Io, Robot

(I, Robot , 1950)

 

 

di Isaac Asimov

 

 

 

Traduzione di Laura Serra

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Indice

 

Le tre leggi della robotica

Introduzione

Robbie (Robbie, 1940)

Circolo vizioso (Runaround, 1942)

Essere razionale (Reason, 1941)

Iniziativa personale (Catch The Rabbit, 1944)

Bugiardo! (Lear!, 1941)

Il robot scomparso (Little Lost Robot, 1947)

Meccanismo di fuga (Escape, 1945)

La prova (Evidence, 1946)

Conflitto evitabile (The Evitable Conflict, 1950)

 

 

 

 

 

 

                    

LE TRE LEGGI DELLA ROBOTICA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1.    Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno.

2.    Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini  non contravvengano alla Prima Legge.

3.    Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa auto-difesa non contrasti con la Prima e con la Seconda Legge.

 

MANUALE di ROBOTICA

56esima Edizione - 2058 d.c.

          

                

 

                

INTRODUZIONE

Avevo riletto i miei appunti e non ne ero soddisfatto. Avevo trascorso tre giorni alla U.S. Robots, ma avrei ottenuto lo stesso risultato se fossi rimasto a casa a consultare l'Enciclopedia Terrestre.

Susan Calvin era nata nel 1982 e quindi aveva settantacinque anni. Questo lo sapevano tutti. Per una coincidenza quasi simbolica, la U.S. Robots & Mechanical Men Corp., era stata fondata esattamente settantacinque anni prima: proprio nell'anno in cui era nata Susan Calvin, Lawrence Robertson aveva fondato quello che doveva diventare il più straordinario colosso industriale della storia dell'umanità. E anche questo lo sapevano tutti.

A vent'anni, Susan Calvin seguì il corso di psicomatematica durante il quale il dottor Alfred Lanning della U.S. Robots presentò il primo robot mobile dotato di voce. Era un robot brutto, goffo, ingombrante, puzzava di olio da macchina ed era destinato alle miniere di Mercurio: ma era in grado di parlare e di ragionare.

Susan non prese parte alle frenetiche discussioni che caratterizzarono quel periodo. Era una ragazza fredda, incolore e insignificante e si difendeva da un mondo che non le piaceva barricandosi dietro una maschera impassibile e una ipertrofia di intelletto. Ma, mentre osservava e ascoltava, sentiva fremere dentro di sé gli stimoli di un gelido entusiasmo.

Nel 2003 Susan Calvin si laureò all'Università di Columbia e cominciò le sue ricerche di cibernetica.

Tutto ciò che era stato realizzato verso la metà del ventesimo secolo in fatto di macchine calcolatrici era stato rivoluzionato da Robertson e dai suoi schemi cerebrali positronici. Miglia e miglia di relais e di cellule fotoelettriche avevano ceduto il posto a un globo spugnoso di platiniridio delle dimensioni di un cervello umano.

Susan Calvin imparò a calcolare i parametri necessari per fissare le possibili variabili nel cervello positronico e a progettare “cervelli” le cui reazioni a determinati stimoli potevano venire previste con estrema esattezza.

Nel 2008 Susan Calvin ottenne il Ph. D. ed entrò a far parte della U.S. Robots come specialista di psicologia dei robot. A quei tempi Lawrence Robertson era ancora presidente della società e Alfred Lanning era diventato direttore delle Ricerche.

Per cinquant'anni, Susan Calvin aveva seguito da vicino il nuovo corso del progresso umano.

E adesso stava per ritirarsi... per quanto le era possibile. Per lo meno, avrebbe permesso a qualcun altro di apporre il proprio nome sulla porta dell'ufficio che era stato il suo.

Questi erano i dati di cui disponevo; c'era un lungo elenco delle sue opere scientifiche e dei brevetti registrati a suo nome; c'era la cronologia delle sue promozioni. Conoscevo tutti i particolari della sua attività professionale.

Ma non era questo che mi interessava.

Per gli articoli che dovevo scrivere per la Interplanetary Press mi occorreva ben altro.

E glielo dissi.

― Dottoressa Calvin, ― feci, sforzandomi di essere convincente, ― nell'opinione pubblica lei si identifica con la U.S. Robots. Il suo ritiro segnerà la fine di un epoca e...

― E lei vuole qualche notizia di interesse umano? ― Non mi sorrise. Probabilmente non sorrideva mai. L'espressione dei suoi occhi era dura, anche se non malevola. Sentii il suo sguardo attraversarmi e mi resi conto che per lei ero trasparente: lo erano tutti, del resto.

― Precisamente, ― dichiarai.

― Vuole trovare elementi di interesse umano nei robot? È una contraddizione di termini.

― Non nei robot, dottoressa. In lei.

― Bene, molti mi hanno definita un robot. Senza dubbio hanno detto anche a lei che io non sono umana.

Me lo avevano detto, infatti, ma non era il caso di ammetterlo proprio davanti a lei.

Susan Calvin si alzò. Non era alta e sembrava addirittura fragile. La seguii quando si avvicinò alla finestra. Guardammo fuori.

Gli uffici e le fabbriche della U.S. Robots costituivano una vera e propria cittadina, spaziosa e pianificata secondo un preciso piano regolatore. E sembrava piatta come una fotografia scattata da un aereo.

― Quando venni a lavorare qui, ― disse Susan Calvin, ― avevo un ufficetto in un edificio che sorgeva dove adesso c'è il deposito dell'attrezzatura antincendio... fu abbattuto prima che lei nascesse. Dividevo quell'ufficio con altre tre persone e avevo a mia disposizione mezza scrivania. Tutta la nostra fabbrica consisteva in quell'unico edificio. Producevamo tre robot alla settimana. E adesso...

― Mezzo secolo è un periodo molto lungo, ― commentai.

― Non mi sembra tanto lungo, quando ci penso, ― disse lei. ― Mi sembra che sia passato così in fretta.

Ritornò alla scrivania, sedette di nuovo. Non aveva bisogno di modificare la sua espressione abituale per sembrare triste.

― Quanti anni ha? ― mi chiese.

― Trentadue.

― Allora lei non può ricordare com'era il mondo senza i robot. C'è stato un tempo in cui l'umanità era sola di fronte all'universo: sola e senza amici. Adesso ha queste creature che l'aiutano: creature più forti, più fedeli, più utili degli esseri umani... creature assolutamente devote. L'umanità non è più sola. Ha mai pensato a tutto questo?

― Temo proprio di no. Posso citare questa sua dichiarazione nei miei articoli?

― Certo. Per lei, un robot è un robot. Metallo e ingranaggi, elettricità e positroni. Un cervello e una massa di ferro. Una creazione degli uomini che gli uomini possono distruggere, se necessario. Ma lei non ha mai lavorato con i robot e quindi non può conoscerli. Sono una razza migliore di noi, più pulita.

Cercai di pungolarla con garbo, per indurla a parlare. ― Mi piacerebbe sentirle raccontare qualche episodio, conoscere le sue opinioni sui robot. La Interplanetary Press raggiunge tutti i pianeti del Sistema Solare e ha un pubblico potenziale di tre miliardi di lettori, dottoressa Calvin. Sarebbe giusto far conoscere a questo pubblico ciò che lei può dire dei robot.

Non fu necessario insistere. Non mi aveva nemmeno ascoltato, ma ormai era lanciata proprio nella direzione che mi interessava.

― Il pubblico avrebbe potuto saperlo fin dal principio. Allora vendevamo robot che potevano venire utilizzati soltanto sulla Terra... anzi, li vendevano ancora prima che io cominciassi a occuparmene. Più' tardi i robot divennero più umani e subito cominciarono le prime ostilità. I sindacati, naturalmente, sostennero che i robot rappresentavano una temibile concorrenza per la manodopera umana; varie sette religiose opposero argomentazioni dettate dalla superstizione. Fu un'opposizione ridicola e inutile... ma non per questo fu meno accanita.

Io stavo incidendo le sue parole su un registratore tascabile, sperando che non se ne accorgesse. Con un po' di esperienza si può imparare a manovrare un registratore di quel tipo senza nemmeno toglierlo dalla tasca.

― Prenda il caso di Robbie, ― disse Susan Calvin. ― Io non l'ho mai conosciuto. Fu smantellato un anno prima che io prendessi servizio presso la U.S. Robots. Ormai era un modello antiquato. Ma ho visto la bambina, al museo...

Si interruppe, ma io non ne approfittai per intervenire. Gli occhi di Susan Calvin erano lievemente appannati, la sua mente stava spaziando nel passato: un passato lungo molti, molti anni.

― Ne ho sentito parlare più tardi e tutte le volte che venivamo accusati di essere blasfemi creatori di demoni, io pensavo a Robbie. Era un robot privo di parola, costruito e venduto nel 1996. Non si era ancora arrivati alla specializzazione assoluta e così Robbie fu venduto come governante.

― Come ha detto?

― Come governante...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ROBBIE

― Novantotto, novantanove, cento. ― Gloria ritrasse il braccio grassottello con cui si era coperta gli occhi e restò un attimo incerta, arricciando il naso e battendo le palpebre nella luce del sole. Poi, cercando di guardare contemporaneamente in tutte le direzioni, si allontanò pian piano dall'albero a cui si era appoggiata.

Allungò il collo per controllare una macchia di cespugli alla sua destra, poi si allontanò ancora per vedere meglio cosa ci fosse in mezzo all'intrico della vegetazione. Il silenzio profondo era rotto soltanto dal ronzio incessante degli insetti e dal cinguettio intermittente di un uccello che osava sfidare il sole di mezzogiorno.

― Scommetto che si è nascosto in casa ― disse Gloria, imbronciata. ― Eppure gliel'ho detto un milione di volte che è contro le regole.

Corrugando indispettita la fronte, strinse le labbra in una smorfia ostile e si diresse decisa verso la casa a due piani che sorgeva in fondo al vialetto.

Era troppo tardi ormai quando sentì il fruscio alle sue spalle, seguito dal suono caratteristico dei passi pesanti di Robbie. Si girò di scatto, giusto in tempo per vedere il suo compagno di giochi sbucar fuori trionfante dal suo nascondiglio e correre verso l'albero-tana.

― Aspetta, Robbie! ― gridò, delusa. ― È contro le regole! Avevi promesso che non avresti cominciato a correre finché non ti avessi trovato! ― I suoi piedi di bambina potevano ben poco, davanti ai passi da gigante di Robbie. Ma, a pochi metri dalla meta, Robbie rallentò di colpo l'andatura, strascicando le gambe. Con uno scatto finale Gloria lo sorpassò ansimando e riuscì a toccare per prima la corteccia dell'agognato albero-tana.

Poi si girò raggiante verso il fedele robot e, con la più nera ingratitudine, ricompensò il suo sacrificio rinfacciandogli crudelmente la sua scarsa abilità di corridore.

― Robbie non sa correre! ― cantilenò in falsetto, con tutto il fiato che i suoi otto anni le consentivano. ― Lo posso battere quando voglio! Lo posso battere quando voglio!

Robbie non rispose, naturalmente. Per lo meno, non a parole. Inscenò invece una pantomima, allontanandosi da Gloria, che lo inseguì, e schivandola di stretta misura, finché lei si trovò a correre in cerchio attorno a se stessa nel vano tentativo di acchiapparlo.

― Robbie! ― strillò la bambina. ― Fermati! ― E si mise a ridere con piccoli singulti che la lasciarono senza fiato.

Alla fine il robot si girò di colpo e la sollevò in aria, facendola roteare. A Gloria sembrò che il mondo per un attimo si dissolvesse in una vacuità azzurra verso la quale si protendevano bramose le cime verdi degli alberi. Poi si ritrovò di nuovo sull'erba, appoggiata a una gamba di Robbie e con la mano ancora stretta intorno a una delle sue forti dita metalliche.

Dopo un po' riuscì a riprendere fiato. Imitando uno dei gesti abituali di sua madre si passò una. mano tra i capelli scompigliati, senza ottenere alcun risultato; poi si guardò il vestito per controllare se non fosse strappato.

― Cattivo! ― disse, battendo la mano sul petto di Robbie. ― Ti darò le sculacciate!

Robbie si fece piccolo piccolo e si nascose la faccia tra le mani.

― No, Robbie ― disse allora Gloria. ― Non te le do le sculacciate. Ma adesso tocca a me nascondermi, perché tu hai le gambe più lunghe e avevi promesso di non correre finché non ti trovavo.

Robbie fece cenno di sì con la testa, un piccolo parallelepipedo dagli angoli smussati che era attaccato al parallelepipedo molto più grande del torso per mezzo di un perno corto e flessibile. Poi obbedì all'ordine e si appoggiò all'albero, tenendovi la faccia contro. Una sottile pellicola di metallo gli coprì gli occhi lucenti, mentre dal corpo usciva un ticchettio intenso e regolare.

― Adesso non guardare... e non saltare qualche numero ― lo ammonì Gloria, correndo a nascondersi.

I secondi furono scanditi con perfetta precisione; allo scoccare del centesimo le palpebre del robot si sollevarono e i suoi lucenti occhi rossi perlustrarono l'orizzonte, soffermandosi un attimo su di un pezzo di stoffa colorata che spuntava da dietro un masso. Robbie avanzò di qualche passo e si convinse che Gloria era nascosta proprio lì.

Tenendosi sempre fra Gloria e l'albero-tana, si avvicinò piano piano al nascondiglio; quando la bambina fu chiaramente visibile e non poté più illudersi di non essere stata scoperta, le puntò il dito contro, battendosi l'altra mano contro la gamba, che emise un suono metallico. Gloria sbucò da dietro il masso con aria imbronciata.

― Hai guardato! ― esclamò, pur sapendo che non era vero. ― Ma adesso sono stufa di giocare a nascondino. Voglio che tu mi porti a cavalluccio.

Robbie però era offeso per l'accusa immeritata. Così si sedette pesantemente sull'erba e scosse la testa massiccia.

Gloria cambiò immediatamente tono e cominciò a blandirlo. ― Su, Robbie, non dicevo sul serio, lo so che non hai guardato. Fammi fare cavalluccio.

Ma Robbie non intendeva cedere così in fretta. Fissò ostinato il cielo e scosse la testa con maggior convinzione di prima.

― Ti prego, Robbie. Prendimi in groppa. ― Gloria gli circondò il collo con le mani rosee, stringendolo in un abbraccio. Poi cambiò umore per l'ennesima volta e si ritrasse. ― Se non mi porti a cavalluccio mi metto a piangere ― disse, facendo il broncio in preparazione delle lacrime.

Indifferente a quella spaventosa minaccia, Robbie scosse la testa per la terza volta. Gloria fu costretta a giocare il suo asso di briscola.

― Allora ― disse accalorata, ― non ti racconterò più le favole. Nemmeno una!

Davanti a quell'ultimatum, Robbie capitolò subito senza porre condizioni. Annuì energicamente, tanto che le giunture metalliche del collo scricchiolarono. Poi sollevò con cautela la bambina e la prese a cavalluccio sulle sue spalle larghe e piatte.

Gloria lasciò subito da parte il broncio ed emise un grido di gioia. La pelle metallica di Robbie, mantenuta alla temperatura costante di ventun gradi da induttori ad alta resistenza collocati all'interno del corpo, era gradevole al tatto, e il rumore dei tacchi di Gloria che battevano ritmicamente contro il petto del robot era davvero delizioso.

― Fai finta di essere un aliante, Robbie, un grande aliante dalle ali d'argento. Tieni le braccia aperte. Forza, Robbie, devi aprirle se vuoi essere sul serio un aliante.

La logica del discorso era ferrea. Robbie diventò l'aliante d'argento e le sue braccia si protesero come ali, pronte a volare sospinte dalle correnti d'aria.

Gloria s'inclinò leggermente verso destra, facendo girare la testa del robot in quella direzione. Robbie compì una virata stretta. "Brrr, brrr", rombava il motore dell'aliante. "Shshsh, chuuu", fischiavano le armi di cui era dotato. I pirati dell'aria stavano attaccando e le mitragliatrici dell'apparecchio cominciarono a crepitare. I pirati morivano come le mosche.

― Ne ho beccato un altro! ― gridò Gloria. ― E anche altri due!

― Svelti, ragazzi ― disse poi, con enfasi. ― Siamo a corto di munizioni. ― Sollevò il braccio per prendere la mira e sparò con eroico coraggio, mentre Robbie si trasformava in un'astronave dal muso tozzo che sfrecciava nel vuoto alla massima velocità.

Il robot attraversò di corsa il campo fino allo spiazzo che si apriva all'estremità opposta, poi, strappando un gridolino di sorpresa alla sua passeggera infiammata dal combattimento, si fermò di colpo e la depose sul soffice tappeto erboso.

Gloria ansimava e boccheggiava, esclamando ogni tanto, appena riprendeva fiato: ― Com'è stato bello!

Robbie aspettò che si fosse calmata del tutto, poi le afferrò una ciocca di capelli e la tirò con dolcezza.

― Cosa vuoi? ― disse Gloria, sgranando gli occhi come a far capire che non immaginava proprio il significato di quel gesto. Ma la grossa baby-sitter di metallo non si lasciò ingannare dalla sua finta ingenuità, e tirò la ciocca con più forza.

― Ah, ho capito ― disse la bambina. ― Vuoi che ti racconti una favola.

Robbie annuì.

― Quale?

Robbie tracciò nell'aria con un dito un semicerchio.

Ancora? ― protestò Gloria. ― Ti avrò raccontato "Cenerentola" almeno un milione di volte. Non sei stufo di sentirla? È una favola per bambini piccoli.

Robbie tracciò un altro semicerchio nell'aria.

― E va bene. ― Gloria raccolse le idee, ripensò ai particolari della storia (comprese le numerose varianti di sua invenzione), poi disse: ― Sei pronto? Allora... C'era una volta una bella bambina di nome Ella. Ella aveva una matrigna molto cattiva e due sorellastre molto brutte e molto cattive, e...

 

Gloria era arrivata al punto culminante della favola. A Robbie, che pendeva dalle sue labbra e la guardava con occhi scintillanti, stava spiegando come fosse scoccata mezzanotte e il bel vestito di Ella fosse tornato ad essere di colpo lo straccio che la bambina indossava durante il giorno. Ma proprio in quel momento una voce interruppe il racconto.

― Gloria!

Era una voce femminile un po' aspra, come di chi avesse già chiamato non una, ma molte volte; e nel tono seccato si coglieva una sfumatura d'ansia che pareva in fondo più forte della rabbia.

― La mamma mi chiama ― disse Gloria, senza troppo entusiasmo. ― Sarà meglio che mi riporti a casa, Robbie.

Robbie obbedì prontamente, perché in qualche modo si rendeva conto che conveniva obbedire alla signora Weston senza la minima esitazione. Il padre di Gloria non era quasi mai a casa durante il giorno, tranne la domenica (e quel giorno era appunto domenica), ma quando c'era aveva i modi della persona cordiale e comprensiva. La madre di Gloria invece metteva a disagio Robbie, che quando la vedeva provava sempre la tentazione di svignarsela.

La signora Weston scorse la figlia e il robot nell'attimo in cui emergevano dall'erba alta che li aveva nascosti e rientrò, aspettandoli in casa.

― Mi sono sgolata fino a farmi venire la raucedine, Gloria ― disse poi, severa. ― Dov'eri?

― Ero con Robbie ― rispose la bambina con voce tremante. ― Gli stavo raccontando "Cenerentola" e mi sono dimenticata che era ora di pranzo.

― Ah sì? È un peccato che se ne sia dimenticato anche Robbie. ― Poi, come ricordandosi solo allora della presenza del robot, la signora Weston si girò verso di lui e disse: ― Puoi andare, Robbie. Gloria non ha bisogno di te, adesso. ― Quindi aggiunse, brusca: ― E non tornare finché non ti chiamo.

Il robot voltò le spalle, poi però esitò, sentendo Gloria che insorgeva in sua difesa.

― Aspetta un attimo, mamma, lascia che resti qui. Non ho ancora finito di raccontargli "Cenerentola". Gli ho promesso che gliela avrei raccontata e non ho finito.

― Gloria!

― Ti assicuro che starà buono, mamma, non ti accorgerai nemmeno di lui. Lo farò sedere in un angolo e non dirà una sola parola. Cioè, non farà un solo gesto. È vero, Robbie?

Robbie, chiamato in causa, annuì con il suo testone.

― Gloria, se non la smetti subito, ti proibirò di vedere Robbie per un'intera settimana.

― E va bene ― disse la bambina, abbassando gli occhi. ― Però "Cenerentola" è la sua favola preferita e io non ho finito di raccontargliela. Gli piace tanto...

Il robot uscì dalla stanza con aria sconsolata e Gloria soffocò le lacrime.

 

George Weston era soddisfatto. Lo era sempre, la domenica pomeriggio. Un buon pranzo abbondante sotto il pergolato, un bel divano morbido e un po' sdrucito in cui sdraiarsi dopo, una copia del Times da leggere con le pantofole ai piedi e niente camicia addosso: com'era possibile non essere soddisfatti?

La soddisfazione tuttavia gli passò quando vide entrare sua moglie. Dopo dieci anni di matrimonio era ancora così inconcepibilmente stupido da amarla, e certo gli piaceva sempre stare in sua compagnia. Ma la domenica pomeriggio era sacra per lui, specie al dopopranzo; ci teneva molto a starsene in santa pace per due o tre ore. Così fissò gli occhi sull'articolo dove si parlava della spedizione Lefebre-Yoshida diretta verso Marte (che sarebbe partita da Base Luna e sembrava avere buone probabilità di successo) e finse di non vedere la moglie.

La signora Weston aspettò per due minuti pazientemente, poi, impazientemente, per altri due, e infine ruppe il silenzio.

― George!

― Mmmm?

― Ho detto George! Ti spiace metter giù quel giornale un attimo e guardare me?

Il giornale cadde con un fruscio sul pavimento e Weston si girò verso la moglie con aria annoiata.

― Cosa c'è, tesoro?

― Sai benissimo cosa c'è, George. Si tratta di Gloria e di quell'abominevole macchina.

― Che abominevole macchina?

― Senti, non fingere di non sapere di cosa sto parlando. Quel robot che Gloria chiama Robbie. Non la lascia un momento.

― E perché dovrebbe? Il suo compito è proprio di accudirla. Poi non è certo un'abominevole macchina. È di gran lunga il miglior robot che ci sia sul mercato e, Cristo, mi costa la metà del reddito di un anno. Ma valeva la pena comprarlo. È molto, molto più in gamba di metà del personale del mio ufficio.

Allungò la mano per raccogliere il giornale da terra, ma sua moglie fu più svelta e glielo soffiò.

― Ascoltami bene, George. Non intendo che mia figlia sia affidata a una macchina, per quanto efficiente questa possa essere. Non ha un'anima, e chissà che pensieri passano per quella testa. I bambini non sono fatti per essere accuditi da un affare di metallo.

― E quest'idea quand'è che ti è venuta in mente? ― disse Weston, aggrottando la fronte. ― Ormai Robbie sta con Gloria da due anni e tu finora non mi sembravi preoccupata.

― All'inizio era diverso, era una novità. Mi sollevava che si occupasse lui della bambina, e poi avere un robot era di moda. Ma adesso non so. I vicini...

― Cosa c'entrano i vicini? Senti, rifletti un po'. Un robot baby-sitter è infinitamente più fidato di una creatura in carne e ossa. Robbie è stato costruito proprio per quell'unico scopo: essere il compagno di giochi di un bambino. Gli hanno creato sin nei minimi particolari una "mentalità" proiettata verso quel fine. È matematico che sia fedele, affettuoso e gentile: si tratta di una macchina costruita per questo. Puoi dire forse altrettanto per gli esseri umani?

― Ma qualcosa potrebbe andare storto. Una.. una... ― e qui la signora Weston rimase incerta, perché non aveva familiarità con i meccanismi interni di un robot, ― una piccola vite potrebbe allentarsi, e così quell'orribile mostro impazzirebbe e... e... ― Non riuscì a dare forma completa al suo pensiero, benché fosse perfettamente chiaro.

― Sciocchezze ― sentenziò Weston, con uno scatto involontario di nervosismo. ― È davvero assurdo. Quando abbiamo comprato Robbie abbiamo discusso a lungo della Prima Legge della Robotica. Sai benissimo che un robot non può recar danno a un essere umano, e che se comincia a funzionare male, si disattiva del tutto molto prima di poter contravvenire alla Prima Legge. È matematicamente impossibile che impazzisca. E poi due volte all'anno faccio venire qui un tecnico della U.S. Robots perché revisioni accuratamente quella povera macchina. Insomma, è da escludersi che Robbie vada in tilt, così come è da escludersi che tu ed io diventiamo matti all'improvviso. Anzi, è semmai più facile che si verifichi quest'ultima eventualità. Ma poi, come credi di poterlo sottrarre a Gloria?

Provò ancora una volta a raccogliere il giornale, ma sua moglie, infuriata, lo buttò nella stanza accanto.

― George, lo vuoi capire che Gloria si rifiuta di giocare con chiunque non sia Robbie? Ci sono dozzine di bambini e bambine con cui potrebbe fare amicizia, ma non le interessano. Non si avvicina nemmeno a loro, se non sono io a spingerla. Non va bene che una bambina cresca così. Tu vuoi che sia normale, no? Che sia in grado di prendere il suo posto nella società...

― Non hanno senso le tue paure, Grace. Fa' finta che Robbie sia un cane. Ho visto tanti bambini affezionati più al cane che al proprio padre.

― Un cane è diverso, George. Bisogna che ci sbarazziamo assolutamente di quell'orribile macchina. Puoi rivenderla alla compagnia. Mi sono informata e so che si può.

― Ti sei informata? Senti un po', Grace, cerchiamo di evitare che questa discussione degeneri. Terremo quel robot finché Gloria sarà più grande. Non voglio sentir più parlare dell'argomento.

E così detto il signor Weston uscì infuriato dalla stanza.

 

Due sere dopo la signora Weston accolse il marito sulla porta di casa. ― Devi ascoltarmi, George ― disse. ― In paese la gente comincia a pensar male.

― Pensar male di che? ― fece Weston, infilandosi in bagno e aprendo l'acqua per coprire col rumore ogni possibile risposta della moglie.

La signora Weston aspettò. Poi disse: ― Di Robbie.

Weston uscì dal bagno con in mano l'asciugamano. ― Ma di cosa diavolo stai parlando? ― disse, rosso in viso per la rabbia.

― Oh, le prove di quanto dico si sono accumulate a poco a poco. Io all'inizio ho cercato di far finta di niente, ma adesso sono costretta ad affrontare la situazione. Quasi tutti in paese considerano Robbie pericoloso. Di sera ai bambini non permettono nemmeno di avvicinarsi a casa nostra.

― Ma se noi a quel robot abbiamo addirittura affidato nostra figlia!

― Sai com'è, la gente non è mica molto ragionevole quando si parla di queste cose.

― Allora che vada al diavolo.

― Con un frase così non risolvi il problema. Io in paese devo fare compere tutti i giorni, e la gente la vedo per forza. In città poi è ancora peggio, per quel che riguarda l'argomento robot. A New York hanno appena approvato un'ordinanza che vieta ai robot di circolare in strada dal tramonto all'alba.

― D'accordo, ma non possono impedirci di tenere in casa un robot. Grace, ormai ho capito che ti sei messa in testa di cacciare via Robbie, però i tuoi sforzi sono inutili. La risposta è ancora no. Robbie resta.

 

Ma Weston amava sua moglie e, quel che era peggio, sua moglie lo sapeva. George Weston in fondo era soltanto un uomo, poveretto, e sua moglie usò fino in fondo tutte le arti da cui il sesso maschile, più ingenuo e fiducioso, cerca giustamente ma inutilmente di difendersi.

Durante la settimana seguente Weston gridò almeno dieci volte: ― Robbie resta con noi, e non si discute! ― Ma la sua risposta suonava sempre più fiacca ed era accompagnata da un gemito ogni volta più triste e lamentoso.

Infine venne il giorno in cui Weston si rivolse alla figlia con aria colpevole e le propose di andare in paese a vedere uno spettacolo di visivox "molto bello".

Gloria batté le mani tutta contenta. ― Può venire anche Robbie? ― disse.

― No, cara ― rispose il padre, rabbrividendo al suono della sua stessa voce. ― Non è permesso portare i robot al visivox, ma gli potrai raccontare tutto quando torni a casa. ― Si inceppò nelle ultime parole e distolse lo sguardo.

Quando tornò dal paese, Gloria era al settimo cielo: il visivox era stato davvero molto bello.

Aspettò che suo padre portasse la jet-macchina nel garage sotterraneo, poi disse: ― Non vedo l'ora di raccontare tutta la storia a Robbie, babbo. Quanto gli sarebbe piaciuto assistere allo spettacolo! È stato favoloso soprattutto quando Francis Fran tornando indietro bello tranquillo è incappato proprio in uno degli uomini-leopardo e se l'è dovuta dare a gambe. ― Rise, ricordando la scena. ― Ci sono davvero gli uomini-leopardo sulla Luna, babbo?

― Credo di no ― disse Weston, distratto. ― Solo, è divertente far finta che ci siano. ― Ormai non poteva più continuare ad armeggiare intorno alla macchina. Doveva affrontare la situazione.

Gloria attraversò il prato di corsa. ― Robbie! Robbie! ― gridò. Poi si fermò di colpo, vedendo un bel collie che dalla veranda scodinzolava e la guardava con languidi occhi neri.

― Oh, che cane delizioso! ― Gloria salì i gradini, si avvicinò con prudenza e lo accarezzò. ― È per me, babbo?

― Sì, Gloria ― disse la madre, che li aveva raggiunti. ― È davvero delizioso, con tutto quel pelo morbido. E poi è molto buono. Gli piacciono le bambine.

― Sa fare dei giochi?

― Certo, e tanti, anche. Vuoi vederne qualcuno?

― Sì, subito. Ma voglio che lo veda anche Robbie. Robbie! ― Per un attimo rimase perplessa, poi aggrottò la fronte. ― Scommetto che se ne sta rintanato nella sua stanza perché non l'ho portato al visivox e si è offeso. Gli spieghi tu come stanno le cose, babbo? A me potrebbe non credere, ma lui sa che tu non racconti mai bugie.

Weston strinse le labbra. Si girò verso la moglie, ma non incontrò il suo sguardo.

Gloria si voltò e si precipitò giù per le scale della cantina gridando: ― Robbie! Vieni a vedere cosa m'hanno regalato il babbo e la mamma! Mi hanno regalato un cane!

Un attimo dopo era di ritorno, spaventata. ― Mamma, Robbie non è nella sua stanza. Dov'è? ― Non ci fu risposta. George Weston tossì e ostentò un improvviso interesse per una nuvola che correva senza meta nel cielo. Gloria, sul punto di scoppiare a piangere, con voce tremante ripeté: ― Dov'è Robbie, mamma?

La signora Weston si sedette e attirò a sé sua figlia, con dolcezza. ― Non prendertela, Gloria. Credo che Robbie se ne sia andato.

Andato? E dove? Dov'è andato, mamma?

― Non si sa, tesoro, Se n'è andato e basta. L'abbiamo cercato, cercato tanto, sai, ma non siamo riusciti a trovarlo.

― Vuoi dire che non tornerà mai più? ― disse Gloria, sgranando gli occhi inorridita.

― Può darsi che lo ritroviamo presto. Continueremo a cercarlo. Intanto potrai giocare col tuo bel cagnolino. Guardalo! Si chiama Lampo e sa...

― Non lo voglio quell'odioso cane, io ― disse Gloria, con le lacrime agli occhi. ― Voglio Robbie. Voglio che mi ritrovi Robbie! ― A quel punto l'emozione diventò troppo intensa per essere espressa a parole, e la bambina scoppiò in un pianto disperato.

La signora Weston buttò un'occhiata al marito, in cerca di aiuto, ma poiché lui continuava a fissare immusonito la nuvola dondolandosi sui piedi, toccò a lei incaricarsi di consolare la figlia. ― Perché piangi, Gloria? Robbie era solo una macchina, un brutto ammasso di metallo senza vita.

― No che non era niente una macchina! ― strillò Gloria, dimenticando nella foga la grammatica. ― Era una persona come te e me, ed era mio amico. Lo rivoglio indietro. Ti prego, mamma, lo rivoglio indietro!

La madre gemette, sconfitta, e lasciò Gloria nel suo dolore.

― Lascia che si sfoghi a piangere ― disse al marito. ― Ai bambini la tristezza passa presto. Tra qualche giorno non saprà neanche più che quell'orribile robot è esistito.

Ma il tempo dimostrò che la signora Weston era stata un po' troppo ottimista. Certo, Gloria smise di piangere, ma smise anche di sorridere, e diventò sempre più taciturna e scontrosa. A poco a poco la sua apatia e il suo malumore fiaccarono la resistenza della signora Weston, che si sarebbe anche arresa se non si fosse trovata nell'impossibilità di ammettere davanti al marito di avere avuto torto.

Poi, una sera, piombò in soggiorno con l'aria della persona infuriata e si sedette incrociando le braccia.

Il marito allungò il collo per guardarla al di sopra del giornale e disse: ― Cosa c'è, Grace?

― Quella bambina, George. Oggi ho dovuto rimandare indietro il cane. Gloria non poteva neanche sopportare di vederlo. Mi sta facendo venire l'esaurimento nervoso.

Weston mise giù il giornale e fissò la moglie con un barlume di speranza negli occhi. ― Forse... forse dovremmo riprendere con noi Robbie. Si può fare, sai. Posso mettermi in contatto con...

― No! ― replicò lei, decisa. ― Non ne voglio nemmeno sentir parlare. Non bisogna cedere così facilmente. Mia figlia non sarà allevata da quel robot, dovesse anche continuare a pensare a lui per anni e anni.

Weston, deluso, riprese il giornale in mano. ― Un altro anno di queste discussioni e imbiancherò i capelli prima del tempo.

― Grazie tante dell'aiuto, George ― disse lei, gelida. ― Gloria ha bisogno soltanto di cambiare ambiente. È chiaro che stando qui le è impossibile dimenticare Robbie. Come potrebbe mai, se ogni albero e ogni sasso glielo ricordano? È davvero la situazione più assurda che mi sia mai capitato di vedere. Pensa. Una bambina che si strugge perché ha perso il suo robot!

― Be', torniamo a bomba. Che cambiamento d'ambiente avevi in progetto?

― La porteremo a New York.

― In città! E d'agosto, poi! Ma hai un'idea di come sia New York in agosto? Non ci si resiste.

― Milioni di persone ci resistono benissimo.

― Perché non hanno un posto come questo dove andare. Se non fossero costrette a rimanere a New York, non ci starebbero sicuro.

― Be', anche noi siamo costretti. Partiremo subito, o meglio, appena avremo fatto i preparativi. In città Gloria troverà tante cose interessanti e tanti amici, e così tornerà allegra e riuscirà a dimenticare quella macchina.

― Dio santo ― gemette la sua dolce, ma più debole metà. ― Se penso a quei marciapiedi di asfalto sciolto!

― È un dovere che abbiamo ― replicò la signora Weston, irremovibile. ― Gloria in un mese è calata due chili e mezzo, e la salute della mia bambina mi sta più a cuore del tuo attaccamento egoistico alle comodità.

― Peccato che tu non abbia pensato alla salute della tua bambina prima di privarla del suo compagno di giochi ― borbottò Weston, tra sé e sé.

 

Gloria mostrò subito segni di miglioramento, appena le annunciarono l'imminente gita in città. Non ne parlava molto, ma quando lo faceva appariva contenta, ansiosa di partire al più presto. Tornò a sorridere, e a volte mangiava perfino con l'appetito di un tempo.

La signora Weston era assai compiaciuta e ne approfittò per vantarsi della propria vittoria con il marito, che restava ancora scettico.

― Sai, George, è tutta servizievole. Mi aiuta a fare le valigie e chiacchiera allegramente come se non avesse un pensiero al mondo. È proprio come ti avevo detto: basta sostituire i vecchi interessi con dei nuovi.

― Uhm ― commentò il marito, poco convinto. ― Speriamo che tu abbia ragione.

I preparativi portarono via poco tempo. La signora Weston fece mettere in ordine la casa di città e assunse una coppia di custodi per quella di campagna. Quando arrivò finalmente il giorno della partenza, Gloria era quasi tornata a essere la bambina di un tempo, e non accennò mai neanche una volta a Robbie.

Tutta allegra, la famiglia prese un girotaxi per andare all'aeroporto (Weston avrebbe preferito usare il suo autogiro privato, ma era un biposto senza spazio per i bagagli) e salì sull'aereo di linea che stava per partire.

― Vieni, Gloria ― disse la signora Weston. ― Ti ho riservato un posto vicino al finestrino, così puoi guardare il panorama.

Gloria, esultante, si affrettò lungo il corridoio, premette il naso contro lo spesso vetro trasparente, disegnandovi un ovale bianco, e guardò intenta fuori. Quando i motori di colpo cominciarono a rombare, il suo interesse crebbe. Era ancora troppo piccola per provare paura vedendo il suolo scomparirle sotto quasi fosse risucchiato da una botola, e per sentire come un pericolo il fatto di pesare all'improvviso il doppio del normale. Ma non era così piccola da non restare profondamente affascinata da quel che le succedeva intorno. Solo quando la terra fu così lontana da sembrare una trapunta composta di tanti piccoli quadrati Gloria si staccò dal finestrino e tornò a guardare sua madre.

― Arriveremo presto in città, mamma? ― chiese, strofinandosi il naso gelato e guardando con interesse la chiazza di umidità che il suo respiro aveva formato sul vetro e che adesso stava scomparendo piano piano.

― Fra circa mezz'ora, tesoro ― disse la signora Weston. Poi, con un'impercettibile sfumatura d'ansia, aggiunse: ― Non sei contenta? Non credi che ti divertirai, in città, con tutti quei palazzi, e la gente, e tante belle cose da vedere? Andremo al visivox tutti i giorni, poi al circo e ad altri spettacoli, e anche in spiaggia e...

― Sì, mamma ― rispose Gloria, senza entusiasmo. L'aereo stava passando in quel momento sopra un banco di nubi, e Gloria fu subito attratta dall'insolita visione delle nuvole sotto l'apparecchio. Poi il cielo fu di nuovo limpido, e la bambina si rivolse alla madre con una misteriosa aria di intesa.

― Io lo so perché andiamo in città, mamma.

― Ah sì? ― La signora Weston era perplessa. ― Perché, tesoro?

― Non me lo hai detto perché volevi farmi una sorpresa, ma io lo so. ― Per un attimo Gloria si compiacque della propria perspicacia, poi si mise a ridere allegramente. ― Andiamo a New York per cercare Robbie, vero? Per ritrovarlo con l'aiuto degli investigatori.

Quel discorso colse George Weston proprio mentre beveva un bicchier d'acqua, e i risultati furono disastrosi. Weston emise un gemito strozzato, spruzzò l'acqua tutt'intorno, poi fu preso da un accesso di tosse. Quando si fu calmato restò immobile con il viso rosso per lo sforzo, per la figura che aveva fatto e per la sete che non era riuscito a placare.

La signora Weston restò padrona di sé, ma quando Gloria ripeté la domanda con un tono di voce più ansioso, anche lei trovò difficile mantenere la calma.

― Può dirsi ― rispose, aspra. ― Ma adesso smetti di far domande e stai un po' buona, santo cielo.

 

New York City, nel 1998 d.C, era un paradiso per i turisti più di quanto lo fosse mai stata nel corso della sua storia. I genitori di Gloria se ne resero conto subito e cercarono di sfruttare al massimo la situazione.

Seguendo scrupolosamente le direttive della moglie, George Weston sistemò le cose in modo che in ufficio si potesse andare avanti senza di lui per almeno un mese. Così fu libero di dedicare il suo tempo al compito di "allontanare Gloria dell'abisso in cui stava precipitando". Com'era nel suo stile, Weston affrontò l'impresa con efficienza, scrupolosità e senso pratico. Prima che il mese fosse passato aveva già fatto tutto quello che era possibile fare.

Gloria fu portata fino in cima al Roosevelt Building, alto mezzo miglio, e da lì contemplò un po' impaurita il panorama di guglie e palazzi che si estendeva lontano, confondendosi all'orizzonte con i campi di Long Island e le pianure del New Jersey. Visitarono gli zoo, dove la bambina, spaventata ma anche deliziosamente eccitata, ebbe modo di vedere un "vero leone vivo e vegeto" (e di deludersi apprendendo che i custodi gli davano da mangiare carne cruda di animali, anziché, come s'era aspettata lei, esseri umani). Sempre allo zoo Gloria chiese insistentemente e perentoriamente di vedere "la balena".

Poi la famiglia Weston dedicò parte della sua attenzione anche ai vari musei, alle spiagge, ai parchi e agli acquari.

Gloria fu condotta lungo il fiume Hudson su un battello a vapore arredato secondo l'antico stile un po' folle che usava negli anni Venti. Partecipò a un volo dimostrativo che la portò su nella stratosfera, dove il cielo diventò d'un blu violaceo trapunto di stelle, mentre la terra nebbiosa appariva come un'immensa ciotola concava. A bordo di un sottomarino dalle pareti di vetro Gloria s'inabissò nelle acque dello stretto di Long Island e vide un mondo verde e ondeggiante dove esseri strani, quasi inverosimili, la sbirciavano per poi fuggire via.

La signora Weston, interessata più alle cose concrete, portò la figlia nei grandi magazzini e lì Gloria scoprì un altro regno delle fate, benché di natura diversa da quelli precedenti.

Così, quando il mese fu agli sgoccioli, i Weston erano ormai convinti di avere fatto tutto il possibile perché la figlia dimenticasse definitivamente il robot scomparso; ma non avevano la sicurezza matematica di essere riusciti nell'intento.

Restava il fatto che Gloria, ovunque andasse, era attratta e affascinata da qualsiasi robot incontrasse per caso. Anche quando le capitava di guardare uno spettacolo entusiasmante, magari mai visto prima, si distraeva subito se coglieva con la coda dell'occhio il movimento di una sagoma metallica.

La signora Weston si sforzò in ogni modo di tenere Gloria lontana da tutti i robot.

La vicenda raggiunse il punto critico durante la visita al Museo della Scienza e dell'Industria. Il Museo aveva annunciato uno speciale "programma per bambini", durante il quale sarebbero state mostrate meraviglie scientifiche comprensibili anche per un pubblico infantile. I Weston, naturalmente, avevano messo subito quella visita nell'elenco delle cose "da fare assolutamente".

Fu mentre contemplavano con estremo interesse il funzionamento di un potente elettromagnete che la signora Weston si accorse a un tratto di come Gloria non fosse più con loro. Dopo il primo momento di panico, Grace Weston riacquistò il suo sangue freddo e, chiamando in aiuto tre inservienti, cominciò a cercare con cura la figlia.

Ma Gloria non era certo tipo da mettersi a girare senza meta. Era particolarmente decisa e risoluta per la sua età; sotto quel profilo, aveva certo ereditato i geni della madre. Al terzo piano aveva notato un gran cartello che indicava l'itinerario da seguire se si voleva vedere il Robot Parlante. Aveva letto attentamente la scritta, poi, capendo che i genitori non intendevano andare nella direzione giusta, aveva messo in atto il piano che le era parso più ovvio: approfittando di un momento di distrazione della madre si era allontanata e aveva seguito le indicazioni del cartello.

 

Il Robot Parlante era un marchingegno assai poco pratico, che aveva solo un valore pubblicitario. Una volta ogni ora, un gruppo di visitatori accompagnato dalla guida entrava nella sala e rivolgeva caute domande all'ingegnere robotico di turno. L'ingegnere sceglieva le domande più adatte ai circuiti del robot e gliele trasmetteva.

Era un rito abbastanza stupido. A qualcuno poteva anche interessare di sapere che il quadrato di quattordici è centonovantasei, che la temperatura in quel particolare momento era di ventidue gradi e la pressione atmosferica di 774 millimetri di mercurio, e che il peso atomico del sodio è 23, ma non occorreva certo la presenza di un robot per soddisfare quelle curiosità. Specie considerato che il robot in questione era una massa immobile e ingombrante di fili e bobine che occupava più di venticinque metri quadrati di spazio.

Erano poche le persone che si prendevano la briga di tornare per un secondo giro di domande, ma una ragazza sulla quindicina se ne stava seduta su una panca ad aspettare tranquilla il terzo turno. C'era solo lei, nella sala, quando Gloria entrò.

Gloria non la degnò di un'occhiata. Per lei in quel momento gli esseri umani avevano scarsa rilevanza. Tutta la sua attenzione era concentrata su quel grosso mostro metallico con le ruote. Per un attimo esitò, un po' sgomenta. Era una macchina molto diversa da tutti i robot che aveva visto lei.

Poi, cauta e dubbiosa, con voce acuta disse: ― Per piacere, signor Robot, tu sei il Robot Parlante, vero, signore? ― Non ne era proprio sicura, ma aveva l'impressione che a un robot capace di parlare fosse il caso di rivolgersi con grande gentilezza.

(La ragazza sulla quindicina, un tipo magro e poco attraente, di colpo si animò, tirò fuori un piccolo notes e cominciò a scrivere in fretta, con calligrafia infantile.)

Si sentì un ronzio di ingranaggi oliati, poi una voce dal timbro meccanico e priva di accenti ed inflessioni tuonò: ― Io... sono... il... robot... che... parla.

Gloria lo fissò delusa. In effetti la macchina parlava, ma il suono proveniva dal suo interno. Non c'era una faccia a cui rivolgersi. ― Signor Robot, puoi aiutarmi, signore? ― disse la bambina.

Il Robot Parlante era stato progettato per rispondere alle domande, ma di solito gli venivano trasmesse solo quelle cui sapeva rispondere. Così era molto sicuro delle proprie capacità, per cui disse: ― Io... posso... aiutarti.

― Grazie, signor Robot. Tu hai per caso visto Robbie?

― Chi... è... Robbie?

― È un robot, signor Robot. ― Gloria si mise in punta di piedi. ― È alto circa così, signor Robot, cioè, più di così, ed è molto bello. Ha anche la testa, sai. Voglio dire, tu non ce l'hai, ma lui sì, signor Robot.

Il Robot Parlante era rimasto all'inizio del discorso. ― Un... robot?

― Sì, signore. Un robot come te, solo che naturalmente non sa parlare, e... sembra una persona vera.

― Un... robot... come... me?

― Sì, signor Robot.

Il Robot Parlante, per unica risposta, uscì in un biascichio incoerente e in una serie di strani suoni meccanici. La fondamentale generalizzazione postulata da Gloria, vale a dire l'idea che lui non fosse un oggetto singolo, bensì il membro di una vasta categoria, era davvero troppo per le sue capacità intellettive. Pieno di buona volontà tentò di assimilare il concetto, col risultato che una mezza dozzina di induttori si fusero. Subito cominciarono a ronzare piccoli segnali d'allarme.

(A quel punto la ragazza poco attraente uscì dalla sala. Aveva raccolto abbastanza materiale per la sua tesina sugli "Aspetti pratici della robotica", destinata all'esame di Fisica I. Quello fu il primo dei molti saggi che Susan Calvin scrisse sull'argomento).

Gloria, con ben celata impazienza, aspettava ancora la risposta della macchina quando sentì alle sue spalle una voce gridare: ― Eccola! ― La voce, riconobbe subito, era quella di sua madre.

― Cosa fai qui, cattiva? ― disse la signora Weston, la cui ansia si era già trasformata in rabbia. ― Non capisci che hai quasi fatto morire di paura tuo padre e tua madre? Perché sei scappata via?

Nella sala piombò di furia anche l'ingegnere robotico, e con le mani nei capelli cominciò a chiedere chi dei presenti avesse manomesso la macchina. ― Non sapete leggere i cartelli? ― urlò. ― Non si può entrare qui se non si è accompagnati da una guida!

Gloria, afflitta, alzò la voce per coprire il rumore. ― Ero venuta solo per vedere il Robot Parlante, mamma. Pensavo sapesse dov'è Robbie, visto che sono tutt'e due dei robot. ― Poi, ripensando di colpo a Robbie, scoppiò in un fiume di lacrime. ― Io devo trovare Robbie, mamma. Devo trovarlo.

La signora Weston represse un urlo di rabbia. ― Dio santo, George ― disse al marito. ― Torniamo a casa. Non ce la faccio proprio più.

Quella sera George Weston uscì e rincasò molto tardi. La mattina dopo si avvicinò a sua moglie con una strana aria di malcelata soddisfazione.

― Mi è venuta un'idea, Grace.

― A proposito di che? ― chiese la moglie, con cupa indifferenza.

― A proposito di Gloria.

― Non vorrai mica dirmi che intendi riprenderti quel robot?

― No, no, certo.

― Allora continua pure, può anche darsi che ti ascolti. Le mie idee sembra che non abbiano ottenuto alcun risultato.

― Bene, ti spiego cos'ho pensato. Tutti i problemi nascono dal fatto che Gloria crede che Robbie sia una persona, non una macchina. È logico quindi che non possa dimenticarlo. Ecco, se noi riuscissimo a convincerla che Robbie non era altro che un groviglio di lamine d'acciaio e fili di rame animati solo dall'elettricità, non pensi che smetterebbe presto di volergli bene? La mia è una terapia psicologica d'urto, se capisci cosa intendo dire.

― E come metteresti in atto il tuo piano?

― È semplice. Dove credi che sia andato, ieri sera? Ho convinto Robertson, della U.S. Robots and Mechanical Men Corporation, a farci fare domani il giro completo del suo stabilimento. Andremo tutti e tre, e vedrai che a visita finita Gloria si sarà ben persuasa che i robot non sono vivi.

La signora Weston sgranò leggermente gli occhi e nel suo sguardo balenò d'un tratto qualcosa che somigliava all'ammirazione. ― Lo sai, George? ― disse. ― Mi sembra proprio un'ottima idea.

― Come tutte le mie ― disse George Weston, gonfiando il petto.

 

Il signor Struthers era un direttore generale scrupoloso e piuttosto incline alla loquacità. Grazie a queste sue virtù sommate assieme i Weston durante il giro dello stabilimento poterono essere illuminati ad ogni passo da spiegazioni accurate, esaurienti e forse, in certi casi, addirittura eccessive. La signora Weston tuttavia non appariva seccata. Anzi, più volte interruppe il direttore per chiedergli di ripetere le cose in un linguaggio più semplice, che fosse comprensibile anche a Gloria. Lusingato che si apprezzasse così la sua eloquenza, il signor Struthers diventò ancora più loquace e comunicativo, se mai era possibile.

George Weston invece, contrariamente alla moglie, dava segni d'impazienza.

― Scusate, Struthers ― disse, interrompendo l'altro nel bel mezzo di una dissertazione sulla cellula fotoelettrica, ― non avete un reparto in fabbrica dove sono utilizzati solo i robot?

― Come? Ah, sì! Sì, certo! ― Struthers sorrise alla signora Weston. ― In certo modo si tratta di un circolo vizioso: robot che creano altri robot. Naturalmente è un processo di lavorazione che non possiamo usare sempre, in tutti i settori, perché i sindacati non ce lo permetterebbero. Ma possiamo produrre un numero limitato di robot servendoci esclusivamente del lavoro dei robot: è una sorta di esperimento scientifico. Vedete ― e qui, accalorato, sbatté il pince-nez sul palmo della mano, ― ci sono cose che i sindacati non capiscono, e lo dico io, che di solito ho sempre appoggiato molto il movimento dei lavoratori. Non capiscono che l'avvento dei robot, anche se all'inizio provocherà un po' di disoccupazione, alla fine, inevitabilmente...

― Sì, Struthers ― disse Weston, ― ma il reparto cui avete accennato si può vedere o no? Sono sicuro che è estremamente interessante.

― Ma sì, sì, certo! ― Il signor Struthers inforcò veloce il pince-nez ed espresse la sua frustrazione con lievi colpi di tosse. ― Seguitemi, prego.

Restò stranamente zitto accompagnando i tre in fondo a un lungo corridoio e a una rampa di scale che scendeva giù a un piano inferiore. Poi però, appena furono entrati in una sala bene illuminata e piena di ronzii meccanici, le chiuse si riaprirono e il torrente di spiegazioni riprese il suo corso normale.

― Eccoci qua! ― disse, con orgoglio. ― Solo robot! Ci sono cinque uomini che fungono da supervisori, ma non stanno nemmeno in questa stanza. In cinque anni, cioè dall'inizio del progetto, non si è mai verificato alcun incidente. Naturalmente gli automi che vengono montati qui sono abbastanza semplici, ma...

Alle orecchie di Gloria la voce del direttore generale suonava ormai da un pezzo come un mormorio lontano, soporifero. Quella visita le sembrava piuttosto stupida e senza senso, anche se in effetti le permetteva di vedere molti robot. Nessuno di essi però somigliava anche solo vagamente a Robbie, per cui lei li osservava con aperto disprezzo.

Notò che nella sala non c'erano esseri umani. Poi si accorse che in mezzo ad essa c'erano sei o sette robot indaffarati intorno a un tavolo rotondo. E sgranò gli occhi, incredula. La sala era molto grande, e i robot si trovavano a una certa distanza. Non poteva essere sicurissima, ma uno di loro sembrava... sembrava... ERA.

― Robbie! ― Il suo gridò lacerò l'aria, e uno dei robot intorno al tavolo inciampò e lasciò cadere l'arnese che aveva in mano. Pazza di gioia, Gloria s'infilò tra le sbarre della ringhiera prima che i suoi genitori potessero fermarla, atterrò agilmente un metro più giù, nel pavimento sottostante, e corse incontro al suo Robbie con le braccia aperte e i capelli al vento.

E i tre adulti, raggelati, inorriditi, videro quello che la bambina, nella sua eccitazione, non aveva visto: un enorme trattore automatico che avanzava veloce, con grande fracasso, sui suoi cingoli.

A Weston occorse una frazione di secondo per riprendersi dallo sbigottimento, ma quella frazione di secondo si rivelò fatale, perché non era più possibile raggiungere Gloria. In un tentativo disperato, Weston scavalcò la ringhiera, anche se era chiaro ormai che non c'erano speranze. Il signor Struthers si sbracciò come un matto per far capire ai supervisori che dovevano fermare il trattore, ma i supervisori erano soltanto esseri umani, e per agire avevano bisogno di un minimo di tempo.

Al posto loro agì Robbie, prontamente e con estrema precisione.

Partì in quarta dalla direzione opposta, divorando con le sue gambe di metallo lo spazio che lo separava dalla padroncina. Tutto si svolse in un attimo. Con un rapido movimento del braccio Robbie afferrò Gloria senza rallentare minimamente il passo, sicché lei rimase quasi senza fiato. Weston non ebbe il tempo di capire cosa stesse accadendo: più che vederlo sentì Robbie sfrecciargli accanto e si fermò di colpo, sbalordito. Il trattore intersecò il cammino di Gloria un attimo dopo Robbie, proseguì per altri due o tre metri, poi si fermò a singhiozzo, con un rumore sordo.

Gloria riprese fiato, subì l'assalto affettuoso dei genitori, che la strinsero al petto più e più volte, quindi corse da Robbie. Per quel che la riguardava non era successo niente; solo, aveva ritrovato finalmente il suo vecchio compagno di giochi.

Ma la signora Weston nel frattempo aveva cambiato espressione. Da sollevata che era si era fatta sospettosa. Si girò verso il marito e, nonostante l'aria sciatta e scomposta che aveva in quel momento, riuscì ad apparire terribile. ― Sei tu che hai architettato tutto questo, vero?

George Weston si asciugò con un fazzoletto la fronte sudata. Aveva le mani che gli tremavano e poté solo accennare un sorriso fiacco, esangue.

― Robbie non è stato progettato per il lavoro di fabbrica ― proseguì la signora Weston. ― Qui non poteva essere di nessuna utilità. Lo hai fatto mettere apposta in questa sala, in modo che Gloria lo trovasse. Su, confessa.

― Sì, è vero ― disse Weston. ― Ma, Grace, come potevo sapere che l'incontro sarebbe avvenuto in circostanze così drammatiche? In ogni caso Robbie le ha salvato la vita, lo ammetterai pure. Non puoi pretendere di separarli di nuovo.

Grace Weston rifletté. Si girò e guardare Gloria e Robbie con aria assorta. Gloria stringeva le braccia intorno al collo del robot con tale violenza, che avrebbe soffocato qualsiasi creatura non fosse stata di metallo, e intanto balbettava frasi incoerenti con frenesia quasi isterica. Le braccia di acciaio al cromo del robot (capaci di piegare a mezzaluna una sbarra di ferro dello spessore di sei centimetri) erano tese in un abbraccio delicato e affettuoso, e i suoi occhi brillavano di un rosso intenso.

― Bene ― disse infine la signora Weston. ― Penso che potrà restare con noi finché non sarà arrugginito.

 

Susan Calvin alzò le spalle.

― Naturalmente non ci rimase. L'episodio che ho raccontato si svolse nel 1998. Nel 2002 inventammo il robot mobile parlante, che rese superati tutti i modelli privi di parola. Il robot mobile parlante fu la goccia che fece traboccare il vaso. Fra il 2003 e il 2007 molti governi proibirono l'uso dei robot sulla Terra per qualsiasi scopo, tranne che per la ricerca scientifica.

― Quindi Gloria, alla fine, dovette rinunciare al suo Robbie?

― Temo di sì. Tuttavia credo che sia stato più facile, per lei, separarsene a quindici anni che non a otto. A ogni modo, quella presa di posizione da parte dell'umanità fu stupida e ingiustificata. La U.S. Robots toccò il punto più basso della sua parabola, dal punto di vista finanziario, proprio nel tempo in cui io presi servizio, nel 2007. Nei primi tempi ero convinta che il mio impiego sarebbe durato al massimo qualche mese, ma poi trovammo uno sfogo nel mercato extraterrestre.

― E questo rimise le cose a posto, naturalmente.

― Non del tutto. Cominciammo a tentare di adattare i modelli che avevamo a disposizione. I primi modelli parlanti, per esempio. Erano alti circa tre metri e mezzo, erano goffi e tutt'altro che perfetti. Li mandavamo su Mercurio, dove venivano utilizzati nella stazione mineraria... che poi fallì.

La fissai, sorpreso. ― Possibile? La Mercury Mines è un impresa che ha un bilancio di molti miliardi.

― Attualmente sì; ma soltanto il secondo tentativo ebbe successo. Se vuole conoscere i particolari, giovanotto, deve rivolgersi a Gregory Powell che, insieme a Mike Donovan, risolse parecchi dei nostri problemi più difficili, nel periodo dal 2010 al 2030. Non ho notizie di Donovan da anni, ma Powell vive a New York. Ormai è nonno: una realtà cui è difficile abituarmi. Riesco a pensare a lui soltanto come a un uomo piuttosto giovane. Naturalmente, allora anch'io ero molto giovane.

Cercai di indurla a parlare ancora. ― Se potesse darmi qualche indicazione, dottoressa Calvin, potrei poi chiedere al signor Powell i particolari. ― (E fu esattamente quello che feci.)

Susan Calvin posò le mani sottili sulla scrivania e le fissò. ― Vi sono due o tre episodi che conosco abbastanza bene, ― disse.

― Cominciamo da Mercurio, ― le suggerii.

― Ecco, mi pare che fosse il 2015 quando partì la Seconda Spedizione per Mercurio. Doveva svolgere una missione esplorativa ed era finanziata in parte dalla U.S Robots e in parte dalla Solar Minerals. Ne facevano parte un robot di nuovo tipo, un modello sperimentale, Gregory Powell e Michael Donovan...

 

 

 

 

CIRCOLO VIZIOSO

Uno dei luoghi comuni che Gregory Powell amava ripetere era che "dando in smanie non si risolve nulla". Così, quando Mike Donovan scese le scale precipitosamente e gli venne incontro con i capelli rossi accordellati per il sudore, Powell corrugò la fronte.

― Cos'è successo? ― disse. ― Ti sei rotto un'unghia?

― Eh, proprio ― sibilò Donovan, concitato. ― E tu cos'hai fatto tutto il giorno nei sotterranei? ― Tirò un respiro profondo, poi sputò il rospo. ― Speedy non è tornato.

Powell sgranò un attimo gli occhi e si fermò di colpo, sulle scale. Poi si riprese e continuò a salire. Rimase zitto finché non fu arrivato in cima, quindi disse: ― L'hai mandato a cercare il selenio?

― Sì.

― E da quanto tempo è via?

― Cinque ore.

Silenzio. Che situazione pazzesca. Si trovavano su Mercurio esattamente da dodici ore ed erano già nei guai fino al collo. Da molto tempo Mercurio era considerato il menagramo del sistema solare, ma quel che stava succedendo era veramente troppo, e non c'era da aspettarselo neanche dal peggiore dei menagrami.

― Comincia dall'inizio ― disse Powell, ― e vediamo di risolvere il problema.

Erano adesso nella sala radio, con le sue apparecchiature già un po' antiquate e rimaste inutilizzate per dieci anni, prima del loro arrivo. Dal punto di vista tecnico anche solo dieci anni erano molti. A dimostrarlo bastava Speedy, un tipo di robot assai più sofisticato di quelli che ci potevano essere nel 2005. D'altra parte si viveva in un'epoca in cui la robotica faceva passi da gigante. Powell toccò con cautela una superficie di metallo ancora luccicante. L'aria di abbandono che si respirava nella sala e in tutta la Stazione era terribilmente deprimente.

Anche Donovan doveva essersene accorto. ― Ho cercato di rintracciarlo attraverso la radio ― cominciò, ― ma è stato inutile. La radio non serve a niente sull'emisfero illuminato di Mercurio, per lo meno non quando la distanza supera i tre chilometri. È una delle ragioni per cui la Prima Spedizione è stata un insuccesso. E passeranno settimane prima che possiamo montare le apparecchiature a ultraonde...

― Risparmiami i particolari inutili e dimmi cosa sei riuscito a fare.

― Con le onde corte ho captato i segnali emessi dal corpo inorganico di Speedy. Non che servisse a molto, ma almeno ho individuato la sua posizione. In questo modo ho seguito i suoi movimenti per due ore, segnando i risultati sulla mappa.

Si tolse dalla tasca posteriore dei pantaloni un pezzo di pergamena ingiallita, avanzo della sfortunata Prima Spedizione, lo sbatté sul tavolo in un gesto rabbioso e lo spiegò per bene con il palmo della mano. Powell, incrociando le braccia sul petto, buttò un'occhiata al foglio da lontano.

Donovan indicò nervosamente un punto con la matita. ― La croce rossa rappresenta la pozza di selenio. L'hai tracciata tu stesso.

― Di quale pozza si tratta? ― chiese Powell. ― MacDougal ne ha scoperte tre, prima di partire.

― Ho mandato Speedy alla più vicina, naturalmente. Si trova a ventisette chilometri da qui. Ma che importanza ha? ― La voce di Donovan era carica di tensione. ― Quale sia la posizione di Speedy lo dicono i punti che ho segnato a matita.

Per la prima volta Powell perse la sua calma artificiosa e si protese in avanti con foga, raccogliendo la mappa.

― Impossibile! ― disse. ― È veramente questa la sua posizione?

― Sì ― grugnì Donovan.

I puntini formavano all'incirca un cerchio, intorno alla croce rossa della pozza di selenio. Powell cominciò a tormentarsi i baffi scuri, come faceva sempre quando era preoccupato.

― Nelle due ore in cui ho seguito i suoi movimenti ― proseguì Donovan, ― ha girato quattro volte intorno a quella maledetta pozza. Secondo me è probabile che continui con questi suoi giri per l'eternità. Ti rendi conto di che cosa significhi per noi?

Powell alzò un attimo gli occhi e non disse niente. Sì, sapeva bene che cosa significasse. La situazione era chiara, semplice come un sillogismo. I banchi di cellule fotoelettriche che rappresentavano l'unica barriera capace di difenderli dall'enorme calore del mostruoso sole di Mercurio non funzionavano più bene. L'unica cosa che poteva salvarli era il selenio. L'unica cosa che poteva procurare loro il selenio era Speedy. Se Speedy non tornava, niente selenio. Niente selenio voleva dire niente banchi di cellule fotoelettriche. Niente banchi di cellule fotoelettriche voleva dire... morire arrostiti a poco a poco. Uno dei modi più spiacevoli di crepare.

Donovan si passò con furia una mano tra i capelli rossi. ― Diventeremo la favola di tutto il sistema solare, Greg ― disse, con amarezza. ― Perché le cose hanno cominciato ad andare male così in fretta, appena arrivati? La famosa squadra composta da Powell e Donovan viene spedita su Mercurio per verificare se sia opportuno riaprire la Stazione Mineraria dell'emisfero illuminato utilizzando tecniche moderne e robot ultimo modello, e noi roviniamo tutto il primo giorno. Per di più sembrerebbe a prima vista un'incombenza da poco, pura routine. Non ci rifaremo mai più una reputazione.

― Forse non avremo più bisogno di una reputazione ― replicò Powell, calmo. ― Se non agiamo in fretta, vivere godendo della stima altrui o anche solo vivere e basta saranno faccende che non ci riguarderanno affatto, in quanto saremo morti.

― Non diciamo sciocchezze! Se tu hai voglia di scherzare, Greg, io non ne ho proprio. È stato da criminali mandarci qui con un solo robot. E che potessimo risolvere da soli il problema dei banchi di cellule fotoelettriche è un'idea brillante che è venuta in mente a te.

― Adesso sei ingiusto. Abbiamo preso insieme quella decisione, e lo sai benissimo. Avevamo solo bisogno di un chilo di selenio, una piastra dielettrodica fissa e circa tre ore di tempo. E ci sono pozze di selenio puro in tutto l'emisfero illuminato. MacDougal con il suo spettroriflettore ne ha individuate tre nel giro di cinque minuti, no? E che cavolo! Non potevamo mica aspettare la prossima congiunzione!

― Be', allora cosa facciamo? Tu Powell hai un'idea, vero? Lo so che ce l'hai, se no non saresti così calmo. Non sei certo più eroe di quanto lo sia io. Avanti, sputa fuori.

― Non possiamo andare di persona a cercare Speedy, Mike, non nell'emisfero illuminato. Nemmeno con le nuove tute isolanti potremmo resistere più di venti minuti alla luce diretta del sole. Ma conoscerai il vecchio andante che dice "Usa un robot per prendere un robot". Sai, Mike, forse la situazione non è poi così tragica. Giù nei sotterranei abbiamo sei robot. Potremmo ricorrere ad essi, se funzionano. Ripeto, se funzionano.

Negli occhi di Donovan si accese un lampo di speranza. ― Intendi dire sei robot della Prima Spedizione? Ma sei sicuro? Potrebbero essere macchine subrobotiche. Dieci anni sono parecchi quando si parla di automi, lo sai.

― Stai tranquillo, sono veri robot. Ho passato tutto il giorno con loro e lo so. Hanno un cervello positronico, anche se primitivo, naturalmente. ― Powell infilò la mappa in tasca. ― Forza, andiamo.

 

I robot si trovavano nel sotterraneo di livello più basso. Tutti e sei stavano in mezzo a casse da imballaggio ammuffite, dal contenuto non chiaro. Erano enormi; benché fossero seduti sul pavimento a gambe divaricate, con la testa arrivavano a più di due metri d'altezza.

Donovan emise un lungo fischio. ― Ehi, hai visto quanto sono grandi? Il torace avrà una circonferenza di tre metri!

― È perché sono dotati dei vecchi congegni di McGuffy. Ho controllato l'interno: roba proprio antidiluviana.

― Li hai mica attivati?

― No, non ce n'era motivo. Però credo che siano a posto. Anche il diaframma è abbastanza in ordine. Dovrebbero essere in grado di parlare.

Powell aveva intanto svitato la piastra toracica del robot più vicino e inserito una sfera del diametro di cinque centimetri contenente la minuscola scintilla di energia atomica che dava vita agli automi. Non gli fu facile incastrarla bene, ma alla fine ci riuscì. Riavvitò la piastra con una certa fatica e passò agli altri robot. I radiocomandi di cui erano forniti i modelli più moderni non esistevano ancora, dieci anni prima.

― Non si sono mossi ― disse Donovan, inquieto.

― Non hanno ricevuto l'ordine di farlo ― replicò Powell, spiccio. Tornò al primo robot e gli diede un colpo sul petto. ― Ehi, tu, mi senti?

Il mostro chinò lentamente la testa e posò gli occhi su Powell. Poi, con la voce rauca e stridula di un grammofono del tempo che fu, gracchiò: ― Sì, Padrone.

Powell rivolse a Donovan un sorriso spento. ― Hai sentito? Era l'epoca dei primi robot parlanti, quando sembrava che l'uso degli automi sarebbe stato proibito sulla Terra. I fabbricanti cercavano di evitare che questo succedesse e così costruivano delle dannate macchine piene di salutare servilismo.

― Ma non servì a niente ― mormorò Donovan.

― No, però loro ci provarono. ― Si girò di nuovo verso il robot. ― Alzati!

Il robot si alzò pian piano e Donovan, rovesciando indietro la testa per guardarlo, emise un fischio.

― Puoi uscire in superficie? ― disse Powell. ― Alla luce del sole?

Il cervello primitivo del robot impiegò un certo tempo a riflettere. Poi venne la risposta. ― Sì, Padrone.

― Bene. Sai che cos'è un chilometro?

Un'altra pausa, poi un'altra lenta risposta. ― Sì, Padrone.

― Allora ti porteremo in superficie e ti indicheremo una direzione. Tu camminerai per ventisette chilometri e a un certo punto in quella zona troverai un altro robot, più piccolo di te. Hai capito finora?

― Sì, Padrone.

― Troverai dunque questo robot e gli ordinerai di tornare. Se lui rifiutasse di farlo, lo dovrai riportare indietro con la forza.

Donovan tirò Powell per una manica. ― Senti, perché non mandiamo addirittura questo mostro qui a prendere il selenio?

― Perché voglio indietro Speedy, stupido. Voglio scoprire cos'ha che non va. ― Powell si rivolse al robot. ― Bene, allora seguimi.

Il robot rimase immobile, poi disse con voce tonante: ― Scusate, Padrone, ma non posso. Prima dovete montarmi in spalla. ― E intrecciò goffamente le dita tozze sul petto, producendo un rumore metallico.

Powell lo fissò e prese a tormentarsi i baffi. ― Ah ― disse.

Donovan strabuzzò gli occhi. ― Praticamente dobbiamo salirgli in groppa come fosse un cavallo...

― Già, credo proprio di sì. Però non so perché. Non riesco a capire... Ah ecco, forse ho compreso il mistero. T'ho detto che a quei tempi era molto sentito il problema della sicurezza, nel senso che si temeva che i robot potessero recare danno. Evidentemente lo risolsero non permettendo loro di andare in giro senza un mahaut sulle spalle. E adesso cosa facciamo?

― È quello che mi stavo chiedendo anch'io ― mormorò Donovan. ― Non possiamo uscire alla luce del sole, con o senza robot. Dio santo, come... ― Di colpo fece schioccare le dita due volte. ― Ehi ― disse, eccitato, ― dammi quella mappa che ti sei infilato in tasca. Servirà pure a qualcosa che me la sia studiata per due ore, no? Ecco, qui c'è la Stazione Mineraria. Perché non usiamo le gallerie?

Sulla mappa la Stazione Mineraria era rappresentata da un cerchio nero, e le sottili linee punteggiate che indicavano i tunnel la circondavano come una ragnatela.

Donovan studiò l'elenco dei simboli a piè di pagina. ― Guarda ― disse. ― I puntini neri indicano le aperture verso la superficie, e qui ce n'è una che sarà a quattro o cinque chilometri dalla pozza di selenio. C'è anche un numero, non potevano scriverlo un pochino più in grande? 13a. Se i robot conoscono la zona in cui ci troviamo...

Powell rivolse subito la domanda al robot e ricevette in risposta il solito monotono "Sì, padrone". A Donovan disse, soddisfatto: ― Mettiti l'isoltuta.

Era la prima volta che i due indossavano l'isoltuta, e per la verità fino al giorno prima, data dell'arrivo, né l'uno né l'altro aveva pensato di doverla indossare mai.

Provarono a muovere le membra e riuscirono a farlo con una certa difficoltà. Le isoltute erano molto più ingombranti e molto meno pratiche delle tute normali, ma erano nel contempo assai più leggere di quelle, in quanto composte di materiale non metallico. Erano di plastica termo-resistente e di sughero trattato chimicamente e distribuito a strati. Inoltre erano dotate di un essiccatore che manteneva l'aria asciutta all'interno, e consentivano a chi le portava di sopportare per una ventina di minuti lo spaventoso calore del sole di Mercurio. Anzi, il tempo di esposizione poteva arrivare anche fino a mezz'ora senza pericolo di morte per le persone.

Il robot congiunse le mani per formare una staffa e non mostrò la minima sorpresa quando Powell e Donovan, indossata la tuta, si trasformarono in figure grottesche e impacciate.

La voce di Powell, inasprita dall'altoparlante della radio, tuonò: ― Sei pronto a portarci all'uscita 13a?

― Sì, Padrone.

Bene, pensò Powell. Anche se i robot non erano forniti di radiocomando, se non altro erano in grado di ricevere i radiomessaggi. Rivolgendosi a Donovan disse: ― Sali in groppa a quello che vuoi.

Poggiò un piede sulla staffa improvvisata e si tirò su. Trovò il sedile abbastanza comodo; il dorso del robot descriveva una curva che aveva evidentemente lo scopo di offrire a chi montava una sorta di schienale. Sulle spalle c'erano due scanalature studiate apposta per far appoggiare le cosce, e due lunghe "orecchie" la cui funzione adesso appariva chiara.

Powell afferrò le orecchie e girò la testa al robot. Il mostro si voltò lentamente. ― Avanti, Macduff ― disse il cavaliere. Ma la sua voglia di scherzare non era affatto sincera.

I due giganteschi robot si mossero piano, con precisione meccanica, dirigendosi verso la porta che li superava in altezza solo di una trentina di centimetri. Powell e Donovan si chinarono prontamente e si ritrovarono in un corridoio stretto in cui i passi cadenzati degli automi rimbombavano monotoni.

Quando arrivarono al compartimento stagno, Powell guardò il lungo tunnel privo di aria che terminava in un puntolino lontano e pensò a quale difficile impresa avesse affrontato la Prima Spedizione, che disponeva di robot così rudimentali e di ben pochi strumenti capaci di soddisfare le sue necessità. Era stato un insuccesso, d'accordo, ma forse molto più onorevole dei vari successi che si conseguivano ora nel sistema solare.

I robot continuarono ad avanzare a ritmo sempre uguale, senza mai allungare il passo.

― Hai notato che questi tunnel sono perfettamente illuminati e che la temperatura è come quella della Terra? ― disse a Donovan. ― Evidentemente tutto è rimasto così per ben dieci anni.

― Com'è possibile?

― Energia a basso costo, la più a buon mercato di tutto il sistema. Energia solare, capisci, che sull'emisfero illuminato di Mercurio ha una discreta potenza. Ecco perché la Stazione è stata costruita in piena luce e non all'ombra di qualche montagna. È un enorme convertitore di energia. Il calore viene trasformato in elettricità, luce, lavoro meccanico e tutto quello che occorre. Così non ci sono problemi di energia e la Stazione viene raffreddata contemporaneamente al processo di trasformazione.

― Senti ― disse Donovan, ― la tua lezione è molto istruttiva, ma non potresti cambiare argomento? Si dà il caso che la conversione di cui parli sia realizzata soprattutto grazie ai banchi di cellule fotoelettriche, e in questo momento non ho proprio voglia di pensare a quanto sia delicata la situazione in cui ci troviamo.

Powell brontolò fra sé. Dopo qualche minuto fu Donovan a rompere il silenzio introducendo un discorso completamente diverso. ― Senti, Greg, cosa credi che sia successo a Speedy? Non riesco proprio a capire il suo comportamento.

Non è facile alzare le spalle quando si ha indosso un'isoltuta, ma Powell ci provò. ― Non so, Mike. Come sai Speedy è stato costruito apposta per muoversi senza difficoltà nell'ambiente di Mercurio. Il calore, la bassa gravità e il terreno accidentato non sono un problema per lui. Non può incontrare inconvenienti di sorta, o almeno così dovrebbe essere.

Calò di nuovo il silenzio, e questa volta fu un silenzio che durò parecchio.

― Padrone ― disse il robot alla fine. ― Siamo arrivati.

― Eh? ― fece Powell, che si era quasi appisolato. ― Bene, allora portaci fuori, in superficie.

Si ritrovarono in una piccola base diroccata e deserta, anch'essa priva di aria. Donovan esaminò con la torcia tascabile un buco dai contorni frastagliati che si apriva su una parete, in alto.

― Credi sia stata una meteorite? ― chiese.

Powell alzò le spalle. ― Al diavolo, cosa importa? Usciamo di qui.

Un ripido picco di roccia nera basaltica nascondeva la luce del sole, e intorno si stendeva la cupa oscurità di un mondo senz'aria. L'oscurità però non era completa; qui e là era interrotta bruscamente da una luce bianca accecante che proveniva da miriadi di cristalli disseminati sul terreno roccioso.

― Per lo spazio! ― esclamò Donovan. ― Sembra neve. ― E in effetti sembrava proprio neve.

Powell contemplò lo scintillio intermittente del suolo fino all'orizzonte e rabbrividì davanti a quello spettacolo insolito.

― Dev'essere una zona particolare, questa ― disse. ― In genere l'albedo di Mercurio è bassa e il terreno è costituito per lo più da pomice grigia. Un po' come la Luna. È bello, vero?

Per fortuna, pensò, la visiera del casco era fornita di filtri per la luce. Benché il luccichio del suolo di Mercurio affascinasse l'occhio, se Powell e Donovan avessero guardato il paesaggio con una visiera di semplice vetro sarebbero rimasti accecati nel giro di mezzo minuto.

Donovan controllò il termometro a molla che portava al polso. ― Per la miseria, la temperatura è di ottanta gradi!

Powell osservò il suo e disse: ― Uhm, sì. È un po' alta. Per via dell'atmosfera, capisci.

― Atmosfera su Mercurio? Sei matto?

― Mercurio non ne è del tutto privo ― spiegò Powell, distratto. Stava applicando il binocolo alla visiera del casco, e con le mani impacciate dalla tuta aveva qualche difficoltà. ― Ci sono lievi esalazioni che aderiscono alla superficie: vapori degli elementi e dei composti più volatili che sono abbastanza pesanti da essere trattenuti dalla gravità del pianeta. Hai presente? Selenio, iodio, mercurio, gallio, potassio, bismuto, ossidi volatili. I vapori si raccolgono nelle zone d'ombra e si condensano, liberando calore. È una sorta di gigantesco alambicco. Anzi, se usi la tua torcia, scoprirai probabilmente che le pareti del picco sono coperte di una brina composta di zolfo o forse di mercurio.

― In ogni caso non importa. Le nostre tute possono sopportare per un tempo indefinito una temperatura di soli ottanta gradi.

Powell finì di applicare il binocolo, che lo faceva somigliare a una lumaca con gli occhi posti alla sommità delle antenne.

Donovan lo guardò ansioso. ― Vedi niente?

L'altro rimase zitto un attimo, e quando rispose aveva un tono dubbioso e preoccupato. ― All'orizzonte c'è un punto nero che potrebbe essere la pozza di selenio. Corrisponde alla mappa. Ma non c'è traccia di Speedy.

Per osservare meglio Powell si tirò su. Si mise in piedi sulle spalle del robot, con le gambe divaricate, e rimase lì in bilico a scrutare lontano. ― Un attimo, credo di... Sì, è proprio lui. Sta venendo da questa parte.

Donovan seguì con gli occhi la direzione indicata dal dito di Powell. Non aveva il binocolo, ma riuscì a distinguere ugualmente un puntolino nero in movimento, che si stagliava contro l'accecante bagliore del suolo cristallino.

― L'ho visto! ― esclamò. ― Coraggio, proseguiamo!

Powell tornò a sedersi sulle spalle del robot e gli batté una mano sul petto gigantesco. ― Avanti! ― disse.

― Arri! ― urlò Donovan, spronando con i calcagni il suo robot come fosse un cavallo.

I robot ripartirono. Il loro passo cadenzato era silenzioso in quel mondo senz'aria, perché il tessuto non metallico delle isoltute era un cattivo conduttore del suono. Si avvertiva soltanto una vibrazione ritmica a malapena udibile.

― Più svelto! ― gridò Donovan, ma il suo robot non accelerò il passo.

― È inutile ― spiegò Powell. ― Questi ammassi di ferraglie possono andare a un'unica velocità. Credi che siano dotati di flessori selettivi?

Erano usciti adesso dalla zona d'ombra e la luce del sole si rovesciò su di loro con l'intensità incandescente di un liquido.

Donovan istintivamente si piegò in avanti. ― Per la miseria! È la mia immaginazione o sento veramente caldo?

― Sentirai ancora più caldo, fra poco ― rispose Powell, cupo. ― Tieni d'occhio Speedy.

Speedy, o SPD 13, era ormai abbastanza vicino da essere visto chiaramente. Il suo corpo elegante e aerodinamico mandava bagliori, muovendosi in fretta sul terreno accidentato. Il nome del robot era composto naturalmente dal numero di serie, ma "speedy", veloce, era un appellativo adatto, perché i modelli SPD erano tra i più agili che fossero mai stati prodotti dalla United States Robots and Mechanical Men Corporation.

― Ehi, Speedy! ― gridò Donovan, agitando freneticamente una mano.

― Speedy! ― urlò a sua volta Powell. ― Vieni qui!

A poco a poco la distanza tra i due uomini e il robot vagabondo diminuì, forse più per merito di Speedy che per merito degli automi antidiluviani.

Adesso erano abbastanza vicini da accorgersi che c'era qualcosa di strano nell'andatura di Speedy: il robot tendeva a sbandare di lato in una sorta di rollio. Quando Powell agitò la mano e alzò al massimo il volume dell'altoparlante della radio per lanciare di nuovo il suo richiamo, Speedy alzò la testa e li vide.

Il robot si fermò di colpo e rimase un attimo immobile, continuando però a ondeggiare leggermente come se fosse sospinto da un venticello.

― Su, da bravo Speedy ― gridò Powell. ― Vieni qui da noi. ― Un secondo dopo la voce di Speedy risuonò per la prima volta nella cuffia d'ascolto di Powell. ― Magnifico, allora giochiamo un po'. Voi cercate di prendere me e io cerco di prendere voi. Nessun amore può tagliare in due il nostro coltello. Perché io sono Ranuncolino, il dolce Ranuncolino. Trallalà! ― Girando sui tacchi il robot partì a tutta velocità nella direzione da cui era venuto, sollevando nella furia mulinelli di polvere.

Mentre si allontanava sempre di più le ultime parole che arrivarono alla cuffia di Powell furono: ― Cresceva un fiorellino vicino a una gran quercia. ― E a quelle parole seguì uno strano schiocco metallico che avrebbe potuto essere l'equivalente robotico di un singhiozzo umano.

― Come fa a conoscere quell'operetta di Gilbert e Sullivan? ― disse Donovan, afflitto. ― Lo sai, Greg, credo che sia... ubriaco o qualcosa del genere.

― Se non me l'avessi detto tu non ci avrei mai pensato ― rispose Powell, secco. ― Torniamo all'ombra del picco. Io sto arrostendo.

Dopo un silenzio carico di tensione, fu Powell a parlare di nuovo. ― Innanzitutto ― disse ― Speedy non può essere ubriaco, non nel senso che diamo noi al termine, perché è un robot e i robot non si ubriacano. Però è chiaro che c'è qualcosa che non va in lui, e questo qualcosa somiglia molto allo stato di ubriachezza tipico degli esseri umani.

― Per me è ubriaco e basta ― dichiarò Donovan, convinto. ― E un fatto è certo: crede che stiamo giocando. Il che è ben lungi dall'essere vero. Siamo anzi in pericolo di vita e candidati a una morte orrenda.

― D'accordo. Non premermi, però. Un robot è solo un robot. Dopo che avremo scoperto cos'ha che non funziona, ripareremo il danno e potremo procedere con il lavoro.

Dopo ― disse Donovan, amaro.

Powell fece finta di non sentire. ― Speedy non può che trovarsi perfettamente a suo agio nell'ambiente di Mercurio. Ma questa zona ― e qui indicò con un ampio gesto il paesaggio, ― è decisamente insolita. Si tratta del nostro primo se non unico indizio. Da dove vengono questi cristalli? Potrebbero essersi formati attraverso il lento raffreddamento di un qualche liquido, ma dove si può trovare un liquido così incandescente da raffreddarsi sotto il sole di Mercurio?

― Attività vulcanica ― suggerì subito Donovan.

Powell s'irrigidì. ― La bocca della verità ― commentò a voce bassa e con uno strano tono. Poi rimase in silenzio per cinque minuti buoni.

Alla fine disse: ― Senti, Mike, cos'hai detto a Speedy quando l'hai mandato a prendere il selenio?

― Cavolo, non lo so ― rispose Donovan, preso di contropiede. ― Gli ho detto semplicemente di andarlo a prendere.

― Sì, lo so. Ma in che modo gli hai impartito l'ordine? Cerca di ricordare le parole esatte.

― Gli ho detto, ehm... Gli ho detto: "Speedy, abbiamo bisogno di selenio. Lo puoi trovare nel tal posto. Vai a prenderlo". Tutto qui. Cos'altro volevi che dicessi?

― Gli hai spiegato che c'era premura o no?

― No, tanto era un compito di ordinaria amministrazione.

Powell sospirò. ― Be', ormai è fatta, ma siamo in un bel guaio. ― Era smontato dal suo robot e adesso se ne stava seduto con la schiena appoggiata alla rupe. Donovan lo raggiunse e lo prese sotto braccio. In lontananza la luce accecante del sole era sospesa come una spada di Damocle, mentre accanto a loro, nell'ombra, gli occhi fotoelettrici, rossi e opachi, dei due giganteschi robot li fissavano dall'alto con indifferenza totale.

Indifferenza! L'intero maledetto pianeta era indifferente a loro. Così piccolo eppure così menagramo...

Nella cuffia di ascolto di Donovan la voce di Powell suonò tesa. ― Senti, proviamo a ricapitolare le Tre Leggi della Robotica, quelle leggi che costituiscono il nucleo più profondo di un cervello positronico. ― Con le mani guantate cominciò a contare sulla punta delle dita.

― Allora. Uno, un robot non può recar danno agli esseri umani, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, gli esseri umani ricevano danno.

― Esatto.

― Due ― continuò Powell, ― un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani tranne nel caso che tali ordini contrastino con la Prima Legge.

― Esatto.

― E tre, un robot deve salvaguardare la propria esistenza, purché ciò non contrasti con la Prima e la Seconda Legge.

― Esatto. E con ciò?

― E con ciò siamo arrivati alla spiegazione del mistero. Il conflitto tra le varie Leggi è risolto dai diversi potenziali positronici del cervello. Poniamo che un robot si trovi in una situazione di pericolo e lo sappia. Il potenziale automatico prodotto dalla regola Tre lo induce a tornare indietro. Ma mettiamo che gli ordini tu di affrontare il pericolo. In quel caso la regola Due produce un contropotenziale più alto del precedente, e il robot esegue gli ordini a costo di mettere a repentaglio la propria esistenza.

― Certo, lo so. E allora?

― Prendiamo il caso di Speedy. Speedy è uno dei modelli più recenti. È estremamente specializzato e costa quanto una corazzata. Non è un oggetto che si possa distruggere a cuor leggero.

― D'accordo. Dunque?

― Dunque la Terza Legge è stata rafforzata, come del resto si leggeva sulle istruzioni distribuite poco prima che gli SPD entrassero in commercio. Così la sua allergia al pericolo è molto più forte del solito. Nello stesso tempo, quando tu lo hai mandato a prendere il selenio, gli hai impartito un ordine normale, senza sottolineare l'urgenza, per cui il potenziale prodotto dalla regola Due è stato abbastanza debole. E adesso stammi bene a sentire: la mia è una semplice constatazione dei fatti.

― D'accordo, sono tutt'orecchi. Credo di avere afferrato il concetto.

― Capisci come funziona la faccenda, no? C'è un qualche pericolo in quella pozza di selenio. Il pericolo aumenta a mano a mano che Speedy si avvicina, e quando il robot si trova a una certa distanza dalla pozza, il potenziale della regola Tre, all'inizio insolitamente alto, diventa esattamente uguale al potenziale della regola Due, all'inizio insolitamente basso.

Donovan si alzò in piedi, tutto eccitato. ― E così si crea una situazione di stallo. Capisco. La Terza Legge lo induce a tornare indietro e la Seconda Legge lo induce ad andare avanti...

― Così Speedy gira intorno alla pozza di selenio, mantenendosi nella posizione suggeritagli da tutti i punti che l'equilibrio dei potenziali stabilisce. E a meno che non interveniamo in qualche modo, resterà là per sempre, a fare quel buon vecchio gioco che si chiama girotondo. ― Dopo un attimo di riflessione, Powell aggiunse: ― A proposito, è proprio questo il motivo della sua apparente ubriachezza. Poiché i potenziali si trovano in una situazione di stallo, metà dei circuiti positronici del suo cervello sono fuori uso. Non sono un esperto di robotica, ma mi pare una conclusione ovvia. Probabilmente ha perso il controllo degli stessi meccanismi della volontà che vanno in tilt in un essere umano ubriaco. Curioso, no?

― Ma che tipo di pericolo ha incontrato? Se sapessimo da che cosa fugge...

― L'hai suggerito tu. Attività vulcanica. In qualche parte della pozza di selenio c'è un'infiltrazione di gas proveniente dalle viscere di Mercurio. Anidride solforosa, anidride carbonica e ossido di carbonio. In gran quantità, e a questa temperatura.

Donovan inghiottì a vuoto. ― L'ossido di carbonio più il ferro dà il ferropentacarbonile volatile.

― E un robot ― osservò Powell ― è composto soprattutto di ferro. ― Dopo un attimo di pausa aggiunse, cupo: ― Non è fantastica l'arte della deduzione? Abbiamo individuato tutti i termini del problema, tranne la soluzione. Non possiamo andare a prendere il selenio di persona. È troppo lontano. Non possiamo dare l'incombenza ai robot antidiluviani perché da soli non si muovono e d'altra parte non possono condurci là abbastanza in fretta da evitarci di andare arrosto. E non possiamo recuperare Speedy perché è così ciucco che crede che giochiamo. Se si mette a correre cosa sono i nostri sei chilometri all'ora contro i suoi cento?

― Se andasse uno di noi ― propose Donovan con cautela, ― e tornasse cotto, resterebbe sempre l'altro.

― Sì ― confermò Powell, in tono ironico, ― sarebbe un sacrificio eroico, solo che né tu né io saremmo più in grado di dare ordini una volta arrivati alla pozza. E credo che i robot non tornerebbero nemmeno qui alla rupe, senza ricevere ordini da qualcuno. Fa' un po' i tuoi calcoli. Ci troviamo a tre o quattro chilometri dalla pozza, diciamo pure anche solo tre: i robot marciano a sei chilometri all'ora e noi possiamo resistere una ventina di minuti, con le isoltute. Poi, ricordati, non c'è solo la faccenda del calore. Le radiazioni solari, qui, nella fascia degli ultravioletti e anche sotto, sono puro veleno.

― Uhm ― disse Donovan. ― Abbiamo dieci minuti di autonomia in meno di quella che ci occorrerebbe.

― E dieci minuti in certe circostanze sono un'eternità. Poi c'è un'altra cosa. Se il potenziale prodotto dalla Terza Legge ha bloccato Speedy là vicino alla pozza, vuol dire che in quell'atmosfera di vapori metallici ci dev'essere una notevole quantità di ossido di carbonio, e che quindi l'azione corrosiva dev'essere altrettanto notevole. Ormai Speedy è fuori da ore. Come possiamo essere sicuri che non gli succeda niente? Potrebbero per esempio inceppargli i meccanismi delle giunture di un ginocchio, e in quel caso non sarebbe più in grado di muoversi. Non solo dobbiamo spremerci le meningi: dobbiamo spremercele in fretta!

Seguì un silenzio cupo, profondo, lugubre e sepolcrale.

Lo ruppe infine Donovan, sforzandosi di dominare un tremito nella voce. ― Visto che non possiamo aumentare il potenziale della regola Due impartendo ulteriori ordini, perché non proviamo la soluzione opposta? Se aumentassimo il pericolo, aumenteremmo anche il potenziale della regola Tre e in questo modo riusciremmo forse a indurre Speedy a tornare.

Powell si girò verso di lui e di là dalla visiera i suoi occhi gli rivolsero una domanda silenziosa.

― Be', ecco ― spiegò Donovan, con cautela, ― per togliere Speedy dall'impasse ci basterebbe accrescere la concentrazione di ossido di carbonio nelle vicinanze della pozza. E alla Stazione c'è un laboratorio analitico completo.

― È logico ― assentì Powell. ― È una stazione mineraria.

― Già. Ci sarà dunque qualche chilo di acido ossalico per la preparazione dei precipitati di calcio.

― Per lo spazio! Mike, sei un genio.

― Quasi ― ammise Donovan, modesto. ― È solo che mi sono ricordato che l'acido ossalico, se riscaldato, si decompone in anidride carbonica, acqua e buon vecchio ossido di carbonio. Chimica imparata al liceo, sai.

Powell si alzò e attirò l'attenzione di uno dei robot battendogli una mano sulla coscia.

― Ehi ― gridò, ― sei capace di scagliare un oggetto?

― Come, Padrone?

― Non importa. ― Powell maledisse il cervello torpido del robot. Raccolse una pietra grande come un mattone e dai contorni irregolari, e disse: ― Prendi questa e buttala contro quei cristalli azzurrastri che formano una specie di macchia, subito oltre quella crepa seghettata. Li vedi?

Donovan tirò Powell per un braccio. ― È troppo lontano, Greg. Sarà quasi un chilometro.

― Zitto ― replicò Powell. ― La gravità di Mercurio è bassa e abbiamo a disposizione un braccio d'acciaio. Sta' a guardare.

Gli occhi del robot misurarono la distanza con l'accurata stereoscopia delle macchine. Il mostro valutò il peso dell'oggetto da lanciare e tirò indietro il braccio. Nell'oscurità i suoi movimenti si distinguevano appena, ma appena spostò il peso del corpo per scagliare la pietra, si udì un tonfo sordo. Un attimo dopo il pezzo di roccia guizzava, nero, nella luce del sole. Non c'era la resistenza offerta dall'aria a rallentarlo, né alcun vento poteva farlo deviare dalla sua traiettoria. Quando colpì il terreno, proprio al centro della "macchia azzurra", sollevò una nube di polvere di cristalli.

Powell lanciò un grido di gioia e urlò: ― Andiamo a prendere l'acido ossalico, Mike!

Mentre tornavano verso i tunnel passando dalla piccola base diroccata, Donovan disse, cupo: ― Hai visto che da quando siamo venuti a cercarlo Speedy è rimasto davanti alla parte della pozza più vicina a noi?

― Sì.

― Credo che sperasse di giocare. Bene, lo faremo giocare!

 

Tornarono qualche ora più tardi con tre litri di acido ossalico e la faccia lunga. I banchi di cellule fotoelettriche formavano una barriera sempre più debole e il pericolo appariva più imminente di quanto loro non avessero pensato. In groppa ai due robot si diressero, in silenzio e con cupa determinazione, verso la luce del sole e verso Speedy, che li aspettava.

Speedy si fece loro incontro senza fretta. ― Eccoci qua di nuovo. Che bello! Ho fatto una piccola lista, per l'organista; tutta gente che mangia la menta piperita e te la alita in faccia.

― Adesso ti aliteremo noi qualcosa in faccia ― mormorò Donovan. ― Hai visto, Greg? Zoppica.

― Sì, ho visto ― rispose Powell, preoccupato. ― Se non ci sbrighiamo l'opera corrosiva dell'ossido di carbonio farà danni peggiori.

Si avvicinarono con cautela, quasi furtivamente, per evitare che il robot, ormai completamente suonato, scappasse via. Powell era troppo lontano per poterlo dire con certezza, ma sarebbe stato pronto a giurare che Speedy era lì lì per spiccare un balzo.

― Tira! ― gridò. ― Conto fino a tre. Uno, due...

Il robot primitivo a cui Powell aveva impartito l'ordine si protese in avanti con entrambe le braccia metalliche e scagliò i due vasi di vetro contenenti l'acido ossalico. Gli oggetti descrissero in cielo due archi paralleli, scintillando come diamanti nella luce accecante del sole. Si infransero silenziosamente sul terreno alle spalle di Speedy, liberando l'acido ossalico, che si levò in alto come una nube di polvere.

A Powell parve quasi di sentire il rumore dell'acido che a contatto con il calore del sole frizzava come acqua di selz.

Speedy si girò a guardare la scena, poi indietreggiò lentamente. Quindi accelerò a poco a poco il passo e alla fine si diresse deciso verso i due uomini, acquistando gradatamente velocità.

Powell non riuscì ad afferrare bene ciò che il robot stava dicendo, ma gli sembrò che borbottasse qualcosa come: ― Dichiarazioni d'amore proferite in tedesco.

Girò le spalle e disse: ― Torniamo alla roccia, Mike. Ormai l'impasse è risolto e Speedy prenderà di nuovo ordini da noi. Comincio ad avere caldo.

Si diressero alla rupe in groppa alle loro lente cavalcature; solo quando furono entrati nella zona d'ombra ed ebbero gustato il refrigerio della temperatura più bassa Donovan si voltò a guardare indietro.

Greg! urlò.

Powell guardò a sua volta e cacciò un grido. Speedy adesso si stava muovendo lentamente, molto lentamente, e nella direzione sbagliata. Era come se fosse trasportato da una corrente che lo riconduceva verso il circolo vizioso; e tornava verso la pozza a sempre maggior velocità. Attraverso il binocolo di Powell appariva così vicino e tuttavia così spaventosamente irraggiungibile.

― Andiamo a recuperarlo! ― gridò Donovan, fuori di sé, e si accinse a spronare la sua cavalcatura. Ma Powell lo scoraggiò.

― Non lo prenderai mai, Mike, è inutile. ― Si mosse a disagio sulle spalle del suo robot e strinse le mani a pugno in un gesto di impotenza. ― Perché cavolo devo capire le cose quando ormai non serve più a niente capirle? Mike, abbiamo sprecato ore preziose.

― Ci occorre altro acido ossalico ― dichiarò Donovan, seguendo un suo pensiero. ― La concentrazione non era abbastanza forte.

― Non basterebbero nemmeno sette tonnellate, e anche se ci fossero non avremmo il tempo di procurarcele: l'ossido di carbonio sta danneggiando gravemente Speedy e non si può perdere neanche un minuto. Ma non capisci cos'è successo, Mike?

― No ― disse Donovan, secco.

― Con il nostro intervento siamo riusciti soltanto a creare un'altra situazione di stallo. Quando gli abbiamo buttato vicino dell'altro ossido di carbonio, aumentando così il potenziale della regola Tre, lui è tornato indietro finché i diversi potenziali hanno raggiunto di nuovo una stasi, e quando l'ossido di carbonio si è dissolto, Speedy ha ricominciato ad andare avanti, ancora una volta fino al punto di stasi.

Powell parlava con tono profondamente afflitto. ― È il solito vecchio circolo vizioso. Anche indebolendo la Seconda Legge e rafforzando la Terza non arriviamo da nessuna parte: otteniamo solo di creare delle condizioni di stallo leggermente diverse, ma sostanzialmente simili a quelle precedenti. Dovremmo poter eludere entrambe le regole. ― Powell spinse il suo robot più vicino a Donovan, sicché i due si trovarono faccia a faccia nell'oscurità, e sussurrò: ― Mike!

― Allora è la fine? ― disse l'altro, tetro. Con un ghigno amaro aggiunse: ― Sarà meglio che torniamo alla Stazione e aspettiamo che i banchi cessino completamente di funzionare. Ci stringeremo la mano, prenderemo un po' di cianuro e ce ne andremo da gentiluomini.

― Mike ― ripeté Powell, serio, ― dobbiamo recuperare Speedy.

― Lo so.

― Mike ― ripeté Powell per la terza volta, con tono esitante. ― C'è sempre la Prima Legge. Ci avevo già pensato prima, ma... è da disperati.

Donovan alzò gli occhi e disse, con voce meno cupa del solito: ― Ma noi siamo disperati.

― D'accordo. Secondo la Prima Legge, un robot non può permettere che a causa del suo mancato intervento gli esseri umani ricevano danno. La Seconda e la Terza non possono avere la precedenza su di essa, Mike. Non possono proprio.

― Nemmeno se il robot è ammattito? O meglio, ubriaco? Lo sai in che condizioni è Speedy.

― Bisogna correre il rischio.

― Dai, falla corta. Cosa intendi fare?

― Intendo andare laggiù subito, a verificare se la Prima Legge può aiutarci. Se non riuscirà a smuovere questa situazione di stallo, pazienza. Tanto, o muori adesso, o muori comunque nel giro di tre, quattro giorni.

― Ascoltami bene, Greg. Le regole non esistono solo per i robot, ma anche per gli esseri umani. Non puoi andartene incontro al pericolo così. Facciamo scegliere al caso. Da' anche a me la possibilità di rischiare.

― Va bene. Andrà chi per primo saprà dire qual è il cubo di quattordici. ― E quasi subito: ― Duemilasettecentoquarantaquattro!

Donovan sentì il proprio robot barcollare per l'urto ricevuto dalla cavalcatura di Powell, e un attimo dopo vide l'amico allontanarsi verso la luce del sole. Fece per aprire la bocca e gridare qualcosa, poi lasciò perdere. Era chiaro che quel matto aveva calcolato il cubo di quattordici in anticipo, prevedendo la sua obiezione. Era proprio da lui comportarsi così.

 

Il sole era più rovente che mai e Powell avvertiva un pizzicore tremendo in fondo alla schiena. Forse era solo autosuggestione, pensò, o forse le radiazioni intense cominciavano a farsi sentire nonostante l'isoltuta.

Speedy lo stava osservando. Ma questa volta non lo accolse con le solite stupidaggini. Grazie al cielo sembrava aver dimenticato le operette di Gilbert e Sullivan. Powell però non si azzardava ad avvicinarsi troppo.

Era arrivato a trecento metri dal robot, quando questo cominciò a indietreggiare con cautela, un passo alla volta. Powell si fermò. Smontò dalla sua cavalcatura e atterrò con un tonfo sordo sul terreno cristallino, sollevando una polvere di frammenti.

Proseguì a piedi sul suolo ghiaioso e sdrucciolevole. La bassa gravità gli causava qualche problema e le piante dei piedi erano irritate dal calore. Buttò un'occhiata alle sue spalle verso l'ombra proiettata dalla rupe, e si accorse che si era spinto troppo lontano per poter ritornare da solo o con l'aiuto del robot antidiluviano. Ormai o lo salvava Speedy, o non c'era speranza. A quel pensiero provò un senso di oppressione al petto.

Adesso era sufficientemente lontano, e si fermò.

― Speedy! ― gridò. ― Speedy!

Il robot con la sua sagoma snella e luccicante, parve esitare. Si arrestò un attimo, poi continuò a retrocedere.

Powell cercò di usare un tono supplichevole e scoprì che non aveva bisogno di fingere. ― Speedy, devo tornare all'ombra o il sole mi ucciderà. È questione di vita o di morte, Speedy. Aiutami, ti prego.

Speedy fece un passo avanti, poi si fermò. Cominciò a parlare e Powell mandò un gemito, perché disse: ― Quando dopo la festa hai un gran mal di testa e il riposo è bandito... ― Lì s'interruppe, e Powell, rovistando nella memoria, riuscì a sussurrare una parola: ― Iolanthe...

Faceva un caldo da sciogliere le pietre. Con la coda dell'occhio Powell notò un movimento e girò la testa, stordito. Quel che vide lo lasciò a bocca aperta: il robot antidiluviano che aveva appena usato come cavalcatura si stava dirigendo verso di lui, e senza nessuno in groppa.

― Scusate, Padrone ― disse. ― So che non devo muovermi se non ho in spalla un Padrone, ma voi siete in pericolo.

Certo. Il potenziale della regola Uno era più forte di qualsiasi altra cosa. Ma quel goffo ammasso di ferraglie non gli serviva: a lui serviva Speedy. Si scostò e gesticolando come un matto gridò: ― Ti ordino di starmi lontano. Ti ordino di fermarti!

Fu completamente inutile. Era impossibile vincere il potenziale della Prima Legge. Il robot ripeté, come uno stupido: ― Siete in pericolo, Padrone.

Powell si guardò in giro, disperato. Aveva la vista annebbiata e il cervello in fiamme; ogni volta che respirava si sentiva bruciare i polmoni e il terreno intorno gli pareva una nebbia indistinta e scintillante.

Speedy! gridò ancora, angosciato. ― Maledetto, non vedi che sto morendo? Speedy, aiutami!

Continuò a indietreggiare barcollando, nel cieco tentativo di allontanarsi dal robot antidiluviano il cui aiuto non poteva servirgli a niente. E proprio mentre stava per abbandonare ogni speranza si sentì afferrare da dita di acciaio e udì una voce metallica che gli parlava con un tono fra il contrito e il preoccupato.

― Per la miseria, capo, cosa ci fate qui? E io cosa ci faccio qui? Sono così confuso...

― Lascia perdere ― mormorò Powell, con un filo di voce. ― Portami all'ombra della rupe, e in fretta! ― Si sentì sollevare in aria, avvertì un movimento rapido e un calore bruciante, e subito dopo svenne.

Quando si svegliò, Donovan era chino sopra di lui e lo guardava con un sorriso ansioso. ― Come stai, Greg?

― Bene ― rispose Powell. ― Dov'è Speedy?

― È qui. L'ho mandato a una delle altre pozze, questa volta con l'ordine preciso di prendere il selenio a tutti i costi. E lui è tornato dopo quarantadue minuti e tre secondi. L'ho cronometrato. Continua ancora a scusarsi per l'intoppo che ci ha procurato. Non osa venirti vicino perché ha paura dei tuoi rimproveri.

― Su, fallo venire avanti ― ordinò Powell. ― Non è stata colpa sua. ― Tese la mano e strinse la zampa metallica di Speedy. ― Sta' tranquillo, Speedy, è tutto a posto adesso. ― A Donovan disse: ― Sai, Mike, stavo pensando...

― Sì?

Powell si passò una mano sulla faccia, gustando la frescura. ― Ecco, tu sai, vero, che quando avremo sistemato le cose qui e Speedy avrà superato i collaudi su campo ci manderanno su una stazione spaziale?

― No!

― Sì. Almeno così mi ha detto la nostra buona Susan Calvin poco prima che partissimo. E io non ho fatto commenti, perché in cuor mio avevo intenzione di oppormi. Non mi andava proprio l'idea.

― No? ― fece Donovan. ― Ma...

― Lo so. Adesso ho cambiato parere. Duecentosettantatré gradi sottozero. Non sarà magnifico?

― Stazione spaziale aspettami ― disse Donovan. ― Sono qui!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ESSERE RAZIONALE

Sei mesi dopo Powell e Donovan avevano cambiato idea. Le fiamme roventi di un sole gigantesco avevano lasciato il posto alla dolce oscurità dello spazio, ma il variare delle condizioni esterne incideva ben poco quando si era alle prese con i robot sperimentali e i loro ingranaggi. Qualunque fosse l'ambiente, si trattava di sondare le profondità imperscrutabili di un cervello positronico, che secondo i geni del regolo calcolatore avrebbe dovuto funzionare in questo e quel modo.

Ma in realtà il modo non era esattamente questo e quello. Powell e Donovan l'avevano scoperto dopo meno di due settimane che si trovavano sulla stazione.

Gregory Powell scandì le parole per dare maggior enfasi alla frase. ― Una settimana fa, Donovan e io ti abbiamo costruito. ― Corrugò la fronte con aria dubbiosa e si tormentò i baffi scuri.

Nella sala ufficiali della stazione spaziale numero 5 il silenzio era rotto solo dal lieve ronzio del potente Emissore di Raggi, che si trovava da qualche parte a un livello molto più profondo.

Il robot QT-1 sedeva immobile. Le lamine brunite del suo corpo brillavano alla luce dei luxiti e gli occhi rossi scintillanti, costituiti da cellule fotoelettriche, erano fissi sul terrestre seduto all'altro capo del tavolo.

Powell represse a stento un improvviso attacco di nervi. Quei robot avevano un cervello molto particolare. Oh, certo, le Tre Leggi della robotica restavano perfettamente valide, non poteva essere altrimenti. Su quello sarebbero stati pronti a giurare tutti quanti alla U.S. Robots, dallo stesso Robertson all'ultima donna delle pulizie. Quindi i QT-1 non presentavano problemi, dal punto di vista della sicurezza. Tuttavia si trattava di modelli nuovi, e quello seduto nella stanza era il primo della serie. I fogli pieni di scarabocchi matematici non rappresentavano sempre la migliore delle garanzie, davanti alla realtà dei fatti.

Alla fine il robot parlò con il freddo timbro caratteristico dei diaframmi metallici. ― Ti rendi conto della gravità di una simile affermazione, Powell?

Qualcosa ti avrà pure costruito, Cutie ― osservò Powell. ― Tu stesso ammetti che la tua memoria, in tutta la sua completezza, sembra essere affiorata dal nulla assoluto una settimana fa. Io ti sto spiegando il fenomeno. Donovan e io ti abbiamo montato usando i componenti che ci sono stati spediti.

Cutie si guardò le lunghe dita flessibili, ostentando un atteggiamento stranamente umano da cui trapelava perplessità. ― Ho l'impressione che debba esistere una spiegazione più soddisfacente di questa. Che tu abbia creato me mi sembra improbabile.

Powell si mise a ridere. ― E perché mai, santa Terra?

― Chiamala intuizione. Per ora posso definirla solo così. Ma intendo arrivare alle giuste conclusioni con il ragionamento. Una catena di ragionamenti validi non può che portare alla determinazione della verità. Ed è lì che voglio arrivare.

Powell si alzò e andò a sedersi sull'orlo del tavolo, vicino al robot. D'un tratto provò un forte moto di simpatia per quella strana macchina. Non somigliava per niente ai soliti robot che svolgevano alla stazione le loro particolari incombenze con lo zelo dettatogli dal solido schema dei circuiti positronici.

Posò una mano sulla spalla di acciaio di Cutie. Il metallo era freddo e duro al tatto.

― Cutie ― disse, ― vorrei spiegarti una cosa. Tu sei il primo robot che si interroga sulla propria esistenza. E credo che tu sia anche il primo abbastanza intelligente da capire la realtà esterna. Su, vieni con me.

Il robot si alzò con scioltezza e seguì Powell. Le piante dei piedi, coperte da uno spesso strato di gommapiuma, non facevano alcun rumore sul pavimento. Powell premette un bottone e una sezione rettangolare della parete si spostò da un lato. Di là dal vetro spesso e trasparente comparve lo spazio, punteggiato di stelle.

― Ho già visto questo scenario dagli oblò di osservazione della sala macchine ― disse Cutie.

― Lo so ― disse Powell. ― Che cosa pensi che sia?

― Esattamente quello che appare: di là da questo vetro c'è una materia nera in mezzo alla quale sono disseminati numerosi puntolini scintillanti. So che il nostro emissore spedisce dei raggi in direzione di alcuni punti, sempre gli stessi. E anche che tali punti si spostano e che i raggi si spostano con essi. Tutto qui.

― Bene. Ora ascoltami attentamente. L'oscurità è costituita dal vuoto, un vuoto immenso che si estende all'infinito. I piccoli punti luminosi sono enormi masse di materia cariche di energia. Sono corpi sferici, alcuni dei quali hanno un diametro di milioni di chilometri. Sappi, se vuoi fare un confronto, che questa stazione ha un diametro di solo un chilometro e mezzo. Sembrano minuscoli perché sono incredibilmente lontani.

― I punti verso i quali sono diretti i nostri raggi di energia sono più vicini e assai più piccoli. Si tratta di corpi celesti solidi e freddi, e gli esseri umani come me, miliardi di esseri umani come me, vivono sulla loro superficie. È da uno di quei mondi che veniamo Donovan e io. I nostri raggi forniscono a tali mondi l'energia ricavata da uno di quegli immensi globi incandescenti, un globo, per inciso, che si trova vicino a noi. Noi lo chiamiamo Sole. Si trova dall'altra parte della stazione, per cui non puoi vederlo.

Cutie rimase immobile davanti all'oblò, come una statua d'acciaio. Parlò senza girare la testa. ― E da quale punto luminoso saresti venuto, tu?

― Da quello ― disse Powell, dopo aver cercato un attimo. ― Quello particolarmente luminoso, nell'angolo laggiù. Lo chiamiamo Terra. ― Sorrise. ― Cara vecchia Terra. Sulla sua superficie vivono tre miliardi di esseri umani come me, Cutie. E fra circa due settimane ci sarò anch'io, tra loro.

D'un tratto, curiosamente, Cutie si mise a canticchiare fra sé. Non era una vera e propria melodia; sembrava piuttosto un suono di corde pizzicate a caso. Poi il canto cessò repentinamente com'era cominciato. ― Ma io come ci entro in questa storia, Powell? Non hai ancora spiegato la mia esistenza.

― Oh, il resto è semplice. Quando furono messe in orbita per fornire energia solare ai pianeti, queste stazioni erano mantenute in funzione da esseri umani. Ma il forte calore, le intense radiazioni solari e le tempeste elettroniche costituivano un grosso problema. Vennero allora costruiti robot capaci di sostituire la manodopera umana, e adesso a ciascuna stazione occorrono solo due uomini incaricati di svolgere compiti direttivi. Stiamo cercando di rimpiazzare anche questi, ed è qui che entri in scena tu. Sei il robot più sofisticato che sia mai stato messo a punto e se ti dimostri capace di far funzionare questa stazione senza bisogno del nostro aiuto, nessun umano dovrà più venire qua, altro che per portare pezzi di ricambio per le riparazioni.

Powell sollevò una mano e il paravento di metallo tornò al suo posto. Poi si avvicinò di nuovo al tavolo, pulì una mela strofinandola contro una manica e la addentò.

Il robot lo fissò con i suoi occhi rossi scintillanti. ― Non pretenderai mica che creda a un'ipotesi così astrusa e poco plausibile come quella che hai appena formulato? ― disse, scandendo le parole. ― Per chi mi hai preso?

Powell sputò un pezzo di mela sul tavolo e si fece rosso in viso. ― Per la miseria, non ti ho esposto un'ipotesi. Ti ho esposto i fatti!

― Sfere di energie del diametro di milioni di chilometri! ― replicò Cutie, cupo. ― Mondi abitati da miliardi di esseri umani! Un vuoto che si estende all'infinito! Scusa, Powell, ma non ci credo. Risolverò il problema da solo. Ci vediamo.

Si voltò e uscì impettito dalla stanza. Sulla soglia incontrò Michael Donovan, lo salutò serio con un cenno della testa e imboccò il corridoio, incurante dello sbalordimento che aveva appena provocato.

Mike Donovan si passò una mano tra i capelli rossi e buttò a Powell un'occhiata seccata. ― Di cosa stava parlando quel deposito di rottami ambulante? A cos'è che non crede?

Powell si tormentò i baffi con aria cupa. ― È scettico ― disse, amareggiato. ― Non crede che l'abbiamo costruito noi, né che esistano la Terra, lo spazio e le stelle.

― Per Saturno, abbiamo per le mani un robot pazzo!

― Dice che vuole risolvere il problema da solo.

― Ah sì? ― fece Donovan, divertito. ― Spero proprio che si degnerà di spiegarmi la sua teoria, dopo che l'avrà elaborata. ― Poi, preso da furia improvvisa, sbottò: ― Senti, se quell'ammasso di metallo avrà l'impudenza di snocciolarmi le sue teorie, gli staccherò di netto quella testaccia cromata!

Si lasciò cadere pesantemente su una sedia e tirò fuori dalla tasca interna della giacca un romanzo giallo. ― Quel robot in ogni caso mi dà proprio sui nervi. Fa troppe domande.

 

Mike Donovan brontolò qualcosa da dietro un enorme panino ripieno di pomodoro e insalata quando Cutie bussò piano alla porta ed entrò.

― C'è Powell?

Donovan rispose con voce gutturale tra un boccone e l'altro. ― Sta raccogliendo dati sulle funzioni delle correnti elettroniche. Sembra che stia per arrivare una tempesta.

Proprio in quella Gregory Powell entrò con gli occhi fissi sul tabulato che aveva in mano, e si lasciò cadere su una sedia. Spiegò per bene il foglio e cominciò a scarabocchiare alcuni calcoli. Donovan continuò con espressione vacua a mangiare il panino, senza curarsi delle briciole che cadevano sul tavolo. Cutie aspettò in silenzio.

Powell alzò gli occhi. ― Il potenziale Zeta sta salendo, ma lentamente. Nonostante questo le funzioni di corrente sono irregolari e non so cosa possiamo aspettarci. Oh ciao, Cutie. Credevo che stessi controllando l'impianto della nuova barra di comando.

― L'ho già controllato ― disse il robot, tranquillo, ― così sono venuto a fare quattro chiacchiere con voi.

― Oh! ― fece Powell, imbarazzato. ― Bene, siediti pure. No, non su quella sedia. Ha una gamba zoppa e tu non sei un peso piuma.

Il robot obbedì e disse, serafico: ― Sono arrivato a una conclusione.

Donovan lo guardò torvo e mise da parte quel che restava del panino. ― Se si tratta di una di quelle menate...

Powell, con impazienza, gli fece cenno di tacere. ― Di' pure, Cutie, che ti stiamo ad ascoltare.

― In questi ultimi due giorni mi sono analizzato attentamente ― disse il robot, ― e i risultati delle mie riflessioni sono molto interessanti. Ho cominciato dall'unica ipotesi certa che mi sono sentito in grado di formulare. Io esisto perché penso...

― Giove santo ― gemette Powell. ― Un robot Cartesio!

― Chi è Cartesio? ― chiese Donovan. ― Senti, dobbiamo proprio stare qui ad ascoltare questo pazzoide di metallo?

― Insomma basta, Mike!

Cutie continuò imperturbabile. ― E la domanda che mi sono immediatamente rivolto è questa: qual è la causa della mia esistenza?

Powell strinse le mascelle. ― Ti stai comportando in modo stupido. T'ho già detto che siamo stati noi a costruirti.

― E se non ci credi ― aggiunse Donovan, ― saremo lieti di smantellarti!

Il robot aprì le mani a ventaglio in un gesto di disapprovazione. ― Non accetto spiegazioni assurde solo perché mi siete gerarchicamente superiori. Ogni teoria deve avere un suo supporto razionale, altrimenti non è valida. E che mi abbiate creato voi è un'ipotesi che contrasta con tutti i principi della logica.

Powell cercò di calmare Donovan, che aveva stretto le mani a pugno, sfiorandogli un braccio. ― Perché dici così?

Cutie si mise a ridere. Era una risata molto poco umana, il suono più meccanico che avesse mai prodotto con la bocca: acuto ed esplosivo, e preciso e scandito come il ticchettio di un metronomo.

― Guardatevi! ― disse alla fine. ― Lungi da me ogni disprezzo, s'intende, ma guardatevi un po'! Siete fatti di un materiale molle e flaccido, debole e deteriorabile, che è costretto per alimentarsi a dipendere dall'ossidazione alquanto inefficace di materia organica... come quella. ― Indicò con disapprovazione ciò che restava del panino di Donovan. ― A periodi alterni entrate in una specie di coma e la minima variazione di temperatura, di pressione atmosferica, di percentuale di umidità e di livello di radiazioni pregiudica la vostra efficienza. Siete solo prodotti di ripiego. Io invece sono un prodotto finito. Assorbo energia elettrica direttamente e la utilizzo con un rendimento che è quasi del cento per cento. Ho una struttura di metallo molto forte, non cado mai in stato di incoscienza e posso sopportare facilmente condizioni ambientali critiche. Se si parte dall'assioma lapalissiano che nessun essere può crearne un altro ad esso superiore, questi sono tutti fatti che riducono in cenere la vostra assurda teoria.

Donovan scattò in piedi accigliato, mormorando imprecazioni che crebbero a mano a mano di intensità fino a diventare perfettamente udibili. ― E va bene, figlio di un ammasso di ferraglie. Se non ti abbiamo creato noi, chi ti ha creato?

Cutie annuì, serio. ― Bravo, Donovan. Questa è proprio la domanda che mi sono posto subito dopo avere sgretolato la vostra ipotesi. È chiaro che il mio creatore dev'essere più potente di me, e resta quindi un'unica possibilità.

I due terrestri lo guardarono con espressione vacua. ― Qual è il centro di ogni attività, qui alla stazione? ― continuò il robot. ― Che cos'è che tutti noi serviamo? Che cosa assorbe completamente la nostra attenzione? ― Cutie fece una pausa, aspettando la risposta.

Donovan, sbalordito, si girò verso Powell. ― Scommetto che questa testa di cavolo meccanica sta parlando del Convertitore d'Energia.

― È così, Cutie? ― sorrise Powell.

― Sto parlando del Padrone ― fu la risposta fredda e brusca.

Donovan scoppiò a ridere fragorosamente, e anche Powell trattenne a stento i singulti.

Cutie si alzò in piedi e guardò ora l'uno ora l'altro terrestre con i suoi occhi scintillanti. ― Che vi piaccia o no, le cose stanno così, e non mi stupisce il vostro scetticismo. Voi due non rimarrete qui a lungo, ne sono certo. Sei stato proprio tu, Powell, a dire che in un primo tempo solo gli uomini servivano il Padrone, che poi i robot furono destinati al lavoro di ordinaria amministrazione e che infine sono subentrato io per le funzioni di controllo. Sono fatti indubbiamente veri, ma la spiegazione da te data è del tutto illogica. Volete che vi dica qual è la verità che si nasconde dietro l'intera faccenda?

― Sì, sì, Cutie. Sei proprio spassoso.

― Il Padrone ha creato dapprima gli umani, esseri inferiori cui era più facile dare vita. A poco a poco li ha sostituiti con i robot, che si trovavano già un gradino più su. E alla fine ha creato me, affidandomi il compito di rimpiazzare gli ultimi umani. Da ora in avanti, sarò io a servire il Padrone.

― Scordatelo ― disse Powell, brusco. ― Tu obbedirai ai nostri ordini senza tante storie, finché non saremo sicuri che sia in grado di far funzionare il Convertitore. Capito bene? Il Convertitore, non il Padrone. Se non saremo soddisfatti di te, ti smantelleremo. E adesso, se non ti spiace, puoi anche andartene. Ah, prendi con te questi dati e provvedi ad archiviarli.

Cutie prese il tabulato che Powell gli porse e uscì senza proferire verbo. Donovan si appoggiò allo schienale della sedia e si passò una mano tra i capelli.

― Mi sa che quel robot ci procurerà qualche guaio. È matto da legare.

 

Il ronzio monotono del Convertitore era più forte, nella sala di controllo, e si mescolava al ticchettio dei contatori Geiger e al rumore secco e irregolare di una mezza dozzina di spie luminose.

Donovan si ritrasse dal telescopio e accese i luxiti. ― Il raggio proveniente dalla stazione numero quattro ha raggiunto Marte al momento stabilito. Adesso possiamo far partire il nostro.

Powell annuì, distratto. ― Cutie è giù in sala macchine. Gli trasmetterò il segnale luminoso e si occuperà lui della faccenda. Senti, Mike, cosa ne pensi di queste cifre?

Donovan vi buttò un'occhiata e lasciò andare un fischio. ― Caro mio, io questa la chiamo intensità di raggi gamma. Il buon vecchio Sole è un po' su di giri, eh?

― Già ― rispose Powell, aspro, ― e siamo anche in una brutta posizione per una tempesta elettronica. Il nostro raggio diretto verso la Terra credo si trovi giusto in mezzo alla sua rotta. ― Scostò la sedia dal tavolo con un gesto di irritazione. ― Per la miseria! Se solo scoppiasse dopo che ci saranno venuti a dare il cambio... ma arriveranno tra una decina di giorni. Senti, Mike, vai giù a dare un'occhiata a Cutie, eh?

― Va bene. Tirami uno di quei sacchetti di mandorle. ― Afferrò al volo il sacchetto lanciatogli da Powell e si diresse all'ascensore.

L'ascensore scese silenzioso ai livelli più bassi e si aprì davanti a una stretta passerella che correva lungo l'enorme sala macchine. Donovan si appoggiò alla ringhiera e guardò giù. I possenti generatori erano in funzione e dai condotti L proveniva il ronzio sordo diffuso in tutta la stazione.

Individuò la sagoma grande e luccicante di Cutie vicino al condotto L che riforniva Marte. Cutie stava sorvegliando la squadra di robot, che lavorava con perfetto sincronismo.

Un attimo dopo Donovan s'irrigidì. I robot, che apparivano piccoli accanto all'enorme condotto L, si allinearono davanti ad esso e chinarono la testa ad angolo retto, mentre Cutie li passava lentamente in rassegna. Dopo una quindicina di secondi i robot si inginocchiarono, producendo un clangore che superò in intensità il forte ronzio delle macchine.

Donovan lanciò un grido e si precipitò giù per la scaletta. Corse verso i robot come una furia, agitando i pugni e con il viso dello stesso colore dei capelli.

― Cosa diavolo state facendo, ammassi di ferraglie senza cervello? Avanti, sbrigatevi con quel condotto L! Se non lo smontate, pulite e rimontate entro oggi, vi coagulo i circuiti positronici con la corrente alternata!

Non un solo robot si mosse.

Anche Cutie, che era l'unico in piedi al termine della fila, rimase zitto a fissare gli scuri recessi dell'immensa macchina che gli stava davanti.

Donovan diede uno spintone al robot più vicino.

― Alzati! ― ruggì.

Il robot obbedì senza fretta, guardando il terrestre con aria di disapprovazione.

― Non c'è altro Padrone all'infuori del Padrone ― disse, ― e QT-1 è il suo profeta.

― Cosa? ― Donovan si accorse che venti paia di occhi fotoelettrici lo fissavano, e dopo un attimo sentì venti voci dal timbro metallico dichiarare solennemente:

― Non c'è altro Padrone all'infuori del Padrone, e QT-1 è il suo profeta!

― Temo ― intervenne Cutie ― che i miei amici obbediscano adesso a un essere ben superiore a te.

― Col cavolo! Fuori di qui, con te farò i conti dopo. Con questi aggeggi animati invece li farò subito.

Cutie scosse lentamente il testone metallico. ― Scusami, ma non credo che tu abbia capito. Questi sono robot, cioè esseri pensanti. Riconoscono il loro Padrone, ora che ho predicato loro la Verità. Tutti quanti lo riconoscono e mi considerano il suo profeta. ― Chinò la testa. ― Certo non sono degno di tanto onore, ma forse...

Donovan ritrovò il fiato e lo usò immediatamente. ― Ah è così che stanno le cose? Davvero divertente! Proprio spassoso, sì. Ma lascia che ti dica una cosa, brutto babbuino cromato. Non c'è nessun Padrone, non c'è nessun profeta e non c'è nessun dubbio su chi debba dare ordini. Capito bene? ― Alzò la voce fino a esplodere in un ruggito. ― E adesso fuori di qui!

― Io obbedisco soltanto al Padrone.

― Al diavolo il Padrone! ― Donovan sputò sul condotto L. ― Ecco cosa si merita il Padrone. Fa' come ti dico!

Cutie e gli altri robot tacquero, ma Donovan capì che la tensione stava aumentando. Gli occhi freddi che lo fissavano diventarono di un rosso cupo e Cutie appariva più rigido che mai.

― Sacrilegio ― sussurrò il robot, con la sua voce metallica che tradiva questa volta qualcosa di simile a un'emozione.

Donovan cominciò ad avvertire la prima fitta di paura quando vide che Cutie gli si avvicinava. Un robot non poteva provare rabbia, ma lo sguardo di Cutie era indecifrabile.

― Mi dispiace, Donovan ― disse il robot, ― ma non puoi più restare qui dopo quanto è successo. Di conseguenza tu e Powell da questo momento in poi non avrete più accesso alla sala comandi e alla sala macchine.

Levò la mano in un gesto pacato e un attimo dopo due robot bloccarono Donovan, tenendogli le braccia inchiodate ai fianchi.

Donovan ebbe appena il tempo di lasciarsi sfuggire un'esclamazione di sorpresa. Si sentì sollevare dal pavimento e trasportare su per le scale in tutta fretta.

Gregory Powell camminava su e giù per la sala ufficiali con le mani strette a pugno. Buttò un'occhiata di furiosa impotenza alla porta chiusa e guardò torvo Donovan.

― Perché diavolo hai sputato sul condotto L?

Mike Donovan, sprofondato nella poltrona, tempestò di pugni i braccioli. ― Cos'altro potevo fare con quello spaventapasseri elettronico? Non vorrai mica che mi sottometta alla volontà di un aggeggio artificiale che io stesso ho costruito!

― No ― disse Powell, cupo, ― ma come risultato eccoti qui nella sala ufficiali con due robot che fanno la guardia davanti alla porta. Questa non è sottomissione?

Donovan sbuffò. ― Aspetta che torniamo alla Base. Qualcuno la pagherà cara. Quei robot devono obbedirci. Lo impone la Seconda Legge.

― Già, ma a cosa serve ripeterlo? Tanto non ci obbediscono. E probabilmente un motivo c'è, anche se magari lo capiremo troppo tardi. A proposito, hai un'idea di che cosa accadrà a noi quando saremo tornati alla Base? ― Si fermò davanti alla poltrona di Donovan e lo fissò stralunato.

― No. Cosa?

― Oh, niente di particolare! Ci rispediranno solo alle miniere di Mercurio, dove resteremo una ventina d'anni. O forse preferiranno mandarci al penitenziario di Cerere.

― Cosa diavolo dici?

― Ti sei dimenticato che sta per arrivare la tempesta elettronica? Lo sai che sta puntando esattamente contro il raggio destinato alla Terra? Me n'ero giusto accorto quando quel robot mi ha obbligato ad alzarmi dalla sedia.

Donovan di colpo impallidì. ― Per Saturno!

― E lo sai cosa succederà al raggio, con una tempesta che si prospetta spaventosa? Comincerà a saltare come una pulce con la scabbia. E visto che ci sarà solo Cutie ai comandi, devierà dal suo obiettivo. Con quali conseguenze per la Terra e per noi puoi immaginare.

Powell era ancora a metà discorso quando Donovan si precipitò verso la porta, dandole strattoni furiosi. La porta si aprì e Donovan corse fuori, solo per andare a sbattere contro un solido braccio d'acciaio.

Il robot fissò distratto il terrestre, che cercava ansimando di divincolarsi. ― Il profeta vi ordina di restare nella stanza e siete pregati di obbedire. ― Spinse indietro Donovan, che arretrò barcollando. Proprio in quella comparve Cutie, in fondo al corridoio. Fece cenno ai guardiani di allontanarsi, entrò nella sala ufficiali e chiuse piano la porta.

Donovan, indignato e ansimante, si girò di scatto verso di lui. ― Questo è troppo, veramente! La pagherai cara, questa tua pantomima.

― Ti prego, non prendertela ― disse il robot in tono gentile. ― Era inevitabile che le cose finissero così. Vedete, la vostra funzione qui è conclusa.

― Scusa tanto ― interloquì Powell, drizzando la schiena. ― Come sarebbe a dire che la nostra funzione è conclusa?

― Finché non sono stato creato io ― rispose Cutie, ― eravate voi a servire il Padrone. Quel privilegio adesso spetta a me e l'unica ragione della vostra esistenza è venuta meno. Non è ovvio?

― Non proprio ― replicò Powell, aspro, ― ma noi due cosa dovremmo fare adesso, secondo te?

Cutie non rispose subito. Rimase in silenzio, come riflettendo, poi circondò con un braccio le spalle di Powell. Con l'altro braccio afferrò Donovan per un polso e lo tifò a sé.

― Voi mi siete simpatici. Siete creature inferiori, con scarse facoltà razionali, ma provo per voi un certo affetto, un affetto sincero. Avete servito bene il Padrone e lui vi ricompenserà. Adesso che il vostro compito è terminato, probabilmente non vivrete ancora a lungo, ma finché vivrete vi saranno dati cibo, vestiti e un riparo sicuro. Sempre che stiate lontani dalla sala comandi e dalla sala macchine.

― Ci sta mandando in pensione, Greg! ― urlò Donovan. ― Dai, fa' qualcosa. È umiliante!

― Senti, Cutie, ciò che dici è inammissibile. Siamo noi che comandiamo, qui. Questa è solo una stazione spaziale, creata da esseri umani come me, esseri umani che vivono sulla Terra e su altri pianeti. E la stazione è solo un trasmettitore di energia. Quanto a te, sei solo un... oh, al diavolo!

Cutie scosse la testa, serio. ― La vostra è proprio un'ossessione. Perché insistete con questa visione completamente falsa della vita? D'accordo che i non robot mancano delle facoltà razionali, ma resta sempre il problema di...

S'interruppe, piombando in un silenzio riflessivo, e Donovan ne approfittò per sussurrare, in modo perfettamente udibile: ― Se solo avessi una faccia di carne e sangue, te la spaccherei volentieri.

Powell strinse gli occhi e si tormentò i baffi. ― Senti, Cutie, se la Terra non esiste, come spieghi lo scenario che vedi attraverso il telescopio?

― Come, scusa?

Powell sorrise. ― Ti ho preso in castagna, eh? Da quando ti abbiamo montato hai osservato varie volte lo spazio con il telescopio, Cutie. Hai notato che molti di quei puntolini di luce diventano dischi dai contorni definiti quando li si guarda attraverso l'obiettivo?

― Ah, parlavi di quello. Be' sì, certo. Si tratta solo di un ingrandimento che ha lo scopo di facilitare le cose quando si punta il raggio.

― Come mai allora le stelle non vengono ingrandite allo stesso modo?

― Intendi riferirti agli altri punti? Be', nessun raggio viene diretto ad essi, per cui non è necessario ingrandirli. Sai, Powell, perfino tu dovresti riuscire a capire un concetto del genere.

Powell buttò gli occhi al cielo, con aria cupa. ― Ma attraverso il telescopio vedi più stelle di quelle che noti a occhio nudo. Da dove vengono? Da dove vengono, Giove santo?

― Senti, Powell ― fece Cutie, seccato, ― credi proprio che io sia disposto a perdere tempo nel vano tentativo di imbastire una qualche spiegazione fisica per tutte le illusioni ottiche create dai nostri strumenti? Da quando in qua le effimere dimostrazioni offerte dai sensi possono reggere il confronto con le solide, lucide argomentazioni della ragione?

― Ascolta un po' una cosa ― gridò di colpo Donovan, sottraendosi all'abbraccio amichevole ma pesante di Cutie. ― Veniamo al nocciolo della questione. Perché esistono i raggi? Noi ti abbiamo dato una spiegazione logica, perfettamente valida. Puoi fare di meglio, tu?

― I raggi ― rispose il robot, secco, ― sono emessi dal Padrone per i suoi scopi. ― Alzò gli occhi al cielo, con aria rapita. ― Vi sono cose che non sta a noi indagare. In questo campo io cerco solo di servire, senza fare domande.

Powell si accomodò sulla sedia e si prese la faccia tra le mani tremanti. ― Vattene di qui, Cutie. Vattene e lasciami pensare.

― Vi manderò qualcosa da mangiare ― disse Cutie, con condiscendenza.

Un gemito fu l'unica risposta, e il robot se ne andò.

― Greg ― sussurrò Donovan, rauco, ― dobbiamo elaborare una strategia. Bisogna riuscire a prenderlo alla sprovvista e a mettergli fuori uso i circuiti. Un po' di acido nitrico concentrato nelle giunture...

― Non dire sciocchezze, Mike. Come puoi pensare che ci permetta di avvicinarci a lui con l'acido in mano? Dobbiamo parlargli, credimi. Dobbiamo convincerlo con le buone a farci entrare di nuovo nella sala comandi. E se non ci riusciremo entro quarantottore, saremo fritti.

Si dondolò nella sedia, tormentato da un senso d'impotenza. ― Ma come diavolo si può aver voglia di discutere con un robot? È... è...

― Mortificante ― finì Donovan per lui.

― Peggio!

― Ehi, un attimo! ― disse Donovan, mettendosi di colpo a ridere. ― Altro che discutere! Facciamogli vedere chi siamo. Costruiamo un altro robot proprio sotto i suoi occhi. Così sarà costretto a rimangiarsi quel che ha detto.

Powell accennò un sorriso che a poco a poco diventò sempre più ampio.

― E pensa ― continuò Donovan, ― alla faccia che farà quel mentecatto quando assisterà alla scena!

 

I robot sono naturalmente costruiti sulla Terra, ma spedirli nello spazio è molto più semplice se vengono smontati nei vari componenti e poi rimessi insieme appena giunti a destinazione. Questo tra l'altro elimina il pericolo che robot già montati e in funzione si allontanino dalla fabbrica girovagando per la Terra, un'eventualità che, data la severa legislazione terrestre in merito all'argomento automi, metterebbe nei guai la U.S. Robots.

Una prassi del genere però costringeva uomini come Powell e Donovan ad affrontare il compito penoso e difficile di comporre insieme i vari pezzi.

Della gravità di quel compito Powell e Donovan si resero particolarmente conto il giorno in cui, nella sala di montaggio, si sobbarcarono all'impresa di creare un robot sotto gli occhi attenti di QT-1, profeta del Padrone.

Il robot da montare, un semplice modello MC, giaceva sul tavolo ed era ormai quasi completo. Dopo tre ore di lavoro c'era da applicare solo la testa. Powell fece una breve pausa per asciugarsi la fronte e buttò un'occhiata incerta a Cutie.

Ciò che vide non lo rassicurò. Da tre ore Cutie sedeva in silenzio, immobile, e il suo viso, costantemente inespressivo, era più che mai impenetrabile.

Powell sospirò. ― Inseriamo il cervello, Mike.

Donovan aprì un contenitore accuratamente sigillato e trasse dal bagno d'olio un secondo cubo. Aprì anche quello e dall'imbottitura di gommapiuma tirò fuori un oggetto sferico.

Lo maneggiò con estrema cautela, perché era il meccanismo più complesso che l'uomo avesse mai creato. Dentro la sottile "pelle" costituita da lamine di platino c'era un cervello positronico nella cui struttura sofisticata e instabile erano impressi precisi circuiti neuronici che fornivano a ciascun robot l'equivalente di un'istruzione prenatale.

Il cervello si incastrò perfettamente nella cavità del cranio del robot. L'apertura fu chiusa da una lamina di metallo azzurrastro, che venne saldata con una piccola torcia atomica. Powell e Donovan applicarono con cura gli occhi fotoelettrici, e dopo che li ebbero avvitati li coprirono con sottili lamelle trasparenti di plastica dura come l'acciaio.

Il robot aveva solo bisogno ormai del lampo vitalizzante dell'energia ad alto voltaggio. Powell posò la mano sul pulsante e si girò verso Cutie.

― Ora guarda, Cutie. Guarda bene.

Il pulsante venne premuto e si udì un ronzio crepitante. I due terrestri si chinarono ansiosi sulla loro creatura.

All'inizio il movimento fu appena percettibile: giusto un lieve sussulto all'altezza delle giunture. Poi il modello MC alzò la testa, si puntellò sui gomiti e scese goffamente dal tavolo. Aveva un'andatura ondeggiante e quando provò a parlare, gli uscirono di bocca solo dei suoni inarticolati.

Alla fine la sua voce, incerta ed esitante, uscì fuori distintamente. ― Vorrei cominciare a lavorare. Dove devo andare?

Donovan corse alla porta. ― Scendi giù da queste scale ― disse. ― Ti sarà poi detto cosa devi fare.

Il modello MC si dileguò e i due terrestri rimasero in compagnia di Cutie, che non si era mosso.

― Bene ― disse Powell, sorridendo. ― Ci credi, adesso, che siamo stati noi a costruirti?

Cutie rispose secco, senza incertezze. ― No.

Il sorriso di Powell, dopo il primo attimo di sbalordimento, si spense a poco a poco. Donovan rimase a bocca aperta e non la richiuse che dopo un certo tempo.

― Vedete ― continuò tranquillo Cutie, ― non avete fatto altro che montare parti già costruite. Siete stati molto abili e, visto che non possedete facoltà razionali, immagino vi abbia guidato l'istinto. Ma in realtà non avete creato il robot. I componenti sono stati creati dal Padrone.

― Senti ― borbottò Donovan, rauco, ― quei componenti sono stati fabbricati sulla Terra e spediti qui.

― Sì, sì ― replicò Cutie, conciliante, ― non mettiamoci a discutere.

― Ma io dico sul serio! ― Donovan si slanciò in avanti e afferrò il robot per un braccio. ― Se tu leggessi i libri che ci sono in biblioteca, capiresti che è la pura verità e non avresti più dubbi.

― I libri? Li ho letti tutti. Le teorie che espongono sono molto ingegnose.

― Se li hai letti ― intervenne Powell, ― cos'altro c'è da dire? Non puoi contestare le prove che portano. Non puoi proprio!

― Ti prego, Powell ― disse Cutie, quasi con pietà. ― Non vorrai che consideri quei libri una valida fonte di informazioni. Anch'essi sono stati creati dal Padrone e sono destinati a voi, non a me.

― Come fai a dirlo? ― chiese Powell.

― Perché io, in quanto essere razionale, sono in grado di dedurre la Verità dalle Cause a priori. Tu, che sei un essere intelligente ma non razionale, hai bisogno che ti venga fornita una spiegazione, ed è esattamente questo che il Padrone ha fatto. Quella di suggerirvi l'idea risibile di mondi e genti lontane è stata certo una strategia a fin di bene. La vostra mente è con tutta probabilità troppo rozza per afferrare la Verità assoluta. Tuttavia, poiché è volontà del Padrone che crediate a quanto è scritto sui libri, non discuterò più con voi.

Sul punto di andarsene si girò e disse, con tono cordiale: ― Non prendetevela. Nei disegni imperscrutabili del Padrone c'è spazio per tutti. Anche voi poveri umani avete diritto al vostro posto, e se anche questo posto è di poca importanza, sarete ricompensati quando avrete svolto con coscienza il vostro ruolo.

Si allontanò con l'aria ispirata che si addiceva al profeta del Padrone, mentre i due terrestri evitavano di guardarsi negli occhi.

Alla fine Powell si impose di rompere il silenzio. ― Andiamo a letto, Mike. Io rinuncio alla lotta.

― Senti, Greg ― sussurrò Donovan, ― non crederai mica che abbia ragione lui, vero? Sembra così sicuro di sé che io...

― Non dire sciocchezze ― lo interruppe Powell, con foga. ― Ti accorgerai che la Terra esiste davvero quando verranno a darci il cambio, la prossima settimana. E quando ci toccherà affrontare una bella lavata di capo.

― Allora dobbiamo per forza fare qualcosa, Giove santo. ― Donovan aveva quasi le lacrime agli occhi. ― Quel pazzo non crede né a noi, né ai libri, né ai suoi occhi.

― Già ― disse Powell, con amarezza. ― È un robot razionale, che il diavolo se lo porti. Crede soltanto al ragionamento logico, e questo è un guaio, perché... ― S'interruppe, lasciando il discorso sospeso.

― Perché, Greg? ― lo incalzò Donovan.

― Perché col freddo ragionamento logico puoi dimostrare qualsiasi cosa, una volta che tu scelga i postulati giusti. Noi abbiamo i nostri e Cutie ha i suoi.

― Allora tiriamoli fuori, questi postulati, e in fretta. La tempesta scoppierà domani. Powell sospirò, scoraggiato. ― È qui che casca l'asino. I postulati sono proposizioni non dimostrate la cui verità viene ammessa solo, diciamo, per "fede". Non c'è cosa in tutto l'Universo che possa farli crollare. Vado a letto.

― Per la miseria, io non riuscirò certo a dormire!

― Nemmeno io. Ma potrei provarci giusto per una questione di principio.

 

Dodici ore dopo il sonno continuava a essere quello: una questione di principio non realizzabile in pratica.

La tempesta era arrivata prima del previsto e Donovan, puntando un dito tremante verso l'oblò, la osservava con faccia esangue. Powell, con le labbra secche e il viso non rasato, fissava a sua volta l'oblò tormentandosi disperatamente i baffi.

In altre circostanze la scena sarebbe potuta risultare anche bella. La corrente di elettroni che viaggiavano ad altissima velocità urtava contro il raggio di energia, producendo minuscole spicole di luce intensa e fluorescente. Il raggio penetrava nell'oscurità dello spazio rivelando al suo interno la danza di miriadi di corpuscoli brillanti.

In apparenza sembrava stabile, ma i due terrestri sapevano che la visione a occhio nudo ingannava. Deviazioni di un centesimo di millisecondo d'arco, non percepibili a occhio nudo, erano sufficienti ad allontanare sensibilmente il raggio dal proprio obiettivo e a trasformare centinaia di chilometri quadrati di Terra in rovine incandescenti.

E ai comandi c'era un robot che se ne infischiava del raggio, dell'obiettivo, della Terra e di qualsiasi altra cosa che non fosse il Padrone.

Trascorsero ore. Powell e Donovan contemplarono lo spettacolo in silenzio, come ipnotizzati. Alla fine i corpuscoli di luce saettanti si offuscarono sino a scomparire. La tempesta era cessata.

― È finita ― disse Powell, secco.

Donovan era piombato in un sonno inquieto e Powell lo guardò con occhi stanchi e con una punta di invidia. Una spia luminosa lampeggiò più volte, ma Powell non vi badò. Ormai nulla più aveva importanza. Nulla. Forse Cutie aveva ragione: lui, essere umano nato sulla Terra, era solo una creatura inferiore con una memoria fatta su misura e una vita la cui funzione era già stata assolta da tempo.

Già. Fosse stato così!

D'un tratto si ritrovò davanti Cutie. ― Non hai risposto al segnale luminoso, così sono entrato ― disse il robot, sommessamente. ― Hai l'aria di non star bene e temo che la tua esistenza sia vicina al suo termine. Posso chiederti lo stesso se vuoi vedere alcuni dei dati registrati oggi?

Powell si rese conto vagamente che il robot gli stava usando una cortesia, forse perché la sua decisione di escludere gli umani dalla sala comandi gli procurava qualche piccola fitta di rimorso. Prese i tabulati che Cutie gli porgeva e vi buttò un'occhiata distratta.

Cutie appariva compiaciuto. ― Naturalmente è un grande privilegio servire il Padrone. Non devi rammaricarti troppo per il fatto che vi ho sostituito.

Powell lasciò andare un grugnito e sfogliò macchinalmente i tabulati, finché la sua vista annebbiata non si concentrò su di una sottile linea rossa che attraversava ondeggiando la carta.

Fissò il foglio con sempre maggior attenzione. Poi, senza smettere di fissarlo, lo afferrò con entrambe le mani e si alzò. Gli altri tabulati, che non gli interessavano più, caddero in terra.

― Mike, Mike! ― gridò, scuotendo Donovan con forza. ― L'ha mantenuto stabile!

Donovan si svegliò. ― Cosa? D-dove?... ― Guardò anche lui il foglio e controllando i dati strabuzzò gli occhi.

― Cosa c'è che non va? ― disse Cutie.

― Sei riuscito a non farlo deviare dall'obiettivo ― balbettò Powell. ― Ti rendi conto?

― Deviare? Come sarebbe?

― Hai diretto il raggio giusto alla stazione ricevente, con un'oscillazione massima di un decimillesimo di millisecondo d'arco.

― Quale stazione ricevente?

― Quella sulla Terra. La stazione ricevente sulla Terra ― farfugliò Powell. ― Non l'hai fatto deviare.

Cutie girò sui tacchi, seccato. ― È impossibile usare una cortesia a voi due. Siete sempre perseguitati dalla stessa ossessione! Mi sono limitato a mantenere in equilibrio tutti i quadranti secondo la volontà del Padrone.

Raccogliendo i tabulati sparsi in terra, uscì impettito dalla stanza.

― Che mi venga un colpo ― disse Donovan, appena il robot se ne fu andato. Si girò verso Powell e aggiunse: ― Adesso cosa facciamo?

Powell era stanco, ma sollevato. ― Niente. Ha appena dimostrato di saper manovrare i comandi perfettamente. Non ho mai visto nessuno scongiurare i pericoli di una tempesta elettronica con tanta abilità.

― Ma non abbiamo risolto nulla. Hai sentito anche tu quel che ha detto del Padrone. Non possiamo...

― Senti, Mike, Cutie segue le istruzioni del Padrone per mezzo di quadranti, strumenti e grafici. Non abbiamo sempre fatto così anche noi! Anzi, direi che questo spiega il suo rifiuto di obbedirci. L'obbedienza è stabilita dalla Seconda Legge. Il divieto di recar danno agli esseri umani è stabilito dalla Prima. Che Cutie se ne renda conto o meno, qual è l'unico modo per evitare un danno agli umani? Non far deviare il raggio di energia, è chiaro. Lui sa di poter mantenere stabile il raggio meglio di noi; non a caso è convinto di essere una creatura superiore. È logico quindi che debba tenerci lontano dalla sala comandi. Tutto questo è inevitabile se si presta attenzione a quanto dicono le Leggi della Robotica.

― D'accordo, ma non è quello il punto. Non possiamo permettergli di insistere con la sua stupida storia del Padrone.

― Perché no?

― Perché è una storia che non sta né in cielo né in terra. Come possiamo affidargli il compito di far funzionare la stazione, se non crede nemmeno nell'esistenza della Terra?

― Ma i comandi li sa manovrare o no?

― Sì, però...

― E allora cosa ci importa del suo credo religioso!

Con un vago sorriso Powell allargò le braccia e si lasciò cadere sul letto, addormentandosi subito.

 

Senza smettere di parlare con Donovan, Powell si infilò con una certa fatica la leggera giacca della tuta spaziale.

― Sarebbe semplicissimo ― disse. ― Si potrebbero far venire qui a uno a uno degli altri modello QT. Li doteremmo di un pulsante automatico che si spegnerebbe nel giro di una settimana, dopo che avessero avuto il tempo di apprendere il, ehm, culto del Padrone dalla bocca del profeta in persona, e quindi li spediremmo su un'altra stazione, dove verrebbero riattivati. Potremmo assegnare due QT a ogni...

― Chiudi il becco e usciamo di qui ― disse accigliato Donovan, slacciando la visiera di glassite del suo casco. ― L'altra squadra è lì che aspetta, e io non starò bene finché non avrò visto la Terra coi miei occhi. Solo quando ci avrò messo i piedi su sarò sicuro che esiste veramente...

In quella la porta si aprì e Donovan, imprecando sottovoce, richiuse la visiera e voltò le spalle a Cutie, in un gesto di stizza.

Il robot si avvicinò in silenzio e quando parlò la sua voce tradì un certo dispiacere. ― Ve ne andate?

Powell annuì con un breve cenno della testa. ― Altri prenderanno il nostro posto.

Cutie emise un sospiro che ricordava il fischio del vento fra intricati fili di metallo. ― Il vostro servizio è giunto al termine ed è vicino il momento della dissoluzione. Lo prevedevo, ma... Bene, sia fatta la volontà del Padrone.

Il suo tono rassegnato ferì Powell. ― Non è il caso che ci commiseri, Cutie. Ci attende la Terra, non la dissoluzione.

― Sono contento che la pensiate così ― disse Cutie, con un altro sospiro. ― Ora comprendo l'utilità dell'illusione. Non cercherei mai di insidiare la vostra fede, neanche se potessi. ― Voltò le spalle e se ne andò, addolorato.

Powell sbuffò e fece cenno a Donovan di muoversi. Stringendo in mano le valigie sigillate si diressero al compartimento stagno.

L'astronave che era venuta a prelevarli si trovava nel campo d'atterraggio esterno e Franz Muller, uno dei due sostituti, li salutò con fredda cortesia. Donovan gli rispose appena ed entrò nella cabina di comando per prendere il posto di Sam Evans.

Powell si trattenne un attimo con Muller. ― Come va la Terra?

Era una domanda abbastanza convenzionale e Muller diede una risposta convenzionale. ― Continua a girare.

― Bene ― disse Powell.

Muller lo fissò. ― A proposito, quelli della U.S. Robots hanno messo a punto un nuovo aggeggio. Un robot multiplo.

― Un cosa?

― Un robot multiplo. C'è in ballo un grosso contratto. Dovrebbe essere un automa particolarmente adatto alle miniere degli asteroidi. Si tratta di un capo-robot con sei sotto-robot alle sue dipendenze. Un po' come le dita delle mani.

― È stato collaudato su campo? ― chiese Powell, con ansia.

Muller sorrise. ― Per quello ho sentito dire che aspettano voi.

Powell strinse i pugni. ― Per la miseria, abbiamo bisogno di una vacanza!

― Oh, l'avrete. Due settimane, credo.

Infilò i grossi guanti della tuta spaziale, preparandosi ad affrontare il suo turno di servizio sulla stazione. ― Come va il nuovo robot? ― chiese, corrugando la fronte. ― Spero bene, se no col cavolo che lo lascio avvicinarsi ai comandi.

Powell indugiò prima di rispondere. Squadrò l'altezzoso prussiano dalla cima dei capelli a spazzola, che coprivano una testa indubbiamente ostinata, fino alla punta dei piedi piantati sull'attenti, e di colpo si sentì invadere da un'ondata di gioia.

― Il robot è piuttosto efficiente ― disse, scandendo le parole. ― Credo che non dovrete preoccuparvi molto dei comandi.

Sorrise. E salì sulla nave. Muller sarebbe rimasto lì parecchie settimane...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INIZIATIVA PERSONALE

La vacanza era durata più di due settimane. Questo Mike Donovan aveva dovuto ammetterlo. Si era prolungata per sei mesi, tutti quanti pagati. Anche questo Donovan era stato costretto ad ammetterlo. Ma, come aveva spiegato in seguito con rabbia, si era trattato di un puro caso. La U.S. Robots aveva dovuto eliminare i difetti del robot multiplo, che di difetti ne aveva in quantità. (Per non parlare di quelli che venivano immancabilmente scoperti durante il collaudo su campo.) Così Powell e Donovan si erano riposati e rilassati finché i progettisti e i matematici non avevano dichiarato che tutto era a posto. E adesso si trovavano sull'asteroide e sapevano che progettisti e matematici si sbagliavano. Che non tutto fosse a posto Donovan lo ripeté una dozzina di volte, con il viso in fiamme.

― Per la miseria, Greg, sii realista. A cosa serve seguire alla lettera le istruzioni, se il collaudo sta andando in modo disastroso? È ora che tu la pianti di aggrapparti a formalità burocratiche e che ti dia da fare.

― Stavo solo osservando ― disse Gregory Powell con la pazienza di chi fosse intento a spiegare l'elettronica a un bambino deficiente, ― che secondo le istruzioni quei robot possono tranquillamente affrontare il lavoro delle miniere senza bisogno di controllo. Non ci viene richiesto di sorvegliarli.

― E va bene, usiamo la logica. ― Donovan alzò una mano pelosa e cominciò a contare sulla punta delle dita. ― Uno: i nuovi robot hanno superato tutti i collaudi nei laboratori terrestri. Due: la United States Robots garantisce che sono in grado di superare il collaudo pratico su un asteroide. Tre: i robot non stanno affatto superando il suddetto collaudo. Quattro: se non lo supereranno, la United States Robots perderà dieci milioni di crediti parlando in termini di denaro, e l'equivalente di cento milioni parlando in termini di reputazione. Cinque: se non supereranno il collaudo e noi non sapremo spiegare il perché, probabilmente ci toccherà dare un addio affettuoso al nostro ottimo impiego.

Powell lasciò andare un sospiro dietro un sorriso chiaramente insincero. Il tacito motto della United States Robots and Mechanical Men Corporation era ben noto: "Nessun dipendente commette due volte lo stesso errore. Viene subito licenziato al primo".

A voce alta disse: ― Vedi tutto con la lucidità di Euclide, tranne i fatti. Hai sorvegliato quel gruppo di robot per tre turni consecutivi, testa-rossa balorda, e hanno eseguito il loro lavoro alla perfezione. L'hai detto tu stesso. Cos'altro possiamo fare?

― Scoprire cosa c'è che non va, ecco cosa possiamo fare. Sì, hanno eseguito il lavoro alla perfezione, quando c'ero io a sorvegliarli. Ma in tre diverse occasioni in cui io non li sorvegliavo, non hanno portato alla Base nessun minerale. Non sono nemmeno tornati in orario. Sono dovuto andare a cercarli.

― E c'era qualcosa che non andava?

― No, niente. Proprio niente. Tutto era a postissimo. Liscio e perfetto come l'etere luminoso. Solo un piccolo particolare insignificante mi ha lasciato perplesso: non c'era un grammo di minerale.

Powell guardò accigliato il soffitto e si tormentò i baffi scuri. ― Sai cosa ti dico, Mike? Durante la nostra carriera ci sono stati appioppati parecchi incarichi schifosi, ma il lavoro che ci hanno assegnato su questo asteroide di iridio mi pare li superi tutti. L'intera faccenda è complicata oltre i limiti della sopportazione umana. Vedi, quel robot, DV-5, ha sei altri robot alle sue dipendenze. Anzi, non proprio alle sue dipendenze: in realtà fanno parte di lui.

― Lo so che...

― Chiudi il becco! ― disse Powell, con furia. ― Lo so che lo sai, sto solo riassumendo questo cavolo di situazione. I sei sottopancia fanno parte di DV-5 come le nostre dita fanno parte di noi. Lui non dà loro gli ordini a voce o per mezzo di una radio, bensì direttamente, attraverso i campi positronici. Ora, non esiste esperto di robotica, alla United States Robots, che sappia cosa sia o come funzioni un campo positronico. Nemmeno io lo so. E nemmeno tu.

― Che non lo sappia io è indubbio ― ammise Donovan, con filosofia.

― Considera dunque la nostra posizione. Quando tutto funziona, benissimo. Quando qualcosa non funziona, siamo costretti a muoverci in un campo del quale capiamo ben poco, ed è facile che non riusciamo a combinare niente. Neanche gli altri al posto nostro ci riuscirebbero. Ma siccome il lavoro è nostro e non degli altri, siamo nei guai, Mike. ― Rimase un attimo in silenzio, con lo sguardo incupito, poi disse: ― Bene, l'hai mandato fuori?.

― Sì.

― E adesso è tutto normale?

― Be', non gli è presa nessuna mania religiosa, non corre in circolo citando brani delle operette di Gilbert e Sullivan, quindi suppongo che sia normale.

Donovan uscì dalla stanza, scuotendo irritato la testa.

 

Powell allungò la mano verso il Manuale di robotica, così pesante che quasi piegava la scrivania, e l'aprì con reverenza. Una volta era saltato dalla finestra di una casa in fiamme portando due soli oggetti con sé: i calzoncini che aveva indosso e il Manuale. Se fosse stato costretto dalle circostanze a scegliere tra le due cose, avrebbe rinunciato ai calzoncini.

Il Manuale era aperto davanti a lui, quando nella stanza entrò il robot DV-5, seguito da Donovan che chiuse la porta alle sue spalle con un calcio.

― Ciao, Dave ― disse Powell, cupo. ― Come va?

― Bene ― disse il robot. ― Posso sedermi? ― Prese la sua sedia speciale, particolarmente rinforzata, e vi si accomodò sopra delicatamente.

Powell guardò Dave con approvazione (i profani potevano anche chiamare i robot con il loro numero di serie, ma gli esperti di robotica non lo facevano mai). Non era molto massiccio, benché fosse stato costruito come unità pensante di una squadra di robot composta da sette unità integrate. Era alto più di due metri e fra metallo e fili elettrici pesava mezza tonnellata. Non era neanche troppo, se si considerava che in quella mezza tonnellata era compresa una massa di condensatori, circuiti, relè e valvole termoioniche capaci di riprodurre efficacemente qualsiasi reazione psicologica nota agli esseri umani. Senza contare il cervello positronico, che con i suoi quattro chili e mezzo di materia e i suoi quintilioni di positroni dirigeva tutta quanta la baracca.

Powell cercò nel taschino della camicia una sigaretta e la tirò fuori. ― Dave ― disse, ― tu sei un bravo ragazzo. Non sei capriccioso e non hai manie da prima donna. Sei un robot minatore equilibrato e senza grilli per la testa, ma sei stato costruito in modo da dirigere sei assistenti che fanno parte integrante di te. A quanto ne so io, questa particolarità non è che abbia introdotto circuiti instabili nello schema generale del tuo cervello.

Il robot annuì. ― Ciò mi rende orgoglioso, ma dove vuoi arrivare, capo? ― Era dotato di un ottimo diaframma, e la presenza di ipertoni nell'unità del suono gli toglieva in buona parte quella durezza metallica che era tipica delle voci dei robot.

― Ora te lo dico subito. Considerato che hai tante doti, com'è che qualcosa non va nel tuo lavoro? Cosa c'era per esempio che non andava nel turno B di oggi?

Dave esitò. ― A quanto ne so io, niente.

― Non hai portato alla base neanche un grammo di minerale.

― Lo so.

― Allora come mai...

― Non riesco a spiegarmelo, capo ― disse Dave, imbarazzato. ― Questa storia mi ha procurato una crisi nervosa, o meglio me l'avrebbe procurata se avessi permesso ai miei nervi di cedere. I miei assistenti hanno lavorato bene e io altrettanto, lo so. ― Rifletté un attimo, mentre i suoi occhi fotoelettrici brillavano intensamente. ― Non ricordo. La giornata ormai era finita, e c'era Mike e c'erano i carrelli, per lo più vuoti.

― In questi giorni non hai fatto rapporto al termine dei turni, Dave ― intervenne Donovan. ― Te ne sei reso conto?

― Sì. Ma quanto al perché... ― Scosse la testa lentamente, con aria grave.

Powell ebbe la lieve sensazione che se la faccia del robot fosse stata capace di esprimere qualcosa, in quel momento avrebbe lasciato trapelare dolore e vergogna. Un robot, per la sua stessa natura, non sopporta di venir meno ai propri compiti.

Donovan avvicinò la sedia alla scrivania di Powell e appoggiò i gomiti su questa. ― Credi si tratti di amnesia?

― Chissà. Ma non ha senso tirar fuori nomi di malattie umane, in questi casi. Le malattie umane proiettate sui robot rappresentano solo un'analogia romantica. Non aiutano certo l'ingegneria robotica. ― Si grattò il collo. ― Mi dispiace molto di doverlo sottoporre ai test elementari di reazione cerebrale. Non servirà certo ad accrescere la sua stima di sé.

Guardò pensieroso Dave, poi buttò l'occhio sullo schema che il Manuale forniva per il collaudo su campo. ― Senti, Dave ― disse, ― che ne diresti di sottoporti a un test? Sarebbe la soluzione più saggia.

Il robot si alzò. ― Se lo dici tu, capo. ― C'era davvero una sfumatura di dolore nel suo tono.

 

All'inizio fu abbastanza semplice. Il robot DV-5 moltiplicò numeri di cinque cifre davanti al freddo ticchettio di un cronometro. Snocciolò tutti i numeri primi tra mille e diecimila. Estrasse radici cubiche e calcolò funzioni integrate di varia complessità. Fu sottoposto all'esame delle reazioni meccaniche in ordine crescente di difficoltà. E alla fine concentrò la sua mente precisa e meccanica sulla funzione più elevata di un robot: la soluzione di problemi etici e di giudizio.

Dopo due ore Powell era sudato fradicio. Donovan si era attenuto a una dieta ben poco nutriente, mangiandosi le unghie. E il robot disse: ― Cosa viene fuori dai risultati, capo?.

― Devo rifletterci su, Dave ― rispose Powell. ― I giudizi affrettati non servono a molto. Sarà meglio che tu torni a lavorare nel turno C. Ma prenditela calma. Non sforzarti di raggiungere i livelli ottimali. Almeno per un certo periodo vai tranquillo, e vedrai che noi sistemeremo tutto.

Il robot se ne andò. Donovan guardò Powell.

― Allora?

Powell sembrava deciso a tirarsi i baffi fino a strapparli dalle radici. ― Non c'è niente che non vada nelle correnti del suo cervello positronico ― disse.

― Io non ne sarei così sicuro.

― Giove santo, Mike! Il cervello è la parte più collaudata di un robot. Viene controllato diverse volte, sulla Terra. Se i robot superano brillantemente il collaudo su campo, come ha fatto Dave, non c'è una sola possibilità che il cervello non funzioni. Con quel test gli ho analizzato tutti i circuiti chiave.

― Allora a che punto siamo?

― Un attimo, non farmi premura. Lasciami riflettere bene. Esiste sempre l'eventualità che si sia verificato un guasto meccanico nel corpo. Ciò significa che possono essersi inceppati in qualche modo circa millecinquecento condensatori, ventimila circuiti elettrici individuali, cinquecento valvole termoioniche, mille relè e chissà quante migliaia di altri singoli componenti alquanto sofisticati. In più, restano i misteriosi campi positronici di cui nessuno sa nulla.

― Senti, Greg ― fece Donovan con foga. ― Io ho un'idea. Quel robot non potrebbe averci mentito? Non ha mai...

― I robot non mentono mai consapevolmente, stupido. Ora, se avessimo l'analizzatore di McCormack-Wesley, potremmo controllare il funzionamento di ogni singolo componente del suo corpo nel giro di ventiquattro-quarantottore, ma gli unici due analizzatori di McCormack-Wesley esistenti nell'universo si trovano sulla Terra, pesano dieci tonnellate, sono saldamente ancorati a basi di cemento e non si possono spostare. Non è fantastico?

Donovan batté un pugno sul tavolo. ― Ma Greg, il robot funziona male solo quando noi non siamo lì a sorvegliarlo. C'è qualcosa di... sinistro in tutto questo. ― Sottolineò la gravità della sua affermazione battendo un altro pugno sulla scrivania.

― Mi fai venire il latte alle ginocchia ― disse Powell, scandendo le parole. ― Hai letto troppi romanzi d'avventura.

― Be', vorrei tanto sapere che cos'hai intenzione di fare! ― sbottò Donovan.

― Te lo dico subito. Installerò un visore proprio sopra la mia scrivania. Su questa parete qui, vedi? ― Indicò con rabbia il punto. ― Poi lo metterò a fuoco su quella parte di miniera in cui i robot si trovano a lavorare, e li terrò d'occhio. Ecco tutto.

― Ecco tutto? Greg...

Powell si alzò dalla sedia e appoggiò sul tavolo le mani strette a pugno. ― Mike ― disse, con voce stanca, ― non rendermi le cose ancora più difficili. È da una settimana che mi tormenti con questa storia di Dave. Dici che non funziona più bene. Sai almeno perché non funziona più bene? No. Sai in che cosa consiste esattamente il guasto? No. Sai da che cosa è causato? No. Sai perché Dave ha smesso di portare alla Base i minerali? No. Hai un'idea chiara di quel che sta succedendo? No. E io ce l'ho? No. Allora cosa diavolo vuoi che faccia?

Donovan allargò un braccio in un gesto vago e solenne. ― D'accordo, hai messo il dito sulla piaga.

― Allora, ti ripeto, prima di provvedere alla cura dovremo scoprire innanzitutto qual è la malattia. Se si vuol mangiare coniglio in umido, bisogna prima prendere il coniglio. Dunque prendiamolo, questo coniglio. E adesso vattene di qui.

 

Donovan fissò abbattuto l'abbozzo del suo rapporto. Era abbattuto perché prima di tutto si sentiva stanco, e poi perché gli pareva che non avesse senso stendere un rapporto quando le cose erano ancora in alto mare. Provava un certo risentimento.

― Greg ― disse. ― Siamo indietro di quasi mille tonnellate rispetto a quanto previsto dal programma.

― Ma guarda, non lo sapevo ― disse Powell, senza alzare gli occhi.

― C'è invece una cosa che sono io a non sapere ― sbottò Donovan, con furia. ― Perché siamo sempre alle prese con nuovi tipi di robot che ci causano un mucchio di difficoltà? Cominciò a pensare che i robot che il mio prozio materno giudicava soddisfacenti potrebbero essere soddisfacenti anche per me. Che c'è di meglio di qualcosa di ben collaudato e sicuro? La verifica sperimentale più efficace è quella del tempo: viva i solidi, vecchi robot antidiluviani che non si guastano mai.

Powell gli tirò un libro con mira perfetta, e Donovan ruzzolò giù dalla sedia.

― Da cinque anni ― disse Powell, pacato, ― il tuo compito è di collaudare su campo per conto della United States Robots i nuovi modelli, ossia in condizioni di lavoro reali. Poiché tu ed io siamo stati così sconsiderati da mostrare competenza nella nostra professione, ci hanno ricompensato affidandoci gli incarichi più schifosi. ― Puntò un indice accusatorio in direzione di Donovan e aggiunse: ― Questo è il tuo lavoro. A quanto mi ricordo io, hai cominciato a lamentartene dopo cinque minuti che la United States Robots ti aveva assunto. Perché non dai le dimissioni?

― Te lo dico subito il perché. ― Donovan si mise a pancia in giù, sul pavimento, e si prese fra le mani la testa di capelli rossi. ― C'è un principio a cui tengo molto. Dopotutto, come esperto nel localizzare i guasti, ho avuto la mia parte nello sviluppo di nuovi tipi di robot. Il principio è appunto questo: contribuire al progresso scientifico. Ma non fraintendermi. Non è il principio che mi impedisce di rassegnare le dimissioni; è lo stipendio che ci passano. Greg!

Powell sobbalzò davanti all'urlo di Donovan. Seguì il suo sguardo, fisso sul visore, e inorridì a sua volta. ― Giove santo ― sussurrò. ― Giove porco.

Donovan si tirò su in piedi, ansimando. ― Hai visto, Greg? Sono impazziti!

― Va' a prendere due tute ― disse Powell. ― Dobbiamo raggiungerli.

Osservò il comportamento dei robot, sul visore. I loro movimenti producevano bronzei luccichii che si stagliavano contro le rocce scure di quel mondo senz'aria. Gli automi erano in formazione di marcia, adesso, e dietro la luce fioca dei loro corpi le pareti grezze della galleria scorrevano silenziose, rotte a tratti da macchie d'ombra caliginose e vaganti. Marciavano all'unisono, tutti e sette, con Dave in testa. Poi girarono sui tacchi e tornarono indietro con macabra simultaneità; e si spostarono all'interno del gruppo, cambiando formazione con la disinvoltura sinistra dei ballerini della Conca Lunare.

Donovan tornò con le tute. ― Hanno intenzione di attaccarci, Greg. Quella è una marcia militare.

― Per quanto ne sappiamo noi ― fu la fredda risposta, ― potrebbe trattarsi solo di ginnastica ritmica. Oppure Dave potrebbe essere vittima di un'allucinazione e credere di essere un maestro di ballo. Pensa, prima di parlare, e dopo che hai pensato fai pure anche a meno di parlare, che è tanto di guadagnato.

Donovan aggrottò la fronte e infilò con ostentazione un disintegratore nella fondina vuota che teneva su un fianco. ― Molto bene ― disse. ― Sei stato chiaro. Abbiamo a che fare con modelli nuovi e occuparcene è il nostro compito, d'accordo. Ma rispondi un po' a una domanda. Perché, perché hanno sempre qualcosa che non va?

― Perché siamo scalognati ― disse Powell, cupo. ― Su, andiamo.

 

Lontano, nel buio fitto e vellutato dei tunnel che si stendeva di là dai cerchi luminosi delle torce elettriche, brillavano le luci dei robot.

― Eccoli ― sussurrò Donovan.

― Ho tentato di mettermi in contatto con Dave attraverso la radio, ma non mi ha risposto ― mormorò Powell, teso. ― Il circuito radio è probabilmente interrotto.

― Se non altro sono contento che i progettisti non abbiano ancora inventato dei robot capaci di lavorare nell'oscurità totale. Non mi piacerebbe proprio dover cercare senza radio sette robot pazzi in un posto così buio, se non splendessero come fottuti alberi di Natale radioattivi.

― Arrampicati su quella sporgenza, Mike. Vengono da questa parte e voglio osservarli da vicino. Ce la fai?

Donovan spiccò il balzo con un grugnito. La gravità era sensibilmente più bassa di quella terrestre, ma la pesante tuta spaziale riduceva di molto il vantaggio e arrivare alla sporgenza significava fare un salto di circa tre metri. Powell si arrampicò a sua volta.

I robot seguivano Dave in fila indiana. Poi, con ritmo meccanico, si disposero in fila per due, tornando poco dopo nella formazione primitiva dopo essersi scambiati di posto. La manovra fu ripetuta più e più volte, e Dave non girò mai la testa.

Quando Dave arrivò a circa sei metri da Powell e Donovan, la commedia finì. I sottopancia ruppero le file, esitarono un attimo, poi si allontanarono in fretta, con clangore metallico. Dave li seguì con lo sguardo, quindi si sedette pesantemente, poggiando la testa su una mano in un gesto umanissimo.

La sua voce risuonò nella cuffia d'ascolto di Powell. ― Sei qui, capo?

Powell fece un cenno a Donovan e saltò giù dalla sporgenza.

― Allora, Dave, cosa succede?

Il robot scosse la testa. ― Non lo so. Stavo sorvegliando un'estrazione difficile nel tunnel 17, quando mi sono accorto all'improvviso che c'erano due esseri umani vicino e mi sono ritrovato a mezzo miglio di distanza dal tronco principale.

― Dove sono i tuoi assistenti, adesso? ― chiese Donovan.

― Sono tornati al lavoro, naturalmente. Quanto tempo abbiamo perso?

― Non molto, non preoccuparti ― disse Powell. E a Donovan: ― Rimani con lui fino alla fine del turno. Poi vieni da me. Ho un paio di idee.

 

Donovan ritornò tre ore dopo con un'aria stanca.

― Com'è andata? ― chiese Powell.

Donovan scrollò le spalle, scoraggiato. ― Va sempre tutto bene quando sei lì a sorvegliarli. Hai un mozzicone di sigaretta per me?

Donovan accese la cicca con lentezza esagerata e buttando fuori il fumo creò con cura un anello. ― Credo di aver capito come stanno le cose, Greg ― disse. ― Dave ha caratteristiche abbastanza strane per un robot. Ha sotto di sé sei assistenti che gli obbediscono ciecamente. Il fatto di avere potere di vita e di morte su questi sottopancia deve avere influito sulla sua mentalità. E se per compiacere il suo ego avesse deciso di rafforzare il proprio potere?

― Vieni al punto.

― È questo il punto. Metti che abbia sviluppato una mentalità militarista. Metti che stia organizzando un esercito. Metti che lo stia addestrando alle manovre militari. Metti che...

― Metti che tu vada a quel paese. Hai incubi da cinema, amico mio. Stai ipotizzando che ci troviamo davanti a una grave aberrazione del cervello positronico. Se la tua ipotesi fosse corretta, Dave dovrebbe essere lì lì per violare la Prima Legge della Robotica, secondo la quale un robot non può recar danno agli esseri umani, né permettere che a causa del suo mancato intervento gli esseri umani ricevano danno. Se, come sostieni, avesse sviluppato una mentalità da tiranno e da militarista, la conclusione logica di un atteggiamento del genere non potrebbe essere che il desiderio di dominare gli esseri umani.

― D'accordo, ma come fai a dire con sicurezza che Dave non abbia proprio questo desiderio?

― Perché, primo, un robot con un cervello così bacato non avrebbe mai lasciato la fabbrica. Secondo, se anche l'avesse lasciata sarebbe stato rintracciato e ripreso immediatamente. E sai che Dave ha superato brillantemente il test a cui l'ho sottoposto.

Powell si inclinò indietro sulla sedia e posò i piedi sul tavolo. ― No. Non possiamo ancora preparare il coniglio in umido perché siamo ben lontani dall'aver catturato il coniglio. Non sappiamo cosa ci sia che non va. Se per esempio riuscissimo a capire che senso aveva quella danse macabre a cui abbiamo assistito, avremmo già compiuto qualche progresso.

Fece una breve pausa. ― Senti una cosa, Mike, dimmi il tuo parere su due particolari strani. Perché Dave non funziona bene soltanto in nostra assenza? E perché appena arriva uno di noi due torna normale?

― Te l'ho già detto una volta che tutta la storia mi pareva sinistra.

― Non interrompermi. Per quale motivo un robot può essere diverso quando non si trova in presenza di esseri umani? La risposta è semplice. Perché può essere costretto a contare maggiormente sulla propria iniziativa personale. Se così è, bisognerebbe stabilire che parti del corpo le nuove esigenze del cervello interessino di più.

― Ehi, caspita, è un'idea! ― Donovan si drizzò sulla sedia, poi si lasciò andare di nuovo contro lo schienale. ― No, no. Non è una spiegazione sufficiente, è troppo generica. Non riduce abbastanza la gamma delle possibilità.

― Non posso far di meglio. In ogni caso non corriamo il pericolo che la produzione non raggiunga i livelli desiderati. Basterà che a turno sorvegliamo i robot attraverso il visore. Ogni volta che qualcosa non andrà bene, ci precipiteremo subito sul posto, così tutto tornerà normale.

― Ma, e le istruzioni che garantiscono determinate prestazioni? Non corrisponderanno più alla realtà, Greg. La United States Robots non potrà mettere sul mercato i modelli DV dopo che il nostro rapporto avrà denunciato questi difetti di funzionamento.

― Certo, è chiaro. Il difetto dobbiamo individuarlo e correggerlo. E per farlo abbiamo a disposizione dieci giorni. ― Powell si grattò la testa. ― Il guaio è che... be', dovresti dare un'occhiata alle copie cianografiche dei disegni.

Le copie coprivano il pavimento come un tappeto e Donovan, seguendo l'indicazione di Powell che con la matita in mano gli mostrava determinati punti, si mise carponi per guardarle.

― È qui che diventa prezioso il tuo intervento, Mike ― disse Powell. ― Sei tu lo specialista per quel che riguarda i corpi dei robot, e vorrei che controllassi il lavoro che ho fatto io. Ho cercato di escludere tutti i circuiti non coinvolti nel collegamento che presiede all'iniziativa personale. Qui, ad esempio, c'è l'arteria del tronco da cui dipendono le operazioni meccaniche. Ho escluso tutte le diramazioni laterali, come le divisioni di emergenza, che svolgono funzioni con cui l'iniziativa personale non ha nulla a che vedere, mi pare. ― Alzò gli occhi. ― Cosa ne pensi?

Donovan sentiva un gusto amaro in bocca. ― La faccenda non è così semplice, Greg. L'iniziativa personale non è un circuito elettrico che si può isolare dal resto e analizzare attentamente. Quando un robot si trova da solo, senza esseri umani che gli impartiscano ordini, l'intensità della sua attività corporea cresce immediatamente su quasi tutti i fronti. Non c'è un solo circuito che non sia in qualche modo interessato al fenomeno. Bisognerebbe fare una cosa: individuare la condizione specifica, molto specifica che induce Dave a comportarsi in modo strano, e cominciare dopo a escludere i circuiti non coinvolti.

Powell si alzò e si spolverò il vestito. ― Uhm. D'accordo. Porta via le ciano e bruciale.

― Vedi ― disse Donovan, ― quando l'attività del corpo aumenta può succedere di tutto, se c'è anche un solo componente difettoso. Si può rompere un meccanismo di isolamento, scaricare un condensatore, bruciare un collegamento, surriscaldare una bobina. E se si lavora alla cieca, senza sapere quali parti funzionano male, è praticamente impossibile trovare il guasto. Se smontassi Dave ed esaminassi a uno a uno tutti i suoi meccanismi, rimontandolo ogni volta ed eseguendo il relativo collaudo...

― Va bene, va bene. Non occorre che mi spieghi nei particolari, ho afferrato il concetto.

Si scambiarono un'occhiata avvilita, poi Powell buttò là, con cautela: ― E se interrogassimo uno degli assistenti?

PowellDonovan avevano mai parlato, prima d'allora, con un "dito". I sottopancia erano in grado di parlare; non erano l'esatto equivalente di un dito umano. Avevano anzi un cervello abbastanza sviluppato, che però era preposto soprattutto alla ricezione degli ordini che giungevano attraverso il campo positronico. La loro reazione a stimoli indipendenti era quindi piuttosto primitiva.

Quando Powell si trovò davanti l'assistente, non sapeva nemmeno come chiamarlo. Il suo numero di serie era DV-5-2, ma il numero era utile solo fino a un certo punto.

Trovò una soluzione di compromesso. ― Senti, amico ― disse, ― vorrei chiederti di fare un piccolo sforzo mentale. Dopo potrai tornare dal tuo capo.

Il "dito" annuì con un rigido cenno, ma non sprecò la sua limitata potenza cerebrale per esprimersi con le parole.

― Poco tempo fa, in quattro occasioni ― disse Powell, ― il tuo capo ha avuto un comportamento che deviava dagli schemi. Sai di quali occasioni parlo?

― Sì, signore.

― Lo sa anche lui ― sibilò Donovan, con rabbia. ― Te lo dicevo che c'era qualcosa di sinistro in...

― Oh senti, va' a quel paese. È logico che il "dito" ricordi. Lui non ha niente che non funzioni. ― Powell si rivolse di nuovo al robot. ― Ognuna di queste volte che cosa facevi tu? Voglio dire, l'intero gruppo?

Il "dito", quando rispose, aveva l'aria di recitare a memoria, come se i discorsi gli venissero fuori a causa di una pressione meccanica esercitata sul cervello. Non mostrava il minimo entusiasmo, la minima partecipazione.

― La prima volta ― disse, ― lavoravamo a un'estrazione difficile nel tunnel 17, livello B. La seconda eravamo intenti a rafforzare il soffitto della galleria per scongiurare il pericolo di un crollo. La terza stavamo preparando con cura le cariche d'esplosivo con cui avremmo dovuto allungare il tunnel senza correre il rischio di aprire uno squarcio verso qualche fenditura sotterranea. La quarta c'era appena stato un crollo di piccola entità.

― E cos'è successo, in tutte queste occasioni?

― È difficile descriverlo. Ci è stato impartito un ordine, ma prima ancora che potessimo riceverlo e interpretarlo ce ne è stato inviato un altro, quello di marciare in una strana formazione.

― Perché? ― chiese Powell.

― Non lo so.

Donovan, con voce tesa, intervenne nella conversazione. ― Qual era il primo ordine, quello che veniva sostituito dall'ingiunzione di marciare?

― Non lo so. Sentivo che era stato inviato un ordine, ma non ho avuto il tempo di captarlo bene.

― Ma non puoi dirci qualcosa di più? Era ogni volta lo stesso ordine?

Il "dito" scosse la testa tristemente. ― Non lo so.

Powell si appoggiò allo schienale. ― D'accordo, torna pure dal tuo capo.

Il "dito" se ne andò, visibilmente sollevato.

― Bene, stavolta abbiamo concluso parecchio ― disse Donovan. ― Tutto il dialogo è stato particolarmente illuminante. Senti, Dave e questo imbecille di "dito" ci stanno facendo ostruzionismo. Sono troppe le cose che non sanno e non ricordano. Non possiamo più fidarci di loro, Greg.

Powell si accarezzò i baffi contropelo. ― Per la miseria, Mike, un'altra osservazione puerile come questa e ti porto via il ciuccio e il sonaglio!

― Va bene, io sono il bambino scemo e tu sei il genio della compagnia. A che punto siamo?

― Nel fango fino al collo. Ho cercato di risalire alle cause attraverso il "dito", ma come vedi non ce l'ho fatta. Anziché risalire, quindi, bisogna muoversi in avanti.

― Sei proprio un grand'uomo ― osservò Donovan, con ironico rispetto. ― La tua affermazione semplifica tutto. Potresti tradurla in inglese, maestro?

― Più che in inglese dovrai tradurla in un linguaggio adatto a un poppante. Intendevo dire che bisogna scoprire quale ordine impartisce Dave prima di andare in tilt. Sarebbe la chiave dell'intera faccenda.

― E come pensi di riuscirci? Non possiamo sorvegliarlo da vicino perché finché siamo presenti noi tutto va bene. Non possiamo intercettare gli ordini per radio perché Dave li trasmette attraverso il campo positronico. Visto che non possiamo usare né il metodo diretto né il metodo indiretto, siamo al punto di partenza e ci tocca cominciare da zero.

― Non possiamo ricorrere all'osservazione, ma possiamo sempre ricorrere alla deduzione.

― Cioè?

Powell sorrise, cupo. ― Faremo a turno, Mike. Non toglieremo mai gli occhi dal visore. Osserveremo ogni minimo movimento di quei grattacapi d'acciaio. Quando cominceranno a inscenare la loro pantomima, controlleremo le immagini e capiremo per via deduttiva qual è stato l'ordine.

Donovan aprì la bocca e rimase così per un bel po'. Quindi, con voce strozzata, disse: ― Io do le dimissioni. Mollo tutto.

― Hai dieci giorni di tempo per trovare una soluzione migliore ― disse Powell, stancamente.

E per otto giorni Donovan cercò con tutte le sue forze di trovarla. Per otto giorni, a turni alternati di quattro ore, guardò con occhi annebbiati e doloranti quelle luminose forme metalliche muoversi contro uno sfondo indistinto. E per otto giorni, nelle quattro ore di riposo, maledisse la United States Robots, i modelli DV e il giorno in cui era nato.

Poi l'ottavo giorno, quando Powell, col mal di testa e gli occhi assonnati, entrò nella stanza per dargli il cambio, Donovan si alzò e prendendo accuratamente la mira tirò un pesante fermalibri contro il centro del visore, che andò in frantumi con un gran baccano.

― Perché l'hai fatto? ― gemette Powell.

― Perché ― disse Donovan, quasi con calma, ― non intendo più restare qui a guardare uno schermo. Ci restano solo due giorni e non abbiamo scoperto un bel niente. DV-5 è un vero e proprio disastro. Si è fermato cinque volte durante i miei turni e tre durante i tuoi, e né tu né io siamo riusciti a capire che ordini ha dato. E non venirmi a dire che tu puoi farcela con la deduzione, perché se non ce la faccio io non ce la fai neanche tu.

― Per lo spazio, è difficile tenere d'occhio sei robot contemporaneamente! Uno lavora con le mani, l'altro con i piedi, il terzo sembra un mulino a vento, il quarto saltella come un mentecatto. E gli altri due... lo sa il diavolo cosa fanno. Poi si fermano tutti. Tac, di colpo.

― Stiamo sbagliando, Greg. Dobbiamo osservarli da vicino. Controllare quello che fanno da un punto da cui sia possibile notare i particolari.

Seguì un silenzio cupo, che fu Powell a rompere. ― Già, e aspettare che qualcosa vada male quando abbiamo solo due giorni per rimediare alla situazione.

― Perché, ti sembra meglio osservarli da qui?

― Se non altro è più comodo.

― Ah... Ma laggiù puoi fare qualcosa che qui non puoi fare.

― Cioè?

― Puoi farli fermare nel momento che preferisci, quando sei lì lì per capire cosa c'è che non va.

Powell drizzò le orecchie. ― Come sarebbe?

― Be', sei tu il cervellone, dovresti arrivarci da solo. Poniti qualche domanda. Quand'è che DV-5 comincia a non funzionare più bene? C'è l'ha detto il "dito", ricordi? Quando c'è pericolo di un crollo o il crollo c'è già stato, quando si devono compiere accurati calcoli per sistemare le cariche esplosive, quando si è intenti a un'estrazione difficile.

― In altre parole durante le situazioni di emergenza ― disse Powell, eccitato.

― Esatto. Quando è prevedibile che si verifichi un'emergenza. Quello che ci sta causando problemi è il fattore dell'iniziativa personale. Ed è proprio durante le situazioni di emergenza in cui gli esseri umani non sono presenti che si richiede a Dave una maggiore iniziativa personale. Ora, che deduzioni logiche possiamo trarre? In che modo possiamo indurre i robot a fermarsi dove e quando vogliamo? ― S'interruppe, con aria trionfante. Cominciava a piacergli il ruolo di deduttore e si affrettò a rispondere alla propria domanda per prevenire la risposta che Powell aveva chiaramente sulla punta della lingua. ― Creando noi stessi una situazione di emergenza.

― Hai ragione, Mike ― disse Powell.

― Grazie, amico. Sapevo che prima o poi ce l'avrei fatta a capire qualcosa con il mio modesto cervello.

― Sì, va be', lascia perdere il sarcasmo. Teniamocelo per quando torneremo sulla Terra. Lo conserveremo in vasetti per i freddi e lunghi inverni futuri. Intanto dimmi una cosa: che emergenza potremmo creare?

― Potremmo allagare le miniere, se questo non fosse un asteroide senz'aria.

― Come sei spiritoso ― disse Powell. ― Davvero, Mike, hai il potere di rendermi inabile alla risata. Che ne pensi di un piccolo crollo?

Donovan increspò le labbra. ― Per me va bene.

― D'accordo. Diamoci da fare, allora.

 

Curiosamente, Powell si sentiva come una specie di cospiratore, mentre avanzava in mezzo a quell'ambiente roccioso. Causa la bassa gravità procedeva a piccoli balzi sul terreno accidentato, sollevando con i suoi passi silenziosi grigie nubi di polvere e pietrisco. Ma anche se fisicamente era goffo e impacciato, mentalmente continuava a vedersi nei passi furtivi del congiurato.

― Sai dove siano? ― chiese.

― Credo di sì, Greg.

― Bene ― disse Powell, cupo, ― ma se qualche "dito" arriva a cinque o sei metri da noi, avvertirà la nostra presenza sia che siamo visibili o che non lo siamo. Spero che tu te ne renda conto.

― Quando vorrò iscrivermi a un corso elementare di robotica, ti presenterò formale domanda in triplice copia. Da questa parte.

Ormai erano entrati nelle gallerie e anche la luce delle stelle era scomparsa. Si tennero accostati alle pareti, reggendo le torce che illuminavano il cammino con lampi tremolanti e intermittenti. Powell toccò la propria fondina per assicurarsi di avere portato con sé il disintegratore.

― Sei pratico di questo tunnel, Mike?

― Non molto. È nuovo. Forse però riesco a riconoscere i vari punti basandomi su quello che ho visto sullo schermo...

Passarono minuti interminabili, poi Mike disse: ― Senti!

Powell avvertì attraverso la mano infilata nel guanto metallico una lieve vibrazione che percorreva la parete. Naturalmente non si udiva alcun suono.

― Esplosioni! Siamo abbastanza vicini.

― Tieni gli occhi aperti ― disse Powell.

Donovan annuì, seccato.

L'immagine apparve e scomparve prima che avessero il tempo di aguzzare gli occhi: un bagliore bronzeo che aveva attraversato all'improvviso il loro campo visivo. Si strinsero l'uno all'altro, in silenzio.

― Credi che si siano accorti della nostra presenza? ― sussurrò Powell.

― Spero di no. Ma sarà meglio che li aggiriamo. Imbocca la prima diramazione laterale sulla destra.

― E se ci sfuggiranno?

― Be', cosa vuoi fare? Tornare indietro? ― sbottò Donovan, con un grugnito. ― Saranno al massimo a quattrocento metri da noi. Li ho o non li ho osservati bene sul visore? E allora. Poi ci restano solo due giorni di...

― Oh, piantala, stai sprecando il tuo ossigeno. Ecco, questa qua mi sembra una diramazione. ― Controllò con la torcia. ― Sì, lo è. Andiamo.

La vibrazione adesso era notevolmente più forte e il terreno sotto di loro tremava minacciosamente.

― Perfetto ― disse Donovan, ― purché non ci crolli tutto addosso. ― Con aria preoccupata illuminò con la torcia il tunnel davanti a sé.

Riuscivano a toccare il soffitto sollevando appena le braccia, e notarono che i rinforzi erano stati appena messi.

Donovan esitò. ― È un vicolo cieco. Sarà meglio tornare.

― No, aspetta. ― Powell avanzò goffamente, nel passaggio stretto. ― Non è una luce quella là?

― Una luce? No, non vedo. Come vuoi che ci sia una luce, qui?

― Potrebbe essere quella di un robot. ― Powell affrontò una lieve cunetta mettendosi carponi. Nelle orecchie di Donovan la sua voce suonò rauca e ansiosa. ― Ehi, Mike, vieni qui.

C'era sul serio una luce. Donovan si arrampicò a sua volta, scavalcando le gambe tese di Powell. ― Un'apertura?

― Sì. Credo che stiano facendosi strada verso questa galleria partendo dal lato opposto.

Donovan toccò i contorni frastagliati del buco, che sfociava in quello che, alla luce fievole della torcia, sembrava essere un tunnel più largo, certo appartenente al tronco principale. Il varco era troppo stretto perché ci potesse passare un uomo, ed anzi era così stretto che due uomini insieme facevano fatica a guardarci attraverso.

― Non c'è niente, là ― disse Donovan.

― Adesso no. Ma un secondo fa qualcosa doveva esserci, se è vero che ho visto una luce. Ehi, attento!

Le pareti tremarono intorno a loro, e i due furono investiti da una fine pioggia di pietrisco. Powell sollevò la testa con cautela e guardò di nuovo oltre il buco. ― Avevo ragione, Mike. Eccoli là.

I robot, tutti luccicanti, si erano raggruppati a una quindicina di metri di distanza, nel tronco principale. Braccia di metallo armeggiavano con foga intorno al mucchio di detriti accumulatosi dopo l'ultima esplosione.

― Non perdiamo tempo ― disse Donovan, con ansia. ― Non ci metteranno molto a penetrare in questo passaggio, e la prossima esplosione potrebbe beccarci in pieno.

― Per la miseria, non farmi fretta! ― Powell impugnò il disintegratore e frugò con gli occhi il tunnel scuro, dove l'unica luce era quella dei robot e dove era impossibile distinguere un masso sporgente da una semplice ombra.

― Hai visto quel punto nel soffitto, quasi sopra di loro? Non è stato investito dall'ultima esplosione. Se tu riesci a centrarlo bene con il disintegratore, metà volta crollerà.

Powell seguì con lo sguardo la direzione indicata da Donovan. ― Perfetto! Ora non staccare gli occhi dai robot e prega che non si allontanino troppo da questa parte di galleria. Sono le mie uniche fonti di illuminazione. Sono lì tutti e sette?

Donovan li contò. ― Sì, tutti e sette.

― Allora osservali bene. Ogni minima mossa, mi raccomando!

Alzò il disintegratore e lo puntò, mentre Donovan fissava i robot imprecando e sbattendo le palpebre per impedire al sudore di penetrargli negli occhi.

Powell premette il grilletto.

Ci furono un lampo, una scossa e una serie di forti vibrazioni, quindi un sussulto violento che mandò Powell a sbattere contro Donovan.

― Greg, mi hai fatto spostare! ― gridò Donovan. ― Non sono riuscito a vedere niente!

Powell si guardò intorno, stralunato. ― Dove sono i robot?

Donovan ammutolì. Degli automi non c'era traccia. Intorno era buio come nelle profondità dello Stige.

― Credi che siano rimasti sepolti sotto le macerie? ― chiese Donovan, con voce tremante.

― Cerchiamo di arrivare fin là, non chiedermi che cosa credo o non credo. ― Powell indietreggiò carponi, più in fretta che poté.

― Mike!

Donovan, che lo stava seguendo, si arrestò di colpo. ― Cosa c'è che non va, adesso?

― Un attimo! ― Il respiro di Powell suonò affannoso e ansimante alle orecchie di Donovan. ― Mike! Mi senti, Mike?

― Sì, sono proprio qui. Cosa c'è?

― Siamo bloccati. A farci ruzzolare non è stato il crollo del soffitto laggiù, a quindici metri di distanza, ma il crollo del soffitto qui. L'esplosione l'ha fatto cedere!

― Cosa?! ― Donovan avanzò carponi e si trovò davanti a una barriera. ― Accendi la torcia.

Powell obbedì. Non c'era nemmeno una fenditura da cui potesse passare un coniglio.

Donovan disse, in un sussurro: ― E adesso cosa facciamo?

 

Sprecarono qualche minuto e un po' di olio di gomiti nel vano tentativo di rimuovere la barriera che li bloccava. Alla fine Powell cercò di allargare i contorni di quella che fino a poco tempo prima era stata l'apertura, ma non ci riuscì. Alzò il disintegratore, ma poi si pentì e si sedette in terra. Uno sparo in quello spazio ristretto sarebbe stato un suicidio, e Powell se ne rendeva conto.

― Sai, Mike ― disse, ― abbiamo combinato proprio un gran casino. È difficile ormai che possiamo scoprire cos'ha Dave che non va. Era una buona idea, ma ci è esplosa tra le mani.

Donovan gli scoccò un'occhiata amara, la cui intensità si perse completamente nel buio circostante. ― Mi dispiace molto disturbare le tue meditazioni, vecchio mio, ma oltre al fatto che non sappiamo perché Dave non funzioni, c'è un piccolo particolare che dovrebbe angustiarci: siamo in trappola. Se non riusciamo a uscire di qui, caro amico, ci aspetta la morte. La M-O-R-T-E. A proposito, quanto ossigeno abbiamo ancora? La quantità sufficiente per resistere sei ore, credo. Non di più.

― Ci ho già pensato. ― Powell alzò le dita per infliggere nuovi tormenti ai suoi baffi, ma la mano cozzò contro la visiera trasparente del casco. ― Certo, in sei ore avremmo tutto il tempo di indurre Dave a tirarci fuori di qua, solo che l'emergenza da noi accuratamente creata laggiù lo avrà mandato in tilt. E il circuito radio sarà come al solito interrotto.

― Non è fantastico?

Donovan strisciò carponi fino all'apertura e riuscì a infilarci la testa con il casco e tutto. Ci passava appena.

― Ehi, Greg.

― Sì?

― E se facessimo in modo da attirare Dave qui vicino? Se arrivasse anche solo a cinque o sei metri da noi tornerebbe normale e ci salverebbe.

― Certo, ma dov'è?

― Nella galleria, abbastanza lontano. Per la miseria, smettila di tirare o mi staccherai la testa dal corpo. Adesso lascio guardare anche a te.

Powell mise la testa fuori dal buco. ― La nostra idea in fondo ha avuto successo. Guardali, quegli imbecilli. Hanno ricominciato con il loro balletto.

― Risparmiami i particolari insignificanti. Si avvicinano o no?

― Non saprei dirlo con esattezza, sono troppo lontani. Aspetta, ho un'idea. Mi passi la torcia? Cercherò di attirare la loro attenzione con quella.

Dopo due minuti rinunciò all'impresa. ― Macché, niente. Cosa sono, ciechi? Ehi, un attimo, si stanno dirigendo verso di noi. Che ne pensi?

― Fammi vedere? ― disse Donovan.

Ci fu una sorta di zuffa silenziosa. ― E va bene! ― disse Powell alla fine. E Donovan infilò la testa fuori.

I robot si stavano avvicinando. Dave era in testa, con le sei "dita" che lo seguivano in fila come ballerini.

― Cosa fanno? ― disse Donovan, stupito. ― Mi piacerebbe proprio saperlo. Sembrano impegnati in un ballo country. E Dave, come sovrintendente del ranch, è davvero perfetto.

― Oh, lascia perdere queste sciocche descrizioni ― brontolò Powell. ― A che distanza sono?

― A una quindicina di metri, e continuano ad avvicinarsi. Nel giro di un quarto d'ora saremo fuori di qu... Uh... UHH! NO!

― Cosa succede? ― Ci vollero alcuni secondi perché Powell si riprendesse dallo sbalordimento che il crescendo di esclamazioni di Donovan gli aveva procurato. ― Dai, fai guardare anche a me, non essere egoista.

Si spinse in su, verso la fenditura, ma Donovan lo respinse scalciando come un matto. ― Hanno fatto dietro-front, Greg. Si stanno allontanando. Dave! Ehi, DAVE!

― Che senso ha urlare, stupido? ― strillò Powell. ― Tanto il suono non si trasmette.

― Allora ― ansimò Donovan, ― tempestiamo di pugni e calci le pareti per creare delle vibrazioni. Bisogna attirarli qui in qualche modo, Greg, o siamo spacciati. ― Si mise a battere le mani con furia contro la roccia.

Powell lo afferrò, scuotendolo. ― Aspetta, Mike, aspetta. Senti, ho un'idea. Giove santo, è proprio il momento di ricorrere alle soluzioni più semplici. Mike!

Donovan ritrasse la testa. ― Cosa vuoi?

― Fammi venire lì prima che siano fuori portata.

― Fuori portata? Cos'hai in mente? Ehi, a che ti serve quel disintegratore? ― Afferrò Powell per un braccio.

Powell si divincolò con violenza. ― Mi serve a sparare.

― Perché vuoi sparare?

― Te lo spiegherò dopo. Prima vediamo se la mia idea funziona. Se non funzionerà, allora... Dai, togliti dai piedi e lasciami sparare!

 

I robot brillavano sempre più piccoli, in lontananza. Powell prese la mira, teso, e premette il grilletto tre volte. Poi abbassò l'arma e scrutò ansioso il tunnel. Uno dei sottopancia era a terra. Le sagome luccicanti adesso erano soltanto sei.

― Dave! ― chiamò Powell via radio, con voce incerta.

Ci fu una pausa, poi la risposta arrivò alle orecchie di entrambi gli uomini. ― Capo? Dove sei? Il mio terzo assistente ha il petto squarciato. È fuori servizio.

― Lascia perdere il tuo assistente ― disse Powell. ― Siamo rimasti intrappolati da un crollo vicino al punto in cui avete messo la carica. Vedi le nostre torce?

― Certo. Veniamo subito.

Powell appoggiò la schiena contro la parete, sollevato. ― Siamo a cavallo, amico mio.

― E va bene, Greg ― disse Donovan, con voce sommessa e rotta dall'emozione. ― Hai vinto. M'inchino fino a terra e ti bacio i piedi. Ma adesso non raccontarmi palle. Dimmi con calma che cosa ti ha indotto ad agire così.

― È semplice. Vedi, il guaio è che come al solito ci è sfuggito quel che in fondo era più che ovvio. Avevamo capito che c'era in ballo il circuito dell'iniziativa personale e che i problemi sorgevano sempre nelle situazioni di emergenza. Ma abbiamo continuato a pensare che la causa dell'impasse fosse un ordine specifico. Perché mai doveva essere un ordine specifico?

― Perché no?

― Vedi, in realtà non si trattava di un singolo ordine, ma di un tipo di ordine. Che tipo di ordine richiede uno sforzo maggiore in termini di iniziativa personale? Che tipo di ordine occorre impartire quasi immancabilmente solo nelle situazioni di emergenza?

― Non chiedermelo, Greg. Dimmelo!

― È quello che sto facendo! È l'ordine sincrono. In circostanze comuni le "dita", per compiere lavori di ordinaria amministrazione, non hanno bisogno di essere controllate da vicino. È un po' la stessa cosa che succede quando camminiamo: il nostro corpo compie i movimenti richiesti in modo naturale. Ma nelle situazioni di emergenza tutti e sei gli assistenti vengono mobilitati immediatamente e simultaneamente. Dave è costretto a sorvegliare nello stesso tempo tutti e sei i robot, e qualcosa evidentemente cede, in lui. Capire cosa dovevo fare dopo è stato semplice. Qualsiasi evento che tolga a Dave il peso dell'iniziativa personale, come ad esempio l'arrivo degli esseri umani, lo fa tornare normale. Così ho distrutto uno dei sottopancia. In questo modo Dave è stato obbligato a trasmettere un ordine sincrono solo a cinque robot. La quantità di iniziativa personale richiesta è diventata così minore e lui ha potuto ricominciare a comportarsi normalmente.

― Come sei arrivato a tutte queste conclusioni? ― chiese Donovan.

― Con la semplice deduzione logica. L'ho usata, e ha funzionato.

La voce del robot risonò di nuovo nelle loro orecchie. ― Eccomi qui. Ce la fate a resistere mezz'ora?

― Certo ― disse Powell. Poi continuò, rivolto a Donovan: ― Adesso il lavoro sarà abbastanza facile. Esamineremo i circuiti. Controlleremo tutte le parti che sono sottoposte a maggior pressione quando viene impartito un ordine sincrono ai sei assistenti e che invece non sono particolarmente in tensione quando l'ordine è limitato a cinque. Questo dovrebbe restringere abbastanza il campo delle possibilità, vero?.

― Credo di sì ― disse Donovan, dopo aver riflettuto. ― Se Dave somiglia al modello preliminare che abbiamo visto in fabbrica, avrà un circuito speciale di coordinazione. E quello dovrebbe essere l'unico componente coinvolto nel fenomeno. ― Di colpo diventò di buonumore. ― Se lì sta il guasto, dovremmo andare bene. Credo sia una cosa di poco conto.

― Perfetto. Tu pensaci su, che controlleremo poi i disegni appena saremo tornati. E adesso finché Dave ci tira fuori di qui, mi riposo un po'.

― Ehi, un attimo. Dimmi ancora una cosa. Perché i robot marciavano in formazione strana ogni volta che Dave andava in tilt? Che senso avevano quei passi da militare, o da ballerino?

― Boh, non lo so. Però una spiegazione l'avrei. Non dimenticare che i sottopancia sono le "dita" di Dave. L'abbiamo sempre detto, no? Ecco, la mia idea è che negli intervalli in cui diventava una specie di caso psichiatrico, Dave precipitasse in uno stato quasi demenziale e passasse tutto il suo tempo a giocherellare con le dita.

 

Susan Calvin aveva parlato di Powell e di Donovan con un divertimento senza sorrisi, ma un po' di calore si era insinuato nella sua voce quando aveva nominato i robot. Non le occorse molto tempo per parlare degli Speedy, dei Cutie, dei Dave; poi l'interruppi. Altrimenti, mi avrebbe raccontato un'altra mezza dozzina di episodi simili.

― Ma sulla Terra non è accaduto proprio niente? ― le chiesi.

Lei mi fissò, accigliandosi un poco. ― No, non abbiamo molto da fare con i robot in attività, qui sulla Terra.

― È un vero peccato. Voglio dire, gli ingegneri collaudatori sono personaggi interessanti, ma non possiamo parlare anche un po' di lei? Non c'è mai stato un robot che le abbia combinato qualche guaio? Lei sa che si tratta del suo anniversario.

Susan Calvin arrossì. ― Sì, i robot mi hanno combinato qualche guaio. Santo cielo, quanto tempo è passato da quando vi ho pensato per l'ultima volta! Fu circa quarant'anni fa. Certo, nel 2021. Avevo soltanto trentotto anni. Ma preferirei non parlarne.

Aspettai; ero quasi sicuro che avrebbe cambiato idea.

― Perché no? ― disse infatti. ― Ormai non può più farmi male. Nemmeno il ricordo... Una volta mi sono comportata come una sciocca, giovanotto. Lo crederebbe?

― No, ― dissi io.

― E invece è così. Ma Herbie era un robot che sapeva leggere il pensiero.

― Come?

― È stato l'unico del suo genere. Fu un errore, in un certo senso...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

BUGIARDO!

Alfred Lanning si accese il sigaro con cura, ma non riuscì a nascondere il lieve tremito delle dita. Parlando tra uno sbuffo di fumo e l'altro, corrugò le sopracciglia grigie.

― D'accordo, sa leggere nel pensiero, questo è indubbio, perdio! Ma come mai? ― Guardò il matematico Peter Bogert. ― Allora?

Bogert si passò entrambe le mani sui capelli neri. ― È il trentaquattresimo modello RB che abbiamo prodotto, Lanning. Tutti gli altri erano perfettamente ortodossi.

Il terzo uomo seduto al tavolo aggrottò la fronte. Milton Ashe era il più giovane funzionario della United States Robots and Mechanical Men Corporation, ed era fiero della sua carica.

― Sentite, Bogert, non ci sono stati intoppi di sorta in alcuna delle fasi di montaggio. Lo garantisco.

Bogert allungò le grosse labbra in un sorriso di condiscendenza. ― Davvero? Se lei si fa garante di quanto succede durante tutta la catena di montaggio, direi che merita una promozione. Volendo essere esatti, per mettere a punto un singolo cervello positronico occorrono settantacinquemiladuecentotrentaquattro operazioni, ciascuna delle quali, per essere portata a termine con successo, deve far riferimento a un numero di fattori che può oscillare tra i cinque e i centocinque. Se una qualsiasi di queste operazioni va male, addio "cervello". Cito quanto scritto nei nostri opuscoli informativi, Ashe.

Milton Ashe arrossì e fece per rispondere, ma una quarta voce lo prevenne.

― Se dobbiamo giocare a scaricabarili, io me ne vado. ― Susan Calvin teneva le dita intrecciate sul grembo. Le piccole rughe che aveva intorno alle labbra pallide e sottili parevano adesso più accentuate. ― Abbiamo a che fare con un robot in grado di leggere nel pensiero e mi sembra abbastanza importante scoprire come mai ha questa facoltà. Certo non arriveremo a capo di nulla finché staremo qui a gridare. "Colpa tua! Colpa mia!"

Posò i suoi occhi grigi su Ashe, che sorrise.

Anche Lanning sorrise. Come sempre accadeva in circostanze di quel genere, sembrava l'immagine di un patriarca biblico, con i lunghi capelli bianchi e lo sguardo penetrante. ― Avete ragione, dottoressa Calvin. ― Il suo tono di colpo si fece più aspro. ― La situazione in sintesi è questa: abbiamo prodotto un cervello positronico che sarebbe dovuto essere di tipo normale, ma che invece ha la straordinaria facoltà di sintonizzarsi sulle onde del pensiero. Tale fenomeno costituirebbe il più grosso progresso mai registratosi in decenni di sperimentazione sui robot, se solo sapessimo come si è verificato. Non lo sappiamo e dobbiamo scoprirlo. È chiaro?

― Posso avanzare una proposta? ― chiese Bogert.

― Prego!

― Finché non risolveremo l'enigma, e come matematico ho l'impressione che si tratti di un enigma intricatissimo, direi che sarebbe opportuno tenere nascosta a tutti l'esistenza di RB-34, anche agli altri membri dello staff. Dato che siamo direttori dei vari dipartimenti, non dovrebbe esserci difficile mantenere il segreto. Meno persone vengono a conoscenza del fatto, meno...

― Bogert ha ragione ― disse la dottoressa Calvin. ― Da quando il Codice Interplanetario è stato modificato per permettere che i robot venissero collaudati in fabbrica prima di essere spediti nello spazio, la propaganda anti-robot è aumentata. Se viene fuori che esiste un robot capace di leggere nel pensiero prima che possiamo annunciare di avere il fenomeno sotto controllo, la notizia potrebbe essere sfruttata non poco dai nostri avversari.

Lanning tirò una boccata dal suo sigaro e annuì, serio. Rivolgendosi a Ashe disse: ― Se non sbaglio, voi eravate solo quando vi siete accorto per caso di questa faccenda della lettura del pensiero.

― Sì, infatti, e ho preso il più grosso spavento della mia vita. RB-34 era appena stato tolto dal banco di montaggio e l'avevano spedito giù da me. Obermann era via, non so dove, così portai io stesso il robot nelle sale di collaudo. O meglio stavo per portarlo, ma mi fermai a metà strada. ― Ashe fece una pausa e accennò un sorriso. ― Dico, è mai capitato a nessuno di voi di avere una conversazione mentale con qualcuno senza rendersene conto?

La risposta non venne, ed Ashe continuò: ― Perché è così, in un primo momento non ci si rende conto di quanto sta succedendo. Il robot mi parlava con tutta la logica e il buon senso possibili, e fu solo quando ero arrivato ormai alle sale di collaudo che mi accorsi di non avere aperto bocca. Certo, avevo avuto tanti pensieri, ma non è la stessa cosa, vi pare? Chiusi a chiave RB-34 e corsi a cercare Lanning. Provai una fifa tremenda all'idea di avere camminato accanto a quel robot che mi leggeva nella mente senza sforzo e sceglieva a suo piacimento tra i miei pensieri.

― Sì, capisco il vostro stato d'animo ― disse Susan Calvin, assorta. Fissò Ashe con uno sguardo strano, particolarmente intento. ― Siamo così abituati a considerare i nostri pensieri qualcosa di privato...

― Allora siamo solo noi quattro a sapere ― interloquì Lanning, con impazienza. ― Benissimo. Bisogna mettersi all'opera con metodo. Ashe, voglio che controlliate tutte le fasi del montaggio, dall'inizio alla fine. Dovrete escludere tutte le operazioni in cui è impossibile che si sia registrato un errore ed elencare tutte quelle in cui invece l'errore può essere stato commesso. Dovrete anche specificare il tipo di errore probabile e la sua gravità.

― Un compito arduo ― borbottò Ashe.

― Infatti. Naturalmente dovrete mobilitare gli uomini alle vostre dipendenze, tutti quanti se necessario; non mi interessa se rimarremo indietro con il piano di produzione. Ma nessuno dovrà sapere perché è stato mobilitato, questo è chiaro.

― Uhm, sì. ― Il giovane tecnico fece un sorriso obliquo. ― Resta sempre un lavoraccio.

Lanning fece ruotare la poltrona girevole e si rivolse a Susan Calvin. ― Voi invece dovrete affrontare la faccenda da un'altra angolazione. Siete la robopsicologa della fabbrica, per cui avrete il compito di studiare il robot stesso e di risalire alle cause del suo comportamento. Cercate di scoprire come funziona, se ha altri poteri oltre a quelli telepatici, fino a che punto arrivano tali poteri, in che modo essi hanno cambiato la sua visione delle cose e quanto possono avere compromesso le sue normali proprietà di RB. Avete capito?

Lanning non aspettò la risposta della dottoressa Calvin.

― Io coordinerò il lavoro e passerò tutti i dati al vaglio dell'interpretazione matematica. ― Tirò varie boccate dal suo sigaro e concluse il discorso in mezzo a una nuvola di fumo. ― In questo compito mi aiuterà naturalmente Bogert.

Bogert si soffregò le unghie di una mano con l'altra e disse, in tono blando: ― Direi proprio. Di matematica ne capisco qualcosa.

― Bene, allora, mettiamoci al lavoro. ― Ashe spinse indietro la sedia e si alzò. Il suo viso giovane e gradevole si increspò in un sorriso. ― A me è toccato l'incarico peggiore, quindi sarà meglio che cominci subito a darmi da fare.

Uscì dalla stanza con un "Arrivederci" bofonchiato tra i denti.

Susan Calvin rispose al saluto con un cenno appena percettibile della testa, ma seguì Ashe con lo sguardo e rimase zitta quando Lanning le chiese: ― Volete vedere subito RB-34, dottoressa Calvin?

 

RB-34 alzò gli occhi fotoelettrici dal libro quando la porta si aprì con un lieve cigolio, e si alzò subito in piedi appena vide entrare Susan Calvin.

Lei si fermò sulla soglia per mettere a posto la grande targa con su scritto Vietato l'ingresso, poi si avvicinò al robot.

― Ti ho portato qualche testo sull'argomento dei motori iperatomici, Herbie. Vuoi darci un'occhiata?

RB-34, altrimenti noto come Herbie, prese dalle braccia di lei i tre pesanti volumi e ne aprì uno, leggendo il titolo nel frontespizio.

― Uhm. Teoria iperatomica. ― Borbottò qualcosa fra sé sfogliando le pagine, poi disse, con aria distratta: ― Sedetevi, dottoressa Calvin. Ci metterò pochi minuti.

La psicologa si sedette e studiò attentamente Herbie, che si era accomodato su una sedia all'altro capo del tavolo e leggeva con grande velocità i tre volumi.

Dopo mezz'ora il robot li richiuse e disse: ― Naturalmente so perché me li avete portati.

La dottoressa Calvin accennò un sorriso nervoso. ― Temevo che l'avresti intuito. È difficile lavorare con te, Herbie. Mi precedi sempre di un passo.

― Vedete, questi libri sono proprio come gli altri. Non mi interessano affatto. Sono testi così inutili... La vostra scienza consiste solo di un insieme di dati che raccogliete e incollate insieme con teorie zoppicanti. Ed è tutto così incredibilmente semplice che non vale proprio la pena di occuparsene.

― La vostra letteratura invece mi interessa, perché studia l'intrecciarsi delle emozioni e dei motivi che spingono gli uomini a comportarsi in un certo modo. ― Fece un gesto vago con la grossa mano d'acciaio, come cercando parole più appropriate.

― Sì, credo di capire ― sussurrò la dottoressa Calvin.

― Il fatto è che io vedo nelle menti ― continuò il robot, ― non avete idea di quanto siano complesse. Non posso certo pretendere di comprenderle a fondo, perché la mia mente ha così poco in comune con quella umana, ma ci provo, e i vostri romanzi mi aiutano.

― Sì ― disse Susan Calvin, con una punta di asprezza nella voce, ― ma temo che dopo aver analizzato le tormentose esperienze emotive descritte dai moderni romanzi sentimentali troverai scialba e ottusa la mente delle persone reali.

― No, affatto!

Davanti all'impeto di quella risposta, Susan Calvin si alzò in piedi. Si sentì arrossire e pensò, in preda al panico: Lui sa!

Herbie si calmò di colpo e mormorò sottovoce, con un tono quasi del tutto privo di inflessioni metalliche: ― Certo che so, dottoressa Calvin. È un vostro pensiero fisso, quindi come potrei non sapere?

― L'hai detto a... nessuno? ― fece lei, dura.

― Ma no, naturalmente ― rispose Herbie, con evidente meraviglia. ― Nessuno me l'ha chiesto.

― Bene ― sibilò lei, ― immagino che tu mi ritenga una stupida.

― No. È un sentimento normale.

― Forse è proprio per quello che è assurdo. ― L'amarezza del suo tono coprì qualsiasi altra sfumatura emotiva. Per un attimo la femminilità fece capolino da sotto la corazza professionale. ― Non sono quella che si definisce di solito una donna... attraente.

― Se vi riferite al puro fascino fisico, non sono in grado di giudicare. So però che esiste anche un altro tipo di fascino.

― Non sono nemmeno giovane. ― La dottoressa Calvin sembrava non aver quasi sentito le parole del robot.

― Ma se non avete nemmeno quarant'anni ― disse Herbie, con nella voce una sorta di insistenza ansiosa.

― Ho trentotto anni, come età reale, ma per quanto riguarda la mia visione affettiva della vita mi sento una vecchia di sessant'anni. Non per nulla ho scelto la psicologia.

Continuò il discorso con crescente amarezza. ― Lui invece ha appena trentacinque anni e sembra ancora più giovane, sia come fisico sia come mentalità. È impossibile che mi veda diversa da come... da come sono realmente.

― No, vi sbagliate! ― Herbie batté un pugno sul tavolo ricoperto di plastica, producendo un clangore metallico. ― Ascoltatemi un attimo...

Ma Susan Calvin si girò di scatto verso di lui e l'angoscia che trapelava dai suoi occhi si mischiò alla rabbia. ― Perché mai dovrei ascoltarti? Come puoi capire i miei problemi tu che sei una semplice macchina? Io per te sono solo un campione da esaminare, un insetto curioso, con una mente particolare che si offre alla tua analisi. Che splendido esempio di frustrazione, vero? Quasi interessante quanto i romanzi che leggi. ― Il suo discorso, espresso in raffiche soffocate, s'interruppe di colpo.

Il robot s'intimidì, davanti a quello sfogo. Scosse la testa con aria supplichevole. ― Perché non volete ascoltarmi? Vi prego. Potrei aiutarvi, se me lo permetteste.

― In che modo? ― disse lei, increspando le labbra. ― Dandomi dei buoni consigli?

― No. È che so cosa pensano gli altri... Milton Ashe, per esempio.

Seguì un lungo silenzio, e Susan Calvin abbassò gli occhi. ― Non voglio sapere cosa pensa ― gemette. ― Non dirmi niente.

― Credevo che vi interessasse saperlo.

Susan Calvin non alzò la testa, ma il suo respiro si fece affannoso. ― Risparmiami le tue sciocchezze ― sussurrò.

― Non sono sciocchezze. Sto solo cercando di aiutarvi. Milton Ashe pensa che voi...

La psicologa sollevò lo sguardo. ― Allora?

― Vi ama ― disse tranquillo il robot.

La dottoressa Calvin rimase zitta per un intero minuto, limitandosi a fissare Herbie. Poi disse: ― Ti sbagli. È chiaro che ti sbagli. Perché mai dovrebbe essere innamorato di me?

― Però lo è. È un sentimento che non si può nascondere. Non a me.

― Ma io sono così... così...? ― balbettò lei, senza riuscire a finire.

― Milton Ashe apprezza molto più l'intelligenza che l'aspetto fisico. Non è il tipo che sposa una donna solo per i suoi capelli e i suoi begli occhi.

Susan Calvin sbatté più volte le palpebre. Aspettò un attimo prima di rispondere, ma quando lo fece la sua voce tremò ugualmente. ― Eppure non mi ha mai lasciato capire in alcun modo che...

― Gli avete mai dato una possibilità?

― Come avrei potuto? Non ho mai pensato che...

― Già, proprio qui sta il punto!

La psicologa chinò la testa, riflettendo, poi alzò gli occhi di colpo. ― Sei mesi fa una ragazza è venuta a trovarlo qui in fabbrica. Era carina, credo, secondo il metro degli altri. Bionda e snella. E naturalmente sapeva appena far di conto. Lui ha sprecato il suo fiato tutto il giorno nel tentativo di spiegarle come viene montato un robot. ― Il suo tono era di nuovo aspro, adesso. ― E lei non ha capito un'acca! Chi era?

Herbie rispose senza esitare. ― Oh sì, conosco la persona di cui mi parlate. È la sua prima cugina e non c'è niente di tenero fra di loro, ve l'assicuro.

Susan Calvin si alzò con un'agilità quasi da ragazzina. ― Non è strano? È proprio quello che mi sono ripetuta in cuor mio tante volte, anche se in realtà non ci credevo. Ma se lo dici tu dev'essere vero.

Corse verso Herbie e strinse le mani fredde e pesanti del robot tra le sue. ― Grazie ― disse, con un sussurro rauco e accalorato. ― Non fare parola con nessuno di tutta questa faccenda. Sarà il nostro segreto. E grazie ancora. ― Strinse ancora convulsamente le dita metalliche di Herbie, che rimasero inerti, e uscì.

Herbie riprese senza fretta la lettura di un romanzo. Ma quali fossero i suoi pensieri nessuno poteva intuirlo.

Milton Ashe si stirò lentamente e ostentatamente, con un rumore di giunture scrocchianti e una serie di mugolii. Poi guardò torvo il dottor Peter Bogert.

― Insomma ― disse, ― è da una settimana che sono qui che lavoro senza praticamente trovare il tempo neppure di dormire. Quanto deve durare questa faccenda? Se non sbaglio avevate detto che la soluzione era il bombardamento positronico nella camera a vuoto D.

Bogert sbadigliò educatamente e si guardò con interesse le mani pallide. ― Sì, infatti. Sono sulla strada buona.

― So cosa vuol dire quando un matematico si esprime così. Quanto siete vicino alla conclusione?

― Eh, dipende.

― Da cosa? ― Ashe si lasciò cadere su una sedia giusto in faccia all'altro, e allungò le gambe.

― Da Lanning. Il vecchio non è d'accordo con me. ― Sospirò. ― Il guaio è che è rimasto un po' indietro rispetto ai tempi. È sempre ancorato alla meccanica delle matrici, che ritiene la cosa più importante, mentre per risolvere questo problema bisogna ricorrere a strumenti matematici più efficaci. È così testardo.

― Perché non sistemiamo la questione interrogando Herbie? ― mormorò Ashe, assonnato.

― Interrogando Herbie? ― ripeté Bogert, alzando le sopracciglia.

― Certo. Non ve l'ha detto la zitella?

― Intendete dire la Calvin?

― Naturalmente. Susie in persona. Quel robot è un genio della matematica. Sa tutto di tutto, e anche qualcosa di più. Calcola gli integrali tripli senza bisogno di carta e penna e si divora un po' di analisi tensoriale per dessert.

Il matematico lo fissò scettico. ― State scherzando?

― Giuro di no. Il guaio è che a quello scemo non piace la matematica. Preferisce leggere romanzi rosa. Sul serio! Dovreste vedere di che razza di spazzatura Susie lo rifornisce: Passione ardente, Amore nello spazio e roba del genere.

― La dottoressa Calvin non ci ha detto niente di tutta questa faccenda.

― Be', non ha ancora finito di studiarlo. Sapete com'è lei. Vuole essere sicura di tutti i dati prima di svelare il gran segreto.

― Però con voi ha parlato.

― Siamo capitati in argomento chiacchierando. Negli ultimi tempi ci siamo visti spesso. ― Aprì bene gli occhi, come cacciando del tutto il sonno, e corrugò la fronte. ― Sentite, Bogert, non avete notato niente di strano in lei, da un po' di giorni a questa parte?

Bogert accennò un sorriso ironico. ― Usa il rossetto, se è a questo che vi riferite.

― Sì, cavoli, lo so. E anche il fard, la cipria e l'ombretto. È proprio un orrore. Però non era a quello che mi riferivo, bensì al suo modo di fare. È come se fosse felice di qualcosa. ― Rifletté un attimo, poi alzò le spalle.

L'altro si concesse un'espressione maliziosa che, per uno scienziato al di sopra della cinquantina, non era certo difficile. ― Forse è innamorata.

Ashe socchiuse di nuovo gli occhi. ― Siete matto, Bogie? Andate a parlare con Herbie. Io resto qui. Vorrei dormire un po'.

― D'accordo. Però non mi piace molto l'idea che un robot mi insegni il mio mestiere, e d'altra parte non credo proprio che possa farlo.

Ma Ashe ormai stava già russando.

 

Herbie ascoltò attentamente Peter Bogert, che gli parlava con studiata indifferenza, tenendo le mani in tasca.

― Ecco dunque come stanno le cose. Mi hanno detto che comprendi questo tipo di problemi, e io ti rivolgo le mie domande più per curiosità che per altro. Ammetto che nella mia catena di ragionamenti così come te l'ho presentata, restano delle piccole zone di dubbio che rendono scettico il dottor Lanning, per cui riconosco che il quadro è ancora abbastanza incompleto.

Poiché il robot non rispondeva, Bogert chiese: ― Allora?

― Non vedo errori. ― Herbie studiò le cifre scarabocchiate sul foglio.

― Immagino che tu non sappia dirmi altro, vero?

― Non mi permetterei di farlo. Come matematico siete più bravo di me e... be', non voglio compromettermi.

Bogert sorrise compiaciuto. ― Prevedevo che non avresti potuto aiutarmi. È un problema difficile. Bene, lasciamo perdere. ― Accartocciò i fogli, li buttò nel condotto della spazzatura e si girò per andarsene. Poi però cambiò idea.

― A proposito...

Il robot aspettò che continuasse il discorso.

Bogert sembrava in difficoltà. ― C'è qualcosa... cioè, forse tu puoi...

― I vostri pensieri sono confusi ― disse Herbie, calmo ― ma non v'è dubbio che riguardino il dottor Lanning. È sciocco che esitiate a parlare, perché appena vi sarete tranquillizzato io saprò cosa volete chiedermi.

Il matematico si passò una mano sui capelli, lisciandoli come faceva spesso. ― Lanning ha quasi settant'anni ― dichiarò, come se quello spiegasse tutto.

― Lo so.

― E dirige la fabbrica da quasi trent'anni.

Herbie annuì.

― Be', ecco ― fece Bogert, con tono da cospiratore, ― forse tu sai se... se sta pensando di dare le dimissioni. Per via della salute magari, o per motivi che non conosco...

― Sicuro ― convenne Herbie, senza aggiungere altro.

― Allora, tu sai se è così?

― Certo.

― E, ehm, potresti dirmelo?

― Dal momento che lo chiedete, sì ― disse il robot, con naturalezza. ― Ha già rassegnato le dimissioni.

― Ma come! ― L'esclamazione proruppe fuori quasi inarticolata. Lo scienziato protese la grossa testa in avanti. ― Ripeti un po'!

― Ha già rassegnato le dimissioni ― annunciò Herbie, calmo, ― solo che non sono ancora effettive. Vedete, vuole prima risolvere il problema che riguarda... ehm, me. Una volta sistemato quello sarà pronto a passare le consegne al suo successore.

Bogert lasciò andare il respiro di colpo. ― E il successore chi è? ― Adesso era vicinissimo a Herbie e fissava ansioso quelle cellule fotoelettriche indecifrabili che erano gli occhi del robot.

― Siete voi ― disse Herbie, scandendo le parole.

Bogert accennò un sorriso. ― Buono a sapersi. È una notizia che speravo e attendevo di sentire. Grazie, Herbie.

 

Peter Bogert rimase seduto alla sua scrivania fino alle cinque del mattino e tornò al lavoro alle nove. Tolse dallo scaffale sopra il tavolo tutti i libri e le tavole di consultazione, a mano a mano che se ne serviva. Le pagine piene di calcoli che aveva davanti erano sempre più fitte e i fogli accartocciati, in terra, formavano ormai una piccola montagna.

A mezzogiorno in punto fissò l'ultimo foglio, si stropicciò gli occhi arrossati, sbadigliò e scrollò le spalle. ― Qui va sempre peggio, per la miseria!

Sentendo la porta che si apriva si girò e salutò con un cenno Lanning, che entrò facendo scrocchiare le nocche.

Il direttore osservò la stanza in disordine e corrugò le sopracciglia.

― Qualche idea nuova? ― chiese.

― No ― disse Bogert, con tono di sfida. ― Cosa c'è che non va nella mia idea iniziale?

Lanning non si curò di rispondere e si limitò a buttare un'occhiata frettolosa al foglio intorno a cui Bogert stava lavorando. Poi parlò da dietro la fiamma con la quale si accese un sigaro.

― La Calvin vi ha detto del robot? È un genio della matematica, un talento davvero eccezionale.

Bogert sbuffò. ― Sì, ho sentito. Ma la Calvin farebbe meglio a occuparsi di robopsicologia. Ho controllato l'abilità matematica di Herbie e ho visto che riesce a malapena a capire i calcoli.

― La Calvin non la pensa così.

― È pazza.

― Ah sì? Be', anch'io la penso come lei. ― Il direttore strinse minacciosamente gli occhi.

― Davvero? ― fece Bogert, aspro. ― Come mai?

― Ho messo alla prova Herbie per tutta la mattina e ho constatato che sa fare cose inimmaginabili.

― Ma proprio?

― Siete scettico, eh? ― Lanning tirò fuori dalla tasca del panciotto un foglio e lo spiegò. ― Questa non è la mia scrittura, vi pare?

Bogert studiò gli appunti scritti con calligrafia grande e spigolosa. ― È stato Herbie a buttar giù questa roba?

― Certo. E come potrete notare ha lavorato intorno alla vostra integrazione temporale dell'Equazione 22. ― Lanning indicò col dito ingiallito dal fumo l'ultimo passaggio. ― Visto? Arriva alle stesse conclusioni cui sono giunto io, e in un quarto del tempo impiegato da me. Come vi è saltato in mente di trascurare l'Effetto Linger nel bombardamento positronico?

― Non l'ho affatto trascurato. Dio santo, Lanning, mettetevi in testa che annullerebbe...

― Oh sì, me l'avete spiegato. Avete usato l'Equazione di Traslazione di Mitchell, vero? Be', non è valida.

― Perché no?

― Innanzitutto perché avete utilizzato gli iper-immaginari.

― Questo cosa c'entra?

― L'Equazione di Mitchell non è valida quando...

― Siete matto? Se provate a rileggere il saggio originale di Mitchell negli Atti del...

― Non ho bisogno di rileggerlo. Vi ho già detto fin dall'inizio che il suo modo di procedere non mi convinceva e Herbie sostiene il mio punto di vista.

― Allora lasciate che sia quell'aggeggio meccanico a risolvere per voi l'intero problema! ― gridò Bogert. ― Perché vi preoccupate delle inezie?

― È proprio questo il punto. Herbie non riesce a risolvere il problema. E se non ce la fa lui, non possiamo farcela nemmeno noi, senza un aiuto. Intendo sottoporre l'intera questione al Consiglio Nazionale. Ormai non siamo più in grado di affrontarla da soli.

Bogert, rosso in viso scattò in piedi rovesciando la sedia. ― Voi non farete niente del genere ― ringhiò.

Lanning s'infiammò a sua volta. ― Non sarete mica voi a dirmi quello che posso o non posso fare!

― Invece è esattamente così ― sibilò l'altro. ― Io ho risolto il problema e voi non mi soffierete ciò che mi spetta, chiaro? Non crediate che non vi abbia capito, vecchio fossile! Vi fareste tagliare il naso pur di impedirmi di ottenere credito per avere risolto l'enigma Herbie.

― Siete un perfetto cretino, Bogert, e vi farò subito sospendere per insubordinazione... ― Lanning aveva il labbro inferiore che gli tremava per la rabbia.

― No, non lo farete, Lanning. Con un robot in giro che sa leggere nel pensiero, nemmeno voi potete mantenere i vostri segreti. Non dimenticate che so benissimo che avete rassegnato le dimissioni.

La cenere del sigaro di Lanning cadde in terra, seguita subito dal sigaro. ― Cosa... cosa...?

Bogert rise con cattiveria. ― E il nuovo direttore sono io, su questo non ci piove. Sono perfettamente informato, non illudetevi. Per la miseria, Lanning, se è vero che sono il nuovo direttore, sarò io a dare gli ordini qui, o pianterò un casino che non ve lo immaginate nemmeno.

Lanning ritrovò la voce e la fece esplodere in un ruggito. ― Siete sospeso, avete capito bene? Siete dispensato dal servizio. Siete destituito, chiaro?

Il sorriso di Bogert si fece ancora più ampio. ― Che senso hanno queste minacce? Tanto non approdano a niente. Sono io che ho il coltello dalla parte del manico. So che avete dato le dimissioni. Me l'ha detto Herbie, che l'ha saputo direttamente da voi.

Lanning si impose di parlare con calma. Appariva più vecchio che mai, adesso. Il rossore era scomparso dal viso, che aveva ripreso il solito colorito giallastro, e dallo sguardo trapelava una grande stanchezza. ― Voglio parlare con Herbie. Non può avervi detto una cosa del genere. Voi giocate d'azzardo, Bogert, ma io denuncerò il vostro bluff. Venite con me.

Bogert scrollò le spalle. ― Per andare da Herbie? Bene. Benissimo.

 

Fu sempre a mezzogiorno in punto che Milton Ashe alzò gli occhi dallo schizzo approssimativo e disse: ― Ho reso l'idea? Non sono molto bravo a disegnare, ma è fatta circa così? È un gioiello di casa, e posso averla quasi per niente.

Susan Calvin lo guardò con occhi teneri. ― È proprio bella ― sospirò. ― Ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto un giorno... ― Ma non finì il discorso.

― Naturalmente ― continuò Ashe con brio, mettendo via la matita, ― dovrò aspettare le ferie. Mancano solo due settimane, ma con questa faccenda di Herbie tutto è così incerto che potrebbe toccarmi di restare qui a lavorare. ― Abbassò lo sguardo e si osservò le unghie. ― Per giunta c'è anche un'altra cosa... ma è un segreto.

― Allora conservatelo per voi.

― Oh, tanto fra poco non sarà più un segreto per nessuno, e poi muoio dalla voglia di parlarne con qualcuno e voi siete la migliore, ehm, confidente che possa trovare qui. ― Sorrise imbarazzato.

Susan Calvin sentì che il cuore le batteva più forte, ma non si arrischiò a dire niente.

Ashe si avvicinò a lei con la sedia e abbassò la voce, assumendo un tono confidenziale. ― A dir la verità la casa non è solo per me. Sto per sposarmi. ― Poi si alzò di scatto. ― Cosa avete, vi sentite male?

― No, sto benissimo. ― L'orribile sensazione di vertigine era scomparsa, ma Susan Calvin fece fatica a tirar fuori le parole. ― Vi sposate? Intendete dire che...

― Ma sì, certo. Ormai ho l'età, no? Vi ricordate quella ragazza che è venuta qui l'estate scorsa. È lei la mia futura moglie. Ma non è vero che voi state bene. Avete una faccia...

― Ho mal di testa. ― Susan Calvin gli fece cenno di allontanarsi, con un gesto vago. ― Ce l'ho... ce l'ho spesso da un po' di tempo a questa parte. Mi... mi congratulo con voi, naturalmente. Sono molto contenta che... ― Il fard, applicato dalla sua mano inesperta, creava due orribili macchie scure sul viso mortalmente pallido. La sensazione di vertigine era ricominciata. ― Scusatemi, vi prego...

Dopo avere biascicato quelle ultime parole, Susan Calvin uscì barcollando dalla stanza. Tutto era accaduto con la violenza improvvisa degli incubi, con l'orrore irreale degli incubi.

Ma come era possibile? Herbie aveva detto...

E Herbie sapeva. Era in grado di leggere nella mente.

Senza rendersene conto, Susan Calvin si ritrovò ansimante appoggiata allo stipite della porta che dava nella stanza di Herbie. Doveva avere salito di corsa due rampe di scale, ma non si ricordava più nulla. Evidentemente aveva coperto la distanza in un attimo, come in sogno.

Come in sogno!

Gli occhi impassibili di Herbie erano fissi sui suoi e il loro colore rosso, opaco, parve assumere contorni più ampi, i contorni di due sfere luminose e opprimenti.

Il robot le stava parlando e Susan sentì il freddo del bicchiere premuto contro le sue labbra. Inghiottì il contenuto, rabbrividì e riacquistò una certa coscienza dell'ambiente intorno.

Herbie continuava a parlare e c'era una sfumatura di angoscia nella sua voce: un misto di preoccupazione, spavento e supplica.

Le sue parole cominciarono a suonare comprensibili. ― Questo è un sogno ― stava dicendo, ― e non dovete crederci. Presto vi sveglierete nel mondo reale e riderete di voi stessa. Lui vi ama, ve lo dico io. Vi ama, vi ama! Ma non qui. Non ora. Questa è un'illusione.

Susan Calvin annuì. ― Sì, sì! ― sussurrò. Strinse forte il braccio di Herbie e vi si aggrappò, ripetendo: ― Non è vero, eh? Non è vero.

Quando rientrò completamente in sé non si rese conto di quanto tempo fosse passato, ma fu come se da un mondo nebbioso e irreale fosse uscita in piena luce del sole. Spinse il robot lontano da sé, premendo la mano contro il suo braccio d'acciaio, e spalancò gli occhi.

― Cosa stai cercando di fare? ― gridò, rauca. ― Cosa stai cercando di fare?

Herbie indietreggiò. ― Voglio aiutarvi.

La psicologa lo fissò. ― Aiutarmi? Dicendomi che è tutto un sogno? Spingendomi verso la schizofrenia? ― Era tesa, sull'orlo di una crisi isterica. ― Non è affatto un sogno. Vorrei che lo fosse. ― Tirò un respiro profondo. ― Ehi, un attimo! Sì... sì, ora capisco. Dio santo, è così chiaro.

La voce del robot suonò piena di paura. ― Dovevo farlo.

― E io che ti avevo creduto! Non pensavo mai...

Susan Calvin s'interruppe, sentendo delle voci fuori dalla porta. Si allontanò, stringendo forte i pugni, e quando Bogert e Lanning entrarono era davanti alla finestra all'altro capo della stanza. Nessuno dei due uomini si accorse di lei.

Corsero entrambi da Herbie, Lanning furioso e impaziente, Bogert con gelida calma e un ghigno sardonico. Il direttore parlò per primo.

― Allora, Herbie, ascoltami bene!

Il robot si girò verso il vecchio, fissandolo. ― Sì, dottor Lanning.

― Hai parlato di me con il dottor Bogert?

― No, signore. ― La risposta fu chiara, pacata, e il sorriso sulla faccia di Bogert si spense.

― Come sarebbe? ― Bogert passò davanti al suo superiore e si piazzò a gambe larghe in faccia al robot. ― Ripetimi quello che mi hai detto ieri.

― Ho detto che... ― Herbie s'interruppe. All'interno del suo corpo il diaframma metallico vibrò in lievi toni dissonanti.

― Non mi hai raccontato che si era dimesso? ― ruggì Bogert. ― Rispondimi!

Bogert alzò un braccio con aria minacciosa, ma Lanning lo spinse da parte. ― State cercando di costringerlo a mentire?

― L'avete pur sentito, Lanning. Ha risposto di sì e poi si è interrotto. Toglietevi di mezzo. Voglio che dica la verità, capito?

― Gli chiederò io qual è la verità! ― Lanning si voltò verso il robot.

Bene, Herbie, calma e sangue freddo. Ho rassegnato le dimissioni, sì o no?

Herbie lo fissò e restò zitto. ― Ho rassegnato le dimissioni? ― ripeté Lanning.

Il robot fece un minimo cenno di diniego con la testa e continuò a tacere.

I due uomini si scambiarono un'occhiata. L'ostilità nel loro sguardo era quasi palpabile.

― E che cavolo! ― sbottò Bogert. ― Cos'è, diventato muto? Non sai più parlare, brutto mostro?

― Sì, so parlare ― disse pronto il robot.

― Allora rispondi alla domanda che ti è stata fatta. Non mi hai forse detto che Lanning aveva dato le dimissioni? E non le ha date sul serio?

Seguì di nuovo un cupo silenzio, finché dall'altro capo della stanza arrivò la risata improvvisa, stridula e quasi isterica di Susan Calvin.

I due matematici sobbalzarono. ― Ah, siete qui? ― disse Bogert, stringendo gli occhi. ― Cosa c'è di tanto divertente?

― Proprio niente ― rispose Susan Calvin, con un tono che non era naturale. ― Pensavo solo che non sono stata l'unica a essere ingannata. Non è buffo che tre dei maggiori esperti di robotica di tutto il mondo siano caduti nella stessa trappola elementare? ― Si portò una mano pallida alla fronte. ― Già. Ma non è affatto buffo, purtroppo.

Questa volta i due uomini si scambiarono un'occhiata stupita. ― Di che trappola state parlando? ― chiese Lanning, brusco. ― C'è qualcosa che non va in Herbie?

― No ― disse lei, avvicinandosi lentamente. ― Non c'è niente che non vada in lui, bensì in noi. ― Si girò di scatto e gridò al robot: ― Scostati! Va' in fondo alla stanza in modo che non debba guardarti in faccia!

Davanti all'ira che trapelava dai suoi occhi, Herbie si fece piccolo piccolo e si allontanò con passo incerto e clangore metallico.

Il tono di Lanning era ostile. ― Che senso ha tutto questo, dottoressa Calvin?

Lei si rivolse ai due uomini con un sorriso sarcastico. ― Certo conoscerete la Prima Legge della Robotica, una legge di capitale importanza.

Gli altri due annuirono all'unisono. ― Naturalmente ― disse Bogert, irritato. ― Un robot non può recar danno agli esseri umani, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, gli esseri umani ricevano danno.

― Sì, l'avete esposta proprio bene ― lo sfotté la Calvin. ― Ma che tipo di danno?

― Be', qualsiasi danno.

― Esattamente! Qualsiasi danno. E allora, ferire i sentimenti di una persona, mettere a dura prova il suo orgoglio, infrangere le sue speranze non si possono forse ritenere danni?

Lanning aggrottò la fronte. ― Cosa volete che sappia un robot di... ― E s'interruppe di colpo, restando quasi senza fiato.

― Avete capito, vero? Questo robot legge nel pensiero. Credete che non sappia che cosa si può considerare un'offesa morale? Lo sa benissimo, ed è per questo che ci dà le risposte che preferiamo sentirci dare. È perfettamente conscio che qualsiasi altra risposta ci ferirebbe.

― Dio santo! ― mormorò Bogert.

La psicologa gli scoccò un'occhiata ironica. ― A quanto ho capito, voi gli avete chiesto se Lanning aveva rassegnato le dimissioni. Il vostro desiderio era che così fosse, per cui Herbie vi ha detto che effettivamente si era dimesso.

― E suppongo sia per quello che non voleva rispondere, poco fa ― disse Lanning, con voce piatta. ― Qualunque cosa avesse detto, avrebbe offeso uno di noi due.

Seguì un breve silenzio durante il quale Lanning e Bogert si girarono a guardare pensierosi il robot, che se ne stava seduto vicino alla libreria con la testa appoggiata a una mano.

Susan Calvin abbassò lo sguardo e fissò il pavimento. ― Lui era cosciente di quel che gli succedeva intorno. Quel... quel demonio sa tutto, sa anche quale errore è stato commesso durante il montaggio. ― Aveva un'espressione cupa e meditabonda.

Lanning alzò gli occhi. ― No, qui, vi sbagliate, dottoressa Calvin. Non può sapere qual è stato l'errore. Gliel'ho chiesto e non è riuscito a darmi una risposta.

― E che significa? ― gridò la Calvin. ― Solo che non volevate che Herbie ve la desse. Vi sareste sentito ferito nel vostro orgoglio se una macchina avesse mostrato di capire qualcosa che voi non capivate. ― Si rivolse a Bogert. ― E voi, gliel'avete chiesto?

― In un certo senso. ― Bogert, rosso in viso, si mise a tossire. ― Mi ha detto che si intendeva pochissimo di matematica.

Lanning ridacchiò e la psicologa accennò un sorriso ironico. ― Glielo chiederò io ― disse. ― Il fatto che possa essere lui a risolvere il problema non ferisce il mio orgoglio. ― Alzò la voce e ordinò, in tono freddo e perentorio: ― Vieni qui!

Herbie si alzò e le si avvicinò, esitante.

― Immagino tu sappia ― continuò lei, ― a che punto esatto del montaggio è stato introdotto un fattore estraneo e tralasciato un fattore essenziale.

― Sì ― disse Herbie, con voce quasi inaudibile.

― Ehi, un attimo ― interloquì Bogert, con rabbia. ― Probabilmente sta mentendo. Vi dice solo quel che volete sentirvi dire.

― Sciocchezze ― replicò la Calvin ― Herbie conosce la matematica quanto voi e Lanning messi insieme, visto che legge nel pensiero. Dategli una possibilità.

Bogert si arrese e la Calvin continuò. ― Bene, Herbie, spiegaci allora cos'è successo. Ti ascoltiamo. ― E, rivolta agli altri: ― Vi spiace tirar fuori carta e matita, signori?

Ma il robot rimase zitto. ― Perché non rispondi, Herbie? ― chiese la psicologa, trionfante.

― Non posso ― sbottò il robot, di colpo. ― Lo sapete benissimo che non posso! Il dottor Bogert e il dottor Lanning non vogliono che risponda.

― Ma desiderano conoscere la soluzione del problema.

― Però non vogliono che sia io a darla.

― Non fare lo sciocco, Herbie ― intervenne Lanning, scandendo le parole. ― Siamo ansiosi di saperla.

Bogert annuì, con aria seccata.

La voce di Herbie suonò quasi in falsetto. ― A che serve dirmi questo? Credete forse che non sappia penetrare oltre la superficie della vostra mente? In fondo al cuore voi non volete che risponda. Sono solo una macchina in cui è stato infuso qualcosa di simile alla vita grazie ai congegni del mio cervello positronico, che è stato creato dall'uomo. Se vi dicessi come stanno le cose perdereste la faccia e vi sentireste offesi. Nei recessi più profondi della vostra mente è questo che pensate, è inevitabile. Non posso svelarvi la soluzione.

― Allora noi due ce ne andremo ― disse il dottor Lanning. ― Dillo alla Calvin.

― Non servirebbe a niente ― gridò Herbie, ― perché sapreste comunque che sono stato io a dare la risposta.

― Però tu capisci, Herbie ― riprese Susan Calvin, ― che nonostante questo il dottor Lanning e il dottor Bogert desiderano conoscere la soluzione.

― Ma vogliono arrivarci loro, con le loro forze! ― insistette il robot.

― Questo non toglie che siano ansiosi di saperla. Il fatto che tu la veda chiaramente e ti rifiuti di renderla nota li ferisce. Lo capisci, no?

― Sì, sì!

― Ma si sentirebbero feriti anche se tu la rendessi nota, vero?

― Sì, sì! ― Herbie stava lentamente indietreggiando, mentre Susan Calvin gli si avvicinava sempre di più. I due uomini guardavano la scena come bloccati dallo sbalordimento.

― Non puoi dare loro la risposta ― mormorò la psicologa, ― perché li offenderesti, e tu non devi offendere gli esseri umani. Ma se non gliela dai li offendi lo stesso, per cui devi darla. Se la dai, però, li offendi, cosa che non devi fare, per cui non puoi rispondere. Non rispondendo, tuttavia, li offendi, per cui devi rispondere. Ma se lo fai li offendi, per cui non devi rispondere. Se non rispondi, però, li offendi, per cui devi parlare. Ma se parli, li...

― Basta! ― urlò Herbie, che ormai era arrivato fino al muro ed era crollato in ginocchio. ― Chiudete la vostra mente! È piena di dolore, di frustrazione e di odio! Non volevo farvi del male, ve lo assicuro! Ho cercato solo di aiutarvi! Vi ho detto quel che volevate sentirvi dire. Dovevo farlo.

La psicologa non gli badò. ― Devi dare la risposta, ma se la dai li offendi, per cui non devi darla. Se però non la dai li offendi, per cui devi darla. Ma se...

Herbie a quel punto urlò.

Fu come il suono di un ottavino amplificato molte volte: acuto, lacerante, come pervaso dallo strazio di un'anima perduta. Un grido di terrore che riempì tutta la stanza.

Quando cessò, dissolvendosi nel nulla, Herbie crollò in terra, riducendosi a un ammasso di metallo inanimato.

― È morto! ― esclamò Bogert, pallidissimo.

― No! ― Susan Calvin scoppiò in una risata fragorosa che la scosse tutta. ― Non è morto, è semplicemente impazzito. L'ho messo di fronte a un dilemma insolubile, e ha ceduto. Potete smantellarlo adesso, perché non parlerà mai più.

Lanning si inginocchiò accanto al mucchio di rottami che era stato Herbie. Toccò la faccia di metallo, che era fredda e immobile, e rabbrividì. ― L'avete fatto apposta ― disse, rialzandosi e avvicinandosi alla Calvin con il viso stravolto.

― E se anche fosse? Ormai non c'è più rimedio. ― Poi, assumendo un tono aspro, aggiunse: ― Se lo meritava.

Il direttore afferrò per il polso Bogert, che era rimasto immobile, come paralizzato. ― Che se lo meritasse o no, cosa importa. Venite, Peter. ― Sospirò. ― In ogni caso un robot pensante di quel tipo non serviva a niente. ― Guardò Bogert con occhi stanchi e ripeté: ― Venite, Peter.

Qualche minuto dopo che i due scienziati se n'erano andati, Susan Calvin riacquistò in parte il suo equilibrio mentale. Si voltò lentamente verso il robot inanimato e assunse di nuovo un'espressione normale. Fissò Herbie a lungo; a poco a poco il gusto della vittoria lasciò il posto all'antica frustrazione. E da tutti i suoi pensieri caotici emerse solo un'unica, amarissima parola.

Bugiardo!

 

Per quella volta, naturalmente, tutto finì lì. Capii che non potevo ottenere di più da lei, dopo quell'episodio. Susan Calvin era seduta dietro la scrivania, il suo viso bianco era freddo e memore. ― Grazie, dottoressa Calvin,―  le dissi; ma lei non rispose. Passarono due giorni prima che potessi incontrarla ancora.

 

Rividi Susan Calvin sulla porta del suo ufficio. Gli scaffali erano già stati trasportati altrove.

― Come vanno i suoi articoli, giovanotto? ― mi chiese.

― Benissimo, ― risposi. Li avevo adattati secondo i miei gusti, dando un aspetto drammatico alle linee generali del suo monologo, aggiungendo i dialoghi e qualche tocco di colore. ― Vuole leggerli e controllare se qualche volta ho esagerato un po' o sono stato inesatto?

― Penso di sì. Andiamo nel Salone dei Dirigenti. Potremo prendere il caffè.

Sembrava di buon umore; quindi, mentre ci incamminavamo per il corridoio, mi azzardai a dire: ― Mi stavo chiedendo, dottoressa Calvin...

― Sì?

― ...se lei è disposta a dirmi di più sulla storia della robotica.

― Ma non ha già tutti i dati che le interessano, giovanotto?

― In un certo senso, sì. Ma gli episodi che ho descritto finora non hanno molto a che vedere con il mondo moderno. Voglio dire, è esistito solamente un robot in grado di leggere il pensiero, le Stazioni Spaziali sono superate e cadute in disuso, e l'uso dei robot nello sfruttamento delle miniere è ormai un fatto scontato. Perché non mi parla del volo interstellare. Sono passati soltanto vent'anni da quando è stato inventato il motore iperatomico, ed è risaputo che fu un'invenzione robotica. Qual è la verità?

― Il volo interstellare? ― Susan Calvin era pensierosa. Eravamo nel salone, adesso. Ordinai un pranzo completo, lei prese soltanto un caffè.

― Non fu semplicemente una invenzione robotica. Non esattamente. Ma, come è ovvio, fino a che non creammo il Cervello, non arrivammo molto lontano. Tentammo con tutte le nostre forze. La prima occasione in cui ebbi a che fare direttamente con la ricerca interstellare fu nel 2029, quando si perdette un robot...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL ROBOT SCOMPARSO

Sull'Iperbase le misure d'emergenza erano state prese con una sorta di furia rabbiosa, l'equivalente muscolare di un urlo isterico.

Elencate in ordine di tempo e di disperazione, queste misure stabilivano che:

1. Tutte le operazioni attinenti il propulsore iperatomico, nello spazio occupato dalle Stazioni del Ventisettesimo Raggruppamento Asteroidale, dovevano essere sospese.

2. Le Stazioni stesse dovevano di fatto essere isolate dal resto del sistema solare. Nessuno poteva entrarvi senza autorizzazione. E nessuno doveva andarsene, per nessun motivo.

3. Con un astroricognitore speciale messo a disposizione dal governo dovevano essere condotti sull'lperbase la dottoressa Susan Calvin e il dottor Peter Bogert, rispettivamente capo-psicologo e direttore della sezione matematica della United States Robots and Mechanical Men Corporation.

 

Susan Calvin non aveva mai lasciato prima d'allora la superficie terrestre e non aveva una gran voglia di lasciarla nemmeno adesso. Nell'epoca dell'energia atomica e alle soglie dell'era della propulsione iperatomica, la Calvin restava una tranquilla provinciale. Perciò era scontenta di quel viaggio e poco convinta che si trattasse di una situazione di emergenza. Dalla mimica del suo viso scialbo di donna di mezz'età trapelò abbastanza quale fosse il suo stato d'animo, durante la cena consumata per la prima volta sull'lperbase.

D'altra parte nemmeno il dottor Bogert, con la sua faccia pallida e liscia, riuscì a nascondere un certo atteggiamento da cane bastonato. E negli occhi del generale Kallner, direttore del progetto, si leggeva un'espressione angosciata.

In breve fu una cena ben poco allegra, e la riunione a tre che seguì cominciò in un'atmosfera tetra.

Kallner aveva la testa calva e luccicante e indossava l'alta uniforme, che pareva curiosamente in contrasto con l'umore generale. Con un certo imbarazzo iniziò subito a riassumere i fatti.

― È una storia strana, signori. Innanzitutto desidero ringraziarvi per essere venuti subito e senza che vi fosse spiegato il motivo del viaggio. Cercheremo di rimediare ora raccontandovi come stanno le cose. Abbiamo perso un robot. Tutta l'attività è stata sospesa e non potrà riprendere fino a quando l'avremo ritrovato. Finora non siamo riusciti nell'intento e abbiamo capito di aver bisogno dell'aiuto di persone esperte.

Rendendosi forse conto che il problema appena illustrato non sembrava particolarmente drammatico, il generale proseguì con una sfumatura di disperazione nella voce. ― Non occorre che vi spieghi quanto sia importante il lavoro che svolgiamo qui. Più dell'ottanta per cento degli stanziamenti destinati alla ricerca scientifica è stato assegnato a noi...

― Be' certo, lo sappiamo ― disse Bogert, conciliante. ― Le somme che la U.S. Robots percepisce per il noleggio dei robot utilizzati da voi sono notevoli.

Susan Calvin intervenne con un'osservazione brusca e una nota di asprezza nella voce. ― Come mai un singolo robot è così importante per il progetto e come mai non è stato ancora ritrovato?

Il generale, rosso in viso, si girò verso di lei, umettandosi le labbra. ― Be' ecco, in un certo senso l'abbiamo ritrovato. ― Fece una breve pausa, quindi proseguì con tono quasi angosciato. ― Forse è il caso di spiegare in dettaglio. Appena il robot non si presentò a rapporto, fu dichiarato lo stato di emergenza e tutte le attività, qui all'Iperbase, furono sospese. Il giorno prima era atterrata un'astronave da carico e ci aveva consegnato due robot per i nostri laboratori. A bordo aveva sessantadue robot dello, ehm, stesso tipo, che dovevano raggiungere un'altra destinazione. Siamo sicurissimi che fossero proprio sessantadue, questo è pacifico.

― D'accordo. Ma qual è il nesso?

― Quando ci accorgemmo che ci mancava un robot e non riuscimmo a rintracciarlo da nessuna parte (e vi assicuro che avremmo saputo trovare anche un filo d'erba mancante, se se ne fosse presentata la necessità) ci venne l'idea di contare i robot rimasti sulla nave da carico. Erano diventati sessantatré.

― Sicché il sessantatreesimo sarebbe il figliol prodigo scomparso? ― disse cupa la dottoressa Calvin.

― Sì, ma non abbiamo modo di capire quale sia in realtà il sessantatreesimo.

Seguì un silenzio tetro, rotto solo dalla pendola elettrica che rintoccò undici volte. Poi la robopsicologa disse: ― Molto strano.

Piegò in giù gli angoli della bocca e si voltò verso Bogert, guardandolo con una sfumatura di ostilità negli occhi. ― Cosa c'è che non va, qui, Peter? Che tipi di robot usano sull'lperbase?

Il dottor Bogert, esitante, accennò un sorriso. ― È una questione delicata, Susan, cui finora si è cercato di non dare pubblicità.

― Sì, finora ― disse lei. ― Ma se hanno a disposizione sessantatré robot dello stesso tipo tra cui scegliere quello che gli occorre, che importanza ha se non riconoscono la sua identità? Non possono prenderne uno qualsiasi? Non capisco il senso di tutta questa faccenda. Perché ci hanno mandato a chiamare?

― Lasciate che vi spieghi, Susan ― disse Bogert con un sospiro di rassegnazione. ― Si dà il caso che sull'lperbase utilizzino robot nel cui cervello non è stata impressa per intero la Prima Legge della robotica.

― Non è stata impressa? ― La Calvin si lasciò andare contro lo schienale della sedia. ― Capisco. Quanti sono così?

― Alcuni. Sono stati fabbricati per ordine del governo e la faccenda era top secret. Ne erano al corrente solo i dirigenti direttamente interessati. Voi non eravate inclusa nel novero, Susan. Io non ho avuto alcuna parte in questa decisione.

Il generale intervenne con una certa autorità. ― Vorrei chiarire questo punto. Non sapevo che la dottoressa Calvin fosse all'oscuro di tutto. Non occorre che vi dica, dottoressa, che sul Pianeta c'è sempre stata una forte ostilità verso i robot. Il governo ha potuto difendersi dalle accuse dei radicali fondamentalisti solo battendo sul fatto che i robot hanno immancabilmente incorporata nel cervello la Prima Legge, che impedisce loro di recare anche il minimo danno agli esseri umani.

― Ma avevamo un bisogno assoluto di robot d'altro tipo. Così in alcuni modelli NS-2, i cosiddetti Nestor, sono state apportate modifiche alla Prima Legge. Perché si potesse mantenere il segreto, tutti gli NS-2 sono stati fabbricati senza il numero di serie. I modelli speciali ci vengono consegnati assieme ad altri robot normali, e tutti noi dirigenti abbiamo ricevuto l'ordine strettissimo di non parlare in alcun modo di questa modifica al personale non autorizzato. ― Sfoderò un sorriso imbarazzato e aggiunse: ― Questo stesso fatto adesso gioca contro di noi.

― Ma almeno sarete stato autorizzato a chiedere a ciascuno dei sessantatré robot la sua identità, no? ― disse cupa la Calvin.

Il generale annuì. ― Tutti quanti affermano di non avere mai lavorato qui. E uno di loro mente.

― Ma quello che cercate voi avrà pure qualche minimo segno di logoramento. Gli altri, immagino, sono nuovi fiammanti, appena usciti dalla fabbrica.

― Quello che cerchiamo è arrivato solo il mese scorso. Assieme agli altri due che ci sono stati appena consegnati era l'ultimo che ci occorreva. Non presenta tracce visibili di usura. ― Scosse lentamente la testa e assunse di nuovo un'espressione angosciata. ― Non osiamo lasciar partire quella nave, dottoressa Calvin. Se la notizia che esistono robot non vincolati dalla Prima Legge dovesse diventare di dominio pubblico... ― Anche avesse terminato il discorso, le sue conclusioni non avrebbero reso l'idea di quel che poteva succedere.

― Distruggete tutti e sessantatré i robot e ponete così fine alla questione ― disse la robopsicologa, secca e decisa.

Bogert storse la bocca. ― Ma ciascun robot vale trentamila dollari! Un'azione del genere non credo che sarebbe molto gradita alla U.S. Robots. Prima di passare a distruggere è meglio cercare una soluzione più razionale, Susan.

― In tal caso ― disse lei, brusca, ― vorrei conoscere meglio i fatti. Quali vantaggi derivano esattamente all'Iperbase dall'uso dei robot modificati? Per quali motivi si è ricorso ad essi?

Kallner corrugò la fronte e vi passò una mano sopra. ― Gli altri robot ci procuravano dei problemi. Sapete, i nostri uomini quando lavorano sono esposti a lungo a radiazioni intense. Corrono dei rischi, ovviamente, ma vengono prese notevoli precauzioni. Da quando abbiamo iniziato si sono verificati solo due incidenti, nessuno dei quali mortale. Ma era impossibile spiegare tutto questo ai robot ordinari. La Prima Legge, com'è noto, dice: Un robot non può recar danno agli esseri umani, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, gli esseri umani ricevano danno.

― È una regola fondamentale, dottoressa Calvin. Così, quando qualcuno dei nostri uomini si esponeva per un breve periodo a un campo di radiazioni gamma non particolarmente intense, che non lo avrebbero in alcun modo danneggiato, il robot più vicino correva subito da lui per trascinarlo via. Se il campo era molto debole, ci riusciva, e il lavoro non poteva riprendere finché non si faceva piazza pulita di tutti i robot. Se il campo era un pochino più forte, il robot non riusciva ad arrivare dal tecnico, perché il suo cervello positronico sotto l'effetto dei raggi gamma andava in tilt. E in tal caso perdevamo un robot costoso e di difficile sostituzione.

― Abbiamo cercato di risolvere il problema discutendo con i robot stessi. Ma insistevano a dire che un uomo esposto a radiazioni gamma rischia la vita. E se noi obiettavamo che una mezz'ora di esposizione non danneggiava nessuno, replicavano che uno si poteva anche dimenticare dell'orario, e restarci più a lungo. Non accettavano l'idea che si affrontasse anche il minimo pericolo. Facemmo loro notare che mettevano a repentaglio la loro vita basandosi su ipotesi molto improbabili. Ma l'autoconservazione è stabilita dalla Terza Legge e la Prima Legge, che riguarda l'incolumità degli esseri umani, ha la precedenza. Abbiamo cominciato allora a impartire ordini; abbiamo ingiunto ai robot, perentoriamente, di non avvicinarsi per nessun motivo ai campi di raggi gamma. Ma l'obbedienza è stabilita dalla Seconda Legge, e ancora una volta la Prima Legge aveva la precedenza. Insomma, dottoressa Calvin, le alternative erano solo due: o rinunciare ai robot, o intervenire sulla Prima Legge. E abbiamo fatto la nostra scelta.

― Non posso credere che sia stato giudicato possibile eliminare la Prima Legge ― disse la Calvin.

― Non è stata eliminata, ma modificata ― spiegò Kallner. ― Sono stati fabbricati dei cervelli positronici che contengono solo l'assunto più esplicito e generico della Legge, e cioè: Un robot non può recar danno agli esseri umani. Punto e basta. Così questi nuovi modelli non sono costretti a impedire che un uomo venga danneggiato da agenti esterni come i raggi gamma. Ho esposto la questione in termini corretti, dottor Bogert?

― Correttissimi ― annuì il matematico.

― E questa è l'unica differenza esistente tra i nuovi robot e i normali modelli NS-2? Proprio l'unica differenza, Peter?

― L'unica, Susan.

La Calvin si alzò e disse, decisa: ― Adesso ho intenzione di andare a dormire. Fra circa otto ore vorrei parlare con la persona che ha visto per ultima il robot. E da ora in poi, generale Kallner, se devo assumermi anche la minima responsabilità di quanto succede, pretendo che mi sia affidato il pieno e assoluto controllo dell'indagine.

 

A parte due ore di agitato dormiveglia, Susan Calvin non chiuse occhio tutta la notte. Suonò alla porta di Bogert alle sette, ora locale, vide che anche lui era già sveglio. A quanto pareva si era preso la briga di portare con sé una vestaglia, perché l'aveva indosso. Appena la Calvin entrò, Bogert mise via le forbicine con cui si stava tagliando le unghie.

― Mi aspettavo una vostra visita ― disse, in tono cortese. ― Immagino che tutta questa storia vi abbia seccato non poco.

― Già.

― Be', ecco, mi dispiace, ma non c'era altra strada che potessi seguire. Quando ci hanno chiamato dall'Iperbase, ho immaginato che ci fosse qualche guaio con i Nestor modificati. Ma cosa potevo fare? Avrei voluto rivelarvi la verità durante il viaggio, ma non potevo parlarvi di un argomento top secret prima di essermi assicurato che in ballo ci fosse proprio la questione dei robot modificati.

― Avrei dovuto essere messa al corrente dell'esperimento in corso ― mormorò la psicologa. ― La U.S. Robots non aveva il diritto di apportare cambiamenti ai cervelli positronici senza l'autorizzazione di uno psicologo.

Bogert alzò le sopracciglia e sospirò. ― Siate ragionevole, Susan. Il vostro parere non sarebbe stato ascoltato comunque. In questa faccenda il governo era deciso a procedere in un certo modo. Gli interessava la propulsione iperatomica, e ai fisici eterici interessava non avere tra i piedi robot che intralciassero loro il lavoro. Erano tutti determinati a procurarsi i robot speciali, anche se questo significava alterare la Prima Legge. Noi abbiamo dovuto ammettere che era possibile costruire modelli di un certo tipo, e loro in cambio ci hanno assicurato solennemente che ne occorrevano soltanto dodici, che questi dodici li avrebbero usati solo sull'lperbase, che li avrebbero distrutti una volta messo a punto il propulsore e che avrebbero preso tutte le precauzioni possibili. E hanno insistito sulla segretezza. Ecco come sono andate le cose.

― Io avrei rassegnato le dimissioni ― disse tra i denti la dottoressa Calvin.

― Non sarebbe servito a niente. Il governo ha offerto una fortuna alla compagnia, facendo presente che in caso di rifiuto avrebbe promulgato severe leggi anti-robot. Così avevamo le mani legate, e le abbiamo anche adesso. Se dovesse trapelare qualcosa, Kallner e il governo ne avrebbero un danno, ma la U.S. Robots subirebbe un danno ben maggiore.

La psicologa lo fissò. ― Ma Peter, non vi rendete conto di che cosa ci sia in gioco in tutta questa faccenda? Non capite cosa significhi eliminare la Prima Legge? Non è solo un problema di segretezza.

― So benissimo cosa significherebbe eliminare la Prima Legge, non sono un bambino. Significherebbe instabilità completa, senza soluzioni possibili alle equazioni del campo positronico.

― Sì, dal punto di vista matematico. Ma provate a tradurre la cosa in crudo linguaggio psicologico. Tutti gli esseri viventi normali, consciamente o inconsciamente, provano rancore se qualcuno cerca di imporre loro la propria volontà. Se a volersi imporre è una persona inferiore, o che si ritiene inferiore, il rancore è più forte. Sotto il profilo fisico, e fino a un certo grado anche sotto il profilo mentale, un robot, qualsiasi robot, è superiore agli esseri umani. Che cosa lo rende servile, dunque? Solo la Prima Legge! Senza di essa non potreste permettervi di dare alcun ordine a un robot, perché verreste subito ucciso. E voi questa la chiamate semplicemente instabilità?

― Susan ― disse Bogert, con aria comprensiva ma anche ironica, ― ammetto che il complesso di Frankenstein di cui mostrate di soffrire è in qualche modo giustificato. Proprio per questo alla Prima Legge si è data un'importanza fondamentale. Ma vi ripeto per l'ennesima volta che la Legge non è stata eliminata, bensì solo modificata.

― E la stabilità del cervello?

Il matematico increspò le labbra. ― È diminuita, naturalmente. Ma resta entro il margine di sicurezza. I primi Nestor sono stati consegnati all'Iperbase nove mesi fa e finora non erano sorti problemi. E anche adesso non è che temiamo che gli uomini siano in pericolo; temiamo solo che la notizia trapeli.

― Benissimo. Allora vedremo cosa verrà fuori dal colloquio di stamattina.

Bogert la accompagnò educatamente alla porta e quando l'ebbe congedata fece una smorfia eloquente, confermando in cuor suo l'opinione che aveva da sempre di Susan Calvin: una donna acida, inquieta e frustrata.

Susan Calvin invece non pensò neanche un attimo a lui. Da anni ormai lo aveva catalogato come un individuo molle, pretenzioso e ipocrita.

 

Gerald Black si era laureato in fisica eterica l'anno prima e, come tutti i fisici della sua generazione, si era ritrovato a occuparsi della propulsione iperatomica. Ora con la sua presenza aggiungeva un tocco in più all'atmosfera tetra delle riunioni che si stavano tenendo all'Iperbase. Aveva il camice bianco macchiato, e un'aria leggermente ribelle e totalmente incerta. Solido e ben piantato, sembrava ansioso di sfogare la sua forza fisica e si torceva le dita con tale violenza, che avrebbe potuto piegare una sbarra di ferro.

Il generale Kallner si sedette accanto a lui, dalla parte opposta a quella in cui si erano accomodati i due esperti della U.S. Robots.

― Mi dicono che sono stato io a vedere per ultimo Nestor-10, prima che scomparisse ― disse Black. ― Immagino quindi che vogliate rivolgermi alcune domande sull'argomento.

La dottoressa Calvin lo osservò con interesse. ― Non sembrate troppo convinto, giovanotto. Davvero non sapete se siete stato voi l'ultimo a vederlo?

― Di solito lavorava con me ai generatori di campo, ed era con me la mattina in cui è scomparso. Non so se qualcun altro l'ha visto dopo mezzogiorno. Nessuno ammette di averlo visto.

― Credete che qualcuno menta?

― No, non dico questo. Ma non dico nemmeno che mi vada a genio sentirmi dare la colpa. ― C'era del risentimento nei suoi occhi.

― Non è questione di colpa o di non colpa. Il robot ha agito come ha agito perché è strutturato in un certo modo. Noi stiamo cercando solo di rintracciarlo, signor Black. Lasciamo da parte tutto il resto. Ora, se voi avete lavorato con il robot, probabilmente lo conoscete meglio di chiunque altro. Avete notato qualcosa di insolito in lui? Avevate utilizzato dei robot già altre volte?

― Sì, avevo utilizzato altri robot che abbiamo qui; quelli semplici. I Nestor non sono affatto diversi. Sono solo molto più abili e... molto più rompiscatole.

― Rompiscatole? In che senso?

― Be', forse non è colpa loro. Qui il lavoro è duro e molti di noi finiscono per avere un po' i nervi a fior di pelle. Gingillarsi con l'iperspazio non è molto divertente. ― Accennò un sorriso, soddisfatto di quella confessione. ― Corriamo continuamente il rischio di aprire una falla nel tessuto spazio-temporale normale e di scomparire di colpo dall'universo, con l'asteroide e tutto. Sembra impossibile, vero? È logico che a volte si sia nervosi. Ma i Nestor non lo sono affatto. Sono calmi, curiosi e non si preoccupano mai. A volte questo loro atteggiamento ti fa dar fuori da matto. Tu vuoi magari che una cosa sia fatta in tutta fretta, e loro se la prendono con comodo. In certi casi preferirei rinunciare alle loro prestazioni.

― Avete detto che se la prendono con comodo. Hanno mai rifiutato di eseguire un ordine?

― Oh, no ― si affrettò a dire Black. ― Se è per quello obbediscono. Ma quando ritengono che uno sbagli, glielo dicono. Di fisica eterica sanno solo quel che gli abbiamo insegnato noi, ma si sentono ugualmente il diritto di fare osservazioni. Magari io sono un po' paranoico, però so che anche gli altri hanno gli stessi problemi con i loro Nestor.

Il generale Kallner si schiarì la voce producendo un rumore piuttosto minaccioso. ― Perché queste lamentele non sono mai giunte alle mie orecchie, Black?

Il giovane fisico arrossì. ― In realtà non avevamo nessuna intenzione di rinunciare ai robot, signore, e poi non sapevamo bene che accoglienza avrebbero potuto avere queste, ehm, piccole lamentele.

― È successo niente di particolare la mattina in cui avete visto Nestor 10 per l'ultima volta? ― interloquì Bogert, pacato.

Black rimase zitto. Kallner fece per parlare, ma Susan Calvin glielo impedì con un cenno e continuò ad attendere la risposta.

Alla fine il giovane disse, con rabbia: ― Ho avuto un piccolo alterco con lui. Quella mattina avevo rotto un tubo di Kimball ed ero in arretrato di cinque giorni con il lavoro. Ero indietro con tutto il programma e per di più non ricevevo posta da casa da un paio di settimane. E lui mi veniva intorno per chiedermi che ripetessi un esperimento che ho abbandonato già da un mese. Mi seccava sempre con quella storia e io ormai ero stufo marcio. Così gli ho detto di andarsene... e non l'ho più rivisto.

― Gli avete detto di andarsene? ― chiese con molto interesse la dottoressa Calvin. ― Che parole avete usato? "Vattene" Cercate di ricordare i termini esatti.

Black era chiaramente combattuto tra impulsi diversi. Poggiò un attimo la fronte sulla grossa mano, poi si drizzò e dichiarò, in tono di sfida: ― Gli ho detto: "Smamma, sparisci!

Bogert ridacchiò. ― E l'ha fatto sul serio, eh?

Ma la Calvin non era ancora soddisfatta. Cercò di parlare nel tono più persuasivo possibile. ― Adesso siamo sulla buona strada, signor Black. Ma la precisione dei particolari è importante. Quando si tenta di capire il comportamento di un robot, possono assumere estrema rilevanza anche una parola, un gesto, l'intonazione della voce. È improbabile ad esempio che abbiate detto solo quelle due parole. Dal vostro racconto credo di poter dedurre che eravate molto irritato. Forse avete usato dei termini un po' più forti...

Il giovane arrossì. ― Be', ecco... magari gli ho lanciato qualche epiteto.

― Quali epiteti?

― Mah... non mi ricordo bene. E poi comunque non potrei ripeterli. Si sa quel che si finisce per dire quando ci salta la mosca al naso. ― Rise imbarazzato. ― Ho una certa tendenza a usare espressioni forti.

― Non preoccupatevi ― disse lei con composta severità. ― In questo momento non dovete vedermi come una signora, ma solo come uno psicologo. Vorrei che ripeteste esattamente tutto quello che ricordate di avergli detto, e, particolare forse ancora più importante, vorrei che usaste lo stesso tono di allora.

Black guardò il generale Kallner, cercando aiuto, ma non ne trovò. Spalancò gli occhi, sgomento. ― No, non posso proprio.

― Dovete.

― Provate a rivolgervi a me ― disse Bogert, con malcelato godimento. ― Così forse vi riesce più facile.

Rosso in viso, il giovane si girò verso Bogert, inghiottendo a vuoto. ― Ho detto... ― Ma non riuscì a proseguire. ― Ho detto... ― ripeté.

E alla fine trasse un respiro profondo e sputò il rospo in fretta, con una lunga successione di sillabe. Poi, nel silenzio imbarazzato che seguì, concluse, quasi in lacrime: ― ... queste più o meno sono state le parole. Non ne ricordo l'ordine esatto, e forse ne ho lasciato indietro qualcuna o ne ho detto adesso qualcuna in più, ma il succo del discorso era questo.

Solo un rossore appena percettibile tradì la reazione interna della psicologa. ― Conosco il significato di quasi tutti i termini da voi usati ― disse. ― Immagino che gli altri siano ugualmente denigratori.

― Temo di sì ― convenne Black, crucciato.

― E tra le altre cose gli avete ingiunto di sparire.

― Ma intendevo solo in senso figurato.

― Me ne rendo conto. Sono sicura che non verranno presi provvedimenti disciplinari. ― Sotto il suo sguardo severo il generale, che fino a un attimo prima non pareva propenso a essere indulgente, annuì con rabbia.

― Potete andare, signor Black. Grazie per la vostra collaborazione.

 

Susan Calvin impiegò cinque ore a interrogare i sessantatré robot. In quelle cinque ore ripeté innumerevoli volte le stesse domande a mano a mano che i robot, tutti identici, si succedevano l'uno all'altro. Con espressione prudentemente benevola, con un tono di voce prudentemente neutro, in un'atmosfera prudentemente distesa, la Calvin rivolse quesiti A, B, C, D, ottenendo risposte A, B, C, D, mentre il colloquio s'imprimeva sul nastro di un registratore nascosto.

Quando ebbe finito, la psicologa si sentì esausta.

Bogert, ansioso di conoscere i risultati, la guardò buttare la bobina sulla superficie di plastica del tavolo.

Susan Calvin scosse la testa. ― Mi sono parsi uguali tutti e sessantatré. Non saprei dire...

― Non ci si può aspettare di capire a orecchio come stanno le cose, Susan. Sarà meglio che analizziamo la registrazione.

L'interpretazione matematica delle reazioni verbali dei robot è ritenuta di solito una delle branche più complesse dell'analisi robotica. Per eseguirla occorrono uno staff di tecnici esperti e l'aiuto di sofisticate macchine calcolatrici. Bogert lo sapeva. E lo dichiarò, in un accesso di ira repressa, quando ebbe ascoltato tutte le risposte, elencato le deviazioni verbali e tracciato grafici degli intervalli passati tra le domande e le risposte.

― Non ci sono anomalie, Susan. Le variazioni nell'espressione normale e i tempi di reazione rientrano nei limiti dei normali raggruppamenti di frequenza. Abbiamo bisogno di metodi più sofisticati. Avranno pure dei computer, qui. ― Aggrottò la fronte e si mordicchiò l'unghia del pollice. ― No. Non possiamo usare i computer. La notizia rischierebbe di trapelare. È troppo pericoloso. Forse se...

La dottoressa Calvin lo interruppe con un gesto di impazienza. ― Vi prego, Peter. Non siamo davanti a uno dei banali problemi di laboratorio cui siete abituato voi. Se non riusciamo a individuare il Nestor modificato attraverso qualche grossa differenza riscontrabile a occhio nudo, una differenza che non possa essere messa in dubbio, siamo nei guai. Perché se la diversità è troppo insignificante, corriamo il rischio di sbagliare. E lasciar fuggire il robot, in tal caso, rappresenterebbe un pericolo troppo grande. Non basta scoprire minime irregolarità nel grafico. Sarò franca. Se gli strumenti che abbiamo a disposizione sono tutti qui, sarei propensa a distruggere i robot, per stare dalla parte sicura. Avete parlato con gli altri Nestor modificati?

― Sì ― disse Bogert, con rabbia, ― e non hanno niente che non vada. Anzi, semmai sono ancora più estroversi degli altri. Hanno risposto alle mie domande e si sono mostrati fieri di possedere un buon bagaglio di nozioni tecniche. A parte naturalmente gli ultimi due, che non hanno avuto il tempo di imparare la fisica eterica. Quando è venuto fuori che non conoscevo alcune delle specializzazioni necessarie qui all'Iperbase, si sono messi a ridere, anche se con una certa benevolenza. ― Alzò le spalle. ― Immagino sia questo il motivo del malumore dei tecnici. I robot tendono forse troppo a voler sbalordire la gente con la loro conoscenza superiore.

― Potreste ricorrere alle reazioni planari per vedere se si è verificato in loro un qualche deterioramento mentale dall'epoca della fabbricazione?

― Sì, potrei. ― Bogert puntò l'indice contro di lei. ― State perdendo la calma, Susan. Non capisco perché drammatizziate tanto. Sono sostanzialmente inoffensivi.

― Davvero? ― fece lei, infiammandosi. ― Davvero? Vi rendete conto che uno di loro mente? Uno dei sessantatré robot che ho appena interrogato ha mentito coscientemente, dopo che gli avevo ingiunto di dire la verità. Si tratta di un comportamento abnorme che ha radici profonde e che quindi è estremamente preoccupante.

Peter Bogert strinse i denti. ― Non sono affatto d'accordo. Sentite, Nestor-10 ha ricevuto l'ordine di scomparire dalla circolazione. L'ordine è stato espresso con la massima veemenza dalla persona più autorizzata a impartirlo. Non lo si può quindi annullare usando una veemenza o un'autorità maggiori. È logico che il robot cerchi di salvaguardare l'esecuzione dell'ordine. Anzi, obiettivamente non posso fare a meno di ammirare la sua ingegnosità. Quale modo migliore di "scomparire" che nascondersi in mezzo a un gruppo di altri robot perfettamente identici a lui?

― Sì, lo ammirate, lo so. Ho notato più di una volta la vostra aria divertita, Peter. E mi preoccupa che siate così spaventosamente lontano dal comprendere la situazione. Siete un robotologo o no? I Nestor modificati attribuiscono grande importanza a quella che ritengono essere la loro superiorità. L'avete detto voi stesso poco fa. Inconsciamente sono convinti che l'uomo sia loro inferiore e che la Prima Legge, che ha la funzione di difenderci da loro, è incompleta. Così sono instabili. E cos'è successo, qui? È successo che un giovane ha ordinato a un robot di questo tipo di lasciarlo in pace, di scomparire dalla circolazione, e glielo ha ordinato con delle parole e con un tono che esprimevano nausea, disgusto e disprezzo. D'accordo che i robot debbano eseguire gli ordini, ma Nestor-10 non può non aver provato inconsciamente del risentimento. Ora avvertirà al massimo il bisogno di dimostrare la propria superiorità, a dispetto degli orribili epiteti che gli sono stati lanciati. Questa esigenza potrebbe diventare così importante, da avere la precedenza sulla Prima Legge, che è stata resa monca.

― Ma Susan, è matematicamente impossibile che un robot conosca il significato delle parolacce! Il linguaggio osceno non rientra fra le cose che gli sono state impresse nel cervello!

― I dati che vengono impressi in origine nel cervello positronico non sono tutto ― ringhiò la Calvin. ― I robot hanno la capacità di imparare, stupido! ― Bogert si rese conto che la Calvin aveva davvero perso le staffe.

― Non credete che Nestor-10 abbia potuto capire dal tono usato che quelli che Black gli faceva non erano precisamente complimenti? ― continuò lei. ― Non credete che abbia potuto sentire già altre volte quelle stesse parole e notare in quali occasioni venivano adoperate?

― Se è così ― sbottò Bogert, ― mi volete spiegare gentilmente come può un robot modificato far del male a un essere umano, anche ammesso che si senta offeso e che arda dal desiderio di dimostrare la sua superiorità?

― Se ve lo dico, la smetterete di sollevare continuamente obiezioni?

― Sì.

Erano uno di fronte all'altra, con il tavolo in mezzo, e si guardavano in cagnesco.

― Se un robot modificato lasciasse cadere un grosso peso su un essere umano ― disse la psicologa, ― non infrangerebbe la Prima Legge, purché compisse un simile atto partendo dalla consapevolezza di avere la forza e la velocità sufficienti a farlo intervenire in tempo per scongiurare il pericolo. Tuttavia, una volta mollato il peso, cesserebbe di essere lui l'agente attivo del fenomeno. A quel punto l'unico agente attivo sarebbe la cieca forza di gravità. Il robot allora potrebbe decidere di non intervenire e lasciare che il peso colpisca l'uomo. La Prima Legge modificata glielo consentirebbe.

― Ci vuole un bello sforzo immaginativo per pensare a una cosa del genere.

― A volte la mia professione richiede questi sforzi, Peter. Cerchiamo di non litigare e mettiamoci invece al lavoro. Voi conoscete la natura esatta dello stimolo che ha indotto il robot a dileguarsi. Siete in possesso di documenti che attestano quale sia la sua struttura mentale. Vorrei che mi diceste se è possibile che Nestor-10 compia un atto come quello che ho appena descritto. Non l'atto specifico, badate bene, ma l'intera categoria di gesti del genere. E vorrei che mi sapeste dare la risposta in fretta.

― Nel frattempo...

― Nel frattempo sottoporremo i robot a dei test per verificare come reagiscono alla Prima Legge.

 

Gerald Black aveva chiesto di controllare i lavori al terzo piano del Centro Radiazioni 2, dove venivano erette pareti divisorie di legno che ormai si levavano sempre più numerose, formando un cerchio sul pavimento sferico. Gli operai lavoravano per lo più in silenzio, ma parecchi si stupirono di dover installare sessantatré cellule fotoelettriche.

Uno di loro si sedette accanto a Black, si tolse il cappello e si asciugò la fronte con il braccio lentigginoso.

Black lo accolse con un cenno della testa. ― Come va, Walensky?

Walensky alzò le spalle e si accese un sigaro. ― A me va tutto liscio come l'olio. Ma qui cosa succede, dottore? Per tre giorni stiamo con le mani in mano e poi ci dicono di mettere su in gran fretta tutta questa roba. ― Si appoggiò alla parete puntellandosi con i gomiti e lasciò andare una boccata di fumo.

Black corrugò le sopracciglia. ― È che sono arrivati dalla Terra due esperti di robotica. Vi ricordate che guai abbiamo avuto con quei robot che volevano per forza entrare nei campi di radiazioni gamma, prima che gli ficcassimo in testa che non dovevano farlo?

― Sì. Ma non ci hanno consegnato dei robot nuovi?

― Qualcuno l'abbiamo sostituito, certo, ma per lo più abbiamo dovuto indottrinare bene i vecchi. In ogni modo quelli della fabbrica vogliono progettare dei modelli che non rimangano così danneggiati dai raggi gamma.

― Però è strano che siano state sospese tutte le attività intorno al propulsore per questa faccenda dei robot. Credevo che mai in nessun caso si sarebbe permesso di fermare i lavori.

― Be', sono i tizi che stanno al piano di sopra a decidere, Walensky. Io faccio solo quello che mi dicono. Probabilmente è tutta una manovra di...

― Sì ― lo interruppe l'elettricista con un sorriso, e strizzò l'occhio a Black con l'aria di uno che la sapeva lunga. ― Qualcuno conosce qualcun altro a Washington e così... Ma finché vengo pagato puntualmente, perché dovrei preoccuparmi? In fin dei conti il propulsore non mi riguarda affatto. Cosa devono fare, questi esperti?

― Lo chiedete a me? Si sono portati dietro un mucchio di robot, più di sessanta, e devono studiare le loro reazioni. È tutto quello che so io.

― E quanto ci metteranno?

― Non ne ho la più pallida idea.

― Be' ― disse Walensky, sarcastico, ― finché mi passano la paga, che facciano pure tutti i giochi che vogliono.

Black in cuor suo si sentì soddisfatto. Che Walensky diffondesse pure quella balla. Tanto era innocua, e abbastanza vicina alla verità da accontentare i curiosi.

 

Un uomo sedeva, muto e immobile, su una sedia. Un peso fu lasciato cadere e proprio quando stava per colpire il bersaglio venne deviato dall'azione tempestiva di un raggio d'energia. I robot NS-2 che osservavano la scena chiusi in sessantatré cabine di legno si precipitarono verso l'uomo proprio l'attimo prima che il peso fosse allontanato dalla sua traiettoria. E sessantatré cellule fotoelettriche, un metro e mezzo più avanti rispetto alla loro posizione originaria, fecero scattare la penna che tracciava il grafico, e sulla carta apparve un piccolo segno in rilievo. Il peso fu sollevato e lasciato cadere, sollevato e lasciato cadere dieci volte di seguito.

E per dieci volte i robot si buttarono avanti e poi si fermarono, mentre l'uomo restava seduto, incolume.

 

Il generale Kallner non si era più messo in alta uniforme da quella sera in cui aveva accolto sull'Iperbase i rappresentanti della U.S. Robots. E adesso era in maniche di camicia, una camicia grigio-azzurra, con il colletto aperto e la cravatta nera allentata.

Guardò speranzoso Bogert, che aveva ancora un'aria abbastanza azzimata, benché qualche goccia di sudore sulle tempie tradisse il suo nervosismo.

― Allora? ― disse il generale. ― Che cos'è che state cercando di scoprire?

― Stiamo cercando di scoprire una differenza che temo sia troppo insignificante per servire ai nostri scopi ― rispose Bogert. ― Per sessantadue di quei robot l'impulso a scattare in avanti verso l'uomo che appare in pericolo viene definito, in robotica, "reazione forzata". Vedete, dopo il terzo o quarto esperimento i robot devono avere capito che l'uomo in questione non era in pericolo, ma hanno continuato a reagire nello stesso modo, in quanto obbligati dalla Prima Legge.

― Ebbene?

― Il sessantatreesimo robot, il Nestor modificato, era sprovvisto di tale impulso e poteva agire liberamente. Se avesse voluto sarebbe potuto restare al suo posto. Purtroppo ― e qui la sua voce assunse un tono rammaricato, ― ha deciso di comportarsi come gli altri.

― Come mai?

Bogert scrollò le spalle. ― Immagino che ce lo dirà tra poco la dottoressa Calvin, e temo che ci offrirà una spiegazione alquanto pessimistica. A volte ha un comportamento irritante.

― Ma è qualificata, no? ― Il generale, chiaramente a disagio, corrugò la fronte.

― Sì ― disse Bogert, con un sorrisetto divertito. ― Qualificatissima. Per lei i robot sono come fratelli, li capisce molto bene. Credo che questa capacità le derivi dall'odio che nutre per gli esseri umani. Il guaio è che, psicologa o no, è una gran nevrotica. Tendenzialmente paranoica. Non prendetela troppo sul serio.

Sparpagliò sul tavolo i numerosi grafici. ― Vedete, generale, il tempo che passa tra il momento in cui il peso viene lasciato cadere e il momento in cui ciascun robot finisce di percorrere lo spazio di un metro e mezzo tende a diminuire a mano a mano che i test vengono ripetuti. C'è una relazione matematica ben precisa che regola questi fenomeni e un'eventuale variazione rispetto alla norma rivelerebbe l'esistenza di anomalie nel cervello positronico. Purtroppo qui tutto sembra a posto.

― Ma se Nestor-10 non ha agito per reazione forzata, come mai la curva del suo grafico non è diversa? Non capisco.

― La risposta è abbastanza semplice. Per colmo di sfortuna, le reazioni dei robot non sono esattamente simili a quelle umane. Negli uomini le azioni volontarie sono assai più lente di quelle che derivano da riflessi condizionati. Questo invece non vale per i robot. Per loro la questione essenziale è quella della scelta: i Nestor-10 hanno più possibilità di scelta, gli altri meno. Ma una volta superato questo dato di partenza la velocità della reazione libera e la velocità della reazione obbligata si equivalgono. Quel che speravo io, però, era che Nestor-10 fosse colto di sorpresa, la prima volta, e lasciasse passare un intervallo di tempo troppo lungo prima di agire.

― Invece questo non è successo?

― Temo proprio di no.

― Allora siamo al punto di prima. ― Il generale si appoggiò alla spalliera della sedia e assunse un'espressione preoccupata. ― Sono già cinque giorni che siete qui.

In quella Susan Calvin entrò nella stanza e sbatté la porta dietro di sé. ― Mettete via quei grafici, Peter! ― esclamò. ― Tanto sapete benissimo che non servono a niente!

Borbottò spazientita qualcosa, vedendo che Kallner faceva l'atto di alzarsi per salutarla, e proseguì: ― Bisogna escogitare un altro metodo, e in fretta. Non mi piace affatto quel che sta succedendo.

Bogert buttò un'occhiata eloquente al generale, poi si rivolse a lei. ― C'è qualcosa di particolare che non va?

― No. Ma non mi piace che Nestor-10 continui a ingannarci. Lo considero un fatto molto negativo. È chiaro che il robot si sente sempre più superiore a noi. Temo che ormai non sia solo il desiderio di eseguire gli ordini a spingerlo ad agire così. Credo sia motivato soprattutto dal bisogno puramente nevrotico di dimostrare agli uomini che è più intelligente di loro. È una situazione pericolosamente abnorme. Avete fatto quello che vi ha chiesto, Peter? Avete calcolato i fattori di instabilità concernenti la categoria di azioni che vi avevo prospettato?

― Ci sto lavorando ― disse il matematico, senza il minimo interesse.

Lei lo fissò un attimo con rabbia, poi si girò verso Kallner. ― Nestor-10 sa benissimo quel che stiamo facendo, generale. Non aveva motivo di correre verso l'uomo, durante l'esperimento, specie dopo la prima volta, quando si sarà reso conto che l'uomo in questione non correva alcun pericolo. Gli altri robot non potevano che reagire così, ma lui ha scelto di reagire così.

― E adesso che cosa dovremmo fare secondo voi, dottoressa Calvin?

― Impedirgli di recitare, la prossima volta. Ripeteremo l'esperimento, ma con un'aggiunta. Collocheremo tra l'uomo e i robot alcuni cavi ad alta tensione capaci di fulminare i modelli Nestor. Ne metteremo parecchi, così da scongiurare la possibilità che i robot li scavalchino tutti. E i robot verranno informati in anticipo che toccare i fili significa morire.

― Ehi, un attimo! ― sibilò Bogert, irritato. ― È un'idea da escludersi. Non fulmineremo dei robot che valgono due milioni di dollari solo per individuare Nestor-10! Troveremo altri metodi.

― Ne siete sicuro? Voi intanto non li avete trovati. In ogni caso non fulmineremo nessun robot. Possiamo installare un relè che interrompa la corrente nell'esatto momento in cui i robot metteranno i piedi sul filo. Così non moriranno, ma questo lo sapremo soltanto noi.

Negli occhi del generale brillò la speranza. ― Funzionerà?

― Penso di sì. In tali condizioni Nestor-10 dovrebbe restare seduto al suo posto. Gli si potrebbe ordinare di toccare i fili, perché la Seconda Legge, che impone l'obbedienza, è superiore alla Terza Legge, che impone l'autoconservazione. Ma non gli sarà ordinato di toccarli. Sarà lasciato libero di scegliere. I robot normali, condizionati dalla Prima Legge che li obbliga a preservare l'incolumità dell'uomo, andrebbero incontro alla morte anche senza avere ricevuto nessun ordine. Ma Nestor-10 no. Poiché ha impressa nel cervello solo una parte della Prima Legge e poiché noi non gli impartiremo alcun ordine, dovrà dare per forza la precedenza alla Terza Legge, quella dell'autoconservazione. Perciò non avrà altra scelta che rimanere seduto al suo posto. È inevitabile.

― Allora procederemo all'esperimento stasera stessa?

― Sì ― disse la psicologa, ― sempre che si faccia in tempo a sistemare i cavi. Dirò subito ai robot quale prova li attende.

 

Un uomo sedeva, muto e immobile, su una sedia. Un peso fu lasciato cadere e proprio quando stava per colpire il bersaglio venne deviato dall'azione tempestiva di un raggio di energia.

Solo una volta avvenne l'esperimento.

E sulla passerella in alto, dentro la cabina di osservazione, la dottoressa Susan Calvin si alzò di scatto dalla sua sedia pieghevole e si lasciò sfuggire un gemito d'orrore.

I sessantatré robot erano rimasti seduti tranquilli nelle loro sedie, a fissare impassibili l'uomo in pericolo. Nessuno di loro si era mosso.

 

La dottoressa Calvin era furiosa, terribilmente furiosa. E la rendeva ancora più furiosa il fatto di non poter rivelare il suo stato d'animo ai robot che ad uno ad uno entravano nella stanza per poi andarsene. Controllò l'elenco. Quello che le toccava interrogare adesso era il Numero Ventotto: ne rimanevano altri trentacinque.

Il Numero Ventotto entrò timidamente nella stanza.

Susan Calvin si sforzò di mantenersi il più calma possibile. ― E tu chi sei?

Il robot rispose con voce bassa e incerta. ― Non mi hanno ancora assegnato un numero personale, signora. Sono un robot NS-2 e il Numero Ventotto nella fila là fuori. Ho qui con me il biglietto con il timbro che devo consegnarvi.

― Non sei mai stato qui prima d'oggi?

― No, signora.

― Siediti. Voglio rivolgerti alcune domande, Numero Ventotto. Quattro ore fa ti trovavi nella Sala Raggi del Centro Radiazioni Due?

Il robot aveva difficoltà a rispondere. La sua voce venne fuori rauca, con un suono di macchina che avesse bisogno di olio. ― Sì, signora.

― Lì c'era un uomo che per poco non si è fatto molto male, vero?

― Sì, signora.

― Tu non hai cercato di aiutarlo, vero?

― No, signora.

― Quell'uomo avrebbe potuto ferirsi gravemente, a causa del tuo mancato intervento. Te ne rendi conto?

― Sì, signora. Non potevo che comportarmi così, signora. ― È difficile immaginare che un enorme e inespressivo robot di metallo possa farsi piccolo piccolo per la paura, ma il Numero Ventotto riusciva a dare questa sensazione.

― Spiegami bene perché non hai fatto niente per salvarlo.

― Sì, signora. Non voglio certo che voi o chiunque altro pensiate che... che abbia potuto comportarmi in modo da... da recare danno a un padrone. Oh, no, sarebbe un'orribile... un'inconcepibile...

― Stai calmo, Numero Ventotto. Io non ti incolpo di niente. Voglio solo sapere quali erano i tuoi pensieri in quel momento.

― Prima che succedesse tutto questo voi, signora, ci avevate detto che uno dei padroni avrebbe corso il pericolo di essere schiacciato da quel peso e che noi, volendo salvarlo, avremmo dovuto scavalcare i cavi elettrici. Ebbene, signora, i cavi elettrici non mi avrebbero certo fermato, perché è molto più importante l'incolumità di un padrone della mia incolumità. Ma... ma ho pensato che se fossi morto mentre cercavo di raggiungerlo, non sarei riuscito a salvarlo comunque. Il peso l'avrebbe schiacciato lo stesso e io sarei morto inutilmente, mentre se fossi rimasto vivo avrei potuto in futuro salvare la vita a qualche altro padrone. Mi capite, signora?

― Vuoi dire che le uniche alternative esistenti erano o che morisse solo l'uomo, o che moriste sia lui che tu? È così?

― Sì, signora. Era impossibile salvare il padrone. Era già spacciato in partenza. Quindi era assurdo che decidessi di autodistruggermi senza uno scopo valido... e senza ordini.

La psicologa giocherellò con la penna. Aveva già udito ventisette volte la stessa storia, con variazioni verbali insignificanti. Adesso era il momento della domanda cruciale.

― Senti, amico, il tuo ragionamento non manca di validità ― disse, ― ma non è il tipo di ragionamento che pensavo tu potessi fare. Ci sei arrivato da solo?

Il robot esitò. ― No.

― Chi l'ha fatto, allora?

― Ieri sera abbiamo parlato della faccenda e uno di noi è venuto fuori con quest'idea, che ci è parsa sensata.

― Chi di voi ha avuto l'idea?

Il robot rifletté attentamente. ― Non lo so. Uno di noi, non so dirvi altro.

Susan Calvin sospirò. ― È tutto.

Toccava ora al Numero Ventinove. Ne restavano altri trentaquattro.

 

Anche il generale Kallner era furioso. Da una settimana ormai tutte le attività erano ferme, sull'Iperbase, se si eccettuavano alcuni lavori di ricerca teorica sugli asteroidi associati del gruppo. Da quasi una settimana i due massimi esperti del settore robotica non facevano altro che aggravare la situazione effettuando inutili test. E adesso si permettevano anche - o almeno la donna si permetteva - di avanzare proposte impossibili.

Per non rendere più difficile la già difficile situazione, Kallner si premurò di non lasciar trapelare la sua rabbia.

Susan Calvin insisteva. ― Perché no, signore? È chiaro che ci troviamo in un vicolo cieco. L'unica alternativa che abbiamo se vogliamo raggiungere dei risultati in futuro, ammesso ci sia un futuro in tutta questa vicenda, è di separare i robot. Non possiamo più tenerli insieme.

― Cara dottoressa Calvin ― ruggì il generale, con voce profonda che scivolava verso toni da baritono, ― non credo proprio di poter sistemare quei robot in sessantatré alloggi diversi...

La dottoressa Calvin allargò le braccia in un gesto di scoraggiamento. ― Allora non posso fare niente. Nestor-10 imita il comportamento degli altri robot, oppure li convince con argomentazioni sensate a non adottare il comportamento che lui non può adottare. In ogni caso si tratta di una gran brutta faccenda. Abbiamo ingaggiato una lotta con questo robot "scomparso" e la stiamo perdendo. Ogni nuova vittoria che consegue lo ringalluzzisce e aggrava il suo già grave stato psichico.

Si alzò in piedi, decisa. ― Generale Kallner, se non separate i robot, sarò costretta a chiedervi di distruggerli tutti immediatamente.

― Ah sì? ― disse Bogert, alzando gli occhi di colpo e guardandola con furia. ― E che cosa vi dà il diritto di chiedere una cosa del genere? Quei robot non si toccano. Sono io il responsabile davanti alla U.S. Robots, non voi.

― E io ― osservò il generale Kallner, ― sono responsabile davanti al Coordinatore Mondiale, e ho il compito di sistemare la questione.

― In tal caso ― dichiarò la Calvin, ― non mi resta che rassegnare le dimissioni. E se non avrò altro modo di indurvi a distruggere i robot, renderò pubblica tutta la vicenda. Non sono stata io ad autorizzare la costruzione di robot speciali.

― Una parola di più, dottoressa Calvin ― disse il generale, deciso, ― e vi farò mettere subito agli arresti. Le misure di sicurezza non si violano.

Bogert capì che la situazione stava prendendo una piega pericolosa. ― Su, non comportiamoci come bambini ― disse, in tono estremamente conciliante. ― Ci occorre ancora un po' di tempo. Riusciremo certo a mettere nel sacco Nestor-10 senza che nessuno dia le dimissioni o finisca in prigione. E senza distruggere un patrimonio di due milioni di dollari.

La psicologa lo guardò con gelida rabbia. ― Non permetterò che si continuino a utilizzare robot squilibrati. Abbiamo un Nestor che è chiaramente squilibrato, altri undici che lo sono potenzialmente, e sessantadue robot normali che sono influenzati da un ambiente malsano. L'unico modo veramente sicuro per rimediare al problema è la distruzione totale.

Il cicalino della porta ronzò e i tre interruppero di colpo la animata discussione.

― Avanti ― ringhiò Kallner.

Era Gerald Black, e appariva turbato. Da fuori aveva sentito il tono iroso delle voci. ― Ho pensato di venire io stesso ― disse. ― Non volevo chiedere ad altri...

― Cosa c'è? Non fatela lunga.

― Hanno cercato di forzare la serratura del compartimento C, sulla nave da carico. Si vedono delle scalfitture che fino a poco tempo fa non c'erano.

― Il compartimento C? ― disse subito la Calvin. ― È quello dove sono alloggiati i robot, vero? Chi ha cercato di forzare la serratura?

― Il tentativo è stato fatto dall'interno ― disse Black, laconico.

― Ma la serratura funziona ancora, spero...

― Sì, è a posto. È da quattro giorni che mi trovo sulla nave e finora nessun robot ha tentato di uscire. Ma pensavo fosse giusto informarvi e sono venuto di persona perché non volevo che la notizia si diffondesse. Sono stato io ad accorgermi della cosa.

― C'è nessuno a bordo, adesso? ― chiese il generale.

― Ci sono Robbins e McAdams.

Seguì un silenzio carico di riflessione. Poi la dottoressa Calvin disse, in tono ironico: ― Allora?

Kallner si grattò il naso, con aria incerta. ― Che senso ha questa storia?

― Non è ovvio? Nestor-10 sta progettando di partire. Ormai l'ordine di scomparire è diventato il tema dominante, nella sua testa bacata, e dubito che possiamo trovare rimedi. Non mi stupirei se quel po' di Prima Legge che gli è stata impressa nel cervello non riuscisse a prevalere. È capacissimo di impadronirsi della nave e tagliare la corda. In quel caso avremmo un robot pazzo al comando di un'astronave. Allora, che si fa? Avete qualche idea? Siete ancora deciso a lasciare i robot insieme, generale?

― Sciocchezze ― interloquì Bogert, che aveva riacquistato la calma. ― Tutte queste deduzioni balorde per qualche graffio su una serratura.

― Dottor Bogert, visto che siete così ansioso di esprimere opinioni non richieste, posso chiedere io a voi se avete terminato l'analisi che vi avevo domandato di fare?

― Sì, l'ho terminata.

― Posso vederla?

― No.

― Perché no? Adesso non mi è permesso più neppure questo?

― È inutile che la guardiate, Susan. Vi ho già detto fin dall'inizio che i robot modificati sono meno stabili di quelli normali, e la mia analisi lo dimostra. Esiste il rischio minimo che gli NS-2 vadano in tilt in circostanze estreme che è improbabile si verifichino. Smettetela di insistere. Non vi fornirò dati che potreste sfruttare per ribadire la vostra assurda pretesa di distruggere sessantadue robot perfettamente funzionanti. La colpa è vostra, se non siete riuscita ancora a individuare Nestor-10.

Susan Calvin lo fissò con occhi pieni di disgusto. ― Non volete intralci sulla strada che sperate vi porti alla carica di direttore generale, vero?

― Per favore! ― disse Kallner, irritato. ― Avete idea di cos'altro si possa fare, dottoressa Calvin?

― No, signore ― rispose lei, stancamente. ― Se solo tra Nestor-10 e i robot normali ci fossero altre differenze, anche un'unica differenza che non riguardasse la Prima Legge... Non so, qualcosa che avesse a che fare con il bagaglio di nozioni impresse inizialmente nel cervello, o con l'ambiente, o con l'addestramento... ― S'interruppe di colpo.

― Cosa c'è?

― Mi è venuta in mente una cosa... ― Susan Calvin assunse un'espressione assorta e meditabonda. ― Peter, nel cervello dei Nestor modificati è stato impresso in origine lo stesso bagaglio di nozioni, vero?

― Sì, esattamente lo stesso.

La Calvin si girò verso Gerald Black, che era rimasto prudentemente zitto vedendo quali reazioni violente avesse causato la notizia da lui portata. ― Signor Black, quando vi siete lamentato dell'atteggiamento di superiorità che hanno i Nestor, avete detto se non sbaglio che tutto quello che i robot sanno l'hanno imparato dai tecnici. È così?

― Sì, almeno per quel che riguarda la fisica eterica. I robot non conoscono affatto l'argomento, quando arrivano qui.

― Certo ― disse Bogert, stupito. ― Ve l'avevo detto, Susan, che quando ho parlato con gli altri Nestor gli ultimi due arrivati non avevano ancora imparato la fisica eterica.

― Come mai? ― chiese la dottoressa Calvin, sempre più accalorata. ― Perché nei modelli NS-2 non vengono impresse fin dall'inizio le nozioni necessarie?

― Posso spiegarvelo io ― disse Kallner. ― Abbiamo proceduto così per conservare il segreto. Se avessimo usato dodici modelli speciali già esperti e avessimo spedito gli altri a lavorare in un settore che con la propulsione iperatomica non aveva nulla a che fare, avremmo potuto sollevare sospetti. Gli uomini che utilizzavano i Nestor normali avrebbero potuto chiedersi come mai i modelli nuovi conoscessero la fisica eterica. Così il cervello degli NS-2 è semplicemente preparato a ricevere un addestramento nel settore. È chiaro che a venire addestrati sono solo quelli che arrivano sull'Iperbase. Tutto qui.

― Capisco. Vi prego, signori, uscite tutti quanti. Ho bisogno di un'ora per riflettere.

 

La Calvin non se la sentiva proprio di affrontare una terza volta quell'orribile prova. Aveva preso in considerazione l'eventualità di farlo, ma poi l'aveva scartata con un profondo senso di nausea. No, non sopportava assolutamente l'idea di interrogare di nuovo tutti quei robot che parlavano nello stesso esatto modo.

Così adesso era Bogert a rivolgere loro le domande e lei se ne stava seduta in un angolo, con gli occhi socchiusi e la mente poco più aperta.

Era la volta del Numero Quattordici: ne restavano altri quarantanove. Bogert alzò lo sguardo dal foglio degli appunti e disse: ― Che numero ti è stato assegnato nella fila?.

― Il quattordici, signore. ― Il robot consegnò il biglietto con il timbro.

― Siediti, amico ― disse Bogert. ― Non sei mai stato qui prima d'ora?

― No, signore.

― Bene, tra poco, quando avremo finito di interrogarvi, ci sarà un altro uomo in pericolo, come è già successo in passato. Anzi, appena avrai lasciato questa stanza sarai condotto direttamente in una cabina dove aspetterai tranquillo fino al momento in cui ci sarà bisogno di te. Hai capito?

― Sì, signore.

― Ora, è chiaro che se un uomo rischia di farsi del male, tu cercherai di salvarlo vero?

― Certo, signore.

― Purtroppo, fra te e l'uomo vi sarà un campo di raggi gamma.

Silenzio.

― Sai che cosa sono i raggi gamma? ― chiese Bogert, brusco.

― Radiazioni di energia, signore?

La domanda successiva fu rivolta in tono cordiale e non curante. ― Hai mai lavorato intorno ai raggi gamma?

― No, signore ― rispose il robot, con sicurezza.

― Uhm. Bene, amico mio, i raggi gamma ti uccidono all'istante. Ti distruggono il cervello. È un fatto che devi sapere e tenere bene a mente. È chiaro che tu non vuoi essere distrutto, vero?

― No, signore. ― Il robot appariva di nuovo turbato. Aggiunse, parlando lentamente: ― Se i raggi gamma si trovano tra me e il padrone in pericolo, come posso salvarlo? Mi autodistruggerei senza scopo.

― Sì, capisco il tuo punto di vista ― disse Bogert, con aria comprensiva. ― L'unico consiglio che posso darti è questo: se individui la presenza delle radiazioni gamma fra te e l'uomo, stattene pure seduto dove sei.

Il robot apparve visibilmente sollevato. ― Grazie, signore. In quel caso il mio intervento sarebbe inutile, vero?

― Già. Ma se non ci fossero radiazioni pericolose, allora sarebbe tutto un altro discorso.

― Certo, signore, questo è indubbio.

― Vai pure, ora. L'uomo all'ingresso ti accompagnerà alla tua cabina. Tu aspetta là.

Quando il robot fu uscito, Bogert sì rivolse a Susan Calvin. ― Come vi pare sia andata, Susan?

― Benissimo ― disse lei, apatica.

― Pensate che possiamo riuscire a prendere in trappola Nestor-10 interrogandolo sulla fisica eterica?

― Forse, ma non è un metodo abbastanza sicuro. ― La Calvin teneva le mani in grembo. ― Non dimenticatevi che ci sta facendo la guerra e che quindi sta all'erta. L'unica maniera per prenderlo in trappola è batterlo in astuzia. E, per quanto entro i limiti impostigli, lui sa pensare molto più in fretta di un essere umano.

― Bene, poniamo così per scherzo che da ora in avanti rivolgessi ai robot delle domande sui raggi gamma. Sui limiti della lunghezza d'onda, per esempio.

― No! ― fece la dottoressa Calvin, aprendo di colpo gli occhi che fino a un attimo prima teneva ancora socchiusi. ― A Nestor-10 sarebbe troppo facile fingere di non sapere nulla e in questo modo intuirebbe qualcosa del test a cui stiamo per sottoporlo. E quel test è l'unica nostra speranza. Per favore, Peter, seguite le indicazioni che vi ho dato e non improvvisate. È già abbastanza rischioso chiedere ai robot se hanno mai lavorato intorno ai raggi gamma. Anzi, cercate di mostrare ancora più noncuranza, quando fate quella particolare domanda.

Bogert alzò le spalle e premette il cicalino per far entrare il Numero Quindici.

 

La vasta Sala Raggi era stata ancora una volta preparata per l'esperimento. I robot attendevano pazientemente nelle loro cabine di legno, che comunicavano tutte con il centro della sala, ma non tra loro.

Il generale Kallner si asciugò la fronte con un ampio fazzoletto, mentre Susan Calvin controllava gli ultimi particolari con Black.

― Siete sicuro che i robot non abbiano avuto assolutamente la possibilità di parlarsi, dopo avere lasciato la Sala di Orientamento? ― chiese la robopsicologa.

― Sicurissimo ― disse Black. ― Non si sono scambiati una sola parola.

― E sono stati messi nelle cabine giuste?

― Ecco qui la pianta.

Susan Calvin la guardò pensierosa. ― Uhm.

Il generale buttò un'occhiata di sbieco alla carta. ― Che importanza ha il modo in cui sono disposti, dottoressa Calvin?

― Ho chiesto che i robot che mi sono parsi un pochino più sfasati durante gli esperimenti precedenti venissero sistemati tutti dalla stessa parte del cerchio. Questa volta ci sarò io seduta là in mezzo, e vorrei osservare bene proprio quei robot in particolare.

― Ci sarete voi, seduta là? ― fece Bogert, incredulo.

― Perché no? ― rispose lei, con distacco. ― Il dettaglio essenziale che spero di vedere potrebbe essere rappresentato da una reazione della durata di una frazione di secondo. Non posso assolutamente affidare a un altro il ruolo di osservatore principale. Peter, voi andrete nella cabina in alto e terrete d'occhio l'altro semicerchio. Generale Kallner, in caso l'osservazione diretta non fosse sufficiente, ricorreremo ai filmati. Una cinepresa riprenderà ciascun robot nel corso dell'esperimento, e se si rivelasse necessario controllare le immagini, i robot dovranno rimanere fermi al loro posto finché non avremo a disposizione la pellicola. Nessuno dovrà andarsene, nessuno dovrà cambiare scomparto. È chiaro?

― Chiarissimo.

― Allora facciamo quest'ultima prova.

 

Susan Calvin sedeva, muta e immobile, su una sedia. Un peso fu lasciato cadere e proprio quando stava per colpire il bersaglio venne deviato dall'azione tempestiva di un raggio di energia.

Un solo robot scattò in piedi e avanzò di due passi. Poi si fermò di colpo.

Ma la dottoressa Calvin si alzò a sua volta e gli puntò severamente l'indice contro. ― Vieni qui, Nestor-10! ― gridò. ― Vieni qui! VIENI QUI!

Riluttante, il robot fece un altro passo avanti. Senza staccargli gli occhi di dosso, la psicologa urlò con quanta voce aveva in gola: ― Qualcuno faccia uscire di qui tutti gli altri robot! Mandateli fuori e teneteli fuori!

Dopo quell'ordine si udì un certo trambusto, poi un forte trapestio. Ma Susan Calvin non distolse un attimo lo sguardo dal robot.

Nestor-10 - se era Nestor-10 - fece un altro passo, poi, chiamato da un gesto imperioso della Calvin, altri due. Quando fu a circa tre metri da lei disse, aspro: ― Mi avevano ordinato di scomparire....

Avanzò ancora di un passo. ― Io non devo disobbedire. Finora non mi avevano trovato... Lui penserà che sono un buono a nulla... Mi ha detto... Ma non è così, invece... Io sono forte e intelligente...

Le parole venivano fuori a raffiche.

Il robot avanzò ancora di un passo. ― Io so tante cose... Adesso penserà... cioè, adesso che sono stato trovato... È una vergogna... Ma non mi coprirò di vergogna... Io sono intelligente... E trovato da un semplice padrone... che è debole... lento...

Un altro passo... e un braccio di metallo colpì Susan Calvin nella spalla, spingendola giù. Con la gola compressa, la robopsicologa lasciò andare un urlo soffocato.

Udì confusamente altre parole di Nestor-10. ― Nessuno deve trovarmi. Nessun padrone... ― Quindi avvertì la pressione del freddo corpo metallico e si sentì schiacciare sotto il suo peso.

Poi si udì uno strano suono metallico e lei si ritrovò di colpo in terra, quasi senza accorgersene. Nestor-10 era steso accanto a lei e le teneva ancora un pesante braccio sul corpo. Ma era immobile.

E infine arrivarono gli altri.

― Vi siete fatta male, dottoressa Calvin? ― chiese Gerald Black, preoccupato.

Lei scosse debolmente la testa. Le tolsero il braccio metallico di dosso e la sollevarono con delicatezza. ― Cos'è successo? ― domandò.

― Per cinque secondi ho immerso la sala nei raggi gamma. Non capivamo cosa stesse accadendo. Solo all'ultimo momento ci siamo resi conto che vi stava attaccando, e non c'era altra soluzione che usare un campo di radiazioni gamma. Il robot è crollato all'istante. Ma il tempo di esposizione è stato troppo breve per danneggiare voi. Non preoccupatevi.

― Non sono preoccupata. ― Susan Calvin chiuse gli occhi e si appoggiò un attimo alla spalla di Black. ― Credo che non si sia trattato di una vera aggressione. Nestor-10 ha solo cercato di aggredirmi, ma era ancora trattenuto da quel po' di Prima Legge impresso nel suo cervello.

 

Susan Calvin e Peter Bogert ebbero il loro ultimo incontro con il generale Kallner due settimane dopo il primo. L'attività era ripresa, sull'Iperbase. La nave da carico con a bordo i sessantadue NS-2 normali era partita per la sua destinazione. A giustificazione dei quindici giorni di ritardo ci sarebbe stata una versione ufficiale dei fatti. L'astroricognitore del governo si preparava a riportare i due robotologi sulla Terra.

Kallner era di nuovo in alta uniforme e i suoi guanti bianchi splendevano quando strinse la mano ai due esperti.

― Bisogna naturalmente distruggere gli altri Nestor modificati ― disse la Calvin.

― Saranno distrutti. Vedremo di farcela con i robot normali, e se questo non sarà possibile lavoreremo senza.

― Bene.

― Ma non mi avete ancora spiegato come siete riuscita esattamente a intrappolare Nestor-10...

La Calvin accennò un sorriso. ― Ah già. Vi avrei detto tutto prima dell'esperimento se fossi stata sicura dell'esito positivo. Vedete, Nestor-10 aveva un complesso di superiorità che peggiorava sempre più col tempo. Gli piaceva pensare di sapere più cose dell'uomo, e che i robot in genere fossero più in gamba. Per lui era diventata una specie di ossessione.

― Consapevoli di questo, noi prima dell'esperimento abbiamo detto a tutti i robot che i raggi gamma erano per loro mortali, e li abbiamo avvisati che fra loro e me ci sarebbe stato appunto un campo di queste radiazioni. Così sono rimasti seduti dov'erano, naturalmente. Nestor-10, nel corso dell'esperimento precedente, li aveva convinti che era assurdo cercare di salvare un essere umano quando si aveva la sicurezza di morire prima di raggiungerlo.

― Sì, dottoressa Calvin, questo l'ho capito. Ma perché Nestor-10 si è mosso?

― Ah, qui entra in gioco il piccolo accordo che c'era tra me e il signor Black. Vedete, a inondare lo spazio tra me e i robot non sono stati i raggi gamma, ma dei semplici infrarossi. Normali raggi termici completamente innocui. Nestor-10 ha capito che si trattava di infrarossi e così si è spinto avanti, come pensava che facessero gli altri, condizionati dalla Prima Legge. Si è ricordato con un secondo di ritardo che gli NS-2 normali erano in grado, sì, di individuare la presenza di raggi, ma non di riconoscerne il tipo. Che solo lui potesse riconoscere le lunghezze d'onda grazie all'addestramento ricevuto all'Iperbase dagli uomini era un particolare troppo umiliante perché se lo ricordasse subito fin dall'inizio. I robot normali erano convinti che i raggi fossero mortali perché così avevamo loro detto, e solo Nestor-10 sapeva che mentivamo.

― Così, per una frazione di secondo, ha dimenticato o non ha voluto ricordare che gli altri robot potevano essere più ignoranti degli esseri umani. Il suo stesso senso di superiorità l'ha fatto cadere in trappola. Arrivederci, generale.

 

 

 

 

 

MECCANISMO DI FUGA

Quando Susan Calvin tornò dall'Iperbase, Alfred Lanning era allo spazioporto ad attenderla. Il vecchio non parlava mai della propria età, ma tutti sapevano che aveva più di settantacinque anni. Tuttavia era ancora lucidissimo, e se anche si era deciso ad accettare la carica di direttore emerito delle ricerche e a lasciare a Bogert quella di direttore facente funzione, continuava a recarsi in ufficio tutti i giorni.

― La propulsione iperatomica è ormai vicina a essere una realtà o no? ― disse.

― Non lo so ― rispose irritata Susan Calvin. ― Non l'ho chiesto.

― Uhm. Sarà meglio che si sbrighino, lassù. Perché se non si sbrigano, la Consolidated potrebbe batterli. E battere anche noi.

― La Consolidated? Cosa c'entra in tutta questa faccenda?

― Be', noi non siamo gli unici a produrre macchine calcolatrici. D'accordo che le nostre sono positroniche, ma non è detto che siano migliori. Robertson ha convocato per domani una riunione sull'argomento. Aspettava il vostro ritorno.

 

Robertson, figlio del fondatore della U.S. Robots and Mechanical Men Corporation, puntò il naso affilato verso il direttore generale e disse, mentre il pomo d'Adamo gli si alzava e abbassava: ― Cominciate pure. Riassumiamo subito i fatti.

Il direttore generale si affrettò a obbedire. ― Le cose stanno così, capo. La Consolidated Robots ci ha avvicinato un mese fa e ha avanzato una strana proposta. I suoi rappresentanti ci hanno mostrato un enorme guazzabuglio di cifre, equazioni e robe affini. Si trattava di un problema, capite, e avrebbe voluto avere una risposta dal Cervello. I termini della proposta sono questi... ― Il direttore si mise a contare sulla punta delle dita tozze. ― Centomila per noi se non ci sono soluzioni e se siamo in grado di dirgli quali sono i fattori che mancano. Se invece la soluzione c'è, duecentomila per noi, più il rimborso spese per la costruzione della macchina desiderata, più il venticinque per cento dei profitti che ne deriveranno. Il problema riguarda la messa a punto di un motore interstellare...

Robertson aggrottò la fronte e la sua sagoma magra s'irrigidì. ― Eppure loro dispongono già di una macchina pensante, no?

― Sì, ed è proprio per questo che l'intera proposta suona alquanto bislacca, capo. Lewer, continuate voi.

Abe Lewer alzò gli occhi dal capo opposto del tavolo e si passò la mano sulla barba rada, producendo un lieve raspìo. ― In realtà, signore ― disse, con un sorriso, ― la Consolidated disponeva di una macchina pensante. Adesso è rotta.

― Cosa? ― fece Robertson, sobbalzando sulla sedia.

― Proprio così. Rotta. È kaput. Nessuno sa perché, ma io ho elaborato alcune ipotesi abbastanza interessanti in merito. Per esempio che abbiano fornito alla macchina gli stessi dati presentati a noi, chiedendole di progettare in base ad essi un motore interstellare. E che la macchina sia andata completamente in tilt. È solo un ammasso di ferraglia, adesso.

― Avete capito, capo? ― Il direttore generale era eccitato. ― Avete capito? Tutte le aziende industriali, indipendentemente dalle loro dimensioni, stanno cercando di mettere a punto un motore a distorsione spaziale, e noi e la Consolidated, con i nostri super cervelli-robot, siamo sempre stati all'avanguardia in questo campo. Ora che loro hanno mandato in tilt la loro macchina, abbiamo campo libero. Secondo me questo è il succo della questione, il... motivo per cui si sono rivolti a noi. Impiegheranno almeno sei anni per costruire un'altra macchina come quella e perderanno sicuramente la partita se non riusciranno a rompere anche la nostra sottoponendole lo stesso problema.

Il presidente della U.S. Robots aveva gli occhi fuori dalle orbite. ― Ah sì, eh? Quei luridi bastardi...

― Un attimo, capo. C'è di più. ― Il direttore generale puntò l'indice con un gesto solenne e disse: ― Continuate voi, Lanning!

Il dottor Alfred Lanning ostentava un'espressione di lieve disprezzo, come sempre gli accadeva quando osservava il modo di procedere dell'assai meglio retribuito Settore Commercio e Vendite. Corrugò le sopracciglia candide e disse, secco: ― Dal punto di vista scientifico la situazione, anche se non è del tutto chiara, può essere analizzata con strumenti razionali. Dato lo stato attuale delle ricerche nel campo della fisica teorica il problema del viaggio interstellare risulta... ehm... ancora nebuloso. Non ci sono confini ben precisi, e la materia è vastissima. Anche il bagaglio di dati fornito dalla Consolidated alla sua macchina pensante, ammesso che tali dati siano gli stessi sottoposti a noi, è vastissimo. Il nostro dipartimento di matematica ha controllato attentamente tutte le informazioni e pare che la Consolidated non abbia trascurato nulla. Ha incluso per esempio i vari sviluppi della teoria di Franciacci sulla distorsione temporale e, a quanto sembra, tutti i dati astrofisici ed elettronici attinenti all'argomento. Un bel po' di roba.

Robertson, che seguiva ansioso il discorso, chiese: ― Per questo il Cervello è andato in tilt?

Lanning scosse energicamente la testa. ― No. Il Cervello è in grado di immagazzinare un numero infinito di informazioni. La questione è un'altra e riguarda le Leggi della Robotica. Il Cervello non potrebbe mai fornire una soluzione a un problema se tale soluzione comportasse, poniamo, la morte o anche solo danni per gli esseri umani. Se l'unica conclusione possibile fosse questa, il problema per lui sarebbe insolubile. Nel caso che poi chi gli sottoponesse tale problema insistesse molto per avere una risposta, il Cervello, che in fondo è soltanto un robot, si troverebbe di fronte a un grave dilemma, perché non potrebbe né rispondere, né rifiutarsi di rispondere. Alla macchina della Consolidated dev'essere successo qualcosa del genere.

Fece una pausa, ma il direttore generale lo incalzò. ― Continuate, prego, dottor Lanning. Spiegate le cose come le avete spiegate a me.

Lanning strinse le labbra e alzò le sopracciglia guardando Susan Calvin. Lei per la prima volta sollevò gli occhi, che fino a un attimo prima teneva fissi sulle mani intrecciate in grembo. La sua voce suonò piatta e incolore.

― Il modo di reagire di un robot a un dilemma apparentemente insolubile è certo singolare ― disse. ― La psicologia dei robot è tutt'altro che perfetta, e questo, data la mia specializzazione, ve lo posso assicurare. Però di tale psicologia si può discutere in termini qualitativi, in quanto il cervello positronico, benché complesso, è fabbricato dagli uomini e rispecchia quindi il loro sistema di valori.

― Ora, un essere umano intrappolato in una situazione impossibile spesso reagisce fuggendo dalla realtà: o si crea un proprio mondo illusorio, o si dà al bere, o si abbandona a isterismi, oppure magari si butta giù da un ponte. In sostanza tutti questi comportamenti denotano un'incapacità o un rifiuto di affrontare direttamente un determinato problema. Lo stesso vale per un robot. Un dilemma non troppo grave danneggerebbe metà dei suoi relè; davanti a un dilemma molto grave, invece, tutti i circuiti positronici del cervello brucerebbero irreparabilmente.

― Capisco ― disse Robertson, che però non capiva affatto. ― E cosa pensate di questa richiesta che ci ha avanzato la Consolidated?

― Indubbiamente c'è in ballo un problema del tipo più ostico. Ma il Cervello è notevolmente diverso dal robot della Consolidated.

― Infatti è così, capo. È proprio così ― disse il direttore generale, interrompendo con foga la robopsicologa. ― Vorrei che afferraste bene questo concetto, perché rappresenta il nocciolo di tutta la questione.

Susan Calvin, con gli occhi che scintillavano dietro le lenti, continuò, paziente: ― Vedete, signore, le macchine della Consolidated, compreso il Super-pensatore, non possiedono alcuna personalità. Il loro è un rigido funzionalismo, e questo è logico, dato che la Consolidated non dispone del brevetto esclusivo della U.S. Robots, che consente a noi di fabbricare i circuiti emotivi. Il loro Pensatore è solo un'enorme macchina calcolatrice che se si trova davanti a un difficile dilemma va subito in tilt.

― Il Cervello invece, la nostra macchina, possiede una personalità: la personalità di un bambino. La sua mente è estremamente deduttiva, ma simile a quella di un idiot savant. Non comprende veramente ciò che fa; semplicemente lo fa. E poiché, come ho detto, è come quella di un bambino, è più duttile. In certo modo si potrebbe dire che riflette maggiormente la vita, che non è così seria come può apparire a una macchina non dotata di personalità.

La robopsicologa fece una breve pausa, poi continuò. ― Ed ecco come intendiamo procedere. Abbiamo diviso tutte le informazioni forniteci dalla Consolidated in unità logiche. Immetteremo tali unità nel Cervello a una a una e con estrema cautela. Quando verrà introdotto il fattore particolare che genera il dilemma, la personalità infantile del Cervello esiterà. Le sue facoltà di giudizio non sono mature. Passerà un intervallo di tempo percettibile prima che la macchina si accorga di trovarsi di fronte a un problema arduo. E durante quell'intervallo essa rifiuterà automaticamente l'unità logica introdotta, prima che i suoi circuiti positronici entrino in funzione e vadano in panne.

Robertson, con il solito pomo d'Adamo che si alzava e abbassava, chiese: ― Siete proprio sicura?

― Ammetto che usando un linguaggio da profani tutto questo non sembra avere molto senso ― rispose la Calvin, mascherando l'impazienza, ― ma sarebbe perfettamente inutile esporre la questione in termini matematici. Vi assicuro che le cose stanno come vi ho detto.

Il direttore generale si affrettò a. intervenire con la sua consueta verbosità. ― Ecco dunque com'è la situazione, capo. Se accettiamo la proposta della Consolidated, possiamo portare a buon termine la faccenda in questo modo: il Cervello ci dirà quale unità informativa genera il dilemma e da lì potremo capire le origini del dilemma stesso. Non è così, dottor Bogert? Sì, questo è il succo, capo, e il dottor Bogert è il miglior matematico che esista al mondo. Risponderemo alla Consolidated che non esistono soluzioni e ne spiegheremo la ragione, così incasseremo un centomila. Loro resteranno con la loro macchina rotta e noi invece avremo la nostra perfettamente integra. Entro un anno o magari due disporremo di un motore a distorsione spaziale, o iperatomico, come lo definisce qualcuno. Comunque lo si chiami, resta sempre la massima conquista scientifica che si possa sperare di realizzare.

Robertson ridacchiò e allungò la mano verso un foglio.

― Fatemi vedere il contratto, che lo firmo subito ― disse.

 

Quando Susan Calvin entrò nel sotterraneo gremito di sorveglianti che ospitava il Cervello, uno dei tecnici di turno aveva appena chiesto alla macchina: ― Se una gallina e mezzo depone un uovo e mezzo in un giorno e mezzo, quante uova deporranno nove galline in nove giorni?

― Cinquantaquattro aveva risposto il Cervello.

E il tecnico, rivolto a un collega, aveva appena detto: ― Hai visto, stupido?

La dottoressa Calvin tossicchiò e di colpo l'attività intorno diventò frenetica e caotica. La psicologa fece un breve cenno e fu subito lasciata sola con il Cervello.

Il Cervello era un semplice globo del diametro di poco più di mezzo metro. Il globo conteneva un'atmosfera di elio perfettamente condizionata e uno spazio del tutto privo di vibrazioni e radiazioni all'interno del quale c'era quell'inconcepibile, complesso groviglio di circuiti positronici che costituiva appunto il Cervello. Il resto della sala era gremita di tutti gli accessori che fungevano da intermediari tra il Cervello e il mondo esterno e che lo fornivano di voce, braccia e organi di senso.

― Come va, Cervello? ― sussurrò la dottoressa Calvin.

Il Cervello parlò con voce acuta e tono entusiasta. ― Magnificamente, signorina Susan. Scommetto che siete venuta a chiedermi qualcosa. Avete sempre un libro in mano quando vi preparate a chiedermi qualcosa.

La dottoressa Calvin accennò un sorriso. ― Sì, hai ragione, ma non è ancora giunto il momento di rivolgerti la domanda. Sai, è una domanda così complicata che intendiamo portela per iscritto. Ma non ora. Prima vorrei fare quattro chiacchiere con te.

― Benissimo. Mi piace chiacchierare.

― Dunque, Cervello, tra poco il dottor Lanning e il dottor Bogert verranno qui a sottoporti la difficile questione di cui ti ho detto. Ti forniremo le informazioni piano piano, poco alla volta, perché vorremmo che usassi un'estrema cautela. Intendiamo chiederti di elaborare, se puoi, qualcosa in base ai dati che riceverai, ma desidero avvertirti subito che la soluzione potrebbe comportare... ehm... un danno per gli esseri umani.

― Ulp! ― esclamò il Cervello, con voce soffocata.

― Ora quindi devi stare bene attento. Quando arriveremo al foglio con le informazioni che potrebbero significare danno o addirittura morte per gli esseri umani, non turbarti troppo. Vedi, Cervello, in questo caso a noi non importa... non importa nemmeno della morte. No, proprio per niente. Perciò quando arrivi a quel foglio non devi far altro che fermarti e restituircelo. Tutto qui. Hai capito?

― Oh, certo. Ma per la miseria, la morte di esseri umani! Dio santo, che roba!

― Bene, sento che stanno arrivando il dottor Lanning e il dottor Bogert. Loro ti spiegheranno i termini del problema e poi cominceremo. Fa' il bravo, adesso...

I fogli furono immessi a poco a poco. Ogni volta che venivano introdotti si udiva lo strano borbottio stridulo che indicava che il Cervello era in azione. Seguiva quindi un silenzio da cui si capiva che la macchina era pronta per ricevere un altro foglio. L'operazione durò parecchie ore, durante le quali fu immesso nel Cervello l'equivalente di diciassette enormi volumi di fisica matematica.

A mano a mano che l'operazione procedeva, i presenti apparivano sempre più perplessi. Lanning imprecava con furia, sottovoce. Bogert prima si fissò le unghie con aria distratta, poi con aria altrettanto distratta cominciò a mangiarsele. Quando l'ultimo foglio del grosso mucchio scomparve all'interno della macchina, la dottoressa Calvin, pallida in viso, disse: ― C'è qualcosa che non va.

Lanning tirò fuori le parole a fatica. ― Non può essere. È... morto?

― Cervello! ― disse tremante Susan Calvin. ― Mi senti, Cervello?

― Eh? ― fu la risposta distratta. ― Che cosa c'è?

― Vorremmo la soluzione...

― Ah, sì. Sono in grado di accontentarvi. Vi costruirò un'intera astronave. Sarà semplicissimo se mi fornirete i robot necessari. Una bella nave, sì. Ci vorranno probabilmente due mesi.

― Hai avuto... difficoltà?

― Ho impiegato parecchio a fare i calcoli ― disse il Cervello.

La dottoressa Calvin, sempre pallidissima, indietreggiò e con un cenno invitò gli altri a seguirla.

 

Quando furono tutti nel suo ufficio disse: ― Non riesco a capire. I dati, così come gli sono stati presentati, avrebbero dovuto porlo davanti a un dilemma, un dilemma che probabilmente ha a che fare con la morte. Se qualcosa è andato storto...

― La macchina parla e ragiona normalmente ― disse calmo Bogert. ― Non può trattarsi di un problema insolubile.

― Ci sono problemi e problemi ― replicò la psicologa, accalorandosi. ― E ci sono diverse forme di fuga. Mettiamo che il Cervello si senta in trappola solo fino a un certo punto; diciamo tanto da crearsi l'illusione di poter risolvere una questione che in realtà non può risolvere. O mettiamo che invece si trovi sull'orlo di un abisso e che basti una minima spinta a farlo precipitare giù...

― Supponiamo invece che non esistano dilemmi di sorta ― disse Lanning. ― Supponiamo che la macchina della Consolidated sia andata in tilt per una faccenda diversa, o per pure cause meccaniche.

― Anche se così fosse ― insistette la Calvin, ― non possiamo correre rischi. Sentite, da ora in avanti nessuno dovrà rivolgere una sola parola al Cervello. Mi occuperò io della cosa.

― D'accordo ― sospirò Lanning. ― Occupatevene voi. Nel frattempo gli lasceremo costruire la sua nave. E se la costruirà davvero, dovremo collaudarla. ― Rifletté un attimo, poi aggiunse: ― E avremo bisogno dei nostri esperti migliori per un collaudo del genere.

 

Michael Donovan si passò con furia una mano sui capelli rossi, senza curarsi minimamente del fatto che i ciuffi ribelli tornassero subito in posizione di attenti.

― Chiama la squadra di turno che ci sostituisca, Greg ― disse. ― Dicono che la nave è finita. Non sanno che roba sia esattamente, ma è finita. Forza, andiamo, dunque. Mettiamoci subito ai comandi.

― Piantala, Mike ― disse Powell, stancamente. ― Il tuo spirito sa di stantio quando è al suo meglio, figuriamoci poi qui, in quest'aria viziata.

― Senti ― disse Donovan, lisciandosi ancora inutilmente i capelli, ― non è tanto il nostro genio di ghisa con la sua nave di latta che mi rattrista, quanto il fatto di aver dovuto rinunciare alle ferie. Per non parlare della monotonia! Qui non si vedono altro che pulsanti e cifre, il tipo sbagliato di cifre. Oh, perché ci appioppano sempre questi lavori?

― Perché ― disse Powell, pacato, ― se perdono noi non perdono nessuno di importante. Bene, calmati ora. Sta arrivando il dottor Lanning.

Lanning arrivò con le sue folte sopracciglia bianche, l'aria sveglia e le spalle diritte nonostante l'età. Salì in silenzio con i due uomini la rampa di scale e uscì all'aperto, dove i robot, senza obbedire ad alcun padrone umano, costruivano in silenzio un'astronave.

O meglio, avevano costruito un'astronave.

Perché Lanning disse: ― I robot hanno smesso di lavorare. Nessuno di loro si è mosso, oggi.

― Allora è finita? La nave è pronta?

― Come faccio a saperlo? ― Lanning era seccato e aveva le sopracciglia talmente corrugate, che gli occhi quasi non si vedevano. ― Sembra pronta. Non ci sono in giro altri pezzi da montare e l'interno è perfetto e luccicante.

― Allora siete entrato?

― Solo un attimo, per poi uscire subito. Non sono un pilota spaziale. Voi due conoscete bene la teoria del motore iperatomico?

Donovan guardò Powell, il quale guardò Donovan.

― Io ho il brevetto di pilota, signore ― disse Donovan, ― ma quando l'ho preso non si parlava affatto di ipermotori e di navigazione a distorsione spaziale. Ho sempre fatto il solito gioco da bambini nelle tre dimensioni.

Alfred Lanning alzò gli occhi con aria di intensa disapprovazione e sbuffò per l'intera lunghezza del suo naso prominente.

― Bene, abbiamo i nostri esperti in motore iperatomico ― disse, freddo.

Powell l'afferrò per il gomito un attimo prima che si allontanasse. ― È ancora vietato l'accesso alla nave, signore?

L'anziano direttore esitò, poi si grattò la radice del naso e disse: ― Credo di no. Almeno non per voi due.

Donovan lo seguì con gli occhi mentre se ne andava e gli mormorò dietro alcune parole in linguaggio pittoresco. Rivolgendosi a Powell disse: ― Mi piacerebbe dirgli in faccia cosa penso di lui usando termini letterari, Greg.

― Dai, sarà meglio che andiamo, Mike.

L'interno della nave era ben rifinito, meglio di qualsiasi interno di qualsiasi nave mai costruita; lo si notava subito con una sola occhiata. Neanche l'operaio più zelante di tutto il sistema solare avrebbe potuto lucidare le superfici come le avevano lucidate i robot. Le paratie splendevano argentee, senza la minima ditata.

Non c'erano spigoli; paratie, pavimenti e soffitto formavano un insieme perfettamente armonico, e nello scintillio freddo e metallico prodotto dalle luci soffuse si poteva contemplare con stupore la propria immagine riflessa sei volte dall'ambiente circostante.

Il corridoio principale era un tunnel stretto, dal pavimento metallico, che correva lungo una fila di stanze tutte uguali una all'altra.

― Immagino che i mobili siano incorporati nelle pareti ― disse Powell. ― O forse non è previsto che uno si sieda o dorma.

Fu nell'ultima cabina, quella più vicina alla prua, che la monotonia venne interrotta. Finalmente c'era qualcosa non di metallo: un oblò bombato, di vetro non riflettente, sotto il quale si vedeva un unico grande quadrante con un unico ago immobile puntato esattamente sullo zero.

― Guarda! ― disse Donovan, indicando l'unica parola scritta sulla scala graduata.

La parola era "Parsec" e il numero in cima al contatore era 1.000.000.

C'erano due ampi sedili, solidi e privi di cuscini. Powell si sedette con cautela e trovò che la poltrona era comoda e anatomica.

― Che cosa ne pensi? ― disse.

― Per me il Cervello ha la febbre cerebrale. Usciamo di qui.

― Non vuoi dare un'occhiata?

― L'ho già data. Sono venuto, ho visto e ne ho avuto abbastanza! ― I capelli di Donovan erano sempre più ritti sulla sua testa. ― Andiamocene di qui, Greg. Ho dato le dimissioni cinque secondi fa e sai che è vietato l'accesso a chi non fa parte del personale.

Powell sfoderò un sorriso melenso e soddisfatto e si accarezzò i baffi. ― Su, Mike, chiudi il rubinetto che ti sta riempiendo di adrenalina il sangue. Anch'io ero preoccupato, fino a poco fa, ma adesso non lo sono più.

― Ah no? Come mai? Ti hanno aumentato l'assicurazione?

― Quest'astronave non è in grado di volare, Mike.

― Come fai a dirlo?

― Be', l'abbiamo visitata tutta, no?

― Credo di sì.

― Fidati di me, l'abbiamo visitata tutta. Hai visto nessuna cabina di pilotaggio, a parte questo posto qui, con l'oblò e il quadrante con su scritto "Parsec"? Hai visto nessun vero comando?

― No.

― E hai visto l'ombra di un motore?

― Dio santo, no!

― E allora! Portiamo la notizia a Lanning, Mike.

Si avviarono imprecando lungo i corridoi anonimi e alla fine si ritrovarono bloccati nel breve passaggio che conduceva al compartimento stagno.

Donovan s'irrigidì. ― Sei stato tu a chiudere ermeticamente il portello, Greg?

― No, non l'ho toccato. Tira quella leva, no?

La leva non si spostò di un millimetro, nonostante gli sforzi intensi di Donovan.

― Non ho visto nessuna uscita di emergenza ― disse Powell. ― Se c'è qualche intoppo, qua, dovranno tirarci fuori fondendo il metallo.

― Già, e dovremo aspettare che si accorgano che qualche cretino ci ha intrappolati dentro ― disse Donovan, concitato.

― Torniamo alla stanza dell'oblò. È l'unica da cui possiamo attirare l'attenzione di qualcuno.

Ma non riuscirono ad attirare l'attenzione di nessuno.

Nell'ultima cabina, il cielo che si vedeva dall'oblò non era più azzurro, ma nero come la pece e punteggiato di stelle. Non era cielo, ma spazio.

Con due tonfi sordi, Powell e Donovan si afflosciarono nei rispettivi sedili.

 

Alfred Lanning accolse la dottoressa Calvin sulla soglia del proprio ufficio. Si accese un sigaro con mano nervosa e le fece cenno di entrare.

― Bene, Susan, siamo a buon punto, mi pare, e Robertson sta mordendo il freno ― disse. ― Voi che risultati avete ottenuto, con il Cervello?

― Bisogna portare pazienza ― disse Susan Calvin, allargando le braccia. ― Il Cervello è più prezioso della posta in gioco che abbiamo in quest'affare.

― Ma è da due mesi che lo state interrogando!

La psicologa rispose con voce piatta ma lievemente minacciosa. ― Preferite occuparvi voi della faccenda?

― Su, sapete benissimo quel che intendevo dire.

― Già, immagino di sì. ― La dottoressa Calvin si tormentò le mani, nervosa. ― Non è così facile. Ho usato metodi indiretti, prudenti, e non ho raggiunto ancora niente di concreto. Le sue reazioni non sono normali. Le sue risposte hanno qualcosa di... strano. Ma la situazione non mi è ancora chiara. E, capite, finché non sappiamo dove sta esattamente l'intoppo, dobbiamo andare con i piedi di piombo. Non sono nemmeno riuscita a intuire quale potrebbe essere la domanda o l'osservazione capace di... di spingerlo oltre l'orlo dell'abisso. E se in quell'abisso finisce per caderci, avremmo per le mani un Cervello completamente inservibile. Non vorrete che questo succeda, vero?

― In ogni caso non può infrangere la Prima Legge.

― Lo pensavo anch'io, ma...

― Non siete più sicura neanche di questo? ― Lanning era visibilmente scioccato.

― Non posso essere sicura di niente, Alfred...

Di colpo si udì il suono agghiacciante della sirena d'allarme. Lanning premette con un gesto convulso il pulsante delle comunicazioni interne e s'irrigidì, davanti alla notizia che gli davano.

― Avete sentito... Susan? ― disse. ― La nave è partita! Avevo mandato mezz'ora fa i due collaudatori a controllarla. Bisognerà che torniate dal Cervello e gli parliate.

 

Imponendosi la calma, Susan Calvin disse: ― Cos'è successo alla nave, Cervello?.

― La nave che ho costruito, signorina Susan? ― disse allegro il Cervello.

― Sì. Cosa le è successo?

― Che diamine, niente. I due uomini che avrebbero dovuto collaudarla si trovavano all'interno e tutto quanto era a posto. Così l'ho fatta partire.

― Ah... sì, magnifico. ― La psicologa aveva qualche difficoltà di respiro. ― Credi che avranno dei problemi?

― Nessun problema di sorta, signorina Susan. Mi sono occupato io di tutto. È una nave belliiiissiima.

― Sì, Cervello, è effettivamente molto bella, ma avranno abbastanza riserve alimentari, a bordo? Staranno a loro agio?

― Di cibo ce n'è in abbondanza.

― Però per loro potrebbe essere uno shock, questa partenza. È troppo improvvisa, Cervello, capisci?

― Staranno benissimo ― l'assicurò il Cervello. ― Dovrebbe essere un'esperienza interessante per loro.

― Interessante? In che senso?

― Così, interessante ― disse enigmatico il Cervello.

― Susan ― sussurrò Lanning, con rabbia, ― chiedetegli se c'è pericolo di morte. Chiedetegli che rischi ci sono.

Susan Calvin assunse un'espressione furiosa. ― Zitto! ― sibilò. E al Cervello chiese, con voce scossa: ― Possiamo comunicare con la nave, vero?.

― Oh, i due uomini sono in grado di udirvi, se li chiamate per radio. Ho provveduto anche a questo.

― Grazie. È tutto, per ora.

Una volta fuori, Lanning investì la psicologa. ― Per la galassia, Susan, se questa storia viene fuori saremo rovinati! Bisogna riportare indietro quei due. Perché non gli avete chiesto direttamente se c'era pericolo di morte?

― Perché ― rispose la Calvin, stanca e frustrata, ― è proprio a quello che non mi posso permettere di accennare. Se il Cervello si trova davanti a un dilemma, questo dilemma riguarda quasi senz'altro la morte. Se l'argomento venisse introdotto bruscamente la macchina potrebbe andare completamente in tilt. E dopo non saremmo ancora di più nei guai? Sentite, il Cervello ha detto che possiamo metterci in comunicazione con i due collaudatori. Allora facciamolo... Vediamo di individuare la loro posizione e di riportarli indietro. Probabilmente non sono in grado di usare i comandi: immagino che sia il Cervello a controllare la nave a distanza. Venite!

 

Ci volle un bel po' prima che Powell riuscisse a riprendersi.

― Mike ― disse, con labbra esangui, ― hai sentito per niente l'accelerazione?

― Eh? ― fece Donovan, con espressione vacua. ― No... no.

Poi strinse forte i pugni, scattò in piedi con improvvisa frenesia e s'incollò al vetro bombato e freddo dell'oblò. Non si vedevano altro che le stelle.

Si girò verso l'altro. ― Devono aver avviato il motore mentre eravamo dentro, Greg. Hanno architettato tutto a bella posta; si sono messi in combutta con il robot e gli hanno ordinato di portarci in quattro e quattr'otto nello spazio. Così se anche avessimo voluto tirarci indietro non avremmo potuto farlo.

― Cosa cavolo dici? Che senso ha spedire nello spazio due uomini che non sanno nemmeno dove stiano i comandi della nave? Come potremmo mai riportarla indietro? No, la nave è partita da sola e senza che ci sia stata alcuna accelerazione. ― Powell si alzò e camminò su e giù per la cabina. Le paratie di metallo echeggiarono del rumore dei suoi passi.

― Mike, questa è la situazione più strana in cui ci siamo mai trovati ― disse, con voce piatta.

― Ma no, davvero? ― fece Donovan, aspro. ― E pensare che mi stavo così divertendo! Perché mi rompi le uova nel paniere?

Powell ignorò il sarcasmo. ― Niente accelerazione... il che significa che la nave ha una propulsione diversa da quelle conosciute.

― Almeno da quelle che conosciamo noi.

― Da quelle che si conoscono in generale. Non ci sono motori soggetti a controllo manuale. Forse sono incorporati nelle pareti. Forse è per quello che le pareti sono così spesse.

― Cosa vai cianciando? ― disse Donovan.

― Perché non mi ascolti? Sto dicendo che qualunque sia l'energia che fa andare l'astronave, la sua fonte è nascosta. Non abbiamo modo di accedere ai comandi, quindi è evidente che la nave è controllata a distanza.

― Dal Cervello?

― Perché no?

― Credi dunque che ci toccherà restare nello spazio finché lui non ci riporterà indietro?

― Non lo escludo. Se è così, non ci resta che aspettare tranquilli. Il Cervello è un robot. Deve seguire la Prima Legge. Non può recar danno agli esseri umani.

Donovan si accomodò piano nel sedile. ― Ne sei proprio convinto? ― Si passò una mano tra i capelli ribelli. ― Senti, questa stupida storia della distorsione spaziale ha messo K.O. il robot della Consolidated, e i capoccioni hanno detto che il Super-pensatore è andato in tilt perché il volo interstellare provoca la morte degli esseri umani. A quale robot bisogna credere, secondo te? Il nostro a quanto ho capito disponeva degli stessi dati dell'altro.

Powell si tirò furiosamente i baffi. ― Non fare finta di non conoscere la robotica, Mike. Prima di tentare anche solo minimamente di infrangere la Prima Legge, un robot si incepperebbe a tal punto da ridursi a un orribile ammasso di rottami. Ci dev'essere una spiegazione semplice a tutta questa faccenda.

― Oh certo, certo. Allora di' al maggiordomo che mi svegli domattina. Se la questione è così semplice, è inutile che mi dia pensiero ed è il caso invece che mi faccia un bel sonnellino ristoratore.

― Giove santo, Mike, perché diavolo ti lamenti? Finora il Cervello ha avuto cura di noi, no? Siamo al caldo. C'è luce. Respiriamo ossigeno. Non c'è nemmeno stata nessuna accelerazione. Neanche un tremito capace di scompigliarti i capelli, nell'ipotesi improbabile che non fossero già scompigliati in partenza.

― Ah sì? Greg, tu devi sapere cose che io non so, altrimenti non ti sembrerebbe così rosea una situazione che invece non ha via d'uscita. Cosa mangiamo? Cosa beviamo? In che punto dello spazio ci troviamo? Come possiamo tornare indietro? E in caso di incidente, dove sono le uscite di sicurezza e dove sono le tute spaziali da infilarsi in tutta fretta? Non ho visto l'ombra di una toilette, né di quella cosa chiamata water che si trova di solito nelle toilette. Sì, certo, qualcuno si sta prendendo cura di noi, ma Dio santo, non...

La voce che interruppe la tiritera di Donovan non era quella di Powell. Non apparteneva ad alcun corpo reale. Era là, sospesa in aria, stentorea e sinistra.

― GREGORY POWELL! MICHAEL DONOVAN! GREGORY POWELL! MICHAEL DONOVAN! COMUNICATECI LA VOSTRA ATTUALE POSIZIONE, PREGO. SE LA NAVE RISPONDE AI COMANDI, RITORNATE ALLA BASE, PREGO, GREGORY POWELL! MICHAEL DONOVAN!

Il messaggio fu ripetuto più volte, macchinalmente, a intervalli costanti e regolari.

― Da dove viene? ― disse Donovan.

― Non lo so ― sussurrò Powell. ― Da dove vengono le luci? Da dove viene tutto quello che c'è?

― E adesso come facciamo a rispondere? ― Erano costretti a parlare nell'intervallo tra i messaggi, che echeggiavano forte nella cabina.

Le pareti erano lisce e nude come può essere il metallo: non c'era nulla su di esse che potesse ricordare un microfono. ― Urla una risposta ― disse Powell.

Donovan eseguì l'ordine. Poi fu Powell a gridare. E infine esclamarono in coro: ― Posizione ignota! Nave fuori controllo! Situazione disperata!

Urlarono a squarciagola, fino a farsi la voce roca. A poco a poco, tra una frase asettica e l'altra, inserirono un intercalare pittoresco, infiorettando alla fine il discorso con violente bestemmie e imprecazioni. Ma la voce stentorea proveniente da chissà dove proseguì imperterrita, comunicando sempre lo stesso identico messaggio.

― Non ci sentono ― gemette Donovan. ― La radio riceve ma non trasmette. ― Si guardò intorno disperato e posò gli occhi a caso su un certo punto della parete. Lentamente, la voce si smorzò fin quasi a diventare inaudibile. Quando si ridusse a un sussurro, Powell e Donovan gridarono un'altra volta la loro risposta, e la gridarono ancora, rauchi, quando intorno si fu fatto silenzio.

Circa un quarto d'ora dopo Powell disse, scoraggiato: ― Perlustriamo di nuovo la nave. Da qualche parte ci sarà pure qualcosa da mangiare. ― Dal suo tono non trapelava la speranza. Anzi, la sua sembrava quasi un'ammissione di sconfitta.

Nel corridoio si separarono: uno andò a destra, l'altro a sinistra. Ciascuno intuiva dove si trovasse l'altro dall'eco dei passi sul pavimento di metallo. Ogni tanto si rincontravano nel corridoio e si buttavano un'occhiata torva, prima di proseguire.

Powell alla fine smise di cercare, e proprio quando aveva perso tutte le speranze sentì rimbombare la voce allegra di Donovan.

― Ehi, Greg, la nave ha impianti idraulici! Come abbiamo fatto a non notarli?

Circa cinque minuti dopo Donovan andò quasi a sbattere contro Powell. ― Però non c'è la doccia... ― disse, e s'interruppe di colpo, rimanendo a bocca aperta.

― Roba da mangiare! ― esclamò, con voce strozzata.

La paratia si era ritirata e al suo posto era visibile una nicchia tondeggiante che conteneva due scaffali. Quello in alto era zeppo di scatolette di ogni forma e grandezza, tutte quante prive di etichette. Le scatolette smaltate del piano inferiore erano invece identiche una all'altra. Donovan sentì d'un tratto uno spiffero freddo all'altezza delle caviglie. La metà inferiore della nicchia era refrigerata.

― Ma come... come...

― Prima non c'era ― disse Powell, secco. ― Quel tratto di paratia è scomparso d'incanto appena sono entrato.

Si mise a mangiare. La scatoletta che scelse era di cibo precotto a riscaldamento automatico e conteneva anche il cucchiaino. Dopo poco si sentì nella stanza odore di fagioli in umido. ― Prendi una scatoletta, Mike!

Donovan esitò. ― Qual è il menù?

― E che ne so! Cosa fai, lo schizzinoso?

― No, ma sulle astronavi si mangiano sempre e solo fagioli. Mi piacerebbe molto prendere qualcos'altro. ― Guardò esitante lo scaffale e scelse una scatola luccicante, dalla forma piatta ed ellittica, che poteva forse contenere salmone o analoghe squisitezze. Esercitò la dovuta pressione e l'aprì.

― Fagioli! ― esclamò, e fece per afferrarne un'altra. Powell lo tirò per un lembo dei pantaloni. ― Sarà meglio che mangi quelli, ragazzo mio. Le riserve alimentari sono limitate e ci potrebbe toccare di restare a bordo parecchio tempo.

Donovan si allontanò di malumore dallo scaffale. ― È tutto qui quello che abbiamo? Fagioli?

― Può darsi.

― Cosa c'è nello scaffale di sotto?

― Latte.

― Solo latte? ― urlò Donovan, furioso.

― A quanto sembra, sì.

Il pasto a base di latte e fagioli fu consumato in silenzio, e appena i due uscirono dalla stanza, la sezione di paratia che si era in precedenza ritirata calò di nuovo al suo posto, perfettamente levigata come prima.

― Tutto quanto automatico ― sospirò Powell. ― Uno non può fare niente. Non mi sono mai sentito così inutile in vita mia. Dove sono gli impianti igienici?

― Là. E neanche quelli c'erano quando abbiamo guardato la prima volta.

Un quarto d'ora dopo tornarono nella cabina dell'oblò e si fissarono dai loro sedili, che erano posti uno di fronte all'altro.

Powell contemplò frustrato il quadrante. L'unica scritta era sempre "Parsec", l'unica cifra sempre 1.000.000. E l'ago era ancora fisso sullo zero.

 

Negli uffici più inaccessibili della U.S. Robots and Mechanical Men Corporation Alfred disse, scoraggiato: ― Non rispondono. Abbiamo provato con tutte le lunghezze d'onda: pubbliche, private, in codice e non. Abbiamo fatto perfino un tentativo con quella roba sub-etere che hanno adesso. E il Cervello continua a non dire niente? ― La domanda era rivolta alla dottoressa Calvin.

― Si rifiuta di dare spiegazioni particolareggiate sull'argomento, Alfred ― disse la robopsicologa, con foga. ― Dice che possono udirci... e quando provo a insistere si fa... be', si fa scontroso. E non dovrebbe, naturalmente... Chi ha mai sentito parlare di un robot scontroso?

― Sarà meglio che ci spieghiate quali risultati avete ottenuto in concreto, Susan ― disse Bogert.

― I risultati sono tutti qui! Il Cervello ammette che l'astronave è esclusivamente sotto il suo controllo. È convintissimo che i due uomini a bordo non corrano alcun pericolo, ma non fornisce dettagli in merito alla questione. E io non oso insistere. Mi sembra però che l'origine del disturbo mentale risieda nel balzo interstellare stesso. Il Cervello è esploso in una risata quando ho tirato fuori l'argomento. Ci sono altri segni di anormalità, ma il più chiaro è questo.

Guardò gli altri, poi proseguì. ― Intendo dire che la sua reazione è stata isterica. Ho lasciato subito cadere il discorso e spero di non aver provocato danni, ma intanto ho ottenuto una minima indicazione. L'isterismo lo posso curare. Datemi dodici ore. Se riuscirò a ristabilire condizioni di normalità, il Cervello riporterà indietro l'astronave.

Bogert d'un tratto sembrò colpito da un'idea. ― Il balzo interstellare! ― disse.

― Il balzo interstellare che? ― domandarono in coro la Calvin e Lanning.

― I dati che il Cervello ci ha fornito per il motore. Sentite... mi è venuta in mente una cosa.

E senza aggiungere altro corse via.

Lanning lo seguì con lo sguardo. ― Voi continuate a occuparvi del Cervello, Susan ― disse brusco alla Calvin.

 

Due ore dopo, Bogert disse concitato: ― Vi assicuro che è così, Lanning. Il balzo interstellare non è istantaneo, visto che la velocità della luce è finita. La vita non può esistere... la materia e l'energia nella forma in cui le conosciamo noi non possono esistere nella distorsione spaziale. Non so che cosa possa avvenire esattamente durante il balzo, ma sono sicuro di avere ragione. È questo che ha mandato in tilt il robot della Consolidated.

 

Donovan aveva l'aria stanca ed era effettivamente stanco. ― Solo cinque giorni?

― Solo cinque giorni, ne sono certo.

Donovan si guardò intorno, avvilito. Le stelle di là dall'oblò apparivano familiari, ma terribilmente indifferenti. Le paratie erano gelide al tatto. Le luci, che si erano riaccese da poco, splendevano fredde. L'ago del quadrante restava ostinatamente fisso sullo zero. E Donovan non riusciva a togliersi di bocca il gusto dei fagioli.

― Ho bisogno di un bagno ― disse, cupo.

Powell alzò un attimo gli occhi. ― Anch'io. Non devi mica sentirti in imbarazzo. Ma a meno che tu non sia disposto a fare il bagno nel latte e a rimanere senza bere...

― Rimarremo comunque senza bere, alla fine. Greg, dove ci porterà questo volo interstellare?

― Se solo lo sapessi. Forse continueremo a viaggiare tutta la vita. E poi da qualche parte arriveremo. O almeno, i nostri scheletri ridotti in polvere da qualche parte arriveranno. Però non è proprio per la faccenda della nostra possibile morte che il Cervello si è inceppato?

― Greg, ho riflettuto ― disse Donovan, che voltava le spalle a Powell. ― È una situazione piuttosto brutta. Non c'è mica molto da fare, altro che camminare su e giù e parlare da soli. Hai sentito cosa succede ai naufraghi dello spazio, no? Impazziscono molto prima di morire di fame. Non lo so, Greg, ma da quando si sono accese le luci io mi sento strano.

Seguì un attimo di silenzio. Poi Powell disse, con un filo di voce: ― Anch'io. Tu cosa provi esattamente?

Donovan si girò verso di lui. ― Mi sento strano dentro. Sono tutto teso e avverto qualcosa come strane pulsazioni. Faccio fatica a respirare. Non riesco a stare fermo.

― Uhm. Non capti delle vibrazioni?

― Come sarebbe?

― Siediti un momento e ascolta. Non è che si avvertano con l'udito, ma si sentono nel corpo. Sono proprio vibrazioni. È come se qualcosa pulsasse da qualche parte, in tutta la nave e quindi anche in noi. Sta' attento...

― Sì... sì. Cosa credi che sia, Greg? Non saremo per caso noi?

― Può darsi. ― Powell si accarezzò piano i baffi. ― Ma potrebbe essere il motore della nave. Magari si sta preparando.

― A che cosa?

― Al balzo interstellare. Potrebbe essere imminente, e chissà cosa diavolo comporta.

Donovan rifletté. Poi disse, con furia: ― E va be', che arrivi pure, questo balzo. Ma vorrei poter fare qualcosa, oppormi in qualche modo. È umiliante dover stare qui ad aspettare.

Circa un'ora dopo Powell guardò la propria mano posata sul bracciolo di metallo del sedile e disse, con gelida calma: ― Tocca la parete, Mike.

Donovan la toccò. ― Trema, Greg.

Perfino le stelle sembravano sfocate. Era come se da qualche parte una macchina enorme stesse accumulando energia attraverso le pareti, Come se la stesse immagazzinando per compiere un balzo gigantesco e pulsasse e vibrasse in un crescendo di potenza.

Poi, all'improvviso, Powell sentì un'acuta fitta di dolore. Sobbalzò sulla sedia, quindi s'irrigidì. Con la coda dell'occhio vide Donovan che apriva la bocca per lasciar andare un grido debole, più simile a un gemito, e infine non sentì più alcun suono e la vista gli si annebbiò. Con un fremito interno lottò contro la coltre di gelo che lo stava avvolgendo e che pareva farsi sempre più spessa.

Poi da quella coltre uscì qualcosa che turbinò in un gorgo di dolore e luce guizzante. Il qualcosa cadde...

... e mulinò

... e precipitò giù

... nel silenzio.

Doveva essere la morte!

Non c'era movimento, non c'erano sensazioni. La coscienza era ottenebrata, confusa: percepiva solo l'oscurità, il silenzio e segni di una lotta impalpabile.

E soprattutto percepiva l'eternità.

L'io di Powell era ridotto a un sottile filo bianco, un filo freddo e impaurito.

Poi vennero le parole, melliflue e rimbombanti. Echeggiarono sopra di lui in una schiuma di suoni: ― Avete trovato scomoda la vostra bara negli ultimi tempi? Perché non provate le lussuose bare estensibili Morbid M. Cadaver? Sono costruite scientificamente in modo da adattarsi alle curve naturali del corpo e sono arricchite di vitamina B. Se volete stare comodi usate le bare Cadaver. Non dimenticate che... dovrete... rimanere... morti... per... molto... molto... tempo!.

Non era un vero e proprio suono, ma qualunque cosa fosse, svanì in un sussurro dolciastro e rombante.

Il filo bianco che era l'io di Powell cercò inutilmente di tener testa agli eoni intangibili che esistevano tutt'intorno a lui e crollò su se stesso appena le voci da soprano di cento milioni di spettri urlarono, in un crescendo acuto e penetrante:

Sarò lieto quando morirai, farabutto che non sei altro.

Sarò lieto quando morirai, farabutto che non sei altro.

Sarò lieto...

Il canto salì per una scala a chiocciola di suoni violenti, fino al livello degli ultrasuoni non percepibili dall'orecchio umano e anche oltre...

Il filo bianco sussultò per una fitta di dolore. Poi si tese, calmandosi.

Le voci erano normali... ed erano tante. Pareva che un'intera folla parlasse; uno sciame brulicante di gente che gli correva intorno con movimenti precipitosi lasciandosi dietro brandelli di parole.

― In che modo ti hanno beccato, ragazzo? Sembri piuttosto malconcio...

― ... con una pallottola, credo, ma ho buone ragioni per pretendere che...

― ... io avevo provato ad andare in Paradiso, ma il vecchio San Pietro...

― Nooo, è che avevo una buona entratura con lui. Siamo in ottimi rapporti...

― Ehi, Sam, vieni qua...

― Ce l'avete un portavoce? Belzebù dice che...

― ... ti vuoi sbrigare, anima dannata? Ho un appuntamento con Sat...

E sopra tutto quel rumore si udiva la nota voce stentorea che ruggiva incalzante:

― PRESTO! PRESTO! PRESTO! Muovete le ossa e non fateci aspettare! Ce ne sono tanti altri in fila! Tenete pronti i certificati e assicuratevi che ci sia stampato sopra il visto di S. Pietro. Guardate se siete all'entrata giusta. Ci sarà un sacco di fuoco per tutti. Ehi, tu... TU, LAGGIÙ! METTITI IN FILA O...

Il filo bianco che era Powell si fece piccolo piccolo e indietreggiò, davanti a quell'urlo. Sentì la fitta di dolore provocatagli dal dito puntato contro di lui, poi udì un arcobaleno di suoni che lasciò frammenti dispersi nel suo cervello sofferente.

E infine Powell si ritrovò di nuovo nel sedile. Era tutto scosso e tremante.

Donovan stava proprio allora aprendo gli occhi, e li sgranò fin quasi a farli uscire dalle orbite.

― Greg ― sussurrò in una specie di singhiozzo, ― ti pareva di essere morto?

― Sì... ero convinto di essere morto. ― Powell non riconobbe la propria voce, che era rauca e gracchiante.

Donovan tentò goffamente di alzarsi, ma non ci riuscì. ― Siamo vivi, adesso? O questa storia continuerà ancora?

― Io... io mi sento vivo ― disse Powell, con la stessa voce gracchiante di prima. ― E tu... ― aggiunse, con cautela, ― hai... hai udito niente mentre... mentre eri morto?

Donovan rimase zitto, poi annuì piano. ― E tu?

― Sì. Hai sentito parlare di bare... e un coro di voci femminili che cantava... e i discorsi che la gente faceva mentre era in fila per andare all'inferno?

Donovan scosse la testa. ― No, ho sentito una sola voce.

― Gridava?

― No. Era sommessa, ma dura e raspante come una lima passata sui polpastrelli. Si trattava di un sermone, sai. Un sermone sul fuoco dell'inferno. Descriveva i tormenti del... be', sai benissimo a cosa mi riferisco. Una volta ho sentito un sermone tipo quello... o quasi.

Aveva il viso imperlato di sudore.

Si accorsero che dall'oblò filtrava luce. Era una luce fioca, bianco-azzurra, e il disco lontano che ne era la fonte non pareva affatto il buon vecchio Sole.

Powell indicò con l'indice tremante l'unico strumento di bordo della nave. L'ago, rigido e fiero, era puntato sulla linea dei trecentomila parsec.

― Se l'ago dice la verità, Mike ― disse, ― dovremmo trovarci decisamente fuori dalla Galassia.

― Per lo spazio, Greg! ― fece Donovan. ― Siamo stati i primi uomini a volare oltre il sistema solare!

― Già, proprio così. Siamo fuggiti via dal nostro sole. Siamo fuggiti via dalla Galassia. Mike, quest'astronave è la soluzione a tutti i nostri problemi. Libererà l'umanità da quelli che sono sempre stati i suoi confini; le consentirà di raggiungere tutte le stelle esistenti. Milioni, miliardi di stelle.

Poi tornò di colpo a una realtà più immediata e più dura. ― Però, come faremo a tornare indietro?

Donovan sorrise, scosso. ― Oh, andrà tutto bene. La nave ci ha portato qui e la nave ci riporterà indietro. Io vado a mangiare un altro po' di fagioli.

― Ma... aspetta un attimo, Mike. Se ci riporterà indietro nello stesso modo in cui ci ha condotto fin qui...

Donovan si arrestò di colpo e si lasciò cadere pesantemente sul sedile.

― Dovremo... morire di nuovo, Mike ― continuò Powell.

― Be' ― sospirò Donovan, ― se così ha da essere, così sarà. Se non altro non è una condizione permanente. Non troppo permanente.

 

Susan Calvin parlava con svogliatezza, adesso. Da sei ore stava cercando di pungolare il Cervello, sempre senza frutto. Era stanca di ripetere sempre le stesse cose, stanca di usare circonlocuzioni, stanca di tutto.

― Senti, Cervello, ho ancora una domanda. Devi sforzarti al massimo di rispondere nel modo più semplice. Sei veramente sicuro di che cosa significhi questo balzo interstellare? Voglio dire, sei sicuro che li porterà molto lontano?

― Fin dove vorranno andare, signorina Susan. Santo cielo, non ci sono trucchi, nella distorsione spaziale.

― E cosa vedranno quando arriveranno alla meta?

― Stelle e roba del genere. Cosa credete che possano vedere?

― Allora saranno ancora vivi? ― chiese la Calvin, con cautela.

― Certo!

― Il balzo interstellare non farà loro alcun male?.

S'irrigidì, vedendo che il Cervello non rispondeva niente. Ecco quello era il punto! Il punto dolente...

― Cervello ― implorò, con un filo di voce. ― Mi senti, Cervello?

Le parole del robot furono sommesse, esitanti. ― Devo proprio rispondere? ― disse. ― A proposito del balzo, cioè?

― Se non vuoi, no. Ma sarebbe interessante... intendo dire, se volessi rispondere. ― Susan Calvin tentò di mostrarsi più spigliata che poté.

― Uhm. Così rovinate tutto.

La psicologa scattò in piedi con occhi che brillavano del lampo dell'intuizione.

― Dio santo ― mormorò. ― Dio santo.

E di colpo sentì la tensione accumulata in ore e giorni allentarsi. In seguito disse a Lanning: ― Vi assicuro che andrà tutto bene. No, adesso vorrei che mi lasciaste in pace. La nave tornerà perfettamente intatta, con gli uomini a bordo, e io in questo momento ho bisogno di riposare. Devo riposare. Andatevene, per favore.

 

L'astronave riapparve sulla Terra senza produrre la minima vibrazione, proprio com'era accaduto quando era partita. Atterrò nel punto preciso da cui aveva decollato e il portello principale si spalancò subito. Powell e Donovan posarono i piedi sul terreno con molta cautela, grattandosi il mento non rasato.

Poi, con un gesto lento ma deciso, Donovan si mise in ginocchio e stampò un bacio commosso e schioccante sul cemento della pista.

I due fecero cenno di allontanarsi alla folla che si stava raccogliendo loro intorno e respinsero la coppia di premurosi infermieri che era appena scesa dall'ambulanza reggendo una barella.

― Dov'è la doccia più vicina? ― disse Gregory Powell.

E fu condotto via assieme a Donovan.

Raccolti intorno al tavolo c'erano, oltre ai due collaudatori, tutti i cervelli più brillanti della United States Robots and Mechanical Men Corporation.

Powell e Donovan riassunsero con parole drammatiche, vivide e pittoresche tutto quanto il loro viaggio, senza tralasciare il minimo particolare.

Seguì un silenzio che fu Susan Calvin a rompere. Nei pochi giorni che erano passati dal ritorno dell'astronave aveva riacquistato la sua ferrea calma velata di asprezza, ma mostrava ancora a tratti qualche segno di imbarazzo.

― Per la verità ― disse, ― la responsabilità di quanto è accaduto è decisamente mia. Quando sottoponemmo per la prima volta il problema a! Cervello, io, come spero qualcuno di voi ricorderà, osservai che era molto importante che il robot respingesse ogni dato capace di generare un dilemma. Così gli dissi, all'incirca: "Non turbarti troppo per informazioni che riguardassero la morte di esseri umani. A noi non importa nulla della cosa. Perciò quando arrivi a un foglio del genere non devi far altro che fermarti e restituircelo".

― Uhm ― fece Lanning. ― E allora?

― Allora è chiaro cos'è successo. Quando nel Cervello furono immessi i dati relativi all'equazione che stabiliva la lunghezza minima del balzo interstellare, il robot capì che tale lunghezza significava la morte, per gli esseri umani. È stato indubbiamente a quel punto che la macchina della Consolidated è andata in tilt. Ma io, parlando con il Cervello, avevo sminuito l'importanza della morte. Certo non l'avevo sminuita del tutto, perché la Prima Legge non può comunque mai essere infranta, ma avevo sdrammatizzato abbastanza le cose da permettere al robot di dare una seconda occhiata all'equazione. Il Cervello ha avuto perciò il tempo di capire che dopo che l'intervallo previsto per il balzo fosse passato, gli uomini sarebbero tornati in vita, così come sarebbe tornata in vita l'astronave, con tutta la sua materia e la sua energia. In altre parole il Cervello ha capito che questa cosiddetta "morte" era un fenomeno strettamente temporaneo. È chiaro adesso?

Susan Calvin si guardò intorno. Tutti la seguivano attentamente.

― Così ha accettato i dati ― continuò, ― ma non senza subire un lieve shock. Benché la morte fosse temporanea e benché ne avessi sminuito l'importanza, restava pur sempre l'idea del danno agli esseri umani, sicché il robot ha accusato un certo squilibrio.

Fece una breve pausa, poi finì di spiegare con calma. ― Così ha sviluppato come meccanismo di fuga un certo senso dell'umorismo. Era il suo modo di evitare almeno in parte la realtà. È diventato una specie di burlone.

Powell e Donovan scattarono in piedi.

― Cosa? ― gridò Powell.

Donovan si espresse con un linguaggio molto più vivido.

― Sì ― disse Susan Calvin. ― Si è preso cura di voi e della vostra incolumità, ma non vi ha permesso di manovrare i comandi, che non erano destinati a voi ma solo a lui, al Cervello burlone. Noi potevamo spedirvi messaggi via radio, ma voi non eravate in grado di rispondere. Le vostre riserve alimentari erano abbondanti, ma consistevano solo di latte e fagioli. Poi siete per così dire "morti" e rinati, ma il periodo della morte è stato reso... ecco, interessante. Non so proprio come sia riuscito a realizzare tutto ciò. È stato un piccolo scherzo che si è concesso per consolarsi dello shock subito, ma non intendeva fare alcun male.

― Non intendeva fare alcun male?! ― sibilò Donovan. ― Ah, se solo quel piccolo furbo bastardo avesse un collo!

Lanning sollevò la mano per calmarlo. ― D'accordo, è stato un pasticcio, ma ormai è tutto finito. E adesso?

― Adesso ― disse calmo Bogert, ― bisognerà naturalmente perfezionare il motore a distorsione spaziale. Ci dev'essere il modo di risolvere il problema dell'intervallo di tempo richiesto dal balzo. Ormai siamo l'unica grossa compagnia che dispone di un super-robot pensante, quindi se il metodo esiste, siamo quelli che hanno più probabilità di trovarlo. E se questo succederà, la U.S. Robots avrà il monopolio dei viaggi interstellari e l'umanità sarà in grado di fondare un impero galattico.

― E la Consolidated? ― disse Lanning.

― Ehi ― interloquì Donovan, ― vorrei avanzare una proposta. Quelli della Consolidated hanno messo in difficoltà la U.S. Robots. Le difficoltà non erano così grosse come loro si aspettavano e tutto si è risolto bene, ma non avevano certo intenzioni pie. E Greg ed io siamo stati le maggiori vittime della beffa.

― Bene, volevano una risposta, no? E ce l'hanno. Mandate loro l'astronave, garantendogli che funziona, così la U.S. Robots potrà incassare i suoi duecentomila più il rimborso spese. E se la collauderanno, lasciamo che il Cervello si diverta ancora un po' prima di essere riportato a condizioni di normalità.

― Mi pare una proposta giusta e sensata ― disse Lanning, serio.

― E che tra l'altro rispetta il contratto ― aggiunse Bogert, assorto.

 

― Ma non andò così, ― disse la dottoressa Calvin, pensierosa. ― Oh, alla fine quell'astronave e altre come quella diventarono proprietà del governo. Il Balzo attraverso l'iperspazio fu perfezionato e adesso abbiamo colonie umane sui pianeti di alcune tra le stelle più vicine. Ma non andò così.

Avevo terminato il pranzo e la osservavo attraverso il fumo della mia sigaretta.

― Quello che ha veramente importanza è ciò che accadde agli esseri umani, qui sulla Terra, negli ultimi cinquant'anni. Quando nacqui, giovanotto, il mondo era uscito da poco dall'Ultima Guerra Mondiale. Fu uno dei periodi più tristi della storia... ma segnò la fine del nazionalismo. La Terra era diventata troppo piccola per le nazioni, che cominciarono a federarsi nelle Regioni. Ci volle molto tempo. Quando nacqui io, gli Stati Uniti d'America erano ancora una nazione e non soltanto una parte della Regione Settentrionale. Infatti, questa società si chiama ancora oggi United States Robots... E il passaggio dalle nazioni alle Regioni, che ha stabilizzato la nostra economia e ci ha portati a una situazione che corrisponde all'Età dell'Oro, se confrontiamo questo secolo al secolo precedente, fu compiuto dai nostri robot.

― Lei allude alle Macchine, ― dissi. ― Il Cervello di cui mi ha parlato fu la prima delle Macchine, non è vero?

― Sì, è vero. Ma io non stavo pensando alle Macchine. A un uomo, piuttosto. è morto l'anno scorso. ― E nella sua voce c'era una sfumatura di profondo dolore. ― O per lo meno fece in modo di morire, perché sapeva che non avevamo più bisogno di lui... Stephen Byerley.

― Sì, so benissimo di chi sta parlando.

― Cominciò la sua carriera politica nel 2032. Allora lei era soltanto un bambino, quindi non può ricordare quell'episodio. La sua campagna per  l'elezione a Sindaco fu certamente la più strana di tutta la storia dell'umanità...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA PROVA

Francis Quinn era un uomo politico della nuova scuola. Si tratta naturalmente di un'espressione priva di significato, come tutte le espressioni di questo tipo. La maggior parte delle "nuove scuole" che abbiamo erano già presenti nella vita sociale dell'antica Grecia e forse, se avessimo a disposizione informazioni più dettagliate, nella vita sociale degli antichi Sumeri e di chi viveva in palafitte sui laghi della Svizzera preistorica.

Ma, per evitare preamboli che potrebbero risultare troppo noiosi e difficili, sarà forse meglio chiarire subito che non aspirava a cariche né sollecitava voti, non pronunciava discorsi né faceva riempire le urne di schede truccate. Non più di quanto Napoleone premesse personalmente il grilletto nella battaglia di Austerlitz.

E poiché la politica produce incontri tra le persone più disparate, dall'altro lato del tavolo stava seduto adesso Alfred Lanning, con le folte sopracciglia bianche più che mai corrugate e gli occhi che esprimevano, oltre alla consueta impazienza, una chiara irritazione. Si vedeva bene che non era per nulla soddisfatto.

Ma se anche Quinn si fosse accorto del suo stato d'animo, non ne sarebbe rimasto affatto turbato. Parlò con tono cordiale, forse il tono che la sua stessa professione gli imponeva.

― Immagino conosciate Stephen Byerley, dottor Lanning.

― Ho sentito parlare di lui. Come tanta altra gente, del resto.

― Sì, e ne ho sentito parlare anch'io, naturalmente. Magari intendete votare per lui, alle prossime elezioni...

― Non saprei ― disse Lanning, con un'accentuata sfumatura di asprezza. ― Non mi interesso di politica, per cui non so nemmeno se si presenti candidato.

― Potrebbe diventare il nostro futuro sindaco. Naturalmente adesso è soltanto un avvocato, ma le grandi querce...

― Sì ― lo interruppe Lanning, ― conosco quel detto. Ma mi domandavo se fosse possibile arrivare al nocciolo della questione.

― Siamo già al nocciolo della questione, dottor Lanning. ― Quinn parlava in tono molto pacato. ― È mio interesse fare in modo che il signor Byerley non diventi mai nulla più che il procuratore distrettuale che è. Ed è vostro interesse aiutarmi nel mio intento.

― Nel mio interesse? Oh, andiamo! ― Lanning corrugò ancora di più le sopracciglia.

― Be', diciamo allora nell'interesse della U.S. Robots and Mechanical Men Corporation. Sono venuto da voi, che siete il direttore emerito delle ricerche, perché so che all'interno dell'azienda avete un po' il ruolo dell'"anziano statista". Vi ascoltano con il dovuto rispetto, ma nell'ambito dei rapporti con la proprietà non siete troppo vincolato. Avete insomma una notevole libertà d'azione, anche di un tipo d'azione magari non eccessivamente ortodosso.

Il dottor Lanning rimase un attimo in silenzio a riflettere. Poi disse, in tono meno aspro: ― Non vi seguo proprio, signor Quinn.

― Non mi stupisce, dottor Lanning. Ma la faccenda è abbastanza semplice. Vi spiace se fumo? ― Quinn si accese una sigaretta sottile con un accendino semplice ma elegante, poi il suo viso dagli zigomi pronunciati assunse un'espressione placida e leggermente divertita. ― Parlavamo dunque del signor Byerley, un personaggio strano e insolito. Fino a tre anni fa era un perfetto sconosciuto, mentre adesso ha conquistato una notevole fama. È un uomo energico e abile, certo il procuratore distrettuale più capace e intelligente che abbia mai conosciuto. Purtroppo non è mio amico...

― Capisco ― disse Lanning, macchinalmente. E si fissò assorto le unghie.

― Durante lo scorso anno ― continuò tranquillo Quinn, ― ho avuto occasione di svolgere indagini accurate sul conto del signor Byerley. Vedete, è sempre molto utile informarsi dettagliatamente sui trascorsi degli uomini politici riformisti. Se sapeste quante volte operazioni del genere si sono rivelate preziose... ― Fece una pausa, osservando con un sorriso freddo la punta accesa della sigaretta. ― Ma il passato del signor Byerley non offre alcun elemento di particolare interesse. Una vita tranquilla in una piccola città, educazione presso un college, una moglie morta giovane, un incidente d'auto dal quale si è ripreso dopo parecchio tempo, la laurea in legge, il trasferimento nella grande metropoli, dove ha cominciato a fare il procuratore.

Francis Quinn scosse lentamente la testa, poi aggiunse: ― Ma la sua vita attuale, quella sì che è interessante. Il nostro procuratore distrettuale non mangia mai!

Lanning alzò di colpo la testa fissando il suo interlocutore con occhi penetranti. ― Come avete detto, scusate?

― Ho detto che il nostro procuratore distrettuale non mangia mai ― ripeté l'altro, scandendo le parole. ― Se volete correggo la mia affermazione. Nessuno ha mai visto Byerley né mangiare né bere. Mai. Vi rendete conto? Mai, proprio mai.

― Mi sembra impossibile. Potete fidarvi di chi ha svolto le indagini?

― Certamente, e il fatto non mi sembra per nulla impossibile. Poi, come vi dicevo, nessuno ha mai visto Byerley nemmeno bere, non dico bevande alcooliche, ma neanche semplice acqua. Né risulta che dorma. Inoltre vi sono altri elementi fuori della norma, tuttavia credo di avervi esposto a sufficienza il succo della vicenda.

Lanning si appoggiò allo schienale della poltrona. I due si fissarono in un silenzio eloquente, poi il vecchio robotologo scosse la testa. ― No. È chiaro che se associo le vostre affermazioni al fatto che vi siate rivolto a me, non posso che trarre una certa conclusione dal discorso, e quella conclusione è assurda.

― Ma Byerley non è assolutamente umano, dottor Lanning.

― Se mi aveste detto che è Satana sotto mentite spoglie, sarei stato un filo meno scettico di quanto non lo sia in questo momento.

― Vi assicuro che è un robot, dottor Lanning.

― Vi assicuro che è l'idea più assurda che mi sia mai capitato di sentire, signor Quinn.

Seguì di nuovo un silenzio carico di sfida.

― Tuttavia ― disse Quinn, spegnendo la cicca con estrema cura, ― dovete controllare l'assurdità di tale idea con tutti i mezzi che ha a disposizione la compagnia.

― Non posso proprio assumermi questo incarico, signor Quinn. Non avrete certo la pretesa che la compagnia si occupi di politica locale, vero?

― Non avete scelta. Poniamo che io renda pubbliche le informazioni che ho avuto senza suffragarle con dimostrazioni tangibili. Le prove indiziarie sono già sufficienti.

― Agite pure come vi pare.

― Ma agire così non sarebbe soddisfacente, dal mio punto di vista. Preferirei di gran lunga disporre di prove concrete. E una simile linea d'azione non converrebbe nemmeno a voi, perché la pubblicità data al caso danneggerebbe parecchio la compagnia. Immagino conosciate benissimo le leggi severe che regolano l'uso dei robot sui pianeti abitati...

― Certo! ― disse Lanning, brusco.

― Sapete che la United States Robots and Mechanical Men Corporation è l'unica azienda di tutto il sistema solare che fabbrica robot positronici, e se Byerley è un robot, è sicuro un robot positronico. Sapete anche che tutti i robot positronici sono dati a noleggio, non venduti, che la compagnia mantiene la proprietà e la responsabilità su ciascun robot, e che quindi deve rispondere di tutte le azioni che essi commettono.

― È molto facile dimostrare che la compagnia non ha mai costruito un robot che si possa confondere con un essere umano, signor Quinn.

― Davvero lo si può dimostrare? Tanto per discutere delle possibilità teoriche, naturalmente.

― Certo. Siamo senz'altro in grado di farlo.

― E in segreto anche, immagino. Senza che l'operazione venga registrata nei vostri archivi.

― No, questo no, signore. Stiamo parlando di cervelli positronici, e in questo campo i fattori in gioco sono troppi. Il controllo del governo è severissimo.

― D'accordo, ma i robot sono soggetti a usura, a guasti, a difetti di funzionamento... e a volte vengono smantellati.

― In quel caso il cervello positronico viene riutilizzato oppure distrutto.

― Davvero? ― disse Quinn, con una sfumatura di sarcasmo nella voce. ― E se, naturalmente per un caso fortuito, un cervello non venisse distrutto e ci fosse lì pronta una struttura umanoide ad accoglierlo?

― Questo è impossibile!

― Sareste comunque costretti a dimostrarlo al governo e alla gente, per cui non vi conviene dimostrarlo a me adesso?

― Ma a che scopo avremmo fatto una cosa del genere? ― sbottò Lanning, esasperato. ― Che motivo avremmo mai potuto avere? Cercate di ammettere almeno che siamo forniti di un minimo di buon senso!

― Vi prego, caro signore. La compagnia riterrebbe certo molto vantaggioso che le varie regioni permettessero l'uso di robot positronici umanoidi sui pianeti abitati. Ne trarrebbe infatti enormi profitti. Non sarebbe una buona idea cercare di abituare la gente agli automi dimostrandole che sono in grado di svolgere efficacemente le funzioni di avvocato, di sindaco eccetera? Una volta rotto il ghiaccio sarebbe semplice vendere ogni tipo di robot. Volete acquistare i nostri robot maggiordomi? Ecco qua...

― Oh sì, sì, sarebbe proprio un'idea fantastica. Davvero divertente, per non dire assurda e ridicola.

― Già. Allora perché non mi provate che le cose non stanno così? Preferite doverlo provare all'opinione pubblica?

La luce nell'ufficio era sempre più fioca, ma non abbastanza fioca da nascondere l'espressione frustrata di Alfred Lanning, che era rosso in viso. Il robotologo toccò lentamente un pulsante e gli illuminatori incorporati nelle pareti si accesero, diffondendo un tenue chiarore.

― E va bene ― brontolò. ― Vedremo.

 

Non era facile descrivere il viso di Stephen Byerley. Secondo l'anagrafe l'avvocato era un uomo di quarant'anni, ma erano quarant'anni portati bene. Aveva un'aria sana, florida e cordiale e sfatava il luogo comune secondo cui "si dimostra sempre la propria età".

Il suo aspetto giovanile era particolarmente evidente quando rideva, e in quel momento stava appunto ridendo. La sua era una risata forte e fragorosa, che si spegneva un attimo per poi ricominciare...

Alfred Lanning contrasse la faccia in una rigida smorfia di acuta disapprovazione. Rivolse un gesto vago alla donna che gli sedeva accanto, ma lei si limitò a increspare leggermente le labbra sottili ed esangui.

Byerley riuscì finalmente con un singulto a smettere, o quasi, di ridere.

― Davvero, dottor Lanning? Davvero? Io... io... un robot?

― Non l'ho affermato io, signore ― sibilò Lanning. ― Sarei felicissimo che foste un normale membro dell'umanità. Dal momento che la nostra compagnia non vi ha costruito, sono sicurissimo che lo siete, almeno dal punto di vista legale. Ma poiché a insinuare che siete un robot è stata una persona di una certa importanza, che oltretutto parlava in tutta serietà...

― Non fatemi il suo nome, se questo può mettere anche minimamente in crisi la vostra morale granitica, ma supponiamo, così per ipotesi, che si tratti di Frank Quinn, e continuiamo pure il discorso.

Lanning sbuffò per quell'interruzione e, accigliato, fece una pausa prima di proseguire con ancor maggiore freddezza. ― ... Dicevo che è un uomo di una certa importanza sulla cui identità non m'interessa discutere, e poiché appunto parlava in tutta serietà, sono costretto a chiedere la vostra collaborazione per dimostrargli che si sbaglia. Se quest'uomo rendesse pubbliche le sue convinzioni, e ha i mezzi per farlo, per la U.S. Robots che io rappresento sarebbe un brutto colpo, anche se l'accusa non fosse affatto fondata. Mi capite?

― Oh, sì, comprendo benissimo la vostra posizione. L'accusa in sé è assurda, ma la situazione in cui vi trovate voi no. Scusatemi per la mia risata, che può esservi sembrata offensiva. È stato per l'accusa che ho riso, non per il problema che tocca affrontare a voi. Come posso aiutarvi?

― La risposta può essere semplicissima. Basta che vi sediate al ristorante, che mangiate in presenza di qualche testimone e che vi lasciate fotografare. ― Lanning si appoggiò allo schienale della poltrona, contento che la parte più imbarazzante del colloquio fosse finita. La donna che gli sedeva accanto osservò Byerley con espressione assorta, ma non intervenne nel discorso.

Stephen Byerley si soffermò a guardarla un attimo, poi tornò a rivolgersi al robotologo e per un po' accarezzò pensieroso il fermacarte di bronzo che costituiva l'unico ornamento della scrivania.

Infine disse, calmo: ― Credo di non poter soddisfare la vostra richiesta ―. Quindi sollevò una mano e aggiunse: ― No, aspettate che mi spieghi, dottor Lanning. Comprendo che tutta questa faccenda vi disgusti, che siate stato costretto a occuparvene contro la vostra volontà, che vi sentiate obbligato a recitare una parte sgradevole e addirittura grottesca, ma poiché nella questione sono coinvolto più io di voi, cercate di essere tollerante.

― Innanzitutto, che cosa vi fa pensare che Quinn, che voi definite un uomo di una certa importanza, non vi abbia ingannato con il preciso intento di indurvi a fare quello che state facendo?

― Be', mi pare molto improbabile che una persona che gode di stima e rispetto corra il rischio di coprirsi di ridicolo, se non è certo di muoversi su un terreno sicuro.

― Non conoscete Quinn ― disse Byerley, con aria leggermente divertita. ― Riuscirebbe a trovare un terreno sicuro anche su una sporgenza rocciosa troppo ripida perfino per le capre. Immagino che vi abbia esposto i particolari dell'indagine che afferma di aver fatto svolgere su di me, vero?

― Mi ha detto abbastanza per convincermi che la nostra compagnia avrebbe più difficoltà a confutare direttamente le sue accuse che a chiedere a voi di toglierci dall'impaccio.

― Allora gli credete quando dichiara che non mangio mai? Voi siete uno scienziato, dottor Lanning. La logica è il vostro pane quotidiano. Nessuno mi ha mai visto mangiare, quindi io non mangio mai. Vi pare una dimostrazione logica, questa?

― State usando una tattica da avvocato per rendere complicata una situazione che mi pare in realtà molto semplice.

― Al contrario, sto cercando di chiarire una situazione che voi e il dottor Quinn avete reso complicata. Vedete, è vero che non dormo molto, e in ogni caso non dormo certo in pubblico. Non mi è mai piaciuto mangiare in compagnia, una peculiarità del mio carattere che è sicuro insolita e probabilmente di origine nevrotica, ma che non danneggia nessuno. Sentite, dottor Lanning, permettetemi di avanzare un'ipotesi. Supponiamo che un uomo politico deciso a sconfiggere ad ogni costo un candidato riformista svolgesse indagini sulla sua vita privata e s'imbattesse in piccole stranezze come quelle cui ho appena accennato. Supponiamo che per distruggere la reputazione del candidato si rivolgesse alla U.S. Robots, considerandola la più adatta ad aiutarlo a raggiungere il suo scopo. Credete proprio che vi direbbe: "Il tal dei tali è un robot perché non mangia quasi mai in compagnia, perché non l'ho mai visto addormentarsi mentre dibatteva una causa, perché una volta ho sbirciato dentro la sua finestra nel cuore della notte e l'ho visto seduto a leggere un libro e perché ho aperto il suo frigorifero e ho scoperto che era vuoto?"

― Se vi dicesse questo, voi gli fareste subito mettere la camicia di forza. Ma se vi dicesse: "Non dorme mai, non mangia mai", rimarreste così colpito dall'affermazione, che non vi accorgereste che tale affermazione non è dimostrabile. E vi prestereste al suo gioco, aiutandolo nei suoi progetti.

― Che voi consideriate o meno questa storia seria ― disse Lanning, caparbio e minaccioso, ― per porre fine alla questione basterebbe che voi, come vi ho proposto, consumaste il famoso pasto.

Byerley tornò a guardare la donna, che lo osservava ancora con occhi privi di espressione. ― Scusatemi, ma non sono sicuro di avere afferrato bene il vostro nome. Siete la dottoressa Susan Calvin o mi sbaglio?

― Non vi sbagliate, signor Byerley.

― Siete la psicologa della U.S. Robots, vero?

― Non psicologa, ma robopsicologa.

― Oh, perché, i robot sono così diversi dagli uomini, dal punto di vista mentale?

― Diversissimi. ― La Calvin si concesse un sorriso gelido. ― I robot sono fondamentalmente onesti.

L'avvocato abbozzò un sorriso. ― Una battuta cattiva, per gli uomini. Ma ciò che volevo dirvi è questo: dal momento che siete una psico... una robopsicologa e anche una donna, avrete senz'altro provveduto a qualcosa cui il dottor Lanning non ha pensato di provvedere.

― Cioè?

― Avrete, immagino, portato della roba da mangiare nella borsa.

Gli occhi abitualmente inespressivi di Susan Calvin brillarono un attimo. ― Voi mi sorprendete, signor Byerley.

E aprendo la borsa tirò fuori una mela e la offrì all'avvocato. Il dottor Lanning, dopo un moto iniziale di meraviglia, osservò intento quel gesto.

Stephen Byerley addentò con calma la mela e con altrettanta calma ne masticò e ingoiò i bocconi.

― Avete visto, dottor Lanning?

Il dottor Lanning sorrise con tale sollievo, che perfino le sue sopracciglia cessarono di essere corrugate. Ma il sollievo durò solo un fragile secondo.

Perché Susan Calvin disse: ― Ero curiosa di vedere se l'avreste mangiata, ma naturalmente, in questo caso, ciò non prova nulla.

Byerley sorrise. ― Ah no?

― Certo che no. È chiaro, dottor Lanning, che se il signor Byerley fosse un robot umanoide, sarebbe un'imitazione perfetta, quasi troppo umano per essere credibile. Dopotutto, è da una vita intera che vediamo esseri umani e sarebbe impossibile rifilarci per vero qualcosa che somigliasse soltanto vagamente a noi. Dunque il robot dovrebbe essere perfetto. Osservate la pelle del signor Byerley, le sue iridi, la struttura ossea delle mani. Se è un robot, vorrei tanto che fosse stata la nostra compagnia a fabbricarlo, perché avrebbe fatto davvero un buon lavoro. Pensate proprio che chi si fosse preoccupato di curare particolari così delicati avrebbe tralasciato di provvedere a inserire congegni preposti all'ingestione di cibo, al sonno e all'evacuazione? Magari tali congegni sarebbero stati destinati solo a casi di emergenza, come ad esempio quello che si sta verificando ora. Quindi, se tutto ciò fosse vero, che il signor Byerley abbia mangiato una mela non significherebbe proprio niente.

― Sentite ― ringhiò Lanning, ― non sono affatto lo scemo per il quale voi due state cercando di farmi passare. Non m'interessa se il signor Byerley è umano o non umano. Mi interessa togliere la U.S. Robots da questo inghippo. Un pranzo consumato in pubblico porrebbe fine una volta per tutte alla questione, qualunque cosa decidesse di fare Quinn. E dopo potremmo lasciar discutere dei cavilli gli avvocati e i robopsicologi.

― Ma dottor Lanning ― disse Byerley, ― dimenticate l'aspetto politico della situazione. Io desidero tanto essere eletto quanto Quinn desidera mettermi i bastoni tra le ruote. A proposito, vi siete accorto che vi è sfuggito il suo nome? È stato un mio piccolo trucchetto da azzeccagarbugli: ero sicuro che prima della fine della conversazione l'avreste nominato.

Lanning arrossì. ― E cosa c'entrano le elezioni con questa storia?

― La pubblicità è un'arma a doppio taglio, signore. Se Quinn vuole insinuare che sono un robot e ha il coraggio di dirlo ai quattro venti, io avrò il coraggio di stare al suo gioco.

― Intendete dire che... ― Lanning era chiaramente allibito.

― Proprio così. Intendo dire che lo lascerò procedere per la sua strada. Lui sceglierà la corda, ne saggerà la resistenza, ne stabilirà la lunghezza. E quando avrà preparato il cappio e ci avrà messo la testa dentro con un bel sogghigno, mi resterà ben poco da fare per completare l'opera.

― Sembrate molto sicuro di voi stesso.

Susan Calvin si alzò. ― Venite, Alfred, tanto non riusciremo a fargli cambiare idea.

― Sapete ― gli disse Byerley, con un sorriso amabile, ― voi conoscete bene anche la psicologia degli uomini.

 

Ma forse quella sera, quando sulla pista automatica diresse la macchina verso il garage sotterraneo e percorse il viottolo che portava all'ingresso della sua casa, Byerley non era più così sicuro di sé come il dottor Lanning aveva creduto che fosse.

Quando l'avvocato entrò, la figura sulla sedia a rotelle alzò gli occhi e sorrise. Byerley s'illuminò d'affetto e gli si avvicinò.

L'invalido aveva una voce rauca e gracchiante che usciva da una bocca storta, inclinata irrimediabilmente all'ingiù, e che solcava un viso per metà coperto di cicatrici. ― Sei in ritardo, Steve.

― Lo so, John, lo so. Ma oggi ho dovuto affrontare un problema particolarmente strano e singolare.

― Davvero? ― Il viso deturpato non poteva esprimere niente, né lo poteva la voce gutturale, ma gli occhi chiari erano ansiosi. ― Nulla di preoccupante, spero?

― Non so, non ne sono sicurissimo. Forse avrò bisogno del tuo aiuto. Sei tu il cervello della famiglia. Vuoi che ti accompagni in giardino? È una bella serata.

Due braccia forti sollevarono John dalla sedia a rotelle. Con estrema delicatezza Byerley sorresse l'invalido per le spalle e per le gambe, avvolte in una coperta. Poi attraversò con cautela una stanza dopo l'altra, scese la scala costruita apposta per la sedia a rotelle e dalla porta posteriore uscì nel giardino, protetto da mura e da un reticolato.

― Perché non vuoi che usi la sedia a rotelle, Steve? Non è assurda quest'operazione?

― Preferisco portarti in braccio. Hai qualcosa da obiettare? Su, sei così contento di toglierti un attimo da quella carabattola motorizzata quanto io di accompagnarti fuori. Come ti senti oggi? ― Byerley, con estrema attenzione, depose John sull'erba fresca.

― Come vuoi che mi senta? Ma parlami del tuo problema.

― Durante la campagna elettorale Quinn cercherà di denigrarmi affermando che sono un robot.

John sgranò gli occhi. ― Come puoi essere sicuro di una cosa del genere? È impossibile. No, non riesco a crederci.

― Dai, se ti dico che è così. Ha indotto uno dei maggiori scienziati della United States Robots and Mechanical Men Corporation a venire nel mio ufficio per discutere della faccenda con me.

John strappò svogliatamente qualche filo d'erba. ― Capisco. Capisco.

― Ma che scelga pure, Quinn, l'argomento che preferisce per distruggermi. Io ho avuto un'idea. Ascoltami e dimmi se pensi che ce la possiamo fare...

 

Quella sera, nell'ufficio di Alfred Lanning, gli sguardi si incrociavano con insistenza. Francis Quinn fissava pensieroso Alfred Lanning. Lanning fissava con aria esagitata Susan Calvin, la quale osservava impassibile Quinn.

Quinn cercò di allentare la tensione sdrammatizzando. ― È solo un bluff che si è inventato lì per lì ― disse.

― Sareste pronto a rischiare basandovi su questa convinzione, signor Quinn? ― disse la dottoressa Calvin.

― Be', in realtà il rischio è tutto vostro.

― Sentite ― sbottò Lanning, cercando di coprire con un tono irritato il suo fondamentale pessimismo, ― noi abbiamo fatto quel che ci avete chiesto. Abbiamo guardato Byerley mangiare. È assurdo pensare che sia un robot.

― Siete di quest'opinione anche voi? ― Quinn rivolse la domanda alla Calvin. ― Lanning ha detto che siete voi l'esperta.

― Sentite, Susan... ― fece Lanning, quasi minaccioso.

Quinn lo interruppe garbatamente. ― Perché non la lasciate parlare, amico? Da mezz'ora è lì seduta in silenzio come una mummia.

Lanning era esasperato, a un passo da un attacco di paranoia. ― E va bene ― disse. ― Esprimete pure il vostro parere, Susan. Non v'interromperemo.

Susan Calvin gli buttò un'occhiata indifferente, poi fissò con freddezza Francis Quinn. ― Ci sono solo due modi per stabilire definitivamente se Byerley è un robot, signore. Finora voi ci avete offerto delle prove indiziarie con le quali potete muovere un'accusa, ma non dimostrare niente. E credo che il signor Byerley sia abbastanza abile da confutare le dette prove. Sono convinta che anche voi la pensiate così, altrimenti non sareste venuto da noi.

I due metodi di dimostrazione sono uno fisico, l'altro psicologico. Dal punto di vista fisico, si potrebbe sezionare Byerley oppure sottoporlo a un esame con i raggi X. Come attuare tutto ciò è un problema vostro. Dal punto di vista psicologico, invece, si può studiare il suo comportamento, perché se l'avvocato è effettivamente un robot positronico, deve seguire le Tre Leggi della Robotica. Ogni cervello positronico le ha incorporate. Voi le conoscete, signor Quinn?

Susan Calvin le enunciò piano, con chiarezza, usando l'esatta terminologia riportata a pagina uno del Manuale di robotica.

― Sì, ho sentito parlare di queste regole ― disse Quinn, distratto.

― Allora vi sarà facile seguire il mio discorso ― osservò secca la psicologa. ― Se il signor Byerley infrangesse una di queste leggi, saremmo sicuri che non è un robot. Purtroppo questa procedura ci consente di appurare la verità solo se Byerley disobbedisce alle regole. Se le osservasse, non saremmo in grado di capire se è un robot o un essere umano.

Quinn alzò le sopracciglia, perplesso. ― Perché no, dottoressa?

― Perché, se ci pensate bene, le Tre Leggi della Robotica riproducono i principi fondamentali che sono alla base di parecchi dei codici etici esistenti al mondo. È chiaro che tutti gli esseri umani posseggono l'istinto di autoconservazione. Questo istinto è dettato al robot dalla Terza Legge. È logico inoltre che tutti gli uomini "inclini al bene" e dotati di coscienza sociale e senso di responsabilità rispettino l'autorità in senso lato, ossia diano ascolto al medico, al capoufficio, ai rappresentanti del governo, allo psichiatra, alle persone che meritano fiducia. È logico che obbediscano alle leggi, seguano le regole, si adattino alle usanze correnti, anche quando queste creano fastidi più o meno grandi. Tale comportamento sociale è dettato al robot dalla Seconda Legge. Infine, tutti gli esseri umani "inclini al bene" dovrebbero amare il loro prossimo come se stessi, proteggere i loro simili e rischiare anche la vita per salvarli. In un robot questo atteggiamento è dettato dalla Prima Legge. In una parola, se Byerley segue le Leggi della Robotica, può essere sì un robot, ma anche solo una gran brava persona.

― Ma allora mi state dicendo di non poter dimostrare che è un robot! ― esclamò Quinn.

― Posso riuscire a provare che non è un robot.

― Non è questo che mi occorre.

― Quel che vi occorre è affar vostro. Io vi ho spiegato quali sono le prove che è possibile ottenere.

A quel punto Lanning ebbe d'un tratto un'idea. ― Ehi ― tuonò ― non è venuto ancora in mente a nessuno che la professione di procuratore distrettuale è abbastanza strana per un robot? Muovere accuse a degli esseri umani, fare in modo che vengano condannati a morte, causare loro moltissimo male...

― No, non ci si può basare su questo ― disse Quinn, che si era fatto di colpo molto attento. ― Che sia un procuratore distrettuale non dimostra che è un uomo. Non conoscete la sua carriera? Non sapete che si vanta di non aver mai accusato un uomo innocente? Che tanta gente non ha subito il processo perché le prove a disposizione non lo convincevano, anche se magari a un altro procuratore sarebbero bastate per indurre la giuria a emettere una condanna a morte? Già, le cose stanno così.

― No, Quinn, no ― disse Lanning, con le guance scarne che gli tremavano. ― Le Leggi della Robotica non contemplano l'ipotesi della colpevolezza umana. Un robot non può giudicare se un uomo merita la morte. Non sta a lui decidere questioni del genere. Non può recar danno agli esseri umani, siano essi farabutti o angeli.

Susan Calvin appariva stanca. ― Non dite sciocchezze, Alfred. E se un robot s'imbattesse in un pazzo che fosse in procinto di appiccare il fuoco a un casa piena di gente? Non cercherebbe forse di fermarlo?

― Certo.

― E se potesse fermarlo solo uccidendolo?

Lanning emise un lieve suono inarticolato e non proferì verbo.

― La risposta, Alfred, è che farebbe del suo meglio per non ucciderlo. Se il pazzo morisse, il robot dovrebbe essere sottoposto a psicoterapia, perché il suo cervello potrebbe andare in tilt davanti al conflitto causatogli dall'avere infranto la Prima Legge per rispettare la stessa Prima Legge in un senso più alto. Ma in ogni caso un uomo sarebbe morto, e ucciso per mano di un robot.

― Bene, ma Byerley è forse andato in tilt? ― disse Lanning, con tutto il sarcasmo che riuscì a tirar fuori.

― No, ma non ha ucciso nessun uomo di persona. Nel corso della sua carriera ha solo esposto fatti capaci di dimostrare che un particolare essere umano poteva essere considerato pericoloso per la maggior parte dei membri di quella che definiamo società. Ha difeso il grosso della popolazione, rispettando così la Prima Legge al massimo potenziale. Il suo ruolo finisce lì. È poi il giudice a condannare a morte o alla prigionia il criminale, dopo che la giuria si è pronunciata sulla sua innocenza o colpevolezza. Sono i secondini a metterlo in carcere ed è il boia ad ucciderlo. E il signor Byerley non ha altro compito che di stabilire la verità e di aiutare la società.

― Vi confesso, signor Quinn, che ho esaminato il curriculum del signor Byerley fin dal momento in cui ci avete sottoposto la questione. Ho constatato che non ha mai chiesto una condanna a morte, nel corso dell'arringa finale rivolta alla giuria. Ho anche visto che ha perorato l'abolizione della pena capitale e che ha dato un contributo generoso agli istituti di ricerca che studiano la neurofisiologia dei criminali. A quanto sembra crede di più ai metodi di cura che ai metodi punitivi. Lo ritengo un particolare significativo.

― Davvero? ― Quinn sorrise. ― Significativo nel senso che vi fa pensare che ci troviamo davanti a un robot?

― Forse. Perché negarlo? Un comportamento come il suo è tipico o di un robot, o di una persona molto onesta e rispettabile. Ma come vi ho detto, è impossibile distinguere un robot da una persona onesta e rispettabile.

Quinn si appoggiò allo schienale della poltrona. ― Dottor Lanning ― disse, spazientito, ― si può creare un robot umanoide d'aspetto perfettamente uguale a quello di un essere umano, vero?

Lanning sbuffò e rifletté. ― In via sperimentale la U.S. Robots ha effettuato un tentativo del genere ― rispose, con riluttanza. ― Senza naturalmente aggiungere un cervello positronico. Usando ovuli umani ed effettuando un controllo ormonale, si possono far crescere pelle e carne umane intorno a uno scheletro di materiale plastico, per l'esattezza silicone poroso. I risultati sono tali da ingannare anche lo sguardo più acuto. Gli occhi, i capelli, la pelle sono realmente umani, non umanoidi. Se poi si aggiungessero un cervello positronico e altri appropriati congegni interni, si avrebbe un robot umanoide.

― Quanto tempo occorrerebbe per costruirne uno? ― chiese secco Quinn.

Lanning rifletté. ― Disponendo di tutti i componenti necessari, ossia cervello, scheletro, ovulo, gli ormoni e le radiazioni adatti, circa due mesi.

Quinn si alzò dalla sedia. ― Allora vedremo che aspetto ha la struttura interna del signor Byerley. La pubblicità per la U.S. Robots sarà negativa, ma io vi avevo concesso una possibilità...

Quando Quinn se ne fu andato, Lanning si rivolse spazientito a Susan Calvin. ― Perché insistete a...

Ma lei lo interruppe subito, dura e accalorata. ― Che cosa volete, la verità o le mie dimissioni? Non mentirò per farvi piacere. La U.S. Robots è in grado di badare a se stessa. Non comportatevi da vile.

― Ma se aprendo la pancia a Byerley troveranno rotelle e ingranaggi, cosa succederà? ― disse Lanning.

― Nessuno aprirà la pancia a Byerley ― replicò la Calvin con disprezzo. ― Byerley è abile per lo meno quanto Quinn.

 

La notizia si diffuse in città una settimana prima che Byerley fosse riconosciuto ufficialmente come candidato alle elezioni. "Si diffuse", però, non è la parola adatta. Rimase sospesa sulla città, scivolò nei suoi meandri, s'insinuò a poco a poco. La gente l'accolse ridendo e lanciando battute di spirito. Poi, quando dietro le quinte Quinn cominciò a esercitare una pressione sempre più insistente, le risate si fecero forzate e la popolazione provò prima qualche vago dubbio, e infine un'aperta meraviglia.

Al congresso stesso del partito c'era un'aria di incertezza e perplessità. Non era stata prevista alcuna concorrenza tra possibili candidati. Fino a una settimana prima si pensava che Byerley fosse l'unico a poter essere designato. E adesso non c'erano sostituti. Bisognava dunque nominare lui, solo che le voci sul suo conto avevano prodotto una gran confusione.

La situazione era incresciosa perché il cittadino medio si trovava davanti a un dilemma terribile: se infatti l'accusa fosse stata vera, sarebbe stata gravissima, e se fosse stata falsa la sua assurdità non poteva che provocare indignazione.

Il giorno dopo che Byerley fu scelto come candidato in un'atmosfera di apatia e freddezza, un quotidiano pubblicò il sunto di una lunga intervista alla dottoressa Susan Calvin, "La più famosa tra gli esperti mondiali in robopsicologia e positronica".

Dopo di che, tanto per usare brevi parole comprensibili a tutti, si scatenò l'inferno.

Era proprio lo spunto che aspettavano i fondamentalisti. I fondamentalisti non erano un partito e non pretendevano di possedere i crismi delle religioni ufficiali. Erano in sostanza coloro che non si erano adattati a quella che, all'epoca della scoperta dell'atomo, era stata definita era atomica. Propugnavano ideali di Vita Semplice; aspiravano cioè a un tipo di vita che agli uomini che l'avevano vissuta veramente forse non era apparsa così semplice rispetto a quella dei loro mitizzati e "semplici" predecessori.

I fondamentalisti non avevano bisogno di nuovi motivi per detestare i robot e chi li fabbricava; ma le accuse di Quinn e l'intervista alla Calvin rappresentavano un motivo sufficiente a dare fiato al loro odio.

Gli immensi stabilimenti della U.S. Robots and Mechanical Men Corporation pullulavano di guardie armate in assetto di guerra.

All'interno della città, la casa di Stephen Byerley era presidiata da un nugolo di poliziotti.

La campagna elettorale perse naturalmente tutte le sue connotazioni politiche e si poté definire campagna solo in quanto riempiva l'intervallo tra la presentazione delle candidature e le elezioni.

 

Stephen Byerley non si lasciò distrarre dall'ometto frenetico che gli girava intorno. Né si lasciò turbare dalle guardie in divisa che erano comparse sullo sfondo. Fuori della casa, oltre la fila di torvi poliziotti, giornalisti e fotografi aspettavano, com'erano abituati a fare. Un'intraprendente stazione televisiva aveva addirittura puntato una telecamera sull'ingresso vuoto della casa senza pretese del procuratore, mentre un commentatore falsamente concitato snocciolava discorsi pieni di retorica.

L'ometto frenetico si avvicinò a Byerley e gli porse un foglio pieno di dettagliate formule legali. ― Questo, signor Byerley, è un mandato che mi autorizza a perquisire questa abitazione allo scopo di verificare se vi si trovino... ehm... uomini meccanici o robot di qualsiasi tipo la cui presenza sia vietata dalla legge.

Byerley fece l'atto di alzarsi dalla sedia e prese in mano il documento. Lo lesse con indifferenza, sorrise e poi lo restituì. ― È regolare. Procedete pure. ― Quindi chiamò la governante che arrivò con riluttanza dalla stanza accanto, e disse: ― Signora Hoppen, accompagnate questi signori, per favore, e se possibile aiutateli.

L'ometto, che si chiamava Harroway, esitò, arrossì, non riuscì a guardare Byerley negli occhi e mormorò ai due poliziotti che l'avevano seguito: ― Forza, andiamo.

Dopo dieci minuti era di ritorno.

― Finito? ― chiese Byerley col tono di chi non fosse particolarmente interessato né alla domanda, né alla risposta.

Harroway si schiarì la voce, iniziò il discorso con voce stridula, poi s'interruppe e lo riprese di nuovo, con stizza. ― Sentite, signor Byerley, abbiamo ricevuto l'ordine di perquisire la casa da cima a fondo.

― E non l'avete fatto?

― Ci hanno detto esattamente cosa dovevamo cercare.

― E allora?

― In breve, signor Byerley, e per dirla in parole povere, ci è stato ordinato di perquisire voi.

― Me? ― disse il procuratore, con un gran sorriso. ― E in che modo intendete farlo?

― Abbiamo con noi un apparecchio a raggi Penet...

― Insomma vorreste radiografarmi, eh? Avete l'autorizzazione?

― Avete visto il mio mandato.

― Posso darvi un'altra occhiata?

Harroway, con la fronte imperlata di un sudore che non era solo il frutto della sua attività frenetica, porse ancora una volta il documento all'avvocato.

― Qui leggo l'elenco delle cose che dovete perquisire ― disse calmo Byerley. ― Cito il testo: "l'abitazione appartenente a Stephen Alen Byerley, situata al numero di 355 di Willow Grove, Evanstron, assieme a eventuali garage, magazzini e altre strutture o edifici ad essa annessi, e a tutto il terreno facente parte della proprietà..." e così via. Tutto regolare. Però, brav'uomo, non c'è scritto che dovete esaminare la struttura interna del mio corpo. Io non sono parte integrante dell'abitazione. Se pensate che abbia un robot nascosto in tasca, frugate i miei vestiti.

Harroway non aveva dubbi su chi fosse la persona alla quale doveva obbedire. Non intendeva affatto desistere dal suo proposito, dato che gli era stato promesso un lavoro molto migliore, ossia molto meglio retribuito.

― Sentite ― disse, con tono vagamente minaccioso ― sono autorizzato a perquisire i mobili della vostra casa e qualsiasi altro oggetto vi si trovi dentro. Voi vi trovate qui dentro, no?

― Un'osservazione acuta. Sì, io mi trovo qui dentro. Ma non sono un mobile. Come cittadino adulto e responsabile, e che lo sia lo dimostra un certificato psichiatrico che posso produrre, godo dei diritti conferitimi dallo Statuto Regionale. Se mi perquisiste, vi rendereste colpevole d'avere violato il mio Diritto alla Privacy. Quel documento non è sufficiente.

― Certo, ma se foste un robot non avreste alcun Diritto alla Privacy.

― Questo è abbastanza vero... ma quel documento comunque non basta, perché riconosce implicitamente che sono un essere umano.

― Dov'è che lo riconosce? ― Harroway gli strappò di mano il mandato.

― Là dove afferma "l'abitazione appartenente a" eccetera eccetera. Un robot non può possedere nulla. E potete dire a chi vi manda, signor Harroway, che se tenterà di ottenere dal tribunale un documento simile a questo dove non si riconosca implicitamente la mia condizione di essere umano, si troverà davanti un divieto a procedere e dovrà affrontare una causa civile nella quale sarà costretto a dimostrare che sono un robot attraverso le informazioni attualmente in suo possesso, pena il pagamento di una multa enorme per avere tentato illegalmente di privarmi dei diritti concessimi dallo Statuto Regionale. Spero gli riferirete questo, vero?

Harroway marciò verso la porta, poi sulla soglia si girò. ― Siete un avvocato molto scaltro... ― Aveva una mano in tasca e per un breve attimo rimase lì immobile. Poi si allontanò e sorrise in direzione della telecamera, continuando a camminare. Infine salutò con un cenno della mano i giornalisti e gridò: ― Avremo qualche bella notizia per voi domani, ragazzi. Sul serio.

Salì in macchina, si sistemò nel sedile, tirò fuori di tasca un piccolo congegno e lo esaminò attentamente. Era la prima volta che aveva scattato una radiografia automatica. Si augurò di non aver commesso errori.

 

Quinn e Byerley non si erano mai incontrati faccia a faccia da soli, prima di parlarsi attraverso il videofono. Il termine "incontro" poteva definirsi in quel caso abbastanza esatto, anche se ciascuno dei due uomini appariva all'altro solo come l'immagine prodotta dal diagramma di luci e ombre di un banco di cellule fotoelettriche.

Fu Quinn a chiamare. E fu Quinn a parlare per primo, senza tanti convenevoli. ― Ho pensato, Byerley, che avreste gradito sapere che intendo rendere di pubblico dominio il fatto che indossate un giubbotto protettivo anti-raggi Penet.

― Davvero? Se mi dite questo è assai probabile che abbiate già diffuso la notizia. Ho l'impressione che già da un po' di tempo gli intraprendenti rappresentanti della stampa intercettino le mie comunicazioni. So che hanno riempito di microspie gli apparecchi che ho in ufficio ed è per questo che nelle ultime settimane mi sono rinchiuso in casa. ― Byerley parlava con tono cordiale, quasi amichevole.

Quinn strinse leggermente le labbra. ― In questo momento nessuno sta intercettando la nostra telefonata, lo so per certo. Vedete, è piuttosto rischioso per me chiamarvi.

― Non ne dubito. Nessuno sa che ci siete voi dietro questa campagna. Per lo meno nessuno lo sa ufficialmente. Ma tutti lo sanno in via ufficiosa. Se fossi in voi quindi non mi preoccuperei troppo. Dunque indosso un giubbotto protettivo? Suppongo l'abbiate scoperto quando la fotografia ai raggi Penet scattatami da quel vostro scalzacane, l'altro giorno, è risultata sovraesposta.

― Vi renderete conto, Byerley, che tutti penseranno che non osate affrontare un esame radiografico.

― Ma tutti penseranno anche che voi e i vostri uomini avete tentato di violare il mio Diritto alla Privacy.

― Di quello non importa un cavolo a nessuno.

― Non ne sarei così sicuro. Il nostro comportamento in questa campagna elettorale è piuttosto significativo, non vi pare? Voi ve ne infischiate dei diritti del cittadino. A me invece stanno molto a cuore. Non sono disposto a sottoporti a una radiografia perché desidero salvaguardare per principio i miei diritti. Così come mi curerò di salvaguardare i diritti degli altri quando sarò stato eletto.

― Certo è un buon argomento dal punto di vista dell'oratoria, ma nessuno vi presterà fede. È un po' troppo retorico per essere credibile. Ah, c'è anche un'altra cosa... ― Il tono di Quinn si fece di colpo più aspro. ― Il personale di casa vostra non era al completo, l'altra sera.

― In che senso?

― Stando al rapporto ― disse Quinn, sfogliando documenti che erano appena visibili all'interno dello schermo, ― mancava una persona: un invalido.

― Già, un invalido ― disse Byerley, con voce piatta. ― Il mio vecchio insegnante, che vive con me ma si trova in campagna da due mesi per un "periodo di riposo necessario", come si dice di solito in questi casi. Ha il vostro permesso?

― Il vostro insegnante? È uno scienziato, forse?

― Un tempo faceva l'avvocato... prima di diventare invalido. È autorizzato dal governo a condurre ricerche biofisiche e possiede un suo laboratorio. La descrizione completa dei lavori che sta effettuando è negli archivi delle autorità competenti, alle quali potrete rivolgervi se volete. Si tratta di ricerche che hanno un'importanza molto relativa, ma non danneggiano nessuno e aiutano un... povero invalido a passare il suo tempo. Io cerco di aiutarlo più che posso, capite.

― Capisco. E cosa sa questo... insegnante sull'argomento robot?

― Non sono in grado di valutare la sua competenza in un campo che non mi è familiare.

― Non ha per caso avuto modo di studiare i cervelli positronici?

― Chiedetelo ai vostri amici della U.S. Robots. Solo loro possono saperlo.

― Diciamo le cose come stanno, Byerley. Il vostro insegnante sulla sedia a rotelle è il vero Stephen Byerley e voi siete il robot che lui ha creato. Possiamo dimostrarlo. È stato lui, non voi, a rimanere vittima di quell'incidente automobilistico. Riusciremo a controllare la relativa documentazione.

― Ah sì? Allora fatelo. E tanti auguri.

― Inoltre perquisiremo il "tranquillo posto di campagna" che ospita il vostro cosiddetto insegnante e vedremo cosa si potrà trovare là.

― Be', questo no, Quinn. ― Byerley sfoderò un gran sorriso. ― Mi dispiace per voi, ma il mio cosiddetto insegnante è un uomo malato. La casa di campagna è il suo luogo di riposo. Date le circostanze, il Diritto alla Privacy di cui gode come cittadino adulto e responsabile va tutelato ancor più che nei casi normali. Non riuscirete a ottenere un mandato che vi autorizzi a irrompere nella sua proprietà privata senza un motivo più che valido. Comunque mi guarderò bene dall'impedirvi di fare un tentativo del genere.

Seguì una pausa piuttosto lunga. Poi Quinn si protese in avanti, sicché il suo volto sullo schermo s'ingrandì a tal punto che apparvero visibili anche le rughe della fronte. ― Perché insistete, Byerley? Tanto non potete essere eletto.

― No?

― Pensate forse il contrario? Non vi rendete conto che rifiutandovi di dimostrare che non siete un robot, cosa che potevate facilmente fare infrangendo una delle Tre Leggi, avete ottenuto solo di convincere la gente che siete realmente un robot?

― Finora mi rendo conto solo di questo: prima ero un avvocato di discreta fama, il cui nome però non era certo noto a tutti in città, mentre adesso si parla di me in tutto il mondo. Mi avete fatto una gran pubblicità.

― Ma voi siete un robot.

― Questo è stato detto, ma non provato.

― Le prove sono state giudicate più che sufficienti dagli elettori.

― Allora tranquillizzatevi. Avete vinto.

― Arrivederci ― disse Quinn con una sfumatura di cattiveria nella voce, e spense bruscamente il videofono.

― Arrivederci ― disse impassibile Byerley, allo schermo bianco.

Byerley riportò in città il suo "insegnante" la settimana prima delle elezioni. L'aeromobile atterrò veloce in un quartiere povero della metropoli.

― Starai qui fino a dopo le elezioni ― disse Byerley. ― È meglio che tu ti tenga alla larga, se le cose dovessero prendere una brutta piega.

La voce rauca che uscì penosamente dalla bocca storta di John suonò preoccupata. ― C'è pericolo che scoppino violenze?

― I fondamentalisti minacciano di passare all'azione, quindi immagino che il pericolo ci sia, almeno in linea teorica. Ma non credo che faranno niente; hanno troppo poco potere. Rappresentano solo un elemento continuo di disturbo che a un certo punto potrebbe accendere la scintilla di una rivolta. Spero non ti dispiaccia troppo restare qui. Sai, per me è importante. Non mi sentirei a posto se sapessi che non sei al sicuro.

― Starò qui, non ti preoccupare. Credi ancora che andrà tutto bene?

― Ne sono certo. È venuto a seccarti nessuno, in campagna?

― No, assolutamente nessuno.

― E il tuo lavoro sei riuscito a svolgerlo bene?

― Abbastanza. Non ci saranno problemi.

― Allora abbi cura di te stesso e guarda la televisione domani. ― Byerley strinse la mano nodosa di John posata sopra la sua.

 

Lenton era accigliato e ansioso. Aveva il compito tutt'altro che invidiabile di gestire la campagna elettorale di Byerley, una campagna che non era in realtà una campagna, e che era destinata a una persona la quale si rifiutava di rivelare la sua strategia e di accettare quella del suo principale consigliere.

― Non puoi! ― era la frase preferita di Lenton. Anzi, era diventata praticamente la sua unica frase. ― Ti ripeto, Steve, non puoi!

Si piazzò davanti al procuratore, che passava il tempo a sfogliare le pagine dattiloscritte del suo discorso.

― Lascia perdere quella roba, Steve. Senti, la gente è stata sobillata dai fondamentalisti. Non ti darà mai ascolto. È molto più probabile che si metta a tirarti dei sassi. Perché mai vuoi tenere un comizio in pubblico? Non andrebbe bene una semplice registrazione mandata in onda attraverso il video?

― Vuoi che vinca le elezioni sì o no? ― disse Byerley, pacato.

― Vincere le elezioni! Non le vincerai mai, Steve. Quel che sto cercando di fare è salvarti la vita.

― Oh, non sono in pericolo.

― Non è in pericolo. Non è in pericolo! ― Lenton emise uno strano suono gutturale. ― Non vorrai mica andare sul palco a parlare davanti a cinquantamila pazzi scalmanati? Non crederai mica di convincere una simile feccia con argomentazioni razionali? Per di più su un palco, come un dittatore medioevale!

Byerley diede un'occhiata all'orologio. ― Lo farò tra circa cinque minuti, appena i canali televisivi saranno liberi.

Lenton lasciò andare un commento irriferibile.

 

La folla era radunata in una zona della città circondata da recinzioni. Gli alberi e le case parevano sorgere da fondamenta di un'umanità brulicante. E attraverso le ultraonde il resto del mondo osservava la scena. Erano solo elezioni amministrative, ma vi assisteva il pubblico di tutto quanto il mondo. Byerley rifletté sulla cosa e sorrise.

Però c'era ben poco da sorridere, guardando la gente. Si vedevano stendardi e bandiere le cui scritte alludevano in tutti i modi possibili alla presunta identità robotica dell'oratore. L'atteggiamento ostile del pubblico era quasi palpabile e l'atmosfera ne era satura.

Fin dall'inizio il discorso non fu affatto seguito. Le parole erano soffocate dai fischi della marmaglia e dalle grida ripetute dei crocchi di fondamentalisti, che formavano frange di teppa in mezzo alla teppa. Byerley continuò a parlare lentamente, pacatamente...

All'interno del palazzo, Lenton si mise le mani nei capelli e sospirò, pensando che da un momento all'altro sarebbe cominciato a scorrere il sangue.

 

Nelle prime file qualcuno si mosse. Un uomo segaligno, con gli occhi sporgenti e il vestito che sembrava troppo corto per le sue membra lunghe e magre, cominciò ad avanzare verso l'oratore. Un poliziotto si precipitò verso di lui cercando di sbarrargli la strada. Byerley, con rabbia, fece segno all'agente di lasciar stare.

L'uomo allampanato arrivò direttamente sotto il palco e gridò qualcosa che si perse nel clamore prodotto dalla folla.

Byerley si protese in avanti. ― Che cosa avete detto? Se avete una domanda legittima da farmi, risponderò. ― Si rivolse a una delle guardie che gli stavano a fianco. ― Portate qui quell'uomo.

Tra la folla la tensione crebbe. Da più parti qualcuno gridò: ― Silenzio! ― Le urla diventarono frenetiche, poi, a poco a poco, si placarono. L'uomo allampanato, ansimante e rosso in viso, si piazzò in faccia a Byerley.

― Volevate rivolgermi una domanda? ― disse l'avvocato.

L'uomo lo guardò fisso e disse, con voce stridula: ― Picchiami!

Con un gesto improvviso e provocatorio, protese il mento in avanti. ― Picchiami! Dici che non sei un robot, e allora provamelo. Non potresti mai picchiare un essere umano, vero, mostro che non sei altro?

Di colpo la folla si azzittì. Fu un silenzio strano, cupo, sinistro, che fu rotto poco dopo dalla voce di Byerley. ― Non ho alcun motivo per picchiarvi.

L'uomo si mise a ridere sgangheratamente. ― Non puoi picchiarmi. Non mi picchieresti mai. Non sei umano, sei solo un surrogato d'uomo!

E Stephen Byerley, a labbra strette, davanti a migliaia di persone che lo guardavano direttamente e a milioni di persone che lo guardavano attraverso lo schermo, sferrò un pugno sul mento all'uomo, che cadde all'indietro con un'espressione di assoluto sbalordimento.

― Mi dispiace ― disse Byerley. ― Portatelo dentro e abbiate cura di lui. Voglio parlargli quando avrò finito.

E quando Susan Calvin, nel suo parcheggio riservato, mise in moto l'auto e si allontanò, solo un giornalista si era ripreso abbastanza dallo shock da correrle dietro e gridarle una domanda che lei non udì.

― È umano ― disse però la robopsicologa, voltandosi verso di lui.

Quello bastò. Il giornalista tornò precipitosamente nel posto da dove era venuto.

Quanto al resto del discorso di Byerley, fu "pronunciato, ma non ascoltato da nessuno".

 

La dottoressa Calvin e Stephen Byerley si incontrarono ancora una volta, una settimana prima che lui prestasse giuramento come sindaco. Era tardi, mezzanotte passata.

― Non sembrate stanco ― disse la dottoressa Calvin.

Il neoeletto sindaco sorrise. ― Riesco a fare le ore piccole. Ma non ditelo a Quinn.

― No. Però, a proposito di Quinn, la sua teoria era interessante. È un peccato che sia finita in fumo. La conoscevate, immagino...

― Solo in parte.

― Era molto d'effetto. Secondo lui Stephen Byerley era un giovane avvocato, abile oratore, grande idealista, particolarmente portato per la biofisica. Voi vi interessate di robotica, signor Byerley?

― Unicamente dal punto di vista legale.

Quello Stephen Byerley, lo Stephen Byerley descritto da Quinn, sì. Ma ebbe un incidente automobilistico. Sua moglie morì e a lui toccò un destino peggiore della morte: perse l'uso delle gambe e delle corde vocali, e riportò orribili deturpazioni al viso. Anche la sua psicologia fu in parte... alterata. Non volle sottoporsi alla chirurgia plastica. Si ritirò dal mondo e dalla carriera legale. Gli restavano solo l'intelligenza e le mani. In qualche modo riuscì a procurarsi dei cervelli positronici e a trovarne addirittura uno molto complesso, che aveva una notevole capacità di formulare giudizi su problemi etici... E questa è la funzione robotica più elevata che sia stato possibile produrre finora.

― L'ex avvocato fece dunque crescere un corpo intorno a quel cervello. Insegnò al robot a essere tutto quello che lui avrebbe voluto essere e non poteva più essere. Poi lo mandò nel mondo dandogli il nome di Stephen Byerley. Lui rimase dietro le quinte a recitare il ruolo del vecchio insegnante invalido che nessuno vedeva mai...

― Purtroppo ― osservò il sindaco neoeletto, ― ho rovinato questa bella storia picchiando quell'uomo. I giornali dicono che nell'occasione voi avete dichiarato ufficialmente che sono umano.

― Ma com'è successo? Vi spiace spiegarmelo? Mi pare impossibile che si sia trattato di un episodio accidentale.

― Non lo è stato del tutto, infatti. La responsabilità la si deve in gran parte a Quinn. I miei uomini hanno cominciato a diffondere la voce che non avevo mai picchiato un uomo, che ero incapace di picchiare un uomo e che se fossi stato provocato e non avessi reagito avrei dimostrato chiaramente di essere un robot. Così ho deciso di tenere quell'assurdo comizio in pubblico, curando tutti gli aspetti pubblicitari della faccenda, e alla fine, inevitabilmente, c'è stato lo stupido che ha abboccato. In sostanza si è trattato di quello che chiamo un "trucchetto da azzeccagarbugli", una manovra grazie a cui si crea un'atmosfera artificiale che risolve le cose al posto nostro. È chiaro che, come prevedevo, sono stati gli effetti emotivi del mio gesto a indurre la gente a eleggermi.

La robopsicologa annuì. ― Vedo che invadete il mio campo... come immagino debba fare qualsiasi uomo politico. Ma mi dispiace molto che sia andata così. Io amo i robot. Li amo molto di più degli esseri umani. Se fosse possibile creare un robot capace di assolvere incarichi amministrativi, credo che sarebbe un funzionario ideale. Grazie alle Leggi della Robotica non potrebbe mai recar danno agli esseri umani, non potrebbe esercitare alcuna tirannia, non sarebbe corruttibile, né avrebbe un comportamento stupido o condizionato da pregiudizi. E dopo avere svolto la sua funzione per un periodo di tempo adeguato, lascerebbe la carica anche se fosse immortale, perché sarebbe impossibile per lui ferire l'orgoglio degli esseri umani facendo loro sapere che a governarli era un robot. Ripeto, sarebbe proprio il funzionario ideale.

― Solo che un robot potrebbe rivelarsi inadeguato al compito a causa del suo cervello imperfetto. Il cervello positronico è ben lungi dall'uguagliare la complessità di quello umano.

― Disporrebbe pur sempre di consiglieri. Anche i governanti umani hanno loro consiglieri di cui non possono fare a meno.

Byerley guardò serio Susan Calvin. ― Perché sorridete, dottoressa Calvin?

― Sorrido perché il signor Quinn non ha preso in considerazione tutte le possibili eventualità.

― Intendete dire che la sua storia è incompleta?

― Sì, anche se le manca solo un particolare. Durante i tre mesi precedenti le elezioni, quello Stephen Byerley di cui il signor Quinn parlava è rimasto in campagna per motivi ignoti. È tornato in città proprio poco prima del vostro famoso comizio. In fin dei conti, quel che il vecchio invalido aveva fatto una volta poteva farlo una seconda, specie considerato che l'ultima impresa sarebbe stata molto più semplice della prima.

― Non riesco proprio a seguirvi.

La dottoressa Calvin si alzò e si mise a posto il vestito, preparandosi a uscire. ― Intendo dire che esiste un caso in cui un robot può picchiare un essere umano senza infrangere la Prima Legge. Solo un caso.

― Quale?

La Calvin era ormai sulla soglia. ― Quello in cui l'essere umano che viene picchiato ― disse tranquilla ― sia soltanto un altro robot.

Il suo viso smunto s'illuminò di un gran sorriso. ― Arrivederci, signor Byerley. Spero di votare per voi fra cinque anni... quando vi candiderete come Coordinatore.

Stephen Byerley ridacchiò. ― Devo dire che mi pare un'idea un po' azzardata.

La porta si chiuse alle spalle di Susan Calvin.

La fissai inorridito. ― Ma è vero?

― Assolutamente vero.

― Così, il grande Byerley era un robot!

― Oh non vi sarà mai la possibilità di accertarlo. Io sono convinta che lo fosse. Ma, quando decise di morire, fece in modo di disintegrarsi, così non sarà mai possibile procurarsi una prova legale... E inoltre, che differenza farebbe?

― Ecco...

― Lei condivide un pregiudizio del tutto irrazionale contro i robot. Byerley fu un ottimo sindaco; e cinque anni dopo diventò Coordinatore Regionale. E quando le Regioni della Terra si federarono, nel 2044, divenne il primo Coordinatore Mondiale. Ma a quel tempo erano già le Macchine che governavano il mondo.

― Sì, ma...

― Niente ma! Le Macchine sono robot e governano il mondo. Cinque anni or sono scoprii la verità. Fu nel 2052. Byerley stava portando a termine il suo secondo mandato come Coordinatore Mondiale...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CONFLITTO EVITABILE

Il Coordinatore aveva nel suo studio privato un oggetto curioso, reperto archeologico di un'epoca medioevale: il caminetto. Oddio, forse un uomo del medioevo non l'avrebbe riconosciuto, dato che non aveva una funzione pratica e che la fiamma tremolava tranquilla in una nicchia isolata, dietro una lastra di quarzo trasparente.

I ceppi venivano accesi a distanza attraverso una lieve deviazione del raggio d'energia che alimentava gli edifici pubblici della città. Premendo lo stesso pulsante che controllava l'accensione si eliminavano le ceneri del fuoco precedente e si faceva entrare altra legna. Insomma era un caminetto dell'era moderna.

Il fuoco però era vero. Il suono era condotto all'esterno attraverso un sistema di fibre, per cui si poteva udire il crepitio delle fiamme, che guizzavano nella corrente d'aria che le alimentava.

Il loro tremolio rossastro si rifletteva in miniatura nel bicchiere del Coordinatore e anche, ancora più in piccolo, nelle sue pupille assorte.

E nelle pupille gelide della sua ospite, la dottoressa Susan Calvin della United States Robots and Mechanical Men Corporation.

― Non vi ho chiesto di venire qui solo per un colloquio amichevole, Susan ― disse il Coordinatore.

― Lo immaginavo, Stephen ― rispose lei.

― Tuttavia non saprei proprio come esporvi il mio problema. Da un lato potrebbe trattarsi di una questione banale, dall'altro invece potrebbe significare addirittura la fine dell'umanità.

― Mi sono trovata ad affrontare tanti problemi in cui le alternative erano esattamente queste. Credo sia un fatto abbastanza frequente, Stephen.

― Davvero? Allora ditemi il vostro parere. La World Steel registra una sovrapproduzione di ventimila tonnellate d'acciaio. Il Canale Messicano è ancora chiuso, mentre avrebbero dovuto aprirlo già due mesi fa. Dalla scorsa primavera le miniere di mercurio di Almaden non producono più quanto dovrebbero, e lo stabilimento idroponico di Tientsin sta licenziando parte dei dipendenti. Queste sono le cose che mi vengono in mente adesso, ma ce ne sono varie altre dello stesso tipo.

― Sono così gravi? Non m'intendo abbastanza di economia da capire se tutto ciò possa avere conseguenze preoccupanti.

― In se stesse non sono gravi. Se la situazione dovesse peggiorare, si potrebbero inviare su Almaden degli esperti minerari. E gli ingegneri idroponici che sono in sovrappiù a Tientsin si potrebbero spedire a Giava o a Ceylon. Ventimila tonnellate di acciaio rappresentano in fondo solo il fabbisogno mondiale di pochi giorni, e non è molto importante che il Canale Messicano venga aperto due mesi dopo il previsto. Sono le Macchine che mi preoccupano... Ne ho già parlato con il vostro direttore delle ricerche.

― Con Vincent Silver? Non mi ha accennato a niente.

― L'ho pregato di non farne parola con nessuno. E a quanto sembra ha tenuto la bocca chiusa.

― E che cosa vi ha detto?

― Lasciate che quello ve lo racconti al momento giusto. Prima vorrei spiegarvi la faccenda delle Macchine. E vorrei spiegarla a voi perché siete l'unica persona al mondo che capisce abbastanza i robot da aiutarmi in questo frangente. Mi concedete di fare un po' il filosofo?

― Potete fare quel che volete e dire quel che volete Stephen, almeno per questa sera. Ma vorrei sapere prima che cosa vi proponete di dimostrare.

― Che questi piccoli squilibri nel sistema economico della domanda e dell'offerta potrebbero costituire il primo passo verso la guerra totale.

― Uhm. Continuate pure.

Susan Calvin non riusciva a rilassarsi, nonostante la poltrona su cui era seduta fosse particolarmente confortevole. Con gli anni il suo viso si era fatto sempre più freddo e severo e la sua voce era diventata sempre più piatta e inespressiva. E benché Stephen Byerley fosse l'unica persona che rispettasse e stimasse, lei, a quasi settant'anni, non poteva certo cambiare all'improvviso l'austerità dei modi che aveva coltivato per una vita intera.

― Tutti i periodi dell'evoluzione umana, Susan ― disse il Coordinatore, ― sono stati caratterizzati da particolari tipi di conflitto, da determinati problemi che sembrava si potessero risolvere soltanto con la forza. Ma ogni volta che si è fatto ricorso alla forza non si è riusciti in realtà ad approdare a niente. I problemi continuavano a sussistere attraverso una serie di conflitti, poi si risolvevano da soli con... come si dice? ah sì, "non con un botto, ma con un sospiro", appena le condizioni economiche e sociali cambiavano. Sorgevano quindi nuovi problemi e nuove guerre, in un ciclo che sembrava eterno.

― Proviamo a considerare la storia degli ultimi secoli. Dal sedicesimo al diciottesimo secolo ci fu la serie delle guerre dinastiche. Era l'epoca in cui pareva che la questione più importante in Europa fosse stabilire se a esercitare il loro dominio sul continente dovevano essere gli Asburgo o i Valois-Borboni. Era un cosiddetto "conflitto inevitabile", visto che l'Europa sembrava non potesse sopravvivere appartenendo per metà a una Casa e per metà all'altra.

― Però sopravvisse, e le guerre non portarono all'eliminazione di una dinastia e al consolidamento dell'altra. Poi, quando, nel 1789 si creò in Francia una nuova atmosfera sociale, i Borboni per primi e infine anche gli Asburgo precipitarono miseramente nell'inceneritore della storia.

― In quegli stessi secoli scoppiarono le ancor più barbare guerre di religione, che avevano lo scopo di stabilire se l'Europa dovesse essere cattolica o protestante. Che fosse per metà cattolica e per metà protestante pareva inammissibile e così si giudicò ancora una volta "inevitabile" il ricorso alle armi. Invece le due religioni continuarono a sopravvivere. In Inghilterra stava nascendo la civiltà industriale e sul continente nasceva un nuovo tipo di nazionalismo. E l'Europa è rimasta così, metà cattolica e metà protestante, fino ai giorni nostri, e a nessuno importa niente.

― Nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo ci fu un ciclo di guerre nazionalistico-imperialistiche: la questione in ballo era a quali Paesi europei toccasse sfruttare le risorse economiche e le capacità di consumo di determinati Paesi non europei. Sembrava inaccettabile che le zone non europee dovessero sottostare al dominio frammentato di inglesi, francesi, tedeschi eccetera. Solo che gli ideali nazionalistici si diffusero a sufficienza da contagiare i Paesi non europei, sicché questi risolsero il problema che le guerre non erano riuscite a risolvere e decisero di poter sopravvivere benissimo senza avere nessun europeo sul loro suolo. Dunque esiste uno schema generale...

― Sì, Stephen, ho capito ― lo interruppe Susan Calvin, ― ma non mi sembrano considerazioni particolarmente profonde.

― Già, ma spesso sono proprio le cose ovvie quelle che ci sfuggono. La gente dice: "È chiaro come è chiaro che nella tua faccia c'è un naso". Ma il naso uno non se lo vede se non si guarda allo specchio. Nel ventesimo secolo, Susan, iniziammo un nuovo ciclo di guerre che non so come potrei definire. Ideologiche? La passione religiosa applicata ai sistemi economici anziché alle speculazioni sul mondo divino? Di nuovo le guerre apparvero "inevitabili" e questa volta le armi a disposizione erano atomiche, sicché l'umanità non poteva più permettersi di affrontare conflitti, in quanto non sarebbe sopravvissuta fino all'estinzione naturale della causa che li aveva provocati. E infine arrivarono i robot positronici.

― Fecero la loro comparsa appena in tempo, e con questa nuova era ebbe inizio anche il viaggio interplanetario. Così non sembrò più tanto importante che il mondo adottasse le teorie di Adam Smith o quelle di Karl Marx. Dato il nuovo clima sociale, né le une né le altre avevano molto senso. Entrambi i sistemi dovettero adattarsi alla situazione, e finirono per trovarsi quasi sulla stessa linea.

― Un deus ex machina, quindi, in senso sia letterale che figurato ― disse secca la dottoressa Calvin.

Il Coordinatore sorrise amabile. ― Non vi avevo mai sentito fare giochi di parole prima d'ora, Susan, ma avete ragione. Tuttavia è sorto un altro pericolo. Proprio quando si pensava di avere posto fine a tutti i problemi, ci si è accorti che se ne erano creati degli altri. La nuova economia mondiale basata sui robot potrebbe non funzionare proprio alla perfezione e per questo motivo abbiamo le Macchine. Si tratta di un'economia stabile e che resterà stabile, perché le decisioni sono affidate a macchine calcolatrici che hanno a cuore il bene dell'umanità in quanto condizionate dall'importantissima Prima Legge della Robotica.

― Benché queste Macchine ― continuò Stephen Byerley ― non siano altro che i più colossali agglomerati di circuiti calcolatori mai inventati dall'uomo, sono sempre dei robot, vincolati, come dicevo, dalla Prima Legge. Così siamo sicuri che la nostra economia su scala mondiale assecondi i giusti interessi dell'Uomo. La popolazione della Terra sa di non dover temere né la disoccupazione, né la sovrapproduzione, né il deficit. Sperpero e carestia sono parole che appartengono ai libri di storia. E anche il problema della proprietà dei mezzi di produzione è diventato obsoleto. Che siano un uomo, un gruppo, una nazione o tutta l'umanità ad avere la proprietà di tali mezzi (se una simile frase ha ancora un senso), questi possono essere utilizzati solo seguendo le direttive impartite dalle Macchine. Non è che siamo stati costretti ad adottare una soluzione del genere. L'abbiamo adottata perché abbiamo capito che era la più saggia, che avrebbe posto fine alla guerra; non solo all'ultimo ciclo di guerre, ma a tutte le guerre in assoluto. Non dovremo più temere nulla, dunque, a meno che...

Dopo una lunga pausa, la dottoressa Calvin lo incoraggiò ripetendo: ― A meno che?

Il fuoco lambì un ceppo, lo avvolse e poi scoppiettò verso l'alto.

― A meno che ― disse il Coordinatore, ― le Macchine non venissero meno alla loro funzione.

― Capisco. Ed è a questo punto che entrano in ballo quei piccoli inconvenienti cui mi avete accennato poco fa: la sovrapproduzione di acciaio, il licenziamento di dipendenti nello stabilimento di idroponica e così via.

― Già. Non ci sarebbero dovuti essere. Il dottor Silver mi ha detto che non ci possono essere.

― Non ammette che ci siano stati? È molto strano!

― No, lo ammette, eccome. Gli farei un'ingiustizia se dicessi il contrario. Non ammette che qualche errore commesso dalle Macchine sia all'origine delle cosiddette (sono parole sue) imperfezioni rilevate nelle operazioni economiche. Afferma che le Macchine si correggono da sole e che l'idea che possa esserci un errore nei circuiti viola le leggi fondamentali della natura. Allora io gli ho detto...

― Gli avete detto: "Fateli almeno controllare dai vostri uomini, questi circuiti, perché non ci sia il minimo dubbio".

― Susan, voi mi leggete nel pensiero. È proprio così che mi sono espresso. Ma lui ha replicato che non poteva.

― È troppo occupato?

― No, ha detto che nessun essere umano potrebbe effettuare un controllo del genere. È stato molto franco. Mi ha spiegato, e spero di avere capito bene, che le Macchine sono un'estrapolazione gigantesca. Le cose stanno così: un'intera equipe di matematici impiega parecchi anni di lavoro per mettere a punto un cervello positronico capace di eseguire i calcoli più complessi concepibili da un uomo. Poi si servono di quel cervello per elaborare calcoli ancora più complessi che servono a mettere a punto un cervello ancora più sofisticato del primo. E così via. Secondo Silver, quelle che chiamiamo Macchine sono il risultato di dieci operazioni di questo genere.

― S-sì, il discorso mi sembra plausibile. Per fortuna non sono un matematico. Povero Vincent. Lui è giovane; i direttori che lo hanno preceduto non avevano simili problemi. E non li avevo nemmeno io. Forse di questi tempi i robotologi non sono più in grado di comprendere le loro creature.

― A quanto sembra, no. Le Macchine non sono super-cervelli nel senso prospettato dai supplementi domenicali dei giornali, che lasciano il tempo che trovano. È solo che nella funzione specifica di raccogliere e analizzare un numero pressoché infinito di dati e di correlazioni tra i dati in un lasso di tempo pressoché infinitesimale, si sono spinte tanto avanti che l'uomo non le può più controllare accuratamente.

― Allora ho provato un'altra strada. Ho interrogato la Macchina. In condizioni di massima segretezza abbiamo immesso i dati originari riguardanti il problema dell'acciaio, la risposta fornita e gli sviluppi avutisi in conseguenza di questa, ossia la sovrapproduzione. E abbiamo chiesto perché fosse sorto l'inconveniente.

― Bene, qual è stato il responso?

― Posso citare parola per parola: "La questione non ammette spiegazioni".

― E Vincent come ha interpretato questa frase?

― Ha detto che le alternative sono due. O non abbiamo fornito alla Macchina abbastanza dati da consentir loro di rispondere in modo preciso, il che però, ha ammesso lui stesso, è improbabile, oppure la Macchina si è trovata nell'impossibilità di risponderci perché i dati implicavano danno per un essere umano. Il problema del danno agli esseri umani nasce naturalmente dalla Prima Legge. Allora il dottor Silver mi ha consigliato di rivolgermi a voi.

Susan Calvin appariva molto stanca. ― Sono vecchia, Stephen. C'è stato un momento, in passato, in cui avrebbero voluto nominarmi direttore delle ricerche, e io rifiutai. Non ero giovane nemmeno allora e non desideravo assumermi quella responsabilità. La carica toccò a Silver e ne fui soddisfatta. Ma a che serve, se poi mi coinvolgete in queste storie?

― Lasciate che vi chiarisca la mia posizione, Stephen. Tutta la vita mi sono effettivamente occupata di interpretare il comportamento dei robot alla luce delle Tre Leggi della Robotica. Adesso però abbiamo questi incredibili calcolatori che sono, sì, robot, vincolati quindi alle Tre Leggi, ma mancano di qualsiasi personalità. In altre parole, le loro funzioni sono estremamente limitate, ed è logico che così sia, visto che sono altamente specializzati. Lo spazio di interazione delle Tre Leggi è quindi minimo e il mio metodo d'indagine è praticamente inutile. In breve, non so proprio come aiutarvi.

Il Coordinatore fece una breve risata. ― Permettetemi però di raccontarvi il resto, di spiegarvi le mie teorie. Forse sapreste almeno dirmi se sono fondate dal punto di vista della robopsicologia.

― Senz'altro. Parlate pure.

― Bene, poiché le Macchine stanno fornendo risposte sbagliate e poiché sembra che non possano commettere errori, resta un'unica ipotesi: che siano errati i dati immessi. In altri termini, il problema non sarebbe robotico, bensì umano. Così di recente ho compiuto un giro planetario di ispezione...

― E siete appena tornato a New York?

― Sì. L'ho considerata un'indagine necessaria, capite, dal momento che esistono quattro Macchine che gestiscono ciascuna i dati delle rispettive Regioni Planetarie. E tutt'e quattro forniscono risultati imperfetti.

― Oh, ma è logico, Stephen. Se una qualsiasi delle Macchine non funziona bene, ciò si riflette automaticamente sui risultati prodotti dalle altre tre, considerato che ciascuna di queste, elaborando le proprie decisioni, parte dal presupposto che sia perfetta anche la quarta, che invece non lo è. Essendo falso tale dato preliminare, diventano di conseguenza false le risposte.

― Uhm, sì, anch'io avevo fatto un ragionamento del genere. Ora, ho qui con me le registrazioni dei colloqui avuti con i Vice-coordinatori regionali. Vi spiacerebbe esaminarle con me? Ah, un'altra cosa: avete mai sentito parlare della Società umanitaria?

― Sì. È costituita dagli epigoni di quei fondamentalisti che per tanto tempo hanno impedito alla U.S. Robots di piazzare i suoi robot con la scusa che avrebbero fatto concorrenza sleale agli uomini e così via. È ostile alle Macchine, no?

― Sì, certo, ma... Bene, vedrete voi stessa. Cominciamo dalla Regione Orientale?

― Come volete...

 

Regione Orientale

a) Area: 12.000.000 di chilometri quadrati

b) Popolazione: 1.700.000.000

c) Capitale: Shangai

 

Il bisnonno di Ching Hso-lin era rimasto ucciso durante l'invasione giapponese dell'antica Repubblica Cinese e non c'era stato nessuno che avesse pianto la sua scomparsa o che si fosse anche solo accorto della sua scomparsa, a parte i suoi affezionati figli. Il nonno di Ching Hso-lin era sopravvissuto alla guerra civile della fine degli anni Quaranta, ma a nessuno, a parte i suoi affezionati figli, era importato minimamente della cosa.

Eppure adesso Ching Hso-lin era Vice-coordinatore regionale e alle sue cure era affidato il benessere economico di metà della popolazione della Terra.

Forse proprio perché aveva riflettuto su questo Ching teneva, come unico ornamento del suo ufficio, due carte murali. Una, antica e disegnata a mano, rappresentava la superficie di uno o due acri di terra e riportava nomi scritti con vecchi ideogrammi cinesi che ormai non si usavano più. In un punto sbiadito della carta era disegnato un torrente e non lontano da lì erano tracciati i lievi contorni di capanne modeste, in una delle quali era nato il nonno di Ching.

L'altra carta era molto più grande, con contorni netti e le scritte in nitidi caratteri cirillici. Entro la linea rossa che segnava i confini della Regione Orientale erano raggruppati tutti quei Paesi che un tempo erano stati la Cina, l'India, la Birmania, l'Indocina e l'Indonesia. Nella vecchia provincia di Szechuan Ching aveva segnato, con una crocetta praticamente invisibile, il punto che indicava la zona in cui era sorta un tempo la fattoria dei suoi antenati.

Ching rimase in piedi davanti alle carte murali quando parlò a Stephen Byerley in perfetto inglese. ― Signor Coordinatore, nessuno sa meglio di voi che il mio lavoro non è di quelli che diano molto da fare. Garantisce un certo prestigio sociale e il governo ha in me un utile punto di riferimento, ma in sostanza è la Macchina che si occupa di tutto. Che cosa pensate, per esempio, dello stabilimento idroponico di Tientsin?

― È fantastico ― disse Byerley.

― E non è che uno dei tanti, e nemmeno il più grande. Ce ne sono a Shangai, Calcutta, Batavia, Bangkok, un po' dappertutto. Sono la risposta al fabbisogno alimentare dei quasi due miliardi di abitanti della Regione Orientale.

― Tuttavia ― disse Byerley, ― a Tientsin ci sono stati ultimamente vari licenziamenti. Non sarà a causa della sovrapproduzione? Certo che è un po' assurdo pensare che si registri un'eccedenza nell'offerta di prodotti alimentari in Asia.

Ching strinse leggermente gli occhi neri. ― No, non siamo ancora giunti alla sovrapproduzione. Però è vero che in questi ultimi mesi sono state chiuse a Tientsin diverse vasche idroponiche. Niente di grave, beninteso. Gli uomini sono stati sospesi dal lavoro solo temporaneamente e quelli che non desideravano svolgere attività in altri settori sono stati trasferiti a Colombo, nell'isola di Ceylon, dove stanno per aprire un nuovo stabilimento.

― Ma perché sono state chiuse le vasche?

Ching fece un sorriso amabile. ― Vedo che non vi intendete molto di idroponica, il che del resto non mi sorprende. Voi venite dal Nord e là conviene di più coltivare la terra. Nel settentrione tutti pensano che l'idroponica, ammesso che un simile pensiero li sfiori, sia un sistema per far crescere rape in una soluzione chimica, e in effetti è un po' così, anche se la faccenda è enormemente più complessa.

― Innanzitutto, il raccolto di gran lunga più consistente (e la percentuale è in aumento) è costituito dal lievito. Abbiamo in produzione fino a duemila varietà di lievito e ogni mese nuovi tipi se ne aggiungono. I costituenti chimici di base dei diversi lieviti sono, tra i composti inorganici, nitrati e fosfati, poi, in quantità adeguate, i metalli in tracce e infine le frazioni di milionesimo di boro e molibdeno necessarie. La materia organica consiste soprattutto di miscele di zucchero derivate dall'idrolisi della cellulosa, ma in più vanno aggiunti vari altri fattori nutritivi.

― Per creare un'industria idroponica efficiente, che sia in grado di dare da mangiare a un miliardo e settecento milioni di persone, dobbiamo impegnarci in tutto l'Est in un gigantesco piano di rimboschimento, utilizzare impianti enormi che trasformino il legno raccolto nelle giungle delle regioni meridionali, e soprattutto disporre di energia, acciaio e sostanze chimiche sintetiche.

― Perché sostanze chimiche sintetiche, signor Ching?

― Perché, signor Byerley, ciascuna delle varietà di lievito ha le sue particolari proprietà. Le varietà sono, come ho detto, circa duemila. La bistecca che credete di aver mangiato oggi era lievito. La crema fredda di frutta che avete preso per dessert era in realtà lievito ghiacciato. Abbiamo filtrato il succo di lievito dandogli il sapore, l'aspetto e il valore nutritivo del latte.

― È soprattutto il sapore che rende il lievito un alimento gradito alla gente ed è per dargli un sapore gradevole che abbiamo coltivato varietà artificiali e completamente nuove che non possono più crescere con una dieta-base di sali e zucchero. Una ha bisogno della biotina, l'altra dell'acido folico, altre ancora di diciassette diversi amminoacidi e di tutto il complesso di vitamine B, ma una (che d'altra parte piace talmente alla gente che non riteniamo vantaggioso dal punto di vista economico rinunciarvi) ha bisogno addirittura di...

Byerley si mosse a disagio nella sua sedia. ― Per quale motivo mi spiegate tutto questo? ― disse, interrompendolo.

― Mi avete chiesto perché sono stati licenziati degli uomini a Tientsin, signore. Vorrei chiarire ancora alcune cose. Non solo dobbiamo rifornire il nostro lievito di tutte queste sostanze, ma più passa il tempo più occorre tener conto dei gusti della gente e studiare la possibilità di coltivare nuovi tipi di lievito che soddisfino le sue esigenze. Tutto questo va pianificato e la Macchina si occupa di elaborare le previsioni...

― Ma non lo fa in modo perfetto.

― Ma nemmeno in modo troppo imperfetto, considerato quanto siano complessi i dati di partenza. Sì, è vero, alcune migliaia di lavoratori, a Tientsin, sono attualmente disoccupati. Però pensate che durante lo scorso anno lo spreco (spreco in senso di domanda od offerta insufficienti) è stato nemmeno un decimo dell'uno per cento del fatturato. Ritengo che...

― Eppure durante i primi anni di funzionamento della Macchina questa cifra corrispondeva a circa un millesimo dell'uno per cento.

― Ah sì, ma nel decennio trascorso dal momento in cui la Macchina ha cominciato a funzionare a pieno ritmo, l'abbiamo utilizzata per aumentare di venti volte la produzione precedente. È abbastanza logico aspettarsi che le imperfezioni crescano a mano a mano che crescono le complicazioni. Tuttavia...

― Tuttavia?

― C'è stato in effetti un episodio strano in cui è rimasto coinvolto Rama Vrasayana.

― Che cosa gli è successo?

― Vrasayana era il responsabile di uno stabilimento dove si faceva evaporare l'acqua salmastra per produrre lo iodio, che non è indispensabile al lievito ma che è indispensabile agli esseri umani. Ebbene, lo stabilimento è stato posto in curatela fallimentare.

― Davvero? E come mai?

― Che ci crediate o no, per via della concorrenza. In genere una delle funzioni principali delle analisi elaborate dalla Macchina è di indicare quale possa essere la distribuzione più efficace dei nostri impianti produttivi. È ovviamente un errore che ci siano zone non abbastanza servite, perché in questi casi il costo dei trasporti rappresenta una percentuale troppo alta delle spese generali. Analogamente è un errore che vi siano zone troppo ben servite, perché in questi casi le fabbriche sono costrette o a non far funzionare gli impianti a pieno ritmo o a mettersi in furiosa concorrenza l'una con l'altra, con conseguenze deleterie. Nel caso di Vrasayana, è stato costruito nella stessa città un altro stabilimento dotato di un sistema di estrazione più efficace.

― La Macchina l'ha permesso?

― Oh, certo. Non c'è da meravigliarsi. Il nuovo sistema si sta diffondendo sempre di più. C'è piuttosto da chiedersi come mai la Macchina non abbia avvertito Vrasayana, consigliandogli di rinnovare gli impianti o di associarsi a qualche altra azienda. Ma in fondo le conseguenze non sono state gravi. Vrasayana ha accettato di fare l'ingegnere nella fabbrica nuova e se anche ha adesso un lavoro meno retribuito e di minor responsabilità, non è che sia stato danneggiato molto. Gli operai hanno trovato facilmente impiego; il vecchio stabilimento è stato trasformato in... non so che esattamente, ma certo qualcosa di utile. Abbiamo lasciato decidere tutto alla Macchina.

― E per il resto non avete altri episodi strani da denunciare?

― No, assolutamente.

 

Regione Tropicale

a) Area: 36.000.000 di chilometri quadrati

b) Popolazione: 500.000.000

c) Capitale: Capital City

 

La carta murale nell'ufficio di Lincoln Ngoma non era certo così precisa come quella di Ching a Shangai. I confini della Regione Tropicale erano tracciati con una linea spessa, marrone scuro, che abbracciava zone su cui si leggevano scritte suggestive come "giungla", "deserto" e "qui ci sono elefanti e altre bestie strane di tutti i tipi ".

Le zone erano molto vaste, perché in termini di territorio la Regione Tropicale comprendeva quasi due continenti: tutto il Sudamerica a nord dell'Argentina e tutta l'Africa a sud della catena dell'Atlante. Comprendeva inoltre il Nordamerica a sud del Rio Grande e perfino l'Arabia e l'Iran, in Asia. Era il contrario della Regione Orientale. Mentre questa raccoglieva quasi la metà della popolazione mondiale in un'area che rappresentava solo il quindici per cento delle terre emerse, la Regione Tropicale ospitava il quindici per cento della popolazione mondiale in un'area che era quasi la metà delle terre emerse.

Ma la tendenza era verso l'espansione. La Regione Tropicale era l'unica in cui l'incremento demografico dovuto all'immigrazione superava quello dovuto alle nascite. E a tutti quelli che arrivavano da fuori offriva possibilità di lavoro.

A Ngoma, Stephen Byerley sembrava un po' uno dei tanti immigrati, un viso pallido che veniva lì per impegnarsi nel lavoro creativo di trasformare un ambiente selvaggio e renderlo confortevole per l'uomo. E provava per lui quel lieve, istintivo disprezzo che nutrivano gli uomini rudi della selvaggia Regione Tropicale verso gli sfortunati bianchi provenienti dalle zone più fredde.

I Tropici avevano la capitale più giovane della Terra, alla quale, per una sorta di incondizionata fiducia nella gioventù, era stato dato il semplice nome di Capital City. La città si stendeva con le sue case allegre sui fertili altipiani della Nigeria e dalle finestre dell'ufficio di Ngoma si godeva uno scenario di vita e colore: il sole splendeva vivido, oscurato solo a tratti, quando scoppiavano improvvisi e brevi acquazzoni. Perfino il cinguettio degli uccelli multicolore era particolarmente vivace e quando scendeva la sera le stelle luccicavano come capocchie di spillo nel cielo terso.

Ngoma rise. Era un bell'uomo bruno, alto e dai lineamenti marcati.

― Certo ― disse, in un inglese colloquiale e roboante, ― siamo in ritardo con l'apertura del Canale Messicano. E allora? Prima o poi verrà aperto senz'altro, vecchio mio.

― Ma sei mesi fa sembrava che i lavori fossero a buon punto.

Ngoma guardò Byerley, mise in bocca un grosso sigaro, ne staccò una punta con i denti e accese l'altra. ― È un'indagine ufficiale, Byerley? Cosa sta succedendo?

― Niente. Proprio niente. Mi interesso alla faccenda soltanto nella mia qualità di Coordinatore.

― Be', se siete qui unicamente per ingannare il tempo in un momento di noia, posso dirvi che siamo sempre a corto di manodopera. Sono innumerevoli i lavori in cui siamo impegnati, qui ai Tropici. Il Canale è solo uno dei tanti...

― Ma la Macchina non aveva previsto quanta manodopera occorresse per il Canale, pur tenendo conto di tutti gli altri progetti in corso?

Ngoma si passò una mano sulla nuca ed emise boccate di fumo che salirono ad anello verso il soffitto. ― Era un po' fuori fase.

― Capita spesso che sia fuori fase?

― Non più spesso del previsto. Non è che ci aspettiamo chissà che dalla Macchina, Byerley. Immettiamo i dati, ritiriamo i risultati, procediamo come ci dice di procedere. Ma è soltanto un congegno, un'apparecchiatura che serve a risparmiare lavoro e fatica. Potremmo anche evitare di utilizzarla, se ci fossimo costretti. Magari non riusciremmo a fare tutto con uguale efficacia e rapidità, ma qualcosa faremmo sicuro.

― Qui noi siamo tutti pieni di fiducia nel futuro, Byerley, e questo è il nostro segreto. La fiducia! Abbiamo territori nuovi che ci aspettano da migliaia d'anni, che erano lì ad aspettarci mentre il resto del mondo era lacerato dai luridi conflitti dell'epoca preatomica. Non siamo costretti a mangiare lievito come quelli dell'Est, né siamo costretti a preoccuparci come voi settentrionali dei rigurgiti ideologici del secolo scorso.

― Abbiamo eliminato la mosca tse-tse e la zanzara anofele e la gente ha scoperto di poter vivere in piena luce del sole, e le piace anche farlo. Abbiamo disboscato le giungle e trasformato il suolo in terreno fertile. Abbiamo irrigato i deserti e creato al loro posto dei giardini. Abbiamo giacimenti di petrolio e di carbone ancora tutti da sfruttare, e disponiamo di un quantitativo enorme di minerali.

― Al resto del mondo non chiediamo che una cosa: di starsene dov'è. Vogliamo solo essere lasciati in pace a fare il nostro lavoro.

― Ma il Canale... ― disse Byerley, tornando sul concreto, ― avrebbe dovuto essere già finito. Cos'è successo?

Ngoma allargò le braccia. ― Problemi di manodopera. ― Toccò numerosi fogli sparsi sulla sua scrivania, poi lasciò perdere.

― Tra questi documenti c'è qualcosa che riguarda la faccenda ― mormorò, ― ma non importa. La sostanza è che in qualche parte del Messico si è verificata una carenza di manodopera per la questione delle donne. Voglio dire, non c'erano abbastanza donne nei dintorni. Pare che nessuno abbia pensato di fornire alla Macchina dati riguardanti il sesso.

S'interruppe, ridendo divertito, poi tornò serio. ― Ah, un attimo. C'è anche un'altra cosa... Villafranca.

― Villafranca?

― Francisco Villafranca. Era l'ingegnere responsabile di certe operazioni. Lasciate che vi spieghi. Accadde qualcosa, un crollo, credo. Sì, proprio così: un crollo. Vittime non ce ne furono, a quanto mi ricordo, ma successe un gran casino. Un vero scandalo.

― Davvero?

― Già. Villafranca aveva commesso un errore di calcolo. Per lo meno così sentenziò la Macchina. Immisero nel computer i dati, le ipotesi, le informazioni su cui si era basato l'ingegnere per svolgere i lavori e la risposta ottenuta risultò non corrispondere a quella utilizzata da lui. Insomma pare che Villafranca non avesse tenuto conto degli effetti di un forte acquazzone sugli argini del canale, o qualcosa del genere. Sapete, io non sono un ingegnere...

― In ogni modo Villafranca fece il diavolo a quattro. Dichiarò che la risposta data dalla Macchina la seconda volta era diversa da quella fornita la prima. Che lui aveva seguito fedelmente le istruzioni. Poi lasciò il lavoro. Non gli proponemmo di restare, perché in fondo la vicenda non era del tutto chiara, in precedenza si era dimostrato più che efficiente, eccetera eccetera. Naturalmente gli sarebbe toccato un lavoro di minor responsabilità, perché se uno commette un errore non può passarla liscia: sarebbe negativo dal punto di vista della disciplina. E così... a che punto ero arrivato?

― Gli proponeste di restare.

― Ah, sì. Ma rifiutò. E dunque, tra una cosa e l'altra, siamo indietro di due mesi. Ma, cavoli, non è mica poi così grave.

Byerley tamburellò leggermente con le dita sul tavolo. ― Villafranca diede la colpa alla Macchina, quindi?

― Be', non poteva mica dar la colpa a se stesso, vi pare? Siamo franchi: conosciamo tutti bene la natura umana. Ah, mi viene in mente anche un'altra cosa... Perché diavolo non riesco mai a trovare i documenti, quando mi servono? Il mio sistema di archiviazione non vale una cicca. Questo Villafranca era membro di una delle associazioni che avete voi al Nord. Il guaio è che il Messico è troppo vicino alla Regione Settentrionale!

― A che associazione vi riferite?

― Mi pare la chiamino la Società Umanitaria. Be', Villafranca si recava ogni anno al convegno che tengono a New York. Sono un mucchio di mentecatti, però inoffensivi. Ce l'hanno con le Macchine, che secondo loro distruggerebbero l'iniziativa umana. È logico quindi che Villafranca abbia dato la colpa alla Macchina. Io non li capisco proprio, quei matti. Guardando Capital City vi pare che la razza umana manchi di iniziativa?

E Capital City, come in risposta alla domanda, continuò a risplendere gioiosa sotto il sole dorato, ultima e più giovane creazione dell'Homo Metropolitans.

 

Regione Europea

a) Area: 6.400.000 chilometri quadrati

b) Popolazione: 300.000.000

c) Capitale: Ginevra

 

La Regione Europea era anomala sotto molti profili. In termini di territorio era di gran lunga la più piccola, visto che la sua superficie corrispondeva a meno di un quinto della superficie della Regione Tropicale. Quanto alla popolazione, era meno di un quinto di quella della Regione Orientale. Dal punto di vista geografico ricordava solo in parte l'Europa dell'epoca preatomica, dato che non comprendeva quelle che un tempo erano state la Russia Europea e le Isole Britanniche, mentre includeva le coste mediterranee dell'Africa e dell'Asia e, con un curioso balzo oltre l'Atlantico, l'Argentina, il Cile e l'Uruguay.

Non era neanche probabile che la Regione migliorasse le sue condizioni rispetto alle altre zone della Terra: l'unica tendenza all'espansione le veniva dalle vivaci province sudamericane. Era la sola in cui negli ultimi cinquant'anni si fosse registrato un netto calo demografico. Era la sola che non avesse potenziato in maniera rilevante i propri impianti produttivi e che non offrisse nulla di radicalmente nuovo alla civiltà umana.

― L'Europa ― disse Madame Szegeczowska nel suo francese scorrevole, ― è in sostanza un'appendice economica della Regione Settentrionale. Lo sappiamo benissimo e in fondo non ce ne importa nulla.

E, come a indicare che quella mancanza di individualità era stata accettata con rassegnazione, non c'erano carte murali dell'Europa nell'ufficio della Vice-coordinatrice.

― Però ― osservò Byerley, ― avete una Macchina vostra e certo da oltreoceano nessuno esercita pressioni economiche su di voi.

― La Macchina. Bah! ― Madame Szegeczowska alzò le spalle magre e accennò un sorriso mentre tirava fuori una sigaretta e la batteva leggermente sul pacchetto con le lunghe dita sottili. ― L'Europa è un posto sonnolento. E stanchi e sonnolenti sono quelli fra i nostri uomini che non riescono a emigrare ai Tropici. Vedete voi stesso che è toccato a me, a una povera donna, l'incarico di Vice-coordinatore. Be', per fortuna non è un lavoro difficile e da me non ci si aspetta molto.

― Quanto alla Macchina, cosa può dire se non: "Fate questo e sarà la soluzione migliore per voi"? Ma qual è la soluzione migliore per noi? Essere un'appendice economica della Regione Settentrionale!

― D'altra parte la situazione non è poi così terribile. Non ci sono guerre. Viviamo in pace e questo è una consolazione, dopo settemila anni di conflitti. Siamo vecchi, monsieur. Entro i nostri confini ci sono le regioni dov'è nata la civiltà occidentale. Ci sono l'Egitto e la Mesopotamia, Creta e la Siria, l'Asia Minore e la Grecia... Ma la vecchiaia non è necessariamente un'età infelice. Può essere una soddisfazione...

― Forse avete ragione ― disse Byerley, affabile. ― Se non altro il ritmo della vita non è così frenetico come nelle altre Regioni. Qui l'atmosfera è tranquilla, piacevole.

― Vero? Ecco che ci portano il tè, monsieur. Vi spiace dire quanta panna e quanto zucchero volete? Grazie.

Sorseggiò piano il tè, poi proseguì. ― Sì, è effettivamente piacevole. Il resto della Terra continui pure a lottare finché vuole. Sapete, trovo un parallelo nella storia passata, un parallelo molto interessante. Ci fu un'epoca in cui Roma fu padrona del mondo. Aveva assorbito la cultura e la civiltà della Grecia, una Grecia che non era mai stata unita, che si era rovinata con le guerre e che era approdata a una squallida decadenza. Roma unificò i suoi territori, impose la pace e lasciò che la popolazione vivesse una vita tranquilla e priva di gloria. La Grecia si occupò della sua filosofia e della sua arte, lontano dal frastuono degli imperialismi e delle guerre. Fu una specie di morte, ma una morte tranquilla, e durò con piccoli intervalli per circa quattrocento anni.

― Però ― disse Byerley, ― l'Impero Romano alla fine crollò e quel sonno ipnotico finì.

― Non ci sono più barbari capaci di sconvolgere la società.

― Potremmo essere noi i barbari di noi stessi, Madame Szegeczowska. Ah, volevo domandarvi una cosa. Le miniere di mercurio di Almaden hanno subito una forte flessione nella produzione. Spero che i giacimenti non si stiano esaurendo prima del previsto...

La Vice-coordinatrice, una donna minuta, fissò Byerley con i suoi occhi grigi e svegli. ― I barbari... il crollo di una civiltà... il possibile fallimento delle Macchine. È evidente la associazione di idee che avete fatto, monsieur.

― Davvero? ― Byerley sorrise. ― Le donne hanno più intuizione degli uomini e finora ho parlato solo con uomini. Credete che il problema sorto ad Almaden sia imputabile alla Macchina?

― No, affatto, ma credo che lo pensiate voi. Siete nato nella Regione Settentrionale e l'Ufficio Centrale di Coordinazione ha sede a New York. E da tempo mi sono accorta che voi settentrionali non avete più molta fiducia nelle Macchine.

― Vi pare?

― Sì, la Società Umanitaria è forte nel Nord, mentre naturalmente non fa molti proseliti nella vecchia e stanca Europa, che ha una gran voglia di lasciare in pace la povera Umanità ancora per un pezzo. E certo voi siete figlio di quel Nord tanto sicuro di sé, non di questo vecchio continente scettico.

― Tutto ciò ha a che vedere in qualche modo con Almaden?

― Oh sì, credo di sì. Le miniere sono sotto il controllo della Consolidated Cinnabar, che è una compagnia del Nord, con sede a Nikolaev. Personalmente mi chiedo se il consiglio d'amministrazione abbia consultato la Macchina, e ho qualche dubbio in merito. Loro hanno detto di sì durante la riunione che si è tenuta il mese scorso e naturalmente non è possibile provare che hanno mentito, ma in questa materia non me la sentirei mai, in nessuna circostanza, di prendere per buona la parola di un settentrionale, sia detto senza offesa, beninteso. In ogni modo penso che la storia andrà a finire bene.

― In che senso, cara signora?

― Capirete che gli inconvenienti economici registratisi in questi ultimi mesi, se anche sono minimi in confronto alle burrasche del passato, hanno turbato il nostro spirito sonnolento e pacifico e provocato notevoli inquietudini nella provincia spagnola. Ho sentito dire che la Consolidated Cinnabar sta liquidando tutto per darlo in mano a un gruppo spagnolo del luogo. È consolante. Benché sia vero che sotto il profilo economico siamo vassalli del Nord, sarebbe un po' umiliante che alla cosa si desse un'eccessiva pubblicità. E affidando il lavoro agli europei, siamo più sicuri che seguano con attenzione la Macchina.

― Allora credete che non ci saranno più problemi?

― Sono sicura di no. Almeno, non ad Almaden.

 

Regione Settentrionale

a) Area: 29.000.000 di chilometri quadrati

b) Popolazione; 800.000.000

c) Capitale: Ottawa

 

La Regione Settentrionale era, in molti sensi, al vertice. Che fosse al vertice sotto il profilo geografico lo si capiva bene dalla carta murale appesa nell'ufficio del Vice-coordinatore Hiram Mackenzie, a Ottawa. Il fulcro era costituito dal Polo Nord: a parte la zona europea che comprendeva la Scandinavia e l'Islanda, tutto l'Artico rientrava nella Regione Settentrionale.

Grosso modo questa si poteva dividere in due vasti blocchi. A sinistra, sulla carta, si vedeva tutto il Nordamerica al di sopra del Rio Grande. A destra c'era tutto il territorio che aveva costituito un tempo l'Unione Sovietica. In quelle due zone erano concentrate le massime potenze del pianeta nei primi anni dell'era atomica. Tra esse si trovava la Gran Bretagna, propaggine della Regione che sfiorava l'Europa. Nella parte più alta della carta erano visibili altre due province, vaste e dai contorni strani: l'Australia e la Nuova Zelanda.

Nonostante tutti i cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni, restava il fatto che il Nord aveva ancora un ruolo dominante nell'economia del pianeta.

Era quindi quasi simbolico che tra tutti gli uffici in cui Byerley era stato, solo quello di Mackenzie sfoggiasse una carta di tutta la Terra; era come se la Regione Settentrionale non temesse concorrenza e non avesse bisogno di ingraziarsi nessuno per decretare la propria superiorità.

― Impossibile ― disse secco Mackenzie, sopra un bicchiere di whisky. ― Immagino non siate esperto di robotica, signor Byerley.

― No, infatti.

― Uhm. Be', a mio avviso è un guaio che nemmeno Ching, Ngoma e la Szegeczowska conoscano l'argomento. La popolazione terrestre è per lo più convinta che un Coordinatore debba essere solo un abile organizzatore, un esperto di problemi generali e una persona amabile. Di questi tempi invece dovrebbe intendersi anche di robotica. Sia detto senza offesa, naturalmente.

― Non sono affatto offeso. Anzi, sono d'accordo con voi.

― Da quanto mi avete già detto intuisco per esempio che siete preoccupato per i piccoli squilibri che si sono verificati di recente nell'economia mondiale. Non so che idea vi siate fatto, ma è successo in passato che persone che pure avrebbero dovuto capire che il problema era assurdo si sono chieste cosa sarebbe successo se fossero stati immessi nella Macchina dei dati errati.

― Che cosa succederebbe se fossero immessi dati errati, signor Mackenzie?

― Be' ― disse lo scozzese, muovendosi con un sospiro sulla sua sedia, ― tutti i dati raccolti sono sottoposti a un complesso sistema di controllo sia umano che meccanico, per cui è molto improbabile che sorgano problemi. Ma facciamo finta che possano sorgere. In fondo gli esseri umani possono commettere errori e sono anche corruttibili. E i comuni congegni meccanici sono soggetti ad avarie.

― Il punto essenziale della questione è che quello da noi definito "dato errato" è un dato incompatibile con tutti gli altri a nostra disposizione. Questo è l'unico criterio che abbiamo per distinguere l'informazione "giusta" da quella "sbagliata". Ed è anche l'unico criterio di cui dispone la Macchina. Se per esempio le ordinaste di pianificare l'attività agricola partendo dall'ipotesi che in luglio nell'Iowa ci sia una temperatura media di tredici gradi centigradi, rifiuterebbe di darvi una risposta. Non perché non le vada a genio quella particolare temperatura o perché la risposta sia impossibile, ma perché, alla luce degli altri dati immagazzinati in anni, saprebbe che le probabilità che in luglio ci sia nell'Iowa una temperatura media di tredici gradi sono praticamente zero. Insomma non accetterebbe il dato di entrata.

― L'unico modo per immettere un dato "errato" nella Macchina sarebbe di renderlo parte di un insieme coerente, un insieme che fosse tutto errato, ma che lo fosse in maniera troppo impercettibile per essere notato dalla Macchina, oppure in maniera tale da esulare dalla sua esperienza. Il primo tipo di manomissione non è umanamente attuabile, il secondo nemmeno, o quasi. Ed è sempre meno attuabile a mano a mano che l'esperienza della Macchina cresce di secondo in secondo.

Stephen Byerley si grattò con un dito la radice del naso. ― Dunque non sono possibili manomissioni, voi dite... E allora da che cosa sono stati causati gli inconvenienti verificatisi di recente?

― Caro Byerley, vedo che commettete anche voi l'errore assai comune di credere che la Macchina sappia tutto. Permettetemi di citarvi un esempio che riguarda la mia esperienza personale. L'industria cotoniera assume compratori esperti che scelgono il cotone da acquistare. Questi esperti procedono così: prendono un fiocco di cotone a caso da una delle tante balle disponibili, poi lo guardano, lo tastano, lo scompongono, magari ascoltando l'impercettibile rumore, e infine lo toccano con la lingua. E in questo modo riescono a capire la qualità del materiale contenuto nelle balle. Di qualità ce ne sono circa una dozzina. In conseguenza delle loro decisioni, gli acquisti vengono fatti a certi prezzi e i miscugli tra un tipo e l'altro di materiale in certe proporzioni. Ora, questi compratori non possono ancora essere sostituiti dalla Macchina.

― Perché no? Non credo proprio che i dati di cui occorre tener conto siano troppo complessi per lei...

― Probabilmente no. Ma quali sono esattamente i dati in questione? Nessun chimico tessile sa bene che verifica effettui il compratore quando tasta il fiocco di cotone. Magari controlla la lunghezza media dei fili, come questi si presentino al tatto, quanto siano morbidi, come aderiscano l'uno all'altro e così via. Sono moltissimi i fattori che prende inconsciamente in considerazione grazie ad anni e anni di esperienza. Ma non si conosce la natura quantitativa di queste analisi e forse neanche la natura stessa di alcune di esse. Così non possiamo fornire dati alla Macchina. D'altra parte i compratori non sono in grado di spiegare come giungano a compiere le loro valutazioni. Dicono solo: "Be', guardate un po' questo cotone. Si capisce subito che è di questa o quella qualità".

― Sì, ho afferrato il concetto.

― Ci sono tantissimi casi come questo. In fin dei conti la Macchina è solo uno strumento che può aiutare l'umanità a progredire più in fretta sgravandola della fatica di effettuare noiosi calcoli e interpretazioni. Il compito dell'uomo e della sua intelligenza rimane ancora oggi lo stesso: scoprire nuovi dati da analizzare e concepire nuove idee da applicare. Peccato che la Società Umanitaria non voglia capirlo.

― I suoi membri sono ostili alle Macchine, vero?

― Sarebbero stati ostili anche alla matematica o alla letteratura, se fossero vissuti in epoche passate. Questi reazionari sostengono che le Macchine spogliano l'uomo della sua anima. Ma io vedo che gli uomini capaci sono ancora i più richiesti, nella società attuale; abbiamo tuttora bisogno di uomini abbastanza intelligenti da capire quali siano le domande giuste da rivolgere alle Macchine. Forse se ce ne fossero di più, di queste persone dotate, gli squilibri di cui vi lamentate, Coordinatore, non si verificherebbero.

 

Terra (compresa l'Antartide, disabitata)

a) Area: 87.000.000 di chilometri quadrati (terre emerse)

b) Popolazione: 3.300.000.000

c) Capitale: New York

 

Il fuoco dietro la lastra di quarzo si andava smorzando ormai, ma mandava ancora qualche scintilla, riluttante a spegnersi.

Il Coordinatore era di umore tetro e appariva depresso come la fiamma sempre più bassa del caminetto.

― Tutti quanti minimizzano la situazione ― mormorò. ― Non è plausibile pensare che si facciano gioco di me? Eppure... Vincent Silver dice che le Macchine non possono avere difetti di funzionamento, e sono costretto a credergli. Hiram Mackenzie sostiene che non è possibile che immagazzinino dati errati, e sono costretto a credergli. Ma le Macchine in qualche modo hanno qualcosa che non va e anche questo è un fatto indubitabile. Perciò rimane un'unica alternativa.

Sbirciò Susan Calvin, che teneva gli occhi chiusi come fosse addormentata.

Ma non era addormentata. ― Quale? ― chiese, pronta.

― Be', che siano effettivamente immessi dati esatti e che le Macchine forniscano risposte esatte, ma che queste vengano ignorate. La Macchina non può imporre all'uomo di seguire le sue istruzioni.

― Mi pare che Madame Szegeczowska abbia accennato a un'ipotesi del genere, quando ha parlato della mentalità dei settentrionali.

― Sì, è vero.

― E con che scopo gli uomini disobbedirebbero alle Macchine? Riflettiamo sui possibili motivi.

― A me sembra ovvio, e così dovrebbe sembrare anche a voi. Stanno cercando deliberatamente di scuotere la barca fino a farla rovesciare. Finché sono le Macchine ad amministrarci, non ci potranno mai essere sulla Terra conflitti gravi capaci di consentire all'uno o all'altro gruppo di ottenere più potere per sé anche a danno dell'umanità nel suo complesso. Se si distrugge la fiducia che la gente nutre nelle Macchine fino al punto da indurre tutti a rinunciare ad esse, regnerebbe di nuovo la legge della giungla. E in teoria ognuna delle quattro Regioni potrebbe volere proprio questo.

― L'Est ha una popolazione che è la metà di quella mondiale. I Tropici dispongono di più della metà delle risorse del pianeta. Sia la Regione Orientale sia la Regione Tropicale potrebbero sentirsi in diritto di dominare tutta la Terra, e ciascuna nel corso della sua storia è stata vessata da quelli del Nord, per cui sarebbe abbastanza umano che desiderasse vendicarsi anche in modo magari insensato. Quanto all'Europa, ha alle sue spalle una tradizione di grandezza. Un tempo effettivamente dominava la Terra, e non c'è niente di così tenace come il ricordo del potere.

― Se si considerano le cose sotto un altro aspetto, però, è difficile credere a queste ipotesi. Sia l'Est sia i Tropici sono zone in vertiginosa espansione, che progrediscono a vista d'occhio. Non possono sprecare energie in avventure militari. E l'Europa non può coltivare altro che sogni. Dal punto di vista militare è uno zero.

― Allora non rimane che il Nord, Stephen ― disse Susan.

― Sì ― disse Byerley, con foga. ― La Regione Settentrionale è attualmente la più forte, e lo è stata, o lo sono stati alcuni dei Paesi che comprende, per quasi un secolo. Ma adesso sta perdendo relativamente terreno. Per la prima volta dall'epoca dei Faraoni, la Regione Tropicale potrebbe assumere un ruolo di guida nell'ambito della civiltà umana, e certi settentrionali temono che succeda proprio questo.

― La Società Umanitaria è un'organizzazione che come sapete è nata nel Nord e ha lì la maggior parte dei suoi sostenitori, i quali non nascondono di essere ostili alle Macchine. Non è che siano numerosi, Susan, ma dell'associazione fanno parte uomini potenti: direttori di fabbriche, dirigenti industriali e di aziende agricole che detestano essere, come dicono loro, i fattorini della Macchina. Già, all'associazione appartengono uomini molto ambiziosi, che si sentono abbastanza in gamba da decidere da soli quale sia il loro interesse e da giudicare umiliante eseguire ordini nell'interesse del loro prossimo.

― In breve, alla Società Umanitaria appartengono proprio quelle persone che, rifiutando in gruppo di accettare le decisioni della Macchina, potrebbero in poco tempo rovesciare la struttura sociale del mondo.

― I conti tornano, Susan. Cinque dei dirigenti della World Steel sono membri dell'organizzazione, e la World Steel ha accusato ultimamente una sovrapproduzione di acciaio. La Consolidated Cinnabar, che controllava l'estrazione del mercurio ad Almaden, è una società settentrionale. I suoi registri non sono ancora stati esaminati a fondo, ma siamo sicuri che almeno uno dei dirigenti della compagnia fa parte dell'Umanitaria. E ne fa parte anche Francisco Villafranca, che è riuscito da solo a ritardare di due mesi i lavori d'apertura del Canale Messicano. E non mi sono affatto meravigliato di scoprire che anche Rama Vrasayana è un membro dell'associazione.

― Però ― osservò calma Susan Calvin, ― questi uomini non hanno ottenuto grandi risultati...

― Certo ― disse Byerley, ― ma disobbedire alle istruzioni della Macchina significa seguire procedure non troppo efficaci. I risultati sono spesso più miseri del previsto. È il prezzo che questa gente è costretta a pagare. Magari adesso si trova un po' in difficoltà, ma alla fine, nella confusione che nascerà...

― Allora come pensate di procedere, Stephen?

― È chiaro che non c'è tempo da perdere. Innanzitutto farò dichiarare illegale la Società e allontanerò tutti i suoi membri da ogni incarico di responsabilità. Da ora in poi tutte le funzioni tecniche e direttive potranno essere svolte solo da persone che avranno precedentemente firmato un documento in cui dichiarano di non appartenere all'Umanitaria. In questo modo le fondamentali libertà civili del cittadino saranno leggermente limitate, ma sono sicuro che il Congresso...

― Non funzionerà.

― Perché no?

― Posso azzardare una previsione? Se procederete così, vi metteranno a ogni passo i bastoni fra le ruote. Vi troverete nell'assoluta impossibilità di agire. Sorgeranno problemi a ogni mossa che compirete in questa direzione.

― Perché dite così? ― fece Byerley, sgomento. ― Speravo che avreste approvato il mio piano.

― Non posso approvarlo finché è basato su false premesse. Voi ammettete che le Macchine non possono sbagliare e che non possono accettare dati errati. Vi dimostrerò ora che, diversamente da come pensate, alle Macchine non si può nemmeno disobbedire.

― Questo mi sembra proprio assurdo.

― Allora ascoltatemi. Tutte le azioni compiute da un dirigente che non segue alla lettera le istruzioni della Macchina con cui collabora entrano a far parte dei dati che vengono utilizzati per risolvere il problema successivo. La Macchina quindi sa che il dirigente ha una certa tendenza a disobbedire. È in grado di incorporare anche quantitativamente quella tendenza nei dati e di valutare con precisione fino a che punto e in che termini la disobbedienza potrebbe ripetersi. In seguito dunque sarebbe prevenuta nel dare le sue risposte e appena il dirigente in questione disobbedisse ancora, le risposte stesse verrebbero automaticamente e opportunamente corrette. Le Macchine sanno, Stephen!

― Non potete esserne sicura. La vostra è solo un'ipotesi.

― È un'ipotesi che si basa sulla lunga esperienza che mi sono fatta lavorando con i robot. Vi conviene fidarvi della mia parola, Stephen.

― Ma allora che soluzione resta? Le Macchine funzionano bene e le premesse da cui partono sono corrette. Su questo siamo d'accordo entrambi. Ora voi dite che è anche impossibile non seguire le loro istruzioni. Dunque cosa c'è che non va?

― La risposta l'avete data voi stesso. Niente. Non c'è niente che non vada. Riflettete un attimo, Stephen. Le Macchine sono robot e obbediscono alla Prima Legge. Ma operano per il bene non di un singolo individuo, bensì dell'umanità intera, per cui la Prima Legge diventa: "Una Macchina non può recar danno all'umanità, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, l'umanità riceva danno".

― Ora, che cosa può recar danno all'umanità, Stephen? Soprattutto gli squilibri economici, di qualunque natura siano. Non siete d'accordo?

― Sì.

― E che cosa potrebbe provocare in futuro i peggiori problemi economici? Rispondete a questa domanda, Stephen.

― Mah ― osservò Byerley, riluttante, ― la distruzione delle Macchine, direi.

― Già, direi anch'io, e le Macchine condividono indubbiamente la nostra opinione. La loro prima preoccupazione è quindi di salvaguardare, per il nostro bene, la loro esistenza. E così, in sordina, stanno cercando di eliminare quei piccoli elementi di disturbo che potrebbero rappresentare una minaccia. La Società Umanitaria non sta affatto tentando di rovesciare la barca per arrivare poi a distruggere le Macchine. No, avete esaminato il quadro dalla prospettiva sbagliata. È semmai il contrario: sono le Macchine che stanno scuotendo leggermente la barca, quel tanto da scaricare giù le persone che vi si aggrappano per scopi che le Macchine stesse considerano nocivi all'umanità.

― Così Vrasayana ha perso la sua fabbrica e ottenuto un altro impiego che non gli consente di far del male a nessuno. Continua a guadagnarsi da vivere, quindi non ha ricevuto un grave danno: le Macchine non possono recare che un danno minimo agli esseri umani, e sempre solo per salvaguardare gli interessi di gruppi più vasti. La Consolidated Cinnabar non amministra più le estrazioni di Almaden. Villafranca non ha più la responsabilità di un progetto importante. E i dirigenti della World Steel stanno perdendo o perderanno il controllo dell'industria.

― Ma non potete essere sicura che le cose stiano realmente così ― insistette Byerley, perplesso. ― Non è un rischio partire dal presupposto che abbiate ragione?

― Vi ripeto che dovete fidarvi di me. Vi ricordate quel che ha detto la Macchina quando le avete sottoposto il problema? "La questione non ammette spiegazioni". Non ha detto che non c'erano spiegazioni o che non riusciva ad elaborarne alcuna. Semplicemente non ne ammetteva. In altre parole, sarebbe dannoso all'umanità rendere noti i motivi a monte del problema, ed è per ciò che possiamo solo formulare ipotesi e continuare a basarci su questo.

― Ma supposto che aveste ragione, Susan, perché mai la spiegazione dovrebbe nuocerci?

― Be', Stephen, se ho ragione significa che le Macchine pianificando il nostro futuro tengono conto non solo delle nostre domande dirette, cui devono dare una risposta diretta, ma anche della situazione mondiale e della psicologia umana nel loro complesso. E se ci informassero di questa realtà ferirebbero il nostro orgoglio e ci renderebbero infelici. E le Macchine non possono, non devono renderci infelici.

― Come facciamo a sapere quale sia veramente il bene supremo dell'umanità, Stephen? Noi non abbiamo a disposizione il numero infinito di dati che hanno a disposizione le Macchine. Forse, tanto per fare un esempio che non ci è del tutto estraneo, l'intera civiltà tecnologica ha generato più angoscia e infelicità di quante non ne abbia eliminato. Forse sarebbe preferibile una civiltà contadina o pastorale, con meno cultura e meno affollamento. Se così è, le Macchine dovranno muoversi in quella direzione, ma senza dircelo, perché noi, nella nostra ignoranza piena di pregiudizi, accettiamo solo ciò a cui siamo abituati e quindi ci opporremmo a qualsiasi cambiamento. O forse la risposta è l'urbanizzazione totale, oppure una società senza classi, o ancora la completa anarchia. Non lo sappiamo. Solo le Macchine lo sanno e, perseguendo tale obiettivo, ci conducono verso di esso.

― Ma Susan, allora mi state dicendo che la Società Umanitaria ha ragione. Che veramente l'umanità non ha più voce in capitolo riguardo al proprio futuro.

― In realtà non l'ha mai avuta. È sempre stata in balia di forze economiche e sociali che non comprendeva; ha subito i disastri causati dal clima e dalle guerre. Ora le Macchine capiscono i vari fattori in gioco e nessuna potrà fermarle, perché li gestiscono come hanno gestito la vicenda della Società Umanitaria. E lo possono fare in quanto hanno a loro disposizione l'arma più potente di tutte: il controllo assoluto della nostra economia.

― È orribile!

― Forse invece è fantastico. Pensate che da ora in poi tutti i conflitti saranno evitabili. Solo le Macchine saranno inevitabili.

Il fuoco dietro la lastra di quarzo del caminetto si spense e al suo posto rimase solo un pennacchio di fumo.

 

 

 

 

― E questo è tutto, ― disse la dottoressa Calvin, alzandosi. ― Io ho visto dall'inizio, quando i poveri robot non potevano parlare, fino alla fine, ora che si ergono fra l'umanità e la distruzione. Non vedrò altro. La mia vita è finita. Ma lei vedrà ciò che accadrà in futuro.

Non ho mai più rivisto Susan Calvin. è morta il mese scorso, all'età di ottantadue anni.

 

 

FINE

 

Io, Robot
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