SING SONG GIRLS
Nell'estate del 1851 Jacob Freemont decise di intervistare Joaquin Murieta. I banditi e gli incendi erano argomenti di moda in California: tenevano la gente con il cuore in gola e la stampa occupata. Il crimine aveva messo radici ed era nota la corruttibilità della polizia composta in gran parte da malfattori più interessati a proteggere i loro complici che non la popolazione. Dopo un altro violento incendio che distrusse buona parte di San Francisco, si costituì un comitato di guardie formato da cittadini furibondi e capitanato dallo straordinario Sam Brannan, il mormone che nel 1848 aveva diffuso la notizia della scoperta dell'oro. Le compagnie di pompieri correvano trainando con corde i carri carichi d'acqua su e giù per i pendii, ma prima che raggiungessero un edificio, il vento aveva già spinto le fiamme su quello di fianco. L'incendio era scoppiato quando gli hounds australiani, dopo aver inzuppato di kerosene il negozio di un commerciante che si era rifiutato di pagare il pizzo, gli si erano avvicinati con una torcia. Vista l'indifferenza delle autorità, il comitato decise di agire per conto proprio. I giornali protestavano: "Quanti crimini sono stati commessi in questa città in un anno? E chi è andato sulla forca o è stato punito? Nessuno! Quanti uomini sono stati impallinati e pugnalati, storditi e picchiati, ma chi è stato condannato? Non approviamo i linciaggi, ma come si fa a prevedere cosa farà la gente indignata per proteggersi?". Linciaggi, fu proprio questa la strada che si decise di percorrere. Le guardie si buttarono a capofitto in questo genere di operazioni, impiccando il primo sospettato. I membri del comitato aumentavano di giorno in giorno e agivano con tale frenetico entusiasmo che per la prima volta i fuorilegge badavano bene a non entrare in azione in pieno giorno. In un clima simile, di violenza e vendetta, la figura di Joaquin Murieta iniziò a trasformarsi in un simbolo. Jacob Freemont si incaricava di attizzare il fuoco della sua celebrità; i suoi articoli sensazionalistici avevano forgiato l'immagine di un eroe per gli ispanici e di un demonio per gli yankee. Gli attribuiva una numerosa truppa al seguito e il talento di un genio militare, e sosteneva che, contro la guerriglia di scaramucce da lui combattuta, le autorità risultavano impotenti. Attaccava con astuzia e rapidità, piombando sulle vittime come una maledizione e sparendo immediatamente senza lasciare traccia, per ricomparire poco dopo a cento miglia di distanza, protagonista di un altro colpo di tale inusitata audacia che si poteva spiegare solamente con arti magiche. Freemont sospettava che si trattasse di diversi individui e non di uno solo, ma si guardava bene dal dirlo; avrebbe tolto forza alla leggenda. Ebbe invece l'ispirazione di chiamarlo "il Robin Hood della California", soprannome che alimentò immediatamente il falò delle dispute razziali. Per gli yankee, Murieta incarnava quanto di più detestabile i greasers rappresentavano; d'altronde si sospettava che i messicani lo nascondessero e lo rifornissero di armi e provviste perché rubava agli yankee per aiutare quelli della sua razza. Durante la guerra avevano perso i territori del Texas, dell'Arizona, del Nuovo Messico, del Nevada, dello Utah, di mezzo Colorado e della California: per loro, qualsiasi attentato contro i gringo andava considerato un atto di patriottismo. Il governatore diffidò il giornale dal trasformare imprudentemente un criminale in eroe, ma il nome aveva già infiammato l'immaginazione del pubblico. A Freemont arrivavano dozzine di lettere - tra cui quella di una ragazza di Washington disposta a navigare per mezzo mondo pur di sposare il bandito -, e la gente lo fermava per strada per conoscere qualche particolare sul famoso Joaquin Murieta. Pur senza averlo mai visto, il giornalista lo descriveva come un giovane dall'aspetto virile, con i lineamenti di un nobile spagnolo e la temerarietà di un torero. Non se lo era posto come obiettivo, ma era inciampato in una miniera molto più produttiva delle molte della Veta Madre. Progettò di intervistare il suddetto Joaquin, che chissà se veramente esisteva, per redigerne la biografia; nel caso si fosse trattato solo di una favola, il materiale era ideale per la stesura di un romanzo. Come autore doveva semplicemente offrire una scrittura dal tono eroico per soddisfare il gusto del pubblico. La California aveva bisogno dei suoi miti e delle sue leggende, sosteneva Freemont, era uno stato appena nato per gli americani che volevano cancellare in un sol colpo la storia precedente di indiani, messicani e californiani. Per quella terra di uomini solitari dagli spazi sconfinati, terra vergine per la conquista e la violenza, quale migliore eroe di un bandito? Mise l'indispensabile in una valigia, si attrezzò con un numero sufficiente di quaderni e matite e partì a caccia del suo personaggio. Che avrebbe corso dei rischi non gli passò nemmeno per la testa; armato della duplice arroganza di inglese e di giornalista, si credeva al riparo da qualsiasi evenienza. Inoltre si viaggiava con una certa comodità, le strade erano state costruite e un regolare servizio di diligenze collegava i villaggi in cui pensava di condurre le sue indagini; non era più come prima, all'inizio della sua carriera di reporter, quando doveva viaggiare a dorso di mulo facendosi strada nell'incertezza di boschi e colline, senz'altra guida che le demenziali cartine in base alle quali si poteva girare in tondo all'infinito. Durante il tragitto poté apprezzare i cambiamenti avvenuti nella regione. In pochi si erano arricchiti con l'oro, ma grazie agli avventurieri arrivati a migliaia, la California si stava civilizzando. Senza la febbre dell'oro la conquista del West sarebbe avvenuta con un paio di secoli di ritardo, annotò il giornalista sul suo quaderno.
Storie da raccontare non mancavano; come quella di quel giovane minatore, un diciottenne, che dopo aver patito la miseria per un lungo anno era riuscito a mettere insieme i diecimila dollari di cui aveva bisogno per tornare in Oklahoma e comprare una fattoria per i genitori. Un giorno radioso stava scendendo lungo le pendici della Sierra Nevada verso Sacramento, con il sacco contenente il tesoro sulla schiena, quando venne sorpreso da un gruppo di crudeli messicani o di cileni, a questo proposito non c'erano informazioni sicure. Con certezza si sapeva solo che parlavano spagnolo, perché ebbero la sfacciataggine di lasciare un cartello scritto in quella lingua, inciso con un coltello su un pezzo di legno: "a morte gli yankee". Non si accontentarono di malmenarlo e di derubarlo: lo legarono nudo a un albero e lo cosparsero di miele. Due giorni più tardi, quando una pattuglia lo trovò, era impazzito. Le zanzare gli avevano divorato la pelle.
Freemont mise alla prova il suo talento di giornalista amante delle storie morbose narrando la tragica fine di Josefa, una bella messicana che lavorava in una sala da ballo. Il cronista giunse nel paese di Downieville il giorno dell'Indipendenza e si ritrovò nel bel mezzo dei festeggiamenti capitanati da un candidato al senato e innaffiati da fiumi di alcol. Un minatore ubriaco si era introdotto a viva forza nella camera di Josefa e lei lo aveva respinto conficcandogli il suo coltello da caccia in pieno cuore. Quando giunse Jacob Freemont, il cadavere giaceva su un tavolo avvolto in una bandiera americana e una folla di duemila fanatici infiammati dall'odio razziale reclamava la forca per Josefa. Impassibile, la donna si fumava la sua sigaretta come se lo schiamazzo non la riguardasse; con la sua blusa bianca macchiata di sangue, percorreva con lo sguardo i visi degli uomini con infinito disprezzo, conscia dell'incendiaria miscela di aggressività e desiderio sessuale che provocava in loro. Un medico osò intervenire in suo favore, spiegando che aveva agito per legittima difesa e che giustiziandola avrebbero ucciso anche il bambino che aveva nel ventre, ma la folla lo fece tacere, minacciando di impiccare pure lui. Tre dottori in preda al terrore furono costretti loro malgrado a visitare Josefa e tutti e tre dichiararono che non era incinta, circostanza che spinse l'improvvisato tribunale a condannarla immediatamente. "Far fuori questi greasers a pistolettate non va bene; bisogna sottoporli a un processo giusto e impiccarli con tutti i crismi della legge," dichiarò uno dei membri della giuria. Freemont, cui non era mai capitato di vedere da vicino un linciaggio, ebbe modo di riferire con frasi esaltate che, alle quattro del pomeriggio, cercarono di trascinare Josefa verso il ponte dove era tutto pronto per l'esecuzione, ma lei si liberò con alterigia e avanzò da sola verso il patibolo. La bella salì senza essere aiutata, si assicurò le gonne intorno alle caviglie, si mise la corda intorno al collo, si sistemò le trecce nere e si congedò con uno spavaldo "addio; signori" che lasciò il giornalista stupito e gli altri mortificati. "Josefa non è morta perché colpevole, ma in quanto messicana. E la prima volta che in California viene linciata una donna. Che spreco, ce ne sono talmente poche!" scrisse Freemont nel suo articolo.
Seguendo le tracce di Joaquin Murieta scoprì paesi veri e propri, con tanto di scuola, biblioteca, chiesa e cimitero; altri, invece, come soli segni di civiltà esibivano il bordello e la prigione. I saloon non mancavano mai, erano il fulcro della vita sociale. Era lì che si stabiliva Jacob Freemont a condurre le sue indagini e grazie a questo sistema ricostruì, con qualche verità e un mucchio di bugie, la storia - o la leggenda - di Joaquin Murieta. Gli osti lo dipingevano come uno spagnolo maledetto, vestito di pelle e velluto nero, con grandi speroni d'argento e un pugnale in vita, a cavallo del sauro più brioso che si fosse mai visto. Dicevano che entrava impunemente con un forte tintinnare di speroni insieme al seguito di banditi, posava i suoi dollari d'argento sul bancone e ordinava un giro da bere per tutti gli avventori. Nessuno si azzardava a rifiutare il bicchiere, persino i più coraggiosi bevevano in silenzio sotto lo sguardo lampeggiante del bandito. Per le guardie, invece, il personaggio non aveva niente di grandioso: si trattava semplicemente di un volgare assassino capace di commettere le peggiori atrocità, che era riuscito a sfuggire alla giustizia perché lo proteggevano i greasers. I cileni lo consideravano uno di loro, dicevano che era nato in un luogo denominato Quillota, che era leale con i suoi amici e che non dimenticava mai di ricambiare i favori ricevuti, motivo per cui era una buona politica aiutarlo; i messicani giuravano, invece, che proveniva dallo stato di Sonora e che era un giovane educato, di antica e nobile famiglia, trasformatosi in malfattore per vendetta. I biscazzieri lo consideravano un asso a monte, e lo evitavano perché aveva una fortuna sfacciata a carte e un pugnale allegro che gli luccicava in mano alla minima provocazione. Le prostitute bianche morivano di curiosità, dal momento che correva voce che quel giovanotto bello e generoso possedesse un instancabile membro da puledro; le ispaniche invece non ci speravano: le mance che Joaquin Murieta era solito dar loro erano immeritate, visto che non sfruttava mai i loro servizi per rimanere fedele alla fidanzata, così assicuravano. Stando alla loro descrizione era di media statura, capelli neri e occhi brillanti come tizzoni, adorato dalla sua banda, irriducibile di fronte alle avversità, feroce con i nemici e galante con le donne. Altri sostenevano che avesse il rozzo aspetto di un criminale nato e che una profonda cicatrice gli solcasse il viso; del ragazzo perbene, nobile o elegante, non aveva nulla. Jacob Freemont selezionava le informazioni che meglio si adattavano alla sua immagine del bandito e così la rifletteva nei suoi scritti, sempre con un'ambiguità sufficiente a consentirgli di ritrattare nel caso in cui un giorno o l'altro incappasse nel suo protagonista in carne e ossa. Girò su e giù per tutta l'estate senza trovarlo da nessuna parte, ma con le differenti versioni costruì una fantastica quanto eroica biografia. Siccome non voleva ammettere la sua sconfitta, negli articoli inventava di brevi riunioni nelle prime ore della notte, in grotte montane o in radure del bosco. Tanto, chi poteva contraddirlo? Uomini mascherati lo conducevano a cavallo con gli occhi bendati, non poteva identificarli, ma parlavano spagnolo, diceva. La stessa fervida eloquenza che anni prima aveva impiegato in Cile per descrivere gli indios paragoni della Terra del Fuoco, territorio in cui lui non aveva mai messo piede, ora gli serviva per tirare fuori dal cilindro un bandito immaginario. Si innamorò progressivamente del suo personaggio e finì col convincersi che lo conosceva, che gli incontri clandestini nelle grotte erano reali e che era stato il fuggitivo in persona ad affidargli la missione di scrivere le sue prodezze, perché si considerava il vendicatore degli spagnoli oppressi e qualcuno doveva pur assumersi il compito di dare a lui e alla sua causa il posto dovuto nella storia nascente della California. Di giornalismo ce n'era poco, ma di letteratura a sufficienza per il romanzo che Jacob Freemont aveva progettato di scrivere nell'inverno successivo.
Quando l'anno prima era arrivato a San Francisco, Tao Chi'en si era dedicato a stabilire i contatti necessari per esercitare per qualche mese la sua professione di zhong yi. Aveva un po' di soldi, ma pensava di triplicare la somma nel giro di poco tempo. A Sacramento la comunità cinese era costituita da circa settecento uomini e nove o dieci prostitute, ma a San Francisco c'erano migliaia di potenziali clienti. Inoltre le navi che solcavano in continuazione l'oceano erano talmente numerose da consentire ad alcuni signori di mandare a lavare le loro camicie nelle Hawaii o in Cina perché in città non c'era acqua corrente, e questo permetteva a Tao di ordinare erbe e rimedi a Canton senza nessuna difficoltà. In quella città non sarebbe stato tanto isolato come a Sacramento: lì praticavano diversi medici cinesi con i quali avrebbe potuto scambiare pazienti e nozioni. Non aveva progettato di aprire un ambulatorio suo, perché si era riproposto di risparmiare, ma poteva associarsi con un altro zhong yi già in attività. Non appena ebbe preso alloggio in un hotel, si mise a percorrere il quartiere che si era espanso in tutte le direzioni. Adesso era una cittadina con edifici solidi, hotel, ristoranti, lavanderie, fumerie d'oppio, bordelli, mercati e fabbriche. Dove prima si offrivano solo articoli scadenti, ora sorgevano negozi di antiquariato orientale, porcellane, smalti, gioielli, seta e avori. Lì si recavano a comprare i ricchi commercianti, non solo cinesi, ma anche americani, per rivendere in altre città. La merce era esposta in un variegato disordine, ma i pezzi migliori, quelli destinati agli intenditori e ai collezionisti, non erano in vista e venivano mostrati solo ai clienti seri nel retrobottega. Nelle stanze segrete di alcuni locali funzionavano delle bische in cui si davano appuntamento giocatori spericolati. Lontani dalla curiosità del pubblico e dagli occhi delle autorità, su quei tavoli esclusivi si scommettevano somme da capogiro, si concludevano affari sporchi e si esercitava il potere. Il governo degli americani non aveva alcun controllo sui cinesi che vivevano nel loro mondo, nella loro lingua, con i loro usi e le loro antichissime leggi. I "celestiali" non erano graditi da nessuna parte, i gringo li consideravano i più abietti tra gli stranieri indesiderati che invadevano la California e non perdonavano il loro benessere. Li sfruttavano come potevano, li aggredivano per strada, li derubavano, ne bruciavano i negozi e le case, li assassinavano impunemente, ma niente scoraggiava i cinesi. Controllavano il territorio cinque tong che si erano suddivisi la popolazione; ogni cinese che arrivava si affiliava a una di queste confraternite, unica garanzia per avere protezione, trovare lavoro e assicurarsi che alla morte il corpo sarebbe stato rimpatriato in Cina. Tao Chi'en, che era riuscito a eludere l'associazione a un tong, ora dovette sceglierne uno e optò per il più numeroso, cui si aggregava la maggior parte dei cantonesi. Ben presto venne messo in contatto con altri zhong yi e gli furono rivelate le regole del gioco. Prima di tutto, silenzio e lealtà: tutto ciò che avveniva nel quartiere rimaneva confinato entro le sue strade. Vietato fare ricorso alla polizia, nemmeno in caso di pericolo di vita; i conflitti si risolvevano all'interno della comunità, per questo esistevano i tong. Il nemico comune erano sempre i fan güey. Tao Chi'en si ritrovò di nuovo prigioniero degli usi, delle gerarchie e delle restrizioni dei tempi di Canton. In un paio di giorni non rimaneva più nessuno che non lo conoscesse e iniziarono ad arrivare più clienti di quanti potesse assisterne. Non aveva bisogno di cercare un socio, decise a quel punto; poteva aprire un suo ambulatorio e far soldi in un tempo minore del previsto. Affittò due camere ai piani superiori di un ristorante, una in cui vivere e l'altra in cui lavorare, appese un'insegna alla finestra e assunse un giovane aiutante che diffondesse la voce dei suoi servizi e ricevesse i pazienti. Per la prima volta utilizzò il sistema del dottor Ebanizer Hobbs per seguire gli ammalati. Fino ad allora si era affidato alla memoria e all'intuizione, ma, visto il numero crescente di clienti, inaugurò un archivio su cui annotare la terapia di ognuno di loro.
Un pomeriggio all'inizio dell'autunno si presentò il suo aiutante con un indirizzo annotato su un pezzo di carta e la richiesta di presentarsi prima possibile. Finì di ricevere i pazienti del giorno e uscì. L'edificio in legno, a due piani, decorato con draghi e lampade di carta, si trovava proprio nel centro del quartiere. Senza bisogno di guardarlo due volte, capì che si trattava di un bordello. Su entrambi i lati della porta c'erano finestrelle sprangate da cui si affacciavano visi infantili che invitavano in cantonese: "Entri qui e faccia tutto quel che vuole con una bambina cinese molto carina". E ripetevano, in un inglese incomprensibile, a beneficio dei visitatori bianchi e dei marinai di tutte le razze: "Due per guardare, quattro per toccare e sei per farlo", mentre contemporaneamente mostravano dei minuscoli, commoventi seni e tentavano i passanti con gesti osceni che, così mimati, sembravano una tragica pantomima. Tao Chi'en le aveva viste molte volte, passava giornalmente per quella strada e i miagolii delle sing song girls lo inseguivano, riportandogli alla memoria la sorellina. Cosa ne era stato di lei? Doveva avere ventitré anni, nel caso improbabile in cui fosse ancora viva, pensava. Le prostitute più povere tra quelle povere iniziavano molto presto e raramente arrivavano ai diciotto anni; a venti, se avevano avuto la sfortuna di sopravvivere, erano già vecchie. Il ricordo di quella sorella perduta gli impediva di frequentare postriboli cinesi; quando il desiderio non gli dava pace, cercava donne di altre razze. Gli aprì la porta una vecchia sinistra con i capelli tinti e le sopracciglia dipinte con due linee a carbone, che lo salutò in cantonese. Una volta chiarito che appartenevano allo stesso tong, lo fece entrare. Lungo un corridoio fetido vide i cubicoli delle ragazze, alcune legate al letto da catene alle caviglie. Nella penombra del passaggio incrociò due uomini che uscivano aggiustandosi i pantaloni. La donna lo condusse per un labirinto di passaggi e scale, attraversarono l'intero isolato e percorrendo gradini tarlati sprofondarono nell'oscurità. Gli fece segno di attendere e, per un lasso di tempo che gli parve interminabile, aspettò nella nerezza di quel buco, cogliendo i rumori sordi della strada vicina. Sentì un debole squittio e qualcosa che gli sfiorava una caviglia; diede un calcio ed ebbe l'impressione di aver colpito un animale, probabilmente un topo. La vecchia tornò con una candela e lo guidò per tortuosi corridoi fino a una porta chiusa con un lucchetto. Estrasse la chiave dalla tasca e maneggiò con la serratura fino ad aprirlo. Sollevò la candela e illuminò una stanza senza finestre, dove come unico mobile c'era una cuccetta d'assi a pochi centimetri da terra. Una zaffata puzzolente li investì e dovettero tapparsi naso e bocca per entrare. Sulla cuccetta giaceva un piccolo corpo rattrappito, una scodella vuota e una lampada a olio spenta.
"La visiti," gli ordinò la donna.
Tao Chi'en girò il corpo e constatò che era già rigido. Era una bambina di circa tredici anni, con due macchie di belletto sulle guance, le braccia e le gambe segnate da cicatrici. Indossava semplicemente una camicia sottile. Era evidentemente ridotta pelle e ossa, ma non era morta di fame o di malattia.
"Veleno," stabilì senza esitare.
"Ma non mi dica..." rise la donna, come se Tao se ne fosse uscito con una battuta spiritosa.
Tao Chi'en dovette firmare un certificato in cui dichiarava che la morte era dovuta a cause naturali. La vecchia si affacciò sul corridoio, diede un paio di colpi a un piccolo gong e apparve immediatamente un uomo che sistemò il cadavere in un sacco, lo mise sulle spalle e lo portò via senza profferire parola, mentre la mezzana depositava venti dollari nella mano dello zhong yi. Poi lo condusse per altri labirinti e alla fine lo lasciò davanti a una porta. Tao Chi'en si ritrovò in una strada diversa e fece una certa fatica a orientarsi per tornare a casa.
Il giorno successivo si recò di nuovo allo stesso indirizzo. C'erano ancora le bambine con la faccia pitturata e gli occhi istupiditi che richiamavano l'attenzione in due lingue. Dieci anni prima, a Canton, aveva iniziato a praticare la medicina con le prostitute; le aveva utilizzate come carne in affitto per sperimentare gli aghi d'oro del maestro agopuntore, ma non si era mai soffermato a pensare alle loro anime. Le considerava una delle inevitabili disgrazie dell'universo, uno dei molti errori della creazione, esseri ignominiosi che soffrivano per pagare le manchevolezze delle vite precedenti e ripulire il karma. Provava pena per loro, ma non aveva mai pensato che la loro sorte potesse essere diversa. Aspettavano la sventura nei loro cubicoli senza alternative, come le galline nelle gabbie al mercato, perché era il loro destino. Questo era il disordine del mondo. Era passato mille volte per quella strada senza badare alle finestrelle, ai visi dietro le sbarre o alle mani che si sporgevano. Aveva una vaga nozione della loro condizione di schiave, ma in Cina le donne lo erano più o meno tutte; le più fortunate, dei loro genitori, mariti o amanti, altre di padroni al cui servizio lavoravano dall'alba al tramonto, e molte erano come queste bambine. Quella mattina, tuttavia, non le guardò con la solita indifferenza perché qualcosa in lui era cambiato.
La notte precedente non aveva dormito. Uscito dal bordello, si era recato a un bagno pubblico, dove era rimasto a lungo nell'acqua per liberarsi dall'oscura energia dei suoi malati e dal profondo malessere che lo opprimeva. Arrivato a casa, aveva congedato l'aiutante e si era preparato un tè al gelsomino per purificarsi. Non mangiava da parecchie ore, ma non era quello il momento di farlo. Si spogliò, accese l'incenso e una candela, si inginocchiò con la fronte a terra e recitò una preghiera per l'anima della ragazza morta. Poi si sedette a meditare e lo fece per ore in completa immobilità, finché non si estraniò dal chiasso della strada e dagli odori del ristorante, immergendosi nel vuoto e nel silenzio del proprio spirito. Non si rese conto di quanto tempo rimase concentrato a chiamare e chiamare Lin, ma, alla fine, il delicato fantasma lo sentì dalla misteriosa immensità che abitava e lentamente trovò la strada, si avvicinò con la leggerezza di un sospiro, prima quasi impercettibile, poi sempre più concreto, fino a quando Tao non avverti nitidamente la sua presenza. Non sentì Lin tra le mura della stanza, ma dentro il suo petto, nel centro preciso del suo cuore pacificato. Tao Chi'en non aprì gli occhi e non si mosse. Per ore mantenne la stessa posizione, separato dal corpo, galleggiando in uno spazio luminoso, in perfetta comunione con lei. All'alba, quando entrambi furono sicuri che non si sarebbero più persi di vista, Lin si accomiatò con dolcezza. Allora arrivò il maestro agopuntore, sorridente e ironico come nei tempi migliori, prima che lo colpissero i vaneggiamenti della senilità, e rimase con lui, accompagnandolo e rispondendo alle sue domande, fino a quando il sole sorse, il quartiere si svegliò e alla porta si udì il bussare discreto dell'aiutante. Tao Chi'en si alzò, fresco e rigenerato, come dopo un sonno sereno, si vestì e andò ad aprire.
"Chiuda l'ambulatorio. Oggi non riceverò i pazienti. Ho altro da fare," annunciò all'aiutante.
Le indagini compiute quel giorno da Tao Chi'en cambiarono la rotta del suo destino. Le bambine dietro le sbarre provenivano dalla Cina; erano state prese dalla strada o erano state vendute dai loro genitori con la promessa che sarebbero andate alla Montagna Dorata a sposarsi. Gli agenti le selezionavano tra le più forti ed economiche, non tra le più belle, salvo nei casi di incarichi speciali da parte di clienti ricchi, che le acquistavano come concubine. Ah Toy, l'astuta donna che aveva inventato lo spettacolo dei fori nel muro per essere osservata, era diventata la maggior importatrice di carne fresca della città. Per la sua catena di locali comprava ragazze ancora nella pubertà perché erano più docili e perché tanto duravano comunque poco. Stava diventando famosa e molto ricca, i suoi forzieri traboccavano e si era comprata una palazzina in Cina dove pensava di ritirarsi durante la vecchiaia. Si vantava di essere la tenutaria orientale con le migliori relazioni, non solo con i cinesi, ma anche con gli americani influenti. Addestrava le sue ragazze a carpire informazioni e così veniva a conoscenza dei segreti personali, delle manovre politiche e delle debolezze degli uomini di potere. Quando non funzionavano i tentativi di corruzione, ricorreva ai ricatti. Nessuno osava sfidarla perché tutti, dal governatore in giù, avevano uno scheletro nell'armadio ed era meglio assecondarla. I carichi di schiave ormeggiavano nel molo di San Francisco senza intoppi legali e in pieno giorno. Non era, tuttavia, l'unica trafficante in California: il vizio, come le miniere d'oro, era uno degli affari più redditizi e sicuri. Le spese erano ridotte al minimo e le bambine, oltre a essere a buon mercato, viaggiavano nella stiva delle navi in grandi casse imbottite. Così sopravvivevano per settimane, senza sapere dove stessero andando né perché, e vedevano la luce del sole solamente quando dovevano essere istruite nella professione. Durante la traversata i marinai si incaricavano di allenarle e quando sbarcavano a San Francisco avevano perso anche le ultime vestigia di innocenza. Alcune morivano di dissenteria, di colera o di disidratazione; altre riuscivano a saltare in acqua quando venivano portate in coperta per essere lavate con acqua di mare. Le restanti rimanevano in trappola, non parlavano inglese, non conoscevano quella terra nuova e non sapevano da chi farsi aiutare. Gli agenti dell'immigrazione che venivano riforniti di bustarelle, chiudevano un occhio davanti all'aspetto delle bambine e timbravano senza leggere i falsi documenti di adozione o matrimonio. Sul molo venivano ricevute da una vecchia prostituta cui gli anni di esercizio professionale avevano lasciato una pietra nera al posto del cuore. Quest'ultima le guidava spronandole con un bastone, come fossero bestie, facendole passare per il centro della città, davanti agli occhi di chiunque volesse vedere. Appena varcavano la soglia del quartiere cinese sparivano per sempre nel labirinto sotterraneo di stanze segrete, corridoi falsi, scale tortuose, porte dissimulate e pareti doppie, dove la polizia non faceva mai incursione perché quello che succedeva lì erano "cose da gialli", una razza di pervertiti con i quali ritenevano fosse meglio non attaccar briga.
In un enorme spazio sotterraneo, chiamato ironicamente "Sala della Regina", le bambine affrontavano il loro destino. Le lasciavano riposare per una notte, facevano loro il bagno e le nutrivano obbligandole, a volte, a inghiottire una tazza di liquore per stordirle un po'. Quando era l'ora dell'asta, venivano portate nude in una stanza gremita di ogni genere e sorta di acquirenti che le palpeggiavano, ispezionavano loro i denti, mettevano le dita dove meglio credevano e alla fine facevano la loro offerta. Alcune venivano comprate per i bordelli di alto livello o per gli harem dei ricchi; le più forti generalmente finivano nelle mani di fabbricanti, minatori o contadini cinesi, per i quali avrebbero lavorato nel corso della loro breve esistenza; ma la maggior parte rimaneva nei cubicoli del quartiere cinese. Le vecchie insegnavano loro la professione: dovevano imparare a distinguere l'oro dal bronzo per non venire imbrogliate nel pagamento e ad attirare i clienti e a compiacerli per quanto umilianti e dolorose fossero le loro richieste. Per dare alla transazione una parvenza di legalità, erano costrette a firmare un contratto che non potevano leggere in cui venivano vendute per cinque anni, ma era tutto ben calcolato perché non potessero mai affrancarsi. Per ogni giorno di malattia venivano aggiunte due settimane al tempo del servizio e se cercavano di fuggire diventavano schiave per sempre. Vivevano ammucchiate in stanze senza ventilazione suddivise da spesse tende, dove onoravano gli obblighi fino alla morte come galeotti. Proprio lì si diresse Tao Chi'en quella mattina, accompagnato dagli spiriti di Lin e del maestro agopuntore. Un'adolescente che indossava unicamente una blusa lo condusse per mano dietro la tenda dove c'era un pagliericcio immondo, allungò la mano e gli disse che prima doveva pagare. Ricevuti i sei dollari, si sdraiò sulla schiena e aprì le gambe mantenendo lo sguardo fisso sul soffitto. Aveva le pupille spente e respirava a fatica; evidentemente era stata drogata. Tao si sedette di fianco a lei, la ricoprì con la camicia e cercò di accarezzarle la testa, ma lei lanciò un grido e si contrasse mostrando i denti, pronta a morderlo. Tao Chi'en si allontanò, le parlò a lungo in cantonese, senza toccarla, fino a che la sua voce cantilenante non l'ebbe calmata, e intanto osservò i lividi recenti. Alla fine lei iniziò a rispondere alle domande, più a gesti che a parole, perché sembrava aver perso l'uso della lingua, e così Tao venne a conoscere alcuni particolari della sua prigionia. Non sapeva dirgli da quanto tempo fosse lì, perché misurare il tempo era un esercizio inutile, ma probabilmente non era molto perché ricordava ancora, con dolorosa precisione, la sua famiglia in Cina.
Quando, stando ai suoi calcoli, i minuti del turno erano trascorsi, Tao Chi'en si ritirò. Sulla porta lo attendeva la stessa vecchia che lo aveva ricevuto il pomeriggio del giorno prima, ma non diede segno di averlo riconosciuto. Da lì si recò a fare domande nelle taverne, nelle sale da gioco, nelle fumerie d'oppio e infine andò a far visita ad altri medici dei quartiere finché, a poco a poco, fu in grado di mettere insieme le tessere di quel puzzle. Quando le piccole sing song girls erano troppo ammalate per continuare a essere utili venivano condotte all'"ospedale", come venivano chiamate le stanze segrete dove era stato il giorno prima, e lì venivano abbandonate con una scodella d'acqua, un po' di riso e una lampada con olio sufficiente per qualche ora. La porta tornava ad aprirsi qualche giorno dopo, quando entravano ad accertarsi della loro morte. Se le trovavano ancora vive, si incaricavano di farle fuori; nessuna tornava comunque a vedere la luce del sole. Avevano chiamato Tao Chi'en perché lo zhong yi abituale era assente.
L'idea di aiutare le ragazzine non era stata sua, avrebbe detto a Eliza nove mesi dopo, ma di Lin e del maestro di agopuntura.
"La California è uno stato libero, Tao, non ci sono schiavi. Rivolgiti alle autorità americane."
"La libertà non è un bene a portata di tutti. Gli americani sono ciechi e sordi, Eliza. Quelle bambine sono invisibili, come i matti, i mendicanti e i cani."
"E neanche ai cinesi importa?"
"Ad alcuni sì, come a me, ma nessuno è disposto a mettere a repentaglio la propria vita sfidando le organizzazioni criminali. La maggioranza ritiene che, se per secoli in Cina si è agito così, non ci sia motivo di criticare quello che succede qui."
"Che gente crudele!"
"Non è crudeltà. È semplicemente che nel mio paese la vita non ha molto valore. La gente è tanta e i bambini sono sempre di più di quelli che si possono nutrire."
"Ma per te quelle bambine non sono merce da buttare, vero, Tao?"
"No. Tu e Lin mi avete insegnato molto sulle donne."
"Cos'hai intenzione di fare?"
"Dovevo darti retta quando mi dicevi di cercare l'oro, ti ricordi? Se fossi ricco, le comprerei."
"Ma non lo sei. E comunque tutto l'oro della California non sarebbe sufficiente per comprare ognuna di loro. Bisogna bloccare questo traffico."
"È impossibile. Ma se mi aiuti posso salvarne qualcuna..."
Le raccontò che negli ultimi mesi era riuscito a riscattarne undici, anche se solo due erano sopravvissute. Il suo metodo era rischioso e poco efficace, ma non riusciva a escogitarne altri. Si era offerto di curarle gratis quando erano ammalate o incinte e in cambio chiedeva che gli fossero consegnate quelle agonizzanti. Corrompeva le donne affinché lo chiamassero quando era giunto il momento di mandare una sing song girl all'"ospedale"; allora si presentava con il suo aiutante; collocavano la moribonda su una portantina e se la portavano via. "Per fare degli esperimenti," spiegava Tao Chi'en, anche se molto raramente gli venivano fatte delle domande. La bambina ormai non valeva più niente e la stravagante perversione di quel dottore risparmiava loro il problema di disfarsi del cadavere. L'accordo era conveniente per ambo le parti. Prima di portarsi via l'ammalata, Tao Chi'en consegnava un certificato di morte e pretendeva la restituzione del contratto di servizio firmato dalla ragazza, per evitare reclami. In nove casi, le ragazzine erano già ben al di là di qualsiasi speranza e non aveva potuto far altro che sostenerle durante le ultime ore, ma due erano sopravvissute.
"Che ne è stato di loro?"
"Vivono con me. Sono ancora deboli e una sembra mezzo impazzita, ma si rimetteranno. Il mio aiutante è rimasto a occuparsi di loro mentre io venivo a cercarti."
"Già."
"Non posso più tenerle rinchiuse."
"Potremmo tentare di farle tornare dalle loro famiglie in Cina..."
"No! Sarebbero di nuovo schiave. In questo paese si possono salvare, ma non so come."
"Se le autorità non se ne interessano, lo faranno le persone buone. Ci rivolgeremo alle chiese e ai missionari."
"Non credo che ai cristiani possano interessare queste bambine cinesi."
"Che scarsa fiducia hai nel cuore umano, Tao!"
Eliza lasciò l'amico a prendere il tè con la Spaccaossa, avvolse uno dei pani appena sfornati e andò a far visita al fabbro. Trovò James Morton mezzo nudo, con un grembiule di pelle e uno straccio legato sulla testa, sudato davanti alla forgia. Lì dentro il caldo era insopportabile, c'era puzza di fumo e di metallo caldo. Era un capannone di legno con il pavimento di terra e una doppia porta che, estate e inverno, durante le ore di lavoro rimaneva aperta. Appena entrati c'era un grande bancone per ricevere i clienti, e più indietro la forgia. Dalle pareti e dalle travi del soffitto pendevano gli attrezzi del mestiere, ferri e strumenti fabbricati da Morton. Sulla parte posteriore, una scala a pioli portava al soppalco che fungeva da camera da letto, protetta agli occhi dei clienti da una tenda di tela cerata. Sotto, la mobilia consisteva in una tinozza da bagno e in un tavolo con due sedie; le uniche decorazioni erano una bandiera americana sulla parete e tre fiori silvestri in un bicchiere sul tavolo. Esther stava stirando una montagna di bucato facendo dondolare una pancia enorme; era madida di sudore, ma sollevava canticchiando i pesanti ferri da stiro a carbone. L'amore e la gravidanza l'avevano abbellita e un alone di pace la illuminava. Lavava la biancheria degli altri, lavoro faticoso tanto quanto quello del marito con incudine e martello. Tre volte alla settimana riempiva un carretto con la biancheria sporca, andava al fiume e passava buona parte del giorno in ginocchio a insaponare e strofinare. Se c'era il sole, faceva asciugare il bucato sui sassi, ma spesso doveva ritornare con tutti i panni bagnati e dedicarsi immediatamente a inamidare e stirare. James Morton non era riuscito a farla desistere da quella disumana attività, ma lei non voleva che il bimbo nascesse in quel luogo e risparmiava ogni singolo centesimo per trasferire l'intera famiglia in una casa in paese.
"Cilenito!" esclamò, e ricevette Eliza stringendola in un forte abbraccio.
"Come sei bella, Esther! In realtà sono venuto per James," disse, allungandole il pane.
L'uomo abbandonò gli attrezzi, si asciugò il sudore con uno straccio e condusse Eliza nel patio, dove Esther li raggiunse con tre bicchieri di limonata. Il pomeriggio era fresco e il cielo nuvoloso, ma non presagiva ancora l'inverno. L'aria sapeva di fieno appena tagliato e di terra umida.