Altre notizie dell'Amalfitano.

 

Intanto, osservandolo, io mi accorgevo di qualche ruga che aveva sotto gli occhi, in mezzo ai sopraccigli, presso i labbri. Pensavo, con invidia: Sono i segni dell'età. Quando anch'io avrò le rughe, sarà segno che sono diventato grande, e a quell'epoca io e lui potremo stare sempre insieme.

 

In attesa di tale epoca mitologica, per il presente vagheggiavo da tempo un'altra speranza, che non osavo mai confessare a mio padre, perché mi pareva troppo ambiziosa. Finalmente una sera mi decisi e gli chiesi arditamente: - Non potresti, una volta o l'altra, portare con te qua a Procida qualcuno degli amici tuoi? -Dissi qualcuno degli amici tuoi, ma pensavo soprattutto a uno (P. A.).

Da principio, mio padre non mi dette altra risposta se non un'occhiata così scostante, che io ne ebbi un senso di freddezza fin sul cuore; e mi sentii anche offeso, tanto che provai l'impulso di andarmene in camera mia, a consolarmi nell'amicizia di Immacolatella. Ma vidi, intanto, gli occhi di mio padre farsi cangianti e animarsi, come se nel guardarmi egli mutasse pensiero. Sorrise, e io riconobbi quel sorriso favoloso che mi ricordava l'espressione delle capre e che già un'altra volta era stato il primo segnale delle sue confidenze.

Anch'io gli sorrisi, benché ancora piuttosto corrucciato. Ed egli, aggrottando i cigli, uscì in questa straordinaria dichiarazione:

- Che amici! Sappi che qua a Procida per me c’è un amico solo e non deve esserci che lui. Non ci voglio nessun altro. E questo divieto è eterno!

A simile discorso, io mi sentii quasi trasfigurare. Chi era l'unico amico suo, qua a Procida? Era dunque possibile che davvero mio padre intendesse parlare di me?

Fissandomi severamente, egli riprese:

- Guarda là! Sai di chi è quel ritratto? - e additò la fotografia dell'Amalfitano che stava sempre nella sua camera.

Allora io mormorai: - Di Romeo, - ed egli esclamò, in tono di superiorità mordace:

- Benissimo, guaglioncello.

 

- Quando venni qua a Procida la prima volta, - prese poi a raccontare, facendo una smorfia al ricordo, - mi accorsi subito (e del resto lo sapevo anche prima di sbarcare), che questa, per me, era un'isola deserta! Ho accettato di chiamarmi Gerace, perché un nome ne vale un altro. Lo dice pure una poesia, di quelle che le ragazze scrivono sull'album dei pensieri:

 

Che importa il nome? Chiama pur la rosa
con altro nome: avra' men dolce odore?

 

Per me, Gerace significava: futuro proprietario di poderi e di rendite. E così,mi fregiai di questo cognome procidano. Ma in questo cratere spopolato, non ho avuto che un solo amico: lui! E se Procida è diventato il mio paese, non fu per i Gerace, ma per lui!

«Ricordo quando sbarcai qui (che tutti mi guardavano di traverso, come una bestia esotica), i soli che mi onorarono secondo il mio merito furono i suoi cani. Erano otto, tutti cattivi, e di solito assalivano chiunque si accostasse. Invece, quando io mi arrampicai quassù per guardarli da vicino (li avevo intravisti da giù in basso, e mi interessavano, perché ce n'erano di diverse razze, anche belli), mi vennero tutti otto d'intorno a farmi festa, come se mi riconoscessero, e io fossi già il padrone della casa. In quella occasione, feci anche la famosa conoscenza di lui; e da allora, si può dire, non passò giorno che io non tornassi qui. A dire la verità, io seguitavo a venirci piuttosto per giocare coi cani che per lui, giacché, sebbene lui si sforzasse di fare il brillante, non era un gran divertimento, per me, stare ad ascoltare le chiacchiere d'un vecchio, e, per di più, cecato. Ma, pure s'io avevo più cara la compagnia dei cani che la sua, lui era contento: purché non mancassi!

«Ogni tanto mi diceva: "Io fui sempre fortunato, e adesso, prima di morire, ho conosciuto la più grande fortuna. La sola ragione per cui rimpiangevo di non aver preso moglie, era questa: di non avere un figlio mio, da amare quanto me stesso. E adesso, l'ho trovato, l'angelo mio, il mio figlietto: sei tu!”

«Affermava pure che, la notte prima di conoscermi, in sonno era passato da un sogno all'altro, e tutti questi sogni erano stati profetici. Aveva sognato, per esempio, di essere tornato al tempo che faceva lo spedizioniere; e di ricevere, senza sapere da parte di chi, una cassetta di legno odoroso che conteneva magnifiche pietre colorate, e spezie orientali che profumavano come un giardino. Poi aveva sognato di andare a caccia, ancora sano e svelto, nell'isola di Vivara; e che i suoi cani stanavano (ma senza ferirla), una famiglia di lepri, fra cui un leprotto bello come un angelo, che nella pelliccia nera aveva una frezza d'oro. Poi aveva sognato che in camera sua cresceva un albero di melangoli, fatato, tutto inargentato dalla luna... e altre visioni di questo genere.

«Io ridacchiavo, scettico, a sentirlo raccontare queste storie, perché sapevo bene che erano tutte fanfaronate. Lui pretendeva di farmi credere che, da quando era cieco, faceva sempre dei sogni fantastici, assai più colorati della realtà, e che addirittura, per lui, addormentarsi era diventata una festa di gaia, un'avventura da romanzo, insomma, una seconda vita. Ma io la sapevo lunga, sul conto suo, e riconoscevo subito la marca di fabbrica di tutte quelle vanterie. Capivo bene che erano tutte sue invenzioni, che lui voleva darmi a intendere per pavoneggiarsi ai miei occhi e non sfigurare troppo davanti a me, con la sua miserabile vecchiaia. E la verità era, invece, che, per lui, era finito anche il tempo di riconsolarsi in sogno. Come succede ai vecchi ridotti alla fine, soffriva d'insonnia, ed era pure malato di manie stupide, di frenesie, di ossessioni, che lo inquietavano giorno e notte. Erano risapute, queste cose, sul conto suo, qui a Procida. Ma lui non voleva confessarmele: prima di tutto, per vanità; e poi, perché indovinava che io, se lui avesse preso l'abitudine di piangere i suoi guai con me, presto l'avrei lasciato. così sono fatto, io, non ho la vocazione della suora di carità. Anche mia madre me lo gridava a ogni occasione: Tu se' di quelli di cui è detto nel Vangelo: che se un amico gli chiede un pane, gli danno un sasso.

«Beh, in mezzo a tutti i suoi vanti, la realtà era che, per lui, l'unico bel sogno era la mia compagnia, non ci voleva molto a capirlo. E quanto a me, anche se mi veniva voglia di variare, non avevo molto da scegliere, in fatto di passatempi, qua a Procida. Non avevo nessun altro amico, nessun posto dove andare, e, per di più, ero sempre senza un soldo in tasca. Difatti tuo nonno, prima di lasciarmi erede, non sborsava quattrini, né io gliene chiedevo. Piuttosto preferivo chiederne a lui, all'Amalfitano, ma lui me ne dava a malincuore, e pochi, giusto per le sigarette; perché, se disponevo di soldi, aveva paura che potessi scappare via dall'isola.

«Così, gira e rigira, tutti i giorni io finivo qua.

«Certe volte, lui mi diceva: "Pensare che, in passato, ho visto tanti paesaggi, tante persone: potrei popolare una nazione con la gente che ho visto. E l'amico più caro di tutta la mia esistenza, che sei tu, l'ho incontrato adesso che sono cieco. Per dire che conoscevo tutta la bellezza della vita, mi sarebbe bastato di vedere la persona di uno solo: la tua. E invece, proprio la tua persona non ho potuto vederla. Adesso, al pensiero di morire, di lasciare questa vita e questa bella isoletta di Procida dove ho conosciuto ogni spensieratezza e felicità, mi consolo con una speranza: alcuni credono che i morti siano spiriti, e vedano ogni cosa: chi sa che non sia vero? E se sarà vero, io, dopo la morte, potrò vederti. Questo mi consola della morte. Che ne pensi, tu?" Io gli rispondevo: "Spera, spera, Amalfi - (così, di solito, lo chiamavo), - se i morti davvero vedono, puoi esser contento di morire. Per vedere la mia persona, ne vale la pena. Peccato che la realtà dei fatti sia diversa: vuoi sapere che differenza passa fra un cieco come te, e un morto?" "Che differenza? dimmela". "Che un cieco come te ha ancora gli occhi, ma non ha più la vista; e un morto non ha la vista, e non ha più nemmeno gli occhi. Puoi esserne certo, Amalfi, tu, la mia persona non l'hai mai veduta, e non la vedrai mai, nei secoli dei secoli".

«Lui mi richiedeva continuamente di descrivergli com'ero fatto: la mia fisionomia, e i colori del mio viso e dei miei occhi, e se avevo screziature nell'iride, un alone intorno alle pupille e via di seguito. E io, per non dare troppe soddisfazioni alla sua curiosità, gli rispondevo ora a un modo, ora a un altro, secondo la fantasia. Una volta gli dicevo che avevo gli occhi iniettati di sangue come le tigri; e una volta, che avevo un occhio azzurro e un altro nero. Oppure gli affermavo che avevo uno sfregio sulla gota, e subito contraevo i muscoli del volto in una maniera, che lui, allorché per sincerarsi mi toccava la gota, vi trovava un profondo incavo, e quasi rimaneva in dubbio.

«Egli mi diceva, poi: "Ma, da una parte, è meglio per me di non vederti mai, quando sarò morto. Che cosa potrei aspettarmene, se non un dispiacere amaro: giacché dovrei vedere che tu ti sei fatto degli altri amici, e stai insieme a loro, come prima stavi insieme a me? Vederti in compagnia d'altri amici, magari in questa stessa isola dove la nostra amicizia è scritta perfino sui sassi, perfino nell'aria!" " Ah, di questo, - gli rispondevo, - puoi esserne sicuro. La compagnia dei morti andrà bene per l'al di là, ma io sono VIVO, e le mie compagnie me le troverò fra i vivi. Certo avrò di meglio da fare, nelle mie giornate, che coltivare crisantemi sulla tomba d'un morto!" Lui non voleva farmi vedere il dolore che gli dava questa mia risposta; ma si faceva pallido, e i suoi tratti, in un momento, parevano consunti. Soffrire, per lui, era peggio che per un altro: giacché, fino a quegli ultimi anni della sua esistenza, lui non aveva mai conosciuto il dolore. La sua vita, prima, era stata tutta un gioco e una festa. Non aveva mai saputo che si può soffrire per causa d'un'altra persona. Beh, e così, gliel'ho fatto imparare io!

«Ciò che lo angustiava di più, era la paura che un giorno o l'altro, per impazienza, io piantassi Procida. Appena tardavo un po’ più del previsto, subito sospettava che me ne fossi partito senza dirgli niente, e magari mi trovassi già al largo della costa. Invece, io non m'allontanai mai dall'isola, durante quei due anni che lui ancora visse: finché una notte, mentre io dormivo, come al solito, giù alla casa di tuo nonno, lui morì d'improvviso, qua, solo, senza nemmeno potermi salutare. Fu strano, per me, il giorno dopo.

« Lì per lì, io volevo convincermi, di prepotenza, che si trattava solo di uno svenimento; e addirittura mi detti a inveire contro il medico, gridandogli che era un medicastro di paese, un disgraziato, e per questo diceva che non c'era più niente da fare! ma che invece il suo dovere era di cercare subito un rimedio! una medicina, una puntura! era il suo dovere! io glielo comandavo! Avrei preteso, insomma, che il medico lo risuscitasse senza indugio: tanto ero fuori di me stesso. E quando poi, andato via il medico, mi trovai solo con quel morto, provai una scossa di nervi terribile (ero ragazzo, ancora), e mi misi a singhiozzare. Il pianto mi infuriava, e insultavo il morto chiamandolo vigliacco, buffone, schifoso, perché era morto senza nemmeno salutarmi. Questa mi pareva la peggior cosa, e la più inaccettabile: non so quale importanza unica, fatale, io davo a quel saluto. E m'arrabbiavo, ripensando a tutte le volte che, pur senza avere nient'altro di speciale che mi occupasse, apposta, per una insofferenza del mio carattere, o per fare il bravo, avevo lasciato l'Amalfitano qua solo, a aspettare inutilmente la mia visita, per giornate intere! In realtà, avevo fatto benissimo: è meglio non viziare troppo il prossimo e mandarlo ogni tanto all'inferno, altrimenti, sarebbe la fine! la nostra vita andrebbe avanti pesantemente, come un barcone carico di zavorra, e ci porterebbe a fondo a morire asfissiati... Ma in quel momento là, i miei nervi non volevano conoscere ragioni: e tutte le ore e giornate che avevo trascorso a girare lontano dalla casa dell'Amalfitano, per farlo sospirare e fare il difficile, mi parevano addirittura dei tesori, sperperati senza nessuna soddisfazione mia!

(A questo punto della sua rievocazione, mio padre levò gli occhi al ritratto dell'Amalfitano, con una espressione di amicizia carezzevole; ma subito dopo uscì in una risata teatrale, irriverente, quasi a beffarsi del morto).

«Adesso mi sembrava che niente, nessuna persona valesse la pena di spenderci il proprio tempo, a paragone di Romeo l'Amalfitano; e mi sentivo convinto e sicuro che non avrei mai più potuto incontrare un essere altrettanto meraviglioso, affascinante: un essere altrettanto bello! Sì, mi pareva indubbio, senza rimedio, che lui solo possedeva il vanto della vera beltà! Se m'avessero presentato in quel momento la regina di Saba, o il dio Marte in persona, o la dea Venere, li avrei considerati dei tipi volgari, bellezze da caffè o da cartolina, in confronto a lui! Chi altro possedeva quel sorriso un po' febbrile, furbesco e delicato; e, con quella statura sperticata, quelle manine piccole che gesticolavano a ogni parola, soprattutto quando raccontava fandonie! e quegli occhi che lo adornavano della sua grazia più terribile: perché erano offesi! e la loro espressione pareva uno sguardo sperduto, senz'anima, senza giudizio, diverso dagli sguardi umani.

«E quei modi che aveva! indifesi, incerti, e vergognosi (perché si vergognava aspramente della sua cecità), ma pure fastosi, inguaribilmente fastosi! La grazia dei più bei danzatori, o degli angeli, non valeva niente, era di un genere inferiore, a confronto della sua!

«Perfino i suoi ricci grigi, che gli scendevano dietro gli orecchi come una criniera, e la sua foggia di vestire, provinciale, con quei pantaloni stretti piuttosto ridicoli, adesso mi parevano la suprema eleganza! E la sua grazia, la sua eleganza adesso aumentavano la disperazione mia! Cieco maledetto, idiota! io, se, per caso, davvero esisteva l'inferno, gli auguravo, a quest'ora, d'esserci già arrivato!

« Pensare che la sua compagnia, fino a ieri certa, fedele, e alla mia dipendenza, adesso era diventata un'impossibilità! Questo pensiero disperato m'imbestialiva tanto che mi buttai in terra, piangendo e mordendo i ferri del suo letto. Chiamavo: Amalfi! Amalfi!, e mi ricordavo i dispetti che gli avevo fatto in vita. Mi pentivo, ma nel tempo stesso mi tornava quasi da ridere, al ricordo, per esempio, di certe volte che, mentre lui discorreva e mi raccontava con gran gesti i suoi sogni, d'un tratto io m'allontanavo senza rumore, e andavo a nascondermi in qualche angolo, fingendo di sparire come la nebbia. Dopo un poco, lui avvertiva la mia assenza, e sconcertato si dava a chiamarmi, e a cercarmi per le stanze, a tentoni, puntando il suo bastone sui muri. E i cani, aizzati dai miei cenni, invece di aiutarlo gli facevano intorno un chiasso inconcludente, come se anche loro, assieme a me, si divertissero a farlo stranire. Anche loro, avran dovuto provare del rimorso, dopo, e così forse si spiega il loro suicidio, se è vero che hanno fatto questa tragica fine, a quanto sembra!

«E adesso, era lui che mi lasciava chiamare senza rispondere. Se si fosse risvegliato, almeno solo per un'ora, avrebbe udito da me cose meravigliose, tutte verità senza l'ombra di una bugia, e avrebbe avuto ragione di pavoneggiarsi! Lui non sentiva né vedeva più nessuno, fino alla fine dell'eternità, e io lo sapevo; ma pure, a ogni costo dovevo dargli una prova, un pegno, che salvasse la nostra amicizia dalla morte!

«Allora, posando la mia palma sulla sua manina rigida, e inanellata come quella d'un sultano, io gli promisi con giuramento che, per quanti amici potessi avere nel futuro, li avrei sempre esclusi da Procida! In quest'isola, che era stata abitata, per me, soltanto dalla nostra amicizia, il suo ricordo sarebbe per sempre il solo amico mio. Così gli ho giurato. E qua a Procida, perciò, dove i nomi uniti di Wilhelm e di Romeo sono scritti perfino sui sassi, perfino nell'aria, io non m'accompagnerò mai con altri amici. Se lo facessi, mi macchierei di tradimento e di spergiuro e condannerei la nostra amicizia a cadere uccisa!

 

 

L'isola di Arturo
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