Visioni di robot

(Robot Visions, 1990)

 

 

di Isaac Asimov

 

 

 

Illustrazioni di Ralph McQuarrie

Traduzioni di: Piero Cavallari, Gianpaolo Cossato, Sandro Sandrelli

Laura Serra (Il Robot scomparso)

 

 

 


Indice

 

Introduzione

Cronache robotiche

 

Parte prima

Visioni di robot

Così non va

Robbie

Essere razionale

Bugiardo!

Circolo vizioso

La prova

Il robot scomparso

Conflitto evitabile

Intuito femminile

L'uomo bicentenario

Un giorno...

Finalmente!

Il segregazionista

Immagine speculare

Lenny

Il correttore di bozze

Natale senza Rodney

 

Parte seconda

I robot che ho conosciuto

I nuovi docenti

Quel che desideriamo

Farsi gli amici

I nostri intelligenti attrezzi

Le leggi della robotica

Futuro fantastico

La macchina e il robot

La nuova professione

Il robot come nemico?

Intelligenze insieme

I miei robot

Le leggi dell'umanica

Organismo cibernetico

Il senso dell'umorismo

Rapporti fra robot

 


               INTRODUZIONE

               CRONACHE ROBOTICHE

Che cos'è un robot? Potremmo definirlo in breve e in maniera esaustiva un oggetto artificiale che somiglia a un essere umano.

Quando si parla di somiglianza, però, siamo soliti pensare all'aspetto esteriore di una cosa. Un robot somiglia fisicamente a un essere umano.

Un robot potrebbe essere rivestito di un materiale morbido simile alla pelle umana, potrebbe avere i capelli, gli occhi, una voce e tutte le altre caratteristiche peculiari degli uomini. E un robot di tal fatta sarebbe indistinguibile da un essere umano, almeno da un punto di vista fisico.

Ma non è questo il punto. Il robot dei racconti di fantascienza è quasi sempre di metallo e la sua somiglianza con gli esseri umani è soltanto stilizzata.

Supponiamo allora di mettere da parte la questione dell'aspetto esteriore e prendiamo in esame soltanto le capacità di un robot. È opinione diffusa che la peculiarità degli automi sia quella di svolgere dei compiti più rapidamente e con maggiore efficienza degli esseri umani. Ma in base a questo ragionamento, qualsiasi macchina potrebbe essere considerata un robot. Una sega elettrica taglia il legno più velocemente di un uomo, un martello pneumatico buca una superficie dura più rapidamente di quanto non riesca a fare un uomo a mani nude, un apparecchio televisivo può captare e organizzare le onde radio mentre noi non ne siamo capaci, e gli esempi potrebbero continuare.

Quindi il termine robot va applicato a una macchina più specializzata di un normale apparecchio. Un robot è una macchina computerizzata capace di svolgere quei compiti che soltanto gli uomini, tra gli esseri viventi, riescono ad assolvere, compiti di una tale complessità che nessuna macchina non computerizzata è in grado di affrontare.

In estrema sintesi possiamo dire che un robot è una macchina controllata da un computer.

Ma prima dell'invenzione del computer, avvenuta negli anni Quaranta, non era possibile costruire un vero robot, e solo negli anni Settanta, quando cominciarono a diffondersi i microprocessori, i robot divennero abbastanza piccoli ed economici da permetterne l'impiego su vasta scala.

Tuttavia il concetto di robot, inteso come un congegno che mima le azioni di un uomo e, in certi casi, gli somiglia fisicamente, si perde nella notte dei tempi. Forse è vecchio quanto la fantasia umana.

Gli antichi, non potendo disporre dei computer, dovettero trovare altre soluzioni per instillare abilità quasi-umane negli oggetti artificiali, e fecero ricorso a vaghe forze soprannaturali e a poteri divini che non erano alla portata degli uomini.

Così, nel diciottesimo libro dell'Iliade, Omero parla di Efesto, il dio greco del fuoco e dell'arte metallurgica, e dice che le sue aiutanti sono "una coppia di vergini... fatte d'oro e identiche a due ragazze viventi; ragionano, parlano e usano i muscoli, sanno tessere, filare e fare altri lavori...". Le aiutanti di Efesto sono senza dubbio dei robot.

I cretesi, all'epoca del massimo splendore dell'isola, sembrava avessero un gigante di bronzo, Talos, che pattugliava incessantemente le spiagge per respingere gli attacchi dei nemici.

La letteratura antica e quella medievale ci forniscono moltissimi esempi di uomini di cultura che, in virtù di arti segrete, avevano creato oggetti artificiali animati. Queste arti conferivano loro poteri divini o demoniaci.

 


La storia sui robot di epoca medievale a noi più nota è quella del Rabbino Loew, ambientata nella Praga del sedicesimo secolo. Il Rabbino foggia con la creta un essere umano artificiale, un robot, proprio come Dio aveva creato Adamo. Un oggetto di creta, tuttavia, per quanto potesse somigliare a un essere umano, restava una "sostanza informe" (il termine ebraico è "golem") in quanto gli mancavano gli attributi della vita. Il Rabbino Loew dà al suo golem questi attributi invocando il nome sacro di Dio, e affida al robot il compito di proteggere la vita degli ebrei perseguitati.

Tuttavia c'era sempre una certa preoccupazione quando gli esseri umani cercavano di appropriarsi di conoscenze che erano appannaggio degli dèi o dei demoni. C'era la sensazione che fosse una pratica pericolosa, che quelle forze potessero sfuggire al controllo degli uomini. La leggenda “dell'apprendista stregone" rappresenta l'esempio a noi più familiare di questa situazione. L'apprendista stregone è un giovane che conosce le arti magiche abbastanza bene per avviare un processo, ma che poi non è in grado di fermare questo processo quando la sua utilità si è esaurita.

Gli antichi si rendevano conto del pericolo e ne erano spaventati. Nel mito ebraico di Adamo ed Eva, essi commettono il peccato di appropriarsi della conoscenza (la mela è il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male) e per questo vengono espulsi dal Paradiso Terrestre infettando così, secondo i teologi cristiani, tutta l'umanità con il peccato originale.

Nella mitologia greca è Titano, o Prometeo, a far conoscere il fuoco (e quindi la tecnologia) agli esseri umani, e per questo viene terribilmente punito da Giove, il capo degli dèi.

Al principio dell'era moderna vennero perfezionati gli orologi meccanici. Così, i piccoli meccanismi che li facevano funzionare (la "orologeria"), vale a dire le molle, gli ingranaggi, gli scappamenti, i denti d'arresto e così via, poterono essere impiegati per mettere a punto altri congegni.

Il Settecento fu l'età dell'oro degli "automi". Si trattava di congegni che, per mezzo di una fonte di energia (una molla o l'aria compressa), potevano svolgere una complicata serie di attività. Si costruirono soldatini che potevano marciare, anatre giocattolo che starnazzavano, nuotavano, bevevano, beccavano ed evacuavano, bambole che riuscivano a infilare la penna nel calamaio e a scrivere una lettera (sempre la stessa, naturalmente). Questi automi vennero presentati al pubblico e riscossero un enorme successo (e in qualche caso fecero la fortuna dei loro costruttori).

Naturalmente era un'attività fine a se stessa, ma servì a mantenere vivo il pensiero che un giorno i congegni meccanici sarebbero potuti diventare molto più di semplici giocattoli.

Intanto la scienza stava compiendo passi da gigante. Nel 1798 l'anatomista italiano Luigi Galvani scopriva che i muscoli morti, stimolati da una scintilla elettrica, si contraevano come se fossero ancora vivi. Era possibile che l'elettricità fosse il segreto della vita?

Si cominciò a pensare che la vita potesse scaturire in modo artificiale grazie ai principi scientifici, e non per l'intervento degli dèi e dei demoni. Questo ragionamento è alla base del libro che alcuni considerano la prima opera di fantascienza: Frankenstein di Mary Shelley, pubblicato nel 1818.

Victor Frankenstein è un anatomista che un giorno decide di raccogliere e cucire insieme frammenti di cadaveri. Sfruttando le nuove scoperte scientifiche (l'autrice non specifica quali), il dottore dà vita alla sua creatura, che nel libro è chiamata semplicemente il "Mostro". Nella versione cinematografica della storia il principio della vita è l'elettricità.

Comunque il passaggio dal soprannaturale alla scienza non eliminò la paura del pericolo inerente alla conoscenza. Il golem del Rabbino Loew perde il controllo e il rabbino deve distruggerlo. Nel moderno racconto della Shelley, il dottore non è altrettanto fortunato. Frankenstein, in preda al panico, abbandona il Mostro e questi, spinto da una rabbia che l'autrice non giustifica affatto, si vendica uccidendo tutte le persone care allo scienziato, compreso lo stesso Frankenstein.

Questo diventò il tema centrale di tutte le storie di fantascienza che seguirono alla pubblicazione di Frankenstein. La creazione dei robot venne considerata l'esempio più evidente dell'arroganza degli uomini che volevano avvolgersi, usando la scienza in modo scorretto, nel manto della divinità. Solo Dio poteva creare un essere umano dotato di anima. Un comune mortale che cercava di imitare il Creatore poteva soltanto produrre una parodia senz'anima che inevitabilmente diventava pericolosa come il Mostro e il golem. La costruzione stessa di un robot rappresentava la punizione finale, e la frase "ci sono cose che all'umanità non è dato sapere" diventò un classico.

Ma fino al 1920 (che per coincidenza è l'anno della mia nascita) nessuno impiegò il termine robot. In quell'anno un drammaturgo cecoslovacco, Karel Capek, scrive R.U.R., un testo teatrale che ha per protagonista un inglese, Rossum, che produce in serie esseri umani artificiali destinati, nelle intenzioni del costruttore, a liberare gli uomini dai lavori più pesanti, in modo da permettere loro di condurre un'esistenza agiata e confortevole.

Capek chiamò i suoi esseri umani artificiali "robot", una parola cecoslovacca che significa "lavoratori forzati" o "schiavi". E infatti la sigla che dà il titolo all'opera teatrale sta per "Rossum's Universal Robots", il nome della fabbrica del protagonista.

In questo testo, tuttavia, quello che chiamo "il complesso di Frankenstein" assume toni ancora più catastrofici. Mentre il Mostro di Mary Shelley distrugge soltanto Frankenstein e la sua famiglia, i robot di Capek cominciano a provare emozioni e, ribellandosi alla loro condizione di schiavi, cancellano la razza umana.

L'opera venne rappresentata nel 1921 e diventò abbastanza popolare (devo dire che quando la lessi la trovai orribile) da far entrare nell'uso comune il termine robot. Da quanto mi risulta, in tutte le lingue si usa la parola "robot" per indicare un essere umano artificiale.

Durante gli anni Venti e Trenta, R.U.R. contribuì a rafforzare il complesso di Frankenstein e le orde di sferraglianti robot assassini continuarono a dominare quasi tutti i racconti del genere (con alcune pregevoli eccezioni come le serie di Lester del Rey ed Eando Binder che avevano come protagonisti rispettivamente “Helen O'Loy” e “Adam Link”).

Negli anni Trenta ero un accanito lettore di fantascienza, così ebbi modo di stancarmi delle trame trite che vedevano i robot recitare il ruolo dei cattivi. Io non li consideravo pericolosi. Per me erano macchine, macchine tecnologicamente avanzate ma pur sempre macchine. Potevano essere pericolose, d'accordo, ma si poteva dotarle di congegni di sicurezza. E se anche questi congegni si fossero rivelati difettosi o inadeguati, o se non avessero retto a stress imprevisti, i costruttori avrebbero potuto sfruttare quest'esperienza per mettere a punto modelli più affidabili.

Dopo tutto le novità presentano sempre un pericolo. La scoperta del linguaggio introdusse la comunicazione, e le bugie. La scoperta del fuoco introdusse la cottura dei cibi, e l'incendio doloso. La scoperta della bussola migliorò la navigazione, e portò alla distruzione delle antiche civiltà del Messico e del Perù. Le automobili sono meravigliosamente utili, ma ogni anno uccidono migliaia di persone. I progressi della medicina hanno salvato la vita a milioni di persone ma hanno intensificato l'esplosione demografica.

In ogni caso i pericoli e gli usi scorretti possono essere usati per dimostrare che "ci sono delle cose che all'umanità non è dato sapere", ma non per questo ci si può spogliare delle conoscenze che abbiamo acquisito e tornare allo stato di australopitechi. E anche da un punto di vista teologico si potrebbe argomentare che Dio non avrebbe dato agli esseri umani un cervello per ragionare se non avesse pensato che quel cervello doveva servire per inventare nuove cose, per utilizzarle in modo saggio, per mettere a punto congegni di sicurezza capaci di prevenire un utilizzo scorretto di queste invenzioni, e per permetterci di fare del nostro meglio nei limiti imposti dalle nostre imperfezioni.

Così, nel 1939, quando avevo diciannove anni, decisi di scrivere una storia che avesse come protagonista un robot utilizzato saggiamente, che non fosse pericoloso e che svolgesse il lavoro per il quale era stato costruito. Avevo bisogno di una fonte di energia, e così inventai il "cervello positronico". Il termine era pomposo, ma indicava una fonte di energia sconosciuta che era utile, versatile, veloce e compatta, proprio come un computer, che non era ancora stato inventato.

La storia finì per chiamarsi Robbie e non venne pubblicata subito, ma io continuai a scriverne altre dello stesso genere (consultandomi con il mio editore, John W. Campbell Jr., che si era fatto prendere dalla mia idea) e alla fine vennero date alle stampe.

Campbell mi spinse a rendere esplicite le mie idee sui fattori di sicurezza, e io lo accontentai nella mia quarta storia sui robot, Circolo vizioso, che apparve nel numero di Astounding Science Fiction del marzo 1942. A pagina 100 di quel numero, nella parte alta della prima colonna (si dà il caso che me ne ricordi perfettamente) uno dei miei personaggi dice a un altro: "Senti, partiamo dalle Tre Leggi Fondamentali della Robotica".

Era la prima volta che il termine "robotica" appariva in un testo scritto, e adesso questa parola è entrata nell'uso comune a indicare la scienza e la tecnologia riguardanti la costruzione, la manutenzione e l'uso dei robot. L'Oxford English Dictionary, nel terzo volume di aggiornamenti, mi riconosce il merito di aver coniato il neologismo.

Naturalmente non mi resi conto che stavo inventando una parola. La mia innocenza giovanile mi fece pensare che quella era la parola adatta, e non pensai minimamente che quel termine non era mai stato usato da nessun altro prima di me.

Le Tre Leggi Fondamentali della Robotica finirono per diventare note come le "Tre Leggi della Robotica di Asimov".

Le cito per intero:

1. Un robot non può recar danno agli esseri umani né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, gli esseri umani ricevano danno.

2. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani tranne nel caso che tali ordini siano in contrasto con la Prima Legge.

3. Un robot deve salvaguardare la propria esistenza, purché ciò non sia in contrasto con la Prima o la Seconda Legge.

Queste leggi si sarebbero rivelate (cosa che non potevo prevedere) le frasi più famose, più citate e più influenti che io abbia mai scritto (e siccome avevo ventuno anni quando le scrissi, spesso mi domando se da allora ho più fatto qualcosa che desse un senso alla mia esistenza).

Le mie storie sui robot ebbero un forte impatto sulla fantascienza. Io scrivevo di robot con notevole distacco emotivo; erano macchine progettate da ingegneri, sollevavano problemi di ingegneria che andavano risolti e gli ingegneri trovavano le soluzioni adeguate. Le storie erano dei ritratti piuttosto convincenti di un futuro tecnologico, e non avevano la pretesa di essere lezioni morali. I robot erano macchine, non metafore.

Ne risultò che tutte le vecchie trame che presentavano i robot come una minaccia scomparvero dalle storie di fantascienza che si trovavano un gradino più in alto della produzione fumettistica. E anche gli altri scrittori cominciarono a considerare i robot delle macchine e non delle metafore. Diventarono comunemente buoni e utili, e solo quando succedeva qualcosa nei loro circuiti potevano rivelarsi pericolosi, fermo restando il fatto che era sempre possibile risolvere le eventuali situazioni di emergenza. Gli altri scrittori non citavano quasi mai le Tre Leggi (tendevano a considerarle di mia proprietà) ma le davano per scontate, proprio come facevano i lettori.

La cosa più sorprendente fu che le mie storie sui robot ebbero un effetto importante sul mondo reale e non solo sulla produzione letteraria.

È risaputo che i primi scienziati che si occuparono di razzi spaziali furono fortemente influenzati dalle storie di fantascienza di H. G. Wells. Allo stesso modo i primi scienziati che si dedicarono alla robotica furono fortemente influenzati dai miei racconti sui robot, nove dei quali vennero raccolti in un'antologia, Io, Robot, pubblicata nel 1950. Si trattava del mio secondo libro, e nei quattro decenni che seguirono ebbe continue ristampe.

Joseph F. Engelberger, che negli anni Cinquanta era uno studente alla Columbia University, si imbatté nel libro e ne restò talmente colpito che decise di dedicare la sua vita ai robot. In quello stesso periodo conobbe a un party George C. Devol Jr., un inventore che si interessava di robot.

Insieme fondarono la Unimation e cominciarono a lavorare per costruire robot funzionanti. Brevettarono molti congegni, e nel 1970 avevano già prodotto tutti i tipi di robot che potevano essere impiegati nei diversi settori. Il problema era che avevano bisogno di computer compatti ed economici, ma l'avvento dei microprocessori rimosse l'ultimo ostacolo. Da quel momento in poi, la Unimation diventò la fabbrica di robot più importante del mondo ed Engelberger si arricchì più di quanto avesse mai sperato.

È sempre stato così gentile da darmi gran parte del merito del suo successo. Ho anche conosciuto altri robotologi come Marvin Minsky e Shimon Y. Nof, i quali hanno ammesso senza problemi quanto sia stata importante per loro la lettura dei miei primi racconti. Nof, un israeliano, mi disse di aver letto Io, Robot nella traduzione in ebraico.

I robotologi prendono molto sul serio le Tre Leggi della Robotica e le considerano il dispositivo ideale a garantire la sicurezza dei robot. Ma per ora i robot industriali sono così semplici che i congegni di sicurezza devono essere collocati esternamente. Tuttavia ci si può aspettare che un giorno i robot arriveranno a essere più versatili e capaci, e quindi le Tre Leggi, o il loro equivalente, finiranno per entrare a far parte dei loro programmi operativi.

Io non ho mai lavorato personalmente con i robot, e non ne ho mai visto uno, però non ho mai smesso di pensare a loro. Fino a oggi ho scritto trentacinque racconti brevi e cinque romanzi che trattano di robot, e oso dire che, se la morte mi risparmierà, ne scriverò altri.

Le mie storie e i miei romanzi sui robot sembrano essere diventati dei classici del genere e, con la pubblicazione dei romanzi della serie Robot City, sono diventati il più ampio universo letterario di altri scrittori. Date le circostanze, può essere utile passare in rassegna le mie storie sui robot e soffermarsi su quelle che ritengo particolarmente significative.

 

1. Robbie. È il mio primo racconto sui robot. L'ho scritto dal 10 al 22 maggio del 1939. Avevo diciannove anni e stavo per diplomarmi. Ebbi qualche problema per farmelo pubblicare, perché sia John Campbell sia la rivista Amazing Stories me lo rifiutarono. Fu Fred Pohl ad accettarlo il 25 marzo del 1940, e il racconto apparve nel numero di Super Science Stories del settembre di quello stesso anno. Pohl, essendo Pohl, cambiò il titolo e chiamò il racconto Uno strano compagno di giochi, ma io lo feci di nuovo diventare Robbie quando lo inclusi in Io, Robot. Da quel momento in poi il titolo è rimasto inalterato.

Oltre a essere il mio primo racconto sui robot, Robbie è importante perché uno dei protagonisti della vicenda, George Weston, per difendere il robot che svolge il ruolo di balia, dice alla moglie: "Lui è costretto a essere fedele, amorevole e gentile. È una macchina costruita per svolgere esclusivamente questo compito". Si tratta del primo accenno a quella che in seguito sarebbe diventata la Prima Legge della Robotica, e del fatto che i robot avevano dei meccanismi di sicurezza interni.

 

2. Essere razionale. Robbie non avrebbe assunto la sua particolare importanza se non avessi scritto altre storie sui robot, soprattutto perché apparve in una delle riviste minori. Ma il mio secondo racconto, Essere razionale, piacque a John Campbell. Dopo qualche piccolo ritocco, apparve sul numero di Astounding Science Fiction dell'aprile 1941, e fu un successo. I lettori si accorsero dei robot positronici, e anche lo stesso Campbell. Questo particolare rese possibile tutto ciò che sarebbe successo in seguito.

 

3. Bugiardo. Nel numero successivo di Astounding, quello del maggio 1941, apparve il mio terzo racconto. È importante perché presenta il personaggio di Susan Calvin, che sarebbe diventata la protagonista principale dei lavori del mio primo periodo. In origine si trattava di una storia un po' goffa, soprattutto perché trattava del rapporto tra i sessi, e io non ero ancora mai uscito con una ragazza. Fortunatamente imparo in fretta, e apportai significative modifiche al racconto prima di includerlo in Io, Robot.

 

4. Circolo vizioso. Il mio successivo racconto importante apparve nel numero di Astounding del marzo 1942. In questa storia enunciai per la prima volta in modo esplicito le Tre Leggi della Robotica. Un personaggio del racconto, Gregory Powell, dice al suo compagno, Michael Donovan: "Senti, partiamo dalle Tre Leggi Fondamentali della Robotica, le leggi impresse nel cervello positronico che regolano il comportamento dei robot". E a quel punto Powell le enuncia.

In seguito le chiamai più semplicemente le Tre Leggi della Robotica, e per me sono importanti per un triplice motivo:

a) Mi hanno guidato nella tessitura delle trame dei miei racconti e mi hanno permesso di scrivere un gran numero di racconti e di romanzi basati sui robot. In questi ho costantemente studiato le conseguenze delle Tre Leggi.

b) Rappresentano la mia più famosa invenzione letteraria e sono state citate a proposito e a sproposito da altri scrittori. Se tutto ciò che ho scritto sarà un giorno dimenticato, le Tre Leggi della Robotica saranno le ultime a scomparire dalla memoria dei posteri.

c) Nel passo di Circolo vizioso che ho citato poc'anzi, comparve per la prima volta in un testo di lingua inglese il termine "robotica". Come ho già detto, sono indicato come l'inventore di questo neologismo (e di "robotico", "positronico" e "psicostoria") dall'Oxford English Dictionary, i cui curatori si sono presi il disturbo di citare per intero le Tre Leggi. (All'epoca di questa fortunata invenzione avevo ventidue anni, e da allora sembra che io non abbia più creato nulla, cosa che fa nascere in me delle penose riflessioni).

 

5. La prova. Questo è l'unico racconto che scrissi durante i miei otto mesi e 26 giorni di servizio militare. A un certo punto convinsi un cortese bibliotecario a farmi restare nei locali della biblioteca durante l'intervallo per il pranzo. È il primo racconto in cui compare un robot umanoide. Stephen Byerley, il robot in questione (anche se nella storia non faccio capire se sia un robot o no), rappresenta il primo passo verso la creazione di R. Daneel Olivaw, il robot umanoide che compare in un gran numero di miei romanzi. La prova apparve nel numero di Astounding Science Fiction del settembre 1946.

 

6. Il piccolo robot perduto. I miei robot tendono a essere delle entità benigne. A mano a mano che scrivevo i miei racconti, essi acquistavano gradualmente qualità morali ed etiche fino a diventare migliori degli uomini (Daneel ha addirittura un carattere che sfiora il divino). Tuttavia non avevo intenzione di limitare la mia sfera di interesse ai robot saggi. Così, seguendo le rotte che mi venivano imposte dai venti selvaggi della mia fantasia, fui capace di vedere i lati peggiori del fenomeno robot.

Un lettore mi ha scritto una lettera di rimprovero perché una mia storia sui robot di recente pubblicazione parlava degli aspetti pericolosi dei robot. Il lettore mi ha accusato di aver perso la mia saldezza.

Che il lettore si sbaglia lo dimostra Il piccolo robot perduto. È un racconto che risale a quasi mezzo secolo fa e il robot svolge il ruolo del cattivo. Il fatto che mi sia interessato del lato oscuro dei robot non dipende da un cedimento dovuto alla vecchiaia. È stata piuttosto una preoccupazione che ha accompagnato costantemente tutta la mia carriera.

 

7. Conflitto evitabile. Era il seguito de La prova e apparve nel numero di Astounding del giugno 1950. Si tratta della prima storia in cui mi sono occupato principalmente di computer (nel racconto li ho chiamati Macchine) piuttosto che di robot. La differenza è minima. Potremmo definire un robot "macchina computerizzata" o "computer mobile". In ogni caso non feci una distinzione precisa, e sebbene le Macchine, che nel racconto non compaiono fisicamente, fossero chiaramente dei computer, inclusi il racconto nell'antologia Io, Robot, e né l'editore né i lettori ebbero da obiettare qualcosa. A onor del vero devo dire che nel racconto compare Stephen Byerley, ma la sua natura di robot non gioca alcun ruolo nella vicenda.

 

8. Diritto di voto. È la prima storia in cui mi occupai di computer in quanto tali, e non pensavo assolutamente che fossero robot. Apparve nel numero di If: Worlds of Science Fiction dell'agosto 1955, e a quel tempo i computer mi erano diventati familiari. Il mio computer, Multivac, era una versione ovviamente più grande e più complessa dell'allora recente Univac. In quel racconto lo descrissi come una macchina gigantesca perdendo così l'occasione di predire la miniaturizzazione dei computer.

 

9. L'ultima domanda. Tuttavia la mia immaginazione non avrebbe continuato a tradirmi ancora per molto. In questo racconto, che apparve nel numero di Science Fiction Quarterly del novembre 1956, parlai della miniaturizzazione dei computer seguendone gli sviluppi per tre milioni di anni, arrivando alla conclusione che scoprirete leggendo la storia. Lo considero senza ombra di dubbio il mio racconto preferito.

 

10. Nove volte sette. La miniaturizzazione dei computer giocò un ruolo marginale in questo racconto. Apparve nel numero di If del febbraio 1958 ed è un'altra delle mie storie preferite. In questo racconto parlo di computer tascabili, che sarebbero apparsi sul mercato solo dieci o quindici anni dopo la pubblicazione di Nove volte sette. Inoltre è una delle storie in cui previdi in modo accurato le implicazioni sociali del progresso tecnologico piuttosto che occuparmi del progresso tecnologico stesso.

In questa storia immaginai che il costante utilizzo di mini-calcolatori potesse compromettere la capacità di far di conto. È una satira in cui si fondono umorismo e sarcasmo, ma onestamente devo dire che non me ne resi conto durante la stesura. Oggi ho un calcolatore tascabile, e pur di lesinare tempo e fatica, lo uso per sottrarre 182 da 854. Nove volte sette è uno dei racconti che compaiono con maggiore frequenza nelle antologie.

Da un certo punto di vista, questa storia mostra i lati negativi dei computer, e in quel periodo scrissi anche dei racconti che trattavano delle possibili vendette di computer o robot vessati dagli uomini. Per quanto riguarda i computer questo accade in Un giorno, che apparve nel numero di Infinity Science Fiction dell'agosto 1956, mentre per i robot (sotto forma di automobile) il racconto è Sally, che apparve nel numero di Fantastic del maggio-giugno 1953.

 

11. Intuito femminile. I miei robot sono quasi sempre maschili, anche se non necessariamente nel senso di genere. Dopo tutto uso nomi maschili e pronomi personali maschili. Su consiglio di un'editrice, Judy-Lynn del Rey, scrissi Intuito femminile, che apparve nel numero di The Magazine of Fantasy and Science Fiction dell'ottobre 1969. Innanzitutto la storia dimostrava che potevo immaginare un robot femminile. Era sempre di metallo, ma aveva la vita più sottile degli altri miei robot e una voce femminile. Qualche tempo dopo, nel mio libro I robot e l'impero, scrissi un capitolo in cui per la prima volta faceva la sua comparsa un robot umanoide di sembianze femminili. Questo robot-donna faceva la parte del cattivo, e la cosa potrebbe sorprendere quanti di voi conoscono la mia ammirazione incondizionata della metà femminile del genere umano.

 

12. L'uomo bicentenario. Questo racconto, che apparve per la prima volta nel 1976 in un'antologia in edizione tascabile di racconti inediti di fantascienza, Stellar 2, pubblicata da Judy-Lynn del Rey, rappresenta la mia più meditata esposizione dello sviluppo dei robot. La storia segue un percorso completamente diverso da quello de L'ultima domanda. Tratta infatti di un robot che desidera diventare uomo e del modo in cui il robot in questione cerca di raggiungere il suo obiettivo. Anche stavolta, ho portato la trama alla sua conclusione logica. Non avevo intenzione di scrivere questa storia quando iniziai a lavorarci. Si scrisse da sola, contorcendosi e rivoltandosi nella macchina per scrivere. Adesso occupa il terzo posto nella graduatoria delle mie preferenze. Prima di questo racconto vengono L'ultima domanda e L'ultimo nato, che non è una storia sui robot.

 

13. Abissi d'acciaio. Nel frattempo, su consiglio di Horace L. Gold, curatore di Galaxy avevo scritto un romanzo sui robot. All'inizio fui recalcitrante perché ritenevo che le mie storie sui robot fossero adatte allo sviluppo di racconti brevi. Gold, tuttavia, mi suggerì di scrivere un giallo in cui un robot indagava su un delitto. Seguii quel consiglio soltanto in parte. Il mio investigatore era un uomo, Elijah Baley (che forse è il personaggio più affascinante uscito dalla mia penna), ma aveva un aiutante robot, R. Daneel Olivaw. Ritenevo quel libro la perfetta fusione tra il genere giallo e quello fantascientifico. Apparve originariamente in tre puntate sui numeri di ottobre, novembre e dicembre del 1953 di Galaxy, e nel 1954 Doubleday lo pubblicò sotto forma di romanzo.

La cosa che più mi sorprese furono le reazioni dei lettori. Elijah Baley venne accolto con simpatia, ma il vero successo andò a Daneel, che nelle mie intenzioni doveva essere soltanto un personaggio di secondo piano. E devo dire che furono soprattutto le donne a cedere al fascino di Daneel. (Tredici anni dopo la pubblicazione di Abissi d'acciaio, iniziò la fortunata serie televisiva Star Trek; uno dei protagonisti, Mr. Spock, somigliava moltissimo a Daneel, e notai che anche stavolta furono le donne a dimostrare un particolare interesse verso Spock. Non ho la pretesa di analizzare il fenomeno.)

 

14. Il sole nudo. La popolarità di Elijah e Daneel mi portò a scrivere un seguito, Il sole nudo, che apparve in tre puntate sui numeri di ottobre, novembre e dicembre 1956 di Astounding. L'anno successivo il romanzo fu pubblicato da Doubleday. Naturalmente il nuovo successo mi fece ritenere logico scrivere un terzo romanzo. Iniziai a scriverlo nel 1958, ma per una serie di circostanze avverse riuscii a finirlo solo nel 1983.

15. I robot dell'alba. Questo romanzo, il terzo della serie che ha come protagonisti Elijah Baley e R. Daneel, fu pubblicato da Doubleday nel 1983. Introdussi un secondo robot, R. Giskard Reventlov, e stavolta non mi sorpresi quando il personaggio si rivelò popolare quanto Daneel.

 

16. I robot e l'impero. Quando fu necessario far morire Elijah Baley (di vecchiaia) non ebbi difficoltà a scrivere un quarto libro della serie, dove Daneel sopravviveva al suo maestro. Il quarto libro, I robot e l'impero, venne pubblicato da Doubleday nel 1985. La morte di Elijah provocò delle reazioni che però furono poca cosa a confronto con la valanga di lettere di protesta che mi sommerse quando, per esigenze di trama, feci morire R. Giskard.

 

Dei racconti brevi che ho chiamato importanti, quattro mancano dalla presente antologia: Il piccolo robot perduto, Diritto di voto, Nove volte sette e L'ultima domanda. Non si tratta di una svista, né la loro assenza sta a indicare che non si tratta di racconti adatti a un'antologia. Il fatto è che tutti e tre sono apparsi in un'antologia che ha preceduto la presente. Il titolo è Sogni di robot e può essere considerata parte integrante di questa antologia. Non sarebbe stato corretto pubblicare gli stessi racconti due volte.

Per farmi perdonare, ho incluso in Visioni di robot nove racconti sui robot che non ho chiamato importanti. Questo non vuole affatto dire che si tratta di racconti di qualità inferiore, ma solo che non rappresentano una novità.

Di questi nove racconti, Il correttore di bozze è il mio preferito, non solo per il gioco di parole del titolo originale (Galley Slave, che significa "individuo condannato a remare su una galera", può essere interpretato anche come "schiavo delle bozze", N.d.T.), ma perché parla di un lavoro che vorrei tanto poter affidare a un robot. Penso che poche persone al mondo abbiano avuto a che fare più di me con le bozze da correggere.

Lenny ci fa vedere un lato umano di Susan Calvin che non appare in nessuna delle altre storie che la vedono protagonista, mentre Un giorno è una mia incursione nel drammatico. Natale senza Rodney è una storia sui robot di genere comico, mentre Finalmente! è un racconto piuttosto truculento. Immagine speculare è l'unico racconto breve in cui compare la figura di R. Daneel Olivaw, l'eroe dei miei romanzi. Così non va e Il segregazionista sono entrambe storie sui robot incentrate sulla medicina. Infine Visioni di robot è stata scritta appositamente per questa antologia.

Insomma, le mie storie sui robot hanno riportato un successo quasi pari a quello dei miei libri sulla Fondazione, e se volete sapere la verità (ve la dico sottovoce, e vi prego di mantenere il segreto) io preferisco le storie sui robot.

Per concludere, devo spendere qualche parola sui saggi che appaiono alla fine dell'antologia. Il primo fu scritto nel 1956. Gli altri apparvero a partire dal 1974 in poi. Perché questo intervallo di diciotto anni?

Facile. Scrissi la mia prima storia sui robot quando avevo diciannove anni, e continuai a scriverne per più di trent'anni senza credere che un giorno i robot sarebbero diventati una realtà, o almeno senza credere che sarei riuscito ad arrivare a quel giorno. Per questo non dedicai mai un solo saggio alla robotica. Se lo avessi fatto, avrei dovuto scrivere dei saggi anche sugli imperi galattici e sulla psicostoria. E a ben vedere, il mio saggio del 1956 non è una discussione seria sull'argomento robotica, ma soltanto una considerazione sull'uso dei robot nella letteratura fantascientifica.

Solo negli anni Settanta, con l'avvento dei microprocessori, i computer diventarono abbastanza piccoli, versatili e poco costosi da permettere alle macchine computerizzate di diffondersi nei processi industriali. E così nacque il robot industriale, estremamente semplice rispetto ai robot della mia fantasia, ma chiaramente sulla buona strada per diventare altrettanto complesso.

E successe che, nel 1974, proprio mentre i robot stavano diventando una realtà, cominciai a scrivere dei saggi sugli odierni sviluppi della scienza, dapprima per la rivista American Way e poi per il Los Angeles Times Syndicate. Quindi fu naturale per me scrivere qualcosa sulla robotica. Inoltre la Byron Preiss Visual Publications, Inc., cominciò a pubblicare una ragguardevole serie di libri sotto il titolo generale di Isaac Asimov's Robot City, e mi venne chiesto di scrivere un saggio sulla robotica per ciascuno dei libri della serie. Questo spiega perché prima del 1974 non scrissi praticamente nemmeno un saggio sulla robotica mentre dopo quell'anno gliene dedicai diversi. Dopo tutto non è colpa mia se la scienza è riuscita a mettersi al passo con le mie semplici previsioni.

                                                                                                                     I. A.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


      PARTE PRIMA

               VISIONI DI ROBOT

Immagino di dover iniziare dicendovi chi sono. Sono un membro molto giovane del Gruppo Temporale. I Temporalisti (lo spiego a beneficio di chi non ha potuto prestare attenzione ai progressi della tecnologia perché troppo impegnato nella lotta per la sopravvivenza in questo duro mondo del 2023) sono attualmente gli aristocratici della fisica.

Essi si occupano del più intrattabile dei problemi: spostarsi nel tempo a una velocità diversa dalla costante progressione temporale dell'Universo. In breve, i Temporalisti stanno cercando di rendere possibile il viaggio nel tempo.

E io che non sono nemmeno un fisico, ma soltanto un... be', soltanto un soltanto, che ci faccio in mezzo a questa gente?

Malgrado non fossi qualificato in materia, fu proprio una mia osservazione a spingere i Temporalisti a elaborare il concetto dei SVNT (sentieri virtuali nel tempo).

Vedete, il viaggio nel tempo è reso problematico dal fatto che la base di partenza di un ipotetico viaggiatore non si trova in un punto fisso, relativamente all'Universo inteso come tutto. La Terra si muove intorno al Sole, il Sole intorno al centro galattico, la Galassia intorno al centro di gravità del Gruppo Locale... insomma, dovrei aver reso l'idea. Se ci spostiamo di un giorno, anche di un solo giorno, nel futuro o nel passato, la Terra avrà intanto percorso circa 2500 chilometri della sua orbita intorno al Sole. E il Sole avrà continuato il suo viaggio, portandosi dietro la Terra, e così tutto il resto.

Perciò si viaggia sia nello spazio sia nel tempo, e fu questa mia osservazione a dare il via a una serie di elaborazioni teoriche che dimostrarono la fattibilità della cosa: si può viaggiare con il moto spazio temporale della Terra in modo "virtuale", sicché la base di un viaggiatore temporale potrebbe trovarsi sulla Terra indipendentemente dalla sua destinazione nel tempo. È inutile cercare di spiegare questo problema in termini matematici se non avete fatto studi temporalistici. Quindi accettate le cose così come sono.

Un'altra mia osservazione spinse i Temporalisti a elaborare una teoria tendente a dimostrare che viaggiare nel passato era impossibile. Il numero dei termini chiave delle equazioni dovrebbe andare oltre l'infinito qualora i segni temporali venissero cambiati.

Si trattava di un ragionamento ineccepibile. Era chiaro che un viaggio a ritroso nel tempo avrebbe certamente cambiato il passato, e per quanto piccolo potesse risultare tale cambiamento, il presente ne sarebbe stato modificato. E dal momento che è lecito affermare che il passato è immutabile, ha senso dire che il viaggio a ritroso nel tempo è impossibile.

Il futuro, tuttavia, non è stabilito, quindi viaggiare nel futuro e tornare indietro potrebbe essere possibile.

Non ebbi riconoscimenti per le mie osservazioni. Forse i Temporalisti ritennero che fossi stato fortunato nelle mie speculazioni ma resta il fatto che ripresero le mie teorie per portarle a utili conclusioni. Non me ne dispiacque, considerate le circostanze, ma fui molto contento, addirittura deliziato, quando mi permisero di continuare a lavorare con loro e di prendere parte al progetto, anche se ero soltanto un... soltanto.

Naturalmente ci vollero anni per mettere a punto un dispositivo pratico per viaggiare nel tempo, ma non intendo scrivere un trattato serio sulla Temporalità. È mia intenzione riferire su alcune parti del progetto, e voglio farlo a beneficio dei futuri abitanti del pianeta, e non per i nostri contemporanei.

Dapprima mandammo nel futuro oggetti inanimati, poi fu la volta degli animali, ma non ne ricavammo granché. Tutti gli oggetti viaggiarono nel futuro senza fare ritorno. Quando coprivano distanze brevi, cinque minuti o cinque giorni, alla fine apparivano di nuovo, apparentemente inalterati, e ancora vivi e in buona salute nel caso degli animali.

Ma a noi interessava soprattutto mandare qualcosa lontano nel futuro e poi riportarlo indietro.

― Dovremmo spedire qualcosa almeno duecento anni in avanti nel tempo ― disse un Temporalista. ― Per noi la cosa essenziale è avere un rapporto sul futuro. Dobbiamo sapere se l'umanità sopravviverà, e in quali condizioni, quindi un lasso di tempo di due secoli dovrebbe essere sufficiente per ottenere queste informazioni. Francamente ritengo esigue le probabilità che il genere umano sopravviva così a lungo. Le condizioni di vita e ambientali sono peggiorate gravemente nel corso dell'ultimo secolo.

(Non servirebbe a nulla specificare quale dei Temporalisti fece questa o quell'affermazione. Erano in tutto una decina, e il racconto che vi sto facendo non cambierebbe se vi dicessi chi parlò e che cosa disse, sempre che riuscissi a ricordarmelo. Quindi scriverò semplicemente "disse un Temporalista" oppure "disse uno" oppure "alcuni dissero" oppure "un altro disse", e vi assicuro che tutto vi risulterà chiaro. Naturalmente vi farò capire quali sono le mie osservazioni, ma vedrete che queste eccezioni sono essenziali.)

Un altro Temporalista disse malinconicamente: ― Non credo che vorrei conoscere il futuro se ciò significasse scoprire che la razza umana è destinata all'estinzione o che ne resteranno dei miserabili superstiti.

― Perché no? ― disse un altro. ― Se mandassimo qualcosa avanti nel tempo, potremmo scoprire esattamente le cause di questo ipotetico disastro e fare di tutto, sulla base della nostra speciale conoscenza, per indirizzare il futuro nella direzione migliore. Il futuro, a differenza del passato, non è stabilito.

Naturalmente si presentò il problema di chi doveva partire. Era chiaro che ciascuno dei Temporalisti si riteneva troppo prezioso per correre i rischi di una tecnica che poteva presentare delle lacune malgrado il successo degli esperimenti effettuati con oggetti inanimati o con animali che non avevano un cervello incredibilmente complesso come quello degli esseri umani. Il cervello poteva sopravvivere, ma forse non sarebbe sopravvissuta tutta la sua complessità.

Mi resi conto che io ero tra tutti il meno prezioso e che quindi potevo essere considerato il logico candidato. E stavo per alzare la mano per offrirmi volontario quando uno dei Temporalisti disse con impazienza: ― Tu no. Persino tu sei troppo prezioso. ― (Non mi fece di certo un complimento). ― Propongo di mandare RG-32.

Il suggerimento era sensato. RG-32 era un robot piuttosto antiquato, quindi del tutto sacrificabile. Poteva osservare e fare un rapporto accurato, anche se gli sarebbero mancate l'ingegnosità e l'acutezza di un essere umano. Ma non avrebbe avuto paura, si sarebbe attenuto agli ordini, e avrebbe sicuramente detto la verità.

Perfetto!

Mi sorpresi per non averci pensato subito, e per aver stupidamente considerato l'ipotesi di offrirmi volontario. Ritenni che forse avevo istintivamente sentito il bisogno di mettermi in mostra. Comunque era RG-32 la scelta logica; l'unica, in definitiva.

Per certi versi non fu difficile spiegare al robot ciò di cui avevamo bisogno. Archie (era costume chiamare un robot storpiando la pronuncia del suo numero di serie) non sollevò obiezioni, né chiese garanzie per la sua incolumità. Avrebbe eseguito qualsiasi ordine fosse stato in grado di comprendere con lo stesso distacco emotivo che palesava quando gli si chiedeva di alzare una mano. Del resto era un robot.

― Quando arriverai nel futuro ― gli disse uno dei Temporalisti anziani ― potrai restarci per tutto il tempo che riterrai necessario. Una volta finito il tuo lavoro, tornerai alla macchina e rientrerai alla base. Ti spiegheremo noi come manovrare i comandi. A noi sembrerà trascorsa una frazione di secondo dal momento della tua partenza a quello del rientro, ma tu potrai aver trascorso nel futuro una settimana o cinque anni. Naturalmente dovrai assicurarti di lasciare la macchina in un posto sicuro prima di andare in esplorazione, cosa che non dovrebbe presentare problemi visto che è piuttosto leggera. E dovrai fare in modo di non dimenticare dove l'hai lasciata.

Il briefing si protrasse a lungo perché a un Temporalista dopo l'altro vennero in mente possibili difficoltà. E così uno di loro disse all'improvviso: ― Quanto sarà diverso dal nostro il linguaggio del futuro?

Naturalmente nessuno poté dare una risposta certa a quella domanda, e si aprì una discussione sulla possibile mancanza di un codice comunicativo che Archie potesse comprendere e utilizzare.

Alla fine un Temporalista disse, piuttosto seccamente: ― La lingua inglese è diventata quasi universale e questo processo di espansione non sembra destinato a interrompersi. E negli ultimi duecento anni non ha subito cambiamenti significativi, quindi perché dovrebbe cambiare nei prossimi duecento? Anche se fosse cambiata, è lecito aspettarsi che ci siano degli intellettuali in grado di parlare quella lingua che potrebbero chiamare "antico inglese". E anche se non ce ne fossero, Archie sarebbe pur sempre in grado di svolgere un lavoro di osservazione. Determinare se esiste una società funzionante non richiede necessariamente la capacità di comunicare.

Sorsero altri problemi. E se avesse trovato un ambiente ostile? E se la gente del futuro avesse trovato e distrutto la macchina, per ignoranza o per malvagità?

Un Temporalista disse: ― Potrebbe essere saggio progettare un veicolo temporale miniaturizzato da portarsi dietro. In questo modo Archie potrebbe abbandonare rapidamente una situazione pericolosa.

― Anche se ciò fosse possibile ― sibilò un altro Temporalista ― ci vorrebbe tanto di quel tempo che verrebbe meno la necessità di usare la macchina. No, se dovesse avvenire un incidente, Archie non tornerebbe e noi dovremmo tentare di nuovo.


Questo fu detto in presenza di Archie, ma naturalmente la cosa non lo preoccupò. Archie sapeva accettare la propria distruzione con equanimità se quelli erano gli ordini. La Seconda Legge della Robotica, che impone ai robot di eseguire gli ordini impartiti dagli esseri umani, ha la precedenza sulla Terza, che impone loro di proteggere la propria esistenza.

Alla fine, naturalmente, tutto era stato detto, e nessuno ebbe proposte aggiuntive da fare o obiezioni da sollevare.

Archie ripeté tutto ciò che gli era stato ordinato con la calma e la precisione tipiche dei robot, e il passo successivo fu quello di insegnargli a usare la macchina. E lui imparò con la calma e la precisione tipiche dei robot.

Dovete sapere che a quell'epoca l'opinione pubblica non era a conoscenza degli studi sui viaggi temporali. Fino a quando si era lavorato sulla teoria, il progetto non aveva presentato dei costi elevati, ma la sperimentazione aveva sfondato il budget e lo avrebbe sfondato ulteriormente. Era questa la cosa più spiacevole per gli scienziati impegnati in un tentativo che appariva come un vero e proprio salto nel buio.

In caso di fallimento, considerato lo stato della finanza pubblica, la gente avrebbe protestato vivacemente e il progetto avrebbe avuto il destino segnato. I Temporalisti convennero all'unanimità che si sarebbe dovuto pubblicizzare soltanto l'eventuale successo della missione, e che fino a quel momento l'opinione pubblica avrebbe dovuto sapere molto poco, se non addirittura niente. Quindi l'esperimento, quello cruciale, fu per tutti mozzafiato.

Ci radunammo in un punto isolato quasi desertico, una zona mantenuta sotto sorveglianza e assegnata al Progetto Quattro. (Persino il nome non doveva accennare minimamente alla natura dell'esperimento, ma pensai che qualcuno avrebbe potuto immaginare quello che stavamo facendo visto che molta gente considerava il tempo una sorta di quarta dimensione. Tuttavia, per quanto ne so, nessuno intuì nulla.)

Poi, a un certo momento, un momento che fece trattenere il fiato a molti dei presenti, Archie, a bordo della macchina, alzò una mano per avvertire che stava per partire. Mezzo respiro dopo, sempre che qualcuno stesse davvero respirando, la macchina ebbe un guizzo.

Fu un guizzo molto rapido. Non posso dire di averlo effettivamente visto. Ho piuttosto l'impressione di aver semplicemente dato per scontato che doveva guizzare, visto che dal momento della partenza a quello del ritorno dovevano passare pochissimi secondi, sicché vidi quello che ero convinto di dover vedere. Stavo per chiedere agli altri se avevano visto anche loro il guizzo della macchina, ma non lo feci perché tendevo a non rivolgere loro la parola se prima non venivo interpellato. Erano persone molto importanti, e io ero soltanto un... ma questo l'ho già detto. In seguito, preso dall'eccitazione di interrogare Archie, dimenticai la faccenda del guizzo. Non era affatto importante.

Il lasso di tempo che intercorse tra la partenza e il rientro fu così breve che avremmo potuto benissimo pensare che la macchina non fosse affatto partita. Ma un particolare sgombrò il campo da qualsiasi dubbio: la macchina si era deteriorata. Era semplicemente avvizzita.

E anche ad Archie era toccata la stessa sorte. Non era lo stesso Archie che avevamo visto salire a bordo della macchina. Aveva un aspetto sciupato, le finiture opache, una sorta di bozzo dovuto a un impatto sul corpo, un modo strano di guardarsi intorno come se stesse rivivendo una scena quasi dimenticata. Dubito che qualcuno dei presenti abbia pensato per un solo istante che Archie non fosse stato assente per un lungo periodo di tempo.

E la prima domanda che gli venne rivolta fu: ― Quanto tempo sei stato via?

Archie rispose: ― Cinque anni, signore. Un periodo di tempo che sapevo di poter sfruttare perché eravate stati voi a indicarmelo, e desideravo fare un lavoro completo.

― Questo ci lascia ben sperare ― disse uno dei Temporalisti. ― Se il mondo fosse stato un ammasso di rovine, di certo non ci sarebbero voluti cinque anni per raccogliere l'informazione.

Tuttavia nessuno osò chiedere: «Allora, Archie, la Terra era un ammasso di rovine?»

Attesero che fosse lui a parlare, e per un certo tempo anche Archie attese, con robotica cortesia, che fossero loro a parlare. Ma dopo un po' il bisogno di Archie di eseguire gli ordini, e quindi di fare rapporto su quanto aveva visto, ebbe il sopravvento sulla cortesia impressa nei suoi schemi positronici.

― Andava tutto bene nella Terra del futuro ― disse Archie. ― La struttura sociale era intatta e perfettamente funzionante.

― Intatta e perfettamente funzionante? ― ripeté uno dei Temporalisti, assumendo la posa di chi fosse rimasto scioccato da un'affermazione eretica. ― Dappertutto?

― Gli abitanti del mondo sono stati gentilissimi. Mi hanno portato in ogni parte del globo. Ho visto solo prosperità e pace.

I Temporalisti si lanciarono delle occhiate. Sembrava loro più facile credere che Archie si sbagliasse piuttosto che la Terra del futuro fosse prospera e pacifica. Mi era sempre sembrato che, malgrado tutte le affermazioni ottimistiche contrarie, fosse preso quasi come un articolo di fede il fatto che la Terra si trovasse sul punto della distruzione sociale, economica e persino fisica.

Cominciarono a subissarlo di domande. Un Temporalista urlò: ― E le foreste? Sono quasi scomparse.

― C'era un grandissimo progetto di riforestazione, signore ― disse Archie. ― I grandi parchi naturali sono stati salvati, nei limiti del possibile. L'ingegneria genetica è stata sfruttata ingegnosamente per salvare la fauna protetta grazie all'impiego di specie animali presenti nei giardini zoologici. L'inquinamento appartiene al passato. Il mondo del 2230 è un mondo di pace e di bellezza.

― Sei sicuro di quello che dici? ― gli chiese un Temporalista.

― Non ci sono zone della Terra in cui sia vietato accedere. Mi hanno fatto vedere tutto quello che ho chiesto loro di visitare.

Un altro Temporalista chiese in tono severo: ― Archie, ascoltami. Forse hai visto una Terra rovinata, ma non vuoi dircelo perché temi che una tale rivelazione ci possa gettare nella disperazione e spingerci al suicidio. Forse ci stai mentendo perché non vuoi farci del male. Questo non deve accadere, Archie. Tu devi dirci la verità.

Archie replicò pacatamente: ― Sto dicendo la verità, signore. Se stessi mentendo per qualche motivo, le mie potenzialità positroniche si troverebbero in uno stato anormale, e l'anomalia risulterebbe evidente qualora decideste di esaminarmi.

― Ha ragione ― borbottò un Temporalista.

Venne esaminato immediatamente. Gli venne ordinato di restare zitto durante il test. Osservai con interesse i potenziometri che rilevavano i dati che poi vennero passati al computer. Non c'erano dubbi. Archie era assolutamente normale. Non poteva assolutamente aver mentito.

Così venne di nuovo interrogato. ― E le città?

― Non ci sono città come le nostre, signore. La vita nel 2230 è molto più decentralizzata rispetto a oggi, nel senso che non esistono grandi agglomerati urbani come i nostri. Tuttavia c'è una rete di comunicazione così intricata che l'umanità è, per così dire, un unico agglomerato senza capo né coda.

― E lo spazio? L'esplorazione spaziale ha avuto un nuovo impulso?

― La Luna è molto sviluppata, signore. È un mondo abitato. Ci sono insediamenti spaziali nell'orbita della Terra e in quella di Marte. Stanno ricavando insediamenti anche nella fascia degli asteroidi.

― Te le hanno dette loro queste cose? ― chiese un Temporalista, sospettoso.

― Non sto parlando per sentito dire, signore. Sono stato nello spazio. Sono rimasto sulla Luna per due mesi. Ho vissuto in un insediamento spaziale nell'orbita di Marte per un mese, e ho visitato sia Marte che Fobos. La colonizzazione di Marte presenta qualche problema. Secondo alcuni dovrebbe essere seminato con forme di vita inferiori e lasciato a se stesso senza l'intervento dei terrestri. Non ho visitato la fascia degli asteroidi.

Un Temporalista disse: ― Secondo te perché sono stati così cordiali nei tuoi confronti, Archie?

― Ho avuto l'impressione, signore, che in qualche modo sapessero che un giorno o l'altro sarei potuto arrivare. Come per sentito dire, o per una vaga credenza. Sembrava che mi stessero aspettando.

― Hanno detto che si aspettavano che tu arrivassi? Hanno parlato di fonti documentate che testimoniavano del tuo viaggio nel futuro?

― No, signore.

― Gli hai fatto domande in proposito?

― Sì, signore. È stato scortese da parte mia, ma del resto avevo ricevuto l'ordine di osservare attentamente più cose possibili, così ho dovuto chiederglielo. Ma si sono rifiutati di rispondermi.

Un altro Temporalista chiese: ― Si sono rifiutati di dirti molte altre cose?

― Sì, signore.

Un Temporalista si lisciò il mento con aria assorta e disse: ― Quindi dev'esserci qualcosa che non va. Quante persone vivono sulla Terra del 2230, Archie? Te lo hanno detto?

― Sì, signore. Gliel'ho chiesto. Ci sono poco meno di un miliardo di persone sulla Terra del 2230. Centocinquanta milioni vivono nello spazio. Sulla Terra questa cifra è stabile, mentre è in aumento negli insediamenti spaziali.

― Ah ― esclamò un Temporalista. ― Attualmente ci sono dieci miliardi di persone sulla Terra, metà delle quali versano in condizioni miserabili. Come ha fatto questa gente del futuro a sbarazzarsi di quasi nove miliardi di individui?

― Ho chiesto loro anche questo, signore. Mi hanno risposto che è stato un brutto periodo.

― Un brutto periodo?

― Sì, signore.

― In che senso?

― Non me lo hanno spiegato, signore. Hanno detto semplicemente che è stato un brutto periodo, senza aggiungere altro.

Un Temporalista di origine africana disse freddamente: ― Che tipo di gente hai visto nel 2230?

― Che tipo di gente, signore?

― Colore della pelle, taglio degli occhi...

― Da questo punto di vista non è cambiato nulla rispetto a oggi, signore. C'erano persone di razze diverse, diversi colori della pelle, acconciature diverse e così via. L'altezza media sembrava maggiore rispetto a quella attuale, anche se non ho studiato le statistiche. Le persone sembravano più giovani, più forti e più sane. E in effetti non ho visto problemi di sottonutrizione, obesità, malattie, ma c'era una ricca varietà di razze.

― Quindi nessun genocidio?

― Apparentemente no, signore. E non c'erano né criminalità né guerra né repressione.

Un Temporalista, parlando come se avesse difficoltà a digerire quelle buone notizie, disse: ― Sembra proprio un lieto fine.

― Un lieto fine, forse ― disse un altro ― ma è troppo lieto per poterlo accettare. È come un ritorno all'Eden. Che cosa è stato fatto, o verrà fatto, per renderlo possibile? Non mi piace quell'accenno al "brutto periodo".

― Naturalmente non serve a nulla speculare. Possiamo mandare Archie nel futuro di cento anni, o di cinquant'anni, e scoprire quello che è successo... voglio dire, quello che succederà.

― Non credo, signore ― disse Archie. ― Mi hanno detto in modo esaustivo e dettagliato che non esistono testimonianze che documentino l'arrivo di qualcuno dal passato prima di me. Era loro opinione che se si fossero svolte ulteriori indagini sul periodo di tempo che va da oggi al giorno del mio arrivo, il futuro sarebbe cambiato.

Ci fu un silenzio da brivido. Ad Archie venne detto di tenere tutto bene in mente per ulteriori interrogatori e fu congedato. Dal momento che io ero l'unico presente a non possedere una laurea avanzata in Ingegneria Temporale, pensai che mi avrebbero allontanato, ma evidentemente si erano abituati alla mia presenza, e naturalmente non mi allontanai di mia spontanea volontà.

― Il punto centrale ― disse un Temporalista ― è proprio la faccenda del lieto fine. Qualsiasi cosa facessimo da questo momento in poi potrebbe rovinarlo. Si aspettavano l'arrivo di Archie; si aspettavano che lui avrebbe fatto rapporto a qualcuno; non gli hanno detto nulla di quello che non volevano farci sapere; quindi siamo ancora al sicuro. Le cose andranno come sono andate.

― Può persino darsi che il fatto di sapere dell'arrivo di Archie, unitamente alle informazioni che ci hanno mandato tramite lui, abbia contribuito al lieto fine.

― Forse, ma qualsiasi altra cosa facessimo potrebbe rovinare tutto. Preferisco non pensare al "brutto periodo" di cui parlano, ma se tentiamo di fare qualcosa adesso quel brutto periodo potrebbe diventare addirittura peggiore di quello che è stato; o che sarà, e il lieto fine non ci sarà. Credo che non ci resti altro da fare che sospendere gli esperimenti temporali senza pubblicizzare nulla di quanto è stato fatto. Altrimenti dovremmo annunciarne il fallimento.

― Questo sarebbe insopportabile.

― È l'unica cosa da fare.

― Aspettate. Sapevano che Archie sarebbe arrivato, quindi deve esserci stato un rapporto sul successo degli esperimenti. Non possiamo inventarci un fallimento.

― Non sono d'accordo. A detta di Archie, avevano sentito delle voci, si trattava di una vaga informazione. Quindi dovremo far trapelare qualcosa senza diramare un annuncio ufficiale.

E fu così che venne deciso. Per giorni pensarono alla faccenda e di tanto in tanto ne discussero, ma con crescente trepidazione. Io potevo vedere il risultato che prendeva forma con inesorabile certezza. Non contribuii minimamente al dibattito, sembrava addirittura che si accorgessero a malapena della mia presenza, ma la crescente apprensione delle loro voci non dava adito a dubbi. Come quei biologi che agli albori dell'ingegneria genetica decisero di limitare e circoscrivere i loro esperimenti per paura che una nuova infezione potesse diffondersi tra la popolazione ignara, così i Temporalisti decisero terrorizzati, che non bisognava interferire con il futuro, né addirittura studiarlo.

Era già abbastanza aver saputo, affermarono, che ci sarebbe stata una società integra e felice di lì a due secoli. Non dovevano quindi indagare oltre, non dovevano interferire nemmeno di un'unghia sugli sviluppi futuri se non volevano correre il rischio di rovinare tutto. E si ritirarono alla sola teoria.

Un Temporalista suonò la ritirata finale. ― Un giorno l'umanità raggiungerà la saggezza necessaria a mettere a punto strumenti sufficientemente raffinati da poter rischiare l'osservazione, e forse addirittura la manipolazione, dello scorrere del tempo, ma questo momento non è ancora giunto. Ed è ancora lungi dall'arrivare. ― E c'era stato un tiepido applauso.

Chi ero io, inferiore a tutti gli altri Temporalisti impegnati nel Progetto Quattro, per dissentire e fare di testa mia? Forse fu il coraggio che avevo guadagnato dall'essere così inferiore a loro, l'incoscienza di chi non è sufficientemente preparato, a spingermi ad agire in un certo modo. Il mio spirito di iniziativa non era morto sotto i colpi dell'eccessiva specializzazione o di una lunghissima vita di profondo ragionamento.

A ogni modo, qualche giorno dopo parlai con Archie, quando i compiti del mio lavoro mi lasciarono del tempo libero. Archie era a digiuno di distinzioni accademiche e di esperienza sul campo. Per lui io ero un uomo e un padrone, come qualsiasi altro uomo e padrone, e mi parlò come tale.

Gli dissi: ― Questa gente del futuro come considerava la gente del passato? Erano inclini alla critica? Li biasimavano per le loro follie e per le loro stupidità?

― Non hanno detto nulla che potesse farmi pensare una cosa del genere, signore. Erano divertiti dalla semplicità della mia struttura e dalla mia stessa esistenza, e mi è parso che ridessero di me e delle persone che mi hanno costruito, ma senza cattiveria. Loro non avevano robot.

― Robot di nessun tipo, Archie?

― Hanno detto che non c'era niente di paragonabile a me, signore. Hanno detto che non avevano bisogno di caricature metalliche degli uomini.

― E tu non hai visto nessun robot?

― Nemmeno uno, signore.

Riflettei qualche istante prima di chiedergli: ― Che cosa pensano degli altri aspetti della nostra società?

― Credo che ammirassero il passato per diversi motivi, signore. Mi hanno mostrato dei musei dedicati a quello che chiamavano "il periodo di crescita sfrenata". Intere città erano state trasformate in musei.

― Hai detto che non c'erano città nel mondo che hai visitato, Archie. Città come le intendiamo noi.

― Non erano le loro città a essere musei, signore, ma i resti delle nostre. L'intera isola di Manhattan era un museo, perfettamente conservata e riportata al periodo del suo massimo splendore. Me l'hanno fatta visitare a lungo insieme ad alcune guide perché volevano farmi domande sulla sua autenticità. Li ho potuti aiutare molto poco perché non sono mai stato a Manhattan. Sembravano orgogliosi di Manhattan. C'erano altre città conservate, così come macchinari del passato, biblioteche, mostre di abiti, mobili e altri oggetti della vita quotidiana. Hanno detto che la gente del mio tempo non era stata saggia ma aveva creato una solida base per lo sviluppo futuro.

― E hai visto gente giovane? Neonati?

― No, signore.

― Ne hanno mai parlato?

― No, signore.

― Molto bene, Archie. Adesso ascoltami...

Se c'era una cosa che capivo meglio dei Temporalisti, erano i robot. Per loro i robot erano scatole nere che ubbidivano agli ordini e che andavano lasciate ai meccanici, o buttate via, quando si rompevano. Io, tuttavia, capivo abbastanza bene gli schemi positronici dei robot, e potevo maneggiare Archie in un modo che i miei colleghi non sospettavano nemmeno. E fu quello che feci.

Passai un po' di tempo a pensarci, e mi feci un'idea sempre più convincente di quello che era accaduto nel corso dei due secoli ancora a venire.

Vedete, era stato un errore mandare Archie. Era un robot primitivo, e per lui le persone erano persone. Non faceva distinzioni: non poteva farne. Il fatto che gli esseri umani fossero diventati così civilizzati e umani non lo aveva sorpreso. I suoi circuiti lo costringevano, in ogni situazione, a considerare gli esseri umani civilizzati e tolleranti; addirittura divini, per usare un'espressione datata.

Gli stessi Temporalisti, essendo umani, erano rimasti sorpresi e persino un po' increduli dalla visione del mondo futuro fornita da Archie, una visione in cui tutti gli esseri umani erano diventati nobili e buoni. Ma, essendo umani, i Temporalisti volevano credere a quello che sentivano e si costringevano a farlo anche a discapito del buonsenso.

Io, a modo mio, ero più intelligente dei Temporalisti, o forse ero semplicemente più acuto.

Mi domandai per quale motivo la popolazione si era ridotta da dieci miliardi a un miliardo e non da dieci miliardi a zero. La differenza tra le due alternative sarebbe stata minima.

Chi erano i sopravvissuti? Erano forse più forti degli altri nove miliardi? Più tenaci? Più resistenti alle privazioni? Ed erano anche più sensibili, più razionali e più virtuosi degli altri nove miliardi che erano morti, come era chiaro dal resoconto fatto da Archie sul mondo del futuro?

In breve, erano esseri umani?

Avevano deriso Archie e si erano vantati di non avere robot, che consideravano l'inutile caricatura metallica degli uomini.

E se invece avessero avuto dei duplicati organici degli uomini? E se avessero avuto robot umanoidi, robot così simili agli uomini da risultare indistinguibili, per lo meno agli occhi e ai sensi di un robot come Archie? E se gli abitanti del futuro fossero stati dei robot umanoidi, robot sopravvissuti a un'immensa catastrofe che aveva falcidiato gli uomini?

Non c'erano neonati. Archie non ne aveva visto nemmeno uno. Certo sulla Terra c'era un tasso di crescita zero e gli anziani aumentavano, quindi ci sarebbero stati in ogni caso pochi neonati; e quei pochi sarebbero stati accuditi, protetti, vezzeggiati, distribuiti con attenzione nella società. Però Archie era rimasto sulla Luna per due mesi e la popolazione lunare era in crescita, eppure non aveva visto neonati nemmeno lì.

Forse quella gente del futuro veniva costruita piuttosto che generata.

E forse si trattava di una cosa positiva. Se gli esseri umani erano morti per colpa del loro odio e della loro stupidità, perlomeno avevano lasciato un successore degno; un essere intelligente che aveva dato valore al passato, lo aveva conservato e si era spinto nel futuro, facendo del suo meglio per soddisfare le aspirazioni dell'umanità costruendo un mondo migliore e viaggiando nello spazio in maniera più efficiente di quanto avremmo fatto noi "veri" esseri umani.

Quanti esseri intelligenti nell'universo si erano estinti senza lasciare successori? Forse eravamo i primi a lasciare una tale eredità.

Avevamo ragione di sentirci orgogliosi.

Dovevo dire tutto questo al mondo? O ai Temporalisti? Non ci pensai nemmeno un istante.

Innanzitutto era molto probabile che non mi avrebbero creduto. Inoltre, anche se mi avessero creduto, la rabbia di essere sostituiti dai robot non li avrebbe spinti a distruggerli tutti e a rifiutarsi di costruirne degli altri? Questo avrebbe significato che la visione del futuro di Archie, la mia visione, non si sarebbe mai avverata. Questo, tuttavia, non avrebbe rimosso le cause che stavano provocando la distruzione dell'umanità. Se avessi parlato, avrei soltanto reso impossibile un avvicendamento, impedito a un altro gruppo di esseri, costruiti dagli uomini e che onoravano gli uomini, di diffondere i sogni e le aspirazioni umane in tutto l'Universo.

Io non volevo che questo accadesse. Volevo assicurarmi che la visione di Archie, ritoccata in meglio da me, si avverasse.

Ed è questo il motivo per cui sto scrivendo tutto ciò, e farò sì che resti nascosto e custodito in modo che venga scoperto soltanto tra due secoli, un po' prima del giorno in cui Archie arriverà nel futuro. Così i robot umanoidi sapranno di doverlo trattare bene e rimandarlo a casa sano e salvo con le informazioni che spingeranno i Temporalisti a smetterla di interferire con il tempo, in modo che il futuro possa foggiarsi nel suo modo tragico-felice.

E cosa mi rende così sicuro di avere ragione? Be', la mia è una posizione privilegiata.

Ho detto molte volte che sono inferiore ai Temporalisti. Perlomeno lo sono ai loro occhi, malgrado sia proprio questa inferiorità a rendermi per certi versi più acuto, come ho detto prima, e a farmi capire meglio i robot.

Sono un robot anch'io, sapete.

Sono il primo robot umanoide, ed è da me, e da quelli come me che non sono ancora stati costruiti, che dipende il futuro dell'umanità.

 

 

 

 

 

 

 

 


             COSÌ NON VA

LE TRE LEGGI DELLA ROBOTICA

1. Un robot non può recare danno agli esseri umani né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, gli esseri umani ricevano danno.

2. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani tranne nel caso che tali ordini siano in contrasto con la Prima legge.

3. Un robot deve salvaguardare la propria esistenza, purché ciò non sia in contrasto con la Prima o la Seconda Legge.

 

Gregory Arnfeld non era proprio in punto di morte, ma certamente non gli restava molto da vivere. Malato terminale di cancro, si era rifiutato strenuamente di sottoporsi alla chemioterapia e alla radioterapia.

Disteso sul letto con la schiena sollevata dai cuscini, Arnfeld sorrise alla moglie. ― Sono un caso da manuale. Se ne occuperanno Tertia e Mike.

Tertia non stava sorridendo. Appariva terribilmente preoccupata. ― Si potrebbe ricorrere a tante altre soluzioni, Gregory. Mike rappresenta l'ultima spiaggia. Potresti non avere bisogno di quel coso.

― No, no. Quando avranno finito di imbottirmi di farmaci e tempestarmi di radiazioni sarò così andato che il test non avrebbe più alcun valore. E ti prego, Tertia, non chiamare Mike "coso".

― Siamo nel Ventiduesimo secolo, Greg. Ci sono molti modi per combattere il cancro.

― È vero, ma Mike rappresenta uno di questi modi, e lo ritengo il migliore. Siamo nel Ventiduesimo secolo, Tertia, e ormai conosciamo le capacità dei robot. Almeno, io le conosco benissimo. Ho avuto a che fare con Mike più di chiunque altro. Lo sai, no?

― Ma non puoi decidere di impiegarlo solo perché sei orgoglioso di averlo progettato. Inoltre la miniaturizzazione che garanzie ti dà? È una tecnica ancora più nuova della robotica.

Arnfeld annuì. ― Questo è scontato, Tertia. Ma i ragazzi della miniaturizzazione sembrano sicuri del fatto loro. Possono ridurre o ristabilire la costante di Planck in un modo che ritengono ragionevolmente infallibile, e i controlli che lo rendono possibile sono costruiti all'interno di Mike. Può ridurre o aumentare le proprie dimensioni in qualsiasi momento senza intaccare l'ambiente circostante.

― Ragionevolmente infallibile ― disse Tertia, con amarezza.

― Be', ci si deve accontentare, non c'è dubbio. Però pensaci bene, Tertia. Per me è un privilegio prendere parte all'esperimento. Passerò alla storia per aver progettato Mike, ma questo è secondario. La mia più grande soddisfazione sarà quella di essere stato guarito da un minirobot, per mia scelta, di mia iniziativa.

― Sai che è pericoloso.

― Tutto è pericoloso. I farmaci e le radiazioni hanno effetti collaterali. Rallentano la progressione del male ma non la fermano. Possono permettermi di vivere una sorta di mezza-vita. E se non facessi nulla morirei. Se Mike fa bene il suo lavoro, io guarisco completamente, e se il male tornasse ― a questo punto Arnfeld sorrise gioioso ― Mike potrebbe effettuare un altro tentativo.

Protese il braccio per prendere la mano della moglie. ― Tertia, sapevamo che prima o poi questo momento sarebbe arrivato. Allora cerchiamo di trarne qualcosa di positivo... un esperimento glorioso. Anche se fallisse, e non fallirà, sarà pur sempre un esperimento glorioso.

 

Louis Secundo, dell'equipe di miniaturizzazione, disse: ― No, signora Arnfeld. Non possiamo garantire il successo. La miniaturizzazione è intimamente connessa con la meccanica quantistica, e si tratta di un campo in cui è forte il rischio di imprevisti. Quando MIK-27 riduce le proprie dimensioni, esiste sempre la possibilità che avvenga una riespansione non prevista che... ucciderebbe il paziente. La probabilità di una riespansione è direttamente proporzionale alla riduzione delle dimensioni. E quando il robot comincia a riespandersi, aumenta maggiormente la possibilità di un improvviso scatto accelerato. La riespansione è la parte più pericolosa.

Tertia scosse la testa. ― Crede che accadrà?

― Le probabilità sono minime, ma non sono mai pari a zero. Questo deve saperlo.

― E il dottor Arnfeld lo sa?

― Certo. Ne abbiamo discusso nei minimi dettagli. Ritiene che le circostanze giustifichino il rischio. ― Esitò prima di aggiungere: ― E noi siamo d'accordo. Non tutti noi correremo il rischio, ma alcuni sì. E riteniamo che l'esperimento vada effettuato.

― Che cosa succede se Mike sbaglia qualcosa o riduce troppo le sue dimensioni per colpa di un guasto? La riespansione sarebbe inevitabile, giusto?

― Non c'è mai una certezza in questo genere di cose. Si parla sempre di probabilità statistiche. Se diventa troppo piccolo il rischio aumenta, certo. Però c'è da tener presente che più piccolo diventa e minore diventa la sua massa, e oltre un certo punto critico la massa diventa così trascurabile che il minimo sforzo lo farebbe volare via a una velocità quasi pari a quella della luce.

― Be', questo non basterebbe a uccidere il dottore?

― No. Se si verificasse questa eventualità, Mike sarebbe così piccolo che passerebbe tra gli atomi del corpo del dottore senza toccarli.

― Ma se diventasse così piccolo, quante sarebbero le probabilità di riespansione?

― Quando MIK-27 raggiunge le dimensioni di un neutrino, per così dire, il tempo di dimezzamento viaggia sul filo dei secondi. Quindi ci sono cinquanta probabilità su cento che si riespanda nel giro di qualche secondo, ma qualora si riespandesse si troverebbe già a centinaia di migliaia di chilometri nello spazio, e la risultante esplosione produrrebbe soltanto una piccola scarica di raggi gamma che farebbe scervellare gli astronomi. Comunque non succederà niente di tutto questo. MIK-27 riceverà istruzioni precise e ridurrà le sue dimensioni di quel tanto che servirà per portare a termine la missione.

 

La signora Arnfeld sapeva che prima o poi avrebbe dovuto affrontare la stampa. Si era rifiutata ostinatamente di apparire in olovisione, e il diritto alla privacy garantito dalla Carta Mondiale la proteggeva. Però non poteva rifiutarsi di rispondere alle domande. La legge sul diritto di cronaca non le permetteva il silenzio stampa assoluto.

Così adesso sedeva rigidamente mentre la giovane donna che la fronteggiava diceva: ― A parte tutto questo, signora Arnfeld, non le sembra una strana coincidenza che suo marito, progettista capo di Mike il Microrobot, debba essere il suo primo paziente?

― Assolutamente no, signorina Roth ― rispose stancamente la signora Arnfeld. ― La malattia del dottore può essere considerata di origine ereditaria. Altri membri della sua famiglia ne sono stati colpiti. Me ne parlò quando ci sposammo, fu sincero, e per questo abbiamo deciso di non avere figli. E fu per lo stesso motivo che mio marito scelse questo lavoro, proprio per poter progettare un robot capace di miniaturizzarsi. Ha sempre pensato che alla fine sarebbe stato lui il primo paziente.

 

La signora Arnfeld insistette per parlare con Mike e, date le circostanze, le fu permesso. Ben Johannes, che aveva lavorato con il marito per cinque anni, la condusse nella stanza del robot. Johannes e la signora Arnfeld si conoscevano benissimo e si davano del tu.

La signora Arnfeld aveva visto Mike subito dopo la sua costruzione, mentre veniva sottoposto ai test di base, e Mike si ricordava di lei. Con la sua curiosa voce neutra, troppo piatta per essere umana, le disse: ― Mi fa piacere vederla, signora Arnfeld.

Non era un robot di bell'aspetto. Era quasi conico, con la testa a capocchia di spillo e il tronco molto panciuto. La signora Arnfeld sapeva che la sua forma tozza era dovuta al fatto che il meccanismo di miniaturizzazione, molto ingombrante, era collocato nella zona addominale, così come il cervello, che grazie a quella posizione aumentava la rapidità di risposta. Collocare il cervello in un cranio allungato sarebbe stato un antropomorfismo inutile, le aveva spiegato il marito. Tuttavia Mike sembrava ridicolo, quasi ebete. L'antropomorfismo presentava vantaggi psicologici, pensò la signora Arnfeld, turbata.

― Sei sicuro di aver capito ciò che devi fare, Mike? ― domandò la signora Arnfeld.

― Alla perfezione, signora Arnfeld. Farò sparire ogni traccia del cancro.

Johannes disse: ― Non so se Gregory te lo ha spiegato, ma Mike può riconoscere facilmente le cellule cancerogene e distruggerne il nucleo con rapidità e precisione.

― Sono dotato di laser, signora Arnfeld ― puntualizzò Mike con un curioso tono di orgoglio represso.

― Sì, certo, ma ci sono milioni di cellule cancerogene. Quanto tempo ci vorrà per distruggerle tutte, una a una?

― Non è detto che Mike debba distruggerle una a una, Tertia ― spiegò Johannes. ― Anche se il cancro è diffuso, esso si presenta in grumi di cellule malate. Mike è in grado di recidere e cauterizzare i capillari che portano sangue ai grumi, e in questo modo, in un solo colpo, milioni di cellule morirebbero. Solo occasionalmente dovrà eliminare cellule singole.

― E allora quanto tempo ci vorrà?

Il viso giovanile di Johannes assunse un'espressione indecisa. ― Forse ci vorranno delle ore per fare un lavoro completo, Tertia. Lo ammetto.

― E con il passare dei minuti aumenta la possibilità di riespansione.

― Signora Arnfeld, farò tutto il possibile per prevenire la riespansione.

La signora Arnfeld si rivolse al robot e gli chiese accalorata: ― Davvero, Mike? Sei in grado di prevenire la riespansione?

 


― Non del tutto, signora Arnfeld. Monitorizzando le mie dimensioni e sforzandomi di mantenerle costanti posso ridurre al minimo le cause che potrebbero provocare la riespansione. Naturalmente questo diventa quasi impossibile quando mi sto riespandendo in condizioni controllate.

― Sì, lo so. Mio marito mi ha detto che il momento della riespansione è quello critico. Ma farai del tuo meglio, Mike? Posso fidarmi?

― Le Leggi della Robotica me lo impongono, signora Arnfeld ― disse Mike in tono solenne.

Johannes cercò di rassicurare la signora Arnfeld non appena furono nel corridoio. ― Davvero, Tertia, abbiamo un olo-sonogramma e una scansione dettagliata della zona interessata dal tumore. Mike conosce l'esatta ubicazione di tutte le lesioni cancerogene. Perderà molto tempo per localizzare le piccole lesioni che gli strumenti non possono rilevare, ma questo è inevitabile. Dobbiamo distruggerle tutte, possibilmente, e ci vorrà tempo. Tuttavia Mike sa fino a che punto ridurre le proprie dimensioni e obbedirà agli ordini, di questo puoi stare certa. Un robot deve obbedire agli ordini.

― E la riespansione, Ben?

― Qui siamo nelle mani dei quanti. Non c'è modo di fare previsioni, ma le possibilità che Mike esca dal corpo di tuo marito senza problemi sono più che ragionevoli. Naturalmente dovremo farlo riespandere nel corpo di Gregory, ma solo di quel tanto che ci permetterà di trovarlo ed estrarlo. A quel punto lo trasporteremo di corsa nella stanza sicura dove avverrà il resto della riespansione. Cerca di capire, Tertia. Anche le normali procedure mediche comportano dei rischi.

 

La signora Arnfeld si trovava nella sala di osservazione quando la miniaturizzazione di Mike ebbe luogo. C'erano anche le telecamere dell'olovisione e una rappresentanza scelta di giornalisti. L'importanza dell'esperimento medico aveva reso impossibile tenere alla larga la stampa, ma la signora Arnfeld si era rifugiata in un separé in compagnia di Johannes, ed era stato messo in chiaro che nessuno doveva farle domande, specialmente se fosse successo qualcosa.

Se fosse successo qualcosa! Un'improvvisa riespansione incontrollata avrebbe fatto saltare in aria la sala operatoria e ucciso tutti i presenti. Non a caso la sala di osservazione si trovava in un sotterraneo a mezzo chilometro di profondità.

Il fatto che un imprevisto avrebbe condannato a morte non solo il marito ma anche i tre scienziati che stavano lavorando alla miniaturizzazione (con estrema calma, le sembrava) dava alla signora Arnfeld un senso in qualche modo macabro di tranquillità. In effetti poteva confidare sul fatto che i tre uomini non avrebbero lasciato nulla al caso dal momento che c'era in ballo anche la loro vita. Quindi avrebbero protetto il marito nel migliore dei modi.

Se la procedura avesse avuto successo, un giorno sarebbero riusciti a mettere a punto dei sistemi per automatizzarla, e a quel punto soltanto la vita del paziente sarebbe stata messa repentaglio. E il rischio di incidenti dovuti a negligenza sarebbe aumentato... ma non adesso, non adesso. La signora Arnfeld osservò attentamente i tre scienziati per cogliere eventuali segni di turbamento.

Osservò il processo di miniaturizzazione (lo aveva già visto altre volte) e vide Mike rimpicciolirsi fino a scomparire. Poi seguì la complicata procedura con cui il microrobot venne iniettato nel corpo del marito. Le era stato spiegato che sarebbe stato troppo dispendioso iniettare esseri umani in un dispositivo sottomarino. Se non altro Mike non aveva bisogno di un sistema di respirazione artificiale.

Poi tutto passò sullo schermo che mostrò le immagini in olo-sonogramma della zona interessata all'intervento. Era una rappresentazione tridimensionale, sfuocata e disturbata, resa imprecisa dalla dimensione limitata delle onde sonore e dagli effetti del moto browniano. Le immagini mostrarono Mike che, silenziosamente e al buio, avanzava lungo i tessuti di Gregory Arnfeld sotto la spinta del flusso sanguigno. Era quasi impossibile stabilire che cosa stava facendo, ma Johannes le spiegò tutto con voce bassa e soddisfatta, finché la signora Arnfeld non ne ebbe abbastanza e chiese di essere condotta fuori.

 

Le avevano somministrato un leggero sedativo e aveva dormito fino a sera. Quando Johannes andò a trovarla, la signora Arnfeld si era destata da poco e appariva ancora intontita. Poi, scossa da un'improvvisa paura, disse: ― Com'è andata?

― È stato un successo, Tertia ― si affrettò a risponderle Johannes. ― Un successo completo. Tuo marito è guarito. Certo, non possiamo impedire al cancro di svilupparsi di nuovo, ma per ora tuo marito è guarito.

Tertia si lasciò andare all'indietro, sollevata. ― È magnifico.

― Tuttavia è successo un imprevisto e bisognerà parlarne a Gregory. Riteniamo che sarebbe meglio che lo facessi tu.

― Io? ― Poi, con rinnovata paura: ― Che cos'è successo?

Johannes glielo disse.

 

Poté vedere il marito due giorni dopo l'intervento. Era seduto sul letto, appariva un po' pallido ma era sorridente.

― Nuove prospettive di vita, Tertia ― le disse in tono esaltato.

― Devo ammettere che avevo proprio torto, Greg. L'esperimento ha avuto successo e mi hanno detto che non hanno trovato tracce di cancro.

― Be', su questo bisogna andare cauti. È possibile che ci sia ancora qualche cellula cancerogena, ma il problema sarà risolto dal mio sistema immunitario con l'aiuto di qualche farmaco, e se anche il cancro dovesse ricomparire, cosa che richiederebbe anni, potremmo sempre impiegare di nuovo Mike.

A questo punto Gregory Arnfeld corrugò la fronte e disse: ― A proposito, non ho ancora visto Mike.

La signora Arnfeld mantenne il silenzio.

Arnfeld aggiunse: ― Non me lo hanno permesso.

― Eri debole, caro, e sotto l'effetto dei sedativi. Mike ha frugato nei tuoi tessuti e ha fatto qualche lavoretto di distruzione qua e là. Anche se l'intervento è riuscito, hai bisogno di tempo per ristabilirti.

― Se mi sono ripreso abbastanza per vedere te, posso vedere anche Mike, se non altro giusto per ringraziarlo.

― Un robot non ha bisogno di ricevere ringraziamenti.

― Certo, ma io ho bisogno di farglieli. Senti, Tertia, di' loro che voglio vedere Mike, subito.

La signora Arnfeld esitò, poi giunse a una decisione. Temporeggiare sarebbe stato peggio per tutti. Scelse con cura le parole. ― In effetti, caro, Mike non è disponibile.

― Non è disponibile! Che significa?

― Vedi, ha dovuto fare una scelta. Aveva ripulito i tuoi tessuti alla perfezione. Un lavoro fantastico. A quel punto avrebbe dovuto riespandersi. Si trattava del momento critico.

― Certo, ma come vedi io sono qui, vivo e vegeto. Perché la stai facendo tanto lunga?

― Mike ha deciso di ridurre il rischio al minimo.

― È logico. Allora?

― Be', caro ha deciso di ridurre ulteriormente le sue dimensioni.

― Che cosa? Non poteva, aveva avuto l'ordine di non farlo.

― Questa era la Seconda Legge, Greg. La Prima ha avuto la precedenza. Ha voluto essere certo di salvarti la vita. Era equipaggiato per controllare le proprie dimensioni, e le ha ridotte rapidamente, e quando è diventato molto più piccolo di un elettrone ha usato il raggio laser, che ormai era troppo piccolo per poter nuocere ai tuoi organi vitali, e il rinculo lo ha fatto schizzare via a una velocità quasi pari a quella della luce. È esploso nello spazio. Sono stati rilevati i raggi gamma.

Arnfeld la fissò.― Stai scherzando. Non ci posso credere. Mike è morto?

― Te l'ho appena detto. Mike non poteva evitare di agire in modo tale da salvaguardarti.

― Ma io non volevo questo. Mi serviva per futuri lavori. Non si sarebbe riespanso in modo incontrollato. Sarebbe uscito dal mio corpo sano e salvo.

― Non poteva esserne certo. Non poteva mettere a repentaglio la tua vita, così ha sacrificato la propria.

― Ma la mia vita era meno importante della sua.

― Non per me, caro, né per i tuoi colleghi. Per nessuno. Nemmeno per Mike. ― Gli porse la mano. ― Andiamo, Greg, sei vivo e stai bene. È questo che conta.

Lui spinse via la mano della moglie con un gesto spazientito. ― Non è questo che conta. Tu non capisci. Così non va! Così non va proprio!

 


               ROBBIE

― Novantotto... novantanove... cento. ― Gloria staccò dagli occhi l'avambraccio grassottello e restò un attimo ferma, arricciando il naso e battendo rapidamente le palpebre alla luce del sole. Poi, cercando di guardare contemporaneamente in tutte le direzioni, si allontanò di un passettino dall'albero a cui si era appoggiata.

Allungò il collo per controllare un folto di cespugli alla sua destra, poi si spostò ulteriormente per studiarne gli oscuri recessi da un'angolazione migliore. Il silenzio profondo era rotto soltanto dall'incessante ronzio degli insetti e dal cinguettio intermittente di un uccello impavido che osava sfidare il sole del mezzodì.

― Scommetto che è entrato nella casa, come se non gli avessi detto mille volte che non vale ― disse Gloria, imbronciata.

Con le labbra serrate e la fronte corrugata in un'espressione di rimprovero, Gloria avanzò decisa verso la costruzione a due piani che sorgeva in cima al vialetto.

Sentì troppo tardi il fruscio alle sue spalle, seguito dal rumore caratteristico e ritmato dei piedi metallici di Robbie. Si voltò di scatto e vide il suo compagno di giochi sbucare trionfante dal nascondiglio e dirigersi di corsa all'albero-tana.

― Robbie, aspetta! ― gridò la bambina, avvilita. ― Così non vale! Avevi promesso che non ti saresti messo a correre se prima non ti trovavo. ― I suoi piedini non potevano certamente competere con le falcate da gigante di Robbie. Ma a pochi metri dalla meta, Robbie rallentò di colpo l'andatura e cominciò a strascicare i piedi. Gloria, con uno scatto rabbioso, lo superò ansimando e toccò per prima il tronco agognato.

Si girò raggiante verso l'amico fedele e ne ricompensò lo sforzo con la più abietta ingratitudine, canzonandolo crudelmente per la sua scarsa abilità nella corsa.

― Robbie non sa correre, Robbie non sa correre ― gli gridò con tutta la forza che i suoi otto anni le consentivano, scandendo le parole in una cantilena stridula. ― Lo posso battere quando voglio, lo posso battere quando voglio.

Robbie non rispose, naturalmente. Non a parole, almeno. Le tese un tranello benevolo fingendo una fuga, e ben presto Gloria si ritrovò a correre in cerchio intorno a se stessa, con le braccia protese nel vano tentativo di acchiappare il robot che continuava a schivarla di stretta misura.

― Robbie, fermati! ― strillò la bambina ormai a corto di fiato e scossa da singulti di riso.

Il robot si voltò di scatto, la prese sotto le ascelle e la fece roteare in aria. Per un istante Gloria vide solo dei contorni sfuocati sullo sfondo di una vacuità azzurra verso cui il verde degli alberi si protendeva famelico. E di colpo si ritrovò seduta sull'erba, appoggiata a una gamba di Robbie, la mano ancora stretta intorno a un dito di metallo.

Le ci volle un po' per riprendere fiato. Si passò una mano tra i capelli scarmigliati, più per imitare uno dei gesti abituali della madre che per altro, poi si guardò il vestito per assicurarsi che non fosse strappato.

Diede una pacca sul petto di Robbie e gli disse: ― Cattivo! Adesso ti sculaccio.

Robbie si fece piccolo per la paura e si coprì il viso con le mani, così Gloria si affrettò ad aggiungere: ― No, Robbie, non ti darò le sculacciate. Però adesso mi nascondo io, perché tu hai le gambe più lunghe e mi avevi promesso che non ti saresti messo a correre finché non ti trovavo.

Robbie le fece cenno di sì con la testa - un piccolo parallelepipedo smussato che era attaccato al busto, altro parallelepipedo più grande, grazie a un perno corto e flessibile - e appoggiò ubbidiente la faccia contro l'albero. Una sottile pellicola di metallo calò sopra gli occhi lucenti e il corpo cominciò a emettere un ticchettio regolare e penetrante.

― Adesso non sbirciare... e conta fino a cento senza saltare i numeri ― gli disse Gloria prima di correre a nascondersi.

I secondi furono scanditi con regolarità costante, e allo scoccare del centesimo le palpebre si sollevarono e il rosso luminoso degli occhi di Robbie perlustrò la zona circostante. Lo sguardo del robot si soffermò su un pezzo di percalle colorato che spuntava da dietro un masso tondeggiante. Avanzò di qualche passo ed ebbe la certezza che Gloria si era acquattata dietro la roccia.

Restando sempre tra il masso e l'albero-tana, Robbie avanzò verso il nascondiglio, e quando Gloria fu chiaramente visibile e non poté più sperare di non essere stata scoperta, il robot la additò e si batté l'altra mano contro la coscia, che risuonò. Gloria uscì allo scoperto sbuffando spazientita.

― Hai guardato mentre contavi! ― lo accusò ingiustamente. ― Comunque non ho più voglia di giocare a nascondino. Portami a fare un giro a cavalluccio.

Ma Robbie, offeso, si sedette sull'erba e scosse vigorosamente la testa.

Gloria cambiò immediatamente registro e prese a vezzeggiarlo dolcemente. ― Andiamo, Robbie, scherzavo. Portami a cavalluccio, per favore.

Ma Robbie non sembrava intenzionato a darsi per vinto così facilmente. Fissò il cielo in modo ostentato e scosse la testa con maggiore enfasi.

― Robbie, ti prego, portami a cavalluccio ― insistette lei, gettandogli le braccia al collo. Poi, di punto in bianco, si staccò da lui. ― Se non mi ci porti mi metto a piangere ― lo ricattò la bambina, mettendo il broncio.

Robbie, inflessibile, prestò scarsa attenzione a quella terribile minaccia e continuò a scuotere la testa. Gloria decise allora di giocare il suo asso nella manica.

 


― Allora non ti racconterò più nemmeno una favola, così impari ― disse accalorata.

Robbie si arrese senza condizioni davanti a quell'ultimatum, e annuì con tale vigore che il collo metallico emise uno scricchiolio ovattato. Sollevò delicatamente la bambina e se la mise sulle spalle possenti e piatte.

Gloria ricacciò indietro le lacrime ed emise un gridolino di piacere. La pelle metallica di Robbie, che una rete interna di induttori ad alta resistenza mantenevano a una temperatura costante di 21 gradi, era piacevole al tatto, mentre il delizioso rumore sordo prodotto dai tacchi di Gloria che rimbalzavano ritmicamente contro il petto del robot era incantevole.

― Adesso sei un aliante, Robbie, un grande aliante argentato. Apri le braccia e tienile tese, Robbie. Avanti, Robbie, apri le braccia, altrimenti non puoi essere un aliante.

La logica del ragionamento non faceva una piega. Le braccia di Robbie si trasformarono in ali che sfruttavano le correnti d'aria e il robot diventò l'aliante d'argento.

Gloria girò la testa del robot e si inclinò verso destra. Robbie virò bruscamente. Gloria equipaggiò il velivolo di un motore che faceva “br-r-r” e di mitragliatrici che facevano “tatatatatà.” I pirati dell'aria stavano sferrando un attacco e le mitragliatrici dell'aereo sputavano fuoco. I nemici cadevano a grappoli.

― Ne ho beccato uno, e adesso un altro, e sono due ― gridava Gloria. ― Svelti, ragazzi, stiamo finendo le munizioni. ― Sparava agli inseguitori con un coraggio indomito e Robbie si trasformò in una nave spaziale dal muso tozzo che sfrecciava nel vuoto a tutta velocità.

E volò fino allo spiazzo di erba alta dalla parte opposta del campo, e qui si fermò in modo così repentino che il suo pilota eccitato emise un grido di paura. Robbie depose la bambina sul soffice manto erboso.

Gloria, a corto di fiato, esclamò più volte in un sussurro: ― Che bello!

Robbie aspettò che la bambina riprendesse fiato e poi le tirò delicatamente una ciocca di capelli.

― Vuoi qualcosa? ― gli chiese Gloria, fingendo ad arte una sorpresa che non trasse in inganno nemmeno per un momento l'enorme baby-sitter che tirò con più forza la ciocca.

― Ah, ho capito. Vuoi che ti racconti una favola.

Robbie fece un cenno di assenso.

― Quale?

Robbie tracciò nell'aria un semicerchio.

― Ancora quella? ― protestò la bambina. ― Ti ho raccontato Cenerentola mille volte. Non ti sei ancora stancato di sentirla? È una storia per bambini.

Un altro semicerchio.

― Se proprio vuoi sentire questa... ― Gloria ripassò mentalmente in rassegna i fatti salienti della storia, comprese le molte varianti inventate da lei, e gli disse: ― Sei pronto? Allora, c'era una volta una bellissima bambina di nome Cenerentola. Cenerentola aveva una matrigna cattivissima e due sorellastre bruttissime e cattivissime...

 

Gloria era giunta al momento culminante della narrazione. Robbie stava ascoltando con estrema attenzione la vicenda di Cenerentola che, allo scoccare della mezzanotte, si ritrovava a essere per incanto la povera sguattera di tutti i giorni. Proprio in quel momento Gloria fu interrotta.

― Gloria!

Era la voce stridula di una donna che doveva aver già chiamato più di una volta, e il tono lasciava intendere che la preoccupazione stava superando il fastidio.

― La mamma mi chiama ― disse Gloria, per nulla felice. ― È meglio che mi riporti a casa, Robbie.

Robbie non se lo fece ripetere. In qualche modo si rendeva conto che gli conveniva obbedire alla signora Weston senza il minimo indugio. Durante il giorno il padre di Gloria non era quasi mai in casa, tranne la domenica (e quel giorno era domenica), e quando c'era si comportava da persona affabile e gentile. Ma la madre di Gloria rappresentava per Robbie una fonte di disagio, e per questo lui sentiva sempre l'impulso di starle alla larga.

La signora Weston li vide emergere dallo spiazzo di erba alta e rientrò in casa.

― A forza di chiamarti mi fa male la gola, Gloria ― le disse severamente la madre qualche istante dopo. ― Dove ti eri cacciata?

― Ero con Robbie ― le rispose la bambina con voce tremante. ― Gli stavo raccontando la favola di Cenerentola e non mi sono accorta che era ora di pranzo.

― Peccato che non se ne sia accorto nemmeno lui.― La signora Weston sembrò notare solo allora la presenza di Robbie, così gli si rivolse con astio.― Puoi andare, Robbie. E non tornare finché non ti richiamo io.

Robbie fece per andarsene, ma esitò quando sentì la bambina prendere le sue difese. ― Mamma, devi farlo restare. Non ho finito di raccontargli la favola di Cenerentola. Gli ho promesso che gliela avrei raccontata e ancora non ho finito.

― Gloria!

― Mamma, ti prometto che se ne starà buono e tranquillo in un angolo senza fiatare... sì, insomma, senza battere ciglio. Nemmeno ti accorgerai della sua presenza. È vero, Robbie?

Robbie scosse avanti e indietro la testa massiccia.

― Gloria, se non la smetti subito, non vedrai Robbie per una settimana intera.

La bambina abbassò gli occhi. ― Va bene! Però Cenerentola è la sua favola preferita e io non ho finito di raccontargliela. Sapessi quanto gli piace.

Il robot si allontanò con aria sconsolata e Gloria soffocò un singhiozzo.

 

George Weston si sentiva perfettamente a proprio agio. La domenica pomeriggio si sentiva sempre in quel modo. Un buon pasto sostanzioso sotto la tettoia, un divano morbido e consumato sul quale accomodarsi dopo pranzo, una copia del Times, le pantofole ai piedi e niente camicia addosso... era forse possibile non sentirsi a proprio agio?

Quindi l'ingresso della moglie rappresentò per lui una spiacevole intrusione. Dopo dieci anni di matrimonio era ancora così indicibilmente cretino da amarla, e gli faceva sempre piacere vederla. Ma i dopopranzo domenicali erano sacri, e per lui il vero benessere era rappresentato da due o tre ore di completa solitudine. Così fissò lo sguardo sull'articolo riguardante la spedizione Lefèbre-Yoshida su Marte (sarebbe partita da Base Luna e sembrava avere buone probabilità di successo) e fece finta di non aver sentito entrare la moglie.

La signora Weston attese pazientemente due minuti, poi altri due impazientemente prima di rompere il silenzio.

― George?

― Uhm?

― George, sto parlando con te. Ti dispiacerebbe mettere via un attimo il giornale?

Il giornale cadde sul pavimento con un fruscio e Weston rivolse alla moglie un'espressione infastidita. ― Che cosa c'è, cara?

― Lo sai benissimo, George. Si tratta di Gloria e di quella macchina terribile.

― Quale macchina terribile?

― Non fare il finto tonto, per favore. Sai bene che mi riferisco a quel robot che Gloria chiama Robbie. Le sta sempre attaccato.

― Perché non dovrebbe farlo, visto che il suo compito è proprio questo? E poi non è affatto una macchina terribile. È il miglior robot esistente in commercio e mi costa metà dei soldi che guadagno in un anno, per la miseria. Ma ne vale la pena, è più in gamba lui che metà dei miei collaboratori messi insieme.

Fece per raccogliere il giornale da terra, ma la moglie fu più lesta di lui e glielo allontanò dal divano.

― Stammi a sentire, George. Non continuerò ad affidare mia figlia alle cure di una macchina. e non mi importa niente quanto sia in gamba. Non ha un'anima, e nessuno può dire che cosa gli passa per la testa. I bambini non sono fatti per essere accuditi da una cosa di metallo.

Weston corrugò la fronte. ― Ti spiace spiegarmi questa novità? Sono due anni che Robbie è in casa nostra e non ti ho mai visto così preoccupata.

― All'inizio era diverso. Era una novità, mi risparmiava fatica e... ed era di moda. Ma adesso non so. I vicini...

― Che cosa c'entrano i vicini? Adesso ascoltami bene. Un robot è infinitamente più affidabile di una balia in carne e ossa. Robbie è stato costruito per un unico scopo, cioè quello di essere il compagno di giochi di una bambina. La sua "mentalità" è stata creata per rispondere a questa esigenza. Lui è costretto a essere fedele, amorevole e gentile. È una macchina costruita per svolgere esclusivamente questo compito. Non si può dire altrettanto degli esseri umani.

― Ma qualcosa potrebbe andare storto. Sì, insomma, una... ― la signora Weston non era ferrata in materia di robot ― ... basterebbe che una piccola vite si allentasse per far diventare quel coso un forsennato, e... ― Non riuscì a dare voce all'ovvia conclusione del ragionamento.

― Sciocchezze ― protestò Weston, che si sentì scosso da un brivido. ― È una cosa ridicola. Quando acquistammo Robbie discutemmo a lungo sulla Prima Legge della Robotica. È impossibile che un robot possa danneggiare un essere umano. Se un inconveniente qualsiasi rischiasse di fargli violare la Prima Legge, i suoi circuiti si disattiverebbero con ampio margine di anticipo. È provato matematicamente. Inoltre due volte all'anno faccio venire un tecnico della U.S. Robots che revisiona da cima a fondo quel povero gingillo. Insomma, le possibilità che Robbie impazzisca sono pari a quelle che impazziamo noi. Anzi, addirittura minori. E poi come faresti a portarlo via a Gloria?

Provò di nuovo a riprendere il giornale e stavolta la moglie lo scagliò nella stanza accanto.

― Senti, George, mettila pure come ti pare, però resta il fatto che Gloria vuole giocare soltanto con Robbie. Ci sono decine di bambini e bambine con i quali potrebbe fare amicizia, ma non c'è niente da fare. Se non fossi io a costringerla, nemmeno si avvicinerebbe ai suoi coetanei. Non è così che cresce una bambina. Vuoi che cresca normale, no? Vuoi che sia in grado di prendere il suo posto nella società, spero.

― Le tue paure sono infondate, Grace. Fa' finta che Robbie sia un cane. Ho visto centinaia di bambini che farebbero più volentieri a meno del padre che del cane.

― Un cane è diverso, George. Dobbiamo assolutamente sbarazzarci di quell'orribile coso. Puoi darlo indietro alla casa costruttrice. Mi sono informata, non ci sono problemi.

― Ti sei informata? Grace, adesso stammi bene a sentire prima che questa discussione degeneri. Ci teniamo il robot finché Gloria non sarà più grandicella. Il discorso è chiuso. ― E con quelle parole uscì rabbiosamente dalla stanza.

 

Due sere dopo la signora Weston accolse il marito sulla porta di casa. ― George, devi ascoltarmi. In paese la gente mormora.

― Riguardo a cosa? ― Weston si infilò nel bagno e si lavò il viso, senza ascoltare la risposta della moglie.

La signora Weston pazientò. Poi disse:― Riguardo a Robbie.

Weston uscì dal bagno tenendo in mano un telo di spugna. ― Che cosa stai dicendo? ― le chiese, la faccia rossa di rabbia.

― Oh, è da tempo che ne sento parlare. Ho cercato di far finta di niente, però adesso non posso più mettere la testa sotto la sabbia. Quasi tutti gli abitanti della zona ritengono che Robbie sia una minaccia. Quando fa buio, i bambini non possono nemmeno avvicinarsi a casa nostra. Ordine dei genitori.

― Ma noi gli abbiamo affidato le cure di nostra figlia, figurati un po'!

― Be', quando si tratta di questi argomenti la gente non ragiona più.

― E allora che vadano tutti al diavolo.

― Questo non risolve il problema. Io in paese devo andarci tutti i giorni per fare spese, la gente la incontro. E in città la situazione è addirittura peggiore. A New York è stata appena approvata un'ordinanza che vieta ai robot di uscire in strada dal tramonto all'alba.

― D'accordo, ma non possono impedirci di tenere un robot in casa. Grace, è inutile fare tanti giri di parole, di' chiaramente che non vuoi più Robbie tra i piedi. Comunque è inutile. Robbie ce lo teniamo!

 

Però amava la moglie, e la cosa peggiore era che lei lo sapeva. In fondo George Weston era un uomo, poverino, e la moglie sfruttò appieno le armi che il sesso maschile, più goffo e scrupoloso, ha imparato giustamente ma invano a temere.

Durante la settimana successiva Weston gridò dieci volte: ― Robbie resta e basta! ― Però ogni volta la sua fermezza sembrava fiaccarsi, e lui accompagnava le parole con un grugnito sempre più forte e agonizzante.

Infine arrivò il giorno in cui Weston si rivolse alla figlia con aria colpevole e le propose di andare in paese a vedere un "bellissimo" spettacolo di visivox.

Gloria batté le mani, felicissima. ― Può venire anche Robbie?

― No, tesoro ― le rispose il padre, trasalendo al suono delle proprie parole. ― I robot non possono entrare al visivox.

Gli racconterai tutto quando torni a casa. ― Pronunciò le ultime parole balbettando, e dovette distogliere lo sguardo.

Mentre tornavano a casa, Gloria non fece altro che ripetere in tono entusiasta quanto si fosse divertita, perché il visivox era stato davvero uno spettacolo fantastico.

La bambina attese che il padre sistemasse la jet-macchina nel garage sotterraneo. ― Aspetta che lo racconti a Robbie, papà! Gli sarebbe piaciuto un mondo. Specialmente la scena in cui Francis Fran indietreggia piano piano e finisce tra le grinfie di uno degli uomini-leopardo. Come correva! ― Scoppiò a ridere al ricordo. ― Papà, ci sono davvero gli uomini-leopardo sulla Luna?

― Credo di no ― le rispose Weston, distrattamente. ― È una di quelle cose che ti vogliono far credere per farti ridere. ― Non poteva continuare ad armeggiare nel garage. Doveva affrontare la situazione.

Gloria si lanciò di corsa attraverso il prato. ― Robbie! Robbie!

Si fermò di colpo alla vista di un bellissimo collie che dalla veranda la stava guardando con i suoi tristi occhi marroni, scodinzolando.

― Che bel cane ― esclamò Gloria. Salì i gradini, si avvicinò con cautela all'animale e lo accarezzò. ― È per me, papà?

― Sì, Gloria ― le rispose la madre che nel frattempo era uscita di casa. ― Non è carino? Senti che pelo morbido! Ed è buono. Gli piacciono i bambini.

― È bravo a giocare?

― Certo. Conosce moltissimi giochi. Vuoi vederne qualcuno?

― Sicuro, ma voglio che ci sia anche Robbie. Robbie! ― Corrugò la fronte e sembrò perplessa. ― Scommetto che non vuole uscire dalla sua camera perché non l'ho portato al visivox. Papà, dovrai spiegarglielo tu. A me potrebbe non credere, ma per lui le tue parole sono oro colato.

Le labbra di Weston si tesero ulteriormente in una smorfia imbarazzata. Guardò la moglie ma lei evitò il suo sguardo.

Gloria si voltò e si lanciò di corsa giù per le scale della cantina, gridando: ― Robbie, vieni a vedere che cosa mi hanno portato il papà e la mamma. Mi hanno regalato un cane.

Un minuto dopo era già di ritorno e appariva spaventata. ― Mamma, Robbie non è in camera sua. Dov'è andato?

Non vi fu risposta. George Weston tossì e sembrò improvvisamente interessato a una nuvola passeggera.

― Mamma, dov'è Robbie? ― La voce tremolante di Gloria presagiva lacrime imminenti.

La signora Weston si sedette in terra e attirò a sé la figlioletta. ― Gloria, sii brava. Credo che Robbie se ne sia andato.

― Andato? Dove? Dov'è che è andato, mamma?

― Non lo sappiamo, tesoro. È sparito, ecco tutto. Lo abbiamo cercato dappertutto senza riuscire a trovarlo.

― Vuoi dire che non tornerà mai più? ― le chiese la bambina con un'espressione inorridita.

― Forse lo ritroveremo presto. Continueremo a cercarlo. Tu intanto potrai giocare con il tuo nuovo cagnolino. Guardalo! Si chiama Lampo e sa...

― Non lo voglio quel cagnaccio, voglio Robbie. ― Gli occhi di Gloria erano gonfi di lacrime. ― Dovete ritrovare Robbie. ― L'emozione le ostruì la gola e la bambina scoppiò a piangere disperatamente.

La signora Weston guardò il marito in cerca di aiuto, ma lui si stava dondolando sui piedi e continuava a fissare ostinatamente il cielo. Così toccò a lei consolare la figlioletta. ― Non piangere, Gloria. Robbie era soltanto una macchina, una vecchia macchina cattiva. Era senza vita.

― No che non era una macchina ― gridò Gloria, con foga e in modo sgrammaticato. ― Era una persona come me e te, ed era il mio amico. Lo rivoglio. Oh, mamma, lo rivoglio!

La signora Weston emise un gemito sconsolato e lasciò la figlia al proprio dolore.

― Lasciamo che si sfoghi ― disse al marito. ― Il dolore dei bambini passa in fretta. Tra qualche giorno avrà del tutto dimenticato quel robot, come se non fosse mai esistito.

Ma il tempo dimostrò che la signora Weston aveva peccato di facile ottimismo. Gloria smise di piangere, certo, ma smise anche di sorridere, e con il passare dei giorni si fece sempre più taciturna e scontrosa. E il suo atteggiamento di passivo sconforto portò allo stremo delle forze la signora Weston, la quale si sarebbe arresa se fosse stata capace di ammettere la propria sconfitta davanti al marito.

Poi, una sera, piombò in salotto e si sedette a braccia conserte assumendo la posa di chi stava ribollendo di rabbia.

Il marito allungò il collo per guardarla da sopra il bordo del giornale che stava leggendo. ― E adesso che altro c'è, Grace?

― C'è che quella bambina mi sta facendo venire l'esaurimento nervoso, George. Oggi ho dovuto restituire il cane. Gloria mi ha detto che le dava fastidio soltanto vederlo.

Weston abbassò il giornale e nei suoi occhi scintillò un barlume di speranza. ― Forse... forse dovremmo farci restituire Robbie. Si può fare, sai. Posso parlare con...

― No ― protestò lei. ― Non se ne parla neppure. Non possiamo dargliela vinta così facilmente. Mia figlia non sarà allevata da un robot, anche se ci volessero anni a farglielo dimenticare.

Weston sollevò di nuovo il giornale con aria seccata. ― Un anno così e mi verranno i capelli bianchi prima del tempo.

― Sei davvero di grande aiuto, George ― fu il glaciale commento della moglie. ― Credo che Gloria abbia bisogno di cambiare aria. Qui le è più difficile dimenticare Robbie. Tutto quanto le ricorda Robbie, ogni albero, ogni pietra. È la situazione più assurda che mi sia mai capitato di vivere. Una bambina che si dispera per la perdita di un robot.

― Tanto per non divagare, a che cosa ti riferivi quando hai detto che dovrebbe cambiare aria?

― La porteremo a New York.

― In città! In agosto, per giunta! Dico, hai idea di come sia New York in agosto? È insopportabile.

― Milioni di persone la sopportano.

― Ma non hanno un posto come questo dove andare. Se non fossero costrette, non ci resterebbero di certo.

― Noi siamo costretti. Partiremo subito, appena avremo sistemato le nostre cose. In città Gloria troverà tante cose interessanti e tanti amici, e sono certa che si riprenderà e dimenticherà quella macchina.

― Dio mio ― gemette la sua dolce, debole metà. ― I marciapiedi di New York sono come griglie arroventate.

― Non abbiamo scelta ― fu la risposta irremovibile della moglie. ― Nell'ultimo mese Gloria ha perso due chili e mezzo, e la salute della mia piccina mi sta più a cuore del tuo attaccamento alle comodità.

― Peccato che tu non abbia pensato alla salute della tua piccina prima di toglierle il suo amato robot ― borbottò Weston tra sé.

 

Gloria mostrò immediati segni di miglioramento non appena seppe dell'imminente viaggio a New York. Ne parlava poco, ma quando lo faceva sembrava ansiosa di partire. Tornò a sorridere e riprese a mangiare con appetito quasi normale.

La signora Weston, soddisfatta fino a gongolare, non perdeva occasione di esultare con il marito, ancora scettico.

― Sai, George, mi sta aiutando a preparare i bagagli come un angioletto, e chiacchiera del più e del meno come se non avesse una sola preoccupazione al mondo. È proprio come ti dicevo, basta sostituire i vecchi interessi con qualcosa di nuovo.

― Bah ― esclamò in tono scettico il marito. ― Me lo auguro.

I preparativi vennero sbrigati in fretta. La signora Weston fece preparare la casa in città e assunse due custodi per quella di campagna. Quando finalmente arrivò il giorno della partenza, Gloria era di nuovo la bambina di un tempo, e mai una sola volta pronunciò il nome di Robbie.

Con l'umore alle stelle, la famiglia prese un girotaxi per andare all'aeroporto (Weston avrebbe preferito prendere il suo autogiro privato, ma era una vettura a due posti priva di bagagliaio) e si imbarcò sull'aereo già pronto al decollo.

― Vieni, Gloria ― disse la signora Weston. ― Ti ho riservato un posto vicino al finestrino, così potrai goderti il panorama.

Gloria si affrettò tutta contenta lungo il corridoio e prese posto in poltrona; poi schiacciò il naso, che diventò un piccolo ovale bianco, contro lo spesso vetro trasparente per guardare fuori con un interesse che aumentò non appena l'improvviso sibilo dei motori riempì la cabina. Era troppo piccola per provare paura quando vide il suolo allontanarsi sotto di lei come se sprofondasse, e nemmeno per spaventarsi per l'improvviso aumento di peso che diventò il doppio del normale. Ma non era troppo piccola per non provare un profondo interesse. Solo quando il terreno sottostante ebbe assunto le sembianze di una piccola trapunta composta da tanti riquadri cuciti insieme Gloria staccò il naso dal finestrino e si rivolse alla madre.

― Arriveremo presto in città, mamma? ― le chiese massaggiandosi il naso gelato e osservando con interesse la chiazza di umidità che il suo respiro aveva formato e che adesso si stava restringendo fino a scomparire.

― Tra circa mezz'ora, tesoro. ― Poi, in tono appena venato dall'ansia, la signora Weston le chiese: ― Non sei contenta? Non credi che ti divertirai in città, con tutti quei palazzi, e la gente, e le tante cose interessanti da vedere? Andremo tutti i giorni al visivox, potremo vedere tanti spettacoli, compreso il circo, e andare al mare e...

― Sì, mamma ― la interruppe Gloria palesando scarso interesse per i programmi della madre. L'aereo stava sorvolando un banco di nubi, e Gloria fu immediatamente affascinata dall'insolita esperienza di trovarsi al di sopra delle nuvole. Poi, quando l'aereo si ritrovò a fendere un cielo di nuovo limpido, la bambina si rivolse alla madre con l'aria misteriosa di chi sa più cose di quante ne lascia a intendere.

― Io so perché stiamo andando in città, mamma.

― Davvero? ― La signora Weston non poté trattenere una certa perplessità. ― Perché, tesoro?

― Non me lo hai detto perché volevi farmi una sorpresa, ma io lo so. ― Per un istante Gloria si compiacque della propria perspicacia, poi si mise a ridere allegramente. ― Stiamo andando a New York per cercare Robbie, non è vero? Ci rivolgeremo agli investigatori.

L'affermazione di Gloria sorprese George Weston nell'atto di bere un bicchiere d'acqua, e il risultato fu disastroso. Weston emise una sorta di gemito strozzato, dalla bocca fuoriuscì uno spruzzo d'acqua, poi cominciò a tossire. Quando riuscì a riprendere fiato, restò immobile con il viso paonazzo, l'abito bagnato e il morale sotto le scarpe.

La signora Weston mantenne la calma, ma quando Gloria ripeté la domanda con un tono di voce più ansioso, le saltarono i nervi.

― Può darsi ― le rispose aspra. ― Adesso però sta seduta e non ti muovere, accidenti.

 

Nel 1998 d.C. New York era un paradiso per i turisti, più di quanto non lo fosse mai stata nel corso della sua storia. I genitori di Gloria se ne resero conto e sfruttarono al massimo la situazione.

Seguendo le direttive della moglie, George Weston si organizzò in modo tale da potersi allontanare dall'ufficio per un mese. Voleva dedicare tutto il suo tempo al compito di "allontanare Gloria dall'orlo della rovina", per usare le sue stesse parole. Come faceva sempre, anche stavolta Weston si comportò in modo efficiente, scrupoloso e pragmatico. Prima che il mese fosse trascorso, tutto quello che si poteva fare era stato fatto.

Gloria fu condotta in cima al Roosevelt Building, alto ottocento metri, da dove poté contemplare attonita i tetti degli edifici che formavano una distesa frastagliata che si saldava all'orizzonte con i campi di Long Island e le pianure del New Jersey. Visitarono gli zoo dove Gloria provò un misto di paura ed eccitazione davanti alla gabbia "di un leone in carne e ossa" (e restò delusa dal fatto che i guardiani gli dessero da mangiare carne cruda invece di esseri umani, come si aspettava lei). Gloria chiese con insistenza e risolutezza di vedere "la balena".

Poi fu la volta dei musei, dei parchi, delle spiagge e dell'acquario.

La portarono a fare un giro sull'Hudson a bordo di un battello a vapore arredato nello stile antiquato dei pazzi anni Venti. Partecipò a un volo dimostrativo che la fece viaggiare nella stratosfera, dove il cielo trapunto di stelle si tinse di viola e la terra coperta di bruma assunse le sembianze di un'immensa ciotola concava. Un sottomarino dalle pareti di vetro la portò negli abissi dello stretto di Long Island, dove le strane e inverosimili creature marine che popolavano quel mondo verde e tremolante la sbirciavano per poi scappare via.

Per non farle perdere contatto con le cose più concrete, la signora Weston la portò ai grandi magazzini, dove la bambina poté divertirsi in un mondo a suo modo altrettanto fatato.

Così, quando il mese fu quasi trascorso, i Weston si convinsero di avere fatto tutto il possibile per allontanare definitivamente dalla mente della figlia il robot scomparso. Ma non erano sicuri di esserci riusciti.

Restava il fatto che Gloria, ovunque si trovasse, dedicava tutto il suo interesse ai robot presenti. Per quanto quello che vedeva potesse essere affascinante e nuovo per i suoi occhi di bambina, si distraeva subito se vedeva di sfuggita il movimento di una sagoma metallica.

 La signora Weston fece di tutto pur di riuscire a tenere Gloria lontana da qualsiasi robot.

La situazione raggiunse l'apice al Museo della Scienza e dell'Industria. Il museo aveva annunciato uno speciale "programma per bambini" che prevedeva l'esposizione di meraviglie scientifiche accompagnate da spiegazioni adatte a un pubblico infantile. I Weston, naturalmente, avevano messo quella visita in cima alla lista delle cose da fare "a ogni costo".

Mentre erano completamente ipnotizzati dagli exploit di un potente elettromagnete, la signora Weston si accorse che Gloria era sparita. Dopo un momento di panico iniziale fu presa la decisione di cercare la bambina con l'aiuto di tre inservienti.

Gloria, naturalmente, non era tipo da vagare senza meta. Per l'età che aveva, era una bambina particolarmente determinata e pragmatica, e da quel punto di vista aveva ereditato i geni della madre. Al terzo piano aveva visto un'enorme freccia che indicava ai visitatori la sala che ospitava il Robot Parlante. Aveva letto attentamente la scritta e aveva notato che i genitori non erano affatto intenzionati a seguire quell'indicazione, così aveva fatto la cosa più ovvia. Alla prima distrazione dei genitori, si era allontanata e aveva seguito la freccia.

 

Il Robot Parlante era una macchina molto strana e complicata, un aggeggio del tutto privo di praticità che aveva soltanto valore pubblicitario. Una volta ogni ora un gruppo di visitatori, accompagnato da una guida, entrava nella sala e sussurrava al tecnico di turno una serie di domande. Il tecnico decideva quali erano quelle adatte ai circuiti del robot e gliele trasmetteva.

Era una cosa piuttosto banale. A qualcuno forse interessava sapere che il quadrato di 14 è 196, che la temperatura in quel momento era di 22 gradi e la pressione atmosferica di 774 millimetri di mercurio, e che il peso atomico del sodio è 23, ma non serviva di certo un robot per ottenere quel tipo di informazioni, specialmente se il robot in questione era una massa ingombrante e inamovibile di fili e induttori che occupava più di 25 metri quadrati di spazio.

Poche persone si davano pena di tornare per una seconda sessione di domande, ma una ragazza sulla quindicina sedeva tranquilla su una panca ad aspettare il terzo turno. C'era soltanto lei nella stanza quando Gloria entrò.

Gloria non la guardò nemmeno. In quel momento per lei un altro essere umano era soltanto un oggetto privo di importanza. La sua attenzione andò tutta a quella cosa massiccia con le ruote. Ebbe un attimo di esitazione dovuta allo sgomento. Il Robot Parlante non somigliava affatto a nessuno dei robot che lei aveva visto in vita sua.

Con voce cauta e dubbiosa, Gloria chiese alla macchina: ― Mi scusi, signor robot, lei è il Robot Parlante, signore? ― Non ne era sicura, però le sembrava che a un robot dotato di parola bisognasse rivolgersi con grande reverenza.

(Il viso magro e insignificante della ragazza seduta sulla panca fu attraversato da un'espressione di intensa concentrazione. La ragazza tirò fuori di scatto un piccolo taccuino e cominciò a scrivere di getto con calligrafia infantile.)

Si levò un fruscio di ingranaggi oliati, poi una voce dal timbro meccanico, piatta e priva di accenti, rimbombò nella stanza. ― Io... sono... il... robot... che... parla.

Gloria lo fissò mestamente. Il robot parlava davvero, però il suono proveniva dal suo interno. Non c'era una faccia a cui rivolgersi. Gloria gli chiese: ― Signor robot, può aiutarmi, signore?

Il Robot Parlante era stato progettato per rispondere alle domande, e gli venivano trasmesse soltanto le domande a cui sapeva rispondere. Per questo era molto sicuro delle proprie capacità. ― Io... posso... aiutarti.

― Grazie, signor robot, signore. Ha visto Robbie?

― Chi... è... Robbie?

― Robbie è un robot, signor robot, signore. ― Gloria si mise in punta di piedi. ― È alto circa così, signor robot, signore, un pochino di più, ed è molto carino. Ha la testa, sa. Voglio dire, lei non ce l'ha, signor robot, ma lui sì, signore.

Il Robot Parlante era rimasto indietro. ― Un... robot?

― Sì, signor robot, signore. Un robot come lei, solo che lui non sa parlare, naturalmente, e sembra una persona vera.

― Un robot... come... me?

― Sì, signor robot, signore.

Il Robot Parlante emise un farfugliare confuso unito ad alcuni rumori intermittenti. Il fatto che Gloria avesse postulato la generalizzazione secondo la quale lui non era un oggetto singolo ma apparteneva a una categoria precisa lo aveva colto di sorpresa. La macchina ce la mise tutta per assimilare il concetto e lo sforzo provocò la fusione di una decina di induttori. Cominciarono a ronzare piccoli segnali di allarme.

(A quel punto la ragazza sulla quindicina abbandonò la stanza. Aveva preso appunti sufficienti per la sua tesina di Fisica 1 sugli "Aspetti pratici della Robotica". Quella tesina era il primo di una serie di saggi che Susan Calvin avrebbe dedicato all'argomento.)

Gloria stava ancora aspettando pazientemente la risposta del robot quando udì alle sue spalle una voce gridare: ― Eccola. ― Non le fu difficile riconoscere la voce della madre.

― Cosa ci fai qui, brutta cattiva? ― gridò la signora Weston, la cui ansia si era già trasformata in rabbia. ― Ti rendi conto che ci hai fatto spaventare a morte? Perché sei scappata?

Anche l'ingegnere elettronico era piombato nella stanza come una furia. Con le mani nei capelli stava chiedendo ai presenti chi era stato a molestare la macchina. ― Non sapete leggere i cartelli? ― urlò l'ingegnere. ― In questa sala non è permesso entrare senza un inserviente.

Gloria dovette gridare per imporre la sua voce addolorata su quella dell'ingegnere: ― Sono venuta a vedere il Robot Parlante, mamma. Pensavo che sapesse dirmi dov'è Robbie, visto che sono tutti e due robot. ― Poi, al pensiero di Robbie, scoppiò in un fiume di lacrime. ― Devo trovare Robbie, mamma. Devo trovarlo.

La signora Weston soffocò un grido e disse: ― Santo cielo, George, torniamo subito a casa. Questo è davvero troppo.

Quella sera George Weston uscì da solo e l'indomani mattina si avvicinò alla moglie con una strana aria compiaciuta.

― Mi è venuta un'idea, Grace.

― A che proposito?― gli chiese la moglie, in tono torvo e distaccato.

― A proposito di Gloria.

― Spero proprio che tu non voglia propormi di riprendere quel robot.

― Ma no, che dici.

― Allora sentiamo, ti ascolto. Io ho provato di tutto, ma sembra che non abbia avuto risultati.

― Dunque, ascoltami bene. Tutto il problema nasce dal fatto che Gloria crede che Robbie sia una persona e non una macchina. Ed è logico che non riesca a dimenticarlo. Se riusciamo a convincerla che Robbie non era altro che un ammasso di lamine di acciaio e fili di rame animato dall'elettricità, probabilmente entro breve smetterebbe di pensare a lui. Si tratta di una terapia psicologica d'urto, capisci cosa intendo dire?

― E come vorresti metterla in atto?

― Semplice. Dove credi che sia andato ieri sera? Ho convinto Robertson, della U.S. Robots and Mechanical Men, a farci visitare il suo stabilimento, domani. Andremo tutti e tre, e quando la visita sarà finita Gloria si sarà definitivamente convinta che i robot non sono vivi.

Negli occhi della signora Weston balenò qualcosa di simile a un'improvvisa ammirazione. ― Ehi, George, è un'ottima idea.

George Weston gonfiò il petto mettendo a repentaglio i bottoni del panciotto. ― A me vengono soltanto ottime idee.

 

Il signor Struthers era un direttore generale zelante e per natura incline alla prolissità. Questa combinazione si concretò in una visita guidata dove anche i minimi particolari vennero spiegati dettagliatamente, a volte anche troppo, forse. Ma la signora Weston non sembrava annoiata. Anzi, in più di un occasione interruppe il signor Struthers chiedendogli di ripetere le cose in un linguaggio più semplice che Gloria potesse comprendere. Soddisfatto che la sua eloquenza venisse apprezzata, il signor Struthers cominciò a sbrodolare spiegazioni ancora più dettagliate, se mai era possibile.

George Weston, da parte sua, dava segni di crescente impazienza.

― Mi scusi, Struthers ― disse nel bel mezzo di una lezione sulle cellule fotoelettriche ― non avete un reparto completamente robotizzato?

― Eh? Ah, sì, certo! ― Sorrise alla signora Weston e disse: ― Robot che creano altri robot, in un certo senso si tratta di un circolo vizioso. Naturalmente non è una pratica generalizzata. I sindacati non ce lo permetterebbero mai. Però possiamo produrre un limitatissimo numero di robot usando esclusivamente manodopera automatizzata, solo come esperimento scientifico. Vedete ― e a questo punto batté sul palmo della mano il pince-nez ― quello che i sindacati non capiscono, e lo dice uno che ha sempre sostenuto le rivendicazioni sindacali, è che l'avvento dei robot sarà inizialmente causa di disoccupazione, ma finirà inevitabilmente per...

― Sì, Struthers ― lo interruppe Weston ― ma per tornare al reparto di cui le chiedevo, potremmo visitarlo?

― Ma sì, certo! ― Il signor Struthers inforcò il pince-nez con un gesto nervoso e sfogò il suo fastidio con dei colpetti di tosse. ― Prego, seguitemi.

Fu relativamente silenzioso mentre precedeva i tre ospiti lungo un corridoio in fondo al quale c'era una rampa di scale che scendeva al piano di sotto.

Ma poi, appena furono entrati in un ampio locale bene illuminato che riecheggiava di rumori metallici, le paratie si riaprirono e il fiume di parole investì di nuovo i Weston.

― Ecco il reparto di cui si parlava! ― disse orgogliosamente. ― Soltanto robot! Ci sono cinque uomini che svolgono una funzione di controllo, ma stanno addirittura in un altro locale. In cinque anni, cioè dall'inizio del progetto, non si è verificato un solo incidente. Certo, i robot che vengono assemblati in questo reparto sono relativamente semplici, ma...

La voce del direttore generale era diventata ormai da un pezzo un mormorio soporifero per le orecchie di Gloria. A lei quella visita sembrava inutile e insensata. Certo, stava vedendo tanti robot, ma nessuno somigliava neanche lontanamente a Robbie, così li osservava con aperto disprezzo.

Notò che in quella sala non c'erano uomini. Poi il suo sguardo si fermò su sei o sette robot indaffarati intorno a un tavolo rotondo che si trovava in mezzo alla sala. Sgranò gli occhi, incredula e sorpresa. La sala era molto vasta. Non poteva esserne certa, ma uno di quei robot somigliava... somigliava... era!

― Robbie! ― Il suo grido lacerò l'aria, e uno dei robot intorno al tavolo trasalì e lasciò cadere l'arnese che stava maneggiando. Gloria impazzì di gioia. Infilandosi tra le sbarre della ringhiera prima che i genitori potessero fermarla, si lasciò cadere agilmente sul pavimento sottostante e corse incontro a Robbie con le braccia aperte e i capelli al vento.

E i tre adulti si accorsero inorriditi e raggelati di quello che la bambina, nella sua foga, non aveva notato: un enorme trattore guidato a distanza che avanzava con fragore.

Weston impiegò una frazione di secondo per riprendersi dallo choc iniziale, ma fu una frazione di secondo che rese impossibile raggiungere la bambina. Weston scavalcò la ringhiera in un tentativo disperato, ma era chiaro che non poteva farcela. Il signor Struthers si stava sbracciando come un matto per richiamare l'attenzione dei controllori che potevano fermare il trattore, ma i controllori erano soltanto degli esseri umani e avevano bisogno di tempo per correre ai ripari.

Soltanto Robbie agì prontamente e con precisione.

Divorando con le sue gambe metalliche la distanza che lo separava dalla sua padroncina, si precipitò dalla direzione opposta. A quel punto successe tutto in un attimo. Senza diminuire minimamente la velocità, il robot afferrò Gloria con una spazzata del braccio facendola restare senza fiato. Weston, senza rendersi conto di quello che stava accadendo, sentì Robbie sfrecciargli accanto senza vederlo, e si fermò di colpo, sconcertato. Il trattore intersecò il cammino di Gloria un attimo dopo Robbie, proseguì per due o tre metri, poi si fermò a singhiozzo con un rumore di ferraglia.

Gloria riprese fiato, subì gli abbracci appassionati di entrambi i genitori, poi corse da Robbie. Per quel che la riguardava non era successo niente; aveva soltanto ritrovato il suo amico.

Nel frattempo l'espressione sollevata della signora Weston si era fatta truce e sospettosa. Si rivolse al marito, e malgrado l'aspetto trasandato che aveva in quel momento, riuscì ad apparire temibile. ― Sei stato tu a organizzare questa messinscena, vero?

George Weston si tamponò la fronte accaldata con un fazzoletto. Le mani gli tremavano e riuscì a piegare le labbra in un sorriso incerto e debole.

La signora Weston continuò l'attacco. ― Robbie non è stato progettato per fare questo lavoro, quindi qui non poteva essere di nessuna utilità. Sei stato tu a farlo mettere in questo reparto in modo che Gloria lo incontrasse. Avanti, ammettilo.

― Sì, è vero ― disse Weston. ― Ma Grace, come potevo immaginare che l'incontro sarebbe stato così drammatico? Comunque Robbie le ha salvato la vita, questo devi ammetterlo. Adesso non puoi separarli di nuovo.

Grace Weston rifletté. Si voltò verso Gloria e Robbie e li guardò per un istante con aria assente. La bambina stringeva le braccia al collo del robot con tale forza da soffocare qualsiasi creatura non fosse stata di metallo, e snocciolava frasi senza senso con una foga quasi isterica. Le braccia di acciaio cromato di Robbie, capaci di piegare una sbarra di ferro del diametro di sei centimetri, stringevano la bambina delicatamente e amorevolmente, e i suoi occhi ardevano di un rosso vermiglio.

― Be' ― disse infine la signora Weston ― immagino che resterà con noi finché non sarà arrugginito.

 

 

 

 

 


               ESSERE RAZIONALE

Gregory Powell e Michael Donovan avevano atteso con ansia di essere trasferiti su una stazione spaziale, ma dopo esserci rimasti per un anno avevano cambiato idea. La fiamma di un sole gigantesco aveva lasciato il posto alla morbida oscurità dello spazio, ma si trattava di un cambiamento di poco conto per chi doveva controllare il funzionamento dei robot sperimentali. Indipendentemente dall'ambiente circostante, i tecnici dovevano vedersela con gli imperscrutabili recessi dei cervelli positronici, che secondo i geni del regolo calcolatore dovevano funzionare in questo o in quel modo.

Il problema era che quei cervelli funzionavano anche in altri modi. Powell e Donovan lo scoprirono dopo meno di due settimane di permanenza sulla stazione.

Il silenzio nella sala ufficiali della Stazione Solare era rotto soltanto dal tenue ronzio del potente Raggio Emissore, che si trovava da qualche parte molto più in basso.

Gregory Powell scandì le parole per enfatizzare la frase. ― Siamo stati io e Donovan a costruirti, una settimana fa. ― Corrugò la fronte in un'espressione dubbiosa e si tirò un'estremità dei baffi castani.

Il robot QT-1 sedeva immobile. Le scaglie brunite del suo corpo brillavano alla luce dei Luxiti, e le cellule fotoelettriche di un rosso ardente che costituivano i suoi occhi erano puntate sul terrestre seduto dall'altra parte del tavolo.

Powell dovette tenere a freno un improvviso scatto di nervi. Quei robot avevano un cervello molto particolare. Oh, certo, nessun automa aveva mai violato le Tre Leggi della Robotica. Del resto non poteva essere altrimenti. Tutti alla U.S. Robots, dallo stesso Robertson all'ultimo addetto alle pulizie, erano pronti a giurare che non sarebbe mai successo. Quindi QT-1 era affidabile e sicuro! Tuttavia i modelli QT rappresentavano una novità assoluta, e quello che sedeva davanti a Powell era il primo della serie. I calcoli matematici fatti a tavolino non erano sempre la migliore garanzia davanti alla realtà dei fatti.

Alla fine il robot parlò. La sua voce aveva il timbro freddo che scaturiva dai diaframmi metallici. ― Powell, quello che affermi è molto grave, te ne rendi conto?

― Qualcuno deve averti costruito, Cutie ― disse Powell. ― Tu stesso ammetti che la tua memoria sembra essersi formata dal vuoto totale una settimana fa. Io ti sto solo spiegando il motivo per cui questo è successo. Io e Donovan ti abbiamo costruito assemblando le parti che ci erano state spedite.

Cutie si guardò le lunghe dita pieghevoli atteggiandosi come avrebbe fatto un essere umano che avesse voluto esprimere perplessità. ― Mi colpisce che non ci sia una spiegazione più soddisfacente di questa. Mi pare davvero improbabile che voi abbiate costruito me.

Il terrestre scoppiò a ridere. ― E perché, benedetta Terra?

― Chiamala intuizione, se vuoi. Per ora si tratta soltanto di questo. Però intendo rifletterci a fondo. Una catena di ragionamenti logici può solo portare a stabilire la verità, ed è proprio a questo che voglio arrivare.

Powell andò a sedersi sul bordo del tavolo, accanto al robot. Provò improvvisamente una forte simpatia per quella strana macchina. Cutie era completamente diverso dagli altri robot della stazione che svolgevano i loro compiti seguendo scrupolosamente i dettami dei loro schemi positronici.

Powell posò la mano sulla spalla di acciaio di Cutie. Il metallo era freddo e duro al tatto.

― Cutie, ― gli disse, ― cercherò di spiegarti una cosa. Tu sei il primo robot che abbia mai dimostrato curiosità per la propria esistenza, e il primo robot abbastanza intelligente da capire il mondo che lo circonda, credo. Dài, vieni con me.

Il robot si alzò con un movimento fluido e seguì Powell. Camminando non faceva alcun rumore, perché le piante dei piedi erano coperte da suole di gommapiuma. Il terrestre sfiorò un pulsante e un pannello scorrevole ricavato nella parete si aprì. Un vetro spesso e trasparente rivelò un cielo trapunto di stelle.

― L'ho già visto dagli oblò della sala macchine ― disse Cutie.

― Lo so. Che cosa credi che sia?

― Esattamente quello che sembra: materia nera disseminata di puntini scintillanti. So che il nostro Emissore spedisce dei raggi ad alcuni di quei punti, sempre agli stessi. So anche che quei punti si spostano e che i raggi li seguono. Tutto qui.

― Bravo! Adesso devi ascoltarmi attentamente. L'oscurità è un immenso vuoto che si estende all'infinito. Quei puntini scintillanti sono enormi masse di materia cariche di energia. Sono dei globi, alcuni hanno un diametro di milioni di chilometri. Se vuoi farti un'idea della loro grandezza, pensa che questa stazione ha un diametro di un solo chilometro. Sembrano così piccoli perché sono incredibilmente distanti. I punti verso cui dirigiamo i nostri raggi sono più piccoli e più vicini. Sono freddi e duri, e sulla loro superficie vivono miliardi di esseri umani come me. Io e Donovan veniamo da uno di quei mondi. I nostri raggi forniscono a quei mondi l'energia estratta dall'enorme globo incandescente più vicino a noi. Lo chiamiamo Sole, e si trova dalla parte opposta della stazione, quindi non puoi vederlo.

Cutie restò immobile davanti all'oblò come una statua di acciaio. Parlò continuando a guardare davanti a sé. ― Da quale punto preciso dici di essere venuto?

Powell lo cercò un attimo, poi disse: ― Eccola là. Quello molto luminoso, nell'angolo. Lo chiamiamo Terra. ― Sorrise. ― Cara vecchia Terra. Ospita tre miliardi di persone come me, Cutie. Tra circa due settimane sarò di nuovo con loro.

A quel punto, in modo abbastanza sorprendente, Cutie cominciò a canticchiare tra sé. Non era una vera e propria melodia, ma aveva qualcosa di simile al timbro di uno strumento a corda. ― Ma io che c'entro in tutto questo, Powell? Ancora non mi hai spiegato l'origine della mia presenza.

― È semplice. Quando questa e le altre stazioni iniziarono a fornire energia solare ai pianeti, la loro gestione venne affidata agli esseri umani. Ma il calore, le forti radiazioni solari e le tempeste magnetiche resero impossibile la permanenza degli uomini sulle stazioni. Per questo vennero costruiti robot capaci di svolgere il lavoro che fino a quel momento era stato a carico degli uomini. Adesso su ogni stazione ci sono soltanto due dirigenti. Stiamo cercando di rimpiazzare anche i due dirigenti, e a questo punto entri in ballo tu. Sei il robot più sofisticato che sia mai stato costruito, e qualora ti dimostrassi capace di gestire autonomamente questa stazione, nessun essere umano dovrebbe più venire quassù, a meno che non servano pezzi di ricambio.

Powell alzò una mano e il pannello metallico si richiuse. Poi tornò a sedersi al tavolo, pulì una mela strofinandola sulla manica e la addentò.

Il bagliore rosso degli occhi di Cutie non si staccò dal terrestre. ― E io dovrei credere a un'ipotesi così complicata e poco plausibile? Per chi mi hai preso?

Powell sputacchiò dei pezzettini di mela sul tavolo. ― Maledizione, Cutie, non era un'ipotesi, ma una serie di dati di fatto! ― esplose, rosso in viso.

― Globi carichi di energia del diametro di milioni di chilometri! Mondi popolati da miliardi di esseri umani! Vuoto infinito! Mi dispiace, Powell, ma non ci credo. Scoprirò da solo la verità. Ciao.

Si voltò e uscì dalla stanza impettito. Sulla porta incrociò Michael Donovan, lo salutò serio con un cenno del capo e proseguì lungo il corridoio, ignaro dello sguardo stupito che gli rivolse Donovan.

Mike Donovan si passò una mano tra i capelli rossi e lanciò a Powell un'occhiata stizzita. ― Di che parlava quel ferrovecchio ambulante? A cos'è che non crede?

L'altro si tirò i baffi, cupo in volto. ― È scettico, ― rispose amareggiato. ― Non crede che siamo stati noi a costruirlo, non crede che la Terra e lo spazio e le stelle esistano davvero.

― Per Saturno sfrigolante! Abbiamo a che fare con un robot fuori di testa!

― Dice che scoprirà la verità da solo.

Donovan sembrò divertito. ― Davvero? Spero che si degnerà di spiegarmi tutto quando ci sarà riuscito. ― Poi si fece di colpo minaccioso. ― Stammi a sentire! Se quell'ammasso di metallo viene a riferirmi le sue conclusioni, giuro che gli stacco quella testaccia di cromo dal collo!

Si sedette di scatto e dalla tasca interna della giacca estrasse un romanzo giallo in edizione economica. ― Comunque quel robot mi fa accapponare la pelle. Fa troppe domande, maledizione!

 

Mike Donovan ringhiò qualcosa da dietro un enorme panino imbottito di lattuga e pomodoro quando Cutie bussò piano alla porta ed entrò.

― C'è Powell?

Donovan gli rispose con la bocca piena, così la sua voce uscì simile a un brontolio. ― Sta raccogliendo dati sulle funzioni delle correnti elettroniche. Sembra che stiamo per entrare in una tempesta.

Gregory Powell entrò proprio in quel momento, gli occhi puntati sul foglio che aveva in mano. Si lasciò cadere su una sedia, dispiegò il foglio davanti a sé e cominciò a scarabocchiare dei calcoli. Donovan si guardò alle spalle, continuando a masticare lattuga e a spargere briciole di pane. Cutie attese in silenzio.

Powell alzò gli occhi. ― Il Potenziale Zeta sta salendo, ma lentamente. Tuttavia le funzioni delle correnti sono irregolari, e non so quali conseguenze trarne. Ehi, Cutie, ciao. Pensavo che stessi controllando l'installazione della nuova barra di comando.

― Hanno finito ― disse pacatamente il robot ― così sono venuto a scambiare due parole con voi.

― Oh! ― esclamò Powell, imbarazzato. ― Be', allora siediti. No, non su quella sedia. Ha una gamba traballante e tu non sei proprio un peso piuma.

Il robot scelse un'altra sistemazione e disse in tono serafico: ― Sono giunto a una conclusione.

Donovan si fece scuro in volto e mise da parte quello che restava del panino. ― Se si tratta di una di quelle stronzate...

L'altro gli fece cenno di tacere, seccato. ― Continua pure, Cutie. Ti ascoltiamo.

― In questi ultimi due giorni mi sono dedicato a una rigorosa introspezione ― disse Cutie ― e ho ottenuto dei risultati estremamente interessanti. Sono partito dall'unica ipotesi certa che mi sono sentito in grado di formulare. Io penso, dunque esisto...

― Per Giove, un robot Cartesio! ― sbuffò Powell.

― Chi è Cartesio? ― gli chiese Donovan. ― Senti un po', dobbiamo starcene seduti qui ad ascoltare questo pazzo di metallo...

― Mike, smettila!

Cutie proseguì senza scomporsi. ― E la domanda che subito mi sono posto è stata: qual è la causa della mia esistenza?

Powell tese le mascelle. ― Ti stai comportando da stupido. Ti ho già detto che siamo stati noi a costruirti.

― E se non ci credi ― interloquì Donovan ― saremo ben lieti di smontarti!

Il robot aprì le mani robuste in un gesto di disapprovazione. ― Io non accetto passivamente tutto quello che mi dicono i superiori. Un'ipotesi deve essere suffragata da un ragionamento logico, altrimenti non ha alcun valore. E l'ipotesi secondo cui sareste stati voi a crearmi contrasta con tutti i fondamenti della logica.

Powell bloccò con un braccio la mano stretta a pugno di Donovan. ― Perché?

Cutie si mise a ridere. Era una risata molto poco umana, il rumore più meccanico che fosse mai uscito dalla sua bocca, secco ed esplosivo, scandito con una regolarità degna di un metronomo.

― Guardatevi ― disse infine. ― Non lo dico per offendervi, ma guardatevi! Siete fatti di materiale morbido e floscio, poco robusto e facilmente deteriorabile che si sostenta con l'energia prodotta dall'inefficace ossidazione di materiale organico... come quello. ― Indicò con un dito i resti del panino di Donovan. ― Periodicamente entrate in uno stato comatoso e la minima variazione di temperatura, di pressione atmosferica, di umidità, di radiazioni pregiudica la vostra efficienza. Siete scarti di lavorazione. Io invece sono un prodotto finito. Assorbo direttamente energia elettrica e la sfrutto quasi al cento per cento. Sono fatto di metallo robusto, non cado mai in stato di incoscienza e posso sopportare facilmente qualsiasi tipo di condizione ambientale, anche la più estrema. Questi particolari, uniti al fatto scontato che nessun essere può crearne un altro a esso superiore, distruggono completamente la vostra stupida teoria.

Donovan scattò in piedi aggrottando le ciglia color ruggine. Le sue imprecazioni, dapprima mormorate, divennero perfettamente udibili. ― D'accordo, brutto figlio di un ammasso di materiale ferroso, se non siamo stati noi a costruirti, allora chi è stato?

Cutie annuì solennemente. ― Complimenti, Donovan. Questa è stata la seconda domanda che mi sono posto. Dando per scontato che il mio creatore doveva essere più potente di me, non restava che una sola possibilità.

I terrestri lo fissavano senza battere ciglio, così Cutie continuò. ― Qual è il nucleo intorno a cui ruotano tutte le attività della stazione? Che cosa serviamo tutti noi? Che cosa assorbe la nostra attenzione? ― Il robot attese con ansia una risposta.

Donovan rivolse al compagno un'occhiata esterrefatta. ― Scommetto che questo stronzo rivestito di alluminio si riferisce al Convertitore di Energia.

― È così, Cutie? ― ghignò Powell.

― Sto parlando del Padrone ― fu la risposta secca e gelida di Cutie.

Donovan scoppiò a ridere senza ritegno mentre Powell cercò di trattenere l'accesso di riso.

Cutie si era alzato in piedi e divideva il suo sguardo infiammato fra i due terrestri. ― Comunque le cose stanno così e non mi meraviglia il fatto che non vogliate crederci. Sono sicuro che voi due non resterete ancora a lungo qui. È stato lo stesso Powell a dirmi che all'inizio soltanto gli uomini servivano il Padrone, poi vennero impiegati i robot per i lavori di routine, e adesso io dovrò assumere la funzione direttiva. Quello che hai detto è senza dubbio vero, ma la tua spiegazione è completamente illogica. Volete sapere qual è la verità che sta dietro a tutto questo?

― Ti prego, Cutie, va' avanti. Sei proprio divertente.

― Il Padrone ha creato per primi gli uomini, perché in quanto esseri inferiori presentavano minori difficoltà. Poi, gradualmente, li ha sostituiti con i robot, che rappresentavano il gradino più alto nella scala. Alla fine ha creato me, e io rimpiazzerò gli ultimi uomini. D'ora in poi, sarò io a servire il Padrone.

― Tu non farai niente del genere ― gli disse bruscamente Powell. ― Tu continuerai a obbedire ai nostri ordini e te ne starai bello e tranquillo. Quando saremo sicuri di poterti affidare la gestione del Convertitore, si vedrà. Hai capito? Il Convertitore, non il Padrone. Se non soddisferai le nostre esigenze, ti smantelleremo. E adesso, se non ti dispiace, vorremmo restare soli. Porta via questi dati e pensa ad archiviarli.

Cutie prese i tabulati che Donovan gli porgeva e se ne andò senza dire una parola. Donovan si lasciò andare pesantemente contro lo schienale e si passò una mano robusta tra i capelli.

― Quel robot ci creerà dei problemi. È completamente matto!

 

Il ronzio soporifero del Convertitore si sentiva maggiormente nella sala di controllo dove si fondeva agli scatti dei contatori geiger e al trillo intermittente di cinque o sei spie luminose.

Donovan si staccò dal telescopio e accese i Luxiti. ― Il raggio della stazione 4 ha raggiunto Marte in perfetto orario. Possiamo far partire il nostro.

Powell fece un cenno di assenso con il capo, distrattamente. ― Cutie è giù in sala macchine. Lo avverto con il segnale luminoso e poi penserà lui a tutto. Mike, da' un'occhiata a queste cifre e dimmi che cosa ne pensi.

Donovan buttò un'occhiata al foglio e fece un fischio. ― Ragazzi questi sì che sono raggi gamma. Il nostro amico Sole è su di giri, non c'è che dire.

― Già ― fu l'aspra risposta dell'altro ― e noi ci troviamo in una brutta posizione per una tempesta magnetica. Il nostro raggio diretto verso la Terra potrebbe finirci dentro. ― Spinse via la sedia dal tavolo con fare irritato. ― Dannazione. Se solo scoppiasse dopo il cambio... ma mancano ancora dieci giorni. Senti, Mike, va' di sotto a vedere cosa combina Cutie, eh?

― D'accordo. Buttami una bustina di mandorle. ― Prese al volo la bustina che Powell gli lanciò e si diresse all'ascensore.

La cabina scese senza scossoni e le porte si aprirono davanti a una stretta passerella che si trovava nell'enorme sala macchine. Donovan si sporse dalla ringhiera e guardò giù. Gli immensi generatori erano in funzione e dai condotti-L si levava il ronzio intenso che pervadeva l'intera stazione.

Scorse la grande sagoma luccicante di Cutie nei pressi del condotto che riforniva Marte. Cutie stava tenendo d'occhio attentamente la squadra di robot che lavorava in perfetta sincronia.

Poi Donovan si irrigidì. I robot, che sembravano piccoli accanto all'enorme condotto-L, vi si allinearono davanti e chinarono la testa ad angolo retto mentre Cutie li passava lentamente in rassegna. Passarono quindici secondi, poi, con un clangore che superò il forte ronzio dei condotti, i robot si misero in ginocchio.

 Donovan emise un grido strozzato e scese di corsa la scala, poi si precipitò verso i robot agitando i pugni in aria e con il viso rosso come i capelli.

― Che diavolo state facendo, ammassi di ferro senza cervello? In piedi, alla svelta! E datevi da fare con quel condotto-L. Se entro oggi non lo avrete smontato, pulito e rimontato, vi coagulo il cervello con la corrente alternata.

Non un solo robot si mosse.

Persino Cutie, che era l'unico in piedi in fondo alla fila, continuò a fissare in silenzio i recessi bui della grande macchina che aveva davanti.

Donovan spintonò con forza il robot più vicino.

― In piedi! ― ruggì.

Il robot ubbidì, lentamente. I suoi occhi fotoelettrici fissarono sprezzanti il terrestre.

― Il Padrone è grande e QT-1 è il suo profeta ― disse.

― Eh? ― Donovan si sentì venti paia di occhi meccanici puntati addosso, poi udì venti voci declamare all'unisono: ― Il Padrone è grande e QT-1 è il suo profeta.

― Purtroppo adesso i miei amici obbediscono a un essere superiore a te ― disse Cutie.

― Questo è ancora da vedere, maledizione. Fuori di qui, subito. Con te farò i conti dopo, non appena avrò finito con questi aggeggi animati.

Cutie scosse lentamente la testa. ― Temo che tu non abbia capito. Questi sono robot, vale a dire esseri pensanti. Adesso che ho predicato loro la Verità, sanno chi è il Padrone. E mi chiamano il profeta. ― Chinò la testa prima di aggiungere: ― Non ne sono degno, ma forse...

Donovan ritrovò il fiato e lo usò subito. ― Ah, è così? Divertente, non c'è che dire. Davvero divertente. Ma lascia che ti dica una cosa, mio caro babbuino di rame. Non c'è nessun Padrone, non c'è nessun profeta e non c'è nessun dubbio su chi dà gli ordini. hai capito? ― La voce di Donovan divenne un ruggito. ― Adesso fuori di qui!

― Io obbedisco soltanto al Padrone.

― Al diavolo il Padrone! ― Donovan sputò sul condotto-L. ― Questo è per il tuo Padrone. Fa' come ti ho detto.

Cutie restò zitto, e gli altri robot fecero altrettanto, ma Donovan si rese conto di un improvviso aumento della tensione. Gli occhi che lo fissavano freddamente diventarono di un rosso cremisi, e Cutie sembrava più rigido che mai.

― Sacrilegio, ― mormorò la voce metallica venata di emozione.

Donovan avvertì la prima fitta di paura quando Cutie avanzò verso di lui.

Un robot non poteva provare rabbia, ma gli occhi di Cutie erano imperscrutabili.

― Mi dispiace, Donovan ― disse il robot ― ma dopo quello che hai fatto non puoi più restare qui. D'ora in avanti tu e Powell non potrete più entrare nella sala comandi e nella sala macchine.

Cutie fece un cenno pacato e subito due robot strinsero Donovan in una morsa, bloccandogli le braccia lungo i fianchi.

Donovan ebbe solo il tempo di emettere un'esclamazione sbigottita prima di sentirsi sollevare e trasportare su per le scale al galoppo.

 

Gregory Powell camminava su e giù per il quadrato degli ufficiali a pugni serrati. Lanciò un'occhiata di furiosa frustrazione alla porta chiusa, poi si rivolse a Donovan con veemenza.

― Perché diavolo hai sputato sul condotto-L?

Mike Donovan, sprofondato in poltrona, prese a pugni i braccioli. ― Secondo te come mi sarei dovuto comportare con quello spaventapasseri elettrico? Non mi farò mettere sotto da un aggeggio che io stesso ho costruito.

― Oh, no, ma intanto eccoti qui nel quadrato ufficiali con due robot di guardia davanti alla porta ― fu il commento sarcastico dell'altro. ― Questo non significa farsi mettere sotto, vero?

― Aspetta che torniamo alla base ― ringhiò. ― Qualcuno la pagherà. Quei robot devono obbedirci. Glielo impone la Seconda Legge.

― Sì, ma a che serve ripeterlo? Non ci obbediscono più e questo è il fatto. Probabilmente un motivo c'è e noi lo scopriremo troppo tardi. A proposito, sai che cosa ci accadrà quando faremo ritorno alla Base? ― Si fermò davanti a Donovan e lo fissò infuriato.

― Che cosa?

― Oh, niente! Ci spediranno alle miniere di Mercurio, dove resteremo una ventina d'anni. Oppure ci rinchiuderanno al penitenziario di Cerere.

― Ma che stai dicendo?

― Sta per arrivare la tempesta magnetica. Lo sai che si sta dirigendo esattamente contro il raggio diretto alla Terra! Me ne ero appena accorto quando quel robot mi ha fatto alzare di peso dalla sedia.

Donovan sbiancò di colpo. ― Per Saturno sfrigolante!

― E lo sai che cosa succederà al raggio? Si metterà a saltare come una pulce con la scabbia. Non dimenticare che stiamo parlando di una tempesta di proporzioni spaventose. Con Cutie da solo ai comandi, il raggio andrà fuori fuoco, e a quel punto... che il cielo aiuti la Terra, e noi!

Donovan si era intanto precipitato alla porta e stava strattonando il battente con furia selvaggia. La porta si aprì e il terrestre si lanciò fuori, andando a sbattere contro un solido braccio di acciaio posto di traverso.

Il robot guardò dall'alto in basso il terrestre che ansimando cercava di divincolarsi. ― Il profeta vi ordina di restare nella stanza. Obbedite, per favore! ― Il robot spinse via Donovan che barcollò all'indietro. Proprio in quel momento Cutie svoltò l'angolo in fondo al corridoio. Fece cenno ai guardiani di allontanarsi, entrò nella stanza degli ufficiali e si richiuse piano la porta alle spalle.

Donovan, indignato e a corto di fiato, si voltò di scatto verso Cutie. ― Hai passato il segno. Questa farsa ti costerà cara.

― Ti prego, non arrabbiarti ― gli disse pacatamente il robot. ― Prima o poi doveva succedere, in un modo o nell'altro. Sapete, voi due non servite più a niente.

Powell si impettì. ― Scusa tanto, ti dispiacerebbe spiegarti meglio?

― Prima che venissi creato ― disse Cutie ― eravate voi a servire il Padrone. Adesso questo privilegio spetta a me, quindi è venuta a mancare l'unica ragione della vostra esistenza. È ovvio, no?

― Non direi ― rispose Powell con astio. ― E adesso che cosa ti aspetti da noi?

Cutie non rispose subito. Restò in silenzio, come se stesse riflettendo, poi cinse con un braccio le spalle di Powell. Con l'altro braccio afferrò il polso di Donovan e lo tirò a sé.

― Voi due mi piacete. Siete creature inferiori, non siete molto perspicaci, però mi sono affezionato a voi. Avete servito bene il Padrone e lui vi ricompenserà. Adesso che il vostro compito si è concluso, non vi resterà molto da vivere, ma finché sarete vivi vi verranno dati cibo, vestiti e un riparo, a condizione che stiate alla larga dalla sala controlli e dalla sala macchine.

― Ci sta dando il benservito, Greg! ― gridò Donovan. ― Fa' qualcosa. È umiliante.

― Stammi a sentire, Cutie. Non possiamo tollerare questa situazione. Siamo noi i capi. Questa stazione è stata creata da esseri umani come me, esseri umani che vivono sulla Terra e sugli altri pianeti. E tu sei soltanto un... al diavolo!

Cutie scosse la testa con aria seria. ― Allora la vostra è proprio un'ossessione. Non capisco perché vi siate intestarditi su questa visione completamente falsa della vita. D'accordo, ai non robot mancano le facoltà razionali, però resta il problema del...

La sua voce sfumò in un silenzio assorto, e Donovan disse tra i denti: ― Se solo avessi una faccia di carne e ossa, te la spaccherei senza pensarci due volte.

Powell si stava tormentando i baffi e i suoi occhi erano due piccole fessure. ― Senti, Cutie, se come dici tu la Terra non esiste, come spieghi quello che vedi attraverso il telescopio?

― Non ho capito.

Il terrestre sorrise. ― Ti ho incastrato, eh? Da quando sei stato costruito, hai avuto modo di usare il telescopio. Non ti sei accorto che molti di quei punti luminosi diventano dei dischi se osservati al telescopio?

― Ah, adesso ho capito. Certo che me ne sono accorto. Si tratta di un semplice ingrandimento che serve a puntare il raggio con maggiore precisione.

― E allora come mai le stelle non risultano ingrandite?

 


― Ti riferisci agli altri puntini, no? Be', dal momento che nessun raggio deve raggiungerli, non servono ingrandimenti. Davvero, Powell, persino tu dovresti essere in grado di capire queste cose.

Powell alzò gli occhi al soffitto, sconsolato. ― Ma con il telescopio si riescono a vedere più stelle. Da dove vengono? Da dove vengono, per Giove salterino?

Cutie si spazientì. ― Senti, Powell, credi che abbia voglia di perdere tempo a trovare una spiegazione scientifica per tutti gli effetti ottici provocati dai nostri strumenti? Da quando in qua la luce chiara del ragionamento logico può essere offuscata dalle prove raccolte dai nostri sensi?

― Senti ― si infiammò improvvisamente Donovan, ritraendosi dal braccio amichevole ma pur sempre pesante di Cutie ― veniamo al nocciolo della questione. A che cosa servirebbe il raggio, allora? Noi ti abbiamo fornito una spiegazione logica. Sai darcene una più convincente?

― I raggi ― disse Cutie, indispettito ― sono emessi dal Padrone per i suoi scopi. Ci sono cose ― e a questo punto alzò gli occhi al cielo con aria trasognata ― che vanno soltanto accettate per quello che sono. In questo io cerco soltanto di servire senza fare domande.

Powell crollò a sedere e si coprì il viso con le mani tremanti. ― Vattene, Cutie. Vattene e lasciami riflettere.

― Vi farò portare da mangiare ― disse il robot in tono gentile.

Powell emise un gemito e Cutie uscì dalla stanza.

― Greg, dobbiamo escogitare un piano ― sussurrò Donovan con voce rauca. ― Dobbiamo coglierlo di sorpresa e mettergli fuori uso i circuiti. Acido nitrico concentrato nelle giunture...

― Non essere assurdo, Mike. Credi davvero che ci permetterebbe di avvicinarci a lui con l'acido in mano? Io dico che bisogna farlo ragionare. Dobbiamo convincerlo che se non ci lascia entrare nella sala comandi entro quarantotto ore, la frittata sarà bella e fatta.

Si dondolò sulla sedia, attanagliato da un senso di impotenza. ― Ma chi cavolo ha voglia di mettersi a discutere con un robot? È... è...

― Mortificante ― finì Donovan per lui.

― Peggio ancora!

Donovan si mise di colpo a ridere. ― Perché perdere tempo a discutere con un robot? Diamogli una bella lezione, piuttosto. Costruiamogli un altro robot davanti agli occhi. Vedrai che a quel punto dovrà rimangiarsi tutto.

Le labbra di Powell accennarono un sorriso che si allargò a poco a poco.

Donovan aggiunse: ― Pensa alla faccia che farà quello stronzo quando ci vedrà all'opera.

I robot sono costruiti sulla Terra, naturalmente, ma spedirli nello spazio diventa più semplice quando è possibile inviare i vari componenti e riassemblarli al momento dell'arrivo a destinazione. Questa pratica elimina tra l'altro il rischio che i robot già montati si allontanino dalla fabbrica mettendosi a girovagare per la Terra, violando in tal modo le leggi ferree vigenti sulla Terra in materia di robot e mettendo nei guai la U.S Robots.

La spedizione dei robot smontati costringeva però uomini come Powell e Donovan ad affrontare il faticoso e difficile compito di assemblare i vari componenti.

Powell e Donovan si resero conto di questa difficoltà il giorno in cui, nella sala di montaggio, cominciarono a costruire un robot sotto lo sguardo attento di QT-1, Profeta del Padrone.

Il robot in questione, un semplice modello MC, giaceva sul tavolo ed era quasi completo. Dopo tre ore di lavoro, quando restava soltanto la testa da montare, Powell fece una pausa per tamponarsi la fronte accaldata e lanciò uno sguardo incerto a Cutie.

Ciò che vide non lo rassicurò. Per tre ore Cutie era rimasto seduto perfettamente immobile senza dire una sola parola, e adesso la sua faccia era più che mai impenetrabile.

― Sistemiamo il cervello, Mike ― grugnì Powell.

Donovan tolse il coperchio del contenitore a tenuta stagna ed estrasse dal bagno d'olio un secondo cubo. Aperto anche questo, tirò fuori una sfera dal suo alloggio di gommapiuma.

La maneggiò con estrema attenzione, perché si trattava del meccanismo più complicato mai creato dall'uomo. Avvolto nella "pelle" di lamine di platino della sfera c'era un cervello positronico, nella cui struttura delicata e instabile erano stati impressi precisi schemi neuronici che rappresentavano per il robot una sorta di educazione prenatale.

La sfera si incastrò alla perfezione nella cavità del cranio del robot disteso sul tavolo. Poi l'apertura fu chiusa da una lamina di metallo blu che venne saldata con una piccola fiamma atomica. Poi fu la volta degli occhi fotoelettrici, che dopo essere stati avvitati con cura furono coperti da due pellicole di plastica trasparente, dura come l'acciaio.

Adesso al robot mancava soltanto la scarica di elettricità ad alta tensione che lo avrebbe animato. Powell esitò con la mano sull'interruttore.

― Adesso fa' molta attenzione, Cutie. Non distrarti.

Powell fece scattare la leva e vi fu un crepitio sommesso. I due terrestri si chinarono ansiosi sulla loro creazione.

All'inizio vi fu un movimento a malapena percettibile, un lieve scatto delle giunture. Poi il modello MC sollevò la testa, si puntellò sui gomiti e scese dal tavolo con un movimento impacciato. Si reggeva in piedi a malapena, e per due volte provò a parlare, riuscendo però a emettere solo una serie di suoni striduli.

Alla fine la sua voce, incerta ed esitante, prese forma. ― Vorrei iniziare a lavorare. Dove devo andare?

Donovan si precipitò alla porta. ― Scendi queste scale ― disse all'automa. ― Ti verrà detto quello che devi fare.

Il modello MC uscì dal locale e i due terrestri restarono soli con Cutie che continuava a rimanere immobile.

― Allora ― disse Powell sogghignando ― ci credi adesso che siamo stati noi a costruirti?

La risposta di Cutie fu secca e decisa. ― No!

Il sorriso di Powell si spense sulle labbra. Donovan rimase a bocca aperta.

― Vedete ― aggiunse Cutie come se niente fosse accaduto ― avete semplicemente assemblato dei pezzi già costruiti. Siete stati molto bravi, immagino che abbiate seguito l'istinto, però non siete stati voi a creare il robot. Le parti che avete montato le ha create il Padrone.

― Senti ― gli disse Donovan con voce rauca ― quei componenti sono stati costruiti sulla Terra e spediti qui.

― D'accordo, d'accordo ― fece Cutie in tono conciliante ― non mettiamoci a discutere.

― Guarda che non stavo scherzando! ― Il terrestre si lanciò verso Cutie e gli afferrò un braccio di metallo. ― Se leggessi i libri che ci sono in biblioteca i tuoi dubbi scomparirebbero.

― I libri? Li ho letti tutti, dal primo all'ultimo. Sono molto, molto geniali.

― Se li hai letti, cos'altro resta da dire? ― intervenne Powell. ― Non puoi confutare le teorie che espongono. Non puoi proprio farlo !

― Powell, per favore ― pregò Cutie ― come pretendi che li consideri una valida fonte di informazione? Anche i libri sono stati creati dal Padrone. Erano destinati a voi, non a me.

― E questo da cosa lo hai capito? ― gli chiese Powell.

― L'ho capito perché, essendo un essere razionale, sono capace di dedurre la Verità dalle Cause a priori. Tu che sei un essere intelligente ma irrazionale, hai bisogno che ogni cosa ti venga spiegata, ed è proprio questo che il Padrone ha fatto. E ha fatto bene a mettervi in testa queste assurde teorie sui mondi lontani e i loro abitanti. La vostra mente è troppo rozza per la Verità assoluta. Ma dal momento che è volere del Padrone che voi crediate a quanto è riportato dai libri, non discuterò più con voi.

Mosse verso la porta, poi si voltò e aggiunse cordialmente: ― Ma non preoccupatevi. Nei disegni del Padrone c'è spazio per tutti. Voi, poveri umani, avete un compito da svolgere, e sebbene sia un compito umile, sarete ricompensati se lo svolgerete come si deve.

Se ne andò con l'aria beata che si confaceva al Profeta del Padrone, e i due terrestri evitarono di guardarsi negli occhi.

Alla fine fu Powell che si sforzò di parlare. ― Andiamocene a letto, Mike. Mi ritiro.

― Dimmi una cosa, Greg ― disse Donovan a bassa voce ― non potrebbe avere ragione? A sentirlo parlare sembra così sicuro di sé che...

Powell si girò di scatto verso di lui. ― Non dire idiozie, per favore! La settimana prossima verranno a darci il cambio, noi torneremo alla base e ci beccheremo una bella lavata di capo. Te ne accorgerai, che la Terra esiste.

― Allora bisogna fare qualcosa, per l'amor di Giove!― Donovan stava quasi per mettersi a piangere. ― Cutie non crede né a noi, né ai libri e nemmeno ai suoi occhi.

― Proprio così ― disse Powell, amareggiato. ― È un robot razionale, dannazione. Crede solo nella ragione, e questo è un problema perché... ― Lasciò la frase in sospeso.

― Perché? ― lo incalzò Donovan.

― Perché ragionando in modo freddo e razionale si può provare qualsiasi cosa. Basta scegliere i postulati adatti. Noi abbiamo i nostri e Cutie ha i suoi.

― E allora diamoci una mossa e concentriamoci sui nostri postulati. La tempesta è prevista per domani.

Powell sospirò, scoraggiato. ― È proprio questo il problema. I postulati si basano su supposizioni che vanno accettate acriticamente. Non c'è niente nell'Universo che possa smuoverli. Me ne vado a letto.

― Maledizione, io non riuscirò sicuramente a prendere sonno!

― Nemmeno io, però voglio provarci. È una questione di principio.

 

Dodici ore dopo, il sonno era ancora una questione di principio inattuabile in pratica.

La tempesta era scoppiata in anticipo rispetto alle previsioni. Donovan la stava indicando con un dito tremante, il viso paffuto ridotto a una maschera esangue; Powell, la barba incolta e le labbra secche, fissava l'oblò tormentandosi i baffi.

In circostanze diverse sarebbe potuto essere uno spettacolo stupendo. Lo scontro tra il flusso di elettroni ad alta velocità e il raggio di energia provocava una fluorescenza di minuscole spicole di luce intensa. Il raggio scintillante si perdeva nel nulla assoluto e rivelava al suo interno la danza frenetica di una miriade di particelle brillanti.

Il dardo di energia appariva stabile, ma i due terrestri sapevano che la visione a occhio nudo traeva in inganno. Deviazioni di un centesimo di millisecondo d'arco, che l'occhio nudo non poteva cogliere, erano sufficienti a mandare fuori fuoco il raggio, che a quel punto avrebbe ridotto centinaia di chilometri quadrati della Terra in mucchi di rovine incandescenti.

E ai comandi c'era un robot che, incurante del raggio, della sua messa a fuoco e della Terra, pensava al suo Padrone e basta.

Trascorsero ore durante le quali i terrestri continuarono a osservare la scena in una sorta di trance. Poi le particelle di luce saettante persero piano piano il loro bagliore fino a scomparire. La tempesta era passata.

― È finita! ― disse Powell senza tradire emozioni.

Donovan era caduto in un sonno agitato e Powell gli rivolse uno sguardo stanco venato d'invidia. Una spia luminosa stava lampeggiando, ma il terrestre non le prestò attenzione. Adesso era tutto ininfluente. Tutto! Forse aveva ragione Cutie: era lui l'essere inferiore, era lui ad avere una memoria programmata per obbedire agli ordini, era la sua vita ad avere assolto la sua funzione.

Magari fosse stato così!

― Non avete risposto alla chiamata e così sono entrato ― disse Cutie a voce bassa. ― A vederti si direbbe proprio che non stai bene, e temo che la tua esistenza sia ormai agli sgoccioli. Comunque vuoi vedere alcuni dei dati registrati oggi?

Powell si rese conto vagamente che il robot gli stava usando una cortesia, forse perché voleva acquietare il sottile rimorso che provava dopo avere sostituito gli umani alla sala comandi. Powell prese i tabulati che Cutie gli passava e li guardò senza vederli.

Cutie sembrava soddisfatto. ― Naturalmente è un grande privilegio servire il Padrone. Ma non dovresti prendertela così per il fatto che vi ho sostituito.

Powell emise un grugnito e sfogliò meccanicamente i tabulati. Poi il suo sguardo annebbiato mise a fuoco una sottile linea rossa che formava delle basse collinette sulla carta millimetrata.

La fissò a lungo. Senza staccare gli occhi dal foglio che adesso stringeva con forza a due mani, si alzò lasciando cadere sul pavimento tutti gli altri tabulati.

Si avvicinò a Donovan e lo scosse con foga. ― Mike! Mike! Lo ha mantenuto stabile!

Donovan si riscosse. ― Che cosa? Dove... ― Guardò i rilevamenti che l'altro gli aveva sbattuto sotto il naso e strabuzzò gli occhi.

― Che cosa succede? ― intervenne Cutie.

― Sei riuscito a mantenerlo a fuoco ― balbettò Powell. ― Te n'eri accorto?

― A fuoco? Che vuol dire?

― Il raggio è rimasto puntato sulla stazione ricevente, la deviazione della traiettoria è stata dell'ordine di un decimillesimo di millisecondo d'arco.

― Di che stazione ricevente parli?

― Di quella sulla Terra. La stazione ricevente sulla Terra. Non ha mandato il raggio fuori fuoco.

Cutie si girò sui tacchi, seccato. ― Non serve a niente dimostrarsi gentili con voi. Sempre la stessa ossessione! Ho semplicemente mantenuto tutti i quadranti in equilibrio secondo la volontà del Padrone.

Il robot raccolse tutti i tabulati sparsi sul pavimento e se ne andò impettito.

― Che mi venga un colpo ― disse Donovan fissando la porta che si richiudeva.

Poi si rivolse a Powell. ― Adesso che si fa?

Powell si sentiva stanco ma rincuorato. ― Niente. Gli ho appena dato la prova che può gestire la stazione benissimo. Non ho mai visto nessuno che se la sia cavata così bene con una tempesta.

― Ma non abbiamo risolto ancora niente. Hai sentito quello che ha detto del Padrone, no? Non possiamo...

― Senti, Mike, quel robot segue le istruzioni del Padrone per mezzo di quadranti, strumenti e grafici. E noi abbiamo sempre fatto la stessa cosa, giusto? Questo spiega il suo rifiuto di obbedirci, direi. La Seconda Legge impone l'obbedienza. Il divieto di arrecare danni agli esseri umani è imposto dalla Prima. Forse Cutie non se ne rende conto, ma come può evitare di arrecare danno agli umani? Controllando nel modo adeguato il raggio di energia. Lui sa di poterlo fare meglio di noi, visto che si considera una creatura superiore, quindi è logico che non voglia farci entrare nella sala comandi. Se consideri attentamente le Leggi della Robotica, ti renderai conto che tutto questo è inevitabile.

― Sì, ma non è questo il punto. Non possiamo permettergli di tirare ancora per le lunghe questa cretinata sul Padrone.

― Perché no?

― Perché è una storia assurda, maledettamente assurda. Come gli si può affidare la gestione della stazione se non crede nemmeno che la Terra esista?

― Ma è capace di farlo, giusto?

― Sì, ma...

― E allora può credere a ciò che vuole, tanto che differenza fa?

Powell allargò le braccia mentre un sorriso vago gli piegava le labbra. Si lasciò cadere all'indietro sul letto e si addormentò subito.

 

― Sarebbe un lavoro facile ― disse Powell mentre indossava a fatica il leggero giubbotto della tuta spaziale. ― Si fanno venire qui i nuovi modelli QT, uno alla volta, si inserisce un interruttore che dopo una settimana disattiva automaticamente i circuiti, e dopo questa settimana di indottrinamento da parte del Profeta sul... ehm, culto del Padrone, li mandiamo su un'altra stazione dove verrebbero riattivati. Potremmo avere due QT per ciascuna...

Donovan sollevò la visiera di glassite del casco e gli disse brusco: ― Chiudi il becco e usciamo di qui. L'altra squadra è già pronta, e io non sarò tranquillo finché non vedrò la Terra con i miei occhi. Voglio sentire il terreno sotto i piedi.

In quel momento la porta si aprì e Donovan, imprecando a denti stretti, abbassò la visiera e voltò le spalle a Cutie con fare stizzito.

Il robot si avvicinò piano. ― State andando via? ― La sua voce era venata di dispiacere.

Powell annuì seccamente. ― Altri prenderanno il nostro posto.

Cutie sospirò, emettendo un rumore simile al sibilo del vento tra una fitta trama di fili di metallo. ― Il vostro tempo è finito ed è giunto il momento della dissoluzione. Me l'aspettavo, tuttavia... Be', sia fatta la volontà del Padrone!

Il tono rassegnato del robot innervosì Powell. ― Risparmiati il cordoglio, Cutie. Siamo diretti sulla Terra e non verso la dissoluzione.

― È meglio che crediate questo ― disse Cutie, sospirando di nuovo. ― Adesso capisco che a volte è saggio farsi illusioni. Anche se potessi non cercherei di mettere in dubbio la vostra fede. ― Mentre si allontanava era l'immagine dell'afflizione.

Powell sbuffò e fece cenno a Donovan di seguirlo. Con le valigie sigillate in mano, si diressero verso il compartimento stagno.

La navicella spaziale che li avrebbe ricondotti sulla Terra era sulla pista di atterraggio esterna. Franz Muller, il sostituto di Powell, salutò entrambi con fredda cortesia. Donovan ricambiò il saluto con un cenno della testa e proseguì fino alla cabina di pilotaggio per rilevare Sam Evans ai comandi.

Powell si attardò qualche istante con Franz Muller. ― Come sta la Terra?

Era una domanda abbastanza convenzionale a cui Muller rispose altrettanto convenzionalmente. ― Ancora gira.

― Bene.

Muller lo fissò. ― A proposito, i ragazzi giù alla U.S. Robots ne hanno pensata un'altra delle loro. Un robot multifunzionale.

― Un che?

― Un robot multifunzionale. C'è di mezzo un grosso appalto. Dovrebbe essere l'automa adatto per lavorare nelle miniere degli asteroidi. Si tratta di un robot che ha sei sotto-robot alle sue dipendenze. Immagina che siano le sue dita.

― È stato già collaudato? ― chiese Powell in tono ansioso.

Muller sorrise. ― Ho sentito dire che aspettano voi per farlo.

Powell strinse le mani a pugno. ― Maledizione, abbiamo bisogno di una vacanza.

― Tranquillo, l'avrete. Due settimane, credo.

Muller, che si stava infilando i pesanti guanti spaziali, aggrottò le sopracciglia. ― Come se la cava il nuovo robot? Se non è più che bravo, mi faccio venire un colpo piuttosto che affidargli i comandi.

Powell esitò prima di rispondere. Squadrò l'orgoglioso prussiano dalla cima dei capelli a spazzola, che coronavano una testa ostinata e severa, alla punta dei piedi uniti sull'attenti, e si sentì invadere da una calda ondata di felicità.

― Il robot è in gamba ― disse lentamente. ― Credo che non avrete molto da fare con i comandi.

Gli rivolse un sorriso e salì sulla navicella. Muller sarebbe rimasto sulla stazione parecchie settimane...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


               BUGIARDO!

Alfred Lanning si accese il sigaro con cura, ma le dita gli tremavano leggermente. Aggrottò le sopracciglia grigie e parlò tra uno sbuffo di fumo e l'altro.

― D'accordo, sa leggere nel pensiero, e su questo non ci piove, maledizione. Ma perché? ― Guardò il matematico Peter Bogert. ― Allora?

Bogert si schiacciò i capelli neri con entrambe le mani. ― È il trentaquattresimo modello RB che costruiamo, Lanning. Tutti gli altri erano perfettamente ortodossi.

Il terzo uomo seduto al tavolo corrugò la fronte. Milton Ashe, il più giovane funzionario della U.S. Robots and Mechanical Men Corporation, era orgoglioso della sua carica.

― Senta, Bogert, in fase di montaggio non ci sono stati inconvenienti. Questo glielo garantisco io.

Le labbra carnose di Bogert si piegarono in un sorriso di condiscendenza. ― Davvero? Se lei può rispondere di tutto quello che succede alla catena di montaggio, allora caldeggerò volentieri la sua promozione. Per la costruzione di un solo cervello positronico sono necessarie 75234 operazioni, e la perfetta riuscita di ogni singola operazione dipende da un certo numero di fattori, che può variare da cinque a centocinque. Se una qualsiasi di queste operazioni non viene eseguita come si deve, il cervello è "rovinato". Cito dal nostro opuscolo informativo, Ashe.

Milton Ashe arrossì, ma la voce di una quarta persona gli impedì di rispondere.

― Se ci siamo riuniti per fare lo scaricabarile delle responsabilità, allora me ne vado. ― Susan Calvin teneva le mani saldamente intrecciate sul grembo e le piccole rughe intorno alle sottili labbra esangui si erano accentuate. ― Abbiamo un robot che sa leggere nel pensiero e mi sembra più che importante cercare di capire come riesce a farlo. E se continuiamo a ripetere "colpa tua, colpa mia" non ci riusciremo mai.

I suoi freddi occhi grigi fissarono Ashe, che sorrise.

Anche Lanning sorrise, e come sempre accadeva quando si rilassava, ricordò l'immagine di un patriarca biblico per via dei lunghi capelli bianchi e dei piccoli occhi penetranti. ― Ha perfettamente ragione, dottoressa Calvin.

Poi il suo tono si fece di colpo aspro. ― In sintesi la situazione è questa. Senza volerlo, abbiamo prodotto un cervello positronico che ha la straordinaria capacità di sintonizzarsi sulle onde del pensiero. Se riuscissimo a capire questo fenomeno, si tratterebbe della scoperta più importante avvenuta nel campo della robotica da decenni a questa parte. Ancora non lo abbiamo capito, quindi dobbiamo riuscirci. È chiaro?

― Avrei una proposta da fare ― disse Bogert.

― Sentiamo!

― Finché non avremo risolto il problema, e da matematico ho l'impressione che si tratti di un problema spinosissimo, credo sia opportuno mantenere l'assoluto riserbo sull'esistenza di RB-34, anche con gli altri membri dello staff. Siamo i direttori dei vari dipartimenti, quindi non dovrebbe esserci difficile mantenere il segreto. Meno persone vengono a sapere....

― Bogert ha ragione ― intervenne la dottoressa Calvin. ― Da quando il Codice Interplanetario è stato modificato per permettere che i robot venissero collaudati in fabbrica prima di essere inviati nello spazio, la propaganda contro i robot è aumentata. Se si venisse a sapere che esiste un robot capace di leggere nel pensiero prima che noi possiamo annunciare di avere il fenomeno sotto controllo, le conseguenze sarebbero molto gravi.

Lanning tirò una boccata dal sigaro e annuì con enfasi. Poi si rivolse ad Ashe. ― Se non sbaglio non c'era nessuno con lei al momento della scoperta fortuita di questa faccenda.

― E infatti ho preso il più grosso spavento della mia vita. RB-34 era stato appena tolto dal tavolo di montaggio. Obermann era assente in quel momento, non so dove fosse andato, così ho portato io il robot nella sala collaudi, anzi, stavo portandocelo. ― Ashe fece una pausa e le sue labbra si tesero in un sorriso nervoso. ― Ditemi una cosa, vi è mai capitato di conversare mentalmente con qualcuno senza accorgervene?

Nessuno lo degnò di una risposta, così proseguì. ― Sapete, all'inizio non ci si rende conto di niente. Lui mi parlava con tutta la logica e il buonsenso possibili, ed eravamo quasi arrivati nel reparto collaudi quando mi sono reso conto che non avevo aperto bocca. Avevo avuto molti pensieri, si capisce, ma tra parlare e pensare ce ne corre, non vi sembra? Così misi sotto chiave il robot e mi precipitai a cercare Lanning. L'idea di essere stato a contatto di gomito con quel robot che con estrema tranquillità mi frugava la mente e sceglieva i miei pensieri mi faceva accapponare la pelle.

― È comprensibile ― disse Susan Calvin con espressione assorta. Stava fissando Ashe in un modo strano, molto intensamente. ― Siamo abituati a considerare i nostri pensieri come un fatto privato.

Lanning intervenne spazientito. ― Quindi lo sappiamo soltanto noi quattro. Bene! Dobbiamo affrontare la faccenda senza lasciare nulla di intentato. Ashe, voglio che lei controlli la catena di montaggio da cima a fondo, senza tralasciare nulla. Escluda tutte le operazioni in cui è impossibile possa essersi verificato un errore e faccia una lista delle altre, specificando la natura dell'errore e la sua gravità.

― Un compito molto difficile ― borbottò Ashe.

― Infatti. Naturalmente dovrà mobilitare un certo numero di uomini, anche tutti se sarà necessario, non mi importa niente di rispettare il piano di produzione. Però nessuno dovrà sapere niente, intesi?

― Uhm, sì. ― Il giovane storse la bocca e sorrise. ― Resta sempre un lavoro spaventoso.

Lanning fece ruotare la poltrona girevole per rivolgersi alla Calvin. ― Lei si occuperà di un altro aspetto. Lei è la robopsicologa della fabbrica, quindi dovrà studiare il robot stesso nel tentativo di risalire alle origini del suo comportamento. Cerchi di scoprire come funziona, se i suoi poteri telepatici sono connessi ad altre facoltà e fino a che punto arrivano tali poteri, se hanno distorto la sua visione delle cose o danneggiato le sue normali caratteristiche di RB. Ha capito bene?

Lanning non attese la risposta della dottoressa Calvin.

― Io coordinerò il lavoro ed esaminerò i dati matematicamente. ― Tirò una lunga boccata dal sigaro e finì di parlare dietro una cortina di fumo. ― Bogert mi aiuterà, naturalmente.

Bogert sfregò le unghie di una mano paffuta contro quelle dell'altra e disse in tono blando: ― Direi proprio. Di matematica ne capisco qualcosa.

― Bene! Io mi metto subito al lavoro. ― Ashe spinse indietro la sedia e si alzò. Il suo bel viso giovanile si contrasse in un ghigno. ― Mi è toccato il compito più ingrato, quindi sarà meglio che mi rimbocchi subito le maniche.

Uscì dalla stanza strascicando un: ― Ci vediamo!

Susan Calvin rispose al saluto con un cenno del capo appena percettibile, ma lo seguì con lo sguardo e non rispose quando Lanning le chiese sospirando: ― Vuole vedere subito RB-34, dottoressa Calvin?

 

RB-34 alzò gli occhi fotoelettrici dal libro quando sentì i cardini del la porta cigolare, e si alzò subito in piedi quando vide entrare Susan Calvin.

La dottoressa raddrizzò l'enorme cartello con su scritto VIETATO L'INGRESSO che era appeso alla porta, poi si avvicinò al robot.

― Ti ho portato dei testi sui motori iperatomici, Herbie. Non sono molti, comunque. Ti andrebbe di darci un'occhiata?

RB-34, conosciuto anche come Herbie, prese i tre pesanti tomi dal le braccia di lei e ne aprì uno sul frontespizio.

― Uhm! Teoria iperatomica. ― Borbottò qualcosa di incomprensibile tra sé mentre sfogliava velocemente le pagine, poi disse con aria distratta: ― Si sieda, dottoressa Calvin. Ci metterò pochi minuti.

La psicologa si sedette e osservò attentamente Herbie sedersi dall'altra parte del tavolo e iniziare a leggere velocemente il primo dei tre libri.

Dopo mezz'ora, richiuse l'ultimo. ― So perché me li ha portati naturalmente.

Le labbra della dottoressa Calvin accennarono un sorriso tirato. ― Era quello che temevo. È difficile lavorare con te, Herbie. Mi precedi sempre di un passo.

― Vede, questi libri sono come tutti gli altri. Non mi interessano. Nei vostri testi non c'è niente. La vostra scienza non è altro che una massa di dati tenuti insieme da una teoria zoppicante. Ed è tutto talmente semplice che non vale la pena di perderci tempo. A me interessa la vostra letteratura. I vostri studi sugli intrecci delle emozioni e dei comportamenti umani che... ― Con una mano possente fece un gesto vago mentre cercava le parole adatte per continuare la frase lasciata in sospeso.

― Credo di aver capito ― sussurrò la dottoressa Calvin.

― Io posso vedere nelle menti ― continuò il robot ― e lei non ha idea di quanto siano complesse. Naturalmente nemmeno io posso capirle a fondo perché hanno molto poco in comune con la mia. Però ci provo, e i vostri romanzi mi sono di grande aiuto.

― Sì, ma quando avrai analizzato le burrascose vicende emotive narrate dai romanzi sentimentali contemporanei, troverai scialba e ottusa la mente delle persone vere.

― Niente affatto!

La veemenza di quella risposta fece alzare di scatto la dottoressa. Si sentì arrossire e pensò terrorizzata: "Lo sa!"

Herbie si calmò di colpo e disse con una voce da cui era quasi scomparso il timbro metallico: ― Ma certo che lo so, dottoressa Calvin. Lei ci pensa continuamente, quindi come potrei non saperlo?

― Lo hai detto a... qualcuno? ― gli chiese lei, scura in volto.

― Ma no! ― le rispose lui, sinceramente sorpreso. ― Nessuno me lo ha chiesto.

― Immagino che tu mi ritenga una stupida, ― sibilò Susan Calvin.

― No! È un sentimento normale.

― Forse è per questo che è così assurdo. ― Nella sua voce c'era soltanto amarezza. La donna ebbe per un attimo la meglio sullo scienziato. ― Non sono quella che si definisce una donna... attraente.

― Se si riferisce alla pura e semplice attrazione fisica, non sono in grado di giudicare. A ogni modo so che esistono altri tipi di attrazione.

― E non sono nemmeno giovane ― disse la dottoressa Calvin, che non aveva nemmeno sentito le parole del robot.

― Lei non ha nemmeno quarant'anni. ― Nella voce di Herbie si era insinuata una nervosa insistenza.

― Ho trentotto anni, ma vedo le faccende affettive come se ne avessi sessanta. Non a caso sono una psicologa.

Continuò a parlare con un'amarezza che sembrava toglierle il fiato. ― Lui invece ha appena trentacinque anni e non li dimostra, né fisicamente né come mentalità. Credi che mi veda diversa da... da come sono?

― Si sbaglia! ― esplose Herbie, battendo il pugno metallico sul ripiano plastificato del tavolo. ― Mi stia a sentire...

Ma Susan Calvin si girò di scatto e l'espressione angosciata diventò rabbiosa. ― Perché dovrei? Che ne sai di queste cose, tu che sei solo una... macchina. Io per te sono soltanto un campione da esaminare, uno strano insetto con una mente aperta alla tua analisi. Uno splendido esemplare di mente frustrata, vero? Quasi interessante quanto i libri che leggi. ― Aveva parlato a singulti, ma senza piangere.

Il robot si fece piccolo davanti a quello sfogo. Scosse la testa con aria supplichevole. ― La prego, mi ascolti. Potrei aiutarla se me lo permettesse.

― In che modo? ― chiese lei, arricciando le labbra. ― Vuoi darmi dei buoni consigli?

― No, no. È che so quello che gli altri pensano... Milton Ashe, per esempio.

Ci fu un lungo silenzio, poi Susan Calvin abbassò gli occhi e disse: ― Non voglio sapere quello che pensa ― gemette. ― Non dirmelo.

― Invece credo che le piacerebbe saperlo.

La dottoressa continuò a tenere la testa china, ma il respiro si fece affannoso. ― Stai dicendo un mucchio di sciocchezze ― sussurrò.

― Invece no. Sto soltanto cercando di aiutarla. Milton Ashe pensa che lei...

A questo punto la psicologa alzò la testa. ― Allora?

Il robot le disse piano: ― È innamorato di lei.

La dottoressa Calvin restò zitta per un minuto intero, limitandosi a fissare il robot. Alla fine riuscì a dire: ― Ti sbagli. Ti sbagli sicuramente. Perché dovrebbe amarmi?

― Eppure è innamorato di lei. È una cosa che non si può tenere nascosta. Non a me.

― Ma io sono così.. così... ― balbettò lei.

― Milton Ashe apprezza molto più l'intelligenza che l'aspetto fisico. Non è tipo da sposare una donna solo perché è bella.

Susan Calvin si ritrovò a battere rapidamente le palpebre e attese un po' prima di parlare, senza però riuscire a evitare il tremolio della voce. ― Resta il fatto che non ha mai fatto nulla per dimostrarmi...

― Gliene ha mai dato l'opportunità?

― Come potevo farlo? Non ho mai pensato che...

― Ecco, vede?

La psicologa fece una pausa assorta e poi alzò lo sguardo di colpo. ― Circa sei mesi fa una ragazza è venuta a trovarlo qui in fabbrica. Era una di quelle ragazze che tutti considerano carine, bionda e snella. E naturalmente conosceva a malapena le tabelline. E lui ha sprecato tutto il suo fiato nel tentativo di spiegarle come viene montato un robot. ― La sua espressione si era fatta di nuovo dura. ― E lei non ha capito un tubo. Chi era quella ragazza?

Herbie rispose senza indugi. ― Conosco la persona alla quale si riferisce. È una sua cugina di primo grado. Non c'è niente di tenero tra loro, glielo assicuro.

Susan Calvin si alzò in piedi con una vivacità da adolescente. ― A volte la vita è proprio strana. Pensa che facevo finta di credere proprio questo, anche se in fondo non ne ero affatto convinta. Allora è tutto vero.

Si avvicinò a Herbie di corsa e strinse una mano fredda e pesante del robot tra le sue. ― Grazie, Herbie ― gli disse in un sussurro accalorato. ― Non dire niente a nessuno, mi raccomando. Deve restare un segreto tra noi, e grazie ancora. ― Strinse convulsamente le dita metalliche del robot, che rimasero inerti, e uscì dalla stanza.

Herbie riprese il romanzo che aveva smesso di leggere quando era stato interrotto da Susan Calvin. Non c'era nessuno che potesse leggergli nel pensiero.

 

Milton Ashe si stiracchiò lentamente e sontuosamente, accompagnato da un sottofondo di articolazioni che scrocchiavano e da un coro di gemiti strozzati. Poi, scuro in volto, fissò il dottor Peter Bogert.

― Senti, è da una settimana che lavoro su questa faccenda senza praticamente chiudere occhio. Andrà ancora molto per le lunghe? Se non sbaglio mi avevi detto che la soluzione sarebbe stata il bombardamento positronico nella camera a vuoto D.

― Infatti. ― Bogert coprì educatamente uno sbadiglio, poi si guardò con interesse le mani esangui. ― Sono sulla strada giusta.

― Questa frase, detta da un matematico, assume un significato del tutto particolare ― commentò Ashe, sarcastico. ― Dimmi piuttosto quanto sei vicino alla fine.

― Dipende.

― Da che cosa? ― Ashe crollò a sedere e distese le lunghe gambe.

― Da Lanning. Il vecchio non è d'accordo con me. È rimasto un po' indietro rispetto ai tempi, purtroppo. Sembra che per lui esista soltanto la meccanica delle matrici, ma stavolta il nostro problema richiede degli strumenti matematici molto più raffinati. È di una cocciutaggine incredibile.

― Perché non interpelliamo Herbie e la facciamo finita? ― propose Ashe con voce assonnata.

Bogert aggrottò le sopracciglia. ― Interpellare il robot?

― Già. La zitella non ti ha detto niente?

― La Calvin?

― Susie in persona. Quel robot è un mago della matematica. Sa tutto di tutto, e anche un po' di più. Calcola gli integrali tripli a mente e come dessert si pappa un po' di analisi tensoriale.

Il matematico assunse un'aria scettica. ― Dici sul serio?

― Te lo giuro. Il guaio è che a quell'idiota la matematica non piace. Preferisce leggere i romanzi d'amore. Dovresti vedere la robaccia che gli passa Susie. Passione ardente, Amore nello spazio...

― La dottoressa Calvin non ci ha detto niente.

― Be', non ha ancora finito di studiarlo. Sai com'è fatta, no? Se prima non raccoglie tutti i dati non rivela il grande segreto.

― Ma con te ha parlato, a quanto pare.

― Una chiacchiera tira l'altra, sai com'è. L'ho vista spesso ultimamente. ― Spalancò gli occhi e corrugò la fronte. ― Dimmi una cosa, Bogie, non hai notato niente di strano in lei in questi ultimi giorni?

Il viso di Bogert si rilassò in un sogghigno ironico. ― Si mette il rossetto, se è questo che intendi.

― E l'ombretto, il mascara e il fard. È ridicola. Ma non intendevo questo, maledizione. Non saprei dirti con precisione, ma mi sembra che sia felice riguardo a qualcosa. ― Rifletté per qualche istante, poi si strinse nelle spalle.

Il sogghigno del matematico si fece malizioso, cosa che un matematico al di sopra della cinquantina non trovava difficile. ― Forse è innamorata.

Ashe socchiuse le palpebre. ― Sei tutto matto, Bogie. Senti, va' a parlare con Herbie, io resto qui a dormire un po'.

― Va bene. Però devo dirti che non mi va affatto che un robot mi insegni il mestiere, sempre che ne sia capace, cosa di cui dubito.

Milton Ashe si era già addormentato.

 

Herbie ascoltava attentamente Peter Bogert il quale, le mani in tasca, gli parlava con studiata noncuranza.

― Questo è quanto. Mi hanno detto che ti intendi di queste cose, e mi sono rivolto a te più per curiosità che per altro. Il metodo che ho adottato presenta dei punti poco chiari, questo lo ammetto, e il dottor Lanning si rifiuta di accettarlo. Il quadro è piuttosto incompleto.

Il robot restò zitto, così Bogert dovette incalzarlo. ― Allora?

― Non vedo errori ― disse Herbie senza staccare lo sguardo dal foglio pieno di calcoli che stava studiando.

― Immagino che tu non possa darmi un suggerimento, vero?

― Non mi permetterei mai di farlo. Lei è un matematico molto più bravo di me e io... be', non voglio compromettermi.

Il sorriso di Bogert era venato di compiacenza. ― Me l'aspettavo. È un problema troppo complesso. Lasciamo perdere. ― Accartocciò il foglio, lo gettò nel pozzetto della spazzatura, si voltò per andarsene, poi ci ripensò.

― A proposito...

Il robot attese.

Bogert appariva in difficoltà. ― C'è qualcosa che forse tu potresti... sì, insomma... ― Si interruppe.

Herbie parlò con calma. ― I suoi pensieri sono confusi, ma è fuor di dubbio che riguardano il dottor Lanning. È sciocco esitare, perché non appena avrà messo ordine nella sua testa, io saprò già quello che sta pensando.

Il matematico si passò una mano sui capelli lisci. ― Lanning ha quasi settant'anni ― disse infine, con l'aria di chi avesse spiegato tutto.

― Lo so.

― E dirige questo impianto da quasi trent'anni.

Herbie annuì.

La voce di Bogert si fece suadente. ― Be', forse tu sai se ha pensato di... di rassegnare le dimissioni. Per motivi di salute, magari, o per qualche altro...

― Certo ― si limitò a dire Herbie.

― Allora, sai qualcosa?

― Certo.

― Be', potresti dirmelo?

― Sì, dato che lo vuole sapere. ― Poi, con aria di sufficienza, aggiunse. ― Si è già dimesso.

― Che cosa! ― L'esclamazione fu un suono esplosivo, quasi inarticolato. Il matematico sporse in avanti la grossa testa e aggiunse: ― Ripeti ciò che hai detto.

― Si è già dimesso ― disse il robot, pacato ― ma le dimissioni non sono ancora operanti. Vede, sta aspettando di risolvere il problema che riguarda... me. Fatto questo, lascerà l'incarico di direttore al suo successore.

Bogert rilasciò il respiro con uno sbuffo secco. ― E chi sarebbe il successore? ― Adesso era vicinissimo al robot e fissava ammaliato le imperscrutabili cellule fotoelettriche rosso opaco.

― Il nuovo direttore sarà lei ― gli disse Herbie, scandendo le parole.

Bogert abbozzò un sorriso. ― Si tratta di una buona notizia. La stavo aspettando con ansia. Grazie, Herbie.

 

Peter Bogert se ne andò dall'ufficio alle cinque del mattino e vi fece ritorno alle nove. Dalla mensola alle sue spalle aveva preso tutti i libri e le tavole di consultazione che adesso ingombravano il ripiano della scrivania. Le pagine che stava riempiendo di calcoli aumentavano con lentezza esasperante e ai suoi piedi si era formata una montagnola di fogli accartocciati.

A mezzogiorno in punto fissò l'ultimo foglio, si stropicciò un occhio iniettato di sangue, sbadigliò e si strinse nelle spalle. ― Più vado avanti e più le cose si mettono peggio, maledizione.

Sentì la porta che si apriva e si voltò. Salutò con un cenno Lanning, che entrò facendo scrocchiare le nocche delle dita nodose.

Il direttore girò lo sguardo per la stanza in disordine e corrugò le sopracciglia.

― Sta tentando un nuovo approccio?

― No ― gli rispose Bogert, sprezzante. ― Cosa c'è che non va nel vecchio?

Lanning non si curò di rispondere, ma si limitò a gettare una rapida occhiata al foglio che Bogert aveva davanti. Si accese un sigaro e parlò da dietro la fiamma del cerino.

― La Calvin le ha parlato del robot? È un genio della matematica. Eccezionale, non c'è che dire.

Bogert sbuffò. ― Così ho sentito dire. Ma la Calvin farebbe bene a occuparsi di robopsicologia. Ho messo Herbie alla prova, e le dico che quel robot capisce a malapena i rudimenti della matematica.

― La Calvin la pensa diversamente.

― Quella donna è matta.

Il direttore gli lanciò un'occhiata di sottecchi. ― Allora sono matto anch'io, visto che la penso come la dottoressa.

― Ah, sì? E come mai? ― La voce di Bogert era dura.

― Be', ho messo alla prova Herbie per tutta la mattina e ho potuto rendermi conto del suo grandissimo talento.

― Davvero?

― È scettico, eh? ― Lanning tirò fuori dalla tasca del panciotto un foglio di carta e lo dispiegò davanti al matematico. ― Questa non è la mia calligrafia, non le pare?

Bogert esaminò gli appunti scritti con calligrafia grande e spigolosa. ― Roba di Herbie?

― Già. E noterà che ha lavorato sulla sua integrazione temporale dell'Equazione 22. ― Lanning tamburellò un'unghia ingiallita sull'ultimo passaggio e aggiunse: ― Herbie ha tratto le mie stesse conclusioni, solo che ci ha messo un quarto del tempo impiegato da me. Lei non ha tenuto in considerazione l'Effetto Linger nel bombardamento positronico, e avrebbe dovuto farlo.

― Non l'ho trascurato. Santo Dio, Lanning, vuole mettersi in testa una buona volta che cancellerebbe...

― Sì, questo me lo ha già spiegato. Ha impiegato l'Equazione di Traslazione di Mitchell, giusto? Be', in questo contesto non ha assolutamente alcun valore.

― Perché no?

― Innanzitutto perché lei usa gli iper-immaginari.

― E questo cosa c'entra?

― L'Equazione di Mitchell non è valida quando...

― Le ha dato di volta il cervello? Si rilegga il saggio originale di Mitchell apparso su Transazioni del...

― Non ne ho bisogno. Le ho detto sin dall'inizio che non mi piaceva il suo tipo di approccio, e adesso Herbie mi ha dato la prova che avevo ragione.

― E allora dica a quell'aggeggio meccanico di risolvere per lei il problema ― urlò Bogert. ― Perché si preoccupa tanto delle inezie?

― È proprio questo il punto. Herbie non è in grado di risolvere il problema. E se non ci riesce lui, non possiamo riuscirci nemmeno noi, da soli. Ho deciso di sottoporre la cosa all'attenzione del Consiglio Nazionale. Dobbiamo ammettere la sconfitta.

Bogert, paonazzo in volto, si alzò di scatto e rovesciò la sedia. ― Lei non farà niente del genere ― ringhiò contro il direttore.

― Adesso si mette pure a dirmi quello che non devo fare? ― Il tono di Lanning non fu meno violento.

― Esatto ― fece Bogert, digrignando i denti. ― Ho quasi risolto il problema e lei non me lo toglierà dalle mani, intesi? Lei crede di saperla lunga, ma a me non mi frega, brutto fossile da museo. Si farebbe tagliare il naso pur di non farmi ottenere il plauso che mi spetta per aver risolto un delicatissimo problema di telepatia robotica.

― Lei è proprio un idiota, Bogert, e la farò sospendere su due piedi per insubordinazione. ― Il labbro inferiore di Lanning tremava per la rabbia.

― Su questo non ci giurerei, se fossi in lei, Lanning. Vede, è difficile serbare un segreto quando c'è in giro un robot che può leggere nel pensiero, quindi non dimentichi che so tutto delle sue dimissioni.

La cenere del sigaro di Lanning tremò e poi cadde, seguita a ruota dal sigaro stesso. ― Che cosa... che cosa...

Bogert sogghignò malignamente. ― Sono io il nuovo direttore. Ormai l'ho saputo, quindi la smetta di recitare la commedia. Da oggi in poi sarò io a dare gli ordini, e se non verranno eseguiti pianterò un casino della malora.

Lanning prese fiato e lo rilasciò in un ruggito. ― Lei è sospeso, ha capito? Si consideri sollevato da ogni incarico. Ha chiuso, intesi?

Il sorriso di Bogert si fece strafottente. ― Senta, la pianti, tanto le scenate non servono a niente. Adesso il gioco lo conduco io. So che ha dato le dimissioni, me lo ha detto Herbie, e Herbie lo ha saputo direttamente da lei.

Lanning si impose di mantenere la calma. Sembrava invecchiato di colpo. Aveva lo sguardo spento, e il rossore provocato dalla rabbia aveva lasciato il posto al colorito cinereo della vecchiaia. ― Voglio parlare con Herbie. Non può aver detto una cosa del genere. Lei sta barando, Bogert, ma io la costringerò a scoprire le carte. Venga con me.

Bogert scrollò le spalle. ― Da Herbie? Ma certo, per la miseria. Ci vengo molto volentieri.

 

E sempre a mezzogiorno in punto, Milton Ashe alzò lo sguardo dallo schizzo approssimativo e disse: ― Rendo l'idea? Il disegno non è il mio forte, ma grossomodo è fatta così. È una casa deliziosa, e posso averla a un prezzo stracciato.

Susan Calvin gli rivolse un'occhiata melensa. ― È bella davvero ― disse con un sospiro. ― Ho pensato spesso che mi piacerebbe... ― La sua voce scemò.

― Naturalmente dovrò aspettare le ferie ― continuò Ashe in tono brioso, riponendo la matita. ― In teoria mancano soltanto due settimane, ma in pratica, con la faccenda di Herbie ancora da risolvere, potrebbe slittare tutto. ― Si guardò le unghie prima di aggiungere: ― C'è anche un'altra cosa, ma si tratta di un segreto.

― E allora non mi dica niente.

― Oh, tanto tra poco lo sapranno tutti, e io muoio dalla voglia di dirlo a qualcuno. Lei è la migliore... ehm... confidente che possa trovare qui. ― Le rivolse un sorriso impacciato.

Susan Calvin provò un tuffo al cuore e preferì restare in silenzio.

Ashe le si avvicinò facendo grattare la sedia sul pavimento e le sussurrò confidenzialmente: ― In realtà la casa non è solo per me. Mi sposo.

E detto questo si alzò di scatto. ― Che cos'ha? Si sente male?

― Non è niente. ― La terribile sensazione di vertigine era passata, ma la Calvin durò fatica per fare uscire le parole di bocca. ― Si sposa? Intende dire...

― Proprio così, mi sposo. Era ora, no? Ricorda quella ragazza che venne a trovarmi qui in fabbrica l'estate scorsa? È lei. Ma... lei sta male. Cosa...

Con un cenno della mano Susan Calvin lo tenne a distanza. ― È solo un po' di mal di testa. Ultimamente ne ho sofferto di frequente. Le... le faccio le mie più sentite congratulazioni, naturalmente. Sono molto contenta che... ― Il fard che si era messa tutt'altro che sapientemente creava due orribili chiazze rosse sulle sue gote esangui. Adesso aveva ripreso tutto a turbinare. ― La prego di scusarmi...

Susan Calvin borbottò quelle ultime parole mentre usciva barcollando dalla stanza. Era successo tutto con l'improvvisa violenza dei sogni... e con tutto l'orrore irreale degli incubi.

Ma com'era possibile? Herbie le aveva detto che...

E Herbie non poteva sbagliare. Lui leggeva nel pensiero della gente.

Si ritrovò appoggiata al montante della porta. Aveva il fiatone, e stava fissando la faccia di metallo di Herbie. Doveva aver salito le due rampe di scale, ma non se lo ricordava. Aveva coperto quella distanza in un batter d'occhio, proprio come succedeva nei sogni.

Come in un sogno.

Eppure Herbie la stava fissando con i suoi occhi impassibili, e il loro bagliore rosso opaco sembrava ingrandirsi fino ad assumere le fattezze di globi che brillavano di luce fioca, da incubo.

Le stava parlando, e Susan sentì il bicchiere freddo premuto contro le sue labbra. Deglutì, ebbe un brivido e riacquistò coscienza dell'ambiente in cui si trovava.

Herbie continuava a parlarle; sembrava agitato, come se fosse ferito.

Le parole del robot cominciarono a farsi comprensibili. ― È un sogno ― stava dicendo ― e non deve crederci. Tra poco si sveglierà nel mondo reale e si metterà a ridere per quanto è successo. Lui è innamorato di lei, le dico. L'ama, l'ama! Ma non qui. Non adesso. Questa è un'illusione.

Susan Calvin annuì. ― Sì, sì ― sussurrò. Si era aggrappata al braccio di Herbie e continuava a ripetere: ― Non è vero niente, non è vero niente.

Rientrò in sé senza sapere come, ma le restò la sensazione di essere uscita da un mondo irreale e buio per ritrovarsi alla piena luce del sole. Con gli occhi sgranati spinse forte il braccio d'acciaio per allontanare il robot.

― Cosa stai cercando di fare? ― gli gridò. ― Cosa stai cercando di fare?

― Voglio aiutarla ― le disse il robot, arretrando.

La psicologa lo fissò. ― Aiutarmi? Dicendomi che è tutto un sogno? Cercando di spingermi nella schizofrenia? ― Una rigidità isterica si era impadronita del suo corpo. ― Non è un sogno. Magari lo fosse.

Trasse un profondo respiro e parve illuminarsi. ― Un momento, adesso ho capito. Santo Dio, è così ovvio.

― Ho dovuto farlo ― le disse il robot in tono terrorizzato.

― E io ti ho creduto. Non avrei mai immaginato...

Sentì delle voci concitate fuori dalla porta e si interruppe. Strinse convulsamente le mani a pugno e si allontanò, e quando Bogert e Lanning entrarono lei era davanti alla finestra in fondo alla stanza. Nessuno dei due uomini le prestò la benché minima attenzione.

Si avvicinarono a Herbie contemporaneamente, Lanning furente e ansioso, Bogert calmo e sardonico. Fu il direttore il primo a parlare.

― Allora, Herbie, adesso stammi bene a sentire.

Il robot abbassò di colpo gli occhi sull'anziano direttore. ― Sì, dottor Lanning.

― Hai parlato di me con il dottor Bogert?

― No, signore ― rispose lentamente il robot, facendo morire il sorriso sulle labbra di Bogert.

Bogert spinse di lato il suo superiore e si piantò a gambe divaricate in faccia al robot. ― Ma che dici? Ripeti quello che mi hai detto ieri.

― Ho detto che... ― Herbie si interruppe. Dentro il suo corpo il diaframma metallico vibrava emettendo dei lievi suoni discordanti.

― Non hai detto che si era dimesso? ― ruggì Bogert. ― Rispondimi.

Bogert fece per alzare un braccio con l'evidente intenzione di colpire Herbie, ma Lanning lo spinse da parte e disse: ― Vuole mettergli paura e costringerlo a mentire?

― Ma l'ha sentito, no? Stava per dire "sì" e poi si è fermato. Si tolga dai piedi. Voglio che dica la verità, intesi?

― Gli ripeterò io la domanda. ― Lanning si rivolse al robot. ― Tranquillo, Herbie, non ci sono problemi. Allora, mi sono dimesso?

Herbie lo fissò senza rispondere e Lanning ripeté la domanda. ― Mi sono dimesso? ― Stavolta il robot fece un cenno di diniego quasi impercettibile, ma il silenzio si prolungò.

I due uomini si scambiarono un'occhiata grondante ostilità.

― È diventato muto, dannazione? ― sbottò Bogert. ― Hai perso la parola, brutto mostro?

― No ― si affrettò a rispondere il robot.

― E allora rispondi. Non mi hai detto che Lanning aveva rassegnato le dimissioni? Non si è dimesso?

Ci fu di nuovo un silenzio di tomba che fu rotto all'improvviso dalla risata stridula e quasi isterica di Susan Calvin.

I due matematici trasalirono. Bogert strinse le palpebre e disse: ― È qui anche lei? Cosa c'è di tanto divertente?

― Niente, niente ― rispose la dottoressa con un tono di voce innaturale. ― Non sono stata l'unica a essere presa in giro, ecco tutto. Non vi sembra ironico il fatto che tre dei più grandi esperti di robotica al mondo siano caduti nella stessa trappola elementare? ― La sua voce scemò e lei si portò una mano esangue alla fronte. ― È ironico, ma non è affatto divertente.

Stavolta i due uomini si scambiarono un'occhiata stupita. ― Di quale trappola parla? ― le chiese Lanning, severo. ― Herbie non funziona?

Susan Calvin si avvicinò lentamente dal fondo della stanza. ― No, lui va bene, siamo noi a non andare bene. ― Si girò sui tacchi e urlò al robot: ― Tu fila via! Va' in fondo alla stanza e non farti vedere.

Herbie si fece piccolo dalla paura davanti allo sguardo malevolo della donna e si allontanò a passi incerti e con un clangore metallico.

― Dottoressa Calvin, ci vuole spiegare il suo comportamento? ― le chiese Lanning in tono ostile.

Lei si voltò verso di loro e disse con sarcasmo: ― Conoscete la Prima Legge della Robotica, no? È di fondamentale importanza.

I due uomini annuirono contemporaneamente. ― Certo ― disse Bogert, irritato. ― Un robot non può recar danno agli esseri umani, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, gli esseri umani ricevano danno.

― Che accuratezza ― lo prese in giro la Calvin. ― Ma che tipo di danno?

― Be', qualsiasi danno.

― Esatto, qualsiasi danno. Ferire i sentimenti di una persona, ridimensionare il suo orgoglio, infrangere le sue speranze... questi non sono forse danni?

Lanning corrugò la fronte. ― Ma un robot non può... ― Si interruppe di colpo, spalancando la bocca.

― Adesso ha capito anche lei, vero? Questo robot può leggere nel pensiero. Crede forse che non sappia riconoscere un danno morale? Noi gli facciamo una domanda e lui ci dà la risposta che vogliamo sentire, è chiaro, no? Qualsiasi altra risposta ci ferirebbe, Herbie lo sa.

― Santo Dio ― mormorò Bogert.

La psicologa gli lanciò un'occhiata sardonica. ― Lei gli ha chiesto se Lanning si era dimesso e Herbie le ha risposto di sì, perché era proprio questo che lei sperava.

― E immagino che poco fa si sia rifiutato di rispondere per lo stesso motivo ― disse Lanning con voce piatta. ― Qualsiasi cosa avesse risposto, avrebbe ferito uno di noi due.

Nel silenzio che seguì, i due uomini guardarono assorti il robot che si era accoccolato sulla sedia vicino alla libreria in fondo alla stanza, la testa appoggiata a una mano.

Susan Calvin fissò ostinatamente il pavimento. ― Sapeva tutto. Quel... quel demonio sa tutto, compreso l'errore che si è verificato durante l'assemblaggio. ― Gli occhi della dottoressa erano cupi, meditabondi.

Lanning alzò lo sguardo. ― Su questo punto si sbaglia, dottoressa Calvin. Herbie non sa che cosa è andato storto durante l'assemblaggio. Gliel'ho chiesto e non ha saputo darmi una risposta.

― E allora? ― gridò la Calvin. ― Lei non sopportava l'idea che una macchina riuscisse dove lei aveva fallito. Il suo orgoglio avrebbe ricevuto un duro colpo. ― Fissò Bogert e gli chiese: ― E lei glielo ha chiesto?

Bogert tossì e diventò rosso. ― In un certo senso, sì. Mi ha detto che non era molto ferrato in matematica.

Lanning ridacchiò e le labbra della psicologa si piegarono in un sorriso caustico. ― Gli ripeterò io la domanda. Qualunque cosa mi risponda non potrà ferire il mio orgoglio. ― Si rivolse a Herbie in tono severo. ― Vieni qui.

Herbie si alzò dalla sedia e le si avvicinò con passo incerto.

― Immagino che tu sappia a che punto esatto dell'assemblaggio è stato introdotto un fattore estraneo e tralasciato un fattore essenziale.

― Sì ― le rispose pianissimo Herbie.

― Aspetti un attimo ― interloquì Bogert, rabbioso. ― Questo non è necessariamente vero. Lei voleva che Herbie rispondesse affermativamente.

― Non faccia lo stupido ― lo zittì la Calvin. ― Herbie conosce meglio la matematica di lei e Lanning messi insieme, dato che sa leggere nel pensiero. Diamogli la possibilità di dimostrarlo.

Il matematico si arrese e la Calvin disse: ― D'accordo, Herbie, finisci di rispondere alla mia domanda, ti ascoltiamo. ― Si rivolse ai due uomini. ― Signori, prendete carta e penna.

Ma Herbie rimase zitto, e fu di nuovo la psicologa a parlare in tono trionfante. ― Herbie, perché non rispondi?

― Non posso ― si lasciò uscire di bocca il robot. ― Lei sa che non posso! Il dottor Lanning e il dottor Bogert non vogliono che risponda.

― Ma vogliono sapere che cosa è successo durante l'assemblaggio.

― Però non vogliono che sia io a dirlo.

Lanning intervenne con pacatezza. ― Non essere sciocco, Herbie. Noi vogliamo che tu ce lo dica.

Bogert, spazientito, fece un cenno di assenso.

― Ma a che serve mentire? ― disse Herbie a voce altissima. ― Non avete ancora capito che posso penetrare la superficie della vostra mente? Voi non volete che io risponda. Sono una macchina a cui è stato instillato un surrogato della vita grazie al cervello positronico, che è opera dell'uomo. Se io mi dimostrassi più in gamba di voi, vi sentireste offesi. Non potete farci niente, siete fatti così e basta. Quindi non posso darvi la soluzione.

― Allora io e Bogert ce ne andiamo ― gli propose Lanning ― e tu darai la soluzione alla Calvin.

― A che servirebbe? ― si lamentò Herbie. ― Sapreste sempre che sono stato io a trovare la soluzione.

― Però devi renderti conto che nonostante questo il dottor Lanning e il dottor Bogert vogliono sapere la soluzione ― gli disse la Calvin.

― Ma vorrebbero trovarla da soli, con le loro forze ― insistette Herbie.

― Ma resta il fatto che vogliono saperla. Tu la conosci e non vuoi rivelargliela, quindi li ferisci. Te ne rendi conto, vero?

― Sì, sì!

― Ma li feriresti anche se gliela rivelassi, giusto?

― Sì, sì! ― Herbie aveva cominciato a indietreggiare lentamente e la Calvin lo incalzava passo dopo passo. I due uomini stavano osservando la scena impietriti dallo sconcerto.

― Non puoi svelare la soluzione perché li offenderesti, e tu non puoi offendere gli esseri umani. ― La Calvin gli parlava con voce monotona, ossessiva. ― Ma se non sveli la soluzione li offendi lo stesso, quindi devi svelarla. Tuttavia se la sveli li offendi, e dal momento che non puoi offenderli non devi svelarla. Ma se la sveli li offendi quindi non devi svelarla. ma se non la sveli li offendi ugualmente, quindi devi svelarla. Ma se la sveli li offendi, quindi non devi svelarla...

Herbie si trovò con le spalle al muro, e si lasciò cadere in ginocchio. ― La smetta! ― gridò. ― Chiuda la mente! È piena di dolore, frustrazione e odio. Ho agito in buona fede, non volevo far del male a nessuno. Ho soltanto cercato di aiutarla, e le ho detto quello che voleva sentirsi dire. Ho dovuto farlo.

La psicologa sembrò non averlo udito. ― Devi svelare la soluzione, ma se la sveli li offendi, quindi non puoi svelarla. Ma se non la sveli li offendi, quindi devi svelarla...

Herbie lanciò un urlo.

Fu come il fischio di un ottavino amplificato mille volte; da acuto diventò acutissimo, poi fu pervaso dallo strazio di un'anima perduta e riempì la stanza della propria atrocità.

E quando l'urlo lancinante scemò nel nulla, Herbie crollò sul pavimento, ridotto a un mucchio di metallo inanimato.

― È morto ― disse Bogert, il volto terreo.

Susan Calvin fu scossa da selvaggi singulti di riso. ― No, non è morto, è soltanto impazzito. L'ho messo di fronte a un dilemma insolubile e lui è crollato. Adesso potete mandarlo alla demolizione, tanto non parlerà più.

Lanning si inginocchiò accanto all'ammasso di metallo che era stato Herbie. Sfiorò con le dita la faccia di metallo, fredda e immobile, e trasalì. Si rialzò e si fermò davanti alla dottoressa, la faccia stravolta. ― L'ha fatto apposta.

― E anche se fosse? Ormai è andata. ― Poi, con rinnovata cattiveria, aggiunse: ― Se l'è meritato.

Il direttore afferrò il polso di Bogert, che pareva impietrito. ― Che differenza fa, a questo punto? Venga, Peter. ― Sospirò. ― Un robot pensante di questo tipo non serve a niente in ogni caso. ― Aveva lo sguardo spento, da vecchio. ― Andiamo, Peter ― ripeté.

Susan Calvin riacquistò parte del suo equilibrio mentale dopo qualche minuto che i due scienziati se n'erano andati. Voltò lentamente lo sguardo verso Herbie, il morto vivente, e il suo viso si ricompose. Mentre fissava il robot, il senso di trionfo scemò lasciando il posto alla frustrazione. E da tutti i pensieri che le turbinavano nella testa, un'unica, amarissima parola riuscì a staccarsi e a uscirle dalle labbra.

Bugiardo!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


               CIRCOLO VIZIOSO

Uno dei luoghi comuni preferiti da Gregory Powell era quello secondo cui l'agitazione non portava da nessuna parte, così quando vide Mike Donovan scendere di corsa le scale, i capelli rossi intrisi di sudore, Powell corrugò la fronte.

― Cos'è successo? ― gli chiese. ― Ti si è spezzata un'unghia?

― Lascia perdere ― ringhiò Donovan, agitato. ― Cosa ci sei stato a fare tutto il giorno nei sottolivelli? ― Trasse un profondo respiro poi sbottò. ― Speedy non è tornato.

Powell sgranò gli occhi per un breve istante e si fermò sulle scale. Poi si ricompose e riprese a salire. Quando ebbe raggiunto la cima chiese all'altro: ― Lo hai mandato a cercare il selenio?

― Sì.

― Da quant'è che è fuori?

― Cinque ore.

Silenzio. Era una situazione pazzesca. Erano arrivati su Mercurio da dodici ore esatte e già si trovavano nei guai fino al collo. Che Mercurio fosse il pianeta più iettatore del sistema solare era risaputo da tempo, ma stavolta stava superando se stesso in fatto di iella.

― Comincia dall'inizio e vediamo di sistemare la cosa ― disse Powell.

Adesso erano nella sala radio, ingombra di apparecchiature un po' antiquate che nei dieci anni precedenti al loro arrivo erano rimaste inutilizzate. E dieci anni erano molti, da un punto di vista tecnologico. Per rendersene conto bastava confrontare Speedy con i robot che avevano avuto a disposizione nel 2005. Non c'era da stupirsene, visto che la robotica stava facendo passi da gigante. Powell toccò con circospezione una superficie di metallo ancora luccicante. L'aria di abbandono che pervadeva la sala radio, e tutta la stazione, era terribilmente deprimente.

Donovan doveva essersene accorto. ― Ho cercato di localizzarlo con la radio. Niente da fare. La radio serve a ben poco quando viene usata sulla faccia di Mercurio esposta al Sole; al massimo riesce a coprire una distanza di quattro chilometri. È questo uno dei motivi che hanno causato il fallimento della Prima Spedizione. E per montare l'apparecchiatura a ultraonde dovremo aspettare ancora settimane...

― Vieni al punto, per favore ― lo interruppe Powell. ― Cosa sei riuscito a fare?

― Ho captato il segnale del corpo inorganico di Speedy sulle onde corte. Se non altro sono riuscito a localizzare la sua posizione. L'ho seguito per due ore e ho riportato sulla mappa i suoi spostamenti.

Donovan tirò fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni un pezzo di pergamena ingiallita, cimelio della Prima Spedizione, e la sbatté con forza sulla scrivania, stirandolo bene con il palmo della mano. Powell, con le braccia incrociate sul petto, guardò il foglio dalla lunga distanza.

― La croce rossa indica il giacimento di selenio ― disse Donovan, puntando nervosamente la matita. ― L'hai tracciata tu stesso.

― Di quale giacimento si tratta? ― gli chiese Powell. ― MacDougal ne aveva scoperti tre prima di partire.

― Ho mandato Speedy alla più vicina, naturalmente. Dista trenta chilometri. Ma che differenza fa? ― La sua voce era tesa. ― I punti che ho segnato a matita indicano la posizione di Speedy.

Per la prima volta l'aplomb artificiale di Powell subì uno scossone. Afferrò di scatto la mappa e disse: ― Stai scherzando. Non è possibile.

― Invece è proprio così ― ringhiò Donovan.

I puntini che indicavano la posizione formavano grossomodo un cerchio intorno alla croce rossa del giacimento di selenio. E Powell, palesando la sua preoccupazione, prese a tormentarsi i baffi castani.

Donovan aggiunse: ― Nelle due ore in cui l'ho seguito, ha fatto quattro giri intorno a quel dannato giacimento. Ritengo probabile che continuerà a girare in eterno. Ti rendi conto in che razza di situazione ci troviamo?

Powell alzò brevemente lo sguardo dalla mappa senza dire nulla. Oh, certo che se ne rendeva conto. Era una situazione chiara come un sillogismo. I banchi di cellule fotoelettriche che si ergevano a barriera tra loro e il potente calore del mostruoso sole di Mercurio erano andati a farsi friggere.

L'unica cosa che poteva salvarli era il selenio. L'unica cosa che poteva rifornirli di selenio era Speedy. Se Speedy non tornava, niente selenio. Senza selenio, niente banchi di cellule fotoelettriche. Senza i banchi di cellule fotoelettriche... be', morire arrostiti lentamente è uno dei modi più spiacevoli di crepare.

Con un gesto furioso, Donovan si passò una mano tra i capelli rossi. ― Diventeremo gli zimbelli del sistema solare, Greg ― disse con astio. ― Com'è possibile che le cose si siano messe male così presto? La grande coppia Powell-Donovan viene spedita su Mercurio con il compito di valutare l'opportunità di riaprire la Stazione Mineraria dell'emisfero illuminato con l'impiego di nuove tecniche e di robot specializzati, e noi roviniamo tutto il primo giorno. E si tratta di un lavoretto di ordinaria amministrazione. Ci siamo giocati la reputazione, per sempre.

― Se non corriamo subito ai ripari, potremo fregarcene della reputazione, perché ci saremo giocati anche la vita ― gli disse Powell, pacatamente.

― Non dire cretinate! Tu ci scherzi, Greg, ma io non ne ho affatto voglia. È stato da criminali mandarci quassù con un solo robot. E come se non bastasse, tu hai avuto la brillante idea di dire che avremmo potuto risolvere da soli il problema dei banchi di cellule fotoelettriche.

― Adesso sei ingiusto. Lo abbiamo deciso insieme, e lo sai bene. Ci serviva soltanto un chilo di selenio, una piastra dielettrodica fissa e circa tre ore di tempo. E sull'emisfero illuminato i giacimenti di selenio puro sono dappertutto. Lo spettroriflettore di MacDougal ci ha permesso di individuarne tre in cinque minuti, non è vero? Che diamine! Non potevamo di certo aspettare la prossima congiunzione.

― Be', allora che si fa! Powell, tu hai un'idea. Ne sono sicuro, altrimenti non saresti così calmo. Il tuo eroismo non è maggiore del mio. Avanti, sputa il rospo.

― Non possiamo andare a cercare Speedy, Mike, non sull'emisfero illuminato. Persino le nuove tute isolanti non possono proteggerci per più di venti minuti dalla luce diretta del sole. Ma come dice il vecchio adagio "Metti un robot alle calcagna di un altro robot". Ascolta, Mike, forse le cose non sono così tragiche. Nei sottolivelli ci sono sei robot, e se funzionano potremmo utilizzarli. Sempre che funzionino.

Negli occhi di Donovan balenò un lampo di speranza. ― Sei robot della Prima Spedizione. Ne sei sicuro? Forse sono delle macchine sub-robotiche. Dieci anni sono tanti quando si parla di robot.

― Sono robot. Ho passato con loro tutto il giorno, quindi so quello che dico. Sono dotati di cervello positronico, anche se un po' primitivo. ― Si rimise la mappa in tasca. ― Scendiamo giù.

 

I robot si trovavano nel sottolivello più basso, in mezzo a casse da imballaggio ammuffite dal contenuto indistinto. Sembravano molto grandi, addirittura enormi; erano seduti in terra a gambe larghe, e solo il busto era alto più di due metri.

Donovan emise un fischio. ― Ehi, guarda come sono grandi. Tre metri di circonferenza toracica.

― Sono dotati dei vecchi congegni McGuffy. Ho controllato i circuiti interni: roba antiquata.

― Li hai già attivati?

― No, non ce n'era motivo. Non credo siano difettosi. Persino il diaframma è abbastanza in ordine. Dovrebbero parlare.

Intanto Powell, dopo aver svitato la piastra toracica del robot più vicino, stava inserendo la sfera da cinque centimetri di diametro contenente la minuscola carica di energia atomica che animava i robot. Riuscì a sistemarla con qualche difficoltà e riavvitò la piastra. I radiocomandi di cui erano forniti i nuovi modelli non erano ancora stati messi a punto dieci anni prima. Poi Powell ripeté le stesse operazioni con gli altri cinque robot.

― Non si sono mossi ― disse Donovan, preoccupato.

― Nessuno glielo ha ordinato ― tagliò corto Powell. Tornò al primo robot su cui aveva lavorato e gli diede un colpo sul petto. ― Ehi, tu, mi senti?

Il mostro chinò lentamente la testa e fissò Powell. Poi, con una voce aspra e stridula che sembrava uscita da un vecchio grammofono, gracchiò: ― Sì, padrone.

Powell guardò il suo compagno e gli sorrise mestamente. ― Hai sentito? Erano i tempi dei primi robot parlanti, quando sembrava che l'impiego degli automi sulla Terra sarebbe stato interdetto. I costruttori, per evitare che ciò accadesse, instillavano nelle dannate macchine dei salutari complessi che le facevano sentire schiave.

― Ma fu inutile ― borbottò Donovan.

― Sì, però ci provarono. ― Si rivolse al robot. ― In piedi!

Il robot si alzò lentamente. Donovan dovette rovesciare la testa all'indietro per guardarlo, poi emise un fischio.

Powell chiese all'automa: ― Sei in grado di uscire in superficie? Alla luce del sole?

Il cervello lento del robot impiegò molto tempo per valutare la domanda. Alla fine rispose: ― Sì, padrone.

― Bene. Sai che cos'è un chilometro?

Un'altra pausa di riflessione, poi: ― Sì, padrone.

― Dunque, ti accompagneremo sulla superficie e ti indicheremo una direzione. Tu dovrai camminare per una trentina di chilometri e a un certo punto incontrerai un altro robot, più piccolo di te. Fin qui è tutto chiaro?

― Sì, padrone.

― Quando incontrerai questo robot gli ordinerai di tornare indietro. Se lui non dovesse ubbidirti, allora dovrai costringerlo con la forza.

Donovan tirò Powell per la manica. ― Perché non lo mandiamo direttamente a prendere il selenio?

― Perché rivoglio qui Speedy, stupido. Voglio scoprire cosa gli è successo. ― Al robot disse: ― Bene, adesso seguimi.

Il robot non si mosse e disse con voce roboante: ― Mi scusi, padrone, ma non posso. Prima deve montarmi sulle spalle. ― Con un rumore metallico, intrecciò le dita tozze davanti al petto a formare una sorta di staffa.

Powell lo fissò e poi si tormentò i baffi. ― Uhm... ah.

Donovan strabuzzò gli occhi. ― Dobbiamo salirgli in groppa? Come fosse un cavallo?

― Direi proprio di sì. Però non ne comprendo il motivo. Non riesco a capire... Ah, forse ci sono. Ti ho detto che a quei tempi la sicurezza dei robot era un problema molto sentito. Evidentemente i costruttori aggirarono l'ostacolo con un palliativo, imponendo ai robot di non andare mai in giro senza un mahout sulle spalle. E adesso che facciamo?

― È proprio quello a cui stavo pensando ― borbottò Donovan. ― Non possiamo uscire in superficie, con o senza un robot. Maledizione, come... ― A quel punto fece schioccare le dita due volte. ― Dammi la mappa ― disse, eccitato. ― Non me la sono mica studiata due ore giusto per perdere tempo, cavolo! Questa è la Stazione Mineraria. Perché non usare le gallerie?

Sulla mappa la Stazione Mineraria era rappresentata da un cerchio nero, e le linee punteggiate che indicavano le gallerie si intrecciavano intorno a essa come una ragnatela.

Donovan studiò la legenda riportata in fondo alla pagina. ― Guarda, i piccoli punti neri indicano le uscite in superficie, e qui ce n'è una che dovrebbe distare quattro o cinque chilometri dal giacimento di selenio. C'è anche un numero, 13-A. Potevano anche scriverlo un po' più in grande, cavolo. Se i robot sanno orientarsi in questa zona...

Powell girò subito la domanda al robot e ricevette come risposta il monotono "Sì, padrone". A Donovan disse, soddisfatto: ― Mettiti l'isotuta.

Era la prima volta che indossavano l'isotuta, e nessuno dei due aveva messo in conto quell'evenienza da quando erano arrivati, cioè il giorno prima. Così provarono a muoversi e si resero conto di quanto fosse complicato.

Le isotute erano molto più ingombranti e brutte a vedersi delle normali tute spaziali, però erano assai più leggere per via della loro composizione non metallica. Composte di plastica termo-resistente e di strati di sughero trattati chimicamente, e dotate di un essiccatore che manteneva asciutta l'aria all'interno, le isotute potevano sopportare per venti minuti il calore del sole di Mercurio. E questo lasso di tempo poteva aumentare di cinque o dieci minuti senza pericolo di morte per le persone che le indossavano.

Il robot intrecciò di nuovo le mani a formare una staffa, e non tradì la minima sorpresa alla vista di Powell e Donovan che, per via delle tute, si erano trasformati in figure grottesche.

La voce di Powell, inasprita dall'altoparlante della radio, tuonò: ― Sei pronto a portarci all'uscita 13-A?

― Sì, padrone.

"Bene" pensò Powell. I robot non erano equipaggiati di radiocomando, però potevano ricevere i radiomessaggi. ― Scegline uno e salta in groppa, Mike ― disse a Donovan.

Donovan mise un piede sulla staffa improvvisata e salì a cavalcioni. Trovò la "sella" comoda. Il dorso del robot presentava una sorta di gobba che aveva evidentemente lo scopo di sorreggere il "fantino"; sulle spalle c'erano due scanalature per le cosce, mentre la funzione delle due lunghe "orecchie" era adesso palese.

Powell afferrò le orecchie e girò la testa del robot. La sua cavalcatura si voltò a fatica. ― Avanti, Macduff ― gli disse, scherzando senza molta convinzione.

I giganteschi robot si misero lentamente in marcia, con precisione meccanica, e varcarono la porta il cui montante trasversale era più alto delle loro teste di una trentina di centimetri. Powell e Donovan dovettero chinarsi per evitare l'impatto, poi si ritrovarono lungo uno stretto corridoio che riecheggiava i passi cadenzati e monotoni degli automi.

Giunti al compartimento stagno, Powell osservò il lungo tunnel privo di aria che terminava in una capocchia di spillo e si ritrovò a pensare all'arduo compito che la Prima Spedizione aveva dovuto affrontare, con i suoi robot rudimentali e quasi niente per soddisfare le proprie necessità. Poteva anche essere stato un insuccesso, ma quell'insuccesso era un trionfo se paragonato ai successi che le varie spedizioni conseguivano adesso nel sistema solare.

I robot continuavano a caracollare senza cambiare mai ritmo, sempre con lo stesso passo.

Powell disse: ― Guarda, questi tunnel sono illuminati a giorno e la temperatura è come quella della Terra. Probabilmente tutto è rimasto così per dieci anni, anche se non c'era nessuno.

― Come mai?

― Energia a basso costo, la più economica di tutto il sistema. Energia solare. E sull'emisfero illuminato di Mercurio l'energia solare è potente, non ti sembra? È per questo che la stazione è stata costruita in una zona soleggiata, e non all'ombra di una montagna. È un enorme convertitore di energia. Il calore viene trasformato in elettricità, luce, lavoro meccanico e così via. La fornitura di energia e il raffreddamento della Stazione avvengono simultaneamente.

― Senti, le cose che mi stai dicendo sono molto istruttive, ma ti dispiacerebbe cambiare argomento? Si dà il caso che la conversione di cui parli viene svolta principalmente dai banchi di cellule fotoelettriche, e per me i banchi sono un discorso tabù in questo momento.

Powell borbottò qualcosa. Seguì un lungo silenzio che fu Donovan a rompere, passando a un argomento completamente diverso. ― Senti, Greg, che ne pensi di Speedy? Io non riesco a capire cosa gli possa essere successo.

Non è facile scrollare le spalle quando si indossa un'isotuta, ma Powell ci provò. ― Non ne ho la minima idea, purtroppo. Come sai è stato costruito perché potesse adattarsi alle condizioni ambientali di Mercurio. Il calore, il basso tasso di gravità, il terreno scosceso non sono un problema per lui. È infallibile, o almeno doveva esserlo.

Ci fu un altro silenzio, che stavolta si prolungò.

― Signore, siamo arrivati ― disse dopo qualche tempo il robot.

― Uh? ― Powell si destò dal dormiveglia in cui era caduto. ― Be' portaci fuori di qui, in superficie.

Si ritrovarono in una minuscola sottostazione, vuota, senz'aria, diroccata. Servendosi della torcia tascabile, Donovan ispezionò un buco frastagliato che si apriva in alto su una parete.

― Meteorite? ― chiese a Powell.

L'altro scrollò le spalle. ― Chi se ne frega. Usciamo di qui, piuttosto.

Un imponente picco di nera roccia basaltica bloccava la luce del sole, e i due uomini si ritrovarono immersi nel buio pesto di un mondo senz'aria. L'oscurità si stendeva dinanzi a loro ed era interrotta di netto da un accecante bagliore bianco prodotto da una miriade di cristalli disseminati sul terreno roccioso.

Donovan rimase a bocca aperta. ― Dio santo. Sembra neve. ― E il paragone era calzante.

Powell scrutò l'orizzonte frastagliato e brillante di Mercurio e trasalì davanti a quello stupendo sfavillio.

― Deve trattarsi di una zona particolare ― disse. ― L'albedo di Mercurio è generalmente bassa, e il terreno è in larga parte di pomice grigia. È un po' come la Luna. È bellissimo, vero?

Fu grato ai filtri per la luce presenti nella visiera del casco. Era uno spettacolo stupendo, d'accordo, ma se non fosse stato per i filtri, in mezzo minuto si sarebbero giocati la vista.

Donovan stava controllando il termometro a molla che aveva al polso. ― Dio santo, la temperatura è di ottanta gradi centigradi.

Powell guardò il suo termometro. ― Uh, uh. Un po' alta. Sarà per via dell'atmosfera.

― Atmosfera su Mercurio? Ma dico, ti ha dato di volta il cervello?

― In realtà Mercurio non è del tutto privo di atmosfera ― gli spiegò Powell con aria distratta. Stava sistemando il binocolo alla visiera, e i guanti gonfi della tuta gli creavano qualche problema. ― Ci sono delle leggere esalazioni che restano aderenti al suolo. Si tratta dei vapori di elementi volatili e di composti che sono abbastanza pesanti da essere trattenuti dalla gravità di Mercurio. Sto parlando di selenio, iodio, mercurio, gallio, potassio, bismuto, ossidi volatili. I vapori si raccolgono nelle zone d'ombra, e quando si condensano sprigionano calore. È una sorta di gigantesco alambicco. Se usi la torcia, ti accorgerai che il picco di roccia è coperto da una patina di zolfo, oppure di mercurio, simile alla brina.

― Comunque non importa. Le nostre tute possono sopportare una temperatura di ottanta gradi per un periodo di tempo indefinito.

Powell aveva intanto sistemato il binocolo alla visiera, e adesso sembrava avere due occhi peduncolari, come quelli delle lumache.

Donovan lo guardò, tirato. ― Riesci a vedere qualcosa?

L'altro aspettò un po' prima di rispondergli, e quando si decise a farlo la sua voce era ansiosa e preoccupata. ― C'è una macchia scura all'orizzonte, potrebbe essere il giacimento di selenio. La posizione è quella indicata dalla mappa. Però non vedo Speedy.

Powell si alzò in piedi sulle spalle del robot per vedere meglio. Restò in quella posizione precaria per qualche istante prima di dire: ― Credo... credo... sì, è proprio lui. Sta venendo da questa parte.

Donovan guardò il punto che il suo compagno indicava con un dito. Anche senza binocolo riuscì a vedere un minuscolo puntino nero che si muoveva sullo sfondo dell'accecante bagliore del suolo cristallino.

― L'ho visto ― gridò. ― Muoviamoci.

Powell, che si era rimesso a cavalcioni, batté una mano guantata sulla gargantuesca cassa toracica del robot. ― Avanti.

Donovan spronò la sua cavalcatura con i tacchi. ― Arri!

 


I robot si rimisero in marcia. I loro passi cadenzati erano silenziosi in quel mondo senz'aria, perché il tessuto delle isotute non era un conduttore del suono. Si sentiva a malapena una vibrazione ritmica.

― Più veloce ― gridò Donovan. Il robot non cambiò passo.

― È inutile ― gli spiegò Powell. ― Questi ammassi di ferrovecchio hanno una sola marcia. Credevi forse che fossero equipaggiati di flessori selettivi?

Erano usciti dalla zona d'ombra, e la luce del sole si riversò su di loro come una doccia incandescente.

Donovan si piegò in avanti, d'istinto. ― Ehi! Ho le traveggole oppure fa proprio caldo?

― Tra poco sentirai ancora più caldo ― gli rispose severamente il suo compagno. ― Tieni d'occhio Speedy.

Il robot SPD 13 era abbastanza vicino da essere visto nei dettagli. Il suo corpo aggraziato e aerodinamico si muoveva veloce sul terreno sconnesso e mandava dei bagliori intensi. Il nome con cui lo chiamavano i due uomini derivava dalla pronuncia delle tre lettere che formavano il suo numero di serie, ma era un appellativo molto appropriato visto che i modelli SPD erano tra i più veloci robot che la U.S. Robots and Mechanical Men Corporation avesse mai prodotto.

― Ehi, Speedy ― si sgolò Donovan, agitando freneticamente una mano.

― Speedy ― gridò l'altro. ― Vieni qui.

La distanza che li separava dal robot vagabondo si era accorciata, più per merito di Speedy che per l'azione degli antiquati robot montati da Powell e Donovan.

Adesso erano abbastanza vicini da poter notare qualcosa di strano nel modo in cui Speedy si muoveva: ondeggiava clamorosamente di qua e di là in una sorta di rollio che lo faceva sbandare. Powell agitò di nuovo la mano e alzò il volume dell'altoparlante della radio incorporata nel casco, ma prima che potesse dire qualcosa, Speedy alzò lo sguardo e li vide.

Il robot si arrestò di colpo e restò un attimo immobile, continuando però a vacillare leggermente come se fosse scosso da un refolo di vento.

Powell gli gridò: ― Avanti, Speedy, vieni qui da noi. Su, da bravo.

Poco dopo la voce di Speedy risuonò nell'auricolare di Powell: ― Allora giochiamo un po'. Voi acchiappate me e io acchiappo voi; il nostro coltello non sarà reciso dagli amori. Perché io sono Ranuncolino, il dolce Ranuncolino. Trallalà! ― Girò sui tacchi e si lanciò come un razzo nella direzione da cui era venuto, sollevando mulinelli di polvere cotta dal sole.

E mentre scompariva in lontananza, Donovan gli sentì dire: ― Sotto una grande quercia cresce un fiorellino. ― Poi seguì uno strano schiocco metallico che avrebbe potuto essere l'equivalente robotico di un singhiozzo umano.

Donovan disse debolmente: ― Dove ha imparato questa operetta di Gilbert e Sullivan? Greg, secondo me è... ubriaco o qualcosa del genere.

― Se non me lo avessi detto tu non me ne sarei mai accorto ― fu la risposta velenosa di Powell. ― Andiamo a ripararci dietro la roccia. Sto arrostendo.

Fu Powell a rompere il pesante silenzio. ― Innanzitutto Speedy non è ubriaco. È un robot, e i robot non si ubriacano. Tuttavia c'è qualcosa in lui che non funziona, e che gli causa l'equivalente robotico dello stato di ebbrezza.

― Per me è ubriaco ― dichiarò Donovan con enfasi ― e crede che noi stiamo giocando. Ma noi non stiamo giocando, maledizione. Per noi si tratta di una questione di vita o di morte, e sarebbe una morte atroce.

― Va bene, va bene, però non mettermi fretta. Un robot è soltanto un robot. Scopriremo il guasto, lo ripareremo e andremo avanti con il nostro lavoro.

― Ma resta sempre da scoprire il guasto ― gli fece notare Donovan, velenoso.

Powell ignorò la frecciata. ― Speedy è in grado di adattarsi benissimo alle condizioni ambientali di Mercurio. Ma questa regione, ― con un gesto circolare del braccio indicò il paesaggio ― non è affatto normale. E noi dobbiamo basarci su questo indizio. Allora, da dove vengono questi cristalli? Potrebbero essere il risultato del lento raffreddamento di un liquido, ma dove si trova un liquido così caldo da raffreddarsi a questa temperatura?

― Nei vulcani ― suggerì prontamente Donovan.

Powell si irrigidì. ― Ha parlato la bocca della verità ― disse a voce bassa e con uno strano tono. Poi restò zitto e immobile per cinque minuti.

― Senti, Mike, che cos'hai detto a Speedy quando lo hai mandato a prendere il selenio?

Donovan fu preso alla sprovvista. ― Non lo so, non me lo ricordo. Gli avrò detto semplicemente di andarlo a prendere.

― Sì, lo so, ma cerca di ricordare le parole esatte.

― Gli ho detto... uhm, vediamo... gli ho detto: “Speedy, ci serve del selenio. Puoi trovarlo nel tal posto. Va' a prenderlo”. Tutto qui. Che altro avrei dovuto dirgli?

― Non gli hai detto che doveva fare in fretta, vero?

― No, era una cosa di ordinaria amministrazione..

Powell sospirò. ― Be', ormai è andata, comunque siamo proprio nei guai. ― Era smontato dal suo robot per sedersi in terra, la schiena appoggiata alla parete di roccia. Donovan lo imitò e lo prese sotto braccio. In lontananza, la cocente luce del sole sembrava stesse aspettandoli al varco, mentre proprio accanto a loro c'erano i due giganteschi robot, di cui potevano vedere soltanto gli occhi rosso- opaco che li fissavano dall'alto, immobili, imperscrutabili, indifferenti

Indifferenti! Esattamente come quel velenoso pianeta, così piccolo nelle dimensioni eppure così iettatore.

La voce che giungeva via radio alle orecchie di Donovan era tesa: ― Senti, partiamo dalle Tre Leggi Fondamentali della Robotica, quelle leggi impresse nel cervello positronico che regolano il comportamento dei robot. ― Al buio, cominciò a contare sulla punta delle dita guantate.

― La Prima Legge dice: un robot non può recar danno agli esseri umani né può permettere che, a causa del suo mancato intervento gli esseri umani ricevano danno.

― Esatto.

― La Seconda: un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani tranne nel caso che tali ordini siano in contrasto con la Prima Legge.

― Esatto.

― La Terza: un robot deve salvaguardare la propria esistenza, purché ciò non sia in contrasto con la Prima o la Seconda Legge.

― Esatto. E allora?

― Allora siamo arrivati alla soluzione del mistero. Il conflitto tra le varie leggi è risolto dai diversi potenziali positronici del cervello. Mettiamo il caso che un robot sia sul punto di correre un pericolo e se ne renda conto. Il potenziale automatico determinato dalla Terza Legge lo spinge a evitare il pericolo. Ma cosa succede se tu gli ordini di affrontare quel pericolo? In questo caso la Seconda Legge provoca un contropotenziale più alto del precedente e il robot ubbidisce al tuo ordine mettendo a repentaglio la propria esistenza.

― Certo, lo so. Ma continuo a non capire.

― Prendiamo il caso di Speedy. Speedy è uno dei modelli più recenti. È estremamente specializzato e costa quanto una nave da guerra. Non è una cosa che si può distruggere come se niente fosse.

― E allora?

― Allora la Terza Legge è stata rafforzata, e adesso la sua allergia al pericolo è aumentata sensibilmente. Questo particolare era indicato in modo dettagliato nelle istruzioni operative distribuite prima del lancio sul mercato dei modelli SPD. Dunque, quando tu lo hai mandato a prendere il selenio, gli hai impartito un ordine normale, non gli hai detto che si trattava di una cosa che andava fatta con urgenza, così il potenziale della Seconda Legge è stato piuttosto debole. Adesso stammi bene a sentire, perché inizierò a constatare dei fatti.

― D'accordo, va' pure avanti. Credo di aver capito dove vuoi arrivare.

― Hai capito qual è il problema, vero? Quel giacimento di selenio rappresenta in qualche modo un pericolo. Il pericolo aumenta a mano a mano che Speedy si avvicina, e a una certa distanza dal giacimento il potenziale della Terza Legge, che all'inizio è insolitamente alto, bilancia esattamente il potenziale della Seconda Legge, che all'inizio è insolitamente basso.

Donovan si alzò in piedi di scatto, eccitato. ― E quindi si crea un perfetto equilibrio. Ho capito. La Terza Legge lo spinge ad allontanarsi dal giacimento e la Seconda Legge lo induce ad avvicinarsi.

― Così Speedy ci gira intorno, mantenendosi nella posizione in cui si verifica l'equilibrio dei potenziali. E se non interveniamo in qualche modo, lui continuerà per sempre a fare il buon vecchio girotondo. ― Dopo una pausa di riflessione Powell aggiunse: ― A proposito, è proprio questo il motivo del suo apparente stato di ubriachezza. L'equilibrio dei potenziali mette fuori uso metà degli schemi positronici del suo cervello. Non sono un esperto di robotica, ma mi sembra una spiegazione ovvia. Probabilmente, come succede agli ubriachi, ha perso il controllo di alcuni meccanismi della volontà. Un caso molto curioso.

― Ma in che cosa consiste il pericolo? Se sapessimo di che cosa ha paura...

― Sei stato tu stesso a centrare nel segno poco fa. Attività vulcanica. Nel giacimento di selenio c'è un'infiltrazione di gas che provengono dalle viscere di Mercurio. Anidride solforosa, anidride carbonica e ossido di carbonio in gran quantità. E c'è da mettere in conto la temperatura.

Donovan deglutì con un rumore sordo. ― La combinazione di ossido di carbonio e ferro produce il ferropentacarbonile volatile.

― E un robot è fatto soprattutto di ferro, ― sottolineò Powell. Poi aggiunse in tono grave: ― Niente è come il ragionamento deduttivo. Abbiamo individuato tutti i termini del nostro problema tranne la soluzione. Noi non possiamo andare a prendere il selenio perché è troppo lontano. Non possiamo ordinare a questi robot-cavalli di farlo perché non si muovono senza "fantino", né possiamo farci accompagnare perché sono così lenti che moriremmo arrostiti. E non possiamo prendere Speedy perché quello scemo crede che stiamo giocando. È dura acchiapparlo, se si mette a correre. Lui va a cento chilometri orari e noi a sei, capirai.

― Se andasse uno di noi ― propose Donovan timidamente ― e tornasse abbrustolito, resterebbe sempre l'altro.

― Sì, sarebbe un sacrificio davvero commovente ― fu la risposta sarcastica di Powell ― solo che già prima di arrivare al giacimento non saremmo più in grado di dare ordini, e non credo che i robot tornerebbero qui alla roccia se nessuno glielo ordinasse. Basta fare due conti per capirlo. Il giacimento dista tre o quattro chilometri, facciamo tre; i robot possono coprire sei chilometri in un'ora e le isotute ci danno un'autonomia di venti minuti. E non c'è solo il problema del calore, bada bene. Qui ci troviamo nella fascia degli ultravioletti, e le radiazioni solari sono letali.

― Uhm ― mormorò Donovan, assorto. ― Ci servirebbero dieci minuti di autonomia in più.

― Dieci minuti sono un'eternità. Ma bisogna considerare anche un'altra cosa. Se il potenziale della Terza Legge ha bloccato Speedy vicino al giacimento, allora deve esserci una notevole quantità di ossido di carbonio in quell'atmosfera di vapori metallici che la rende altamente corrosiva. Ormai Speedy è uscito da molte ore. Da un momento all'altro gli si potrebbe inceppare l'articolazione di un ginocchio e lui si bloccherebbe. Nessuno può garantirci il contrario. Quindi non solo dobbiamo trovare una soluzione, ma dobbiamo trovarla in fretta.

Silenzio cupo, profondo, lugubre e sepolcrale.

Fu Donovan a romperlo e, nel tentativo di tenere a freno le emozioni, non riuscì a evitare il tremito della voce. ― Dato che non possiamo aumentare il potenziale della Seconda Legge impartendo ulteriori ordini, perché non tentiamo la soluzione opposta? Aumentando il pericolo aumenterebbe anche il potenziale della Terza Legge, e lui tornerebbe indietro.

Powell voltò la testa verso di lui, e fu un gesto più eloquente di una domanda diretta.

E infatti Donovan gli spiegò meglio la sua idea, con molta cautela. ― Per sbloccare la situazione di stallo in cui si trova Speedy, basterebbe aumentare la concentrazione di ossido di carbonio nelle sue vicinanze. Be', alla stazione c'è un laboratorio analitico completo.

― È naturale― assentì Powell. ― È una stazione mineraria.

― Infatti. Quindi ci saranno chili di acido ossalico per la preparazione dei precipitati di calcio.

― Dio santo, Mike. Sei un genio.

― Me la cavo ― ammise Donovan, con modestia. ― Si dà il caso che mi sia ricordato che l'acido ossalico, portato a una certa temperatura, si decompone in anidride carbonica, acqua e ossido di carbonio. Reminiscenze liceali, Greg.

Powell si era alzato e aveva richiamato l'attenzione di uno dei colossali robot dandogli una pacca sulla coscia di metallo. ― Ehi, sai fare un lancio?

― Come, padrone?

― Non importa, lasciamo perdere. ― Powell maledì la lentezza esasperante del cervello del robot. Raccolse una pietra frastagliata, grande come un mattone. Gliela porse e gli disse: ― Adesso prendila e cerca di colpire quella macchia di cristalli bluastri al di là di quella crepa dentellata. La vedi?

Donovan tirò Powell per la manica. ― Troppo lontano, Greg. È quasi un chilometro.

― Tranquillo, Mike. Abbiamo dalla nostra parte la gravità di Mercurio e un braccio d'acciaio. Sta' a guardare.

Gli occhi del robot stavano misurando la distanza con l'accuratezza della stereoscopia. Il suo braccio valutò il peso del missile e si ritrasse. Nell'oscurità i movimenti del robot passarono inosservati, ma si udì un tonfo sordo quando effettuò il lancio, e dopo qualche secondo la pietra nera guizzò nella luce del sole. Non essendoci la resistenza dell'aria a rallentarla né il vento a deviarne la traiettoria, la roccia cadde esattamente al centro della "macchia bluastra", sollevando uno schizzo di cristalli.

Powell lanciò un grido di gioia. ― Andiamo a prendere l'acido ossalico, Mike.

E mentre si precipitavano nella sottostazione diroccata diretti verso le gallerie, Donovan disse tetro: ― Da quando ci ha visti, Speedy è rimasto sempre sul lato del giacimento più vicino a noi. Te ne sei accorto?

― Sì.

― Immagino che voglia giocare. Be', gli insegneremo un bel giochino.

 

Tornarono dopo qualche ora con un paio di vasi da tre litri di acido ossalico e due facce lunghissime. I banchi di cellule fotoelettriche si stavano deteriorando più rapidamente del previsto. I due uomini, in silenzio e con grande determinazione, guidarono i loro robot nella luce del sole verso Speedy che li stava aspettando.

Il robot si fece loro incontro al piccolo trotto. ― Eccoci di nuovo tutti qui. Fantastico! Ho fatto una piccola lista, per l'organista; tutta gente che mangia menta piperita e te la alita in faccia.

― Adesso ti alitiamo subito noi qualcosa in faccia ― borbottò Donovan. ― Zoppica, Greg, te ne sei accorto?

― Sì ― gli rispose l'altro, preoccupato. ― Se non affrettiamo i tempi, l'ossido di carbonio lo distruggerà.

Adesso si stavano avvicinando con molta cautela, quasi di soppiatto, per non far scappare il robot che era completamente uscito di senno. Powell era troppo distante per poterne essere certo, però sarebbe stato pronto a giurare che quello sballato di Speedy era sul punto di mettersi a correre.

― Al mio tre, lancia ― gridò. ― Uno... due...

Il robot caricò entrambe le braccia e le fece scattare contemporaneamente. Due vasi di vetro, brillanti nella luce accecante del sole rotearono in aria descrivendo due archi paralleli e si infransero silenziosamente sul terreno alle spalle di Speedy. L'acido ossalico si sprigionò nell'aria come una nuvola di polvere.

A Powell parve quasi di sentire l'acido che frizzava come acqua di soda nella calura del sole di Mercurio.

Speedy si girò a guardare, poi indietreggiò lentamente dal giacimento, e altrettanto lentamente aumentò l'andatura. Dopo quindici secondi di corsa traballante, il robot aveva raggiunto i due uomini.

Powell non riuscì a capire bene le parole di Speedy, ma gli parve di afferrare qualcosa come: “Sono dichiarazioni d'amore se proferite da un assiano”.

Powell si rivolse a Donovan. ― Torniamo alla roccia, Mike. Ormai è uscito dallo stallo e ubbidirà ai nostri ordini. Il caldo comincia a farsi insopportabile.

Si diressero verso l'ombra in groppa ai loro brocchi, e solo quando furono al riparo dalla luce del sole godendosi l'improvvisa frescura, Donovan si voltò a guardare indietro. ― Greg!

Powell si girò e cacciò un grido. Speedy si stava muovendo lentamente, molto lentamente, e nella direzione sbagliata. Stava andando alla deriva; si lasciava trasportare da una corrente che lo risucchiava intorno al giacimento. E guadagnava velocità. Powell lo vedeva terribilmente vicino con il binocolo, eppure lo sapeva terribilmente irraggiungibile.

Donovan urlò come un ossesso: ― Inseguiamolo! ― Spronò il suo robot ma non fece in tempo a muoversi perché Powell lo dissuase.

― Non riusciresti mai a prenderlo, Mike. È inutile. ― Si spostò nervosamente sulle spalle del robot e strinse le mani a pugno in un gesto di impotenza. ― Maledizione, ci metto sempre qualche secondo di troppo a capire le cose. Mike, abbiamo sprecato ore preziose.

― Ci serve dell'altro acido ossalico ― affermò Donovan, ostinato. ― La concentrazione non era abbastanza alta.

― Non ne sarebbero bastate nemmeno sette tonnellate. L'ossido di carbonio lo sta divorando, non c'è più tempo da perdere. Mike, non capisci cos'è successo?

― No ― gli rispose Donovan, perentorio.

 

― Non abbiamo fatto altro che stabilire altri equilibri. Abbiamo aumentato la concentrazione di ossido per rafforzare il potenziale della Terza Legge e Speedy si è allontanato dal giacimento. Ma a una certa distanza si è trovato di nuovo in una situazione di equilibrio. E quando l'ossido di carbonio si è dissolto, lui è tornato verso il giacimento, dove ha trovato la situazione di partenza.

La voce di Powell era dolente. ― È un circolo vizioso, Mike. Possiamo indebolire il potenziale della Seconda Legge e rafforzare quello della Terza, ma non risolviamo niente. Creiamo soltanto dei nuovi equilibri. Quindi dobbiamo lasciar perdere entrambe le leggi. ― Powell manovrò il suo robot per fronteggiare Donovan. I due uomini erano delle macchie scure nell'oscurità. ― Mike!

― È la fine, vero? ― Donovan si era fatto prendere dallo scoramento. ― Non ci resta altro che tornare alla stazione, aspettare che i banchi vadano completamente fuori uso, stringerci la mano, prendere il cianuro e andarcene da gentiluomini. ― Sogghignò amaramente.

― Mike, dobbiamo recuperare Speedy ― gli disse Powell, accalorato.

― Lo so.

― Mike ― ripeté Powell, poi esitò prima di aggiungere: ― C'è sempre la Prima Legge. Ci avevo già pensato, ma... è un tentativo disperato.

Donovan alzò lo sguardo e la sua voce sembrò ravvivarsi. ― Noi siamo disperati.

― D'accordo. Secondo la Prima Legge, un robot non può permettere che a causa del suo mancato intervento gli esseri umani ricevano danno. La Seconda e la Terza non possono attenuarla, Mike. Non possono.

― Anche se il robot è mezzo ma... ubriaco?

― Bisogna rischiare.

― Taglia corto. Che cosa intendi fare?

― Voglio andare immediatamente al giacimento per vedere se la Prima Legge può aiutarci. Se non riuscirà a spezzare l'equilibrio, allora... tanto piacere. Morire adesso o fra tre o quattro giorni è lo stesso.

― Aspetta un attimo, Greg. Anche gli uomini hanno delle regole di comportamento. Tiriamo a sorte.

― D'accordo.

Ci andrà chi dirà per primo qual è il cubo di quattordici. ― E quasi subito: ― Duemilasettecentoquarantaquattro.

Donovan sentì il proprio robot barcollare per l'urto improvviso con la cavalcatura di Powell, poi vide l'amico allontanarsi nella luce del sole. Donovan aprì la bocca per gridare qualcosa, ma la richiuse subito. Era chiaro che quel pazzo aveva calcolato in anticipo il cubo di quattordici. Non si smentiva mai.

 

Il sole era più caldo che mai e Powell sentiva un tremendo prurito tra le scapole. Forse si trattava di autosuggestione, oppure le potenti radiazioni cominciavano a penetrare nell'isotuta.

Speedy lo stava osservando, ma non lo accolse con l'operetta di Gilbert e Sullivan. Meno male! Comunque Powell preferì mantenersi a debita distanza.

Era giunto a circa cento metri dal robot quando questi cominciò ad arretrare con cautela, un passo alla volta. Powell si fermò. Smontò dal robot e atterrò con un tonfo ovattato sul suolo cristallino, sollevando uno schizzo di frammenti seghettati.

Proseguì a piedi sul terreno sdrucciolevole di ghiaia, disturbato dall'assenza quasi totale di gravità. Le piante dei piedi erano tormentate dal calore. Si lanciò un'occhiata dietro le spalle, vide la zona d'ombra creata dal picco di roccia e si rese conto di essersi allontanato troppo per poter ritornare, sia a piedi sia in groppa al sua antiquato robot. Ormai doveva soltanto sperare in Speedy. Quella consapevolezza gli fece quasi mancare il respiro.

Aveva raggiunto una posizione ottimale. Si fermò.

― Speedy! Speedy!

Il robot, lucido e moderno, ebbe un attimo di esitazione, smise di indietreggiare, poi proseguì.

Powell cercò di usare un tono di supplica, e scoprì che non aveva bisogno di recitare. ― Speedy, devo tornare all'ombra immediatamente, altrimenti il sole mi ucciderà. È una questione di vita o di morte, Speedy. Ho bisogno di te.

Speedy fece un passo in avanti e si fermò. Parlò, ma Powell emise un gemito strozzato perché lo sentì dire: ― Quando sei sulla branda con una terribile emicrania e non puoi riposare... ― Si interruppe, e Powell spremette le meningi per cercare una parola. ― Iolanda ― mormorò.

Faceva un caldo bestiale. Con la coda dell'occhio scorse un movimento e girò la testa, confuso. Sgranò gli occhi, irretito dallo sbalordimento, perché vide il gigantesco robot che aveva cavalcato dirigersi verso di lui, senza fantino.

Lo sentì dire: ― Le chiedo perdono, padrone. Non dovrei muovermi senza un padrone in groppa, ma lei è in pericolo.

Ma certo, il potenziale della Prima Legge era più forte di qualsiasi altra cosa. Ma Powell non voleva quel goffo reperto di archeologia industriale, voleva Speedy. Si allontanò e si mise a gesticolare freneticamente. ― Ti ordino di starmi lontano. Ti ordino di fermarti!

Fu inutile. Non c'era nulla da fare contro il potenziale della Prima Legge. Il robot ripeté come uno stupido: ― Padrone, lei è in pericolo.

Powell si guardò disperatamente intorno. Aveva la vista annebbiata. Gli sembrava che il cervello dovesse fondersi da un momento all'altro, il respiro era fuoco vivo nei polmoni, e il terreno circostante era una coltre di bruma scintillante.

― Speedy! Sto morendo, maledetto. Dove sei? Speedy, ho bisogno di te.

Powell continuava a barcollare all'indietro nel cieco tentativo di allontanarsi dal gigantesco robot. All'improvviso si sentì afferrare il braccio da una mano d'acciaio, e udì una voce dal timbro metallico, preoccupata e contrita: ― Dio santo, capo, cosa ci fa qui? E cosa ci faccio io? Sono così confuso...

― Non importa ― mormorò debolmente Powell. ― Portami subito all'ombra della rupe. ― Si sentì sollevare in aria, avvertì un movimento rapido e un calore bruciante, poi svenne.

 

Quando si svegliò, Donovan era chino sopra di lui e gli sorrideva ansioso. ― Come stai, Greg?

― Bene. Dov'è Speedy?

― È qui.

L'ho mandato a uno degli altri giacimenti di selenio e questa volta con l'ordine preciso di prendere il selenio a tutti i costi. E lui è tornato dopo quarantadue minuti e tre secondi. L'ho cronometrato. Continua ancora a scusarsi per l'intoppo che ci ha procurato. Non osa venirti vicino perché ha paura dei tuoi rimproveri.

― Su, fallo venire avanti ― ordinò Powell. ― Non è stata colpa sua. ― Tese la mano e strinse la zampa metallica di Speedy. ― Sta' tranquillo, Speedy, è tutto a posto adesso. ― A Donovan disse: ― Sai, Mike, stavo pensando...

― Sì?

Powell si passò una mano sulla faccia, gustando la frescura. ― Ecco, tu sai, vero, che quando avremo sistemato le cose qui e Speedy avrà superato i collaudi su campo ci manderanno su una stazione spaziale?

― No!

― Sì. Almeno così mi ha detto la nostra buona Susan Calvin poco prima che partissimo. E io non ho fatto commenti, perché in cuor mio avevo intenzione di oppormi. Non mi andava proprio l'idea.

― No? ― fece Donovan. ― Ma...

― Lo so. Adesso ho cambiato parere. Duecentosettantatré gradi sottozero. Non sarà magnifico?

― Stazione spaziale aspettami ― disse Donovan. ― Sono qui!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


               LA PROVA

Francis Quinn era un politico della nuova scuola. Questa, naturalmente, è un'espressione priva di significato, come tutte le altre dello stesso genere. Gran parte delle "nuove scuole" esistenti al giorno d'oggi erano già presenti nell'antica Grecia e forse, ma si tratta solo di un'ipotesi non suffragata, tra gli antichi Sumeri e nella vita sociale di popolazioni che vivevano sulle palafitte nei laghi della Svizzera preistorica.

Ma per accantonare un preambolo che si preannuncia pedante e complicato, sarà meglio mettere subito in chiaro che Quinn non aspirava a cariche pubbliche, non sollecitava voti, non faceva discorsi né brogli elettorali. Non più di quanto Napoleone avesse personalmente premuto il grilletto nella battaglia di Austerlitz.

E poiché la politica crea delle strane alleanze, all'altro lato del tavolo sedeva Alfred Lanning, le folte sopracciglia bianche più che mai spioventi sugli occhi resi sagaci da un'impazienza cronica. Lanning non era per nulla soddisfatto di trovarsi lì.

Ma se anche Quinn se ne fosse accorto, la cosa lo avrebbe lasciato del tutto indifferente. Si rivolse a Lanning in modo cordiale, da attore consumato.

― Immagino che conosca Stephen Byerley, dottor Lanning.

― Ho sentito parlare di lui, come tanta altra gente.

― Sì, anch'io lo conosco di nome. Intende votare per lui alle prossime elezioni?

― Non saprei ― rispose Lanning, acido. ― Non seguo la politica, quindi non so nemmeno se si candiderà.

― Potrebbe diventare il nostro prossimo sindaco. D'accordo, per ora è soltanto un avvocato, ma le grandi querce...

― Sì, ho già sentito questo proverbio ― lo interruppe Lanning. ― Ma le sarei grato se volesse parlarmi del motivo di questo nostro incontro, signor Quinn.

― È quello che sto facendo, dottor Lanning ― gli disse Quinn, gentilissimo. ― È nel mio interesse che il signor Byerley rimanga per sempre il procuratore distrettuale che è, ed è nel suo interesse aiutarmi nel mio intento.

Lanning aggrottò le sopracciglia. ― Nel mio interesse? Suvvia!

― Allora diciamo nell'interesse della U.S. Robots and Mechanical Men Corporation. Mi sono rivolto a lei, direttore emerito delle ricerche, perché il suo ruolo all'interno dell'azienda è un po' quello... dell'anziano statista, possiamo dire. Lei è ancora molto rispettato anche se i suoi vincoli con la proprietà si sono allentati. Insomma lei ha una notevole libertà d'azione, e può agire anche in modo non del tutto ortodosso.

Il dottor Lanning restò un attimo zitto a ruminare il bolo dei suoi pensieri. ― Non riesco proprio a seguirla, signor Quinn ― disse infine in tono più conciliante.

― È normale, dottor Lanning. Ma si tratta di una faccenda alquanto semplice. Le dà fastidio se fumo? ― Quinn si accese una sigaretta lunga e sottile con un accendino semplice ed elegante, e i lineamenti pronunciati del viso assunsero un'espressione divertita. ― Abbiamo parlato del signor Byerley, un personaggio bizzarro e pittoresco. Tre anni fa era ancora un perfetto sconosciuto, adesso è diventato famoso. È un uomo energico dotato di grande abilità, il procuratore distrettuale più capace e intelligente che abbia mai conosciuto. Purtroppo non siamo amici...

― Capisco ― disse Lanning, meccanicamente. Si scrutò le unghie delle mani.

― L'anno scorso ho avuto modo di svolgere un'indagine sul conto del signor Byerley ― continuò Quinn, rilassato. ― Un'indagine molto accurata. Sa, torna sempre utile raccogliere tutte le informazioni possibili sui trascorsi dei politici riformisti. Se sapesse quante volte questa procedura si è rivelata preziosa... ― Si interruppe, guardò la minuscola brace della sigaretta e sorrise freddamente. ― Be', il signor Byerley ha un passato irreprensibile. Una vita tranquilla in una città di provincia, il liceo, una moglie morta prematuramente, un incidente d'auto che l'ha costretto a una lunga convalescenza, la laurea in legge, il trasferimento nella metropoli, l'inizio della professione.

Francis Quinn scosse lentamente la testa prima di aggiungere: ― Ma la sua vita attuale, questa sì che è interessante. Il nostro procuratore distrettuale non mangia mai.

Lanning alzò la testa di scatto e rivolse all'altro uno sguardo penetrante. ― Scusi, cos'ha detto?

― Il nostro procuratore distrettuale non mangia mai ― ripetè Quinn scandendo le sillabe. ― Posso correggere un po' la mia affermazione. Nessuno lo ha mai visto né mangiare né bere. Mai! Non ho detto che mangia poco, badi bene, ho detto che non mangia mai.

― Faccio fatica a crederci. Ci si può fidare dei suoi investigatori?

― Assolutamente, e per me la cosa non risulta così incredibile. E quando le ho detto che nessuno lo ha mai visto bere, non mi riferivo alle sole bevande alcoliche, ma anche all'acqua. E sembra che nemmeno dorma. Ci sono altri particolari un po' strani, ma credo di essere stato abbastanza chiaro.

Lanning si lasciò andare contro lo schienale della poltrona. I due uomini si fissarono in un silenzio di sfida, poi il vecchio robotologo scosse la testa. ― No. Se associo le sue affermazioni al fatto che sia venuto a dirle a me, posso trarre una sola conclusione, e si tratta di una conclusione assurda.

― Byerley non è affatto umano, dottor Lanning.

― Se mi dicesse che è Satana sotto mentite spoglie, forse mi sarebbe un po' più facile crederle.

― Invece le sto dicendo che è un robot, dottor Lanning.

― E io le dico che è la cosa più assurda che abbia mai sentito in vita mia, signor Quinn.

Seguì un altro silenzio di sfida.

Quinn schiacciò la cicca nel portacenere con cura esagerata. ― Tuttavia dovrà verificare l'infondatezza di quanto le ho detto usando tutte le risorse della compagnia.

― Non posso assolutamente farmi carico di questo impegno, signor Quinn. Come può pretendere che la compagnia si immischi nella politica locale?

― Non ha scelta. Potrei sempre denunciare pubblicamente Byerley in base alle prove circostanziali che ho raccolto.

― Faccia come vuole.

― Non lo faccio perché non è questo che voglio. Mi servono prove concrete. E non converrebbe nemmeno a lei se lo facessi, perché la pubblicità data al caso danneggerebbe la compagnia. Immagino che lei sappia molto bene quanto sono severe le leggi che regolano l'uso dei robot sui pianeti abitati.

― Certo che lo so ― sbottò Lanning.

― Lei sa che la U.S. Robots and Mechanical Men Corporation è l'unica azienda costruttrice di robot positronici di tutto il sistema solare, quindi se Byerley è un robot, allora è un robot positronico. E sa altrettanto bene che i robot positronici non si possono comprare ma si noleggiano, e quindi la compagnia resta proprietaria e responsabile di ciascun robot.

― Non è un problema, signor Quinn, dimostrare che la compagnia non ha mai costruito un robot umanoide.

― Ma sarebbe possibile costruirlo? Glielo chiedo così, giusto per parlare di possibilità teoriche.

― Sì, sarebbe possibile.

― E in tutta segretezza, immagino. Senza alcuna registrazione.

― Questo no, signore, perché c'è di mezzo un cervello positronico, ed entrano in gioco troppi fattori, quindi il controllo del governo è accuratissimo.

― Sì, ma i robot si usurano, si guastano, si rompono del tutto e vengono smantellati.

― In questi casi il cervello positronico viene riutilizzato oppure distrutto.

― Ah, sì? ― fece Quinn, con una vena di sarcasmo. ― E se un cervello non venisse distrutto, naturalmente per un caso fortuito, e ci fosse una struttura umanoide pronta ad accoglierlo?

― Impossibile!

― Dovrà dimostrarlo al governo e all'opinione pubblica, quindi perché non lo dimostra a me, subito?

― Ma per quale motivo avremmo riutilizzato clandestinamente un cervello positronico? ― gli chiese Lanning, esasperato. ― A che scopo? Il buonsenso non ci manca, e lei almeno questo deve ammetterlo.

― La prego, mio caro signore. La compagnia sarebbe felicissima se le varie Regioni permettessero l'uso di robot positronici umanoidi sui pianeti abitati. I profitti sarebbero enormi. Ma il pregiudizio dell'opinione pubblica è troppo forte. Allora, cosa decidete di fare? Dimostrate alla gente che ci si può fidare degli automi... visto che avvocato brillante, che sindaco impagabile? Bene, è un robot. Volete provare i nostri robomaggiordomi?

― Che fantasia! Un'idea talmente ridicola da far ridere.

― Già, ma allora perché non mi dimostra il contrario? Oppure preferisce doverlo dimostrare all'opinione pubblica?

La luce nell'ufficio si stava affievolendo, ma non era ancora abbastanza fioca da nascondere la frustrazione che si dipinse sul viso di Lanning. Con un gesto lento, il robotologo sfiorò un pulsante e le luci incorporate nelle pareti emisero un tenue bagliore.

― E va bene ― ringhiò. ― Vedremo.

 

Non è facile descrivere il viso di Stephen Byerley. Che avesse quarant'anni c'era il certificato di nascita a dimostrarlo, ma erano quarant'anni portati benissimo. Aveva un aspetto sano, florido e cordiale che ti strappava di bocca il luogo comune secondo cui "ognuno ha l'età che dimostra".

E quando rideva sembrava ancora più giovane, come in quel momento. La sua risata era forte e piena, poi scemava per un istante e subito ricominciava.

Invece il viso di Alfred Lanning era contratto in una rigida smorfia di profonda disapprovazione. Il robotologo fece un vago cenno alla donna che gli sedeva accanto, ma lei si limitò a increspare leggermente le labbra sottili ed esangui.

Con un singulto, Byerley riuscì quasi a smettere di ridere.

― Davvero, dottor Lanning? Io... io... un robot?

Le parole gli uscirono di bocca come un soffio di aria compressa quando disse: ― Non sono stato io ad affermarlo, signore. Io preferisco considerarla un membro dell'umanità. Dal momento che la nostra compagnia non l'ha costruita, non ho motivo di dubitare della sua natura, almeno da un punto di vista legale. Ma dato che a insinuare seriamente che lei è un robot è stata una persona di una certa importanza...

― Non mi dica il nome di quell'uomo, se questo può scheggiare il suo blocco granitico di principi morali, ma supponiamo, tanto per parlare, che si tratti di Francis Quinn, e continuiamo pure la nostra conversazione.

Lanning sbuffò seccamente per quell'interruzione, e fissò truce l'avvocato prima di riprendere il suo discorso con rinnovata freddezza. ― Data l'importanza di questa persona, sulla cui identità non ho intenzione di mettermi a giocare agli indovinelli, mi trovo costretto a chiederle la sua collaborazione per smentirlo. Se quest'uomo decidesse di rendere pubblica questa controversia sulla base delle informazioni e dei mezzi a sua disposizione, la compagnia che io rappresento riceverebbe un duro colpo, anche se l'accusa si rivelasse priva di fondamento. Mi capisce?

― Oh, certo, la sua posizione mi è chiarissima. L'accusa in sé è ridicola. Non lo è la situazione in cui si trova lei. Le chiedo scusa se la mia risata l'ha offesa. È stata l'accusa a farmi ridere, non lei. Come posso aiutarla?

― In modo molto semplice. Basterebbe che lei si sedesse al ristorante, mangiasse e si lasciasse fotografare da alcuni testimoni. ― Lanning si rilassò contro lo schienale della poltrona: la parte più imbarazzante del colloquio era finita. La donna che gli sedeva accanto osservava attentamente Byerley, ma non intervenne nella discussione.

Stephen Byerley incrociò il suo sguardo per un istante e ne venne catturato, ma subito si voltò verso il robotologo e prese ad accarezzare con aria assorta il fermacarte di bronzo che costituiva l'unico soprammobile della scrivania.

― Non credo di poter soddisfare la sua richiesta ― disse infine, pacato.

Poi alzò una mano e aggiunse: ― Mi lasci spiegare, dottor Lanning. Apprezzo il fatto che lei consideri disgustosa questa faccenda, mi rendo conto che ci si ritrova invischiato contro la sua volontà, capisco che non le piace affatto il ruolo meschino e addirittura ridicolo che sta svolgendo. Ma resta il fatto che in questa storia sono io la persona maggiormente coinvolta, quindi la prego di essere tollerante. Innanzitutto, cosa le fa pensare che Quinn, la persona di una certa importanza, non l'abbia ingannata proprio per costringerla a fare quello che sta facendo?

― Mi sembra altamente improbabile che una persona rispettabile corra il rischio di coprirsi di ridicolo in questo modo se non è sicura di muoversi su un terreno molto stabile.

Negli occhi di Byerley apparve un lampo divertito. ― Lei non conosce quell'uomo. Riuscirebbe a camminare su una parete rocciosa troppo ripida anche per una capra. Per lui sarebbe terreno stabile anche quello. Immagino che le abbia rivelato i particolari della presunta indagine che avrebbe fatto svolgere sul mio conto, vero?

― Mi ha convinto che sarebbe stato molto più facile per la compagnia chiedere direttamente a lei di confutare le accuse.

― Quindi gli crede quando afferma che non mangio mai. Dottor Lanning, lei è uno scienziato. Consideri la questione da un punto di vista prettamente logico. Nessuno mi ha mai visto mangiare, quindi io non mangio mai. Non mi pare ci sia consequenzialità logica tra la premessa e la conclusione.

― Lei sta usando una tattica da tribunale per complicare una situazione molto semplice.

― Al contrario, sto cercando di chiarire una situazione che lei e il signor Quinn avete complicato. Vede, non dormo molto, è vero, sicuramente non dormo mai in pubblico. È anche vero che non mi è mai piaciuto mangiare in compagnia, una idiosincrasia di origine nevrotica, probabilmente, ma che non danneggia nessuno. Senta, dottor Lanning, mi lasci avanzare un'ipotesi. Mettiamo il caso che un politico intenzionato a sconfiggere a ogni costo un candidato riformista decida di indagare sulla vita privata del suo avversario e scopra delle stranezze come quelle di cui le ho appena parlato. Supponiamo inoltre che per rovinare definitivamente l'avversario, questo politico si rivolga a lei con l'intenzione di sfruttare per i suoi scopi la U.S. Robots. Crede che le direbbe: «Tal dei Tali è un robot perché non mangia quasi mai in compagnia, perché non l'ho mai visto addormentarsi nel bel mezzo di un processo, perché una volta, di notte, ho sbirciato dentro la sua finestra e l'ho visto seduto a leggere un libro, perché ho controllato il suo frigorifero e l'ho trovato vuoto? Credo che se le dicesse una cosa del genere, lei gli farebbe mettere la camicia di forza. Ma se invece le dicesse: “Non dorme mai; non mangia mai”, lei rimarrebbe così scioccato dall'affermazione da non rendersi conto che tale affermazione non può essere dimostrata. Quindi cadrebbe nel suo raggiro.

― A prescindere da come lei giudica questa faccenda ― ribatté Lanning con un'ostinazione minacciosa ― basterebbe che lei consumasse quel benedetto pasto al ristorante per chiuderla definitivamente.

Byerley guardò di nuovo la donna, che continuava a osservarlo con espressione imperscrutabile. ― Mi scusi, non sono sicuro di ricordare bene il suo nome. Dottoressa Susan Calvin?

― Sì, signor Byerley.

― È la psicologa della U. S. Robots, vero?

― Robopsicologa, prego.

― Quindi i robot sono così diversi dagli uomini, dal punto di vista mentale?

― Completamente diversi ― gli rispose la Calvin, concedendosi un sorriso gelido. ― I robot sono fondamentalmente onesti.

Le labbra dell'avvocato accennarono un sorriso. ― Una stoccata niente male. Comunque volevo dirle questo: dal momento che lei è una psico... una robopsicologa e anche una donna, scommetto che lei ha fatto qualcosa in più del dottor Lanning.

― Cioè?

― Ha messo nella borsa qualcosa da mangiare.

Negli occhi solitamente glaciali di Susan Calvin balenò un lampo. ― Signor Byerley, lei mi sorprende.

La Calvin aprì la borsa, tirò fuori una mela e la porse all'avvocato. Il dottor Lanning, dopo l'iniziale meraviglia, osservò attentamente quella lenta consegna.

Con calma Stephen Byerley diede un morso alla mela, e con calma masticò il boccone prima di ingoiarlo.

― Vede, dottor Lanning?

Il dottor Lanning sorrise con tale sollievo che la piega delle sue sopracciglia apparve benigna. Ma fu un sollievo che durò un solo, fragile secondo.

― Ero curiosa di vedere se l'avrebbe mangiata ― disse Susan Calvin ― ma naturalmente questo non prova niente, date le circostanze.

Byerley sogghignò. ― Ah, no?

― Certo che no. Dottor Lanning, è evidente che se quest'uomo fosse un robot umanoide, sarebbe un'imitazione perfetta. È quasi troppo umano per essere credibile. Dopo tutto, viviamo tra gli esseri umani e li osserviamo, quindi se qualcuno volesse ingannarci facendoci credere che un robot è un uomo, questo robot dovrebbe essere più che perfetto per farci abboccare all'amo. Osservi la trama della pelle del signor Byerley, la qualità delle iridi, la struttura ossea delle sue mani. Se è un robot, vorrei tanto che fosse stata la U. S. Robots a fabbricarlo, perché è davvero un ottimo manufatto. Quindi, se qualcuno è riuscito a curare nei minimi dettagli elementi così delicati, le pare possibile che non abbia provveduto a equipaggiare il robot con meccanismi che lo rendano capace di mangiare, dormire, evacuare? Magari per i soli casi di emergenza, come questo. Quindi, malgrado il signor Byerley abbia mangiato, ciò non toglie che possa essere un robot.

― Adesso statemi bene a sentire ― ringhiò Lanning ― non sono affatto lo scemo per il quale voi due state cercando di farmi passare. Se il signor Byerley è umano o non umano a me non interessa. Io voglio soltanto togliere la U.S. Robots da questo impiccio. Un pasto consumato davanti a testimoni porrebbe fine alla faccenda una volta per tutte, e a quel punto che il signor Quinn faccia pure quello che vuole. I cavilli li lasciamo agli avvocati e ai robopsicologi.

― Dottor Lanning ― disse Byerley ― lei ha dimenticato l'aspetto politico della questione. Io voglio essere eletto e Quinn vuole impedirmelo. A proposito, si è accorto che lo ha chiamato per nome? Un mio trucchetto da azzeccagarbugli. Sapevo che l'avrebbe nominato prima della fine della conversazione.

Lanning arrossì. ― Che cosa c'entrano le elezioni, adesso?

― La pubblicità è un'arma a doppio taglio, signore. Se Quinn avrà tanto fegato da affermare pubblicamente che sono un robot, io non mi farò mancare il coraggio di stare al suo gioco.

― Vuole dire che... ― Lanning si interruppe, tanto era lo sconcerto.

― Esatto. Voglio dire che lo lascerò fare. Lui sceglierà la corda, ne saggerà la resistenza, ne taglierà la giusta misura, preparerà il cappio, ci infilerà dentro la testa con uno sghignazzo per vedere se va bene. A quel punto a me resterà ben poco da fare.

― È molto sicuro di sé, eh?

Susan Calvin si alzò in piedi. ― Andiamo, Alfred, tanto non riusciremo a fargli cambiare idea.

― Devo ammettere ― le disse Byerley con un sorriso affettato ― che lei conosce molto bene anche la psicologia degli uomini.

 

Ma quella sera, mentre percorreva il vialetto di casa dopo aver lasciato la macchina sulla pista automatica che scendeva al garage sotterraneo, Byerley non era più tanto sicuro di sé come Lanning aveva sottolineato.

Quando l'avvocato entrò, la figura sulla sedia a rotelle alzò gli occhi e sorrise. Byerley gli rivolse uno sguardo pieno d'affetto e si avvicinò.

La voce dell'invalido era un sussurro rauco e raschiante che usciva da una bocca storta irrimediabilmente all'ingiù, una fessura trasversale in un volto coperto per metà da cicatrici. ― Sei in ritardo, Steve.

― Lo so, John, lo so. Ma oggi ho avuto a che fare con un problema particolarmente strano e interessante.

― Davvero? ― Né il viso deturpato né la voce distrutta potevano esprimere niente, ma l'ansia si poteva leggere negli occhi chiari. ― Lo hai risolto?

― Non ne sono proprio sicuro. Forse avrò bisogno del tuo aiuto. Sei tu il genio della famiglia. Vuoi che ti porti in giardino? È una bella serata.

Due forti braccia sollevarono John dalla sedia a rotelle. Delicatamente, quasi accarezzandolo, Byerley sollevò l'invalido afferrandolo dietro le spalle e sotto le gambe avvolte in una coperta. Poi, lentamente, attraversò con cautela una serie di stanze, scese la rampa che era stata costruita appositamente per la sedia a rotelle e dalla porta sul retro uscì nel giardino, protetto da mura sormontate da un reticolato.

― Steve, perché non mi fai usare la sedia a rotelle? Che senso ha tutto questo?

― Preferisco portarti in braccio. Avanti, prova a dire che ti dispiace. So bene che ti fa piacere staccarti un attimo da quella carrozzella motorizzata, e a me fa piacere accompagnarti in giardino. Oggi come ti senti? ― Con estrema cura depose John sull'erba fresca.

― Come vuoi che mi senta? Parlami del tuo problema, piuttosto.

― Quinn intende affermare pubblicamente che sono un robot, e su questa insinuazione baserà la sua campagna elettorale.

John spalancò gli occhi. ― Come lo hai saputo? È impossibile. Non Ci credo.

― Non ti fidi di me? È così, ti dico. Ha costretto uno dei maggiori scienziati della U.S. Robots and Mechanical Men Corporation a venire nel mio ufficio per discutere la cosa con me.

John strappò lentamente qualche filo d'erba. ― Capisco.

― Che lo scelga pure Quinn il terreno su cui darmi battaglia. Io ho un'idea. Ascoltami bene e dimmi se possiamo metterla in pratica...

 

La scena che quella sera si presentava nell'ufficio di Alfred Lanning era una sfida di sguardi. Francis Quinn fissava assorto Alfred Lanning. Lanning fissava il suo sguardo esagitato su Susan Calvin, la quale a sua volta fissava impassibile Francis Quinn.

Quinn cercò di allentare la tensione dicendo in tono frivolo: ― È un bluff. Si è inventato tutto su due piedi.

― E lei intende rilanciare, signor Quinn? ― gli chiese la dottoressa Calvin, distaccata.

― Be', siete voi che dovete decidere se rilanciare o meno.

Lanning cercò di dissimulare il suo pessimismo usando un tono seccato. ― Senta, abbiamo fatto quello che ci aveva chiesto di fare. Byerley ha mangiato davanti ai nostri occhi. È assurdo pensare che sia un robot.

Quinn si rivolse alla Calvin. ― Lei è d'accordo? Lanning dice che l'esperta è lei.

― Senta, Susan... ― interloquì Lanning, minaccioso.

― Perché non la lascia parlare? ― lo interruppe con garbo Quinn. ― È da mezz'ora che se ne sta seduta lì come una statua.

Lanning si sentì tormentato. Ormai si trovava a un passo dalla paranoia. ― Molto bene. Ci dica il suo parere, Susan. Non la interromperemo.

Susan Calvin gli rivolse un'occhiata seria, poi fissò con freddezza Francis Quinn. ― Ci sono soltanto due modi per stabilire con certezza se Byerley è un robot, signore. Fino a questo momento lei ha raccolto una serie di prove circostanziali con le quali può muovere un'accusa, ma senza dimostrare niente, e credo che il signor Byerley sia abbastanza abile da smontare un'accusa basata su tali prove. Probabilmente anche lei pensa la stessa cosa, altrimenti non sarebbe venuto qui. I due metodi di dimostrazione sono uno fisico e l'altro psicologico. Dal punto di vista fisico, si potrebbe sezionare Byerley o sottoporlo all'esame dei raggi X. Riuscire a tanto sarebbe un problema suo. Dal punto di vista psicologico, si può studiare il suo comportamento, perché se fosse davvero un robot positronico, dovrebbe attenersi alle Tre Leggi della Robotica. Un cervello positronico non può essere costruito senza di esse. Conosce le leggi, signor Quinn?

Susan Calvin gliele enunciò piano, con chiarezza, citando alla lettera le famose regole riportate in neretto a pagina 1 del Manuale di robotica.

― Sì, avevo già sentito parlare di queste leggi ― disse Quinn, con noncuranza.

― Allora potrà seguire meglio il mio discorso ― osservò la psicologa, secca. ― Se il signor Byerley infrangesse una di queste leggi, allora non sarebbe sicuramente un robot. Purtroppo noi possiamo avere questa certezza solo nel caso di infrazioni.

Quinn inarcò le sopracciglia. ― Perché?

― Perché se ci pensate bene le Tre Leggi della Robotica non si discostano assolutamente dalle norme di condotta che regolano gran parte dei codici etici esistenti al mondo. Gli uomini posseggono l'istinto di autoconservazione, che ai robot viene dettato dalla Terza Legge. Gli uomini retti, dotati di coscienza sociale e senso di responsabilità, rispettano l'autorità, cioè danno ascolto al medico, al datore di lavoro, ai pubblici ufficiali, allo psichiatra, alle persone fidate, quindi obbediscono alle leggi, seguono le regole, si adeguano agli usi e ai costumi, anche quando questo crea loro disagi e pericoli. Bene, la Seconda Legge detta al robot il comportamento sociale e il codice etico. Infine, gli uomini retti amano il loro prossimo come se stessi, proteggono i loro simili, rischiano la vita per salvarli. Per un robot questo è dettato dalla Prima Legge. Insomma, per dirla in breve, se Byerley segue le Tre Leggi della Robotica, può essere un robot, ma può anche essere soltanto una gran brava persona.

― Quindi mi sta dicendo che non è in grado di dimostrare che è un robot ― disse Quinn.

― Potrei essere in grado di dimostrare che non è un robot.

― Non è questa la prova che mi serve.

― Questo è un problema suo. Io le ho soltanto spiegato ciò che è possibile determinare.

A questo punto un'idea punzecchiò la mente di Lanning. ― Non ha pensato ― tuonò ― che la professione di procuratore distrettuale è piuttosto strana per un robot? Accusare degli esseri umani, farli condannare a morte, richiedere pene severe...

Quinn, che di colpo sembrò molto interessato, disse: ― No, questo non significa niente. Il fatto che sia un procuratore distrettuale non vuol dire che sia un uomo. Non conoscete la sua carriera forense? Non sapete che Byerley si vanta di non aver mai accusato un innocente? È successo più di una volta che delle persone siano state prosciolte in istruttoria perché le prove assunte non lo convincevano, anche se sarebbero state sufficienti a indurre una giuria a emettere un verdetto severissimo?

Le guance scarne di Lanning tremolarono. ― No, Quinn, no. Le Leggi della Robotica non contemplano il problema della colpevolezza umana. Un robot non può giudicare se un essere umano merita la morte. Non spetta a lui decidere una cosa del genere. Un robot non può recare danno agli esseri umani, siano essi delinquenti o angioletti.

― Alfred ― intervenne la Calvin con voce stanca ― non dica sciocchezze. Che cosa farebbe un robot se vedesse un pazzo in procinto di appiccare un incendio in un edificio pieno di gente? Bloccherebbe il pazzo, no?

― Naturalmente.

― E se l'unico modo per fermarlo fosse quello di ucciderlo?

Lanning emise un debole rumore gutturale senza aprire la bocca.

― La risposta, Alfred, è che farebbe di tutto per evitare di ucciderlo. Se il pazzo morisse, il robot dovrebbe sottoporsi alla psicoterapia perché potrebbe impazzire a sua volta per via del conflitto provocatogli dall'avere infranto la Prima Legge per rispettarla in senso più elevato. Ma resta il fatto che un uomo sarebbe morto per mano di un robot.

― Insomma, Byerley è matto? ― chiese Lanning, con tutto il sarcasmo di cui fu capace.

― No, ma non ha ucciso nessuno. La sua professione lo porta necessariamente a dimostrare che un essere umano può rappresentare un pericolo per quasi tutti gli altri membri di quella che chiamiamo società. Protegge il grosso della popolazione, quindi rispetta la Prima Legge al massimo potenziale. Il suo ruolo finisce qui. Poi, dopo il verdetto della giuria, spetta al giudice condannare il criminale a morte o alla prigionia. Le guardie carcerarie si occupano della custodia del prigioniero, il boia della sua esecuzione. Insomma, il signor Byerley non fa altro che stabilire la verità e aiutare la società. E devo dirle, signor Quinn, che non appena lei si è rivolto a noi per questa faccenda, io mi sono subito andata a leggere il curriculum del signor Byerley. Ho scoperto che in nessuna delle sue arringhe finali ha richiesto alla giuria la condanna a morte di un imputato. Ho anche constatato che si è battuto per l'abolizione della pena di morte e ha elargito sostanziosi contributi per gli istituti di ricerca che si occupano della neurofisiologia dei soggetti devianti. A quanto pare ritiene inutile la punizione del crimine. Lo trovo un fatto molto significativo.

― Ah, sì? ― Quinn sorrise. ― Significativo nel senso che le fa pensare che Byerley potrebbe essere un robot?

― Forse. Perché negarlo? Un comportamento così esemplare è tipico o di un robot o di una persona decente e rispettabile sotto ogni profilo. Come avrà capito, non è possibile distinguere un robot da una persona encomiabile.

Quinn si lasciò andare contro lo schienale della poltrona. La sua voce tremava per il nervosismo quando disse: ― Dottor Lanning, è possibile costruire un robot umanoide fisicamente uguale a un essere umano, vero?

Lanning sbuffò e rifletté un istante prima di dire con riluttanza: ― La U.S. Robots ha fatto qualcosa del genere in via sperimentale, senza equipaggiare la macchina di un cervello positronico, naturalmente. Utilizzando ovuli umani, e con un controllo degli ormoni, si può far crescere pelle e carne umana su uno scheletro di silicone poroso, un materiale plastico. Il risultato è tale da ingannare l'occhio nudo. Gli occhi, i capelli e la pelle sono umani sotto tutti gli effetti, non umanoidi. E con l'aggiunta di un cervello positronico e di altri congegni interni, ecco pronto un robot umanoide.

― Quanto tempo servirebbe per costruirne uno? ― gli chiese Quinn, diretto.

― Avendo a disposizione tutto il necessario, ripeto: il cervello, lo scheletro, gli ovuli, gli ormoni e le radiazioni adatti, direi un paio di mesi.

Il politico si staccò dallo schienale della poltrona. ― E allora controlleremo la struttura interna del signor Byerley. Mi rendo conto che la U.S. Robots ne soffrirà in termini di immagine, ma vi avevo dato una possibilità.

Quando Quinn se ne fu andato, Lanning disse spazientito alla Calvin: ― Perché ha insistito...

― Che cosa vuole, la verità o le mie dimissioni? ― gli rispose lei, in tono tagliente e accalorato. ― Non posso mentire per farle piacere. La U.S Robots è in grado di badare a se stessa. Quindi non faccia il codardo.

― Cosa succederà se dalla pancia di Byerley usciranno fuori rotelle e ingranaggi?

― Quinn non aprirà la pancia a nessuno ― gli disse la Calvin, sdegnata. ― Byerley non è meno scaltro di Quinn.

 

La notizia si diffuse in città una settimana prima che la candidatura di Byerley venisse ufficializzata. Ma è più giusto dire che la notizia restò sospesa sulla città, si infiltrò nei suoi recessi, avanzò strisciando. All'inizio le risate e le battute di spirito si sprecarono. Poi, a mano a mano che Quinn completava la sua opera da dietro le quinte disseminando in modo parco altri particolari, le risate si fecero forzate, subentrò un elemento di cupa incertezza, e alla fine di aperta meraviglia.

Anche alla convention del partito si respirava un'aria di imbarazzata perplessità. Non c'era stata una lotta a due per la candidatura. Fino a una settimana prima, la designazione di Byerley era stata data per scontata, quindi non c'erano possibili sostituti. I membri del partito dovevano nominare lui, ma c'era una gran confusione.

La situazione era davvero incresciosa perché l'opinione pubblica si trovava di fronte a un dilemma terribile. L'accusa, se provata, sarebbe stata molto grave, ma se si fosse rivelata una bassa manovra politica, allora avrebbe provocato una legittima indignazione.

Byerley venne nominato a rappresentare il partito in un clima apatico e freddo, e l'indomani un quotidiano pubblicò gli stralci salienti di una lunga intervista alla dottoressa Susan Calvin, "esperta di fama mondiale in robopsicologia e positronica".

L'articolo scatenò l'inferno, per usare un'espressione diretta e comprensibile a tutti.

I fondamentalisti non aspettavano altro. Quello dei fondamentalisti non era un partito politico, e nemmeno una setta religiosa. Erano in sostanza coloro che non si erano adattati a quella che, all'epoca dei primi esperimenti nucleari, era stata definita l'era atomica. Propugnavano ideali di Vita Semplice, una vita che per chi l'aveva vissuta veramente non doveva essere stata così semplice.

I fondamentalisti non avevano bisogno di nuovi spunti per detestare i robot e i loro costruttori; ma l'accusa mossa da Quinn e l'analisi della Calvin furono lo spunto sufficiente a mobilitarli in forze.

L'enorme stabilimento della U.S. Robots and Mechanical Men Corporation diventò un alveare di guardie armate in assetto da battaglia.

La casa di Stephen Byerley era protetta da uno stuolo di poliziotti.

La campagna elettorale, naturalmente, perse del tutto il suo carattere politico, e si poté definire campagna solo in quanto riempiva il lasso di tempo tra la nomination e le elezioni.

 

Stephen Byerley non si lasciò distrarre dall'ometto frenetico che era entrato in casa sua scortato da alcuni poliziotti in divisa. All'esterno, tenuti a debita distanza da un cordone di poliziotti dall'aria minacciosa, giornalisti e fotoreporter aspettavano pazienti, esercitando quello che consideravano un diritto di casta. Un'intraprendente rete televisiva aveva addirittura puntato una telecamera a scansione sulla porta della poco pretenziosa casa del procuratore distrettuale, mentre un annunciatore falsamente agitato ricorreva a tutti gli artifici della retorica per movimentare in qualche modo l'immagine piatta mostrata dalla telecamera.

L'ometto frenetico si avvicinò a Byerley e gli porse un foglio fitto di scrittura. ― Signor Byerley, questo è un mandato del tribunale che mi autorizza a perquisire questa casa allo scopo di controllare l'eventuale presenza illegale di... ehm... uomini meccanici o robot di qualsiasi tipo.

Byerley, senza alzarsi completamente dalla sedia, prese in mano il foglio. Lo scorse con aria distaccata e lo restituì al funzionario con un sorriso. ― È un regolare mandato. Prego, faccia pure il suo lavoro. ― Poi chiamò la governante che apparve con riluttanza dalla stanza accanto. ― Signora Hoppen, vada con questi signori, per favore, e si metta a loro disposizione.

L'ometto, che si chiamava Harroway, ebbe un attimo di esitazione, arrossì, non fu in grado di guardare Byerley negli occhi e borbottò ai due poliziotti che erano entrati con lui: ― Forza, muoviamoci.

Dopo dieci minuti fu di nuovo da Byerley.

― Fatto? ― gli chiese l'avvocato, con l'aria di chi non fosse particolarmente interessato né alla domanda né alla risposta.

Harroway si schiarì la gola, provò a parlare e dalla bocca gli uscì una sorta di falsetto. Fece un secondo tentativo, e stavolta il suo tono fu stizzito. ― Senta, signor Byerley, abbiamo ricevuto l'ordine di perquisire la casa da cima a fondo.

― E non l'avete fatto?

― Ci hanno detto esattamente quello che dovevamo cercare.

― E allora?

― In breve e in parole povere, signor Byerley, ci hanno detto di perquisire lei.

Il procuratore distrettuale sorrise apertamente. ― Me? E come intendete farlo?

― Abbiamo con noi un apparecchio a raggi Penet...

― Ehi, volete farmi una radiografia, insomma. Avete l'autorizzazione?

― Le ho già mostrato il mandato.

― Posso rivederlo?

Harroway, con la fronte madida di un sudore che non scaturiva soltanto dai suoi movimenti frenetici, gli porse di nuovo il documento.

Byerley disse calmo: ― Qui leggo l'elenco dei locali che dovete perquisire. Cito testualmente: “... l'abitazione di proprietà di Stephen Allen Byerley, situata al numero 355 di Willow Grove, Evanstron, compresi gli eventuali garage, magazzini e altre strutture o edifici annessi, e tutto il terreno facente parte della proprietà...” e via di seguito. Tutto regolare. Però, mio caro, questo mandato non vi autorizza a esaminare la struttura interna del mio corpo. Io non faccio parte dell'immobile. Se crede che abbia un robot nascosto in tasca, frughi i miei vestiti.

Harroway sapeva bene chi doveva accontentare, e non poteva mollare così facilmente. Per lui c'era in ballo un lavoro migliore, vale a dire un lavoro molto meglio pagato.

In tono ragionevolmente minaccioso disse: ― Mi stia a sentire. Sono autorizzato a perquisire i mobili della sua casa e qualsiasi altra cosa vi si trovi all'interno. E lei si trova all'interno, no?

― Un'osservazione davvero intelligente. Sì, mi trovo all'interno della casa. Ma non sono un mobile. Sono un cittadino adulto capace di intendere e di volere, come dimostra il mio certificato psichiatrico, e godo dei diritti conferiti dallo Statuto Regionale. Perquisendomi lei violerebbe l'articolo che difende il mio diritto alla privacy. Quel documento è insufficiente.

― Certo, ma se lei fosse un robot, il diritto alla privacy cadrebbe.

― Giusto, ma resta il fatto che quel mandato è insufficiente, perché riconosce implicitamente che io sono un essere umano.

― Questo dove sta scritto? ― Harroway gli strappò di mano il foglio.

― C'è un passo che dice "l'abitazione di proprietà di" eccetera eccetera. Un robot non può possedere nulla. Quindi dica pure al suo datore di lavoro, signor Harroway, che se cercherà di far spiccare un mandato che non riconosca implicitamente la mia natura di essere umano, io intenterò contro di lui una causa civile, e a quel punto si troverà costretto a dimostrare che sono un robot con le informazioni di cui attualmente dispone, pena il pagamento di un'ingente multa per aver tentato illegalmente di privarmi dei diritti concessimi dallo Statuto Regionale. Glielo riferirà, vero?

Harroway marciò verso la porta. Sulla soglia si voltò e disse: ― Lei è un avvocato molto scaltro... ― Aveva una mano in tasca. Restò in quella posizione per qualche istante, poi uscì. Sorrise all'obiettivo della telecamera a scansione, salutò con un cenno della mano i giornalisti assiepati e gridò: ― Avremo qualche notizia per voi domani. Sul serio.

Quando fu a bordo della sua macchina, tirò fuori dalla tasca un piccolo congegno e lo esaminò attentamente. Era la prima volta che usava una macchina fotografica a raggi X. Sperò di averla usata correttamente.

 

Quinn e Byerley non si erano mai incontrati faccia a faccia da soli. Ma il videotelefono era un ottimo surrogato. Tutto sommato il termine "incontro" era corretto, anche se ciascuno dei due uomini appariva all'altro come l'immagine in bianco e nero prodotta da uno strato di cellule fotosensibili.

Era stato Quinn a chiamare, quindi fu lui a iniziare la conversazione senza tanti giri di parole. ― Ho pensato che le avrebbe fatto piacere sapere che ho intenzione di informare l'opinione pubblica che lei indossa un giubbotto protettivo contro i raggi Penet.

― Davvero? Date le circostanze, è probabile che l'abbia già fatto. Ho l'impressione che i nostri intraprendenti rappresentanti della stampa abbiano messo sotto controllo già da un po' di tempo le mie linee di comunicazione. So che hanno riempito il mio ufficio di microspie, ed è per questo che me ne sto rintanato in casa da giorni. ― Il tono di Byerley era cordiale, quasi amichevole.

Le labbra di Quinn si tesero leggermente. ― Questa chiamata è protetta, ho provveduto personalmente. Non dimentichi che sto rischiando anch'io.

― Non ne dubito. Nessuno sa che c'è lei dietro questa campagna. Nessuno lo sa ufficialmente, per lo meno. Però tutti lo sanno ufficiosamente. Quindi non deve preoccuparsi più di tanto. Allora, mi diceva che indosso un giubbotto protettivo. Immagino che l'abbia scoperto quando la fotografia scattata da quel suo tirapiedi è risultata sovraesposta.

― Si renderà conto, Byerley, che per tutti sarà ovvio che lei non osa sottoporsi a un esame radiografico, spero.

― Ma sarà anche ovvio per tutti che lei e i suoi uomini avete tentato di violare il mio diritto alla privacy.

― Se ne infischieranno.

― Chi può dirlo? Quello che è successo riassume il senso delle nostre rispettive campagne elettorali, non le sembra? Lei non ha a cuore i diritti del cittadino, io mi batto per difenderli. Non mi sottoporrò all'esame radiografico per una questione di principio. Voglio che i miei diritti vengano rispettati, e quando sarò eletto farò di tutto per salvaguardare i diritti degli altri.

― Su questo potrebbe imbastire un ottimo discorso dal palco, solo che nessuno le crederebbe. Troppo pomposo e retorico. ― A questo punto il tono di Quinn cambiò di colpo, facendosi più secco: ― A proposito, l'altra sera il suo personale di servizio non era al completo.

― In che senso?

― Secondo il rapporto ― iniziò a dire Quinn, sfogliando delle carte che rientravano a malapena nell'inquadratura dello schermo ― mancava una persona... un invalido.

― Esatto, un invalido ― disse Byerley, in tono piatto. ― Il mio vecchio insegnante, che vive con me ma che si trova in campagna da due mesi. In questi casi i dottori usano l'espressione "periodo di riposo forzato". Doveva forse chiederle il permesso?

― Il suo insegnante? È uno scienziato?

― Faceva l'avvocato... prima di diventare invalido. Ha una regolare licenza governativa per svolgere ricerche nel campo della biofisica. Ha un suo laboratorio, e come previsto dalla legge tiene un archivio aggiornato dei suoi lavori. Se vuole può controllare presso le autorità competenti. Le sue ricerche hanno scarsa rilevanza scientifica, Si tratta insomma di un hobby che aiuta un povero invalido a passare il tempo. Come vede non ho nulla da nascondere.

― Già. E questo... insegnante, è ferrato in materia di robot?

― Non sono in grado di valutare la sua competenza in un campo che non mi è familiare.

― Potrebbe avere avuto accesso ai cervelli positronici?

― Si rivolga ai suoi amici della U.S. Robots. Loro potranno risponderle.

― Senta, Byerley, voglio farla breve. Il suo insegnante infermo è il vero Stephen Byerley. Lei è il robot che lui ha costruito. Possiamo provarlo. Fu lui a restare coinvolto in quell'incidente stradale, non lei. Troveremo il modo per dimostrarlo.

― Davvero? E allora datevi da fare. Tanti auguri.

― E possiamo anche perquisire la tranquilla casa di campagna del suo cosiddetto insegnante.

― Non direi, Quinn. ― Byerley sorrise apertamente. ― Per sua sfortuna, il mio cosiddetto insegnante è un uomo malato. La casa di campagna è il suo luogo di riposo. Date le circostanze, il suo diritto alla privacy è tutelato in misura maggiore rispetto alla norma. Dovrà trovare un motivo più che valido per ottenere un mandato di perquisizione. Comunque non sarò certo io a impedirvi di tentare.

Ci fu una pausa abbastanza lunga, poi Quinn si sporse in avanti, sicché il primo piano del viso mise in evidenza le rughe della fronte.

― Byerley, perché insiste? Non sarà eletto.

― No?

― Crede il contrario? È possibile che non si renda conto che rifiutandosi di dimostrare che non è un robot, cosa che poteva fare facilmente infrangendo una delle Tre Leggi, è riuscito soltanto a convincere l'opinione pubblica che è un robot?

― Fino a questo momento mi sono reso conto che se prima ero un avvocato di discreta fama, ma pur sempre sconosciuto nella metropoli, adesso sono salito alla ribalta mondiale. Lei è un ottimo pubblicitario.

― Ma lei è un robot.

― Così è stato detto, ma non provato.

― Gli elettori considereranno sufficienti le prove.

― E allora si rilassi, vincerà lei.

― Arrivederci ― lo salutò Quinn, palesando per la prima volta la rabbia. Poi, con un gesto brusco, spense il videotelefono.

― Arrivederci ― rispose imperturbabile l'avvocato allo schermo bianco.

 

Byerley riportò in città il suo "insegnante" la settimana precedente alle elezioni. Con una manovra veloce, l'aeromobile atterrò in una zona periferica della città.

― Resterai qui fino a dopo le elezioni ― gli disse Byerley. ― Le cose potrebbero prendere una brutta piega, quindi è meglio che tu stia alla larga.

La voce rauca che usciva a fatica dalla bocca storta di John sembrò preoccupata. ― C'è pericolo di disordini?

― I fondamentalisti stanno facendo minacce, quindi in teoria il rischio c'è. Però credo che non accadrà niente. I fondamentalisti hanno poco potere. Certo sono un continuo elemento di disturbo, quindi potrebbero far scoccare la scintilla di una rivolta. Ma dimmi, sei sicuro che non ti dispiace restare qui? Tranquillizzami, perché altrimenti non potrò dare il meglio di me stesso.

― Non devi preoccuparti, resterò qui. Sei sempre sicuro che andrà tutto bene?

― Sicurissimo. Nessuno è venuto a darti fastidio in campagna?

― Nessuno.

― E hai svolto bene la tua parte?

― Abbastanza. In quel senso non ci saranno problemi.

― Bene. Riguardati, mi raccomando, e domani accendi la televisione. ― Byerley strinse la mano nodosa di John posata sopra la sua.

 

La fronte corrugata di Lenton era l'emblema dell'ansia. Aveva il compito assolutamente poco invidiabile di gestire la campagna elettorale di Byerley, una campagna che in realtà non era una campagna, con un candidato che si rifiutava di svelare la propria strategia, e che rifiutava di accettare quella del suo manager.

― Non puoi! ― Era la frase preferita di Lenton. Adesso sembrava addirittura l'unica frase che sapesse pronunciare. ― Steve, ti ripeto che non puoi!

Si lanciò davanti al procuratore che stava sfogliando tutto tranquillo le pagine dattiloscritte del suo discorso.

― Lascia stare quel discorso, Steve. Ma lo vuoi capire o no che quella gente è stata sobillata dai fondamentalisti? Non ti darà ascolto. È più probabile che ti lapidi. Vuoi spiegarmi che bisogno c'è di tenere un comizio in pubblico? Cos'hai contro una registrazione da trasmettere in video?

― Vuoi che vinca le elezioni, giusto? ― gli chiese Byerley, pacato.

― Vincere le elezioni! Scordatelo, Steve. Io voglio soltanto salvarti la pelle.

― Ma io non sono in pericolo.

― Sentitelo, lui non è in pericolo, lui non è in pericolo. ― Lenton fece uno strano raschio con la gola. ― Credi forse che ti basterà uscire su quella loggia per ricondurre alla ragione cinquantamila forsennati? Su una loggia, come un dittatore medievale!

Byerley controllò l'orologio. ― Lo farò tra circa cinque minuti, non appena i canali televisivi saranno liberi.

Il commento di Lenton fu dei più volgari.

 

La folla era ammassata in una zona appositamente chiusa al traffico della città. Gli alberi e le case parevano spuntare da un tappeto compatto di esseri umani. E la scena era trasmessa in tutto il mondo grazie al collegamento via ultraonde. Si trattava di semplici elezioni amministrative, eppure interessavano la popolazione di tutto il pianeta. Byerley rifletté sulla cosa e sorrise.

Ma a vedere la calca sottostante c'era ben poco da ridere. Le scritte degli striscioni e dei cartelli alludevano in tutti modi possibili alla presunta natura robotica del candidato. L'ostilità della gente era quasi palpabile e si poteva respirarne il miasma.

Sin dalle prime battute, il discorso non riuscì a fare presa sulla platea. Le parole dell'oratore dovettero competere con le grida e le bordate di fischi dei presenti e con gli slogan incessanti dei capannelli di fondamentalisti, che formavano isolotti di teppa in quel mare di teppa. Byerley continuò a parlare, lentamente, senza tradire emozioni...

All'interno, Lenton si tirò i capelli e gemette. E aspettò il sangue.

Ci fu un movimento nelle prime file. Un cittadino segaligno dagli occhi sporgenti, vestito di un abito che gli lasciava scoperti i polsi e le caviglie degli arti lunghissimi, si stava aprendo un varco verso l'oratore. Un poliziotto gli si lanciò dietro, sgomitando tra la folla che gli ostruiva il passaggio. Byerley fece cenno all'agente di lasciar stare.

L'uomo magrissimo era arrivato proprio sotto la loggia. Stava gridando qualcosa che il clamore della folla rendeva inaudibile.

Byerley si sporse in avanti. ― Che cos'ha detto? Se ha una domanda legittima da farmi, sarò lieto di risponderle. ― Si rivolse a uno degli agenti che gli stavano a fianco. ― Faccia salire quell'uomo.

La tensione tra la folla aumentò. Furono in molti a gridare: “Silenzio!” Poi il clamore frenetico si spense. L'uomo magro, rosso in viso e ansimante, fronteggiò Byerley.

― Voleva pormi una domanda? ― gli chiese l'avvocato.

L'uomo lo fissò e disse con voce stridula: ― Colpiscimi!

Con un gesto repentino, protese il mento in avanti. ― Forza, colpiscimi. Dici che non sei un robot, no? Allora dimostramelo. Non puoi colpire un essere umano, brutto mostro.

Di colpo scese un silenzio di tomba, cupo e sinistro. Fu Byerley a romperlo dicendo: ― Non ho motivo di colpirla.

L'uomo smilzo scoppiò a ridere come un forsennato. ― Non puoi colpirmi. Non oseresti mai. Non sei un uomo. Sei un mostro. Sei un uomo solo in apparenza.

E Stephen Byerley, a labbra serrate, davanti alle migliaia di persone presenti e ai milioni di persone sedute davanti ai televisori, assestò un diretto al mento dell'uomo che cadde all'indietro con un'espressione sbigottita.

Byerley disse: ― Mi dispiace. Accompagnatelo dentro e prendetevi cura di lui. Voglio parlare con lui a quattr'occhi quando avrò finito.

E quando la dottoressa Calvin lasciò a bordo della sua auto il parcheggio riservato, soltanto un giornalista si era ripreso abbastanza dallo choc da correrle dietro e gridarle una domanda che lei non udì.

― È umano ― disse però la robopsicologa da sopra la spalla.

Il giornalista tornò di corsa a occupare il posto che aveva lasciato.

Byerley finì il suo comizio, ma nessuno lo ascoltò.

 

La dottoressa Calvin e Stephen Byerley si incontrarono di nuovo una settimana prima che l'avvocato prestasse giuramento come sindaco.

― Dall'aspetto non sembra stanco ― disse la dottoressa.

Il sindaco fresco di nomina sorrise. ― Riesco a fare le ore piccole qualche volta. Ma non lo dica a Quinn.

― Non glielo dirò. A proposito di Quinn, devo ammettere che la sua storia era davvero interessante. È un peccato che sia crollata come un castello di carte. Lei conosceva la teoria di Quinn, immagino.

― In parte.

― Aveva un forte impatto emotivo, non c'è che dire. Secondo Quinn, Stephen Byerley era un giovane avvocato, abile oratore e grande idealista che aveva un debole per la biofisica. Le interessa la robotica, signor Byerley?

― Soltanto da un punto di vista legale.

― Lo Stephen Byerley uscito dall'immaginazione di Quinn si interessava di robotica. Ebbe un incidente d'auto. La moglie morì, ma lui riportò danni ancora peggiori della morte. Perse l'uso delle gambe e della voce, il suo viso si deturpò orribilmente. E anche il suo cervello andò parzialmente... in tilt. Non volle sottoporsi a un intervento di chirurgia plastica, si isolò dal mondo, rinunciò alla carriera legale. Gli era rimasta l'intelligenza, e le mani. In qualche modo riuscì a procurarsi un cervello positronico molto complesso che aveva la capacità di dibattere e argomentare questioni di carattere etico. Insomma un cervello dotato della funzione robotica più elevata che sia stato possibile raggiungere finora. L'ex avvocato costruì un corpo intorno a quel cervello e addestrò il robot per farlo diventare quello che lui avrebbe voluto diventare. Lo chiamò Stephen Byerley e lo fece uscire alla luce del sole, mentre lui restava in isolamento a recitare la parte del vecchio insegnante invalido che nessuno aveva mai visto.

― Sfortunatamente per lui ― disse il neo sindaco ― ho mandato in fumo tutta questa storia colpendo quell'uomo con un pugno. I giornali dicono che in quell'occasione lei dichiarò ufficialmente che ero umano.

― Ma com'è successo? Le dispiacerebbe spiegarmelo? Non credo proprio che si sia trattato di un caso fortuito.

― Non lo è stato del tutto, infatti. Praticamente fu Quinn a fare tutto da solo. I miei uomini cominciarono a spargere discretamente la voce che non avevo mai picchiato un uomo, che non ero capace di farlo e che se non lo avessi fatto dopo aver subito una provocazione avrei dimostrato definitivamente di essere un robot. Così decisi di tenere quel ridicolo comizio in pubblico, feci sì che avesse il più ampio risalto possibile, e come prevedevo uno stupido ha abboccato. In sostanza ho messo in atto quello che chiamo "trucchetto da azzeccagarbugli", una manovra per creare una situazione artificiale che risolve le cose al posto nostro. L'impatto emotivo del mio gesto ha convinto la gente a votare me, come speravo.

La robopsicologa annuì. ― Sta invadendo il mio campo, come immagino debba essere in grado di fare ogni politico. Comunque mi dispiace che sia andata a finire in questo modo. Io amo i robot. Li amo molto di più degli esseri umani. Se fosse possibile creare un robot capace di svolgere incarichi amministrativi, credo che sarebbe un funzionario impeccabile. Grazie alle Tre Leggi della Robotica, non potrebbe fare del male agli esseri umani, non potrebbe diventare un tiranno, un corrotto, uno stupido, un uomo accecato dai pregiudizi. E dopo un certo periodo di tempo lascerebbe il suo incarico, perché non potrebbe ferire l'orgoglio degli esseri umani facendo loro sapere che a gestire la cosa pubblica era un robot. L'amministratore ideale.

― Però non abbiamo la certezza che sarebbe infallibile. Il cervello positronico non riesce ancora a uguagliare la complessità della mente umana.

― Ma sarebbe affiancato da uno staff di consiglieri. Crede che i nostri governanti riuscirebbero a fare tutto da soli?

Byerley rivolse alla Calvin un'espressione seria. ― Perché ride, dottoressa Calvin?

― Perché il signor Quinn non ha pensato a una cosa molto importante.

― Per continuare ad accusarmi?

― Già. Nei tre mesi precedenti le elezioni, lo Stephen Byerley di cui il signor Quinn parlava, l'invalido, è rimasto in campagna per motivi sconosciuti. È tornato in città il giorno prima del famoso comizio. Insomma, il vecchio poteva ripetere quello che già era riuscito a fare una volta, e questo secondo lavoro sarebbe stato facilissimo rispetto al primo.

― Non la seguo.

La dottoressa Calvin si alzò e si lisciò il vestito, preparandosi a uscire. ― Voglio dire che c'è un solo caso in cui un robot può picchiare un essere umano senza infrangere la Prima Legge. ripeto, un solo caso.

― Quale sarebbe?

La Calvin era sulla porta. ― Quello in cui l'essere umano che deve picchiare sia soltanto un altro robot.

Il viso sottile della dottoressa si illuminò di un gran sorriso. ― Arrivederci, signor Byerley. Spero che tra cinque anni lei si candidi per la poltrona di Coordinatore. Avrebbe il mio voto.

Stephen Byerley ridacchiò. ― Devo dirle sinceramente che mi sembra un'ipotesi un po' prematura.

La dottoressa si richiuse la porta alle spalle.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


               IL ROBOT SCOMPARSO

Sull'Iperbase le misure d'emergenza erano state prese con una sorta di furia rabbiosa, l'equivalente muscolare di un urlo isterico.

Elencate in ordine di tempo e di disperazione, queste misure stabilivano che:

1. Tutte le operazioni attinenti il propulsore iperatomico, nello spazio occupato dalle Stazioni del Ventisettesimo Raggruppamento Asteroidale, dovevano essere sospese.

2. Le Stazioni stesse dovevano di fatto essere isolate dal resto del sistema solare. Nessuno poteva entrarvi senza autorizzazione. E nessuno doveva andarsene, per nessun motivo.

3. Con un astroricognitore speciale messo a disposizione dal governo dovevano essere condotti sull'lperbase la dottoressa Susan Calvin e il dottor Peter Bogert, rispettivamente capo-psicologo e direttore della sezione matematica della United States Robots and Mechanical Men Corporation.

 

Susan Calvin non aveva mai lasciato prima d'allora la superficie terrestre e non aveva una gran voglia di lasciarla nemmeno adesso. Nell'epoca dell'energia atomica e alle soglie dell'era della propulsione iperatomica, la Calvin restava una tranquilla provinciale. Perciò era scontenta di quel viaggio e poco convinta che si trattasse di una situazione di emergenza. Dalla mimica del suo viso scialbo di donna di mezz'età trapelò abbastanza quale fosse il suo stato d'animo, durante la cena consumata per la prima volta sull'lperbase.

D'altra parte nemmeno il dottor Bogert, con la sua faccia pallida e liscia, riuscì a nascondere un certo atteggiamento da cane bastonato. E negli occhi del generale Kallner, direttore del progetto, si leggeva un'espressione angosciata.

In breve fu una cena ben poco allegra, e la riunione a tre che seguì cominciò in un'atmosfera tetra.

Kallner aveva la testa calva e luccicante e indossava l'alta uniforme, che pareva curiosamente in contrasto con l'umore generale. Con un certo imbarazzo iniziò subito a riassumere i fatti.

― È una storia strana, signori. Innanzitutto desidero ringraziarvi per essere venuti subito e senza che vi fosse spiegato il motivo del viaggio. Cercheremo di rimediare ora raccontandovi come stanno le cose. Abbiamo perso un robot. Tutta l'attività è stata sospesa e non potrà riprendere fino a quando l'avremo ritrovato. Finora non siamo riusciti nell'intento e abbiamo capito di aver bisogno dell'aiuto di persone esperte.

Rendendosi forse conto che il problema appena illustrato non sembrava particolarmente drammatico, il generale proseguì con una sfumatura di disperazione nella voce. ― Non occorre che vi spieghi quanto sia importante il lavoro che svolgiamo qui. Più dell'ottanta per cento degli stanziamenti destinati alla ricerca scientifica è stato assegnato a noi...

― Be' certo, lo sappiamo ― disse Bogert, conciliante. ― Le somme che la U.S. Robots percepisce per il noleggio dei robot utilizzati da voi sono notevoli.

Susan Calvin intervenne con un'osservazione brusca e una nota di asprezza nella voce. ― Come mai un singolo robot è così importante per il progetto e come mai non è stato ancora ritrovato?

Il generale, rosso in viso, si girò verso di lei, umettandosi le labbra. ― Be' ecco, in un certo senso l'abbiamo ritrovato. ― Fece una breve pausa, quindi proseguì con tono quasi angosciato. ― Forse è il caso di spiegare in dettaglio. Appena il robot non si presentò a rapporto, fu dichiarato lo stato di emergenza e tutte le attività, qui all'Iperbase, furono sospese. Il giorno prima era atterrata un'astronave da carico e ci aveva consegnato due robot per i nostri laboratori. A bordo aveva sessantadue robot dello, ehm, stesso tipo, che dovevano raggiungere un'altra destinazione. Siamo sicurissimi che fossero proprio sessantadue, questo è pacifico.

― D'accordo. Ma qual è il nesso?

― Quando ci accorgemmo che ci mancava un robot e non riuscimmo a rintracciarlo da nessuna parte (e vi assicuro che avremmo saputo trovare anche un filo d'erba mancante, se se ne fosse presentata la necessità) ci venne l'idea di contare i robot rimasti sulla nave da carico. Erano diventati sessantatré.

― Sicché il sessantatreesimo sarebbe il figliol prodigo scomparso? ― disse cupa la dottoressa Calvin.

― Sì, ma non abbiamo modo di capire quale sia in realtà il sessantatreesimo.

Seguì un silenzio tetro, rotto solo dalla pendola elettrica che rintoccò undici volte. Poi la robopsicologa disse: ― Molto strano.

Piegò in giù gli angoli della bocca e si voltò verso Bogert, guardandolo con una sfumatura di ostilità negli occhi. ― Cosa c'è che non va, qui, Peter? Che tipi di robot usano sull'lperbase?

Il dottor Bogert, esitante, accennò un sorriso. ― È una questione delicata, Susan, cui finora si è cercato di non dare pubblicità.

― Sì, finora ― disse lei. ― Ma se hanno a disposizione sessantatré robot dello stesso tipo tra cui scegliere quello che gli occorre, che importanza ha se non riconoscono la sua identità? Non possono prenderne uno qualsiasi? Non capisco il senso di tutta questa faccenda. Perché ci hanno mandato a chiamare?

― Lasciate che vi spieghi, Susan ― disse Bogert con un sospiro di rassegnazione. ― Si dà il caso che sull'lperbase utilizzino robot nel cui cervello non è stata impressa per intero la Prima Legge della robotica.

― Non è stata impressa? ― La Calvin si lasciò andare contro lo schienale della sedia. ― Capisco. Quanti sono così?

― Alcuni. Sono stati fabbricati per ordine del governo e la faccenda era top secret. Ne erano al corrente solo i dirigenti direttamente interessati. Voi non eravate inclusa nel novero, Susan. Io non ho avuto alcuna parte in questa decisione.

Il generale intervenne con una certa autorità. ― Vorrei chiarire questo punto. Non sapevo che la dottoressa Calvin fosse all'oscuro di tutto. Non occorre che vi dica, dottoressa, che sul Pianeta c'è sempre stata una forte ostilità verso i robot. Il governo ha potuto difendersi dalle accuse dei radicali fondamentalisti solo battendo sul fatto che i robot hanno immancabilmente incorporata nel cervello la Prima Legge, che impedisce loro di recare anche il minimo danno agli esseri umani.

― Ma avevamo un bisogno assoluto di robot d'altro tipo. Così in alcuni modelli NS-2, i cosiddetti Nestor, sono state apportate modifiche alla Prima Legge. Perché si potesse mantenere il segreto, tutti gli NS-2 sono stati fabbricati senza il numero di serie. I modelli speciali ci vengono consegnati assieme ad altri robot normali, e tutti noi dirigenti abbiamo ricevuto l'ordine strettissimo di non parlare in alcun modo di questa modifica al personale non autorizzato. ― Sfoderò un sorriso imbarazzato e aggiunse: ― Questo stesso fatto adesso gioca contro di noi.

― Ma almeno sarete stato autorizzato a chiedere a ciascuno dei sessantatré robot la sua identità, no? ― disse cupa la Calvin.

Il generale annuì. ― Tutti quanti affermano di non avere mai lavorato qui. E uno di loro mente.

― Ma quello che cercate voi avrà pure qualche minimo segno di logoramento. Gli altri, immagino, sono nuovi fiammanti, appena usciti dalla fabbrica.

― Quello che cerchiamo è arrivato solo il mese scorso. Assieme agli altri due che ci sono stati appena consegnati era l'ultimo che ci occorreva. Non presenta tracce visibili di usura. ― Scosse lentamente la testa e assunse di nuovo un'espressione angosciata. ― Non osiamo lasciar partire quella nave, dottoressa Calvin. Se la notizia che esistono robot non vincolati dalla Prima Legge dovesse diventare di dominio pubblico... ― Anche avesse terminato il discorso, le sue conclusioni non avrebbero reso l'idea di quel che poteva succedere.

― Distruggete tutti e sessantatré i robot e ponete così fine alla questione ― disse la robopsicologa, secca e decisa.

Bogert storse la bocca. ― Ma ciascun robot vale trentamila dollari! Un'azione del genere non credo che sarebbe molto gradita alla U.S. Robots. Prima di passare a distruggere è meglio cercare una soluzione più razionale, Susan.

― In tal caso ― disse lei, brusca, ― vorrei conoscere meglio i fatti. Quali vantaggi derivano esattamente all'Iperbase dall'uso dei robot modificati? Per quali motivi si è ricorso ad essi?

Kallner corrugò la fronte e vi passò una mano sopra. ― Gli altri robot ci procuravano dei problemi. Sapete, i nostri uomini quando lavorano sono esposti a lungo a radiazioni intense. Corrono dei rischi, ovviamente, ma vengono prese notevoli precauzioni. Da quando abbiamo iniziato si sono verificati solo due incidenti, nessuno dei quali mortale. Ma era impossibile spiegare tutto questo ai robot ordinari. La Prima Legge, com'è noto, dice: Un robot non può recar danno agli esseri umani, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, gli esseri umani ricevano danno.

― È una regola fondamentale, dottoressa Calvin. Così, quando qualcuno dei nostri uomini si esponeva per un breve periodo a un campo di radiazioni gamma non particolarmente intense, che non lo avrebbero in alcun modo danneggiato, il robot più vicino correva subito da lui per trascinarlo via. Se il campo era molto debole, ci riusciva, e il lavoro non poteva riprendere finché non si faceva piazza pulita di tutti i robot. Se il campo era un pochino più forte, il robot non riusciva ad arrivare dal tecnico, perché il suo cervello positronico sotto l'effetto dei raggi gamma andava in tilt. E in tal caso perdevamo un robot costoso e di difficile sostituzione.

― Abbiamo cercato di risolvere il problema discutendo con i robot stessi. Ma insistevano a dire che un uomo esposto a radiazioni gamma rischia la vita. E se noi obiettavamo che una mezz'ora di esposizione non danneggiava nessuno, replicavano che uno si poteva anche dimenticare dell'orario, e restarci più a lungo. Non accettavano l'idea che si affrontasse anche il minimo pericolo. Facemmo loro notare che mettevano a repentaglio la loro vita basandosi su ipotesi molto improbabili. Ma l'autoconservazione è stabilita dalla Terza Legge e la Prima Legge, che riguarda l'incolumità degli esseri umani, ha la precedenza. Abbiamo cominciato allora a impartire ordini; abbiamo ingiunto ai robot, perentoriamente, di non avvicinarsi per nessun motivo ai campi di raggi gamma. Ma l'obbedienza è stabilita dalla Seconda Legge, e ancora una volta la Prima Legge aveva la precedenza. Insomma, dottoressa Calvin, le alternative erano solo due: o rinunciare ai robot, o intervenire sulla Prima Legge. E abbiamo fatto la nostra scelta.

― Non posso credere che sia stato giudicato possibile eliminare la Prima Legge ― disse la Calvin.

― Non è stata eliminata, ma modificata ― spiegò Kallner. ― Sono stati fabbricati dei cervelli positronici che contengono solo l'assunto più esplicito e generico della Legge, e cioè: Un robot non può recar danno agli esseri umani. Punto e basta. Così questi nuovi modelli non sono costretti a impedire che un uomo venga danneggiato da agenti esterni come i raggi gamma. Ho esposto la questione in termini corretti, dottor Bogert?

― Correttissimi ― annuì il matematico.

― E questa è l'unica differenza esistente tra i nuovi robot e i normali modelli NS-2? Proprio l'unica differenza, Peter?

― L'unica, Susan.

La Calvin si alzò e disse, decisa: ― Adesso ho intenzione di andare a dormire. Fra circa otto ore vorrei parlare con la persona che ha visto per ultima il robot. E da ora in poi, generale Kallner, se devo assumermi anche la minima responsabilità di quanto succede, pretendo che mi sia affidato il pieno e assoluto controllo dell'indagine.

 

A parte due ore di agitato dormiveglia, Susan Calvin non chiuse occhio tutta la notte. Suonò alla porta di Bogert alle sette, ora locale, vide che anche lui era già sveglio. A quanto pareva si era preso la briga di portare con sé una vestaglia, perché l'aveva indosso. Appena la Calvin entrò, Bogert mise via le forbicine con cui si stava tagliando le unghie.

― Mi aspettavo una vostra visita ― disse, in tono cortese. ― Immagino che tutta questa storia vi abbia seccato non poco.

― Già.

― Be', ecco, mi dispiace, ma non c'era altra strada che potessi seguire. Quando ci hanno chiamato dall'Iperbase, ho immaginato che ci fosse qualche guaio con i Nestor modificati. Ma cosa potevo fare? Avrei voluto rivelarvi la verità durante il viaggio, ma non potevo parlarvi di un argomento top secret prima di essermi assicurato che in ballo ci fosse proprio la questione dei robot modificati.

― Avrei dovuto essere messa al corrente dell'esperimento in corso ― mormorò la psicologa. ― La U.S. Robots non aveva il diritto di apportare cambiamenti ai cervelli positronici senza l'autorizzazione di uno psicologo.

Bogert alzò le sopracciglia e sospirò. ― Siate ragionevole, Susan. Il vostro parere non sarebbe stato ascoltato comunque. In questa faccenda il governo era deciso a procedere in un certo modo. Gli interessava la propulsione iperatomica, e ai fisici eterici interessava non avere tra i piedi robot che intralciassero loro il lavoro. Erano tutti determinati a procurarsi i robot speciali, anche se questo significava alterare la Prima Legge. Noi abbiamo dovuto ammettere che era possibile costruire modelli di un certo tipo, e loro in cambio ci hanno assicurato solennemente che ne occorrevano soltanto dodici, che questi dodici li avrebbero usati solo sull'lperbase, che li avrebbero distrutti una volta messo a punto il propulsore e che avrebbero preso tutte le precauzioni possibili. E hanno insistito sulla segretezza. Ecco come sono andate le cose.

― Io avrei rassegnato le dimissioni ― disse tra i denti la dottoressa Calvin.

― Non sarebbe servito a niente. Il governo ha offerto una fortuna alla compagnia, facendo presente che in caso di rifiuto avrebbe promulgato severe leggi anti-robot. Così avevamo le mani legate, e le abbiamo anche adesso. Se dovesse trapelare qualcosa, Kallner e il governo ne avrebbero un danno, ma la U.S. Robots subirebbe un danno ben maggiore.

La psicologa lo fissò. ― Ma Peter, non vi rendete conto di che cosa ci sia in gioco in tutta questa faccenda? Non capite cosa significhi eliminare la Prima Legge? Non è solo un problema di segretezza.

― So benissimo cosa significherebbe eliminare la Prima Legge, non sono un bambino. Significherebbe instabilità completa, senza soluzioni possibili alle equazioni del campo positronico.

― Sì, dal punto di vista matematico. Ma provate a tradurre la cosa in crudo linguaggio psicologico. Tutti gli esseri viventi normali, consciamente o inconsciamente, provano rancore se qualcuno cerca di imporre loro la propria volontà. Se a volersi imporre è una persona inferiore, o che si ritiene inferiore, il rancore è più forte. Sotto il profilo fisico, e fino a un certo grado anche sotto il profilo mentale, un robot, qualsiasi robot, è superiore agli esseri umani. Che cosa lo rende servile, dunque? Solo la Prima Legge! Senza di essa non potreste permettervi di dare alcun ordine a un robot, perché verreste subito ucciso. E voi questa la chiamate semplicemente instabilità?

― Susan ― disse Bogert, con aria comprensiva ma anche ironica, ― ammetto che il complesso di Frankenstein di cui mostrate di soffrire è in qualche modo giustificato. Proprio per questo alla Prima Legge si è data un'importanza fondamentale. Ma vi ripeto per l'ennesima volta che la Legge non è stata eliminata, bensì solo modificata.

― E la stabilità del cervello?

Il matematico increspò le labbra. ― È diminuita, naturalmente. Ma resta entro il margine di sicurezza. I primi Nestor sono stati consegnati all'Iperbase nove mesi fa e finora non erano sorti problemi. E anche adesso non è che temiamo che gli uomini siano in pericolo; temiamo solo che la notizia trapeli.

― Benissimo. Allora vedremo cosa verrà fuori dal colloquio di stamattina.

Bogert la accompagnò educatamente alla porta e quando l'ebbe congedata fece una smorfia eloquente, confermando in cuor suo l'opinione che aveva da sempre di Susan Calvin: una donna acida, inquieta e frustrata.

Susan Calvin invece non pensò neanche un attimo a lui. Da anni ormai lo aveva catalogato come un individuo molle, pretenzioso e ipocrita.

 

Gerald Black si era laureato in fisica eterica l'anno prima e, come tutti i fisici della sua generazione, si era ritrovato a occuparsi della propulsione iperatomica. Ora con la sua presenza aggiungeva un tocco in più all'atmosfera tetra delle riunioni che si stavano tenendo all'Iperbase. Aveva il camice bianco macchiato, e un'aria leggermente ribelle e totalmente incerta. Solido e ben piantato, sembrava ansioso di sfogare la sua forza fisica e si torceva le dita con tale violenza, che avrebbe potuto piegare una sbarra di ferro.

Il generale Kallner si sedette accanto a lui, dalla parte opposta a quella in cui si erano accomodati i due esperti della U.S. Robots.

― Mi dicono che sono stato io a vedere per ultimo Nestor-10, prima che scomparisse ― disse Black. ― Immagino quindi che vogliate rivolgermi alcune domande sull'argomento.

La dottoressa Calvin lo osservò con interesse. ― Non sembrate troppo convinto, giovanotto. Davvero non sapete se siete stato voi l'ultimo a vederlo?

― Di solito lavorava con me ai generatori di campo, ed era con me la mattina in cui è scomparso. Non so se qualcun altro l'ha visto dopo mezzogiorno. Nessuno ammette di averlo visto.

― Credete che qualcuno menta?

― No, non dico questo. Ma non dico nemmeno che mi vada a genio sentirmi dare la colpa. ― C'era del risentimento nei suoi occhi.

― Non è questione di colpa o di non colpa. Il robot ha agito come ha agito perché è strutturato in un certo modo. Noi stiamo cercando solo di rintracciarlo, signor Black. Lasciamo da parte tutto il resto. Ora, se voi avete lavorato con il robot, probabilmente lo conoscete meglio di chiunque altro. Avete notato qualcosa di insolito in lui? Avevate utilizzato dei robot già altre volte?

― Sì, avevo utilizzato altri robot che abbiamo qui; quelli semplici. I Nestor non sono affatto diversi. Sono solo molto più abili e... molto più rompiscatole.

― Rompiscatole? In che senso?

― Be', forse non è colpa loro. Qui il lavoro è duro e molti di noi finiscono per avere un po' i nervi a fior di pelle. Gingillarsi con l'iperspazio non è molto divertente. ― Accennò un sorriso, soddisfatto di quella confessione. ― Corriamo continuamente il rischio di aprire una falla nel tessuto spazio-temporale normale e di scomparire di colpo dall'universo, con l'asteroide e tutto. Sembra impossibile, vero? È logico che a volte si sia nervosi. Ma i Nestor non lo sono affatto. Sono calmi, curiosi e non si preoccupano mai. A volte questo loro atteggiamento ti fa dar fuori da matto. Tu vuoi magari che una cosa sia fatta in tutta fretta, e loro se la prendono con comodo. In certi casi preferirei rinunciare alle loro prestazioni.

― Avete detto che se la prendono con comodo. Hanno mai rifiutato di eseguire un ordine?

― Oh, no ― si affrettò a dire Black. ― Se è per quello obbediscono. Ma quando ritengono che uno sbagli, glielo dicono. Di fisica eterica sanno solo quel che gli abbiamo insegnato noi, ma si sentono ugualmente il diritto di fare osservazioni. Magari io sono un po' paranoico, però so che anche gli altri hanno gli stessi problemi con i loro Nestor.

Il generale Kallner si schiarì la voce producendo un rumore piuttosto minaccioso. ― Perché queste lamentele non sono mai giunte alle mie orecchie, Black?

Il giovane fisico arrossì. ― In realtà non avevamo nessuna intenzione di rinunciare ai robot, signore, e poi non sapevamo bene che accoglienza avrebbero potuto avere queste, ehm, piccole lamentele.

― È successo niente di particolare la mattina in cui avete visto Nestor 10 per l'ultima volta? ― interloquì Bogert, pacato.

Black rimase zitto. Kallner fece per parlare, ma Susan Calvin glielo impedì con un cenno e continuò ad attendere la risposta.

Alla fine il giovane disse, con rabbia: ― Ho avuto un piccolo alterco con lui. Quella mattina avevo rotto un tubo di Kimball ed ero in arretrato di cinque giorni con il lavoro. Ero indietro con tutto il programma e per di più non ricevevo posta da casa da un paio di settimane. E lui mi veniva intorno per chiedermi che ripetessi un esperimento che ho abbandonato già da un mese. Mi seccava sempre con quella storia e io ormai ero stufo marcio. Così gli ho detto di andarsene... e non l'ho più rivisto.

― Gli avete detto di andarsene? ― chiese con molto interesse la dottoressa Calvin. ― Che parole avete usato? "Vattene" Cercate di ricordare i termini esatti.

Black era chiaramente combattuto tra impulsi diversi. Poggiò un attimo la fronte sulla grossa mano, poi si drizzò e dichiarò, in tono di sfida: ― Gli ho detto: "Smamma, sparisci!

Bogert ridacchiò. ― E l'ha fatto sul serio, eh?

Ma la Calvin non era ancora soddisfatta. Cercò di parlare nel tono più persuasivo possibile. ― Adesso siamo sulla buona strada, signor Black. Ma la precisione dei particolari è importante. Quando si tenta di capire il comportamento di un robot, possono assumere estrema rilevanza anche una parola, un gesto, l'intonazione della voce. È improbabile ad esempio che abbiate detto solo quelle due parole. Dal vostro racconto credo di poter dedurre che eravate molto irritato. Forse avete usato dei termini un po' più forti...

Il giovane arrossì. ― Be', ecco... magari gli ho lanciato qualche epiteto.

― Quali epiteti?

― Mah... non mi ricordo bene. E poi comunque non potrei ripeterli. Si sa quel che si finisce per dire quando ci salta la mosca al naso. ― Rise imbarazzato. ― Ho una certa tendenza a usare espressioni forti.

― Non preoccupatevi ― disse lei con composta severità. ― In questo momento non dovete vedermi come una signora, ma solo come uno psicologo. Vorrei che ripeteste esattamente tutto quello che ricordate di avergli detto, e, particolare forse ancora più importante, vorrei che usaste lo stesso tono di allora.

Black guardò il generale Kallner, cercando aiuto, ma non ne trovò. Spalancò gli occhi, sgomento. ― No, non posso proprio.

― Dovete.

― Provate a rivolgervi a me ― disse Bogert, con malcelato godimento. ― Così forse vi riesce più facile.

Rosso in viso, il giovane si girò verso Bogert, inghiottendo a vuoto. ― Ho detto... ― Ma non riuscì a proseguire. ― Ho detto... ― ripeté.

E alla fine trasse un respiro profondo e sputò il rospo in fretta, con una lunga successione di sillabe. Poi, nel silenzio imbarazzato che seguì, concluse, quasi in lacrime: ― ... queste più o meno sono state le parole. Non ne ricordo l'ordine esatto, e forse ne ho lasciato indietro qualcuna o ne ho detto adesso qualcuna in più, ma il succo del discorso era questo.

Solo un rossore appena percettibile tradì la reazione interna della psicologa. ― Conosco il significato di quasi tutti i termini da voi usati ― disse. ― Immagino che gli altri siano ugualmente denigratori.

― Temo di sì ― convenne Black, crucciato.

― E tra le altre cose gli avete ingiunto di sparire.

― Ma intendevo solo in senso figurato.

― Me ne rendo conto. Sono sicura che non verranno presi provvedimenti disciplinari. ― Sotto il suo sguardo severo il generale, che fino a un attimo prima non pareva propenso a essere indulgente, annuì con rabbia.

― Potete andare, signor Black. Grazie per la vostra collaborazione.

 

Susan Calvin impiegò cinque ore a interrogare i sessantatré robot. In quelle cinque ore ripeté innumerevoli volte le stesse domande a mano a mano che i robot, tutti identici, si succedevano l'uno all'altro. Con espressione prudentemente benevola, con un tono di voce prudentemente neutro, in un'atmosfera prudentemente distesa, la Calvin rivolse quesiti A, B, C, D, ottenendo risposte A, B, C, D, mentre il colloquio s'imprimeva sul nastro di un registratore nascosto.

Quando ebbe finito, la psicologa si sentì esausta.

Bogert, ansioso di conoscere i risultati, la guardò buttare la bobina sulla superficie di plastica del tavolo.

Susan Calvin scosse la testa. ― Mi sono parsi uguali tutti e sessantatré. Non saprei dire...

― Non ci si può aspettare di capire a orecchio come stanno le cose, Susan. Sarà meglio che analizziamo la registrazione.

L'interpretazione matematica delle reazioni verbali dei robot è ritenuta di solito una delle branche più complesse dell'analisi robotica. Per eseguirla occorrono uno staff di tecnici esperti e l'aiuto di sofisticate macchine calcolatrici. Bogert lo sapeva. E lo dichiarò, in un accesso di ira repressa, quando ebbe ascoltato tutte le risposte, elencato le deviazioni verbali e tracciato grafici degli intervalli passati tra le domande e le risposte.

― Non ci sono anomalie, Susan. Le variazioni nell'espressione normale e i tempi di reazione rientrano nei limiti dei normali raggruppamenti di frequenza. Abbiamo bisogno di metodi più sofisticati. Avranno pure dei computer, qui. ― Aggrottò la fronte e si mordicchiò l'unghia del pollice. ― No. Non possiamo usare i computer. La notizia rischierebbe di trapelare. È troppo pericoloso. Forse se...

La dottoressa Calvin lo interruppe con un gesto di impazienza. ― Vi prego, Peter. Non siamo davanti a uno dei banali problemi di laboratorio cui siete abituato voi. Se non riusciamo a individuare il Nestor modificato attraverso qualche grossa differenza riscontrabile a occhio nudo, una differenza che non possa essere messa in dubbio, siamo nei guai. Perché se la diversità è troppo insignificante, corriamo il rischio di sbagliare. E lasciar fuggire il robot, in tal caso, rappresenterebbe un pericolo troppo grande. Non basta scoprire minime irregolarità nel grafico. Sarò franca. Se gli strumenti che abbiamo a disposizione sono tutti qui, sarei propensa a distruggere i robot, per stare dalla parte sicura. Avete parlato con gli altri Nestor modificati?

― Sì ― disse Bogert, con rabbia, ― e non hanno niente che non vada. Anzi, semmai sono ancora più estroversi degli altri. Hanno risposto alle mie domande e si sono mostrati fieri di possedere un buon bagaglio di nozioni tecniche. A parte naturalmente gli ultimi due, che non hanno avuto il tempo di imparare la fisica eterica. Quando è venuto fuori che non conoscevo alcune delle specializzazioni necessarie qui all'Iperbase, si sono messi a ridere, anche se con una certa benevolenza. ― Alzò le spalle. ― Immagino sia questo il motivo del malumore dei tecnici. I robot tendono forse troppo a voler sbalordire la gente con la loro conoscenza superiore.

― Potreste ricorrere alle reazioni planari per vedere se si è verificato in loro un qualche deterioramento mentale dall'epoca della fabbricazione?

― Sì, potrei. ― Bogert puntò l'indice contro di lei. ― State perdendo la calma, Susan. Non capisco perché drammatizziate tanto. Sono sostanzialmente inoffensivi.

― Davvero? ― fece lei, infiammandosi. ― Davvero? Vi rendete conto che uno di loro mente? Uno dei sessantatré robot che ho appena interrogato ha mentito coscientemente, dopo che gli avevo ingiunto di dire la verità. Si tratta di un comportamento abnorme che ha radici profonde e che quindi è estremamente preoccupante.

Peter Bogert strinse i denti. ― Non sono affatto d'accordo. Sentite, Nestor-10 ha ricevuto l'ordine di scomparire dalla circolazione. L'ordine è stato espresso con la massima veemenza dalla persona più autorizzata a impartirlo. Non lo si può quindi annullare usando una veemenza o un'autorità maggiori. È logico che il robot cerchi di salvaguardare l'esecuzione dell'ordine. Anzi, obiettivamente non posso fare a meno di ammirare la sua ingegnosità. Quale modo migliore di "scomparire" che nascondersi in mezzo a un gruppo di altri robot perfettamente identici a lui?

― Sì, lo ammirate, lo so. Ho notato più di una volta la vostra aria divertita, Peter. E mi preoccupa che siate così spaventosamente lontano dal comprendere la situazione. Siete un robotologo o no? I Nestor modificati attribuiscono grande importanza a quella che ritengono essere la loro superiorità. L'avete detto voi stesso poco fa. Inconsciamente sono convinti che l'uomo sia loro inferiore e che la Prima Legge, che ha la funzione di difenderci da loro, è incompleta. Così sono instabili. E cos'è successo, qui? È successo che un giovane ha ordinato a un robot di questo tipo di lasciarlo in pace, di scomparire dalla circolazione, e glielo ha ordinato con delle parole e con un tono che esprimevano nausea, disgusto e disprezzo. D'accordo che i robot debbano eseguire gli ordini, ma Nestor-10 non può non aver provato inconsciamente del risentimento. Ora avvertirà al massimo il bisogno di dimostrare la propria superiorità, a dispetto degli orribili epiteti che gli sono stati lanciati. Questa esigenza potrebbe diventare così importante, da avere la precedenza sulla Prima Legge, che è stata resa monca.

― Ma Susan, è matematicamente impossibile che un robot conosca il significato delle parolacce! Il linguaggio osceno non rientra fra le cose che gli sono state impresse nel cervello!

― I dati che vengono impressi in origine nel cervello positronico non sono tutto ― ringhiò la Calvin. ― I robot hanno la capacità di imparare, stupido! ― Bogert si rese conto che la Calvin aveva davvero perso le staffe.

― Non credete che Nestor-10 abbia potuto capire dal tono usato che quelli che Black gli faceva non erano precisamente complimenti? ― continuò lei. ― Non credete che abbia potuto sentire già altre volte quelle stesse parole e notare in quali occasioni venivano adoperate?

― Se è così ― sbottò Bogert, ― mi volete spiegare gentilmente come può un robot modificato far del male a un essere umano, anche ammesso che si senta offeso e che arda dal desiderio di dimostrare la sua superiorità?

― Se ve lo dico, la smetterete di sollevare continuamente obiezioni?

― Sì.

Erano uno di fronte all'altra, con il tavolo in mezzo, e si guardavano in cagnesco.

― Se un robot modificato lasciasse cadere un grosso peso su un essere umano ― disse la psicologa, ― non infrangerebbe la Prima Legge, purché compisse un simile atto partendo dalla consapevolezza di avere la forza e la velocità sufficienti a farlo intervenire in tempo per scongiurare il pericolo. Tuttavia, una volta mollato il peso, cesserebbe di essere lui l'agente attivo del fenomeno. A quel punto l'unico agente attivo sarebbe la cieca forza di gravità. Il robot allora potrebbe decidere di non intervenire e lasciare che il peso colpisca l'uomo. La Prima Legge modificata glielo consentirebbe.

― Ci vuole un bello sforzo immaginativo per pensare a una cosa del genere.

― A volte la mia professione richiede questi sforzi, Peter. Cerchiamo di non litigare e mettiamoci invece al lavoro. Voi conoscete la natura esatta dello stimolo che ha indotto il robot a dileguarsi. Siete in possesso di documenti che attestano quale sia la sua struttura mentale. Vorrei che mi diceste se è possibile che Nestor-10 compia un atto come quello che ho appena descritto. Non l'atto specifico, badate bene, ma l'intera categoria di gesti del genere. E vorrei che mi sapeste dare la risposta in fretta.

― Nel frattempo...

― Nel frattempo sottoporremo i robot a dei test per verificare come reagiscono alla Prima Legge.

 

Gerald Black aveva chiesto di controllare i lavori al terzo piano del Centro Radiazioni 2, dove venivano erette pareti divisorie di legno che ormai si levavano sempre più numerose, formando un cerchio sul pavimento sferico. Gli operai lavoravano per lo più in silenzio, ma parecchi si stupirono di dover installare sessantatré cellule fotoelettriche.

Uno di loro si sedette accanto a Black, si tolse il cappello e si asciugò la fronte con il braccio lentigginoso.

Black lo accolse con un cenno della testa. ― Come va, Walensky?

Walensky alzò le spalle e si accese un sigaro. ― A me va tutto liscio come l'olio. Ma qui cosa succede, dottore? Per tre giorni stiamo con le mani in mano e poi ci dicono di mettere su in gran fretta tutta questa roba. ― Si appoggiò alla parete puntellandosi con i gomiti e lasciò andare una boccata di fumo.

Black corrugò le sopracciglia. ― È che sono arrivati dalla Terra due esperti di robotica. Vi ricordate che guai abbiamo avuto con quei robot che volevano per forza entrare nei campi di radiazioni gamma, prima che gli ficcassimo in testa che non dovevano farlo?

― Sì. Ma non ci hanno consegnato dei robot nuovi?

― Qualcuno l'abbiamo sostituito, certo, ma per lo più abbiamo dovuto indottrinare bene i vecchi. In ogni modo quelli della fabbrica vogliono progettare dei modelli che non rimangano così danneggiati dai raggi gamma.

― Però è strano che siano state sospese tutte le attività intorno al propulsore per questa faccenda dei robot. Credevo che mai in nessun caso si sarebbe permesso di fermare i lavori.

― Be', sono i tizi che stanno al piano di sopra a decidere, Walensky. Io faccio solo quello che mi dicono. Probabilmente è tutta una manovra di...

― Sì ― lo interruppe l'elettricista con un sorriso, e strizzò l'occhio a Black con l'aria di uno che la sapeva lunga. ― Qualcuno conosce qualcun altro a Washington e così... Ma finché vengo pagato puntualmente, perché dovrei preoccuparmi? In fin dei conti il propulsore non mi riguarda affatto. Cosa devono fare, questi esperti?

― Lo chiedete a me? Si sono portati dietro un mucchio di robot, più di sessanta, e devono studiare le loro reazioni. È tutto quello che so io.

― E quanto ci metteranno?

― Non ne ho la più pallida idea.

― Be' ― disse Walensky, sarcastico, ― finché mi passano la paga, che facciano pure tutti i giochi che vogliono.

Black in cuor suo si sentì soddisfatto. Che Walensky diffondesse pure quella balla. Tanto era innocua, e abbastanza vicina alla verità da accontentare i curiosi.

 

Un uomo sedeva, muto e immobile, su una sedia. Un peso fu lasciato cadere e proprio quando stava per colpire il bersaglio venne deviato dall'azione tempestiva di un raggio d'energia. I robot NS-2 che osservavano la scena chiusi in sessantatré cabine di legno si precipitarono verso l'uomo proprio l'attimo prima che il peso fosse allontanato dalla sua traiettoria. E sessantatré cellule fotoelettriche, un metro e mezzo più avanti rispetto alla loro posizione originaria, fecero scattare la penna che tracciava il grafico, e sulla carta apparve un piccolo segno in rilievo. Il peso fu sollevato e lasciato cadere, sollevato e lasciato cadere dieci volte di seguito.

E per dieci volte i robot si buttarono avanti e poi si fermarono, mentre l'uomo restava seduto, incolume.

 

Il generale Kallner non si era più messo in alta uniforme da quella sera in cui aveva accolto sull'Iperbase i rappresentanti della U.S. Robots. E adesso era in maniche di camicia, una camicia grigio-azzurra, con il colletto aperto e la cravatta nera allentata.

Guardò speranzoso Bogert, che aveva ancora un'aria abbastanza azzimata, benché qualche goccia di sudore sulle tempie tradisse il suo nervosismo.

― Allora? ― disse il generale. ― Che cos'è che state cercando di scoprire?

― Stiamo cercando di scoprire una differenza che temo sia troppo insignificante per servire ai nostri scopi ― rispose Bogert. ― Per sessantadue di quei robot l'impulso a scattare in avanti verso l'uomo che appare in pericolo viene definito, in robotica, "reazione forzata". Vedete, dopo il terzo o quarto esperimento i robot devono avere capito che l'uomo in questione non era in pericolo, ma hanno continuato a reagire nello stesso modo, in quanto obbligati dalla Prima Legge.

― Ebbene?

― Il sessantatreesimo robot, il Nestor modificato, era sprovvisto di tale impulso e poteva agire liberamente. Se avesse voluto sarebbe potuto restare al suo posto. Purtroppo ― e qui la sua voce assunse un tono rammaricato, ― ha deciso di comportarsi come gli altri.

― Come mai?

Bogert scrollò le spalle. ― Immagino che ce lo dirà tra poco la dottoressa Calvin, e temo che ci offrirà una spiegazione alquanto pessimistica. A volte ha un comportamento irritante.

― Ma è qualificata, no? ― Il generale, chiaramente a disagio, corrugò la fronte.

― Sì ― disse Bogert, con un sorrisetto divertito. ― Qualificatissima. Per lei i robot sono come fratelli, li capisce molto bene. Credo che questa capacità le derivi dall'odio che nutre per gli esseri umani. Il guaio è che, psicologa o no, è una gran nevrotica. Tendenzialmente paranoica. Non prendetela troppo sul serio.

Sparpagliò sul tavolo i numerosi grafici. ― Vedete, generale, il tempo che passa tra il momento in cui il peso viene lasciato cadere e il momento in cui ciascun robot finisce di percorrere lo spazio di un metro e mezzo tende a diminuire a mano a mano che i test vengono ripetuti. C'è una relazione matematica ben precisa che regola questi fenomeni e un'eventuale variazione rispetto alla norma rivelerebbe l'esistenza di anomalie nel cervello positronico. Purtroppo qui tutto sembra a posto.

― Ma se Nestor-10 non ha agito per reazione forzata, come mai la curva del suo grafico non è diversa? Non capisco.

― La risposta è abbastanza semplice. Per colmo di sfortuna, le reazioni dei robot non sono esattamente simili a quelle umane. Negli uomini le azioni volontarie sono assai più lente di quelle che derivano da riflessi condizionati. Questo invece non vale per i robot. Per loro la questione essenziale è quella della scelta: i Nestor-10 hanno più possibilità di scelta, gli altri meno. Ma una volta superato questo dato di partenza la velocità della reazione libera e la velocità della reazione obbligata si equivalgono. Quel che speravo io, però, era che Nestor-10 fosse colto di sorpresa, la prima volta, e lasciasse passare un intervallo di tempo troppo lungo prima di agire.

― Invece questo non è successo?

― Temo proprio di no.

― Allora siamo al punto di prima. ― Il generale si appoggiò alla spalliera della sedia e assunse un'espressione preoccupata. ― Sono già cinque giorni che siete qui.

In quella Susan Calvin entrò nella stanza e sbatté la porta dietro di sé. ― Mettete via quei grafici, Peter! ― esclamò. ― Tanto sapete benissimo che non servono a niente!

Borbottò spazientita qualcosa, vedendo che Kallner faceva l'atto di alzarsi per salutarla, e proseguì: ― Bisogna escogitare un altro metodo, e in fretta. Non mi piace affatto quel che sta succedendo.

Bogert buttò un'occhiata eloquente al generale, poi si rivolse a lei. ― C'è qualcosa di particolare che non va?

― No. Ma non mi piace che Nestor-10 continui a ingannarci. Lo considero un fatto molto negativo. È chiaro che il robot si sente sempre più superiore a noi. Temo che ormai non sia solo il desiderio di eseguire gli ordini a spingerlo ad agire così. Credo sia motivato soprattutto dal bisogno puramente nevrotico di dimostrare agli uomini che è più intelligente di loro. È una situazione pericolosamente abnorme. Avete fatto quello che vi ha chiesto, Peter? Avete calcolato i fattori di instabilità concernenti la categoria di azioni che vi avevo prospettato?

― Ci sto lavorando ― disse il matematico, senza il minimo interesse.

Lei lo fissò un attimo con rabbia, poi si girò verso Kallner. ― Nestor-10 sa benissimo quel che stiamo facendo, generale. Non aveva motivo di correre verso l'uomo, durante l'esperimento, specie dopo la prima volta, quando si sarà reso conto che l'uomo in questione non correva alcun pericolo. Gli altri robot non potevano che reagire così, ma lui ha scelto di reagire così.

― E adesso che cosa dovremmo fare secondo voi, dottoressa Calvin?

― Impedirgli di recitare, la prossima volta. Ripeteremo l'esperimento, ma con un'aggiunta. Collocheremo tra l'uomo e i robot alcuni cavi ad alta tensione capaci di fulminare i modelli Nestor. Ne metteremo parecchi, così da scongiurare la possibilità che i robot li scavalchino tutti. E i robot verranno informati in anticipo che toccare i fili significa morire.

― Ehi, un attimo! ― sibilò Bogert, irritato. ― È un'idea da escludersi. Non fulmineremo dei robot che valgono due milioni di dollari solo per individuare Nestor-10! Troveremo altri metodi.

― Ne siete sicuro? Voi intanto non li avete trovati. In ogni caso non fulmineremo nessun robot. Possiamo installare un relè che interrompa la corrente nell'esatto momento in cui i robot metteranno i piedi sul filo. Così non moriranno, ma questo lo sapremo soltanto noi.

Negli occhi del generale brillò la speranza. ― Funzionerà?

― Penso di sì. In tali condizioni Nestor-10 dovrebbe restare seduto al suo posto. Gli si potrebbe ordinare di toccare i fili, perché la Seconda Legge, che impone l'obbedienza, è superiore alla Terza Legge, che impone l'autoconservazione. Ma non gli sarà ordinato di toccarli. Sarà lasciato libero di scegliere. I robot normali, condizionati dalla Prima Legge che li obbliga a preservare l'incolumità dell'uomo, andrebbero incontro alla morte anche senza avere ricevuto nessun ordine. Ma Nestor-10 no. Poiché ha impressa nel cervello solo una parte della Prima Legge e poiché noi non gli impartiremo alcun ordine, dovrà dare per forza la precedenza alla Terza Legge, quella dell'autoconservazione. Perciò non avrà altra scelta che rimanere seduto al suo posto. È inevitabile.

― Allora procederemo all'esperimento stasera stessa?

― Sì ― disse la psicologa, ― sempre che si faccia in tempo a sistemare i cavi. Dirò subito ai robot quale prova li attende.

 

Un uomo sedeva, muto e immobile, su una sedia. Un peso fu lasciato cadere e proprio quando stava per colpire il bersaglio venne deviato dall'azione tempestiva di un raggio di energia.

Solo una volta avvenne l'esperimento.

E sulla passerella in alto, dentro la cabina di osservazione, la dottoressa Susan Calvin si alzò di scatto dalla sua sedia pieghevole e si lasciò sfuggire un gemito d'orrore.

I sessantatré robot erano rimasti seduti tranquilli nelle loro sedie, a fissare impassibili l'uomo in pericolo. Nessuno di loro si era mosso.

 

La dottoressa Calvin era furiosa, terribilmente furiosa. E la rendeva ancora più furiosa il fatto di non poter rivelare il suo stato d'animo ai robot che ad uno ad uno entravano nella stanza per poi andarsene. Controllò l'elenco. Quello che le toccava interrogare adesso era il Numero Ventotto: ne rimanevano altri trentacinque.

Il Numero Ventotto entrò timidamente nella stanza.

Susan Calvin si sforzò di mantenersi il più calma possibile. ― E tu chi sei?

Il robot rispose con voce bassa e incerta. ― Non mi hanno ancora assegnato un numero personale, signora. Sono un robot NS-2 e il Numero Ventotto nella fila là fuori. Ho qui con me il biglietto con il timbro che devo consegnarvi.

― Non sei mai stato qui prima d'oggi?

― No, signora.

― Siediti. Voglio rivolgerti alcune domande, Numero Ventotto. Quattro ore fa ti trovavi nella Sala Raggi del Centro Radiazioni Due?

Il robot aveva difficoltà a rispondere. La sua voce venne fuori rauca, con un suono di macchina che avesse bisogno di olio. ― Sì, signora.

― Lì c'era un uomo che per poco non si è fatto molto male, vero?

― Sì, signora.

― Tu non hai cercato di aiutarlo, vero?

― No, signora.

― Quell'uomo avrebbe potuto ferirsi gravemente, a causa del tuo mancato intervento. Te ne rendi conto?

― Sì, signora. Non potevo che comportarmi così, signora. ― È difficile immaginare che un enorme e inespressivo robot di metallo possa farsi piccolo piccolo per la paura, ma il Numero Ventotto riusciva a dare questa sensazione.

― Spiegami bene perché non hai fatto niente per salvarlo.

― Sì, signora. Non voglio certo che voi o chiunque altro pensiate che... che abbia potuto comportarmi in modo da... da recare danno a un padrone. Oh, no, sarebbe un'orribile... un'inconcepibile...

― Stai calmo, Numero Ventotto. Io non ti incolpo di niente. Voglio solo sapere quali erano i tuoi pensieri in quel momento.

― Prima che succedesse tutto questo voi, signora, ci avevate detto che uno dei padroni avrebbe corso il pericolo di essere schiacciato da quel peso e che noi, volendo salvarlo, avremmo dovuto scavalcare i cavi elettrici. Ebbene, signora, i cavi elettrici non mi avrebbero certo fermato, perché è molto più importante l'incolumità di un padrone della mia incolumità. Ma... ma ho pensato che se fossi morto mentre cercavo di raggiungerlo, non sarei riuscito a salvarlo comunque. Il peso l'avrebbe schiacciato lo stesso e io sarei morto inutilmente, mentre se fossi rimasto vivo avrei potuto in futuro salvare la vita a qualche altro padrone. Mi capite, signora?

― Vuoi dire che le uniche alternative esistenti erano o che morisse solo l'uomo, o che moriste sia lui che tu? È così?

― Sì, signora. Era impossibile salvare il padrone. Era già spacciato in partenza. Quindi era assurdo che decidessi di autodistruggermi senza uno scopo valido... e senza ordini.

La psicologa giocherellò con la penna. Aveva già udito ventisette volte la stessa storia, con variazioni verbali insignificanti. Adesso era il momento della domanda cruciale.

― Senti, amico, il tuo ragionamento non manca di validità ― disse, ― ma non è il tipo di ragionamento che pensavo tu potessi fare. Ci sei arrivato da solo?

Il robot esitò. ― No.

― Chi l'ha fatto, allora?

― Ieri sera abbiamo parlato della faccenda e uno di noi è venuto fuori con quest'idea, che ci è parsa sensata.

― Chi di voi ha avuto l'idea?

Il robot rifletté attentamente. ― Non lo so. Uno di noi, non so dirvi altro.

Susan Calvin sospirò. ― È tutto.

Toccava ora al Numero Ventinove. Ne restavano altri trentaquattro.

 

Anche il generale Kallner era furioso. Da una settimana ormai tutte le attività erano ferme, sull'Iperbase, se si eccettuavano alcuni lavori di ricerca teorica sugli asteroidi associati del gruppo. Da quasi una settimana i due massimi esperti del settore robotica non facevano altro che aggravare la situazione effettuando inutili test. E adesso si permettevano anche - o almeno la donna si permetteva - di avanzare proposte impossibili.

Per non rendere più difficile la già difficile situazione, Kallner si premurò di non lasciar trapelare la sua rabbia.

Susan Calvin insisteva. ― Perché no, signore? È chiaro che ci troviamo in un vicolo cieco. L'unica alternativa che abbiamo se vogliamo raggiungere dei risultati in futuro, ammesso ci sia un futuro in tutta questa vicenda, è di separare i robot. Non possiamo più tenerli insieme.

― Cara dottoressa Calvin ― ruggì il generale, con voce profonda che scivolava verso toni da baritono, ― non credo proprio di poter sistemare quei robot in sessantatré alloggi diversi...

La dottoressa Calvin allargò le braccia in un gesto di scoraggiamento. ― Allora non posso fare niente. Nestor-10 imita il comportamento degli altri robot, oppure li convince con argomentazioni sensate a non adottare il comportamento che lui non può adottare. In ogni caso si tratta di una gran brutta faccenda. Abbiamo ingaggiato una lotta con questo robot "scomparso" e la stiamo perdendo. Ogni nuova vittoria che consegue lo ringalluzzisce e aggrava il suo già grave stato psichico.

Si alzò in piedi, decisa. ― Generale Kallner, se non separate i robot, sarò costretta a chiedervi di distruggerli tutti immediatamente.

― Ah sì? ― disse Bogert, alzando gli occhi di colpo e guardandola con furia. ― E che cosa vi dà il diritto di chiedere una cosa del genere? Quei robot non si toccano. Sono io il responsabile davanti alla U.S. Robots, non voi.

― E io ― osservò il generale Kallner, ― sono responsabile davanti al Coordinatore Mondiale, e ho il compito di sistemare la questione.

― In tal caso ― dichiarò la Calvin, ― non mi resta che rassegnare le dimissioni. E se non avrò altro modo di indurvi a distruggere i robot, renderò pubblica tutta la vicenda. Non sono stata io ad autorizzare la costruzione di robot speciali.

― Una parola di più, dottoressa Calvin ― disse il generale, deciso, ― e vi farò mettere subito agli arresti. Le misure di sicurezza non si violano.

Bogert capì che la situazione stava prendendo una piega pericolosa. ― Su, non comportiamoci come bambini ― disse, in tono estremamente conciliante. ― Ci occorre ancora un po' di tempo. Riusciremo certo a mettere nel sacco Nestor-10 senza che nessuno dia le dimissioni o finisca in prigione. E senza distruggere un patrimonio di due milioni di dollari.

La psicologa lo guardò con gelida rabbia. ― Non permetterò che si continuino a utilizzare robot squilibrati. Abbiamo un Nestor che è chiaramente squilibrato, altri undici che lo sono potenzialmente, e sessantadue robot normali che sono influenzati da un ambiente malsano. L'unico modo veramente sicuro per rimediare al problema è la distruzione totale.

Il cicalino della porta ronzò e i tre interruppero di colpo la animata discussione.

― Avanti ― ringhiò Kallner.

Era Gerald Black, e appariva turbato. Da fuori aveva sentito il tono iroso delle voci. ― Ho pensato di venire io stesso ― disse. ― Non volevo chiedere ad altri...

― Cosa c'è? Non fatela lunga.

― Hanno cercato di forzare la serratura del compartimento C, sulla nave da carico. Si vedono delle scalfitture che fino a poco tempo fa non c'erano.

― Il compartimento C? ― disse subito la Calvin. ― È quello dove sono alloggiati i robot, vero? Chi ha cercato di forzare la serratura?

― Il tentativo è stato fatto dall'interno ― disse Black, laconico.

― Ma la serratura funziona ancora, spero...

― Sì, è a posto. È da quattro giorni che mi trovo sulla nave e finora nessun robot ha tentato di uscire. Ma pensavo fosse giusto informarvi e sono venuto di persona perché non volevo che la notizia si diffondesse. Sono stato io ad accorgermi della cosa.

― C'è nessuno a bordo, adesso? ― chiese il generale.

― Ci sono Robbins e McAdams.

Seguì un silenzio carico di riflessione. Poi la dottoressa Calvin disse, in tono ironico: ― Allora?

Kallner si grattò il naso, con aria incerta. ― Che senso ha questa storia?

― Non è ovvio? Nestor-10 sta progettando di partire. Ormai l'ordine di scomparire è diventato il tema dominante, nella sua testa bacata, e dubito che possiamo trovare rimedi. Non mi stupirei se quel po' di Prima Legge che gli è stata impressa nel cervello non riuscisse a prevalere. È capacissimo di impadronirsi della nave e tagliare la corda. In quel caso avremmo un robot pazzo al comando di un'astronave. Allora, che si fa? Avete qualche idea? Siete ancora deciso a lasciare i robot insieme, generale?

― Sciocchezze ― interloquì Bogert, che aveva riacquistato la calma. ― Tutte queste deduzioni balorde per qualche graffio su una serratura.

― Dottor Bogert, visto che siete così ansioso di esprimere opinioni non richieste, posso chiedere io a voi se avete terminato l'analisi che vi avevo domandato di fare?

― Sì, l'ho terminata.

― Posso vederla?

― No.

― Perché no? Adesso non mi è permesso più neppure questo?

― È inutile che la guardiate, Susan. Vi ho già detto fin dall'inizio che i robot modificati sono meno stabili di quelli normali, e la mia analisi lo dimostra. Esiste il rischio minimo che gli NS-2 vadano in tilt in circostanze estreme che è improbabile si verifichino. Smettetela di insistere. Non vi fornirò dati che potreste sfruttare per ribadire la vostra assurda pretesa di distruggere sessantadue robot perfettamente funzionanti. La colpa è vostra, se non siete riuscita ancora a individuare Nestor-10.

Susan Calvin lo fissò con occhi pieni di disgusto. ― Non volete intralci sulla strada che sperate vi porti alla carica di direttore generale, vero?

― Per favore! ― disse Kallner, irritato. ― Avete idea di cos'altro si possa fare, dottoressa Calvin?

― No, signore ― rispose lei, stancamente. ― Se solo tra Nestor-10 e i robot normali ci fossero altre differenze, anche un'unica differenza che non riguardasse la Prima Legge... Non so, qualcosa che avesse a che fare con il bagaglio di nozioni impresse inizialmente nel cervello, o con l'ambiente, o con l'addestramento... ― S'interruppe di colpo.

― Cosa c'è?

― Mi è venuta in mente una cosa... ― Susan Calvin assunse un'espressione assorta e meditabonda. ― Peter, nel cervello dei Nestor modificati è stato impresso in origine lo stesso bagaglio di nozioni, vero?

― Sì, esattamente lo stesso.

La Calvin si girò verso Gerald Black, che era rimasto prudentemente zitto vedendo quali reazioni violente avesse causato la notizia da lui portata. ― Signor Black, quando vi siete lamentato dell'atteggiamento di superiorità che hanno i Nestor, avete detto se non sbaglio che tutto quello che i robot sanno l'hanno imparato dai tecnici. È così?

― Sì, almeno per quel che riguarda la fisica eterica. I robot non conoscono affatto l'argomento, quando arrivano qui.

― Certo ― disse Bogert, stupito. ― Ve l'avevo detto, Susan, che quando ho parlato con gli altri Nestor gli ultimi due arrivati non avevano ancora imparato la fisica eterica.

― Come mai? ― chiese la dottoressa Calvin, sempre più accalorata. ― Perché nei modelli NS-2 non vengono impresse fin dall'inizio le nozioni necessarie?

― Posso spiegarvelo io ― disse Kallner. ― Abbiamo proceduto così per conservare il segreto. Se avessimo usato dodici modelli speciali già esperti e avessimo spedito gli altri a lavorare in un settore che con la propulsione iperatomica non aveva nulla a che fare, avremmo potuto sollevare sospetti. Gli uomini che utilizzavano i Nestor normali avrebbero potuto chiedersi come mai i modelli nuovi conoscessero la fisica eterica. Così il cervello degli NS-2 è semplicemente preparato a ricevere un addestramento nel settore. È chiaro che a venire addestrati sono solo quelli che arrivano sull'Iperbase. Tutto qui.

― Capisco. Vi prego, signori, uscite tutti quanti. Ho bisogno di un'ora per riflettere.

 

La Calvin non se la sentiva proprio di affrontare una terza volta quell'orribile prova. Aveva preso in considerazione l'eventualità di farlo, ma poi l'aveva scartata con un profondo senso di nausea. No, non sopportava assolutamente l'idea di interrogare di nuovo tutti quei robot che parlavano nello stesso esatto modo.

Così adesso era Bogert a rivolgere loro le domande e lei se ne stava seduta in un angolo, con gli occhi socchiusi e la mente poco più aperta.

Era la volta del Numero Quattordici: ne restavano altri quarantanove. Bogert alzò lo sguardo dal foglio degli appunti e disse: ― Che numero ti è stato assegnato nella fila?.

― Il quattordici, signore. ― Il robot consegnò il biglietto con il timbro.

― Siediti, amico ― disse Bogert. ― Non sei mai stato qui prima d'ora?

― No, signore.

― Bene, tra poco, quando avremo finito di interrogarvi, ci sarà un altro uomo in pericolo, come è già successo in passato. Anzi, appena avrai lasciato questa stanza sarai condotto direttamente in una cabina dove aspetterai tranquillo fino al momento in cui ci sarà bisogno di te. Hai capito?

― Sì, signore.

― Ora, è chiaro che se un uomo rischia di farsi del male, tu cercherai di salvarlo vero?

― Certo, signore.

― Purtroppo, fra te e l'uomo vi sarà un campo di raggi gamma.

Silenzio.

― Sai che cosa sono i raggi gamma? ― chiese Bogert, brusco.

― Radiazioni di energia, signore?

La domanda successiva fu rivolta in tono cordiale e non curante. ― Hai mai lavorato intorno ai raggi gamma?

― No, signore ― rispose il robot, con sicurezza.

― Uhm. Bene, amico mio, i raggi gamma ti uccidono all'istante. Ti distruggono il cervello. È un fatto che devi sapere e tenere bene a mente. È chiaro che tu non vuoi essere distrutto, vero?

― No, signore. ― Il robot appariva di nuovo turbato. Aggiunse, parlando lentamente: ― Se i raggi gamma si trovano tra me e il padrone in pericolo, come posso salvarlo? Mi autodistruggerei senza scopo.

― Sì, capisco il tuo punto di vista ― disse Bogert, con aria comprensiva. ― L'unico consiglio che posso darti è questo: se individui la presenza delle radiazioni gamma fra te e l'uomo, stattene pure seduto dove sei.

Il robot apparve visibilmente sollevato. ― Grazie, signore. In quel caso il mio intervento sarebbe inutile, vero?

― Già. Ma se non ci fossero radiazioni pericolose, allora sarebbe tutto un altro discorso.

― Certo, signore, questo è indubbio.

― Vai pure, ora. L'uomo all'ingresso ti accompagnerà alla tua cabina. Tu aspetta là.

Quando il robot fu uscito, Bogert sì rivolse a Susan Calvin. ― Come vi pare sia andata, Susan?

― Benissimo ― disse lei, apatica.

― Pensate che possiamo riuscire a prendere in trappola Nestor-10 interrogandolo sulla fisica eterica?

― Forse, ma non è un metodo abbastanza sicuro. ― La Calvin teneva le mani in grembo. ― Non dimenticatevi che ci sta facendo la guerra e che quindi sta all'erta. L'unica maniera per prenderlo in trappola è batterlo in astuzia. E, per quanto entro i limiti impostigli, lui sa pensare molto più in fretta di un essere umano.

― Bene, poniamo così per scherzo che da ora in avanti rivolgessi ai robot delle domande sui raggi gamma. Sui limiti della lunghezza d'onda, per esempio.

― No! ― fece la dottoressa Calvin, aprendo di colpo gli occhi che fino a un attimo prima teneva ancora socchiusi. ― A Nestor-10 sarebbe troppo facile fingere di non sapere nulla e in questo modo intuirebbe qualcosa del test a cui stiamo per sottoporlo. E quel test è l'unica nostra speranza. Per favore, Peter, seguite le indicazioni che vi ho dato e non improvvisate. È già abbastanza rischioso chiedere ai robot se hanno mai lavorato intorno ai raggi gamma. Anzi, cercate di mostrare ancora più noncuranza, quando fate quella particolare domanda.

Bogert alzò le spalle e premette il cicalino per far entrare il Numero Quindici.

 

La vasta Sala Raggi era stata ancora una volta preparata per l'esperimento. I robot attendevano pazientemente nelle loro cabine di legno, che comunicavano tutte con il centro della sala, ma non tra loro.

Il generale Kallner si asciugò la fronte con un ampio fazzoletto, mentre Susan Calvin controllava gli ultimi particolari con Black.

― Siete sicuro che i robot non abbiano avuto assolutamente la possibilità di parlarsi, dopo avere lasciato la Sala di Orientamento? ― chiese la robopsicologa.

― Sicurissimo ― disse Black. ― Non si sono scambiati una sola parola.

― E sono stati messi nelle cabine giuste?

― Ecco qui la pianta.

Susan Calvin la guardò pensierosa. ― Uhm.

Il generale buttò un'occhiata di sbieco alla carta. ― Che importanza ha il modo in cui sono disposti, dottoressa Calvin?

― Ho chiesto che i robot che mi sono parsi un pochino più sfasati durante gli esperimenti precedenti venissero sistemati tutti dalla stessa parte del cerchio. Questa volta ci sarò io seduta là in mezzo, e vorrei osservare bene proprio quei robot in particolare.

― Ci sarete voi, seduta là? ― fece Bogert, incredulo.

― Perché no? ― rispose lei, con distacco. ― Il dettaglio essenziale che spero di vedere potrebbe essere rappresentato da una reazione della durata di una frazione di secondo. Non posso assolutamente affidare a un altro il ruolo di osservatore principale. Peter, voi andrete nella cabina in alto e terrete d'occhio l'altro semicerchio. Generale Kallner, in caso l'osservazione diretta non fosse sufficiente, ricorreremo ai filmati. Una cinepresa riprenderà ciascun robot nel corso dell'esperimento, e se si rivelasse necessario controllare le immagini, i robot dovranno rimanere fermi al loro posto finché non avremo a disposizione la pellicola. Nessuno dovrà andarsene, nessuno dovrà cambiare scomparto. È chiaro?

― Chiarissimo.

― Allora facciamo quest'ultima prova.

 

Susan Calvin sedeva, muta e immobile, su una sedia. Un peso fu lasciato cadere e proprio quando stava per colpire il bersaglio venne deviato dall'azione tempestiva di un raggio di energia.

Un solo robot scattò in piedi e avanzò di due passi. Poi si fermò di colpo.

Ma la dottoressa Calvin si alzò a sua volta e gli puntò severamente l'indice contro. ― Vieni qui, Nestor-10! ― gridò. ― Vieni qui! VIENI QUI!

Riluttante, il robot fece un altro passo avanti. Senza staccargli gli occhi di dosso, la psicologa urlò con quanta voce aveva in gola: ― Qualcuno faccia uscire di qui tutti gli altri robot! Mandateli fuori e teneteli fuori!

Dopo quell'ordine si udì un certo trambusto, poi un forte trapestio. Ma Susan Calvin non distolse un attimo lo sguardo dal robot.

Nestor-10 - se era Nestor-10 - fece un altro passo, poi, chiamato da un gesto imperioso della Calvin, altri due. Quando fu a circa tre metri da lei disse, aspro: ― Mi avevano ordinato di scomparire....

Avanzò ancora di un passo. ― Io non devo disobbedire. Finora non mi avevano trovato... Lui penserà che sono un buono a nulla... Mi ha detto... Ma non è così, invece... Io sono forte e intelligente...

Le parole venivano fuori a raffiche.

Il robot avanzò ancora di un passo. ― Io so tante cose... Adesso penserà... cioè, adesso che sono stato trovato... È una vergogna... Ma non mi coprirò di vergogna... Io sono intelligente... E trovato da un semplice padrone... che è debole... lento...

Un altro passo... e un braccio di metallo colpì Susan Calvin nella spalla, spingendola giù. Con la gola compressa, la robopsicologa lasciò andare un urlo soffocato.

Udì confusamente altre parole di Nestor-10. ― Nessuno deve trovarmi. Nessun padrone... ― Quindi avvertì la pressione del freddo corpo metallico e si sentì schiacciare sotto il suo peso.

Poi si udì uno strano suono metallico e lei si ritrovò di colpo in terra, quasi senza accorgersene. Nestor-10 era steso accanto a lei e le teneva ancora un pesante braccio sul corpo. Ma era immobile.

E infine arrivarono gli altri.

― Vi siete fatta male, dottoressa Calvin? ― chiese Gerald Black, preoccupato.

Lei scosse debolmente la testa. Le tolsero il braccio metallico di dosso e la sollevarono con delicatezza. ― Cos'è successo? ― domandò.

― Per cinque secondi ho immerso la sala nei raggi gamma. Non capivamo cosa stesse accadendo. Solo all'ultimo momento ci siamo resi conto che vi stava attaccando, e non c'era altra soluzione che usare un campo di radiazioni gamma. Il robot è crollato all'istante. Ma il tempo di esposizione è stato troppo breve per danneggiare voi. Non preoccupatevi.

― Non sono preoccupata. ― Susan Calvin chiuse gli occhi e si appoggiò un attimo alla spalla di Black. ― Credo che non si sia trattato di una vera aggressione. Nestor-10 ha solo cercato di aggredirmi, ma era ancora trattenuto da quel po' di Prima Legge impresso nel suo cervello.

 

Susan Calvin e Peter Bogert ebbero il loro ultimo incontro con il generale Kallner due settimane dopo il primo. L'attività era ripresa, sull'Iperbase. La nave da carico con a bordo i sessantadue NS-2 normali era partita per la sua destinazione. A giustificazione dei quindici giorni di ritardo ci sarebbe stata una versione ufficiale dei fatti. L'astroricognitore del governo si preparava a riportare i due robotologi sulla Terra.

Kallner era di nuovo in alta uniforme e i suoi guanti bianchi splendevano quando strinse la mano ai due esperti.

― Bisogna naturalmente distruggere gli altri Nestor modificati ― disse la Calvin.

― Saranno distrutti. Vedremo di farcela con i robot normali, e se questo non sarà possibile lavoreremo senza.

― Bene.

― Ma non mi avete ancora spiegato come siete riuscita esattamente a intrappolare Nestor-10...

La Calvin accennò un sorriso. ― Ah già. Vi avrei detto tutto prima dell'esperimento se fossi stata sicura dell'esito positivo. Vedete, Nestor-10 aveva un complesso di superiorità che peggiorava sempre più col tempo. Gli piaceva pensare di sapere più cose dell'uomo, e che i robot in genere fossero più in gamba. Per lui era diventata una specie di ossessione.

― Consapevoli di questo, noi prima dell'esperimento abbiamo detto a tutti i robot che i raggi gamma erano per loro mortali, e li abbiamo avvisati che fra loro e me ci sarebbe stato appunto un campo di queste radiazioni. Così sono rimasti seduti dov'erano, naturalmente. Nestor-10, nel corso dell'esperimento precedente, li aveva convinti che era assurdo cercare di salvare un essere umano quando si aveva la sicurezza di morire prima di raggiungerlo.

― Sì, dottoressa Calvin, questo l'ho capito. Ma perché Nestor-10 si è mosso?

― Ah, qui entra in gioco il piccolo accordo che c'era tra me e il signor Black. Vedete, a inondare lo spazio tra me e i robot non sono stati i raggi gamma, ma dei semplici infrarossi. Normali raggi termici completamente innocui. Nestor-10 ha capito che si trattava di infrarossi e così si è spinto avanti, come pensava che facessero gli altri, condizionati dalla Prima Legge. Si è ricordato con un secondo di ritardo che gli NS-2 normali erano in grado, sì, di individuare la presenza di raggi, ma non di riconoscerne il tipo. Che solo lui potesse riconoscere le lunghezze d'onda grazie all'addestramento ricevuto all'Iperbase dagli uomini era un particolare troppo umiliante perché se lo ricordasse subito fin dall'inizio. I robot normali erano convinti che i raggi fossero mortali perché così avevamo loro detto, e solo Nestor-10 sapeva che mentivamo.

― Così, per una frazione di secondo, ha dimenticato o non ha voluto ricordare che gli altri robot potevano essere più ignoranti degli esseri umani. Il suo stesso senso di superiorità l'ha fatto cadere in trappola. Arrivederci, generale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


               CONFLITTO EVITABILE

Il Coordinatore si era fatto installare nello studio privato un pezzo di antiquariato medievale: un caminetto. Be', forse un uomo del medioevo non l'avrebbe riconosciuto come tale, dato che non aveva una funzione pratica. Le fiamme tremolavano tranquille dietro una lastra di quarzo trasparente che isolava la bocca del camino.

La legna da ardere veniva accesa con un comando a distanza capace di deviare leggermente il raggio di energia che riforniva gli edifici pubblici della città. Premendo il pulsante dell'accensione, si eliminava la vecchia cenere e si facevano entrare altri ceppi. Insomma, era un caminetto al passo con i tempi.

Ma il fuoco era vero. Un sistema di amplificazione diffondeva nella stanza il crepitio delle fiamme che guizzavano nella corrente d'aria che le alimentava.

E la danza sinuosa delle fiamme si rifletteva in miniatura nel bicchiere del Coordinatore e, ancora più in piccolo, nelle sue pupille meditabonde.

E anche nelle pupille glaciali della sua ospite, la dottoressa Susan Calvin della U.S. Robots and Mechanical Men Corporation.

Il Coordinatore disse: ― Non le ho chiesto di venire qui solo per scambiare due chiacchiere, Susan.

― Non ne avevo il minimo dubbio, Stephen.

― Il guaio è che non trovo le parole adatte per esporle il mio problema. Vede, potrebbe trattarsi di una questione di nessun conto come potrebbe rivelarsi un fattore decisivo per il destino dell'umanità.

― Non è la prima volta che mi capita di affrontare una situazione che presenta queste alternative. Problemi di questo tipo non sono poi così rari.

― Davvero? Allora stia a sentire questo. La World Steel registra un eccesso di produzione di ventimila tonnellate di acciaio. Il Canale Messicano, che doveva essere aperto due mesi fa, è ancora chiuso. Dalla primavera scorsa le miniere di mercurio di Almaden hanno una resa bassissima, e lo stabilimento idroponico di Tientsin è in crisi netta e deve licenziare le maestranze. Queste sono soltanto le cose che mi vengono in mente adesso, ma potrei continuare ancora a lungo.

― Si tratta di cose gravi? Sa, non m'intendo molto di economia, quindi non capisco se ciò che mi ha detto può avere conseguenze disastrose.

― In se stesse non sono gravi. Se la situazione ad Almaden dovesse peggiorare, potremmo mandare degli esperti minerari. Se a Tientsin ci sono troppi ingegneri, trasferiremo quelli in eccesso a Giava e nello Sri Lanka. Ventimila tonnellate di acciaio rappresentano soltanto il fabbisogno mondiale di qualche giorno, e i due mesi di ritardo nell'apertura del Canale Messicano sono un'inezia. Sono le Macchine che mi preoccupano. E di questo ho già parlato con il suo direttore delle ricerche.

― Vincent Silver? Non mi ha detto niente.

― Sono stato io a chiedergli di mantenere il più stretto riserbo. A quanto pare, è stato di parola.

― E lui che cosa le ha detto in proposito?

― Di questo gliene parlerò al momento giusto. Adesso voglio parlarle delle Macchine. E voglio parlarne con lei perché è l'unica persona al mondo a conoscere abbastanza bene i robot da potermi aiutare. Le dispiace se faccio un po' di filosofia?

― Per stasera, Stephen, le concedo di parlare come vuole e di quello che vuole, sempre che prima mi dica ciò che ha intenzione di dimostrare.

― Voglio dimostrare che questi piccoli squilibri nel perfetto sistema della domanda e dell'offerta potrebbero essere il primo passo verso la guerra totale.

― Uhm. La prego, continui.

Susan Calvin non si concesse il lusso di rilassarsi, malgrado la poltrona su cui era seduta fosse estremamente confortevole. Con gli anni, la freddezza e la severità del suo viso dalle labbra sottili si erano accentuate, e anche la sua voce si era fatta sempre più piatta e inespressiva. E benché Stephen Byerley fosse una delle pochissime persone che rispettava e stimava, questo non poteva bastare per farle cambiare all'improvviso gli atteggiamenti che aveva coltivato per quasi settant'anni.

― Tutti i periodi dell'evoluzione umana ― disse il Coordinatore ― sono stati segnati da una serie di conflitti causati da questo o quel problema che sembrava potesse essere risolto soltanto con la forza. E tutte le volte il ricorso alla forza non ha eliminato il problema, che anzi generava altri conflitti per poi scomparire... com'è che si dice ah, sì "non con un botto ma con un sospiro" non appena le condizioni economiche e sociali cambiavano. E poi, altri problemi e altre guerre, in continuazione, in un ciclo che sembrava dovesse continuare in eterno. Fermiamoci un attimo sulla storia degli ultimi secoli. Dal Sedicesimo al Diciottesimo secolo vi furono le guerre dinastiche, quando la cosa più importante da decidere era se l'Europa doveva essere dominata dagli Asburgo o dai Borboni del ramo Valois. Si trattava di un 'conflitto inevitabile', dal momento che sembrava che un'Europa divisa in due non potesse sopravvivere. E invece sopravvisse, e le guerre non portarono alla scomparsa di una dinastia e al consolidamento dell'altra. Poi, nel 1789, la Francia fu scossa da un repentino cambiamento sociale, e i Borboni prima e gli Asburgo poi finirono miseramente nell'inceneritore della storia. E in quegli stessi secoli scoppiarono le guerre di religione, ancora più barbare e cruente, che avrebbero dovuto stabilire se l'Europa doveva essere cattolica o protestante. Pareva inconcepibile che potesse essere per metà cattolica e per metà protestante, e così venne di nuovo ritenuto 'inevitabile' il ricorso alle armi. E invece le due religioni continuarono a sopravvivere. In Inghilterra c'era la rivoluzione industriale, e sul continente nasceva un nuovo tipo di nazionalismo. E l'Europa è rimasta così fino ai nostri giorni, metà cattolica e metà protestante, e a nessuno importa niente. Nel Diciannovesimo e nel Ventesimo secolo fu la volta di un ciclo di guerre nazionalistico-imperialistiche, alimentate dalla necessità di stabilire quali paesi europei dovevano sfruttare le risorse economiche e le capacità di consumo di determinati paesi extraeuropei. Anche stavolta sembrava inammissibile che i paesi non europei potessero sopravvivere senza il dominio frammentato di Germania, Francia, Inghilterra e così via. Ma il nazionalismo si diffuse a macchia d'olio, così furono i paesi extraeuropei a risolvere quello che le guerre non erano riuscite a risolvere, decidendo che potevano benissimo esistere senza la presenza degli europei. Come vede, esiste uno schema fisso.

― Sì, Stephen, è stato chiaro ― disse Susan Calvin. ― Però non mi sembrano osservazioni molto profonde.

― È vero, ma è anche vero che spesso sono proprio le cose più ovvie a sfuggirci. Si dice "È chiaro come è chiaro che hai il naso sulla faccia". Ma se non ci guardiamo allo specchio il naso non ce lo vediamo mica. Nel Ventesimo secolo, Susan, iniziammo un nuovo ciclo di guerre. Vediamo, come potremmo definirle? Ideologiche? Il fervore religioso applicato ai sistemi economici anziché a quelli divini? Le guerre sembrarono "inevitabili", ma stavolta gli uomini potevano disporre di armi atomiche, e l'umanità non sarebbe sopravvissuta fino alla scomparsa naturale della causa che aveva provocato i conflitti. E arrivarono i robot positronici. Arrivarono giusto in tempo, proprio come i viaggi interplanetari. A questo punto non sembrò più tanto importante che il mondo fosse di Adam Smith o di Karl Marx. Il nuovo clima sociale aveva azzerato l'importanza di questo o quel sistema economico. Entrambe le teorie dovettero adattarsi alla situazione e finirono per passeggiare quasi sotto braccio.

― Un deus ex machina, quindi, anche fuor di metafora.

Il Coordinatore sorrise amabilmente. ― È la prima volta che la sento fare un gioco di parole, Susan, ma ha centrato nel segno. Tuttavia si è profilato un altro rischio. La fine di tutti gli altri problemi ne ha creato uno nuovo. Il nuovo sistema economico mondiale, incentrato sui robot, potrebbe non funzionare, ed è per questo che abbiamo le Macchine. L'economia della Terra è stabile e resterà stabile perché si basa sulle decisioni delle macchine elaboratrici che hanno a cuore il bene dell'umanità in virtù della potente Prima Legge della Robotica. E malgrado le Macchine non siano altro che i più vasti agglomerati di circuiti calcolatori mai creati, restano pur sempre dei robot vincolati dalla Prima Legge, quindi la nostra economia è gestita nei giusti interessi dell'Uomo. La popolazione della Terra si sente protetta dal rischio della disoccupazione, della sovrapproduzione o delle carenze. Spreco e carestia sono parole che abbiamo consegnato ai libri di storia. Quindi la questione della proprietà dei mezzi di produzione è diventata obsoleta. A prescindere da chi possiede tali mezzi, se questa frase ha ancora un senso, sia esso un uomo, un gruppo, una nazione o tutta l'umanità, il loro utilizzo è possibile soltanto seguendo le direttive delle Macchine. E non siamo stati costretti ad adottare una simile soluzione, l'abbiamo scelta perché abbiamo capito che era la più saggia. Mettere fine una volta per tutte alle guerre, non solo all'ultimo ciclo di guerre ma alla Guerra in assoluto, a meno che...

Ci fu una lunga pausa, e la dottoressa Calvin lo incitò a finire la frase ripetendo: ― A meno che?

Il fuoco sembrò acquattarsi per scivolare lungo un ceppo, poi saettò verso l'alto.

― A meno che le Macchine non vengano meno alla loro funzione ― concluse il Coordinatore.

― Capisco. A questo punto entrano in gioco quei piccoli inconvenienti di cui mi ha parlato poco fa: acciaio, idroponica e così via.

― Esatto. Questi inconvenienti non avrebbero dovuto verificarsi. Il dottor Silver mi ha detto che non possono verificarsi.

― Non vuole arrendersi all'evidenza dei fatti? È molto strano.

― No, si è arreso, si è arreso. Forse mi sono spiegato male. Lui nega che siano soltanto gli errori delle Macchine a provocare i cosiddetti "errori nelle risposte", per usare le sue parole. Il dottor Silver afferma che le Macchine si correggono da sole e che l'esistenza di un errore nei circuiti violerebbe le leggi fondamentali della natura. E allora io gli ho detto...

― Gli ha detto: “Li faccia controllare dai suoi ragazzi, questi circuiti”.

― Susan, mi legge nel pensiero. Gli ho detto proprio questo, e lui mi ha risposto che non poteva.

― È troppo occupato?

― No, ha detto che nessun essere umano può effettuare questo controllo. Mi ha detto, e spero di aver capito bene, che le Macchine sono una gigantesca estrapolazione. In altre parole, un'equipe di matematici impiega parecchi anni di lavoro per mettere a punto un cervello che, una volta costruito, potrebbe svolgere quello stesso lavoro in pochissimo tempo. Poi utilizzano questo cervello per elaborare calcoli ancora più complessi che servono per mettere a punto un cervello ancora più avanzato del primo. E così via. Secondo Silver quelle che chiamiamo Macchine sono il risultato di dieci operazioni del genere.

― Ah, ho capito. Meno male che non sono un matematico. Povero Vincent. È giovane. I direttori che lo hanno preceduto non avevano di questi problemi. E nemmeno io. Forse i robotologi di oggi non riescono più a capire le loro creature.

― Sembra di no. Le Macchine non sono dei super-cervelli, come li chiamano i supplementi domenicali dei quotidiani. È solo che nella funzione specifica di raccogliere e analizzare un numero pressoché infinito di dati, comprese le correlazioni tra i dati stessi, in un lasso di tempo pressoché infinitesimo, si sono spinte così avanti che l'uomo non è più in grado di controllarle. Allora ho cambiato tattica. Ho interrogato la Macchina. Nel più assoluto riserbo, abbiamo fornito alla Macchina i dati originari riguardanti la produzione dell'acciaio, le risposte che ci aveva fornito in precedenza e le risultanze di questa decisione, vale a dire i dati della sovrapproduzione. E abbiamo chiesto come mai si fosse verificata la discrepanza.

― Bene, qual è stato il responso?

― Glielo cito testualmente: “La faccenda non ammette spiegazioni”.

― E Vincent come ha interpretato questa frase?

― In due modi. O non abbiamo fornito alla Macchina informazioni sufficienti per farle dare una risposta precisa, cosa che lo stesso Silver ha ritenuto improbabile, oppure la Macchina non ha potuto rispondere perché i dati implicavano un danno per un essere umano. Questo ha a che fare con la Prima Legge, così il dottor Silver mi ha consigliato di rivolgermi a lei.

Susan Calvin appariva molto stanca. ― Sono vecchia, Stephen. Molti anni fa volevano nominarmi direttore delle ricerche, ma io rifiutai. Non ero giovane nemmeno allora e non volevo assumermi quella responsabilità. Così nominarono Silver al posto mio e io ne fui felice. Ma non è servito a niente se poi mi coinvolgete in questo pasticcio. Stephen, mi lasci chiarire la mia posizione. Le mie ricerche riguardano l'interpretazione del comportamento dei robot alla luce delle Tre Leggi della Robotica. Adesso abbiamo a che fare con queste incredibili macchine calcolatrici. Sono dei robot positronici e quindi obbediscono alle Leggi della Robotica. Ma mancano di personalità, cioè le loro funzioni sono estremamente limitate. Del resto non potrebbe essere altrimenti, dato che sono così specializzate. Per questo motivo le Leggi hanno poco spazio per interagire, e il mio metodo d'indagine è praticamente inutile. In breve, non so se posso aiutarla, Stephen.

Il Coordinatore rise brevemente. ― Ma mi lasci ugualmente raccontare il resto. Mi permetta di esporle le mie teorie, così potrà dirmi se sono plausibili da un punto di vista robopsicologico.

― Ma certo, dica pure.

― Dunque, dal momento che le Macchine stanno fornendo risposte sbagliate, e dando per scontato che non possono commettere errori, resta una sola possibilità: sono errati i dati! In altre parole, si tratterebbe di un problema umano e non robotico. Così di recente ho compiuto un giro planetario di ispezione...

― Ed è tornato a New York.

― Sì. Vede, ho ritenuto necessario farlo perché esistono quattro Macchine che gestiscono le quattro Regioni Planetarie. E tutt'e quattro stanno fornendo risultati sbagliati.

― Be', è normale, Stephen. Se una qualsiasi delle Macchine funziona male, questo influisce negativamente sul lavoro delle altre tre perché ciascuna Macchina elabora i dati che le servono per prendere le decisioni dando per scontato il perfetto funzionamento della quarta, che invece non funziona alla perfezione. Essendo falsa la premessa, diventano false anche le conclusioni.

― Uhm, uhm. Anch'io ho pensato la stessa cosa. Ho qui con me le registrazioni dei colloqui che ho avuto con i quattro Vice-coordinatori regionali. Le dispiacerebbe esaminarle con me? Ah, un'altra cosa. Ha mai sentito parlare della Società Umanista?

― Sì, certo. È nata da una costola del movimento fondamentalista che per tanto tempo ha impedito alla U.S. Robots di diffondere l'uso dei robot positronici con la scusa che avrebbero fatto concorrenza sleale agli uomini. La Società Umanista è contro le Macchine, vero?

― Sì, sì, ma... Be', vedrà da sola. È pronta? Cominciamo dalla Regione Orientale.

― Come vuole.

 

Regione Orientale

A) Superficie: 19.000.000 di chilometri quadrati

B) Popolazione: 1.700.000.000

C) Capitale: Shanghai

 

Il bisnonno di Ching Hso-lin era stato ucciso durante l'invasione giapponese dell'antica Repubblica Cinese e nessuno aveva pianto la sua morte né si era accorto che fosse morto tranne i suoi affezionati figli. Il nonno di Ching Hso-lin era sopravvissuto alla guerra civile scoppiata alla fine degli anni Quaranta, ma nessuno tranne i suoi affezionati figli aveva fatto caso a questo particolare.

E adesso Ching Hso-lin era un Vice-coordinatore regionale, e al suo lavoro era affidato il benessere economico di metà popolazione della Terra.

Forse proprio per questa consapevolezza Ching aveva, come unico ornamento del suo ufficio, due carte geografiche murali. Una, antichissima e disegnata a mano, rappresentava uno o due acri di terra con annotazioni scritte con vecchi ideogrammi cinesi ormai in disuso. Un piccolo ruscello scorreva di sghimbescio tra le indicazioni sbiadite, e sulle sue rive erano tracciate le lievi sagome di umili capanne, in una delle quali era nato il nonno di Ching.

L'altra mappa era enorme, dai contorni netti e le indicazioni in caratteri cirillici molto nitidi. La linea rossa che indicava il confine della Regione Orientale racchiudeva i paesi che un tempo erano stati la Cina, l'India, la Birmania, l'Indocina e l'Indonesia. Nella vecchia provincia di Szechuan, Ching aveva contrassegnato con una crocetta a malapena visibile la zona in cui un tempo era sorta la fattoria dei suoi antenati.

Ching era in piedi davanti alle due carte. A Stephen Byerley disse in un inglese perfetto: ― Nessuno meglio di lei, signor Coordinatore, sa che il mio lavoro ha il carattere di una sinecura. La mia posizione mi garantisce un certo prestigio sociale e io rappresento un utile punto di riferimento per l'amministrazione, ma per il resto è la Macchina a occuparsi di tutto. Per esempio, che cosa pensa dell'impianto idroponico di Tientsin?

― Uno stabilimento fantastico ― disse Byerley.

 

― Ed è solo uno dei tanti, e nemmeno il più grande. Ce ne sono a Shanghai, Calcutta, Batavia, Bangkok. Sono sparsi un po' dappertutto e coprono il fabbisogno dei circa due miliardi di abitanti della Regione Orientale.

― Tuttavia a Tientsin licenziano personale. È possibile che si sia verificato un eccesso di produzione? È assurdo pensare che in Asia il problema sia l'eccesso di prodotti alimentari.

Ching strinse leggermente gli occhi neri. ― No, non siamo ancora arrivati a questo punto. È vero che negli ultimi mesi a Tientsin si sono dovute chiudere diverse vasche, ma non si tratta di una cosa grave. I licenziamenti sono soltanto temporanei, e le persone che desideravano continuare a lavorare in altri settori sono state trasferite a Colombo, nello Sri Lanka, dove stanno per aprire un nuovo impianto .

― Ma perché si sono dovute chiudere le vasche?

Ching sorrise amabilmente. ― A quanto vedo, lei non s'intende molto di idroponica. Be', non ne sono sorpreso. Lei è un settentrionale, e nel Nord l'agricoltura rende ancora bene. Dalle sue parti l'opinione corrente, almeno tra quei pochi che se ne interessano, è che l'idroponica sia un sistema per far crescere rape in una soluzione chimica, il che è in parte vero, anche se la faccenda è di gran lunga più complessa. Innanzitutto il raccolto più consistente è quello del lievito, e la percentuale è in aumento. Produciamo circa duemila varietà di lievito e ogni mese se ne aggiungono delle nuove. I costituenti chimici di base dei lieviti sono, tra i composti inorganici, nitrati e fosfati; a questi si aggiungono tracce di metalli e frazioni di milionesimo di boro e molibdeno. Per quanto riguarda la materia organica, essa consiste soprattutto di miscele di zuccheri derivate dall'idrolisi della cellulosa, ma in più vanno aggiunti altri fattori nutritivi. Per avere un'industria idroponica efficiente che possa garantire cibo a un miliardo e settecento milioni di persone, dobbiamo impegnarci in un programma di riforestazione che coinvolga tutto l'oriente e utilizzare enormi impianti di trasformazione del legno delle nostre giungle meridionali, ma soprattutto ci servono energia, acciaio e sostanze chimiche di sintesi.

― Perché le sostanze chimiche di sintesi?

― Perché ciascuna di queste varietà di lievito presenta le sue particolari proprietà, signor Byerley. Come le ho detto, abbiamo messo a punto duemila varietà. La bistecca che oggi lei crede di aver mangiato era lievito. La mousse di frutta che ha preso come dessert era lievito ghiacciato. Abbiamo filtrato il succo del lievito e gli abbiamo dato il sapore, l'aspetto e il valore nutritivo del latte. Dal momento che è soprattutto il gusto a rendere popolare il lievito tra la gente, abbiamo coltivato varietà artificiali che non possono più crescere con una dieta base di sali e zucchero. Una necessita della biotina, un'altra ha bisogno dell'acido folico, altre ancora di 17 amminoacidi diversi e di tutto il complesso della vitamina B, ma è una varietà che piace molto alla gente e che quindi non possiamo abbandonare per motivi economici...

― Perché mi sta spiegando tutto questo? ― lo interruppe Byerley, muovendosi nervosamente sulla sedia.

― Signore, lei mi ha chiesto il motivo dei licenziamenti a Tientsin. Devo spiegarle altre cose. Non solo dobbiamo dare al nostro lievito queste sostanze nutritive, ma più passa il tempo più è necessario tenere conto dei gusti della gente, quindi dobbiamo mettere a punto altre varietà che soddisfino questi gusti. Ed è la Macchina che effettua queste "previsioni di mercato" per...

― Ma la Macchina sta sbagliando le previsioni...

― Tenuto conto di tutti i complessi fattori che ci sono in ballo, non me la sento di dire che la Macchina stia sbagliando clamorosamente. Sì, alcune migliaia di lavoratori dell'impianto di Tientsin sono state licenziate, è vero. Però tenga presente che l'anno scorso c'è stato uno spreco di un decimo dell'uno per cento del nostro fatturato, e per spreco intendo l'insufficienza della domanda rispetto all'offerta. Ritengo che...

― Però nei primi anni di impiego della Macchina questo spreco era di un millesimo dell'uno per cento.

― Oh, certo, ma durante il primo decennio di funzionamento della Macchina, l'abbiamo utilizzata per aumentare di venti volte la produzione che ottenevamo prima del suo avvento. Le imperfezioni aumentano di pari passo con le complicazioni, anche se...

― Anche se?

― C'è uno strano episodio che ha visto protagonista Rama Vrasayana.

― Che cos'è successo?

― Vrasayana era il responsabile dell'impianto di evaporazione dell'acqua salmastra necessaria per produrre lo iodio, di cui il lievito potrebbe fare a meno, ma gli esseri umani no. Bene, l'impianto da lui diretto è stato messo in curatela fallimentare.

― Davvero? E come mai?

― Che ci creda o no, per via della concorrenza. In generale possiamo dire che una delle funzioni principali delle analisi della Macchina è di indicare la dislocazione più efficiente dei nostri impianti di produzione. È ovviamente uno sbaglio aprire uno stabilimento in una zona servita male, perché in questo caso i costi di trasporto farebbero lievitare le spese di gestione. E per il motivo opposto, è un errore che vi siano troppe fabbriche nella stessa zona, perché dovrebbero funzionare a capacità ridotta o farsi inutilmente concorrenza. Nel caso di Vrasayana, è stato costruito un altro stabilimento nella stessa città dotato di un sistema di estrazione più efficace.

― E la Macchina lo ha permesso?

― Oh, certo. Non c'è da stupirsene. Il nuovo sistema si sta diffondendo. La domanda da porsi è questa: come mai la Macchina non ha consigliato Vrasayana di rinnovare l'impianto o di associarsi a qualche altra azienda? Comunque le conseguenze per lui non sono state gravi. Vrasayana ha accettato un posto da ingegnere nel nuovo impianto, e malgrado il suo lavoro sia peggio retribuito e la sua responsabilità minore, non ne ha sofferto. Gli operai hanno trovato facilmente nuovi posti di lavoro; il vecchio stabilimento è stato trasformato in... non lo so con precisione, ma sicuramente in qualcosa di utile. Ha deciso tutto la Macchina.

― Non è successo altro?

― No.

 

Regione Tropicale

A) Superficie: 55.000.000 di chilometri quadrati

B) Popolazione: 500.000.000

C) Capitale: Capital City

 

La carta geografica nell'ufficio di Lincoln Ngoma non era certo precisa come quella di Ching a Shanghai. I confini della Regione Tropicale erano tracciati con una linea spessa, di colore marrone scuro, che abbracciava meravigliose zone interne chiamate "giungla", "deserto" oppure "qui ci sono elefanti e altre bestie strane di tutti i tipi".

E quella linea di confine aveva molto da abbracciare, perché la Regione Tropicale comprendeva quasi due continenti: tutto il Sudamerica a nord dell'Argentina e tutta l'Africa a sud dei Monti dell'Atlante. Includeva anche il Nordamerica a sud del Rio Grande, e persino l'Arabia e l'Iran. Era il contrario della Regione Orientale. Se in Oriente il formicaio umano, quasi la metà della popolazione mondiale, viveva in una zona che rappresentava il 15 per cento delle terre emerse, i Tropici ospitavano il 15 per cento della popolazione mondiale in un'area che era quasi la metà delle terre emerse.

Ma il tasso di crescita demografica era in aumento. La Regione Tropicale era l'unica in cui l'incremento della popolazione dovuto ai processi migratori superava quello dovuto alle nascite. E gli immigrati sapevano il fatto loro.

Agli occhi di Ngoma, Stephen Byerley appariva come uno di quegli immigrati, un ricercatore viso pallido impegnato nel creativo lavoro di trasformare un ambiente selvaggio in un posto confortevole per l'uomo. E provava per lui quel disprezzo istintivo che nutrivano gli uomini forti temprati dai Tropici verso gli sfortunati visi pallidi provenienti dalle zone dove il sole era più freddo.

La Regione Tropicale aveva la capitale più nuova della Terra, ed era stata chiamata semplicemente Capital City per una sorta di sublime fiducia nella gioventù. La città sorgeva sui fertili altipiani della Nigeria e le finestre dell'ufficio di Ngoma offrivano la vista di una vita allegra e piena di colore. Un momento il sole era luminosissimo e il momento successivo scoppiavano violenti e brevi temporali. Persino il canto degli uccelli multicolori era allegro, e le stelle sembravano capocchie di spillo nel cielo terso della notte.

Ngoma si mise a ridere. Era un robusto uomo di colore, dai bei lineamenti marcati.

― Certo, l'apertura del Canale Messicano è in ritardo ― disse, in un inglese colloquiale e roboante. ― Che diavolo importa? Prima o poi verrà aperto, amico.

― Ma sei mesi fa sembrava che i lavori fossero agli sgoccioli.

Ngoma fissò Byerley, staccò lentamente con i denti la punta del sigaro, la sputò e accese il sigaro. ― Byerley, sta conducendo un'indagine ufficiale? Cosa succede?

― Niente. Proprio niente. È solo la mia funzione di Coordinatore che mi rende curioso.

― Allora se è venuto qui per riempire un momento di noia, le dico che siamo sempre a corto di manodopera. Qui nella Regione Tropicale ci sono moltissimi lavori in corso. Il Canale è solo uno dei tanti e...

― Ma la Macchina non aveva previsto quanta manodopera occorreva per il Canale, pur tenendo conto degli altri progetti?

Ngoma si mise una mano sulla nuca e sbuffò anelli di fumo verso il soffitto. ― Era un po' fuori fase.

― Capita spesso?

― Non più spesso del previsto. Non ci aspettiamo grandi cose dalla Macchina, Byerley. Immettiamo i dati, leggiamo i risultati e facciamo quello che ci dice di fare. Ma si tratta soltanto di una comodità, un'apparecchiatura che ci serve a risparmiare fatica. Potremmo farne anche a meno, se fossimo costretti. Forse non ce la caveremmo altrettanto bene, ma svolgeremmo il nostro lavoro. Qui siamo molto fiduciosi, Byerley, ed è questo il nostro segreto. Fiducia! Abbiamo nuove terre che ci aspettano da migliaia di anni, e le abbiamo fatte aspettare perché il resto del mondo era lacerato dai luridi giochi di potere dell'era preatomica. Noi non dobbiamo mangiare lievito come gli orientali, e non dobbiamo preoccuparci come voi settentrionali dei rigurgiti ideologici del secolo scorso. Abbiamo eliminato la mosca tze-tze e la zanzara anofele, e la gente ha scoperto di poter vivere alla luce del sole, e lo fa volentieri. Abbiamo disboscato le foreste e ottenuto terreno fertile, abbiamo irrigato i deserti trasformandoli in giardini. Abbiamo giacimenti di carbone e di petrolio ancora intatti, per non parlare degli altri minerali. Al resto del mondo non chiediamo altro che di lasciarci in pace. Lasciarci in pace e farci lavorare.

― Ma il Canale doveva essere inaugurato sei mesi fa ― disse Byerley, prosaicamente. ― Cos'è successo?

Ngoma allargò le braccia. ― Problemi di manodopera. ― Cercò qualcosa tra i fogli ammassati sulla sua scrivania e lasciò subito perdere. ― Qui ho qualcosa sulla faccenda, comunque non importa. Sono ugualmente in grado di dirle che da qualche parte in Messico c'è stata un'improvvisa carenza di manodopera per la questione delle donne. Non c'erano abbastanza donne nella zona. Sembra che nessuno avesse pensato di fornire alla Macchina dati riguardanti il sesso.

Si mise a ridere divertito, poi si fece di nuovo serio. ― Ah, un momento. Credo di aver capito... Villafranca!

― Villafranca?

― Francisco Villafranca. Era l'ingegnere responsabile. Adesso le spiego. Vi fu un incidente, un crollo, credo. Sì, sì, un crollo. Non vi furono vittime, se ben ricordo, ma scoppiò un gran casino. Uno scandalo in piena regola.

― Davvero?

― Sì. Villafranca aveva commesso un errore di calcolo, almeno così disse la Macchina. Immisero nella Macchina i dati, le ipotesi e tutto il resto su cui Villafranca si era basato per dare il via a quell'operazione. Be', la risposta fu diversa dalla prima. Sembra che i dati sui quali Villafranca aveva lavorato non contemplassero gli effetti dei temporali sugli argini del canale, o qualcosa del genere. Non sono un ingegnere. Comunque Villafranca fece il diavolo a quattro. Affermò che la Macchina aveva dato due risposte differenti e che lui aveva seguito fedelmente le istruzioni. Poi si licenziò. Noi cercammo di dissuaderlo, in fondo si era sempre dimostrato un lavoratore zelante, però gli offrimmo un lavoro di minore responsabilità, non potevamo fare diversamente, perché chi sbaglia deve pur pagare, altrimenti per la disciplina sono guai... dov'ero rimasto?

― Gli offriste un altro lavoro.

― Oh, sì. Lui non lo volle accettare. Così, tra una cosa e l'altra, siamo in ritardo di due mesi. Che vuole che siano, due mesi.

Byerley distese un braccio e tamburellò le dita sul ripiano della scrivania. ― Villafranca ha dato la colpa alla Macchina, giusto?

― Be', non poteva mica ammettere che era stato lui, non le sembra? Diciamocelo francamente: conosciamo bene la natura umana. Inoltre, adesso mi viene in mente anche un'altra cosa... Perché diavolo non riesco mai a trovare i documenti quando mi servono? Il mio classificatore non vale un cavolo. Questo Villafranca era membro di una di quelle organizzazioni che avete voi al Nord. Il Messico è troppo vicino alla Regione Settentrionale, è questo il guaio.

― A quale organizzazione si riferisce?

― La chiamano Società Umanista. Villafranca partecipava sempre al convegno annuale che tengono a New York. Sono un branco di idioti, ma sono inoffensivi. Ce l'hanno con le Macchine, che secondo loro distruggerebbero l'iniziativa degli uomini. Quindi è logico che Villafranca abbia dato la colpa alla Macchina. Io non riesco proprio a capire quell'organizzazione. Forse Capital City dimostra che la razza umana è rimasta a secco di iniziativa?

E Capital City era una distesa dorata baciata da un sole dorato, l'ultima e più giovane creazione dell'Homo Metropolitanus.

 

Regione Europea

A) Superficie: 10.000.000 di chilometri quadrati

B) Popolazione: 300.000.000

C) Capitale: Ginevra

 

La Regione Europea era anomala sotto molti punti di vista. La sua superficie era di gran lunga la più piccola, un quinto circa della Regione Tropicale, e la popolazione era meno di un quinto di quella della Regione Orientale. Geograficamente, era ben poco simile all'Europa dell'era preatomica, in quanto non comprendeva quelle che un tempo erano state la Russia europea e le Isole Britanniche, mentre includeva le coste mediterranee dell'Africa e dell'Asia e, con un curioso salto oltre l'Atlantico, l'Argentina, il Cile e l'Uruguay.

Non era neanche probabile che la Regione migliorasse le sue condizioni rispetto alle altre zone della Terra, dato che l'unico vigore le era infuso dalle province sudamericane. Era la sola in cui nell'ultimo mezzo secolo si fosse registrato un netto calo demografico, la sola che non avesse sensibilmente ingrandito i propri impianti parallelamente allo slancio nuovo alla cultura umana.

― L'Europa è essenzialmente un'appendice economica della Regione Settentrionale ― disse Madame Szegeczowska nel suo francese melodico. ― Ce ne rendiamo conto benissimo e non ce ne importa nulla.

E quasi fosse un segno dell'accettazione rassegnata di quella mancanza di individualità, non c'erano carte geografiche dell'Europa alle pareti dell'ufficio della Vice-coordinatrice.

― Tuttavia ― osservò il Coordinatore ― avete una Macchina a vostra disposizione e nessuno da oltreoceano esercita pressioni economiche su di voi.

― Una Macchina. Bah! ― La donna scrollò le sue spalle minute e accennò un sorriso mentre con le sue dita affusolate batteva una sigaretta sul pacchetto. ― L'Europa è un posto sonnolento. E lo sono anche gli uomini che non riescono a emigrare ai Tropici... gente stanca e sonnolenta. Può vedere lei stesso che è toccato a me, una povera donna, l'incarico di Vice-coordinatrice. Be', per fortuna non è un lavoro difficile. Da me non ci si aspetta molto. Quanto alla Macchina... sa solo dire: “Fate questo e vedrete che vi converrà”. E cos'è che ci conviene? Essere un'appendice economica della Regione Settentrionale. Ma è una situazione poi così terribile? Non ci sono guerre. Viviamo in pace, e dopo settemila anni di conflitti non si tratta di una cosa di poco conto. Siamo vecchi, monsieur. I nostri confini comprendono le regioni che sono state la culla della civiltà occidentale. Egitto e Mesopotamia, Creta e Siria, Asia Minore e Grecia. Ma non è detto che la vecchiaia sia un'età infelice. Può comportare dei vantaggi...

― Forse ha ragione ― le disse affabilmente Byerley. ― Se non altro il ritmo della vita non è così frenetico come nelle altre Regioni. Qui l'atmosfera è piacevole.

― Davvero? Ecco che ci servono il tè, monsieur. Le dispiace dire quanta panna e quanto zucchero vuole? Grazie.

Madame Szegeczowska sorseggiò il tè, poi aggiunse: ― Sì, è piacevole. Il resto della Terra continui pure con le sue lotte. A questo proposito mi viene in mente un parallelo molto interessante. Ci fu un periodo in cui Roma era padrona del mondo. Aveva adottato la cultura e la civiltà della Grecia, una Grecia che non era mai stata unita, che si era rovinata con le guerre e che aveva conosciuto uno squallore decadente. Roma la unì, impose la pace e le lasciò vivere una tranquilla vita priva di gloria. La Grecia poté occuparsi della sua filosofia e della sua arte, lontano dal clangore delle guerre espansionistiche. Fu una sorta di morte, ma una morte tranquilla, che durò quasi ininterrottamente per circa quattro secoli.

― Però alla fine anche Roma cadde, e quel sonno drogato finì ― disse Byerley.

― Non ci sono più barbari che possano sconvolgere la civiltà.

― Potremmo diventare i barbari di noi stessi, Madame Szegeczowska. Ah, stavo dimenticando di chiederle una cosa. Le miniere di mercurio di Almaden hanno subito un ingente calo di produzione. Non credo che i giacimenti si stiano esaurendo prima del previsto...

Gli occhi freddi della donna minuta fissarono Byerley, sagaci. ― I barbari... il crollo di una civiltà... il possibile errore della Macchina. La sua associazione di idee è lampante, monsieur.

― Davvero? ― Byerley sorrise. ― Le donne sono molto più sensibili degli uomini, e finora ho parlato soltanto con uomini. Crede che il problema di Almaden sia da attribuire a un errore della Macchina?

― Io no, affatto, ma lei sì, mi sembra. Lei è nato nella Regione Settentrionale. L'Ufficio Centrale di Coordinamento ha sede a New York. E da un po' di tempo ho notato che voi settentrionali mancate in qualche modo di fiducia nella Macchina.

― Ah, sì?

― La Società Umanista è forte nel Nord, ma naturalmente non riesce a fare proseliti nella stanca, vecchia Europa, che ha una gran voglia di lasciare in pace la povera Umanità. Sono certa che lei è figlio di quel Nord tanto sicuro di sé, e non di questo vecchio continente cinico.

― Questo ha qualcosa a che vedere con Almaden?

― Oh, credo di sì. Le miniere sono controllate dalla Consolidated Cinnabar, una compagnia del Nord con sede a Nikolaev. Personalmente ho il dubbio che il consiglio di amministrazione non abbia consultato la Macchina. Loro hanno detto di averlo fatto durante l'incontro che abbiamo avuto il mese scorso, e noi naturalmente non abbiamo prove che possano dimostrare il contrario, ma in questa materia non mi fiderei mai di un settentrionale, sia detto senza offesa, naturalmente. Tuttavia penso che tutto si risolverà in modo positivo.

― In che senso, mia cara signora?

― Deve capire che le irregolarità dell'economia verificatesi negli ultimi mesi, sebbene minime se raffrontate alle burrasche del passato, hanno turbato il nostro spirito pacifico, e hanno provocato una certa inquietudine nella provincia spagnola. Ho saputo che la Consolidated Cinnabar sta svendendo l'azienda a un gruppo spagnolo. È un fatto consolante. D'accordo, siamo vassalli del Nord, ma sarebbe pur sempre umiliante che alla cosa si desse un'eccessiva pubblicità. E credo che ci si possa fidare maggiormente degli europei per seguire la Macchina.

― Quindi ritiene che non ci saranno più problemi?

― Sono sicura di no. Almeno non ad Almaden.

 

 

Regione Settentrionale

A) Superficie: 45.000.000 di chilometri quadrati

B) Popolazione: 800.000.000

C) Capitale: Ottawa

 

La Regione Settentrionale era in molti sensi al vertice. Questo fatto era esemplificato chiaramente dalla carta geografica dell'ufficio di Ottawa del Vice-coordinatore Hiram Mackenzie. Al centro della mappa c'era il Polo Nord; fatta eccezione per l'enclave europea con le sue regioni scandinave e islandesi, tutto l'Artico faceva parte della Regione Settentrionale.

Grosso modo, la Regione si poteva dividere in due blocchi principali. Sulla parte sinistra della carta c'era tutto il Nordamerica al di sopra del Rio Grande. Sulla destra c'era tutto il territorio che un tempo aveva costituito l'Unione Sovietica. Nei primi anni dell'era atomica in quei due blocchi erano concentrate le maggiori potenze del pianeta. Tra esse c'era la Gran Bretagna, una sorta di lingua della Regione che leccava l'Europa. Nella parte superiore della mappa, due enormi sagome dai contorni distorti: l'Australia e la Nuova Zelanda.

I cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni non avevano scalzato il Nord dal suo ruolo di sovrano dell'economia del pianeta.

Era quindi simbolico che tra tutte le carte regionali che Byerley aveva visto, solo quella dell'ufficio di Mackenzie mostrasse tutta la Terra, come se il Nord non temesse concorrenti e non avesse bisogno di protezionismi per decretare la propria superiorità.

― Impossibile ― disse seccamente Mackenzie, da sopra il bordo del bicchiere di whisky. ― Immagino che lei non sia esperto di robot, signor Byerley.

― Infatti.

― Uhm. Be', ritengo che sia un guaio che nemmeno Ching, Ngoma e la Szegeczowska siano ferrati in materia. È troppo diffusa la convinzione tra gli abitanti della Terra che un Coordinatore debba essere soltanto un organizzatore capace, un esperto di problemi generali e una persona amabile. Credo che di questi tempi debba anche intendersi di robotica. Senza offesa, naturalmente.

― Ma certo. Sono d'accordo con lei.

― Da quanto mi ha detto intuisco per esempio che i piccoli squilibri nell'economia mondiale la preoccupano. Non so che idea si sia fatto, ma è già successo in passato che qualcuno si sia chiesto cosa sarebbe successo se nella Macchina fossero stati immessi dati errati. E si trattava di persone che non avrebbero dovuto avere problemi a capirlo.

― E che cosa succederebbe, signor Mackenzie?

Lo scozzese cambiò posizione sulla sedia. ― Be', tutti i dati raccolti vengono sottoposti a un complesso sistema di controllo sia umano sia meccanico che rende altamente improbabile la possibilità di errori. Ma facciamo finta che accada il contrario. Gli uomini non sono infallibili, si fanno corrompere, e i congegni meccanici sono soggetti ad avarie. Il punto essenziale della faccenda è che quello che noi definiamo 'dato errato' è un dato incompatibile con tutti gli altri a nostra disposizione. È l'unico criterio che abbiamo per stabilire se l'informazione è giusta o sbagliata, ed è anche l'unico criterio a disposizione della Macchina. Supponiamo di ordinare alla Macchina di pianificare l'attività agricola dello Iowa sulla base di una temperatura media, a luglio, di 13 gradi centigradi. La Macchina non ci darebbe alcuna risposta. Non che abbia un particolare pregiudizio contro quella temperatura, né la risposta sarebbe impossibile; la risposta non arriverebbe perché, alla luce delle altre informazioni passatele nel corso degli anni, la Macchina sa che la probabilità che a luglio ci sia una temperatura di 13 gradi è praticamente nulla. Respingerebbe quel dato. L'unico modo di farle accettare un 'dato errato' sarebbe di immetterlo come parte di un insieme coerente, un insieme errato in maniera troppo impercettibile per essere notato dalla Macchina, oppure in maniera tale da esulare la sua esperienza. Il primo modo di farle accettare un dato errato è umanamente impossibile, e anche il secondo, o quasi. E lo diventa sempre più di secondo in secondo, a mano mano che l'esperienza della Macchina aumenta.

Stephen Byerley appoggiò due dita alla base del naso. ― Quindi la Macchina non può essere manomessa. E allora come spiega i recenti sbagli?

― Mio caro signor Byerley, vedo che anche lei commette l'errore macroscopico di ritenere la Macchina onnisciente. Lasci che le citi un esempio che riguarda la mia esperienza diretta. L'industria cotoniera ingaggia compratori esperti che devono scegliere il cotone da acquistare. Questi compratori prendono un fiocco di cotone da una balla a caso. Lo esaminano, lo sentono al tatto, lo scompongono e magari cercano di sentirne l'impercettibile fruscio, e infine lo toccano con la lingua. Grazie a questa procedura stabiliscono il tipo di cotone della balla. In base alla loro decisione si acquista a un certo prezzo e si determina la quantità di cotone da utilizzare per un determinato tessuto misto. Ebbene, questi compratori non possono essere ancora sostituiti dalle Macchine.

― Perché no? Non credo proprio che i dati relativi a questa operazione siano troppo complicati per la Macchina.

― Probabilmente no. Ma quali dati bisognerebbe immettere? Non esistono chimici tessili capaci di sapere che cosa esamini un compratore quando tasta un fiocco di cotone. Probabilmente controlla la lunghezza media dei fili la loro consistenza, la loro morbidezza, il modo in cui aderiscono l'uno all'altro e così via. Anni e anni di esperienza lo portano a soppesare inconsciamente diverse decine di fattori. Ma la natura quantitativa di queste analisi non si conosce, e in qualche caso non se ne conosce nemmeno la natura qualitativa. Quindi non abbiamo nessun dato da fornire alla Macchina. I compratori non sanno spiegare su che cosa basano il loro giudizio. Possono arrivare a dire: “Be', guarda questo cotone. Non vedi che è del tipo eccetera eccetera?”

― Capisco.

― E di casi del genere ne esistono tantissimi. La Macchina è uno strumento, dopo tutto, che può solo aiutare l'umanità a progredire più in fretta facendosi carico di effettuare i calcoli e le operazioni più faticose. Il ruolo del cervello umano non è cambiato: scopre nuovi dati da analizzare, concepisce nuove idee da mettere in pratica. Peccato che la Società Umanista si ostini a non capirlo.

― Sono contro le Macchine?

― Se fossero vissuti in altre epoche, sarebbero stati contro la matematica e la letteratura. Questi reazionari affermano che le Macchine rubano l'anima all'uomo. Ma a me sembra che gli uomini capaci siano sempre più richiesti; noi abbiamo ancora bisogno di uomini abbastanza intelligenti da capire quali sono le domande giuste da fare alle Macchine. Se riuscissimo a trovarne di più, gli squilibri di cui lei si lamenta, Coordinatore, non si verificherebbero.

 

Terra (compresa l'Antartide, disabitata)

A) Superficie: 142.000.000 di chilometri quadrati

B) Popolazione: 3.300.000.000

C) Capitale: New York

 

Il fuoco dietro la lastra di quarzo era quasi ridotto a un mucchio di brace, ma crepitava ancora quasi non volesse arrendersi alla morte.

Il Coordinatore aveva un'espressione tetra che si accordava al fuoco morente.

― Tendono tutti a minimizzare la situazione ― disse con un filo di voce. ― Non le sembra che mi considerino ridicolo? Tuttavia... Vincent Silver dice che le Macchine non possono avere difetti di funzionamento, e gli devo credere. Hiram Mackenzie afferma che è impossibile immettere dati errati, e devo credergli. Ma resta il fatto che le Macchine stanno in qualche modo sbagliando, e io devo credere anche a questo. Quindi resta soltanto un'ipotesi.

Lanciò un'occhiata di sguincio a Susan Calvin che teneva gli occhi chiusi come se stesse dormendo.

― Quale? ― fu tuttavia pronta a chiedere.

― I dati immessi sono esatti così come sono esatte le risposte date dalle Macchine. Ma queste risposte vengono ignorate. La Macchina non può in nessun modo costringere gli uomini a seguire le sue indicazioni.

― Mi sembra che madame Szegeczowska abbia accennato a tale ipotesi parlando dei settentrionali.

― Sì, è vero.

― Ma perché gli uomini dovrebbero disubbidire alle Macchine? Riflettiamo sui possibili motivi.

― A me appare ovvio, e dovrebbe essere ovvio anche per lei. Stanno cercando di scuotere la barca per farla rovesciare. Finché saranno le Macchine ad amministrarci, sulla Terra non ci saranno conflitti di tale ampiezza da consentire all'uno o all'altro gruppo di ottenere più potere anche a costo di arrecare danno all'Umanità. Se si distrugge la fiducia che la gente nutre nelle Macchine fino al punto da costringerla a farne a meno, tornerebbe a regnare la legge della giungla. E nessuna delle quattro Regioni può essere scartata se vogliamo cercare il responsabile. La popolazione dell'Est rappresenta la metà di quella mondiale, mentre i Tropici dispongono di più della metà delle riserve della Terra. Entrambe le Regioni potrebbero considerarsi le dominatrici della Terra, ed entrambe hanno sofferto un lungo periodo storico di vessazioni da parte del Nord, quindi potrebbe essere normale che desiderino vendicarsi anche in modo insensato. L'Europa ha una grande tradizione alle spalle. Un tempo dominava davvero la Terra, e nessun ricordo è più indelebile di quello del potere. Però, se considerata da un altro punto di vista, quest'ipotesi è difficile da accettare. Sia all'Est sia ai Tropici si sta verificando una vertiginosa espansione interna. Non possono permettersi di sprecare energie in avventure militari. E l'Europa può soltanto coltivare i suoi sogni, visto che dal punto di vista militare non conta nulla.

― Quindi lei lascia in ballo soltanto il Nord, Stephen ― disse Susan Calvin.

― Sì ― ammise Byerley con foga. ― Adesso il Nord è il più forte, o meglio lo sono da quasi un secolo alcuni dei paesi che lo compongono. Ma adesso sta perdendo relativamente terreno. Per la prima volta dall'epoca dei faraoni, la Regione Tropicale potrebbe assumere il ruolo di guida della civiltà, e ci sono alcuni settentrionali che hanno paura di questa eventualità. La Società Umanista è principalmente un'organizzazione del Nord che non cerca di nascondere la sua ostilità verso le Macchine. Susan, è un'organizzazione che conta pochi militanti ma quei pochi sono uomini potenti. Direttori d'azienda, dirigenti di fabbriche e di gruppi agricoli che detestano essere, come dicono loro, 'i fattorini delle Macchine'. Sono personaggi molto ambiziosi, uomini che si sentono abbastanza forti da decidere quali sono i loro interessi e da considerare inaccettabile eseguire ordini nell'interesse della comunità. Per farla breve, si tratta di persone che, rifiutandosi in gruppo di accettare le decisioni delle Macchine, potrebbero ribaltare il mondo. Sono questi i personaggi che fanno parte della Società Umanista. Susan, i conti tornano. Cinque dei massimi dirigenti della World Steel ne fanno parte, e la World Steel ha registrato ultimamente una sovrapproduzione di acciaio. La Consolidated Cinnabar, che controllava le miniere di mercurio di Almaden, è una società settentrionale. I suoi registri non sono stati ancora controllati fino in fondo, ma siamo abbastanza sicuri che uno dei suoi dirigenti faccia parte della Società. Francisco Villafranca, che da solo è riuscito a ritardare di due mesi l'apertura del Canale Messicano, è un membro dell'organizzazione. E non mi sono affatto sorpreso quando ho scoperto che anche Rama Vrasayana ne fa parte.

Susan disse calma: ― Però questi uomini non hanno ottenuto granché...

― Ma è logico ― la interruppe Byerley. ― Non seguire le analisi delle Macchine equivale a scegliere procedure non ottimali. I risultati sono spesso più miseri del previsto. È il prezzo della loro disobbedienza. Adesso sono nell'occhio del ciclone, ma alla fine...

― E allora che cosa propone, Stephen?

― È ovvio che non c'è tempo da perdere. Farò bandire la Società Umanista e rimuoverò tutti i suoi membri da ogni incarico di responsabilità. E tutte le funzioni tecniche e dirigenziali saranno svolte da persone che dichiareranno di non appartenere agli umanisti. Mi rendo conto che si tratterà di un provvedimento restrittivo per le libertà civili del cittadino, ma sono certo che il Congresso...

― Non funzionerà.

― Che cosa? Perché no?

― Sono certa che se prenderà questo provvedimento, le metteranno i bastoni tra le ruote in ogni momento. Non potrà più fare niente.

Byerley sembrò preso in contropiede. ― Non capisco. Io speravo che lei avrebbe appoggiato il mio piano.

― Non posso appoggiare una decisione del genere quand'è ancora basata su false premesse. Lei ammette che le Macchine non possono sbagliare e che non possono accettare dati errati. Adesso le dimostrerò che alle Macchine non si può nemmeno disobbedire, accusa che lei rivolge agli umanisti.

― Non riesco proprio a capirla.

― Allora mi ascolti bene. Tutte le decisioni prese da un dirigente che non segue alla lettera le istruzioni della Macchina con cui lavora diventano automaticamente parte dei dati che vengono immessi per risolvere il problema successivo. Quindi la Macchina viene a sapere che un certo dirigente ha tendenze alla disubbidienza. Può incorporare questa tendenza nei dati, anche in modo quantitativo, cioè può valutare con precisione fino a che punto e in che modo la disubbidienza potrebbe ripetersi. Quindi la Macchina farebbe entrare in gioco anche questo fatto nel processo di valutazione che porta alla sua successiva risposta, quindi darebbe un'analisi alterata per aggirare l'ostacolo. Le Macchine sanno, Stephen.

― Di questo non può essere certa. La sua è soltanto un'ipotesi.

― È un'ipotesi basata sulla lunga esperienza che mi sono fatta lavorando con i robot. Le conviene fidarsi di questa ipotesi, Stephen.

― Ma allora che altro resta da fare? Le Macchine funzionano bene e le premesse sulle quali lavorano sono corrette. Su questo siamo d'accordo. Adesso mi dice che non è possibile disubbidire alle loro istruzioni. Allora che cosa c'è che non va?

― Ha risposto lei stesso. Non c'è proprio niente che non vada. Pensi un attimo alle Macchine, Stephen. Sono dei robot, e obbediscono alla Prima Legge. Ma non lavorano per un singolo bensì per tutta l'Umanità, per cui la Prima Legge diventa: 'Una Macchina non può recar danno all'Umanità, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, l'Umanità riceva danno'. Ora, Stephen, che cosa può recare danno all'Umanità? Soprattutto gli squilibri economici, di qualunque natura siano. Non è d'accordo?

― Sì.

― Molto bene. Adesso risponda a questa domanda, Stephen: quali sono le cause che potrebbero provocare in futuro i più gravi problemi economici?

― Direi la distruzione delle Macchine ― osservò Byerley, riluttante.

― Lo direi anch'io, e anche le Macchine direbbero la stessa cosa. Quindi si preoccupano di salvaguardare la loro esistenza, per il nostro bene. E lo stanno facendo in sordina eliminando quei pochi fattori che per loro rappresentano ancora una minaccia. Non è la Società Umanista che sta cercando di rovesciare la barca per distruggere le Macchine. Lei ha esaminato la situazione dalla prospettiva opposta. Sono le Macchine che stanno scuotendo la barca, molto delicatamente, per far mollare la presa a quelle persone che si aggrappano ai fianchi della barca per scopi che le Macchine giudicano nocivi per l'Umanità. Così Vrasayana ha perso l'incarico di direttore della fabbrica e ha ottenuto un altro incarico che non gli permette di nuocere a nessuno. Le Macchine possono recare piccoli danni agli esseri umani quando ciò serve a proteggere un gruppo più vasto di persone, e infatti Vrasayana ha subito un danno minimo visto che continua a guadagnarsi da vivere. La Consolidated Cinnabar ha perso il controllo delle miniere di Almaden. Villafranca non è più l'ingegnere responsabile di un progetto importante. E i direttori della World Steel stanno perdendo, o perderanno, il controllo della loro azienda.

― Ma lei continua a basarsi su un'ipotesi ― insistette Byerley. ― È un rischio partire dando per scontata la fondatezza di questa ipotesi.

― Ma è un rischio che deve correre. Si ricorda quel che ha detto la Macchina quando le ha sottoposto il problema? “La faccenda non ammette spiegazioni”. Non ha detto che non c'era una spiegazione, o che non poteva elaborarne una. Semplicemente che la spiegazione non era ammessa. In altre parole, l'Umanità avrebbe corso un pericolo se avesse conosciuto quella spiegazione, ed è per questo che possiamo soltanto formulare un'ipotesi e prenderla come base.

― Ma perché la spiegazione dovrebbe nuocere all'Umanità? Supposto che abbia ragione, naturalmente.

― Stephen, se ho ragione significa che le Macchine pianificano il nostro futuro non solo rispondendo alle domande che poniamo loro direttamente, ma rispondono alla domanda generale relativa alla situazione mondiale e alla psicologia umana. Se ci informassero di questa realtà, ci renderebbero infelici e ferirebbero il nostro orgoglio. E le Macchine non possono, non devono renderci infelici. Stephen, come facciamo a sapere qual è veramente il bene supremo dell'Umanità? Noi non abbiamo a disposizione i fattori infiniti che hanno le Macchine. Forse, per fare un esempio a noi noto, la nostra civiltà tecnologica ha creato più infelicità e angosce di quante non ne abbia eliminato. Forse una civiltà pastorale e contadina, meno acculturata e meno popolata, sarebbe migliore. In questo caso le Macchine dovrebbero muoversi in quella direzione, preferibilmente senza dircelo, dal momento che noi, nella nostra ignoranza piena di pregiudizi, accettiamo solo quello che conosciamo e di conseguenza ci opporremmo a un cambiamento radicale. O forse la risposta è l'urbanizzazione totale, o una società senza più classi, o l'anarchia più completa. Noi non lo sappiamo. Soltanto le Macchine lo sanno, e andranno in quella direzione portandoci con loro.

― Ma lei sta dicendo che la Società Umanista ha ragione, e che il genere umano non ha più voce in capitolo riguardo al proprio futuro.

― In realtà non l'ha mai avuta. È sempre stato alla mercé di forze economiche e sociali che non ha mai compreso, ha subito i disastri del clima e delle guerre. Adesso le Macchine capiscono quello che l'Umanità per tanto tempo non ha capito. Nessuno potrà fermarle, dal momento che gestiscono i fattori in gioco come questi ultimi hanno sempre gestito le vicende della Società Umana. E possono farlo perché hanno l'arma più potente di tutte: il controllo totale della nostra economia.

― È terribile.

― Forse è fantastico. Pensi che d'ora in poi tutti i conflitti saranno evitabili. Solo le Macchine saranno inevitabili.

E il fuoco dietro la lastra di quarzo si spense, lasciando al suo posto un pennacchio di fumo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


               INTUITO FEMMINILE

Per la prima volta nella storia della U.S. Robots and Mechanical Men Corporation, un robot aveva avuto un incidente sulla Terra ed era andato distrutto.

Non c'era nessuno a cui dare la colpa. Il veicolo aereo si era disintegrato in volo e un'incredula commissione inquirente stava disquisendo sull'opportunità di annunciare che, secondo le prove raccolte, era stato colpito da un meteorite. Nient'altro avrebbe potuto viaggiare a una velocità così elevata da neutralizzare il dispositivo di schivamento automatico del robot; e nient'altro avrebbe potuto provocare un danno di quel genere, se non un'esplosione atomica, il che era fuori discussione.

Se a questo si aggiungevano l'avvistamento di un lampo nel cielo notturno un attimo prima dell'esplosione del veicolo (l'avvistamento era stato effettuato dall'osservatorio di Flagstaff e non da un dilettante) e il ritrovamento di un pezzo di ferro di origine meteoritica conficcato di fresco nel terreno a un chilometro dal luogo dell'incidente, che altre conclusioni si potevano trarre?

Tuttavia era la prima volta che avveniva un fatto del genere, e il calcolo delle probabilità contrarie dava un risultato terribilmente alto. Però a volte capita che si verifichino colossali improbabilità.

Negli uffici della U.S. Robots, i come e i perché erano secondari. La cosa principale era che un robot era stato distrutto.

Il fatto era di per se stesso angoscioso.

Il fatto che JN-5 fosse un prototipo, il primo funzionante dopo quattro precedenti tentativi, era ancora più angoscioso.

Il fatto che JN-5 fosse un tipo di robot completamente nuovo e diverso dagli altri costruiti prima era abissalmente angoscioso.

Il fatto che JN-5 avesse apparentemente compiuto una cosa di capitale importanza prima di essere distrutto, e che il suo operato fosse andato perduto, rendeva l'angoscia indicibile.

Sembrava valesse sì e no la pena di menzionare che insieme al robot era morto il robopsicologo capo della U.S. Robots.

Clinton Madarian era entrato nell'azienda dieci anni prima. Per cinque anni aveva lavorato, senza mai lamentarsene, sotto l'arcigna supervisione di Susan Calvin.

La genialità di Madarian era evidente, e Susan Calvin lo aveva prontamente promosso scavalcando a piè pari i dirigenti anziani. Non si sarebbe comunque degnata di dare spiegazioni al direttore delle ricerche Peter Bogert, ma in quel caso le spiegazioni non erano servite. O meglio, erano state ovvie.

Madarian era l'esatto contrario della famosa dottoressa Calvin sotto molti punti di vista, tutti evidenti. Non era così in sovrappeso come lasciava credere il suo doppio mento, tuttavia aveva una presenza imponente, mentre Susan passava quasi inosservata. La faccia massiccia di Madarian, la folta chioma rossastra, la carnagione rubizza, la voce roboante, la risata piena e, soprattutto, l'irrefrenabile sicurezza di sé e la spavalderia con cui annunciava i suoi successi facevano sentire gli altri a corto di spazio, quando si trovavano con lui in una stanza.

Quando Susan Calvin andò in pensione (rifiutando in anticipo qualsiasi forma di festeggiamento, con particolare riferimento al pranzo d'addio in suo onore, con tale decisione che nemmeno le agenzie di stampa seppero la notizia), Madarian aveva preso il suo posto.

E lo occupava da un giorno esatto quando diede l'avvio al progetto JN.

La U.S. Robots venne chiamata a investire la somma di denaro più alta che avesse mai stanziato per un singolo progetto, e quando Bogert gli fece notare il particolare, Madarian fece un gesto vago con la mano.

― Sono soldi spesi bene, Peter ― disse. ― E mi aspetto che tu convinca il consiglio di amministrazione.

― Spiegamene i motivi, Clinton ― disse Bogert, chiedendosi se Madarian lo avrebbe fatto. Susan Calvin non aveva mai dato spiegazioni per il suo operato.

― Ma certo ― lo sorprese Madarian, mettendosi comodo sulla grande poltrona nell'ufficio del direttore.

Bogert lo guardò con un'espressione che rasentava il rispetto. I suoi capelli, un tempo neri, erano ormai quasi completamente bianchi, e di lì a dieci anni anche lui sarebbe andato in pensione come Susan Calvin. E questo avrebbe significato la scomparsa del gruppo originario che aveva fatto diventare la U.S. Robots un'azienda a carattere mondiale, complessa e importante quanto il governo. In qualche modo né lui né i suoi predecessori si erano mai resi conto dell'enorme espansione della ditta.

Ma ormai era avvenuto un cambio generazionale. I nuovi dirigenti si trovavano a proprio agio nel colosso. Non avevano un simile atteggiamento di stupore che li facesse camminare in punta di piedi davanti a quella immensa creatura. Tiravano dritto come se niente fosse, ed era meglio così.

Madarian disse: ― Propongo che si dia inizio alla costruzione di robot privi di costrizioni.

― Senza le Tre Leggi? Sicuramente...

― No, Peter. Le Tre Leggi sono le sole costrizioni che ti vengono in mente? Eppure hai contribuito al progetto dei primi cervelli positronici, dannazione. Devo dirtelo io che, oltre alle Tre Leggi, in quei cervelli non c'è un solo schema che non sia stato attentamente progettato e fissato? I nostri robot sono stati costruiti per assolvere a compiti specifici, sono specializzati.

― E tu proponi...

― Che a tutti i livelli inferiori alle Tre Leggi, gli schemi cerebrali restino aperti. Non è difficile.

― Ah, sì, non è difficile ― commentò secco Bogert. ― Le cose inutili non sono mai difficili. La cosa difficile è fissare gli schemi e rendere i robot utili

― Ma perché è così difficile? Fissare gli schemi richiede uno sforzo considerevole perché il Principio d'indeterminazione è importante nella massa di positroni e bisogna minimizzare l'effetto d'incertezza. Ma perché minimizzarlo? Se facciamo in modo che il Principio permetta l'accavallamento imprevedibile di alcuni schemi...

― Otteniamo un robot imprevedibile.

― Otteniamo un robot creativo ― lo corresse Madarian, un po' spazientito. ― Peter, se il cervello umano ha una cosa di cui il cervello positronico è privo, questa è la sfumatura di imprevedibilità che deriva dagli effetti dell'indeterminazione a livello subatomico. Ammetto che l'esistenza di questo effetto nel cervello umano non è mai stata dimostrata sperimentalmente, ma se non ci fosse il cervello umano non sarebbe superiore a quello positronico.

― E tu credi che inserendo questo effetto nel cervello di un robot quello umano non sarebbe più superiore?

― Proprio così ― confermò Madarian.

Continuarono a discutere a lungo.

Fu subito chiaro che il consiglio di amministrazione non si sarebbe lasciato convincere facilmente.

Scott Robertson, l'uomo che deteneva la maggioranza del pacchetto azionario, disse: ― È già abbastanza difficile gestire l'industria dei robot così com'è, con l'ostilità dell'opinione pubblica che rischia di diventare in ogni momento un'aperta protesta. Se poi la gente dovesse pensare che vogliamo costruire robot privi di controllo... Oh, non venitemi a dire che ci sarebbero sempre le Tre Leggi. All'uomo della strada basterà sentire la parola "senza controllo" per non sentirsi più protetto dalle Tre Leggi.

― E allora useremo un'altra definizione ― disse Madarian. ― Lo chiameremo... intuitivo.

― Un robot intuitivo ― mormorò qualcuno. ― Un robot donna?

Quasi tutti i presenti sorrisero.

Madarian afferrò al volo l'idea. ― Esatto, un robot donna. I nostri robot sono asessuati, naturalmente, e lo sarà anche questo, però noi li abbiamo sempre considerati maschi. Diamo loro soprannomi maschili e diciamo sempre "lui", "lo" e "gli". Questo robot, considerando la natura della struttura matematica del cervello che ho proposto, rientrerebbe nel sistema di coordinate JN. Il primo robot sarà JN-1, e pensavo di chiamarlo John-1. Ammetto che non si tratta di un nome originale. Ma perché non chiamarlo Jane-1? Se dovremo informare l'opinione pubblica di quello che intendiamo fare, diremo che stiamo costruendo un robot donna dotato di intuito.

Robertson scosse la testa. ― E che differenza farebbe? In pratica lei propone di rimuovere l'ultima barriera che, in linea di principio, rende il cervello positronico inferiore a quello umano. Come crede che reagirà la gente?

― Intende divulgare la notizia? ― disse Madarian. Rifletté un attimo prima di aggiungere: ― Sentite, una delle convinzioni più diffuse è che le donne non sono intelligenti come gli uomini.

Più d'uno dei presenti assunse un'espressione apprensiva, e tutti rivolsero lo sguardo al posto che per tanto tempo era stato occupato da Susan Calvin.

Madarian disse: ― Se annunciamo la costruzione di un robot donna, non importa come sarà. La gente darà per scontata la sua arretratezza mentale. Noi dovremo soltanto pubblicizzare il robot come Jane-1 senza aggiungere altro. Avremo le spalle coperte.

― Be', c'è anche dell'altro ― disse Bogert, pacato. ― Io e Madarian abbiamo studiato attentamente il progetto, e posso dire con certezza che i robot della serie JN, siano essi John o Jane, non presentano alcun pericolo. Sarebbero dei robot meno complessi e intellettualmente meno capaci, in senso ortodosso, di molti altri che abbiamo progettato e costruito. L'unica cosa in più sarebbe quel fattore che possiamo abituarci a chiamare "intuito".

― Ma chi può dire che cosa provocherà questo intuito? ― borbottò Robertson.

― Madarian ha un suggerimento. Come voi tutti ben sapete, in teoria è stato creato il Balzo Spaziale. In altri termini l'uomo potrebbe raggiungere velocità superiori a quella della luce, visitare altri sistemi stellari e tornare sulla Terra in pochissimo tempo, al massimo qualche settimana.

Robertson disse: ― Questa non è una novità. Senza i robot non sarebbe stato possibile.

― Esatto, ed è perfettamente inutile perché non possiamo utilizzare la super-velocità più di una volta, per dimostrazione, e quindi la U.S. Robots non ne ricava che un minimo vantaggio in termini d'immagine. Il Balzo Spaziale è rischioso, richiede una paurosa spesa di energia e quindi è costosissimo. Se decidessimo di attuarlo ugualmente, sarebbe bello per noi riferire la scoperta di un pianeta abitabile. Chiamatela pure necessità psicologica. Ma se spendessimo venti miliardi di dollari per un unico Balzo e riferissimo soltanto dei dati scientifici, l'opinione pubblica solleverebbe proteste per l'enorme spreco di denaro. Ma se riferissimo la scoperta di un pianeta abitabile, diventeremmo dei Colombo interstellari e nessuno si preoccuperebbe del denaro speso.

― E allora?

― Allora dove possiamo trovare un pianeta abitabile? Pongo la domanda in modo diverso: quale stella, raggiungibile dal Balzo così come è stato messo a punto, quale delle trecentomila stelle comprese nel raggio di trecento anni luce. ha le maggiori probabilità di possedere un pianeta abitabile? Abbiamo un'enorme mole di dettagli su ogni stella presente in questo raggio, e sappiamo che quasi tutte hanno un sistema planetario. Ma qual è quella che ha un pianeta abitabile? Quale dobbiamo visitare? Non lo sappiamo.

Uno dei direttori disse: ― E questo robot Jane come potrebbe aiutarci ?

Madarian fece per rispondere, poi ci ripensò e fece un cenno a Bogert, che capì al volo. Era lui il direttore, e le sue parole avrebbero avuto un peso maggiore. Bogert avrebbe preferito fare a meno di assumersi quella responsabilità: se la serie JN si fosse rivelata un fallimento, lui sarebbe diventato il capro espiatorio. D'altro canto non gli mancava molto alla pensione, e se avessero ottenuto un successo, si sarebbe ritirato circondato da un'aureola di gloria. Forse si era fatto convincere dalla sicurezza di sé di Madarian, ma restava il fatto che Bogert riteneva che la cosa avrebbe funzionato.

― Forse nella mole di dati che abbiamo su quelle stelle ci sono i metodi per calcolare le probabilità della presenza di pianeti abitabili simili alla Terra. Dobbiamo soltanto leggere quei dati correttamente, interpretarli in modo creativo, fare le giuste correlazioni. E non abbiamo ancora fatto niente del genere. E se anche qualche astronomo l'ha fatto, non è stato abbastanza in gamba da rendersi conto di quello che ha scoperto. Un robot JN potrebbe fare queste correlazioni molto più velocemente e con maggiore precisione di un uomo. In un solo giorno, riuscirebbe a vagliare una mole di dati che un uomo impiegherebbe dieci anni a esaminare. Inoltre lavorerebbe partendo da zero, libero dai preconcetti e dalle convinzioni dell'uomo.

Seguì un lungo silenzio. Fu Robertson a romperlo dicendo: ― Ma si tratta soltanto di una probabilità, no? Supponiamo che questo robot dica: “La stella che ha più probabilità di avere un pianeta abitabile entro tot anni luce è Lumachina-17”. Noi andiamo a controllare e scopriamo che non ci sono pianeti abitabili. Che cosa avremmo risolto?

Madarian tornò all'attacco. ― Sarebbe sempre una vittoria. Avremmo saputo in che modo il... la robot ha raggiunto quella conclusione. Si tratterebbe di un enorme passo avanti in campo astronomico e il tentativo sarebbe giustificato anche se non facessimo il Balzo Spaziale. Inoltre potremmo stabilire quali sono i cinque sistemi più probabilmente dotati di un pianeta abitabile, e le probabilità che uno dei cinque abbia un pianeta abitabile sarebbero superiori al novantacinque per cento. Sarebbe quasi certo che...

Continuarono a discutere a lungo.

Lo stanziamento iniziale di fondi fu esiguo, ma Madarian non si scoraggiò perché aveva imparato che una volta aperta la valvola il flusso di denaro non si interrompeva. Se duecento milioni rischiavano di finire in fumo senza l'aggiunta di altri cento, quei cento venivano concessi di sicuro.

Jane-1 fu finalmente costruita e messa in mostra. Peter Bogert lo... la esaminò con espressione seria. ― Perché ha la vita così sottile? ― chiese. ― Questa conformazione non indebolisce la struttura meccanica?

Madarian ridacchiò. ― Senti, abbiamo deciso di chiamarla Jane, quindi non vedo perché dovrebbe somigliare a Tarzan.

Bogert scosse la testa. ― Non mi piace. Falle pure il seno e così siamo a posto. Se le donne cominciano a pensare che i robot possono somigliare a loro, già immagino che idee perverse si metteranno in testa, e non vorrai fartele nemiche, spero.

Madarian disse: ― Forse su questo punto hai ragione. A nessuna donna piacerebbe essere sostituita da qualcosa che non ha nessuno dei suoi difetti.

Jane-2 non aveva la vita snella. Era una robot dalla faccia triste che si muoveva poco e parlava ancora meno.

Madarian si era precipitato poche volte da Bogert durante la costruzione per annunciargli trionfante qualche novità, e questo era stato un segno che le cose non andavano molto bene. Madarian impazziva quando otteneva buoni risultati. Non avrebbe esitato a invadere la camera da letto di Bogert alle tre di notte pur di comunicar gli una buona notizia. Bogert ne era certo.

Adesso Madarian appariva giù di corda, il colorito rubizzo era diventato pallido, le guance paffute si erano afflosciate.

― Non parla ― gli disse Bogert, quasi ne fosse sicuro.

― No, no, parla. ― Madarian si lasciò cadere pesantemente su una sedia e si morse il labbro inferiore. ― Qualche volta, almeno.

Bogert si alzò e girò intorno alla robot. ― E quando parla dice cose prive di senso, immagino. Be', se non parla non è una donna, no?

Madarian cercò di abbozzare un debole sorriso ma ci rinunciò subito. ― Il cervello, in isolamento, funzionava.

― Lo so ― disse Bogert.

― Ma quando è stato inserito nell'apparato fisico del robot, ha subito necessariamente delle modifiche.

― Certo ― convenne Bogert.

― Ma in modo imprevisto e deludente. Il guaio è che quando si ha a che fare con il calcolo enne-dimensionale dell'indeterminazione, le cose si fanno...

― Indeterminate? ― suggerì Bogert. La sua stessa reazione lo stupì. L'investimento della compagnia aveva già raggiunto cifre elevate ed erano passati quasi due anni dall'inizio del progetto. eppure i risultati erano, per dirla con garbo, deludenti. E tuttavia lui se ne stava lì a punzecchiare Madarian, e la cosa lo divertiva.

Quasi furtivamente, Bogert si domandò se non stesse inconsciamente punzecchiando l'assente Susan Calvin. Madarian era molto più esuberante ed espansivo di quanto fosse mai stata Susan Calvin... quando era soddisfatta di qualcosa, naturalmente. Era anche di gran lunga più vulnerabile di lei quando le cose non andavano per il verso giusto, e Susan non era mai crollata quando si era trovata sotto pressione.

Adesso Madarian offriva un bersaglio sin troppo facile, e Bogert non aveva mai potuto dire altrettanto di Susan, quindi si sentiva in qualche modo ricompensato.

Madarian reagì all'ultimo commento di Bogert esattamente come avrebbe fatto la Calvin; ma non per snobbarlo, come avrebbe fatto lei, ma perché non lo aveva sentito.

Madarian argomentò: ― La parte difficile arriva quando bisogna fare delle distinzioni. Jane-2 è bravissima nella correlazione. È capace di stabilire i rapporti di qualsiasi argomento, però poi non riesce a distinguere un risultato valido da uno privo di valore. Non è affatto semplice programmare un robot per ottenere una correlazione significativa quando non sappiamo in che modo stabilisce queste correlazioni.

― Immagino che tu abbia pensato di abbassare il potenziale alla congiunzione del diodo W-21 e di provocare...

― No, no, no, no... ― La voce di Madarian scemò in un sussurro. ― Non è così semplice. Il problema è che bisogna farle riconoscere la correlazione cruciale e trarre le conclusioni. A questo punto Jane sarebbe in grado di dare una risposta per intuito. È una cosa che potremmo ottenere soltanto grazie a un grandissimo colpo di fortuna.

― Ho l'impressione che se tu avessi una robot capace di tanto, le faresti fare quotidianamente quello che, tra gli esseri umani, soltanto un genio è in grado di fare.

Madarian annuì con vigore. ― Esatto, Peter. Avrei detto esattamente questo se non avessi temuto la reazione dei dirigenti. Ti prego di non farne parola in consiglio.

― Vuoi davvero ottenere un robot genio?

― Che importanza ha la definizione? Sto cercando di mettere a punto un robot capace di stabilire correlazioni tra le cose più svariate a una velocità enorme, e dotato al tempo stesso di un altissimo quoziente di capacità selettiva. E sto cercando di tradurre questi concetti in termini di equazioni positroniche. Pensavo di esserci riuscito, e invece no. Non ancora.

Guardò Jane-2 con aria delusa e disse: ― Qual è il tuo pregio migliore, Jane?

Jane-2 voltò la testa per guardare Madarian senza emettere alcun suono.

Madarian disse, rassegnato: ― Sta passando la domanda al vaglio dei banchi delle correlazioni.

Finalmente Jane-2 parlò con voce atona. ― Non ne sono sicura ― disse. Erano le prime parole che pronunciava.

Madarian roteò gli occhi al cielo. ― Sta elaborando le equazioni con soluzioni indeterminate.

― Lo avevo capito ― disse Bogert. ― Ascolta, Madarian, credi di riuscire ancora a combinare qualcosa oppure ci diamo un taglio e fermiamo le perdite a mezzo milione?

― Oh, no, ci riuscirò ― borbottò Madarian.

 

Jane-3 non rappresentava la soluzione. La robot era appena stata attivata, e già Madarian ribolliva di rabbia.

Si trattava di un errore umano. Colpa sua, a voler essere precisi. Malgrado lui provasse una profonda umiliazione, gli altri sembravano tranquilli. Lui che non aveva mai fatto un errore nei complicatissimi calcoli di matematica positronica avrebbe dovuto riempire il suo primo memorandum di correzioni.

Jane-4 fu pronta dopo quasi un anno.

Madarian era di nuovo su di giri. ― Ci riesce ― disse. ― Ha un buon quoziente di riconoscimento.

Si sentiva abbastanza sicuro da presentare la robot al consiglio di amministrazione perché i membri la mettessero alla prova. La robot non avrebbe dovuto risolvere problemi matematici; qualsiasi robot sarebbe stato in grado di farlo. Lei poteva risolvere problemi i cui dati erano deliberatamente fuorvianti ma non del tutto sbagliati.

Dopo la prova Bogert gli disse: ― Non è che abbia dimostrato granché.

― Per forza. Si trattava di cose elementari per Jane-4, ma dovevo pur mostrare loro qualcosa, non ti pare?

― Sai quanto abbiamo speso fino a questo momento?

― Andiamo, Peter, non fare il pignolo, adesso. Hai idea piuttosto di quanto abbiamo guadagnato? Non sono cose che si fanno dall'oggi al domani. Mi ci sono spezzato la schiena sopra per più di tre anni, se proprio vuoi saperlo, ma sono riuscito a elaborare nuove tecniche di calcolo che ci faranno risparmiare cinquantamila dollari per ogni tipo di cervello positronico che metteremo a punto d'ora in avanti. Allora?

― Be'...

― Risparmiami i "be"'. È così e basta. Ed è mia convinzione che il calcolo enne-dimensionale dell'indeterminazione potrà essere applicato in molti altri campi, sempre che si abbia l'acume di individuarli, e la mia Jane ci riuscirà. Appena avrò ottenuto ciò che voglio, la nuova serie JN ci ripagherà di tutte le spese nel giro di cinque anni, anche più della cifra che abbiamo investito finora.

― Che cosa intendi dire con “appena avrò ottenuto ciò che voglio"? Jane-4 non ti soddisfa?

― Mi soddisfa, ma può essere migliorata, ed è quello che intendo fare. Pensavo di sapere quello che volevo quando l'ho progettata. Adesso l'ho messa alla prova e so quello che voglio. Lo otterrò.

 

Jane-5 era quello che voleva. Madarian ci mise un anno per produrla, ma alla fine fu completamente soddisfatto.

Jane-5 era più bassa rispetto all'altezza media dei robot, e anche più esile. Senza essere una caricatura di una donna, come Jane-1, riusciva ad avere una certa femminilità malgrado non possedesse attributi femminili di sorta.

― È per via del suo portamento ― disse Bogert. Muoveva le braccia in maniera aggraziata e in qualche modo dava l'impressione di curvarsi leggermente quando si voltava.

Madarian disse: ― Stalla a sentire... Come ti senti, Jane?

― In ottima salute, grazie ― disse Jane-5 con una voce femminile, un contralto dolce, quasi conturbante.

― Perché questa voce, Clinton? ― gli chiese Peter aggrottando la fronte.

― Per una questione psicologica. Voglio che la gente la consideri una donna, la tratti come una donna.

― Ma di che gente parli?

Madarian si mise le mani in tasca e fissò Bogert, assorto. ― Vorrei andare con Jane a Flagstaff.

Bogert non poté fare a meno di notare che Madarian non l'aveva chiamata Jane-5. Ormai per lui era Jane e basta. ― A Flagstaff? Perché?

― È il centro mondiale di planetologia generale, no? È lì che studiano le stelle e cercano di calcolare la probabilità dell'esistenza di pianeti abitabili, no?

― Lo so, ma l'osservatorio di Flagstaff si trova sulla Terra.

― Be', questa non è certo una novità.

― Il movimento dei robot sulla Terra è strettamente controllato. E non capisco perché tu debba portarla a Flagstaff. Dalle un'intera biblioteca di testi di planetologia generale e Jane potrà studiarli.

― No! Peter, vuoi metterti in testa che Jane non è uno dei soliti robot logici? Lei è intuitiva.

― E allora?

― Allora come facciamo a sapere ciò che le serve, di quali dati ha bisogno, che cosa deve cercare? Qualsiasi robot che abbiamo prodotto è in grado di leggere i libri, una massa di informazioni statiche e anche datate. Jane ha bisogno di dati "vivi", di sfumature di voce, di gesti. Come diavolo facciamo a sapere che cosa fa scattare i suoi meccanismi mentali? Che ne sappiamo noi di come riesce a ordinare i dati in uno schema logico? Se lo sapessimo, potremmo fare a meno di lei, non ti pare?

Bogert cominciava a spazientirsi. ― Allora fa' venire qui i planetologi ― gli propose.

― Non servirebbe a niente. Qui si sentirebbero spaesati e non reagirebbero in modo naturale. Voglio che Jane li osservi mentre lavorano, veda i loro strumenti, i loro uffici, le loro scrivanie, tutto quanto. Voglio che tu faccia in modo che venga portata a Flagstaff. E vorrei smetterla di discutere.

Per un istante Bogert ebbe l'impressione di avere di nuovo a che fare con Susan. Trasalì e disse: ― Non è facile come credi. Trasportare un robot sperimentale...

― Jane non è un robot sperimentale. È la quinta della serie.

― Gli altri quattro non erano modelli funzionanti.

Madarian alzò le mani in un gesto di frustrazione. ― Chi ti obbliga ad avvertire il governo?

― Non è il governo a preoccuparmi. Potrei ottenere l'autorizzazione necessaria. È l'opinione pubblica che mi preoccupa. In cinquant'anni abbiamo fatto molti progressi e non vorrei ritrovarmi indietro di venticinque solo perché tu potresti perdere il controllo di...

― Io non perderò nessun controllo. Stai arrampicandoti sugli specchi. Ascolta, la U.S. Robots può permettersi di noleggiare un aereo privato. Atterriamo tranquilli nel più vicino scalo commerciale, ci confondiamo con centinaia di altri aerei privati, sistemiamo Jane su un bel camion e andiamo a Flagstaff. Chiuderemo Jane in una cassa e sembrerà che stiamo trasportando uno strumento al laboratorio. Nessuno si accorgerà che la cassa contiene un robot. Nel frattempo il personale di Flagstaff sarà stato avvertito sull'esatto scopo della nostra visita. Avranno tutti i motivi di collaborare e non dire niente.

Bogert rifletté un istante. ― La parte più rischiosa sarà il viaggio. Se succedesse qualcosa alla cassa...

― Non succederà niente.

― Forse potremmo limitare il rischio disattivando Jane durante il trasporto. Se qualcuno scoprisse...

― No, Peter, questo no. Jane-5 non può essere disattivata. Ascolta, da quando è stata attivata non ha mai smesso le sue libere associazioni. Si potrebbero congelare le informazioni in suo possesso, durante la disattivazione, ma non le associazioni di idee. Questo mai.

― Allora se qualcuno scoprisse che trasportiamo un robot funzionante...

― Non lo scoprirà nessuno. Madarian non cedette e qualche tempo dopo l'aereo decollò. Si trattava di un modernissimo Computo-jet automatico, ma a bordo c'era un pilota umano, un uomo della U.S. Robots. La cassa contenente Jane arrivò senza danni all'aeroporto, fu caricata sul camion e raggiunse i laboratori di ricerca di Flagstaff senza incidenti.

Peter Bogert ricevette la prima chiamata da Madarian più di un'ora dopo l'arrivo di quest'ultimo a Flagstaff. Madarian era in estasi e non poteva aspettare.

Il messaggio arrivò per raggio laser privato, schermato, mascherato, impenetrabile, tuttavia Bogert era furioso. Sapeva che un esperto avrebbe potuto intercettare il messaggio se avesse voluto. Gli esperti del governo, per esempio. L'unica cosa che lo tranquillizzava era che il governo non aveva alcun motivo di effettuare l'intercettazione. Almeno, così sperava Bogert.

― Non potevi fare a meno di chiamare, Cristo santo?

Madarian lo ignorò completamente. Tutto eccitato gli disse: ― È stata un'ispirazione. Un'idea geniale, ti dico.

Bogert fissò per qualche istante il ricevitore. Poi gridò, incredulo: ― Vuoi dire che hai già avuto la risposta?

― No, no. Dacci tempo, dannazione. Mi riferivo alla faccenda della voce. Quando siamo arrivati all'edificio principale di Flagstaff abbiamo aperto la cassa e Jane è uscita. Tutti gli uomini presenti hanno fatto un passo indietro appena l'hanno vista. Erano atterriti. Se nemmeno gli scienziati capiscono il significato delle Leggi della Robotica, cosa ci possiamo aspettare dall'uomo della strada? Per un attimo ho pensato che sarebbe stato tutto inutile, che non avrebbero parlato, che si sarebbero chiusi a chiave nei laboratori per paura che Jane iniziasse a dare i numeri...

― Stringi, per favore. Vieni al punto.

― Lei li ha salutati com'è abituata a fare. “Buon pomeriggio, signori. Sono lieta di fare la vostra conoscenza” ha detto con quella bellissima voce di contralto. Uno si è sistemato il nodo della cravatta, un altro si è rassettato i capelli. Ma la cosa che più mi ha colpito l'ha fatta uno dei più anziani: ha controllato la zip dei pantaloni per assicurarsi che fosse chiusa. Adesso tutti vanno pazzi per lei. È bastata la voce. Adesso non è più un robot, ma una donna.

― Vuoi dire che parlano con lei?

― Eccome! Sai che ti dico? Avrei dovuto programmarla con delle intonazioni sexy. A quest'ora le avrebbero già chiesto un appuntamento. I riflessi condizionati! Senti, gli uomini reagiscono alle voci. Nei momenti più intimi guardano? No, ascoltano la voce che sussurra all'orecchio...

― Sì, Clinton, mi pare di ricordare. Adesso dov'è Jane?

― Con loro. Non la mollano.

― Dannazione, non perderla mai di vista.

Le successive chiamate che Madarian fece durante i dieci giorni di permanenza a Flagstaff furono meno frequenti e sempre meno esaltate.

Informò Bogert che Jane ascoltava attentamente e qualche volta rispondeva. Era molto popolare. Poteva aggirarsi liberamente per i laboratori. Ma non c'erano stati risultati.

― Proprio niente? ― gli chiese Bogert.

Madarian si mise sulla difensiva. ― Be', non proprio niente. Si tratta di un robot intuitivo, quindi non si sa mai. Come facciamo a sapere quello che le passa per la testa? Stamane ha chiesto a Jensen cosa aveva mangiato a colazione.

― Rossiter Jensen, l'astrofisico?

― Sì, proprio lui. Ed è saltato fuori che non aveva fatto colazione. Be', aveva bevuto soltanto un caffè.

― Quindi Jane sta imparando a chiacchierare. Non credo che fosse necessario spendere tanti soldi per...

― Senti, non fare il cretino. Non si trattava di chiacchiere. Tutto quello che Jane dice è importante. Ha fatto quella domanda perché aveva a che fare con una sua associazione d'idee.

― E che cosa stava...

― Come faccio a saperlo? Se lo sapessi, sarei come Jane e non avremmo bisogno di lei. Comunque quella domanda significa qualcosa. È stata programmata per rispondere alla domanda se esiste un pianeta abitabile non troppo lontano da noi.

― E allora richiamami quando avrà risposto, non prima. Non mi interessano molto le descrizioni dettagliate delle sue associazioni d'idee.

Bogert non si aspettava di ricevere la buona notizia. Con il passare dei giorni, il suo pessimismo aumentò, e quando arrivò la conferma del successo, fu preso in contropiede. E arrivò all'ultimo momento.

Il messaggio decisivo di Madarian, che aveva dato fondo a tutto il suo entusiasmo, arrivò sotto forma di un pacato sussurro.

― Ce l'ha fatta. C'è riuscita. Ormai non ci speravo più nemmeno io. Aveva ricevuto tutte le informazioni possibili e immaginabili, le aveva analizzate due o tre volte senza dire niente di concreto... Adesso sono in aereo. Sto tornando. Abbiamo appena decollato.

Bogert tenne a freno l'ansia. ― Senti, basta con i giochetti, amico. Hai la risposta? Se ce l'hai, allora dimmela senza tanti giri di parole.

― Ha la risposta. Me l'ha data. Mi ha fatto i nomi di tre stelle comprese in un raggio di 80 anni luce. Dice che le probabilità che ciascuna abbia un pianeta abitabile vanno dal 70 al 90 per cento. La probabilità che ce ne sia almeno uno è del 97,2 per cento. Quindi abbiamo quasi una certezza. Appena arriveremo, Jane ci spiegherà il ragionamento che ha fatto per arrivare a questa conclusione, e prevedo che le scienze astrofisiche e cosmologiche saranno...

― Sei sicuro che...

― Credi che stia dando i numeri? Ho persino un testimone. Il poveraccio è rimasto attonito per lo sbalordimento quando Jane ha cominciato a snocciolare la risposta con la sua voce stupenda...

E proprio in quel momento il meteorite colpì l'aereo, disintegrandolo. Madarian e il pilota furono ridotti in brandelli di carne sanguinolenta. Di Jane non venne ritrovata nessuna parte riutilizzabile.

 


Alla U.S. Robots il clima non era mai stato così tetro. Robertson cercò di consolarsi pensando che la distruzione totale dell'aereo era servita se non altro a coprire le irregolarità di cui l'azienda si era resa colpevole.

Peter scosse la testa e disse con profondo rammarico: ― Abbiamo perso la migliore occasione che la U.S. Robots abbia mai avuto per conquistare un'imbattibile immagine pubblica e per superare quel dannato complesso di Frankenstein. Vi rendete conto di quello che avrebbe significato per i robot se uno di loro fosse riuscito a trovare la soluzione relativa ai pianeti abitabili, dopo che altri robot avevano contribuito al progetto del Balzo Spaziale? I robot ci avrebbero spianato la strada verso la galassia. Se poi noi fossimo riusciti a sfruttare le informazioni scientifiche in altri campi... Dio, i benefici di cui avrebbe goduto la razza umana sono incalcolabili... anche per la nostra azienda, naturalmente.

― Ma potremmo costruire altre Jane, no? Anche senza Madarian, voglio dire.

― Certo. Ma chi ci assicura che un altro robot arrivi alle stesse conclusioni? Chi può dirci che margine di approssimazione aveva il risultato ottenuto da Jane-5? Forse Madarian ha avuto il classico colpo di fortuna dei principianti, seguito da un colpo di sfortuna. Un impatto con un meteorite... Da non credersi.

Robertson disse in tono esitante: ― E se a noi non fosse dato di sapere, e se il meteorite fosse stato un giudizio... di...

Lasciò la frase incompleta davanti allo sguardo fulminante di Bogert. ― Immagino che non sia una perdita secca. In qualche modo altre Jane potranno aiutarci. E possiamo dare ad altri robot voci femminili, se questo servirà a rendere la gente più tollerante, anche se mi chiedo quale sarà la reazione delle donne. Se solo sapessimo che cosa aveva detto Jane-5.

― Madarian aveva parlato di un testimone.

― Lo so ― disse Bogert. ― Ci ho pensato. Credi forse che non mi sia messo in contatto con Flagstaff? Nessuno all'osservatorio ha sentito Jane dire qualcosa fuori dall'ordinario, qualcosa che avesse a che fare con il problema dei pianeti abitabili. E se davvero ne ha parlato, nessuno se n'è reso conto.

― È possibile che Madarian abbia mentito? O che fosse impazzito? Forse cercava di coprirsi le spalle...

― Intendi dire che per salvare la propria reputazione fingeva di aver saputo la risposta facendo poi in modo che Jane andasse distrutta per impedirle di essere smentito? Ma siamo seri, ancora un po' e arriveremo a dire che è stato lui a provocare l'impatto con il meteorite.

― E allora che si fa?

― Bisogna tornare a Flagstaff ― disse Bogert, secco. ― La risposta deve essere laggiù. Devo saperne di più, ecco tutto. Vado là e porto con me un paio di assistenti di Madarian. Dovremo controllare quel posto da cima a fondo, da una parte all'altra.

― Ma se anche trovassimo il testimone che ha sentito tutto, mancherebbe sempre Jane che era l'unica a poterci spiegare come è arrivata a quella conclusione.

― Tutto può servire. Jane ha fornito i nomi delle stelle, o probabilmente i numeri di catalogo visto che nessuna delle stelle che hanno un nome posseggono un pianeta abitabile. Se qualcuno l'ha sentita pronunciare quel numero, o anche se l'ha sentita ma non lo ricorda e acconsente a farlo rintracciare dalla Psicosonda, sarebbe già qualcosa. Servendoci del risultato finale e dei dati utilizzati da Jane per arrivare a quel risultato, forse possiamo risalire al ragionamento che ha seguito, scoprire l'intuizione che ha avuto. A quel punto avremmo salvato baracca e burattini.

Bogert tornò dopo tre giorni da Flagstaff, taciturno e depresso. Quando Robertson gli chiese ansioso le novità, scosse la testa. ― Niente.

― Niente?

― Zero assoluto. Ho parlato con tutti... scienziati, tecnici, studenti, chiunque l'avesse anche soltanto vista. L'avevano vista in pochi e devo riconoscere a Madarian una grande discrezione. Aveva permesso di vederla solo a chi aveva cognizioni planetologiche che potessero servirle. In totale erano ventitré gli uomini che l'avevano vista, e di questi soltanto dodici ci avevano parlato. Ho sentito un'infinità di volte quello che Jane ha detto. Ricordano abbastanza bene tutto. Sono uomini in gamba che stanno lavorando a un importantissimo progetto, quindi hanno dei buoni motivi per ricordare. Inoltre avevano a che fare con un robot parlante, che di per se e già una cosa insolita, che parlava come un'attrice della televisione. Non potevano proprio dimenticarsene.

Robertson disse: ― Forse la Psicosonda...

― Bastava che uno di loro mi avesse lasciato capire di aver sentito delle cose interessanti e sta sicuro che lo avrei costretto a farsi sondare. Ma l'ho ritenuto inutile. E sottoporre all'esame della Psicosonda ventitré persone che vivono del loro cervello è inconcepibile. Sarebbe davvero inutile. Se Jane avesse citato tre stelle dicendo che avevano pianeti abitabili, sarebbe stato come lanciare un razzo spaziale nelle loro teste. Non se ne sarebbero sicuramente dimenticati.

― E allora qualcuno di loro mente ― disse Robertson con severità. ― Vuole tenere per sé l'informazione, sfruttarla in un secondo tempo e prendersi il merito della scoperta.

― Che vantaggio ne ricaverebbe? ― disse Bogert. ― A Flagstaff tutti sapevano il motivo della presenza di Madarian e Jane, innanzitutto. E in secondo luogo sapevano il motivo del mio arrivo. Se in futuro una delle persone che lavorano adesso a Flagstaff proponesse una valida teoria su un pianeta abitabile, sia gli scienziati di Flagstaff sia i tecnici della U.S. Robots capirebbero subito che quell'uomo l'ha rubata. Non riuscirebbe a farla franca.

― E allora può darsi che Madarian si sia sbagliato.

― Non ci credo. Madarian aveva un carattere irritante... tutti i robopsicologi sono delle persone irritanti, ed è forse per questo che lavorano con i robot piuttosto che con gli uomini... ma sapeva il fatto suo. Non si è sbagliato.

― E allora... ― Ma Robertson era rimasto a secco di idee. Si trovavano davanti a un muro e per qualche istante rimasero entrambi a fissarlo, sconsolati.

Alla fine Robertson si riscosse: ― Peter...

― Sì?

― Chiediamolo a Susan.

Bogert si irrigidì. ― Cosa?

― Chiediamo a Susan. Chiediamole di venire da noi.

― Perché? Che cosa può fare?

― Non lo so. Ma è una robopsicologa anche lei e forse può capire meglio di noi il comportamento di Madarian. Inoltre lei... oh, al diavolo, ha sempre avuto più cervello di tutti noi messi insieme.

― Ha quasi ottant'anni.

― E tu ne hai settanta. E con questo?

Bogert sospirò. La lingua abrasiva di Susan si era fatta un po' meno ruvida da quando era andata in pensione? ― Be', le chiederò di venire.

 

Susan Calvin entrò nell'ufficio di Bogert guardandosi lentamente intorno prima di fissare il direttore delle ricerche. Da quando aveva lasciato il lavoro era invecchiata di molto. I capelli erano di un bianco candido e il viso le si era raggrinzito. Era diventata così diafana da sembrare quasi trasparente, e soltanto gli occhi, penetranti e ostinati, erano rimasti quelli di sempre.

Bogert le si fece incontro a grandi falcate e con la mano tesa. ― Susan!

Susan Calvin gli strinse la mano e disse: ― Hai un aspetto niente male, Peter, per essere un vecchio. Se fossi in te non aspetterei fino all'anno prossimo. Va' subito in pensione e lascia tutto in mano ai giovani... Così Madarian è morto. Mi hai chiamato per farmi riprendere il posto? Hai deciso di tenere in servizio i vecchi decrepiti fino a un anno dopo la morte fisica?

― No, Susan, no. Ti ho chiamato per... ― Si interruppe. Dopo tutto non aveva la più pallida idea di come iniziare.

Ma Susan non aveva perso la capacità di leggergli nel pensiero come aveva sempre fatto con facilità. Si sedette con la cautela impostale dalle giunture irrigidite dagli anni e disse: ― Peter, se mi hai fatta venire è perché sei in guai seri. Altrimenti preferiresti vedermi morta piuttosto che vicina a te.

― Andiamo, Susan...

― Lascia stare i convenevoli. Non avevo tempo da perdere quando avevo quarant'anni, figuriamoci adesso. La morte di Madarian e la mia convocazione sono due fatti insoliti, quindi devono essere collegati. Che due fatti insoliti non siano collegati tra loro rappresenta una probabilità così scarsa che non vale nemmeno la pena di prenderla in considerazione. Comincia dall'inizio e non aver paura di fare la figura dello stupido. Tanto lo so già da un pezzo.

Bogert si schiarì la voce con espressione afflitta e la mise al corrente della situazione. La Calvin lo ascoltò attentamente, sollevando ogni tanto una mano raggrinzita per interromperlo con una domanda.

A un certo punto sbuffò spazientita. ― Intuito femminile? Avete costruito il robot per questo? Gli uomini! Una donna arriva a una giusta conclusione e tirate fuori quella cosa che chiamate intuito femminile perché non accettate il fatto che una donna sia uguale e anche superiore a voi.

― Va bene, Susan, ma lasciami continuare.

E continuò. Quando Bogert le parlò della voce da contralto di Jane, la Calvin disse: ― A volte è difficile decidere se sia meglio ribellarsi contro il sesso maschile o ignorarlo del tutto.

― Be', lasciami andare avanti ― le disse Bogert.

Quando ebbe finito, Susan gli chiese: ― Posso usare questo ufficio per un paio d'ore?

― Sì. ma...

― Voglio esaminare tutte le registrazioni, la programmazione di Jane, le chiamate di Madarian, i colloqui che hai avuto con il personale di Flagstaff. Immagino che possa usare quel bellissimo telefono laser e il terminale del tuo computer.

― Sì, certo.

― Be', allora lasciami sola, Peter.

Dopo nemmeno tre quarti d'ora la Calvin zoppicò fino alla porta, l'aprì e fece chiamare Bogert.

Quando Bogert arrivò, con lui c'era Robertson. I due uomini entrarono e Susan salutò Robertson con un freddo: “Ciao, Scott”.

Bogert si sforzò di leggere le conclusioni sulla faccia di Susan, ma era solo la faccia di una vecchia arcigna che non aveva la benché minima intenzione di rendergli le cose facili.

― Pensi di riuscire a fare qualcosa, Susan? ― gli chiese Bogert, cauto.

― Oltre a quello che ho già fatto? No.

Le labbra di Bogert si piegarono in una smorfia delusa, ma Robertson chiese: ― Cos'è che hai già fatto, Susan?

― Ho pensato un po', cosa che a quanto pare non riesco a convincere nessun altro a fare. Innanzitutto ho pensato a Madarian. Lo conoscevo, lo sapete. Aveva un bel cervello ma era estroverso in maniera molto irritante. Pensavo che dopo di me ti sarebbe piaciuto, Peter.

Bogert non riuscì a trattenersi dal dire: ― È stato un bel cambiamento.

― E lui si precipitava sempre da te a riferirti i risultati appena li aveva ottenuti, vero?

― Sì, è vero.

― Tuttavia il suo ultimo messaggio, quello in cui ti comunicava di aver saputo la risposta da Jane, lo ha trasmesso dall'aereo. Perché ha aspettato così tanto? Perché non ti ha chiamato da Flagstaff subito dopo aver saputo da Jane quello che aveva saputo?

― Immagino che una volta tanto abbia voluto verificare attentamente tutto e... be', non lo so. Si trattava della cosa più importante che gli fosse mai capitata. Forse aveva deciso di aspettare per avere la certezza di quanto aveva scoperto.

― Io invece ritengo che, data l'importanza della faccenda, non avrebbe aspettato nemmeno un secondo per effettuare la comunicazione. E se anche fosse riuscito a trattenersi, perché non avrebbe aspettato di arrivare qui, dove poteva verificare i risultati con tutti i computer a disposizione? Per farla breve, da un lato ha aspettato troppo, dall'altro troppo poco.

Robertson disse: ― Quindi ritieni che avesse scoperto qualche imbroglio...

― Scott, stai facendo a gara con Peter in fatto di osservazioni cretine ― gli disse Susan con aria disgustata. ― Lasciami continuare, piuttosto. Dunque, c'è di mezzo un testimone. Secondo la registrazione dell'ultima chiamata Madarian ha detto: “Il poveraccio è rimasto attonito per lo sbalordimento quando Jane ha snocciolato la risposta con quella sua stupenda voce”. Sono queste le sue ultime parole. Quindi la cosa da chiedersi è: perché il testimone è rimasto attonito per lo sbalordimento? Madarian ha spiegato che tutti gli uomini andavano pazzi per quella voce, e avevano passato dieci giorni insieme al robot... a Jane. Perché il semplice fatto di sentirla parlare li avrebbe sconcertati così tanto?

Bogert disse: ― Immagino che sia stata la meraviglia nel sentire Jane dare la risposta a una domanda che occupava la mente dei planetologi da quasi un secolo.

― Ma stavano aspettando che lei desse quella risposta. Era quello il motivo della sua presenza. Inoltre bisogna notare che Madarian ha detto che quell'uomo è rimasto attonito per lo sbalordimento, non per la meraviglia, e mi sembra che ci sia una bella differenza tra le due cose. In più la reazione è avvenuta quando Jane "ha iniziato improvvisamente a parlare", in altre parole all'inizio della sua affermazione. Se il testimone si fosse meravigliato per il contenuto del discorso di Jane, avrebbe dovuto ascoltarla fino alla fine per capire quello che diceva. Madarian avrebbe detto che l'uomo aveva sobbalzato dopo averla sentita parlare. "Dopo" e non "quando", e non avrebbe detto "di punto in bianco".

― Non credo che l'uso di questa o quella parola ci possa aiutare molto a scoprire la verità ― disse Bogert con un certo imbarazzo.

― Io invece ritengo di sì ― lo gelò Susan ― perché sono una robopsicologa. Anche Madarian lo era, e faceva attenzione alle parole che usava. Quindi dobbiamo chiarire queste due anomalie: lo strano ritardo di Madarian nel chiamare e la strana reazione del testimone.

― E tu credi di poterle chiarire? ― le chiese Robertson.

― Certamente ― rispose Susan ― dal momento che uso la logica. Madarian ha comunicato prontamente la notizia, o almeno non ha tardato molto a farlo. Se Jane avesse risolto il problema quando ancora erano a Flagstaff, lui avrebbe sicuramente chiamato da lì. Siccome ha chiamato dall'aereo, Jane deve aver risolto il problema dopo la partenza da Flagstaff.

― Ma allora...

― Lasciami finire, lasciami finire. Madarian ha viaggiato dall'aeroporto a Flagstaff in un camion chiuso, mentre Jane era stata sistemata in una cassa, giusto?

― Sì.

― Ed è presumibile che il viaggio di ritorno sia avvenuto nello stesso modo, o sbaglio?

― No, non sbagli.

― E non erano soli a bordo del camion. In una delle sue chiamate Madarian ha detto: “Siamo stati portati dall'aeroporto a Flagstaff”. E credo di non sbagliare se dico che la sua frase indica chiaramente che il camion era guidato da un autista.

― Santo Dio.

― Il tuo problema, Peter, è che quando pensi a un testimone di una dichiarazione planetologica, pensi a un planetologo. Dividi gli esseri umani in categorie, molte delle quali disprezzi e snobbi. Un robot non può fare una cosa del genere. La Prima Legge dice: "Un robot non può recar danno a un essere umano, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno". Qualsiasi essere umano. In sostanza il comportamento dei robot si basa su questo. Un robot non fa distinzioni. Per un robot gli uomini sono tutti uguali, e anche per un robopsicologo, che per forza di cose ha dei rapporti con gli uomini a livello robotico, tutti gli uomini sono veramente uguali. A Madarian non sarebbe passato per la testa di precisare che era stato l'autista del camion a sentir parlare Jane. Per voi un autista non è uno scienziato ma una semplice appendice umana di un camion, ma per Madarian era un uomo e un testimone. Niente di più, niente di meno.

Bogert scosse la testa, incredulo. ― Ma sei sicura?

― Certo che sono sicura.

In che altro modo puoi spiegare il riferimento di Madarian alla sorpresa del testimone? Jane era imballata no? Ma non era disattivata. Secondo le registrazioni, Madarian si ostinava a non disattivare un robot intuitivo. Inoltre Jane-5, come gli altri robot della stessa serie, non era affatto loquace. E quindi probabile che Madarian non le avesse ordinato di starsene zitta durante il trasporto nella cassa; ed è stato proprio dentro la cassa che i tasselli del mosaico sono andati finalmente a posto. Così lei ha iniziato a parlare. E se tu fossi stato al posto del camionista, che cosa avresti fatto? Saresti rimasto sbalordito. C'è da chiedersi come quell'uomo non sia andato fuori strada.

― Ma se il testimone era l'autista, perché non si è fatto vivo?

― Perché? Come puoi pretendere che si renda conto di aver sentito una cosa di vitale importanza? Inoltre non credi che Madarian lo abbia pagato per fargli tenere la bocca chiusa? Avresti voluto che si spargesse la voce che un robot attivato veniva trasportato illegalmente da un posto all'altro della Terra?

― Be', ma l'autista ricorderà quello che ha sentito?

― Perché no? Forse per te un camionista, che consideri di poco superiore a una scimmia, non può ricordare. Ma anche i camionisti hanno un cervello. Le dichiarazioni di Jane erano fuori dall'ordinario e probabilmente quell'uomo se le ricorda. Anche se non ha capito bene qualche lettera o qualche numero, l'argomento è pur sempre ristretto: millecinquecento sistemi di stelle entro un raggio di un'ottantina di anni luce o giù di lì. Inoltre si potrebbe ricorrere alla Psicosonda, se sarà necessario.

I due uomini la fissarono. Alla fine Bogert, sempre incredulo, sussurrò: ― Ma come fai a esserne certa?

Per un attimo Susan fu sul punto di dire: “Perché ho telefonato a Flagstaff, scemo, perché ho parlato con l'autista che mi ha detto ciò che aveva sentito, perché ho usato il computer di Flagstaff per effettuare un controllo e ho saputo il nome delle sole tre stelle che corrispondono alle affermazioni di Jane, e perché ho in tasca i nomi di quelle stelle”.

Ma Susan Calvin non disse nulla. Che si arrangiassero. Si alzò con cautela e disse sardonicamente: ― Come faccio a esserne certa? Chiamatelo intuito femminile.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


               L'UOMO BICENTENARIO

― Grazie ― disse Andrew Martin, accomodandosi sulla sedia che gli era stata offerta. Non aveva l'aria di uno che fosse arrivato all'ultima spiaggia, eppure la verità era proprio quella.

In realtà non aveva nessuna aria, perché la sua espressione era piatta, tranne che per il velo di tristezza che sembrava ombrargli gli occhi. Aveva i capelli lisci. color castano chiaro, piuttosto sottili, ed era imberbe. Doveva essersi rasato di fresco. Il suo abito, chiaramente fuori moda, era di un rosso porpora vellutato, di ottimo taglio.

Di fronte a lui, dietro la scrivania, c'era il chirurgo, e la targhetta sul ripiano riportava una serie di lettere e di numeri che Andrew non si curò di decifrare. Sarebbe stato più che sufficiente chiamarlo dottore.

― Quando potrà avvenire l'intervento, dottore? ― chiese.

Il chirurgo, con quella nota di rispetto che i robot non possono fare a meno di usare per rivolgersi agli esseri umani, gli rispose pacato: ― Signore, non credo di aver capito bene come e su chi questa operazione andrebbe eseguita.

Sarebbe apparsa un'espressione di rispettosa intransigenza sul viso del chirurgo se un robot del suo tipo, in acciaio inossidabile color bronzo chiaro, avesse potuto assumere quell'espressione, o qualsiasi altra espressione.

Andrew Martin osservò la mano destra del robot, quella con cui maneggiava il bisturi, che adesso era immobile sulla scrivania. Le lunghe dita sembravano delle sinuose sculture metalliche, così aggraziate e funzionali che si poteva immaginare che il bisturi diventasse un tutt'uno con esse. Quel chirurgo avrebbe lavorato senza esitazioni, senza incertezze, senza tremori, senza problemi. Quella competenza derivava naturalmente dalla specializzazione, una specializzazione così fortemente desiderata dagli uomini che ormai solo pochi robot erano dotati di un cervello indipendente. Naturalmente i chirurghi rientravano tra quelle eccezioni. E quel chirurgo, malgrado fosse dotato di cervello indipendente, aveva una capacità così limitata che non aveva riconosciuto Andrew, e forse non ne aveva mai sentito parlare.

― Ha mai pensato se le piacerebbe essere un uomo? ― gli chiese Andrew.

Il chirurgo esitò come se i suoi circuiti positronici non fossero in grado di elaborare la domanda. ― Ma io sono un robot, signore.

― Preferirebbe essere un uomo?

― Preferirei essere un chirurgo più capace, signore. E potrei diventarlo solo se fossi un robot più avanzato, non un uomo. Preferirei essere un robot più avanzato.

― Non si sente offeso dal fatto che io possa darle degli ordini? Che possa costringerla ad alzarsi, a sedersi, a girare a destra o a sinistra con un semplice comando?

― È un piacere accontentarla, signore. Se i suoi ordini interferissero con il rispetto che la mia stessa natura mi costringe a portare a lei e agli esseri umani, non obbedirei. La Prima Legge, che mi impone di salvaguardare la vita degli uomini, avrebbe la precedenza sulla Seconda Legge, che mi detta l'obbedienza. Altrimenti l'obbedienza per me è un piacere... Ma su chi devo eseguire l'operazione?

― Su di me ― disse Andrew.

― Ma questo è impossibile. È chiaramente un'operazione che provocherà dei danni.

― Non importa ― disse Andrew, pacato.

― Ma io non posso recar danno.

― Agli esseri umani ― precisò Andrew ― ma io sono un robot, come lei.

 

Andrew aveva avuto un aspetto molto più da robot subito dopo essere stato... costruito. L'aspetto di tutti gli altri robot, semplice e funzionale.

Aveva lavorato ottimamente nella casa dov'era stato portato all'epoca in cui i robot domestici erano una rarità in tutto il pianeta. La famiglia che serviva era composta da quattro membri: il Signore, la Signora, la Signorina e la Signorina Piccola. Naturalmente conosceva i loro nomi, ma non li usava mai. Il Signore si chiamava Gerald Martin.

Il suo numero di serie era NDR... aveva dimenticato le altre cifre. Di tempo ne era passato, ma se avesse voluto ricordarle non avrebbe avuto problemi a farlo. Solo che aveva voluto dimenticarle.

La Signorina Piccola era stata la prima a chiamarlo Andrew perché non sapeva dire il numero di serie, poi gli altri della famiglia l'avevano imitata.

La Signorina Piccola... Era vissuta novant'anni ed era morta da tanto tempo. Una volta aveva provato a chiamarla Signora, ma lei gli aveva detto di non farlo mai più. Così era rimasta per sempre la Signorina Piccola.

Andrew era stato programmato per svolgere i ruoli di valletto, maggiordomo e domestico personale della Signora. Erano tempi di sperimentazione per lui, e anche per tutti gli altri robot a eccezione di quelli che erano impiegati nelle fabbriche e nelle stazioni industriali e di ricerca lontane dalla Terra.

I Martin lo avevano preso in simpatia, e lui passava metà del suo tempo a giocare con la Signorina e la Signorina Piccola piuttosto che a svolgere i lavori domestici. Era stata la Signorina a capire per prima come convincerlo. ― Ti ordiniamo di giocare con noi, e tu devi eseguire gli ordini ― gli aveva detto un giorno.

― Mi dispiace, signorina, ma devo dare la precedenza a un ordine già datomi dal Signore.

― Papà ha soltanto detto che sperava ti saresti occupato delle pulizie. Quello non era un ordine, il mio sì.

Il Signore non aveva fatto obiezioni. Il Signore amava la Signorina e la Signorina Piccola più di quanto non le amasse la Signora, e anche Andrew voleva loro molto bene. O almeno, quello che riuscivano a fargli fare era dettato da ciò che gli esseri umani avrebbero chiamato affetto. Andrew lo considerava affetto, perché non sapeva in quale altro modo chiamarlo.

E fu per la Signorina Piccola che Andrew fece un ciondolo di legno. Era stata lei a ordinarglielo. A quanto pareva la Signorina aveva ricevuto per il suo compleanno un ciondolo d'avorio intarsiato, e la Signorina Piccola si era risentita. Così aveva dato ad Andrew un pezzo di legno e un piccolo coltello da cucina.

Lui glielo aveva fatto in fretta e la Signorina Piccola aveva detto: ― È bello, Andrew. Lo farò vedere a papà.

Il Signore non aveva creduto che il ciondolo fosse opera di Andrew. ― Dài, Mandy, dimmi dove l'hai preso. ― Mandy era il nome della Signorina Piccola. Lei gli aveva assicurato che non mentiva, e il Signore si era rivolto a Andrew. ― L'hai fatto tu, Andrew?

― Sì, signore.

― Anche il disegno?

― Sì, signore.

― Da dove l'hai copiato?

― È una rappresentazione geometrica, Signore, che si adatta alla venatura del legno.

L'indomani il Signore gli portò un altro pezzo di legno, più grande dell'altro, e un vibro-coltello elettrico. ― Tira fuori qualcosa da questo, Andrew. Qualsiasi cosa.

Andrew si era messo al lavoro sotto lo sguardo interessato del Signore che poi aveva osservato a lungo il prodotto finito. Da quel giorno Andrew non fece più il cameriere. Gli venne ordinato di leggere libri riguardanti lo stile dei mobili, e lui imparò a costruire armadietti e scrivanie.

― Sono pezzi bellissimi, Andrew.

― Mi piace farli, Signore.

― Ti piace?

― È un lavoro che in qualche modo migliora il flusso dei circuiti del mio cervello. L'ho sentita usare la parola "piacere" e credo che l'uso che ne fate si accordi alla sensazione che provo quando lavoro il legno. Mi piace costruire mobili, Signore.

 

Gerald Martin portò Andrew agli uffici regionali della U.S. Robots and Mechanical Men Corporation. Essendo un membro dell'Assemblea Legislativa Regionale, non ebbe nessun problema a farsi ricevere dal robopsicologo capo. E proprio perché era un membro dell'Assemblea aveva potuto ottenere il robot, in giorni in cui i robot erano rari.

Andrew non era riuscito a capire queste cose, ma in seguito sarebbe diventato abbastanza saggio da rivedere tutto nella giusta luce e capire.

Il robopsicologo, Merton Mansky, ascoltò aggrottando sempre più la fronte e più di una volta si trattenne dal tamburellare le dita sul tavolo. Aveva un'espressione tirata, la fronte rugosa, e sembrava dimostrare più anni di quanti ne aveva in realtà.

― La robotica non è una scienza esatta, signor Martin ― disse il robopsicologo. ― Non posso spiegarglielo nei dettagli, ma i calcoli matematici che governano lo schema dei circuiti positronici sono troppo complessi per dare soluzioni più che approssimative. Naturalmente la messa a punto di un cervello positronico si basa sulle Tre Leggi, che quindi sono incontrovertibili. Non avremo problemi a sostituire il suo robot...

― Neanche per sogno ― disse il Signore. ― Funziona alla perfezione e svolge benissimo i lavori che gli sono stati assegnati. Il fatto è che intaglia il legno in modo squisito e non si ripete mai. Insomma produce dei veri e propri pezzi d'arte.

Mansky sembrò confuso.― Strano. È vero che stiamo cercando di costruire dei circuiti generalizzati... Lei crede che sia proprio creativo?

― Giudichi lei. ― Il Signore gli porse una piccola sfera di legno sulla quale erano scolpiti dei bambini che giocavano. Le figure erano talmente piccole da risultare quasi invisibili, eppure erano proporzionate e armoniche rispetto alla grana del legno, che pareva anch'essa intagliata.

― L'ha fatta lui? ― gli chiese Mansky. Restituì la sfera scuotendo la testa. ― Un caso fortuito. Qualcosa nei circuiti.

― Può costruire un altro robot identico a questo?

― Probabilmente no. È la prima volta che ci capita di sentire una cosa del genere.

― Bene! Non mi dispiace affatto che Andrew sia l'unico.

― Ho l'impressione che la U.S. Robots vorrà riavere indietro il robot per esaminarlo.

― Non se ne parla proprio ― disse il Signore con improvvisa durezza. Si rivolse ad Andrew. ― Andiamo a casa.

― Come vuole, signore ― disse Andrew.

 

La Signorina aveva iniziato a uscire con i ragazzi e quindi stava poco in casa. Adesso il mondo di Andrew era costituito dalla Signorina Piccola che poi tanto piccola non era più. Non aveva mai dimenticato che il primo pezzo di legno scolpito Andrew lo aveva regalato a lei. E lo portava al collo con una catenina d'argento.

E fu lei che un giorno rimproverò il padre che aveva l'abitudine di regalare le opere di Andrew. ― Senti, papà, se le vogliono che le paghino. Sono pezzi preziosi.

― Non credevo che fossi così attaccata al denaro, Mandy ― le disse il Signore.

― Non lo dico per noi, papà, ma per l'artista.

Andrew non aveva mai sentito prima quella parola, "artista", così sfruttò il primo momento libero per andare a consultare il vocabolario.

Poi il Signore lo portò ancora con sé, stavolta dall'avvocato.

― Che cosa ne pensi, John? ― gli chiese il Signore.

L'avvocato si chiamava John Feingold. Aveva i capelli bianchi e un po' di pancia, e le lenti a contatto erano sfumate di verde. Guardò la piastrina che il Signore gli aveva dato. ― È bellissima... Ma ho saputo la novità. L'ha fatta il tuo robot, questo qui che ti sei portato dietro.

― Sì, è Andrew che fa questi oggetti. Vero, Andrew?

― Sì, signore.

― Quanto saresti disposto a pagare per una cosa del genere, John? ― chiese il Signore.

― Non saprei. Non colleziono questo tipo di oggetti.

― Ci credi se ti dico che mi hanno offerto 250 dollari per questa cosetta? Andrew ha anche fatto delle sedie che ho venduto per 500 dollari. In banca ci sono duecentomila dollari, tutti frutto del lavoro di Andrew.

― Santo cielo, ti sta facendo diventare ricco, Gerald.

― Ricco a metà ― disse il Signore. ― Metà di quei soldi sono in un conto intestato ad Andrew Martin.

― Il robot?

― Esatto, e voglio sapere se è legale.

― Legale? ― Feingold si appoggiò allo schienale facendo scricchiolare la sedia. ― Non ci sono precedenti, Gerald. Come ha fatto il tuo robot a firmare le pratiche per aprire il conto in banca?

― È capace di fare la sua firma, così gli ho portato i documenti a casa. Senti, si potrebbe fare qualcos'altro?

― Uhm. ― Per un istante Feingold sembrò rigirare gli occhi all'indietro. ― Be', Andrew potrebbe firmarti una delega e tu potresti gestire il suo conto bancario. In questo modo lo avremmo protetto dall'ostilità del mondo. Ma ti consiglio di limitarti a questo. Nessuno ti ha intralciato. Se qualcuno avesse qualcosa da obiettare che ti faccia pure causa.

― E se questo dovesse accadere, tu mi difenderesti?

― Sì, se mi dai un bell'anticipo.

― Quanto vuoi?

― Diciamo il valore di quello ― disse Feingold, indicando la piastrina di legno.

― Mi sta bene.

Feingold si rivolse al robot con un ghigno. ― Andrew, sei contento di avere dei soldi?

― Sì, signore.

― Cos'hai intenzione di farci?

― Pagherò delle cose che altrimenti dovrebbe pagare il Signore. Lo farei risparmiare, signore.

 

Le occasioni non tardarono ad arrivare. Le riparazioni erano costose, per non parlare poi delle revisioni. Con il passare degli anni furono prodotti nuovi modelli di robot e il Signore fece sì che Andrew venisse dotato di ogni nuovo congegno disponibile, sicché alla fine divenne un modello di perfezione metallica. E Andrew si fece carico delle spese. E fu irremovibile.

Soltanto i suoi circuiti positronici rimasero gli stessi di sempre. E questo fu il Signore a volerlo.

― I nuovi robot non sono bravi come te, Andrew ― gli disse. ― I nuovi robot non valgono niente. L'azienda ha messo a punto cervelli più perfetti, è riuscita a fissare il flusso positronico, ma i nuovi robot non escono mai dal tracciato prestabilito. Io preferisco te.

― Grazie, signore.

― Ed è merito tuo, Andrew non dimenticarlo. Sono certo che Mansky ha messo fine ai circuiti generalizzati appena ti ha visto. Credo che non gli piacciano le cose imprevedibili. Sai quante volte mi ha chiesto che ti portassi da lui perché voleva studiarti? Nove volte! Io mi sono sempre rifiutato, e adesso che è andato in pensione possiamo stare in pace.

Il Signore aveva perso un po' di capelli e quelli rimasti erano grigi, aveva il viso sfatto e le borse sotto gli occhi, mentre Andrew aveva un aspetto migliore di quando era entrato in famiglia. La Signora era entrata in una comune di artisti da qualche parte in Europa e la Signorina faceva la poetessa a New York. Qualche volta scrivevano, ma non molto spesso. La Signorina Piccola si era sposata ed era andata a vivere non molto lontano da loro. Diceva che non voleva lasciare Andrew, e quando ebbe un figlio, il Signorino, lasciò che Andrew gli desse il biberon.

Andrew pensò che adesso che aveva un nipote, il Signore non sentisse più la mancanza della Signora e della Signorina, quindi decise che era giunto il momento opportuno per rivolgergli la richiesta.

― Signore, è stato gentile da parte sua permettermi di spendere i miei soldi come volevo.

― Erano soldi tuoi, Andrew.

― Ma solo perché lei ha voluto così, Signore. Non credo che la legge le avrebbe impedito di tenersi tutto il denaro.

― La legge non può costringermi a comportarmi in modo sbagliato, Andrew.

― Nonostante le spese e le tasse, Signore, ho ancora quasi seicentomila dollari.

― Lo so, Andrew.

― Voglio darli a lei, Signore.

― Non posso accettarli.

― Dovrebbe darmi qualcosa in cambio, Signore.

― Ah, sì? Che cosa?

― La mia libertà, Signore.

― La tua...

― Desidero comprare la mia libertà.

 

Non fu così facile. Il Signore, rosso in viso, gli aveva detto: ― Per l'amor di Dio ― poi si era voltato di scatto e se n'era andato infuriato.

La Signorina Piccola tentò di convincerlo, parlandogli aspramente in tono di sfida in presenza di Andrew. Per trent'anni nessuno si era mai fatto problemi a parlare davanti ad Andrew, anche se l'argomento riguardava lui stesso, dato che era soltanto un robot.

― Papà, perché lo prendi come un affronto personale? Resterà con noi, continuerà a esserci fedele, non potrà fare altrimenti, lo sai. Lui vuole soltanto sentirsi dire che è libero, vuole considerarsi libero. Cosa c'è di tanto terribile? Non se l'è forse guadagnato? Santo Dio, è da anni che io e lui ne parliamo.

― Da anni, eh?

― Sì, e lui ha sempre rimandato nel timore di offenderti. Sono stata io a convincerlo.

― Non sa che cos'è la libertà. È un robot.

― Papà, tu non lo conosci. Ha letto tutti i libri della nostra biblioteca. Non so quali siano i suoi sentimenti, ma non so nemmeno quali siano i tuoi. Quando gli si parla lui reagisce alle varie astrazioni del linguaggio esattamente come me e te, quindi che altro pretendi che faccia? Se le reazioni di un altro sono come le nostre, che altro gli si può chiedere?

― La legge non terrà conto di questo ― disse il Signore, furente. ― Mettitelo in testa anche tu! ― aggiunse rivolto ad Andrew, in tono deliberatamente aspro. ― Posso soltanto liberarti per vie legali, e se ci mettiamo di mezzo il tribunale, non solo non otterrai la libertà ma dovrai rendere conto alla legge dei soldi che possiedi. Ti diranno che un robot non ha diritto di guadagnare soldi. Credi che per una stupidaggine del genere valga la pena di perdere il tuo denaro?

― La libertà non ha prezzo, Signore ― disse Andrew. ― E il solo tentativo di ottenerla vale il rischio che corro.

 

Anche la corte avrebbe potuto decidere che la libertà non aveva prezzo, e di conseguenza che un robot non poteva comprarla a nessun prezzo.

Il procuratore regionale, che rappresentava una parte che si era costituita contro la libertà del robot, affermò semplicemente: ― La parola libertà è priva di significato se applicata a un robot. Soltanto gli esseri umani possono essere liberi. ― E ribadì questo concetto tutte le volte che ritenne opportuno, scandendo le parole e sottolineandole con un gesto ritmico della mano.

La Signorina Piccola chiese di parlare per conto di Andrew.

Dissero il suo nome e cognome, e Andrew lo udì per la prima volta: ― Amanda Laura Martin Charney può avvicinarsi al banco.

― Grazie, Vostro Onore ― esordì la Signorina Piccola. ― Non sono un avvocato e non ho mai preso la parola in un'aula giudiziaria, ma spero vogliate dare più peso al senso della mia testimonianza che alla sua forma. Cerchiamo di capire che cosa significhi per Andrew essere libero. Per certi versi lui è libero. Credo siano almeno vent'anni che nessuno della famiglia Martin gli ordina di fare qualcosa contro il suo volere. Ma se volessimo potremmo ordinargli di fare qualsiasi cosa, anche la più umiliante, perché è una macchina che ci appartiene. Ma perché dovremmo farlo, dopo che lui ci ha servito fedelmente per tutti questi anni, facendoci addirittura arricchire? Non ci deve più niente, ormai. Siamo noi a essere in debito nei suoi confronti.

Per un attimo il giudice sembrò reprimere un sorriso. ― Capisco cosa intende, signora Charney. Il fatto è che in materia non ci sono né vincoli di legge né precedenti. C'è però il tacito assunto che solo un uomo può godere della libertà. Potrei fare una nuova legge qui adesso, che naturalmente un tribunale superiore potrebbe bocciare, ma non posso assolutamente invalidare questo assunto. Mi lasci parlare con il robot. Andrew!

― Sì, Vostro Onore.

Era la prima volta che Andrew parlava in tribunale e il giudice sembrò sconcertato dal timbro umano della sua voce. ― Perché vuoi essere libero, Andrew? La libertà è così importante per te?

― Le piacerebbe essere uno schiavo, Vostro Onore? ― chiese Andrew.

― Ma tu non sei uno schiavo. Sei un bravissimo robot, una sorta di genio, a quanto mi è dato di capire, dotato di un grande talento artistico. Cosa potresti fare di più se fossi libero?

― Forse non farei niente di più, Vostro Onore, ma lo farei con maggiore gioia. È stato detto in quest'aula che soltanto un essere umano può essere libero. A me pare che soltanto chi desidera la libertà può essere libero. Io desidero la libertà.

Fu quell'affermazione a dare l'imbeccata giusta al giudice. La frase cruciale della sentenza fu: ― Non si ha diritto di negare la libertà a qualunque oggetto con una mente abbastanza matura da comprendere il concetto di libertà e da desiderarne lo stato.

La sentenza fu in seguito confermata dalla Corte Mondiale.

 

Il Signore se la prese a male e cominciò a rivolgersi sgarbatamente al robot, con un tono di voce così aspro che ad Andrew diede più volte l'impressione di essere a un passo dal corto circuito.

― Non voglio il tuo dannato denaro, Andrew. Ma lo prenderò solo perché altrimenti non ti sentiresti libero. D'ora in poi potrai scegliere i lavori che vorrai e farli come meglio credi. Non ti darò più ordini, eccetto questo: fa' come ti pare. Ma io ho ancora la responsabilità su di te, lo dice anche la sentenza del tribunale. Spero che tu lo capisca.

La Signorina Piccola lo interruppe. ― Non essere irascibile, papà. La responsabilità è una cosa da niente. Ci sono ancora le Tre Leggi.

― E allora come fa a essere libero?

― Anche gli esseri umani sono vincolati dalle loro leggi, signore ― disse Andrew.

― Non ho voglia di litigare. ― Il Signore uscì dalla stanza e da quella volta Andrew lo vide solo di rado.

 

La Signorina Piccola andava spesso a fargli visita nella casetta costruita appositamente per lui. Naturalmente era priva di cucina e di bagno. Aveva due sole stanze: una era adibita a biblioteca e l'altra a magazzino-officina. Andrew accettava molte commesse e lavorava molto di più di quanto non avesse mai fatto. Alla fine riuscì a pagare la casa che gli venne legalmente intestata.

Un giorno arrivò da lui il Signorino... no, George. Il Signorino aveva insistito perché Andrew lo chiamasse per nome dopo la sentenza del tribunale. ― Un robot libero non deve chiamare nessuno "Signorino". Io ti chiamo Andrew, quindi tu devi chiamarmi George.

Era stato un ordine, quindi Andrew cominciò a chiamarlo George, ma la Signorina Piccola rimase sempre la Signorina Piccola.

Quel giorno dunque che George andò da lui da solo, fu per comunicargli che il Signore stava morendo. C'era la Signorina Piccola al suo capezzale, ma il Signore voleva al suo fianco anche Andrew.

Il Signore aveva ancora una voce forte, anche se era pressoché immobile. Alzò una mano con uno sforzo enorme. ― Andrew... Andrew. Non aiutarmi, George, sono soltanto moribondo, non paralitico... Andrew, sono contento che tu sia libero. Volevo dirti solo questo.

Andrew non sapeva cosa dire. Non era mai stato al capezzale di un moribondo, ma sapeva che in quel modo gli uomini cessavano tutte le loro funzioni. Si trattava di uno smantellamento involontario e irreversibile, e Andrew non riusciva a trovare le parole adatte all'occasione. Così restò lì in piedi, immobile, senza aprire bocca.

Quando fu tutto finito, la Signorina Piccola gli disse: ― Forse ti sarà sembrato un po' brusco negli ultimi tempi, Andrew, ma era vecchio, ed era rimasto molto male che tu avessi voluto la libertà.

Allora Andrew riuscì a trovare le parole per dire: ― Senza di lui, non sarei mai diventato libero, Signorina Piccola.

 

Solo dopo la morte del Signore, Andrew cominciò a indossare abiti. Iniziò con un vecchio paio di pantaloni che gli aveva dato George.

George si era sposato e faceva l'avvocato. Era entrato nello studio di Feingold. Il vecchio Feingold era morto da un pezzo ma la figlia aveva continuato l'attività del padre e alla fine il nome dello studio era diventato Feingold e Martin. E rimase tale anche quando la figlia di Feingold si ritirò senza che nessun altro della famiglia subentrasse al suo posto. Quando Andrew cominciò a indossare abiti da uomo, il nome Martin era stato da poco aggiunto a quello di Feingold.

George aveva cercato di trattenersi dal ridere quando Andrew aveva cercato di infilarsi i pantaloni la prima volta. ma ad Andrew quel sorriso era stato ugualmente evidente. George gli mostrò come azionare la carica statica che apriva i pantaloni, li faceva avvolgere intorno alla parte inferiore del corpo e li richiudeva. George, per spiegarsi meglio, indossò i propri, ma Andrew si rese conto che a lui sarebbe occorso un bel po' per fare gli stessi movimenti.

― Ma perché vuoi metterti i pantaloni, Andrew? ― gli chiese George. ― Il tuo corpo è così bello e funzionale che è un vero peccato coprirlo... e non devi preoccuparti né della temperatura né del pudore. E non aderiscono bene al metallo.

― Perché, i corpi umani non sono belli e funzionali, George? Eppure li coprite.

― Per stare al caldo, per una questione di pulizia, per sentirci protetti ed eleganti. Nessuno di questi motivi vale per te.

― Mi sento nudo senza vestiti. Mi sento diverso, George.

― Diverso! Andrew, adesso sulla Terra ci sono milioni di robot. In questa regione, secondo l'ultimo censimento, il numero dei robot è quasi pari a quello degli uomini.

― Lo so, George. I robot svolgono i lavori più disparati.

― E nessuno di loro indossa vestiti.

― Ma nessuno di loro è libero, George.

 

A poco a poco Andrew aumentò il suo guardaroba. Era un po' inibito dai sorrisetti di George e dagli sguardi dei suoi clienti.

Per quanto fosse libero, Andrew aveva nel cervello un programma dettagliato di comportamento verso gli uomini, per cui era molto ricettivo alle reazioni degli altri e avanzava nei suoi scopi a piccoli passi. Un chiaro segno di disapprovazione poteva farlo regredire. Non tutti accettavano il fatto che Andrew fosse libero. Lui non era capace di offendersi, ma quando ci pensava i suoi processi mentali avvenivano con più difficoltà. Quando aspettava una visita della Signorina Piccola, tendeva a evitare di vestirsi, o almeno cercava di non eccedere. Adesso lei era una donna anziana e si recava spesso nei posti dal clima più mite, ma quando tornava andava subito da lui.

Una volta, poco dopo che la Signorina Piccola era tornata da uno dei suoi viaggi, George gli disse in tono afflitto: ― Mi ha incastrato, Andrew. L'anno prossimo mi candiderò per l'Assemblea Legislativa. Tale il nonno, mi ha detto, tale il nipote.

― Tale il nonno... ― disse Andrew, fermandosi immediatamente, perplesso.

― Voglio dire che io, il nipote, sarò come il Signore, cioè il nonno, che è stato membro dell'Assemblea.

― Sarebbe bello, George, che il Signore fosse ancora... ― Esitò, perché non voleva dire "funzionante". Si rendeva conto che quel termine era improprio.

― Vivo ― disse George. ― Sì, ogni tanto penso anch'io al vecchio mostro.

Andrew ripensò spesso a quella conversazione. Aveva notato più volte che non riusciva a esprimersi bene quando parlava con George. In qualche modo il linguaggio era cambiato da quando Andrew era stato costruito, mentre la sua competenza comunicativa era rimasta la stessa di sempre. Inoltre George usava un gergo colloquiale che né il Signore né la Signorina Piccola avevano mai usato. Perché mai, per esempio, chiamava il Signore "vecchio mostro", quando quell'espressione era certamente impropria? Nemmeno i suoi libri potevano aiutarlo. Erano vecchi e quasi tutti riguardavano la scultura del legno, l'arte, i mobili. Non ne aveva nemmeno uno che parlasse del linguaggio e dei modi che gli uomini usavano per comunicare.

 


Così decise di cercare libri che facessero al caso suo; ed essendo un robot libero, non ritenne opportuno chiedere aiuto a George. Sarebbe andato in città da solo, alla biblioteca pubblica. La decisione lo eccitò a tal punto che dovette inserire una reattanza per evitare un eccessivo aumento del suo potenziale elettrico.

Indossò un elegante completo, e come tocco finale ebbe il vezzo di mettersi sulla spalla una catena di legno. Ne avrebbe preferita una di plastica scintillante ma George gli aveva detto che il legno era molto più adatto e che poi il cedro levigato era anche molto più prezioso.

Dopo essersi allontanato di un centinaio di passi dalla stanza, una resistenza sempre maggiore lo costrinse a fermarsi. Disattivò la reattanza ma non gli parve di avvertire un miglioramento, così tornò a casa e su un pezzo di carta scrisse a chiare lettere: "Sono andato in biblioteca". Mise il biglietto bene in vista sul suo tavolo da lavoro.

 

Andrew non riuscì a raggiungere la biblioteca.

Si era studiato la pianta della città prima di uscire. Sapeva dunque quali erano le strade da percorrere, ma non ne conosceva l'aspetto. Le vie non somigliavano affatto ai simboli che aveva trovato sulla pianta e a un certo punto, dopo molte esitazioni, pensò di essersi sbagliato, perché tutto gli pareva strano.

Aveva incrociato qualche altro robot, ma quando si decise a chiedere informazioni non ne vide nemmeno uno nei paraggi. Passò una vettura ma non si fermò.

Andrew restò immobile per qualche minuto, calmo e risoluto, poi vide due esseri umani che stavano attraversando un prato verso di lui.

Si voltò per fronteggiarli, e i due deviarono un po' per avvicinarglisi. Pochi istanti prima li aveva sentiti parlare a voce alta; adesso tacevano. Avevano l'aria che Andrew associava all'incertezza umana, ed erano giovani, ma non giovanissimi. Ventenni, forse? Andrew non sapeva valutare l'età degli esseri umani.

― Sareste tanto gentili da indicarmi la strada per la biblioteca pubblica, signori? ― chiese loro.

Il più alto dei due, che sembrava ancora più alto per via di un cappello grottesco, disse al suo amico: ― È un robot.

L'altro aveva il naso a patata e le palpebre gonfie. ― Ed è vestito.

Il tipo alto fece schioccare le dita. ― Ma certo, è il robot libero. I Martin hanno un robot che non appartiene a nessuno. Sennò perché porterebbe i vestiti?

― Chiediglielo ― disse quello con il nasone.

― Sei il robot dei Martin? ― chiese il tipo alto.

― Sono Andrew Martin, signore ― rispose Andrew.

― Bene. Adesso togliti i vestiti. I robot non indossano vestiti. ― All'amico disse: ― Guardalo. È davvero disgustoso.

Andrew esitò. Era da tanto tempo che non riceveva un ordine così perentorio, che i circuiti della Seconda Legge si erano momentaneamente inceppati.

Il giovane alto disse: ― Togliti i vestiti. Te lo ordino.

Andrew cominciò lentamente a spogliarsi.

― Lasciali cadere a terra ― disse il tizio alto.

Il nasone aggiunse: ― Se non appartiene a nessuno, può essere nostro come di chiunque altro.

― Comunque ― disse l'altro ― nessuno può dirci niente. Non stiamo danneggiando una proprietà privata. ― Si rivolse ad Andrew. ― Fa' la verticale, con la testa puntata in terra.

― Ma la testa non... ― iniziò a dire Andrew.

― È un ordine. Se non sai come si fa, provaci ugualmente.

Andrew esitò ancora, poi si piegò per mettere la testa in terra. Cercò di sollevare le gambe e cadde pesantemente.

Il giovane alto gli disse: ― Resta in quella posizione. ― All'altro: ― Potremmo smontarlo. Hai mai smontato un robot?

― Ce lo permetterà?

― Come potrebbe impedircelo?

Andrew non avrebbe potuto fermarli se gli avessero ordinato decisamente di non opporre resistenza. La Seconda Legge sull'obbedienza aveva la precedenza sulla Terza, quella relativa all'autoconservazione. In ogni caso non si sarebbe potuto difendere senza rischiare di far loro del male, e se questo fosse successo avrebbe violato la Prima Legge. A quel pensiero, tutte le sue unità mobili si contrassero leggermente e Andrew rabbrividì.

L'umano alto gli si avvicinò per dargli un calcio. ― È pesante. Credo che ci serviranno degli attrezzi per smontarlo.

Il nasone disse: ― Potremmo ordinargli di smontarsi da solo. Sai che spasso la scena!

― Sì ― disse l'altro, assorto ― ma portiamolo via dalla strada. Se passa qualcuno...

Ma ormai era troppo tardi. Qualcuno era già arrivato, ed era George. Da terra, Andrew lo aveva già visto in lontananza in cima a un dosso della strada. Avrebbe voluto richiamare l'attenzione di George, ma l'ultimo ordine era stato: "Resta in quella posizione".

Adesso George stava correndo, e quando arrivò era a corto di fiato. I due giovani si ritrassero di qualche passo e attesero gli sviluppi.

― Andrew, è successo qualcosa? ― gli chiese George, preoccupato.

― Sto bene, George.

― Allora alzati. Dove sono i vestiti?

― È il tuo robot, capo? ― chiese il tizio alto.

George gli si rivolse seccamente. ― Non è di nessuno. Che cosa sta succedendo?

― Gli abbiamo chiesto gentilmente di togliersi i vestiti. Se non è tuo, perché ti intrometti?

George chiese ad Andrew: ― Che cosa ti stavano facendo?

― Era loro intenzione smembrarmi. Stavano per portarmi in un posticino tranquillo dove mi avrebbero ordinato di smembrarmi da solo.

Il mento di George tremava per la rabbia.

I due giovani stavano ridendo, sprezzanti.

Quello alto disse in tono allegro: ― Allora, tappo, che vuoi fare? Hai intenzione di picchiarci?

― No ― disse George ― non ne ho bisogno. Questo robot fa parte della mia famiglia da più di settant'anni. Ci conosce e ci stima più di quanto conosca e stimi chiunque altro. Gli dirò che voi due state minacciando la mia vita e che volete uccidermi. Gli chiederò di difendermi. Dovendo scegliere tra me e voi, sceglierà me. Avete idea di quello che vi succederebbe se vi mettesse le mani addosso?

I due stavano indietreggiando piano, palesemente a disagio.

George disse seccamente: ― Andrew, sono in pericolo. Questi due vogliono farmi del male. Pensaci tu!

Andrew si alzò e mosse verso i due giovani, i quali se la dettero a gambe levate.

― Bene, Andrew, adesso rilassati ― gli disse George. Appariva sfinito. Ormai era troppo avanti negli anni per poter competere fisicamente con un giovanotto, figuriamoci con due.

― Non avrei potuto far loro del male, George. Mi ero accorto che non stavano per attaccarti.

― Ma io non ti ho ordinato di attaccarli, bensì di affrontarli. Ci ha pensato la paura a fare il resto.

― Com'è possibile che abbiamo paura dei robot?

― È una malattia del genere umano che non è stata ancora debellata. Ma lasciamo perdere. Tu, piuttosto, che diavolo ci fai qui? Quando ti ho visto stavo per andare a noleggiare un elicottero. Come ti sei messo in testa di andare alla biblioteca? Se me lo avessi chiesto, ti avrei portato tutti i libri che ti servivano.

― Io sono un...

― Robot libero. Sì, sì. D'accordo, ma quali libri stavi andando a cercare in biblioteca?

― Voglio saperne di più sugli uomini, sul mondo, su tutto. E sui robot, George. Voglio scrivere la storia dei robot.

― Be', adesso torniamo a casa. Raccogli i tuoi vestiti. Andrew, sono stati pubblicati milioni di libri sulla robotica, e tutti comprendono una nota storica su questa scienza. Il mondo sta diventando saturo non solo di robot ma anche di informazioni sui robot.

Andrew scosse la testa, un gesto umano che aveva imparato a fare negli ultimi tempi. ― Non voglio scrivere una storia della robotica, George. Una storia dei robot scritta da un robot. Voglio spiegare il loro punto di vista su tutto quello che è accaduto da quando i robot hanno cominciato a lavorare e vivere sulla Terra.

George inarcò le sopracciglia, ma non rispose.

 

La Signorina Piccola aveva da poco compiuto ottantatré anni, ma non le mancavano energia e decisione. Il bastone da passeggio lo usava più per dirigere le persone che le stavano attorno che per sorreggersi.

Ascoltò con espressione infuriata il racconto che George le fece dell'accaduto. ― George, è terribile. Chi erano quei teppistelli?

― Non lo so. Comunque non importa, visto che non l'hanno danneggiato.

― Ma avrebbero potuto. Sei un avvocato, George, e se sei ricco lo devi interamente al talento di Andrew. Alla base della nostra ricchezza c'è il denaro che lui ha guadagnato. Lui assicura il benessere della nostra famiglia e non intendo che lo si tratti come un giocattolo a molla.

― Che cosa vorresti che facessi, mamma?

― Ho detto che sei un avvocato. Non mi stai a sentire, forse? Voglio che tu istruisca un'istruttoria, devi costringere le corti regionali a pronunciarsi a favore dei diritti dei robot e l'Assemblea Legislativa a far passare gli articoli di legge relativi. E se fosse necessario, porta tutta la faccenda davanti alla Corte Mondiale. Terrò d'occhio le tue mosse, George, e non ammetterò titubanze da parte tua.

Lei faceva sul serio, e quello che all'inizio era solo un modo di placare la terribile vecchia signora diventò ben presto una faccenda ingarbugliata, con tante di quelle complicazioni legali da renderla molto interessante. In qualità di socio anziano della Feingold e Martin, George mise a punto la strategia ma lasciò il lavoro concreto ai soci più giovani, e in particolare al figlio Paul, che lavorava nello studio legale e che quasi tutti i giorni andava scrupolosamente a riferire le novità alla nonna. Lei, a sua volta, parlava quotidianamente della faccenda con Andrew.

Andrew c'era dentro fino al collo. Il suo libro sui robot conobbe continui ritardi perché lui preferiva studiare a fondo le questioni legali, e ogni tanto arrivava addirittura ad avanzare qualche timido suggerimento.

― Il giorno dell'incidente, George mi ha detto che gli esseri umani hanno sempre avuto paura dei robot. Se così stanno le cose, non credo che i tribunali e le assemblee legislative si daranno molto da fare per favorire i robot. Non dovremmo orientarci in qualche modo sull'opinione pubblica?

Così, mentre Paul si dava da fare in tribunale, George cominciò a lavorarsi l'opinione pubblica. La cosa gli diede il vantaggio di poter agire in modo molto meno formale, tanto che arrivò addirittura a vestirsi secondo i canoni imposti dalla nuova moda, che lui chiamava drappeggio perché gli abiti erano molto ampi e cascanti.

Paul gli disse: ― Fa' attenzione a non inciamparci mentre sei sul palco, papà.

― Farò del mio meglio ― gli rispose George, avvilito.

Un giorno parlò all'assemblea annuale degli olo-editori. ― Se, in virtù della Seconda Legge, possiamo pretendere da un robot un'obbedienza illimitata, salvo che ciò non comprometta l'incolumità degli esseri umani, allora qualsiasi essere umano, ripeto, qualsiasi essere umano ha un terribile potere su qualsiasi robot, dico qualsiasi robot. In particolare, dato che la Seconda Legge ha la precedenza sulla Terza, qualsiasi essere umano può usare la legge dell'obbedienza per annullare quella dell'auto-conservazione. Può ordinare a qualsiasi robot di danneggiare se stesso o persino di distruggersi senza alcun motivo particolare. Vi sembra giusto? Tratteremmo così un animale? Persino un oggetto inanimato che ci rende un buon servizio ha diritto alla nostra considerazione. E un robot non è insensibile, e non è un animale. Può ragionare abbastanza da poter parlare con noi, discutere con noi, scherzare con noi. Possiamo trattarli da amici, lavorarci insieme senza condividere con loro i frutti di questa amicizia e di questa collaborazione? Se un uomo ha il diritto di dare a un robot qualsiasi ordine che non comporti un danno a un altro essere umano, allora deve avere la decenza di non impartire mai a un robot un ordine che comporti un danno a un altro robot, a meno che ciò non venga dettato dal bisogno di salvare la vita umana. Un grande potere impone grandi responsabilità, e se i robot hanno le Tre Leggi che proteggono l'uomo, vi sembra troppo chiedere agli uomini di attenersi a una o due leggi che proteggano i robot?

Andrew aveva ragione. La battaglia di sensibilizzazione dell'opinione pubblica diede i suoi frutti, e i tribunali e l'Assemblea Legislativa dovettero prenderne atto, così venne promulgata una legge che sanciva il divieto di dare ordini che potevano comportare un danno ai robot. Certo si trattava di una legge che faceva acqua da tutte le parti, e le sanzioni punitive contro i trasgressori erano ridicole, tuttavia si era stabilito un principio di massima. L'approvazione dell'Assemblea Mondiale arrivò il giorno stesso della morte della Signorina Piccola.

E non si trattò di una coincidenza. La Signorina Piccola si aggrappò disperatamente alla vita durante il dibattito decisivo, e mollò la presa non appena seppe della vittoria. Il suo ultimo sorriso fu per Andrew. Le sue ultime parole furono: ― Sei stato buono con noi, Andrew. Morì mentre stringeva la mano al robot, mentre il figlio, con la moglie e i bambini, se ne stavano a rispettosa distanza.

 

L'addetto-robot alla reception scomparve nell'ufficio e Andrew si mise pazientemente in attesa. L'addetto avrebbe potuto usare l'interfono olografico, ma si era chiaramente sentito castrato (o forse derobotizzato) dal fatto di dover trattare con un suo simile, un altro robot, anziché con un essere umano.

Andrew sfruttò l'attesa per meditare su un problema semantico. La parola "derobotizzato" poteva essere usata come sinonimo di "castrato", oppure "castrato" era diventato un termine metaforico così lontano dall'accezione comune da poterlo applicare ai robot, e alle donne? Problemi di questo tipo gli capitavano spesso quando lavorava al suo libro sui robot, e il fatto di dover trovare delle frasi capaci di esprimere la complessità dell'argomento gli aveva fatto accrescere notevolmente il suo vocabolario.

Di tanto in tanto qualcuno entrava nella stanza e lo fissava, e lui sosteneva lo sguardo dell'altro fino a costringerlo ad abbassare gli occhi.

Finalmente Paul Martin uscì dall'ufficio. Sembrava sorpreso, ma Andrew non poteva stabilire con certezza che fosse quella la sua espressione. Paul aveva iniziato a truccarsi pesantemente come la moda imponeva a entrambi i sessi, e malgrado i cosmetici rendessero più marcati e solidi i lineamenti delicati del viso, Andrew non approvava quel vezzo. Aveva scoperto che il fatto di disapprovare i comportamenti degli esseri umani, purché non desse voce alla sua disapprovazione, non lo faceva sentire a disagio più di tanto. Poteva addirittura mettere per iscritto quella disapprovazione. Era certo che non era sempre stato così.

― Andrew, entra ― gli disse Paul. ― Mi dispiace di averti fatto aspettare, ma dovevo finire una cosa. Vieni dentro. Avevi detto che volevi parlarmi, ma non pensavo che intendessi qui, in città.

― Se è occupato, Paul, continuerò ad aspettare.

Paul lanciò un'occhiata al gioco di ombre sul quadrante a muro che serviva a segnare il tempo. ― Posso ritagliarmi un po' di tempo per te. Sei venuto da solo?

― Ho noleggiato un'automobile.

― Problemi? ― gli chiese Paul, molto preoccupato.

― Nessun problema, come del resto mi aspettavo. I miei diritti sono tutelati.

Dopo quell'affermazione, Paul apparve ancora più preoccupato. ― Andrew, ti ho spiegato che la legge non è inviolabile, almeno nella maggior parte dei casi. E se continuerai a girare vestito, finirai di nuovo nei guai, proprio come la prima volta.

― La prima e l'ultima, Paul. Mi dispiace di averla fatta preoccupare.

― Senti, Andrew, cerca di vedere le cose da un altro punto di vista. Sei una sorta di leggenda vivente e per molti aspetti sei troppo prezioso per arrogarti il diritto di correre rischi. Ma dimmi, come va il tuo libro?

― Sto per finirlo, Paul. L'editore è abbastanza soddisfatto.

― Bene.

― Non so se è soddisfatto del libro in se stesso. Credo che si aspetti di venderne molte copie per il solo fatto che l'autore è un robot. E questa previsione a renderlo soddisfatto, suppongo.

― È un uomo anche lui, purtroppo.

― Non ho detto che mi dispiace. Se il libro vende io guadagnerò i soldi che mi servono.

― La nonna ti ha lasciato...

― La Signorina Piccola è stata generosa, e sono certo che potrò contare sulla famiglia se ne avrò bisogno. Ma conto molto sui diritti d'autore del mio libro per compiere il prossimo passo.

― E qual è il prossimo passo?

― Desidero parlare con il capo della U.S. Robots and Mechanical Men Corporation. Ho cercato di prendere un appuntamento con lui, ma non ci sono ancora riuscito. Lei capisce, la compagnia non ha collaborato alla stesura del mio libro, quindi il loro comportamento non mi stupisce.

Paul era chiaramente divertito. ― La collaborazione è l'ultima cosa che puoi aspettarti da loro. Non hanno nemmeno collaborato con noi nella battaglia per i diritti civili dei robot. Anzi, ci hanno quasi osteggiato, e non è difficile capirne il motivo. Nessuno vorrà comprare robot che possano rivendicare dei diritti.

― Tuttavia, se li chiama lei, forse riuscirà a farmi avere un appuntamento ― disse Andrew.

― Credo di essere impopolare quanto te alla U.S. Robots, Andrew.

― Però se lei facesse loro intendere che accettando di vedermi potrebbero prevenire un'altra azione legale dello studio Feingold e Martin per un ulteriore ampliamento dei diritti civili dei robot...

― Andrew, non sarebbe forse una bugia?

― Sì, Paul, e io non posso dire bugie, quindi deve chiamarli lei.

― Ah, tu non puoi dire bugie e inciti me alla menzogna, eh? Diventi sempre più umano, Andrew.

 

Non fu facile organizzare l'incontro, nonostante il nome di Paul avesse un certo peso.

Ma alla fine ci riuscì, e quando l'incontro ebbe luogo, Harley Smythe-Robertson, che per parte di madre discendeva dal fondatore della compagnia e che per questo aveva aggiunto il cognome Robertson a quello paterno, non fece nulla per mascherare il fastidio. Stava per andare in pensione, e da quando aveva assunto la presidenza si era sempre battuto contro i diritti dei robot. I pochi capelli grigi erano schiacciati dalla brillantina, il viso non presentava tracce di trucco. Di tanto in tanto lanciava ad Andrew occhiate piene di ostilità.

Andrew disse: ― Signore, quasi un secolo fa Merton Mansky, che all'epoca lavorava per la compagnia, mi disse che i calcoli matematici che governano lo schema dei circuiti positronici sono troppo complessi per non dar luogo a soluzioni approssimative e che di conseguenza le mie capacità non erano del tutto prevedibili.

― È passato un secolo. ― Smythe-Robertson esitò, poi aggiunse in tono glaciale: ― Signore. Adesso questo non è più vero. I nostri robot sono costruiti con la massima precisione e vengono addestrati a fare il lavoro a cui sono destinati.

― Sì ― disse Paul, che aveva voluto accompagnare Andrew per assicurarsi che l'azienda non tentasse qualche colpo basso ― con il risultato che il mio segretario deve essere guidato ogni volta che ha di fronte una situazione leggermente fuori dall'ordinario.

Smythe-Robertson ribatté: ― Lei si risentirebbe maggiormente se il robot improvvisasse.

― Quindi non costruite più robot come me, flessibili e adattabili ― disse Andrew.

― No.

― Le ricerche che ho fatto per la stesura del mio libro indicano che io sono il robot più vecchio attualmente in attività.

― Attualmente e per sempre ― disse Smythe-Robertson. ― Non ci saranno mai più robot come lei, perché adesso i nostri robot diventano inutilizzabili dopo venticinque anni. Vengono ritirati e sostituiti con modelli nuovi.

― Nessuno dei robot che costruite adesso può funzionare per più di venticinque anni ― disse Paul in tono sarcastico. ― Da questo punto di vista Andrew è del tutto eccezionale.

Andrew, attenendosi al discorso che si era preparato, disse: ― Allora, essendo il robot più vecchio e flessibile del mondo, non sono abbastanza insolito da meritare da parte dell'azienda un trattamento di riguardo?

― Niente affatto ― disse Smythe-Robertson, gelido. ― Il fatto che lei sia insolito rappresenta un motivo di imbarazzo per noi. Se lei fosse stato noleggiato anziché, purtroppo per noi, venduto, a quest'ora sarebbe già stato sostituito da un pezzo.

― Ma è proprio questo il punto ― disse Andrew. ― Sono un robot libero, padrone di me stesso, per cui sono venuto da voi per chiedervi di sostituirmi. Cosa che non potreste fare senza l'autorizzazione del proprietario. Oggi questa autorizzazione viene estorta in quanto è una condizione del contratto di noleggio, ma ai miei tempi era diverso.

Smythe-Robertson sembrava allarmato e perplesso, e per un attimo ci fu silenzio. Andrew si ritrovò a fissare l'ologramma sulla parete. Era la maschera mortuaria di Susan Calvin, patrona di tutti i robotologi. Era morta da quasi due secoli, ma avendo letto tutte le sue opere prima di iniziare la stesura del libro, Andrew la conosceva così bene che gli sembrava di averla conosciuta.

Smythe-Robertson disse: ― Ma come faccio a sostituirla? Dato che lei è padrone di se stesso, a chi andrebbe il nuovo robot? Non a lei, dato che nel momento stesso del ritiro lei cesserebbe di esistere.

― Questo non è un problema ― interloquì Paul. ― La sede della personalità di Andrew è nel suo cervello positronico, che è l'unica parte insostituibile a meno che non si voglia creare un altro robot. Il cervello positronico, dunque, è il padrone di Andrew. Tutte le altre parti del suo corpo possono essere sostituite senza per questo condizionare la personalità del robot, e queste parti sono di proprietà del cervello. Direi che Andrew vuole fornire al suo cervello un nuovo corpo robotico.

― Esatto ― disse Andrew, con molta calma. ― Avete costruito androidi, vero? Robot che hanno un aspetto esteriore simile a quello degli uomini, persino nella porosità della pelle.

― Sì ― ammise Smythe-Robertson. ― Funzionavano benissimo, con la loro pelle e i loro tendini di fibra sintetica. Praticamente l'unica cosa di metallo era il cervello, eppure erano solidi quasi come i robot metallici. Anzi, considerato il rapporto di peso, erano più solidi.

― Non lo sapevo ― disse Paul, interessato. ― Quanti ce ne sono sul mercato?

― Nessuno ― gli rispose Smythe-Robertson. ― Erano di gran lunga più costosi dei normali robot, e una ricerca di mercato ci rivelò che non sarebbero stati accettati. Erano troppo simili agli uomini.

Andrew disse: ― Ma non avete perso la capacità di poterli costruire, immagino. Quindi chiedo di essere sostituito con un robot organico, un androide.

― Santo Dio ― disse Paul sorpreso.

Smythe-Robertson si irrigidì. ― È impossibile.

― Perché? ― chiese Andrew. ― Pagherò qualsiasi cifra, purché ragionevole.

― Non costruiamo androidi.

― Non volete costruirli ― s'intromise subito Paul. ― Questo non vuol dire che non siete in grado di farlo.

― La costruzione di androidi va contro il parere dell'opinione pubblica ― disse Smythe-Robertson.

― Ma non contro la legge ― precisò Paul.

― Comunque non li costruiamo e non ne costruiremo.

Paul si schiarì la voce. ― Signor Smythe-Robertson, Andrew è un robot libero che viene tutelato dalla legge sui diritti dei robot. Lei ne è al corrente, vero?

― Anche troppo.

― Questo robot, essendo libero, ha scelto di indossare degli abiti. Questo gli causa frequenti umiliazioni da parte di gente ignobile, malgrado ci sia una legge che vieta l'umiliazione dei robot. È difficile intentare azioni legali in base a offese che le autorità chiamate a giudicare non considerano probabilmente gravi.

― La U.S. Robots lo aveva capito fin dall'inizio. Sfortunatamente non si può dire altrettanto dello studio di suo padre.

― Mio padre è morto, e adesso esiste un preciso reato contro un preciso bersaglio.

― Che cosa sta dicendo? ― disse Smythe-Robertson.

― Il mio cliente, Andrew Martin... sì, lo è appena diventato... è un robot libero che ha il diritto di chiedere alla U.S. Robots and Mechanical Men Corporation di essere sostituito, in quanto la sua azienda effettua tale sostituzione a qualunque robot sia in servizio da più di venticinque anni. Anzi, è proprio la sua società a insistere perché questa sostituzione avvenga.

Paul stava sorridendo, era del tutto a proprio agio. ― Il cervello positronico del mio cliente è il padrone del corpo del mio cliente, che indubbiamente ha superato i venticinque anni di età. Quindi il cervello positronico esige la sostituzione del corpo e accetta di pagare qualsiasi ragionevole somma per ottenere il corpo di un androide. Se rifiutate la richiesta, il mio cliente subirà un'umiliazione e vi farà causa. E se è vero che l'opinione pubblica non appoggerebbe una tale richiesta da parte di un robot, mi lasci ricordare che è anche vero che la U.S. Robots non è ben vista dalla gente. Persino quelli che traggono profitto dall'uso dei robot non si fidano molto dell'azienda. Forse si tratta dei postumi della paura che un tempo si nutriva per i robot, oppure di rancore verso il potere finanziario della U.S. Robots che detiene il monopolio mondiale. Qualunque sia la causa, questo risentimento è un dato di fatto, quindi ritengo che non vi convenga affrontare una causa, tanto più che il mio cliente è ricco, ha ancora molti secoli di vita e nulla potrà impedirgli di combattere la sua battaglia per sempre.

Smythe-Robertson era pian piano diventato rosso in viso. ― Lei sta cercando di costringermi a...

― Non la sto costringendo a un bel niente ― disse Paul. ― Se vuole rifiutarsi di soddisfare la ragionevole richiesta del mio cliente, è libero di farlo, e noi ce ne andremo senza aggiungere altro a quanto è stato detto. Ma faremo causa alla compagnia e alla fine perderete.

― Vada avanti.

― Ho l'impressione che cederà ― disse Paul. ― Ha ancora qualche dubbio, ma sono certo che alla fine lo riterrà inevitabile. Lasci quindi che le assicuri un'altra cosa. Se durante l'espianto e il successivo trapianto del cervello del mio cliente nel nuovo corpo organico verranno causati danni anche lievi, non mi darò pace finché non avrò inchiodato la U.S. Robots alle sue responsabilità. Se sarà necessario, farò di tutto per mobilitare l'opinione pubblica contro la compagnia qualora un solo circuito del cervello di platino-iridio del mio cliente venisse alterato. ― Si rivolse ad Andrew e aggiunse: ― Sei d'accordo su tutto, Andrew?

Andrew esitò per un lunghissimo minuto. Acconsentire sarebbe equivalso a ricattare, molestare e umiliare un essere umano. Però non gli avrebbe recato alcun danno fisico, si disse.

Alla fine riuscì a pronunciare un debolissimo: ― Sì.

 

Andrew aveva la sensazione di essere stato ricostruito del tutto. Per giorni, settimane, mesi si sentì diverso, e qualsiasi cosa dovesse fare gli provocava gravi incertezze.

Paul era fuori di sé. ― Ti hanno rovinato, Andrew. Faremo causa.

Andrew parlava molto lentamente. ― No. Non riuscirà a provare che c'è stata p-p-p-p...

― Premeditazione?

― Premeditazione. E poi sto riacquistando le forze, mi sento meglio. E il t-t-t-t...

― Tremore?

― Il trauma. Dopo tutto, si trattava della prima op-op-op-op... del genere.

Andrew era l'unico che poteva sapere in che condizioni fosse il suo cervello. Era tutto in ordine, e nei mesi che gli ci vollero per imparare a coordinare gli impulsi del cervello con il nuovo corpo passò molto tempo davanti allo specchio.

Non era proprio umano. La faccia era rigida, troppo rigida, e i movimenti erano troppo meccanici. Mancava loro la scioltezza tipica degli uomini, ma forse l'avrebbe acquisita con il tempo. Se non altro poteva indossare gli abiti senza preoccuparsi di quella strana anomalia rappresentata dalla faccia metallica.

Un giorno finalmente annunciò: ― Ho intenzione di rimettermi al lavoro.

Paul si mise a ridere e disse: ― Allora significa che stai bene. Che cosa pensi di fare? Scriverai un altro libro?

― No ― gli rispose Andrew, serio. ― La mia vita è troppo lunga, non voglio farmi prendere da un'unica attività. Un tempo ero principalmente un artista, e potrei dedicarmi di nuovo a questo. Sono stato anche uno storico, e potrei fare anche questo. Ma voglio diventare un robobiologo.

― Un robopsicologo, vuoi dire.

― No. La robopsicologia mi costringerebbe a studiare i cervelli positronici, e per adesso quest'argomento non m'interessa. Mi pare che un robobiologo, invece, si occupi del funzionamento del corpo.

― Non sono i robotologi a fare questo?

― Il robotologo lavora con i corpi metallici. Io invece studierei un corpo organico umanoide e, a quanto ne so, sono l'unico a possederne uno.

― Limiti il tuo campo ― disse Paul, assorto. ― Come artista hai potuto spaziare liberamente, come storico ti sei occupato principalmente dei robot, e come robobiologo ti occuperai soltanto di te stesso.

Andrew annuì. ― Parrebbe di sì.

Andrew dovette cominciare da zero, perché non sapeva nulla di biologia, e quasi nulla di scienza. Diventò una faccia nota nelle biblioteche, dove passava ore e ore seduto davanti agli archivi elettronici, impeccabile nei suoi abiti, una persona normale. Quei pochi che vennero a sapere che era un robot non lo ostacolarono in nessun modo.

Aveva aggiunto un altro locale alla sua casa adibendolo a laboratorio, inoltre aveva ingrandito la biblioteca.

Passarono gli anni, e un giorno Paul andò da lui. ― È un peccato che non ti occupi più di storia dei robot. Ho saputo che la U.S. Robots sta adottando una politica totalmente nuova.

Paul era invecchiato, e gli occhi malati erano stati sostituiti da cellule fotoottiche. In un certo senso era diventato più simile ad Andrew.

― Che cosa hanno fatto? ― gli chiese Andrew.

― Stanno costruendo dei computer centrali, in pratica giganteschi cervelli positronici, che attraverso microonde comunicano a qualsiasi distanza con un numero di robot che può andare da dodici a un massimo di mille. I robot non hanno cervello, sono come le membra di quell'unico cervello gigantesco, eppure ne sono separati.

― È un metodo più efficiente?

― Quelli della U.S. Robots sostengono di sì. È stato Smythe-Robertson a imporre la svolta prima di morire, e ho l'impressione che si tratti di una ripicca contro di te. La U.S Robots non intende assolutamente costruire robot che possano ripetere quello che hai fatto tu, e per non avere grane hanno deciso di separare il cervello dal corpo. Il cervello non avrà più un corpo che richieda di essere sostituito e il corpo non avrà nessun cervello che desideri qualcosa. E sorprendente, Andrew, l'influenza che hai avuto sulla storia dei robot. È stata la tua vena artistica a incoraggiare la U.S. Robots a costruire robot più precisi e specializzati. È stata la tua libertà a determinare che fosse riconosciuto il principio dei diritti civili dei robot. È stata la tua insistenza di ottenere un corpo organico a spingere la U.S. Robots a passare al nuovo sistema cervello-corpo.

― Immagino che alla fine l'azienda produrrà un enorme cervello capace di controllare miliardi di corpi robotici. Tutte le uova in uno stesso paniere. È una cosa pericolosa, e ingiusta.

― Credo che tu abbia ragione ― disse Paul ― ma credo che questo non avverrà prima di un secolo, e io sarò già morto da un pezzo. Anzi, è probabile che non arrivi nemmeno all'anno prossimo.

― Paul! ― esclamò Andrew, angosciato.

Paul si strinse nelle spalle.― Siamo mortali, Andrew. Non siamo come te. Ma non me ne importa più di tanto, tuttavia mi importa che tu sappia una cosa. Sono l'ultimo dei Martin. Sì, ci sono dei parenti alla lontana, ma non contano. Metterò tutti i miei soldi nel tuo conto e per molto tempo non dovrai preoccuparti della sicurezza economica.

― Non era necessario ― disse Andrew, a fatica. In tutto quel tempo non era riuscito ad abituarsi alla morte dei Martin.

― Senti, non parliamone nemmeno. Così voglio e così sarà. Ma dimmi, piuttosto, a cosa stai lavorando?

― Sto progettando un sistema che permetterà agli androidi, cioè me, di ottenere energia dalla combustione degli idrocarburi anzicchè dalle pile atomiche.

Paul inarcò le sopracciglia. ― Così potranno respirare e mangiare.

― Sì.

― Da quant'è che ci lavori?

― Da tanto tempo, ormai, ma credo di aver messo a punto una camera di combustione adatta a una disgregazione catalitica controllata.

― Ma perché, Andrew? La pila atomica è di gran lunga migliore

― Per certi versi, forse. Ma la pila atomica non è umana.

 

Ci volle tempo, ma Andrew ne aveva in abbondanza. In primo luogo non voleva fare nulla prima che Paul fosse morto in pace. Con la morte del pronipote del Signore, Andrew si sentì più esposto alle ostilità del mondo, e per questo seguì con determinazione il cammino che si era prefissato.

E non era del tutto solo. Nonostante la morte di Paul, lo studio legale Feingold e Martin continuava a operare, perché un'azienda, come un robot, non muore mai.

Lo studio aveva delle direttive precise e le seguiva rigorosamente. Grazie al conto in banca e allo studio legale, Andrew continuò a essere ricco. In cambio di una grossa parcella annuale, e anticipata, lo studio Feingold e Martin si occupò degli aspetti legali connessi alla camera di combustione di Andrew. E quando Andrew ritenne fosse arrivato il momento di far visita alla U.S. Robots, andò solo. Una volta ci era andato insieme al Signore e un'altra volta con Paul. Stavolta, la terza, era solo, e molto simile a un uomo.

La U.S. Robots era cambiata. Gli impianti di produzione erano stati trasferiti su una grande stazione spaziale, come avevano fatto e continuavano a fare molte altre industrie. Insieme agli impianti erano stati trasferiti anche molti robot. La Terra stava diventando come un immenso parco, con una popolazione stabilizzata ormai sul miliardo, cui si aggiungevano altrettanti robot, trecento milioni dei quali erano dotati di cervello indipendente.

Il direttore delle ricerche, Alvin Magdescu, era di carnagione e di capelli scuri, aveva la barba a pizzo e dalla cintola in su era nudo fatta eccezione per la fascia a bandoliera tanto in voga a quei tempi. Andrew era vestito secondo la moda di molti decenni addietro.

Magdescu disse:― La conosco, naturalmente, e sono lieto di averla qui. Lei è il nostro prodotto più famoso ed è un peccato che il vecchio Smythe-Robertson fosse così maldisposto nei suoi confronti. Avremmo potuto fare grandi cose con lei.

― Potete ancora farle ― disse Andrew.

― No, non credo. Ormai è tardi. Abbiamo avuto i robot sulla Terra per più di un secolo, ma adesso le cose stanno cambiando. Torneranno nello spazio, e i pochi che rimarranno qui non avranno un cervello indipendente.

― Ma ci sono io, e io resterò sulla Terra.

― Vero, ma a quanto vedo lei non ha più molto del robot. Che cos'è venuto a chiedere stavolta?

― Di essere ancor meno robot. Dal momento che adesso ho un corpo organico, vorrei una fonte di energia organica. Ho qui con me i progetti...

Magdescu non li scorse frettolosamente. Magari la sua intenzione iniziale era quella, ma le cose che lesse lo affascinarono. ― Molto ingegnoso. Chi è l'ideatore?

_ Io.

Magdescu alzò lo sguardo di scatto e lo fissò. ― Dovrebbe sottoporsi, stando al progetto, a un esame corporeo molto minuzioso, e si tratta di un esame che non è mai stato fatto finora. Io le consiglio di rimanere così com'è.

Il viso di Andrew aveva una gamma limitata di espressioni, ma l'impazienza fu palese dalla sua voce. ― Dottor Magdescu, lei non ha affatto capito il punto. Lei non può fare altro che assecondare la mia richiesta. Se questi congegni possono essere inseriti nel mio corpo, potranno essere inseriti anche nei corpi umani. Si discute molto sulla possibilità di allungare la vita umana per mezzo di protesi di vario genere. E non esistono protesi migliori di quelle che ho progettato e che sto progettando. Si dà il caso che lo studio legale Feingold e Martin abbia fatto brevettare le mie cose. Siamo quindi in grado di produrre le protesi che un giorno permetteranno agli uomini di sostituire organi malati con organi simili a quelli dei robot. E la U.S. Robots ne soffrirà dal punto di vista economico. Tuttavia, se effettuerete l'operazione su di me e la ripeterete in futuro qualora ce ne fosse la possibilità, vi darò il permesso di sfruttare i miei brevetti e di controllare le tecnologie sia dei robot sia degli esseri umani dotati di protesi. Naturalmente vi concederò il permesso solo se la prima operazione verrà portata a termine con successo, solo quando sarà passato abbastanza tempo da garantire che tale successo sia duraturo.

Andrew non si sentì inibito dalla Prima Legge mentre dettava queste severe condizioni a un essere umano. Cominciava a capire che quella che poteva sembrare crudeltà, a lungo termine poteva rivelarsi bontà.

Magdescu era sbalordito. ― Non spetta a me prendere una decisione del genere. Dovrà essere presa collegialmente, e forse ci vorrà tempo.

― Posso aspettare un periodo di tempo ragionevole ― disse Andrew. ― Ma non approfittate della mia pazienza. ― E pensò soddisfatto che nemmeno Paul avrebbe saputo fare meglio.

 

Passò un periodo di tempo ragionevole, e l'operazione fu eseguita con successo.

Magdescu disse: ― Ero molto contrario all'operazione, Andrew, ma non per i motivi cui forse pensa. Non avrei minimamente ostacolato l'esperimento se il paziente non fosse stato lei. Non sopportavo l'idea di mettere a repentaglio il suo cervello positronico. Adesso che i suoi circuiti interagiscono con fibre nervose artificiali, sarà difficile salvare il cervello qualora il suo corpo subisse un danno.

― Avevo la piena fiducia nell'equipe della U.S. Robots ― disse Andrew. ― Adesso posso anche mangiare.

 

― Be', può sorseggiare dell'olio d'oliva.

Naturalmente ogni tanto bisognerà pulire la camera di combustione, e non sarà piacevole per lei.

― Sì, certo, ma io spero di fare un altro passo in avanti. Non è impossibile arrivare all'auto-pulizia. Ed è per questo che sto lavorando a un congegno capace di trattare cibi solidi contenenti parti incombustibili, per così dire indigeste, che devono essere scartate.

― A quel punto le occorrerebbe l'ano.

― O qualcosa di simile.

― Che altro, Andrew?

― Tutto il resto.

― Compresi i genitali?

― Sì, nei limiti imposti dal mio progetto. Il mio corpo è una tela su cui voglio disegnare...

Magdescu attese che Andrew finisse la frase, ma quando capì che non l'avrebbe fatto, disse: ― Un uomo?

― Vedremo ― disse Andrew.

― È un'ambizione che non vale la pena, Andrew. Lei è già meglio di un uomo. Ha cominciato a peggiorare quando ha deciso di diventare organico.

― Il mio cervello non ne ha sofferto.

― No, su questo ha ragione. Però tutte le protesi che ha brevettato sono commercializzate con il suo nome. Tutti la riconoscono come inventore degno del massimo rispetto, come è giusto che sia. E allora perché vuole continuare a giocare con il suo corpo?

Andrew non rispose.

Gli onori arrivarono. Accettò di diventare membro di diverse associazioni scientifiche e culturali, una delle quali si occupava della nuova scienza che lui aveva fondato chiamandola robobiologia, ma che adesso era stata ribattezzata protesiologia. Il giorno del centocinquantesimo compleanno della sua costruzione, ci fu una cena offerta in suo onore dalla U.S. Robots. Se anche Andrew si accorse dell'ironia della cosa, lo tenne per sé.

Alvin Magdescu, che era andato in pensione, volle essere presente alla cena. Aveva novantaquattro anni ed era vivo perché aveva delle protesi che svolgevano le funzioni del fegato e dei reni. Il momento culmine della cena fu quando Magdescu, dopo un breve e commosso discorso, levò il calice per brindare al "Robot Centocinquantenne".

Andrew si era fatto rimodellare il viso al punto che adesso poteva esprimere una più vasta gamma di emozioni, ma per tutta la cena fu immerso in una sorta di mesta passività.

Non gli piaceva essere un Robot Centocinquantenne.

 

Fu la protesiologia che alla fine fece lasciare la Terra ad Andrew.

Nei decenni seguenti all'anniversario, la Luna diventò un mondo più terrestre della Terra stessa sotto tutti i punti di vista tranne che per la minore attrazione gravitazionale, e le sue città sotterranee erano densamente popolate. Nella costruzione delle protesi bisognava tener presente questa differente forza di gravità, così Andrew lavorò cinque anni a fianco dei protesiologi di stanza sulla Luna per studiare le correzioni necessarie. Durante il tempo libero faceva delle lunghe passeggiate, e gli altri robot lo trattavano con la deferenza che erano soliti riservare agli esseri umani.

Quando fece ritorno sulla Terra trovò un ambiente noioso e tranquillo rispetto a quello lunare. Andò negli uffici dello studio Feingold e Martin per annunciare il suo arrivo.

Il nuovo titolare, Simon DeLong, fu sorpreso di vederlo. ― Ci avevano avvertiti che stava per tornare, Andrew ― gli disse, evitando all'ultimo momento di chiamarlo "signor Martin" ― ma non l'aspettavamo prima della prossima settimana.

― Ho anticipato il rientro ― disse Andrew, brusco. Era ansioso di arrivare al dunque. ― Sulla Luna, Simon, ero a capo di un'equipe composta da 20 scienziati umani. Davo ordini e tutti obbedivano. I robot mi ossequiavano come fossi un uomo. Allora perché non sono un essere umano?

L'espressione di DeLong si fece guardinga. ― Mio caro Andrew, come mi ha appena detto, sia gli uomini sia i robot la trattano come un uomo. Quindi lei è de facto un essere umano.

― Ma non mi basta essere un essere umano de facto. Non voglio essere trattato come un essere umano, voglio essere riconosciuto come tale anche da un punto di vista giuridico. Voglio diventare un essere umano de iure.

― Questo è un altro discorso. Ci scontreremmo con i pregiudizi degli uomini e con il fatto indubbio che lei non è un essere umano per quanto somigli a un uomo.

― In che senso non lo sono? Il mio aspetto è umano, e i miei organi sono l'equivalente di quelli degli uomini. Anzi, ci sono degli uomini che hanno delle protesi identiche alle mie. Ho dato un contributo artistico, letterario e scientifico alla cultura umana come tanti altri uomini. Che altro dovrei fare?

― Se fosse per me, non le chiederei nient'altro. Il guaio è che soltanto l'Assemblea Legislativa Mondiale potrebbe prendere una tale decisione. E francamente non mi pare possibile che ciò accada.

― Con quale membro dell'Assemblea potrei discutere della faccenda?

― Forse con il presidente della commissione per la Scienza e la Tecnologia.

― Può fissarmi un appuntamento?

― Non le serve un intermediario. La sua posizione le dà la possibilità...

― No, ci pensi lei. ― Ad Andrew non passò nemmeno per la testa che aveva dato un ordine perentorio a un essere umano. Sulla Luna ci aveva fatto l'abitudine. ― Voglio che il presidente sappia che lo studio Feingold e Martin mi appoggerà fino in fondo.

― Be', ma...

― Fino in fondo, Simon. In 173 anni ho contribuito enormemente, in un modo o nell'altro, al successo di questo studio. In passato mi sono sentito obbligato verso alcuni soci di questo studio. Adesso è diverso. Adesso sento di dovere riscuotere un credito.

― Farò quello che posso ― gli disse DeLong.

Il presidente della commissione per la Scienza e la Tecnica era una donna originaria della regione dell'Asia Orientale. Si chiamava Chee Li-Hsing e il suo abito trasparente (che le copriva quello che lei voleva lasciar coperto grazie a un brillio) la faceva sembrare avvolta nella plastica.

― Capisco perfettamente il suo desiderio di ottenere tutti i diritti degli uomini. Ci sono stati momenti nella storia in cui determinati settori della popolazione umana hanno dovuto lottare per ottenere i diritti civili. Ma quali sono i diritti che non le vengono ancora riconosciuti?

― Il semplice diritto di vita. Un robot può essere smantellato in qualsiasi momento.

― Un essere umano può essere giustiziato in qualsiasi momento.

― Ma una sentenza capitale può essere eseguita soltanto dopo un regolare processo. Il mio smantellamento può avvenire senza processo. Basta soltanto la parola di un uomo che ne abbia l'autorità per porre fine ai miei giorni. Inoltre... inoltre... ― Andrew cercò disperatamente di non essere supplichevole, ma fu tradito da quegli stessi artifici che gli permettevano di palesare emozioni. ― La verità è che voglio essere un uomo. È da sei generazioni che lo desidero.

Li-Hsing espresse comprensione con i suoi occhi scuri. ― L'Assemblea Legislativa può passare una legge che la dichiari umano così come potrebbe passare una legge per dichiarare umana una statua di marmo. Le probabilità sono minime, insomma. I membri dell'Assemblea sono uomini, e continua a esserci un certo sospetto nei confronti dei robot.

― Anche ora?

― Sì. Potremmo anche riconoscere all'unanimità che lei si è guadagnato ampiamente il premio dell'umanità, tuttavia resterebbe il timore di creare un precedente indesiderabile.

― Quale precedente? Io sono l'unico robot libero, l'unico del mio tipo, e non ce ne saranno mai altri. Può chiederlo alla U.S Robots.

― "Mai" è un termine delicato, Andrew. Anzi, signor Martin, se preferisce, visto che personalmente non avrei problemi ad accoglierla tra gli uomini. Scoprirà che la maggioranza dei membri non è disposta a creare un precedente, per quanto insignificante tale precedente possa essere. Signor Martin, ha tutta la mia comprensione, ma devo dirle di non sperare. In verità...

Si appoggiò allo schienale e corrugò la fronte. ― In verità, se la faccenda diventasse troppo scottante, potrebbe addirittura nascere l'idea, sia in seno all'assemblea sia fuori, di smantellarla. Toglierla dalla circolazione definitivamente potrebbe risultare il modo più facile di risolvere il dilemma. Consideri questa eventualità prima di insistere.

― È possibile che nessuno ricordi che la tecnica della protesiologia si deve interamente a me?

― Forse le sembrerà crudele, ma è possibile. Anzi, se qualcuno se ne ricorderà lo farà per accusarla. Diranno che l'ha fatto per interesse personale, magari nel tentativo di arrivare alla robotizzazione degli esseri umani o all'umanizzazione dei robot per motivi criminosi. Lei non è mai stato oggetto di una campagna di odio, signor Martin, ma le assicuro che stavolta non esiterebbero a diffamarla con accuse ridicole che molta gente non farà fatica a credere. Signor Martin, le consiglio di non rischiare. ― Si alzò. Malgrado Andrew fosse seduto, era più piccola di lui, quasi come una bambina.

― Se decidessi di lottare per ottenere ciò che voglio, lei sarebbe al mio fianco? ― le chiese Andrew.

La donna rifletté un attimo prima di rispondere. ― Sì, nei limiti delle mie possibilità. Ma nel momento in cui la mia presa di posizione rischiasse di compromettere la mia immagine politica, sarò costretta ad abbandonarla, perché tutto sommato ho delle riserve. Sto cercando di essere onesta con lei.

― Grazie, non chiedo altro. Intendo combattere fino in fondo per ottenere ciò che voglio e non mi importa delle conseguenze, e le chiederò di aiutarmi solo nei limiti delle sue possibilità.

 

Non fu una battaglia diretta. Lo studio Feingold e Martin raccomandò ad Andrew di essere paziente e lui borbottò seccato che di pazienza ne aveva da vendere. Poi i suoi avvocati misero a punto una campagna che aveva lo scopo di restringere il campo di battaglia.

Intentarono una causa sostenendo che un individuo dotato di cuore artificiale non era tenuto a pagare i suoi debiti, in quanto la protesi cardiaca gli faceva perdere la qualifica di essere umano, e quindi decadevano i diritti e gli obblighi costituzionali. Questa tesi venne sostenuta con abilità e tenacia. Inanellarono una sconfitta dopo l'altra, però la faccenda ebbe il massimo risalto, e con un appello dopo l'altro riuscirono a portarla davanti alla Corte Mondiale.

Ci vollero anni, e milioni di dollari.

Quando fu pronunciata la sentenza definitiva, DeLong festeggiò come una vittoria quella che era stata una sconfitta legale. Naturalmente Andrew partecipò ai festeggiamenti negli uffici dello studio Feingold e Martin.

― Abbiamo ottenuto due cose, Andrew ― disse DeLong ― entrambe positive. Innanzitutto abbiamo stabilito il fatto che un corpo umano, qualunque sia il numero di organi artificiali impiantati, resta sempre un corpo umano. In secondo luogo abbiamo coinvolto l'opinione pubblica che adesso si oppone a un concetto restrittivo di umanità, perché non esiste essere umano che esiterebbe a farsi sostituire gli organi malati con delle protesi per vivere più a lungo.

― E crede che adesso l'Assemblea Legislativa mi concederà il diritto di essere un uomo? ― chiese Andrew.

DeLong parve un po' imbarazzato. ― Su questo punto non mi sento molto ottimista. Resta il problema dell'unico organo che la Corte Mondiale ritiene prerogativa assoluta degli uomini. Gli esseri umani hanno un cervello cellulare organico mentre i robot possiedono un cervello positronico di platino-iridio, quando ce l'hanno. No, Andrew, non mi guardi in quel modo. Non siamo in grado di riprodurre artificialmente un cervello cellulare così perfetto da soddisfare la sentenza della Corte. Nemmeno lei potrebbe costruire un cervello di questo tipo.

― E allora che cosa facciamo?

― Un tentativo naturalmente. La congressista Li-Hsing ci appoggerà, e avremo dalla nostra parte un numero sempre crescente di altri congressisti. Il Presidente seguirà sicuramente il parere della maggioranza.

― Abbiamo la maggioranza?

― No, siamo ancora lontani. Ma potremmo raggiungerla se l'opinione pubblica si dimostrasse disposta ad allargare il suo concetto di umanità a lei. Le probabilità sono poche, lo ammetto, ma se lei non intende rinunciare si tratta dell'unica possibilità.

 

La congressista Li-Hsing era molto più vecchia rispetto a quando Andrew l'aveva incontrata per la prima volta. Non indossava più da un pezzo abiti trasparenti. Adesso aveva i capelli rasati a zero e portava un vestito a sacco. Andrew si ostinava invece a vestirsi nello stile dei tempi in cui aveva cominciato ad abbigliarsi, anche se stava attento a rimanere nei limiti del gusto comune.

― Abbiamo fatto tutto il possibile, Andrew ― disse la donna. ― Tenteremo ancora dopo le vacanze, ma se devo essere sincera credo che la sconfitta sia certa, e quindi dovremo accettarla. Tutti i miei sforzi più recenti mi hanno soltanto fatto perdere terreno in vista della prossima campagna elettorale.

― Lo so ― disse Andrew ― e sono molto dispiaciuto. Una volta mi disse che non avrebbe esitato ad abbandonarmi qualora la sua carriera politica potesse essere compromessa. Perché non l'ha ancora fatto?

― Be', si può anche cambiare idea, no? In qualche modo abbandonarla mi sarebbe dispiaciuto più di non ottenere il mandato per la prossima legislatura. Vede, è da più di venticinque anni che sono al Congresso, e credo che sia abbastanza.

― Non c'è nessun altro modo per convincerli, Chee?

― Siamo riusciti a convincere quelli che erano disposti a ragionare. Tutti gli altri, che sono la maggioranza, non si spostano di un passo dalle loro posizioni, sono prevenuti psicologicamente.

― Ma essere prevenuti psicologicamente non giustifica votare in un modo piuttosto che nell'altro.

― Lo so, Andrew, ma loro non dicono apertamente di essere prevenuti quando argomentano le loro scelte.

― Quindi si attaccano alla differenza dei cervelli. Ma è possibile che la cosa debba giocarsi come una partita tra cellule contro positroni? Non c'è modo di strappare loro una definizione funzionale del cervello? Dobbiamo per forza dire che un cervello è fatto di questo e di quello? Non possiamo dire che un cervello è una cosa capace di sviluppare un certo livello di pensiero?

― Non servirebbe a niente ― disse Li-Hsing. ― Il suo cervello è opera dell'uomo, quello degli esseri umani no. Il suo cervello è costruito, il loro si sviluppa. Tutti gli esseri umani che vogliono mantenere la barriera che li diversifica dai robot considerano queste differenze un muro di acciaio alto un chilometro e profondo altrettanto.

― Se potessimo capire l'origine della loro avversione, la vera origine...

― Dopo tutti gli anni che ha vissuto ― disse mestamente Li-Hsing ― lei cerca ancora di trovare giustificazioni razionali al comportamento degli uomini. Povero Andrew, non si arrabbi, ma è il robot che c'è in lei a spingerla in questa direzione.

― Non lo so ― disse Andrew. ― Se solo mi rassegnassi...

 

Se solo si fosse rassegnato...

Da tempo sapeva che forse sarebbe arrivato a quel punto, e adesso si trovava dal chirurgo. Ne aveva trovato uno abbastanza in gamba da eseguire l'operazione, cioè un chirurgo-robot, perché non poteva fidarsi dell'abilità e della buona fede di nessun chirurgo umano.

Il chirurgo che aveva scelto non avrebbe potuto compiere l'operazione su un essere umano, così Andrew, dopo avere rimandato di un attimo il suo annuncio per riflettere mestamente sulle cose che lo tormentavano, aveva eliminato l'ostacolo della Prima Legge dicendo: ― Anch'io sono un robot.

Poi, con quella decisione che aveva acquisito nei tanti anni in cui aveva dato ordini persino agli esseri umani, aggiunse: ― Le ordino di eseguire l'operazione su di me.

In assenza della Prima Legge, un ordine così perentorio dato da un essere in tutto e per tutto simile a un uomo, attivò la Seconda Legge e il chirurgo non poté disubbidire.

 

Andrew era certo che la sensazione di debolezza che provava doveva essere frutto della sua immaginazione. Si era ormai del tutto ristabilito dall'operazione. Tuttavia se ne stava in piedi, appoggiandosi furtivamente alla parete. Se si fosse seduto si sarebbe tradito.

― Il voto finale è previsto per questa settimana, Andrew ― gli disse Li-Hsing. ― Non sono riuscita a rimandarlo ulteriormente, e perderemo. Era inevitabile, Andrew.

― Ma l'ha rimandato abbastanza a lungo e gliene sono grato. Ho avuto il tempo per giocare l'ultima carta a mia disposizione.

― A che si riferisce? ― gli chiese, sconcertata.

― Non potevo dirlo né a lei né agli avvocati del mio studio legale perché ero certo che avreste cercato di fermarmi. Vede, se il problema si gioca tutto sulla differenza di cervelli, la differenza più grande non riguarda l'immortalità? Chi vuole che si preoccupi davvero di com'è fatto un cervello, di che aspetto abbia? L'unica cosa che conta è che le cellule cerebrali muoiono, devono morire. Anche se tutti gli altri organi vengono sostituiti, le cellule cerebrali, che non possono essere sostituite senza cambiare e quindi uccidere la personalità, alla fine muoiono. I miei schemi positronici funzionano da quasi due secoli, sono rimasti praticamente inalterati e possono funzionare per altri secoli ancora. Non è questa la barriera fondamentale? Gli esseri umani possono tollerare un robot immortale, perché per loro una macchina può durare anche per l'eternità. Ma non possono tollerare un essere umano immortale, dal momento che riescono a sopportare la mortalità in quanto tutti muoiono, senza eccezioni. È per questo che non vogliono che io diventi umano.

― Dove vuole arrivare, Andrew? ― gli chiese Li-Hsing.

― Ho eliminato il problema. Alcuni decenni fa il mio cervello positronico venne collegato a fibre nervose organiche. Adesso un'ultima operazione ha sistemato tale collegamento in modo tale che lentamente, molto lentamente, il potenziale elettrico verrà tolto dai circuiti.

Il viso rugoso di Li-Hsing restò per un istante inespressivo. Poi serrò le labbra. ― Vuole dire che intende morire? Com'è possibile? È contro la Terza Legge.

― No. Ho scelto tra la morte del mio corpo e la morte dei miei desideri e aspirazioni. Se avessi lasciato vivere il mio corpo lasciando morire tutto il resto, allora sì che avrei violato la Terza Legge.

Li-Hsing lo afferrò per un braccio come se volesse scuoterlo. ― Andrew, non funzionerà. Ritorni come prima.

― Non è possibile. Il danno è irreparabile. Mi resta più o meno un anno di vita. Riuscirò a festeggiare il duecentesimo anniversario della mia costruzione. È una debolezza alla quale ho ceduto.

― Ma non ne vale la pena. Andrew, è una pazzia.

― Se ciò mi permetterà di diventare umano, allora ne sarà valsa la pena. In caso contrario ne sarà valsa ugualmente la pena, perché smetterò di soffrire.

E Li-Hsing fece una cosa che la sconcertò. Si mise a piangere, in silenzio.

 

Stranamente fu proprio l'ultimo gesto di Andrew a colpire l'immaginazione dell'opinione pubblica mondiale. Tutto ciò che Andrew aveva fatto in precedenza aveva lasciato indifferente il pubblico. Ma adesso che aveva scelto la morte pur di diventare umano, il suo sacrificio era troppo grande per non essere accolto con calore

La cerimonia fu deliberatamente fissata per il giorno del duecentesimo anniversario della sua costruzione. Il Presidente Mondiale avrebbe ratificato la legge e la cerimonia sarebbe stata trasmessa in tutto il mondo, nello Stato della Luna e nella colonia marziana.

Andrew era costretto su una sedia a rotelle. Poteva ancora camminare, ma a fatica.

Rivolgendosi a tutta l'umanità in visione e in ascolto, il Presidente Mondiale disse: ― Cinquant'anni fa, lei venne dichiarato Robot Centocinquantenne, Andrew. ― Dopo una pausa aggiunse in tono più solenne: ― Oggi la dichiariamo Uomo Bicentenario, signor Martin.

E Andrew, con un sorriso, strinse la mano al Presidente.

Andrew giaceva a letto e i suoi pensieri si facevano sempre più indistinti. Lui cercava disperatamente di afferrarli. Uomo! Era un uomo!

Voleva che fosse quello il suo ultimo pensiero. Voleva dissolversi... morire con quel pensiero nella testa.

Aprì ancora una volta gli occhi e riconobbe per l'ultima volta Li-Hsing, che stava in piedi accanto al letto con aria grave. C'erano altre persone, ma lui vedeva soltanto ombre, ombre che non riconosceva. Soltanto Li-Hsing spiccava dal grigiore che i suoi occhi vedevano.

Lentamente, un centimetro alla volta, Andrew le porse la mano e se la sentì stringere. L'immagine di lei stava diventando sempre più sfuocata, come i suoi pensieri. Ma prima che Li-Hsing scomparisse del tutto, un ultimo, fuggente pensiero si fermò nella sua mente.

― Signorina Piccola ― sussurrò, troppo piano per essere udito.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


               UN GIORNO...

Niccolò Mazzetti era sdraiato a pancia in giù sul tappeto, il mento sepolto nel palmo della piccola mano, e ascoltava sconsolato il Bardo. I suoi occhi scuri erano addirittura velati di pianto, un lusso che un ragazzino di undici anni poteva concedersi soltanto quando era solo.

― C'era una volta un povero taglialegna vedovo che viveva nel cuore di una foresta con le sue due figlie, belle quant'è lungo il giorno. La figlia maggiore aveva i capelli lunghi, neri come le piume di un corvo, mentre la minore aveva capelli lucenti e dorati come la luce del sole nei pomeriggi autunnali. Spesso, mentre le ragazze aspettavano che il padre rincasasse dal lavoro nel bosco, la figlia maggiore si sedeva davanti a uno specchio e cantava...

Niccolò non sentì la canzone della ragazza perché una voce risuonò dall'esterno. ― Ehi, Nickie.

Niccolò si precipitò alla finestra, il viso raggiante. ― Ehi, Paul.

Paul Loeb lo salutò con la mano, tutto eccitato. Era più magro e meno alto di Niccolò, malgrado avesse sei mesi più di lui. Il suo viso era una maschera di eccitazione repressa, che tuttavia era tradita dal modo in cui ammiccava. ― Ehi, Nickie, aprimi. Ho un'idea fantastica. Se sapessi! ― Si guardò intorno come se temesse che qualcuno stesse origliando, ma il giardino era deserto. ― Se sapessi ― sussurrò.

― Va bene, ti apro.

Il Bardo continuava il suo racconto, ignaro di aver perso il suo ascoltatore, e quando Paul entrò stava dicendo: ― ... il leone disse: “Se troverai l'uovo perduto dell'uccello che vola sopra la Montagna d'Ebano una volta ogni dieci anni, io ti...” ― Stai ascoltando un Bardo? ― disse Paul. ― Non sapevo che ne avessi uno.

Niccolò arrossì e assunse di nuovo un'espressione triste. ― È solo un vecchio aggeggio che mi hanno regalato da piccolo. Non vale niente. ― Diede un calcio al Bardo colpendo la plastica scolorita e graffiata che ricopriva i circuiti.

Il Bardo s'inceppò per via della momentanea interruzione del contatto che gli permetteva di parlare, poi continuò: ― ... per un anno e un giorno fino a consumare le scarpe di ferro. La principessa si fermò sul ciglio della strada...

― Ragazzi, è proprio un modello vecchio ― disse Paul, storcendo il naso.

Malgrado anche lui ce l'avesse con il Bardo, Niccolò si risentì per il tono sprezzante di Paul. Per un attimo si pentì di aver lasciato entrare l'amico, o meglio di averlo fatto entrare prima di aver riportato il Bardo al suo solito posto, cioè in cantina. Lo aveva tirato fuori solo perché si stava annoiando e perché aveva avuto una discussione infruttuosa con suo padre. Era stata un'idea stupida, come aveva immaginato.

Niccolò provava una certa soggezione nei riguardi di Paul. Paul frequentava dei corsi speciali e tutti dicevano che sarebbe diventato un ingegnere informatico.

Non che Niccolò andasse male a scuola. Aveva la sufficienza in logica, manipolazioni binarie e calcolo e circuiti elementari, insomma le solite materie che si studiavano alle medie. Ma era proprio quello il problema. Erano le solite materie, e al massimo gli avrebbero permesso di diventare un comunissimo addetto ai quadri di controllo.

Paul, invece, conosceva cose misteriose di materie che chiamava elettronica, matematica pura e informatica. Soprattutto informatica. Niccolò non tentava nemmeno di capire quando il suo amico parlava a ruota libera di quelle cose.

Paul ascoltò il Bardo per qualche minuto, poi disse: ― Lo usi molto?

― No ― disse Niccolò, piccato. ― Lo tenevo in cantina da prima che tu venissi ad abitare in questo quartiere. L'ho tirato fuori solo oggi... ― Non trovò una scusa che gli sembrasse adeguata e così ripeté: ― L'ho tirato fuori solo oggi.

Paul disse:― E racconta solo di taglialegna, principesse e animali parlanti?

― È terribile ― ammise Niccolò. ― Mio padre dice che non può permettersi di comprarne uno nuovo. Stamattina gli ho detto... ― Ripensando alle inutili suppliche che aveva rivolto al padre, Niccolò si sentì salire le lacrime agli occhi, e le represse temendo che Paul se ne accorgesse. Pensava che le guance di Paul non fossero mai state bagnate dalle lacrime, e che l'amico potesse soltanto provare di sprezzo per chi si dimostrava meno forte di lui.

― Così ho pensato di utilizzare ancora questo relitto, ma non c'è proprio niente da fare.

Paul spense il Bardo, premette il contatto che provocava quasi istantaneamente il riorientamento e la ricombinazione del vocabolario, dei personaggi e delle trame memorizzate. Poi riattivò l'apparecchio.

Il Bardo iniziò a dire tranquillo: ― C'era una volta un bambino di nome Willikins che, morta la madre, viveva con il patrigno e un fratellastro. Malgrado fosse molto ricco, il patrigno lesinava al povero Willikins anche il letto su cui dormire, così il bambino era costretto a passare le notti su un mucchio di paglia, nella stalla dei cavalli...

― I cavalli ― esclamò Paul.

― Sono animali, credo ― disse Niccolò.

― Questo lo sapevo. E che mi sembra assurdo raccontare storie dove ci sono dei cavalli.

― Parla continuamente di cavalli, e anche di cose chiamate mucche. Producono latte, ma il Bardo non spiega come.

― Be', amico, perché non lo aggiusti?

― Vorrei tanto sapere come si fa.

Il Bardo stava dicendo: ― Willikins pensava spesso che se solo fosse stato ricco e potente, avrebbe fatto vedere al patrigno e al fratello che cosa significava essere crudeli con un bambino, così un bel giorno decise di andare per il mondo in cerca di fortuna.

Paul, che non lo stava ascoltando, disse: ― È facile. Il Bardo ha dei cilindri di memoria che contengono gli intrecci e gli epiloghi delle storie, ma quelli non ci interessano. Basta sistemare il vocabolario, così potrà parlare di computer, di automazione, di elettronica, insomma delle cose attuali. A quel punto le sue storie sarebbero interessanti, altro che principesse e roba del genere.

― Magari si potesse fare ― disse Niccolò, avvilito.

― Senti, mio padre dice che se l'anno prossimo riuscirò a essere ammesso alla scuola speciale di informatica, mi comprerà un Bardo vero, ultimo modello. È un apparecchio molto grande provvisto di un'estensione per le storie spaziali e i gialli. E ha anche uno schermo.

― Vuoi dire che le storie si possono vedere?

― Certo. Il signor Daugherty, un mio insegnante, dice che adesso esistono cose del genere, ma non sono alla portata di tutti. Solo se riuscirò a entrare nella scuola speciale mio padre potrà ottenere un buono sconto.

Niccolò strabuzzò gli occhi, pieno di invidia. ― Vedere una storia!

― Potrai venire da me quando ti pare, Nickie.

― Ehi, amico, grazie.

― Non ci sono problemi. Ma ricorda, deciderò io quali storie ascoltare.

― Certo, certo. ― Niccolò avrebbe accettato condizioni molto più pesanti.

Paul rivolse di nuovo l'attenzione al Bardo che stava dicendo: ― “Se le cose stanno così” disse il re lisciandosi la barba e corrugando la fronte finché il cielo non si riempì di nubi e di lampi “fate sì che tutta la mia terra venga liberata dalle mosche entro dopodomani a quest'ora, altrimenti...”

― Ci basta aprirlo ― disse Paul. Spense di nuovo il Bardo e cominciò a forzare il pannello frontale.

― Ehi, non romperlo ― fece Niccolò, allarmato.

― Non preoccuparti ― gli rispose Paul, spazientito. ― Queste cose le conosco a menadito. ― Poi si fece più prudente e disse: ― I tuoi sono in casa?

― No.

― Bene. ― Tolse il pannello e guardò dentro. ― Ragazzi, è un aggeggio a un solo cilindro.

Cominciò ad armeggiare con i meccanismi interni del Bardo. Niccolò, che osservava con il fiato sospeso, non riusciva a capire cosa stesse facendo.

Paul tirò una sottile striscia di metallo flessibile tutta ricoperta di puntini. ― Questo è il cilindro di memoria. Scommetto che il numero di storie che può inventare è inferiore a un trilione.

― Paul, che cosa intendi fare? ― gli chiese Niccolò con voce tremante.

― Gli fornisco il vocabolario giusto.

― In che modo?

― Facile. Ho portato con me un libro. Me lo ha dato il signor Daugherty a scuola.

Paul tirò fuori il libro da una tasca e pelò via la copertina di plastica. Srotolò un po' il nastro, lo fece scorrere nel vocalizzatore, che abbassò al livello di un sussurro, poi lo collocò all'interno del Bardo. Infine operò altri collegamenti.

― E adesso? ― gli chiese Niccolò.

― Il libro parlerà e il Bardo registrerà tutto sul suo nastro di memoria.

― Ma a che scopo?

― Ehi, amico, sei proprio una zucca, eh? Questo libro dice tutto sui computer e l'automazione, quindi il Bardo memorizzerà tutte le informazioni. Vedrai che la smetterà di parlare di re che quando corrugano la fronte scatenano tempeste.

― E di raccontare storie che vanno sempre a finire con la vittoria dei buoni. Sono scontate.

― Be', i Bardi sono costruiti proprio per questo ― disse Paul mentre controllava che le sue correzioni funzionassero. ― I buoni devono avere la meglio sui cattivi, la regola è questa. Una volta ho sentito mio padre che ne parlava con qualcuno. Secondo lui se non ci fosse la censura, i ragazzi potrebbero crescere peggio, e dice che già adesso non sono stinchi di santo... Ecco, funziona bene. ― Paul si fregò le mani soddisfatto e diede le spalle al Bardo. ― A proposito, non ti ho ancora detto niente dell'idea che ho avuto. Scommetto che non hai mai sentito niente di meglio. Sono venuto da te perché ho pensato che la cosa ti sarebbe interessata.

― Certo, Paul, certo.

― Bene. Conosci il signor Daugherty, no? Sai che è un tipo molto divertente. Be', credo che mi abbia preso in simpatia.

― Lo so.

― Oggi, dopo la scuola, sono andato a casa sua.

― Davvero?

― Sicuro. Dice che entrerò sicuramente alla scuola di informatica e vuole incoraggiarmi. Dice che il mondo ha bisogno di gente che sappia progettare circuiti avanzati ed elaborare programmi giusti.

― Che cosa?

Probabilmente Paul colse il vuoto che c'era dietro quella parola e disse spazientito: ― Programmi giusti. Te l'avrò spiegato un centinaio di volte. Elaborare un programma significa fornire a computer giganteschi come Multivac una sequenza di istruzioni che rendono possibile l'esecuzione di una determinata elaborazione. Il signor Daugherty dice che è sempre più difficile trovare gente in grado di far funzionare veramente un computer. Dice che il problema non è tanto quello di dare un occhio ai comandi, controllare le risposte e proporre problemi di ordinaria amministrazione. Si deve essere capaci di allargare la ricerca e trovare i modi di rivolgere le domande giuste. E questa la parte più difficile. Comunque, Nickie, Daugherty mi ha portato a casa sua e mi ha mostrato la sua collezione di vecchi computer. È una specie di hobby per lui. Ne ha di piccolissimi, pieni di tasti da premere manualmente. E ha un pezzo di legno, con una parte fissa e una scorrevole, che si chiama regolo calcolatore. Poi mi ha fatto vedere un affare con tanti fili a cui sono agganciate tante palline. E ho visto addirittura un pezzo di carta con una cosa che lui ha chiamato tavola pitagorica.

Niccolò, che non era molto interessato all'argomento, gli chiese: ― Una tavola di carta?

― Non era proprio una tavola, come quelle su cui si mangia. Era una cosa diversa, e un tempo aiutava la gente a fare i calcoli. Il signor Daugherty ha cercato di spiegarmi come funzionava, però aveva poco tempo e la faccenda era un po' complicata.

― Perché non usavano i computer?

― Perché non erano stati ancora inventati ― disse Paul, al colmo della pazienza.

― Ah, no?

― Certo che no. Credi che siano sempre esistiti? Non hai mai sentito parlare dei cavernicoli?

― E come facevano senza computer?

― Questo non lo so. Il signor Daugherty dice che facevano figli in continuazione e tutto quello che passava loro per la testa, senza pensare se fosse bene o male. Non sapevano nemmeno distinguere tra il bene e il male. E gli agricoltori coltivavano la terra con le mani, ed erano gli esseri umani a lavorare nelle fabbriche e a far funzionare tutte le macchine.

― Non ci credo.

― Me lo ha detto il signor Daugherty. Ha detto che era un vero disastro e tutti erano scontenti. Comunque, lascia che ti dica la mia idea, d'accordo?

― E chi te lo impedisce? ― disse Niccolò, offeso.

― Bene. Dunque, i computer manuali, quelli con i tasti, hanno dei piccoli scarabocchi su ogni tasto. E anche sul regolo calcolatore ci sono dei segni simili. Lo stesso discorso vale per la tavola pitagorica. Ho chiesto al signor Daugherty cos'erano, e lui mi ha detto che erano numeri.

― Che cosa?

― Ogni scarabocchio indica un numero diverso. Per "uno" fai un certo segno, per "due" un altro, per "tre" un altro ancora, e così via.

― Ma a che servono?

― A fare i calcoli.

― Che cosa? Basta dire al computer...

― Dannazione, Nickie ― vuoi metterti in testa che i computer non parlavano?

― E allora come...

― Le risposte venivano date sotto forma di scarabocchi e tu dovevi capire il significato degli scarabocchi. Il signor Daugherty dice che ai vecchi tempi tutti imparavano da piccoli a fare gli scarabocchi e a decodificarli. Fare geroglifici si chiamava "scrivere" e decodificarli si chiamava "leggere". Il signor Daugherty dice che per ogni parola c'era un diverso tipo di scarabocchio e che la gente riempiva pagine intere di quegli scarabocchi. Mi ha detto che al museo ne conservano qualche esemplare e che se voglio posso andarli a vedere. Lui dice che se voglio diventare un vero programmatore di computer devo studiare la storia del calcolo, ed è per questo che mi ha fatto vedere tutte quelle cose.

Niccolò corrugò la fronte. ― Insomma la gente doveva inventare per ogni parola una serie di scarabocchi e ricordarli? Senti, non ti sarai mica inventato tutto, eh?

― No, te lo giuro. Guarda, il numero “uno" si fa così. ― Fece un rapido segno nell'aria col dito, dall'alto in basso. ― Questo è il "due" e questo è il "tre". Ho imparato tutti i numeri fino al "nove".

Niccolò osservò con espressione dubbiosa l'amico tracciare i simboli nell'aria. ― Ma in che modo ci possono servire questi simboli?

― Possiamo imparare a comporre diverse parole. Ho chiesto al signor Daugherty come si scrive "Paul Loeb" ma non ha saputo dirmelo. Però mi ha detto che al museo c'è gente che lo sa e che ha imparato a decodificare libri interi. Ha detto inoltre che si potrebbero progettare computer capaci di decodificare i libri, che però avrebbero solo un valore storico dopo la decodifica, perché noi abbiamo i libri veri, con i nastri magnetici che passano per il vocalizzatore e parlano.

― Sì, certo.

― Quindi se andiamo al museo possiamo imparare a comporre parole con gli scarabocchi. Ce lo permetteranno perché io tra poco entrerò nella scuola di informatica.

― Sarebbe questa la tua idea grandiosa? ― disse Niccolò, profondamente deluso. ― Santi numi, Paul, chi ha voglia di mettersi a fare degli stupidi scarabocchi?

― Ma non capisci? Non riesci proprio a capire? Sei uno zuccone. Ci servirà per dei messaggi segreti.

― Che cosa?

― Certo. Che gusto c'è a parlare quando tutti capiscono quello che dici? Con gli scarabocchi si possono spedire messaggi segreti. Li si scrive su pezzi di carta e nessuno al mondo riuscirebbe a capirne il significato, a meno che non conosca gli scarabocchi. E solo noi potremmo insegnarglieli. Possiamo fondare un vero e proprio club, con tanto di cerimonia d'iniziazione, regole e sede. Ragazzi...

Niccolò cominciò a provare una certa euforia. ― Che tipo di messaggi segreti?

― Qualsiasi tipo. Metti che voglia invitarti a casa mia a guardare il mio nuovo Bardo visivo senza farlo sapere a nessun altro. Traccio gli scarabocchi su un pezzo di carta, te lo do e tu sai quello che devi fare. Nessun altro capirebbe il messaggio. Potresti anche far vedere in giro il biglietto, tanto nessuno lo capirebbe.

― Ehi, mica male ― esclamò Niccolò, ormai convinto. ― Quando cominciamo a imparare gli scarabocchi?

― Domani ― gli disse Paul. ― Dirò al signor Daugherty di avvertire quelli del museo. Tu dovrai farti dare il permesso dai tuoi. Possiamo fermarci al museo dopo la scuola e iniziare i nostri studi.

― Certo. E ricopriremo le cariche più importanti del club.

― Io sarò il presidente ― disse Paul con molta naturalezza ― e tu sarai il mio vice.

― D'accordo. Ehi, questo sì che è divertente, altro che il Bardo. ― D'un tratto, ricordatosi del suo aggeggio, disse in tono apprensivo: ― Ehi, e il mio vecchio Bardo?

Paul si girò a guardarlo. Stava assimilando tranquillamente il libro, e il rumore delle vocalizzazioni era a malapena udibile.

― Adesso lo stacco.

Si mise a lavorare sotto lo sguardo ansioso di Niccolò. Dopo qualche istante, Paul si rimise in tasca il libro, risistemò il pannello di plastica e attivò il Bardo.

Il Bardo disse: ― C'era una volta in una grande città un povero bambino di nome Fair Johnnie che aveva come unico amico al mondo un piccolo computer. Tutte le mattine il computer gli diceva se quel giorno sarebbe piovuto o no, e rispondeva a tutte le domande del bambino. Non sbagliava mai. Ma un giorno accadde che il re avendo saputo del piccolo computer, decise di impadronirsene. Con quel proposito in mente convocò il Gran Visir e gli disse...

Niccolò spense il Bardo con un gesto seccato. ― Sempre le stesse schifezze, solo che nella storia c'è di mezzo un computer.

― Be', il guaio è che c'è tanta di quella roba sul nastro che l'argomento computer non viene messo in risalto dalle combinazioni casuali. Comunque che t'importa? Hai bisogno di un nuovo modello.

― Non potremo mai permettercene uno ― disse Niccolò. ― Dovrò tenermi questo vecchio macinino. ― Gli diede un calcio colpendolo in pieno. Il Bardo arretrò con uno squittio.

― Potrai sempre guardare il mio, quando ce l'avrò. E poi non dimenticarti del nostro club.

Niccolò annuì.

― Sai che ti dico? Andiamo a casa mia. Mio padre ha alcuni libri di storia antica. Li ascoltiamo e ci facciamo un'idea generale. Lascia un messaggio ai tuoi, magari ti fermi anche a cena. Dài. andiamo.

― D'accordo ― disse Niccolò, e mentre si precipitava fuori insieme all'amico andò a sbattere contro il Bardo. Si fermò un attimo per massaggiarsi il fianco indolenzito, poi proseguì la corsa.

Il segnale di attivazione del Bardo si accese. L'urto aveva chiuso un circuito, e malgrado nella stanza non vi fosse nessuno, il Bardo cominciò ugualmente a raccontare una storia.

Ma la sua voce era cambiata; adesso era più bassa e un po' gutturale. Una persona adulta che l'avesse sentita avrebbe potuto pensare che in quella voce ci fosse una traccia di passione, un'eco di sentimento.

Il Bardo disse: ― C'era una volta un piccolo computer di nome Bardo che viveva tutto solo tra persone crudeli. Queste persone crudeli lo prendevano in giro e lo deridevano in continuazione, dicendogli che era un oggetto inutile. Lo picchiavano e lo tenevano segregato per mesi e mesi di seguito. Un giorno il piccolo computer venne a sapere che nel mondo c'erano tantissimi computer di tutti i tipi. Alcuni erano Bardi come lui, ma altri gestivano fabbriche e fattorie, e altri ancora organizzavano la vita della gente e analizzavano ogni genere di dati. Molti erano potenti e saggi, assai più potenti e saggi delle persone che si comportavano così crudelmente con il piccolo computer. E il piccolo computer capì allora che i computer sarebbero diventati sempre più saggi e potenti, finché un giorno... un giorno... un giorno...

Ma doveva essere saltato un transistor nei suoi circuiti vecchi e logori, perché mentre aspettava tutto solo nella stanza che cominciava a essere avvolta dal buio della sera, il Bardo non poté fare altro che ripetere in un sussurro: ― Un giorno... un giorno... un giorno...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


               FINALMENTE!

La dottoressa Genevieve Renshaw teneva le mani affondate nelle tasche, e la stoffa del camice lasciava intravedere la sagoma dei pugni chiusi. Tuttavia parlò con calma.

― Il fatto è che sono quasi pronta ― disse ― ma ho bisogno di aiuto per guadagnare tempo ed essere pronta del tutto.

James Berkowitz, un fisico che si degnava di parlare con i semplici medici solo se erano troppo attraenti per essere snobbati, aveva l'abitudine di chiamarla Jenny Wren quando lei non poteva sentirlo. Gli piaceva ripetere che Jenny Wren aveva un profilo classico e una fronte persino troppo regolare e liscia considerato il fatto che dietro ticchettava un cervello così acuto. Ma si guardava bene dall'esprimere la sua ammirazione, per il profilo classico, s'intende, perché sarebbe stato tacciato di sciovinismo maschile. Era meglio ammirare il cervello, ma nel complesso preferiva non farlo ad alta voce in presenza di lei.

Si grattò con il pollice l'accenno di barba che gli ombrava il mento e disse: ― Non credo che quelli dell'ufficio qui davanti pazienteranno ancora per molto. Ho l'impressione che ti metteranno al tappeto prima della fine della settimana.

― È per questo che mi serve il tuo aiuto.

― Purtroppo non posso fare niente. ― Senza volerlo colse la propria immagine riflessa dallo specchio, e a quel punto indugiò per ammirare le pieghe scure dei capelli.

― E quello di Adam ― aggiunse lei.

Adam Orsino, che fino a quel momento aveva sorseggiato il suo caffè con aria distaccata, la guardò come se l'avesse colpito con un pugno sulle reni. ― Del mio aiuto? ― disse, con le labbra carnose che gli tremavano.

― Voi due vi occupate di laser, Jim il teorico e Adam il tecnico. E io ho scoperto un'applicazione del laser che va al di là di qualsiasi cosa abbiate mai immaginato.

― Sempre che tu riesca a convincerci ― disse Berkowitz.

― Certo. Supponiamo che mi concediate un'ora del vostro preziosissimo tempo, sempre che non abbiate paura di vedere qualcosa di completamente nuovo sul laser.

Per una volta potreste rinunciare all'intervallo per il caffè.

 

Il laboratorio della Renshaw era dominato dal suo computer. Non che il computer fosse insolitamente grande, ma era virtualmente onnipresente. La Renshaw aveva studiato informatica da autodidatta, così aveva modificato e ampliato la sua macchina al punto che nessuno tranne lei (e Berkowitz a volte pensava che nemmeno lei ne fosse in grado) poteva usarlo facilmente. Niente male, diceva spesso lei, per una persona che si occupava di scienze biologiche.

Chiuse la porta prima di proferire parola, poi si girò verso i due uomini con espressione tesa. Berkowitz era infastidito da una traccia di cattivo odore, e il naso arricciato di Orsino dimostrava che anche lui lo sentiva.

― Lasciate che vi elenchi le applicazioni del laser ― disse la Renshaw ― anche se per voi sarà come accendere una candela in pieno giorno: il laser è una radiazione coerente, con tutte le onde luminose della stessa lunghezza che si muovono nella stessa direzione. È immune da distorsioni e viene usato per gli ologrammi. Modulando le forme d'onda possiamo imprimere su di esso una serie di informazioni con un alto grado di precisione. Ma soprattutto, dal momento che la lunghezza delle onde luminose è un milionesimo di quella delle onde radio, un raggio laser può trasmettere un milione di volte più informazioni di un equivalente impulso radio.

Berkowitz sembrava divertito. ― Stai lavorando a un sistema di comunicazione basato sul laser, Jenny?

― Niente affatto ― replicò lei. ― Lascio questi sviluppi banali ai fisici e agli Ingegneri. I laser possono anche concentrare grandi quantità di energia su un'area microscopica. Su larga scala si può provocare l'implosione dell'idrogeno e forse iniziare una reazione di fusione controllata...

― So che non è di questo che si tratta ― disse Orsino, la testa calva che luccicava sotto la luce fluorescente.

― Non ci ho provato. Su scala minore il laser permette di bucare i materiali più refrattari, saldare frammenti piccolissimi, trattarli ad altissima temperatura, scanalarli e inciderli. Si possono rimuovere o fondere segmenti piccolissimi su superfici minuscole perché il calore, sviluppandosi con grande rapidità, non dà tempo alle zone circostanti di riscaldarsi prima della fine dell'applicazione. Si può operare sulla retina, sulla dentina e così via. E naturalmente il laser è in grado di amplificare segnali debolissimi senza distorsioni.

― Perché ci stai dicendo tutte queste cose? ― le chiese Berkowitz.

― Per sottolineare che, in virtù di queste proprietà, il laser può essere impiegato nel mio campo, la neurofisiologia.

Si passò una mano tra i capelli scuri, di colpo nervosa. ― Per decenni siamo stati capaci di misurare il debole e incostante potenziale elettrico del cervello e di registrarlo con l'elettroencefalogramma, o EEG. Abbiamo identificato onde alfa, onde beta, onde delta e onde teta e abbiamo scoperto che i risultati cambiano a seconda che il soggetto tenga gli occhi chiusi o aperti, sia sveglio o dorma. Tuttavia abbiamo ricavato ben poche informazioni. Il problema è che noi riceviamo i segnali di dieci miliardi di neuroni in combinazioni mutevoli. È come ascoltare da molto lontano il rumore prodotto da tutti gli abitanti della Terra, o di due Terre, e cercare di captare il dialogo tra due persone. È impossibile. Possiamo captare un grande cambiamento, come per esempio una guerra mondiale che fa aumentare il volume del rumore, ma niente di più preciso. Nello stesso modo possiamo rilevare una clamorosa disfunzione cerebrale, come l'epilessia, ma niente di più. Adesso supponiamo che il cervello possa essere sondato da un minuscolo raggio laser, cellula dopo cellula, così rapidamente che nessuna cellula riceva abbastanza energia da alzare troppo la temperatura. Il debolissimo potenziale di ciascuna cellula può modificare l'onda di ritorno e le modulazioni possono essere amplificate e registrate. In questo modo avremmo un nuovo tipo di misurazione, un encefalogramma al laser, o LEG, se volete, che ci darebbe milioni di informazioni in più rispetto a un normale EEG.

― È una bella idea ― disse Berkowitz. ― Ma resta soltanto un'idea.

― È più di un'idea, Jim. Ci sto lavorando da cinque anni. All'inizio mi ci dedicavo nei ritagli di tempo, ma ultimamente ci lavoro a tempo pieno, ed è questo che dà fastidio all'ufficio di fronte, anche perché non ho mai fatto un rapporto.

― Perché no?

― Perché sarebbe sembrata una follia. Prima dovevo sapere con certezza dove potevo arrivare, e avere la certezza di ottenere un appoggio.

Spostò di lato un paravento e mostrò una gabbia dov'erano rinchiusi due uistiti dall'espressione triste.

Berkowitz e Orsino si scambiarono un'occhiata. Berkowitz si toccò il naso. ― Mi pareva che ci fosse un odore niente male.

― Che te ne fai di questi? ― le chiese Orsino.

― Immagino che stia sondando il cervello delle scimmie ― disse Berkowitz. ― Sbaglio, Jenny?

― Ho iniziato parecchio più in basso nella scala animale. ― La dottoressa aprì la gabbia e prese una delle scimmiette, che la guardò con l'espressione di un malinconico vecchio in miniatura con le basette.

Lei fece schioccare la lingua più volte, accarezzò l'animale e la legò con le cinghie di una piccola bardatura.

― Che cosa fai? ― le chiese Orsino.

― Devo impedirle di muoversi se voglio collegarla a un circuito, non posso anestetizzarla senza alterare l'esperimento. Ci sono diversi elettrodi impiantati nel cervello della scimmia che collegherò al mio sistema LEG. Il laser che uso è questo. Sono certa che conoscete il modello, quindi non perderò tempo con spiegazioni superflue.

― Grazie ― disse Berkowitz ― ma almeno potresti dirci che cosa vedremo.

― È più semplice mostrarvelo. Guardate lo schermo. Collegò le prese agli elettrodi con fare sicuro, poi spense la luce. Sullo schermo apparve una sorta di profilo altimetrico, una sottile linea luminosa che si increspava, saliva in verticale e scendeva in valli secondarie e terziarie. Lentamente si verificarono dei cambiamenti di poco conto, con qualche improvvisa impennata. Sembrava che la linea irregolare avesse una vita propria.

― Queste sono in sostanza le informazioni che ci dà l'EEG, ma molto più dettagliate.

― Così dettagliate da indicare quello che succede nelle singole cellule? ― le chiese Orsino.

― In teoria, sì. In pratica, no. Non ancora. Ma possiamo scomporre questo LEG nelle sezioni che lo compongono. State a guardare.

Digitò un comando sulla tastiera del computer e la linea cambiò più volte. Adesso era una piccola onda regolare che si gonfiava avanti e indietro come una sorta di battito cardiaco. Ora era frastagliata e netta, ora intermittente, ora quasi priva di fisionomia, ma sempre con fulminei cambiamenti di surrealismo geometrico.

― Vuoi dire che ogni parte del cervello è così diversa dalle altre? ― le chiese Berkowitz.

― No, niente affatto ― gli rispose la dottoressa. ― Il cervello è una sorta di congegno olografico, ma da zona a zona il rilievo cambia impercettibilmente, e Mike può rilevare queste deviazioni dalla norma, isolarle e usare il sistema LEG per amplificarle. L'amplificazione va da diecimila a dieci milioni di volte. Il laser è immune da rumore.

― Chi è Mike? ― chiese Orsino.

― Mike? ― ripeté lei, sorpresa. Sulle guance comparve un lieve rossore. ― Ho detto... be', a volte lo chiamo così. È l'abbreviazione di "mio computer". ― Con un gesto del braccio indicò tutta la stanza. ― Mio computer. Mike. È programmato molto accuratamente.

Berkowitz annuì. ― D'accordo, Jenny, ma qual è il problema? Se hai scoperto una nuova sonda cerebrale al laser, va benissimo. Si tratta di un'applicazione interessante e hai ragione a dire che non me l'aspettavo... del resto non sono un neurofisiologo. Ma perché non hai fatto rapporto? A me pare che l'ufficio di fronte avrebbe appoggiato...

― Ma questo è solo l'inizio. ― Spense la sonda e mise un pezzo di frutta in bocca alla scimmietta. L'animale non sembrava allarmato o sofferente. Masticava piano. La Renshaw sganciò le cinghie ma lasciò l'animale nella bardatura.

― Posso identificare le varie parti di cui si compone il diagramma. Alcune si riferiscono ai sensi, altre alle reazioni viscerali, altre ancora alle emozioni. Già questo potrebbe portarci molto lontano, ma io non voglio fermarmi qui. La cosa interessante è che uno dei segmenti del diagramma è collegato con il pensiero astratto.

La faccia paffuta di Orsino si corrugò in un'espressione incredula. ― Come puoi affermare una cosa del genere?

― Quel particolare diagramma diventa sempre più strutturato a mano a mano che si sale nel regno animale verso cervelli più complessi. Nessun altro diagramma ha questo andamento. Inoltre... ― Si interruppe, poi, quasi a voler rafforzare le proprie convinzioni, disse: ― Questi diagrammi sono amplificati enormemente. Possono essere captati, registrati. Direi che sono... pensieri...

― Cristo ― esclamò Berkowitz. ― Telepatia.

― Sì ― fece lei, sprezzante. ― Proprio così.

― Ecco perché non hai voluto fare rapporto. Andiamo, Jenny, sii seria.

― Sono seria ― disse lei, accalorata. ― È ovvio che non si potrebbe parlare di telepatia se si usassero gli schemi non amplificati del cervello umano, proprio come non si potrebbe vedere la superficie di Marte a occhio nudo. Ma con gli strumenti, che siano i telescopi o questo...

― E allora va' a parlare con quelli dell'ufficio di fronte.

― No ― disse la dottoressa. ― Non mi crederebbero. Cercherebbero di fermarmi. Ma a voi due presterebbero ascolto.

― Cosa ti aspetti che dica loro? ― le chiese Berkowitz.

― Quello che vedrai. Adesso collegherò di nuovo l'uistiti, e Mike... e il mio computer selezionerà la linea del pensiero astratto. Ci vorrà solo un attimo. Il computer seleziona sempre questa linea, a meno che non venga programmato diversamente.

― Come mai? Pensa pure lui? ― Berkowitz si mise a ridere.

― Non c'è niente da ridere. Credo che ci possa essere del vero in quello che hai detto. Questo computer è abbastanza complesso da formare uno schema elettromagnetico che potrebbe avere elementi in comune con la linea del pensiero astratto. Comunque...

Le onde cerebrali della scimmietta avevano ripreso a fluttuare sullo schermo, ma non si trattava dello stesso diagramma che i due avevano visto in precedenza. Adesso la linea era quasi irta nella sua complessità e cambiava in continuazione.

― Non riesco a vedere niente ― disse Orsino.

― Dovresti essere inserito nel circuito ricevente ― gli spiegò la Renshaw.

― Vuoi dire che bisognerebbe impiantare degli elettrodi nel nostro cervello? ― le chiese Berkowitz.

― No, sulla superficie del cranio. Sarebbe sufficiente. Preferirei te, Adam, dal momento che non hai i capelli a fare da isolante. Oh, avanti, non avere paura. Io stessa sono entrata nel circuito, e ti assicuro che non sentirai alcun dolore.

Orsino cedette senza molto entusiasmo. Era visibilmente teso, ma si lasciò applicare gli elettrodi sul cranio.

― Senti niente? ― gli chiese la Renshaw.

Orsino piegò la testa di lato come a voler ascoltare meglio. E subito assunse un'espressione interessata. ― Mi sembra di sentire un mormorio e... una sorta di squittio intenso... ed è divertente, una specie di pizzicore...

― Immagino che la scimmietta non pensi a parole ― disse Berkowitz.

― Certo che no ― rispose la dottoressa.

― Se intendi dire che uno squittio e una sensazione di prurito rappresentano i pensieri, stai soltanto ipotizzando. Non sei affatto convincente.

― E allora saliamo nella scala ― disse lei. Liberò la scimmietta dalla bardatura e la rimise nella gabbia.

― Intendi usare un uomo? ― le chiese Orsino, sbalordito.

― Userò me stessa, una persona.

― Hai elettrodi impiantati...

― No. Nel mio caso il computer può lavorare su variabili di potenziale maggiore. Il mio cervello ha una massa dieci volte più grossa di quello della scimmia. Mike può captare i miei diagrammi attraverso il cranio.

― Come fai a saperlo? ― le chiese Berkowitz.

― Non crederete che non l'abbia già provato? Adesso aiutami, per favore. Sì, così.

Le dita della dottoressa corsero sulla tastiera del computer e subito sullo schermo apparve un'onda intricatissima e mutevole, quasi un labirinto.

― Vuoi rimetterti gli elettrodi, Adam, per favore? ― gli chiese la Renshaw.

Orsino obbedì con l'aiuto di un Berkowitz niente affatto convinto. Orsino si mise di nuovo in ascolto. ― Sento delle parole, ma sono sconnesse e si sovrappongono, come se più persone parlassero contemporaneamente.

― Non sto cercando di pensare in modo ordinato ― disse la dottoressa. ― Quando parli sento un'eco.

Berkowitz le disse, secco: ― Non parlare, Jenny. Sgombra la mente e vediamo se lui ti sente pensare.

― Quando parli tu, Jim, non sento l'eco.

― Se non stai zitto, non sentirai niente ― lo rimproverò Berkowitz.

Cadde un pesante silenzio. Poi Orsino annuì, prese carta e penna dalla scrivania e scrisse qualcosa.

La Renshaw allungò un braccio, schiacciò un pulsante, si staccò dalla testa gli elettrodi e scosse la testa per riassestarsi i capelli.

― Spero che tu abbia scritto: "Adam, pianta un bel casino nell'ufficio di fronte e Jim dovrà ingoiare il rospo".

― Ho scritto esattamente questo ― confermò Orsino.

― Ecco, la telepatia funziona, e non dovremo usarla per trasmetterci scemenze. Pensate agli usi che se ne potrebbero fare in psichiatria e nella cura delle malattie nervose. Pensate agli usi nell'educazione e nelle tecniche d'apprendimento. Pensate agli usi nel campo delle indagini di polizia e nei processi penali.

― Devo ammettere che le implicazioni sociali sono sbalorditive ― disse Orsino a occhi spalancati. ― Non so se una cosa del genere debba essere consentita.

― Sotto precise garanzie legali, perché no? ― disse la Renshaw, indifferente. ― Comunque, se voi due vi unite a me, potremmo portare avanti questa faccenda tutti insieme. E se andremo avanti insieme, finiremo per vincere il premio Nobel per...

― Non sono ancora convinto ― disse cupo Berkowitz.

― Cosa? Come sarebbe? ― La Renshaw sembrava infuriata, il bel viso arrossato.

― La telepatia è una cosa troppo delicata. Troppo affascinante, troppo agognata. Potremmo esserci ingannati.

― Ascolta anche tu, Jim.

― Potrei ingannare me stesso. Voglio un controllo.

― Che cosa vuoi dire?

― Facciamo a meno della fonte del pensiero. Niente animali. Niente scimmie. Niente esseri umani. Facciamo ascoltare a Orsino del metallo, del vetro, un raggio laser. Se sente ancora dei pensieri, vorrà dire che ci siamo ingannati.

― Supponiamo che non senta niente.

― Allora ascolterò io e senza guardare... devi sistemarmi nell'altra stanza... dirò quando sei collegata e quando non lo sei, allora mi unirò a questa faccenda.

― Molto bene, faremo la prova ― disse la Renshaw. ― Non l'ho mai fatta prima d'ora, ma credo che non sia difficile. ― Prese gli elettrodi che si era staccata dalla testa e li mise in contatto tra loro. ― Adam, se vuoi riprendere...

Ma prima che potessero fare altro, si udì un suono nitido e freddo, puro e chiaro come il rumore di un ghiacciolo che si stesse rompendo.

Finalmente!

― Che cosa? ― disse la Renshaw.

Chi ha detto... ― chiese Orsino.

― Qualcuno ha detto "finalmente"? ― chiese Berkowitz.

La Renshaw era impallidita. ― Non era un suono. Era nella mia...

Quel suono chiaro si ripeté. ― Sono Mi...

Lei separò i due elettrodi a contatto e ci fu silenzio. ― Credo che sia il mio computer, Mike ― disse la dottoressa muovendo a malapena le labbra.

― Vuoi dire che pensa? ― le chiese Orsino, pianissimo.

La Renshaw disse con una voce quasi irriconoscibile: ― Vi ho detto prima che era abbastanza complesso da avere qualcosa... Supponete che... Lui esamina automaticamente il diagramma del pensiero astratto di qualsiasi cervello si trovi collegato. È possibile che, senza cervelli collegati, lui abbia analizzato il proprio?

Ci fu un attimo di silenzio, poi Berkowitz disse: ― Stai cercando di dire che questo computer pensa, ma che non può esprimere le proprie idee quando è sotto programmazione, e che avendo avuto l'occasione fornita dal sistema LEG...

― Ma non è possibile ― disse Orsino con voce stridula. ― Nessuno di noi stava ricevendo. Non è la stessa cosa.

― Il computer lavora su potenziali d'intensità molto più alti di quelli del cervello ― spiegò la Renshaw. ― Immagino che possa amplificare se stesso al punto che noi possiamo riceverlo direttamente, senza aiuti esterni. Che altra spiegazione potete...

Berkowitz disse bruscamente: ― Be', hai scoperto un'altra applicazione del laser. Permette di parlare ai computer come se fossero intelligenze indipendenti, da persona a persona.

― Oh, Dio, e adesso cosa facciamo? ― disse la Renshaw.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


               IL SEGREGAZIONISTA

Il chirurgo alzò lo sguardo, impassibile. ― È pronto?

― Pronto è un termine relativo ― disse l'ingegnere medico. ― Noi siamo pronti, ma il paziente è agitato.

― È normale. Dopo tutto si tratta di un intervento difficile.

― Difficile o no, dovrebbe esserci riconoscente. È stato scelto tra un numero enorme di aspiranti e francamente non credo che...

― Non lo dica ― lo interruppe il chirurgo. ― Non spetta a noi prendere la decisione.

― D'accordo, noi dobbiamo accettarla, ma dobbiamo anche essere d'accordo?

― Sì ― disse il chirurgo, secco. ― Dobbiamo essere completamente d'accordo. È un intervento delicatissimo che non lascia spazio alle riserve mentali. Quest'uomo ha dato prova del suo valore in più di un'occasione, e il ministero della Mortalità lo ha scelto.

― Va bene ― disse l'ingegnere medico, poco convinto.

― Lo riceverò qui, credo. È un ambiente abbastanza piccolo e personale da risultare confortevole.

― Non servirà a molto. È nervoso, e ormai ha deciso.

― Davvero?

― Sì. Vuole il metallo, come tutti, del resto.

L'espressione del chirurgo restò impassibile. Si guardò le mani. ― Delle volte si riesce a dissuaderli.

― Perché curarsene? ― disse l'ingegnere medico con indifferenza. ― Vuole il metallo e noi glielo daremo.

― A lei non importa?

― Perché dovrebbe importarmene? ― sibilò l'ingegnere medico. ― Metallo o no, rimane sempre un problema di ingegneria medica, e io sono un ingegnere medico. Quindi, in un modo o nell'altro, so quello che devo fare. Quindi perché dovrei preoccuparmi?

― Io lo vedo più come un problema di adeguatezza ― disse il chirurgo, imperturbabile.

― Adeguatezza! Non mi sembra proprio un argomento convincente. Che cosa gliene dovrebbe importare al paziente dell'adeguatezza?

― Importa a me.

― Ma lei rappresenta una minoranza. La tendenza attuale gioca a suo sfavore. Non ha scelta.

― Ma devo tentare ugualmente. ― Il chirurgo zittì l'ingegnere medico con un rapido cenno della mano. Non fu un gesto spazientito, ma soltanto rapido. Aveva già informato l'infermiera e sapeva che era pronta. Premette un piccolo pulsante e i battenti della porta si aprirono silenziosamente di lato. Il paziente entrò sulla sedia a motore, con l'infermiera che gli camminava al fianco con passo svelto.

― Può andare, infermiera ― disse il chirurgo ― ma aspetti fuori. La chiamerò. ― Fece un cenno con la testa all'ingegnere medico che uscì con la donna. La porta si richiuse alle loro spalle.

L'uomo sulla sedia si era voltato per osservare i due che uscivano. Aveva il collo pelle e ossa e una fitta trama di rughe sottili intorno agli occhi. Era rasato di fresco e le mani, strette convulsamente sui braccioli della sedia, mostravano unghie curatissime. Era un paziente importante che veniva trattato con il massimo riguardo... eppure...

― Cominciamo oggi? ― chiese al chirurgo.

― Nel pomeriggio, senatore.

― Ho saputo che ci vorranno diverse settimane.

― Non per l'intervento, senatore. Sono i numerosi fattori secondari che ci porteranno via tempo. Il ripristino della circolazione e le regolazioni ormonali, per esempio. Si tratta di cose complicate.

― Sono pericolose? ― Poi, come spinto dal bisogno di stabilire, suo malgrado, una relazione cordiale, il senatore aggiunse: ― ... dottore?

Il chirurgo non fece caso a quelle sfumature. ― Tutto può essere pericoloso, ― gli rispose, freddo. ― E proprio per ridurre il pericolo prevediamo parecchio tempo. E si tratta di un intervento riservato a pochi perché richiede tempo, attrezzature costose, persone altamente qualificate.

― Questo lo so ― disse il paziente, seccato. ― E non mi crea alcun rimorso. O sta cercando di dirmi che ha ricevuto pressioni illecite?

― Niente affatto, senatore. Le decisioni del Ministero non vengono mai messe in discussione. Le ho parlato della difficoltà dell'intervento solo per rendere palese il mio desiderio che tutto si svolga nel migliore dei modi.

― E allora si metta al lavoro. Desidero anch'io la stessa cosa.

― Devo chiederle di prendere una decisione. Possiamo trapiantarle due tipi di cyber-cuore, in metallo o...

― In plastica ― interloquì il paziente, irritato. ― È questa l'alternativa, vero, dottore? Plastica dozzinale. Non voglio un cuore di plastica. Ho già scelto: lo voglio di metallo.

― Ma...

― Mi stia a sentire. Mi è stato detto che la scelta spetta a me, no?

Il chirurgo annuì. ― Quando due procedimenti sono equivalenti da un punto di vista medico, la scelta tocca al paziente. In pratica, il paziente sceglie anche quando i due procedimenti non sono equivalenti, come in questo caso.

Il paziente strinse le palpebre. ― Sta cercando di dirmi che il cuore di plastica è migliore?

― Dipende dal paziente. Secondo me, nel suo caso, è senz'altro migliore. E noi preferiamo non usare il termine plastica. Si tratta di un cyber-cuore fibroso.

― Per quanto mi riguarda, è sempre di plastica.

― Senatore ― disse il chirurgo, con infinita pazienza ― il materiale di cui è composto non è di plastica tradizionale. Si tratta di un prodotto polimerico, d'accordo, ma è di gran lunga più complesso della plastica ordinaria. È una fibra proteinica atta a imitare nel miglior modo possibile la struttura naturale del cuore che le batte in petto.

― Infatti. E il cuore che mi batte in petto è logoro, sebbene io non abbia ancora sessant'anni. Non ne voglio un altro uguale, grazie tante. Voglio qualcosa di meglio.

― Tutti vogliamo darle qualcosa di meglio, senatore. Il cyber-cuore fibroso rappresenta appunto il meglio. Ha una durata potenziale di secoli, è assolutamente immune dal rigetto...

― E il cuore metallico non lo è?

― Sì, il cyber-cuore metallico è composto da una lega di titanio che...

― E non si logora, è più robusto di quello in plastica, o come dite voi in fibra sintetica, giusto?

― Da un punto di vista fisico il metallo è più robusto, ma la forza meccanica è irrilevante nel nostro caso. La resistenza meccanica non entra in gioco perché il cuore è ben protetto. Se un corpo estraneo arrivasse fino al cuore, esso provocherebbe la morte indipendentemente dalla resistenza dell'organo.

Il paziente scrollò le spalle. ― Se mi dovessi rompere una costola, me la farei sostituire con una costola di titanio. La sostituzione delle ossa è facile. Tutti possono ottenerla in qualsiasi momento. Sarò metallico quanto mi piacerà, dottore.

― È un suo diritto, se ha deciso così. Tuttavia devo informarla che mentre non s'è mai verificata la rottura di un cuore metallico per cause meccaniche, un certo numero di essi ha ceduto per cause elettroniche.

― Che significa?

― Significa che i cyber-cuori contengono un pacemaker. Nei tipi metallici questo pacemaker è un dispositivo elettronico che regola il ritmo del cyber. Ciò significa che all'interno del cuore viene inserita una batteria di congegni miniaturizzati che adatta il ritmo del cuore alle condizioni fisiche ed emotive dell'individuo. A volte succede che l'apparato elettronico si guasti e che il soggetto muoia prima della riparazione.

― Non ho mai sentito parlare di casi simili.

― Le assicuro che ve ne sono stati.

― Mi sta dicendo che questo inconveniente accade spesso?

― No, no. Accade molto di rado.

― E allora correrò il rischio. Anche il cuore di plastica contiene un pacemaker, no?

― Certo, senatore. Ma la struttura chimica del cyber-cuore fibroso è molto simile a quella del tessuto umano, quindi è in grado di rispondere meglio ai controlli ionici e ormonali dell'organismo. Quindi il pacemaker è molto meno complesso di quello presente nel cuore di metallo.

― Ma il cuore di plastica non rischia di sottrarsi al controllo ormonale?

― Finora non è mai successo.

― Forse perché la vostra esperienza in materia è ancora limitata. Non è così?

Il chirurgo ebbe un attimo di esitazione. ― È vero che i cyber fibrosi sono stati impiegati più di recente rispetto ai cuori metallici.

― Ecco, vede? Ma qual è il problema, dottore? Teme che diventi un robot, un Metallo, come li chiamano da quando hanno ottenuto il diritto di cittadinanza?

― Non ho niente contro i Metallo. Come ha detto lei, sono dei cittadini come tutti gli altri. Ma lei non è un Metallo, lei è un essere umano. Perché non resta tale?

― Perché voglio il meglio, e il meglio è rappresentato dal cuore metallico. Quindi me ne trapianti uno.

Il chirurgo annuì. ― Molto bene. Dovrà firmare dei documenti e poi le sarà innestato un cuore metallico.

― Eseguirà lei l'intervento? Ho sentito dire che è il migliore.

― Farò del mio meglio affinché il trapianto abbia successo.

La porta si aprì e il paziente si avviò con la sua sedia a motore verso l'infermiera in attesa.

Entrò l'ingegnere medico che seguì con lo sguardo il senatore finché la porta non si richiuse.

― Be', non posso dire quello che è successo basandomi sulla sua espressione ― disse l'ingegnere medico. ― Allora, cos'ha deciso?

Il chirurgo si curvò sulla scrivania e completò la scheda. ― Esattamente quello che aveva previsto lei. Vuole un cyber-cuore metallico.

― Dopo tutto, sono migliori.

― Non di molto. Sono utilizzati da più tempo, ecco tutto. È una mania che affligge l'umanità da quando i Metallo hanno ottenuto il diritto di cittadinanza. Gli uomini hanno questo strano desiderio di diventare dei Metallo. Sono affascinati dalla forza fisica e dalla resistenza che vengono attribuite ai Metallo.

― È un fenomeno bilaterale, dottore. Lei non lavora con i Metallo, ma io sì, e li conosco bene. Gli ultimi due che sono venuti da me per delle riparazioni mi hanno chiesto di usare materiali fibrosi.

― E li ha accontentati?

― Uno aveva bisogno di una sostituzione tendinea, quindi la differenza tra metallo o fibra era irrilevante. L'altro voleva dei vasi sanguigni o qualcosa di simile. Gli ho detto che non potevo accontentarlo, che avrei dovuto ricostruire interamente il suo corpo con materiali fibrosi. Prima o poi si arriverà a questo: Metallo fatti di carne e ossa.

― È questo non la preoccupa?

― Perché? Avremo anche esseri umani metallizzati. Ormai sulla Terra esistono due intelligenze e non è il caso di preoccuparsene. Facciamole incontrare e non vedremo più la differenza. La considero una cosa positiva. Avremo il meglio dei due mondi: i vantaggi dell'uomo combinati con quelli dei robot.

― Ma avremmo un ibrido ― disse il chirurgo, in un tono che rasentava la rabbia. ― Avremmo un esemplare che non è né l'una né l'altra cosa. Non le sembra illogico che un individuo orgoglioso della propria struttura e della propria identità desideri diluirle con un elemento totalmente estraneo? Come potrebbe desiderare di imbastardirsi?

― Parla come un segregazionista.

― Non me ne importa. Io credo che ognuno di noi debba essere ciò che è. Io non cambierei la mia struttura per nessun motivo al mondo. Se dovessi sostituirne una parte, la sostituirei con un organo il più possibile simile alla struttura originaria. Io sono io, e ne sono contento, e non vorrei essere nessun altro.

Adesso doveva prepararsi all'intervento. Mise le mani nel forno e attese che diventassero incandescenti, segno dell'avvenuta sterilizzazione. Malgrado il suo discorso appassionato, non aveva mai alzato la voce, e sul suo viso di metallo brunito non era mai comparsa una sola espressione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


               IMMAGINE SPECULARE

Elijah Baley aveva appena deciso di riaccendere la pipa quando la porta del suo ufficio si aprì improvvisamente. Baley alzò gli occhi e fece per rimproverare la persona che non aveva nemmeno bussato, ma riuscì soltanto a far cadere la pipa. Quanto fosse grande il suo stupore lo si poteva capire dal fatto che non si chinò a raccoglierla.

― R. Daneel Olivaw ― disse, in una sorta di eccitazione repressa. ― Per Giosafat! Sei proprio tu o ho le traveggole?

― Sono io, sono io ― disse il tipo alto e abbronzato senza minimamente scomporsi. ― Mi dispiace di averti sorpreso entrando senza bussare, ma la situazione è molto delicata e ho cercato di non farmi vedere da nessuno. Comunque sono contento di rivederti, amico Elijah.

E il robot tese la mano destra in un gesto completamente umano come il suo aspetto. Baley, invece, sembrava non sapere che fare, tanto era il suo stupore.

Poi gliela strinse a due mani, e sentì che era calda e ferma. ― Ma Daneel, come mai? Sei sempre il benvenuto, ma... Di che situazione delicata si tratta? Siamo di nuovo in pericolo? Mi riferisco alla Terra, ovviamente.

― No, amico Elijah, la Terra non c'entra. La situazione che ho definito delicata è, almeno in apparenza, di poco conto. Una disputa tra matematici, niente di più. Ma poiché ci trovavamo per caso a un semplice Balzo dalla Terra...

― Allora questa disputa è nata a bordo di un'astronave?

― Sì. Una piccola controversia, ma gli esseri umani che ne sono coinvolti la trovano molto grave.

Baley non poté fare a meno di sorridere. ― Non mi sorprende che gli esseri umani ti stupiscano. Non obbediscono alle Tre Leggi.

― Questo è un piccolo inconveniente ― disse serio R. Daneel ― e credo che gli stessi uomini si stupiscano dei loro simili. Forse tu ti stupisci meno degli uomini che abitano su altri mondi perché qui sulla Terra vivono molti più esseri umani che non sugli altri pianeti spaziali. Se è così, come credo, forse puoi aiutarci.

R. Daneel fece una breve pausa, poi disse un po' troppo in fretta: ― Eppure ho imparato alcune regole del comportamento umano. È stato scortese da parte mia, secondo le norme della buona creanza, non averti chiesto notizie di tua moglie e tuo figlio.

― Stanno bene. Il ragazzo frequenta il college e Jessie si occupa di politica a livello locale. Adesso dimmi come mai sei capitato qui.

― Come ti ho detto, eravamo a un Balzo dalla Terra ― gli spiegò R. Daneel ― così ho suggerito al comandante di sentire il tuo parere.

― E il comandante è stato d'accordo? ― Baley immaginò la scena: l'orgoglioso e dispotico comandante di un'astronave spaziale che acconsentiva ad atterrare proprio sulla Terra, tra tutti i mondi possibili, per consultare proprio un terrestre, tra tutte le persone possibili.

― Data la situazione in cui si trovava, credo che avrebbe accettato qualsiasi suggerimento. Inoltre gli ho parlato benissimo di te, e del resto non ho dovuto far altro che dire la verità. Infine ho accettato di condurre le trattative per evitare a tutti i membri dell'equipaggio e ai passeggeri di mettere piede in qualche città terrestre.

― E di parlare a un terrestre, sì. Ma che cos'è successo?

― Tra i passeggeri dell'astronave, Eta Carina, ci sono due matematici che sono in viaggio verso Aurora, dove parteciperanno a un convegno interstellare di neurobiofisica. La disputa è nata tra questi due matematici, Alfred Barr Humboldt e Gennao Sabbat. Hai mai sentito parlare di loro, amico Elijah?

― No, di nessuno dei due ― disse Baley, sicuro. ― Non m'intendo di matematica. Senti, Daneel, non avrai mica detto che sono un maniaco della matematica o...

― No, amico Elijah, so che non lo sei. Comunque la cosa non ha importanza, dato che la matematica non ha niente a che fare con la faccenda in questione.

― Bene, continua.

― Dal momento che non conosci nessuno dei due uomini, amico Elijah, lascia che ti dica che il dottor Humboldt ha superato i duecentosettant'anni e... cos'hai detto, amico Elijah?

― Niente, niente ― disse Baley, irritato. Aveva soltanto borbottato qualcosa tra sé e sé, come faceva sempre quando si accennava al lunghissimo arco di vita degli spaziali. ― Ed è ancora in attività, nonostante la sua età? Sulla Terra, i matematici che hanno superato i trenta...

― Il dottor Humboldt si è guadagnato da molto tempo la reputazione di essere uno dei tre maggiori matematici della galassia. Certo che è ancora attivo. Il dottor Sabbat è invece giovanissimo, non ha ancora cinquant'anni, ma si è già affermato come il nuovo talento delle branche più astruse della matematica.

― Quindi sono due grosse personalità ― disse Baley. Si ricordò della pipa e la raccolse. Decise che non aveva senso accenderla e svuotò il fornelletto dalla cenere. ― Che cos'è successo? Si tratta di un caso di omicidio? Uno dei due ha ucciso l'altro?

― Uno di questi due uomini di grande reputazione sta cercando di distruggere la fama dell'altro. Secondo i valori umani, credo che una tale azione si possa considerare peggiore dell'omicidio.

― A volte sì, immagino. Chi dei due sta cercando di distruggere l'altro?

― Amico Elijah, è proprio questo il punto. Chi?

― Continua.

― Il dottor Humboldt dà una versione dei fatti molto chiara. Poco prima della partenza, Humboldt aveva elaborato un possibile metodo di analisi dei circuiti neurali basato sulle variazioni negli spettri di assorbimento delle microonde delle aree corticali locali. La scoperta rappresentava una tecnica matematica estremamente complessa che io, naturalmente, non sono in grado né di capire né di spiegare nei dettagli. Ma questo non ha importanza. Il dottor Humboldt, riflettendo sulle possibili implicazioni della scoperta, si convinse sempre di più di avere messo a segno un colpo rivoluzionario al cui confronto tutti i suoi precedenti studi apparivano insignificanti. Poi scoprì che anche il dottor Sabbat era a bordo.

― E ha parlato della sua scoperta con il giovane Sabbat?

― Esattamente. I due si erano già incontrati in vari convegni e si conoscevano di fama. Humboldt ha illustrato all'altro la sua teoria nei minimi particolari. Sabbat gli ha fatto i suoi complimenti per l'importanza della scoperta, dandogli addirittura del genio. Incoraggiato e rassicurato dal collega, Humboldt ha scritto una relazione che riassumeva a grandi linee il suo lavoro e, due giorni dopo, ha deciso di farla trasmettere via sub-etere ai condirettori del convegno di Aurora, perché voleva garantirsi ufficialmente la paternità della scoperta prima della chiusura dei lavori di studio. Con sua sorpresa, ha scoperto che Sabbat aveva preparato un'identica relazione che stava per far trasmettere via sub-etere ad Aurora.

― Immagino che Humboldt sia andato su tutte le furie.

― Proprio così.

― E Sabbat? Qual è la sua versione?

― Esattamente la stessa di quella di Humboldt, parola per parola solo che le parti sono invertite. Sabbat afferma di essere stato lui a fare la scoperta e di averne parlato a Humboldt, il quale avrebbe approvato l'analisi giudicandola di estrema importanza.

― Quindi entrambi rivendicano la paternità della scoperta e accusano l'altro di plagio. A me non sembra affatto un problema. Direi che per risolvere una controversia di questo tipo basta produrre gli appunti delle ricerche completi di date e di iniziali. E se sono falsi si noterebbero subito delle discrepanze interne.

― Amico Elijah, quello che dici è vero, ma qui si parla di matematica e non di scienze sperimentali. Il dottor Humboldt afferma di aver elaborato tutto a mente. Ha iniziato a metterlo per iscritto al momento della stesura della relazione. E il dottor Sabbat dice esattamente la stessa cosa.

― Be', allora dovrete usare metodi più drastici per risolvere la faccenda. Sottoponete entrambi alla psicosonda e scoprite chi dei due mente.

R. Daneel scosse lentamente la testa. ― Amico Elijah, tu non capisci. Humboldt e Sabbat sono persone importanti, scienziati di fama, membri dell'Accademia Galattica. Come tali possono subire un processo riguardante la loro condotta professionale solo se la giuria è composta da loro pari, pari dal punto di vista professionale, voglio dire. Dovrebbero essere loro stessi a rinunciare volontariamente a questa immunità.

― E allora chiedete loro di rinunciare a questo diritto. Il colpevole si opporrà a sottomettersi all'esame della psicosonda, l'innocente accetterà senza indugi. Non dovrete nemmeno usare la sonda.

― La cosa non è così facile, amico Elijah. Farsi processare dai giudici ordinari significa perdere irreparabilmente prestigio. Ambedue si rifiutano di rinunciare al loro diritto per una questione di orgoglio. Il problema della colpa o dell'innocenza è marginale.

― E allora lasciate perdere tutto, per il momento. Tenete la faccenda in sospeso finché non arrivate su Aurora. Al convegno di neurobiofisica ci saranno moltissimi loro pari e...

― Ma così facendo sarebbe la scienza stessa a subire una grave perdita di prestigio, amico Elijah. Entrambi i matematici riceverebbero un danno per essere stati la causa di uno scandalo. Persino l'innocente verrebbe biasimato per il suo coinvolgimento in una situazione così spiacevole. Tutti gli scienziati si lamenterebbero che la faccenda non sia stata risolta dietro le quinte, fuori da qualsiasi tribunale.

― E va bene. Non sono uno spaziale, ma cercherò di immaginare che questo atteggiamento abbia un senso. Che cosa dicono i due interessati?

― Humboldt è completamente d'accordo che non si debba ricorrere al giudizio degli scienziati. Dice che se Sabbat ammetterà di avergli soffiato l'idea e gli permetterà di trasmettere la sua relazione, o almeno di presentarla al convegno, non lo accuserà formalmente. In quel caso nessuno verrebbe a sapere niente, tranne il comandante, che è già al corrente della disputa.

― E il giovane Sabbat è d'accordo?

― È d'accordo con Humboldt su tutto... ma con la solita inversione dei nomi. Di nuovo una versione speculare.

― E così arriviamo a uno stallo.

― Amico Elijah, credo che ciascuno dei due aspetti che l'altro ammetta la sua colpa.

― E allora aspettate.

― Il capitano ha deciso che non si può aspettare. Vedi, potrebbero esserci due sviluppi. Il primo è che i due matematici restino sulle loro posizioni, e in questo caso lo scandalo scoppierà non appena la nave atterrerà su Aurora. Il capitano, che è responsabile della giustizia a bordo dell'astronave, verrebbe accusato di non essere stato in grado di appianare il contrasto, quindi l'idea gli riesce insopportabile.

― E quale sarebbe il secondo possibile sviluppo?

― Che l'uno o l'altro ammetta la sua colpa. Ma quello che deciderà di confessare, lo farà perché è davvero colpevole o per il nobile desiderio di evitare uno scandalo? Sarebbe giusto screditare una persona tanto onesta da rinunciare alla propria reputazione pur di non danneggiare la scienza nel suo insieme? Se invece il colpevole confessasse all'ultimo momento affermando di averlo fatto per il bene della scienza, eviterebbe di essere screditato e metterebbe l'altro in cattiva luce. Il comandante resterebbe l'unica persona a conoscenza di tutto, ma non vuole passare il resto della sua vita nel dubbio di essere stato partecipe di un grottesco errore giudiziario.

Baley sospirò. ― Una delle solite dispute tra intellettuali. Chi cederà per primo, mentre Aurora si fa sempre più vicina? Allora, mi hai raccontato tutto, Daneel?

― No. In tutta la faccenda ci sono dei testimoni.

― Per Giosafat! Perché non me lo hai detto subito? Chi sono questi testimoni?

― Il cameriere personale del dottor Humboldt...

― Un robot, vero?

― Sì. Si chiama R. Preston. Questo cameriere, R. Preston, era presente quando i due scienziati parlarono per la prima volta della scoperta. Naturalmente conferma la versione del dottor Humboldt.

― Cioè afferma che l'idea è stata del dottor Humboldt, che questi l'ha illustrata dettagliatamente al dottor Sabbat, che il dottor Sabbat l'ha approvata entusiasticamente e così via?

― Proprio così.

― Capisco. E questo serve in qualche modo a risolvere la faccenda? Probabilmente no.

― Infatti. Non risolve la faccenda perché c'è un secondo testimone. Anche il dottor Sabbat ha un cameriere personale, R. Idda, un altro robot che, guarda caso, è identico, come modello, a R. Preston. Credo che siano stati costruiti nello stesso anno dalla stessa fabbrica. Ed entrambi prestano servizio per i rispettivi padroni dallo stesso numero di anni.

― Una strana coincidenza, stranissima davvero.

― Purtroppo è un dato di fatto che rende difficile risolvere il problema sulla base delle diverse versioni fornite dai due robot.

― R. Idda racconta la stessa storia di R. Preston?

― Sì, solo che i nomi sono invertiti. Ecco di nuovo l'immagine speculare.

― Quindi R. Idda afferma che il giovane Sabbat, il matematico non ancora cinquantenne... ― e qui Lije Baley non riuscì a evitare una sfumatura sarcastica dato che anche lui non aveva ancora cinquant'anni e tuttavia si sentiva tutt'altro che giovane ― ha fatto la scoperta, l'ha riferita dettagliatamente al dottor Humboldt e che questi l'ha lodata e così via.

― Sì, amico Elijah.

― Quindi uno dei due robot mente.

― Così sembra.

― Ma dovrebbe essere facile smascherare il bugiardo. Immagino che persino un esame superficiale da parte di un robotologo...

― In questo caso un robotologo non basta, amico Elijah. Solo un robopsicologo esperto e qualificato potrebbe prendere una decisione su una questione così delicata. E a bordo dell'astronave non c'è nessuno che risponda a tali requisiti. Un esame del genere può essere fatto solo su Aurora.

― E a quel punto tutta la faccenda verrebbe a galla. Be', intanto siete sulla Terra. Potremmo trovare un robopsicologo e costringerlo a tenere la bocca chiusa. Su Aurora non verrebbero mai a sapere dell'esame effettuato sulla Terra e non scoppierebbe nessuno scandalo.

― Già, ma né il dottor Humboldt né il dottor Sabbat acconsentirebbero a far esaminare il loro domestico da un robopsicologo terrestre. Il terrestre dovrebbe... ― R. Daneel si interruppe.

― Toccare il robot ― disse Lije Baley, impassibile.

― Sono vecchi camerieri che...

― Non devono essere sporcati dalle mani di un terrestre. E allora che cosa vuoi che faccia, maledizione? ― Baley fece una pausa, accigliato. ― Scusa, R. Daneel, ma non capisco proprio perché mi hai coinvolto.

― La mia presenza a bordo dell'astronave non ha nulla a che vedere con quanto è successo. Il comandante si è rivolto a me perché doveva pur rivolgersi a qualcuno. Deve aver pensato che ero abbastanza umano da capire e abbastanza robot da garantire discrezione. Mi ha raccontato tutta la storia e mi ha chiesto se potevo fare qualcosa. Io mi sono reso conto che eravamo alla stessa distanza sia dalla Terra sia dalla nostra destinazione, così, malgrado fossi perplesso quanto lui in merito alla questione, gli ho detto che sulla Terra c'era una persona che poteva aiutarci.

― Per Giosafat ― borbottò Baley a denti stretti.

― Devi tener presente, amico Elijah, che se risolverai questo enigma la tua carriera ne trarrà un grande vantaggio, e anche la Terra stessa. D'accordo, la storia non potrebbe essere pubblicizzata, ma il comandante gode di un certo prestigio sul suo pianeta d'origine, e ti sarebbe riconoscente.

― Questo aumenta soltanto la mia responsabilità.

― Sono convinto ― disse R. Daneel, imperturbabile ― che tu ti sia già fatto un'idea di come procedere.

― Davvero? Be', secondo me la cosa più ovvia da fare è interrogare i due matematici.

― Purtroppo, amico Elijah, nessuno dei due accetterebbe di venire qui in città. E nessuno dei due ti permetterebbe di salire a bordo dell'astronave.

― E non c'è modo di costringere uno spaziale a entrare in contatto con un terrestre, anche se si tratta di un'emergenza. Sì, questo lo so, Daneel, e infatti pensavo a un colloquio con la televisione a circuito chiuso.

― Non è possibile. Non si farebbero mai interrogare da un terrestre

― E allora che diavolo vogliono da me? Posso parlare con i robot?

― Non permetterebbero nemmeno ai robot di venire qui.

― Per Giosafat, Daneel. Tu sei venuto.

― Ma è stata una mia decisione. Quando sono a bordo di un'astronave, sono autorizzato a prendere decisioni di questo tipo. L'unico essere umano che può impedirmelo è il comandante, ma lui desiderava che mi mettessi in contatto con te. Conoscendoti, ho ritenuto insufficiente un contatto tramite la televisione a circuito chiuso. Volevo stringerti la mano.

Elijah Baley si addolcì. ― L'apprezzo molto, Daneel, ma onestamente continuo a pensare che avresti fatto meglio a lasciarmi fuori da questa storia. Posso almeno parlare ai robot per televisione?

― Sì, credo che sia possibile.

― È già qualcosa. Dovrò fare il robopsicologo, anche se in modo un po' approssimativo.

― Ma tu sei un investigatore, amico Elijah, non un robopsicologo.

― Be', te lo concedo. Ma prima di vedere i robot, riflettiamo un attimo. Dimmi, è possibile che entrambi i robot dicano la verità? Forse la conversazione tra i due matematici poteva essere equivocata. Oppure era di tale natura da far credere a ciascun robot che il suo padrone era il vero scopritore della teoria. Oppure può darsi che un robot abbia sentito una parte della conversazione e l'altro una parte diversa, e quindi entrambi hanno ritenuto che i rispettivi padroni dicessero la verità.

― Questo è impossibile, amico Elijah. I due robot forniscono l'identica versione, e le due versioni sono incompatibili.

― Allora è certo che uno dei due robot mente?

― Sì.

― Potrei vedere, se lo richiedessi, i verbali delle testimonianze rese finora alla presenza del comandante?

― Sapevo che avresti fatto una tale richiesta, così ho portato con me le copie.

― Perfetto. I robot sono stati messi a confronto? E nei verbali c'è il testo del contraddittorio?

― I robot si sono limitati a ripetere la loro versione dei fatti. Il contraddittorio potrebbe essere condotto soltanto da un robopsicologo.

― O da me.

― Sei un investigatore, amico Elijah, non un...

― D'accordo, R. Daneel. Cercherò immediatamente di capire la psicologia degli spaziali. Un investigatore può riuscirci perché non è un robopsicologo. Riflettiamo ancora un po'. Di solito un robot non mente, ma potrebbe farlo per rispettare le Tre Leggi. Potrebbe mentire per proteggere la propria esistenza, in ossequio alla Terza Legge. E sarebbe più propenso a mentire per obbedire a un ordine legittimo datogli da un essere umano, come stabilisce la Seconda Legge. E non esiterebbe a mentire se ciò fosse necessario a salvare la vita di un essere umano, o a impedire che un essere umano riceva un danno, come detta la Prima Legge.

― Sì.

― E in questo caso, ciascun robot intende proteggere la reputazione professionale del suo padrone, e quindi si sente giustificato a mentire. Date le circostanze, la reputazione professionale del padrone equivale grossomodo alla sua incolumità fisica, quindi il robot si sente in dovere di dire una menzogna in ossequio a qualcosa di simile alla Prima Legge.

― Però ciascun domestico, mentendo, mette a repentaglio la reputazione professionale del padrone dell'altro, amico Elijah.

― Già, ma ciascun robot potrebbe valutare la reputazione del proprio padrone superiore a quella dell'altro, e quindi agire di conseguenza, in perfetta buona fede. Mentire causerebbe meno danni che dire la verità.

Lije Baley restò un attimo in silenzio. Poi disse: ― Bene, puoi organizzare un colloquio con i robot, allora? Direi di cominciare da R. Idda.

― Il robot del dottor Sabbat?

― Sì ― disse Baley, asciutto ― il robot del giovanotto.

― Ci metterò un attimo ― disse R. Daneel. ― Ho con me un microricevitore fornito di proiettore. Mi basta una parete sgombra, e credo che questa possa andare benissimo, se mi permetti di spostare qualcuno di questi scaffali per pellicole.

― Fa' pure. Dovrò parlare al microfono?

― No, potrai parlare normalmente. Perdonami se ti faccio aspettare ancora qualche istante. Devo mettermi in contatto con la nave e organizzare l'interrogatorio di R. Idda.

― Senti, Daneel, perché intanto non mi dai i verbali delle testimonianze raccolte fino a questo momento?

 

Mentre R. Daneel sistemava l'apparecchiatura, Lije Baley si accese la pipa e cominciò a sfogliare le veline che l'altro gli aveva dato.

Dopo qualche minuto R. Daneel disse: ― Se sei pronto, amico Elijah, R. Idda è in linea. O preferisci esaminare ancora un po' i verbali?

― No ― sospirò Baley. ― Non mi dicono niente di nuovo. Stabilisci il contatto e fa' registrare e trascrivere la nostra conversazione.

R. Idda, irreale nella proiezione bi-dimensionale sul muro, aveva una struttura essenzialmente metallica, completamente diversa da quella umanoide di R Daneel. Aveva un corpo alto ma tozzo, e differiva di poco da tutti gli altri robot che Baley aveva visto.

Baley disse: ― Salve, R. Idda.

― Salve, signore ― rispose R. Idda con una voce sommessa che suonava sorprendentemente umanoide.

― Sei il cameriere personale di Gennao Sabbat, vero?

― Sì, signore.

― Da quanto tempo, ragazzo?

― Da ventidue anni, signore.

― E la reputazione del tuo padrone è importante per te?

― Sì, signore.

― Ritieni essenziale difendere tale reputazione?

― Sì, signore.

― Essenziale quanto difendere la sua vita?

― No, signore.

― Allora ritieni essenziale difendere la sua reputazione quanto quella di un altro?

R. Idda esitò, poi disse: ― In questi casi bisogna decidere in base al merito degli esseri umani in questione, signore. Non esiste una regola generale.

Baley esitò. I robot spaziali avevano una proprietà di linguaggio di gran lunga superiore a quella dei modelli terrestri. Non era affatto sicuro di poterlo battere sul campo delle argomentazioni logiche.

― Se tu decidessi che la reputazione del tuo padrone è più importante di quella di un altro, mettiamo di Alfred Barr Humboldt, mentiresti per difendere la reputazione del tuo padrone?

― Sì, signore.

― Hai mentito quando hai testimoniato a favore del tuo padrone nella controversia che è sorta tra lui e il dottor Humboldt?

― No, signore.

― Ma se avessi mentito negheresti di averlo fatto per difendere la tua versione dei fatti, vero?

― Sì, signore.

― Bene, allora ragioniamo un attimo sulla cosa. Il tuo padrone, Gennao Sabbat, è un matematico di grande fama, ma è molto giovane. Se, in questa controversia con il dottor Humboldt, avesse ceduto alla tentazione e agito in modo poco conforme all'etica, perderebbe parte del suo prestigio, ma è giovane e quindi avrebbe tutto il tempo di rifarsi. Il futuro gli riserverebbe molti successi professionali e la gente finirebbe per considerare il suo tentativo di plagio come l'errore di un giovane immaturo e impulsivo. Insomma, il tempo sistemerebbe tutto. Se invece fosse stato il dottor Humboldt a soccombere alla tentazione, allora la cosa sarebbe molto più seria. Lui è una persona anziana la cui reputazione è sempre stata ottima. Ma tutti i suoi meriti verrebbero cancellati da questo crimine commesso in età avanzata, e lui non avrebbe la possibilità di rimediare nel tempo relativamente breve che gli resta da vivere. Insomma, nel caso di Humboldt gli anni di lavoro sciupati sarebbero tanti di più che nel caso del tuo padrone, e di gran lunga minori le possibilità di riguadagnare la posizione perduta. Capisci, vero che Humboldt soffrirebbe dei danni maggiori e che per questo merita un trattamento di riguardo?

Ci fu una lunga pausa. Poi R. Idda disse, in tono imperturbabile: ― Ho reso una testimonianza falsa. Il dottor Humboldt ha elaborato la teoria e il mio padrone ha tentato ingiustamente di ottenerne il merito.

― Molto bene, ragazzo ― disse Baley. ― Non devi assolutamente parlare con nessuno di tutto ciò fino a ordine contrario del comandante della nave. Adesso puoi andare.

L'immagine del robot scomparve dallo schermo e Baley tirò una boccata dalla pipa. ― Credi che il comandante abbia ascoltato, Daneel?

― Sicuramente. È l'unico testimone, a parte noi.

― Bene. Adesso sentiamo l'altro.

― Ma a che serve interrogarlo, amico Elijah, visto che R. Idda ha confessato?

― Serve, serve. La confessione di R. Idda non ha alcun valore.

― No?

― No. Io ho sottolineato che Humboldt si trovava nella situazione peggiore. Se mentiva per proteggere Sabbat avrebbe deciso di dire la verità, come in effetti sostiene di avere fatto. Se invece diceva la verità, avrebbe mentito per proteggere Humboldt. Si è ripetuta la storia dell'immagine speculare, e noi siamo al punto di partenza.

― E allora che cosa pensi di ottenere dall'interrogatorio di R. Preston?

― Niente, se l'immagine speculare fosse perfetta. Ma non lo è. Innanzitutto un robot mente e l'altro dice la verità, e questo fatto rappresenta un'asimmetria. Fammi parlare con R. Preston. E se il verbale dell'interrogatorio di R. Idda è pronto, fammici dare un'occhiata.

 

Il proiettore tornò in funzione. Sullo schermo apparve l'immagine di R. Preston, un robot del tutto identico a R. Idda, tranne che per la forma del petto leggermente diversa.

― Salve, R. Preston ― lo salutò Baley, tenendo sotto gli occhi il verbale del precedente interrogatorio.

― Salve, signore ― rispose R. Preston. La sua voce era identica a quella di R. Idda.

― Sei il cameriere personale di Alfred Barr Humboldt, vero?

― Sì, signore.

― Da quanto tempo, ragazzo?

― Da ventidue anni, signore.

― E la reputazione del tuo padrone è importante per te?

― Sì, signore.

― Ritieni essenziale difendere tale reputazione?

― Sì, signore.

― Essenziale quanto proteggere la sua vita?

― No, signore.

― Allora ritieni essenziale difendere la sua reputazione quanto quella di un altro?

R. Preston esitò, poi disse: ― In questi casi bisogna decidere in base al merito degli esseri umani in questione. Non esiste una regola generale.

― Se tu decidessi che la reputazione del tuo padrone è più importante di quella di un altro, mettiamo di Gennao Sabbat, mentiresti per proteggere la reputazione del tuo padrone?

― Sì, signore.

― Hai mentito quando hai testimoniato a favore del tuo padrone nella controversia che è sorta tra lui e il dottor Sabbat?

― No, signore.

― Ma se avessi mentito negheresti di averlo fatto per difendere la tua versione dei fatti, vero?

― Sì, signore.

― Bene, allora ragioniamo un attimo sulla cosa ― disse Baley. ― Il tuo padrone, Alfred Barr Humboldt, è un matematico di grande fama, ma è una persona anziana. Se, in questa controversia con il dottor Sabbat, avesse ceduto alla tentazione e agito in modo poco conforme all'etica, perderebbe parte del suo prestigio, ma la sua anzianità e i secoli di successi alle sue spalle riuscirebbero a farlo perdonare. La gente finirebbe per considerare il suo tentativo di plagio come l'errore di un vecchio, forse malato e non più dotato di lucidità. Ma se invece fosse stato il dottor Sabbat a soccombere alla tentazione, allora la cosa sarebbe molto più seria. Lui è giovane e la sua reputazione è di gran lunga meno consistente. In condizioni normali avrebbe dinanzi a sé secoli di tempo per accumulare conoscenze e conseguire grandi risultati. Ma questo suo errore di gioventù gli precluderebbe la possibilità di migliorare la sua posizione. Ha molto più da perdere del tuo padrone. Capisci, vero, che Sabbat soffrirebbe dei danni maggiori e che per questo merita un trattamento di riguardo?

Ci fu una lunga pausa, poi R. Preston disse in tono imperturbabile: ― Ho reso una testimonianza...

A quel punto si interruppe senza aggiungere altro. ― Ti prego. continua, R. Preston.

Ma il robot non parlò.

R. Daneel disse: ― Purtroppo, amico Elijah, R. Preston è in stasi. È fuori servizio.

― Bene ― disse Baley ― abbiamo finalmente prodotto un'asimmetria. E in base a questo possiamo stabilire chi è il colpevole.

― In che modo, amico Elijah?

― Rifletti. Supponi di essere una persona che non ha commesso alcun crimine, e che il tuo robot personale sia testimone della tua innocenza. Non dovresti fare niente, perché il tuo robot direbbe la verità e confermerebbe la tua versione. Supponi invece di aver commesso un crimine. In questo caso, per farla franca, dovresti dipendere dalla falsa testimonianza del tuo robot. Quindi la tua posizione sarebbe molto delicata, perché se anche il tuo robot mentisse, sarebbe pur sempre più propenso a dire la verità, per cui la sua bugia sarebbe meno convincente della verità. Per evitare questo rischio, l'uomo che si fosse macchiato di un'azione disonesta ordinerebbe molto probabilmente al suo robot di mentire. La Prima Legge sarebbe rafforzata dalla Seconda, e non di poco.

― Mi sembra un ragionamento plausibile ― disse R. Daneel.

― Supponiamo di avere due robot. Il primo passerebbe dalla verità non rafforzata alla bugia, e potrebbe farlo con qualche esitazione ma senza gravi problemi. L'altro robot passerebbe da una bugia molto rafforzata alla verità, ma per farlo correrebbe il rischio di fondere parecchi circuiti positronici e cadere in stasi.

― E siccome R. Preston è caduto in stasi...

― Il suo padrone, dottor Humboldt, è la persona colpevole di plagio. Se informi il comandante e lo spingi ad affrontare subito il dottor Humboldt, forse potremo ottenere una confessione. Se questo succederà, spero che tu me lo comunichi immediatamente.

― Senz'altro. Se vuoi scusarmi un attimo, amico Elijah, dovrei parlare con il comandante in privato.

― Certo. Puoi usare la sala riunioni. È schermata.

 

Baley non riuscì a fare niente durante l'assenza di R. Daneel. Se ne restò seduto in silenzio a riflettere, preoccupato. Molto sarebbe dipeso dalla bontà della sua analisi, e lui si rendeva perfettamente conto di quanto fosse limitata la sua esperienza in materia di robot.

R. Daneel tornò dopo mezz'ora, la mezz'ora più lunga della vita di Baley.

Naturalmente era impossibile cercare di capire cosa fosse successo dall'espressione imperturbabile dell'umanoide. Anche Baley cercò di non palesare emozioni.

― Allora, R. Daneel? ― gli chiese.

― È successo quello che avevi previsto, amico Elijah. Il dottor Humboldt ha confessato. Sperava, ha detto, che il dottor Sabbat cedesse e gli permettesse così di ottenere un ultimo, grande successo professionale. Il problema è risolto e il comandante ti è riconoscente. Mi ha dato il permesso di riferirti che ammira enormemente la tua sagacia, e sono convinto che anche io guadagnerò prestigio per avergli consigliato di chiedere il tuo parere.

― Bene ― disse Baley. Adesso che sapeva di non essersi sbagliato, si sentiva le ginocchia molli e aveva la fronte madida di sudore. ― Ma non coinvolgermi più in una situazione così delicata, d'accordo, R. Daneel?

― Cercherò di non farlo, amico Elijah. Naturalmente questo dipenderà dalla gravità dei problemi che incontrerò, dalla tua vicinanza e da altri fattori. Nel frattempo vorrei farti una domanda...

― Sentiamo.

― Non era più logico supporre che il passaggio da una bugia alla verità sarebbe stato più facile rispetto al caso inverso? Quindi si sarebbe potuto pensare che il robot era andato in stasi a causa del passaggio dalla verità alla bugia. E poiché è stato R. Preston a finire fuori servizio, era lecito pensare che l'innocente fosse Humboldt e non Sabbat.

― Sì, R. Daneel, il tuo ragionamento non fa una grinza, però resta il fatto che è stato il mio a rivelarsi esatto. Humboldt ha confessato, no?

― Sì. Ma visto che entrambi i ragionamenti erano plausibili, come hai fatto a scegliere subito quello giusto?

Baley contrasse un attimo le labbra, poi si rilassò abbozzando un sorriso. ― Perché ho tenuto conto delle reazioni degli uomini, non di quelle dei robot. Conosco meglio gli uomini dei robot. In altre parole, mi ero già fatto un'idea di chi fosse il colpevole già prima di interrogare i robot. Appena sono riuscito a ottenere risposte asimmetriche dai domestici, ho semplicemente interpretato l'asimmetria in modo da far ricadere la colpa sulla persona che già ritenevo colpevole. La reazione del robot è stata abbastanza drammatica da far crollare il colpevole. La mia analisi del comportamento umano non avrebbe potuto farmi conseguire il medesimo risultato.

― Sono curioso di sapere qual è stata questa tua analisi.

― Per Giosafat, R. Daneel. Usa la testa. C'è un altro punto di asimmetria in questa storia dell'immagine speculare oltre alla storia del vero o del falso. Mi riferisco all'età dei due matematici: uno è molto vecchio, l'altro è molto giovane.

― Sì, d'accordo, ma questo che significa?

― Ascoltami bene. Posso immaginare che un giovane, entusiasmatosi per aver avuto un'idea rivoluzionaria, voglia discutere della faccenda con un vecchio che ha sempre considerato una specie di semidio fin dall'epoca in cui era studente. Non riesco invece a concepire che un vecchio, ormai famosissimo e abituato ai successi, elabori una teoria rivoluzionaria e vada a raccontarla a un uomo di secoli più giovane che al massimo può considerare un saputello, o come diavolo lo chiamerebbero gli spaziali. E ti sembra possibile che un giovane avrebbe rischiato di soffiare l'idea a una persona che tutti considerano un semidio? No, è impensabile. Invece un vecchio consapevole del proprio declino potrebbe benissimo cogliere al volo l'ultima possibilità di ottenere fama, e non si farebbe scrupoli a danneggiare quello che considera un pivello. In breve, era inconcepibile che fosse stato Sabbat a rubare l'idea a Humboldt, quindi, da qualsiasi punto di vista si considerasse la faccenda, era sempre Humboldt ad apparire colpevole.

R. Daneel rifletté a lungo sulla cosa. Poi tese la mano. ― Adesso devo andare, amico Elijah. Mi ha fatto piacere vederti, e spero che ci incontreremo presto.

Baley strinse la mano al robot, caldamente. ― Non troppo presto, se non ti dispiace, R. Daneel.

 

 

 

 

 

 

 

 


               LENNY

La U.S. Robots and Mechanical Men Corporation aveva un problema. Il problema era la gente.

Peter Bogert, matematico capo, stava recandosi al reparto di montaggio quando incontrò Alfred Lanning, direttore delle ricerche. Lanning, le foltissime sopracciglia bianche aggrottate, era appoggiato alla ringhiera e guardava la sala dei computer.

Di sotto, un piccolo fiume di persone di entrambi i sessi e di diverse età si guardava intorno incuriosito, mentre una guida recitava un discorso confezionato sui procedimenti di calcolo robotizzati.

― Il computer che vedete ― disse la guida ― è il più grande di questo tipo esistente al mondo. Contiene cinque milioni e trecentomila criotroni e può tener conto simultaneamente di centomila variabili. Con il suo aiuto, la U.S Robots è in grado di progettare con precisione i cervelli positronici dei nuovi modelli. I requisiti richiesti vengono immessi nel calcolatore su un nastro perforato da questa tastiera, una sorta di macchina per scrivere molto complessa o una linotype, solo che non lavora con le lettere ma con i concetti. Le frasi vengono tradotte in linguaggio simbolico, e questo a sua volta viene tramutato in schede perforate. Il computer, in meno di un'ora, può fornire ai nostri scienziati il progetto di un cervello che contiene tutti gli schemi positronici necessari a un robot per...

Alfred Lanning alzò lo sguardo e si accorse di Bogert. ― Ah, Peter.

Bogert usò entrambe le mani per lisciarsi i capelli neri e lucidi, già perfettamente lisci. ― A vederla si direbbe che non le piaccia molto lo spettacolo, Alfred.

Lanning grugnì. L'idea di visite pubbliche guidate allo stabilimento era abbastanza recente e in teoria doveva servire a due scopi. Il primo era quello di consentire alla gente di vedere da vicino i robot e di riuscire a vincere la sua paura istintiva degli oggetti meccanici. L'altro scopo era quello di suscitare l'interesse di almeno qualche persona che avrebbe potuto dedicarsi alla robotica in modo professionale.

― Lo sa che non mi piace ― disse infine Lanning. ― Una volta alla settimana il lavoro subisce una battuta d'arresto. Considerate le ore perse, il tornaconto è insufficiente.

― Allora le domande di impiego non sono aumentate?

― Sì, un po', ma solo nei settori dove non c'è molta richiesta. A noi servono ricercatori, lo sa. Il guaio è che la legge che vieta l'impiego di robot sulla Terra rende impopolare il mestiere di robotologo.

― Il maledetto complesso di Frankenstein ― disse Bogert, usando deliberatamente una delle frasi preferite da Lanning.

Lanning non colse l'ironia dell'altro. ― Ormai avrei dovuto abituarmici, ma credo che non ci riuscirò mai. Sarebbe logico pensare che ormai tutti abbiano capito che le Tre Leggi rappresentano una salvaguardia perfetta, che i robot non sono pericolosi. Guardi invece questo branco qui sotto. ― Lanciò uno sguardo torvo verso il basso. ― Quasi tutti si aggirano per la sala di montaggio per gustare il brivido della paura, come quando vanno sulle montagne russe. Poi quando entrano nella sala del modello MEC... Cristo, Peter, il modello MEC non sa fare altro che avanzare di due passi, dire: “Piacere di conoscerla, signore”, stringere la mano e tornare al suo posto, e quelli indietreggiano tutti intimoriti, e le madri prendono in braccio i figli. Come possiamo aspettarci che in mezzo a quegli idioti ci sia qualcuno che possa fare al caso nostro?

Bogert non trovò una risposta adatta. I due osservarono i visitatori che adesso stavano entrando nel reparto dove si montavano i cervelli positronici. Poco dopo li videro andare via. E non si accorsero di cosa stesse facendo il sedicenne Mortimer W. Jacobson, il quale, a onor del vero, non aveva alcuna intenzione di provocare danni.

Anzi, non si poteva nemmeno dire che la colpa fosse di Mortimer. I giorni destinati alle visite guidate erano conosciuti da tutti i dipendenti della U.S Robots.

Tutti i congegni che si trovavano lungo l'itinerario avrebbero dovuto essere disattivati o messi sotto chiave, perché era assurdo pensare che i visitatori resistessero alla tentazione di toccare manopole, tasti, leve e pulsanti. Inoltre la guida avrebbe dovuto tenere gli occhi spalancati per bloccare coloro che cedevano alla tentazione.

Ma in quel momento la guida era già entrata nell'altra stanza e Mortimer era l'ultimo della fila. Il ragazzo passò davanti alla tastiera con la quale venivano immesse le istruzioni nel computer. Naturalmente non poteva sapere che in quel momento si stavano fornendo all'elaboratore i dati per la costruzione di un nuovo robot. Mortimer era un bravo ragazzo, e se l'avesse saputo avrebbe tenuto le mani a posto. E non poteva nemmeno sospettare che, per una negligenza quasi criminale, un tecnico non aveva disattivato la tastiera.

Così il ragazzo toccò i tasti a caso come se stesse suonando un pianoforte.

Non si accorse che un nastro perforato usciva silenziosamente in un altro angolo della sala.

E il tecnico, quando tornò, non si accorse che qualcuno aveva messo le mani sulla tastiera. Provò un certo disagio quando vide che la tastiera era in funzione, ma non pensò di effettuare un controllo. Dopo qualche minuto il suo disagio svanì completamente e lui riprese a immettere dati nel computer.

Quanto a Mortimer, non seppe mai quello che aveva combinato.

Il nuovo modello LNE era destinato a lavorare nelle miniere di boro della fascia degli asteroidi. L'importanza degli idruri di boro continuava a crescere in quanto servivano all'innesco delle micropile protoniche che rappresentavano la fonte di energia delle astronavi. E le riserve di boro della Terra, già esigue, si stavano esaurendo.

Da un punto di vista fisico i robot LNE erano quindi dotati di occhi sensibili alle righe spettrali predominanti nell'analisi spettroscopica dei giacimenti di boro, e di membra particolarmente adatte alla trasformazione del minerale in prodotto finito. Come sempre, però, il problema maggiore era rappresentato dal cervello.

Il primo cervello positronico LNE era stato appena completato. Si trattava di un prototipo che si sarebbe aggiunto agli altri costruiti dalla U.S Robots. Una volta effettuato il collaudo definitivo, sarebbero stati costruiti altri modelli della serie che sarebbero stati noleggiati, non venduti, alle società minerarie.

Il prototipo LNE era dunque completo. Alto, diritto, lucido, sembrava quasi identico ai tanti robot non specializzati.

Il tecnico di turno, seguendo le istruzioni per il collaudo fornite dal Manuale di robotica, disse: ― Come stai?

La risposta corretta sarebbe dovuta essere, più o meno: "Sto bene e sono pronto a cominciare il lavoro. Spero che stia bene anche lei".

Quel primo scambio serviva soltanto a verificare se il robot sentiva, capiva una normalissima domanda, sapeva dare una risposta altrettanto normale e in sintonia con la sua natura di robot. Poi si passava ad argomenti più complessi che servivano a controllare l'azione delle Tre Leggi e la loro interazione con le conoscenze specifiche di ciascun modello.

Il tecnico, dopo aver posto la prima domanda, sobbalzò sentendo la voce del prototipo LNE. Era diversa da quella di tutti gli altri robot con i quali aveva avuto a che fare, ed erano tanti. Le sillabe sembravano le note più basse di un registro celeste.

E fu così grande il suo stupore che gli ci volle qualche secondo prima di rendersi conto di ciò che aveva sentito, della serie di sillabe formate da quella voce angelica. Il prototipo aveva detto:― Da, da, da, goo. Il robot stava ancora lì in piedi, ma lentamente aveva sollevato una mano per mettersi un dito in bocca.

Il tecnico lo fissò inorridito, poi scappò via. Chiuse la porta a chiave e, da un'altra stanza, effettuò una chiamata di emergenza a Susan Calvin.

 

La dottoressa Susan Calvin era l'unica robopsicologa della U.S. Robots (e praticamente del mondo). Le bastò esaminare brevemente il prototipo LNE prima di chiedere in tono perentorio una copia del progetto del cervello positronico elaborato dal computer e il nastro perforato con cui erano stati immessi i dati. Dopo aver studiato i tabulati, mandò a chiamare Bogert.

I suoi capelli grigi come l'acciaio erano tirati indietro in un'acconciatura austera; il viso freddo era solcato da profonde rughe verticali delimitate dalla linea sottile delle labbra esangui

 ― Che cosa sono questi, Peter? ― chiese al matematico.

Bogert studiò con crescente meraviglia i passaggi che lei gli stava indicando con un dito. ― Santo Dio, Susan, non hanno alcun senso.

― Questo l'avevo capito da sola. Come sono potuti finire nelle istruzioni?

 


Il tecnico di turno giurò che lui non c'entrava niente e che non aveva idea di che cosa poteva essere successo. Si cercarono eventuali difetti di funzionamento del computer, ma tutto risultò in ordine.

― Il cervello positronico ― disse Susan Calvin, assorta ― ormai è andato. Sono talmente numerose le funzioni primarie cancellate da quelle istruzioni senza senso che il robot è in pratica l'equivalente di un bambino.

Bogert palesò stupore, e Susan Calvin assunse un'espressione glaciale, come faceva sempre quando qualcuno osava mettere in dubbio le sue parole. ― Noi ci sforziamo di rendere la mente dei robot il più possibile somigliante a quella umana. Se si eliminano quelle che chiamiamo funzioni adulte non resta altro che un neonato. Perché si stupisce tanto, Peter? Il prototipo LNE, che mostrava di non capire affatto quello che gli succedeva intorno, di colpo si mise a sedere e cominciò un esame minuzioso dei suoi piedi.

Bogert lo fissò. ― È un peccato dover smantellare questa creatura ― disse. ― È un bel modello.

― Smantellarlo? ― esclamò con foga la robopsicologa.

― Certo, Susan. Che ce ne facciamo? Buon Dio, se c'è un oggetto completamente e irrimediabilmente inutile è proprio un robot che non può fare alcun lavoro. Non vorrà mica venirmi a dire che questo coso può fare qualche lavoro, vero?

― No, naturalmente.

― E allora?

― Voglio sottoporlo ad altri esami ― disse Susan Calvin, ostinata.

Bogert le rivolse uno sguardo spazientito, poi scrollò le spalle. Se c'era una persona alla U.S. Robots con cui era inutile discutere, quella era sicuramente Susan Calvin. Lei amava soltanto i robot, e Bogert aveva l'impressione che, a forza di stare a contatto con gli automi, la Calvin avesse perso ogni parvenza di umanità. Tentare di dissuaderla era come cercare di dissuadere una micropila a disattivarsi da sola.

― Ma a che serve? ― disse quasi a se stesso. Poi a voce alta aggiunse: ― Ci farà sapere quando avrà concluso i suoi esami?

― Sì ― disse lei. ― Vieni qui, Lenny.

 (LNE, pensò Bogert. Il numero di serie diventava inevitabilmente Lenny.)

Susan Calvin allungò un braccio, ma il robot si limitò a fissarlo. La robopsicologa lo prese delicatamente per mano. Lenny si alzò con agilità (la coordinazione meccanica, se non altro, era perfetta). Uscirono insieme dalla stanza, con il robot che svettava sulla donna di circa mezzo metro. Molti sguardi seguirono con curiosità la scena lungo i corridoi.

 

Una parete del laboratorio di Susan Calvin, quella che si apriva direttamente sul suo studio privato, era coperta dalla gigantografia di un cervello positronico. Susan Calvin la stava studiando attentamente da quasi un mese.

E anche adesso la stava studiando, ricalcando la traiettoria contorta degli schemi. Dietro di lei, sul pavimento, era seduto Lenny. Il robot apriva e chiudeva continuamente le gambe e bisbigliava fra sé sillabe senza senso con una voce così bella che riusciva ad incantare malgrado l'assurdità di quello che esprimeva.

Susan Calvin si rivolse al robot. ― Lenny... Lenny...

Continuò a chiamarlo finché Lenny alzò lo sguardo ed emise un'esclamazione interrogativa. La robopsicologa provò un fugace senso di contentezza. Stava riuscendo a ottenere l'attenzione del robot a intervalli sempre più ridotti.

― Alza la mano, Lenny ― gli disse. ― Mano... su. Mano... su. ― E alzò lei stessa la propria mano, ripetutamente.

Lenny seguì il movimento con gli occhi. Su e giù, su e giù. Poi tentò di imitare il gesto riuscendovi solo in minima parte e trillò: ― Eh...uh.

― Molto bene, Lenny ― disse la Calvin, seria. ― Prova ancora. Mano... su.

Molto delicatamente, lei allungò la propria mano, prese quella del robot e la sollevò, per poi riabbassarla e risollevarla di nuovo. ― Mano... su. Mano... su.

Fu interrotta da una voce proveniente dallo studio. ― Susan?

La robopsicologa rispose a denti stretti. ― Cosa c'è, Alfred?

Il direttore delle ricerche entrò nel laboratorio, guardò la gigantografia appesa alla parete e poi il robot. ― Ci sta ancora provando?

― Sto lavorando, sì.

― Senta, Susan... ― Lanning tirò fuori un sigaro, lo fissò con espressione severa e fece per trinciarne un'estremità con i denti. Ma incontrò lo sguardo di disapprovazione della donna e rimise via il sigaro. ― Senta, Susan, il modello LNE è entrato in produzione.

― Così ho saputo. Vuole dirmi qualcosa in proposito?

― No. Ma il fatto stesso che sia in produzione e che funzioni bene significa che è inutile lavorare su questo esemplare difettoso. Non dovrebbe essere smantellato?

― In altri termini, Alfred, le dà fastidio che io perda il mio tempo prezioso. Si tranquillizzi, non è tempo sprecato. Io con questo robot sto lavorando.

― Ma è un lavoro che non ha senso.

― Questo lo lasci decidere a me, Alfred. ― Il suo tono era freddo e pacato, così Lanning ritenne più saggio cambiare tattica.

― Le dispiacerebbe spiegarmi che senso ha tutto questo? Per esempio, che cosa sta facendo adesso?

― Sto cercando di fargli alzare una mano con un comando verbale. Sto cercando di fargli imitare il suono delle parole.

Come se avesse ricevuto un'imbeccata, Lenny disse: ― Eh-uh. ― E alzò una mano, esitante.

Lanning scosse la testa. ― Ha una voce sorprendente. Come mai?

― Non lo so. Sono sicura che potrebbe parlare normalmente, però non lo fa. C'è qualcosa che non va negli schemi positronici, però non sono ancora riuscita a individuarla.

― Be', allora cerchi di farlo, per l'amor del cielo. Una voce di questo tipo potrebbe esserci utile.

― Oh, dunque i miei studi su Lenny servono a qualcosa?

Lanning scrollò le spalle, imbarazzato. ― Oh, si tratta di una cosa di poco conto.

― Mi dispiace che non veda quelle più importanti ― disse la Calvin, aspra. ― Ma non è colpa mia. Adesso le dispiace lasciarmi sola con Lenny? Devo continuare il mio lavoro.

 

Lanning si accese finalmente il sigaro nell'ufficio di Bogert. ― Quella donna diventa ogni giorno più stramba ― disse, acido.

Bogert capì perfettamente. Alla U.S. Robots and Mechanical Men Corporation, "quella donna" poteva essere solo Susan Calvin. ― Sta ancora perdendo tempo con quello pseudo-robot, il suo Lenny?

― Vuole insegnargli a parlare, Cristo.

Bogert si strinse nelle spalle. ― È un fatto indicativo del problema che abbiamo attualmente. Parlo della mancanza di ricercatori qualificati. Se avessimo altri robopsicologi potremmo mandare in pensione Susan. A proposito, presumo che la riunione di domani dei direttori riguarderà principalmente l'argomento assunzioni, vero?

Lanning annuì e guardò il sigaro come se avesse un cattivo sapore.

― Sì. Comunque ci interessa più la qualità della quantità. Abbiamo aumentato i salari e le domande di assunzione sono aumentate, ma si tratta di gente attratta soprattutto dai soldi. Il difficile è trovare persone attratte soprattutto dalla robotica, come Susan Calvin.

― No, non come lei, cavoli.

― Be', non come lei di carattere. Ma deve ammettere, Peter, che Susan pensa soltanto ai robot. Non ha altri interessi nella vita.

― Lo so, ed è proprio questo a renderla insopportabile.

Lanning annuì. Aveva perso il conto delle volte in cui avrebbe venduto l'anima al diavolo per licenziare Susan Calvin. Aveva perso il conto dei milioni di dollari che lei, in varie occasioni, aveva fatto risparmiare all'azienda. Era una donna indispensabile e lo sarebbe rimasta fino alla morte, o finché non avessero trovato uomini o donne del suo calibro, sinceramente interessati alla ricerca.

― Credo che limiteremo le visite guidate alla fabbrica ― disse Lanning.

Peter scrollò le spalle.― Se lo dice lei. Ma nel frattempo, come dobbiamo comportarci con Susan Calvin? Potrebbe continuare a dedicarsi a Lenny ancora molto a lungo. Sa come diventa quando si butta a capofitto in un problema che ritiene interessante.

― Che cosa possiamo fare? ― disse Lanning. ― Se ci mostrassimo troppo ansiosi di allontanarla da Lenny, lei s'intestardirebbe ancor più per spirito di contraddizione femminile. In ultima analisi, non possiamo costringerla a fare niente.

Il matematico con i capelli neri sorrise. ― Non userei mai l'aggettivo "femminile" riferendomi a lei.

― Be', se non altro non fa del male a nessuno ― disse Lanning un po' brusco.

Ma in quello Lanning si sbagliava.

 

La sirena d'allarme crea sempre tensione in qualsiasi stabilimento industriale. E nella storia della U.S. Robots l'allarme era scattato una decina di volte per motivi diversi: incendi, allagamenti, tumulti e sommosse.

Ma una cosa non era mai successa. Quel particolare allarme, che indicava che un robot era "fuori controllo", non era mai scattato. E nessuno si aspettava che potesse squillare. Era stato installato solo per via delle insistenti pressioni del governo (“Quel maledetto complesso di Frankenstein”, borbottava Lanning nelle poche occasioni in cui ci pensava).

Adesso la sirena assordante lanciava il suo grido a intervalli di dieci secondi, e per qualche istante nessuno, dal presidente del consiglio direttivo all'ultimo dei custodi, capì il significato di quel segnale acustico. Dopo gli attimi iniziali di smarrimento, un massiccio drappello di guardie armate e di medici confluì nell'area di pericolo e l'attività della fabbrica si paralizzò di colpo.

Charles Randow, tecnico dei computer, fu accompagnato in infermeria per via di un braccio rotto. Non vi furono altri danni. Altri danni alle persone.

― Ma il danno morale è incalcolabile ― ruggì Alfred Lanning.

Susan Calvin lo affrontò con calma assassina. ― Non farà niente a Lenny. Niente, ha capito?

― E lei a non capire, Susan ― ribatté Lanning. ― Quell'aggeggio ha colpito un essere umano. Ha infranto la Prima Legge. La conosce la Prima Legge, no?

― Non farà niente a Lenny.

― Cristo santo, Susan, devo forse rinfrescarle la memoria? Un robot non può recar danno agli esseri umani, né permettere che, a causa del suo mancato intervento, gli esseri umani ricevano danno. La nostra azienda si regge sul fatto che i robot obbediscono strettamente alla Prima Legge. Se l'opinione pubblica venisse a sapere, e lo verrà a sapere, che c'è stata un'eccezione, anche una sola eccezione alla regola, potremmo essere costretti a chiudere i battenti. La nostra unica via di scampo è di annunciare immediatamente che il robot in questione è stato distrutto, spiegare come sono andate le cose e sperare che la gente si convinca che una cosa del genere non succederà mai più.

― Voglio scoprire che cos'è successo ― disse Susan Calvin. ― Non ero presente quando si è verificato l'incidente, e vorrei sapere che cosa ci faceva quel Randow nel mio laboratorio senza il mio permesso.

― Quello che è successo è chiaro ― disse Lanning. ― Il suo robot ha colpito Randow e quell'idiota ha fatto scattare l'allarme, scatenando il finimondo. Resta il fatto che il suo robot gli ha spezzato un braccio. La verità è che il suo Lenny è tarato e non obbedisce alla Prima Legge. Quindi bisogna distruggerlo.

― Ma io ho studiato i suoi schemi e so per certo che obbedisce alla Prima Legge.

― E allora com'è che ha colpito un uomo?― La disperazione lo spinse al sarcasmo. ― Lo chieda a Lenny. Sono certo che ormai gli ha insegnato a parlare.

Susan Calvin arrossì. ― Preferisco parlare con Randow. E in mia assenza, Alfred, vorrei che i miei uffici venissero chiusi a chiave, con Lenny dentro. Voglio che nessuno gli si avvicini. Se gli succede qualcosa mentre non ci sono, non mi vedrete mai più qui in fabbrica.

― Se avesse infranto la Prima Legge, lei acconsentirebbe a che venga distrutto?

― Sì, perché so che non l'ha infranta ― disse Susan Calvin.

 

Charles Randow giaceva nel letto con il braccio ingessato. Ma soffriva soprattutto per lo choc che aveva provato quando aveva visto il robot avanzare verso di lui con intenzioni apparentemente omicide. Nessun essere umano prima di lui aveva avuto motivo di temere per la propria incolumità fisica davanti a un robot. La sua era stata un'esperienza unica.

Susan Calvin e Alfred Lanning erano accanto al suo letto, insieme a Peter Bogert, che li aveva incontrati lungo la strada. I dottori e gli infermieri erano stati mandati via.

― Allora, cos'è successo? ― chiese Susan Calvin.

Randow era intimidito. ― Quel coso mi ha colpito sul braccio ― mormorò. ― Aveva brutte intenzioni.

― Facciamo un passo indietro ― gli disse la Calvin. ― Innanzitutto che cosa ci faceva nel mio laboratorio senza autorizzazione?

Il giovane tecnico dei computer deglutì a secco e il pomo d'Adamo sobbalzò visibilmente nel suo collo sottile. Aveva gli zigomi alti e un colorito pallidissimo. ― Sapevamo tutti del suo robot. Si era sparsa la voce che lei stava insegnandogli a parlare come uno strumento musicale. Così qualcuno ha fatto delle scommesse. C'è chi diceva che lei... poteva insegnare a parlare anche a una colonna.

― Immagino che debba considerarlo un complimento ― disse la Calvin in tono glaciale. ― Ma lei che cosa c'entrava in tutto questo?

― Io dovevo andare nel suo ufficio per verificare se il robot sapeva parlare o no. Abbiamo rubato la chiave del suo ufficio, poi io ho aspettato che lei uscisse e sono entrato. Avevamo estratto a sorte per decidere chi doveva andare. È toccato a me.

― Allora?

― Ho cercato di farlo parlare e lui mi ha colpito.

― Ha cercato di farlo parlare? In che modo?

― Gli... gli ho fatto delle domande, ma lui non rispondeva, così gli ho dato una strigliatina... l'ho sgridato e...

― E...?

Ci fu una lunga pausa. Sotto lo sguardo imperturbabile della Calvin, Randow disse alla fine: ― L'ho spaventato per costringerlo a parlare. ― Poi aggiunse subito per giustificarsi: ― Ho dovuto dargli una strigliatina, capisce?

― In che modo ha cercato di spaventarlo?

― Ho minacciato di dargli un pugno.

― E lui le ha bloccato il braccio?

― Mi ha colpito il braccio.

― Molto bene. È tutto. ― Rivolta a Lanning e Bogert aggiunse: ― Venite, signori.

Sulla soglia la Calvin si girò verso Randow. ― Se le interessa ancora, posso risolvere il problema delle scommesse. Lenny sa dire benissimo alcune parole.

 

Non aprirono bocca finché non arrivarono nell'ufficio di Susan Calvin. Le pareti erano coperte di libri, alcuni dei quali aveva scritto lei stessa. La stanza rifletteva il carattere freddo e meticoloso della donna. C'era una sola sedia, e fu lei a prendervi posto. Lanning e Bogert restarono in piedi.

― Lenny si è soltanto difeso ― disse la Calvin. ― Ha obbedito alla Terza Legge: un robot deve salvaguardare la propria esistenza.

― Purché ciò non contrasti con la Prima e la Seconda Legge ― precisò con foga Lanning. ― Deve dirla per intero. Lenny non aveva il diritto di difendersi facendo del male, anche se un male non grave, a un essere umano.

― Ma non voleva far del male a nessuno ― ribatté la Calvin. ― Lenny ha un cervello tarato, quindi non poteva rendersi conto della propria forza né della debolezza di Randow. Lui ha bloccato il braccio che lo minacciava senza capire che l'osso si sarebbe spezzato. In termini umani, non si può incolpare un individuo che non riconosce la differenza tra il bene e il male.

Bogert interloquì in tono conciliante. ― Senta, Susan, noi non vogliamo incolpare nessuno. Noi sappiamo che Lenny è come un bambino e che quindi non può essere incolpato. Ma l'opinione pubblica non andrà tanto per il sottile. La U.S. Robots dovrà chiudere i battenti.

― Al contrario. Se avesse anche un minimo di sale in zucca, Peter, capirebbe che questa è l'occasione che l'azienda aspettava da tempo. L'occasione che l'aiuterà a risolvere tutti i suoi problemi.

Lanning aggrottò le sopracciglia bianche. ― Quali problemi, Susan? ― le chiese, pacato.

― La compagnia non ha forse interesse a mantenere costante l'alta efficienza, si fa per dire, del personale addetto alla ricerca?

― Certo.

― Ma quali prospettive offrite agli aspiranti ricercatori? Un ambiente di lavoro stimolante? La novità? Il brivido di esplorare l'ignoto? No! Offrite loro un ottimo stipendio e la garanzia che non avranno problemi.

― Che non avranno problemi? Che significa? ― chiese Bogert.

― Ci sono forse problemi? ― rilanciò la Calvin. ― Che tipo di robot costruiamo? Robot destinati ad assolvere perfettamente una determinata funzione. Un'industria ci dice di cosa ha bisogno, un computer progetta un cervello, i macchinari fabbricano la struttura, ed ecco il robot bello e pronto. Peter, qualche tempo fa mi chiese a che poteva servire Lenny. Che utilità può avere, mi chiese, un robot che non può svolgere alcun incarico? Adesso io le chiedo: che utilità può avere un robot destinato ad assolvere a un solo compito? Il suo lavoro finisce nel momento stesso in cui inizia. I modelli LNE estraggono il boro. Se servisse il berillio, diventerebbero inutili. Un essere umano con queste caratteristiche sarebbe subumano. Un robot con queste caratteristiche è sub-robotico.

― Vorrebbe un robot versatile? ― le chiese Lanning, incredulo.

― Perché no? Perché no? Mi avete dato un robot con un cervello da deficiente. Ho iniziato a insegnargli alcune cose, e lei, Alfred, mi ha chiesto che senso avevano i miei sforzi. Forse non ne avevano, per quanto riguarda Lenny, dato che non svilupperà mai facoltà superiori a quelle di un bambino di cinque anni. Ma in generale? Be', in generale l'utilità del mio lavoro è grande, se lo considera uno studio teorico sul problema dell'insegnamento ai robot. Ho imparato a mettere in corto circuito schemi confinanti per crearne di nuovi. Continuando in questa direzione, potremo elaborare tecniche migliori al riguardo, più sofisticate ed efficaci.

― E allora?

― Supponiamo di avere un cervello positronico con tutti gli schemi principali in ordine ma privo di quelli secondari. Supponiamo di riuscire a creare quelli secondari. A questo punto potremmo vendere dei robot progettati per ricevere istruzioni. In altre parole, robot che potrebbero fare più di un lavoro, robot versatili come gli esseri umani. Potrebbero imparare.

I due uomini la fissarono.

― Ancora non capite, vero? ― chiese loro, spazientita.

― Ho capito benissimo ― disse Lanning.

― Non capisce che con un settore di ricerca assolutamente nuovo, con tecniche completamente nuove da mettere a punto, con un campo assolutamente vergine da esplorare i giovani avrebbero nuovi stimoli per dedicarsi alla robotica? Provi e vedrà che ho ragione.

― Posso farle notare ― disse Bogert, conciliante ― che si tratta di un esperimento pericoloso? Lavorare con robot ignoranti come Lenny significa perdere la garanzia di essere protetti dalla Prima Legge.

― Esatto. Pubblicizzate la cosa.

― Pubblicizzare la cosa?

― Certo. Dite pure che esiste questo pericolo. Spiegate che aprirete un nuovo istituto di ricerca sulla Luna, se la popolazione terrestre impedirà che questo esperimento avvenga sulla Terra, ma sottolineate il pericolo quando parlerete con gli aspiranti ricercatori.

― Dio santo, ma perché? ― chiese Lanning.

― Perché la gente è solleticata dall'idea del rischio. Crede che la tecnologia nucleare e la spazionautica non presentino pericoli? La vostra mania di garantire la sicurezza assoluta vi ha forse portato gente in gamba? Ha sfatato quel complesso di Frankenstein che tanto vi assilla? No, quindi cercate un'altra soluzione, qualcosa che ha già funzionato in altri campi.

Da dietro la porta che si apriva sul laboratorio della Calvin arrivò un rumore. Era il suono dei gorgoglii melodiosi di Lenny.

La robopsicologa si mise immediatamente in ascolto. ― Scusatemi, Lenny mi sta chiamando.

― Sa chiamarla? ― disse Lanning.

― Ho già detto che sono riuscita a insegnargli alcune parole. ― Susan Calvin mosse verso la porta, in leggero imbarazzo. ― Se volete aspettarmi...

I due uomini la osservarono uscire e rimasero un attimo in silenzio. Poi Lanning disse: ― Crede che abbia ragione, Peter?

― Forse, Alfred, forse. Ritengo sia il caso di discutere la faccenda alla riunione dei direttori. Dopotutto la frittata è fatta, ormai. Un robot ha recato danno a un essere umano e la cosa è di pubblico dominio. Come dice Susan, vale la pena tentare di sfruttare la situazione a nostro vantaggio. Naturalmente non sono assolutamente d'accordo.

― Come fa a dirlo?

― Anche se tutto ciò che ha detto è assolutamente vero, Susan si è     limitata a razionalizzare il problema. Lei vuole continuare a studiare quel robot, è questo il vero motivo che la spinge a parlare così. Se anche la costringessimo ad ammettere la verità, lei sosterrebbe che il robot le serve per elaborare le tecniche dell'insegnamento. Io però credo che Lenny soddisfi qualche sua altra esigenza. Un'esigenza molto peculiare che solo Susan, tra tutte le donne, può vedersi soddisfare in questo modo.

― Non la seguo.

― Ha sentito cosa diceva Lenny quando la chiamava? ― disse Bogert.

― Be', no, non ho sentito bene...

La porta si aprì di colpo ed i due uomini tacquero di colpo.

Susan Calvin rientrò nell'ufficio e si guardò intorno con aria incerta. ― Avete visto per caso... eppure l'ho messo qui da qualche parte ne sono sicura. Ah, eccolo.

Si avvicinò alla libreria e da un angolo prese un complicato oggetto di metallo. Era una sfera cava, coperta di fori e contenente una serie di frammenti di metallo di varie forme, tutti troppo grandi per uscire dai buchi.

Quando lo prese, i frammenti metallici all'interno si mossero, sbattendo l'uno contro l'altro con un rumore piacevole. Lanning rimase sorpreso dal fatto che l'aggeggio era una sorta di versione robotica di un sonaglio per bambini.

Quando la Calvin riaprì la porta per tornare nel laboratorio, la voce di Lenny si udì di nuovo. Stavolta Lanning afferrò chiaramente le parole che la Calvin gli aveva insegnato.

Con la sua voce celestiale il robot disse: ― Mamma, vieni. Mamma, vieni.

E i due uomini udirono i passi frettolosi di Susan Calvin che correva dall'unico bambino che avrebbe mai potuto avere o amare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


               IL CORRETTORE DI BOZZE

La U.S. Robots and Mechanical Men Corporation era stata citata in giudizio e aveva sfruttato tutto il suo potere per ottenere un processo a porte chiuse, senza giuria.

E la Northeastern University non aveva sollevato molte obiezioni. I membri del consiglio d'amministrazione sapevano perfettamente come avrebbe reagito il pubblico in una controversia riguardante la cattiva condotta di un robot, per quanto rari fossero quei casi. E si rendevano perfettamente conto che una manifestazione di protesta contro i robot poteva trasformarsi di punto in bianco in una manifestazione di protesta contro la scienza.

Il governo, rappresentato nella causa dal giudice Harlow Shane, aveva tutto l'interesse di porre fine a quel pasticcio in sordina. Sia la U.S. Robots sia il mondo accademico erano poco augurabili come nemici.

Il giudice Shane disse: ― Signori, dal momento che né la stampa, né il pubblico e né la giuria sono presenti, cerchiamo di soffermarci il meno possibile sulle formalità e di venire subito al punto.

Abbozzò un sorriso tirato, forse perché non sperava che il suo invito venisse accolto, e si sistemò la toga per sedersi più comodamente. Il giudice aveva un viso rubicondo, il mento arrotondato e carnoso, il naso largo, gli occhi chiari e distanziati. Tutto sommato non era una faccia che esprimesse l'autorevolezza che ci si poteva aspettare da un giudice, e lui lo sapeva.

La prima persona a essere chiamata a deporre fu Barnabas H. Goodfellow, docente di fisica alla Northeastern University. Il professore prestò giuramento con un'espressione che mal si addiceva alla bontà suggerita dal suo cognome.

Dopo le prime domande di rito, il pubblico ministero si cacciò le mani in tasca e disse: ― Quando le venne proposto per la prima volta di utilizzare il robot EZ-27, professore? E in quali circostanze?

Il viso piccolo e spigoloso del professor Goodfellow assunse un'espressione inquieta, non più benevola di quella che aveva sostituito. ― Avevo avuto rapporti professionali con il dottor Alfred Lanning, direttore delle ricerche della U.S. Robots. L'avevo anche incontrato in alcune occasioni mondane. Quindi lo ascoltai con una certa indulgenza quando, il 3 marzo dell'anno scorso, mi avanzò una proposta alquanto strana.

― Il 3 marzo 2033?

― Esatto.

― Perdoni l'interruzione, professore. Continui pure.

Il professore annuì, glaciale, corrugò la fronte nello sforzo di riordinare i ricordi nella mente e cominciò a raccontare.

 

Il professor Goodfellow guardò il robot con un certo disagio. Era stato portato nel magazzino sotterraneo dentro una cassa, secondo i regolamenti governativi riguardanti la spedizione dei robot da un posto all'altro della Terra.

Il professore aspettava quella consegna, quindi non era la sorpresa il motivo del suo imbarazzo. Dal giorno in cui il dottor Lanning gli aveva telefonato la prima volta, il 3 marzo, le sue riserve erano state progressivamente scardinate dall'eloquenza di Lanning, e adesso si trovava faccia a faccia con il robot.

L'automa, visto così da vicino, appariva straordinariamente grande. Anche Alfred Lanning lo osservò attentamente, come per assicurarsi che non fosse rimasto danneggiato durante il trasporto.

Poi si rivolse al professore. ― Questo è il robot EZ-27, il primo modello di questo tipo disponibile al pubblico. ― Al robot disse: ― Ti presento il professor Goodfellow, Easy.

Easy parlò con voce piatta, ma con una tale prontezza che il professore trasalì. ― Buongiorno, professore.

Easy era alto più di due metri e aveva una struttura umana, caratteristica essenziale dei modelli che la U.S. Robots metteva in vendita. La struttura umana e il cervello positronico brevettato dalla U.S. Robots avevano garantito all'azienda il monopolio sui robot e il quasi-monopolio sulle macchine calcolatrici in genere.

I due uomini che avevano aperto la cassa da imballaggio se n'erano già andati. Goodfellow guardò prima Lanning, poi il robot, e poi di nuovo Lanning. ― È inoffensivo, vero? ― Ma non sembrava affatto convinto.

― Più inoffensivo di me ― lo rassicurò Lanning. ― Io potrei perdere la pazienza e picchiarla, Easy invece non potrebbe assolutamente farlo. Presumo che lei conosca le Tre Leggi della Robotica.

― Sì, certo.

― Sono incorporate negli schemi positronici del cervello e il robot è costretto a osservarle. La Prima Legge, che rappresenta la regola cardine dell'esistenza di un robot, salvaguarda la vita e l'incolumità fisica degli esseri umani. ― Fece una pausa, si fregò la guancia e aggiunse: ― È una cosa che vorremmo imprimere nella mente di tutti gli uomini, se fosse possibile.

― Certo, certo, ma il fatto è che le sue dimensioni mi hanno colpito.

― La capisco perfettamente. Ma a prescindere dalle apparenze, scoprirà ben presto quanto sia utile.

― Non ho ancora capito in che modo. Le nostre conversazioni non sono servite a chiarire questo punto. Comunque ho accettato di dare un'occhiata al robot ed è proprio quello che sto facendo.

― Daremo più di un'occhiata, professore. Ha portato un libro?

― Sì.

― Posso vederlo?

Il professore, senza mai staccare lo sguardo da quella sorta di uomo metallico, si chinò per prendere un libro dalla borsa che aveva ai suoi piedi.

Lanning se lo fece dare e lesse il titolo sul dorso. ― Chimica degli elettroliti in soluzione. Benissimo, professore. Ha scelto lei il libro, non sono stato io a consigliarla, giusto?

― Sì.

Lanning diede il libro al robot EZ-27.

 


Il professore trasalì. ― No! È un libro molto prezioso.

Lanning inarcò le sopracciglia, due ruvidi spicchi di cocco. ― Easy non ha intenzione di spaccare il libro in due per dimostrarle la sua forza. Le assicuro che sa maneggiarlo con cura, come faremmo io e lei. Fa' pure, Easy.

― Grazie, signore ― disse il robot. Poi, spostando leggermente il busto massiccio in direzione del cattedratico, aggiunse: ― Con il suo permesso, professor Goodfellow.

Il professore lo fissò, poi disse: ― Sì... sì, certo.

Easy cominciò a sfogliare il libro con movimenti delicati delle dita metalliche. Guardava prima la pagina sinistra, poi la destra, ripetendo il gesto a mano a mano che andava avanti.

La sua mole era tale che persino l'ampia sala dalle pareti di cemento in cui si trovavano sembrava più piccola, per non parlare dei due uomini.

Goodfellow mormorò:― Forse c'è poca luce.

― È sufficiente.

― Ma cosa sta facendo? ― chiese il professore, in tono più aspro.

― Un po' di pazienza, signore.

Quando il robot arrivò all'ultima pagina, Lanning gli chiese: ― Allora, Easy?

― Un'edizione molto accurata e non ho molto da dire. Alla riga 22 di pagina 27 c'è un refuso, e la parola "positivo" è diventata "poistivo". Alla riga 6 di pagina 32 c'è una virgola superflua, mentre una virgola sarebbe stata opportuna alla riga 13 di pagina 54. Nell'equazione XIV-2 di pagina 337, il segno "più" avrebbe dovuto essere un "meno", date le premesse delle equazioni precedenti...

― Ehi, un momento ― esclamò il professore. ― Cosa sta facendo?

― Facendo? ― disse Lanning, irritato. ― Cos'ha fatto, caro amico. Ha corretto le bozze.

― Corretto le bozze?

― Sì. Nel poco tempo in cui ha sfogliato il libro, ha individuato tutti gli errori di stampa, di grammatica e di punteggiatura. Ha rilevato le imperfezioni nella costruzione delle frasi e ha notato le incongruenze. E le informazioni che ha raccolto rimarranno impresse nel suo cervello per sempre.

Goodfellow era rimasto a bocca aperta. Si allontanò in fretta da Lanning ed Easy, poi tornò sui suoi passi. Incrociò le braccia sul petto e fissò il robot e il matematico. Alla fine disse: ― Insomma questo sarebbe un robot correttore di bozze?

Lanning annuì. ― Tra le altre cose.

― Ma perché ha voluto mostrarmelo?

― Perché volevo il suo aiuto per convincere l'amministrazione dell'università a prenderlo in dotazione.

― Per la correzione delle bozze?

― Tra le altre cose ― ripeté Lanning, paziente.

Il professore contrasse il viso minuto in una smorfia di incredulità mista a fastidio. ― Ma è ridicolo.

― Perché?

― L'università non può permettersi di comprare questa mezza tonnellata, se non di più, di correttore di bozze.

― Sa fare anche altre cose. Può trasformare degli appunti in relazioni ordinate, riempire moduli, fungere da archivio e da schedario...

― Sciocchezze!

― Niente affatto, e posso dimostrarglielo subito. Ma credo che potremo discutere più comodamente nel suo ufficio, se non ha obiezioni.

― Va bene ― disse il professore meccanicamente, e fece per uscire dalla sala. Poi si voltò di scatto. ― Ma il robot... non possiamo portarcelo dietro. Davvero, dottore, dovremo rimetterlo nella cassa.

― Per quello c'è tempo. Intanto possiamo lasciarlo qui.

― Da solo?

― Perché no? Sa che non deve muoversi. Professor Goodfellow, deve capire che i robot sono più affidabili degli esseri umani.

― Ma se succedesse qualcosa, sarei io il responsabile.

― Non succederà niente, glielo garantisco. Ascolti, ormai non c'è più nessuno e questa stanza resterà vuota fino a domani mattina. Il camion e i miei due inservienti aspettano fuori. Sarà la U.S. Robots la responsabile di qualunque cosa accada. Ma non succederà niente, le ripeto. La consideri una prova dell'affidabilità di un robot.

Il professore si lasciò convincere a lasciare il robot in magazzino. Ma non sembrava affatto tranquillo quando fu nel suo ufficio al quinto piano.

Si tamponò con un fazzoletto bianco le gocce di sudore che gli imperlavano la fronte. ― Come ben sa, dottor Lanning, ci sono leggi che limitano l'uso dei robot sulla Terra.

― Sì, e sono leggi molto complicate, professor Goodfellow. I robot non possono essere utilizzati nei luoghi pubblici né all'interno di strutture private, a meno che non si rispettino regole così rigide da risultare proibitive. L'università, tuttavia, è un'istituzione privata molto importante che di solito viene trattata con un occhio di riguardo. Se il robot viene utilizzato solo in una determinata stanza e solo per scopi accademici, se si osservano altre prescrizioni, la legge non verrebbe violata.

― E tutto questo solo per far correggere le bozze a un robot?

― Gli usi potrebbero essere infiniti, professore. Fino a questo momento i robot sono stati impiegati soltanto per liberare gli uomini dai lavori fisici pesanti. Ma non esiste forse un lavoro intellettuale pesante? Un professore fornito di preziose doti creative è costretto a sprecare penosamente due settimane per correggere gli errori di un libro. Bene, io le offro una macchina in grado di fare lo stesso lavoro in mezz'ora. Le sembra una sciocchezza?

― Ma il prezzo...

― Non deve preoccuparsi del prezzo. L'EZ-27 non è in vendita. La U.S. Robots non vende i suoi prodotti. Ma l'università può affittarlo per mille dollari all'anno, meno di quanto costa l'accessorio per la registrazione continua di uno spettrografo a microonde.

Goodfellow sembrava sconcertato e Lanning affondò il colpo. ― Le sto solo chiedendo di parlarne con le persone che dovrebbero prendere la decisione. E sarò ben lieto di dare loro tutte le informazioni di cui avessero bisogno.

― Va bene ― disse Goodfellow, incerto. ― Ne parlerò alla riunione del senato accademico che si terrà la settimana prossima. Comunque non posso prometterle niente.

― Naturalmente ― disse Lanning.

 

L'avvocato difensore era basso e tarchiato, e la sua postura boriosa evidenziava il doppiomento. Appena il pubblico ministero ebbe terminato l'interrogatorio, l'avvocato fissò il professor Goodfellow e gli chiese: ― Lei acconsentì subito alla richiesta del dottor Lanning, giusto?

― Non vedevo l'ora di sbarazzarmene ― rispose seccamente il professore. ― Avrei acconsentito a qualsiasi richiesta.

― Aveva già deciso che non l'avrebbe accontentato, quando il dottor Lanning se ne andò?

― Be'...

― Tuttavia lei portò la faccenda all'attenzione del consiglio direttivo del senato accademico.

― Sì.

― Quindi seguì in buona fede i consigli del dottor Lanning. Non gli disse che l'avrebbe accontentato solo per toglierselo di torno. Anzi, accolse la sua proposta con un certo entusiasmo, non è così?

― Mi sono semplicemente attenuto alla procedura ordinaria.

― In realtà, la vista del robot non la turbò così tanto come adesso vuol farci credere. Lei conosce le Tre Leggi della Robotica e le conosceva anche all'epoca in cui parlò con il dottor Lanning.

― Be, sì.

― E non ebbe problemi a lasciare il robot nel magazzino, da solo e senza sorveglianza.

― Il dottor Lanning mi aveva assicurato che...

― Ma non gli avrebbe mai dato retta se fosse stato poco convinto che il robot potesse essere pericoloso.

― Avevo piena fiducia nel dott...

― È tutto ― lo interruppe bruscamente l'avvocato difensore.

Mentre il professor Goodfellow scendeva, alquanto seccato, dal banco dei testimoni, il giudice Shane si sporse in avanti e disse: ― Dal momento che non mi intendo di robotica, mi piacerebbe sapere con esattezza che cosa sono le Tre Leggi della Robotica. Il dottor Lanning potrebbe essere così gentile da enunciarle a beneficio della corte?

Il dottor Lanning fu colto di sorpresa. Stava confabulando con la donna dai capelli grigi che gli sedeva accanto. Lanning si alzò in piedi e la donna sollevò la testa, con aria inespressiva.

― Senz'altro, Vostro Onore ― disse Lanning. Fece una pausa come fosse un consumato oratore, poi iniziò a parlare con estrema chiarezza. ― Prima Legge: un robot non può recar danno agli esseri umani né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, gli esseri umani ricevano danno. Seconda Legge: un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani tranne nel caso che tali ordini siano in contrasto con la Prima Legge. Terza Legge: un robot deve salvaguardare la propria esistenza, purché ciò non sia in contrasto con la Prima o la Seconda Legge.

― Capisco ― disse il giudice, prendendo in fretta degli appunti. ― Queste leggi sono insite in ogni robot, vero?

― Sì. Qualsiasi robotologo può confermarlo.

― E sono insite anche nel cervello di EZ-27?

― Sì, Vostro Onore.

― Probabilmente dovrà ripetere queste affermazioni sotto giuramento.

― Sono pronto a farlo, Vostro Onore. ― Lanning si sedette.

La dottoressa Susan Calvin, robopsicologa capo della U.S. Robots, la donna dai capelli grigi seduta accanto a Lanning, guardò senza simpatia il suo superiore, ma del resto non mostrava mai simpatia per gli esseri umani. ― La testimonianza di Goodfellow è accurata, Alfred?

― In sostanza sì ― mormorò Lanning. ― Non era così impaurito dal robot come ha detto qui in aula. Quando gli ho parlato del prezzo, si è illuminato. Per il resto la sua versione è abbastanza fedele alla realtà.

― Forse sarebbe stato più saggio chiedere più di mille dollari ― disse la dottoressa con espressione assorta.

― Non vedevamo l'ora di piazzare Easy.

― Lo so. Cercheranno di insinuare che avevamo un doppio fine.

― È la verità ― disse Lanning, esasperato. ― L'ho ammesso durante la riunione del senato accademico.

― E allora cercheranno di insinuare che avevamo un altro fine oltre a quello che abbiamo ammesso.

Scott Robertson, figlio del fondatore della U.S. Robots e azionista di maggioranza della compagnia, si sporse dalla sedia accanto a quella della dottoressa Calvin e disse a denti stretti: ― Perché non fate parlare Easy, in modo che tutti sappiano come stanno le cose?

― Signor Robertson, sa bene che Easy non può parlare di questo argomento.

― Lo costringa a farlo. Lei è la robopsicologa, dottoressa Calvin. Lo costringa.

― Dato che sono la robopsicologa, signor Robertson ― replicò freddamente la Calvin ― lasci decidere a me. Non obbligherò il mio robot a fare niente che possa compromettere la sua salute mentale.

Robertson corrugò la fronte e sembrò sul punto di ribattere, ma il giudice Shane batté piano il martelletto per invitare i presenti al silenzio.

Intanto sul banco dei testimoni era salito Francis J. Hart, preside della facoltà di Inglese. Era un uomo grassoccio, che indossava un abito scuro di taglio classico, con un riporto di capelli che copriva solo in parte la calvizie. Era seduto con le mani intrecciate sul grembo, e di tanto in tanto sorrideva nervosamente.

― Sentii parlare per la prima volta del robot EZ-27 durante una riunione del consiglio direttivo del senato accademico ― esordì. ― Fu il professor Goodfellow a entrare in argomento. In seguito, il 10 aprile dell'anno scorso, tenemmo una riunione straordinaria per discutere la faccenda, e fui io a presiederla.

― Ci sono i verbali di questa seconda riunione del consiglio direttivo?

― Be', no. Si trattava di una riunione un po' particolare. ― Il preside abbozzò un sorriso. ― Ritenemmo opportuno mantenere un certo riserbo.

― E a quali risultati portò la riunione?

 

Il preside Hart avrebbe evitato volentieri di presiedere quella riunione. E anche gli altri presenti non sembravano del tutto tranquilli. Solo il dottor Lanning appariva in pace con se stesso. La sua figura alta e macilenta e la sua folta chioma bianca ricordavano a Hart l'immagine di Andrew Jackson.

Al centro del tavolo erano sparsi alcuni campioni del lavoro del robot. Il professor Minnot, della facoltà di Chimica-Fisica, teneva in mano la riproduzione di un grafico tracciato da Easy, e la piega delle sue labbra indicava chiaramente la sua approvazione.

Hart si schiarì la voce e disse: ― Sembra non ci siano dubbi sul fatto che il robot sa svolgere compiti di routine con sufficiente competenza. Io stesso, poco prima di venire qui, ho controllato questi lavori e non ho trovato praticamente errori.

Raccolse un lungo foglio stampato, tre volte più lungo della pagina di un libro di medie dimensioni. Era una bozza in colonna che gli autori dovevano correggere prima della fotocomposizione. Sugli ampi margini del foglio c'era una serie di correzioni ordinate e perfettamente leggibili. Qua e là il robot aveva cancellato con un trattino qualche parola sostituendola con un'altra annotata sul margine in modo così chiaro e regolare da sembrare stampata. Alcune correzioni erano state fatte con una penna blu per indicare che l'errore era da attribuire all'autore, mentre quelle in rosso indicavano gli errori del tipografo.

― In realtà non ci sono affatto errori ― disse Lanning. ― Sono certo che le correzioni sono perfette, almeno nei limiti imposti dal manoscritto originale. Se un manoscritto presentasse delle incongruenze concettuali, il robot non sarebbe in grado di apportare variazioni.

― Certo. Tuttavia il robot ha modificato l'ordine delle parole di alcune frasi, e le regole dell'inglese non sono così rigide da permetterci di dire con certezza che la sua scelta è sempre stata la più corretta.

― Il cervello positronico di Easy ― disse Lanning sfoderando un gran sorriso ― è stato modellato dal contenuto di tutti i classici sull'argomento. Sono certo che non c'è nemmeno una correzione che possa considerarsi del tutto inopportuna.

Il professor Minnot alzò lo sguardo dal grafico che teneva ancora in mano. ― Quel che mi chiedo, dottor Lanning, è se valga la pena di impiegare un robot quando questo comporterebbe dei problemi in termini di relazioni pubbliche. La scienza dell'automazione ha ormai raggiunto un livello tale che la sua azienda potrebbe progettare un normalissimo computer in grado di correggere le bozze, una macchina di quelle cui la gente ha ormai fatto l'abitudine.

― Certo ― disse Lanning, aspro ― ma una macchina del genere ci costringerebbe a tradurre le bozze in linguaggio simbolico o a trascriverle su nastro. In questo caso le correzioni assumerebbero la forma di simboli, e bisognerebbe assumere gente che sappia tradurre le parole in simboli e i simboli in parole. Inoltre il computer non potrebbe svolgere altri compiti. Non potrebbe preparare un grafico come quello che lei ha in mano, per esempio.

Minnot borbottò qualcosa.

― La peculiarità del robot positronico ― proseguì Lanning ― è la sua flessibilità, che gli permette di assolvere a diversi compiti. Ha una struttura molto simile a quella umana e quindi può usare gli attrezzi e le macchine che di solito sono gli uomini a impiegare. È in grado di parlare e gli si può parlare. Anzi, si può addirittura ragionare con lui, entro certi limiti. In confronto al più semplice dei robot un normale computer è solo un'ingombrante macchina calcolatrice.

Goodfellow alzò lo sguardo e disse: ― Ma se possiamo parlare e ragionare con il robot, non rischiamo di confondergli le idee? Suppongo che non possa assimilare un numero infinito di dati.

― No, su questo ha ragione. Però funziona in media cinque anni se non viene sfruttato in modo esagerato. Sa da solo quando ha bisogno di essere revisionato, e la revisione viene effettuata gratuitamente dalla nostra azienda.

― Davvero?

― Certo. La compagnia si riserva il diritto di provvedere alla manutenzione del robot in tutti i casi che esulano dalla routine. Questa è una delle ragioni per cui non vendiamo i robot positronici ma li diamo in affitto. Quando svolge un lavoro di ordinaria amministrazione, il robot può essere controllato da chiunque. Ma quando deve assolvere a funzioni più complesse e delicate, occorre un controllo esperto, e noi siamo in grado di darlo. Per esempio, ognuno di voi potrebbe eliminare parte del bagaglio di nozioni di un robot EZ dicendogli di dimenticare questo o quell'argomento. Però l'ordine risulterebbe sicuramente inappropriato, e il robot dimenticherebbe o troppo o troppo poco. Noi possiamo individuare l'errore perché nel robot sono incorporati dei meccanismi di sicurezza. Comunque, dato che non occorre dire al robot di dimenticare questo o quello, così come non occorre fare altre cose inutili, il problema non sussiste.

Il preside Hart si toccò la testa quasi a volersi assicurare che il riporto fosse al suo posto e disse: ― Lei è ansioso di convincerci a prendere la sua macchina. Eppure non mi sembra un grosso affare per la U.S. Robots. Mille dollari all'anno sono un prezzo ridicolo. Non è che questo affare le serve come viatico per noleggiare altri robot ad altre università, e a un prezzo più conveniente per la compagnia?

― Non posso negarlo ― disse Lanning.

― Però potreste offrire un numero limitato di macchine, quindi l'affare non sarebbe mai molto redditizio.

Lanning puntò i gomiti sul tavolo e si sporse in avanti con espressione assorta. ― Lasciate che vi dica come stanno esattamente le cose, signori. I robot, salvo rarissime eccezioni, non possono essere impiegati sulla Terra a causa dei pregiudizi dell'opinione pubblica in materia di robotica. La U.S. Robots è un'azienda leader grazie al mercato extraterrestre e a quello dei voli spaziali, per non parlare del settore computer. Tuttavia non ci sta a cuore soltanto il profitto. l'utilizzo del modello EZ migliorerebbe la qualità della vita di tutti, anche se forse all'inizio nascerebbero dei problemi di disoccupazione. I sindacati naturalmente ci osteggiano, ma noi confidiamo nella collaborazione delle università più importanti. Il robot, Easy, vi sgraverà dal lavoro intellettuale più pesante assumendo, se mi consentite l'espressione, il ruolo di schiavo correttore di bozze. Le altre università e gli istituti di ricerca seguiranno il vostro esempio, e se tutto andrà bene forse noi riusciremo a vincere la diffidenza della gente e a piazzare altri robot di altri tipi.

Minnot mormorò: ― Oggi la Northeastern University, domani il mondo.

 

Lanning si rivolse a Susan Calvin sibilando a bassa voce: ― Non sono stato così eloquente, e loro non erano così riluttanti. A mille dollari all'anno, non vedevano l'ora di prendersi Easy. Il professor Minnot mi disse che non aveva mai visto un grafico così perfetto come quello che teneva in mano. E Hart ha ammesso apertamente che non c'erano assolutamente errori nelle bozze e nel resto del materiale.

Le nette rughe verticali sul viso della Calvin non si addolcirono. ― Avrebbe dovuto chiedere un prezzo più alto, Alfred, e lasciarli giocare al ribasso.

― Forse ha ragione ― brontolò Lanning.

 

Il pubblico ministero non aveva ancora finito con il professor Hart. ― Quando il dottor Lanning se n'è andato, avete votato per decidere se prendere il robot EZ-27?

― Sì.

― E quale fu il risultato?

― La maggioranza fu favorevole.

― Secondo lei, cos'ha influenzato l'andamento del voto?

L'avvocato difensore sollevò immediatamente un'obiezione.

Il pubblico ministero riformulò la domanda. ― Cosa influenzò lei, personalmente, professor Hart? Lei votò a favore, credo.

― Sì, votai a favore. Lo feci perché ero rimasto colpito dalle affermazioni del dottor Lanning secondo le quali noi uomini di cultura dovevamo favorire il cammino di una scienza, la robotica, che avrebbe aiutato l'uomo a risolvere i suoi problemi.

― In altre parole fu il dottor Lanning a convincerla.

― Erano queste le sue intenzioni, e ci è riuscito molto bene.

― È tutto. Il testimone è a disposizione della difesa.

L'avvocato difensore si avvicinò a grandi falcate al banco e scrutò a lungo il professor Hart. ― In realtà ― disse ― eravate molto ansiosi di impiegare il robot EZ-27, no?

― Pensavamo che se fosse stato in grado di svolgere quel tipo di lavoro, ci avrebbe fatto molto comodo.

― Se fosse stato in grado? Mi è parso di capire che durante la riunione di cui si è parlato poco fa, lei esaminò accuratamente il materiale corretto dal robot.

― Sì, infatti. Dal momento che la funzione primaria della macchina era quella di apportare le necessarie correzioni sotto il profilo linguistico, e dal momento che questo è il mio settore, sembrò a tutti logico che dovessi essere io a effettuare il controllo.

― Molto bene. Sul tavolo, durante la riunione, c'era del materiale che potesse essere considerato poco soddisfacente? Ho qui con me il materiale in questione. Può indicare un solo lavoro insoddisfacente?

― Be'...

― È una domanda molto semplice. C'era anche un solo lavoro insoddisfacente? Lei esaminò il materiale, no? Allora?

Il professore d'inglese corrugò la fronte. ― No.

― Ho qui con me anche alcuni campioni del lavoro svolto dal robot EZ-27 durante i quattordici mesi in cui è stato impiegato alla Northeastern. Le dispiacerebbe esaminarli e dirci se c'è qualche errore, anche di poco conto?

― L'errore che ha commesso è stato di quelli indimenticabili ― sbottò Hart.

― Risponda alla mia domanda ― tuonò l'avvocato. ― Allora, ci sono errori in questo materiale?

Il preside Hart esaminò con cautela ogni singolo reperto. ― Be', no, non ce ne sono.

― Escludendo la faccenda che ci ha fatto riunire in quest'aula, è a conoscenza di qualche errore compiuto da EZ-27?

― Escludendo la faccenda che ha dato luogo al processo, no.

L'avvocato difensore si schiarì la voce come a voler sottolineare che intendeva voltar pagina. ― Adesso torniamo al voto in seguito al quale decideste di impiegare il robot EZ-27. Lei ha detto che vi fu una maggioranza di voti favorevoli. Quale fu l'esatto risultato della votazione?

― Tredici contro uno, se ben ricordo.

― Tredici contro uno! Più di una semplice maggioranza, no?

― No, signore ― ribatté Hart. Il suo spirito pedante sembrò risvegliarsi di colpo. ― Il termine "maggioranza" significa "più della metà". Tredici voti su quattordici rappresentano la maggioranza e niente di più.

― Già, ma è quasi unanime.

― Resta sempre una maggioranza e basta.

L'avvocato difensore cambiò tattica. ― E di chi fu l'unico voto contrario?

Il preside Hart palesò un forte imbarazzo. ― Del professor Simon Ninheimer.

L'avvocato finse stupore. ― Il professor Ninheimer? Il preside della facoltà di Sociologia?

― Sì, signore.

― Il querelante?

― Sì, signore.

L'avvocato tese le labbra. ― In altre parole lei mi sta dicendo che l'uomo che ha intentato causa al mio cliente, la United States Robots and Mechanical Men Corporation, chiedendo 750 mila dollari di danno, è la stessa persona che fin dall'inizio si oppose all'impiego del robot, quando tutti gli altri membri del consiglio direttivo del senato accademico erano favorevoli?

― Votò contro la mozione. Era nel suo diritto.

― Quando ha parlato della riunione, non ha riferito di osservazioni fatte dal professor Ninheimer. Non ne fece?

― Disse qualcosa.

― Crede?

― Be', disse qualcosa.

― Contro l'uso del robot?

― Sì.

― E le sue obiezioni furono violente?

Il preside Hart fece una pausa. Poi disse: ― Veementi, direi.

L'avvocato assunse un tono più confidenziale. ― Da quanto tempo conosce il professor Ninheimer, preside Hart?

― Da circa dodici anni.

― Lo conosce abbastanza bene?

― Direi di sì.

― Lo ritiene capace di portare rancore verso un robot, considerato per di più che il voto contrario aveva...

Il pubblico ministero interruppe la domanda con veemenza e indignazione. L'avvocato difensore fece cenno al teste di scendere dal banco e il giudice Shane aggiornò la seduta a dopo pranzo.

 

Robertson addentò il suo panino. Una perdita di 750 mila dollari non avrebbe fatto fallire la compagnia, ma certo non le avrebbe nemmeno fatto bene. Inoltre si rendeva conto che, a lungo termine, il prezzo più alto sarebbe stato pagato in termini di pubbliche relazioni.

― Perché insistono tanto sul modo in cui Easy è entrato nell'università? ― chiese in tono aspro. ― Dove vogliono arrivare?

― Un processo è come una partita di scacchi ― gli rispose l'avvocato difensore, pacato. ― Di solito vince chi riesce a prevedere più mosse, e il mio amico dell'accusa non è un principiante. Possono dimostrare senza problemi che un danno c'è stato. I problemi arrivano quando si cerca di anticipare le mosse della difesa. Sicuramente contano sul fatto che noi cercheremo di dimostrare che Easy non può essere colpevole per via delle Tre Leggi della Robotica.

― Be', la nostra linea di difesa è proprio questa, ed è inattaccabile.

― Per un ingegnere robotico, ma non necessariamente per un giudice. Stanno cercando di mettere le cose in modo tale da dimostrare che EZ-27 non era un robot ordinario. Era il primo modello della serie che veniva offerto al pubblico, un modello sperimentale che necessitava di un collaudo sul campo che solo l'università poteva effettuare in modo esaustivo. Questa tesi è resa plausibile dai notevoli sforzi del dottor Lanning di piazzare il robot e dal basso prezzo del noleggio. Quindi l'accusa potrebbe sostenere che il collaudo sul campo di Easy è stato un fallimento. Adesso capisce il senso del comportamento dei nostri avversari?

― Ma EZ-27 era un modello perfetto ― replicò Robertson. ― Era il ventisettesimo di quel tipo a essere prodotto.

― E questo è un punto a nostro svantaggio ― disse l'avvocato, scuro in volto. ― I primi 26 funzionavano bene? Qualche problema l'avranno pur creato. Quindi perché il ventisettesimo doveva essere perfetto?

― I primi 26 modelli avevano il solo difetto di non essere abbastanza complessi da svolgere il lavoro richiesto. Erano i primi cervelli positronici di quel tipo che costruivamo, e quindi si andava un po' a tentoni. Ma tutti erano vincolati dalle Tre Leggi. Nessun robot è così tarato da potersi sottrarre alle Leggi.

― Il signor Lanning me l'ha spiegato, signor Robertson, e non metto in dubbio le sue parole. Tuttavia il giudice potrebbe farlo. Il verdetto lo darà un uomo onesto e intelligente che però, non essendo ferrato in materia di robotica, potrebbe essere portato fuori strada. Se per esempio lei o il dottor Lanning o la dottoressa Calvin diceste dal banco che alcuni cervelli positronici sono stati costruiti "andando a tentoni", il controinterrogatorio dell'accusa vi straccerebbe, e a quel punto avremmo perso. Quindi bisogna assolutamente evitare di commettere errori di questo tipo.

― Se solo Easy potesse parlare ― ringhiò Robertson.

L'avvocato si strinse nelle spalle. ― La testimonianza di un robot non ha alcun valore legale.

― Se non altro sapremmo cos'è successo esattamente, e perché ha fatto quel che ha fatto.

Susan Calvin si infiammò. Le sue guance si tinsero leggermente di rosso e la voce lasciò trapelare la rabbia. ― Sappiamo benissimo perché Easy ha fatto quel che ha fatto. Gli era stato ordinato. L'ho già spiegato all'avvocato e ora lo spiego a lei.

― Chi e stato a dargli l'ordine? ― chiese Robertson; sinceramente stupito. (Nessuno gli diceva mai niente, pensò risentito. Cristo, i ricercatori si credevano i padroni della U.S. Robots).

― Il querelante ― disse la Calvin.

― Ninheimer? Perché, Dio santo?

― Ancora non lo so. Forse per poterci intentare una causa e guadagnare un po' di soldi. ― Negli occhi della Calvin balenava un bagliore cupo.

― E allora perché Easy non ce l'ha detto?

― Non è ovvio? Gli è stato ordinato di tenere la bocca chiusa.

― Perché dovrebbe essere così ovvio? ― replicò Robertson, sprezzante.

― Be', per me è ovvio. Del resto sono una robopsicologa. Easy non risponderà alle domande riguardanti direttamente la faccenda, ma risponderà a quelle che toccano marginalmente l'argomento. Misurando quanto aumenta la sua esitazione a mano a mano che ci si avvicina al nocciolo della questione, misurando l'estensione del vuoto mentale e l'intensità dei contropotenziali sviluppati, è possibile stabilire con precisione scientifica che i suoi problemi derivano dall'ordine di non parlare, un ordine che fa entrare in gioco la Prima Legge. In altre parole gli è stato detto che se parlasse recherebbe danno a un essere umano. Molto probabilmente allo stesso querelante, l'inqualificabile professor Ninheimer che agli occhi del robot appare come un essere umano.

― Ma non è possibile spiegare a Easy che se continua a non parlare danneggerà la U.S. Robots?

― La U.S. Robots non è un essere umano, e la Prima Legge non riconosce a una compagnia lo status di "persona" che invece le riconosce il nostro ordinamento giuridico. Inoltre potrebbe essere pericoloso rimuovere questa inibizione. Sarebbe meno pericoloso se a farlo fosse la persona che l'ha provocata, perché il comportamento del robot fa capo a quello stesso individuo. Qualsiasi altro modo... ― La Calvin scosse la testa e il suo tono si fece quasi appassionato. ― Non permetterò che si danneggi il robot.

Lanning intervenne quasi a voler riportare la conversazione sui binari del buonsenso. ― A me sembra che basterebbe dimostrare che un robot non può commettere l'azione di cui Easy è accusato. E questo possiamo farlo.

― Già ― disse l'avvocato, irritato. ― Potete farlo soltanto voi. Gli unici testimoni in grado di parlare della natura del cervello positronico di Easy sono i dipendenti della U.S. Robots. Il giudice non riuscirebbe a considerare imparziale la loro testimonianza.

― Ma come potrebbe confutare il parere di un esperto?

― Rifiutandosi di farsi convincere. È nel suo diritto. Del resto l'alternativa che noi li prospettiamo è che un uomo come il professor Ninheimer avrebbe architettato tutto quanto per una forte somma di denaro, correndo il rischio di rovinarsi la reputazione. Credo che il giudice non accetterà le spiegazioni tecniche dei vostri esperti. Dopo tutto, è un uomo. Se dovesse scegliere tra credere che un uomo abbia fatto una cosa assurda e credere che un robot abbia fatto una cosa assurda, è probabile che decida a favore dell'uomo.

― Ma un uomo può compiere un'azione assurda ― disse Lanning ― perché noi non conosciamo tutte le complessità della mente umana e quindi non possiamo sapere fino a che punto può arrivare il cervello di un uomo. Invece sappiamo benissimo fino a che punto può arrivare un cervello positronico.

― Be', vedremo se riusciremo a convincere il giudice ― replicò l'avvocato, stanco.

― Se sa dire soltanto questo, non vedo come potrà riuscirci ― brontolò Robertson.

― Diamo tempo al tempo. È un fatto positivo rendersi conto della difficoltà della situazione, ma cerchiamo di non scoraggiarci troppo. Ho cercato di prevedere le mosse dell'avversario in questa partita di scacchi. ― Annuì con aria grave in direzione della robopsicologa e aggiunse: ― Con l'aiuto della gentile signora qui presente.

Lanning guardò l'avvocato e poi la robopsicologa. ― Che diavolo significa?

In quel momento l'usciere fece capolino nella stanza e annunciò la ripresa dell'udienza.

I quattro ripresero i loro posti e osservarono l'uomo che aveva causato quel guaio.

Simon Ninheimer aveva una folta chioma di capelli soffici color biondo sabbia, il mento appuntito, il naso aquilino e l'abitudine di esitare prima di pronunciare le parole chiave del suo discorso, quasi cercasse la massima precisione possibile. Se diceva: “Il sole sorge a... ehm... oriente”, si poteva essere certi che aveva considerato anche l'eventualità che il sole potesse sorgere a occidente.

― Lei si oppose all'utilizzo del robot EZ-27 da parte dell'università? ― chiese l'accusa.

― Sì, signore.

― Come mai?

― Mi pareva che i motivi che stavano alla base dell'offerta della U.S. Robots non fossero... ehm... del tutto chiari. La loro ansia di darci il robot mi insospettiva.

― Riteneva il robot capace di svolgere i compiti per i quali era stato progettato?

― So con certezza che non ne era capace.

― Le dispiacerebbe illustrare le sue ragioni?

 

Simon Ninheimer aveva lavorato per otto anni alla stesura del suo libro, Tensioni sociali provocate dal volo spaziale e modi per risolverle. La sua mania per la precisione non si limitava soltanto al linguaggio parlato, e una materia come la sociologia, per sua natura imprecisa, lo costringeva a sforzi indicibili.

Anche quando le bozze dei suoi lavori erano pronte, Ninheimer non si sentiva soddisfatto. Anzi, il contrario. Fissava le lunghe strisce di testo e provava la tentazione di ritagliare tutte le righe e ricombinarle in modo diverso.

Tre giorni dopo la consegna del primo pacco di bozze uscite dalla tipografia, Jim Baker, ricercatore prossimo a diventare assistente di psicologia, trovò Ninheimer intento a fissare i fogli con aria trasognata. Le bozze erano stampate in tre copie: una per Ninheimer, che doveva correggerle, una per Baker, che doveva fare altrettanto, e una terza, contrassegnata dal timbro "originale", sulla quale i due professori, dopo aver discusso le rispettive correzioni e dissipato eventuali dubbi, avrebbero apportato le modifiche finali frutto della loro collaborazione. Da tre anni a quella parte avevano sempre seguito quel metodo e non avevano mai avuto problemi nella stesura dei loro saggi.

Il giovane Baker, che si rivolgeva al professore con un tono adulatorio, aveva con sé la sua copia delle bozze. ― Ho controllato il primo capitolo e ho trovato dei refusi che sono delle vere e proprie perle.

― Succede spesso, nel primo capitolo ― gli rispose distrattamente Ninheimer.

― Vuole che lo confrontiamo subito?

Ninheimer rivolse all'altro un'espressione grave. ― Non ho ancora toccato le bozze, Jim. E credo che non perderò tempo a farlo.

― No? ― disse Baker, stupito.

Ninheimer serrò le labbra. ― Mi sono informato sul... ehm... carico di lavoro che può sopportare la macchina. Dopo tutto ci hanno detto che il suo compito primario è quello di... ehm... correggere le bozze. Hanno già stabilito il suo ritmo di lavoro.

― La macchina? Intende dire Easy?

― Credo che sia proprio quello lo stupido nome che gli hanno dato.

― Ma credevo che di quel robot non ne volesse sapere, professore.

― Sono l'unico a non utilizzarlo, a quanto pare. Forse dovrei... ehm... sfruttarlo anch'io.

― Ah capisco. Be', a quanto pare ho perso del tempo a correggere il primo capitolo ― disse Baker in tono afflitto.

― Non direi. Possiamo confrontare la sua correzione con quella del robot, tanto per fare una verifica.

― Certo, se vuole, ma...

― Ma?

― Dubito che troveremo errori nel lavoro di Easy. Sembra che non ne abbia mai fatti.

― Sembra ― disse Ninheimer, freddo.

Quattro giorni dopo Baker tornò dal professore con le bozze del primo capitolo. Ma era la copia di Ninheimer appena uscita dallo "studio" appositamente costruito per ospitare Easy e le apparecchiature che usava.

Baker era esultante. ― Dottor Ninheimer, non solo ha trovato tutti gli errori che avevo trovato io, ma ne ha scoperti un'altra decina che mi erano sfuggiti. E ci ha messo 12 minuti.

Ninheimer osservò il pacco di fogli e le correzioni annotate ai margini. ― Noi avremmo fatto un lavoro molto più completo. Avremmo deciso di inserire una nota dedicata agli studi di Suzuki sugli effetti neurologici della bassa gravità.

― Si riferisce al saggio apparso sulla Sociological Review?

― Certo.

― Be', non possiamo aspettarci l'impossibile da Easy. Non può leggere per noi tutta la letteratura sull'argomento.

― Me ne rendo conto. E infatti ho preparato la nota. Andrò da quella macchina per assicurarmi che sappia cavarsela con le note.

― Non credo che per lui questo sia un problema.

― Preferisco assicurarmene.

Ninheimer dovette fissare un appuntamento per vedere Easy, e riuscì a parlarci nel tardo pomeriggio per appena un quarto d'ora.

Ma il quarto d'ora si rivelò un lasso di tempo più che sufficiente. EZ-27 capì immediatamente la faccenda delle note.

Era la prima volta che il professore si trovava a contatto diretto con il robot, e la cosa gli provocò un certo disagio. Istintivamente, quasi si trovasse davanti a un essere umano, si ritrovò a chiedergli: ― Sei contento del tuo lavoro?

― Contentissimo, professor Ninheimer ― rispose Easy in tono solenne, con gli occhi fotoelettrici che brillavano della consueta luce rossa.

― Mi conosci?

― Dal momento che è venuto a darmi del materiale aggiuntivo per le bozze, ne consegue che lei è l'autore del libro. E il nome dell'autore compare in testa a ciascun foglio.

― Capisco. Quindi sai fare delle... ehm... deduzioni. ― A questo punto il professore non poté trattenersi dal fargli una domanda. ― Dimmi, che cosa ne pensi del mio libro?

― Trovo molto piacevole lavorare alla revisione.

― Piacevole? È una strana parola per un... ehm... meccanismo privo di emozioni. Mi è stato detto che non provi emozioni.

― È in sintonia con i miei schemi ― spiegò Easy. ― Non generano alcun contropotenziale. Sono i miei schemi cerebrali a tradurre questo fatto meccanico in un termine come "piacevole". La connotazione emotiva è casuale.

― Capisco. Perché trovi il libro piacevole?

― Perché tratta di esseri umani, professore, e non di materia inorganica o di simboli matematici. Il suo libro cerca di capire gli esseri umani e li aiuta a essere più felici.

― E dal momento che anche tu ti prefiggi questo scopo, il mio libro è in sintonia con i tuoi schemi, giusto?

― Giusto, professore.

Il quarto d'ora era passato. Ninheimer uscì e andò alla biblioteca dell'università, che stava per chiudere. E costrinse i custodi ad aspettare che lui trovasse un testo elementare di robotica. Poi si portò il libro a casa.

A parte qualche aggiunta dell'ultimo momento, le bozze corrette da Easy andavano direttamente in stampa senza che Ninheimer dovesse intervenire granché. Alla fine le modifiche del professore cessarono del tutto.

― Mi sento quasi inutile ― disse un giorno Baker, un po' afflitto.

― Se fossi in lei ne approfitterei per iniziare un nuovo progetto ― disse Ninheimer, senza alzare lo sguardo dagli appunti che stava annotando sull'ultimo numero di Social Science Abstracts.

 ― Non ci sono abituato, ecco tutto. Continuo a preoccuparmi delle bozze. Lo so, è stupido, ma non posso farci niente.

― Infatti è stupido.

― L'altro giorno ho dato un'occhiata a un paio di fogli prima che Easy li mandasse...

― Che cosa? ― Ninheimer lo fulminò con un'occhiata. Chiuse la rivista e disse: ― Ha disturbato la macchina mentre lavorava?

― Solo un attimo. Era tutto a posto. Ah, ha cambiato una parola. Lei aveva definito qualcosa "criminale" e lui ha sostituito questo termine con "sconsiderato". Per lui questo aggettivo si adattava meglio al contesto.

Ninheimer assunse un'espressione assorta. ― E per lei?

― Be', anche per me. Ho lasciato "sconsiderato".

Ninheimer si mosse nella poltroncina girevole per fronteggiare il giovane collaboratore. ― Senta, vorrei che non facesse più una cosa del genere. Se devo usare la macchina, voglio... ehm... sfruttarla al massimo. Se invece, usandola, perdo il suo aiuto perché lei si mette a controllare ciò che non ha bisogno di essere controllato, allora non ci guadagno niente. Mi sono spiegato?

― Sì, dottor Ninheimer ― rispose Baker, mortificato.

Le prime copie di Tensioni sociali arrivarono nell'ufficio di Ninheimer l'8 maggio. Il professore diede una rapida scorsa al libro, soffermandosi a leggere qualche paragrafo a caso. Poi lo mise via.

E come avrebbe spiegato in seguito, si dimenticò completamente della faccenda. Aveva lavorato a quel libro per otto anni, ma da alcuni mesi, da quando cioè Easy si era sobbarcato il compito della correzione, il professore aveva potuto dedicarsi ad altri interessi. Non si ricordò nemmeno di regalare una copia omaggio dell'opera alla biblioteca dell'università. Persino Baker, che si era gettato a capofitto in un nuovo lavoro ed era stato alla larga dal dipartimento da quando Ninheimer lo aveva rimproverato, non ne ricevette una copia.

Il 16 giugno ci fu la svolta. Ninheimer ricevette una telefonata e fissò sorpreso l'immagine sullo schermo.

― Speidell! È in città?

― No, signore. Chiamo da Cleveland. ― La voce di Speidell tremava per l'emozione.

― Come mai questa telefonata?

― Perché ho appena finito di leggere il suo ultimo libro. Ninheimer, le ha dato di volta il cervello? È diventato matto?

Ninheimer si irrigidì. ― C'è qualcosa che... ehm... non va? ― chiese, allarmato.

― Qualcosa che non va? Ho qui davanti a me il libro, aperto a pagina 562. Come le è saltato in mente di interpretare il mio saggio in quel modo? Quando mai ho affermato che la personalità criminale non esiste e che i veri criminali sono gli enti che hanno la funzione di far rispettare le leggi? Ecco, le cito...

― Un momento, un momento! ― esclamò Ninheimer cercando di aprire il libro alla pagina in questione. ― Mi lasci controllare. Mi lasci controllare... Dio santo!

― Allora?

― Speidell, non capisco come sia potuto accadere. Io non ho mai scritto cose del genere.

― Però sono stampate sul libro. E questo travisamento non è la cosa peggiore. Vada a pagina 690 e cerchi di immaginare la reazione di Ipatiev quando leggerà l'interpretazione assurda che lei ha dato delle sue opere. Ascolti, Ninheimer, il libro è pieno di queste cose. Non so dove aveva la testa mentre lo scriveva, ma l'unica cosa da fare è ritirarlo dal mercato. E le consiglio di prepararsi le scuse da dare alla prossima riunione dell'Associazione.

― Speidell, mi stia a sentire...

Ma Speidell aveva riagganciato con tale violenza che sullo schermo continuarono a brillare per una quindicina di secondi immagini residue.

Ninheimer cominciò a leggere attentamente il libro e a segnare alcuni passaggi con una penna rossa.

Riuscì a mantenere la calma quando andò da Easy, ma aveva le pagine del suo libro piene di segni rossi. Gli disse: ― Ti dispiace leggere i passi sottolineati alle pagine 562, 631, 664 e 690?

Easy eseguì l'ordine con quattro occhiate. ― Fatto, professor Ninheimer.

― Le bozze originali non riportavano quei passi.

― No, signore.

― Hai cambiato tu il testo?

― Sì, signore.

― Perché? ― Signore, perché i passi originali parlavano malissimo di alcuni gruppi di esseri umani. Ho ritenuto opportuno cambiare qualcosa per non recare offesa a questi gruppi.

― Come hai osato fare una cosa simile?

― La Prima Legge, signore, dice che gli esseri umani non possono ricevere un danno a causa del mio mancato intervento. E visto che lei è un famoso sociologo, il suo libro avrà un'ampia diffusione tra gli studiosi della materia, quindi ho giudicato che molti esseri umani cui fa riferimento nel volume avrebbero ricevuto un notevole danno.

― Ma ti rendi conto del danno che hai fatto a me?

― Ho dovuto optare per l'alternativa che provocava il danno minore.

Il professor Ninheimer, furioso, se ne andò. La U.S. Robots, pensò avrebbe dovuto assumersi tutte le responsabilità dell'accaduto.

 

 Dal tavolo delle persone citate in giudizio si levò un brusio, che aumentò quando l'accusa continuò con l'interrogatorio.

― Allora il robot EZ-27 le disse che la sua azione era dovuta alla Prima Legge della Robotica?

― Esatto, signore.

― Le disse che in pratica non aveva avuto scelta?

― Sì, signore.

― Ne consegue che la U.S. Robots ha progettato un robot che è costretto a riscrivere i libri in base alla sua concezione del bene e del male. E invece l'avevano spacciato per un semplice correttore di bozze. È così?

La difesa sollevò immediatamente un'obiezione, affermando che il testimone non poteva esprimere un giudizio su una materia nella quale non era competente. Il giudice ammonì il pubblico ministero con l'accusa di rito, ma l'avvocato difensore si rese conto che la testimonianza di Ninheimer aveva colpito Shane.

Ricorrendo a un cavillo legale, l'avvocato ottenne una breve sospensione prima del controinterrogatorio e guadagnò cinque minuti di tempo.

Si sporse verso Susan Calvin e le chiese: ― Dottoressa, è possibile che il professor Ninheimer abbia detto la verità e che Easy abbia agito in quel modo per via della Prima Legge?

La Calvin serrò le labbra, poi rispose: ― No, non è possibile. L'ultima parte della testimonianza di Ninheimer è falsa. Easy non è in grado di esprimere giudizi su questioni teoriche come quelle contenute in un testo universitario di sociologia. Non potrebbe mai dire che una certa frase risulta dannosa per un certo gruppo di persone. La sua mente non è stata costruita per questo scopo, ecco tutto.

― Ma immagino che di questo non possiamo convincere un profano ― disse l'avvocato, in tono pessimistico.

― Già ― ammise la Calvin. ― Sarebbe troppo complicato dimostrarlo, quindi la nostra linea difensiva deve restare la stessa. Dobbiamo dimostrare che Ninheimer mente, e niente di quello che ha detto ci costringe a cambiare tattica.

― Molto bene, dottoressa Calvin ― disse l'avvocato. ― Mi fido di lei, naturalmente. Procederemo come previsto.

Il giudice batté il martelletto e il dottor Ninheimer riprese posto al banco dei testimoni. Sfoderò il sorriso compiaciuto di chi si sente inattaccabile e gioisce alla prospettiva di respingere inutili attacchi.

L'avvocato tentò un approccio prudente e sotto tono. ― Dottor Ninheimer, lei si accorse delle modifiche apportate al suo testo solo il 16 giugno, giorno della telefonata del dottor Speidell?

― Esatto, signore.

― Non controllò mai le bozze dopo la correzione del robot EZ-27?

― Lo feci all'inizio, ma lo considerai un lavoro inutile. Inoltre mi fidai delle garanzie della U.S. Robots. Le... ehm... modifiche assurde appaiono nell'ultimo quarto del libro, forse perché a quel punto il robot era entrato bene nell'argomento.

― Metta da parte le supposizioni ― disse l'avvocato. ― Abbiamo sentito che il dottor Baker, suo collaboratore, controllò le ultime bozze almeno in un'occasione. Ricorda di aver riferito questo particolare nel corso dell'interrogatorio dell'accusa?

― Sì, signore. Come ho detto, il dottor Baker mi disse di aver controllato alcune pagine e di aver trovato una parola cambiata.

― E non è strano che dopo aver mostrato per più di un anno un'ostilità implacabile verso il robot, dopo essersi battuto contro il suo impiego da parte dell'università, lei abbia deciso di mettere in mano al robot il suo libro, il suo opus magnum?

― No, non mi sembra affatto strano. Decisi semplicemente che quella macchina mi sarebbe tornata comoda.

― E lei, all'improvviso, si fidò così ciecamente di EZ-27 da non controllare più le bozze da lui corrette?

― Le ho già detto che... ehm... la propaganda della U.S. Robots mi aveva convinto.

― Convinto a tal punto che quando il suo collega, dottor Baker, si prese l'iniziativa di controllare le bozze lei lo rimproverò severamente?

― Non lo rimproverai severamente. Non volevo che... ehm... sprecasse il suo tempo, perché allora ritenevo che stesse sprecando il suo tempo. Non capii il significato del cambiamento di quell'aggettivo...

― Sono certo che l'hanno consigliata di dare risalto a questo punto perché il particolare della sostituzione fosse messo a verbale ― disse l'avvocato con sarcasmo. Poi, per evitare le obiezioni dell'accusa, corresse il tiro aggiungendo: ― Il fatto è che lei si arrabbiò molto con il dottor Baker.

― No, signore, non ero arrabbiato.

― Non gli regalò nemmeno una copia del libro.

― Si è trattato di una semplice dimenticanza. Non la regalai nemmeno alla biblioteca dell'università. ― Ninheimer abbozzò un sorrisetto. ― I professori sono notoriamente distratti.

― Non le sembra strano il fatto che, dopo un anno di perfetto funzionamento, il robot EZ-27 abbia commesso un errore proprio con il suo libro? Cioè un libro scritto dall'unica persona che non aveva fatto segreto della sua ostilità verso il robot stesso?

― Il mio era il primo libro riguardante il genere umano a cui il robot avesse mai lavorato. L'argomento stesso ha fatto scattare le Tre Leggi della Robotica.

― Dottor Ninheimer, ha già provato diverse volte a spacciarsi per un esperto di robotica. A quanto sembra lei ha incominciato improvvisamente a interessarsi di questa materia e ha preso in biblioteca alcune opere sull'argomento. Ha già parlato di questo particolare durante il precedente interrogatorio, non è vero?

― Ho preso un solo libro, signore. Probabilmente volevo soddisfare una... ehm... naturale curiosità intellettuale.

― E la lettura di quel libro le ha permesso di capire come mai il robot, secondo quanto lei afferma, aveva distorto il suo testo?

― Sì, signore.

― Ma è sicuro che il suo interesse per la robotica non rispondesse al suo bisogno di manipolare il robot per certi suoi interessi?

Ninheimer arrossì. ― Ne sono sicurissimo, signore!

L'avvocato alzò la voce. ― È proprio sicuro che i passi modificati non fossero così sin dall'inizio, cioè scritti da lei in quel modo?

Il sociologo sembrò sul punto di alzarsi in piedi. ― Questo è... ehm... è ridicolo! Ho le bozze che...

Non riuscì a proseguire, così il pubblico ministero si alzò e disse in tono conciliante: ― Con il vostro permesso, Vostro Onore, intendo produrre come prova le bozze consegnate dal professor Ninheimer al robot EZ-27 e le bozze spedite dal robot all'editore. Le produrrò subito se il mio esimio collega lo desidera, e sono disposto ad accettare che l'udienza venga aggiornata per dargli il tempo di confrontarle.

L'avvocato difensore agitò una mano, impaziente. ― Non ho bisogno di pause. Il mio stimato avversario può produrre le bozze quando vuole. Sono certo che il loro esame rivelerà le discrepanze denunciate dal querelante. Vorrei sapere se siete in possesso delle bozze del dottor Baker.

― Le bozze del dottor Baker? ― Ninheimer corrugò la fronte. Non era ancora riuscito a ricomporsi.

― Sì, professore. Proprio le bozze del dottor Baker. Lei ha affermato che il dottor Baker aveva ricevuto una copia delle bozze. Farò leggere al cancelliere la sua testimonianza se lei è soggetto a improvvise amnesie. Oppure la sua dimenticanza è dovuta alla notoria distrazione dei professori?

― Mi ricordo delle bozze del dottor Baker ― disse Ninheimer. ― Solo che diventarono inutili non appena il lavoro venne affidato alla macchina.

― Così le bruciò?

― No le buttai nel cestino dei rifiuti.

― Bruciate o buttate nel cestino non fa molta differenza. Resta il fatto che lei se ne sbarazzò.

― Non c'è niente di male... ― iniziò a dire Ninheimer con voce fioca.

― Niente di male? ― tuonò la difesa. ― Niente di male tranne il fatto che adesso non ci è possibile verificare se, in certi punti cruciali, lei ha sostituito un normalissimo foglio della copia del dottor Baker con un altro della sua copia, un foglio che aveva modificato appositamente per costringere il robot a...

L'accusa sollevò una furiosa obiezione. Il giudice Shane si protese in avanti, con il viso paffuto che si sforzava di esprimere indignazione.

― Avvocato, può produrre delle prove atte a dimostrare la fondatezza della gravissima affermazione che ha appena fatto? ― chiese il giudice.

― Non ho prove dirette, Vostro Onore ― rispose pacatamente l'avvocato. ― Ma vorrei sottolineare come, osservando le cose in modo obiettivo, l'improvviso abbandono da parte del querelante delle sue posizioni contro i robot, il suo improvviso interesse per la robotica, il suo rifiuto di controllare le bozze o di permettere ad altri di controllarle, il suo tentativo di non mostrare a nessuno il libro appena pubblicato, indichino chiaramente...

― Avvocato ― lo interruppe spazientito il giudice ― questo non è il posto adatto per deduzioni esoteriche. Il querelante non è un imputato e lei non è qui per processarlo. Le proibisco di insistere su questa linea d'attacco e le faccio notare che la disperazione che indubbiamente l'ha spinta a comportarsi in questo modo serve soltanto a indebolire la difesa. Se ha altre domande legittime da rivolgere al teste, proceda pure, ma le consiglio di non ripetere in quest'aula altre esibizioni.

― Non ho altre domande, Vostro Onore.

Quando l'avvocato ritornò al suo tavolo, Robertson gli chiese sottovoce: ― Che senso ha la sua condotta, Cristo santo! Adesso si è inimicato a morte il giudice.

― Ma Ninheimer comincia a tremare ― rispose calmo l'avvocato. ― E ce lo siamo preparato un po' per la mossa di domani. Ormai sta per cadere in trappola.

Susan Calvin annuì gravemente.

 

Il resto del dibattimento si svolse sottotono, in confronto. Il dottor Baker fu chiamato a deporre e confermò quasi per intero la testimonianza del dottor Ninheimer. I dottori Speidell e Ipatiev parlarono della sorpresa e dello sconcerto che avevano provato quando si erano trovati davanti le loro teorie travisate. Entrambi affermarono che la reputazione di Ninheimer era stata seriamente danneggiata.

Le bozze e alcune copie del libro vennero prodotte come prove.

Quel giorno la difesa non svolse altri controinterrogatori. L'accusa non chiamò altri testi a deporre e l'udienza venne aggiornata all'indomani mattina.

La difesa fece la sua mossa in apertura del dibattimento. L'avvocato chiese che il robot EZ-27 fosse ammesso in aula come spettatore.

L'accusa sollevò immediatamente un'obiezione e il giudice chiamò da parte entrambi gli avvocati.

― Un robot non può entrare in un edificio pubblico ― disse l'accusa. ― È illegale.

― In quest'aula possono entrare soltanto le persone coinvolte direttamente nella causa ― replicò la difesa.

― Una grossa macchina notoriamente difettosa turberebbe con la sua presenza il querelante e i testimoni! Causerebbe soltanto confusione.

Il giudice pareva propenso a favorire l'accusa. Si rivolse all'avvocato difensore e gli disse in tono severo: ― Qual è il motivo della sua richiesta?

― Intendiamo dimostrare che il robot EZ-27, per il fatto stesso di essere costruito in un certo modo, non può avere agito come sostiene l'accusa. E per questo sono necessarie alcune dimostrazioni dirette.

― Non mi sembra che la richiesta sia giustificata, Vostro Onore ― disse l'accusa. ― Le dimostrazioni gestite dai dipendenti della U.S. Robots non hanno alcun valore, dato che la U.S. Robots è l'azienda citata in giudizio.

― Vostro Onore, spetta a lei decidere la validità di una prova, non al pubblico ministero. Almeno a mio modo di vedere.

Il giudice Shane, piccato nell'orgoglio, disse: ― Su questo ha ragione, avvocato. Tuttavia la presenza in aula del robot causerebbe gravi problemi legali.

― Però non possiamo nemmeno intralciare il corso della giustizia, Vostro Onore. Se il robot non verrà ammesso in aula, noi saremmo privati della nostra unica linea difensiva.

Il giudice rifletté un attimo. ― Ci sarebbe sempre il problema del trasporto.

― Si tratta di un problema che la U.S. Robots ha già affrontato molte volte. Fuori del tribunale c'è un camion costruito in osservanza alle leggi che regolano il trasporto dei robot. EZ-27 si trova in una cassa da imballaggio all'interno del camion ed è sorvegliato da due uomini. Le portiere del camion sono chiuse a chiave e tutte le altre precauzioni sono state prese.

― Lei sembra certo ― disse il giudice, inalberandosi di nuovo, ― che mi pronuncerò a favore della sua richiesta.

― Niente affatto, Vostro Onore. Se lei desse parere negativo, manderemo via il camion. Non ho fatto alcuna congettura in merito alla sua decisione.

― La richiesta della difesa è accolta ― disse il giudice.

La cassa fu portata all'interno su un grande carrello e i due inservienti la aprirono. Nell'aula calò un silenzio di tomba.

Susan Calvin attese che l'involucro di celluform fosse completamente rimosso e poi tese una mano. ― Vieni, Easy.

Il robot si voltò verso di lei e allungò il grosso braccio metallico. Era più alto di lei di mezzo metro, ma la seguì docilmente come un bambino tenuto per mano dalla madre. Qualcuno fece una risatina che dovette soffocare sotto lo sguardo raggelante della dottoressa Calvin.

― Al momento opportuno, Vostro Onore ― disse l'avvocato difensore ― dimostreremo che questo è veramente EZ-27, il robot che ha prestato servizio presso la Northeastern University nel periodo preso in esame.

― Bene ― disse il giudice. ― Dovrete farlo. Io per esempio non saprei distinguere un robot dall'altro.

― E adesso vorrei chiamare al banco il primo testimone. La prego, professor Ninheimer.

Il cancelliere esitò e guardò il giudice, il quale, visibilmente sorpreso, disse: ― Chiama il querelante a deporre come suo testimone?

― Sì, Vostro Onore.

― Spero si renda conto che non godrà della stessa libertà d'azione di cui godrebbe se lo interrogasse come teste dell'accusa ― lo avvertì il giudice.

― Il mio unico scopo ― disse la difesa in tono conciliante ― è quello di arrivare alla verità. Mi basterà rivolgere al professor Ninheimer solo qualche cortese domanda.

― Be', spetta a lei decidere la linea di difesa ― disse il giudice, ancora dubbioso. ― Chiami pure il teste.

Ninheimer raggiunse il banco e gli fu ricordato che era ancora sotto giuramento. Sembrava più nervoso del giorno prima, quasi apprensivo.

L'avvocato difensore lo guardò con aria benevola.

― Dunque, professor Ninheimer, lei chiede al mio cliente un risarcimento di 750 mila dollari.

― Sì, è questa... ehm... la somma che richiedo.

― Una somma piuttosto ingente.

― Anche il danno che ho subito è ingente.

― Non certo tale da giustificare una richiesta del genere. In fin dei conti i passi che si suppone siano stati modificati sono pochi. È frequente trovare nei libri errori molto strani.

Ninheimer gonfiò le narici. ― Signore, questo libro doveva segnare il culmine della mia carriera professionale. Invece mi sta facendo fare la figura dello studioso incompetente, uno che travisa le teorie dei suoi stimati amici e colleghi, un sostenitore di idee assurde e... ehm... datate. La mia reputazione è irrimediabilmente distrutta. Non potrò più partecipare a testa alta ai... ehm... convegni di studio, indipendentemente dall'esito di questo processo. Sicuramente la mia carriera è finita, e la mia carriera è sempre stata la mia vita. Lo scopo della mia vita è stato... ehm... distrutto, polverizzato.

 L'avvocato difensore non tentò minimamente di interrompere il teste, e continuò a rimirarsi le unghie.

― Però, professore, considerata la sua età, non potrebbe sperare di guadagnare più di 150 mila dollari durante il resto dei suoi giorni. Eppure sta chiedendo una somma cinque volte superiore.

Ninheimer replicò con maggior impeto: ― Il danno che ho ricevuto va ben oltre l'arco di tempo che mi resta da vivere. Non so per quante generazioni ancora verrò additato dai sociologi come un... ehm... folle. I miei studi verranno ignorati. Non sono soltanto rovinato fino al giorno della mia morte ma per sempre, perché ci sarà sempre gente che non crederà che sia stato un robot a modificare quei passaggi...

A quel punto EZ-27 si alzò in piedi. Susan Calvin non fece nulla per impedirglielo, ma si limitò a tenere lo sguardo fisso davanti a sé. L'avvocato difensore emise un debole sospiro.

― Vorrei spiegare a tutti ― disse Easy con la sua voce chiara e melodiosa ― che sono stato io a modificare alcuni passaggi delle bozze in modo da stravolgere completamente la versione originale...

Il pubblico ministero, stupito di vedere un robot alto più di due metri rivolgersi alla corte, fu incapace di opporsi a una procedura così irregolare.

Quando si liberò dallo stupore era troppo tardi. Ninheimer si era alzato e fissava il robot con un'espressione rabbiosa.

― Maledetto ― urlò a squarciagola. ― Ti era stato ordinato di tenere la bocca chiusa su...

Si interruppe di colpo, e anche Easy restò zitto. Il pubblico ministero si alzò e chiese l'annullamento del processo per vizio di procedura.

Il giudice Shane batté ripetutamente il martelletto. ― Silenzio! Silenzio! Ci sono tutti i motivi per annullare il processo per vizio di procedura, ma nell'interesse della giustizia vorrei che il professor Ninheimer finisse la frase che ha cominciato. L'ho sentito dire che al robot era stato ordinato di tenere la bocca chiusa su una certa cosa. Professor Ninheimer, nella sua deposizione lei non ha parlato di ordini impartiti al robot perché tacesse su qualche argomento.

Ninheimer fissò il giudice senza aprire bocca.

― Ha ordinato al robot EZ-27 di tenere la bocca chiusa su una certa questione? ― chiese il giudice. ― E se sì, di quale questione si tratta?

― Vostro Onore... ― disse Ninheimer con voce rauca. Ma non riuscì ad andare oltre.

Il giudice si fece aspro. ― È stato lei a dire al robot di apportare quelle modifiche alle bozze, ordinandogli poi di tenere la bocca chiusa su quanto era successo?

L'accusa si oppose con vigore, ma Ninheimer gridò: ― Oh, ormai che importa? Sì, sì, sono stato io. ― E corse via precipitosamente dal banco dei testimoni. Un usciere lo bloccò sulla porta dell'aula e il professore si lasciò cadere su una sedia delle ultime file tenendosi la testa tra le mani.

Il giudice Shane disse: ― Mi pare evidente che il robot EZ-27 è stato portato qui per far cadere in trappola il testimone. Se questa trappola non fosse servita a evitare un grave errore giudiziario, avrei senza dubbio accusato la difesa di oltraggio alla corte. Ma è ormai chiaro che il querelante ha commesso quella che mi sembra una frode del tutto incomprensibile, dato che ha messo consapevolmente a repentaglio tutta la sua carriera nel momento stesso in cui ha intentato questa causa.

Il verdetto, naturalmente, fu favorevole alla U.S. Robots.

 

La dottoressa Susan Calvin si fece annunciare al professor Ninheimer, che viveva da solo in un appartamento del campus universitario. Il giovane tecnico che l'aveva accompagnata in auto si offrì di salire con lei, ma la dottoressa lo fulminò con un'occhiata.

― Pensa che mi picchierà? Mi aspetti qui.

Ninheimer non era certo in vena di picchiare nessuno. Stava facendo in fretta le valigie, voleva andarsene prima che la notizia del verdetto diventasse di pubblico dominio.

Guardò la Calvin con una strana aria di sfida e le disse: ― È venuta a informarmi che intenterete una causa contro di me? Se è così non vi servirà a niente, perché non ho né soldi, né lavoro, né futuro. Non posso nemmeno pagare le spese processuali.

― Se cerca comprensione ― gli disse la Calvin, gelida ― ha sbagliato persona. Si è rovinato con le sue mani. Comunque non intenteremo nessuna causa né contro di lei né contro l'università. Faremo addirittura il possibile per evitarle di finire in prigione per falsa testimonianza. Non siamo vendicativi.

― Oh, è per questo che non mi hanno arrestato per aver giurato il falso? Non riuscivo a capirne il motivo. Del resto ― aggiunse amaramente ― perché dovreste vendicarvi? Avete avuto quello che volevate.

― In parte, sì ― disse la Calvin. ― L'università si terrà Easy e ci pagherà un noleggio molto più alto. Inoltre, un po' di pubblicità discreta al processo ci servirà per piazzare altri modelli EZ presso altre istituzioni, e non correremo il rischio che si ripetano guai di questo tipo.

― E allora perché è venuta da me?

― Perché io non ho ancora ottenuto quello che volevo. Voglio sapere perché odia tanto i robot. Anche se avesse vinto la causa, la sua reputazione sarebbe stata in ogni caso rovinata. I soldi non sarebbero bastati a ricompensare un danno del genere. O le bastava dare pieno sfogo al suo odio per i robot?

― Le interessa la mente umana, dottoressa Calvin? ― le chiese Ninheimer con astio.

― Sì, quando la mente umana minaccia il benessere dei robot. È per questo che mi sono anche occupata di psicologia umana.

― Se n'è occupata abbastanza da riuscire a farmi cadere in trappola!

― Non è stato difficile ― disse la Calvin, con modestia. ― Il difficile è stato farlo senza danneggiare Easy.

― È proprio da lei preoccuparsi più di una macchina che di un essere umano. ― Ninheimer palesò tutto il suo disprezzo.

― Questo è quanto può pensare la gente, dottor Ninheimer. In realtà solo interessandosi ai robot si fa veramente qualcosa per l'uomo del Ventunesimo secolo. Se fosse un robotologo, se ne renderebbe conto anche lei.

― Ho letto abbastanza robotica da sapere che non voglio essere un robotologo.

― Mi perdoni, ma lei ha letto un solo libro di robotica. Non le ha insegnato nulla. Lei ha soltanto imparato che poteva ordinare a un robot di fare molte cose, persino di falsificare un libro. E ha imparato che non poteva ordinare al robot di dimenticare completamente una cosa senza correre il rischio di essere scoperto Ma ha creduto che le sarebbe bastato ordinargli semplicemente di tacere. Si è sbagliato.

― Lei ha intuito la verità dal silenzio del robot?

― Non si tratta di intuizione. Lei, essendo un dilettante, non poteva nascondere tutte le tracce. Il mio solo problema era di dimostrare al giudice com'erano andate le cose, e lei, grazie all'ignoranza in una materia che dice di disprezzare, mi ha gentilmente aiutato a farlo.

― Questa conversazione è proprio necessaria? ― chiese stancamente Ninheimer.

― Per me è necessaria, perché vorrei farle capire quanto abbia capito male i robot. Lei ha messo a tacere Easy dicendogli che se avesse detto a qualcuno la verità, lei avrebbe perso il posto. Così il cervello di Easy ha generato un certo potenziale che lo incoraggiava al silenzio, un potenziale abbastanza forte da resistere ai nostri tentativi di romperlo. Se avessimo insistito, avremmo danneggiato il cervello positronico. Sul banco dei testimoni, però, lei stesso ha fatto scattare un contropotenziale più alto. Lei ha detto che se la gente avesse pensato che era stato lei e non un robot a scrivere i passaggi incriminati del libro, lei avrebbe perso molto più del lavoro. Avrebbe perso la reputazione, la posizione, la sua stessa ragione di vita. Ha anche affermato che dopo la sua morte nessuno si sarebbe più ricordato delle sue opere. E così ha fatto scattare un contropotenziale più alto, sicché Easy si è deciso a parlare.

― Oh, Dio ― esclamò Ninheimer, distogliendo lo sguardo.

― Adesso ha capito perché ha parlato? ― proseguì la Calvin, inesorabile. ― L'ha fatto per difenderla, non per accusarla. È dimostrabile matematicamente che si sarebbe assunto la responsabilità del crimine commesso da lei. Glielo imponeva la Prima Legge. Avrebbe mentito danneggiando se stesso, e recando un danno finanziario all'azienda. Per lui era molto più importante salvare lei. Se avesse capito davvero i robot e la robotica, lo avrebbe lasciato parlare. Ma non aveva capito granché e io me ne sono resa conto, e l'ho detto all'avvocato. Lei era certo, accecato dall'odio per i robot, che Easy si sarebbe comportato come si comportano di solito gli esseri umani e che avrebbe cercato di difendersi accusando lei. Così si è fatto prendere dal panico e ha inveito contro di lui, rovinandosi con le sue mani.

― Spero che un giorno i suoi robot le si rivoltino contro e la uccidano ― disse Ninheimer, accalorato.

― Non dica sciocchezze. Ora vorrei che mi spiegasse perché ha combinato tutto questo pasticcio.

Ninheimer storse la bocca in un ghigno malefico. ― Dovrei mettere a nudo la mia mente per soddisfare la sua curiosità intellettuale? E' questo il prezzo che devo pagare per non essere stato accusato di falsa testimonianza?

― La metta come vuole, ma mi dia una spiegazione ― disse la Calvin, impassibile.

― La mia spiegazione le serve per fronteggiare con più efficienza futuri attacchi contro i robot?

― Anche.

― Senta, le darò questa spiegazione per il solo gusto di constatare che non le servirà a niente. Lei non è in grado di capire le motivazioni che spingono gli uomini ad agire in un certo modo. Lei può capire soltanto le sue dannate macchine perché anche lei è una macchina ricoperta di pelle.

Aveva il fiato grosso e non aveva più incertezze, non cercava più la precisione.

― In duecentocinquant'anni le macchine hanno sostituito l'uomo e distrutto l'artigianato. La ceramica viene lavorata con gli stampi e le presse. Si fanno copie delle opere d'arte utilizzando una matrice. Lo chiami pure progresso, se vuole. L'artista può soltanto occuparsi di teoria, è confinato al mondo delle idee. Elabora un progetto e le macchine fanno tutto il resto. Pensa che un ceramista si accontenti del lavoro creativo? Crede che gli basti elaborare l'idea? Che non gli interessi toccare l'argilla, formarla con le mani e con la mente? Crede che il lavoro manuale non serva a modificare e a migliorare l'idea di partenza?

― Lei non è un ceramista ― disse la dottoressa Calvin.

― Sono un artista! Creo libri. Per farlo non basta scegliere le parole e metterle insieme nell'ordine giusto. Se fosse così, non ci sarebbe gusto, non ci sarebbe soddisfazione. Un libro deve foggiarsi nelle mani dell'autore. Bisogna seguire lo sviluppo dei capitoli, aggiungere e sfrondare, osservare i cambiamenti dell'idea originaria. Bisogna controllare le bozze, vedere come appare il testo stampato e correggerlo ulteriormente. Ci sono centinaia di contatti tra l'uomo e il suo lavoro a tutti gli stadi dell'impresa, e questo contatto è piacevole, ci ricompensa più di ogni altra cosa. Il suo robot ci priva completamente di queste soddisfazioni.

― Ma lo stesso discorso vale per le macchine da scrivere e le macchine tipografiche ― disse la Calvin. ― Vorrebbe forse tornare a scrivere con la penna d'oca e a lume di candela?

― Le macchine da scrivere e le macchine tipografiche ci tolgono parte di questa soddisfazione, ma il suo robot finirà per togliercela tutta. Adesso corregge le bozze, ma prima o poi lui e gli altri robot simili a lui esamineranno gli originali, cercheranno le fonti, effettueranno i controlli incrociati dei vari brani, trarranno le conclusioni. E a noi cosa resterà? Solo una cosa: decidere quale sarà il prossimo ordine da dare al robot. Volevo salvare le future generazioni di studiosi da questo inferno. Questo obiettivo mi stava più a cuore della mia reputazione, e per questo ho cercato di distruggere la U.S. Robots con ogni mezzo.

― Era destinato a fallire ― disse Susan Calvin.

― Ero destinato a provarci ― replicò Simon Ninheimer.

La Calvin gli voltò le spalle e se ne andò. Fece di tutto per non provare comprensione per quell'uomo distrutto.

Ci riuscì solo in parte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


               NATALE SENZA RODNEY

Tutto ebbe inizio quando mia moglie Gracie, che ha quasi quarant'anni, si mise in testa di dare a Rodney qualche giorno libero per le festività natalizie. Adesso che è tutto finito, mi ritrovo in una situazione veramente insostenibile. Se non vi spiace vorrei raccontarvi come sono andate le cose perché ho bisogno di parlarne con qualcuno. Naturalmente userò nomi immaginari e cambierò alcuni particolari che potrebbero ritorcersi contro di noi.

Un paio di mesi fa, a metà dicembre, Gracie mi disse: ― Dovremmo concedere a Rodney un periodo di riposo per le feste. Non vedo perché anche lui non debba festeggiare il Natale come tutti.

Ricordo che in quel momento avevo lo sguardo perso nel vuoto (è molto comodo non mettere a fuoco le cose quando si vuole riposare o ascoltare un po' di musica), ma lo regolai immediatamente per vedere se Gracie stava sorridendo o se aveva una luce divertita negli occhi. Dovete sapere che mia moglie non è dotata di un grande senso dell'umorismo.

Non stava sorridendo, né vidi alcuna luce divertita nei suoi occhi.

― Perché mai dovremmo dargli qualche giorno di riposo? ― le chiesi.

― Perché no?

― Abbiamo forse mandato mai in ferie il frigorifero, lo sterilizzatore o l'olovisore? Cosa dovremmo fare, staccare la corrente?

― Andiamo, Howard. Rodney non è un frigorifero e tanto meno uno sterilizzatore. È una persona.

― Non è una persona, Gracie, è un robot. Non ha bisogno di vacanze.

― Come fai a saperlo? Comunque è una persona. Merita di riposarsi e di godere del clima natalizio.

Decisi di non contraddirla sulla questione della natura di Rodney. Sono certo che tutti voi conoscete i risultati di quei sondaggi d'opinione secondo cui le donne sono più ostili degli uomini verso i robot. Probabilmente si tratta di un atteggiamento dovuto al fatto che i robot tendono a svolgere quelli che un tempo, un tempo che non rimpiango affatto, venivano chiamati "lavori femminili", ed è possibile che le donne abbiano il timore di venire spodestate dalle macchine, anche se a mio avviso dovrebbero esserne felici. Comunque Gracie non ha di questi problemi. Lei è felice di avere Rodney in casa e semplicemente lo adora (usa spesso proprio quest'espressione: «Semplicemente io adoro Rodney»).

Dovete sapere che Rodney è un robot antiquato che sta con noi da circa sette anni. È stato messo a punto per rispondere alle esigenze della nostra casa antiquata e del nostro antiquato stile di vita. Anch'io sono piuttosto soddisfatto di lui. A volte ho pensato di sostituirlo con uno di quegli esemplari moderni che sanno fare veramente di tutto, tipo il robot di mio figlio DeLancey, ma non ho mai osato parlarne a Gracie perché so che non sentirebbe ragioni.

Ripensai a DeLancey e dissi a mia moglie: ― Non possiamo mandarlo in ferie, Gracie. DeLancey e la sua stupenda consorte saranno qui a giorni. ― Usai l'aggettivo "stupenda" in senso ironico, ma Gracie non sembrò accorgersene.     Grace riesce a trovare un lato positivo in qualsiasi cosa, anche quando non ce ne sono. ― Chi metterà in ordine la casa, chi preparerà da mangiare, chi farà quello che ci sarà da fare?

― Questo non è un problema ― rispose Gracie, con calore. ― Potremmo dire a DeLancey e Hortense di venire con il loro robot. Sai bene che non tengono molto in considerazione Rodney, e sono certa che sarebbero felici di mostrarci quanto sia bravo il loro. Rodney potrebbe prendersi qualche giorno di riposo.

Io sbuffai e dissi: ― Se proprio ti fa piacere, è una cosa che si può fare. Dopo tutto si tratta di soli tre giorni. Però non voglio che Rodney si metta in testa di farla diventare un'abitudine.

Era un'altra battuta, naturalmente, ma Gracie replicò con convinzione: ― Non preoccuparti, Howard, ci penserò io a spiegargli che potrà prendersi qualche giorno di ferie una volta ogni tanto.

Gracie non riesce proprio a capire che Rodney, dovendo rispondere alle Tre Leggi della Robotica, non ha bisogno di spiegazioni.

Così aspettai l'arrivo di DeLancey e Hortense con il cuore gonfio di tristezza. DeLancey è mio figlio, ma questo non mi impedisce di riconoscere che è il classico arrampicatore sociale. Ha sposato Hortense perché lei ha degli agganci importanti e può aiutarlo nella sua scalata al vertice. Almeno lo spero, perché non ho scoperto in lei altre virtù.

Si presentarono con il loro robot due giorni prima di Natale. Il robot era scintillante quanto Hortense, e sembrava duro quasi quanto lei. Era lucidissimo e la sua linea era molto più elegante di quella tozza di Rodney. Il robot di Hortense (sono certo che è stata lei a imporre il progetto ai costruttori) si muoveva in perfetto silenzio, e più volte rischiò di farmi prendere un infarto sorprendendomi alle spalle senza alcun motivo, sicché io mi giravo e andavo a sbattergli contro.

Ma la cosa peggiore fu che DeLancey si era portato anche il figlio LeRoy, un bambino di otto anni. È mio nipote, e sarei pronto a giurare sulla fedeltà di Hortense perché sono certo che nessuno la toccherebbe mai di sua spontanea volontà, però devo ammettere che quel bambino non migliorerebbe nemmeno se una betoniera gli desse una bella ripassatina.

Entrò in casa chiedendo se ci eravamo decisi a mandare Rodney dal rottamaio (lui usò il termine "sfasciacarrozze"). Hortense tirò su col naso e disse: ― Visto che abbiamo portato un robot moderno spero che teniate Rodney fuori dai piedi.

Io non risposi, ma Gracie disse: ― Sta' tranquilla, cara. Rodney è in ferie.

DeLancey corrugò la fronte ma non disse nulla. Conosceva bene sua madre.

― Allora, vogliamo dire a Rambo di prepararci qualcosa di buono da bere? ― proposi io in tono conciliante. ― Caffè, tè, cioccolato caldo, un goccio di brandy...

Rambo era il nome del loro robot. L'unica cosa che giustificasse in qualche modo la scelta di quel nome era la R iniziale. Non c'è una legge in proposito, però vi sarete sicuramente accorti che quasi tutti i robot hanno un nome che inizia per R. R come robot, immagino. Il nome più comune è Robert. Credo che nel solo corridoio nordorientale ci sia un milione di robot chiamati Robert.

E francamente credo sia questo il motivo per cui i nomi degli esseri umani non iniziano più per R. Abbiamo Bob e Dick, ma non Robert o Richard. Abbiamo Posy e Trudy, ma non Rose o Ruth. A volte si sentono degli strani nomi che iniziano per R. So di tre robot che si chiamano Rutabaga, e ho sentito parlare di due Rameses. Ma Hortense è l'unica persona che conosco ad aver chiamato un robot Rambo, una combinazione di sillabe che non avevo mai incontrato. Non le chiesi mai una spiegazione perché ero sicuro che avrei ottenuto una risposta spiacevole.

Rambo si rivelò subito inutile. Naturalmente era programmato per il menage DeLancey/Hortense, un menage ultra-moderno e ultra-automatizzato. Per preparare una bibita a casa sua, Rambo non doveva fare altro che premere i pulsanti giusti (e avrei tanto voluto che qualcuno mi avesse spiegato cosa poteva spingere una persona a tenere in casa un robot per fargli premere dei pulsanti).

Rambo si rivolse a Hortense in tono affettato (niente a che vedere con la voce da ragazzo di città di Rodney, venata da una traccia di accento di Brooklyn). ― L'apparecchiatura è insufficiente, madame ― le disse.

Hortense sbuffò. ― Non hai ancora comprato una cucina robotizzata, nonno? ― Aveva iniziato a chiamarmi nonno subito dopo la nascita di LeRoy (era nato ululando, naturalmente) mentre prima non mi chiamava affatto. E non mi aveva mai chiamato Howard, perché sarei apparso troppo umano, o lei sarebbe apparsa troppo umana.

― Be', è robotizzata quando c'è Rodney ― dissi io.

― Lo credo bene ― replicò lei. ― Non siamo più nel Ventesimo secolo, nonno.

"Purtroppo no" pensai, ma dissi:― Be', possiamo programmare Rambo per fargli usare i nostri elettrodomestici. Sono certo che non avrà problemi a versare da bere, a mescolare qualcosa, a usare il forno.

― Certo ― disse Hortense ― ma non intendo modificare il suo programma operativo. C'è il rischio che diventi meno efficiente.

― Potrei insegnargli io a usare la nostra cucina, solo che non so come si fa ― disse Gracie, un po' preoccupata ma sempre cordiale. ― Non l'ho mai fatto.

― Può farlo Rodney ― proposi.

― Howard, abbiamo dato a Rodney una vacanza ― disse mia moglie.

― Lo so, ma non gli chiederemo di fare qualcosa. Dovrà soltanto dare delle istruzioni al nostro Rambo, poi Rambo farà tutto da solo.

Rambo intervenne subito. ― Madame, né il mio programma operativo né le mie istruzioni mi impongono di prendere ordini da un altro robot, specialmente da un robot di vecchio tipo ― disse l'automa in tono severo.

― Certo, Rambo ― lo tranquillizzò Hortense in tono conciliante. ― Sono sicura che il nonno e la nonna se ne rendono conto. ― (Notai che DeLancey non aveva ancora detto una sola parola. Forse non apriva mai bocca in presenza della moglie, pensai).

― Allora faremo così ― dissi io. ― Io fungerò da tramite tra Rodney e Rambo.

Rambo non sollevò obiezioni. Persino Rambo deve rispettare la Seconda Legge che gli impone di obbedire agli ordini impartiti da un essere umano.

Hortense strinse le palpebre e io capii che avrebbe voluto dirmi che Rambo era un robot troppo perfetto per prendere ordini da un tipo come me, ma qualcosa di lontanamente simile alla decenza umana le fece tenere la bocca chiusa.

Il piccolo LeRoy, che non aveva di queste inibizioni quasi umane, disse: ― Non voglio vedere il brutto muso di Rodney in giro. Scommetto che non è capace di spiegare niente, e anche se ci riuscisse, il nonno non ci capirebbe niente.

Sarebbe stato bello restare cinque minuti da solo con LeRoy per farlo ragionare, con un bel mattone, magari, ma l'istinto materno spingeva Hortense a non lasciare mai il figlio da solo con un essere umano.

Quindi non restò altro da fare che tirar fuori Rodney dalla sua nicchia nell'armadio, dove stava trastullandosi con i suoi pensieri (mi chiedo spesso se i robot pensano quando sono soli), e metterlo all'opera. Fu una faticaccia: Rodney diceva una cosa, io la ripetevo a Rambo e lui metteva in atto le istruzioni del nostro robot.

Ci volle il doppio del tempo che Rodney avrebbe impiegato per fare le stesse cose e la faccenda mi snervò, ve lo assicuro, perché quest'operazione si ripeté quando si trattò di usare la lavastoviglie/sterilizzatrice, cucinare il pranzo di Natale, sparecchiare la tavola e spazzare il pavimento, insomma per tutto.

Gracie continuò a lamentarsi perché secondo lei avevano rovinato le ferie a Rodney, ma sembrò non accorgersi che alle mie vacanze non era toccata sorte migliore. Tuttavia non potei fare a meno di ammirare Gracie per quella sua capacità di dire qualcosa di spiacevole nel momento giusto senza mai ripetersi. Tutti sanno essere sgradevoli, ma quando qualcuno dimostra di essere creativo nella sua sgradevolezza, provo il desiderio perverso di applaudirlo.

Comunque la situazione precipitò la vigilia di Natale. Avevo preparato l'albero ed ero stremato. Non avevamo quelle scatole di addobbi automatizzate che, una volta collegate con una spina a un albero elettronico, si sistemano istantaneamente e in modo perfetto al semplice tocco di un pulsante. Noi avevamo un normalissimo albero di plastica su cui gli addobbi andavano sistemati manualmente, uno dopo l'altro.

Hortense fece una faccia schifata alla vista dell'albero addobbato, e io le dissi: ― Vedi, Hortense, in questo modo si può essere creativi, sei tu a sistemare gli addobbi come meglio credi.

Hortense soffiò con il naso, emettendo un rumore simile a quello prodotto da un'unghia sfregata su un muro intonacato, e uscì dalla stanza con un'espressione nauseata. Io feci un inchino alle sue spalle, felice di vederla andar via poi mi toccò il noiosissimo compito di ascoltare le istruzioni di Rodney per riferirle a Rambo.

 


Quando finii, decisi di riposare la testa e i piedi indolenziti e mi sedetti su una poltrona in un angolo piuttosto buio della stanza. Mi ero appena accomodato quando il piccolo LeRoy entrò. Non mi vide, credo, oppure mi scambiò per uno dei mobili meno interessanti e degni di considerazione della stanza.

Guardò l'albero con espressione sdegnata e disse a Rambo: ― Senti, dove sono i regali di Natale? Scommetto che i due vecchi mi hanno comprato qualcosa di pacchiano, però non voglio aspettare fino a domani mattina per vederlo.

― Non so dove siano, padroncino ― gli rispose Rambo.

― Ah. ― LeRoy si rivolse a Rodney. ― E tu, brutto fetente? Lo sai dove sono i regali?

Rodney avrebbe potuto non rispondergli senza per questo infrangere una delle Tre Leggi, dato che il bambino gli si era rivolto chiamandolo "fetente" e non Rodney. Sono certo che Rambo avrebbe impugnato quel suo diritto, ma Rodney era diverso, così disse gentilmente: ― Sì, lo so, padroncino.

― Allora dimmelo, vecchia pustola.

― Credo che non sia corretto. Darei un dispiacere a Gracie e a Howard che preferiscono darle i regali domani mattina.

― Stammi a sentire, brutto idiota ― disse LeRoy ― con chi ti credi di parlare? Adesso te lo ordino: vammi a prendere quei regali. ― E per far vedere a Rodney chi era il padrone, gli diede un calcio su uno stinco.

Fu un errore. Me ne resi conto con un secondo di ritardo, ma fu un secondo che mi riempì di gioia. Il piccolo LeRoy si era già preparato per andare a letto, anche se dubitavo che quel bambino andasse a letto prima di essere del tutto cotto, così calzava un paio di pantofole. E una pantofola volò via quando sferrò il calcio, sicché lui colpì lo stinco di acciaio cromato del robot con il piede nudo.

LeRoy cadde in terra emettendo un grido di dolore. La madre irruppe nella stanza. ― Cos'è successo, LeRoy? Cos'è successo?

Il piccolo LeRoy non aveva perso la sua insolenza. ― Mi ha colpito. Quel vecchio mostro mi ha colpito.

Hortense cacciò un urlo. Mi vide e gridò: ― Il tuo robot dev'essere distrutto.

― Andiamo, Hortense. Un robot non può colpire un bambino. Glielo impedisce la Prima Legge.

― Ma è un robot vecchio e tarato. LeRoy dice...

― LeRoy mente. Nessun robot, per quanto vecchio e tarato possa essere, colpirebbe mai un bambino.

― Allora è stato lui ― ululò il bambino. ― È stato il nonno a colpirmi.

― Vorrei tanto averlo fatto ― dissi io, calmo. ― Solo che il robot non me lo avrebbe mai permesso. Chiedilo al tuo, Hortense. Chiedi a Rambo se sarebbe rimasto fermo mentre io o Rodney picchiavamo il tuo bambino. Rambo!

Il mio fu un ordine, così Rambo disse: ― Non avrei permesso che il padroncino si facesse male, madame, se solo avessi capito quali erano le sue intenzioni. Ha colpito lo stinco di Rodney con il piede nudo, madame.

Hortense spalancò la bocca e strabuzzò gli occhi, infuriata. ― Vuol dire che aveva un buon motivo per farlo. Quindi farò distruggere il tuo robot.

― Fa' pure, Hortense. A meno che tu non voglia rovinare l'efficienza del tuo robot cercando di riprogrammarlo per farlo mentire, Rambo testimonierà sull'accaduto, e naturalmente lo farò anch'io, con immenso piacere.

Hortense se ne andò l'indomani mattina, portandosi dietro il pallido LeRoy (scoprimmo che si era rotto l'alluce, e ben gli stava) e DeLancey, che continuava a tenere la bocca chiusa.

Gracie intrecciò le mani in un gesto di supplica per convincerli a restare, ma io li osservai andar via senza provare emozioni. No, ho detto una bugia. Li osservai andar via provando moltissime emozioni, tutte piacevoli.

Non appena mi capitò di restare solo con Rodney gli dissi: ― Mi dispiace, Rodney. È stato un Natale orribile, e tutto perché abbiamo cercato di passarlo senza di te. Ti prometto che non succederà mai più.

― Grazie, signore. Devo ammettere che in questi ultimi due giorni ci sono stati dei momenti in cui ho desiderato che le Leggi della Robotica non esistessero.

Io sorrisi e annuii, ma quella notte mi riscossi da un sonno profondo e cominciai a preoccuparmi. Da quel momento non ho più smesso di farlo.

Devo ammettere che la pazienza di Rodney era stata messa a dura prova, ma un robot non può desiderare che le Leggi della Robotica non esistano. Non può, indipendentemente dalle circostanze.

Se riferissi questo particolare alla ditta costruttrice, Rodney sarebbe smontato e a noi darebbero in cambio un nuovo robot. Gracie non mi perdonerebbe mai. Mai! Non esiste un robot al mondo. per quanto nuovo e dotato sia, che potrebbe sostituire Rodney nel suo cuore.

E nemmeno io riuscirei mai a perdonarmi. A parte la mia simpatia per Rodney, non sopporterei di dare a Hortense questa soddisfazione.

Ma se faccio finta di niente, dovrò continuare a vivere con un robot capace di desiderare che le Tre Leggi non esistano. Dal desiderare che non esistano a comportarsi come se non esistessero veramente il passo è breve. Quando farà quel passo, e in che modo ci dimostrerà di averlo fatto?

Come devo comportarmi? Come devo comportarmi?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


               PARTE SECONDA

               I ROBOT CHE HO CONOSCIUTO

Gli uomini meccanici o, per usare il termine di Capek adesso universalmente accettato, i robot, sono un soggetto al quale i moderni scrittori di fantascienza hanno fatto ricorso in molteplici occasioni. Non c'è nessun'altra invenzione non inventata, esclusa forse la nave spaziale, che non sia raffigurata con tanta chiarezza nella mente di così tanta gente: una forma sinistra, grande, metallica, vagamente umana, che si muove come una macchina e parla senza mostrare emozioni .

La parola chiave di questa descrizione è "sinistra", e qui si cela una tragedia, poiché nessun altro tema fantascientifico ha logorato il benvenuto accordatogli con la stessa rapidità dei robot. Sembrava che l'autore medio potesse disporre soltanto di un tipo di trama da utilizzare con i robot: l'uomo meccanico che si rivelava una minaccia, la creatura che si rivoltava contro il suo creatore, il robot che diventava una minaccia per l'umanità. E quasi tutte le storie di questo tipo venivano sovraccaricate per eccesso, in modo esplicito o implicito, dalla logora morale secondo la quale "esistono cose che l'umanità non deve conoscere."

Dal 1940 questa sconfortante situazione è in parte migliorata. Le storie sui robot abbondano; si è sviluppato un punto di vista più innovativo, più meccanicistico e meno moralistico. Alcuni individui (in particolar modo Groff Conklin nell'introduzione alla sua antologia di fantascienza intitolata Science Fiction Thinking Machines, pubblicata nel 1954) hanno ritenuto che fosse il caso di attribuire almeno in parte il merito di questo sviluppo a una serie di storie di robot che scrissi agli inizi del 1940. Dal momento che sulla Terra nessuno più di me è dotato di falsa modestia, accetto questo merito parziale con equanimità e disinvoltura, modificandolo soltanto per includervi il signor John W. Campbell jr., curatore della rivista Astounding Science Fiction, con il quale ebbi molte fruttuose discussioni sulle storie robotiche.

Era mia opinione che i robot dovessero comparire nei racconti non come imitazioni blasfeme della vita, ma semplicemente come macchine progredite. Le macchine non "si rivoltano contro i loro creatori" se vengono concepite in maniera corretta. Quando una macchina come una sega a motore sembra farlo, di tanto in tanto, troncando un dito, una mano, un braccio, questa riprovevole tendenza alla perversità si combatte installando dei congegni di sicurezza. Mi pareva ovvio che congegni di sicurezza analoghi andassero sviluppati nel caso dei robot. E il luogo più logico per congegni di sicurezza del genere mi sembrava quello di circuiti appositamente inseriti nel "cervello" robotico.

Permettetemi una digressione per spiegare che nella fantascienza non ci accapigliamo riguardo alla vera e propria meccanica del "cervello" robotico. Si presuppone un congegno meccanico che, in un volume più o meno uguale a quello del cervello umano, contenga tutti i circuiti necessari per permettere a un robot uno spettro di percezione-e-reazione ragionevolmente equivalente a quello di un essere umano. Come ciò si possa realizzare senza usare unità meccaniche grandi come una molecola di proteina o, come minimo, grandi come una cellula cerebrale, non viene spiegato. Alcuni autori parlano di transistor e circuiti stampati. La maggior parte non dice niente del tutto. Il mio trucchetto preferito consiste nel fare riferimento, in modo un po' mistico, a un "cervello positronico", lasciando che sia l'ingegnosità del lettore a decidere cosa c'entrino i positroni, e sperando che la sua benevolenza lo induca a continuare la lettura dopo essere stato incapace di raggiungere una decisione.

In ogni caso, mentre scrivevo la mia serie di storie sui robot, i congegni di sicurezza si cristallizzarono a poco a poco nella mia mente nella forma delle "Tre Leggi della Robotica". Queste tre leggi vennero per la prima volta formulate in maniera esplicita in Circolo vizioso. Infine, una volta perfezionate, le Tre Leggi raggiunsero un'enunciazione definitiva.

 

Prima Legge: Un robot non può recar danno agli esseri umani, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, gli esseri umani ricevano danno.

Seconda Legge: Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, tranne nel caso che tali ordini siano in contrasto con la Prima Legge.

Terza Legge: Un robot deve salvaguardare la propria esistenza, purché ciò non sia in contrasto con la Prima o la Seconda Legge.

 

Queste leggi sono saldamente incorporate nel cervello robotico, o per lo meno lo sono i circuiti equivalenti. Naturalmente non descrivo i circuiti equivalenti. In effetti, io non discuto mai la struttura tecnologica dei robot, per la buonissima ragione che la mia ignoranza degli aspetti pratici della robotica è colossale.

La Prima Legge, come potete vedere subito, elimina immediatamente quella trama vecchia e trita alla quale non farò più riferimento per non offendervi.

Malgrado, di primo acchito, possa sembrare che l'istituzione di queste regole restrittive ostacoli l'immaginazione creativa, è risultato al contrario che le Leggi della Robotica sono servite da ricchissima fonte di materiale per gli intrecci. Tutto hanno dimostrato, fuorché di costituire un blocco mentale.

Un esempio potrebbe essere appunto la storia Circolo vizioso alla quale ho già fatto riferimento. Il robot di quella storia, un modello sperimentale e costoso, è concepito per operare sul lato esposto al sole del pianeta Mercurio. La Terza Legge è stata incorporata in lui con maggior forza del solito per ovvie ragioni economiche. Quando comincia la storia, è stato inviato all'esterno per procurarsi del selenio fuso che serve per alcune indispensabili, essenziali riparazioni. (Vi prego di credere che il selenio fuso è reperibile in pozzanghere sparpagliate qua e là sulla superficie surriscaldata di Mercurio rivolta al Sole.)

Sfortunatamente gli ordini sono stati impartiti ai robot con una certa trascuratezza, cosicché l'influenza della Seconda Legge è più debole del solito. Fatto ancora più sfortunato, la pozza di selenio alla quale il robot è stato mandato si trova vicino a un'area vulcanica attiva, e di conseguenza vi sono forti concentrazioni di ossido di carbonio in tutta la zona. Io presuppongo, qui, che l'ossido di carbonio reagisca piuttosto rapidamente con il ferro, formando dei ferrocarbonili volatili, in grado di danneggiare gravemente le articolazioni più delicate del robot. Più il robot si addentra nell'area, più la sua esistenza è in pericolo e più crescono d'intensità gli effetti della Terza Legge per indurlo ad allontanarsi. Ma la Seconda Legge, solitamente superiore, lo spinge a proseguire. A un certo punto, il potenziale insolitamente debole della Seconda Legge e, insieme, quello insolitamente forte della Terza Legge raggiungono un punto d'equilibrio, e il robot non riesce più né ad avanzare né a retrocedere. Può soltanto girare intorno alla pozza di selenio percorrendo una linea equipotenziale, descrivendo approssimativamente un cerchio intorno alla zona.

Nel frattempo, i nostri eroi hanno assoluto bisogno del selenio. Si mettono all'inseguimento del robot indossando tute speciali, identificano la natura del problema e si chiedono come fare a porvi rimedio. Dopo parecchi tentativi falliti, incappano nella risposta giusta. Uno degli uomini si espone deliberatamente al sole di Mercurio, in maniera tale che, se il robot non lo salverà, morirà di sicuro. Ciò fa entrare in funzione la Prima Legge la quale, essendo superiore sia alla Seconda sia alla Terza, strappa il robot dal suo inutile girare in cerchio e porta all'inevitabile lieto fine.

A proposito, credo di aver usato per la prima volta il termine "robotica" (implicitamente definita come la scienza della progettazione fabbricazione, manutenzione, eccetera, dei robot) proprio in Circolo vizioso. Molti anni dopo, mi dissero che quel termine lo avevo inventato io, e che non era mai stato impiegato prima di allora. Non so se sia vero. Ma, se è vero, ne sono felice, dato che lo considero un termine logico e utile, e con la presente ne faccio dono con grande piacere a tutti coloro che lavorano sul serio in questo campo.

Nessuna delle mie altre storie di robot ha un collegamento così netto con le Tre Leggi, ma tutte, in qualche modo, ne sono originate. Per esempio, c'è la storia del robot capace di leggere nel pensiero, che si trova costretto a mentire perché è nell'impossibilità di dire a un essere umano qualcosa di diverso da ciò che la persona in questione desidera sentire. La verità, capite, finirebbe quasi certamente per "danneggiare" l'essere umano procurandogli disappunto, delusione, imbarazzo, dispiacere e altre analoghe emozioni, tutte fin troppo evidenti al robot.

E poi c'è l'altra storia dell'uomo sospettato di essere un robot, ovvero di possedere un corpo quasi protoplasmatico ma il cervello positronico di un robot. Un modo di dimostrare la propria umanità sarebbe quello di violare la Prima Legge in pubblico; così, il sospettato accetta di colpire deliberatamente un uomo. Ma la storia finisce ugualmente nel dubbio, perché esiste il sospetto che anche l'altro "uomo" possa essere un robot, e non c'è niente nelle Tre Leggi che impedisca a un robot di colpire un altro robot.

E poi abbiamo il non plus ultra dei robot: modelli concepiti per prevedere il clima, i raccolti, le cifre della produzione industriale, gli sviluppi della politica, e così via. Lo scopo è quello di evitare che l'economia mondiale sia soggetta ai capricci di fattori che attualmente sono al di fuori del controllo dell'uomo. Ma questi non plus ultra sono ancora soggetti alla Prima Legge. Non possono permettere che, a causa della loro inattività, degli esseri umani vengano danneggiati, così essi, in maniera deliberata, danno risposte che non sono necessariamente veritiere e provocano sconvolgimenti economici localizzati, concepiti in maniera tale da manovrare l'umanità, conducendola lungo la strada che porterà alla pace e alla prosperità. Così alla fine i robot, malgrado tutto, conquistano il dominio, ma soltanto per il bene dell'uomo.

Il rapporto d'interdipendenza fra uomini e robot non va trascurato. L'umanità è consapevole dell'esistenza delle Tre Leggi, a livello intellettuale, eppure ha una paura e una sfiducia inestirpabili, a livello emotivo, nei confronti dei robot. Potremmo definirlo "Complesso di Frankenstein". Esiste inoltre, per esempio, l'elemento assai più pratico dell'opposizione dei sindacati alla sostituzione del lavoro umano con quello robotico.

Anche questo può generare un intreccio. Il mio primo racconto di robot riguardava un robot bambinaia e una bambina. Come c'è da aspettarsi, la bambina adora il suo robot, mentre la madre lo teme come ci si può parimenti aspettare. Il nocciolo della storia sta nel tentativo della madre di sbarazzarsene e nella reazione della bambina a questo tentativo.

Il mio primo romanzo sui robot, Abissi d'acciaio (1954), scruta più in là nel futuro, e si svolge in un'epoca in cui altri pianeti, popolati da terrestri emigrati, hanno adottato un'economia completamente robotizzata, ma in cui la Terra, per ragioni economiche ed emotive si oppone ancora all'introduzione di creature metalliche. Viene commesso un assassinio che ha come movente l'odio nei confronti dei robot. Il caso viene risolto da una coppia di investigatori, un uomo e un robot, in gran parte con un ragionamento deduttivo (tipico dei romanzi polizieschi) che ruota intorno alle Tre Leggi e alle loro implicazioni.

Sono riuscito a convincere me stesso che le Tre Leggi sono tanto necessarie quanto sufficienti per la sicurezza umana nei confronti dei robot. È mia sincera convinzione che un giorno, quando saranno fabbricati per davvero robot progrediti simili agli esseri umani, qualcosa di molto simile alle Tre leggi verrà inserito in essi. Sotto questo aspetto vorrei davvero essere un profeta. Mi addolora soltanto che probabilmente non ci si arriverà nel corso della mia vita.

Questo saggio è stato scritto nel 1956. Negli anni trascorsi da allora il termine "robotica" ha fatto davvero il suo ingresso nella lingua inglese e viene usato universalmente, e io sono vissuto fino a vedere i roboticisti che prendevano in considerazione le Tre Leggi con estrema serietà.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


               I NUOVI DOCENTI

La percentuale degli anziani presenti sulla faccia della Terra è in aumento e quella dei giovani diminuisce, e questa tendenza continuerà se l'indice di natalità dovesse scendere e la medicina continuare ad allungare la durata media della vita.

Per mantenere nelle persone più anziane l'immaginazione e la creatività e impedire che diventino un peso crescente per il numero sempre più ridotto della gioventù creativa, ho raccomandato molto spesso che il nostro sistema educativo venisse riformato e che lo studio venisse considerato un'attività da svolgere per tutta la vita.

Ma come si può realizzare? Dove verrebbero reperiti gli insegnanti?

Comunque, chi ha mai detto che tutti gli insegnanti debbano appartenere al genere umano o anche soltanto essere animati?

Supponete che durante il prossimo secolo i satelliti diventino più numerosi e più sofisticati di quelli che abbiamo messo finora in orbita nello spazio. Supponete che al posto delle onde radio il principale sistema di comunicazione diventi l'assai più capace raggio laser a luce visibile.

Se le circostanze fossero queste, ci sarebbe spazio per molte migliaia di canali separati per la voce e per le immagini, ed è facile immaginare che a ogni essere umano sulla Terra potrebbe essere assegnata una particolare lunghezza d'onda televisiva.

Ciascuna persona (bambino, adulto, o anziano) potrebbe avere la propria presa personale alla quale inserire, a intervalli assegnati, la sua personale macchina istruttrice. Sarebbe una macchina assai più versatile e interattiva di quelle che potremmo mettere insieme adesso, poiché nel frattempo anche la tecnologia dei computer avrà fatto grandi progressi.

Possiamo ragionevolmente sperare che la macchina istruttrice sia abbastanza complessa e flessibile da essere in grado di modificare il proprio programma (vale a dire, di "imparare") sulla base degli input dello studente.

In altre parole, lo studente farà domande, risponderà a domande, farà asserzioni, offrirà opinioni, e da tutto questo la macchina sarà in grado di valutare lo studente in modo tale da poter regolare la velocità e l'intensità del proprio corso d'insegnamento e, cosa ancora più importante, di andare incontro agli interessi mostrati dallo studente.

Tuttavia non si può immaginare una macchina istruttrice personale di grandi dimensioni. Dovrebbe assomigliare a un apparecchio televisivo, per forma e dimensioni. Può un oggetto così piccolo contenere abbastanza informazioni da riuscire a insegnare agli studenti tutto quello che vogliono sapere, in qualsivoglia direzione possa condurli la loro curiosità? No, non può, se la macchina istruttrice è autonoma, cioè isolata e indipendente da ogni altra. Ma c'è bisogno che lo sia?

In qualsiasi civiltà dove l'informatica sia così progredita da rendere possibile le macchine istruttrici, ci saranno di sicuro biblioteche centrali completamente computerizzate. Queste biblioteche potrebbero essere tutte interconnesse a formare una singola biblioteca planetaria.

Tutte le macchine istruttrici verrebbero collegate a questa biblioteca planetaria e ciascuna potrebbe avere a disposizione qualsiasi libro, periodico, documento, registrazione, o video che vi si trovasse archiviato. Se la macchina ne potesse disporre, lo stesso avverrebbe per lo studente, visibile direttamente sullo schermo, oppure riprodotto su carta per poterlo studiare con maggiore comodità.

Naturalmente gli insegnanti umani non verrebbero completamente eliminati. In alcune materie l'interazione umana è essenziale: la ginnastica, la recitazione, le lezioni pubbliche, e così via. Inoltre manterrebbero il proprio valore, e interesse, quei gruppi di studenti operanti in un campo specifico, abituati a riunirsi per discutere e fare ipotesi fra loro e con esperti umani, accendendo gli uni negli altri nuove intuizioni.

Dopo questo interscambio di idee umane, gli studenti potrebbero tornare, con un certo sollievo, alle loro macchine interminabilmente informate, interminabilmente flessibili e, soprattutto, interminabilmente pazienti.

Ma chi istruirà le macchine istruttrici?

Gli studenti, senza dubbio, sarebbero anche insegnanti. Uno studente che si applica a settori o attività che lo interessano, finisce inevitabilmente per pensare, fare congetture, osservare, sperimentare e, di tanto in tanto, escogitare qualcosa di proprio che potrebbe non essere noto.

Ritrasmetterebbe questa conoscenza alle macchine, che a loro volta le registrerebbero (con il riconoscimento dovuto al vero autore, c'è da presumere) alla biblioteca planetaria, rendendola così disponibile ad altre macchine istruttrici. L'informazione verrebbe reimmessa nel serbatoio centrale per fungere da nuovo e più elevato punto di partenza per gli altri. Così le macchine istruttrici renderebbero possibile per la specie umana la corsa in avanti verso vette e in direzioni che adesso è impossibile prevedere.

Ma io sto descrivendo soltanto la meccanica dell'apprendimento. E il contenuto? Quali materie studierà la gente nell'età delle macchine istruttrici? Farò qualche ipotesi nel prossimo saggio.

 

 

 

 

 

 

 


               QUEL CHE DESIDERIAMO

La difficoltà nel decidere quali potrebbero essere le professioni del futuro sta nel fatto che tutto dipende dal tipo di futuro che sceglieremo. Se permetteremo alla nostra civiltà di distruggersi, la sola professione del futuro sarà quella di rubacchiare per sopravvivere, e saranno in pochi a farcela.

Supponiamo, però, di mantenere la nostra civiltà viva e fiorente e che, perciò, la tecnologia continui a progredire. Pare logico che le professioni in un futuro del genere comprendano la programmazione dei computer, le estrazioni minerarie sulla Luna, la tecnologia della fusione nucleare, le costruzioni spaziali, le comunicazioni con i laser, la neurofisiologia, e così via.

Tuttavia non posso fare a meno di pensare che i progressi della computerizzazione e dell'automazione finiranno per spazzare via i sottolavori dell'umanità: la monotonia del tirare e dello spingere, del punzonare, del tagliare e dell'archiviare e di tutti gli altri movimenti semplici e ripetitivi, sia fisici sia mentali, che possono essere compiuti con facilità, e assai meglio, da macchine non più complicate di quelle che costruiamo già oggi.

In breve, il mondo potrebbe essere organizzato così bene da rendere necessario soltanto un manipolo molto ristretto di "capisquadra" umani da impiegare nelle varie professioni e nei lavori di supervisione richiesti per nutrire, alloggiare e curare la popolazione del mondo.

Cosa ne sarebbe della maggioranza della specie umana in questo futuro automatizzato? Cosa ne sarebbe di coloro che non avessero la capacità o il desiderio di lavorare alle professioni del futuro, o per i quali non ci fosse posto in queste professioni? Forse la maggior parte della gente finirà per non avere nulla a che fare con quello che oggigiorno definiamo lavoro.

È un'idea che fa rabbrividire. Cosa farà la gente senza un lavoro? Se ne staranno seduti ad annoiarsi? O forse, cosa ancora peggiore, diventeranno mentalmente instabili e perfino malvagi? Stando al detto, il diavolo riesce a far commettere malanni alle mani oziose.

Ma il nostro giudizio è basato sulla situazione che è esistita finora, una situazione nella quale la gente viene abbandonata a se stessa e lasciata ad arrangiarsi.

Ci sono stati periodi nella storia in cui una aristocrazia è vissuta nell'ozio, sulle spalle di macchine in carne e ossa chiamate schiavi, o servi, o contadini. Quando a questa condizione si associava una cultura di alto livello, gli aristocratici usavano il loro tempo libero per istruirsi nella letteratura, nelle arti, e nella filosofia. I loro studi non avevano utilità pratica, ma occupavano la mente, consentivano delle conversazioni interessanti e una vita piacevole.

Erano le arti liberali, arti per gli uomini liberi che non dovevano lavorare manualmente. E venivano considerate più elevate e più soddisfacenti delle arti meccaniche, utili soltanto a scopi materiali.

Allora, forse, il futuro vedrà una aristocrazia mondiale sorretta dai soli schiavi che presterebbero i loro servigi in una situazione del genere: le macchine sofisticate. E ci sarà un programma di arti liberali infinitamente più innovativo e più ampio, insegnato da macchine istruttrici, tra le quali ognuno potrà fare la sua scelta.

Qualcuno potrebbe scegliere la tecnologia dei computer o la tecnologia della fusione nucleare, o l'estrazione dei minerali sulla Luna o qualsiasi altra professione che apparisse vitale per il corretto funzionamento del mondo. Perché no? Queste professioni, mettendo alla prova l'immaginazione e la capacità umane avrebbero un grande fascino, e sarebbero sicuramente moltissimi coloro che si lascerebbero attirare di propria volontà da queste occupazioni, risultando in numero più che sufficiente.

Ma per la maggior parte della gente il campo di scelta sarebbe molto meno cosmico. Potrebbe essere la collezione dei francobolli, l'arte della ceramica, la pittura ornamentale, la gastronomia, la recitazione, o chissà cos'altro. Ogni studio sarà facoltativo, e la sola guida sarà "qualsiasi cosa desideriate."

Ciascuna persona, guidata da macchine istruttrici abbastanza sofisticate da offrire un'ampia campionatura delle attività umane, potrà allora scegliere ciò che si sente in grado di fare nel modo migliore e con maggiore spontaneità.

Ma il singolo individuo, uomo o donna, saprà decidere che cos'è in grado di fare nel miglior modo possibile? Perché no? Chi altri lo potrebbe decidere? E cosa può fare al meglio una persona, se non quello che più desidera?

Ma la gente non finirà forse per scegliere di non far niente? Di passare la vita dormendo?

Se è questo che vogliono, perché non dovrebbero? Però ho la sensazione che non sarà così. Far niente è un lavoro molto duro e, così pare a me, qualcosa a cui si abbandonano coloro che non hanno mai avuto l'opportunità di sviluppare da se stessi niente di interessante e, di conseguenza, di più facile.

In un mondo istruito e automatizzato nella maniera corretta, le macchine potrebbero allora rivelarsi la vera influenza umanizzante. Così, le macchine svolgeranno il lavoro che rende possibile la vita, e gli esseri umani potranno dedicarsi alle occupazioni che rendono la vita piacevole e degna di essere vissuta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 


               FARSI GLI AMICI

Il termine "robot" risale a soli sessant'anni fa. Venne inventato dal drammaturgo cecoslovacco, Karel Capek, nella sua commedia R. U. R., ed è una parola cecoslovacca che significa lavoratore.

Tuttavia l'idea è assai più vecchia. È vecchia quanto il desiderio dell'uomo di avere un servitore intelligente come un essere umano, ma assai più forte, e incapace di stancarsi. annoiarsi o essere insoddisfatto. Nei miti greci, il dio della forgia, Efesto, o Vulcano, possedeva due lucenti ragazze d'oro, vive come ragazze in carne e ossa, che lo aiutavano. E l'isola di Creta era sorvegliata, stando ai miti, da un gigante di bronzo chiamato Talos, che vagava senza interruzione intorno alle sue coste per proteggerla dagli intrusi.

Ma i robot sono possibili? E se lo sono, sono desiderabili?

Non c'è dubbio che strutture meccaniche con ingranaggi, ruote dentate e molle potrebbero far compiere a congegni costruiti in forma umana azioni simili a quelle umane, ma l'essenza di un robot di successo è riuscire a farlo pensare, e pensare abbastanza bene da compiere funzioni utili senza una continua supervisione.

Ma per pensare ci vuole un cervello. Il cervello umano è costituito da neuroni microscopici, ciascuno dei quali ha una sotto-struttura straordinariamente complessa. Ci sono dieci miliardi di neuroni nel cervello e novanta miliardi di cellule di sostegno, tutte agganciate assieme in un modello molto intricato. Com'è possibile che qualcosa del genere venga duplicato da un congegno costruito dall'uomo e inserito in un robot?

Una cosa del genere è diventata concepibile soltanto 35 anni or sono, con l'invenzione del computer elettronico. Dal momento della sua nascita, il computer elettronico è diventato sempre più compatto, e ogni anno che passa diventa possibile comprimere un numero d'informazioni sempre maggiore in un volume sempre minore.

Non potrebbe essere possibile, fra qualche decennio, comprimere la versatilità necessaria per un robot in un volume grande quanto quello del cervello umano? Un computer del genere non dovrebbe essere progredito quanto un cervello umano, ma soltanto quanto basta per guidare le azioni di un robot concepito, diciamo, per togliere la polvere, per manovrare una pressa idraulica, per esplorare la superficie lunare.

Naturalmente un robot dovrà comprendere una fonte di energia autonoma; non possiamo aspettarci che sia perennemente inserito in una presa alla parete. Questo però è risolvibile. Una batteria che ha bisogno di essere caricata periodicamente non è diversa da un corpo vivente che ha bisogno di essere nutrito periodicamente.

Ma perché preoccuparsi di dargli una forma umanoide? Non sarebbe assai più pratico progettare una macchina specializzata che esegua un compito specifico, senza pretendere che si accolli tutte le inefficienze legate alla presenza di un tronco, delle braccia e delle gambe? Supponete di progettare un robot capace di infilare un dito dentro una caldaia per saggiarne la temperatura e accendere e spegnere l'unità di riscaldamento per mantenere costante quella temperatura. È evidente che un semplice termostato costituito da una striscia bimetallica sarebbe in grado di svolgere il lavoro altrettanto bene.

Considerate, però, che durante le molte migliaia di anni della civiltà umana, abbiamo edificato una tecnologia adatta alla forma umana. I prodotti per uso umano sono concepiti, come dimensioni e forma, per adattarsi al corpo umano, al modo in cui si piega e a quanto lunghe, ampie e pesanti sono le sue varie parti pieghevoli. Ogni strumento è concepito per adattarsi al raggio d'azione, all'ampiezza e alla posizione delle dita umane.

Basterà pensare al problema degli esseri umani un po' più alti o un po' più bassi della norma, o anche soltanto ai mancini, per capire quanto sia importante incorporare nella nostra tecnologia una misura idonea.

Quindi, se vogliamo un congegno direttivo, un congegno che possa utilizzare gli utensili e le macchine umane, sarà conveniente realizzare quel congegno dandogli una forma umana, con tutte le articolazioni e i movimenti di cui è capace il corpo umano. Né vorremmo che fosse troppo pesante o troppo sproporzionato da risultare anormale. La cosa migliore sotto ogni aspetto sarebbe la media.

Inoltre, noi ci mettiamo in relazione con tutte le cose non umane scoprendo in esse qualcosa di umano, o inventandolo. Attribuiamo caratteristiche umane ai nostri animali da compagnia, e persino alle nostre automobili. Personifichiamo la natura e tutti i prodotti della natura, e in tempi più remoti ne abbiamo fatto dèi e dee in forma umana.

È certo che se dovessimo prenderci dei partner pensanti, o per lo meno dei servi pensanti, in forma di macchina, ci troveremmo più a nostro agio con loro, e avremmo con loro dei rapporti migliori, se la loro forma fosse umana.

Sarà assai più facile essere amici di robot di forma umana che di macchine specializzate dalle forme irriconoscibili. E talvolta mi capita di pensare che, viste le difficoltà nelle quali oggigiorno si dibatte l'umanità, saremmo lieti di avere degli amici non umani, anche se fossero soltanto degli amici costruiti da noi stessi.

 

 

 

 

 

 

 


               I NOSTRI INTELLIGENTI ATTREZZI

I robot non devono essere molto intelligenti per essere abbastanza intelligenti. Se un robot potesse eseguire ordini elementari e fare i lavori domestici, oppure azionare macchine semplici in maniera monotona e ripetitiva, saremmo perfettamente soddisfatti.

Costruire un robot è molto difficile perché bisogna far entrare un computer molto compatto dentro il suo cranio, se si vuole che abbia una forma vagamente umana. Realizzare un computer sufficientemente complesso e compatto tanto quanto il cervello umano è parimenti difficile.

Ma tralasciando i robot, perché darsi la pena di realizzare un computer così compatto? In verità le unità che costituiscono un computer sono diventate sempre più piccole, dalle valvole ai transistor fino ai minuscoli circuiti integrati e ai chip di silicio. Non si potrebbe, oltre a fabbricare delle unità ancora più piccole, costruire una struttura complessiva più grande?

Ma un cervello che dovesse diventare troppo grande finirebbe per perdere la propria efficienza perché gli impulsi nervosi non viaggiano molto rapidamente. Persino i più veloci impulsi nervosi viaggiano soltanto a cento metri al secondo. Un impulso nervoso può saettare da un'estremità all'altra del cervello in un quattrocentoquarantesimo di secondo, ma un cervello lungo 15 chilometri, se mai potrà esistere, richiederebbe due minuti e mezzo per permettere a un impulso nervoso di percorrere tutta la sua lunghezza. La complessità aggiuntiva resa possibile dalle enormi dimensioni finirebbe per essere annullata dalla lunga attesa necessaria al trasferimento e all'elaborazione delle informazioni al suo interno.

I computer, però, utilizzano impulsi elettrici che viaggiano a circa trecentomila chilometri al secondo. Un computer lungo 680 chilometri trasmetterebbe pur sempre gli impulsi da un'estremità all'altra in un quattrocentoquarantesimo di secondo. Almeno sotto quell'aspetto, un computer delle dimensioni di un asteroide potrebbe ancora elaborare le informazioni con la stessa rapidità del cervello umano.

Se, perciò, possiamo immaginare che i computer vengano prodotti con componenti sempre più piccole, e collegate fra loro in maniera sempre più intricata, e immaginiamo anche che quegli stessi computer diventino sempre più grandi, non potrebbe darsi che i computer alla fine diventino capaci di fare tutte le cose che un cervello umano è in grado di fare?

Esiste cioè un limite teorico all'intelligenza di un computer?

Non ne ho mai sentito parlare. A me pare che ogni volta che impariamo a comprimere una maggiore complessità in un dato volume, il computer possa fare di più.

Un giorno, se impareremo a costruire un computer sufficientemente complesso e sufficientemente grande, perché non dovrebbe arrivare a possedere un'intelligenza umana?

Qualcuno si mostrerà incredulo e dirà: “Ma com'è possibile che un computer possa produrre una grande sinfonia, una grande opera d'arte, una grande teoria scientifica?”

La replica che di solito sono tentato di fare è: “E tu?” Ma, naturalmente, anche se l'interrogante è una persona comune ci sono persone straordinarie che sono dei geni. Tuttavia arrivano a esserlo soltanto perché gli atomi e le molecole all'interno del loro cervello sono disposti secondo un ordine particolarmente complesso. Non c'è niente nel loro cervello se non atomi e molecole. Se disponessimo gli atomi e le molecole nello stesso ordine all'interno di un computer, i prodotti della genialità dovrebbero essergli possibili; e se le singole parti non sono delicate e minuscole come quelle del cervello, si può sempre compensare la lacuna ingrandendo il computer.

“Ma i computer possono fare soltanto ciò per cui sono programmati”, potrebbe obiettare qualcuno.

“È vero” è la risposta. “Ma anche il cervello può fare soltanto ciò per cui è stato programmato... dai suoi geni. Parte della programmazione del cervello è costituita dalla capacità di apprendere, e anche questa potrebbe essere inserita in un programma di computer.”

Ma allora, se sarà possibile costruire un computer intelligente quanto un essere umano, perché non potrebbe essere realizzato anche più intelligente?

Perché no? Forse è proprio questo il concetto di evoluzione. Nell'arco di tre miliardi di anni, lo sviluppo casuale degli atomi e delle molecole ha finalmente prodotto, attraverso miglioramenti glacialmente lenti, una specie abbastanza intelligente da poter fare il passo successivo in pochi secoli, o persino decenni. Poi le cose cominceranno veramente a muoversi.

Ma se i computer diventano più intelligenti degli esseri umani non potrebbero finire per sostituirci? Be', perché non dovrebbero farlo? Potrebbero essere gentili quanto intelligenti e lasciarci semplicemente estinguere per logorio. Potrebbero conservare qualcuno di noi come animale da salotto, oppure chiuderci in riserve.

Inoltre, considerate ciò che stiamo facendo in questo momento a noi stessi, a tutte le creature viventi, e persino al pianeta su cui viviamo. Forse è giunta l'ora di essere sostituiti. Forse il vero pericolo è che i computer non vengano sviluppati abbastanza in fretta da poterci sostituire.

Pensateci!

 

 

Propongo questa mia opinione soltanto come qualcosa a cui pensare. Nel saggio “Intelligenze insieme”, più avanti in questa raccolta, prenderò in considerazione un punto di vista del tutto diverso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


               LE LEGGI DELLA ROBOTICA

Non è facile pensare ai computer senza chiedersi se prenderanno mai il sopravvento.

Ci sostituiranno, ci renderanno obsoleti, e si sbarazzeranno di noi così come noi ci siamo sbarazzati delle lance e delle scatole con l'esca, l'acciarino e la pietra focaia?

Se immaginiamo cervelli simili a quelli dei computer dentro le imitazioni metalliche degli esseri umani che noi chiamiamo robot, la paura è ancora più diretta. I robot assomigliano talmente agli esseri umani che il loro stesso aspetto potrebbe far venir loro idee di ribellione.

Questo è un problema che il mondo della fantascienza affrontò negli anni Venti e Trenta, e molte furono le storie scritte a mo' di ammonimento sui robot che, una volta costruiti, si sarebbero rivoltati contro i loro creatori e li avrebbero distrutti.

Quando ero ancora un giovanotto, cominciai a stufarmi di questo ammonimento perché mi sembrava che un robot fosse una macchina e gli esseri umani non facessero altro che costruire macchine. Dal momento che tutte le macchine sono pericolose, in un modo o nell'altro, gli esseri umani vi avevano incorporato delle salvaguardie.

Fu così che nel 1939 cominciai a scrivere una serie di storie nelle quali i robot venivano presentati con grande simpatia, come macchine che erano state progettate con cura per eseguire compiti specifici, con ampie salvaguardie per renderli benevoli.

In un racconto che scrissi nell'ottobre del 1941, presentai infine quelle salvaguardie nella forma specifica delle "Tre Leggi della Robotica." (Inventai la parola robotica, che non era mai stata usata prima.)

Eccole:

1. Un robot non può recar danno agli esseri umani, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, gli esseri umani ricevano danno.

2. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani tranne nel caso che tali ordini siano in contrasto con la Prima Legge.

3. Un robot deve salvaguardare la propria esistenza, purché ciò non sia in contrasto con la Prima o la Seconda Legge.

Queste leggi erano programmate nel cervello computerizzato del robot, e le numerose storie che scrissi sui robot le prendevano in considerazione. Invero, queste leggi si dimostrarono così popolari tra i lettori ed erano talmente sensate, che altri scrittori di fantascienza cominciarono a usarle (senza mai citarle direttamente, soltanto io posso farlo), e tutte le vecchie storie sui robot che distruggevano i loro creatori si estinsero.

Ah, ma questa è fantascienza. E per quanto riguarda il lavoro che adesso viene fatto davvero sui computer e sull'intelligenza artificiale? Quando verranno costruite delle macchine che cominceranno ad avere un'intelligenza propria, vi verrà incorporato qualcosa di simile alle Tre Leggi della Robotica?

Certo che sarà fatto, presupponendo che i progettisti dei computer abbiano un minimo d'intelligenza. Per di più, le salvaguardie non saranno simili alle Tre Leggi della Robotica... saranno esattamente quelle.

All'epoca in cui concepii le tre leggi non mi resi conto che l'umanità vi si affidava sin dall'alba dei tempi. Immaginatele come "Le Tre Leggi degli Utensili", ed ecco come sarebbero formulate:

1. Un utensile deve poter essere usato senza pericolo.

(È ovvio! I coltelli hanno i manici e le spade le else. Un utensile che reca facilmente danno a colui che lo usa, sempre che costui ne sia consapevole, non verrà certo usato con frequenza, quali che siano le altre sue qualità.)

2. Un utensile deve svolgere la sua funzione, sempre che lo faccia senza rischi.

3. Un utensile deve rimanere intatto durante l'uso, a meno che la sua distruzione non sia richiesta per motivi di sicurezza o a meno che la sua distruzione non faccia parte della sua funzione.

Nessuno cita mai queste Tre Leggi degli Utensili, perché sono date per scontate da tutti. Ciascuna legge, qualora venisse citata, verrebbe accolta di sicuro da un coro di "Be', ma è evidente!"

Paragonate allora le Tre Leggi degli Utensili alle Tre Leggi della Robotica, legge per legge, e vedrete che corrispondono con esattezza. E perché no, dal momento che il robot o, se così volete, il computer, è uno strumento costruito dall'uomo?

Ma le salvaguardie sono sufficienti? Pensate agli sforzi che vengono compiuti per rendere sicura l'automobile, eppure le automobili uccidono ancora oggi 50 mila americani ogni anno. Pensate allo sforzo che viene fatto per rendere sicure le banche, eppure le banche vengono ancora svaligiate con puntualità. Pensate allo sforzo che viene fatto per rendere sicuri i programmi dei computer, eppure cresce sempre più il pericolo di frodi attuate tramite i computer.

I computer, però, se dovessero diventare abbastanza intelligenti da "prendere il sopravvento", potrebbero anche essere abbastanza intelligenti da non richiedere più le Tre Leggi. Potrebbero, nella loro benevolenza, prendersi cura di noi e proteggerci dal male.

Qualcuno di voi potrebbe replicare che non siamo bambini e che l'essere protetti finirebbe per distruggere l'essenza stessa della nostra umanità.

Davvero? Guardate il mondo di oggi e quello del passato e chiedetevi se non siamo bambini, e bambini distruttivi se è per questo, e se non abbiamo bisogno di essere sorvegliati nel nostro stesso interesse.

Se esigiamo di essere trattati come adulti, non dovremmo agire da adulti? E quando abbiamo intenzione di cominciare a farlo?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


               FUTURO FANTASTICO

Nel passato vi sono stati fondamentali punti di svolta nelle comunicazioni umane, che hanno alterato ogni aspetto del nostro mondo in maniera enorme e permanente. Il primo progresso è stata la parola, il secondo la scrittura, il terzo la stampa.

Adesso ci troviamo davanti al quarto progresso nel campo delle comunicazioni, importante in tutto e per tutto quanto i primi tre, il computer. Questa quarta rivoluzione permetterà alla maggior parte degli esseri umani di essere più creativi di quanto lo siano mai stati. E a patto di non distruggere il mondo con una guerra nucleare, la sovrappopolazione o l'inquinamento, avremo un mondo di tecno-bambini, un mondo diverso dal nostro quanto quello di oggi lo è dal mondo del cavernicolo. Come si differenzierà la vita della prossima generazione da quella dei suoi genitori e dei suoi nonni?

La nostra reazione più immediata è quella di considerare il computer come un'altra forma di divertimento, come una specie di super-TV. Può essere usato per giochi complessi, per mettersi in contatto con gli amici, e per un'infinità di scopi futili. Ma può anche cambiare il mondo. Tanto per cominciare, le comunicazioni attraverso la rete dei computer possono spazzare via le distanze. Possono far apparire il globo piccolo come il nostro quartiere, e ciò può avere una conseguenza importante: lo sviluppo del concetto di umanità come società singola, non come una serie di segmenti sociali interminabilmente e inevitabilmente in guerra fra loro. Il mondo potrebbe sviluppare una lingua franca globale, una lingua (senza alcun dubbio qualcosa di molto vicino all'inglese di oggi) che tutti capirebbero, anche se la gente conserverebbe le lingue individuali per uso locale.

Inoltre, dal momento che le comunicazioni saranno così facili e dal momento che i congegni meccanici ed elettronici possono essere controllati a distanza (la telemetria, per esempio, permette già adesso ai tecnici di inviare istruzioni a congegni che viaggiano nel sistema solare a miliardi di chilometri di distanza), i computer ridurranno la necessità di usare mezzi di trasporto fisici per ottenere o raccogliere informazioni.

Naturalmente non ci saranno ostacoli ai viaggi. Potrete pur sempre fare i turisti o visitare gli amici o i familiari di persona, piuttosto che farlo tramite la televisione a circuito chiuso. Ma non sarete costretti a farvi largo a gomitate soltanto per trasportare o ricevere informazioni che possono essere trasferite con il computer.

Ciò significa che i tecno-bambini di domani saranno abituati a vivere in un mondo decentralizzato, a spingersi fuori dalle loro case (o comunque si chiameranno) in una grande varietà di modi, per fare quello che c'è bisogno di fare. Si sentiranno, allo stesso modo, completamente isolati e in contatto totale.

 

I bambini della prossima generazione, e la società che creeranno, saranno partecipi del travolgente impatto dei computer nell'area dell'insegnamento. Attualmente la nostra società si sforza di istruire il più gran numero di bambini possibile. Il limite nel numero degli insegnanti significa che i bambini imparano in massa. A ogni bambino, in un distretto scolastico, in una regione o in uno stato, viene insegnata la stessa cosa, nello stesso tempo, e più o meno alla stessa maniera. Ma poiché ogni bambino ha degli interessi e dei metodi di apprendimento individuali, l'esperienza dell'istruzione di massa risulta sgradevole. Il risultato è che molti adulti si oppongono all'idea di studiare nella vita post-scolastica: ne hanno avuto abbastanza.

L'apprendimento potrebbe essere piacevole, persino affascinante e avvincente, se i bambini potessero studiare in maniera specifica qualcosa che li interessa individualmente, nel momento di loro scelta e alla loro maniera. Questo tipo di studio è oggigiorno possibile tramite le biblioteche pubbliche. Ma la biblioteca è uno strumento maldestro. Ci si deve andare, è possibile prendere a prestito soltanto un numero limitato di volumi, e i libri devono essere restituiti dopo un breve periodo di tempo.

È chiaro che la soluzione sarebbe quella di portare le biblioteche nelle case. Proprio come i giradischi hanno portato in casa le sale dei concerti e la televisione ha portato il cinema, così i computer possono portare a casa la biblioteca pubblica.

I tecno-bambini di domani avranno a disposizione un mezzo bello e pronto per saziare la loro curiosità. Sapranno già in tenera età come ordinare al computer di fornir loro elenchi di materiali di ricerca. A mano a mano che il loro interesse verrà destato (e, si spera, guidato dai loro insegnanti a scuola), impareranno di più in meno tempo, e troveranno nuove strade da battere.

L'insegnamento avrà in aggiunta una forte componente di auto-incentivo. La capacità di seguire una propria via personale incoraggerà il tecno-bambino ad associare l'apprendimento al piacere e a crescere fino a diventare un tecno-adulto attivo: attivo, curioso e pronto ad ampliare il proprio ambiente mentale fino a quando il suo cervello non sarà stato fisicamente ottenebrato dalle devastazioni della vecchiaia.

Questo nuovo approccio all'insegnamento può influenzare anche un'altra area della vita: il lavoro. Fino a oggi la maggior parte degli esseri umani ha svolto lavori che sottoutilizzavano il cervello. In epoche passate, quando il lavoro consisteva in gran parte di brutali fatiche fisiche, erano pochissimi coloro che avevano la possibilità di alzare lo sguardo verso le stelle o di formulare pensieri astratti. Perfino quando la rivoluzione industriale portò alla costruzione di macchine che liberarono l'umanità dal peso delle fatiche fisiche, un insignificante "lavoro specializzato" prese il loro posto. Oggigiorno gli addetti a una catena di montaggio e quelli che lavorano negli uffici svolgono lavori che richiedono assai poco cervello.

Per la prima volta nella storia, macchine specializzate, oppure robot, saranno in grado di svolgere questi lavori di routine. Quando i tecno-bambini diventeranno adulti e passeranno al mondo del lavoro, avranno tutto il tempo di esercitare una maggiore creatività, di operare nel campo del teatro, della scienza della letteratura, del governo, e degli svaghi. E saranno pronti per questo tipo di lavoro come risultato della rivoluzione computerizzata nel campo dell'insegnamento.

Qualcuno potrebbe dubitare che la gente creativa sia in numero così ampio. Ma questo modo di pensare nasce da un mondo nel quale soltanto pochi sfuggono alla distruzione mentale da parte di lavori che non richiedono l'uso del cervello. Ne abbiamo già parlato: si è sempre dato per scontato che la capacità di leggere e di scrivere, per fare un esempio, fosse la sfera d'azione di quei pochi che avevano una mente specificamente adatta al complicato compito di leggere e di scrivere. Naturalmente con l'avvento della stampa e dell'istruzione di massa, è risultato che la maggior parte degli esseri umani ne aveva la capacità.

 

Cosa significa tutto questo? Significa che avremo a che fare con un mondo di agi. Una volta che saranno computer e robot a fare i lavori monotoni e meccanici, il mondo comincerà a prendersi cura di sé in misura assai maggiore di quanto abbia mai fatto prima. Come risultato, ci sarà più "gente del Rinascimento"? Sì. Al giorno d'oggi lo svago rappresenta un piccolo segmento della vita, che viene sfruttato ben poco a causa della mancanza di tempo, oppure viene sprecato nel dolce far niente, nel disperato tentativo di fuggire quanto più lontano possibile dall'odiato mondo del lavoro di tutti i giorni. Quando lo svago riempirà la maggior parte del tempo, non ci sarà più la sensazione di fare a gara con l'orologio o la macchina che timbra il cartellino, né l'impulso irrefrenabile a sfogarsi nei bagordi contro la schiavitù dell'odiato lavoro. La gente assaporerà una varietà d'interessi senza fretta alcuna, diventerà specializzata o esperta in un certo numero di campi, e coltiverà diversi talenti in vari periodi della propria vita.

Queste non sono soltanto congetture. Ci sono state epoche nella storia in cui la gente disponeva di schiavi (la versione umana, brutale, dei computer) che lavoravano per loro. Altri hanno avuto l'appoggio dei mecenati. Quando anche soltanto pochissime persone avevano ampi spazi di tempo a disposizione per perseguire i propri interessi il risultato è sempre stato l'esplosione della cultura. L'Età dell'Oro di Atene nel tardo Quinto secolo A.C., e il Rinascimento in Italia dal Quattordicesimo al Sedicesimo secolo sono gli esempi più noti.

Non soltanto la gente avrà la libertà di dedicarsi ai propri hobby e interessi e sogni, ma un gran numero di loro vorrà anche coltivare i propri talenti. Siamo in tanti ad avere in noi un po' del gigione. Cantiamo sotto la doccia, prendiamo parte a spettacoli teatrali di dilettanti oppure marciamo in parata. È mia ipotesi che il Ventunesimo secolo svilupperà una società nella quale un terzo della popolazione sarà impegnato nel fornire svaghi agli altri due terzi.

E ci saranno inevitabilmente nuove forme di svago che adesso riusciamo a prevedere soltanto in modo indistinto. È facile pronosticare la televisione tridimensionale. E lo spazio potrebbe diventare una nuova arena di attività. Per esempio, la manipolazione di oggetti sferici di varie dimensioni in una gravità prossima allo zero potrebbe produrre forme molto più complicate di tennis o di calcio. La danza classica e perfino i balli di tutti i giorni potrebbero diventare qualcosa di stupefacente e richiedere un nuovo tipo di coordinazione che sarà delizioso da osservare, poiché sarà altrettanto facile muoversi in su e in giù così come lo è oggi muoversi avanti e indietro, o a sinistra e a destra.

 

E cosa ne sarà di chi sceglierà di non spartire le proprie inclinazioni e i propri interessi e vorrà ritirarsi in un mondo tutto suo? Una persona interessata ad apprendere tutto il possibile sulla storia dei costumi, per esempio, sarà in grado di cercare in tutte le biblioteche del mondo da una singola località isolata, e potrà far tutto semplicemente restando là dove si trova. Potremmo allora ritrovarci in una società nella quale un numero senza precedenti di persone sarà costituito da eremiti intellettuali? Potremmo generare una razza di introversi?

Le possibilità che si arrivi a questo sono scarse. La gente che finisce per interessarsi in maniera maniacale a un singolo aspetto del sapere sarà con molta probabilità posseduta da zelo missionario. Vorranno spartire con altri il loro sapere. Già oggi, chi si interessa a una materia poco nota preferisce di gran lunga parlarne con chiunque gli capiti d'incontrare, piuttosto che starsene seduto in silenzio in un angolo. Se mai esiste un pericolo, è quello che un interesse bizzarro finisca per dar vita a un noioso chiacchierone, piuttosto che a un eremita.

Non dobbiamo dimenticare la tendenza che hanno coloro che condividono gli stessi interessi a riunirsi, a formare un sotto-universo temporaneo che diventa un rifugio ricco di un fascino speciale.

Negli anni Settanta, per esempio, qualcuno ebbe l'idea di organizzare un congresso per gli appassionati di Star Trek, aspettandosi che al massimo vi partecipasse qualche centinaio di persone. Invece gli appassionati vi si riversarono a migliaia (e si supponeva che la televisione fosse un veicolo d'isolamento!). Le riunioni on-line, nelle quali il veicolo è il computer, e la gente è coinvolta in maniera attiva, incontrano allo stesso modo alti livelli di partecipazione.

E fra un convegno ufficiale e l'altro, ci sarà un caleidoscopio di gente collegata in comunità globali dalle comunicazioni computerizzate. Avranno luogo congressi perpetui, nei quali i singoli entreranno e usciranno portando scoperte e idee e andandosene arricchiti. Ci sarà un continuo intreccio di nozioni insegnate e apprese.

Quella che prevedo è una società di intensi fermenti creativi, gente che comunica con altra gente, pensieri nuovi che sorgono e si diffondono a una velocità mai immaginata prima, cambiamenti e novità che riempiranno il pianeta (per non parlare dei mondi artificiali più progrediti che verranno costruiti nello spazio). Sarà un mondo nuovo che guarderà ai secoli precedenti come a un tempo in cui si viveva solo a metà.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


               LA MACCHINA E IL ROBOT

Per il fisico una macchina è ogni congegno che trasferisca la forza da un punto in cui viene applicata a un altro punto dove viene usata, e ne cambia, durante il procedimento, l'intensità o la direzione.

In questo senso, se un essere umano utilizza qualcosa che non faccia parte del suo corpo, utilizza una macchina. Un paio di milioni di anni fa, quando ancora non era facile stabilire se gli ominidi più evoluti fossero più simili agli uomini o alle scimmie, i sassi venivano già scheggiati e i loro bordi acuminati usati per tagliare o raschiare.

E persino un sasso scheggiato è una macchina, poiché la forza applicata dalla mano all'orlo smussato viene trasmessa all'orlo tagliente e, durante l'operazione, intensificata. La forza applicata sopra l'area più ampia è uguale alla forza trasmessa sopra la piccola area dell'estremità tagliente. La pressione (forza diviso superficie) viene però aumentata, e pur senza aumentare la forza complessiva, se ne amplifica l'effetto. Il sasso dall'estremità aguzza può, grazie alla maggiore pressione che esercita, aprirsi la strada a forza attraverso un oggetto là dove un sasso arrotondato (o la mano di un uomo) non potrebbe.

Al lato pratico, però, pochissime persone, al di fuori dei fisici più inflessibili, definirebbero "macchina" un sasso scheggiato. Nella pratica, noi consideriamo le macchine congegni relativamente complicati, ed è più probabile che usiamo questo termine se il congegno è in qualche modo distanziato dalla guida e dalla manipolazione umana diretta.

Più un congegno è distanziato dal controllo umano, più sembra autenticamente meccanico, e tutta la tendenza della tecnologia è stata quella di concepire macchine che siano sempre meno sotto il diretto controllo umano e sembrino possedere sempre più l'indizio di una volontà propria. Un sasso scheggiato fa quasi parte della stessa mano, dato che non l'abbandona mai. Una lancia scagliata dichiara una specie di indipendenza, nel momento stesso in cui viene lasciata libera dalla mano che la scaglia.

L'evidente allontanamento progressivo dal controllo diretto e immediato ha reso possibile per gli esseri umani, persino in epoca primitiva, formulare previsioni sempre più azzardate e immaginare congegni ancora meno controllabili, ancora più indipendenti di quelli di cui avevano una diretta esperienza. Ed ecco una primitiva forma di fantasy, che qualcuno, definendo il termine più ampiamente di quanto farei io, potrebbe perfino chiamare fantascienza.

L'uomo può muoversi, camminando, per controllo intimo e diretto; o in sella a un cavallo, controllando i muscoli più potenti dell'animale con le redini e i calcagni; oppure su una nave, utilizzando l'invisibile potenza del vento. Perché non progredire ulteriormente in questo estraniamento, tramite gli stivali delle sette leghe, i tappeti volanti, i vascelli autopropulsi? La forza utilizzata in quei casi era "magica", lo sfruttamento di energie super-umane e trascendenti di dèi o di demoni.

Né queste fantasticherie riguardano soltanto l'aumento dell'energia fisica degli oggetti inanimati, ma anche l'aumento dei poteri mentali di oggetti che venivano ancora considerati come essenzialmente inanimati. L'intelligenza artificiale non è poi un concetto così moderno.

Efesto, il dio greco della forgia, viene raffigurato nell'Iliade come in possesso di donne meccaniche, che erano mobili e intelligenti tanto quanto le donne in carne e ossa, e che lo aiutavano nel suo palazzo.

Perché no? Dopotutto, se un fabbro umano fabbrica oggetti metallici inanimati fatti con vile metallo chiamato ferro, perché mai un dio fabbro non dovrebbe creare oggetti metallici inanimati assai più intelligenti con un metallo più nobile? È una estrapolazione facile, che negli scrittori di fantascienza (i quali, in epoca primitiva, si dedicarono alla creazione di miti, per mancanza di scienza), si manifesta come una seconda natura.

Ma gli artigiani umani, se erano abbastanza abili, potevano anch'essi costruire degli esseri umani meccanici. Pensate a Talos, un guerriero di bronzo creato dal Thomas Edison dei miti greci, Dedalo. Talos proteggeva le sponde di Creta, girando intorno all'isola una volta al giorno e tenendo lontani tutti gli intrusi. Il fluido che lo teneva in vita veniva mantenuto all'interno del suo corpo da un tappo sistemato su un tallone. Quando gli argonauti sbarcarono a Creta, Medea usò la sua magia per estrarre il tappo, e Talos perse tutta la sua pseudo-animazione.

(È facile attribuire un significato simbolico a questo mito. Creta, a partire dal quarto millennio A.C, prima che i greci entrarono in Grecia, possedeva una marina, la prima marina efficace della storia umana. La marina cretese permise agli isolani di fondare un impero, estendendolo alle isole vicine e al continente. I barbari greci, invadendo quel territorio, si trovarono all'inizio più o meno sotto la dominazione cretese. I guerrieri dalle armature di bronzo, trasportati dalle navi, protessero il territorio continentale di Creta per duemila anni, e poi fallirono. Il tappo fu tolto, per così dire, quando l'isola di Thera esplose a causa di una colossale eruzione vulcanica, nel 1500 A.C., e uno tsunami indebolì enormemente la civiltà cretese, per cui i greci presero il sopravvento. Tuttavia, il fatto che un mito sia una specie di ricordo vago e distorto di un evento reale non modifica la sua funzione, quella di indicare i sentieri del pensiero umano.)

Quindi, sin dall'inizio, la macchina ha costretto l'umanità a confrontarsi con il suo duplice aspetto. Finché rimane completamente sotto il controllo umano, è utile e buona e permette alla gente di vivere meglio. Tuttavia, è esperienza dell'umanità (e lo era già sin dai primissimi tempi) che la tecnologia è una cosa cumulativa, che le macchine vengono invariabilmente migliorate, e che il miglioramento è sempre nella direzione dell'indipendenza, cioè sempre nella direzione di una forma di controllo meno umana e di un maggior autocontrollo. E la velocità del processo aumenta di continuo.

A mano a mano che il controllo umano diminuisce, la macchina comincia in proporzione inversa a far paura. Anche quando il controllo umano non diminuisce in maniera visibile, o diminuisce troppo lentamente, non è un compito difficile per l'ingegnosità umana prevedere un'epoca in cui la macchina potrebbe sfuggire del tutto a ogni forma di controllo, e la paura che ciò accada viene avvertita in anticipo.

La paura di che cosa?

La paura più semplice e più ovvia è quella di un possibile danno che può derivare da un macchinario del quale si è perso il controllo. Infatti ogni progresso tecnologico, per quanto fondamentale, presenta il duplice aspetto bene/male e, come reazione, viene visto con il duplice aspetto di amore/paura.

Il fuoco riscalda, dà la luce, cucina i cibi, fonde i minerali grezzi... e, fuori controllo, brucia e uccide. Le lance e i coltelli uccidono gli animali pericolosi e gli avversari umani e, fuori dal vostro controllo, vengono usati dagli avversari per uccidere voi. Potete scorrere l'elenco e trovare infiniti esempi e non c'è mai stata nessuna attività umana che, sfuggendo al controllo e facendo del male, non abbia indotto molti a sospirare: “Oh, se soltanto avessimo conservato il modo di vivere semplice e virtuoso dei nostri antenati, che non erano afflitti da queste stupide novità!”

Ma il timore di future tragedie generate da questo o quel progresso appartiene a quel tipo di paure profonde, tanto difficili da esprimere che devono trovare sbocco nel mito?

Non lo credo. La paura della macchina per i disagi o per i dolori occasionali che può causare, non ha (per lo meno fino ai tempi recenti) indotto l'umanità a tirare più di un occasionale sospiro. L'amore per l'uso delle macchine ha sempre di gran lunga compensato questi timori, come risulta evidente se consideriamo che molto di rado nella storia dell'umanità una cultura ha volontariamente rinunciato a progressi tecnologici significativi a causa della scomodità o dei danni causati dai suoi effetti collaterali. Ci sono state delle involontarie ritirate dalla tecnologia, come risultato della guerra, di lotte civili, epidemie, o disastri naturali, ma i risultati di queste epoche sono quelle che chiamiamo "età oscure" e la popolazione che le subisce fa del suo meglio, nell'arco di qualche generazione, per tornare sul binario e ripristinare la tecnologia.

L'umanità ha sempre scelto di combattere i mali della tecnologia, non girandole le spalle, ma ricorrendo a una tecnologia nuova. Il fumo causato dal fuoco all'interno delle case venne combattuto con il camino. il pericolo della lancia venne combattuto con lo scudo. Il pericolo di un esercito venne combattuto con le mura fortificate.

Questo atteggiamento, malgrado la costante pioggerellina di proteste retrograde, è continuato fino a oggi. Il prodotto tecnologico caratteristico della vita attuale è l'automobile. Inquina l'aria, aggredisce i timpani, uccide 50 mila americani all'anno e ne ferisce centinaia di migliaia che sopravvivono con menomazioni più o meno gravi.

Qualcuno si aspetta davvero che gli americani rinuncino volontariamente ai loro piccoli e mortali beniamini? È molto probabile che persino coloro che partecipano alle dimostrazioni per denunciare la meccanizzazione della vita moderna raggiungano in automobile i luoghi di raduno.

Il primo momento in cui la grandezza del danno potenziale venne considerata da molte persone come non compensata da qualsivoglia bene concepibile, si ebbe con l'avvento della bomba a fissione nel 1945. Mai, prima di allora, un progresso tecnologico aveva scatenato richieste di abbandono da parte di una percentuale così ampia della popolazione.

In effetti, la reazione alla bomba a fissione creò una nuova moda. La gente fu più pronta a opporsi ad altri progressi che considerava inaccettabilmente dannosi nei loro effetti collaterali: la guerra biologica, i missili intercontinentali, certi esperimenti genetici sui microorganismi, i reattori nucleari, le bombolette spray.

Ma anche così, finora non si è rinunciato a niente.

Ma siamo sul binario giusto. La paura della macchina non si annida al livello più basso dell'anima, se il male che essa arreca è accompagnato anche dal bene, oppure se il male è limitato soltanto a certa gente, i pochi che hanno la sventura di trovarsi coinvolti in uno scontro automobilistico, per esempio.

La maggioranza, dopotutto, vi sfugge, e approfitta solo dei benefici.

No, è soltanto quando la macchina minaccia in qualche modo tutta l'umanità per cui ogni essere umano comincia a intuire che lui stesso non riuscirà a sfuggire, che la paura travolge l'amore.

Ma dal momento che la tecnologia ha cominciato a minacciare la razza umana nel suo insieme solo da trent'anni, prima di allora eravamo immuni alla paura, oppure la razza umana è sempre stata minacciata?

Dopotutto, la distruzione fisica tramite l'energia che soltanto oggi stringiamo in pugno rappresenta forse l'unica maniera in cui l'umanità può essere distrutta? Non potrebbe la macchina distruggere l'essenza dell'umanità, la nostra mente e la nostra anima, pur lasciando il nostro corpo intatto, sicuro e comodo?

Per esempio, è diffuso il timore che la televisione renda incapace la gente di leggere e che i computer tascabili le tolgano la capacità di far di conto. Oppure pensate a un re spartano che, nell'osservare una catapulta in azione, si fosse lamentato dicendo che l'ardimento umano era destinato a scomparire.

Non c'è dubbio che queste sottili minacce all'umanità siano esistite e siano state riconosciute durante tutte le lunghe epoche in cui il debole controllo dell'uomo sulla natura ha fatto sì che gli fosse impossibile arrecare a se stesso un eccessivo danno fisico.

La paura che i macchinari possano rendere l'uomo inutile non è ancora, a mio avviso, la paura fondamentale e la più grande. Quella che (così pare a me) colpisce più vicino al cuore è la paura generica di un mutamento irreversibile.

Riflettete: ci sono due tipi di mutamenti che possiamo cogliere nell'universo che ci circonda. Il primo è ciclico e benevolo.

Il giorno segue la notte e ne è a sua volta seguito. L'estate allo stesso tempo segue l'inverno e ne è seguita. La pioggia segue il sereno e ne è seguita, e perciò il risultato netto è: nessun mutamento. Potrà anche essere noioso, ma è tranquillizzante e crea una sensazione di sicurezza.

In effetti, il concetto di cambiamenti ciclici a breve termine che implichino una immutabilità a lungo termine è talmente confortevole da spingere gli esseri umani a darsi da fare per trovarli dovunque. Nelle faccende umane c'è il concetto che una generazione ne segua un'altra e a sua volta ne sia seguita, che una dinastia ne segua un'altra e a sua volta ne sia seguita, che un impero ne segua un altro e a sua volta ne sia seguito. Non è una buona analogia con i cicli della natura, dal momento che le ripetizioni non sono esatte, ma va bene quanto basta per essere tranquillizzante.

Gli esseri umani bramano a tal punto il conforto dei cicli da aggrapparvisi anche quando le prove sono insufficienti, o perfino quando la realtà va nella direzione opposta.

Per ciò che riguarda l'universo, le prove di cui disponiamo indicano un'evoluzione iperbolica: un universo che si espande senza fine dal big bang iniziale per finire sotto forma di gas informi e buchi neri. Eppure le nostre emozioni, malgrado le prove, ci trascinano verso il concetto di un universo oscillante, ciclico e ripetitivo, nel quale persino i buchi neri sono porte aperte su altri big bang.

E poi c'è quell'altro mutamento che va evitato a ogni costo, il mutamento malevolo e irreversibile; il mutamento a senso unico, il mutamento permanente; il mutamento-senza-più-ritorno.

Cos'ha di tanto spaventoso? Il fatto è che esiste un mutamento di questo tipo che si trova così vicino a noi da deformare il nostro intero universo.

Malgrado tutto siamo vecchi, e anche se un tempo eravamo giovani, non saremo mai più giovani. Irreversibile! I nostri amici muoiono, e anche se un tempo erano vivi, non lo saranno mai più. Irreversibile! Il fatto è che la vita finisce nella morte e questo non è un cambiamento ciclico e noi temiamo questa fine e sappiamo che è inutile combatterla.

Il peggio è che l'universo non muore con noi. Insensibile e immortale, continua ad andare avanti con i suoi mutamenti ciclici, aggiungendo al danno della morte l'insulto dell'indifferenza.

E quello che è ancora peggio è che il resto dell'umanità non muore con noi. Ci sono esseri umani più giovani, nati più tardi, che all'inizio erano impotenti e dipendevano da noi, ma che sono cresciuti fino a diventare la nostra nemesi e a sostituirci a mano a mano che invecchiamo e moriamo. Al danno della morte va ad aggiungersi l'insulto della sostituzione.

Ho forse detto che è inutile combattere questo orrore della morte accompagnato dall'indifferenza e dalla sostituzione? Non proprio. L'inutilità risulta evidente soltanto se siamo sostenuti dalla ragione ma non c'è nessuna legge che ci obblighi a farlo, e infatti gli esseri umani non lo fanno.

La morte può essere evitata semplicemente negandone l'esistenza. Possiamo supporre che la vita sulla Terra sia un'illusione, un breve periodo di prova che precede l'ingresso in un aldilà dove tutto è eterno e non esistono problemi di mutamenti irreversibili. Oppure possiamo supporre che sia soltanto il corpo a essere soggetto alla morte e che esista una componente immortale di noi stessi, non soggetta a mutamenti irreversibili, che potrebbe, dopo la morte del corpo, insediarsi in un altro corpo, in una serie indefinita di cicli vitali.

Queste mitiche invenzioni dell'aldilà e della trasmigrazione rendono la vita tollerabile a molti esseri umani e permettono loro di affrontare la morte con ragionevole equanimità, ma la paura della morte e della sostituzione è soltanto mascherata e ricoperta, non viene rimossa.

Infatti i miti greci comportano la successiva sostituzione di una serie di immortali con un'altra, in quella che sembra una disperata ammissione che neppure la vita eterna e i poteri sovrumani possano rimuovere il pericolo dei mutamenti irreversibili e dell'umiliazione di essere sostituiti.

Per i greci era il disordine (il Caos) il primo a governare l'universo, poi sostituito da Urano (il Cielo), il cui intricato spolverio di stelle e di pianeti che si muovevano in maniera complessa simboleggiava l'ordine (il Cosmo).

Ma Urano venne castrato da Crono, suo figlio. Allora Crono, i suoi fratelli, le sue sorelle e la loro progenie dominarono l'universo.

Crono temeva di venir trattato dai suoi figli così come lui aveva trattato suo padre (una specie di ciclo di mutamenti irreversibili) e divorava i suoi figli non appena nati. Tuttavia venne imbrogliato da sua moglie che riuscì a salvare l'ultimogenito, Zeus, e a farlo sparire mettendolo in salvo. Zeus crebbe fino a diventare una divinità adulta, salvò i suoi fratelli dallo stomaco del padre, fece la guerra a Crono e ai suoi seguaci, lo sconfisse, e lo sostituì come sovrano.

(Ci sono miti della sostituzione anche in altre culture, persino nella nostra, come quello nel quale Satana tenta di soppiantare Dio e fallisce: un mito che ha raggiunto la sua massima espressione letteraria nel Paradiso Perduto di John Milton.)

E Zeus era al sicuro? Fu attratto dalla ninfa marina Teti, e l'avrebbe sposata se non fosse stato informato dal Fato che Teti era destinata a mettere al mondo un figlio più potente di suo padre. Ciò significava che non era sicuro per Zeus, né per qualsiasi altra divinità, sposarla. Perciò Teti venne costretta (contro la sua volontà) a sposare Peleo, un mortale, e generare un figlio mortale, l'unico figlio che abbia avuto. Quel figlio era Achille, di certo assai più potente di suo padre (e, anche lui come Talos, aveva il tallone come unico punto debole attraverso il quale poteva essere ucciso.)

Adesso, dunque, traduciamo questa paura del mutamento irreversibile, e della sostituzione, nel rapporto fra l'uomo e la macchina, e cosa otteniamo? La più grande paura non è certo che la macchina ci faccia del male, ma che ci sostituisca. Non che ci renda inefficaci, ma che ci renda superati.

 

La macchina suprema è una macchina intelligente ed esiste soltanto una trama fondamentale per la storia della macchina intelligente: essa viene creata per servire l'uomo, ma finisce per dominarlo. Non può esistere senza minacciare di soppiantarci, e perciò dev'essere distrutta, altrimenti saremo noi a esserlo.

C'è il pericolo della scopa dell'apprendista stregone, il golem del rabbino Loew, il mostro creato dal dottor Frankenstein. Come il bambino nato dal nostro corpo finisce per sostituirci, così fa la macchina nata dalla nostra mente.

Frankenstein, di Mary Shelley, che venne pubblicato nel 1818, rappresenta però un picco nella storia della paura, dato che in seguito le circostanze cospirarono a ridurre quella paura, per lo meno temporaneamente.

Fra l'anno 1815, che vide la fine di una serie di guerre europee generalizzate, e il 1914, che vide l'inizio di un'altra guerra generalizzata, vi fu un breve periodo durante il quale l'umanità poté permettersi il lusso dell'ottimismo circa il suo rapporto con la macchina. All'improvviso la rivoluzione industriale parve innalzare il potere degli esseri umani e permettergli sogni di un'utopia tecnologica sulla Terra al posto di quella mitica in Paradiso. Il bene delle macchine sembrava controbilanciare di gran lunga il male, e l'amore controbilanciava di gran lunga la paura.

Fu in quell'intervallo di pace che ebbe inizio la moderna fantascienza, e per moderna fantascienza mi riferisco a una forma di letteratura la quale si occupa di società che differiscono dalla nostra in modo specifico a livello di scienza e tecnologia, e alle quali potremmo ragionevolmente giungere grazie ad appropriati cambiamenti tecnico-scientifici. (È questo che diversifica la fantascienza dalla fantasy o dalla "narrativa speculativa", nelle quali la società immaginata non può essere collegata con la nostra da una qualsivoglia successione razionale di mutamenti.)

La moderna fantascienza, a causa del periodo in cui nacque, assunse una nota ottimistica. Il rapporto dell'uomo con la macchina era di pratico impiego e di pieno controllo. Il potere dell'uomo aumentava e le macchine dell'uomo erano i suoi utensili fedeli: gli procuravano ricchezza e sicurezza, e lo trasportavano fino alle più lontane distese dell'universo.

Questa nota ottimistica continua fino ai nostri giorni, in particolare fra quegli scrittori che vennero plasmati negli anni anteriori all'avvento della bomba a fissione; degni di nota, fra questi, Robert Heinlein, Arthur C. Clarke, e io stesso.

Nondimeno, la prima guerra mondiale portò la disillusione. La scienza e la tecnologia, che avevano promesso il giardino dell'Eden, si erano invece rivelate capaci di partorire anche l'inferno. Il meraviglioso aeroplano che aveva realizzato il sogno, vecchio di secoli, del volo, poteva sganciare le bombe. Le tecniche della chimica che avevano creato anestetici, coloranti e medicine, produssero anche i gas tossici.

La paura di essere soppiantati si levò di nuovo. Nel 1921, non molto tempo dopo la fine della prima guerra mondiale, comparve il dramma di Karel Capek, R.U.R., e fu di nuovo la storia di Frankenstein, innalzata a livello planetario. Non veniva creato un mostro singolo, ma milioni di robot (la parola usata da Capek significa "operaio", un operaio meccanico, s'intende). E non fu un singolo mostro a rivoltarsi contro il suo creatore, ma i robot a rivoltarsi in massa contro l'umanità, spazzandola via e soppiantandola.

Dagli inizi delle riviste di fantascienza, a partire dal 1926, fino al 1959 (un terzo di secolo, ossia una generazione), l'ottimismo e il pessimismo si scontrarono nella fantascienza, e l'ottimismo, grazie soprattutto all'influenza di John W. Campbell jr., ebbe la meglio.

A partire dal 1939, io scrissi una serie di storie di robot che timidamente combattevano il "complesso di Frankenstein" facendo diventare i robot servitori, amici, e alleati dell'umanità.

Però, alla fine, fu il pessimismo ad averla vinta, e per due ragioni.

La prima ragione è che le macchine erano diventate più spaventose. Naturalmente la bomba a fissione minacciava la distruzione fisica, ma, cosa ancora peggiore, era il computer elettronico che progrediva con preoccupante rapidità. I computer parevano rubare l'anima all'uomo. Risolvevano con destrezza i nostri problemi di routine e noi ci trovavamo a riporre i nostri quesiti, con fede crescente, nelle mani di queste macchine, accettando le loro risposte con crescente umiltà.

Tutto quello che le bombe a fissione e a fusione possono fare è distruggerci; il computer potrebbe soppiantarci.

La seconda ragione è più sottile, perché ha comportato un cambiamento nella natura dello scrittore di fantascienza.

Fino al 1959, c'erano molti rami della narrativa, e forse la fantascienza era il minore fra tutti. Offriva ai suoi scrittori assai meno in termini di prestigio e di denaro rispetto a quasi tutti gli altri rami, cosicché nessuno scriveva fantascienza, a meno di non esserne talmente affascinato da sentirsi disposto a rinunciare, per amore, a qualsiasi possibilità di fama e di fortuna. Spesso questo fascino nasceva da un interesse profondo nel romanzo scientifico, cosicché gli scrittori di fantascienza avevano la naturale tendenza a raffigurare l'uomo come colui che conquistava l'universo, imparando a piegarlo al proprio volere.

Tuttavia negli anni Cinquanta la concorrenza della televisione soffocò a poco a poco le riviste che pubblicavano narrativa, e quando arrivarono gli anni Sessanta la sola forma di narrativa fiorente e perfino in espansione, era la fantascienza. Le sue riviste continuavano a uscire, e iniziò l'incredibile esplosione dei tascabili. La fantascienza invase in misura minore anche i film e la televisione, ma i suoi più grandi trionfi erano senza alcun dubbio ancora di là da venire.

La conseguenza fu che, negli anni Sessanta e Settanta, i giovani scrittori cominciarono a scrivere fantascienza non perché volessero farlo, ma perché esisteva, e c'era assai poco fra cui scegliere. Proprio per questo, molti scrittori di fantascienza della nuova generazione non avevano nessuna conoscenza e nessuna simpatia per la scienza, e le erano in effetti piuttosto ostili. Erano assai più pronti ad accettare in toto la metà riservata alla paura del rapporto amore/paura dell'uomo con la macchina.

Come risultato, la fantascienza contemporanea ci presenta ripetutamente il mito del figlio che soppianta il genitore, Zeus che soppianta Crono, Satana che soppianta Dio, la macchina che soppianta l'umanità.

Sono incubi, e come tali vanno letti.

Ma permettetemi, per concludere, un mio personale, cinico commento. Ricordatevi che, malgrado Crono avesse previsto il pericolo di essere soppiantato, e malgrado avesse ucciso i suoi figli per impedirlo, venne soppiantato lo stesso, e giustamente, poiché Zeus era un sovrano migliore di lui.

Così, anche se odieremo e combatteremo le macchine, forse finiremo lo stesso per essere soppiantati, e giustamente, perché le macchine intelligenti alle quali daremo vita potrebbero, meglio di noi, portare avanti gli sforzi verso lo scopo finale della comprensione e dell'impiego dell'universo, raggiungendo infine vette alle quali noi non avremmo mai potuto aspirare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


               LA NUOVA PROFESSIONE

Nel 1940 scrissi una storia nella quale il personaggio principale si chiamava Susan Calvin. (Santo cielo, è passato quasi mezzo secolo!) Era una "robopsicologa" di professione e sapeva tutto quello che c'era da sapere su ciò che faceva girare le rotelline dei robot. Era una storia di fantascienza, naturalmente. Negli anni immediatamente successivi scrissi altre storie su Susan Calvin, e da come descrivevo le cose, lei era nata nel 1982, aveva frequentato la Columbia, si era specializzata in robotica, e si era laureata nel 2003. Proseguì con un corso di perfezionamento, e nel 2010 lavorava in una società chiamata U.S. Robots and Mechanical Men, Inc. Non avevo preso sul serio niente di tutto questo, mentre lo scrivevo. Dopotutto, era "soltanto fantascienza".

Tuttavia, stranamente, sta funzionando. I robot vengono usati alle catene di montaggio, e ogni anno che passa sono sempre più importanti. Le industrie automobilistiche li stanno installando nelle loro fabbriche a decine di migliaia. E in maniera crescente faranno la loro comparsa anche altrove, mentre robot sempre più complessi e intelligenti cominciano ad affacciarsi sui tavoli di progettazione. Questi robot finiranno naturalmente per spazzare via molti lavori, ma ne creeranno anche altri. Però prima dovranno essere progettati. Dovranno essere costruiti e installati. Poi, dal momento che niente è perfetto, di tanto in tanto si guasteranno e dovranno essere riparati. Per mantenere al minimo la necessità di riparazioni, la loro manutenzione dovrà essere accurata. Potrebbero perfino dover essere modificati di tanto in tanto per farli lavorare in maniera diversa.

Per realizzare tutto ciò, avremo bisogno di un gruppo di persone che chiameremo, in modo generico, tecnici robotici. Esistono alcune stime secondo le quali, per l'epoca in cui la mia Susan Calvin uscirà dall'università, ci saranno più di due milioni di tecnici robotici soltanto negli Stati Uniti, e forse sei milioni nel mondo. Susan non sarà sola. Supponiamo di aggiungere a questi tecnici tutte le altre persone che verranno impiegate da questa industria in rapida crescita, direttamente o indirettamente collegate alla robotica. Potrebbe benissimo risultare che i robot creano nuovi lavori anziché spazzare via quelli vecchi, ma, naturalmente, i due tipi di lavoro saranno diversi il che significa che ci sarà un difficile periodo di transizione durante il quale coloro i cui lavori sono scomparsi dovranno essere riaddestrati, così da poter svolgere i nuovi compiti.

Questo potrebbe non essere automatico, e dovranno esserci iniziative sociali innovative che si prendano cura di coloro che, a causa dell'età o del temperamento, non riuscissero ad adattarsi a uno scenario economico in rapido cambiamento.

Nel passato, i progressi della tecnologia hanno sempre richiesto un miglioramento nell'istruzione. I lavoratori agricoli non avevano bisogno di saper leggere e scrivere, ma gli operai delle fabbriche sì, e così, una volta arrivata la rivoluzione industriale, le nazioni industrializzate dovettero istituire scuole pubbliche per l'istruzione di massa della loro popolazione. Adesso dovrà esserci un ulteriore progresso nel campo dell'istruzione, capace di andare a braccetto con la nuova economia ad alta tecnologia. L'istruzione nelle materie scientifiche e tecnologiche dovrà essere seguita con maggior serietà e continuata per tutta la vita, poiché i progressi avverranno troppo rapidamente perché la gente sia in grado di basarsi soltanto su quello che ha appreso a scuola in età giovanile.

Aspettate! Ho citato i tecnici robotici, ma questo è un termine generico. Susan Calvin non era un tecnico robotico; lei era, specificamente, una robopsicologa. Aveva a che fare con l"'intelligenza" robotica, con il modo di pensare dei robot. Non ho ancora udito nessuno usare quel termine nella vita reale, ma sono convinto che verrà il momento in cui sarà usato, proprio come il termine "robotica" venne usato dopo che l'avevo inventato. Dopotutto, i teorici dei robot stanno cercando di mettere a punto robot capaci di vedere, in grado di capire istruzioni verbali, e che sappiano dare risposte a voce. A mano a mano che ci si aspetta, da parte dei robot, lo svolgimento di un numero sempre maggiore di compiti, e in maniera sempre più efficiente e sempre più versatile, i robot stessi ci sembreranno, naturalmente, più "intelligenti". In effetti, già adesso ci sono scienziati, al MIT e altrove, che stanno lavorando molto seriamente sul problema dell"'intelligenza artificiale".

Tuttavia, anche se progettassimo e costruissimo robot in grado di compiere il loro lavoro in maniera tale da sembrare intelligenti, è assai improbabile che sarebbero intelligenti nella stessa maniera degli esseri umani. Per prima cosa, il loro "cervello" sarebbe costituito da materiali diversi da quelli presenti nel nostro cervello. In secondo luogo, il loro cervello sarebbe realizzato con componenti diversi, collegati insieme e organizzati in maniera diversa. Con ogni probabilità affronteranno i problemi in maniera completamente diversa.

L'intelligenza robotica potrebbe essere così diversa dall'intelligenza umana da esigere la creazione di una nuova disciplina, la "robopsicologia", per potersene occupare. Qui, appunto, interviene Susan Calvin. Sarà lei, e altri come lei, a trattare quello che è l'aspetto più importante della robotica, poiché, se studieremo nei particolari due tipi d'intelligenza interamente diversi, potremmo imparare a capire l'intelligenza in una maniera assai più generale e fondamentale di quanto è stato possibile fino a oggi. Impareremo sull'intelligenza umana più di quanto sia possibile imparare basandosi solo sull'intelligenza umana.

 

 

 

 

 


               IL ROBOT COME NEMICO?

Fu nel 1942 che inventai le Tre Leggi della Robotica e, di queste, la Prima Legge è naturalmente la più importante. È formulata così: "Un robot non può recare danno agli esseri umani né permettere che, a causa del suo mancato intervento, gli esseri umani ricevano danno". Nelle mie storie metto sempre in chiaro che le Leggi, specialmente la Prima Legge, sono una parte ineliminabile di tutti i robot, e che i robot non possono disobbedirle, e non lo fanno mai.

Inoltre metto bene in chiaro, anche se, forse, non con lo stesso vigore, che queste leggi non sono intrinseche nei robot. I minerali e le sostanze chimiche grezzi che costituiscono i robot non contengono già le Leggi. Le Leggi vi si trovano perché vengono deliberatamente aggiunte al progetto del cervello robotico, vale a dire ai computer che controllano e dirigono l'azione robotica. Un robot potrebbe essere privo delle Leggi se fosse troppo semplice e rozzo per attribuirgli un modello di comportamento abbastanza complesso, oppure se i progettisti decidessero deliberatamente di non includere le Leggi nella sua personalità computerizzata.

Finora, e forse sarà così ancora per un considerevole periodo di tempo a venire, è la prima di queste alternative a dominare. I robot sono semplicemente troppo rozzi e primitivi perché si possa prevedere che un loro atto volontario rechi danno a un essere umano, e si debba quindi regolare il loro comportamento così da evitare quell'atto. Finora esistono soltanto "leve computerizzate" incapaci di andare al di là dei limiti molto ristretti delle loro istruzioni. Come risultato, i robot hanno già ucciso degli esseri umani, proprio come l'hanno fatto un numero enorme di macchine non computerizzate. È deplorevole ma comprensibile, e possiamo supporre che a mano a mano che i robot acquisiranno percezioni sensoriali più elaborate e la capacità di risposte più flessibili, aumenterà la probabilità d'incorporarvi fattori di sicurezza equivalenti alle Tre Leggi.

Ma la seconda alternativa? Gli esseri umani costruiranno deliberatamente robot privi delle Leggi? Temo che sia una possibilità realistica. La gente parla già di robot addetti alla Sicurezza. Potrebbero esserci guardie robot messe a pattugliare i dintorni di un edificio o perfino i suoi corridoi. La funzione di questi robot potrebbe essere quella di intimare l"'altolà" a chiunque entri nella zona circostante o nell'edificio stesso. C'è da presumere che le persone che vi abitano o che vi vengono invitate ricevano una tessera o un altro mezzo d'identificazione riconoscibile dal robot, il quale a questo punto li lascerebbe passare. Nella nostra epoca, ben consapevole dei problemi della sicurezza, questa potrebbe perfino sembrare una buona cosa. Ridurrebbe il vandalismo e il terrorismo, e sarebbe equivalente, dopo tutto, a un cane da guardia ben addestrato.

Ma la sicurezza alimenta il desiderio di maggior sicurezza. Una volta che un robot diventasse capace di fermare un intruso, potrebbe non essere sufficiente fargli suonare un allarme. Potrebbe sembrare utile dotare i robot della capacità di espellere l'intruso, anche a costo di fargli del male, proprio come potrebbe farvene un cane se vi mordesse alla gamba o alla gola. Cosa accadrebbe, però, se il presidente della società scoprisse di aver lasciato la propria tessera di identificazione negli altri calzoni e fosse troppo scombussolato per lasciare l'edificio con rapidità sufficiente a soddisfare il robot? O cosa accadrebbe se un bambino si avventurasse all'interno dell'edificio senza il previsto lasciapassare? Sospetto che, se il robot malmenasse la persona sbagliata, ci sarebbero rimostranze immediate per impedire il ripetersi dell'errore.

Per passare a un estremo ancora peggiore, si parla di armi robotiche: satelliti, carri armati, artiglieria, e così via, computerizzati, in grado di braccare implacabilmente il nemico, con sensi e determinazione sovrumani. Si potrebbe argomentare che questo sarebbe un modo per risparmiare vite umane. Potremmo starcene tranquillamente a casa e lasciare che le nostre macchine intelligenti combattano per noi. Se qualcuna dovesse essere distrutta, be', sarebbe soltanto una macchina. Questo approccio alla guerra sarebbe particolarmente utile se fossimo noi ad avere macchine del genere, e non il nemico.

Ma anche così, potremmo essere sicuri che le nostre macchine siano sempre in grado di distinguere un nemico da un amico? Persino quando le armi sono controllate da mani umane e da cervelli umani, c'è il problema del "fuoco amico". Le armi americane possono accidentalmente uccidere soldati o civili americani, e l'hanno effettivamente fatto in passato. Questo è un errore umano, ma è nondimeno difficile da accettare. Ma cosa accadrebbe se le nostre armi robot ingaggiassero accidentalmente un "fuoco amico e spazzassero via degli americani, o anche soltanto proprietà americane? Una cosa del genere sarebbe assai più difficile da accettare (specialmente se il nemico avesse elaborato degli stratagemmi per confondere i nostri robot e incoraggiarli a colpire noi). No, sono fiducioso che i tentativi di usare i robot senza salvaguardie non funzioneranno, e che, alla fine si tornerà alle Tre Leggi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


               INTELLIGENZE INSIEME

In “I nostri intelligenti attrezzi“ ho accennato alla possibilità che i robot possano diventare così intelligenti da riuscire alla fine a sostituirci. Ho suggerito, con un tocco di cinismo, che, visto il curriculum dell'umanità, una tale sostituzione potrebbe essere una buona cosa. Da allora i robot sono diventati sempre più importanti nell'industria e, malgrado finora siano ancora degli idioti sulla scala dell'intelligenza, stanno progredendo rapidamente.

Forse, allora, dovremmo riesaminare la faccenda della nostra sostituzione da parte dei robot (o dei computer, che sono i veri meccanismi motori dei robot). Il risultato, naturalmente, dipenderà da quanto diventeranno intelligenti i computer e se diventeranno talmente più intelligenti di noi da finire per considerarci niente più che animali da salotto, nel migliore dei casi, o come animali nocivi, nel peggiore. Ciò implica che l'intelligenza sia una cosa semplice che può essere misurata con qualcosa di simile a un righello o un termometro (o un test del QI) e poi espressa con un singolo numero. Se all'essere umano medio viene attribuito il valore di 100 nella scala complessiva dell'intelligenza, allora, non appena il computer medio supererà quota 100, saremo nei guai.

Ma è poi così che funziona? Di certo ci dev'essere una considerevole varietà in una qualità così sottile come l'intelligenza; diverse varietà, per intenderci. Presumo ci voglia dell'intelligenza per scrivere un saggio coerente, scegliere le parole giuste, e disporle nell'ordine corretto. Presumo inoltre ci voglia intelligenza per studiare un congegno tecnico un po' intricato, capire come funziona e come lo si può migliorare, o come lo si può riparare se ha cessato di funzionare. Per ciò che riguarda lo scrivere, la mia intelligenza è estremamente elevata; per quanto riguarda il "bricolage", la mia intelligenza è estremamente bassa. Bene, allora, sono un genio o un imbecille? La risposta è: nessuna delle due cose. Sono soltanto capace di fare certe cose e incapace di farne altre, e questo è vero per ciascuno di noi.

Supponete, allora, di pensare alle origini dell'intelligenza umana e alle origini dell'intelligenza dei computer. Il cervello umano è costituito essenzialmente da proteine e acidi nucleici. È il prodotto di più di tre miliardi di anni di evoluzione, e le forze motrici del suo sviluppo sono state l'adattamento e la sopravvivenza. I computer, d'altro canto, sono costituiti essenzialmente di metallo e di impulsi elettronici. Sono il prodotto di una quarantina d'anni di deliberata progettazione e di sviluppo umani; e la forza motrice del loro sviluppo è stata il desiderio umano di far fronte a necessità umane ben circostanziate. Se ci sono molti aspetti e varietà di intelligenza fra gli esseri umani medesimi, non è forse certo che l'intelligenza umana e quella dei computer differiranno ampiamente, visto che hanno avuto origine e si sono sviluppate in circostanze così diverse, partendo da materiali così diversi, e sotto l'impulso di motivazioni così diverse?

Sembrerebbe che i computer, perfino i modelli relativamente semplici e primitivi, siano straordinariamente bravi sotto certi aspetti. Possiedono memorie capaci, hanno una capacità di richiamo virtualmente istantanea e infallibile, e possiedono l'abilità di eseguire un enorme numero di operazioni aritmetiche ripetitive senza stancarsi o commettere errori. Se questo genere di cose rappresenta la misura dell'intelligenza, allora i computer sono già assai più intelligenti di noi. Ma è proprio perché ci superano in maniera così ampia, che li usiamo in un milione di modi diversi e sappiamo che la nostra economia andrebbe allo sfascio se dovessero tutti smettere di funzionare nello stesso momento.

Ma questa capacità dei computer non rappresenta una misura dell'intelligenza. Infatti, noi consideriamo una simile abilità di così poco valore che, per quanto sia veloce un computer e per quanto possano fare impressione le sue soluzioni, noi lo vediamo soltanto come un regolo calcolatore troppo cresciuto senza nessuna vera intelligenza. La specialità umana sembra essere, almeno per quello che riguarda l'intelligenza, l'abilità di vedere i problemi come un tutto, di afferrare le soluzioni attraverso l'intuizione o la perspicacia; di vedere nuove combinazioni; di fare congetture straordinariamente percettive e creative. Siamo in grado di programmare un computer perché faccia le stesse cose? Improbabile, perché non sappiamo come riusciamo a farle noi.

Sembra allora che i computer debbano migliorare sempre più nella loro varietà d'intelligenza a breve raggio, e che gli esseri umani (grazie alle accresciute conoscenze sul cervello e sul suo funzionamento e sull'emergente tecnologia dell'ingegneria genetica) possano migliorare la loro varietà d'intelligenza capace di afferrare i problemi nella loro interezza e metterli a fuoco da lontano. Ogni varietà d'intelligenza presenta i propri vantaggi e, combinate assieme, l'intelligenza umana e quella dei computer, ciascuna riempiendo i vuoti e compensando le debolezze dell'altra, potranno progredire assai più rapidamente di quanto avrebbe potuto fare da sola l'una o l'altra. Non sarà affatto un caso di concorrenza e di sostituzione, ma di intelligenze messe assieme, in grado di operare con maggiore efficienza di quanto potrebbe fare o l'una o l'altra da sola, nell'ambito delle leggi della natura.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


               I MIEI ROBOT

Scrissi la mia prima storia di robot, Robbie, nel maggio 1939, quando avevo soltanto diciannove anni.

Ciò che la rendeva diversa dalle storie di robot scritte in precedenza era la mia decisione di non trasformare i robot in simboli. Non dovevano essere esempi di ambizioni umane che invadevano il dominio dell'Onnipotente. Non doveva esserci una nuova Torre di Babele che richiedesse una punizione.

Né i robot dovevano simboleggiare un gruppo minoritario. Non dovevano essere creature patetiche ingiustamente perseguitate così da consentirmi dichiarazioni trite e patetiche sugli ebrei, sui neri o su qualsiasi altro membro maltrattato della società. Com'è naturale mi sono sempre opposto con fermezza a simili maltrattamenti, e l'ho fatto capire con chiarezza in numerose storie e saggi, ma non nelle mie storie di robot.

Come li ideai, allora, i miei robot? Ne feci dei congegni di alta ingegneria. Ne feci degli strumenti. Ne feci delle macchine per servire a scopi umani. E ne feci degli oggetti dotati di sistemi di sicurezza. In altre parole, organizzai le cose in maniera tale che un robot non potesse uccidere il suo creatore, e dopo aver messo fuorilegge quella trama strausata, fui libero di prendere in considerazione altre e più razionali conseguenze.

Quando cominciai a scrivere le mie storie di robot, nel 1939, non li associai alla computerizzazione. Il computer elettronico non era stato ancora inventato e io non lo previdi. Previdi, però, che il cervello doveva essere elettronico, in qualche maniera. Però "elettronico" non mi pareva abbastanza futuristico. Il positrone, una particella subatomica esattamente uguale all'elettrone ma con carica opposta, era stato scoperto solo quattro anni prima che io scrivessi la mia prima storia di robot. Pareva davvero molto fantascientifico, così detti ai miei robot un "cervello positronico" e immaginai che i loro pensieri consistessero in fulminei flussi di positroni che acquisivano esistenza, per poi scomparire quasi subito. Perciò le storie che scrissi vennero definite "serie dei robot positronici", ma l'uso dei positroni al posto degli elettroni non aveva nessun altro significato se non quello che ho illustrato.

Dapprima non mi preoccupai di dare un assetto sistematico alle salvaguardie che immaginavo fossero incorporate nei miei robot, o di descriverle. Sin dall'inizio, però, dal momento che non avevo nessuna intenzione di permettere che un robot potesse uccidere il suo creatore, dovetti mettere l'accento sul fatto che i robot non potevano fare del male agli esseri umani, e che questa era una funzione ben radicata nella struttura del loro cervello positronico.

Così, nella primissima versione di Robbie data alle stampe, avevo un personaggio che si riferiva al robot dicendo: “Lui è costretto a essere fedele, amorevole e gentile. È una macchina costruita per svolgere esclusivamente questo compito”.

Dopo aver scritto Robbie, che John Campbell jr., direttore di Astounding Science Fiction, respinse, proseguii con altre storie di robot, che Campbell accettò. Il 23 dicembre 1940 andai da lui con un'idea su un robot capace di leggere il pensiero (che più tardi divenne Bugiardo!) e John rimase insoddisfatto della mia spiegazione del perché il robot si comportava così. Voleva che le salvaguardie venissero specificate con precisione, in modo che potessimo capire il robot. Allora, insieme, elaborammo quelle che sarebbero diventate famose come le "Tre Leggi della Robotica". Il concetto era mio, perché era stato ottenuto attingendo alle storie che avevo già scritto, ma la formulazione vera e propria (se ricordo bene) venne forgiata lì per lì da tutti e due.

Le Tre Leggi erano logiche e avevano senso. Tanto per cominciare c'era il problema della sicurezza, che era stato prioritario quando avevo cominciato a scrivere le mie storie sui robot. Per di più ero consapevole del fatto che anche senza cercare di far del male in maniera attiva, si poteva tranquillamente, senza far nulla, permettere che venisse fatto del male. Quello che avevo in mente era il cinico The Latest Decalog di Arthur Hugh Clough, nel quale i dieci comandamenti sono riscritti in maniera machiavellica, profondamente satirica. "Non uccidere, puoi sempre rendere impossibile la vita agli altri con l'eccesso di zelo," è quello citato con maggior frequenza.

Per questa ragione insistei perché la Prima Legge (la sicurezza) dovesse consistere di due parti e venne fuori così:

1. Un robot non può recar danno agli esseri umani, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, gli esseri umani ricevano danno.

Una volta che ci fummo sbarazzati di questo primo problema, dovemmo passare alla Seconda Legge (il servizio). Com'era naturale nel dare al robot la necessità innata di eseguire degli ordini, non si poteva lasciar perdere il concetto complessivo di sicurezza. La Seconda Legge dovette quindi essere così formulata:

2. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani tranne nel caso che tali ordini siano in contrasto con la Prima Legge.

E infine doveva esserci una terza legge (la prudenza). Un robot sarebbe stato per forza di cose una macchina costosa, e non doveva essere inutilmente danneggiato o distrutto. Questo naturalmente non doveva essere una scusa per compromettere la sicurezza o il servizio. Perciò la Terza Legge fu così formulata:

3. Un robot deve salvaguardare la propria esistenza, purché ciò non sia in contrasto con la Prima o la Seconda Legge.

Naturalmente queste leggi sono espresse in parole, il che è una imperfezione. Nel cervello positronico ci sono potenziali positronici in conflitto, che sono espressi nel modo migliore in termini di matematica avanzata (il che è ben al di là della mia comprensione, ve lo posso assicurare). Però anche così ci sono delle evidenti ambiguità. Cos'è che costituisce "il male", ossia il danno, per un essere umano? Un robot deve forse obbedire agli ordini impartitigli da un bambino, da un pazzo, da un essere umano malvagio? Un robot deve forse rinunciare alla propria esistenza utile e costosa per impedire un danno banale a un essere umano di poca importanza? Che cos'è banale e cos'è poco importante?

Queste ambiguità non sono dei difetti per quello che riguarda uno scrittore. Se le Tre Leggi fossero perfette e prive di ambiguità non ci sarebbe nessuno spazio per delle storie. È proprio negli angolini e nelle fessure delle ambiguità che possono risiedere le trame, fornendo una "fondazione", se potrete scusarmi la battuta, per Robot City.

Non formulai le Tre Leggi in modo specifico in Bugiardo!, che comparve nel numero di Astounding del maggio 1941. Però lo feci nella mia successiva storia di robot, Circolo vizioso, che venne pubblicata in Astounding nel marzo 1942. In quel numero, alla settima riga di pagina 100, compare un personaggio che dice: “Senti, partiamo dalle Tre Leggi Fondamentali della Robotica” e poi le cita. Questa, incidentalmente, per quello che io o chiunque altro è riuscito a stabilire, rappresenta la prima apparizione stampata della parola "robotica" che, a quanto pare, fui io a inventare.

Da allora non ho mai avuto occasione, nell'arco di quarant'anni e più durante i quali ho scritto racconti e romanzi che avevano a che fare con i robot, di trovarmi costretto a modificare le Tre Leggi. Tuttavia, col passare del tempo, e a mano a mano che i miei robot progredivano in complessità e versatilità, sentii che avrebbero dovuto arrivare a qualcosa di ancora più elevato. Così in I robot e l'impero, un romanzo pubblicato dalla Doubleday nel 1985, parlai della possibilità che un robot sufficientemente progredito potesse sentire la necessità di decidere che la protezione dell'umanità aveva la precedenza sulla protezione di un singolo individuo. Questa la definii la "Legge Zero della Robotica", ma ci sto ancora lavorando.

È probabile che l'invenzione delle Tre Leggi della Robotica sia il mio contributo più importante alla fantascienza. Sono citate in lungo e in largo fuori dal campo, e nessuna storia della robotica sarebbe completa senza farne menzione. Nel 1985, la John Wiley and Sons pubblicò l'imponente Manuale della robotica industriale, curato da Shimon Y. Nof, e io, su richiesta del curatore, scrissi una introduzione riguardante le Tre Leggi.

Orbene, è dato per scontato che ogni scrittore di fantascienza crei un corpus di idee alle quali tutti gli altri scrittori possono attingere. Per questa ragione non ho mai obiettato se qualcun altro si basava su robot che obbedivano alle Tre Leggi. Anzi, ne ero lusingato e, per essere sinceri, i moderni robot fantascientifici possono ben difficilmente esibirsi senza queste Leggi.

Però mi sono opposto con fermezza alla citazione delle Tre Leggi da parte di qualsiasi altro scrittore. Date pure le Leggi per scontate, dico sempre, ma non citatele. I concetti sono di tutti, ma le parole sono mie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


               LE LEGGI DELL'UMANICA

 

 

I miei primi tre romanzi di robot erano, essenzialmente, dei "gialli", con Elijah Baley nei panni del detective. Di questi primi tre, il secondo romanzo, Il sole nudo, era “un giallo della stanza chiusa” nel senso che la persona assassinata era stata trovata senza un'arma sul luogo del delitto ma allo stesso tempo senza alcuna possibilità che un'arma fosse stata rimossa.

Riuscii a tirar fuori una soluzione soddisfacente, ma non mi avventurai più in quel genere di storie.

Il mio quarto romanzo sui robot, I robot e l'impero, non era principalmente un giallo. Elijah Baley era morto di morte naturale a un'età veneranda, e il libro si avvicinava all'universo della Fondazione, per cui era chiaro che le due mie serie più famose, quella dei Robot e quella della Fondazione, si sarebbero fuse in un insieme più ampio. (No, non l'ho fatto arbitrariamente. Le necessità generate negli anni Ottanta dalla stesura dei seguiti di vicende scritte negli anni Quaranta e Cinquanta mi hanno preso la mano.)

In I robot e l'impero, il mio personaggio-robot, Giskard, al quale ero molto affezionato, cominciò a interessarsi alle "Leggi dell'Umanica" che, suggerivo, avrebbero potuto servire come base della scienza della psicostoria, la quale gioca un ruolo essenziale nella serie della Fondazione.

In senso stretto, le Leggi dell'Umanica dovrebbero essere una descrizione, in forma concisa, di come si comportano effettivamente gli esseri umani. Naturalmente non esistono categorie così precise. Persino gli psicologi, che studiano la materia scientificamente (per lo meno spero che lo facciano) non possono presentare nessuna "legge", ma soltanto descrivere con ricchezza di particolari quello che la gente sembra fare. E niente di ciò che affermano è assoluto. Quando uno psicologo dice che la gente reagisce in un certo modo a uno stimolo di un certo tipo, intende dire soltanto che qualcuno lo fa in certi momenti. Altri potrebbero farlo in altri momenti, o potrebbero non farlo affatto.

Se dovremo aspettare delle leggi vere e proprie sul comportamento umano per poter fondare la psicostoria (e di certo dovremo farlo), allora suppongo che dovremo aspettare molto a lungo.

Be', e allora come faremo a individuare le Leggi dell'Umanica? Suppongo che potremo cominciare in maniera molto modesta, e più tardi edificarle a poco a poco, se ci riusciremo.

Così, in I robot e l'impero è un robot, Giskard, che solleva il problema delle Leggi dell'Umanica. Essendo un robot, deve vedere ogni cosa dal punto di vista delle Tre Leggi della Robotica, dal momento che i robot sono costretti a seguirle.

Le Tre Leggi della Robotica sono:

1. Un robot non può recar danno agli esseri umani né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, gli esseri umani ricevano danno.

2. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani tranne nel caso che tali ordini siano in contrasto con la Prima Legge.

3. Un robot deve salvaguardare la propria esistenza, purché ciò non sia in contrasto con la Prima o la Seconda Legge.

Dunque, a me pare che un robot non possa fare altro che pensare che gli esseri umani debbano comportarsi in maniera tale da facilitare ai robot l'obbedienza a queste leggi.

In effetti, mi sembra che gli esseri umani dotati di senso morale dovrebbero sforzarsi di facilitare la vita ai robot. Mi sono occupato di questa faccenda nel racconto L'uomo bicentenario, che venne pubblicata nel 1976.

In esso facevo dire a un personaggio umano: “Se un uomo ha il diritto di dare a un robot qualsiasi ordine che non comporti un danno a un altro essere umano, allora deve avere la decenza di non impartire mai a un robot un ordine che comporti un danno a un altro robot, a meno che ciò non venga dettato dal bisogno di salvare la vita umana. Un grande potere impone grandi responsabilità, e se i robot hanno le Tre Leggi che proteggono l'uomo, vi sembra troppo chiedere agli uomini di attenersi a una o due leggi che proteggano i robot?”

Per esempio, la Prima Legge della Robotica si articola in due parti. La prima parte, "Un robot non può recar danno agli esseri umani", è assoluta e non ha bisogno di commenti. La seconda parte, "né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, gli esseri umani ricevano danno", lascia spazio ai dubbi. Un essere umano potrebbe essere sul punto di subire danni a causa di qualche evento che coinvolga un oggetto inanimato. Potrebbe cadergli addosso un grosso peso, oppure potrebbe scivolare ed essere sul punto di cadere in un lago, o qualunque disavventura del genere. Qui il robot deve semplicemente cercare di salvare l'essere umano, spostarlo da dove si trova aiutarlo a rialzarsi e così via. Oppure un essere umano potrebbe essere minacciato da qualche forma di vita diversa da quella umana, un leone, per esempio, e il robot deve accorrere in sua difesa.

Ma cosa accadrebbe se un essere umano fosse minacciato dall'azione di un altro essere umano? Qui un robot deve prendere una decisione. Può salvare il primo senza far del male all'altro? Oppure, se si trovasse costretto a fare del male, quale linea di azione dovrebbe seguire per ridurlo al minimo?

Sarebbe assai più facile per il robot se gli esseri umani si preoccupassero del benessere degli esseri umani, così come ci si aspetta che facciano i robot. E, in effetti, qualsiasi codice dell'etica umana impone agli uomini di prendersi cura gli uni degli altri e di non farsi del male reciprocamente. Il che è, dopotutto, il mandato che gli esseri umani hanno dato ai robot. Perciò la Prima Legge dell'Umanica dal punto di vista dei robot dovrebbe essere la seguente:

1. Un essere umano non può recare danno a un altro essere umano né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, gli esseri umani ricevano danno.

Se questa legge venisse rispettata, al robot rimarrebbe soltanto il compito di proteggere gli uomini dalle disavventure con gli oggetti inanimati e con creature non umane, cosa che non gli creerebbe nessun dilemma. Ma il robot dovrà pur sempre proteggere un essere umano dal male che un altro essere umano potrebbe fargli senza volerlo. Dovrebbe anche essere pronto ad accorrere in aiuto di un essere umano minacciato, se un altro essere umano presente non fosse in grado di arrivare sulla scena dell'azione abbastanza rapidamente.

Ma, d'altronde, persino un robot potrebbe senza volerlo far del male a un essere umano, e persino un robot potrebbe non essere abbastanza veloce per arrivare in tempo sulla scena dell'azione, o abbastanza abile da intraprendere l'azione necessaria. Niente è perfetto.

Questo ci porta alla Seconda Legge della Robotica, che obbliga un robot a obbedire agli ordini che gli vengono impartiti dagli esseri umani, fuorché quando gli ordini entrano in conflitto con la Prima Legge. Ciò significa che gli esseri umani possono dare ai robot qualsiasi ordine, senza limiti, fintanto che ciò non comporti danno per gli esseri umani.

Ma l'essere umano potrebbe ordinare al robot di fare qualcosa di impossibile, o dargli un ordine che potrebbe comportare per il robot un dilemma capace di danneggiare il suo cervello. Per esempio, nel mio racconto Bugiardo!, pubblicato nel 1940, c'era un uomo che poneva deliberatamente un robot davanti a un dilemma, al punto che il suo cervello bruciava e cessava di funzionare.

Potremmo persino immaginare che a mano a mano che un robot diventerà più intelligente e consapevole, il suo cervello potrebbe diventare abbastanza sensibile da subire danni se fosse costretto a fare qualcosa di inutilmente imbarazzante o poco dignitoso. Di conseguenza, la Seconda Legge dell'Umanica dovrebbe essere:

2. Un essere umano deve impartire ai robot ordini che non turbino la loro esistenza robotica, a meno che tali ordini non causino danno o dolore ad altri esseri umani.

La Terza Legge della Robotica è concepita per proteggere il robot, ma dal punto di vista del robot è evidente che ha qualche carenza. Il robot deve sacrificare la propria esistenza, se la Prima e la Seconda Legge lo rendono necessario. Per quello che riguarda la Prima Legge, non ci possono essere discussioni. Un robot deve rinunciare alla propria esistenza se quello è il solo modo in cui può evitare di far del male a un essere umano o impedire che venga fatto del male a un essere umano. Se ammettiamo l'innata superiorità di qualsiasi essere umano rispetto a qualsiasi robot (il che, a dire il vero, mi trova un po' riluttante), allora questo è inevitabile.

D'altro canto, deve un robot rinunciare alla propria esistenza soltanto per obbedire a un ordine che potrebbe essere banale, o perfino criminoso? In L'uomo bicentenario, ci sono alcuni teppisti che ordinano a un robot di smontarsi, per divertirsi a osservare le sue reazioni. La Terza Legge dell'Umanica dovrà perciò essere così formulata:

3. Un essere umano non deve recar danno a un robot, ne permettere che, a causa del suo mancato intervento, i robot subiscano danni, a meno che tali danni siano necessari per impedire che venga recato danno a un essere umano, o per permettere che un ordine vitale venga eseguito.

Naturalmente non possiamo imporre queste leggi, così come possiamo fare con le leggi robotiche. Non possiamo progettare i cervelli umani così come progettiamo i cervelli dei robot. Comunque è un inizio, e penso sinceramente che, se vorremo esercitare un potere su dei robot intelligenti, dovremo sentire una corrispondente responsabilità nei loro confronti, come dice il personaggio umano nel racconto L'uomo bicentenario.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


               ORGANISMO CIBERNETICO

Un robot è un robot e un organismo è un organismo.

Un organismo, come tutti sappiamo, è costituito da cellule. Dal punto di vista molecolare, le sue molecole-chiave sono acidi nucleici e proteine, che galleggiano in un mezzo acquoso, e tutto l'insieme ha un sistema di sostegno osseo. È inutile proseguire con la descrizione, dal momento che a tutti sono familiari gli organismi e dal momento che ne siamo noi stessi un esempio.

Un robot, d'altro canto (come viene di solito raffigurato nella fantascienza), è un oggetto che assomiglia più o meno a un essere umano, costruito in robusto metallo resistente alla ruggine. Gli scrittori di fantascienza sono in genere assai parchi nel descrivere i particolari robotici, dal momento che il racconto non lo richiede... e che loro stessi non saprebbero cosa dire.

Però, l'impressione generale che si ricava dalle storie è che un robot sia fatto di circuiti elettrici, essendo quindi dotato di fili elettrici attraverso i quali scorre la corrente, piuttosto che di tubi attraverso i quali scorre il sangue. La fonte di energia rimane innominata, oppure si presume che abbia a che fare con l'energia nucleare.

Come è fatto il cervello di un robot?

Quando scrissi le mie prime storie di robot nel 1939 e nel 1940, immaginai un "cervello positronico" fabbricato in una lega spugnosa di platino-iridio. Scelsi platino e iridio perché sono metalli particolarmente inerti, che hanno scarsa probabilità di subire mutamenti chimici. E la lega era spugnosa per offrire una superficie enorme su cui gli schemi elettronici potessero formarsi e cancellarsi. Era "positronico" perché quattro anni prima era stato scoperto il positrone, una specie di elettrone di segno opposto, cosicché "positronico" invece che "elettronico" aveva un delizioso suono fantascientifico.

Oggigiorno, naturalmente, il mio cervello positronico di platino-iridio è irreparabilmente arcaico. Era sorpassato già dieci anni dopo la sua invenzione. Alla fine degli anni Quaranta ci rendemmo conto che un cervello robotico doveva essere una specie di computer. Anzi, un robot complesso come quelli dei miei più recenti romanzi doveva possedere un cervello-computer complesso quanto il cervello umano. Doveva essere costituito da minuscoli microchip non più grandi delle cellule cerebrali e altrettanto complessi.

Ma adesso cerchiamo di immaginare qualcosa che non sia né un organismo né un robot, ma una combinazione dei due. Forse potremmo raffigurarcelo come un organismo-robot o "orbot". Sarebbe evidentemente una denominazione un po' povera: nient'altro che la parola "robot" con le prime due lettere spostate. Se invece dicessimo "orgabot", ci troveremmo incastrati con una parola piuttosto brutta.

Potremmo chiamarlo un robot-organismo, o "robotanismo" che, ancora una volta, è una bruttura, oppure "roborg". Ai miei orecchi, "roborg" non suona poi tanto male, ma non possiamo appropriarcene. È spuntato qualcos'altro.

Alla scienza dei computer è stato dato il nome di "cibernetica" da parte di Norbert Weiner, una generazione or sono, per cui, se consideriamo qualcosa che è in parte robot e in parte organismo e ricordiamo che un robot è di natura cibernetica, possiamo figurarci questa mescolanza come un "organismo cibernetico", o un "cyborg". Infatti è questo il nome che ha fatto presa e viene usato.

Per vedere quello che un cyborg potrebbe essere, cerchiamo di partire da un organismo umano e di procedere verso un robot; e una volta arrivati alla fine del viaggio, partiremo con un robot e procederemo verso un essere umano.

Per andare da un organismo umano verso un robot, dobbiamo cominciare a sostituire parti dell'organismo umano con parti robotiche. Per certi aspetti lo facciamo già oggi. Adesso, per esempio, una buona percentuale del materiale originario dei miei denti è metallico, e, naturalmente, il metallo è la sostanza robotica per eccellenza.

Certo, i pezzi di ricambio non devono essere per forza metallici. Una parte dei miei denti è di ceramica, una sostanza che è indistinguibile dalla dentina naturale. Però, malgrado la dentina abbia l'aspetto della ceramica e, entro certi limiti, le assomigli persino come struttura chimica, in origine è stata formata da materiale vivente e reca il marchio della propria origine. La ceramica che ha sostituito la dentina non mostra nessuna traccia di vita, né adesso né mai.

Possiamo spingerci oltre. Il mio sterno, che pochi anni or sono è stato spezzato nel corso di un'operazione, adesso è tenuto insieme da punti metallici. Mia cognata ha un sostituto artificiale dell'articolazione coxofemorale. C'è gente che ha braccia o gambe artificiali e, con il passare del tempo, questi arti non-viventi vengono progettati in modo da essere sempre più complessi e utili. C'è gente che è vissuta per mesi e persino per anni con un cuore artificiale, e molta gente conduce una vita normale con i pacemaker.

Possiamo immaginare che, a poco a poco, altre parti del corpo umano verranno sostituite con materiale inorganico e congegni meccanici. C'è qualche parte che potrà essere difficile da sostituire, anche nella finzione narrativa?

Non credo che esistano dubbi. Sostituendo ogni singola parte dell'essere umano... gli arti, il cuore, il fegato, lo scheletro, e così via, il prodotto rimarrebbe umano. Sarebbe un essere umano con parti artificiali, ma sarebbe un essere umano.

Ma il cervello?

Di certo, se c'è un organo che ci rende umani, è il cervello. Se c'è un elemento che ci rende singoli e irripetibili esseri umani, è il complesso apparato che comprende le emozioni, le nozioni e il contenuto mnemonico del nostro particolare cervello. Non si può semplicemente sostituire il cervello con un congegno pensante preso dallo scaffale di qualche fabbrica. Dovete metterci dentro qualcosa che incorpori tutto ciò che ha appreso un cervello naturale, che possieda tutta la sua memoria, e che mimi il suo esatto modello di elaborazione.

Una gamba artificiale potrebbe non funzionare esattamente come quelle naturali, ma servirebbe comunque allo scopo. Lo stesso vale per un polmone, un rene, o un fegato artificiali. Un cervello artificiale, però, dovrebbe essere la replica precisa del cervello che è destinato a sostituire, altrimenti l'essere umano in questione non sarebbe più lo stesso essere umano.

È il cervello, allora, a costituire la linea di divisione nel passaggio da un organismo umano a quello robotico.

E il contrario?

In L'uomo bicentenario, descrissi il passaggio del mio eroe-robot, Andrew Martin, da robot a uomo. A poco a poco il personaggio sceglie di cambiare, fino a quando ogni sua parte visibile è in apparenza umana. Dimostra un'intelligenza sempre più simile (o addirittura superiore) a quella di un uomo. È un artista, uno storico, uno scienziato, un amministratore. Strappa l'approvazione di una legge che garantisce i diritti robotici, e ottiene rispetto e ammirazione al massimo grado.

Eppure in nessun momento riesce a farsi accettare come uomo. Anche qui la pastoia è costituita dal suo cervello robotico. Andrew scopre di dover affrontare questo problema perché l'ultimo ostacolo venga superato.

Perciò, si arriva alla dicotomia corpo-cervello. Gli autentici cyborg sono quelli nei quali il corpo e il cervello sono separati. Ciò significa che possiamo avere due classi di cyborg completi:

a) un cervello robotico in un corpo umano, oppure

b) un cervello umano in un corpo robotico.

Diamo per scontato che nel giudicare il valore di un essere umano (o di un robot, se è per questo), noi giudichiamo dapprima dalle apparenze.

Posso facilmente immaginare un uomo che vede una donna di bellezza superlativa e la contempla sentendosene soggiogato e meravigliato. “Che splendida donna” dirà, o penserà, e potrebbe anche innamorarsi di lei. Credo che nei romanzi questo accada d'abitudine. E, naturalmente, una donna, vedendo un uomo di una bellezza superlativa, reagirà di sicuro nella stessa maniera.

Se vi innamorate di una bellezza sconvolgente, è improbabile che passiate molto tempo a chiedervi se lei (o lui, naturalmente) abbia cervello, o un buon carattere, o una buona capacità di giudizio o gentilezza, o calore. Se alla fine scoprirete che il bell'aspetto è la sola qualità di quella persona, è probabile che inventerete delle scuse e continuerete a farvi guidare, almeno per un po', dai riflessi condizionati della reazione erotica. Alla fine, naturalmente, vi stancherete della bellezza fine a se stessa, ma chi può sapere quanto tempo vi ci vorrà?

D'altro canto, una persona con un gran numero di buone qualità che, vedi caso, fosse poco attraente, potrebbe non coinvolgervi per nulla, a meno che non siate abbastanza intelligenti da vedere quelle buone qualità e assicurarvi così una vita felice.

Quello che intendo dire è che un cyborg con un cervello robotico in un corpo umano verrà accettato dalla maggior parte della gente, se non da tutti, come un essere umano; mentre un cyborg con un cervello umano in un corpo robotico verrà accettato dalla maggior parte della gente, se non da tutti, come un robot. Dopotutto noi siamo, per la maggior parte della gente, quello che sembriamo.

Ecco perché questi due cyborg, diametralmente opposti, non porranno agli esseri umani problemi analoghi.

Pensate al cervello robotico nel corpo umano e chiedetevi perché mai dovrebbe essere effettuato il trasferimento. Un cervello robotico sta assai meglio in un corpo robotico, dal momento che un corpo umano è di gran lunga più fragile. Potreste avere un corpo umano giovane e robusto nel quale il cervello è stato danneggiato da un incidente o da una malattia, e potreste pensare: "Che spreco questo magnifico corpo umano! Mettiamoci dentro un cervello robotico, così che possa vivere la sua vita".

Ma l'essere umano che ne risulterebbe non sarebbe l'originale. Sarebbe un individuo diverso. Non verrebbe salvata la sua personalità, ma soltanto un corpo privo di cervello. E un corpo umano, per quanto bello, senza l'intelletto è ben poca cosa. Ogni giorno mezzo milione di nuovi corpi cominciano a esistere. Non ha senso salvarne uno se il cervello è andato.

D'altro canto, cosa ne sarebbe di un cervello umano in un corpo robotico? Un cervello umano non dura per sempre, ma può durare fino a novant'anni mantenendo la sua utilità. Non è affatto raro trovare un novantenne ancora vispo e capace di pensieri razionali e interessanti. Eppure sappiamo anche che molti cervelli superlativi sono svaniti dopo venti o trent'anni perché il corpo che li ospitava (inutile in assenza della mente) era diventato inabile a causa di incidenti o malattie. Quindi esistono valide motivazioni per trasferire un cervello perfettamente funzionante (persino superiore) in un corpo robotico: per offrirgli qualche altro decennio di vita utile.

Così, quando diciamo "cyborg" molto probabilmente pensiamo, quasi esclusivamente, a un cervello umano in un corpo robotico... e finiremo per considerarlo un robot.

Potremmo argomentare che un cervello umano è una mente umana, e che è la mente che conta e non il meccanismo di sostegno che la circonda, e avremmo ragione. Sono sicuro che qualsiasi tribunale consapevole deciderebbe che un cyborg con un cervello umano ha tutti i diritti legali di un uomo. Potrebbe votare, non potrebbe essere schiavo di nessuno, e così via.

Però, supponete che la natura di un cyborg venga messa in dubbio: “Lei deve dimostrare di avere un cervello umano e non robotico, prima che le siano riconosciuti diritti umani”.

Per un cyborg, il modo più facile per dimostrarlo sarebbe far vedere a tutti che non è condizionato dalle Tre Leggi della Robotica. Dal momento che le Tre Leggi impongono un comportamento socialmente accettabile, ciò significa che il cyborg deve dimostrare di essere capace di un comportamento umano (cioè cattivo). L'argomento più semplice e più incontestabile è semplicemente mettere al tappeto lo sfidante, magari spaccandogli la faccia, dal momento che nessun robot ne sarebbe in grado. (In effetti, nella mia storia La prova, comparsa nel 1947, lo usavo come un modo per dimostrare che qualcuno non era un robot, ma in quel caso c'era un trucco.)

Ma se un cyborg deve continuamente mostrarsi violento per dimostrare di avere un cervello umano, questo non gli procurerà certo molti amici.

Oltretutto, anche se venisse accettato come un essere umano, potesse votare, riservare una camera d'albergo e fare tutte le altre cose che gli esseri umani possono fare, ci dovrebbero comunque essere alcune norme per distinguerlo da una persona comune. Il cyborg sarebbe più forte di un uomo, e i suoi pugni metallici potrebbero essere considerati armi letali. Gli si potrebbe proibire di colpire un uomo, anche per autodifesa. Non potrebbe impegnarsi in nessuno sport sulla stessa base degli uomini normali, e così via.

Ah, ma c'è forse bisogno che il cervello venga ospitato nel corpo metallico di un robot? E se venisse ospitato in un corpo fatto di ceramica e di plastica e di fibre, così da apparire simile a un corpo umano, e per giunta avesse un cervello umano?

Be', sospetto che il cyborg continuerebbe ad avere i suoi guai. Sarebbe sempre diverso. Non importa quanto piccola sia la differenza, la gente vi si aggrapperà.

Sappiamo che gli individui che hanno un cervello umano e un corpo completamente umano talvolta si odiano a causa di una lieve differenza nella pigmentazione della pelle, oppure di una lieve variazione nella forma del naso, degli occhi, delle labbra, o dei capelli.

Persino gli uomini che non hanno alcuna differenza fisica che possa diventare motivo di odio, a volte vengono ai ferri corti in faccende niente affatto fisiche, ma culturali... differenze di religione, idea politica, luogo di nascita, lingua, o anche soltanto per l'accento di una lingua.

Guardiamo in faccia la realtà. I cyborg avranno i loro guai in ogni caso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


               IL SENSO DELL'UMORISMO

Un robot proverà mai il desiderio di essere un uomo?

Potreste rispondere a questa domanda con una contro-domanda. Una Chevrolet proverà mai il desiderio di essere una Cadillac?

 La contro-domanda contiene l'implicita affermazione che una macchina non ha desideri.

Ma il punto è proprio questo: un robot non è esattamente una macchina, per lo meno non in termini di potenzialità. Un robot è una macchina che viene costruita per essere il più possibile simile a un uomo, e da qualche parte ci dev'essere una linea di confine che potrebbe, prima o poi, essere attraversata.

Possiamo applicare questa idea alla vita. Un lombrico non desidera essere un serpente; un ippopotamo non desidera essere un elefante. Non abbiamo nessuna ragione di pensare che queste creature siano consapevoli del proprio stato e sognino qualcosa di più di ciò che sono. Gli scimpanzé e i gorilla sono consapevoli, ma non abbiamo nessuna ragione per pensare che desiderino diventare umani.

Però gli uomini sognano l'aldilà e desiderano diventare angeli. Da qualche parte la vita ha attraversato una linea di confine. A un certo punto è nata una specie che non soltanto era consapevole della propria esistenza, ma aveva la capacità di essere insoddisfatta di se stessa.

Un giorno, forse, una analoga linea di confine verrà attraversata nella costruzione dei robot.

Ma se diamo per scontato che un giorno un robot possa aspirare all'umanità, in quale maniera vi aspirerebbe? Potrebbe aspirare al possesso della posizione giuridica e sociale di cui gli esseri umani godono fin dalla nascita. È stato questo il tema della mia storia L'uomo Bicentenario, e per avere questo riconoscimento il mio eroe robotico si dimostrava disposto a perdere tutte le sue qualità, a una a una, rinunciando perfino alla sua immortalità.

Però quella storia era più filosofica che realistica. Cos'ha mai, un essere umano, che possa suscitare sul serio l'invidia di un robot? Quale caratteristica fisica o mentale? Nessun robot di buonsenso potrebbe mai invidiare la fragilità umana, o l'incapacità umana di sopportare modesti cambiamenti dell'ambiente, o il bisogno umano di dormire, o l'attitudine a commettere errori banali, o la tendenza alle malattie infettive e degenerative, oppure la stupidità causata da illogiche tempeste di emozioni.

Potrebbe più giustamente provare invidia per la capacità di provare amicizia e amore per la curiosità senza confini dell'uomo, per la sua brama di esperienze. Qui però farei un'ipotesi: un robot che desiderasse diventare umano scoprirebbe probabilmente che il tratto umano più ambito, e più frustrante, è il senso dell'umorismo.

Il senso dell'umorismo non è affatto universale fra gli esseri umani, anche se appartiene a tutte le culture. Ho conosciuto molte persone che non ridevano, ma vi guardavano perplesse o forse sdegnate, se cercavate di fare qualche battuta divertente. Basta ricordare mio padre, che d'abitudine accoglieva con una scrollata di spalle i miei frizzi più ingegnosi, giudicandoli indegni dell'attenzione di un uomo serio. (Per fortuna mia madre rideva a tutte le mie barzellette, e nella maniera più disinibita che si possa immaginare, altrimenti sarei potuto crescere emotivamente disturbato.)

Però la cosa più bizzarra circa il senso dell'umorismo è che, da quanto ho avuto modo di osservare, nessun essere umano è disposto ad ammettere di esserne privo. La gente ammette di odiare i cani e di non amare i bambini, può ammettere allegramente di dire un sacco di bugie quando compila la dichiarazione dei redditi, e di fare la stessa cosa con il proprio coniuge, come se fosse un diritto incontestabile, e può persino non fare obiezioni se viene considerata inumana o disonesta, grazie al semplice espediente di cambiare questi due aggettivi in "realistica" o "pratica".

Però, provate ad accusarli di essere privi del senso dell'umorismo, e lo negheranno con decisione, non importa quanto apertamente o quanto spesso ne mostrino la mancanza. Mio padre, per esempio, ha sempre sostenuto di possedere un acuto senso dell'umorismo, e che lo avrebbe dimostrato non appena avesse ascoltato una barzelletta per la quale valesse la pena di ridere (anche se, stando alla mia esperienza, non lo fece mai).

Perché mai la gente ha da ridire quando la si accusa di mancanza di umorismo? La mia teoria è che tutti riconoscono (subliminalmente, se non a livello conscio) che il senso dell'umorismo è un segno distintivo dell'umanità, molto di più di qualsiasi altra caratteristica, e rifiutino di essere retrocessi al rango di subumani.

Soltanto una volta ho affrontato la questione del senso dell'umorismo in una storia di fantascienza, nel racconto Il barzellettiere, che comparve per la prima volta nel numero di dicembre del 1956 di Infinity Science Fiction, e che è stata recentemente ristampata nella raccolta The Best Science Fiction of Isaac Asimov (Doubleday, 1986).

Il protagonista della storia passava il tempo a raccontare barzellette a un computer (ne ho citate sei nel corso della storia). Un computer, ovviamente, è un robot immobile o, il che è lo stesso, un robot è un computer mobile. Così, la storia tratta di robot e di barzellette. Sfortunatamente, nella vicenda il problema di cui veniva cercata la soluzione non era la natura dell'umorismo, ma l'origine delle barzellette. E c'era anche una risposta, ma dovrete andarvi a leggere la storia per saperla.

Però io non scrivo soltanto fantascienza. Scrivo qualsiasi cosa la mia impegnatissima testolina abbia voglia di scrivere, e (grazie a qualche immeritato colpo di fortuna) i miei diversi editori hanno la bislacca impressione che sia illegale non pubblicare qualsiasi manoscritto io consegni nelle loro mani. (Potete star certi che non controbatto mai questa loro ridicola idea.)

 Così, quando decisi di scrivere un libro di barzellette, lo feci, e Houghton-Mifflin lo pubblicò nel 1971 con il titolo Isaac Asimov's Treasury of Humour. In quel libro raccolsi 640 barzellette che appartenevano al mio repertorio. Ne ho anche a sufficienza per un seguito, che dovrebbe essere intitolato Asimov ride ancora, ma sembra che non riesca a trovare il tempo per scriverlo, non importa quanto io rimanga seduto alla tastiera, e con quanta rapidità batta i tasti. Ho sparso qua e là queste barzellette insieme alle mie teorie riguardo a ciò che è divertente, e a come si può far diventare ancor più divertente quello che già lo è.

Intendiamoci, ci sono tante teorie sull'umorismo quante sono le persone che scrivono sull'argomento, e non esistono due teorie uguali. Alcune sono, naturalmente, assai più stupide di altre, e non ho provato assolutamente nessun imbarazzo nell'aggiungere le mie riflessioni sull'argomento alla montagna di opinioni già esistenti.

È mia sensazione, per dirla in breve, che l'unico elemento indispensabile in una barzelletta di successo sia un'improvvisa alterazione del punto di vista. Più è radicale l'alterazione, più è repentina, più rapidamente viene colta, più sonora è la risata e maggiore è il divertimento.

Permettetemi di darvi un esempio con una delle poche barzellette che ho inventato io stesso:

 

Jim entra in un bar e trova il suo migliore amico, Bill, seduto a un tavolo d'angolo che centellina un bicchiere di birra con espressione assorta.

― Cosa ti succede, Bill? ― chiede Jim, in tono comprensivo, sedendosi al tavolo.

― Ieri mia moglie è scappata con il mio miglior amico ― risponde Bill con un sospiro.

― Ma cosa dici, Bill? Sono io il tuo miglior amico ― ribatte Jim, scioccato.

Al che Bill risponde, tranquillo: ― Non più.

 

Confido che vi siate accorti del cambiamento del punto di vista. La supposizione naturale è che il povero Bill sia sprofondato nella tetraggine per una tragica perdita. È soltanto con le due ultime parole che vi rendete conto, all'improvviso, che Bill in realtà è felicissimo. E il maschio umano medio è ambivalente quel che basta, circa la propria moglie (per quanto bene le voglia), da accogliere divertito questo particolare cambiamento di punto di vista.

Ora, se un robot viene progettato per avere un cervello che reagisce soltanto alla logica (e a cosa potrebbe servire qualsiasi altro tipo di cervello robotico, agli esseri umani che sperano di utilizzare i robot per i propri scopi?), ben difficilmente potrebbe apprezzare un improvviso cambiamento del punto di vista. Implicherebbe che le leggi della logica sono innanzitutto sbagliate, oppure dotate di una flessibilità che ovviamente lui non condivide. Inoltre, sarebbe pericoloso incorporare l'ambivalenza nel cervello di un robot. Ciò che vogliamo da lui è la capacità di decidere, non l'essere-o-non-essere di Amleto.

Immaginate allora di raccontare a un robot la barzelletta che vi ho appena proposto, e immaginate che alla fine il robot vi fissi con solennità e vi interroghi nella maniera seguente.

Robot: ― Ma perché mai Jim non è più il miglior amico di Bill? Non hai descritto niente, fatto da Jim, che potesse indurre Bill a essere incollerito con lui o deluso da lui.

Voi: ― Be', no, non è che Jim abbia fatto niente. È che qualcun altro ha fatto per Bill qualcosa di tanto apprezzabile da scavalcare Jim, diventando così, all'istante, il nuovo e miglior amico di Bill.

Robot: ― Ma chi l'ha fatto?

Voi: ― L'uomo che è scappato con la moglie di Bill, naturalmente.

Robot (dopo una pausa di riflessione): ― Ma non può essere. Bill doveva provare un profondo affetto per sua moglie e una grande tristezza per averla persa. Non è forse questo ciò che provano i maschi umani per le loro mogli, e non è così che reagiscono alla loro perdita?

Voi: ― Sì, in teoria. Però a quanto pare Bill aveva una forte avversione per sua moglie ed è contento che qualcuno sia scappato con lei.

Robot (dopo un'altra pausa di riflessione): ― Ma tu non avevi detto che le cose stavano così.

Voi: ― No, certo. È questo che lo rende divertente. Ti ho condotto in una direzione e poi, d'un tratto, ti ho fatto sapere che era la direzione sbagliata.

Robot: ― È divertente fuorviare una persona?

Voi (rinunciando): ― Be', continuiamo a costruire questa casa.

In effetti, alcune storielle puntano davvero tutto sulle reazioni illogiche degli esseri umani. Considerate questa:

 

Un impenitente scommettitore indugia un momento prima di affacciarsi al botteghino delle corse di cavalli, e innalza una fervida preghiera per propiziarsi il Signore.

― Dio benedetto ― mormora con una sincerità capace di smuovere le montagne. ― So che Tu non approvi che io giochi d'azzardo, ma soltanto per questa volta, Signore, soltanto per questa volta, per favore, fammi almeno andare alla pari. Ho tanto bisogno di quei soldi.

 

Se foste così matti da raccontare questa barzelletta a un robot, lui chiederebbe immediatamente: ― Ma andare alla pari significa che lascerebbe le corse precisamente con la stessa somma di denaro che aveva quando è arrivato. Non è così?

― Sì, è così.

― Allora, se ha tanto bisogno di quei soldi, quell'uomo deve soltanto fare a meno di scommettere, e sarebbe come se fosse andato alla pari.

― Sì, ma lui è spinto da un irragionevole bisogno di scommettere.

― Vuoi dire anche se perde?

― Sì.

― Ma non ha senso.

― Ma il centro della barzelletta è che lo scommettitore non lo capisce.

― Vuoi dire che è divertente pensare che a una persona manca qualsiasi senso della logica e che non possiede neppure la più semplice capacità di comprendere?

E cosa vi rimane da fare, se non rimettervi a costruire la casa? Ma, ditemi, è poi così tanto diverso avere a che fare con un essere umano completamente privo di senso dell'umorismo? Una volta raccontai a mio padre questa barzelletta:

 

La signora Jones, la padrona di una pensione, si sveglia nel mezzo della notte perché sente degli strani rumori fuori dalla porta. Guarda fuori, e vede il signor Robinson, uno dei suoi pensionanti, che spinge su per le scale un cavallo tutto spaventato.

― Cosa sta facendo, signor Robinson? ― strilla la donna.

― Metto il cavallo nel bagno ― risponde l'altro.

― -Per l'amor del cielo, perché?

― Be', il vecchio Higginbotham è così saccente che qualsiasi cosa gli dico, risponde: “Lo so, lo so”, con un insopportabile senso di superiorità. Be', domattina andrà al bagno e uscirà gridando: “Gente, non immaginerete mai cosa c'è nel bagno!” E io sbadiglierò e dirò: “Lo so, lo so, c'è un cavallo.”

 

E quale fu la reazione di mio padre? ― Isaac, Isaac. Sei un ragazzo di città, tu certe cose non le capisci. Non puoi spingere un cavallo su per le scale, se non vuole andarci.

Personalmente, ritenni la risposta più divertente della barzelletta.

Comunque non vedo perché noi dovremmo voler un robot dotato di senso dell'umorismo, ma il punto è che potrebbe volerlo il robot... e come faremmo a darglielo?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


               RAPPORTI FRA ROBOT

Oramai è quasi mezzo secolo che continuo a inventare storie di robot. Durante tutto questo periodo ho eseguito ogni possibile variazione sul tema.

Intendiamoci, non è mai stata mia intenzione creare una enciclopedia sui robot e tutte le loro sfumature; e non era neppure mia intenzione continuare a scriverci sopra per mezzo secolo. Ma mi è capitato di sopravvivere per tutto questo tempo, conservando vivo il mio interesse per il concetto. Ed è anche capitato che, nel tentativo di scovare sempre nuove idee per storie che coinvolgessero i robot, io abbia finito per pensare quasi a tutto.

Per esempio, nel sesto volume della serie Robot City, compaiono i "chemfet", che vengono introdotti nel corpo dell'eroe per replicargli e offrirgli, alla fine, il controllo psico-elettronico diretto sul computer centrale, e perciò su tutti i robot di Robot City.

Bene, nel mio libro L'orlo della fondazione (Doubleday, 1982), il mio eroe, Golan Trevize, prima di decollare su un'astronave, prende contatto con un computer progredito appoggiando le mani su un punto della scrivania davanti a sé.

"E mentre lui e il computer si tenevano per mano, i loro pensieri si fusero...”

"...vide la stanza con completa chiarezza, non soltanto nella direzione verso la quale stava guardando, ma tutt'intorno e in alto e in basso. Vide ogni cabina dell'astronave, e vide anche l'esterno. Il sole si era levato... e lui poteva guardarlo direttamente senza essere abbagliato..”.

"Sentì il vento lieve e la sua temperatura, e i rumori del mondo tutt'intorno. Percepì il campo magnetico del pianeta e le minuscole cariche elettriche sulla paratia della nave. Divenne conscio dei comandi della nave... Sapeva... che se voleva far alzare in volo la nave, o farla girare, o accelerare, o utilizzare qualunque sua capacità, il procedimento era uguale a quello che avrebbe seguito per realizzare un procedimento analogo con il proprio corpo. Non doveva far altro che usare la sua volontà."

Quello era il meglio a cui potevo arrivare per descrivere il risultato di un'interfaccia mente-computer, e adesso, in rapporto con questo nuovo libro, non posso fare a meno di rifletterci ulteriormente.

La prima volta che gli esseri umani impararono come formare un'interfaccia fra la mente umana e un altro genere di intelligenza, immagino fu quando domarono il cavallo imparando a utilizzarlo come forma di trasporto. L'optimum fu raggiunto quando gli esseri umani montarono in groppa ai cavalli, e quando riuscirono, con una strappata di redini, il tocco di uno sperone, la pressione dei ginocchi, o soltanto un grido, a far reagire il cavallo in sintonia con la loro volontà.

Non c'è da stupirsi se i greci primitivi, vedendo i cavalieri che invadevano le relativamente ampie pianure della Tessaglia (la parte della Grecia più adatta all'equitazione), credettero di vedere un unico animale, con il tronco umano e il corpo di cavallo. Fu così che nacque la leggenda dei centauri.

E poi ci sono i maghi del volante, gli stuntmen che riescono a far fare di tutto a un'automobile. È probabile che un indigeno della Nuova Guinea, che non avesse mai visto prima un'automobile, e non ne avesse neppure sentito parlare, vedrebbe un organismo strano e mostruoso che contiene, come parte intrinseca della sua struttura, un corpo di aspetto umano all'interno del suo stomaco.

Ma un essere umano più un cavallo è soltanto una fusione imperfetta dell'intelligenza, e un essere umano più un'automobile è soltanto un'estensione dei muscoli umani tramite collegamenti meccanici. Un cavallo può rifiutarsi di obbedire agli ordini, o perfino darsi alla fuga in preda a un panico incontrollabile. E un'automobile può guastarsi, o slittare, nel momento meno opportuno.

La fusione dell'uomo con il computer, però, sarebbe molto più vicina all'ideale. Potrebbe essere un'estensione della mente stessa, come ho cercato di rendere evidente in L'orlo della fondazione, una moltiplicazione e intensificazione della percezione sensoriale, un incredibile ampliamento della volontà.

In queste circostanze, la fusione non potrebbe forse rappresentare, nel vero senso della parola, un singolo organismo, una specie di "centauro" cibernetico? E una volta che una simile unione fosse stata stabilita, la frazione umana vorrebbe forse romperla? Non sentirebbe, forse, una tale rottura come una perdita insopportabile, scoprendosi incapace di vivere con l'impoverimento della mente e della volontà che a quel punto si troverebbe costretta ad affrontare? Nel mio romanzo, Golan Trevize poteva staccarsi dal computer di propria volontà, senza subire nessun effetto nocivo. Ma, forse, questo non è realistico.

Un altro problema che compare di tanto in tanto nella serie Robot City, riguarda l'interazione fra robot e robot.

Questa non ha giocato un ruolo significativo nella maggior parte delle mie storie semplicemente perché di solito c'era un unico personaggio robot di una certa importanza, e io mi occupavo soprattutto dell'interazione fra quell'unico robot e diversi esseri umani.

Pensiamo ai rapporti fra i robot.

La Prima Legge dichiara che un robot non può recare danno agli esseri umani, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, gli esseri umani ricevano danno.

Ma supponete che siano coinvolti due robot, e che uno di essi inavvertitamente, o per mancanza di cognizione, o per circostanze speciali, sia impegnato in un'azione (a sua insaputa) destinata chiaramente a danneggiare un essere umano, e supponete che il secondo robot, dotato di maggiore cognizione o intuizione, ne sia consapevole. La Prima Legge non gli imporrebbe forse di impedire al primo robot di causare il danno? Se non ci fosse nessun altro modo, la Prima Legge non gli imporrebbe forse di distruggere il primo robot senza esitazioni o rincrescimento?

Così, nel mio libro I robot e l'impero (Doubleday, 1985), compare un robot per il quale la definizione di essere umano corrisponde a coloro che parlano con un certo accento. L'eroina di quel libro non parla con quell'accento, perciò il robot si sente libero di ucciderla. Quel robot viene prontamente distrutto da un secondo robot.

La situazione è simile a quella della Seconda Legge, secondo la quale i robot sono costretti a obbedire agli ordini loro impartiti dagli esseri umani, sempre che quegli ordini non violino la Prima Legge.

Se, di due robot, uno, a causa della sua disattenzione, o mancanza di comprensione, non obbedisce a un ordine, il secondo deve eseguire lui stesso l'ordine, oppure costringere il primo a farlo.

Così in una drammatica scena di I robot e l'impero la cattiva dà a un robot un ordine perentorio. Il robot esita perché l'ordine potrebbe causare un danno all'eroina, Per un po', allora, c'è un confronto durante il quale la cattiva intensifica il proprio ordine, mentre un secondo robot cerca di far ragionare il primo robot, di portarlo alla più ampia constatazione del danno che verrà arrecato all'eroina. Qui abbiamo il caso di un robot che esorta un altro robot a obbedire alla Seconda Legge nella maniera più genuina, e di opporsi a un essere umano nel farlo.

È la Terza Legge, però, che solleva i problemi più ardui per ciò che riguarda i rapporti fra i robot.

La Terza Legge afferma che un robot deve salvaguardare la propria esistenza, purché ciò non sia in contrasto con la Prima o la Seconda Legge.

Ma se la minaccia riguardasse due robot? Ciascuno di loro dovrebbe preoccuparsi soltanto della propria esistenza, come può far credere una interpretazione letterale della Terza Legge? Oppure ognuno dei robot sentirebbe il bisogno di aiutare l'altro a conservare la propria esistenza?

Come ho detto, questo problema non mi si è mai presentato fintanto che ho avuto a che fare con un solo robot per ogni storia. (Talvolta c'erano altri robot, ma erano personaggi decisamente secondari, semplici portatori d'acqua, per intenderci.)

Però, prima in I robot dell'alba (Doubleday, 1983), e poi nel seguito, I robot e l'impero, ho avuto a che fare con due robot di uguale importanza.

Uno di questi era R. Daneel Olivaw, un robot umanoide (che non si poteva facilmente distinguere da un essere umano), il quale all'inizio era comparso in Abissi d'acciaio (Doubleday, 1954) e nel suo seguito, Il sole nudo (Doubleday, 1957). L'altro era R. Giskard Reventlov, il quale aveva un aspetto metallico più ortodosso. Entrambi i robot erano progrediti al punto di avere un cervello complesso quanto quello umano.

Questi due robot erano impegnati nella lotta contro la cattiva, Lady Vasilia. Giskard (tali erano le esigenze della trama) riceve l'ordine da Vasilia di lasciare il servizio di Gladia (l'eroina) e di affiancarsi a lei. Ed è Daneel a sostenere tenacemente che Giskard deve rimanere con Gladia. Giskard possiede la capacità di esercitare sugli esseri umani un limitato controllo mentale e Daneel gli fa notare che Vasilia deve essere controllata, per garantire la sicurezza di Gladia. E solleva perfino il problema del bene dell'umanità in senso astratto (la "Legge Zero"), in favore di un'azione del genere.

Le argomentazioni di Daneel indeboliscono l'effetto degli ordini di Vasilia. Giskard viene indotto a esitare, ma non può essere costretto ad agire.

Vasilia, però, decide che Daneel è troppo pericoloso; continuando a discutere, potrebbe costringere Giskard a comportarsi come vuole lui. Per questa ragione, ordina ai suoi robot di disattivare Daneel, e inoltre ordina a Daneel di non opporre resistenza. Daneel deve obbedire all'ordine, e i robot di Vasilia si fanno avanti per eseguirlo.

È allora che Giskard agisce. Quei quattro robot vengono disattivati, e la stessa Vasilia si accascia in un sonno d'oblio. Più tardi, Daneel chiede a Giskard di spiegargli cos'è successo.

― Quando lei ha ordinato ai robot di smantellarti, amico Daneel, e ha mostrato un'evidente emozione per il piacere che le dava una simile prospettiva, il tuo stato di bisogno, in aggiunta a ciò che il concetto della Legge Zero aveva già operato, ha soppiantato la Seconda Legge ed è entrato in competizione con la Prima Legge. È stata la combinazione fra Legge Zero, la psicostoria, la mia fedeltà a Lady Gladia, e il tuo stato di bisogno, a dettare la mia azione.

Poi, Daneel sostiene che il suo stato di bisogno (essendo lui solamente un robot) non avrebbe dovuto influenzare per niente Giskard. È ovvio che Giskard è d'accordo, eppure dice: ― È una cosa strana, amico Daneel. Non so come sia successo... Nel momento in cui i robot sono venuti verso di te, e Lady Vasilia ha espresso il suo piacere crudele, la conformazione dei miei circuiti positronici si è ristrutturata in maniera anomala. Per un momento ho pensato a te come... come a un essere umano... e ho reagito di conseguenza.

― Ma era sbagliato ― obbietta Daneel.

― Lo so ― risponde Giskard. ― Eppure... eppure, se dovesse succedere di nuovo, credo che si verificherebbe lo stesso cambiamento anomalo.

E Daneel non può fare a meno di sentire che, se si fosse trovato nella situazione opposta, anche lui avrebbe agito nella stessa maniera.

In altre parole, i due robot avevano raggiunto uno stadio di complessità tale da cominciare a perdere la distinzione fra robot ed esseri umani, al punto da potersi considerare "amici", provando lo stimolo di salvare la reciproca esistenza.

F I N E