DISILLUSIONI

 

Verso la fine dell'autunno Tao Chi'en ricevette l'ultima lettera di Eliza, che era passata di mano in mano per vari mesi seguendo le sue tracce fino a San Francisco. Aveva lasciato Sacramento in aprile. In quella città l'inverno era stato per lui eterno; l'unico sostegno erano state le lettere di Eliza che arrivavano sporadicamente, la speranza che lo spirito di Lin lo localizzasse e l'amicizia con l'altro zhong yi. Si era procurato libri di medicina occidentale e si era dedicato con passione al compito di tradurli al suo amico riga per riga, così che tutti e due potessero assorbire contemporaneamente quel sapere tanto diverso dal loro. Si resero conto che in Occidente si sapeva ben poco delle piante fondamentali, della prevenzione delle malattie e del qi, l'energia del corpo non veniva menzionata in questi testi, ma in altri aspetti erano molto più progrediti. Con il suo amico passava giornate intere a paragonare e a discutere, ma lo studio non fu una consolazione sufficiente; l'isolamento e la solitudine gli pesavano talmente che abbandonò la sua casupola d'assi e il suo giardino di piante medicinali e si trasferì a vivere in un albergo di cinesi, dove perlomeno sentiva parlare la sua lingua e mangiava con gusto. Malgrado i suoi clienti fossero molto poveri e spesso li curasse gratuitamente, aveva messo da parte dei soldi. Se Eliza fosse tornata si sarebbero sistemati in una casa comoda, pensava, ma fino a quando fosse rimasto solo, l'albergo era sufficiente. L'altro zhong yi progettava di commissionare una giovane sposa in Cina e di stabilirsi definitivamente negli Stati Uniti perché, nonostante la sua condizione di straniero, lì poteva condurre un'esistenza migliore che non nel suo paese. Tao Chi'en lo ammonì contro la vanità dei loti d'oro, specialmente in America dove si camminava tanto e i fan güey si sarebbero presi gioco di una donna dai piedi da bambola. "Chieda all'intermediario di procurarle una sposa sana e sorridente, tutto il resto non importa," gli consigliò pensando al fugace transito in questo mondo della sua indimenticabile Lin e a quanto sarebbe stata più felice con i piedi e i polmoni forti di Eliza. Sua moglie doveva sentirsi sperduta, probabilmente non riusciva a orientarsi in quella strana terra. La invocava nelle ore di meditazione e nelle poesie, ma lei non tornò ad apparire nemmeno nei sogni. L'ultima volta che poté stare con Lin fu quel giorno nella stiva della nave, quando lei gli fece visita con il suo vestito di seta verde e le peonie tra i capelli per chiedergli di salvare Eliza, ma si trovavano più o meno all'altezza del Perù e da allora erano passati tanta acqua, terra e tempo, che sicuramente Lin stava vagando confusa. Si immaginava il dolce spirito che lo cercava in quello sconfinato continente senza riuscire a localizzarlo. Su suggerimento dello zhong yi fece dipingere un suo ritratto a un artista appena arrivato da Shangai, un vero genio del tatuaggio e del disegno che seguì le sue precise istruzioni, ma il risultato non rendeva giustizia alla trasparente bellezza di Lin. Tao Chi'en costruì un piccolo altare con il quadro, di fronte al quale si sedeva a chiamarla. Non capiva perché la solitudine, che prima considerava una benedizione e un lusso, ora gli risultasse insopportabile. Il peggior inconveniente dei suoi anni da marinaio era stata la mancanza di uno spazio privato per la quiete e il silenzio, ma adesso che l'aveva desiderava la compagnia. Ciò nonostante, l'idea di ordinare una sposa gli sembrava una follia. Già una volta gli spiriti dei suoi avi gli avevano procurato una sposa perfetta, ma dietro quell'apparente buona sorte era nascosta una maledizione. Aveva conosciuto l'amore corrisposto e non sarebbero più tornati i tempi dell'innocenza, quando gli sembrava sufficiente qualsiasi donna dai piedi piccoli e dal buon carattere. Si riteneva condannato a vivere del ricordo di Lin, perché nessun'altra avrebbe potuto occupare adeguatamente il suo posto. Non desiderava una serva o una concubina. Nemmeno il bisogno di avere dei figli che onorassero il suo nome e si occupassero della sua tomba serviva da incentivo. Cercò di spiegarlo all'amico, ma gli si ingarbugliò la lingua perché non c'erano parole con cui esprimere quel tormento. La donna è una creatura utile per il lavoro, la maternità e il piacere, ma nessun uomo istruito e intelligente doveva cercare di fare di lei una compagna, gli aveva detto l'amico l'unica volta che gli aveva confidato i suoi sentimenti. In Cina era sufficiente darsi un'occhiata in giro per capire tale pensiero, ma in America i rapporti tra gli sposi sembravano diversi. Tanto per cominciare nessuno aveva concubine, almeno dichiaratamente. Le poche famiglie di fan güey che Tao Chi'en aveva conosciuto in quella terra di uomini soli gli risultavano indecifrabili. Non riusciva a immaginare come funzionassero nell'intimità, dato che apparentemente i mariti consideravano le mogli loro pari. Era un mistero che gli interessava indagare, come tanti altri di quello straordinario paese.

Le prime lettere di Eliza arrivarono al ristorante e siccome la comunità cinese conosceva Tao Chi'en, non ci mise molto a consegnargliele. Quelle lunghe lettere, ricche di dettagli, erano la sua migliore compagnia. Ricordava Eliza stupito di sentirne tanto la mancanza, perché non aveva mai pensato che l'amicizia con una donna fosse possibile e men che meno con una di un'altra cultura. L'aveva quasi sempre vista in abiti maschili, ma gli sembrava del tutto femminile e lo meravigliava che la gente credesse al suo aspetto senza fare domande. "Gli uomini non guardano gli altri uomini e le donne mi credono un ragazzo effeminato", gli aveva scritto in una lettera. Per lui, invece, era la ragazza vestita di bianco cui aveva tolto il bustino in una casupola di pescatori a Valparaìso, l'ammalata che si era consegnata senza riserve alle sue cure nella stiva, il corpo tiepido incollato al suo durante le gelide notti sotto un tetto di stoffa, la voce allegra che canticchiava mentre cucinava e il viso dall'espressione grave che lo aiutava a curare i feriti. Non la vedeva più come una bambina, ma come una donna, nonostante le sue ossa minute e il suo volto infantile. Pensava a come era cambiata quando si era tagliata i capelli e si pentiva di non aver conservato la treccia, idea che gli era venuta ma che aveva scartato in quanto imbarazzante espressione di sentimentalismo. Adesso perlomeno avrebbe potuto tenerla tra le mani per invocare la presenza di quell'amica speciale. Durante gli esercizi di meditazione non dimenticava mai di inviarle energia protettiva per aiutarla a sopravvivere alle mille morti e alle disgrazie possibili che cercava di non formulare, perché sapeva che chi si compiace nel pensare alla negatività finisce per evocarla. A volte la sognava e si svegliava sudato, allora indagava la sorte con le sue bacchette degli I-Chin per vedere l'invisibile. Negli ambigui messaggi Eliza appariva sempre in marcia verso la montagna e ciò in parte lo tranquillizzava.

Nel settembre 1850, quando la California si trasformò in uno stato dell'Unione, gli toccò partecipare a una chiassosa celebrazione patriottica. La nazione americana abbracciava ora tutto il continente, dall'Atlantico al Pacifico. In quell'epoca la febbre dell'oro iniziava a trasformarsi in una totale delusione collettiva e Tao vedeva folle di minatori poveri e indeboliti in attesa del loro turno per imbarcarsi e fate ritorno ai loro paesi. I giornali stimavano in più di novantamila quelli che rimpatriavano. I marinai ormai non disertavano più, al contrario, le navi non erano sufficienti per trasportare tutti quelli che desideravano partire. Un minatore su cinque era morto affogato nei fiumi, di malattia o di freddo; molti erano stati assassinati o si erano suicidati con un colpo in testa. Arrivavano ancora stranieri, che si erano imbarcati mesi prima, ma l'oro non era più a portata di mano di qualsiasi intrepido munito di bacinella, di pala e di un paio di stivali, l'epoca degli eroi solitari si era conclusa e al loro posto si erano insediate potenti compagnie provviste di macchinari in grado di spaccare le montagne con getti d'acqua. I minatori lavoravano a contratto, ma ad arricchirsi erano gli imprenditori; a caccia di fortuna istantanea come gli avventurieri del '49, erano però molto più scaltri, come quel sarto ebreo dal cognome Levy che si mise a fabbricare pantaloni di tela grossa con doppia cucitura e ribattini metallici, divisa obbligatoria dei lavoratori. Mentre in molti se ne andavano, i cinesi continuavano ad arrivare come formiche silenziose. Spesso Tao Chi'en traduceva i giornali inglesi per il suo amico zhong yi che apprezzava in modo particolare gli articoli di un certo Jacob Freemont, di cui condivideva il punto di vista: "Migliaia di argonauti tornano alle loro case sconfitti perché privi del Vello d'Oro, e la loro odissea si è trasformata in tragedia, ma molti altri, benché poveri, rimangono perché ormai non possono più vivere da un'altra parte. Due anni in questa terra bella e selvaggia cambiano gli uomini. I pericoli, l'avventura, la salute e la forza vitale di cui si gode in California non si trovano da nessun'altra parte. L'oro ha svolto il suo compito: attirare la gente che sta conquistando questo territorio per trasformarlo nella Terra Promessa. E da qui indietro non si torna," scriveva Freemont.

Per Tao Chi'en, tuttavia, vivevano in un paradiso di avidi, di gente materialista e impaziente la cui unica ossessione era arricchirsi più in fretta possibile. Non c'era nutrimento per lo spirito mentre la violenza e l'ignoranza prosperavano. Da quei mali derivavano tutti gli altri, ne era convinto. Durante i suoi ventisette anni ne aveva viste di tutti i colori e non si riteneva una verginella, ma il crollo dei valori e l'impunità dei crimini lo lasciavano sconcertato. Un posto così era destinato a soccombere nella melma dei suoi stessi vizi, sosteneva. Aveva perso la speranza di trovare la pace tanto anelata, decisamente quello non era il luogo per un aspirante saggio. Perché allora lo attraeva così tanto? Doveva evitare che quella terra lo stregasse, come capitava a tutti quelli che ci mettevano piede; doveva tornare a Hong Kong o far visita al suo amico Ebanizer Hobbs in Inghilterra per studiare e fare pratica insieme a lui. Negli anni trascorsi da quando era stato sequestrato a bordo del Liberty aveva scritto diverse lettere al medico inglese, ma siccome era sempre in navigazione per molto tempo non aveva ricevuto risposta, finché alla fine, a Valparaìso, nel febbraio 1849, il capitano John Sommers aveva ricevuto una lettera e gliel'aveva consegnata. L'amico gli raccontava che a Londra si stava dedicando alla chirurgia, anche se la sua vera vocazione erano le malattie mentali, un campo nuovo, poco esplorato dalla curiosità scientifica.

Progettava di lavorare ancora per un po' a Dai Fao, la "città grande", come i cinesi chiamavano San Francisco, e, poi, nel caso in cui Ebanizer Hobbs non avesse risposto in fretta alla sua ultima lettera, di imbarcarsi per la Cina. Era rimasto stupito alla vista di come era cambiata San Francisco in poco più di un anno. Al posto dell'assordante accampamento di casupole e tende che aveva conosciuto, lo aveva ricevuto una città dalle strade ben tracciate e dagli edifici a più piani, organizzata e fiorente, con cantieri per la costruzione di nuove case dappertutto. Un terribile incendio aveva distrutto diversi isolati tre mesi prima, si vedevano ancora resti di edifici carbonizzati, ma, con la cenere ancora calda, erano già tutti lì, martello alla mano, a dedicarsi alla ricostruzione. C'erano hotel di lusso con verande e balconi, casinò, bar e ristoranti, vetture eleganti e una moltitudine cosmopolita, malvestita e dalla brutta cera, tra la quale emergevano i cappelli a tuba di un ridotto numero di dandy. Il resto erano tipi barbuti e infangati con l'aria da imbroglioni, ma lì nessuno era quello che appariva, lo scaricatore del porto poteva essere un aristocratico latino-americano e il cocchiere un avvocato di New York. Dopo un minuto di conversazione con uno qualsiasi di questi individui dall'aspetto minaccioso si poteva scoprire un uomo educato e fine, che alla prima opportunità, con le lacrime agli occhi, estraeva dalla tasca una lettera sciupata della moglie. E accadeva anche l'inverso: sotto l'abito di buon taglio di un damerino raffinato si nascondeva una carogna. Andando verso il centro non notò scuole e vide invece dei bambini che lavoravano come adulti scavando, trasportando mattoni, incitando muli e lustrando stivali, ma che, non appena iniziava a soffiare il forte vento di mare, correvano a far volare gli aquiloni. Più tardi venne a sapere che molti di loro erano orfani e vagavano per le strade in bande, rubando cibo per sopravvivere. Di donne ce n'erano ancora poche e, quando qualcuna di loro passeggiava con eleganza per la strada, il traffico si fermava per lasciarla passare. Ai piedi di Telegraph Hill, dove un segnale di bandiera indicava la provenienza delle imbarcazioni che entravano nella baia, si estendeva un quartiere di vari isolati nel quale le donne non mancavano: era la zona rossa, controllata dai ruffiani venuti dall'Australia, dalla Tasmania e dalla Nuova Zelanda. Tao Chi'en aveva sentito parlare di loro e sapeva che era una zona in cui un cinese da solo non poteva avventurarsi dopo il tramonto. Guardando i negozi, notò che venivano offerti gli stessi prodotti che aveva visto a Londra. Arrivava tutto via mare, ed era giunto perfino un carico di gatti per combattere i topi che erano stati venduti a uno a uno come articoli di lusso. La selva di alberi delle barche abbandonate si era ridotta a una decima parte, perché molte erano state affondate per riempire il terreno su cui poi si costruiva o erano state trasformate in alberghi, cantine, carceri e persino in un ospizio per malati di mente, dove andavano a morire i disgraziati che si erano persi nel delirio senza ritorno dell'alcol. Era stata una buona idea, perché prima i matti venivano legati agli alberi.

Tao Chi'en si diresse al quartiere cinese e verificò che le voci erano esatte: nel cuore di San Francisco i suoi compatrioti avevano costruito una vera città, in cui si parlava mandarino e cantonese, i cartelli erano scritti in cinese e da ogni parte c'erano solo cinesi: l'illusione di trovarsi nel Celeste Impero era perfetta. Si stabilì in un hotel decoroso con l'intenzione di praticare la sua professione di medico per il tempo necessario a mettere insieme ancora un po' di soldi in vista del lungo viaggio che lo attendeva. Tuttavia sarebbe successo qualcosa che avrebbe mandato all'aria i suoi progetti e l'avrebbe trattenuto in quella città. "Il mio karma non era trovare la pace in un monastero di montagna, come a volte avevo sognato, ma combattere all'infinito, senza tregua," avrebbe concluso molti anni più tardi, una volta in grado di guardare al passato e di vedere con chiarezza la strada percorsa e quella ancora da percorrere. Alcuni mesi dopo in una busta molto malridotta ricevette l'ultima lettera di Eliza.

 

 

Paulina Rodriguez de Santa Cruz scese dal Fortuna come un'imperatrice, circondata dal suo seguito e con un bagaglio di novantatré bauli. Per il capitano John Sommers, per i passeggeri e per l'equipaggio, il terzo viaggio con il ghiaccio era stato una tortura. Paulina aveva fatto sapere a tutti che l'imbarcazione era sua e per dimostrarlo contraddiceva il capitano e dava ordini arbitrari ai marinai. Non ebbero nemmeno il sollievo di vederla soffrire di mal di mare perché il suo stomaco da elefantessa resistette alla navigazione limitandosi a denunciare un aumento dell'appetito. I suoi figli si perdevano in continuazione negli angoli più disagevoli della nave, nonostante le tate non togliessero loro gli occhi di dosso, e quando ciò si verificava, a bordo suonavano gli allarmi e bisognava fermare la marcia, perché la madre disperata strillava che erano caduti in mare. Il capitano cercava di spiegarle con la massima delicatezza che in quel caso bisognava solo rassegnarsi, perché probabilmente l'Oceano Pacifico se li era già inghiottiti, ma lei ordinava comunque di calare in mare le scialuppe di salvataggio. Prima o poi le creature rispuntavano fuori e dopo alcune ore di tragedia si poteva riprendere il viaggio. A cadere nell'oceano fu, invece, l'antipatico cagnolino da compagnia, che un giorno scivolò in acqua davanti a molti testimoni, che rimasero muti. Sul molo di San Francisco il marito e il cognato attendevano Paulina con una fila di carri e carrozze pronti a trasportare la famiglia e i bagagli. La nuova residenza costruita per lei, un'elegante casa vittoriana, era arrivata imballata dall'Inghilterra con casse numerate e un progetto per assemblarla; erano state importate anche la carta da parati, i mobili, l'arpa, il pianoforte, le lampade e perfino le statuette di porcellana e i quadri bucolici per decorarla. A Paulina non piacque. Paragonata alla sua magione cilena e ai suoi marmi, sembrava una casetta da bambole che rischiava di crollare quando ci si appoggiava ai muri, ma per il momento non c'erano alternative. Le bastò dare un'occhiata all'effervescente città per rendersi conto delle sue possibilità.

"Ci stabiliremo qui, Feliciano. I primi arrivati, con il tempo diventano i membri dell'aristocrazia."

"Ma lo sei già in Cile."

"Io sì, ma tu no. Credimi, questa diventerà la città più importante del Pacifico."

"Si, una città di delinquenti e puttane!"

"Esattamente. Le due categorie che più ambiscono alla rispettabilità. Non ci sarà famiglia più prestigiosa dei Cross. Peccato che i gringo non riescano a pronunciare il tuo vero cognome. Cross è un nome da produttori di formaggio. Ma va bene, penso che non si possa avere tutto dalla vita..."

Il capitano John Sommers si diresse verso il miglior ristorante della città, deciso a bere e a mangiare bene per dimenticare le cinque settimane in compagnia di quella donna. Aveva trasportato diverse casse con le nuove edizioni illustrate dei libri erotici. Il successo riscosso dai precedenti era stato eccezionale e sperava che la sorella Rose recuperasse lo spirito e si rimettesse a scrivere. Dopo la scomparsa di Eliza era sprofondata nella tristezza e non aveva più ripreso in mano la penna. Anche l'umore di lui era cambiato. "Sto invecchiando, maledizione," diceva quando si ritrovava perso in inutili nostalgie. Non aveva avuto tempo di godersi quella figlia, di portarsela in Inghilterra, come aveva progettato; non aveva neanche avuto modo di dirle che era suo padre. Era stanco di inganni e misteri. Il commercio di quei libri era un altro dei segreti famigliari. Quindici anni prima, quando la sorella Rose gli aveva confessato che, alle spalle di Jeremy, scriveva impudiche storie per non morire di noia, gli era venuta l'idea di farle pubblicare a Londra, dove il mercato dell'erotismo, insieme a quello della prostituzione e ai club di flagellanti, era fiorito a mano a mano che si andava imponendo la rigida morale vittoriana. In una remota provincia del Cile, seduta a un lezioso scrittoio di legno chiaro, senz'altra fonte d'ispirazione se non i ricordi del suo unico amore mille volte amplificati e perfezionati, sua sorella sfornava un romanzo dietro l'altro con la firma "una dama anonima". Nessuno poteva credere che quelle storie focose, alcune con un tocco evocativo del Marchese de Sade, già classiche nel loro genere, fossero redatte da una donna. A lui spettava il compito di portare i manoscritti all'editore, controllare i conti, riscuotere gli introiti e depositarli in una banca londinese per la sorella. Era il suo modo di ricambiarle il favore di aver accolto sua figlia e di aver taciuto. Eliza... Non riusciva a ricordare sua madre, da cui lei aveva ereditato i tratti fisici, mentre da lui, senz'altro, lo slancio per l'avventura. Dove si trovava? Con chi? Rose insisteva che era partita per la California sulle tracce dell'amante, ma più il tempo passava, meno ci credeva. Il suo amico Jacob Todd - Freemont, adesso -, che aveva fatto della ricerca di Eliza la sua missione personale, gli aveva assicurato che non aveva mai messo piede a San Francisco.

Freemont si trovò con il capitano per cena e poi lo invitò a uno spettacolo leggero in uno dei locali da ballo della zona rossa. Gli raccontò che Ah Toy, la cinese che avevano intravisto dai buchi nel muro, adesso gestiva una catena di bordelli e una "sala" molto elegante dove venivano offerte le migliori ragazze orientali, alcune di soli undici anni, allenate a soddisfare tutti i capricci; ma non era quella la loro meta, sarebbero andati a vedere le danzatrici di un harem turco, disse. Poco dopo stavano fumando e bevendo in un edificio a due piani con tavoloni di marmo, lucidi bronzi e quadri di ninfe mitologiche inseguite da fauni. Donne di varie razze si occupavano della clientela, servivano liquori e gestivano i tavoli da gioco, sotto lo sguardo vigile di ruffiani armati e vestiti con sgargiante affettazione. Su entrambi i lati della sala principale, in vani privati, si scommettevano somme ingenti. Lì si riunivano le tigri del gioco per rischiare palate di soldi in una notte: politici, giudici, commercianti, avvocati e criminali, tutti accomunati dal medesimo vizio. Lo spettacolo orientale risultò deludente per il capitano, che aveva visto l'autentica danza del ventre a Istanbul e immaginò che quelle sgraziate ragazze sicuramente facessero parte dell'ultimo carico di prostitute di Chicago appena arrivato in città. Gli avventori, per la maggior parte rozzi minatori incapaci di situare la Turchia su una cartina, impazzivano d'entusiasmo per quelle odalische coperte a malapena da una gonnellina di perline. Annoiato, il capitano si diresse a uno dei tavoli da gioco in cui una donna distribuiva con incredibile destrezza le carte del monte. Se ne avvicinò un'altra e, prendendolo per un braccio, gli sussurrò un invito all'orecchio. Si girò per guardarla. Era una sudamericana tarchiata e volgare, ma con un'espressione di genuina allegria. Stava per declinare l'invito, perché aveva progettato di passare il resto della serata in una delle sale costose, dove era stato in ognuno dei suoi precedenti soggiorni a San Francisco, quando i suoi occhi si fissarono sulla scollatura. Tra i seni spiccava una spilla d'oro e turchesi.

"Dove l'hai presa?" gridò afferrandola per le spalle con due artigli.

"È mia! L'ho comprata," balbettò terrorizzata.

"Dove?" e continuò a scuoterla fino a quando non sopraggiunse uno dei gorilla.

"Qualcosa non va, mister?" minacciò l'uomo.

Il capitano fece segno di voler appartarsi con la donna e se la portò, praticamente a braccia, in uno dei cubicoli del secondo piano. Tirò la tenda e con un solo schiaffo in viso la fece cadere supina sul letto.

"Adesso o mi dici dove hai preso questa spilla o ti faccio saltare tutti i denti, è chiaro?"

"Non l'ho rubata, signore, glielo giuro. Me l'hanno data!"

"Chi te l'ha data?"

"Se glielo dico non mi crederà..."

"Chi?"

"Una ragazza, tempo fa, su una nave..."

E Azucena Placeres non poté fare a meno di raccontare a quell'energumeno che la spilla gliel'aveva data un cuoco cinese, in cambio delle cure prestate a una povera creatura che stava morendo a causa di un aborto nella stiva di una nave in mezzo all'Oceano Pacifico. E mentre parlava, la furia del capitano si trasformava in orrore.

"E poi cosa è successo alla ragazza?" chiese John Sommers con la testa fra le mani, distrutto.

"Non lo so, signore."

"Per quello che hai di più caro, per favore, dimmi cosa ne è stato di lei," supplicò, mettendole sulla gonna un fascio di banconote.

"Lei chi è?"

"Sono suo padre."

"Morì dissanguata e buttammo il corpo in mare. Glielo giuro, è la verità," replicò Azucena Placeres senza esitare, pensando che se quella sventurata aveva attraversato mezzo mondo nascosta in un buco come un topo, da parte sua sarebbe stata un'imperdonabile mascalzonata indirizzare il padre sulle sue tracce.

 

 

Eliza trascorse l'estate nel paese perché, tra una cosa e l'altra, le giornate volarono. Anzitutto, Babalù il Cattivo ebbe un attacco fulminante di dissenteria che scatenò il panico perché si credeva che ormai l'epidemia fosse sotto controllo. Da mesi non si erano verificati altri casi, salvo quello di un bambino di due anni, la prima creatura che nacque e morì in quel luogo di passaggio per avventurieri e arricchiti. Quel bambino appose un marchio di autenticità al paese, non più un accampamento allucinato con una forca come unico simbolo a garanzia del diritto a figurare sulle cartine: ora poteva contare su un cimitero cristiano e sulla piccola tomba di qualcuno che aveva trascorso li tutta la vita. Finché il capannone era stato adibito a ospedale, si erano salvati dal contagio per miracolo perché Joe non credeva alle epidemie, diceva che era solo questione di fortuna: il mondo trabocca di infezioni, alcuni se le beccano e altri no. In virtù di ciò non prendeva precauzioni, si consentì il lusso di prescindere dalle raccomandazioni di buon senso del medico e solamente a denti stretti a volte faceva bollire l'acqua da bere. Una volta trasferitisi in una casa vera e propria, si sentirono tutti al sicuro; se non si erano ammalati prima, adesso le probabilità erano ancora inferiori. Pochi giorni dopo il crollo di Babalù, toccò alla Spaccaossa, alle ragazze del Missouri e alla bella messicana. Dovettero arrendersi a una ripugnante dissenteria, a febbri da cavallo e a brividi incontrollabili, in grado, nel caso di Babalù, di scuotere la casa. Fu allora che si presentò James Morton, vestito da festa, a chiedere formalmente la mano di Esther.

"Ah, ragazzo mio, non potevi scegliere un momento peggiore," sospirò la Spaccaossa, ma era troppo malata per opporsi e tra i lamenti acconsentì.

Esther distribuì le sue cose tra le compagne perché non voleva portarsi niente nella nuova vita, e si sposò quello stesso giorno senza grandi formalità, scortata da Tom Senza Tribù e da Eliza, gli unici sani della combriccola. Su entrambi i lati della strada si era formata una doppia fila dei suoi antichi clienti che spararono colpi in aria applaudendo la coppia che passava. Si stabilì nella fucina, con l'intenzione di trasformarla in focolare e di dimenticare il passato, ma ogni giorno trovava la maniera di andare a casa di Joe per portare ai malati cibo caldo e indumenti puliti. Su Eliza e Tom Senza Tribù ricadde l'ingrato compito di accudire gli altri abitanti della casa. Il dottore del paese, un giovane di Philadelphia che da mesi, senza che nessuno gli badasse, avvertiva che l'acqua era stata inquinata dai rifiuti dei minatori a monte del fiume, dichiarò la casa di Joe in quarantena. I soldi terminarono e se non morirono di fame fu grazie a Esther e ai regali anonimi che apparivano misteriosamente sulla porta: un sacco di fagioli, qualche libbra di zucchero, tabacco, sacchettini di oro in polvere, qualche dollaro d'argento. Per aiutare i suoi amici, Eliza fece ricorso a quanto aveva appreso da Mama Fresia durante l'infanzia e da Tao Chi'en a Sacramento, fino a quando, finalmente, a uno a uno, si furono rimessi, anche se per un certo periodo rimasero tutti un po' debilitati e intontiti. Babalù il Cattivo fu quello che patì di più; il suo corpaccione da ciclope non era abituato a non essere in salute, dimagrì e la pelle gli si vuotò a tal punto che persino i tatuaggi persero forma.

In quei giorni il giornale locale pubblicò una breve notizia a proposito di un bandito cileno o messicano, non si sapeva con certezza, chiamato Joaquin Murieta, che stava acquistando una certa fama in lungo e in largo nella Veta Madre. In quel periodo nella regione dell'oro imperava la violenza. Disillusi dalla consapevolezza che la fortuna istantanea, come un miracolo beffardo, era toccata solo a pochissimi, gli americani accusavano gli stranieri di essere avidi e di arricchirsi senza contribuire alla prosperità del paese. L'alcol li infervorava e la possibilità di esercitare impunemente una giustizia fraudolenta dava loro un irrazionale senso di potere. Non veniva mai condannato uno yankee per crimini contro le altre razze, peggio ancora, un bianco poteva addirittura scegliersi la giuria. L'ostilità razziale si trasformò in odio cieco. I messicani negavano la perdita del loro territorio durante la guerra e non accettavano di essere espulsi dai loro ranch o dalle miniere. I cinesi sopportavano silenziosamente gli abusi, non se ne andavano e continuavano a cercare l'oro, con guadagni irrisori, ma con una tenacia tale che, grammo dopo grammo, accumulavano ricchezze. Migliaia di cileni e peruviani, tra i primi ad arrivare quando era scoppiata la febbre dell'oro, decisero di rientrare nei loro paesi, perché in tali condizioni non valeva la pena di inseguire sogni. In quell'anno, il 1850, il parlamento californiano approvò un'imposta mineraria studiata per proteggere i bianchi. Neri e indiani non erano contemplati, a meno che non lavorassero come schiavi, e i forestieri dovevano pagare venti dollari e rinnovare mensilmente la registrazione della loro proprietà, operazione che nella pratica risultava impossibile. Non potevano abbandonare i giacimenti per intraprendere un viaggio di settimane verso le città, dove avrebbero potuto adempiere la legge, ma se non lo facevano lo sceriffo occupava la terra e la consegnava a un americano. I preposti per rendere effettive tali misure venivano designati dal governatore e il loro stipendio era costituito da imposte e multe, metodo efficace per stimolare la corruzione. La legge veniva applicata solamente contro gli stranieri dalla pelle scura, benché i messicani godessero del diritto di cittadinanza americana, come recitava il trattato che aveva messo fine alla guerra nel 1848. Un altro decreto diede loro il colpo di grazia: la proprietà dei loro ranch, dove erano vissuti per generazioni, doveva essere ratificata da un tribunale di San Francisco. Il procedimento durava anni, costava un patrimonio e inoltre, spesso e volentieri, giudici e ufficiali giudiziari erano proprio coloro che si erano impossessati del terreno. Appurato che la giustizia non li proteggeva, molti di loro si collocarono al di fuori di essa, assumendo proprio il ruolo di malviventi. Chi prima si accontentava di rubare bestiame, ora assaliva minatori e viaggiatori solitari. Alcune bande divennero celebri per la loro crudeltà: non solo derubavano le vittime, ma si dilettavano anche a torturarle prima di assassinarle. Si parlava di un bandito particolarmente sanguinario al quale, tra gli altri delitti, veniva attribuita la morte raccapricciante inflitta a due giovani americani. Sui loro corpi, trovati legati a un albero, erano visibili tracce evidenti che erano stati usati come bersaglio per il lancio di coltelli; erano state anche tagliate le lingue, strappati gli occhi e tolta la pelle ed erano stati abbandonati vivi, destinati a una morte lenta. Il criminale veniva chiamato Jack Tre Dita e si diceva fosse il braccio destro di Joaquin Murieta.

Ciò nondimeno, non tutto era barbarie; le città si sviluppavano e sorgevano nuovi paesi, si insediavano famiglie, nascevano giornali, compagnie di teatro e orchestre, venivano edificate banche, scuole e chiese, si costruivano strade e si miglioravano le comunicazioni. Era stato introdotto un servizio di diligenze e la posta veniva distribuita con regolarità. Le donne continuavano ad arrivare e fioriva una società che aspirava all'ordine e alla moralità; non era più lo sfascio dei tempi iniziali di uomini soli e prostitute, si cercava di introdurre la legge e di tornare alla civiltà dimenticata nel delirio dell'oro facile. Al paese venne assegnato un nome decoroso in una solenne cerimonia con tanto di banda e parata alla quale prese parte Joe Spaccaossa, per la prima volta vestita da donna, spalleggiata da tutta la sua compagnia. Le spose appena giunte recalcitravano davanti alle "facce truccate", ma siccome Joe e le sue ragazze avevano salvato tante anime durante l'epidemia, chiudevano un occhio sulle loro attività. Contro l'altro bordello scatenarono invece una vera guerra; inutile perché la percentuale era ancora di una donna su nove uomini. Alla fine dell'anno James Morton diede il benvenuto a cinque famiglie di quacqueri che avevano attraversato il continente in carri trainati da buoi e non venivano per l'oro, bensì attirati dagli spazi sconfinati di quella terra vergine.

Eliza ormai non sapeva più che pista seguire. Joaquin Andieta si era perso nella confusione di quei tempi e al suo posto cominciava a profilarsi l'immagine di un bandito dal nome simile e che rispondeva alla stessa descrizione fisica, ma che a lei risultava impossibile far combaciare con il nobile giovane che amava. L'autore di quelle lettere appassionate, che conservava come suo unico tesoro, non poteva essere colui al quale venivano attribuiti crimini tanto efferati. L'uomo che cercava non si sarebbe mai associato a un sadico come Jack Tre Dita, ne era sicura, ma la certezza vacillava di notte, quando Joaquin le appariva con mille maschere diverse, portandole messaggi contraddittori. Si svegliava tremante, perseguitata dai deliranti spettri dei suoi incubi. Ormai non riusciva più a entrare e a uscire dai sogni, come le aveva insegnato durante l'infanzia Mama Fresia, né a decifrare visioni e simboli, che rimanevano a vagarle nella testa, come un rimbombare di sassi trascinati da un fiume. Scriveva instancabilmente sul suo diario con la speranza che tale gesto attribuisse qualche significato alle immagini. Rileggeva le missive amorose lettera dopo lettera, ma ne traeva solo ulteriore perplessità. Quelle lettere costituivano l'unica prova dell'esistenza dell'amante e vi si aggrappava per non uscire completamente di senno. Spesso le era difficile resistere alla tentazione di sprofondare nell'apatia, come via di fuga al tormento della continua ricerca. Dubitava di tutto: degli abbracci nella stanza degli armadi, dei mesi di prigionia nella stiva, del bambino che aveva perso.

I problemi finanziari provocati dal matrimonio di Esther con il fabbro, che aveva privato di colpo la compagnia di un quarto delle entrate, e dalle settimane trascorse dagli altri nella prostrazione della dissenteria, furono tali che Joe si ritrovò sul punto di perdere la casetta, ma l'idea di vedere le sue colombe lavorare per la concorrenza la pungeva sul vivo spronandola a continuare a lottare contro le avversità. Erano passate per l'inferno e lei non poteva spingerle di nuovo a quella vita perché, molto suo malgrado, a loro si era affezionata. Si era sempre considerata un grave errore di Dio, un uomo costretto a forza nel corpo di una donna, e pertanto non riusciva a capacitarsi di questa sorta di istinto materno che le era scaturito quando meno le conveniva. Si occupava di Tom Senza Tribù in modo esclusivo, ma le piaceva rimarcare che lo faceva "da sergente". Di coccole non se ne parlava, non erano nella sua indole, e comunque il bambino doveva crescere forte come i suoi antenati; le smancerie servivano solo a minare la virilità, ricordava a Eliza quando la trovava con il ragazzino in braccio intenta a raccontargli fiabe cilene. Questa tenerezza nuova nei confronti delle sue colombe risultava essere un serio intralcio e, come se non bastasse, loro se n'erano accorte e avevano iniziato a chiamarla "madre". L'appellativo la mandava in bestia, glielo aveva proibito, ma loro non le badavano. "Abbiamo un rapporto commerciale, diamine. Non posso essere più esplicita: fino a quando lavorerete avrete soldi, un tetto, cibo e protezione; ma se un giorno vi ammalerete, vi indebolirete e vi verranno le rughe e i capelli bianchi, in questo caso tanti saluti! Non ci metterò molto a rimpiazzarvi, il mondo è pieno di ragazze di vita," borbottava. E allora, all'improvviso, si affacciava a complicarle la vita quel sentimento dolciastro che nessuna mezzana in pieno possesso delle sue facoltà poteva permettersi. "Se non fossi una brava persona non avresti queste noie," la prendeva in giro Babalù il Cattivo. Ed era vero, perché mentre lei aveva impiegato tempo prezioso a curare ammalati di cui nemmeno conosceva il nome, l'altra tenutaria non ammetteva nessun contagiato nei pressi del suo locale. Joe era ogni giorno più povera mentre l'altra era ingrassata, si era tinta i capelli di biondo e si era fatta un amante russo più giovane di lei di dieci anni con muscoli da atleta e un diamante incastonato in un dente, aveva ampliato l'attività e durante i fine settimana i minatori si incolonnavano davanti alla sua porta con i soldi in una mano e il cappello nell'altra, perché nessuna donna, per quanto in basso fosse scesa, tollerava un cappello sul capo. Non c'era proprio futuro in quella professione, sosteneva Joe: la legge non le proteggeva, Dio le aveva dimenticate e all'orizzonte si intravedevano solo vecchiaia, povertà e solitudine. Pensò che potevano dedicarsi al lavaggio della biancheria e alla preparazione di torte, mantenendo i tavoli da gioco e la vendita dei libri osé, ma le sue ragazze non erano disposte a guadagnarsi da vivere con lavori tanto umili e mal pagati.

"Questo è un lavoro di merda, bambine mie. Sposatevi, studiate da maestre, fate qualcosa della vostra vita e non rompetemi più le scatole!" sospirava tristemente.

Anche Babalù il Cattivo era stanco di fare da ruffiano e gorilla. La vita sedentaria lo annoiava e la Spaccaossa era talmente cambiata che non aveva molto senso continuare a lavorare insieme. Se lei aveva perduto entusiasmo per la professione, a lui cosa restava? Nei momenti di disperazione si confidava con il Cilenito e insieme indugiavano a fare progetti fantastici per emanciparsi: avrebbero messo in piedi uno spettacolo ambulante, pensavano di comprare un orso e di allenarlo a tirare di boxe per andare di paese in paese a sfidare i bulli perché si battessero a pugni con l'animale. Babalù era in cerca d'avventure ed Eliza pensava che fosse un buon pretesto per viaggiare in compagnia alla ricerca di Joaquin Andieta. Lì con la Spaccaossa, a parte cucinare e suonare il piano, non aveva grandi possibilità, e anche a lei l'ozio induceva il cattivo umore. Desiderava recuperare l'infinita libertà del viaggio, ma si era affezionata a quelle persone e l'idea di separarsi da Tom Senza Tribù le spezzava il cuore. Il bambino ormai leggeva scioltamente e scriveva con precisione, perché Eliza lo aveva convinto che, una volta diventato grande, doveva studiare per diventare avvocato e dedicarsi a difendere i diritti degli indiani, invece di vendicare i morti a colpi di pistola, come voleva Joe. "Così diventerai un guerriero molto più potente e i gringo avranno paura di te," gli diceva. Ancora non rideva, ma in un paio di occasioni, quando le era andato di fianco per farsi grattare la testa, si era disegnata l'ombra di un sorriso sul suo volto di indiano adirato.

Tao Chi'en si presentò a casa della Spaccaossa alle tre del pomeriggio di un mercoledì di dicembre. Gli aprì la porta Tom Senza Tribù, lo fece accomodare nella sala che a quell'ora era libera e andò a chiamare le colombe. Poco dopo la bella messicana si presentò in cucina, dove il Cilenito stava impastando il pane, per annunciare che c'era un cinese che domandava di Elias Andieta, ma lei era talmente assorbita dal lavoro e dal ricordo dei sogni della notte precedente, in cui si confondevano tavoli da tombola e occhi strappati, che non le prestò attenzione.

"Ti ho detto che c'è un cinese che ti cerca," le ripeté la messicana, e allora il cuore di Eliza fece uno scarto da cavallo.

"Tao!" gridò e usci di corsa.

Entrando in sala si trovò di fronte un uomo talmente diverso che ci impiegò qualche secondo a riconoscere l'amico. Non aveva più la coda, portava i capelli corti, imbrillantinati e pettinati all'indietro, indossava occhiali rotondi dalla montatura metallica, un abito scuro, finanziera, gilet a tre bottoni e pantaloni dritti. Su un braccio reggeva un soprabito e un ombrello e nell'altra mano un cappello a tuba.

"Mio Dio, Tao! Cosa ti è successo?"

"In America bisogna vestirsi come gli americani," sorrise lui.

Tanto per il gusto di divertirsi a spese di un "celestiale", a San Francisco tre gorilla lo avevano aggredito e prima che facesse in tempo a estrarre dalla cintola il suo coltello era stato stordito con una sprangata. Una volta riavutosi, si era ritrovato sdraiato in un vicolo, sudicio di spazzatura, con la coda mozzata avvolta intorno al collo. Allora aveva preso la decisione di tenere i capelli corti e di vestirsi come i fan güey. La sua nuova immagine stonava nel quartiere cinese, ma scoprì che fuori lo accettavano molto meglio e si aprivano porte che prima per lui erano sbarrate. Probabilmente era l'unico cinese con quell'aspetto in città. La treccia era considerata sacra e la decisione di tagliarla dimostrava il proposito di non tornare in Cina e di stabilirsi in modo definitivo m America, un imperdonabile tradimento all'imperatore, alla patria e agli avi. Inoltre l'abito e la pettinatura provocavano meraviglia anche perché indicavano che aveva accesso al mondo degli americani. Eliza non riusciva a togliergli gli occhi di dosso: era uno sconosciuto con cui avrebbe dovuto cominciare a familiarizzare da capo. Tao Chi'en si chinò diverse volte nel consueto saluto e lei non osò obbedire all'impulso che le stava bruciando la pelle di buttargli le braccia al collo. Aveva dormito di fianco a lui molte notti, ma non si erano mai toccati senza l'espediente del sonno.

"Credo che tu mi piacessi di più quando eri cinese dalla testa ai piedi, Tao. Ora non ti riconosco. Lascia che ti annusi," gli chiese.

Non si mosse, turbato, mentre lei lo odorava come fa un cane con la sua preda, fino a quando, alla fine, non ebbe riconosciuto la tenue fragranza di mare, lo stesso confortante aroma del passato. Il taglio di capelli e l'abbigliamento severo lo facevano sembrare più adulto, non aveva più quella disinvolta aria giovanile di prima. Era dimagrito e sembrava più alto, gli zigomi risaltavano sul suo volto liscio. Eliza osservò la sua bocca con piacere, ricordava perfettamente quel sorriso contagioso e i denti perfetti, ma non la forma voluttuosa delle labbra. Notò un'espressione cupa nello sguardo, ma pensò che fosse l'effetto delle lenti.

"Come sono felice di vederti, Tao!" e gli occhi le si riempirono di lacrime.

"Non sono potuto venire prima, non avevo l'indirizzo."

"Mi piaci anche adesso. Sembri un becchino, ma di quelli belli."

"Di questo mi occupo ora. Di sepolture," sorrise lui. "Quando venni a sapere che vivevi in questo posto, pensai che i pronostici di Azucena Placeres si fossero avverati. Diceva che prima o poi saresti finita come lei."

"Ti ho spiegato nella lettera che mi guadagno da vivere suonando il piano."

"Incredibile!"

"E perché? Non mi hai mai sentito. Non suono così male. E se posso spacciarmi per un cinese sordomuto posso farlo anche come pianista cileno."

Tao Chi'en scoppiò a ridere, sorpreso, perché era la prima volta da mesi che si sentiva contento.

"Hai trovato il tuo innamorato?"

"No. Ormai non so più dove cercarlo."

"Forse non vale più la pena che lo trovi. Vieni con me a San Francisco."

"Non ho niente da fare a San Francisco..."

"Perché qui, invece? L'inverno è già iniziato, tra un paio di settimane le strade saranno impraticabili e questo paese rimarrà isolato."

"È molto noioso fare il tuo fratellino scemo, Tao."

"Ci sono molte cose da fare a San Francisco, vedrai, e non dovrai vestirti da uomo, adesso ci sono in giro un sacco di donne."

"E i tuoi progetti di tornare in Cina?"

"Rimandati. Non posso ancora andarmene."