TERZA PARTE

1850-1853

 

EL DORADO

 

Quattro uomini trasportarono l'orso, due per lato, tirandolo con grosse corde, in mezzo a una folla esaltata. Lo trascinarono fino al centro dell'arena e lo legarono a un palo per una zampa con una catena di venti piedi e poi ci misero quindici minuti per sciogliere le funi, mentre graffiava e mordeva con un'ira da fine del mondo. Pesava più di seicento chili, aveva la pelliccia bruna, un occhio guercio, diverse spellature e cicatrici di vecchie battaglie sul dorso, ma era ancora giovane. Una bava schiumosa copriva le fauci dagli enormi denti gialli. In piedi sulle zampe posteriori, sbracciandosi inutilmente con i suoi artigli preistorici, scrutava la folla con l'occhio sano, strattonando disperatamente la catena.

Era un paesucolo sorto in pochi mesi dal nulla, costruito in un batter d'occhio da transfughi e senza ambizioni di durata. In mancanza di un'arena per i tori, come quelle presenti in tutti i paesi messicani della California, si ricorreva a un ampio spiazzo circolare, che serviva per domare i cavalli e rinchiudere i muli, rinforzato con assi e dotato di gradinate in legno su cui si sistemava il pubblico. In quel pomeriggio novembrino dal cielo color acciaio minacciava di piovere, ma non faceva freddo e la terra era secca. Dietro alla staccionata, centinaia di spettatori rispondevano a ogni ruggito dell'animale con cori di scherno. Le sole donne, una mezza dozzina di ragazze messicane con vestiti bianchi ricamati accompagnate dalle immancabili sigarette, rappresentavano, insieme all'orso, le personalità illustri e anch'esse venivano salutate dagli uomini con grida di olé, mentre le bottiglie di liquore e i sacchetti d'oro delle scommesse giravano di mano in mano. I giocatori d'azzardo, in abiti da città, panciotti fantasia, ampie cravatte e cappelli a cilindro, si distinguevano tra la massa rozza e scompigliata. Tre musicisti suonavano con i loro violini le canzoni preferite e non appena attaccarono con brio Oh Susanna, inno dei minatori, un paio di comici barbuti, vestiti da donna, saltarono nell'arena e compirono un giro trionfale tra oscenità e manate, sollevandosi le gonne per mostrare gambe pelose e pantaloni a campana. Il pubblico li festeggiò con una generosa pioggia di monete e uno scroscio di applausi e risate. Quando si furono ritirati, al solenne rintocco di cornetta e rullare di tamburi che annunciava l'inizio del combattimento, seguì il bramito della folla elettrizzata.

Persa nella moltitudine, Eliza seguiva lo spettacolo affascinata e inorridita. Aveva scommesso i pochi soldi rimasti nella speranza di vederli moltiplicati nel giro di qualche minuto. Al terzo rintocco di cornetta venne aperto un portellone di legno e un toro giovane, nero e lucente entrò sbuffando. Per un animo sulle gradinate regnò un silenzio meravigliato e subito dopo un olé urlato a squarciagola accolse l'animale. Il toro si fermò sconcertato, la testa alta, coronata dalle grandi corna mai limate, gli occhi all'erta che prendevano le misure, gli zoccoli anteriori che raspavano la sabbia, fino a quando un grugnito dell'orso non attirò la sua attenzione. L'avversario l'aveva visto e in tutta fretta si era scavato una buca a poca distanza dal palo, dove si era rannicchiato, schiacciato a terra. Alle urla del pubblico il toro chinò la testa, mise in tensione i muscoli e si lanciò nella corsa sollevando una nube di sabbia, accecato dalla collera, ansimando, liberando vapore dalle narici e schiumando bava dal muso. L'orso lo stava aspettando. Ricevette la prima cornata sul dorso e nella grossa pelliccia si aprì un solco sanguinante che tuttavia non lo fece muovere di un centimetro. Il toro fece un giro al trotto nell'arena, confuso, mentre la folla lo aizzava insultandolo, immediatamente tornò alla carica, cercando di sollevare l'orso con le corna, ma questi si mantenne acquattato e sostenne l'assalto senza batter ciglio, finché non individuò il momento opportuno e con una zampata precisa gli fece a pezzi il naso. Sanguinando a fiotti, sconvolto dal dolore e senza meta, l'animale iniziò ad attaccare con testate alla rinfusa, ferendo l'avversario più di una volta senza mai riuscire però a farlo uscire dalla buca. All'improvviso l'orso si alzò e lo afferrò per il collo in un abbraccio terribile, mordendogli la nuca. Per lunghi minuti danzarono insieme nel cerchio consentito dal raggio della catena, mentre la sabbia si inzuppava sempre più di sangue e sulle gradinate rimbombavano le urla selvagge degli uomini. Alla fine il toro riuscì a liberarsi, si allontanò di qualche passo, vacillando, con le zampe molli e il pelo di brillante ossidiana tinto di rosso, e infine si piegò sulle ginocchia e cadde bocconi. Allora un assordante clamore festeggiò la vittoria dell'orso. Entrarono nell'arena due cavalieri, spararono un colpo di fucile in mezzo agli occhi del vinto, lo legarono per le zampe posteriori e lo trascinarono via. Eliza si fece strada verso l'uscita, disgustata. Aveva perso gli ultimi quaranta dollari.

Durante i mesi dell'estate e dell'autunno 1849, Eliza cavalcò lungo la Veta Madre, da sud a nord, da Mariposa a Downieville e poi a ritroso, seguendo la pista sempre più incerta di Joaquin Andieta per dirupi scoscesi, dai letti dei fiumi alle falde della Sierra Nevada. Quando chiedeva di lui, all'inizio pochi ricordavano una persona il cui nome, o la descrizione, corrispondesse, ma verso la fine dell'anno la sua figura iniziò ad acquisire contorni reali ed era questo a dare alla ragazza la forza per proseguire. Aveva fatto girare la voce che il fratello Elias lo stava cercando e in quei mesi, più di una volta, l'eco le aveva restituito la sua stessa voce. In diverse occasioni, quando chiedeva di Joaquin, veniva identificata come il fratello ancor prima di presentarsi. In quella regione selvaggia la posta arrivava da San Francisco con mesi di ritardo e i giornali ci impiegavano settimane, ma il tam tam funzionava perfettamente. Com'era possibile che Joaquin non avesse sentito dire che lo stavano cercando? Visto che non aveva fratelli, si doveva pur essere domandato chi fosse tal Elias, e se possedeva un briciolo d'intuito poteva associare quel nome al suo, e anche se non aveva sospetti, perlomeno doveva avere la curiosità di scoprire chi si stesse spacciando per suo parente. Di notte Eliza riusciva a dormire a malapena, confusa dal ginepraio di congetture e con il dubbio ostinato che il silenzio potesse spiegarsi semplicemente con la morte o con il desiderio di non essere trovato. E se davvero stava fuggendo da lei, come aveva insinuato Tao Chi'en? Passava le giornate a cavallo e le notti sdraiata a terra nel primo posto che capitava, al riparo della sua coperta castigliana e con gli stivali per cuscino, senza spogliarsi. La sporcizia e il sudore avevano smesso di infastidirla, mangiava quando era possibile, le uniche precauzioni adottate erano far bollire l'acqua da bere e non guardare i gringo negli occhi.

In quel periodo si contavano già più di centomila argonauti e continuavano ad arrivarne altri, disseminati lungo la Veta Madre, che capovolgevano il mondo, spostando montagne, deviando fiumi, distruggendo boschi, polverizzando pietre, rimuovendo tonnellate di sabbia e scavando buche gigantesche. Nelle zone in cui c'era oro, quel paesaggio idilliaco che era rimasto intatto dall'inizio dei tempi si era trasformato in un incubo lunare. Eliza era perennemente stravolta, ma aveva recuperato un po' di forze e perduto la paura. Le tornarono le mestruazioni nel momento meno opportuno, perché era difficile dissimularle in compagnia di uomini, ma le accolse con gratitudine, come segno del fatto che finalmente il suo corpo era guarito. "I tuoi aghi mi hanno fatto bene, Tao. Spero di avere dei figli in futuro," scrisse all'amico, certa che non avrebbe avuto bisogno di altre spiegazioni per capire. Non si separava mai dalle sue armi, benché non le sapesse usare e sperasse di non trovarsi in condizione di doverci provare. Solo una volta sparò in aria per mettere in fuga dei giovani indiani che si erano avvicinati troppo e che le erano parsi minacciosi, ma se si fosse battuta con loro ne sarebbe uscita molto male dato che era incapace di colpire un asino a cinque metri di distanza. Non aveva perfezionato la mira, bensì l'arte di rendersi invisibile. Poteva entrare nei paesi senza richiamare l'attenzione, mescolandosi ai gruppi di latini in cui un ragazzo col suo aspetto passava inosservato. Aveva imparato a imitare perfettamente l'accento peruviano e quello messicano e così poteva confondersi con uno di loro quando cercava alloggio. Modificò anche il suo inglese britannico in favore dell'americano e iniziò a impiegare le parolacce indispensabili per essere accettata tra i gringo. Si rendeva conto che parlando come loro veniva rispettata; l'importante era non dare spiegazioni, parlare il meno possibile, non chiedere niente, lavorare per badare a sé, tener testa quando veniva provocata e aggrapparsi a una piccola Bibbia che aveva comprato a Sonora. Anche i più violenti provavano una superstiziosa deferenza per quel libro. Li stupiva quel ragazzo imberbe dalla voce femminile che di sera leggeva le Sacre Scritture, ma non la canzonavano apertamente, anzi, alcuni si trasformavano in suoi protettori, pronti a battersi con chiunque la dileggiasse. In quegli uomini soli e spietati, che erano partiti in cerca di fortuna come i mitici eroi dell'antica Grecia e che ora si trovavano a dover lottare per la sopravvivenza, spesso malati, dediti all'alcol e alla violenza, c'era un inconfessato anelito alla tenerezza e all'ordine. Le canzoni romantiche inumidivano loro gli occhi ed erano disposti a pagare qualsiasi cifra per una fetta di torta di mele che offrisse loro un attimo di conforto contro la nostalgia del focolare; facevano lunghi giri pur di avvicinarsi a una casa in cui ci fosse un bimbo e rimanevano poi a contemplarlo in silenzio come si trattasse di un miracolo.

"Non temere, Tao, non viaggio da sola, sarebbe una follia," scriveva Eliza all'amico. "Bisogna muoversi in gruppi numerosi, ben armati e sempre all'erta, perché negli ultimi tempi le bande di fuorilegge si sono moltiplicate. Nonostante il loro terrificante aspetto gli indiani sono piuttosto pacifici, ma se vedono un uomo indifeso lo privano delle sue più ambite proprietà: cavalli, armi, stivali. Mi sposto insieme ad altri viaggiatori: commercianti che vanno da un paese all'altro con i loro prodotti, minatori in cerca di nuovi filoni, famiglie di agricoltori, cacciatori, imprenditori e agenti di proprietà, che iniziano a invadere la California, giocatori, pistoleri, avvocati e altre canaglie che in linea di massima sono i compagni di viaggio più divertenti e generosi. Da queste parti girano anche predicatori, sono sempre giovani e sembrano matti illuminati. Bisogna averne parecchia di fede per percorrere tremila miglia attraverso praterie vergini allo scopo di combattere i vizi altrui. Partono dalle loro case animati da zelo e passione, intenzionati a portare la parola di Cristo in questi luoghi così fuori mano, senza preoccuparsi degli ostacoli e delle avversità perché Dio marcia al loro fianco. Chiamano i minatori 'gli adoratori del vitello d'oro'. Devi leggere la Bibbia, Tao, altrimenti non capirai mai i cristiani. Questi pastori non vengono mai sconfitti dalle vicissitudini materiali, ma molti soccombono con l'anima a pezzi, impotenti davanti alla forza soggiogante della cupidigia. È di conforto vederli non appena arrivano, ancora innocenti, ed è triste incrociarli quando Dio ha smesso di proteggerli, e viaggiano come anime in pena da un accampamento all'altro, assetati e con un sole implacabile sulla testa, per predicare in piazze e taverne davanti a un pubblico indifferente che li ascolta senza togliersi il cappello e vederli poi, cinque minuti dopo, ubriacarsi con qualche donnetta. Ho conosciuto un gruppo di artisti itineranti, Tao, poveri diavoli che si fermavano nei paesi per intrattenere la gente con pantomime, canzoni piccanti e commedie grossolane. Ho viaggiato con loro per diverse settimane e ho fatto parte dello spettacolo. Se trovavamo un piano, suonavo, altrimenti facevo la pane della dama giovane e tutti si meravigliavano di quanto mi fossero congeniali i ruoli femminili. Dovetti abbandonarli perché la situazione iniziava a mandarmi in confusione, non sapevo più se ero una donna vestita da uomo, un uomo vestito da donna o un'aberrazione della natura."

Eliza fece amicizia con il postino e quando poteva cavalcava con lui, perché viaggiava velocemente e aveva molti contatti; se c'è qualcuno che può trovare Joaquin è lui, pensava. L'uomo portava la posta ai minatori e tornava con le borse d'oro da depositare nelle banche. Era uno dei molti visionari arricchitisi con la febbre dell'oro senza aver mai preso in mano una pala o un piccone. Chiedeva due dollari e mezzo per portare una lettera a San Francisco e, approfittando dell'ansia dei minatori di ricevere notizie da casa, riscuoteva un'oncia d'oro per la consegna delle lettere a loro indirizzate. Guadagnava un patrimonio con questa attività, i clienti non mancavano e nessuno protestava per i prezzi dato che di alternative non ce n'erano, non potevano abbandonare le miniere per andare a caccia di corrispondenza o depositare i guadagni a cento miglia di distanza. Eliza cercava anche la compagnia di Charley, un ometto pieno di storie, che faceva la concorrenza ai mulattieri messicani nel trasporto di merci. Anche se non temeva nemmeno il diavolo in persona, era sempre felice di avere una scorta, perché aveva bisogno di orecchie per i suoi racconti. Quanto più lo osservava, tanto più cresceva in Eliza la certezza che, come per lei, si trattasse di una donna vestita da uomo. Charley aveva la pelle indurita dal sole, masticava tabacco, imprecava come un bandito e non si separava mai dalle sue pistole e dai suoi guanti, ma una volta Eliza riuscì a vedere le sue mani ed erano piccole e bianche come quelle di una fanciulla.

Finì per innamorarsi della libertà. Era vissuta tra quattro mura in casa Sommers, in un ambiente sempre identico a se stesso, in cui il tempo girava in tondo e in cui si intravedeva a malapena la linea dell'orizzonte attraverso le finestre tormentate; era cresciuta nell'impenetrabile armatura delle buone maniere e delle convenzioni, allenata da sempre a compiacere e a servire, nelle limitazioni imposte dal bustino, dalla routine, dalle norme sociali e dalla paura. Il timore era sempre stato suo compagno: timore di Dio e della sua imprevedibile giustizia, dell'autorità, dei genitori adottivi, della malattia e della maldicenza, di quanto era sconosciuto e diverso, di rinunciare alla protezione della casa e di affrontare i pericoli della strada; timore della sua fragilità femminile, del disonore e della verità. La sua era stata una realtà zuccherata, fatta di omissioni, silenzi cortesi, segreti ben mantenuti, ordine e disciplina. Sua aspirazione era stata la virtù, ma ora dubitava del significato di quella parola. Dandosi a Joaquin Andieta nella stanza degli armadi aveva commesso un errore irreparabile agli occhi del mondo, ma ai suoi l'amore giustificava tutto. Non sapeva cosa avesse perduto o guadagnato con quella passione. Era partita dal Cile con il proposito di ritrovare l'amante e di diventare per sempre sua schiava, credendo che così avrebbe placato la sete di sottomissione e il recondito anelo al possesso, ma ora non si sentiva più in grado di rinunciare a quelle giovani ali che stavano iniziando a crescerle sulle spalle. Non aveva rimorsi per quanto aveva condiviso con l'amante né si vergognava della fiammata che l'aveva sconvolta, anzi, sentiva che l'aveva resa forte tutto a un tratto e che le aveva dato la fierezza necessaria per prendere delle decisioni e per pagarne le conseguenze. Non doveva spiegazioni a nessuno; se aveva commesso degli errori li aveva pagati sufficientemente cari con la perdita della famiglia, le settimane di tormento sepolta nella stiva, il figlio morto e l'assoluta incertezza circa il futuro. Quando era rimasta incinta e si era sentita in trappola, aveva scritto sul diario di aver perso il diritto alla felicità e tuttavia, in quegli ultimi mesi in cui aveva cavalcato per il dorato paesaggio californiano, aveva provato la sensazione di volare come un condor.

Una mattina si era svegliata al nitrito del suo cavallo e con la luce dell'alba in viso; si era vista circondata da superbe sequoie che come guardiani centenari avevano vegliato sul suo sonno, da dolci pendii e, in lontananza, dalle alte cime violette; e allora era stata invasa da una felicità mai sperimentata prima. Si era resa conto che ormai era sparita quella sensazione di panico sempre acquattata nella bocca dello stomaco, come un topo pronto a mordere. Le paure si erano diluite nella superba grandiosità di quel territorio. E a mano a mano che affrontava i rischi, aveva acquistato audacia e aveva perso la paura della paura.

"Sto scoprendo in me nuove forze, che forse ho sempre avuto, ma che non conoscevo perché fino a ora non avevo avuto bisogno di ricorrervi. Non so a quale curva della strada si sia persa la persona che ero prima, Tao. Ora sono un altro degli innumerevoli avventurieri dispersi sulle rive di questi fiumi trasparenti e sulle falde di queste montagne eterne. Sono uomini orgogliosi, che sopra i loro cappelli hanno solo il cielo, che non si piegano davanti a nessuno perché stanno inventando l'uguaglianza. E io voglio essere uno di loro. Alcuni camminano vittoriosi con una borsa d'oro sulle spalle e altri procedono sconfitti con l'unico fardello delle disillusioni e dei debiti, ma tutti si sentono padroni del proprio destino, della terra che calpestano, del futuro, della propria inoppugnabile dignità. Dopo averli conosciuti non posso tornare a essere una signorina come voleva Miss Rose. Ora posso capire Joaquin, quando rubava ore preziose al nostro amore per parlarmi di libertà. Era di questo che parlava... Di questa euforia, di questa luce, di questa felicità intensa come i rari momenti d'amore passati insieme che riesco a ricordare. Sento la tua mancanza, Tao. Non so con chi parlare di quello che vedo, di quello che provo. Non ho un amico in queste zone desolate e nella mia parte di uomo sto molto attenta a quel che dico. Sono sempre accigliata, perché mi credano un vero uomo. È scomodo essere uomini, ma essere donne lo è ancora di più."

Vagando da una zona all'altra arrivò a conoscere l'aspro territorio come se fosse nata lì, poteva localizzare il punto in cui si trovava e calcolare le distanze, distingueva i serpenti velenosi da quelli innocui e i gruppi ostili da quelli amichevoli, prevedeva il tempo dalla forma delle nuvole, deduceva l'ora dall'angolo della sua ombra, sapeva cosa fare quando si imbatteva in un orso e come avvicinarsi a una capanna isolata senza essere ricevuta a colpi di pistola. A volte incontrava giovani appena arrivati che trascinavano su per i pendii complicate macchine estrattive che alla fine venivano abbandonate quando risultavano inutilizzabili, o incrociava gruppi di uomini febbricitanti che scendevano dai monti dopo mesi di inutile lavoro. Non poteva dimenticare quel cadavere becchettato dagli uccelli che pendeva da un rovere con un cartello di avvertimento... Nel suo peregrinare vedeva americani, europei, kanakas, messicani, cileni, peruviani, nonché lunghe file di cinesi silenziosi agli ordini di un caposquadra che, pur appartenendo alla loro stessa razza, li trattava come servi e li pagava con le briciole. Portavano un fagotto sulla schiena e gli stivali in mano, perché avevano sempre usato pantofole e non sopportavano pesi ai piedi. Era gente parsimoniosa, viveva di niente e spendeva il meno possibile; compravano calzature grandi perché le credevano più resistenti e rimanevano sbalorditi quando appuravano che il prezzo era lo stesso di quelle piccole. Eliza affinò l'istinto a eludere i pericoli. Imparò a vivere alla giornata senza fare progetti, come le aveva consigliato Tao Chi'en. Pensava spesso a lui e gli scriveva assiduamente, ma poteva spedire le lettere solo quando arrivava a un paese con servizio postale per Sacramento. Era come lanciare messaggi nella bottiglia in mare, perché non sapeva se lui vivesse ancora in quella città e l'unico indirizzo sicuro che possedeva era quello del ristorante cinese.

Sapeva che se le sue lettere fossero arrivate fin lì, sicuramente gliele avrebbero date.

Gli raccontava del paesaggio meraviglioso, del caldo e della sete, delle colline dalle curve voluttuose, degli imponenti roveri e dei pini slanciati, dei fiumi gelati dall'acqua talmente limpida che si poteva vedere l'oro brillare nel loro letto, delle oche selvatiche che gracchiavano in cielo, dei cervi e dei grandi orsi, della dura vita dei minatori e del miraggio della fortuna facile. Gli diceva quel che entrambi già sapevano: che non valeva la pena sprecare la vita a caccia di una polvere gialla. E indovinava la risposta di Tao: che non valeva la pena nemmeno di sprecarla inseguendo un amore illusorio, ma lei tirava dritta per la sua strada perché non poteva fermarsi. Joaquin Andieta iniziava a dissolversi, la sua buona memoria non riusciva a disegnare con precisione i tratti dell'amante, doveva rileggere le lettere d'amore per essere certa che era realmente esistito, che si erano amati e che le notti nella stanza degli armadi non erano un inganno della sua immaginazione. E così rinnovava il dolce tormento dell'amore solitario. A Tao Chi'en descriveva la gente che conosceva strada facendo, le masse di immigranti messicani che si erano stabiliti a Sonora, l'unico paese in cui scorrazzavano bambini per le strade, le umili donne che l'accoglievano sempre nelle loro case d'argilla senza sospettare che fosse una di loro, le migliaia di giovani americani che si erano recati ai giacimenti quell'autunno, dopo aver attraversato via terra il continente dalle coste dell'Atlantico a quelle del Pacifico. Calcolava che fossero circa quarantamila i nuovi arrivati, ognuno di loro pronto ad arricchirsi in un batter d'occhio e a tornare trionfalmente al suo paese. Venivano chiamati "quelli del '49", nome che divenne talmente popolare da essere adottato anche da chi era arrivato prima o dopo. A est interi paesi rimanevano privi di uomini, abitati solo da donne, bambini e prigionieri.

"Vedo pochissime donne nelle miniere, ma ce ne sono alcune con sufficiente fegato da accompagnare i mariti in questa vita da cani. I bambini muoiono per le epidemie o gli incidenti; le madri li seppelliscono, li piangono e continuano a lavorare dall'alba al tramonto per impedire che la barbarie rada al suolo ogni traccia di dignità. Si arrotolano le gonne e si mettono in acqua a cercare l'oro, ma alcune scoprono che è più produttivo lavare la biancheria altrui o sfornare biscotti, e così guadagnano più loro in una settimana che i loro compagni in un mese nei giacimenti. Un uomo solo paga volentieri dieci volte il suo prezzo un pane impastato da mani femminili: se cerco di venderlo io, vestita da Elias Andieta, mi danno solo qualche spicciolo, Tao. Gli uomini sono capaci di camminare per parecchie miglia pur di vedere una donna da vicino. Una ragazza ferma a prendere il sole davanti a una taverna in pochi minuti si ritrova sulle ginocchia una collezione di sacchettini d'oro, omaggio degli uomini istupiditi dall'evocativa visione di una gonna. E i prezzi continuano a crescere; i minatori sempre più poveri e i commercianti sempre più ricchi. In un momento di disperazione ho pagato un dollaro per un uovo e me lo sono ingoiato crudo con una spruzzata di brandy, sale e pepe, come mi aveva insegnato Mama Fresia: rimedio infallibile per la desolazione. Ho conosciuto un ragazzo che viene dalla Georgia, un poveretto che ora è squilibrato, ma che, mi hanno detto, prima non era così. All'inizio dell'anno aveva trovato un filone e dalle rocce era riuscito a raschiare con un cucchiaio novemila dollari, ma poi li perse in una sera giocando al monte. Ah, Tao, non puoi immaginarti che voglia ho di farmi un bagno, di preparare il tè e di sedermi a chiacchierare con te. Mi piacerebbe indossare un vestito pulito e mettermi gli orecchini che mi ha regalato Miss Rose, perché tu mi possa vedere carina e non creda che io sia un maschiaccio. Sto annotando sul mio diario tutto quello che succede, così potrò raccontarti i dettagli quando ci incontreremo, perché almeno di questo sono certa, un giorno saremo di nuovo insieme. Penso a Miss Rose e a quanto deve essere arrabbiata con me, ma non posso scriverle prima di aver trovato Joaquin, perché fino a quel momento nessuno deve sapere dove mi trovo. Se Miss Rose avesse solo una vaga idea di tutte le cose che ho visto e sentito, morirebbe. Questa è la terra del peccato, direbbe Mr Sommers, qui non ci sono né morale né leggi, imperano i vizi del gioco, l'alcol e i bordelli, ma per me questo paese è un foglio in bianco, qui posso scrivere la mia nuova vita, trasformarmi in quello che voglio, nessuno, tranne te, mi conosce, nessuno conosce il mio passato, posso nascere di nuovo. Qui non ci sono né signori né servi, ma solo gente che lavora. Ho visto antichi schiavi mettere insieme l'oro sufficiente a finanziare giornali, scuole e chiese per quelli della loro razza, lottando contro la schiavitù in California. Ne ho conosciuto uno che ha comprato la libertà della madre; la povera donna è arrivata ammalata e invecchiata, ma adesso guadagna quanto vuole vendendo cibo, ha acquistato un ranch e la domenica va in chiesa vestita di seta su una carrozza con quattro cavalli. Sai che molti marinai neri hanno disertato le navi non solo per l'oro, ma perché qui trovano l'unica forma di Libertà? Ricordo le schiave cinesi che a San Francisco mi hai mostrato affacciate dietro a quelle sbarre, non posso dimenticarle, mi mettono angoscia. Da queste parti anche la vita delle prostitute è durissima, alcune si suicidano. Gli uomini attendono ore per salutare rispettosamente la nuova maestra, ma le ragazze dei saloon le maltrattano. Sai come le chiamano? Colombe infangate. E anche gli indiani si suicidano, Tao. Vengono respinti dappertutto e si aggirano affamati e disperati. Nessuno offre loro lavoro e come se non bastasse li accusano di vagabondaggio e li incatenano ai lavori forzati. I sindaci pagano cinque dollari per ogni indiano morto, li ammazzano per diporto e a volte strappano loro il cuoio capelluto. Non mancano gringo che collezionano questi trofei da esibire appesi ai finimenti. Ti farà piacere sapere che ci sono cinesi che sono andati a vivere con gli indiani. Vanno lontano, verso i boschi del Nord, dove si può ancora cacciare. Nelle praterie sono rimasti ben pochi bufali, dicono."

Alla fine del combattimento dell'orso Eliza si ritrovò senza soldi e affamata; non mangiava dal giorno prima, e decise che mai più avrebbe puntato i suoi risparmi a stomaco vuoto. Quando ormai aveva venduto tutto quello che poteva, rimase un paio di giorni senza sapere come sopravvivere e poi si mise a cercare lavoro, per scoprire che guadagnarsi da vivere era molto più facile di quanto sospettasse, e comunque certamente da preferire rispetto alla ricerca di qualcuno che sostenesse le spese. Senza un uomo che la protegga o la mantenga, una donna è perduta, le aveva ripetuto Miss Rose fino alla nausea, ma lei scoprì che non sempre era così. Calata nel molo di Elias Andieta trovava lavori che avrebbe potuto fare benissimo anche vestita da donna. Farsi assumere come bracciante o come bovaro era impossibile, non sapeva usare né un attrezzo né un lazzo e non aveva abbastanza forza per sollevare una pala o prendere un torello, ma non mancavano opportunità cui invece poteva aspirare. Quel giorno fece ricorso alla penna, proprio come aveva fatto tante volte prima. L'idea di scrivere lettere era stato un buon consiglio del suo amico, il postino. Se non poteva farlo nella taverna, stendeva la sua coperta castigliana in mezzo a una piazza, ci sistemava sopra carta e calamaio e poi sbandierava la sua professione a squarciagola. Molti minatori faticavano a leggere con scioltezza o a firmare, e non avevano mai scritto una lettera in vita loro, ma tutti attendevano la posta con un batticuore commovente: era l'unico contatto con le famiglie lontane. I vapori del Pacific Mail arrivavano a San Francisco ogni due settimane con i sacchi della corrispondenza e, non appena si profilavano all'orizzonte, la gente correva a mettersi in fila davanti all'ufficio postale. Gli impiegati ci mettevano dieci o dodici ore per distribuire il contenuto dei sacchi, ma a nessuno importava di dover aspettare una giornata intera. Da hìlì alle miniere la corrispondenza tardava ancora diverse settimane ad arrivare. Eliza offriva i suoi servizi in inglese e spagnolo, leggeva le lettere e preparava le risposte. Se al cliente a malapena venivano in mente due frasi laconiche per comunicare che era ancora vivo e mandare tanti saluti ai suoi, lei lo interrogava con pazienza e aggiungeva un racconto più fiorito fino a riempire perlomeno una pagina. Chiedeva due dollari a lettera, senza badare alla lunghezza, ma se aggiungeva frasi sentimentali che all'uomo mai sarebbero venute in mente, solitamente riceveva una buona mancia. Alcuni le portavano lettere da leggere e abbelliva anche queste, così il pover'uomo riceveva la consolazione di qualche parola affettuosa. Le donne, stanche di aspettare dall'altra parte del continente, in genere scrivevano solo lamentele, rimproveri o una sfilza di consigli cristiani, dimentiche del fatto che i loro uomini erano ammalati di solitudine. Un triste lunedì arrivò uno sceriffo a cercarla perché scrivesse le ultime parole di un condannato a morte, un ragazzo del Wisconsin che quella stessa mattina era stato accusato di aver rubato un cavallo. Imperturbabile, nonostante i diciannove anni compiuti di fresco, il ragazzo dettò a Eliza: "Cara mamma, spero che stia bene quando riceverà queste righe; la prego di dire a Bob e a James che oggi mi impiccano. Saluti, Theodore". Eliza cercò di ammorbidire un poco il messaggio, per evitare una sincope alla sfortunata madre, ma lo sceriffo disse che non c'era tempo per i salamelecchi. Alcuni minuti dopo diversi onesti cittadini condussero il reo in mezzo al paese, lo fecero sedere su un cavallo con una corda al collo, passarono l'altra estremità sul ramo di un rovere, diedero un colpo sulla groppa dell'animale e Theodore rimase appeso senza tante cerimonie. Non era il primo che Eliza vedeva. Perlomeno questa punizione era rapida, ma se l'accusato apparteneva a un'altra razza generalmente veniva frustato prima dell'esecuzione e, anche se lei si allontanava, le grida del condannato e la baraonda degli spettatori la inseguivano per settimane.

Quel giorno era sul punto di chiedere se poteva sistemarsi nella taverna per svolgere il suo lavoro di scribacchina, quando un gran chiasso richiamò la sua attenzione. Giusto mentre il pubblico si stava disperdendo dopo il combattimento dell'orso, nell'unica strada del paese stavano entrando dei carri trainati da muli preceduti da un ragazzino indiano che suonava un tamburo. Non erano veicoli come tutti gli altri, i rivestimenti di stoffa erano dipinti, dai tetti pendevano frange, pompon e lampade cinesi e i muli, addobbati come animali da circo, erano accompagnati da un insopportabile tintinnio di campanacci di rame. Seduta a cassetta sulla prima vettura si trovava un donnone dai seni enormi, vestita con abiti maschili e con una pipa da bucaniere tra i denti. Il secondo carro era guidato da un gigantesco individuo ricoperto da lise pelli di lupo, testa rasata, cerchi alle orecchie, armato come se dovesse partire per il fronte. Entrambe le carrozze ne avevano una a rimorchio su cui viaggiava il resto della compagnia: quattro ragazze acconciate di velluto sgualcito e broccato avvizzito, che mandavano baci al pubblico stupefatto. Lo sbigottimento durò solamente un istante; non appena riconobbero i carriaggi, una salva di grida e di colpi di pistola in aria ravvivò il pomeriggio. Fino ad allora le colombe infangate avevano regnato senza concorrenza femminile, ma la situazione era cambiata quando nei nuovi paesi si erano insediate le prime famiglie e i predicatori che scuotevano le coscienze minacciando la condanna eterna. In mancanza di chiese, organizzavano le funzioni religiose negli stessi saloon dove prosperava il vizio. Per un'ora veniva sospesa la vendita d'alcol, i mazzi di carte venivano ritirati, i quadri lascivi girati, e gli avventori ricevevano i severi rimproveri del pastore per i loro errori e la loro dissolutezza. Affacciate al balcone del secondo piano, le prostitute sopportavano filosoficamente la lavata di capo, consolate dalla certezza che nel giro di un'ora tutto sarebbe tornato nel suo alveo naturale. Finché gli affari andavano bene, non aveva molta importanza se chi le pagava per fornicare poi le incolpasse di ricevere il pagamento, come se il vizio fosse non di chi lo cercava, ma di chi induceva in tentazione. Una netta divisione tra le donne decenti e le donnacce veniva così stabilita. Stanche di corrompere le autorità e di sopportare umiliazioni, alcune si spostavano con i loro bauli in un altro luogo, dove prima o poi il ciclo si compiva nuovamente. L'idea di un servizio itinerante offriva il vantaggio non solo di eludere l'assedio delle mogli e dei religiosi, ma anche di espandere l'orizzonte alle zone più remote dove si incassava il doppio. Gli affari andavano a gonfie vele quando il clima era buono, ma l'inverno era alle porte, presto sarebbe caduta la neve e le strade sarebbero diventate intransitabili; questo era uno degli ultimi viaggi della comitiva.

I carri percorsero la strada e si fermarono all'uscita del paese, seguiti da una processione di uomini ringalluzziti dall'alcol e dal combattimento dell'orso. Anche Eliza si avviò in quella direzione per vedere da vicino la novità. Capì che sarebbero venuti meno i clienti della sua attività epistolare e che doveva trovarsi un altro modo di guadagnarsi la cena. Approfittando del cielo sereno, diversi volontari si offrirono per sganciare i muli e aiutare a scaricare un pianoforte sconquassato, che collocarono sul prato agli ordini della tenutaria che tutti chiamavano con il grazioso nome di Joe Spaccaossa. In un battibaleno fu sgomberato un pezzo di terra, vennero sistemati i tavoli e per magia apparvero bottiglie di rum e pile di cartoline di donne nude. E anche due casse di libri a poco prezzo che vennero annunciati come "romanzi d'alcova con le scene più piccanti di Francia". Venivano venduti a dieci dollari, una bazzecola, perché grazie a loro ci si poteva eccitare tutte le volte che si voleva e si potevano anche prestare agli amici; erano molto più convenienti di una donna vera, spiegò la Spaccaossa, e per dimostrarlo lesse un passaggio che il pubblicò ascoltò in un silenzio di tomba, come se si trattasse di una rivelazione profetica. Uno scroscio di risate e di battute accolse la fine della lettura e in pochi minuti non rimase un solo libro nelle casse. Nel frattempo era scesa la notte e si dovette illuminare la festa con torce. La maîtresse annunciò il prezzo esorbitante delle bottiglie di rum, ma ballare con le ragazze costava un quarto. "C'è qualcuno che sappia suonare questo maledetto pianoforte?" chiese. Allora Eliza, che ci vedeva doppio dalla fame, si fece avanti senza pensarci due volte e si sedette di fronte allo strumento scordato, invocando Miss Rose. Non suonava da dieci mesi e non aveva un buon orecchio, ma accorsero in suo aiuto l'allenamento di anni con la bacchetta metallica sulla schiena e i colpi sulle mani del professore belga. Attaccò con una delle canzonette ammiccanti che Miss Rose e suo fratello, il capitano, erano soliti cantare in duetto nei tempi innocenti delle serate musicali, prima che il destino desse un colpo di coda e il suo mondo si capovolgesse. Con stupore notò che la sua goffa esecuzione veniva accolta molto bene. In meno di due minuti comparve un rozzo violino di accompagnamento, si animò il ballo e gli uomini si contendevano le quattro donne per saltare e trottare sulla pista improvvisata. L'orco con le pelli tolse il cappello a Eliza e lo mise sul piano con un gesto talmente risoluto che nessuno osò ignorarlo e presto si riempì di mance.

Uno dei carri veniva usato esclusivamente come alloggio della tenutaria e del figlio adottivo, il bambino del tamburo; su un altro viaggiavano pigiate le altre donne, e i due rimorchi erano trasformati in alcove. Ognuno di essi, foderato con foulard multicolori, conteneva una branda con quattro colonnine e baldacchino con lembi di zanzariera, uno specchio dalla cornice dorata, lavamano e bacinella di maiolica, tappeti persiani stinti e un po' tarlati, ma ancora appariscenti, e bugie con grandi candele. Questa decorazione teatrale incoraggiava gli avventati, nascondeva la polvere delle strade e i danni derivanti dall'uso. Mentre due ragazze ballavano al suono della musica, le altre due sbrigavano rapidamente il loro compito nei carriaggi. La maîtresse, dotata di mani di fata per le carte, non trascurava di frequentare i tavoli da gioco né di riscuotere anticipatamente i servizi delle sue colombe, di vendere il rum e di ravvivare la baldoria, sempre con la pipa tra i denti. Eliza suonò le canzoni che conosceva a memoria e quando il repertorio terminava ricominciava da capo, senza che nessuno notasse la ripetizione, fino a quando non le si annebbiò la vista dalla fatica. Vedendola sul punto di cedere, il colosso annunciò una pausa, raccolse i soldi dal cappello e li mise nelle tasche della pianista, poi la prese per un braccio e la trasportò, praticamente sospesa, nella prima vettura, dove le mise in mano un bicchiere di rum. Lei lo rifiutò con un gesto appena accennato: berlo a stomaco vuoto equivaleva a una randellata in piena nuca; allora lui rovistò nel disordine di casse e recipienti ed esibì un panino e pezzi di cipolla, che lei assalì tremando d'aspettativa. Quando li ebbe divorati sollevò lo sguardo e si ritrovò davanti il tizio delle pelli che la osservava dalla sua incredibile altezza. Lo illuminava un sorriso innocente, dai denti più bianchi e più uguali del mondo.

"Hai la faccia da donna," le disse e lei ebbe un sussulto.

"Mi chiamo Elias Andieta," replicò, portandosi la mano alla pistola, come se fosse pronta a difendere il suo nome maschile a colpi di pallottole.

"Io sono Babalù il Cattivo."

"C'è un Babalù buono?"

"C'era."

"Cosa gli è successo?"

"Mi ha incontrato. Da dove vieni, bambino?"

"Dal Cile. Sto cercando mio fratello. Non ha sentito nominare Joaquin Andieta?"

"Mai, da nessuno. Ma se tuo fratello ha le palle al posto giusto, prima o poi verrà a farci visita. Tutti conoscono le ragazze di Joe Spaccaossa."