TAO CHI'EN

 

Tao Chi'en prese un sampan diretto a Hong Kong, animato dall'intenzione di cominciare una nuova vita. Ora era uno zhong yi, avviato alla medicina tradizionale cinese dal miglior maestro di Canton. Doveva eterna gratitudine agli spiriti dei suoi venerabili antenati che avevano orientato il suo karma in modo tanto glorioso. Per prima cosa, decise, doveva trovarsi una donna perché aveva abbondantemente raggiunto l'età del matrimonio e il celibato gli pesava troppo. La mancanza di una sposa era segno di indubbia povertà. Accarezzava l'ambiziosa ipotesi di procurasi una giovane delicata con belle estremità. I suoi loti d'oro non dovevano misurare più di tre o quattro pollici di lunghezza e dovevano essere paffuti e morbidi al tatto come quelli di un bambino di pochi mesi. Lo affascinava l'incedere delle ragazze sui loro minuscoli piedi, a passi molto brevi e vacillanti, come fossero sempre sul punto di cadere, i fianchi dondolanti all'indietro, con il movimento ritmico dei giunchi sulle rive dello stagno nel giardino del suo maestro. Detestava i piedi grandi, muscolosi e forti, da contadina. Al villaggio aveva visto da lontano delle bambine fasciate, orgoglio delle loro famiglie che senz'altro sarebbero riuscite a offrire loro un buon matrimonio, ma solo grazie ai contatti con le prostitute di Canton aveva potuto tenere tra le mani un paio di quei loti d'oro e andare in estasi davanti alle minuscole scarpette ricamate che sempre li ricoprivano, perché le ossa martoriate per anni e anni sprigionavano una sostanza maleodorante. Dopo averli toccati, comprese che la loro eleganza era il frutto di un dolore incessante e ciò li rendeva ancora più preziosi. Fu allora che apprezzò come doveva i libri sui piedi femminili collezionati dal maestro, in cui si enumeravano cinque classi e diciotto diversi tipi di loti d'oro. La sua donna doveva essere anche molto giovane, perché la bellezza dura poco, comincia verso i dodici anni e svanisce poco dopo aver compiuto i venti. Così gli aveva spiegato il maestro. Non per nulla le più celebri eroine della letteratura cinese morivano sempre nel momento del loro massimo fascino; benedette coloro che svanivano prima di vedersi distrutte dall'età e potevano essere ricordate nel pieno della loro freschezza. Inoltre vi erano ragioni pratiche per preferire una giovane nubile: gli avrebbe dato figli maschi e sarebbe stato facile domare il suo carattere e renderla veramente remissiva. Niente di più spiacevole di una donna sguaiata, ne aveva viste di quelle che sputavano e prendevano a ceffoni mariti e figli, perfino in strada, davanti ai vicini. Un'onta simile per mano di una donna era il peggior discredito per un uomo. Sul sampan che lo conduceva lentamente lungo le novanta miglia che separavano Canton da Hong Kong, allontanandolo minuto dopo minuto dalla sua vita passata, Tao Chi'en sognava questa ragazza, il piacere e i figli che gli avrebbe dato. Continuava a contare il denaro che aveva in borsa, come se grazie a calcoli astratti potesse incrementarne l'ammontare, ma era evidente che non sarebbe stato sufficiente per una sposa di tale qualità. Tuttavia per quanto l'urgenza fosse molta non pensava di doversi accontentare di qualcosa di meno e trascorrere il resto dei suoi giorni con una sposa dai piedi grandi e dal carattere forte.

L'isola di Hong Kong gli apparve all'improvviso davanti agli occhi, con il suo profilo di montagne e di natura verde, quasi emergesse come una sirena dalle acque color indaco del Mar della Cina. Non appena la leggera imbarcazione che lo trasportava attraccò in porto, Tao Chi'en avvertì la presenza degli odiati stranieri. Prima ne aveva intravisti alcuni in lontananza, ma ora erano così vicini che se si fosse arrischiato avrebbe potuto toccarli e accertare se quegli esseri grandi e sgraziati fossero veramente umani. Con stupore scoprì che molti fan güey avevano capelli rossi o gialli, occhi smorti e pelle arrossata come quella delle aragoste bollite. Le donne, a suo parere molto brutte, portavano cappelli con piume e fiori, forse allo scopo di celare le loro diaboliche chiome. Vestivano in modo inusuale, con capi rigidi e attillati; immaginò che fosse per questo motivo che si muovevano come automi e non salutavano con inchini cordiali, che passavano, senza guardare nessuno, sopportando in silenzio la calura estiva sotto i loro scomodi indumenti. C'era una dozzina di imbarcazioni europee in porto, in mezzo a migliaia di barche asiatiche di ogni dimensione e colore. Per le strade vide alcune carrozze trainate da cavalli alla cui guida stavano uomini in divisa, persi tra i mezzi di trasporto trainati dall'uomo, barelle, portantine, palanchini o semplicemente individui che portavano i loro clienti in groppa. L'odore di pesce lo investì in viso come uno schiaffo, ricordandogli la fame. Per prima cosa doveva trovare un luogo in cui rifocillarsi, indicato con lunghe strisce di stoffa gialla.

Tao Chi'en mangiò come un principe in un ristorante gremito di persone che parlavano e ridevano a squarciagola, indizio inequivocabile di soddisfazione e buona digestione; in esso assaporò i delicati piatti che nella casa del maestro agopuntore erano stati dimenticati. Durante la sua vita, lo zhong yi era stato un grande goloso e si vantava di aver avuto al suo servizio i migliori cuochi di Canton, ma negli ultimi anni si nutriva di tè verde e di riso con qualche filo di verdura. All'epoca in cui era sfuggito alla schiavitù, Tao Chi'en era magro come uno qualunque dei molti malati di tubercolosi di Hong Kong. Questo era il primo pasto decente dopo molto tempo e l'incursione dei diversi sapori, aromi e consistenze lo portò all'estasi. Concluse il banchetto fumando la pipa con massimo godimento. Uscì in strada galleggiando e ridendo da solo, come un matto: in tutta la sua vita non si era mai sentito così carico di entusiasmo e buona sorte. Inspirò l'aria così simile a quella di Canton e stabilì che sarebbe stato facile conquistate quella città, esattamente come nove anni prima era arrivato a dominare l'altra. Anzitutto avrebbe cercato il mercato e il quartiere dei guaritori e degli erboristi, dove avrebbe potuto trovare alloggio e offrire i suoi servizi professionali. Poi si sarebbe occupato della questione della ragazza dai piedi piccoli...

 

 

Quello stesso pomeriggio Tao Chi'en trovò alloggio nell'attico di un palazzo diviso in compartimenti che ospitava una famiglia per stanza, un vero formicaio. La sua camera, un tenebroso tunnel di un metro di larghezza per tre di lunghezza, senza finestre, buio e caldo, attirava gli effluvi del cibo e dei pitali degli altri inquilini, mescolati all'inconfondibile fetore della sporcizia. Paragonata alla raffinata casa del maestro, era come vivere in un buco per topi, ma ricordò che la capanna dei genitori era più povera. Nella sua condizione di celibe non aveva bisogno di maggiore spazio né di lussi, pensò, solo di un angolo per stendere la stuoia e riporre i suoi pochi oggetti personali. Più avanti, una volta sposato, si sarebbe cercato una sistemazione appropriata, in cui si potessero preparare i rimedi, ricevere i clienti ed essere servito da una donna nel modo adeguato. Per il momento, mentre stabiliva i contatti indispensabili per lavorare, quello spazio quantomeno gli offriva un tetto e un minimo di intimità. Lasciò lì le sue cose e andò a farsi un bagno, a radersi la fronte e a rifarsi la treccia. Non appena fu presentabile uscì di gran fretta alla ricerca di una casa da gioco, deciso a raddoppiare il suo capitale nel minor tempo possibile, per poter così intraprendere la strada del successo.

In meno di due ore di scommesse a fan tan, Tao Chi'en perse tutto il denaro e non perse anche gli strumenti medici semplicemente perché non gli era venuto in mente di portarli con sé. Lo schiamazzo nella sala da gioco era talmente assordante che le scommesse si facevano a segni attraverso la cortina di fumo. Il fan tan era molto semplice: si trattava di mettere una manciata di bottoni sotto una tazza. Si facevano le scommesse, si toglievano i bottoni quattro alla volta e chi indovinava quanti ne erano rimasti, uno, due, tre o nessuno, aveva vinto. Tao Chi'en riusciva a malapena a seguire con gli occhi le mani dell'uomo che lanciava i bottoni e li contava. Gli sembrava che barasse, ma accusarlo in pubblico sarebbe stata un'offesa talmente grande, che in caso di errore si poteva pagare con la vita. Ogni giorno a Canton si raccoglievano cadaveri di perdenti arroganti nei pressi delle case da gioco; a Hong Kong non poteva essere diverso. Ritornò al tunnel dell'attico e si sdraiò sulla stuoia a piangere come un bambino, pensando alle bastonate ricevute per mano dell'anziano maestro agopuntore. La disperazione non lo abbandonò fino al giorno successivo quando, con penetrante lucidità, comprese la sua impazienza e la sua superbia. Allora scoppiò a ridere rincuorato per la lezione, convinto che lo spirito monello del maestro gli si fosse parato dinnanzi per insegnargli ancora qualcosa. Si svegliò nel buio profondo per l'animazione dell'edificio e della strada. Era mattina inoltrata, ma la luce naturale non penetrava nel suo tugurio. Si vestì alla cieca con l'unico cambio pulito, continuando a ridere tra sé e sé, prese la sua valigetta da medico e si diresse al mercato. Nella zona in cui erano allineate le bancarelle dei tatuatori, completamente ricoperte da pezzi di stoffa e di carta che mostravano i disegni, si poteva scegliere tra migliaia di motivi, da fiori discreti blu Cina a fantastici draghi a cinque colori in grado di decorare, con le ali spiegate e l'alito di fuoco, tutta la schiena di un uomo robusto. Trascorse mezz'ora a mercanteggiare e alla fine giunse a un accordo con un artista desideroso di scambiare un tatuaggio poco impegnativo con un tonico per la pulizia del fegato. In meno di dieci minuti questi gli incise sul dorso della mano destra, quella con cui scommetteva, la parola NO in semplici ed eleganti tratti.

"Se il mio sciroppo avrà effetto, raccomandi i miei servizi ai suoi amici," gli disse Tao Chi'en.

"Se il mio tatuaggio avrà effetto, faccia altrettanto," replicò l'artista.

Tao Chi'en sostenne sempre che quel tatuaggio gli portò fortuna. Uscì dal baracchino per ritrovarsi nel frastuono del mercato e avanzò a spintoni e gomitate per gli stretti vicoli traboccanti umanità. Non si vedeva un solo straniero e il mercato sembrava identico a quello di Canton. Il baccano era quello di una cascata, i venditori decantavano i pregi dei loro prodotti e i clienti contrattavano a squarciagola in mezzo all'assordante frastuono degli uccelli in gabbia e ai gemiti degli animali che attendevano di essere accoltellati. Il tanfo di sudore, di animali vivi e morti, di escrementi e spazzatura, spezie, oppio, cibarie e d'ogni sorta di prodotti e creature della terra, dell'aria e dell'acqua, era talmente penetrante da sembrare palpabile. Vide una venditrice di granchi. Li estraeva vivi da un sacco, li faceva bollire per qualche minuto in un paiolo la cui acqua aveva la consistenza pastosa del fondo del mare, li estraeva con una schiumarola, li inzuppava nella salsa di soia e li serviva ai passanti avvolti in un pezzo di carta. Le sue mani erano ricoperte di verruche. Tao Chi'en barattò con lei un mese di pranzi con la cura della malattia.

"Ah... Vedo che le piacciono parecchio i granchi," disse lei.

"Li detesto, ma li mangerò come penitenza per non dimenticarmi una lezione che devo sempre tenere a mente."

"E se a fine mese non sono guarita, chi mi rende i granchi che lei mi ha mangiato?"

"Se fra un mese lei avrà ancora le verruche, io avrò perso credibilità. Chi comprerà allora le mie medicine?" sorrise Tao.

"Va bene."

Cominciò così la sua nuova vita da uomo libero a Hong Kong. In due o tre giorni l'infiammazione dovuta al tatuaggio si dileguò e l'immagine apparve come un nitido disegno di vene blu. Durante quel mese, mentre girava per i banchetti del mercato offrendo le sue prestazioni, mangiò una sola volta al giorno, sempre granchi bolliti, e scese tanto di peso che poteva sistemarsi una moneta tra una costola e l'altra. Ogni animaletto che ingoiava vincendo la ripugnanza lo faceva sorridere al pensiero del maestro, come lui poco amante dei granchi. Le verruche della donna scomparvero in ventisei giorni e lei, riconoscente, diffuse la buona notizia nel vicinato. Gli offrì un altro mese di granchi in cambio di una cura per la cataratta, ma Tao ritenne che la punizione fosse stata sufficiente e che poteva permettersi il lusso di non tornare ad assaggiare quelle bestiole per il resto dei suoi giorni. La sera tornava esausto al suo tugurio, contava le monete alla luce della candela, le nascondeva sotto una tavola del pavimento e poi scaldava l'acqua sul fornello a carbone per ingannare la fame con il tè. Di tanto in tanto, quando le gambe o la volontà iniziavano a venirgli meno, comprava una scodella di riso, un po' di zucchero o dell'oppio, che si gustava lentamente, grato al mondo per l'esistenza di doni così splendidi quali la consolazione del riso, la dolcezza dello zucchero e i sonni perfetti dell'oppio. Le sue uniche spese erano l'affitto, le lezioni di inglese, la rasatura della fronte e il lavaggio del suo unico cambio di indumenti, perché non poteva andare in giro come un accattone. Il maestro si vestiva sempre come un mandarino. "La bella presenza è segno di civiltà, uno zhong yi non si confonde con un guaritore di campagna. Per rispetto, quanto più povero è il malato, più ricchi devono essere i tuoi abiti," gli aveva insegnato. A poco a poco si diffuse la sua fama, prima tra le persone del mercato e le loro famiglie, poi nel quartiere del porto, dove ai marinai curava le ferite da rissa, lo scorbuto, le pustole veneree e le intossicazioni.

Nel giro di sei mesi Tao Chi'en si era procurato una clientela fedele e iniziava ad arricchirsi. Si trasferì in una camera con finestra e l'ammobiliò con un letto grande, che gli sarebbe servito una volta sposato, una poltrona e uno scrittoio inglese. Comperò anche qualche indumento, perché da anni desiderava vestirsi bene. Aveva immediatamente capito chi detenesse il potere e si era quindi prefissato l'obiettivo di imparare l'inglese. Era una manciata di britannici a controllare Hong Kong, a fare le leggi e ad applicarle, a dirigere commercio e politica. I fan güey vivevano in quartieri esclusivi e avevano contatti solamente con i cinesi ricchi, con cui facevano affari, sempre in inglese. L'immensa moltitudine cinese condivideva con loro lo stesso spazio e lo stesso tempo, ma era come se non esistesse. Da Hong Kong partivano i prodotti più raffinati che approdavano direttamente nei salotti di un'Europa affascinata da quella millenaria e remota cultura. Le cineserie erano di moda. La seta faceva furore nell'abbigliamento; non potevano mancare graziosi ponti con lampioncini e salici piangenti che imitavano i meravigliosi giardini segreti di Pechino; i tetti a pagoda venivano riprodotti nei gazebo e i motivi con draghi e fiori di ciliegio si ripetevano fino alla nausea nelle decorazioni. Non c'era abitazione inglese priva di una sala orientale con un paravento Coromandel, una collezione di porcellane e avori, ventagli ricamati da mani infantili con il punto proibito e canarini imperiali in gabbie intagliate. Le imbarcazioni che trasferivano questi tesori in Europa non tornavano vuote, dall'India trasportavano oppio da contrabbandare e chincaglierie che rovinarono le piccole industrie locali. I cinesi dovevano fronteggiare la concorrenza di inglesi, olandesi, francesi e nordamericani per commerciare nel proprio paese. Ma la grande iattura fu l'oppio. In Cina era usato da secoli per piacere o a fini medicinali, ma quando gli inglesi inondarono il mercato si trasformò in una disgrazia irrimediabile. Colpì tutti i settori della società, indebolendola e sbriciolandola come pane raffermo.

In un primo momento i cinesi guardarono gli stranieri con disprezzo, ripugnanza e l'olimpica superiorità di coloro che si sentono gli unici uomini dell'universo davvero civilizzati, ma nel giro di pochi anni impararono a rispettarli e a temerli. Dal canto loro gli europei si rivelavano imbevuti dello stesso concetto di superiorità razziale, convinti di essere gli araldi della civiltà in una terra di gente sporca, brutta, debole, chiassosa, corrotta e selvaggia, che mangiava gatti e bisce e ammazzava le proprie neonate. Erano in pochi a sapere che i cinesi avevano utilizzato la scrittura mille anni prima di loro. Mentre i commercianti imponevano la cultura della droga e della violenza, i missionari si dedicavano all'evangelizzazione. Il cristianesimo doveva propagarsi a qualsiasi costo, era l'unica autentica fede e il fatto che Confucio fosse vissuto cinquecento anni prima di Cristo non significava nulla. Pur considerando i cinesi a malapena esseri umani, cercavano di salvare le loro anime e pagavano in riso le loro conversioni. I nuovi cristiani consumavano la loro razione di corruzione divina e si dirigevano in un'altra chiesa per convertirsi di nuovo, molto divertiti dalla mania dei fan güey di predicare le loro credenze come fossero le uniche. Per loro, gente pratica e tollerante, la spiritualità era più vicina alla filosofia che alla religione: era una questione di etica e non certo di dogmi.

Tao Chi'en prese lezioni da un compatriota che parlava un inglese vischioso e sprovvisto di consonanti, ma che lo scriveva con la massima correttezza. L'alfabeto europeo, paragonato ai caratteri cinesi, risultava di una meravigliosa facilità e in cinque settimane Tao Chi'en poteva leggere i giornali britannici senza impantanarsi nelle lettere, anche se ogni cinque parole aveva bisogno di far ricorso al vocabolario. Di notte passava ore intere a studiare. Sentiva la mancanza del venerabile maestro che lo aveva segnato per sempre con la sete di sapere, tenace come quella d'alcol per l'ebbro o quella di potere per l'ambizioso. Non poteva più contare sulla biblioteca dell'anziano né sulla sua fonte inesauribile di esperienza, non poteva rivolgersi a lui per chiedere un consiglio o per consultarsi sui sintomi di un paziente, era privo di guida, si sentiva orfano. Dalla morte del precettore non aveva più scritto né letto poesie, non trovava tempo per ammirare la natura, per meditare né per osservare i riti e le cerimonie quotidiane che prima arricchivano la sua esistenza. Si sentiva pieno di rumore dentro di sé, agognava il vuoto del silenzio e della solitudine che il maestro gli aveva insegnato a coltivare quale bene più prezioso. L'esercizio della sua professione gli insegnava sempre qualcosa sulla complessa natura degli esseri umani, sulle differenze emotive tra uomini e donne, sulle malattie curabili semplicemente con i rimedi e su quelle che necessitavano anche della magia della parola giusta, ma gli mancava qualcuno con cui condividere queste esperienze. Il sogno di comprare una sposa e di avere una famiglia era sempre nella sua mente, ma pallido e sfumato, come un bel paesaggio dipinto sulla seta; invece il desiderio di acquistare libri, di studiare e di trovare altri maestri disposti ad accompagnarlo nel cammino della conoscenza si trasformava ogni giorno di più in ossessione.

Così stavano le cose quando Tao Chi'en conobbe il dottor Ebanizer Hobbs, un aristocratico inglese che non aveva nulla dell'arrogante e che, diversamente dagli altri europei, era interessato al colore locale della città. L'aveva visto per la prima volta al mercato, mentre frugava tra erbe e tisane in un negozio di guaritori. Conosceva solo dieci parole in mandarino, ma le ripeteva con una voce talmente stentorea e con una convinzione così salda che intorno a lui si era radunato un modesto pubblico, tra il divertito e lo spaventato. Da lontano era facile vederlo, perché la sua testa spiccava al di sopra dei cinesi. Tao Chi'en non aveva mai visto uno straniero da quelle parti, così lontano dalle zone in cui normalmente transitavano, e decise perciò di avvicinarsi per vederlo da vicino. Era un uomo ancora giovane, alto e magro, con tratti nobili e grandi occhi azzurri. Tao Chi'en si accorse con soddisfazione che poteva tradurre le dieci parole di quel fan güey perché ne conosceva altrettante in inglese e che quindi, forse, sarebbe stato possibile comunicare. Lo salutò con un cordiale inchino e questi rispose imitando goffamente le riverenze. Si sorrisero e poi scoppiarono a ridere, accompagnati dal coro delle affabili risate degli spettatori. Cominciarono un affannoso dialogo di venti parole mal pronunciate da parte a parte e una comica pantomima da saltimbanchi, per la crescente ilarità dei curiosi. Ben presto un considerevole gruppo di persone, tutte piegate in due dal ridere, impedì il passaggio dei traffico attirando l'attenzione di un poliziotto britannico a cavallo che intimò al capannello di sciogliersi immediatamente. Tra i due uomini nacque così una solida alleanza.

Ebanizer Hobbs era cosciente dei limiti della propria professione quanto Tao Chi'en lo era dei suoi. Il primo desiderava apprendere i segreti della medicina orientale, intravisti nei suoi viaggi in Asia, in particolare il controllo del dolore attraverso l'inserimento degli aghi nelle terminazioni nervose e l'uso di combinazioni di piante ed erbe nella cura di alcune malattie che in Europa venivano considerate fatali. Il secondo subiva il fascino della medicina occidentale e dei suoi aggressivi metodi di cura; la sua invece era un'arte sottile di equilibrio e armonia, un lavoro lento per incanalare l'energia deviata, prevenire le malattie e cercare le cause dei sintomi. Tao Chi'en non aveva mai praticato la chirurgia e le sue nozioni di anatomia, molto precise per quanto riguardava i diversi polsi e i punti dell'agopuntura, si riducevano a quello che poteva vedere e palpare. Conosceva a memoria i disegni anatomici della biblioteca del suo antico maestro, ma non gli era mai venuto in mente di aprire un cadavere. Questa pratica era sconosciuta nella medicina cinese; il suo saggio maestro, che aveva esercitato l'arte della guarigione per tutta la vita, raramente aveva visto organi interni ed era incapace di fare una diagnosi se s'imbatteva in sintomi che non rientravano nel repertorio delle malattie note. Ebanizer Hobbs, invece, apriva i cadaveri e cercava le cause, e così progrediva. Tao Chi'en lo fece per la prima volta nella cantina dell'ospedale inglese, durante una notte di burrasca, in qualità di assistente del dottor Hobbs, che quella stessa mattina aveva collocato i suoi primi aghi per alleviare un'emicrania nell'ambulatorio in cui Tao Chi'en riceveva i clienti. A Hong Kong si trovavano diversi missionari, interessati a curare il corpo quanto a convertire l'anima dei loro fedeli, che mantenevano eccellenti rapporti con il dottor Hobbs. Erano molto più vicini alla popolazione locale rispetto ai medici britannici della colonia e ammiravano i metodi della medicina orientale. Essi aprirono le porte dei loro piccoli ospedali allo zhong yi. L'entusiasmo di Tao Chi'en e di Ebanizer Hobbs per lo studio e la sperimentazione alimentò immediatamente un sentimento di reciproco affetto. Si vedevano di nascosto, perché se la loro amicizia fosse diventata di dominio pubblico la loro reputazione avrebbe corso dei rischi. Né i pazienti europei né quelli cinesi avrebbero accettato che un'altra razza avesse qualcosa da insegnare.

La voglia di comprare una sposa tornò a occupare i sogni di Tao Chi'en non appena le sue finanze si furono un po' assestate. Quando compì ventidue anni contò per l'ennesima volta i risparmi, come spesso faceva, e vide con soddisfazione che erano sufficienti per una donna dai piedi piccoli e dal carattere dolce. Siccome non aveva genitori cui affidare l'incarico, come era costume, dovette rivolgersi a un intermediario. Gli mostrarono i ritratti di diverse candidate, ma gli sembrarono tutte uguali; gli risultava impossibile immaginare l'aspetto di una ragazza - e men che meno la sua personalità - a partire da quei modesti disegni a china. Non gli era consentito vederle con i suoi occhi o ascoltarne la voce, come avrebbe desiderato; non aveva nemmeno una parente che lo potesse fare al posto suo. Una cosa però sì poteva farla, vedere i loro piedi spuntare da sotto una tenda, ma gli avevano raccontato che nemmeno così poteva stare tranquillo perché gli intermediari erano soliti imbrogliare mostrando i loti d'oro di altre donne. Doveva affidarsi al destino. Fu sul punto di lasciare la decisione ai dadi, ma il tatuaggio sulla mano destra gli ricordò le sue passate disavventure nei giochi d'azzardo e preferì affidare il compito allo spirito di sua madre e a quello del maestro agopuntore. Dopo aver girato cinque templi lasciando offerte, tirò la sorte con i bastoncini degli I-ching, vi lesse che il momento era propizio e così scelse la sposa. Il metodo funzionò. Quando sollevò il fazzoletto di seta rossa dal viso della sua novella sposa, dopo lo svolgimento dei semplici rituali, dato che non aveva mezzi per nozze più sfavillanti, trovò un viso armonioso che guardava ostinatamente a terra. Dovette ripetere tre volte il suo nome prima che lei osasse guardarlo con gli occhi pieni di lacrime, tremando di paura.

"Sarò buono," le promise non meno emozionato.

Dal momento in cui sollevò quella stoffa rossa, Tao adorò la ragazza che gli era toccata in sorte. L'amore lo prese di sorpresa: non immaginava che simili sentimenti potessero legare un uomo e una donna. Non aveva mai sentito dire che si manifestasse un tipo simile di amore, ne aveva solo letto qualche vago riferimento nella letteratura classica, dove le fanciulle, come i paesaggi e la luna, erano temi obbligati di ispirazione poetica. Credeva infatti che nel mondo reale le donne fossero solo creature destinate al lavoro o alla riproduzione, come le contadine tra le quali era cresciuto, oppure lussuosi oggetti decorativi. Lin non rientrava in nessuna di queste categorie, era una persona misteriosa e complessa, capace di disarmarlo con l'ironia e di sfidarlo con le domande. Lo faceva ridere come nessun altro, inventava storie incredibili, lo provocava con giochi di parole. In presenza di Lin tutto sembrava illuminarsi di uno sfolgorio irresistibile. La prodigiosa scoperta dell'intimità con un altro essere umano fu l'esperienza più profonda della sua vita. Con le prostitute si era limitato a incontri frettolosi e non aveva mai avuto a disposizione il tempo necessario né l'amore per conoscere a fondo nessuna di loro. Aprire gli occhi la mattina e vedere Lin addormentata al suo fianco lo faceva ridere dalla gioia e un momento dopo tremare dalla paura. E se una mattina non si fosse svegliata? Il dolce odore della sua traspirazione durante le notti d'amore, la linea sottile delle sue sopracciglia sollevate in segno di perenne sorpresa, l'incredibile snellezza della sua vita, lei tutta lo sfiniva di tenerezza. Ah! E le loro risate. Questa era la cosa più bella, la spigliata allegria di quell'amore. I libri del guanciale del suo vecchio maestro, che tanta inutile esaltazione gli avevano provocato durante l'adolescenza, si rivelarono di grande utilità nei momenti del piacere. Come si confaceva a una giovane vergine ben educata, Lin era modesta nel comportamento, ma non appena ebbe perso il timore del marito emerse la sua natura spontanea e appassionata. In breve tempo l'avida alunna imparò i duecentoventidue modi d'amare e, sempre disposta a seguirlo in quella corsa spericolata, suggerì al marito di inventarne di nuovi. Per fortuna di Tao Chi'en, le raffinate conoscenze acquisite in modo teorico grazie alla biblioteca del precettore includevano innumerevoli maniere di dar piacere a una donna e confermavano che il vigore conta molto meno della pazienza. Le sue dita erano allenate a cogliere le diverse vibrazioni del corpo e a localizzare a occhi chiusi i punti più sensibili; le sue mani calde e ferme, esperte nell'alleviare il dolore dei pazienti, si trasformavano in strumenti di infinito godimento per Lin. E poi aveva scoperto una cosa che il suo venerando zhong yi si era dimenticato di insegnargli: che l'amore è il miglior afrodisiaco. A letto raggiungevano una felicità tale, che di notte gli inconvenienti della vita si cancellavano. Ma questi inconvenienti erano parecchi, come risultò evidente nel giro di poco tempo.

Gli spiriti che Tao Chi'en aveva invocato affinché lo soccorressero nella sua decisione matrimoniale avevano compiuto il loro dovere alla perfezione: Lin aveva i piedi bendati ed era timida e dolce come uno scoiattolo. Ma a Tao Chi'en non era venuto in mente di chiedere anche che la sposa fosse forte e in salute. La stessa donna che di notte sembrava inesauribile, di giorno si trasformava in un'invalida. Riusciva appena a percorrere un paio di isolati con i suoi piccoli passi da mutilata. Certo, Lin si muoveva con la grazia lieve di un giunco esposto alla brezza, come aveva scritto l'anziano maestro agopuntore in qualcuna delle sue poesie, ma era altrettanto vero che un breve viaggio al mercato per comprare un cavolo costituiva un supplizio per i suoi loti d'oro. Non si lamentava mai ad alta voce, ma bastava vederla sudare e mordersi le labbra per capire quanto sforzo le costasse ogni movimento. Non godeva neanche di buoni polmoni. Respirava con un fischio acuto da cardellino, trascorreva la stagione delle piogge espettorando e quella secca faticando a respirare perché l'aria calda le rimaneva intasata tra i denti. Né le erbe del marito né i tonici dell'amico, il dottore inglese, riuscivano a lenire i disturbi. Quando rimase incinta i malanni si aggravarono, giacché il fragile scheletro riusciva appena a sopportare il peso del bambino. Al quarto mese smise completamente di uscire e si sedette esausta di fronte alla finestra a guardare la vita passare in strada. Tao Chi'en assunse due inservienti che si facessero carico delle incombenze domestiche e le tenessero compagnia, perché temeva che in sua assenza Lin morisse. Raddoppiò le ore di lavoro e per la prima volta iniziò ad assillare i pazienti perché lo pagassero, gesto che lo riempiva di vergogna. Sentiva su di sé lo sguardo critico del maestro che gli ricordava il dovere di servire senza attendersi ricompensa, dal momento che "chi più sa, più è in obbligo verso l'umanità". Eppure non poteva lavorare gratuitamente o in cambio di favori come aveva fatto fino ad allora, perché aveva bisogno di ogni singolo centesimo per mantenere Lin negli agi. In quel periodo si era installato al secondo piano di una vecchia casa, dove aveva trasferito la moglie con raffinatezze che nessuno dei due aveva mai sperimentato prima, ma non era soddisfatto. Si mise in testa che doveva trovare una casa con giardino, così lei avrebbe goduto di bellezza e aria pura. L'amico Ebanizer Hobbs - dato che lui si rifiutava di prendere in considerazione l'evidenza - gli spiegò che la tubercolosi era già in una fase talmente avanzata che non ci sarebbe stato giardino in grado di guarire Lin.

"Invece di lavorare dall'alba a notte fonda per comprarle vestiti di seta e mobili di lusso, rimanga con lei il più possibile, dottor Chi'en. Goda della sua presenza finché c'è," gli consigliava Hobbs.

Entrambi i medici convennero, ognuno dalla prospettiva della propria esperienza, che il parto sarebbe stato per Lin la prova del fuoco. Nessuno dei due era preparato in materia, perché sia in Europa sia in Cina era sempre stato terreno delle levatrici, ma si proposero di studiare. Non si fidavano della perizia di uno sgarbato donnone, perché così giudicavano le addette a tale professione. Le avevano viste lavorare con le loro mani ripugnanti, le loro stregonerie e i metodi brutali per strappare il bambino alla madre e decisero di evitare a Lin tale funesta esperienza. La ragazza, tuttavia, non voleva partorire davanti a due uomini, soprattutto visto che uno dei due era un fan güey dagli occhi smorti che non parlava nemmeno la lingua degli esseri umani. Pregò il marito di rivolgersi alla levatrice del quartiere perché la più elementare decenza le impediva di mostrarsi in quella posizione a un demonio straniero, ma Tao Chi'en, sempre disposto ad assecondarla, questa volta si mostrò inflessibile. Infine scesero a patti: lui l'avrebbe seguita personalmente mentre Ebanizer Hobbs sarebbe rimasto nella stanza attigua per fornirgli appoggio verbale in caso di bisogno.

 

 

La prima avvisaglia del parto fu un attacco d'asma che per poco non costò la vita a Lin. Allora gli sforzi per respirare si sommarono a quelli del ventre per espellere la creatura, ma tanto Tao Chi'en, con tutto il suo amore e la sua scienza, quanto Ebanizer Hobbs, con i suoi testi di medicina, risultarono impotenti. Dieci ore dopo, quando i gemiti della madre si erano ridotti ai rantolanti gorgoglii di un annegato e il neonato non dava segni di voler nascere, Tao Chi'en uscì con le ali ai piedi in cerca della levatrice e, nonostante il ribrezzo che provava, controvoglia la trascinò a casa. Esattamente come Tao Chi'en e Hobbs temevano, la donna risultò essere una vecchia maleodorante con la quale fu impossibile scambiare la minima nozione medica, perché il suo campo non era la scienza, bensì la lunga esperienza e l'istinto. Iniziò con l'allontanare i due uomini con uno spintone, proibendo loro di affacciarsi alla tenda che separava le due camere. Tao Chi'en non venne mai a sapere cosa accadde dietro quella tenda, ma si tranquillizzò quando sentì Lin respirare senza soffocarsi e gridare con forza. Durante le ore successive, mentre Ebanizer Hobbs dormiva estenuato su una poltrona e Tao Chi'en consultava disperatamente lo spirito del maestro, Lin diede alla luce una bambina esangue. Trattandosi di una creatura di sesso femminile, né la levatrice né il padre si preoccuparono di far sì che si riprendesse; si diedero invece da fare per salvare la madre, che andava perdendo le già scarse forze a mano a mano che il sangue le scorreva tra le gambe.

Lin non si disperò eccessivamente per la morte della bambina, quasi presentisse che la vita le sarebbe mancata prima di poterla allevare. Si rimise lentamente dal brutto parto e per un certo periodo di tempo cercò di essere nuovamente l'allegra compagna dei giochi notturni. Con la stessa disciplina che impiegava per dissimulare il dolore ai piedi, fingeva di entusiasmarsi per gli appassionati abbracci del marito. "Il sesso è un viaggio, un viaggio sacro," gli diceva spesso, ma ormai le mancava l'energia per accompagnarlo. Tao Chi'en desiderava tanto quell'amore che fece di tutto per ignorare i sintomi che tradivano il cambiamento e continuò a credere fino alla fine che Lin fosse la stessa di prima. Per anni aveva sognato di avere figli maschi, ma ora cercava solo di proteggere la sua sposa da un'altra gravidanza. I suoi sentimenti per Lin si erano trasformati in una sorta di venerazione che solo a lei poteva confessare; nessuno avrebbe potuto capire quello spossante amore per una donna, nessuno conosceva Lin come lui, nessuno sapeva quanta luce avesse portato nella sua esistenza. Sono felice, sono felice, si ripeteva per allontanare le premonizioni funeste che lo assalivano non appena si distraeva. Ma non lo era. Ormai non rideva più con la leggerezza di prima e quando era con lei a malapena riusciva a consumare il suo amore, salvo in alcuni momenti perfetti del piacere carnale, perché viveva osservandola con preoccupazione, sempre in pena per la sua salute, consapevole della sua fragilità, misurando il ritmo del suo respiro. Giunse a odiare i loti d'oro che all'inizio del matrimonio baciava trasportato dall'esaltazione del desiderio. Ebanizer Hobbs sosteneva che Lin dovesse fare lunghe passeggiate all'aria aperta per rinforzare i polmoni e stuzzicare l'appetito, ma lei riusciva a malapena a fare dieci passi prima di sentirsi mancare. Tao non poteva rimanere con sua moglie tutto il tempo, come suggeriva Hobbs, perché doveva provvedere a entrambi. Ogni istante lontano da lei gli sembrava vita sprecata nell'infelicità, tempo sottratto all'amore. Mise al servizio dell'amata tutta la sua farmacopea e tutto il sapere acquisito nei molti anni di pratica medica, ma un anno dopo il parto Lin si era trasformata nell'ombra della ragazza allegra che era stata. Suo marito cercava di farla ridere, ma la risata usciva falsa a entrambi.

Un giorno Lin non riuscì più ad alzarsi dal letto. Si sentiva soffocare, le forze si esaurivano nel tossire sangue e nel cercare di respirare. Si rifiutava di mangiare qualsiasi cibo tranne qualche cucchiaiata di zuppa magra, perché lo sforzo la estenuava. Dormiva sussultando nei rari momenti in cui la tosse si calmava. Tao Chi'en calcolò che ormai da sei mesi respirava con un russare liquido, come fosse immersa nell'acqua. Sollevandola in braccio constatava che aveva perso peso e il cuore gli si riempiva di terrore. La vide soffrire così tanto che la morte giunse come un sollievo, ma la fatale mattina in cui si svegliò abbracciato al corpo gelato di Lin credette anch'egli di morire. Un grido lungo e terribile, che emergeva dalle profondità della terra, come un'eruzione vulcanica, scosse la casa e svegliò il quartiere. Giunsero i vicini, aprirono a pedate la porta e lo trovarono nudo in mezzo alla stanza che ululava con la moglie tra le braccia. Dovettero separarlo a forza dal cadavere e tenerlo fermo fino a quando non arrivò Ebanizer Hobbs che lo obbligò a inghiottire una quantità di laudano sufficiente a far stramazzare un leone.

Tao Chi'en sprofondò nella vedovanza con una disperazione totale. Fece un altare con il ritratto di Lin e alcuni dei suoi oggetti e passò ore a contemplarlo con desolazione. Smise di assistere i suoi pazienti e di condividere con Ebanizer Hobbs lo studio e la ricerca, i pilastri della loro amicizia. Lo disgustavano i consigli dell'inglese, convinto che "chiodo scaccia chiodo" e che la cura migliore per riprendersi dal dolore fosse frequentare i bordelli del porto, dove avrebbe potuto trovare tutte le donne che voleva, con i piedi deformi, come lui chiamava i loti d'oro. Come poteva suggerirgli simili aberrazioni? Non esisteva chi potesse rimpiazzare Lin, non avrebbe mai più amato nessun'altra, di questo era certo. Da Hobbs, in quel periodo, Tao Chi'en accettava solo le generose bottiglie di whisky. Passò diverse settimane nel letargo alcolico fino a quando il denaro finì e, a poco a poco, dovette vendere o impegnare i suoi beni, finché un giorno non fu in grado di pagare l'affitto e dovette trasferirsi in una pensione assai modesta. Allora si ricordò di essere uno zhong yi e riprese a lavorare ma esercitando a fatica, con gli abiti sporchi, la treccia sfatta e mal rasato. Siccome godeva di buona reputazione, i pazienti tollerarono il suo aspetto da spaventapasseri e gli errori dettati dall'ebbrezza con l'atteggiamento rassegnato tipico dei poveri, ma ben presto smisero di rivolgersi a lui. Nemmeno Ebanizer Hobbs tornò a chiamarlo per i casi difficili, perché aveva perso fiducia nel suo giudizio. Fino a quel momento la loro complementarità era stata vincente: l'inglese poteva per la prima volta praticare la chirurgia con audacia grazie alle potenti droghe e agli aghi d'oro capaci di mitigare il dolore, ridurre le emorragie e abbreviare i tempi di cicatrizzazione, mentre il cinese apprendeva l'uso del bisturi e di altri metodi della scienza europea. Ma le sue mani tremanti e gli occhi annebbiati dall'intossicazione e dalle lacrime rappresentavano un pericolo più che un aiuto.

 

 

Nella primavera del 1847 il destino di Tao Chi'en, all'improvviso, cambiò nuovamente, come aveva già fatto un paio di volte nella sua vita. A mano a mano che aveva perso i pazienti regolari e si era diffusa la voce del suo discredito come medico, si era dovuto spostare nei quartieri più disperati del porto, dove nessuno gli chiedeva referenze. I casi erano routinari: contusioni, pugnalate e perforazioni da proiettili. Una notte Tao Chi'en fu chiamato d'urgenza in una taverna per dare i punti a un marinaio reduce da una terribile rissa. Lo condussero nel retro del locale, dove l'uomo giaceva incosciente con la testa aperta come un melone. Il suo avversario, un norvegese gigantesco, aveva sollevato un pesante tavolo di legno e l'aveva usato come randello per difendersi dagli aggressori, un gruppo di cinesi decisi a suonargliele di santa ragione. Si erano lanciati in massa su di lui e l'avrebbero fatto a pezzi se non fossero accorsi in suo aiuto alcuni marinai nordici che stavano bevendo nello stesso locale, e così quella che era iniziata come una discussione tra giocatori ubriachi si era trasformata in una battaglia razziale. Quando giunse Tao Chi'en, quel in grado di camminare si erano allontanati da un pezzo. E norvegese era tornato illeso sulla sua nave scortato da due poliziotti inglesi e gli unici rimasti in giro erano l'oste, la vittima in agonia e il pilota che si era dato da fare per allontanare la polizia. Se fosse stato europeo, il ferito sicuramente sarebbe finito all'ospedale britannico, ma siccome era un asiatico, le autorità portuali non si scomodarono troppo.

A Tao Chi'en bastò un'occhiata per capire che non c'era nulla da fare per quel povero diavolo con il cranio a pezzi e il cervello in bella vista. Lo spiegò al pilota, un inglese barbuto e volgare.

"Cinese maledetto! Non puoi lavar via il sangue e cucirgli la testa?" pretendeva.

"Ha la testa divisa in due, cosa gliela cucio a fare? Ha il diritto di morire in pace."

"Non può morire! La mia barca salpa domani all'alba e ho bisogno di quest'uomo a bordo! È il cuoco!"

"Mi dispiace," replicò Tao Chi'en con un rispettoso cenno della testa, cercando di dissimulare il fastidio che gli procurava quell'insensato fan güey.

Il pilota ordinò una bottiglia di gin e invitò Tao Chi'en a bere con lui. Tanto, se il cuoco si trovava al di là del bene e del male, già che c'erano potevano bere qualcosa in suo onore, disse, in modo che poi il suo fottuto fantasma, maledizione a lui, non potesse farsi vivo a tirargli i piedi di notte. Si accomodarono a poca distanza dal moribondo a ubriacarsi senza fretta. Di tanto in tanto Tao Chi'en si chinava per prendergli il polso e calcolava che non doveva rimanergli più di qualche minuto di vita, ma l'uomo si rivelava più resistente di quanto si aspettasse. Lo zhong yi non si rese conto che l'inglese continuava a versargli un bicchiere dopo l'altro mentre dal suo beveva appena. Ben presto si sentì barcollare e non riuscì a ricordare perché si trovasse in quel luogo. Quando un'ora più tardi, dopo un paio di convulsioni finali, il suo paziente spirò, Tao Chi'en non ebbe modo di accorgersene perché era già rotolato a terra privo di sensi.

Lo svegliò la luce di un mezzogiorno splendente; aprì gli occhi con terribile fatica e non appena riuscì a sollevarsi si vide circondato da cielo e acqua. Ci mise non poco a rendersi conto di essere sdraiato su una grande matassa di cime sulla coperta di un'imbarcazione. Il battere delle onde contro i fianchi della nave risuonava in lui come campane a festa. Gli sembrava di sentire voci e grida ma non era sicuro di niente, poteva benissimo trovarsi all'inferno. Riuscì a mettersi in ginocchio e a gattonare per un paio di metri, poi la nausea lo invase e cadde bocconi. Pochi minuti dopo sentì il getto freddo di un secchio d'acqua sulla testa e una voce che gli si rivolgeva in cantonese. Alzò gli occhi e si trovò davanti un volto imberbe e simpatico che lo salutava con un ampio sorriso al quale mancava la metà dei denti. Una seconda secchiata d'acqua di mare lo fece definitivamente riprendere dallo stupore. Il giovane cinese che con tanta premura lo bagnava si chinò di fianco a lui sbellicandosi dalle risate e dandosi delle gran pacche sulle cosce, come se la sua patetica condizione avesse qualcosa di irresistibilmente comico.

"Dome mi trovo?" riuscì a balbettare Tao Chi'en.

"Benvenuto a bordo del Liberty. A quanto pare si va a ovest."

"Ma io non voglio andare da nessuna parte! Devo scendere immediatamente!"

Le sue intenzioni scatenarono nuove risate. Quando alla fine riuscì a controllare l'ilarità, l'uomo gli spiegò che era stato "ingaggiato", giusto come era capitato a lui un paio di mesi prima. Tao Chi'en si sentì sul punto di svenire. Conosceva il meccanismo. Quando mancavano uomini per completare un equipaggio, si ricorreva alla pratica sbrigativa di ubriacare o stordire con una sprangata in testa qualche incauto che veniva poi reclutato contro la sua volontà. La vita di mare era dura e malpagata, gli incidenti, la denutrizione e le malattie facevano stragi, in ogni viaggio ne moriva più d'uno e i corpi andavano a finire in fondo all'oceano senza che nessuno si ricordasse di loro. Inoltre i capitani erano generalmente despoti che non dovevano rendere conto a nessuno e che punivano a frustate qualsiasi mancanza. A Shangai era stato necessario che i capitani arrivassero a un accordo tra gentiluomini per limitare il sequestro di uomini liberi e non portarsi via reciprocamente i marinai. Prima dell'accordo, ogni volta che un marinaio scendeva in porto a farsi un goccetto, rischiava di svegliarsi su un'altra nave. Il pilota del Liberty aveva deciso di rimpiazzare il cuoco morto con Tao Chi'en - ai suoi occhi i "gialli" erano tutti uguali e uno o l'altro faceva esattamente lo stesso - e dopo averlo ubriacato l'aveva fatto trasportare a bordo. Prima che si svegliasse aveva impresso l'impronta del suo pollice su un contratto che lo vincolava ai suoi servizi per due anni. Lentamente le proporzioni dell'accaduto presero forma nel cervello confuso di Tao Chi'en. L'idea di ribellarsi non lo sfiorò nemmeno, equivaleva a suicidarsi, ma si propose di disertare non appena si fosse toccata terra, in qualsiasi punto del pianeta.

Il giovane lo aiutò ad alzarsi e a lavarsi e poi lo condusse nella stiva dove erano allineate cuccette e amache. Gli assegnò il suo posto e un cassetto in cui riporre i suoi oggetti. Tao Chi'en, che credeva di aver perso tutto, vide invece la valigetta degli strumenti medici sulla pedana di legno che sarebbe servita da letto. Il pilota aveva avuto la buona idea di metterla in salvo. Il ritratto di Lin, invece, era rimasto sull'altare. Si rese conto con orrore che forse lo spirito di sua moglie non sarebbe stato in grado di localizzarlo, in mezzo all'oceano.

I primi giorni di navigazione furono un supplizio di malori e venne spesso tentato dall'idea di buttarsi a mare e mettere così fine, una volta per tutte, alle sue sofferenze. Appena fu in grado di reggersi in piedi venne destinato alla rudimentale cucina in cui tutte le cianfrusaglie appese ai ganci si urtavano a ogni ondeggiamento producendo un baccano assordante. Le provviste fresche caricate a Hong Kong si esaurirono rapidamente e ben presto non rimasero che pesce, carne salata, fagioli, zucchero, strutto, farina piena di vermi e gallette talmente vecchie che spesso bisognava spezzarle a colpi di martello. Qualsiasi alimento veniva condito con salsa di soia. Ogni marinaio aveva a disposizione una pinta di acquavite al giorno per sopportare le pene e sciacquarsi la bocca, perché le gengive infiammate erano uno dei problemi della vita di mare. Per i pasti del capitano Tao Chi'en poteva avvalersi di uova e marmellata inglese che doveva proteggere con la sua stessa vita, come gli avevano ordinato. Le razioni erano previste per una durata della traversata calcolata senza che insorgessero impedimenti naturali, come burrasche che li facessero deviare dalla rotta o mancanza di vento che li bloccasse, e andavano integrate col pesce fresco catturato con le reti durante il viaggio. Non ci si attendeva talento culinario da Tao Chi'en; il suo compito era controllare gli alimenti, il liquore e l'acqua dolce assegnati a ogni uomo e combattere contro il deterioramento e i topi. Doveva anche assolvere i compiti di pulizia e navigazione come qualsiasi altro marinaio.

Dopo una settimana iniziò a godere dell'aria aperta, del lavoro rude e della compagnia di quegli uomini che venivano dai quattro punti cardinali, ognuno con le sue storie, le sue nostalgie e le sue peculiarità. Nei momenti di riposo suonavano qualche strumento e raccontavano storie di fantasmi di mare e di donne esotiche in porti lontani. Gli uomini dell'equipaggio venivano da luoghi diversi, avevano lingue e abitudini diverse, ma erano uniti da qualcosa che assomigliava all'amicizia. L'isolamento e la certezza di aver bisogno l'uno dell'altro trasformavano in compagni uomini che sulla terraferma non si sarebbero neanche guardati. Tao Chi'en riprese a ridere, come non faceva dai tempi della malattia di Lin. Una mattina il pilota lo chiamò per presentarlo al capitano John Sommers, che lui aveva visto solo da lontano nella cabina di comando. Si ritrovò davanti a un uomo alto, indurito dai venti di molte latitudini, con una barba scura e occhi d'acciaio. Si rivolse a lui con la mediazione del pilota che parlava un po' di cantonese, ma Tao Chi'en gli rispose nel suo inglese libresco, con l'affettato accento aristocratico appreso da Ebanizer Hobbs.

"Mi ha detto Mr Oglesby che sei una specie di guaritore." "Sono uno zhong yi, un medico."

"Un medico? Come un medico?"

"La medicina cinese è più antica di quella inglese di qualche secolo, capitano," sorrise dolcemente Tao Chi'en utilizzando le precise parole del suo amico Ebanizer Hobbs.

Il capitano Sommers sollevò le sopracciglia in segno di collera per l'insolenza di quell'omino, ma la verità lo disarmò e scoppiò a ridere di gusto.

"Coraggio Mr Oglesby, serva tre bicchieri di brandy. Brindiamo con il dottore. È un lusso molto raro. È la prima volta che abbiamo un medico personale a bordo!"

Tao Chi'en non realizzò il proposito di disertare al primo porto che il Liberty toccò, perché non sapeva dove andare. Tornare alla sua disperata vita da vedovo a Hong Kong era insensato come proseguire la navigazione. Qui o là faceva lo stesso; almeno, come marinaio, aveva la possibilità di viaggiare e di imparare i metodi di cura usati in altre parti del mondo. L'unica cosa che lo tormentava davvero era che, in quel vagare di onda in onda, Lin forse non sarebbe riuscita a individuarlo per quanto lui gridasse il suo nome ai quattro venti. Al primo porto scese a terra insieme agli altri con un permesso di sei ore, ma invece di dirigersi in una taverna si perse al mercato alla ricerca di spezie e piante medicinali su incarico del capitano. "Dal momento che abbiamo un dottore, abbiamo anche bisogno di rimedi," aveva detto. Gli aveva dato un sacchetto con monete contate e l'aveva avvertito che se avesse pensato di scappare o di ingannarlo, lui l'avrebbe cercato finché non l'avesse trovato e poi gli avrebbe mozzato il collo con le sue mani, perché non era ancora nato l'uomo che poteva farsi beffe impunemente di lui.

"Chiaro, cinese?"

"Chiaro, inglese."

"Un po' di i rispetto!"

"Sì, signore," replicò Tao Chi'en abbassando lo sguardo, dato che stava imparando a non guardare i bianchi in faccia.

La sua prima sorpresa fu scoprire che la Cina non era il centro assoluto dell'universo. C'erano altre culture, più barbare, certo, ma molto più potenti. Non immaginava che gli inglesi controllassero buona parte del pianeta, come non sospettava che altri fan güey fossero padroni di estese colonie in terre lontane suddivise nei quattro continenti, come il capitano Sommers si diede la pena di spiegargli il giorno in cui Tao Chi'en gli estrasse un dente infetto davanti alle coste africane. Portò a termine l'operazione impeccabilmente e quasi senza provocare dolore grazie ai suoi aghi d'oro inseriti nelle tempie e a un amalgama di chiodi di garofano ed eucalipto applicato sulla gengiva. Una volta che ebbe finito e che il paziente alleviato e riconoscente poté terminare la sua bottiglia di liquore, Tao Chi'en osò chiedergli dove fossero diretti. Lo sconcertava viaggiare alla cieca, con la vaga linea dell'orizzonte tra un mare e un cielo infiniti come unico punto di riferimento.

"Andiamo verso l'Europa, ma per noi non cambia nulla. Siamo gente di mare, sempre in acqua. Vuoi tornare a casa tua?"

"No, signore."

"Hai famiglia da qualche parte?"

"No, signore."

"Allora non ti cambia niente se andiamo a nord o a sud, a est o a ovest, non è così?"

"Sì, ma mi piace sapere dove sono."

"Perché?"

"Perché potrei cadere in acqua o potremmo affondare. Il mio spirito avrebbe bisogno di sapere dove si trova per poter tornare in Cina, altrimenti vagherebbe senza meta. La porta del cielo si trova in Cina."

"Che razza di cose ti vengono in mente!" rise il capitano. "E quindi per andare in Paradiso bisogna morire in Cina? Guarda la cartina, su. Il tuo paese è il più grande, senza dubbio, ma c'è parecchio mondo anche fuori dalla Cina. Qui c'è l'Inghilterra: non è che una piccola isola, ma se sommi tutte le nostre colonie, vedrai che siamo padroni di più della metà del globo."

"Come è possibile?"

"Come abbiamo fatto a Hong Kong: con guerre e con imbrogli. Diciamo con un misto di supremazia navale, avidità e disciplina. Non siamo superiori, ma semplicemente più crudeli e determinati. Non sono particolarmente orgoglioso di essere inglese, ma quando avrai viaggiato tanto come ho fatto io, neanche tu lo sarai di essere cinese."

Nei due anni successivi Tao Chi'en mise piede sulla terraferma tre volte, una delle quali in Inghilterra. Si confuse tra la grossolana folla del porto e camminò per le strade di Londra osservando tutte le cose nuove con gli occhi stupiti di un bambino. I fan güey riservavano sorprese continue: da una parte erano privi della benché minima raffinatezza e si comportavano da selvaggi, ma dall'altra erano dotati di prodigiosa inventiva. Constatò che anche nella loro terra gli inglesi manifestavano la medesima arroganza e cattiva educazione dimostrata a Hong Kong: lo trattavano senza rispetto, non sapevano niente di cortesia o etichetta. Decise di bersi una birra ma lo buttarono fuori a spintoni dalla taverna: "Qui i cani gialli non entrano," gli dissero. Subito dopo si unì ad altri marinai asiatici e insieme trovarono un locale gestito da un vecchio cinese in cui poterono mangiare, bere e fumare in pace. Ascoltando le storie degli altri uomini, calcolò quanto aveva ancora da imparare e decise che la prima cosa sarebbe stata l'uso dei pugni e del coltello. A poco serve il sapere se poi non si è in grado di difendersi; il saggio maestro agopuntore si era dimenticato di insegnargli anche quel principio fondamentale.

Nel febbraio 1849 il Liberty attraccò a Valparaìso. Il giorno successivo, il capitano John Sommers lo chiamò nella sua cabina e gli consegnò una lettera.

"Me l'hanno data al porto, è per te e viene dall'Inghilterra." Tao Chi'en prese la busta, arrossì e un enorme sorriso gli illuminò il volto.

"Non dirmi che è una lettera d'amore!" ironizzò il capitano.

"Molto meglio," replicò, mettendola al sicuro tra il petto e la camicia. La lettera poteva essere solo del suo amico Ebanizer Hobbs ed era la prima che gli arrivava nei due anni di navigazione.

"Hai fatto un buon lavoro, Chi'en."

"Pensavo non apprezzasse la mia cucina, signore," sorrise Tao.

"Come cuoco sei un disastro, ma sai di medicina. In due anni non mi è morto un solo uomo e nessuno ha lo scorbuto. Sai cosa significa?"

"Fortuna."

"Il tuo contratto scade oggi. Potrei farti ubriacare e farti firmare una proroga. Forse con un altro lo farei, ma ti devo dei servizi e io i miei debiti h pago. Vuoi continuare a viaggiare con me? Ti aumenterò lo stipendio."

"Qual è la destinazione?"

"California. Ma lascerò questa imbarcazione, me ne hanno appena offerta una a vapore ed è un'opportunità che aspettavo da anni. Mi piacerebbe che venissi con me."

Tao Chi'en aveva sentito parlare degli steamer e ne era terrorizzato. L'idea di enormi caldaie d'acqua bollente che producevano vapore e muovevano delle macchine infernali poteva essere venuta in mente solo a gente molto frettolosa. Non era meglio viaggiare sull'onda dei venti e delle correnti? Perché sfidare la natura? Correvano voci su caldaie scoppiate in alto mare che avevano cucinato vivo l'equipaggio. I brandelli di carne umana, bolliti come gamberi, erano stati sparati in tutte le direzioni in pasto ai pesci, mentre le anime di quei poveri disgraziati, disintegrate nei bagliori dell'esplosione e dei vortici di vapore, non si sarebbero mai potute riunire con i loro antenati. Tao Chi'en ricordava perfettamente l'aspetto della sorellina minore quando le si era rovesciata addosso la pentola d'acqua calda, esattamente come ricordava i suoi orribili gemiti di dolore e le convulsioni che ne avevano accompagnato la morte. Non era disposto a correre un rischio del genere. Neanche l'oro californiano, che a quanto pareva era sparpagliato a terra come si trattasse di sassolini, lo tentava più di tanto. Non doveva niente a John Sommers. Il capitano era un po' più tollerante della maggior parte dei fan güey e trattava l'equipaggio con una certa equanimità, ma non era un suo amico e non lo sarebbe mai stato.

"No, grazie, signore."

"Non hai voglia di vedere la California? Puoi diventare ricco in poco tempo e tornare in Cina trasformato in un magnate."

"Sì, ma a vela."

"Perché? I vapori sono più moderni e più rapidi."

Tao Chi'en non provò neanche a spiegare le sue motivazioni. Rimase in silenzio guardando a terra con il cappello in mano mentre il capitano terminava di bersi il suo whisky.

"Non posso obbligarti," disse alla fine Sommers. "Ti darò una lettera di raccomandazione per il mio amico Vincent Katz, del brigantino Emilia, anche lui in procinto di salpare nei prossimi giorni per la California. È un olandese piuttosto particolare, molto religioso e rigido, ma è una brava persona e un buon marinaio. Il tuo viaggio sarà più lento del mio ma magari ci vedremo a San Francisco e se ci avrai ripensato potrai sempre tornare a lavorare con me."

Il capitano John Sommers e Tao Chi'en si strinsero la mano per la prima volta.