché riusciva a sorprenderlo, e la cosa più sconcertante di tutte era che a volte gli capitava addirittura di sorprendere se stesso. Si sarebbe sentito a suo agio se fosse stato piuttosto un elisabettiano del sedicesimo secolo e avesse potuto collocare gli esseri umani nelle varie categorie rispondenti alla loro natura essenziale: collerica, malinconica, mercuriale, saturnina, le qualità dei pianeti che governavano la nascita. Stabilito questo ordine fondamentale, le posizioni di ognuno si facevano più chiare. Eppure, il fatto che un uomo potesse essere sul lavoro uno scienziato logico e fidato e con le donne uno sciocco incapace, riusciva ancora a sorprenderlo, così come lo soprendevano tutti coloro che davano prova di abilità e giudizio in un campo e in un altro si comportavano come bimbi irrazionali. Adesso era stizzito perché la sua segretaria, finora considerata intelligente, sensata, devota, preferiva restare nel Norfolk con il suo fidanzato, un uomo che lui disprezzava, anziché seguire il suo superiore fino a Londra.

«Mi sembrava che una volta avessi detto che per te Caroline era un tipo sessualmente frigido.»

«Ho detto così? No di sicuro. Questo indicherebbe una certa esperienza personale. Forse ho detto che non l'avrei mai trovata attraente. Una segretaria simpatica ed efficiente che non ispira tentazioni sessuali è senza dubbio il meglio che si possa desiderare.»

«Immagino» rispose Alice in tono asciutto, «che per un uomo la segretaria ideale sia una donna che riesce a far capire che sarebbe disposta ad andare a letto con il principale ma se ne astiene altruisticamente nell'interesse dell'efficienza. Cosa ne sarà di lei?»

«Oh, se è per quello ha il posto assicurato. A Larksoken la concorrenza per accaparrarsela sarà spietata. È intelligente, capace e ha molto tatto.»

«Ma presumo non sia ambiziosa, altrimenti perché si accontenterebbe di restare a Larksoken? Forse Caroline ha un'altra ragione per voler rimanere nella zona. Tre settimane fa l'ho vista nella cattedrale di Norwich, si è incontrata con un uomo nella Lady Chapel. Erano molto discreti, ma a me sembrava un appuntamento romantico.»

«Che tipo d'uomo?» si informò Alex senza mostrare eccessiva curiosità.

«Anonimo, di mezza età. Difficile descriverlo. Ma era troppo vecchio per essere Jonathan Reeves.»

Non aggiunse altro. Sapeva che il fratello non era interessato, eppure, a ripensarci bene, era stato un incontro davvero strano. I capelli biondi di Caroline erano raccolti sotto un grande berretto, e aveva gli occhiali. Ma il travestimento, se tale voleva essere, era risultato inutile. Lei era passata oltre in fretta, per non farsi riconoscere e non sembrare intenta a spiare. Un minuto dopo aveva visto la ragazza percorrere adagio la navata, con la guida in mano e l'uomo che la seguiva a distanza prudenziale. Si erano mossi insieme, per poi fermarsi davanti a un monumento con aria apparentemente assorta. Quando, dopo dieci minuti, Alice aveva lasciato la cattedrale, aveva lanciato un'altra occhiata all'uomo. Questa volta era lui ad avere la guida in mano.

Alex lasciò cadere l'argomento di Caroline. Dopo un attimo di silenzio, disse: «Non è stata una cena molto riuscita».

«A dir poco. Tranne, naturalmente, per la cucina. Cos'ha Hilary? Sta cercando di rendersi antipatica di proposito oppure è soltanto infelice?»

«Di solito la gente è infelice quando non riesce a ottenere ciò che vuole.»

«In questo caso... te.»

Alex sorrise, guardando la griglia vuota sul camino, e non rispose.

«Pensi che ti darà dei fastidi?» chiese Alice dopo qualche secondo.

«Molto peggio. Ritengo che possa diventare addirittura pericolosa.»

«Pericolosa? In che senso? Vuoi dire pericolosa per te personalmente?»

«No, non solo per me.»

«Ma si tratta di qualcosa che puoi risolvere?»

«Certo. Comunque, non la nominerò amministratrice titolare. Sarebbe un disastro. Non avrei mai dovuto assegnarle un incarico dirigenziale.»

«Quando sarà la nomina?»

«Fra dieci giorni. Ci sono ottimi candidati.»

«Quindi hai dieci giorni per decidere cosa fare di lei...»

«Anche meno. Vuole una decisione entro domenica.»

Una decisione... a proposito di che?, si chiese Alice. Il suo lavoro, una possibile promozione, la sua futura vita con Alex? Ma senza dubbio si rendeva già conto di non avere nessun futuro con lui.

Conosceva l'importanza della domanda che stava per fare, e sapeva che lei sola avrebbe osato farla: «Resteresti molto deluso se non avessi quell'incarico?».

«Ne sarei addolorato, e questo è ancora più devastante per la tranquillità di un individuo. Lo voglio, ne ho bisogno e sono la persona più adatta. Immagino che ogni candidato ne sia convinto, ma nel mio caso è anche vero. È un incarico importante, Alice. Uno dei più importanti che ci siano. Se vogliamo salvare il pianeta, il futuro sta nell'energia nucleare, ma dobbiamo gestirla meglio, tanto sul piano nazionale, quanto su quello internazionale.»

«Immagino tu sia l'unico candidato davvero meritevole. È il tipo di nomina che rilasciano solo quando sanno di avere a che fare con l'uomo giusto. È un incarico nuovo. Finora se la sono cavata senza un alto commissario per l'energia nucleare, ma mi rendo conto che, con l'uomo giusto, si tratta di una iniziativa che offre possibilità immense. Nelle mani sbagliate diventerebbe invece un'altra delle tante mansioni di pubbliche relazioni di un'azienda, uno spreco di denaro dei contribuenti.»

Alex era troppo intelligente per non capire che sua sorella stava tentando di rassicurarlo, ed era lei l'unica persona dalla quale volesse e accettasse di essere trattato in quel modo.

«Vedi, esiste il sospetto che potremmo comunque metterci in un pasticcio» aggiunse tuttavia. «Quindi hanno bisogno di qualcuno che ce ne tiri fuori, e devono ancora decidere mille dettagli, gli esatti poteri e le responsabilità di questo qualcuno, chi dovrà rispondere delle decisioni e quanto andrà pagato. Ecco perché ci mettono tanto a stabilire il carattere dell'incarico.»

«Ma tu non ne hai bisogno per sapere cosa cercano. Uno scienziato che si rispetti, un amministratore che abbia dato prova di efficienza e un abile esperto di relazioni pubbliche, no? Probabilmente ti chiederanno di fare un provino per la TV. Sembra che far bella figura sul teleschermo sia un requisito indispensabile per tutto, di questi tempi.»

«Soltanto per i futuri presidenti e i primi ministri. Non credo arriveranno a tanto.»

Alex lanciò un'occhiata all'orologio. «È già l'alba. Credo che cercherò di dormire un paio d'ore.» Ma passò ancora un'ora prima che si separassero per tornare nelle loro stanze.

 

15

 

Prima di augurarle la buonanotte, Dalgliesh attese che Meg aprisse la porta ed entrasse, quindi la donna indugiò per un attimo a seguire con lo sguardo l'alta figura che si allontanava lungo il vialetto e spariva nell'oscurità. Poi entrò nella grande sala quadrata con il camino di pietra, la sala in cui, nelle notti d'inverno, sembravano echeggiare ancora le voci infantili dei figli dei rettori vittoriani e che, per Meg, conservava un vago sentore ecclesiastico. Posò la giacca sulla colonnina di legno della scala, poi andò in cucina per sbrigare l'ultima incombenza della giornata: preparare il vassoio per la colazione dei Copley. La cucina era una grande stanza sul retro della casa, già arcaica quando i Copley avevano comprato la Vecchia Canonica, e rimasta inalterata. Contro il muro di sinistra c'era un'antiquata stufa a gas, così pesante che Meg non riusciva a spostarla per pulire, e preferiva non pensare al grasso che, accumulato per decenni, doveva avere irreparabilmente incrostato la parete posteriore. Sotto la finestra era sistemato un lavello di porcellana macchiato da settant'anni di risciacqui di stoviglie e ormai impossibile da sbiancare. Il pavimento era di antiche lastre di pietra, dalle quali d'inverno sembrava salire un miasma umido che gelava i piedi. La parete di fronte al lavello e alla finestra era occupata da una credenza di quercia vecchissima e probabilmente preziosa... se fosse stato possibile spostarla senza che crollasse... Sopra la porta c'era ancora la fila di campanelli, ognuno con la scritta in gotico corrispondente a salotto, sala da pranzo, studio, nursery. Era una cucina fatta più per sfidare che non per esaltare l'abilità di una cuoca le cui ambizioni andassero appena al di là delle uova sode. Ma ormai Meg notava a stento i disagi e le carenze: come tutto il resto della Vecchia Canonica, era diventata per lei la sua casa.

Dopo gli attacchi a scuola e le lettere d'insulti, era felice di aver trovato un rifugio temporaneo in quella magione dove nessuno alzava mai la voce o analizzava ossessivamente ogni sua frase, nella speranza di scoprirvi sfumature razziste, sessiste o fasciste, dove le parole significavano ciò che avevano significato per generazioni e le oscenità erano sconosciute o almeno restavano impronunciate, dove regnava la grazia della serenità e dell'ordine, simboleggiata dal signor Copley che leggeva i quotidiani uffizi della chiesa, la preghiera del mattino e della sera. A volte vedeva il trio che formavano come un trio di espatriati, di persone arenate in una colonia lontana e ostinatamente fedeli alle vecchie consuetudini di casa, a un modo di vita perduto e alle vecchie formalità di culto. E si era affezionata ai suoi datori di lavoro. Avrebbe rispettato di più Simon Copley se fosse stato meno portato all'egoismo venale, meno preoccupato delle comodità materiali, ma probabilmente quello era il risultato dei cinquant'anni in cui una moglie devota non aveva fatto altro che circondarlo di affettuose premure. E lui amava sua moglie. Contava su di lei e rispettava le sue opinioni. Erano fortunati, pensava Meg, sicuri l'uno dell'affetto dell'altra e fortificati nella loro vecchiaia dalla certezza che, se non avessero avuto la grazia di morire lo stesso giorno, di certo non sarebbero rimasti a lungo separati. Ma lo credevano davvero? Le sarebbe piaciuto chiederglielo, ma sapeva che sarebbe stato un gesto presuntuoso. Qualche dubbio dovevano nutrirlo, e forse avevano qualche riserva mentale nei confronti del Credo che ogni mattina e ogni sera recitavano con tanta apparente sicurezza. Ma non era escluso che a ottant'anni ciò che contava di più fosse proprio l'abitudine, quando il corpo non era ormai più interessato al sesso, la mente non era più interessata alle speculazioni astratte e le piccole cose della vita erano diventate più importanti delle grandi. E dunque, alla fine, forse restava solo la scoperta che nulla contava veramente.

Non era un lavoro eccessivamente pesante, il suo, ma Meg era conscia del fatto che a poco a poco stava addossandosi più compiti di quanti ne avesse richiesti l'annuncio dei Copley, e intuiva che la maggior preoccupazione della loro vita era far sì che lei restasse. La loro figlia aveva fornito tutti gli elettrodomestici in grado di risparmiarle un po' di fatica: lavastoviglie, lavatrice, asciugatrice, tutto sistemato in una vecchia distilleria in disuso nei pressi dell'entrata posteriore, anche se fino all'arrivo di Meg i Copley avevano esitato a usarli per timore di non riuscire a spegnerli, ossessionati dall'idea che continuassero a funzionare tutta la notte e si surriscaldassero fino a scoppiare, allagando la Vecchia Canonica.

L'unica figlia dei Copley viveva in una specie di villa nel Wiltshire e veniva raramente a trovarli, anche se telefonava spesso, di solito alle ore più impossibili. Era stata lei a parlare con Meg, così adesso le riusciva difficile stabilire un nesso tra la donna in completo di tweed, sicura di sé e tendenzialmente aggressiva, e quei due vecchietti miti e gentili. E sapeva, anche se loro non si sarebbero mai sognati di dirglielo e forse di ammetterlo davanti a se stessi, che avevano paura di lei. Li tiranneggiava per il loro bene, come avrebbe lei stessa affermato. La loro seconda paura era infatti di essere costretti ad arrendersi alla proposta che spesso la figlia avanzava per telefono, e per puro senso del dovere: dovevano andare a vivere in casa sua finché il Fischiatore non fosse stato catturato.

Diversamente dalla figlia, Meg capiva perché, quando il signor Copley era andato in pensione, lui e la moglie avevano speso tutti i risparmi per comprare la Vecchia Canonica accollandosi, nonostante l'età avanzata, l'onere di un mutuo. Da giovane, il signor Copley era stato curato a Larksoken, quando la chiesa vittoriana era ancora in piedi. In quello sgraziato mosaico di lucido legno di pino, di rumorose piastrelle e vetrate istoriate, lui e la moglie si erano sposati, e la loro prima casa era stata un appartamento nella canonica, sopra a quello del titolare. La chiesa era stata parzialmente demolita da una tremenda bufera negli anni '30, con grande quanto tacito sollievo dei commissari interni, che da tempo si chiedevano che farsene di un edificio assolutamente privo di pregi architettonici e rimasto al servizio di una congregazione di fedeli che, nelle massime festività, arrivava a sei persone. Perciò la chiesa era stata demolita del tutto e la Vecchia Canonica, più resistente, era stata messa in vendita. Rosemary Duncan-Smith aveva esposto con molta chiarezza le sue idee quando aveva riaccompagnato Meg in macchina alla stazione di Norwich, dopo il colloquio.

«È ridicolo che si ostinino a vivere lì. Avrebbero dovuto cercarsi un comodo appartamento con due camere da letto, a Norwich o in qualche paesetto, comunque vicino ai negozi, alla posta e alla chiesa. Ma mio padre sa essere oltremodo cocciuto, quando crede di sapere ciò che vuole, e mia madre è fin troppo arrendevole. Spero che non considererà questo lavoro come una semplice soluzione temporanea...»

«Temporanea sì» aveva risposto Meg, «ma non a breve termine. Non posso promettere che resterò per sempre, ma sicuramente ho bisogno di tempo e tranquillità per decidere del mio futuro. E poi, potrei anche non andar bene per i suoi genitori.»

«Tempo e tranquillità sarebbero graditi a tutti noi, signorina. Be', immagino sia meglio di niente, ma le sarei grata se mi desse uno o due mesi di preavviso, quando deciderà di tornarsene via. E non si preoccupi, andrà benissimo. Con una casa fuori mano, su quel promontorio dove non c'è altro da vedere che un'abbazia in rovina e una centrale atomica, i miei dovranno accontentarsi.»

Ma erano passati sedici mesi, e Meg era ancora lì.

Comunque, nella cucina ben arredata e altrettanto ben attrezzata del Martyr's Cottage aveva provato una sensazione di guarigione immediata: era così comoda e intima. Fin dall'inizio della loro amicizia, quando Alice aveva dovuto passare una settimana a Londra mentre Alex era in viaggio, Meg aveva ricevuto una copia della chiave del cottage per andare a ritirare la posta e inoltrargliela. Al ritorno, restituendo la chiave, Alice le aveva detto: «È meglio che tu la tenga, potrebbe servirti ancora». Meg non l'aveva più usata. In genere d'estate la porta restava aperta, e quando era chiusa, bastava suonare. Ma il fatto di avere quella chiave, di poterla guardare ogni tanto e poterne avvertire il peso nel mazzo, aveva finito per simboleggiare la certezza e la fiducia di cui la loro amicizia godeva. Per molto tempo non aveva avuto un'amica. Aveva dimenticato, si ripeteva a volte, di aver conosciuto il conforto della compagnia intima, non a sfondo sessuale e senza pretese di un'altra donna.

Prima che suo marito annegasse in un incidente, quattro anni addietro, per riaffermare la loro autosufficienza a lei e Martin era bastata la compagnia occasionale di qualche conoscente. Era stato uno di quei matrimoni senza figli che inconsciamente servono a rifiutare i tentativi compiuti dagli estranei per arrivare nel profondo di una persona. I pranzi cui partecipavano ogni tanto erano stati un dovere sociale, e immancabilmente non vedevano l'ora di tornarsene nell'isolamento della loro casetta. Dopo la morte di Martin, le era parso di avanzare nell'oscurità come un automa, di procedere a tastoni in un canyon stretto e profondo, tappezzato d'angoscia, e le energie che le restavano bastavano appena per gestirsi la vita alla giornata. Pensava, lavorava e soffriva un giorno alla volta. Sarebbe stato un disastro permettersi di pensare ai giorni, alle settimane, ai mesi e agli anni che si stendevano di fronte a lei. Per due anni aveva faticato nel tentativo di non perdere la ragione. Persino la sua fede cristiana non le era stata di grande aiuto. Non l'aveva respinta, ma si era improvvisamente fatta inconsistente e incongrua, e il suo conforto era quello di una candela che proietta nel buio una luce incerta. Ma quando, al termine di quei due anni, la valle si era impercettibilmente allargata e per la prima volta al posto dei dirupi neri si era aperta la vista su un'esistenza normale, addirittura felice, e su cui era possibile che il sole tornasse a splendere, Meg era rimasta involontariamente intrappolata nelle maglie della politica razziale della scuola. Gli insegnanti più anziani si erano trasferiti o erano andati in pensione, e la nuova direttrice, nominata apposta per imporre le nuove ortodossie della moda, aveva intrapreso una crociata per stanare e sradicare ogni forma di eresia. Adesso Meg si rendeva conto di essere stata fin dall'inizio la vittima predestinata.

Si era dunque rifugiata in quella nuova vita sul promontorio, e in una solitudine diversa. Lì aveva trovato Alice Mair. Si erano conosciute una settimana dopo il suo arrivo, quando Alice era venuta alla Vecchia Canonica recando con sé una valigia piena di cianfrusaglie destinate all'annuale festa di beneficenza della chiesa di St. Andrew, a Lydsett. Fra la cucina e l'uscita di servizio c'era una stanzetta in disuso, trasformata in magazzino per gli oggetti scartati dagli abitanti dell'intero promontorio: vestiti, bric-à-brac, libri e vecchie riviste. Ogni tanto il signor Copley teneva un servizio religioso a St. Andrew, quando il signor Smollet, il vicario, era in ferie; e quella partecipazione alla vita della chiesa e del villaggio, pensava Meg, doveva essere importante per lui non meno che per i parrocchiani. Normalmente non ci si aspettava molta roba dai pochi cottage sparsi sul promontorio, ma Alex Mair, che teneva a legare la centrale alla comunità, aveva fatto mettere un annuncio sul tabellone delle comunicazioni ufficiali, e di solito nel periodo dell'asta di ottobre c'erano sempre un paio di ceste piene, pronte per essere recapitate alla Vecchia Canonica. La porta posteriore, che dava accesso a quella specie di retrocucina, restava aperta durante il giorno, e la stanza era chiusa a chiave da un'altra porta verso l'interno della casa. Alice Mair aveva bussato all'ingresso principale e si era presentata. Le due donne, più o meno coetanee, entrambe riservate e indipendenti, pur non essendo necessariamente in cerca di amicizie avevano finito per simpatizzare. Dopo una settimana, Meg aveva ricevuto un invito a pranzo al Martyr's Cottage. Adesso, difficilmente passava un giorno senza che percorresse quegli ottocento metri per andare a sedersi nella cucina di Alice e chiacchierare con lei, o anche solo osservarla al lavoro. Le sue colleghe della scuola, lo sapeva, avrebbero trovato incomprensibile la loro amicizia. Là le amicizie, o quelle che passavano per tali, non tagliavano mai il grande spartiacque dell'impegno politico e nel chiasso acrimonioso della sala riunioni potevano facilmente degenerare in pettegolezzi, maldicenze, recriminazioni e tradimenti. Quell'amicizia pacifica che non chiedeva nulla era priva di fervori così come era priva di ansie. Non era un'amicizia espansiva: non si abbracciavano, non si erano mai neppure date la mano dopo il primo incontro. Meg non era sicura di avere capito cosa Alice apprezzasse in lei, ma sapeva cosa apprezzava lei in Alice. Intelligente, colta, poco sentimentale e poco scandalizzabile, era diventata il punto focale della sua vita sul promontorio.

Raramente vedeva Alex Mair. Durante il giorno stava alla centrale, e nei fine settimana, invertendo la direzione delle consuete peregrinazioni, si recava nel suo appartamento di Londra, e spesso, se aveva una riunione in città, vi si tratteneva per alcuni giorni. Meg non aveva mai avuto la sensazione che Alice tentasse di tenerli separati per il timore che il fratello trovasse noiosa la sua compagnia. Nonostante i traumi degli ultimi quattro anni, Meg era interiormente troppo salda per rischiare di scivolare in quel genere di scadimenti sessuali e sociali. Ma con lui non si era mai sentita a proprio agio, forse perché, con il suo aspetto sicuro e arrogante, Alex sembrava aver assorbito qualcosa del mistero e della potenza dell'energia che gestiva. Con lei si comportava in maniera decisamente amabile, nelle poche occasioni in cui si erano incontrati; a volte Meg aveva persino avuto l'impressione che la trovasse simpatica. Ma il loro unico terreno comune era la cucina del Martyr's Cottage, e anche lì Meg si sentiva comunque più a proprio agio quando lui non c'era. Alice non parlava del fratello se non casualmente, ma nelle rare occasioni sociali, come il pranzo di quella sera, quando li vedeva insieme, quei due sembravano condividere una forte intesa intuitiva, una reazione istintiva alle esigenze reciproche, più caratteristica di un matrimonio riuscito che non di un rapporto fraterno.

E per la prima volta dopo quasi tre anni, lei era stata capace di parlare di Martin. Ricordava quel giorno di luglio, con la porta della cucina spalancata sul patio e l'odore delle erbe e del mare ancora più intenso del profumo speziato e burroso dei biscotti appena sfornati. Lei e Alice stavano sedute una di fronte all'altra, al tavolo della cucina, separate solo dalla teiera. Ricordava ogni singola parola.

«Non ha avuto molta gratitudine. Oh, hanno detto che era un eroe e il direttore ha tenuto un bel discorso alla commemorazione, a scuola. Ma pensavano che i ragazzi non avrebbero dovuto andare a nuotare proprio là. La scuola ha declinato ogni responsabilità per la sua morte. Tenevano più a evitare le critiche che a onorare Martin. E il ragazzo che ha salvato non sta andando molto bene. Immagino che sia da sciocca preoccuparmene.»

«Sarebbe del tutto naturale rimpiangere il fatto che tuo marito sia morto per salvare un individuo di second'ordine, ma immagino che il ragazzo abbia un suo punto di vista personale. Dev'essere una cosa terribile, sapere che qualcuno è morto per te.»

«Ho cercato di dirlo a me stessa» aveva risposto Meg. «Per qualche tempo quel ragazzino è stato quasi un'ossessione. Lo aspettavo davanti al cancello per vederlo uscire da scuola, a volte provavo addirittura il bisogno di toccarlo. Era come se una parte di Martin fosse passata dentro di lui. Ma era semplicemente imbarazzato, ecco. Non voleva vedermi, né parlarmi... né lui, né i suoi genitori. Non era un tipo esattamente... non so come dire, un bullo, ecco, piuttosto ottuso. Non credo che Martin l'avesse mai avuto in particolare simpatia, anche se non lo diceva. Ed era pieno di foruncoli... Oh, certo non era colpa sua, non so proprio perché ne ho parlato.»

Infatti si era chiesta per quale motivo avesse tirato fuori l'argomento. Per la prima volta dopo tutti quegli anni. E la sua ossessione per il ragazzo... non l'aveva mai confidata ad anima viva.

Alice aveva detto: «È un peccato che tuo marito non l'abbia lasciato affogare e non abbia pensato a salvarsi: ma credo che sul momento non abbia soppesato il valore relativo di una carriera utile all'insegnamento e di uno stupido coi pedicelli».

«Doveva lasciarlo affogare? Di proposito? Oh, Alice, sai bene che neppure tu ne saresti capace.»

«Forse no. Sono capace di commettere pazzie irrazionali. Con ogni probabilità lo trascinerei a riva, se riuscissi a farlo senza espormi a un grave pericolo.»

«Ma è naturale, è sicuramente un istinto umano, cercare di salvare gli altri. Specie se si tratta di un bambino.»

«È un istinto umano e secondo me molto più sano cercare innanzitutto di salvare se stessi. Ecco perché, quando qualcuno non lo fa, lo proclamiamo eroe e gli diamo una medaglia: perché sappiamo che agisce contro natura. Non capisco come tu possa avere una visione così straordinariamente benevola dell'universo.»

«Davvero? Be', sì, in fondo credo di averla. Tranne nei due anni dopo la morte di Martin, ero e sono sempre riuscita a credere che nel cuore dell'universo ci sia solo amore.»

«Nel cuore dell'universo c'è la crudeltà. Noi siamo predatori e prede... e questo vale per ogni essere vivente. Sapevi che le vespe depongono le uova nelle coccinelle trapassando i punti deboli della loro corazza? Poi la larva si sviluppa e si nutre della coccinella viva, e alla fine esce, legandole insieme le zampe. Chiunque abbia saputo concepire un'idea simile, di certo doveva possedere uno strano senso dell'humor, ammettilo. E non citarmi Tennyson, per favore!»

«Forse la coccinella non se ne accorge nemmeno.»

«Be', è un pensiero confortante, ma non ci scommetterei. Devi aver avuto un'infanzia molto felice.»

«Oh, sì! Sono stata molto fortunata. Mi sarebbe piaciuto avere fratelli e sorelle, ma non ricordo di aver mai sofferto di solitudine. Non c'era molto denaro, ma tanto amore.»

«È così importante, l'amore? Eri insegnante, questo dovresti saperlo. È così importante?»

«È vitale. Se un bambino è amato per i primi dieci anni di vita, tutto il resto non conta molto. Se invece non lo è, il resto non serve a nulla.»

C'era stato un attimo di silenzio, poi Alice aveva detto: «Mio padre morì in seguito a un incidente quando avevo quindici anni.»

«Oh, è terribile. Che incidente? E tu c'eri? L'hai visto?»

«Si tagliò un'arteria con una roncola. Morì dissanguato. No, non lo vedemmo, arrivammo subito dopo. Troppo tardi, naturalmente.»

«C'era anche Alex, allora, ed era ancora più giovane. Dev'essere stato spaventoso.»

«Ha lasciato un bel segno nelle nostre vite, senza dubbio, soprattutto nella mia. Perché non assaggi uno di questi biscotti? È una ricetta nuova, ma non sono sicura che siano venuti bene. Sono un po' troppo dolci, devo aver esagerato con lo zucchero e le spezie. Dimmi cosa ne pensi.»

Richiamata al presente dal freddo del pavimento che le intirizziva i piedi, mentre allineava con gesti automatici i manici delle tazze, Meg si rese all'improvviso conto del motivo per cui le era tornato in mente quel pomeriggio di luglio, al Martyr's Cottage. I biscotti che avrebbe aggiunto al vassoio l'indomani mattina erano frutto di una nuova infornata di Alice. Ma li avrebbe pescati dal barattolo soltanto la mattina dopo. Per quella notte non le restava altro da fare che riempire la borsa dell'acqua calda. Nella Vecchia Canonica non c'era riscaldamento centrale, e lei accendeva raramente la stufetta elettrica nella sua camera, perché sapeva che i Copley si adiravano all'arrivo della bolletta della luce. Stringendosi al petto la borsa, controllò i catenacci delle due porte e salì la scala per andare a letto. Sul ballatoio incontrò la signora Copley in vestaglia, furtivamente diretta in bagno. Sebbene a pianterreno ci fosse un gabinetto, l'edificio aveva un solo bagno vero e proprio, cosa che imponeva imbarazzate consultazioni non appena qualcuno, concedendosi un relax fuori programma, osava sovvertire le regole e i turni scrupolosamente studiati dalla famiglia. Meg attese fino a quando udì richiudersi la porta della stanza da letto padronale, poi uscì.

Un quarto d'ora più tardi era sotto le coperte. Sapeva di essere molto stanca, anche se fisicamente non le sembrava, e riconosceva i sintomi di un cervello iperstimolato su un corpo esausto, mentre le gambe scalpitavano irrequiete senza riuscire a trovare una posizione comoda. La Vecchia Canonica era troppo all'interno perché si potesse udire lo scroscio delle onde, ma l'odore e il rombo del mare erano lo stesso sempre presenti. D'estate il promontorio vibrava di un dolce e ritmico mormorio che, nelle notti di tempesta o durante le maree primaverili, si trasformava in un gemito rabbioso. Meg dormiva sempre con la finestra aperta, e si addormentava cullata da quel sottofondo. Quella notte, però, nemmeno la voce del mare aveva il potere di conciliarle il sonno. Il libro che teneva sul comodino e che spesso aveva riletto era La piccola casa di Allington, di Anthony Trollope, ma ora non riusciva a lasciarsi trasportare nel mondo rassicurante e nostalgico del Barsetshire per giocare a croquet sul prato della signora Dale e pranzare al tavolo di quel gentiluomo. I ricordi della serata erano ancora troppo vivi e traumatizzanti, troppo eccitanti e recenti perché il sonno potesse facilmente giungere a placarli. Aprì gli occhi nell'oscurità, un'oscurità che spesso si popolava di visi infantili adombrati da un'aria di rimprovero, visi bianchi, bruni e neri che si chinavano verso di lei, le chiedevano perché li avesse abbandonati e le dicevano che le avevano voluto bene così come pensavano che lei ne avesse voluto a loro. Liberarsi di quei fantasmi gentili e accusatori era un sollievo, e negli ultimi mesi le avevano fatto visita più raramente. Talvolta, però, i volti dei bambini erano sostituiti da un ricordo ben più drammatico. La direttrice aveva cercato di convincerla a partecipare a un corso di coscienza razziale... lei, che per più di vent'anni aveva insegnato a bambini di tutte le razze. C'era stata una scena che per mesi e mesi aveva risolutamente cercato di scacciare dalla mente, quell'ultimo incontro nella sala insegnanti, il cerchio di facce implacabili, dalla pelle chiara e scura, gli occhi pieni di risentimento, le domande incalzanti. Sfinita da quella aggressione, Meg si era ritrovata a piangere disperatamente. Nessun esaurimento nervoso, quell'utile eufemismo, era stato più umiliante.

Ma stanotte, anche quel ricordo era sostituito da visioni più recenti e inquietanti. Scorgeva ancora la figura della giovane donna stagliarsi di profilo contro i muri dell'abbazia, e dileguarsi poi come un fantasma per confondersi con le ombre della spiaggia. Le sembrava di essere ancora seduta a cena, e alla luce delle candele vedeva gli occhi scuri e insoddisfatti di Hilary Robarts fissi su Alex Mair; e il volto di Miles Lessingham stranamente illuminato dai riflessi del focolare, vedeva le sue mani tendersi a prendere la bottiglia di Borgogna, udiva la sua voce alta ma misurata ripetere cose incredibili. E poi, mentre stava per addormentarsi, le parve di camminare con lui tra i cespugli di quel bosco spaventoso, sentì i rovi che le graffiavano le gambe, i bassi rami che le sferzavano le guance, e lo guardava mentre il fascio di luce della torcia elettrica si abbassava illuminando il volto grottesco e mutilato. In quel mondo crepuscolare, tra il sonno e la veglia, seppe all'improvviso di conoscere quel volto: era il suo. Tornò alla piena coscienza con un grido soffocato di terrore, accese la lampada del comodino, prese il libro e cominciò risolutamente a leggere. Mezz'ora dopo, il libro le scivolò fra le mani e Meg piombò nel primo e inquieto sonno di quella lunga notte.

 

16

 

Ad Alex Mair bastarono due minuti disteso sul letto per rendersi conto che difficilmente il sonno sarebbe venuto. Non aveva mai sopportato di rimanersene sdraiato a occhi aperti. Gli era sufficiente dormire poco, ma doveva essere un sonno profondo. Buttò le gambe giù dal letto, prese la vestaglia e andò alla finestra. Avrebbe guardato il sole sorgere sul Mare del Nord. Pensò alle ultime ore, al sollievo della conversazione con Alice, con la consapevolezza che nulla la scandalizzava e la sorprendeva e che qualunque cosa facesse, anche se alla sorella non sembrava giusto, veniva giudicato secondo un criterio diverso da quello che lei applicava rigorosamente al resto della propria vita.

Il segreto che esisteva tra loro, quei minuti in cui l'aveva bloccata, tremante, contro il tronco del melo e l'aveva fissata diritto negli occhi per imporle l'obbedienza, li aveva uniti con un legame tanto forte, che non poteva essere intaccato neppure dall'enormità di quella colpa inconfessata o dai piccoli attriti della vita in comune. Tuttavia, non avevano mai parlato della morte del padre. Lui non sapeva se Alice ci pensava ancora o se il trauma aveva cancellato dalla sua mente il ricordo di quel giorno, inducendola a credere nella versione dei fatti da lui formulata e radicando la menzogna nell'inconscio per trasformarla in verità. Quando, poco dopo il funerale, nel vederla così calma Alex aveva concepito per la prima volta quella possibilità, era rimasto sorpreso dalla propria riluttanza a credervi. Non voleva la gratitudine di Alice, era degradante persino immaginare che lei potesse sentirsi in obbligo verso di lui. Obbligo e gratitudine erano due parole che non avevano mai avuto bisogno di usare. Ma Alex Mair voleva che lei sapesse e ricordasse. Per lui quell'atto era stato così mostruoso e sbalorditivo, che sarebbe stato intollerabile non poterlo spartire con anima viva. In quei primi mesi aveva desiderato che Alice fosse cosciente dell'atrocità da lui perpetrata, e del fatto che l'aveva perpetrata per lei e solo per lei.

Poi, sei settimane dopo il funerale, all'improvviso era riuscito a credere che non fosse accaduto, almeno non in quel modo, e che l'intero orrore fosse una sua mera fantasia infantile. La notte restava sveglio e vedeva la figura del padre accasciarsi a terra, il fiotto di sangue simile allo zampillo scarlatto di una fontana, e udiva le sue parole, i suoi ultimi, aspri sussurri. In quella versione riveduta e corretta, c'era stato un secondo d'indugio, non di più, poi lui era corso a casa per invocare aiuto. C'era anche una seconda fantasia, ancora più incredibile, in cui lui si inginocchiava accanto al padre e gli premeva il pugno contro l'inguine, per bloccare l'emorragia, mormorando parole rassicuranti ai suoi occhi ormai quasi spenti. Naturalmente, anche così non riusciva ad arrivare in tempo, ma almeno ci aveva provato. Aveva fatto del suo meglio. Il coroner poi lo elogiava, quell'ometto meticoloso dagli occhiali a lunetta, la faccia da verboso pappagallo: «Mi congratulo con il figlio del defunto che ha saputo intervenire con encomiabile prontezza e coraggio, facendo tutto il possibile per salvare il proprio padre».

Il sollievo di poter credere nella propria innocenza era stato dapprima così grande che per qualche tempo ne era stato sopraffatto. Per molte notti, a letto, si era abbandonato al sonno in preda all'euforia. Ma anche allora aveva saputo che quell'assoluzione accordata a se stesso era una specie di droga entrata in circolo nel suo sangue, confortante e facile, ma non per lui. Presentava tra l'altro un pericolo ancora più distruttivo del rimorso. Si era detto: "Non devo mai credere che una menzogna sia la verità. Posso dire menzogne per tutta la vita, se questo può tornarmi utile, ma devo riconoscerle per ciò che sono e non devo mai raccontarle a me stesso. I fatti sono fatti. Devo accettarli e affrontarli e imparare a risolverli. Posso cercare le ragioni di ciò che ho fatto e chiamarle giustificazioni: quello che lui faceva ad Alice, il modo in cui trattava la mamma, il mio odio verso di lui. Posso tentare di giustificare la sua morte, almeno davanti a me stesso, ma ho fatto ciò che ho fatto, e lui è morto come è morto".

E quell'accettazione aveva portato con sé una sorta di pace. Dopo qualche anno era stato libero di credere che lo stesso rimorso fosse un lusso, che non era obbligato a soffrire a meno di non volerlo esplicitamente. E poi era venuto un tempo in cui aveva provato addirittura orgoglio per il coraggio e l'audacia, per la risolutezza che avevano reso possibile ciò che era stato. Ma sapeva che anche questo era pericoloso. Per anni, in seguito, aveva dunque pensato molto poco a suo padre. Sua madre e Alice non parlavano mai di lui se non in compagnia di conoscenti che si sentivano in dovere di presentare imbarazzate condoglianze a cui era impossibile sottrarsi.

Un anno dopo la morte di suo padre, sua madre aveva sposato Edmund Morgan, un organista vedovo di un grigiore sconcertante, e si era ritirata con lui a Bognor Regis, dove vivevano con il denaro dell'assicurazione in uno spazioso bungalow con vista sul mare, e in un'ossessiva devozione reciproca che rispecchiava l'ordine e il lindore del loro piccolo mondo. Parlando del nuovo marito, sua madre lo chiamava sempre "il signor Morgan". «Se non ti parlo di tuo padre, Alex, non è perché io l'abbia dimenticato, ma solo perché al signor Morgan non farebbe piacere.» Alex e Alice si ripetevano spesso quella frase, e il lavoro di Morgan offriva loro infinite possibilità di battute adolescenziali. Quando la madre e il patrigno erano partiti in luna di miele, lui e la sorella non si erano certo risparmiati osservazioni del tipo: «Immagino che il signor Morgan ci dia dentro a tutta canna», «Pensi che il signor Morgan si stia allenando per qualche nuova performance?», o ancora: «Povero signor Morgan, che faticaccia: prima o poi gli mancherà il fiato». Erano ragazzi guardinghi e reticenti, eppure quelle battute provocavano loro autentiche crisi di ilarità isterica. Il signor Morgan e il suo organo avevano anestetizzato l'orrore del loro passato.

E poi, verso i diciotto anni, un'altra verità si era imposta, e Alex si era detto a voce alta: «Non l'ho fatto per Alice, ma per me stesso», meravigliandosi del fatto che fossero occorsi quattro anni per scoprirlo. Eppure, ancora non sapeva se si trattasse della verità o di una semplice speculazione psicologica che, in particolari stati d'animo, trovava interessante contemplare.

Adesso, guardando il cielo che, a oriente, cominciava a colorarsi della prima sfumatura dorata dell'aurora, disse: «Ho deliberatamente lasciato che mio padre morisse. Questo è l'unico dato di fatto: tutto il resto, sono pure fantasie prive di scopo pratico». Se fossimo i protagonisti di un romanzo, pensò, io e Alice saremmo tormentati dal nostro segreto, diffidenti l'uno verso l'altro, oppressi dal senso di rimorso, saremmo incapaci di vivere separati e tuttavia infelici l'uno accanto all'altro. Invece, dopo la morte del padre tra lui e la sorella aveva regnato uno spirito cameratesco, affetto e pace.

Adesso, a quasi trent'anni di distanza, quando pensava ormai di avere da lungo tempo intimamente accettato la realtà del proprio gesto, la memoria aveva cominciato ad agitarsi di nuovo. Lo spunto era stato il primo delitto del Fischiatore. La parola "omicidio", che affiorava continuamente sulle labbra di qualcuno come una squillante maledizione, sembrava avere il potere di evocare le immagini semicancellate del volto di suo padre, immagini confuse e sfocate come una vecchia fotografia. Ma negli ultimi sei mesi, l'immagine di suo padre aveva ripreso a insinuarsi nella sua coscienza anche nei momenti meno prevedibili: durante una riunione, nella sala del consiglio d'amministrazione, richiamata da un gesto casuale, dall'abbassarsi di una palpebra, dal tono di una voce, dalla forma di una bocca, dalla forma delle dita di una mano tesa davanti al fuoco di un camino. Lo spettro del padre era tornato ad apparire nell'intrico delle foglie della tarda estate, e vi era rimasto anche quando le foglie erano cadute ed erano arrivati i primi, incerti odori dell'autunno. Si chiedeva se ad Alice stesse accadendo la stessa cosa. Nonostante la comprensione reciproca, nonostante la certezza di essere irrevocabilmente legati l'uno all'altra, quella era l'unica domanda che sapeva di non dover mai porre alla sorella.

E c'erano altre domande, una in particolare, che non doveva temere di sentirsi porre da lei. Alice non provava curiosità per la sua vita sessuale. Le sue conoscenze di psicologia erano sufficienti per avere almeno una vaga idea degli effetti che quelle prime, vergognose e terrificanti esperienze dovevano aver sortito sulla sorella. A volte pensava dunque che Alice guardasse alle sue relazioni amorose con una sorta di noncurante e divertita indulgenza, come se lei, immune a una debolezza di certo infantile, non fosse tuttavia disposta a criticarla negli altri. Una volta, dopo il divorzio del fratello, aveva detto: «Trovo straordinario che un sistema così semplice, per quanto inelegante, di assicurare la sopravvivenza della specie debba coinvolgere gli esseri umani in un simile tumulto emotivo. È necessario prendere tanto sul serio il sesso?». E ora, Alex si ritrovava a chiedersi se sua sorella sapesse o immaginasse della sua storia con Amy. Poi, mentre il globo fiammeggiante si alzava dal mare, gli ingranaggi del tempo slittarono, si mossero a ritroso, e Alex venne scaraventato indietro di cinque giorni quando giaceva sdraiato con Amy fra le dune ad annusare l'odore della sabbia e dell'erba, l'odore salmastro del mare, mentre il tepore del tardo pomeriggio svaniva dall'aria autunnale. Poteva ricordare ogni frase, ogni gesto, il timbro delle loro voci, e risentire i peli delle braccia rizzarsi per l'eccitazione di quel contatto.

 

17

 

Si girò verso di lui, con la testa appoggiata alla mano, e Alex Mair osservò la luce intensa del pomeriggio sfumare d'oro i suoi capelli corti e tinti. Il caldo stava svanendo ed egli sapeva che era giunto il momento di andare. Ma sdraiato accanto a lei ad ascoltare il sussurro della marea e a guardare il cielo attraverso i fili d'erba, si sentiva pervaso non già dalla tristezza dell'amore ormai consumato, ma da un piacevole languore, come se la domenica pomeriggio ormai trascorsa si aprisse ancora davanti a loro nella sua interezza.

Amy disse: «Senti, è meglio che torni indietro. Ho detto a Neil che non sarei stata via più di un'ora e se non mi vede arrivare gli prende l'agitazione. Sai, è per via del Fischiatore».

«Il Fischiatore colpisce di notte, non di giorno. E difficilmente si avventurerebbe qui, sul promontorio. C'è troppa poca vegetazione per nascondersi. Ma Pascoe ha ragione di preoccuparsi. Anche se il pericolo non è grande, non dovresti girare da sola, la notte. Nessuna donna dovrebbe più farlo finché non l'avranno catturato.»

«Vorrei tanto che lo prendessero. Per Neil sarebbe una preoccupazione in meno.»

Alex assunse un tono volutamente noncurante. «Non ti chiede mai dove vai, quando la domenica pomeriggio sparisci e lo lasci solo ad accudire il bambino?»

«No. E il bambino si chiama Timmy. E poi io non sparisco: dico che vado, e vado.»

«Sì, ma lui si chiederà qualcosa...»

«Certo, ma pensa che ognuno abbia diritto alla propria privacy. Gli piacerebbe farmi domande, ma si trattiene. A volte gli dico: "Bene, vado a farmi una scopata con il mio amante sulle dune". Ma lui non dice niente, fa solo quella faccia infelice perché non gli va che io dica "scopata".»

«E allora perché lo dici? Perché lo tormenti? Credo che lui ti sia molto affezionato.»

«No, non lo è. Non molto. Vuole bene a Timmy. E che altra parola dovrei usare? Non puoi certo chiamarlo "andare a letto", questo. Sono venuta a letto con te una volta sola, e tu eri nervoso come una pantera al pensiero che tua sorella potesse tornare prima del previsto. Oltretutto non dormiamo nemmeno insieme...»

«Facciamo l'amore» disse Alex. «O, se preferisci, copuliamo.»

«Davvero, Alex, lo trovo disgustoso. È una parola insopportabile.»

«E con lui lo fai? Ci dormi insieme? Ci vai a letto, ci fai l'amore? Copulate?»

«No, anche se non è affar tuo. Pensa che sarebbe sbagliato. Questo significa che non vuole. Quando gli uomini vogliono, di solito lo fanno.»

«Certo, infatti è il mio caso.»

Rimasero fianco a fianco immobili come due statue, a scrutare il cielo. Lei sembrava contenta di non parlare. E così, alla fine la domanda era stata fatta e aveva ottenuto risposta. Con un senso di vergogna misto a irritazione, Alex Mair aveva per la prima volta riconosciuto in se stesso il morso della gelosia. Ancora più vergognosa era stata la sua riluttanza a metterla alla prova. E c'erano altre domande che avrebbe voluto farle ma non osava. "Che cosa significo per te? È una cosa importante? Cosa ti aspetti da me?". E, soprattutto, la domanda che non poteva avere alcuna risposta: "Mi ami?". Con sua moglie aveva saputo esattamente dove si trovava. Nessun matrimonio era cominciato con un'intesa più definita circa ciò che ognuno voleva dall'altro. Il loro accordo prematrimoniale, mai scritto, mai discusso e solo vagamente riconosciuto, non aveva avuto bisogno di alcuna ratifica formale. Lui avrebbe guadagnato la maggior parte del denaro familiare, lei avrebbe lavorato se e quando avesse voluto. Non era mai stata eccessivamente entusiasta della propria professione: arredatrice. In cambio gli mandava avanti la casa con efficienza e rispettando una certa economia. Almeno ogni due anni avrebbero fatto vacanze separate, avrebbero messo al mondo al massimo due figli e solo quando lei l'avesse deciso; nessuno dei due avrebbe mai umiliato pubblicamente l'altro per una varietà di colpe che andava dagli aneddoti poco veritieri raccontati durante i pranzi con gli amici, alle avventure con partner più o meno occasionali. Si piacevano e avevano tirato avanti senza troppi rancori, e quando lei l'aveva lasciato, Alex era rimasto sinceramente sconvolto, anche se soprattutto per orgoglio. Per fortuna il fallimento matrimoniale era stato mitigato dal fatto che tutti sapevano quanto fosse ricco l'amante di lei. Alex Mair si rendeva conto che, in una società materialista, perdere la moglie a causa di un miliardario non poteva essere considerato un insuccesso. Agli occhi dei suoi amici, se non l'avesse lasciata andare senza sollevare troppo polverone sarebbe stato un marito irragionevole. Ma per renderle giustizia, Liz amava veramente Gregory e l'avrebbe seguito in California anche se non avesse avuto il becco di un quattrino. Rivedeva ancora nel ricordo il suo viso trasformato e sorridente, risentiva la sua voce assumere toni di scusa.

«Questa volta è un sentimento vero, caro. Non lo prevedevo e ancora non riesco a crederlo. Non prendertela troppo, non è colpa tua. Non c'è niente da fare.»

Un sentimento vero. Dunque era quello, il misterioso sentimento vero davanti al quale tutto il resto cadeva: obblighi, abitudini, responsabilità, doveri. E adesso, mentre giaceva fra le dune e guardava il cielo attraverso gli steli rigidi dell'erba, Alex Mair ci pensava quasi con terrore. Sicuramente lui non l'aveva ancora trovato con quella ragazza che aveva la metà dei suoi anni, era intelligente ma ignorante, molto disponibile e con un figlio illegittimo. Non s'illudeva sulla natura della presa che Amy aveva su di lui. Non aveva mai vissuto nulla di più erotico e liberatorio dei loro accoppiamenti semi-illeciti sulla sabbia compatta delle dune, a pochi metri dallo scrosciare delle onde.

A volte si abbandonava alla fantasia e immaginava che fossero insieme a Londra, nel suo nuovo appartamento. Quell'appartamento che in realtà non aveva ancora cercato e che rappresentava soltanto una vaga possibilità fra mille altre, e tuttavia riusciva ad assumere dimensioni e caratteristiche precise, in una realtà tremendamente plausibile in cui si vedeva ad appendere con cura i quadri su una parete inesistente, e pensava a disporre i mobili e l'impianto stereo. L'appartamento si affacciava sul Tamigi. Dalle sue ampie finestre si godeva un panorama sul fiume fino al Tower Bridge, mentre all'interno delle sue mura si stagliava il corpo morbido di Amy striato dalla luce che filtrava dalle stecche delle persiane. C'era il bambino, naturalmente, poiché lei avrebbe desiderato tenerlo con sé. E poi, chi altri avrebbe potuto accudire a lui? Alex riusciva persino a distinguere l'espressione di indulgente divertimento dipinto sul volto degli amici, o il piacere dei suoi nemici, mentre il piccolo si aggirava minacciosamente per casa con le dita appiccicose e impiastricciate di cioccolato. Nell'immaginazione avvertiva ciò che Liz non gli aveva mai lasciato conoscere nella realtà: l'odore di latte e di pannolini sporchi. E così gli si prospettava una inquietante mancanza di pace e intimità. Aveva bisogno che quei sogni tanto lucidi e dettagliati lo riportassero alla ragione. Il fatto di poter contemplare, anche se per pochi minuti, una simile realtà, lo inorridiva facendolo sentire rovinosamente stupido. Pensò: questa ragazza mi ossessiona. Sarebbe stata una fine d'estate molto breve, il sole e il tepore non potevano durare ancora a lungo. Le sere si facevano sempre più buie, e fra poco dal mare sarebbe giunto l'odore acre dell'inverno. Allora sarebbe stato impossibile sdraiarsi ancora su quelle dune. Amy non poteva più tornare al Martyr's Cottage, sarebbe stata un'idiozia, un'imprudenza. Era facile convincersi che quando Alice andava a Londra e non erano previste altre visite, lui e Amy avrebbero potuto condividere la tranquillità della sua camera da letto, magari anche per una notte intera. Ma sapeva che non si sarebbero mai arrischiati a farlo. Ciò che avveniva sul promontorio non restava mai segreto a lungo. Era la sua estate di San Martino, una follia autunnale, e il primo freddo dell'inverno l'avrebbe fatta appassire.

Ma adesso Amy disse, come se tra loro non fosse mai calato il silenzio: «Neil è mio amico, chiaro? Perché ci tieni tanto a parlare di lui?».

«Non è che ci tengo, ma vorrei che vivesse in maniera più decente. Quella roulotte in linea retta davanti alla finestra della mia camera da letto è un vero pugno in un occhio.»

«Per vederla dalla tua finestra dovresti adoperare il binocolo, e se è per quello è un pugno in un occhio anche la tua maledetta centrale. È sotto il naso di tutti, siamo tutti obbligati a vederla.»

Alex le posò la mano sulla spalla, sopra un leggero velo di sabbia, e con ironica pomposità disse: «Molti pensano che, tenuto conto dei limiti imposti dalla funzione e dalla località, la centrale sia un notevole esempio di architettura ben riuscita».

«E chi sarebbero questi molti?»

«Io, tanto per cominciare.»

«Logico, no? E comunque dovresti essere grato a Neil. Se non ci fosse lui a badare a Timmy, io non potrei starmene qui.»

«È molto primitivo. Ha una stufa a legna là dentro, no? Se scoppia, non durerete un minuto, voi tre, soprattutto se la porta si incastra.»

«Non la chiudiamo mai a chiave, non dire scemenze. E la notte lasciamo spegnere il fuoco. Immagina che sia la tua centrale a scoppiare, invece. Non creperemmo solo noi tre, vero? No, diavolo, e non solo gli esseri umani. E Smudge e Whisky? Contano anche loro.»

«Non scoppierà. Hai dato ascolto alle sue scemenze allarmistiche. Se l'energia nucleare ti preoccupa, chiedilo a me. Ti dirò tutto quello che ti interessa sapere.»

«Vuoi dire che mentre mi sbatti mi spiegherai tutto sull'energia nucleare. Allora sì che capirei tutto.»

Poi si girò di nuovo verso di lui. La sabbia le luccicava sulla spalla, e Alex sentì la bocca accostarsi alle sue labbra, lambirgli i capezzoli e scivolargli lungo il ventre. Poi Amy si inginocchiò sopra di lui e la sua faccia tonda e da bambina, incorniciata dalla selva di capelli luminosi, gli nascose la vista del cielo.

Cinque minuti più tardi si staccarono, e Amy prese a scuotere via la sabbia dalla camicetta e dai jeans. «Perché non fai qualcosa per quella strega di Larksoken, quella che ha querelato Neil?» disse. «Potresti fermarla, se tu volessi. In fondo sei il suo capo.»

La domanda, che forse era una vera e propria richiesta, lo strappò alle sue fantasie con la brutalità di uno schiaffo ingiustificato. Nei quattro incontri precedenti, non gli aveva mai fatto domande sul suo lavoro e raramente aveva accennato alla centrale, tranne quando, come quel pomeriggio, si era lamentata in tono scherzoso perché le rovinava il panorama. Alex non aveva deliberatamente deciso di tenerla all'oscuro della propria vita privata e professionale, solo che quando stavano insieme era come se quella vita non esistesse. L'uomo che giaceva con Amy fra le dune non aveva nulla a che fare con lo scienziato ambizioso e calcolatore che dirigeva Larksoken, né con il fratello di Alice, l'ex marito di Elizabeth e l'ex amante di Hilary. Adesso si chiedeva, con un miscuglio di irritazione e sgomento, se lei non avesse invece volutamente scelto di ignorare quegli invisibili cartelli di divieto d'accesso, senza contare che, se lui non si era mai confidato prima, nemmeno lei aveva accennato a farlo. Sapeva di Amy ben poco più del giorno in cui si erano incontrati tra le rovine dell'abbazia, quella ventosa serata d'agosto, meno di sei settimane prima, quando per un minuto si erano fermati a guardarsi per poi muoversi in silenzio l'uno verso l'altra, come guidati da un muto, attonito senso di familiarità. Più tardi, quella sera, Amy gli aveva raccontato che veniva da Newcastle, che suo padre, vedovo, si era risposato e che lei non andava d'accordo con la matrigna. Era andata a Londra e aveva vissuto in appartamenti occupati abusivamente. Gli era sembrata una storia piuttosto banale e non le aveva creduto completamente, ma sospettava che a lei non importasse molto di essere creduta o no. Aveva un accento più londinese che settentrionale. Un po' per delicatezza, ma soprattutto perché preferiva non pensare a lei come a una madre, non le aveva chiesto nulla del bambino, e Amy non gli aveva spontaneamente raccontato nulla di lui né del padre.

«Be', perché non lo fai?» insistette di nuovo. «Come ho detto, non sei il suo capo?»

«Non posso disporre della vita privata dei miei dipendenti. Se Hilary Robarts ritiene di essere stata diffamata e chiede giustizia, non posso certo impedirle di farlo.»

«Oh, sì che potresti, se soltanto volessi. E quello che ha scritto Neil è la verità.»

«È una difesa pericolosa, in una causa per diffamazione. Pascoe sbaglierebbe, se cercasse di servirsene.»

«Quella donna non avrà un soldo, Neil non ne ha. E se dovrà pagare le spese, andrà in rovina.»

«Avrebbe dovuto pensarci prima.»

Amy si riadagiò con un piccolo tonfo. Per qualche minuto rimasero in silenzio. Poi, casualmente, come se la conversazione avesse fino a quel momento sfiorato solo argomenti frivoli e sciocchi, disse: «Allora, domenica prossima? Posso liberarmi nel pomeriggio, sul tardi. Ti va bene?».

Dunque non gli serbava rancore. Non era importante per lei, o se lo era, aveva deciso di lasciar perdere, almeno per il momento. E Alex Mair non poteva allontanare l'insinuante sospetto che il loro primo incontro fosse stato congegnato a bella posta, e fosse parte di un piano più vasto ideato da Amy e dal suo amico Pascoe per sfruttare la sua influenza su Hilary. Tuttavia, quell'idea gli sembrava assurda. Per capire che si trattava di un sospetto paranoico gli bastò ricordare l'inevitabilità del loro primo rapporto, la passione di lei, la gioia animale e priva di complicazioni con cui faceva l'amore. Sarebbe tornato la domenica pomeriggio seguente. Forse sarebbe stata l'ultima volta, anzi, lo aveva ormai quasi deciso. Si sarebbe liberato di quella dipendenza, per quanto dolce, come si era liberato di Hilary. E sapeva, con un rammarico profondo quanto un'angoscia, che in quella separazione non ci sarebbero state proteste e appelli, né disperate invocazioni al passato comune. Amy avrebbe accettato la sua partenza con la stessa calma con cui aveva accolto il suo arrivo.

«D'accordo» disse, «facciamo intorno alle quattro e mezzo. Domenica venticinque.»

Il tempo, che negli ultimi dieci minuti pareva essersi misteriosamente arrestato, riprese così a scorrere a ritmo normale, e Alex si ritrovò alla finestra della sua camera da letto, cinque giorni più tardi, a guardare la grande sfera del sole che saliva dal mare e colorava l'orizzonte, disegnando sul cielo orientale le vene e le arterie di un nuovo giorno. Domenica venticinque. Aveva preso quell'appuntamento cinque giorni prima, e l'avrebbe mantenuto. Ma allora, mentre giaceva fra le dune, non sapeva ciò che sapeva ora: che quel venticinque settembre, aveva un appuntamento molto diverso da rispettare.

 

18

 

Poco dopo l'ora di pranzo, Meg si avviò verso il Martyr's Cottage. I Copley erano saliti nelle loro stanze per il sonnellino pomeridiano, e per un attimo si era chiesta se non sarebbe stato meglio consigliargli di chiudersi dentro a chiave. Ma poi si era detta che sicuramente era una precauzione ridicola e superflua. Avrebbe sprangato la porta sul retro e chiuso a chiave quella d'ingresso, e in ogni caso non sarebbe rimasta via a lungo. E i Copley erano contenti di restarsene un po' soli. A volte le sembrava che la vecchiaia riducesse le ansie. Quei due anziani signori potevano permettersi di guardare la centrale senza provare un senso di disastro incombente, così come il Fischiatore sembrava lontano dal loro interesse non meno che dalla loro comprensione. L'emozione più grande, per loro, era pianificare con meticolosa attenzione una scappata a Norwich o Ipswich per fare qualche compera.

Era un bel pomeriggio, più tiepido della maggior parte delle giornate di quella deludente estate. Spirava una brezza dolce e di quando in quando Meg si soffermava e alzava la testa per lasciarsi sfiorare le guance dall'aria profumata e dal tepore del sole. Sotto i suoi piedi il terreno era elastico e a sud le pietre dell'abbazia, non più misteriose o sinistre, brillavano dorate contro lo sfondo azzurro e imperturbato del mare.

Non ebbe bisogno di suonare. La porta del Martyr's Cottage era aperta come spesso succedeva con il bel tempo. Chiamò Alice, e quando udì la sua voce si avviò nel corridoio che conduceva in cucina. Il cottage aveva un odore intenso di limone, più forte di quello del solito lucido per mobili, di vino e di fumo di legna che regnava alla Vecchia Canonica. Era un odore tanto acuto, che per un attimo le riportò alla mente il ricordo della vacanza che lei e Martin avevano trascorso ad Amalfi, della camminata, mano nella mano, su per la strada tortuosa, dei mucchi di arance e limoni lungo i bordi della via, di quando aveva accostato le narici alle bucce dorate e butterate, ridendo di felicità. L'immagine conservava una vivida sfumatura dorata e l'intensità di una vampata di calore sul viso. Per un attimo rimase sulla soglia della cucina, esitante e disorientata. Poi la vista si schiarì e vide gli oggetti ormai divenuti familiari, il vecchio forno e la stufa a gas, i piani di lavoro, il tavolo di quercia lucida al centro della stanza, le quattro eleganti sedie, e in fondo l'ufficio di Alice, con le pareti foderate dalle librerie e la scrivania carica di bozze. Alice era in piedi accanto al tavolo e indossava un lungo abito color nocciola.

«Come vedi, sto preparando il lemon curd» disse. «A me e ad Alex piace mangiarlo ogni tanto, e io mi diverto a farlo, quindi credo sia una giustificazione sufficiente per il disturbo che mi comporta.»

«Noi non lo mangiavamo quasi mai... io e Martin, voglio dire. Non credo di averlo più assaggiato da quando ero bambina. Mia madre lo comprava, a volte, per il tè della domenica.»

«Se tua madre lo comprava, allora non sai com'è il suo vero sapore.»

Meg rise e sedette sulla poltrona di vimini a sinistra del camino. Non chiedeva mai se poteva dare una mano in cucina perché sapeva che Alice si sarebbe irritata davanti a un'offerta insincera e di fatto poco pratica: l'aiuto non era necessario, né gradito. E poi, a Meg piaceva stare seduta in silenzio a osservare. Forse, si diceva, a rendere così rassicurante la vista di una donna al lavoro nella propria cucina era un ricordo dell'infanzia. Se così era, i bambini moderni venivano privati di un'altra fonte di conforto, nel loro mondo sempre più spaventoso e disordinato.

«Mia madre non preparava il lemon curd, ma le piaceva cucinare» disse. «Cose molto semplici, però.»

«Sono le più difficili. E immagino che tu la aiutassi. Mi sembra di vederti, con il grembiulino, mentre prepari gli omini di pan di zenzero.»

«Mi lasciava un pezzo di impasto ogni volta che faceva i dolci. Quando finivo di stenderlo e modellarlo era diventato nocciola. Lo usavo per preparare i biscotti con gli stampini. E, sì, facevo gli omini di pan di zenzero con i chicchi di ribes al posto degli occhi. Tu no?»

«No. Mia madre non passava molto tempo in cucina. Non era una brava cuoca e le critiche di mio padre distruggevano quella poca sicurezza che possedeva. Lui pagava una donna del posto perché venisse tutti i giorni a cucinare la cena, di fatto l'unico pasto che si consumava in casa tranne di domenica. Per i fine settimana la donna non veniva e allora si mangiava tutti insieme in un'atmosfera non tanto piacevole. Era una strana combinazione, e la signora Watkins era una donna particolare. Una brava cuoca, certo, ma quando lavorava era sempre di malumore e non le piaceva che noi bambini le stessimo intorno. Io iniziai a interessarmi di cucina solamente quando stavo per laurearmi in lingue moderne a Londra, e passai un semestre in Francia. Proprio così, fu quasi per caso. Trovai la mia passione una cosa necessaria. Così non sarei stata costretta a insegnare, a tradurre o a diventare la segretaria di qualcuno.»

Meg non rispose. Alice aveva parlato della sua famiglia e del suo passato solo una volta prima di allora, e sentiva che i commenti o le domande avrebbero potuto indurla a pentirsi di quel raro momento di confidenza. Si appoggiò alla spalliera e restò a guardare mentre le sue agili mani si muovevano con sicurezza. Davanti ad Alice, sul tavolo, c'erano otto grosse uova in una ciotola blu, e accanto un piatto con un pezzo di burro e un altro con quattro limoni. Alice strofinava i limoni con zollette di zucchero fino a farle sgretolare e cadere in una ciotola; allora ne prendeva un'altra e ricominciava con pazienza la stessa procedura.

«Ne verrà più o meno un chilo» disse. «Te ne darò un barattolo da portare ai Copley, se pensi che possa piacergli.»

«Oh, gli piacerebbe di sicuro, ma credo che lo mangerò tutto da sola. Sono appunto venuta a dirtelo, non posso trattenermi a lungo. La figlia insiste perché vadano a stare da lei fino a che non sarà stato catturato il Fischiatore. Ha telefonato stamattina presto, appena ha appreso la notizia dell'ultimo delitto.»

«Senza dubbio, il Fischiatore si sta avvicinando troppo, ma non credo che corrano rischi seri. E poi va a caccia solo di notte, e le sue vittime sono donne giovani. I Copley non escono neppure, se non sbaglio, a meno che non li porti tu in macchina, vero?»

«A volte passeggiano lungo il mare, ma di solito se ne stanno in giardino. Ho cercato di convincere Rosemary Duncan-Smith che non corrono pericoli e che nessuno di noi ha paura, ma credo che gli amici la critichino perché finora ha permesso ai suoi di restare qui.»

«Capisco. Lei non li vorrebbe in casa, loro non vogliono andare, ma bisogna tener buoni gli amici.»

«Secondo me, è una di quelle donne energiche ed efficienti che non tollerano le critiche. E, per essere sincera, credo sia veramente preoccupata.»

«E quando partono?»

«Domenica sera. Li porterò in macchina a Norwich in tempo per il treno delle otto e mezzo, che arriva a Liverpool Street alle dieci e cinquantotto. La figlia sarà là ad aspettarli.»