Tragedie.

 

Mio padre ricomparve dopo Natale, quando Carmine Arturo aveva ormai più d'un mese. Capitando inaspettato, egli trovò in casa tre o quattro donne amiche di N., venute a visitarla. C'era da supporre che dovesse sorprendersi, o anche forse infastidirsi, per simile novità; ma invece non ebbe nulla a ridire sulla presenza di quelle donne, e parve notarla a malapena. Carmine Arturo, sebbene non lo conoscesse né lo avesse mai visto prima, lo accolse, al suo arrivo, con risa festanti: più che altro, credo, perché, avendo imparato da poco a ridere, rideva a ogni pretesto, credendo di fare chi sa che gran cosa! Ma egli non si curò neppure di prenderlo in braccio per poter apprezzare il suo peso, secondo le incitazioni premurose delle amiche di N.; e mentr'esse, in coro, gli magnificavano quel nuovo figlio, lui gli accordò solo un'attenzione opaca e distratta, con l'aria di un ragazzo forastico, e cresciuto fuori della famiglia, a cui le sorelle minori mostrassero la propria bambola. Questo suo comportamento col guaglione mi consolò un poco, giacché m'ero aspettato nuovi dispiaceri da un incontro fra i due, e per una ragione soprattutto: che C. A. era biondo! Ma per fortuna, invece, nemmeno questa notevole specialità del fratellastro non parve meritare nessuna considerazione particolare da parte di mio padre.

Fu, purtroppo, l'unica soddisfazione ch'io ebbi dal suo ritorno. Difatti egli stavolta era sbarcato sull'isola con un umore così assorto e tetro, da disinteressarsi non solo di Carmine ma anche del resto della famiglia e di qualsiasi altra cosa. Sembrava straniato da tutti gli oggetti intorno, come se nemmeno li riconoscesse; e lui stesso (se ripensavo a com'era quando l'avevo salutato, all'ultima sua partenza, il mese d'agosto), mi appariva irriconoscibile. Veramente, nel corso della mia vita, io m'ero abituato a vederlo spesso variare, come le nuvole; ma stavolta chiunque lo avesse riguardato con occhi fedeli, si sarebbe accorto ch'egli celava in sé una qualche fantasia assolutamente nuova. Durante quest'ultima, lunga assenza, un mutamento inusitato era avvenuto nella sua espressione. Una specie di maschera disanimata, impietrita come la morte, era scesa sulla sua faccia.

Non, però, che si fosse imbruttito; anzi, era forse più bello del solito! ma in lui pareva perso d'un tratto quell'intimo compiacimento vanesio che torna ogni tanto a sorridere sul volto dei belli! Nel dire io, faceva una piccola smorfia con la bocca quasi nominasse un personaggio che lo riguardava poco o niente. Era smagrito, sporco; intorno al collo, portava ancora il bel fazzoletto a colori acquistato nell'ultima estate, ma tutto intorcigliato come una corda, ridotto a un pezzo di straccio; e i suoi abiti erano così spiegazzati da far supporre che si coricasse vestito da parecchi giorni.

Passò il resto del pomeriggio e parte della sera buttato sul divano dello stanzone, senza nemmeno curarsi di accendere la lampada. E quando, ricercando la sua compagnia, io mi risolvetti a visitarlo, e girai l'interruttore, mi guardò stravolto, come se la luce, o la mia presenza, l'offendesse. La sua valigia era rimasta in cucina, ancora chiusa, e io gli domandai se non voleva disfarla; ma lui, con un tono d'impazienza disperata, mi rispose di no, ché non ne valeva la pena, tanto sarebbe ripartito subito. E intanto, io distinsi un tremolìo di lagrime nelle sue pupille oblique e corruscate!

A cena, non toccò quasi cibo, e dopo si sedette presso il calore delle braci, senza dire una parola. Accovacciato là, come un animale, col suo fazzolettino annodato al collo, sembrava assiderato e disperso. Si capiva che un pensiero unico, ininterrotto, e inscrutabile per noi, gli occupava la mente, senza rimedio. Il suo volto era fisso, terreo; e, ogni tanto, traeva dei faticosi e lunghi respiri, come se l'aria gli mancasse. Talora, un'ombra appassionata e inesprimibile, piena di tristezza, gli si affacciava agli occhi, ammorbidendo il suo orgoglio. Ma lui subito si nascondeva gli occhi coi pugni, come se fosse geloso di quell'ombra, e ci stimasse indegni di vederla passare.

Con l'inizio di quel nuovo anno (io non sapevo che, davvero, doveva esser l'ultimo anno da me passato sull'isola!), egli incominciò a farsi rivedere a casa abbastanza spesso. Mai, però, in passato, le sue visite erano state inconcludenti fino a questo punto! Appena arrivato a casa, già pareva pentito di trovarcisi, fino alla disperazione: così che si affrettava a ripartire, sebbene poi, al momento dei saluti, si staccasse da Procida a malincuore; e magari, di lì a due o tre giorni, ricomparisse fra noi un'altra volta! Sembrava che ricercasse la nostra compagnia, e che, nello stesso tempo, non potesse sopportarla. Una cosa era certa: che noi tutti eravamo diventati scialbi e insignificanti per lui (ma più di tutti N. ch'egli trattava ormai come una parente annosa e di nessun riguardo, invecchiata nella casa, e di cui ci si dimentica con naturalezza). Per lo più, sembrava riguardarci da un angoscioso isolamento, o non accorgersi di noi affatto; ma in certi momenti, addirittura, si sarebbe detto che ci perdonava a mala pena d'esser vivi, e che, soltanto col parlare, o col muoverci liberamente, noi commettevamo un'indisciplina e un sopruso. In momenti simili, bastava un pianto di Carminiello, o la voce di N. che cantasse da altre stanze, per farlo uscire in contumelie pazze, in cui spiegava una fantasia nera!

Pure, in qualche giornata, non trovando altro scampo alla sua solitudine, era capace di trattenersi ore e ore nella cucina, in mezzo alla famiglia, cui s'aggiungevano magari anche le conoscenti di N. Stava là intanato in disparte, e il suo aspetto somigliava a quello di un esule o di un disertore, specialmente a causa della barba non rasa, che gli cresceva per tutta la faccia. Trascurava di radersi per intere settimane; e quando finalmente si risolveva a farlo, usava il rasoio con una tale brutalità da prodursi ogni volta dei piccoli sfregi. Aveva l'aria, quasi, di provar gusto a maltrattarsi, e a ferirsi a sangue: lui che una volta era stato sul punto di svenire per essersi scontrato con una medusa!

Quando non discendeva fra noi, rimaneva nella sua camera in una specie di letargo. Di me, si ricordava solo per mandarmi a comperare le sigarette, che non gli bastavano mai e che tuttavia dichiarava cattive. Nella sua camera c'era un tanfo soffocante di fumo e di rinchiuso; ma anche a ciò, lui pareva provar gusto, e talora chiudeva perfino gli scuri per non vedere la luce del giorno. Quali eventi straordinari, dunque, dopo la sua partenza dell'ultima estate, lo avevano colpito, riducendolo a questo martirio? Qual era il misterioso pensiero, sempre lo stesso, che da mesi non gli dava riposo mai?

Un giorno, attraversando il corridoio, lo scorsi, dall'uscio semiaperto, che singhiozzava in maniera orribile, mordendo i ferri del letto. Mi allontanai veloce e in punta di piedi, giacché temevo di offenderlo, a fargli conoscere che lo avevo visto mentre singhiozzava peggio d'una donna. Ricordo pure di averlo trovato, forse più di una volta, disteso supino come un morto, con un braccio ripiegato a coprirsi gli occhi, e sorridente fra sé. Pareva, da come le sue labbra si muovevano nel sorridere, che in lui si accennasse un dialogo assurdo e divino; ma nel tempo stesso il suo sorriso aveva un'amara piega malata: quasi che, in quel dialogo, le sue domande non ricevessero altro che una negazione, per risposta!

Più tardi, ho dovuto ripensare molto a queste cose; ma, in quei primi mesi del fatale anno, esse mi si facevano dimenticare subito, passando, nella loro astruseria, come misteri secondari. Vedevo mio padre partire, ritornare, come si vede un fantasma; perché lui, a quell'epoca, per me, non valeva assai di più d'un fantasma! I mali di Wilhelm Gerace erano diventati secondari per me: ero troppo incatenato dai miei propri mali per interessarmi ai suoi!

Il mio personaggio principale non era più Wilhelm Gerace. Ormai, ciò era sicuro (o almeno, mi pareva).

 

 

L'isola di Arturo
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