COLOMBE INFANGATE
A dicembre l'inverno arrivò all'improvviso sulle pendici della sierra e migliaia di minatori dovettero abbandonare le loro parcelle di terra per trasferirsi nei paesi in attesa della primavera. La neve ricoprì con un manto pietoso il vasto territorio perforato da quelle avide formiche e l'oro sopravvissuto tornò a riposare nel silenzio della natura. Joe Spaccaossa guidò la carovana in uno dei piccoli paesi appena sorti lungo la Veta Madre e affittò un capannone in cui avrebbero passato l'inverno. Vendette i muli, comprò una grande bacinella di legno per il bagno, una cucina, due stufe, delle pezze di stoffa ordinaria e, per tutti, stivali russi che con la pioggia e il vento sarebbero risultati indispensabili. Mise la comitiva a grattare via il sudiciume dal capannone e a fare delle tende per separare le stanze, e installò i letti a baldacchino, gli specchi dorati e il pianoforte. Subito dopo iniziò il giro di visite di cortesia nelle taverne, nell'emporio e nella fucina, i poli dell'attività sociale. A mo' di giornale, il paese si avvaleva di un foglio di notizie preparato con un'antiquata macchina da stampa che aveva attraversato controvoglia il continente e che Joe impiegò per pubblicizzare con discrezione la sua attività. Oltre alle ragazze, offriva il migliore rum cubano e giamaicano, come lo definiva, anche se in realtà si trattava di un beverone da cannibali in grado di far deviare la bussola dell'anima, libri "piccanti" e un paio di tavoli da gioco. I clienti accorsero prontamente. C'era un altro bordello, ma le novità erano sempre gradite. La tenutaria dell'altro esercizio dichiarò tacitamente una guerra di menzogne contro i rivali, ma si astenne da un confronto a viso aperto con il formidabile duo Joe Spaccaossa e Babalù il Cattivo. Nel capannone ci si sollazzava dietro gli improvvisati tendaggi, si ballava sugli accordi del pianoforte e si giocavano somme considerevoli con la sorveglianza della padrona che sotto il suo tetto non accettava né sobillatori né altri bari oltre a se stessa. Eliza vide uomini perdere in un paio di notti i guadagni di mesi di fatiche titaniche e piangere poi tra le braccia delle ragazze che avevano contribuito a spennarli.
Nel giro di poco tempo i minatori si affezionarono a Joe. Nonostante il suo aspetto da corsaro, la donna aveva un cuore di madre che quell'inverno le circostanze misero alla prova. Si diffuse un'epidemia di dissenteria che prostrò metà degli abitanti e ne fece fuori più d'uno. Non appena veniva a sapere che qualcuno in qualche capanna lontana era in punto di morte, Joe chiedeva in prestito alla fucina un paio di cavalli e si recava con Babalù a soccorrere il disgraziato. Spesso li accompagnava il fabbro, un quacquero eccezionale che, pur disapprovando l'attività del donnone, era sempre disposto ad aiutare il prossimo. Joe preparava da mangiare per il malato, lo puliva, gli lavava i vestiti e lo consolava rileggendogli per la centesima volta le lettere della famiglia lontana, e intanto Babalù e il fabbro spalavano la neve, cercavano acqua, tagliavano la legna e la impilavano di fianco alla stufa. Se l'uomo stava molto male, Joe lo avvolgeva nelle coperte, lo metteva di traverso come un sacco sul suo cavallo e se lo portava a casa, dove le donne si occupavano di lui con vocazione da infermiere, felici di avere l'opportunità di sentirsi virtuose. Non potevano fare molto, tranne obbligare i pazienti a bere litri di tè zuccherato per non disidratarsi del tutto, tenerli puliti, ben coperti e a riposo, con la speranza che la dissenteria non gli prosciugasse l'anima e la febbre non gli cuocesse il cervello. Alcuni morivano, mentre altri impiegavano intere settimane per tornare in vita. Joe era l'unica a ingegnarsi per sfidare l'inverno e a recarsi fino alle capanne più isolate, e così le toccò scoprire corpi trasformati in statue di cristallo. Non tutti erano vittime della malattia, a volte c'era chi s'era sparato un colpo in bocca perché non ce la faceva più a sopportare i crampi alla pancia, la solitudine e il delirio. Un paio di volte Joe dovette chiudere l'esercizio perché il capannone era disseminato di stuoie per terra e le sue colombe non riuscivano a curare tutti i pazienti. Lo sceriffo del paese tremava quando la vedeva comparire con la sua pipa olandese e il suo imperioso vocione da profeta a reclamare aiuto. Nessuno poteva negarglielo. Gli stessi uomini che con le loro angherie avevano procurato la cattiva fama al paese, si mettevano mansuetamente al suo servizio. Non potevano contare su niente che somigliasse a un ospedale, l'unico medico era presissimo e lei si assumeva con naturalezza il compito di mobilitare le forze quando si trattava di un'emergenza. I fortunati cui salvava la vita si trasformavano in suoi devoti debitori e fu così che durante quell'inverno riuscì a tessere la rete di contatti che l'avrebbe sostenuta all'epoca dell'incendio.
Il fabbro si chiamava James Morton ed era uno dei pochi esemplari di persona buona. Provava un forte amore per l'umanità intera, perfino per i suoi nemici ideologici, che considerava in errore per ignoranza e non per intrinseca cattiveria. Incapace di commettere un atto vile, non poteva concepire l'iniquità nel prossimo, preferiva credere che la malvagità altrui fosse un'aberrazione del carattere, guaribile con il calore della pietà e dell'affetto. Proveniva da una nutrita stirpe di quacqueri dell'Ohio, dove aveva collaborato con i suoi fratelli in una catena clandestina di solidarietà per gli schiavi fuggiaschi, che venivano nascosti e portati negli stati liberi e in Canada. Con la loro attività si erano attirati le ire degli schiavisti e la notte in cui una banda aveva assaltato la fattoria e le aveva dato fuoco, la famiglia aveva osservato lo spettacolo immobile perché, fedele al suo credo, non poteva sollevare le armi contro i propri simili. I Morton avevano dovuto abbandonare la loro terra e si erano dispersi, ma si erano mantenuti in stretto contatto perché appartenevano alla rete umanitaria degli abolizionisti. A James cercare oro non sembrava un mezzo onorevole per guadagnarsi da vivere, perché non si produceva nulla e non si prestava alcun servizio. "La ricchezza svilisce l'anima, complica l'esistenza e genera infelicità," sosteneva. Inoltre l'oro era un metallo duttile, inadatto a fabbricare strumenti e lui non riusciva a comprendere il fascino che esercitava su tutti. Alto, robusto, con una fitta barba color nocciola, occhi celesti e braccia forti segnate da innumerevoli scottature, illuminato dai bagliori della sua fucina sembrava la reincarnazione del dio Vulcano. In paese c'erano solo tre quacqueri, gente tutta lavoro e famiglia, sempre contenta del proprio destino; erano astemi, evitavano i bordelli ed erano gli unici che non bestemmiavano. Si riunivano con regolarità per le loro pratiche di fede senza farsi tanto notare, predicavano con l'esempio, nella paziente attesa dell'arrivo di un gruppo di amici dall'Est che avrebbe ingrossato la comunità. Morton frequentava il capannone della Spaccaossa per aiutare le vittime dell'epidemia e fu lì che conobbe Esther. Andava a trovarla e pagava il servizio completo solo per rimanere seduto accanto a lei a chiacchierare. Non riusciva a capire perché avesse scelto quel tipo di vita.
"Fra questo e le frustate di mio padre preferisco mille volte la vita di adesso."
"Perché ti batteva?"
"Mi accusava di provocare la lussuria e di indurre al peccato. Credeva che se Eva non lo avesse tentato, Adamo sarebbe ancora in Paradiso. Forse aveva ragione, visto come mi guadagno da vivere..."
"Ci sono altri lavori, Esther"
"Questo non è così terribile, James. Chiudo gli occhi e non penso a niente. Si tratta solo di pochi minuti, che passano in fretta."
Nonostante le tribolazioni della sua professione, la ragazza manteneva la freschezza dei suoi vent'anni, e quel suo modo discreto e silenzioso di comportarsi, così diverso da quello delle compagne, non era privo di fascino. Non aveva nulla di civettuolo, era rotondetta, con un viso placido da vitella e mani forti da contadina. Paragonata alle altre colombe risultava la meno aggraziata, ma la sua pelle era luminosa e il suo sguardo dolce. Il fabbro non sapeva dire quando avesse iniziato a sognarla, a vederla nelle scintille della fucina, nella luce del metallo incandescente e nel cielo limpido, ma un giorno non era più riuscito a ignorare quella materia cotonosa che gli avvolgeva il cuore minacciando di soffocarlo. Una disgrazia peggiore che innamorarsi di quel genere di donna non poteva capitargli, sarebbe stato impossibile giustificare quel sentimento agli occhi di Dio e della comunità. Determinato a vincere la tentazione con il sudore, si rinchiudeva nella forgia a lavorare come un pazzo e alcune notti i colpi feroci del suo martello si sentivano fino all'alba.
Non appena ebbe un recapito fisso, Eliza scrisse a Tao Chi'en presso il ristorante cinese di Sacramento per comunicargli il suo nuovo nome, Elias Andieta, e per chiedergli consiglio su come combattere la dissenteria, dato che l'unico rimedio contro l'epidemia a lei noto, un pezzo di carne cruda legato all'ombelico con una fascia di lana rossa, come faceva Mama Fresia in Cile, non stava dando i risultati sperati. Sentiva dolorosamente la sua mancanza; a volte si svegliava abbracciata a Tom Senza Tribù immaginando nello smarrimento del dormiveglia che fosse Tao Chi'en, ma la riportava alla realtà l'odore di fumo del bambino. Non aveva niente della fresca fragranza di mare dell'amico. La distanza che li separava in miglia era breve, ma l'inclemenza del clima rendeva il percorso arduo e pericoloso. Pensò di accompagnare il postino per continuare a cercare Joaquin Andieta, come aveva fatto altre volte, ma nell'attesa della circostanza propizia passarono settimane. Non era solo l'inverno a contrastare i suoi piani. In quei giorni era anche esplosa la tensione tra i minatori yankee e quelli cileni nella zona meridionale della Veta Madre. I gringo, stufi della presenza degli stranieri, si erano alleati per espellerli, ma gli altri avevano opposto resistenza, prima con le armi e poi grazie a un giudice che aveva riconosciuto i loro diritti. Lungi dall'intimidire gli aggressori, la decisione del giudice sortì l'effetto di istigarli ulteriormente: diversi cileni finirono sulla forca o spinti in un burrone e i sopravvissuti furono costretti alla fuga. Come risposta si formarono bande di assaltatori simili alle molte già costituite dai messicani. Eliza capì che non poteva correre tale rischio; il suo travestimento da ragazzo latino era sufficiente perché fosse accusata di qualsiasi crimine anche senza alcun fondamento.
Alla fine del gennaio 1850 si abbatté una delle peggiori gelate che mai si fosse vista da quelle parti. Nessuno osava uscire di casa, il paese sembrava morto e per più di dieci giorni nemmeno un cliente si fece vedere al capannone. Il freddo era tale che, malgrado le stufe sempre accese, al mattino l'acqua dei catini era solidificata, e ci furono notti in cui dovettero far entrare in casa il cavallo di Eliza per risparmiargli la sorte di altri animali che all'alba si ritrovavano imprigionati in blocchi di ghiaccio. Le donne dormivano due per letto e lei con il bambino, per il quale aveva sviluppato un affetto geloso e intenso che lui ricambiava con sorniona fedeltà. L'unica persona della compagnia in grado di competere con Eliza nell'affetto del ragazzino era la Spaccaossa. "Un giorno avrò un bambino forte e coraggioso come Tom Senza Tribù, ma molto più allegro. Questa creatura non ride mai", raccontava a Tao Chi'en nelle lettere. Babalù il Cattivo non riusciva a dormire di notte e trascorreva le lunghe ore di oscurità passeggiando da un estremo all'altro del capannone con i suoi stivali russi, le sue pelli lise e una coperta sulle spalle. Smise di rasarsi la testa e sfoderò una corta criniera da lupo simile a quella della giacca. Esther gli aveva fatto a maglia un cappellino di lana giallo canarino che lo copriva fino alle orecchie, dandogli un'aria da mostruoso bebè. Fu lui a sentire quella mattina presto un fioco bussare che ebbe la prontezza di non confondere con il frastuono della tormenta. Socchiuse la porta con il revolver in mano e vide una sagoma sdraiata nella neve. Allarmato chiamò Joe e insieme, lottando contro il vento che cercava di divellere la porta, riuscirono a trascinarla dentro. Era un uomo mezzo congelato.
Non fu semplice rianimare il visitatore. Mentre Babalù lo frizionava e cercava di fargli inghiottire del brandy, Joe svegliò le donne; ravvivarono il fuoco delle stufe e misero dell'acqua a scaldare per riempire la vasca da bagno, dove lo tennero immerso fino a quando, a poco a poco, si riebbe, perse il colorito bluastro e riuscì ad articolare qualche parola. Aveva il naso, i piedi e le mani assiderati. Era un contadino dello stato messicano di Sonora, che era venuto ai giacimenti californiani come migliaia di suoi compatrioti, disse. Si chiamava Jack, nome gringo che sicuramente non era il suo, ma d'altronde in quella casa non era il primo a usarne uno falso. Durante le ore successive si trovò diverse volte sulla soglia della morte, ma quando sembrava che ormai non ci fosse più nulla da fare per lui, ritornava dall'altro mondo e inghiottiva qualche sorso di liquore. Verso le otto, quando finalmente la tormenta finì, Joe ordinò a Babalù di chiamare il dottore. Sentendola impartire questa disposizione, il messicano, che rimaneva immobile e respirava gorgogliando come un pesce, aprì gli occhi e urlò un terribile "No!", spaventandoli tutti. Nessuno doveva sapere che si trovava lì, intimò con una tale ferocia che nessuno osò contraddirlo. Non furono necessarie molte spiegazioni: era evidente che aveva problemi con la giustizia e quel paese con la forca in piazza era l'ultimo al mondo in cui un fuggiasco avrebbe voluto cercare asilo. Solamente la violenza della tormenta l'aveva obbligato a sospingersi da quelle parti. Eliza non disse nulla, ma la reazione dell'uomo non la stupì: odorava di cattiveria.
Dopo tre giorni Jack aveva recuperato parte delle forze, ma gli cadde la punta del naso e iniziarono ad andargli in cancrena due dita della mano. Nemmeno allora riuscirono a convincerlo della necessità di ricorrere al medico; preferiva marcire lentamente piuttosto che finire sulla forca, disse. Joe Spaccaossa riunì la sua gente nell'altra estremità del capannone e a bassa voce deliberarono che bisognava tagliargli le dita. Tutti gli occhi puntarono verso Babalù il Cattivo.
"Io? Manco morto!"
"Babalù, figlio di buona donna, vedi di non fare la femminuccia!" esclamò Joe furibonda.
"Fallo tu, Joe, io non ce la faccio."
"Se riesci a squartare un cervo, puoi fare anche questo. Cosa saranno mai un paio di miserabili dita?"
"Una cosa è un animale e un'altra, ben diversa, è un cristiano."
"Non ci posso credere! Questo grandissimo figlio di puttana, con il vostro permesso, ragazze, dice che non può farmi questo favore da niente dopo tutto quello che ho fatto io per lui!"
"Scusami, Joe. Ma io non ho mai fatto del male a un essere umano..."
"Ma cosa vai blaterando! Forse che non sei un assassino? Cosa ci facevi in prigione?"
"Avevo rubato del bestiame," confessò il gigante, sul punto di scoppiare a piangere per l'umiliazione.
"Lo farò io," li interruppe Eliza, pallida, ma determinata.
Rimasero a guardarla increduli. Per loro Tom Senza Tribù sembrava più idoneo a realizzare l'operazione rispetto al delicato Cilenito.
"Ho bisogno di un coltello ben affilato, di un martello, di ago, filo e stracci puliti."
Babalù si sedette a terra con la grossa testa tra le mani, inorridito, mentre le donne in rispettoso silenzio preparavano il necessario. Eliza ripassò quanto appreso da Tao Chi'en quando estraevano pallottole e ricucivano ferite a Sacramento. Se l'aveva fatto allora senza batter ciglio, sarebbe riuscita a farlo anche adesso, decise. La cosa fondamentale, secondo il suo amico, era evitare emorragie e infezioni. Non gli aveva visto fare amputazioni, ma quando curavano gli sciagurati che arrivavano senza orecchie, commentava che in altre latitudini, per lo stesso crimine, tagliavano mani e piedi. "L'ascia del boia è rapida, ma non lascia tessuti per coprire i moncherini", aveva detto Tao Chi'en. Le aveva ripetuto le lezioni del dottor Ebanizer Hobbs che aveva pratica di feriti di guerra e gli aveva insegnato come fare. "Fortunatamente in questo caso si tratta solo di due dita," pensò Eliza.
La Spaccaossa saturò di liquore il paziente finché non perse i sensi, mentre Eliza disinfettava il coltello scaldandolo sul fuoco. Fece sedere Jack su una sedia, gli fece immergere la mano in un catino con del whisky e poi gliela mise sul bordo del tavolo, con le due dita ammalate separate dalle altre. Mormorò una delle preghiere magiche di Mama Fresia e quando si sentì pronta fece un segnale silenzioso alle donne affinché tenessero fermo il paziente. Appoggiò il coltello sulle dita e diede un colpo di martello preciso, facendo affondare la lama che recise nettamente le ossa e rimase inchiodata nel tavolo. Jack cacciò un urlo che veniva dal fondo delle viscere, ma era talmente intossicato che non si accorse di niente mentre Eliza lo ricuciva ed Esther lo bendava. Nel giro di pochi minuti il supplizio era terminato. Eliza rimase a guardare le dita amputate cercando di dominare i conati di vomito, mentre le donne facevano sdraiare Jack su una delle stuoie. Babalù il Cattivo, che era rimasto il più lontano possibile dalla scena, si avvicinò timidamente, con il suo berretto da bambino in mano.
"Sei un vero uomo, Cilenito," mormorò con ammirazione.
In marzo Eliza compì silenziosamente diciotto anni, in attesa che presto o tardi apparisse il suo Joaquin alla porta, come avrebbe fatto qualsiasi uomo nel raggio di cento miglia, secondo quanto sosteneva Babalù. Jack, il messicano, si rimise in pochi giorni e se la squagliò di notte, senza congedarsi da nessuno, prima che si cicatrizzassero le ferite. Era un tipo sinistro e si rallegrarono tutti della fuga. Parlava assai poco ed era sempre all'erta, con un tono di sfida, pronto ad attaccare alla più piccola ombra di una immaginaria provocazione. Non mostrò la minima gratitudine per i favori ricevuti, al contrario, quando si svegliò dall'ubriacatura e si rese conto che gli avevano amputato le dita con cui sparare, sputò una sfilza di maledizioni e di minacce, giurando che il figlio di puttana che gli aveva rovinato la mano l'avrebbe pagata con la vita. Allora a Babalù si esaurì la pazienza. Lo prese come un bambolotto, lo sollevò alla sua altezza, gli inchiodò addosso gli occhi e gli disse con la vocina dolce che usava quando era sul punto di scoppiare:
"Sono stato io: Babalù il Cattivo. C'è qualche problema?".
Appena gli passò la febbre, Jack cercò di approfittare delle colombe per togliersi qualche sfizio, ma ricevette un coro di rifiuti: le ragazze non erano disposte a dargli qualcosa gratis e le sue tasche erano vuote, come avevano avuto modo di verificare quando l'avevano spogliato per metterlo nella vasca da bagno la notte in cui era apparso congelato. Joe Spaccaossa si prese la briga di spiegargli che, se non gli avessero tagliato le dita, avrebbe perso il braccio o la vita, e che quindi doveva proprio ringraziare il cielo di essere capitato sotto il suo tetto. Eliza non permetteva a Tom Senza Tribù di avvicinarglisi e lei stessa lo faceva esclusivamente per passargli da mangiare o per cambiargli le bende, perché quel suo odore di malvagità la disturbava come una presenza tangibile. Nemmeno Babalù poteva sopportarlo e finché rimase in casa si astenne dal parlargli. Considerava le ragazze come sorelle e andava in bestia quando Jack faceva allusioni oscene. Nemmeno in caso di estrema necessità gli sarebbe venuto in mente di ricorrere ai servizi professionali delle sue compagne, per lui sarebbe stato come commettere un incesto; quando la natura lo incalzava si recava nei locali della concorrenza e aveva avvertito il Cilenito che avrebbe dovuto fare altrettanto, nel caso improbabile in cui fosse guarito dalle sue cattive abitudini da signorina.
Mentre serviva a Jack un piatto di zuppa, Eliza finalmente osò interrogarlo a proposito di Joaquin Andieta.
"Murieta?" chiese lui, sospettoso.
"Andieta."
"Non lo conosco."
"Forse è la stessa persona," suggerì Eliza.
"Cosa vuoi da lui?"
"È mio fratello. Sono venuto dal Cile per trovarlo."
"Com'è tuo fratello?"
"Non molto alto, con i capelli e gli occhi neri, la pelle bianca, come me, però non ci assomigliamo. È magro, muscoloso, coraggioso e appassionato. Quando parla tacciono tutti."
"Joaquin Murieta è così, ma non è cileno, è messicano."
"Sicuro?"
"Sicuro non lo sono di niente, ma se vedo Murieta gli dirò che lo cerchi."
La notte successiva se ne andò e non seppero più niente di lui, ma dopo due settimane trovarono sulla porta del capannone una borsa con due libbre di caffè. Poco dopo Eliza la aprì per preparare la colazione e vide che non si trattava di caffè, ma di oro in polvere. Secondo Joe Spaccaossa poteva provenire da uno qualsiasi dei minatori ammalati che avevano curato in quel periodo, ma Eliza ebbe il presentimento che fosse stato Jack a lasciarla lì, come pagamento. Quell'uomo non voleva essere in debito con nessuno. La domenica vennero a sapere che lo sceriffo stava organizzando una squadra di guardie per cercare l'assassino di un minatore: lo avevano ritrovato nella capanna dove trascorreva da solo l'inverno con nove pugnalate nel petto e gli occhi strappati. Del suo oro non c'era traccia e per l'efferatezza del crimine la colpa cadde sugli indiani. Joe Spaccaossa non voleva guai e quindi seppellì le due libbre d'oro sotto un rovere e istruì perentoriamente la sua gente a tenere la bocca chiusa, a non citare neanche per scherzo il messicano dalle dita tagliate né la borsa del caffè. Nei due mesi successivi le guardie uccisero mezza dozzina di indiani e si dimenticarono della faccenda, perché avevano per le mani problemi più urgenti; quando fece la sua dignitosa comparsa il capo della tribù per chiedere spiegazioni, fecero fuori anche lui. Indiani, cinesi, neri o mulatti non potevano testimoniare in un processo contro un bianco. James Morton e gli altri tre quacqueri del paese furono gli unici che osarono affrontare la folla pronta al linciaggio. Disarmati, si piantarono in cerchio intorno al condannato, recitando a memoria i passaggi della Bibbia che proibivano di uccidere un proprio simile, ma la turba li fece allontanare a spintoni.
Nessuno seppe del compleanno di Eliza e quindi non lo si festeggiò, ma quella sera del 15 marzo fu comunque memorabile per lei e per tutti gli altri. I clienti erano tornati al capannone, le colombe erano sempre impegnate, il Cilenito strimpellava il piano con sincero entusiasmo e Joe faceva conti ottimisti. L'inverno non era andato così male, dopo tutto, la fase acuta dell'epidemia era passata e sulle stuoie non c'erano più malati. Quella sera una dozzina di minatori stava bevendo con assiduità, mentre fuori il vento estirpava i rami dei pini. Più o meno verso le undici si scatenò l'inferno. Nessuno fu in grado di capire come fosse stato appiccato l'incendio e Joe sospettò sempre dell'altra tenutaria. La legna prese fuoco come si fosse trattato di petardi e in un istante iniziarono a bruciare le tende, gli scialli di seta e i drappi del letto. Tutti scapparono illesi; riuscirono persino a buttarsi addosso una coperta ed Eliza a prendere al volo la scatola di latta che conteneva le sue preziose lettere. Le fiamme e il fumo avvolsero rapidamente il locale che in meno di dieci minuti ardeva come una torcia, mentre le donne mezze nude, insieme ai loro frastornati clienti, osservavano lo spettacolo totalmente impotenti. Fu allora che Eliza buttò un'occhiata per contare i presenti e si accorse inorridita che mancava Tom Senza Tribù. Il bambino era rimasto a dormire nel letto comune. Senza sapere come, strappò una coperta dalle spalle di Esther, si coprì la testa e corse trapassando con uno spintone il fragile assito in fiamme, seguita da Babalù, che cercava di trattenerla gridando e che non riusciva a capire perché si stesse buttando nel fuoco. Trovò il bambino in piedi nella coltre di fumo, con gli occhi spaventati, ma perfettamente calmo. Gli buttò la coperta addosso e cercò di prenderlo in braccio, ma era molto pesante e un accesso di tosse la piegò in due. Cadde in ginocchio e spinse Tom a correre fuori, ma lui non si mosse ed entrambi si sarebbero ridotti in cenere se Babalù non fosse apparso in quell'istante e non se ne fosse preso uno per braccio, come pacchetti, per poi uscire con loro di corsa in mezzo all'ovazione di chi attendeva fuori.
"Maledetto ragazzino! Cosa ci facevi lì dentro?" Joe rimproverava il piccolo indiano abbracciandolo, baciandolo e dandogli delle pacche per farlo respirare.
Se non bruciò mezzo paese fu solo perché il capannone si trovava isolato, come fece notare più tardi lo sceriffo che aveva esperienza di incendi, data la frequenza con cui si sviluppavano da quelle parti. Alla vista delle fiammate accorse una dozzina di volontari, capitanati dal fabbro, per cercare di domarle, ma era già tardi e riuscirono a liberare solamente il cavallo di Eliza del quale nessuno si era ricordato nel trambusto dei primi minuti e che, morto di paura, si trovava ancora legato sotto la sua tettoia. Joe Spaccaossa in quella notte perse tutto quello che possedeva al mondo e per la prima volta la videro soccombere. Con il bambino in braccio, assistette alla distruzione senza riuscire a contenere le lacrime e, quando furono rimasti solo tizzoni fumanti, nascose il viso nel petto enorme di Babalù, cui si erano bruciacchiate ciglia e sopracciglia. Visto il cedimento di quella sorta di madre che credevano invulnerabile, le quattro donne in coro scoppiarono in lacrime in un grappolo di sottovesti, capigliature scarmigliate e carni tremanti. Ma la rete di solidarietà iniziò a funzionare ancor prima che fossero spente le fiamme e in meno di un'ora c'erano alloggi per tutti nelle varie case del paese e uno dei minatori che Joe aveva salvato dalla dissenteria stava organizzando una colletta. Il Cilenito, Babalù e il bambino - i tre uomini della compagnia - trascorsero la notte nella fucina. James Morton collocò due materassi con grosse coperte vicino alla forgia sempre calda e servì una splendida colazione ai suoi ospiti, preparata con cura dalla sposa del predicatore che di domenica denunciava con voce tuonante lo spudorato esercizio del vizio, come chiamava le attività dei bordelli.
"Non è il momento di formalizzarsi, questi poveretti stanno tremando," disse la sposa del reverendo quando si presentò alla fucina con la sua pietanza di lepre, una brocca di cioccolata e biscotti alla cannella.
Sempre lei passò poi in rassegna il paese chiedendo vestiti per le colombe, che erano ancora in sottoveste, e la risposta delle altre signore fu generosa. Evitavano di passare di fronte al locale dell'altra tenutaria, ma avevano avuto qualche rapporto con Joe Spaccaossa durante l'epidemia e la rispettavano. E fu così che le quattro ragazze di vita per un po' di tempo andarono in giro vestite da signore modeste, imbacuccate dai piedi alla testa, fino a quando non riuscirono a ripristinare il loro abbigliamento festaiolo. La notte dell'incendio la moglie del pastore cercò di portarsi a casa Tom Senza Tribù, ma il bambino si aggrappò al collo di Babalù e non ci fu modo di strapparlo da lì. Il gigante passò ore insonni, con il Cilenito rannicchiato in un braccio e il bambino nell'altro, piuttosto seccato dagli sguardi sbalorditi del fabbro.
"Si tolga pure quell'idea dalla testa. Non sono checca," farfugliò indignato, ma senza allontanare nessuno dei due dormienti.
La colletta dei minatori e la borsa di caffè sepolta sotto il rovere servirono per far riparare i danni di quella casa così agevole e decorosa che Joe Spaccaossa pensò di rinunciare alla compagnia itinerante per sistemarsi lì. Mentre altri paesi sparivano quando i minatori si spostavano verso altri filoni, questo cresceva, si consolidava e si stava persino pensando di cambiargli il nome per dargliene uno più dignitoso. Quando fosse finito l'inverno, nuove ondate di avventurieri sarebbero tornate a salire per le pendici della sierra e l'altra tenutaria si stava già preparando. Joe Spaccaossa poteva contare solo su tre ragazze, perché era evidente che il fabbro pensava di sottrarle Esther, ma in qualche modo si sarebbe arrangiata. Con le sue opere di carità si era guadagnata una certa considerazione e non desiderava perderla: per la prima volta nella sua turbolenta vita si sentiva accettata da una comunità. Tutto ciò era molto più di quanto avesse avuto tra gli olandesi in Pennsylvania e alla sua età l'idea di radicarsi non era del tutto malvagia. Quando fu informata di questi progetti, Eliza decise che se Joaquin Andieta - o Murieta - non fosse apparso in primavera, avrebbe dovuto congedarsi dai suoi amici e riprendere le ricerche.