La pettinatura.

 

 

Mio padre, dopo essere stato abbastanza assiduo nei primi tempi del matrimonio, col passare dei mesi incominciò a diradare le sue visite. Durante tutta la primavera, lo si rivide forse un paio di volte, e sempre in fretta, come un ospite di passaggio: in queste occasioni, egli riprese l'abitudine di girovagare talvolta per l'isola in mia compagnia. La matrigna, che, fin dal principio della primavera, era incinta, ci aspettava a casa.

Il mese di giugno passò senza notizie di mio padre; ma, venuto il luglio, io cominciai ad aspettarlo, giacché per lui la piena estate era sempre la stagione della nostalgia, che, dovunque lui fosse, gli dava il desiderio di Procida.

Difatti, ai primi d'agosto, ricomparve, e, secondo il solito, trascorse quasi l'intero mese sull'isola. Fin dal mattino del suo arrivo, salpò insieme a me dalla spiaggetta sulla Torpediniera delle Antille, e riprese con me l'antica vita di tutte le nostre estati, per le spiagge e sul mare: io ero ridivenuto l'unico compagno di tutte le sue ore, mentre la matrigna, nella gravezza e nel languore del suo stato, si aggirava per le ombrose stanze della Casa dei guaglioni.

Le giornate estive si succedevano uguali e tutte di festa, come stelle radiose. Mio padre e io non parlavamo mai di lei; e in quelle nostre ore felici, la Casa dei guaglioni, con la sua solinga abitante negata alla leggerezza e ai giochi, sembrava quasi un pianeta spento, fuori dell'orbita terrestre. Ma in realtà, io con mio padre non ritrovavo più la felicità infantile delle altre estati: l'esistenza della matrigna s'interponeva fra me e lui. Proprio perché era condannata a quella schiavitù oscura, ella spesso mi pareva più presente che se fosse stata là, a giocare assieme a noi, non donna, ma essere fortunato e leggero al pari di mio padre e di me. Era come se, nascosto in una cameretta della Casa dei guaglioni, vi fosse un grande idolo misterioso, senza volontà né splendore, e che tuttavia, per un suo potere magico, mutava il corso e le luci dell'estate.

La gravidanza, che le deformava il corpo, aveva alterato anche il suo viso, dandole un'espressione quasi matura. I suoi tratti s'erano rilasciati, il naso affilato, e le sue guance erano segnate da un grave pallore, come se un morbo le consumasse il sangue. Nei suoi torpidi movimenti, ella chinava la nuca magra, gentile, alla maniera delle bestie quando faticano, e il suo sguardo era velato da un'ombra mansueta, di pace, senza nessuna domanda, senza nessuna ansietà.

D'un tratto, io credetti di riconoscere in lei delle strane somiglianze con mia madre. Da molti mesi ormai io evitavo di riguardare il famoso piccolo ritratto, che tenevo nascosto gelosamente nella mia camera, dimenticato da tutti fuorché da me solo. E adesso, alla vista della matrigna, quel piccolo ritratto con la sua pietà consueta mi si presentava di continuo alla mente. Ne provavo un sentimento forastico e malcerto, che mutava il mio odio per questa donna in una specie d'interrogazione gelosa; e più che mai, come si rifugge da una tentazione senza speranza, rifuggivo dal guardare il ritratto adorato.

Sui primi tempi dell'estate, prima dell'arrivo di mio padre, un giorno udii la matrigna lagnarsi che la sua grande chioma di boccoli, con la stagione calda, le dava fastidio. Una specie di capriccio irresistibile mi spinse a suggerirle di raccogliersi i capelli in due trecce, e poi di appuntarseli in due crocchie separate, un poco al di sopra degli orecchi (era la pettinatura che aveva mia madre nella fotografia, ma questo, lei, naturalmente, non lo sapeva, né io glielo dissi). Ella rimase confusa e grata, al vedere che inusitatamente io m'occupavo di una cosa che la riguardava; fece, però, non so quale leggera obiezione riguardo alla lunghezza dei propri capelli; ma io allora insistei, quasi con violenza, ed ella seguì senz'altro il mio consiglio, adottando la nuova foggia. Così, con questa pettinatura uguale (la sola differenza era che, a lei, qualche ricciolo più corto sempre le svolazzava sulla fronte e sulla nuca), lei, e la figura del ritratto, mi apparvero ancora più somiglianti.

Provavo, talvolta, un sentimento strano, di consolazione, di perdono, e quasi di riposo, al vedere la piccola scriminatura che le facevano i capelli sopra la nuca, in mezzo alle due trecce; anche un nuovo modo che essa aveva di sorridere (con le labbra un poco scostate dalle gengive esangui), ispirava un senso di tregua ai miei rancori di prima. Forse, la persona del ritratto, la regina di tutte le donne, sorrideva lei pure a questo modo?

Essa era preoccupata di ciò che direbbe mio padre, al non vederla più coi boccoli sulle spalle, come piaceva a lui; ma mio padre, al suo ritorno, non parve nemmeno accorgersi che lei s'era cambiata pettinatura, quasi non ricordasse nemmeno che, una volta, essa aveva avuto i boccoli. Già da qualche tempo, egli non s'impicciava più delle faccende di lei, e s'occupava della sua persona meno ancora di quanto, in passato, s'occupasse di me o di Immacolatella. Non la trattava né bene né male, ogni fantasia di scherzare con lei, di farle regali o dispetti, lo aveva lasciato. Certe volte, sembrava perfino dimenticarsi di lei, come di una presenza che sta li da secoli, inevitabile, uguale, tanto che ormai neppure la si vede più. E certe volte, al contrario, la riguardava con un 'aria incerta, meravigliata, e, al tempo stesso, sonnolenta: quasi domandandosi chi fosse quest'essere straniero, e che cosa mai avesse a dividere con lui, e perché mai si trovasse a casa nostra.

Ogni tanto, nel volgersi a lei, invece di chiamarla per nome, improvvisava qualche soprannome di lieve canzonatura, che alludeva alla presente deformità del suo corpo. Ma questi nomi, anche se suonavano volgari, non glieli diceva con malignità, anzi con una specie di distacco fanciullesco e quasi affettuosamente; perché a lui veniva naturale di nominare gli altri da qualche carattere della loro persona: come quando diceva a me moro, o, a Romeo, Amalfi.

Dopo il suo soggiorno dell'agosto, per un lungo intervallo non lo si vide più. Le settimane si succedevano senza nessuna notizia di lui, come se avesse del tutto obliato che sulla terra esisteva l'isola di Procida.

 

L'isola di Arturo
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