Ciuffetto d'oro.
Ho scritto i miei mali, ma avrei dovuto scrivere piuttosto: il mio male, perché in realtà il male, che mi aveva assalito da qualche tempo, era uno, e gli si poteva dare solo un nome: GELOSIA!
In altra occasione, avevo scacciato come una perfida calunnia il sospetto, insinuato da qualcuno, ch'io fossi geloso. Ma stavolta, dovevo arrendermi all'evidenza. Naturalmente, piuttosto che confessarlo in faccia agli altri, sarei morto, ma con me stesso, non potevo negarlo: m'ero ammalato di gelosia, per causa di un rivale. Qua ora, sul punto di dire chi fosse il mio rivale, non so se più me ne vergogno, o più ne rido.
Succedeva questo: Carmine Arturo, il mio fratellastro, che i primi giorni pareva così brutto, col passare delle settimane e dei mesi andava rivelandosi, invece, bello: più bello di me, temo! I suoi capelli, non solo erano biondi, ma anche ricci; e gli si disponevano naturalmente a ciuffetti sulla testa, in una maniera, che imitava alla perfezione una coroncina d'oro. Ciò gli dava un'aria di valore e di aristocrazia, quasi che gli si dovesse un titolo come Altezza, o qualcosa di simile, in grazia e merito dei suoi boccoli. Quanto agli occhi, erano neri morati, proprio napoletani; ma, tutto intorno all'iride, erano intrisi di un azzurro carico, incantato: così che i suoi sguardi apparivano di un colore nero azzurro. Di carnagione era chiaro e tutto florido e tondo. I suoi piedi e le sue mani, pur nella loro piccolezza, erano ben fatti, con le dita affusolate; con intorno ai polsi, e, ugualmente, alle caviglie, delle specie di braccialettini.
A detta delle donne amiche di N., questi cerchietti naturali, ch'egli aveva sulla carne, erano un segno certo ch'era nato con la fortuna. Difatti, secondo loro, la fortuna d'una creatura si può indovinare dalla bellezza e perfezione di simili braccialettini, di cui tutti i neonati, più o meno, sono provvisti, per la grassezza comune a quell'età. I suoi erano veramente perfetti, e inoltre, sommando quelli che portava al polso e alla caviglia, si aveva il numero tre, che è il re dei numeri! Ciò significava che sarebbe diventato un gran signore, pieno di cuore e di prodezza, e vincitore in ogni impresa. Che avrebbe difeso col pugno i disgraziati, e ammaliato perfino i suoi nemici. Che sarebbe vissuto fino a novant'anni, sempre bello come un giovanotto, senza nemmeno imbiancare quei bei ricci d'oro. E viaggerebbe per mare e per terra, sotto una pioggia di fiori, festeggiato da tutti.
Mentre le amiche di N., per riaffermare, soddisfatte, questo oracolo eccelso, contavano e ricontavano i suoi braccialetti, lui stava fermo, guardandole con una certa serietà, come se capisse che là si trattava del suo destino. Pareva convinto che quelle femmine fossero una razza di stupende fate, perché erano amiche di N. E rideva riconoscendole, al rivederle: quasi bramoso di volare, si protendeva dalle braccia di lei verso di loro. Ma se, per qualche motivo, lei doveva allontanarsi, lasciandolo anche per un solo minuto, prorompeva subito in un pianto disperato, come se dal trionfo più splendido si fosse ridotto a uno straccio. E si dibatteva fra le braccia altrui, in un modo misero e barbarico che sembrava intendere:
"Per me, oramai, tanto vale cascare in terra, e morire!”
Difatti, l'unica vera bellezza, per lui, era N. Era la presenza di questa bellezza unica che, simile a un'incantatrice, rendeva agli occhi suoi tutti gli altri, anche i brutti, belli come santi; così che egli voleva bene al mondo intero, facendo, con la sua civetteria, che era grande, molte conquiste. Ma anche i suoi preferiti, in fondo, per lui, contavano poco o nulla. Era lei la sua passione. E più passavano le settimane, i mesi, e più le si affezionava. E lei lo ricambiava. Così, io vedevo un altro possedere quella famosa felicità da me sempre rimpianta, e non avuta mai!
Egli esigeva che N. gli stesse sempre vicino; senza di lei, rifiutava perfino di addormentarsi, e, avanti di prender sonno, le stringeva fortemente nel pugno un dito. Durante il sonno, poi, seguitava a tenere i pugni chiusi, forse illudendosi di stringerla ancora; e i suoi labbri si sporgevano un poco in una espressione risentita e amorosa, quasi dicendo: "Ti tengo, t'imprigiono, e non puoi fuggire più!"
Adesso, ai ritorni di mio padre, non era più come prima: che subito lei correva a riportare le proprie coperte, dalla stanzetta, nella camera matrimoniale! Mio padre adesso, con propria soddisfazione, dormiva solo, l'antica stanzetta di Silvestro era per sempre abbandonata, e la famosa paura della notte per lei era diventata un ricordo. Credo che, assieme a Carmine, ella avrebbe dormito senza paura anche in un deserto spaventoso: come se quel ragazzino di pochi mesi fosse un paladino eroico, che poteva difenderla da qualunque assalto.
Quanto alla presente, enigmatica tragedia di Wilhelm Gerace, si sarebbe detto che per lei questa tragedia, come tutte le altre segretezze dello sposo, si svolgeva in una specie di teatro mitico, i cui simboli e segni erano stranieri alla sua semplice realtà. Per uno spettatore profano, analfabeta come lei, sarebbe, oltre che vano e futile, anche irrispettoso, tentare una qualsiasi spiegazione della oscura leggenda rappre-sentata. Intervenire in essa, poi, sarebbe una stravaganza addirittura empia. E una vera fanciullaggine insensata sarebbe, infine, di angustiarsi seriamente per il grande protagonista che là, sulla sua scena irreale, svolge il proprio mito imperscrutabile e necessario.
Ella si occupava di mio padre solo per servirlo e accudirlo (sempre, si capisce, alla sua maniera piuttosto elementare, giacché le qualità di una brava massaia, essa non le ha possedute mai). Non discuteva i suoi ordini, e accorreva ai suoi richiami volando; ma per tutto il resto, lo lasciava ai suoi pensieri, come fosse un pigionante tirannico e solitario. Piuttosto che a una passività umana, la sottomissione naturale, ch'essa manteneva al solito verso di lui, somigliava all'ignoranza fiduciosa degli animali, senza interrogazione, né ansietà.
E così, la segreta vicenda di Wilhelm Gerace, che partiva e ritornava cinto di martirio, non oscurava la felicità di lei col suo Carmine.