«Sì.»

«Sarà presa con la forza o con l'inganno?»

"Per l'amor del cielo" penso "non puoi dirle anche questo!" «Con l'inganno» rispondo.

Elena, incredibilmente, sorride. «Odisseo» mormora.

Rimango zitto. Mi dico che forse, se non rivelo alcun particolare, le mie parole non modificheranno gli eventi.

«Paride sarà ucciso prima che Troia cada?» chiede Elena.

«Sì.»

«Per mano di Achille?»

"Niente particolari!" rumoreggia la mia coscienza. «No» rispondo. "Va' al diavolo!"

«E il prode Ettore?»

«Muore» dico, sentendomi come un perverso giudice che condanna tutti all'impiccagione.

«Per mano di Achille?»

«Sì.»

«E Achille? Resterà vivo e tornerà a casa da questa guerra?»

«No.» "Il suo destino è segnato non appena uccide Ettore e lui l'ha sempre saputo... L'ha saputo da una profezia che ha portato con sé per anni come un cancro. Lunga vita o la gloria? Omero ha detto che era... è... sarà la decisione che Achille deve prendere. Ma, se la profezia è veritiera, se lui sceglie la lunga vita, sarà conosciuto solo come un uomo, non come il semidio che diverrà se uccide Ettore in battaglia. Ma lui ha la possibilità di scegliere. Il futuro non è già stabilito e immutabile!"

«E re Priamo?»

«Muore» dico, in un rauco bisbiglio. "Ucciso nel suo stesso palazzo, nel suo tempio privato a Zeus. Fatto a pezzi sanguinolenti, come una giovenca sacrificata agli dèi."

«E il figlioletto di Ettore, Scamandrio, che il popolo chiama Astianatte?»

«Muore» rispondo. Chiudo gli occhi per non vedere l'immagine di Pirro che getta dalle mura il bambino urlante.

«E Andromaca?» mormora Elena. «La moglie di Ettore?»

«Schiava» rispondo. Se Elena continua con questa litania di domande, impazzirò di sicuro. Andava tutto bene da lontano, da una posizione di scoliaste disinteressato che si limita a osservare. Ma ora parlo di gente che ho incontrato e conosciuto e... portato a letto. Mi accorgo con sorpresa che Elena non ha fatto domande sul proprio fato. Forse non vorrà mai sapere.

«E io morirò con Ilio?» chiede invece lei, con voce sempre calma.

Traggo un sospiro. «No.»

«Ma Menelao mi troverà?»

«Sì.» Mi sento come uno di quei giocattoli per prevedere il futuro che erano popolari quando ero ragazzino. Perché non le ho risposto come avrebbe fatto la palla nera del giocattolo? Sarebbe stato più simile all'Oracolo di Delfi... "Il futuro è nebuloso." Oppure: "Chiedi di nuovo". Sto forse facendo il pavone per questa donna?

Ormai è troppo tardi.

«Menelao mi trova, ma non mi uccide. Sopravvivo alla sua collera?»

«Sì.» Ricordo che Omero ne parla nell'Odissea: Menelao trova Elena nascosta nei quartieri di Deifobo, nel grande palazzo reale, vicino al tempio del Palladio, e il marito cornificato si getta su di lei, spada sguainata, più che intenzionato a uccidere questa bellissima donna. Elena si snuda i seni davanti al marito, quasi invitandolo a colpirla, come se volesse la morte; e allora Menelao lascia cadere la spada e bacia Elena. Non è chiaro se Deifobo, uno dei figli di Priamo, è ucciso da Menelao prima di questo fatto o dopo che lui...

«Ma mi riporta a Sparta?» mormora Elena. «Paride morto, Ettore morto, tutti i grandi guerrieri di Ilio morti o passati a fil di spada, tutte le grandi donne di Troia morte o trascinate via in schiavitù, la città stessa bruciata, le mura sfondate, le torri abbattute e fatte a pezzi, la terra cosparsa di sale perché mai più niente vi cresca... ma io rimango in vita e sono riportata a Sparta da Menelao?»

«Sì, una cosa del genere» dico. Una risposta che zoppica alle mie stesse orecchie.

Elena scende dal letto e, nuda, va alla terrazza che dà sulla corte. Per un minuto dimentico il mio ruolo di Cassandra e mi limito a guardare con una sorta di timore reverenziale i capelli scuri che le scendono sulla schiena, le natiche perfette, le gambe robuste. Elena sta nuda alla balaustra e, senza girarsi dalla mia parte, dice: «E tu, Hock-en-bear-eeee? I Fati ti hanno rivelato anche la tua sorte, mediante quel loro poema?».

«No. Non sono abbastanza importante per essere citato nel poema. Ma sono abbastanza sicuro di morire oggi.»

Elena si gira. Mi aspetto che pianga, dopo tutto ciò che le ho detto (ammesso che mi creda) e invece sorride lievemente. «Solo "abbastanza sicuro"?»

«Sì.»

«Morirai per l'ira di Afrodite?»

«Sì.»

«Ho percepito quell'ira, Hock-en-bear-eeee. Se s'incapriccerà di ucciderti, ti ucciderà.»

"Be', è incoraggiante" penso. Rimango silenzioso per un poco. Dal vano della terrazza sul lato della città proviene un brusio. «Che cos'è?» chiedo.

«Le donne troiane implorano ancora Atena perché abbia misericordia e conceda la sua protezione divina, cantando e facendo sacrifici nel tempio a lei dedicato, secondo gli ordini di Ettore» dice Elena. Torna a darmi le spalle e guarda intensamente giù nella corte interna, come per trovare quel solitario uccello cinguettante.

"Troppo tardi per la misericordia di Atena" penso. Poi, senza rifletterci, dico: «Afrodite vuole che io uccida Atena. Mi ha dato l'Elmo di Ade e altri utensili proprio a questo scopo».

Elena gira di scatto la testa e anche nella scarsa luce vedo la sua espressione sconvolta, il suo pallore. È come se finalmente reagisse a tutte le mie terribili notizie profetiche. Nuda, torna dentro e si siede sul bordo del letto, dove me ne sto disteso, sorreggendomi al gomito.

«Uccidere Atena, hai detto?» bisbiglia. Non l'ho mai sentita parlare a voce così bassa.

Annuisco.

«Allora gli dèi possono essere uccisi?» chiede Elena, con voce così sommessa che riesco appena a udirla, a trenta centimetri di distanza.

«Penso che sia possibile» rispondo. «Solo ieri ho sentito Zeus dire ad Ares che gli dèi potrebbero morire.» E le racconto di Afrodite e Ares, delle loro ferite, del bizzarro luogo dove guariscono. Spiego che Afrodite emergerà oggi dalla vasca, forse è già fuori, perché l'Olimpo segue lo stesso ritmo giorno/notte di Ilio e anche lì ormai è già "domani".

«Sei in grado di andare sull'Olimpo?» mormora Elena. Pare assorta nei pensieri. A poco a poco ha cambiato espressione, da sconvolta a... che cosa? «Di andare avanti e indietro dall'Olimpo a Ilio ogni volta che ti pare?»

Esito. So di averle già detto troppo. "E se questa Elena fosse semplicemente la mia Musa morfizzata?" penso. No, non lo è. Non chiedetemi come lo so. E anche se lo fosse, me ne frego! «Sì» dico. Ora bisbiglio anch'io, anche se la servitù non è ancora sveglia. «Posso andare sull'Olimpo quando voglio e stare lì senza che gli dèi mi vedano.» A parte il solitario uccello illuso che sia già l'alba, nella città e nel palazzo regna un irreale silenzio. Ci sono guardie alla porta d'ingresso, lo so, ma non sento lo stropiccio di sandali né il rumore di lance sul lastricato. Le vie di Ilio, mai completamente silenziose, sembrano ora soffocate. Anche il salmodiare delle donne nel tempio di Atena è cessato.

«Afrodite ti ha dato i mezzi per uccidere Atena, Hock-en-bear-eeee? Un'arma divina?»

«No.» Non accenno all'Elmo di Ade e al medaglione TQ. Quegli oggetti non potrebbero mai uccidere una dea.

All'improvviso Elena stringe di nuovo il corto pugnale, lo tiene a qualche centimetro da me. "Dove lo aveva nascosto?" mi chiedo. "Come riesce a farlo comparire dal nulla?" Anche lei, come me, ha i suoi piccoli segreti, a quanto pare.

Il pugnale si avvicina. «Se ti uccido ora» bisbiglia Elena «cambierà il poema di Ilio che conosci? Il futuro... questo futuro... muterà?»

"Non è il momento d'essere sinceri, Tommy, ragazzo mio" mi ammonisce la parte razionale del cervello. Ma dico ugualmente la verità. «Non lo so. Non vedo come sarebbe possibile. Se è... destino... che io muoia oggi, immagino non abbia importanza se la mia morte sarà per mano tua o di Afrodite. E poi non sono un personaggio di questo dramma, sono solo un osservatore.»

Elena annuisce, ma pare ancora turbata, come se la domanda sulla mia morte fosse di poca importanza in un caso e nell'altro. Alza il pugnale, finché la punta quasi le tocca la ferma, candida carne sotto il mento. «Se mi tolgo la vita adesso, il poema cambierà?» chiede.

«Non vedo come il tuo gesto potrebbe salvare Ilio o cambiare il risultato della guerra» rispondo. Non è tutta la verità. Elena è una figura centrale dell'Iliade di Omero e non so se i greci resterebbero a finire la guerra, se lei si suicidasse. Per che cosa combatterebbero, morta Elena? "Gloria, onore, bottino" mi rispondo. Ma senza Elena come premio per Agamennone e Menelao e con Achille ancora a rimuginare nella sua tenda, il semplice bottino sarebbe sufficiente a mantenere in guerra le decine e decine di migliaia di altri achei? Ormai da quasi dieci anni saccheggiano isole e città costiere troiane. Forse si sono stufati e cercano una scusa... Non è per questo che Menelao aveva accettato il duello con Paride, per dirimere la questione, prima che Afrodite portasse via Paride? "Di nuovo nel suo letto, Elena e Paride a fare l'amore su questo stesso letto solo alcune ore fa" penso. Forse il suicidio di Elena porrebbe davvero fine alla guerra.

Lei abbassa il pugnale. «Da dieci anni penso al suicidio, Hock-en-bear-eeee. Ma ho troppa voglia di vivere e troppo poco amore per la morte, anche se merito di morire.»

«Tu non meriti di morire» protesto.

Sorride. «Ettore merita forse di morire? E suo figlio? E re Priamo, nei miei riguardi il più generoso dei padri? Tutte queste persone che senti risvegliarsi nella città meritano di morire? Gli stessi guerrieri, Achille e tutti gli altri che sono già scesi nel gelido Ade, meritano di morire perché una volubile donna alla fedeltà ha preferito passioni e vanità e rapimento? E le migliaia di donne troiane che hanno servito bene i loro dèi e i loro mariti, ma che saranno strappate alla loro casa e ai loro figli e vendute come schiave per causa mia? Meritano un simile destino, Hock-en-bear-eeee, solo perché ho scelto di vivere?»

«Tu non meriti di morire» ripeto, testardo. Ho ancora il suo odore sulla pelle, sulle dita, nei capelli.

«Va bene» dice Elena e infila il pugnale sotto il materasso. «Allora mi aiuterai a vivere e a restare libera? Mi aiuterai a fermare questa guerra? O almeno a cambiarne il risultato?»

«Cosa vuoi dire?» All'improvviso mi allarmo. Non ho alcun interesse a fare un tentativo per aiutare i troiani a vincere la guerra. E non potrei farlo nemmeno se ci provassi. Qui ci sono troppe forze in gioco, per non parlare degli dèi. «Elena, parlavo seriamente quando dicevo che non mi resta più tempo. Afrodite oggi uscirà dalla vasca di guarigione; anche se potrei tenermi nascosto agli altri dèi per qualche tempo, lei può trovarmi quando vuole. Anche se non mi uccide immediatamente per averle disubbidito, non sarei libero di agire nel breve tempo che mi resta come scoliaste.»

Elena scosta il lenzuolo che mi copre la parte inferiore del corpo. Adesso c'è più luce e la vedo meglio di quanto non l'abbia vista nel bagno la sera precedente. Elena sposta le gambe e si mette a cavalcioni su di me, una mano di piatto sul petto e l'altra più in basso, a cercare, a incoraggiare.

«Ascolta» dice, guardandomi da sopra il seno. «Se decidi di cambiare il nostro destino, devi trovare il fulcro.»

Lo prendo come un invito e cerco di entrare in lei.

«No, non ancora» mormora Elena. «Ascoltami, Hock-en-bear-eeee. Se decidi di cambiare il nostro destino, devi trovare il fulcro. E non mi riferisco a ciò che stai facendo in questo momento.»

Non mi è facile, ma mi trattengo quanto basta ad ascoltarla.

 

Un'ora e mezzo più tardi, il sole si è levato e la città torna a vivere; cammino per le vie, con la solita attrezzatura degli scoliasti, morfizzato come un lanciere della Tracia. Le vie sono affollate e piene di movimento, mercanti che aprono i banchi, animali spinti per la strada, bambini che scorrazzano, sussiegosi guerrieri che fanno colazione prima di uscire a uccidere.

Vicino alla piazza del mercato trovo Nightenhelser: è morfizzato in un dardanio di ronda, ma grazie alle lenti vedo chi è realmente. Nightenhelser fa colazione in una taverna all'aperto, che tutt'e due abbiamo già frequentato. Il mio collega alza gli occhi e mi riconosce.

Non scappo né uso l'Elmo di Ade per scomparire. Mi unisco a lui al tavolo sotto un basso albero e ordino pane, pesce essiccato e frutta.

«La nostra Musa ti cercava in dormitorio prima dell'alba» dice il corpulento Nightenhelser. «E vicino le mura, qui, stamattina. Chiedeva di te, chiamandoti per nome. Pare ansiosa di trovarti.»

«Hai paura di farti vedere in mia compagnia? Vuoi che me ne vada?»

Nightenhelser si stringe nelle spalle. «Tutti noi scoliasti viviamo tempo regalato. Cosa importa? Tempus edax rerum.»

Per troppo tempo ho pensato in greco e impiego un secondo a tradurre in latino. "Il tempo divora ogni cosa." Forse è vero, ma ne voglio di più. Spezzo il pane appena sfornato e mangio, stupito per il ricco sapore e per il gusto del dolce vino della colazione. Alla vista, all'olfatto e al gusto tutto pare più tonificante, più pulito, più nuovo e più bello, stamattina. Forse è merito della pioggia della notte. Forse di qualcos'altro.

«Hai addosso un profumo sospetto, oggi» dice Nightenhelser.

Sulle prime reagisco solo arrossendo (possono gli altri scoliasti sentire a naso i miei bagordi?) ma poi capisco di che cosa parla. Elena ha insistito perché facessi il bagno con lei, prima di andarmene. La vecchia schiava che ha diretto il trasporto di acqua calda nella vasca da bagno si chiama Etra, ho saputo, figlia di Pitteo, moglie di re Egeo e madre del famoso Teseo... sovrano di Atene e rapitore di Elena undicenne. Ricordo il nome Etra dai giorni dell'università, ma il mio docente, il dottor Fertig, un bravo studioso di Omero, sosteneva che il nome era stato pescato a caso dalla provvista epica: "Etra, figlia di Pitteo" di sicuro era suonato bene a Omero o a qualche poetico predecessore che aveva bisogno di un nome per una semplice schiava, diceva il dottor Fertig, e la madre del nobile Teseo non poteva certo essere la serva di Elena a Troia. Be'... sbagliato, dottor Fertig! Proprio mezz'ora fa, mentre oziavamo nudi nella vasca di marmo incassata nel pavimento, Elena ha detto che la schiava Etra era davvero la mamma di Teseo: i fratelli di Elena, Castore e Polluce, liberata la sorella dalla prigionia di Teseo, per punizione se l'erano portata via e Paride l'aveva condotta a Troia insieme con Elena.

«A cosa pensi, Hockenberry?» chiese Nightenhelser.

Arrossii di nuovo. Proprio in quel momento pensavo al morbido seno di Elena, visibile tra le bollicine, nel bagno. Mangiai un po' di pesce e dissi: «Non ero sul campo, ieri sera. È accaduto qualche evento degno d'interesse?».

«Non molto. Solo il grande duello fra Ettore e Aiace. Solo la prova di forza che aspettavamo da quando le navi achee toccarono con la prua la spiaggia laggiù. Solo tutto il Libro settimo!»

«Oh, quello» dissi. Il Libro settimo era un entusiasmante duello fra Ettore e il gigante acheo, ma non accadeva niente! Nessuno dei due feriva l'altro, anche se Aiace era chiaramente il guerriero migliore; e quando la sera fu troppo scura per continuare il combattimento, Aiace ed Ettore stipularono una tregua, si scambiarono doni in armature e armi e tutt'e due le parti tornarono a bruciare i propri morti. Non mi ero perso niente d'importante, niente per cui rinunciare a un solo minuto con Elena.

«È successa una cosa strana» disse Nightenhelser.

Mangiai un pezzo di pane e aspettai.

«Sai che Ettore sarebbe dovuto uscire dalla città insieme con suo fratello Paride e tutt'e due avrebbero dovuto guidare i troiani e riprendere la battaglia. Omero dice che all'inizio degli scontri Paride uccide Menestio.»

«Sì?»

«E più tardi, ricordi quando il consigliere di re Priamo, Antenore, ammonisce i troiani a restituire Elena e tutti i tesori saccheggiati da Argo... a rendere tutto e lasciare che gli achei se ne vadano in pace?»

«Questo accade mentre Aiace ed Ettore si comportano da amici dopo non essere riusciti a uccidersi l'un l'altro, scambiandosi doni sul campo, giusto?» dico.

«Sì.»

«Ebbene, cosa c'è di strano?»

Nightenhelser posa il calice. «In teoria era Paride che rispondeva ad Antenore e incitava i troiani a non cedere Elena, e offriva la restituzione dei tesori in cambio della pace.»

«E allora?» dico, ma so dove vuole arrivare. A un tratto mi sento assalire dalla nausea.

«Be', Paride non era qui, ieri notte: non è uscito con Ettore dalle porte Scee, non ha ucciso Menestio e non ha fatto proposte di pace.»

Annuisco e continuo a masticare. «E allora?»

«Allora è una delle più grosse discrepanze che abbiamo mai visto, no, Hockenberry?»

Devo scrollare le spalle di nuovo. «Non so. Nel Libro settimo gli achei costruiscono il muro di difesa e la trincea nei pressi della spiaggia, ma tu e io sappiamo che quelle difese erano lì fin dal primo mese dopo il loro arrivo. A volte Omero pasticcia con la cronologia.»

Nightenhelser mi guarda. «Può darsi. Ma l'assenza di Paride per confutare il suggerimento di Antenore a restituire Elena è strana. Alla fine re Priamo ha parlato al posto del figlio, dicendo d'essere sicuro che Paride non avrebbe mai restituito la donna, ma che avrebbe potuto rendere il tesoro. Ma senza Paride lì in persona, molti troiani nella folla borbottavano d'essere d'accordo. È la cosa più vicina alla pace che abbia visto in tutti gli anni trascorsi qui, Hockenberry.»

Mi sento tutto gelato. Il mio capriccio con Elena ieri notte, il mio lungo impersonare Paride, ha già provocato un cambiamento nel corso degli eventi. Se la Musa avesse conosciuto i particolari dell'Iliade (per fortuna non li conosce) avrebbe capito subito che avevo preso il posto di Paride nel letto di Elena.

«Hai riferito alla Musa la discrepanza?» chiedo con calma. In teoria Nightenhelser aveva terminato il turno di servizio al calare del buio. Poiché io ero assente, era l'unico scoliaste in servizio ieri sera. Era suo dovere fare rapporto su stranezze come quella.

Nightenhelser mastica lentamente l'ultimo pezzetto di pane. «No» dice alla fine.

Lascio uscire il fiato trattenuto. «Grazie.»

«Meglio andarcene» dice lui. La taverna comincia a riempirsi di troiani con le mogli, in attesa di un posto a sedere. Mentre metto sul tavolo alcune monete, Nightenhelser mi prende per il braccio. «Sei sicuro di sapere cosa fai, Hockenberry?»

Lo guardo negli occhi. Con voce ferma rispondo: «Assolutamente no».

Appena nella via, vado in direzione opposta a quella di Nightenhelser. Entro in un vicolo deserto, indosso l'Elmo di Ade e aziono il medaglione TQ.

Sulla cima del monte Olimpo è l'alba. I bianchi edifici e i verdi prati riflettono la ricca luce, qui meno forte. Mi sono sempre chiesto perché il sole, sul monte Olimpo e nei dintorni, sembri più piccolo che nel cielo di Ilio.

Con l'occhio della mente ho immaginato il posteggio dei cocchi accanto all'edificio della Musa ed è lì che mi sono trovato. Trattengo il fiato, mentre un cocchio scende a spirale dal cielo mattutino e atterra a neanche sei metri da me; ne scende Apollo, ma se ne va senza notarmi. L'Elmo di Ade funziona ancora.

Salgo sul cocchio e tocco la piastra di bronzo nella parte anteriore. Ho guardato con attenzione la mia Musa, quando ho sorvolato con lei il lago della caldera, l'altro giorno. Un pannello trasparente e luminoso compare qualche centimetro sopra la piastra di bronzo. Tocco alcune icone in sequenza, come ho visto fare a lei.

Il cocchio oscilla, si alza, oscilla di nuovo e trova l'equilibrio, mentre muovo il lucente regolatore virtuale di energia posto vicino ai quadranti. Lo giro a sinistra e il cocchio vira a sinistra, quindici metri sopra la vetta erbosa. Un dio che guardasse, vedrebbe un cocchio vuoto che vola da solo, ma non noto nessun dio nei paraggi.

Dall'altra parte del lago salgo un poco di quota e cerco l'edificio giusto. Eccolo là, proprio dietro la Grande Sala degli Dèi.

Una dea, che non riconosco, grida dai gradini d'ingresso dell'enorme edificio e altri dèi corrono fuori a vedere che cosa succede, ma è troppo tardi: ho individuato l'edificio, enorme, bianco, con la porta spalancata.

Ormai comincio a capire come si pilota il cocchio; scendo in picchiata a sei metri dal terreno e accelero verso l'edificio. Sollevo il lato sinistro del cocchio quasi perpendicolarmente al terreno (non cado, nella macchina c'è una sorta di gravità artificiale) e passo come un fulmine tra le gigantesche colonne, a sessanta, settanta chilometri all'ora.

L'interno dell'edificio è come lo ricordo: enormi vasche piene di gorgogliante liquido viola, verdi vermi che brulicano intorno agli dèi in cura che galleggiano privi di conoscenza. Il Guaritore, un gigantesco millepiedi con braccia metalliche e occhi rossi, si trova dall'altra parte della vasca di ricostruzione contenente Afrodite e si prepara, presumo, a tirare fuori la dea; gli occhi rossi guardano dalla mia parte e le molte braccia vibrano, mentre il cocchio si precipita nel silenzioso locale; ma il Guaritore non si trova fra me e il mio bersaglio. Accelero e proseguo, prima che lui o qualsiasi altro possa fermarmi.

Solo all'ultimo secondo decido di saltare giù, anziché restare sul cocchio. Sarà di sicuro il ricordo di Elena, della notte con Elena, del rinnovato piacere della vita in quelle ore con Elena.

Sempre invisibile grazie all'Elmo di Ade, salto dal cocchio, atterro pesantemente, sento qualcosa piegarsi, ma non spezzarsi, nella spalla destra, rotolo sul pavimento e mi fermo, mentre il cocchio vola dritto contro la vasca di ricostruzione, schianta plastica e acciaio e solleva a trenta metri schizzi di liquido viola. Qualcosa, un pezzo del cocchio o una grossa scheggia della vasca di vetro, taglia in due il gigantesco Guaritore millepiedi.

Afrodite rotola fuori della vasca, sul pavimento, in un'onda di liquido viola e una serpeggiante massa di verdi vermi moribondi. Le altre vasche, compresa quella che contiene Ares in un bozzolo di vermi, traballano, ma non si rompono e non si rovesciano.

Clacson, allarmi e sirene si scatenano e mi assordano.

Cerco di alzarmi, ma sento un tremendo dolore alla testa, alla gamba sinistra e alla spalla destra; ricado sul pavimento e striscio di lato, cercando di tenermi lontano dall'appiccicoso liquido viola. Non per paura di ciò che potrebbero farmi i prodotti chimici, ma perché nella pozza di liquido sul pavimento sarebbe visibile il contorno del mio corpo. Puntini neri mi ballano davanti agli occhi e capisco di essere sul punto di perdere i sensi. Dèi e robot librati a mezz'aria accorrono nella grande sala di ricostruzione.

Negli ultimi istanti prima di perdere conoscenza, vedo entrare a grandi passi il possente Zeus, manto ondeggiante, fronte aggrottata.

Qualsiasi cosa accadrà in seguito, accadrà senza di me. Poso la fronte sul freddo pavimento, chiudo gli occhi e mi lascio travolgere dalle tenebre.

 

22

COSTA DI CHRYSE PLANITIA

 

«Ho ucciso il mio amico, Orphu di Io» disse Mahnmut a William Shakespeare.

I due camminavano nei quartieri lungo la riva del Tamigi. Mahnmut sapeva che era la tarda estate dell'AD 1592, ma non sapeva come mai lo sapesse. Il fiume era pieno di chiatte, traghetti e imbarcazioni fluviali dal basso albero maestro. Al di là degli edifici Tudor e dei cadenti caseggiati sulla riva nord, si alzavano una moltitudine di campanili londinesi e alcune torri che parevano; distorte: una foschia di calore incombeva sul fiume e dietro le catapecchie su entrambi i lati.

«Avrei dovuto salvare Orphu, ma non ci sono riuscito» disse Mahnmut. Doveva camminare velocemente per tenere il passo del drammaturgo.

Shakespeare era un uomo dal fisico compatto, quasi sulla trentina, affabile e vestito in un modo più dignitoso di quanto Mahnmut non si sarebbe aspettato da un attore e commediografo. Il suo viso, un ovale affilato, con l'attaccatura dei capelli che già si ritraeva, sfoggiava i favoriti e quattro peli di barba e di baffetti sottili, forse il tentativo di un vero onor del mento. Shakespeare aveva capelli castani, occhi di un verde grigiastro e indossava un farsetto nero che lasciava vedere il largo colletto morbido della camicia bianca e le penzolanti stringhe bianche. All'orecchio sinistro portava un cerchietto d'oro.

Mahnmut avrebbe voluto fargli mille domande (cosa scriveva adesso? com'era la vita in questa città che presto sarebbe stata sopraffatta dalla pestilenza? qual è la struttura nascosta dei sonetti?) ma riusciva solo a parlare di Orphu.

«Ho cercato di salvarlo» spiegò. «Il reattore del Dark Lady si è spento e le batterie sono morte a meno di cinque chilometri dalla costa. Cercavo un canale d'accesso in una delle numerose grotte lungo la scogliera, un posto dove nascondere il sommergibile.»

«Il Dark Lady ripeté Shakespeare. «È il nome della tua nave?»

«Sì.»

«Continua, prego.»

«Orphu e io parlavamo delle facce di pietra. Era notte, ci avvicinavamo alla costa con la copertura del buio, ma usavo il periscopio a visione notturna e descrivevo al mio amico le facce di pietra. Lui era vivo. La nave forniva O2 appena sufficiente per lui»

«O2?»

«Aria» spiegò Mahnmut. «Come ho detto, gli descrivevo le grandi teste di pietra...»

«Grandi teste di pietra? Statue?»

«Monoliti alti circa venti metri» disse Mahnmut.

«Hai riconosciuto il sembiante della statua? Era uno che conoscevi o forse un famoso sovrano o un conquistatore?»

«Mi trovavo troppo lontano per distinguere i particolari» disse Mahnmut.

Erano giunti a un ampio ponte di varie campate, sovrastato da edifici a tre piani. Un passaggio largo circa quattro metri correva sotto gli edifici come una strada in un tunnel; in quel momento, pedoni in abiti variopinti schivavano una massa di pecore spinte a nord nella città. Lungo tutto il passaggio, teste umane (alcune secche e mummificate, altre ridotte quasi al solo teschio, a parte ciuffi di capelli o brandelli di carne putrefatta, altre sorprendentemente fresche, tanto da mostrare ancora un tocco di rosso sulle guance o sulle labbra) erano infilate su pali.

«Cos'è questa roba?» chiese Mahnmut. Con le parti organiche provava un senso di nausea.

«Il ponte di Londra» disse Shakespeare. «Dimmi cos'è accaduto al tuo amico.»

Stanco di guardare dal basso in alto il drammaturgo, Mahnmut salì sul muricciolo di pietra che fungeva da parapetto. Vedeva a est una torre minacciosa e pensò che fosse la famosa Torre del Riccardo III. Sapeva di sognare o d'essere in punto di morte per mancanza d'aria; si augurò che il sogno non finisse prima che lui avesse la possibilità di porre a Shakespeare un paio di domande. «Hai già iniziato a scrivere i sonetti, mastro Shakespeare?»

Il drammaturgo sorrise e guardò il fetido Tamigi; poi si girò a guardare la puzzolente città. Dappertutto c'erano liquami, nonché carcasse di cavalli e di bestiame che marcivano nelle piane di fango, mentre un forte effluvio di pezzi di pollo sanguinolenti rifluiva da canali di scolo aperti e aleggiava in acque stagnanti. Mahnmut aveva in pratica spento il proprio olfatto. Non capiva come quell'uomo, col naso in funzione a tempo pieno, potesse sopportare la puzza.

«Come sai del mio esperimento con i sonetti?» chiese Shakespeare.

Mahnmut imitò come meglio poteva una scrollata di spalle umana. «Ho tirato a indovinare. Allora hai cominciato a scriverli.»

«Ho preso in considerazione l'idea di giocare con quella forma letteraria» ammise il drammaturgo.

«E chi è il Giovane dei sonetti?» chiese Mahnmut, quasi incapace di respirare all'idea di risolvere l'antico mistero. «Henry Wriothesley, conte di Southampton?»

Shakespeare batté le palpebre, sorpreso, e guardò con attenzione il moravec. «A quanto pare mi segui da presso in simili cose, piccolo Calibano.»

Mahnmut annuì. «Allora Wriothesley è il Giovane dei sonetti?»

«Sua Signoria avrà visto diciannove anni questo ottobre e la peluria sul suo labbro superiore, dicono, si è mutata in ispido pelo» replicò il drammaturgo. «Non è più un giovane.»

«William Herbert, allora» suggerì Mahnmut. «Ha solo dodici anni e fra nove diventerà terzo conte di Pembroke.»

«Conosci la data della futura successione e investitura?» chiese Shakespeare, ironico. «Mastro Calibano naviga forse anche il mare del tempo, oltre l'oceano di Marte di cui parla?»

Mahnmut era troppo esaltato dalla soluzione del mistero per rispondere a quelle parole. «Dedicherai il grande volume in-folio del 1623 a William Herbert e a suo fratello; e quando i tuoi sonetti saranno stampati, li dedicherai a "Mr WH".»

Shakespeare fissò il moravec come se fosse un sogno causato dalla febbre. Mahnmut avrebbe voluto dire: "No, sei tu il sogno di un cervello in punto di morte, mastro Shakespeare, non io." Invece disse: «Penso solo che sia interessante che tu abbia come amante un giovanotto o un ragazzo».

Fu sorpreso dalla reazione del poeta: Shakespeare si girò, estrasse dalla cintura un pugnale e lo tenne sotto la testa del moravec. «Hai un occhio, piccolo Calibano, dove possa affondare la mia lama?»

Attento a non premere la carne sintetica sulla punta della lama, Mahnmut scosse appena la testa e disse: «Chiedo scusa. Sono estraneo alla tua città, al tuo paese e alle usanze locali».

«Vedi quelle tre teste impalate sul ponte?» chiese Shakespeare.

Mahnmut spostò lo sguardo, senza muovere la testa. «Sì.»

«A quest'ora della scorsa settimana erano estranee alle nostre usanze» mormorò il poeta.

«Ho colto il punto» disse Mahnmut.

Shakespeare rimise il pugnale nel fodero di cuoio. Mahnmut ricordò che il drammaturgo era un attore, abituato a infiorettare ed esagerare i gesti, anche se il pugnale non era un oggetto scenico. D'altra parte, la reazione di Shakespeare non era stata una smentita alla precedente affermazione di Mahnmut.

Tutt'e due guardarono verso il fiume. Il sole, incredibilmente grosso e arancione e basso, incombeva sulla foschia del fiume verso occidente. Shakespeare parlò sottovoce: «Se scrivo quei sonetti, Calibano, lo faccio per esplorare i miei fallimenti, le debolezze, i compromessi, le presunzioni e le tristi ambiguità, nel modo in cui, dopo una baruffa di taverna, si sonda la cavità insanguinata dove c'era un dente. Come hai ucciso il tuo amico, quell'Orphu di Io?».

Mahnmut impiegò un secondo per afferrare la domanda. «Non sono riuscito a portare il Dark Lady all'imboccatura della grotta che avevo visto lungo la costa» disse. «Ho provato e ho fallito. Il reattore del sommergibile si è spento all'improvviso. Il Lady si è arenato in meno di quattro braccia d'acqua, a tre chilometri dalla grotta. Ho cercato di svuotare tutte le casse di zavorra per farlo piegare sul fianco, in modo da liberare il portello della stiva e arrivare al mio amico, ma ormai il sommergibile era incagliato.»

Guardò il poeta. Shakespeare pareva attento. Gli edifici sul ponte, alle sue spalle, erano arrossati dal tramonto sul Tamigi. «Sono uscito» riprese Mahnmut «e sono passato su O2 interno; mi sono tuffato per ore. Ho usato palanchini e l'acetilene rimanente e i manipolatori, ma non sono riuscito ad aprire il portello della stiva, non sono riuscito a portare via i detriti dal corridoio di accesso alla stiva allagato. Orphu è stato per un poco sull'intercom, ma poi l'ho perduto perché i sistemi interni hanno smesso di funzionare. Lui non è mai parso preoccupato, mai spaventato, solo stanco, molto stanco. Fino a quando l'intercom ha smesso di funzionare. Era buio. Forse ho perduto i sensi. Forse in questo stesso momento sono sul fondo dell'oceano marziano, morto come Orphu o moribondo, e sogno questa conversazione, mentre le ultime cellule del mio cervello organico si spengono.»

«Ti rendono prezioso il petto i cuori» disse Shakespeare, con voce monotona «che, per assenza, credevi periti: vi regna amore tutti i suoi valori, e quelli che pensavi seppelliti.»

 

Mahnmut riprese conoscenza e si trovò sulla spiaggia, nella fioca luce del mattino marziano, circondato da decine di piccoli ometti verdi. Erano chini su di lui, lo fissavano con piccoli occhi neri incassati nella faccia verde, trasparente; arretrarono di un paio di passi, quando Mahnmut si alzò a sedere con un lieve ronzio di servomeccanismi.

Erano davvero piccoli! Mahnmut superava appena il metro, ma quelle... persone... erano ancora più basse. Gli omini verdi erano umanoidi nella forma, molto più di Mahnmut, ma non realmente umani nell'aspetto. Bipedi, con braccia e gambe, non avevano orecchie e naso e neppure bocca. Non portavano indumenti e avevano solo tre dita per mano; somigliavano piuttosto a personaggi di fumetti che Mahnmut aveva visto negli archivi dell'Età Perduta. Erano asessuati e la loro carne (se carne era) trasparente, come morbida plastica, rivelava l'interno privo di organi e di vene, pieno di verdi globuli fluttuanti e di pezzi informi, particelle e grumi, che si muovevano su e giù in un modo non molto diverso dalle bolle della Lava Lamp tanto cara al moravec, ora abbandonata nel sommergibile affondato.

Altri piccoli omini verdi scendevano lungo un sentiero nella parete della scogliera. Mahnmut vedeva l'ultima faccia di pietra messa in verticale, circa un chilometro più a est. Un'altra era visibile, legata con funi, di piatto su una lunga pedana di legno su rulli, molto sopra il bordo della scogliera. I lineamenti del viso non si distinguevano.

"Al diavolo le teste" pensò Mahnmut. Si girò e scrutò il mare e la spiaggia, dove giungevano tiepide onde, rotolando con la regolarità di un metronomo. "Dov'è il Dark Lady?"

Eccolo lì, duecento metri al largo: vedeva chiaramente parte dello scafo superiore e della sovrastruttura di comando. L'ecometro e il sonar erano morti prima del sommergibile e Mahnmut aveva commesso il reato forse più antico e più doloroso di un capitano di mare: aveva fatto arenare la nave. Era in O2 interno, mentre lavorava furiosamente per liberare il portello della stiva sul fondo marino sabbioso e fangoso, ma di sicuro aveva perduto i sensi ed era stato spinto a riva durante la notte.

"Orphu!" pensò. Per quanto tempo era rimasto incosciente, sognando Shakespeare? Dal cronometro interno seppe che erano trascorse un po' meno di quattro ore.

"Potrebbe essere ancora vivo, là sotto." Si diresse verso l'acqua, con l'intenzione di camminare sul fondo fino al sommergibile arenato.

Piccoli omini verdi, una decina, si frapposero tra lui e il mare e gli bloccarono il passo. Poi venti. Poi cinquanta. Altri cento lo circondarono sulla spiaggia.

Mahnmut non aveva mai alzato mano o manipolatore, spinto dall'ira, ma adesso era pronto a lottare, a dare pugni e manate e calci per farsi largo tra quella folla, se necessario. Prima però avrebbe cercato di convincerli a parole. «Toglietevi di mezzo» disse, con voce amplificata al massimo, che risuonò forte nell'aria marziana. «Per favore.»

Gli occhietti neri nelle facce verdi lo fissarono. Ma gli omini non avevano orecchie per ascoltare né bocca per parlare.

Mahnmut rise tristemente e iniziò a farsi strada a spinte, sapendo che, per quanto potesse essere più forte di loro, sarebbe stato sopraffatto dal semplice numero: si sarebbero ammassati su di lui e l'avrebbero fatto a pezzi. Il pensiero di una simile violenza, sua o loro, gli provocò una morsa d'orrore nelle parti interne organiche.

Un piccolo ornino verde alzò la mano come per dire: "Alt!". Mahnmut esitò. Tutte le teste verdi si girarono a destra e guardarono in fondo alla spiaggia. La folla si divise come per magia e un piccolo omino verde, che pareva esattamente uguale agli altri, si avvicinò, si fermò davanti a Mahnmut e protese le mani come se reggesse una coppa invisibile o pregasse.

Mahnmut non capì. E nemmeno voleva sprecare tempo a parlamentare col linguaggio dei segni, anche se avesse potuto. Forse Orphu era ancora vivo.

Si mosse per scostare l'ometto, ma una ventina di altri si strinsero dietro l'emissario e bloccarono la strada. Mahnmut avrebbe dovuto combattere subito o rivolgere l'attenzione alla gesticolante figura verde.

Emise un sospiro non molto diverso da un gemito e si fermò, imitando il gesto a mani protese del piccolo omino verde.

L'emissario scosse la testa, toccò il braccio sinistro di Mahnmut (i sensori sia organici sia moravec gli dissero che le verdi dita erano fredde) e lo abbassò, poi gli strinse il destro. Tirò più vicino a sé la mano di Mahnmut, ancora più vicino, finché le dita e la palma del moravec non furono di piatto contro la fredda carne trasparente.

Il piccolo omino verde tirò con forza maggiore, spingendosi avanti e tirando la mano di Mahnmut, in modo che la palma incavò il torace piatto, premendo in dentro la carne, e... penetrò.

Mahnmut avrebbe ritratto la mano, sconvolto nel vedere una cosa simile, ma il piccolo omino verde non allentò la presa né la forte trazione. Mahnmut vide la sua stessa mano scura entrare nel fluido del torace dell'omino e sentì la carne chiudersi saldamente intorno all'avambraccio come una guarnizione sotto vuoto.

Tutti i piccoli omini verdi si portarono la mano al petto.

Con le dita allargate Mahnmut incontrò un oggetto solido, quasi sferico. Vide un grumo verde, circa delle dimensioni di un cuore umano, al centro del petto dell'omino. Con la palma sentì le pulsazioni.

Il piccolo omino verde tirò di nuovo e Mahnmut capì. Chiuse le dita organiche intorno a quell'organo.

 

COSA

TI

OCCORRE?

 

Sorpreso, Mahnmut quasi ritrasse di scatto la mano. Si costrinse a lasciare le dita dov'erano, avvolte intorno al grumo-cuore verde del piccolo omino. Aveva sentito la domanda fluirgli nel cervello in impulsi, palpiti, vibrazioni. Non in parole, sicuramente non in inglese né francese né russo né cinese né primario né altre lingue che avesse mai usato. Non sapeva come rispondere allo stesso modo, perciò disse: «Devo salvare il mio amico intrappolato nel sommergibile laggiù».

Centocinquanta teste verdi si girarono all'unisono a guardare il sommergibile. Trecento occhi neri lo fissarono per alcuni secondi e tornarono a guardare Mahnmut.

 

DICCI

COL

PENSIERO

DOVE

SI TROVA

 

Mahnmut chiuse gli occhi e formò nella mente l'immagine di Orphu nella stiva bloccata, l'immagine del portello, l'immagine del corridoio interno. La vibrazione-risposta gli palpitò su per il braccio.

 

ASPETTA

 

Mahnmut sentì all'improvviso la mano libera e con un chiaro rumore di appiccicaticcio la ritrasse dalla morsa della carne del piccolo omino verde. Quest'ultimo crollò allora sulla sabbia, rotolò sul fianco e giacque immobile; i globuli verdi nel suo corpo cessarono di fluire, gli occhi neri si sbiancarono e rimasero fissi e ciechi, le dita si contrassero una volta e rimasero inerti. I centoquaranta e passa altri omini verdi si girarono e partirono con efficienza al salvataggio di Orphu.

Mahnmut crollò sulla sabbia accanto a quello che era chiaramente il cadavere dell'emissario. "Madre di Dio" pensò. "Comunicare li uccide."

Dal ripido sentiero della scogliera continuavano a scendere altri piccoli omini verdi. Duecento. Trecento. Seicento. Mahnmut smise di contarli e, trascurando l'ultimo consiglio del defunto emissario, entrò a guado nell'acqua e sguazzò nella leggera risacca fino al sommergibile arenato. Scese nella camera d'equilibrio della torretta e passò nella nicchia ambientale, controllando se qualche batteria era tornata in funzione. Nessuna funzionava. Dalla camera d'equilibrio interna passò nel corridoio allagato, andò nella stiva e nuotò fino alla paratia schiacciata. Da quella parte non sarebbe mai arrivato a Orphu. Tornò nella cabina di comando, provò di nuovo l'intercom. Silenzio. Ricuperò l'edizione rilegata dei Sonetti,al sicuro in un involucro impermeabile, infilò in uno zaino varie attrezzature (il trasmettitore che aveva preparato per Orphu nel caso fosse riuscito a portarlo fuori, i dischi col giornale di bordo, copie a stampa di mappe, una pistola lanciarazzi, batterie) e risalì sulla torretta.

I piccoli omini verdi avevano portato giù grosse bobine di cavo nero che utilizzavano per mettere in posizione sulla scogliera la testa di pietra e varie decine di rulli adoperati per muovere l'enorme pedana. Lavoravano con incredibile efficienza: alcuni raggiungevano a nuoto il sommergibile e agganciavano cavi sopra e sotto la linea dell'acqua, altri conficcavano in profondità nella sabbia barre metalliche fra i rulli e ne inserivano altre nella parete rocciosa della scogliera, montando pulegge di fortuna e facendo correre i cavi dalla spiaggia al sommergibile e viceversa.

Il sommergibile era pesante, soprattutto per il reattore pieno d'acqua e per la stiva e i corridoi allagati: Mahnmut non riusciva a immaginare come gli omini verdi potessero smuoverlo.

Ma quelli ci riuscirono.

Nel giro di venti minuti centinaia di cavi andavano dal sommergibile alla spiaggia. Gli omini verdi avevano capito che si trattava di una missione di salvataggio: per prima cosa esercitarono una forte trazione laterale e tesero i cavi come una nera ragnatela fra la spiaggia e la scogliera a est, per inclinare il sommergibile sul lato destro.

Mahnmut avrebbe voluto aiutarli a tirare i cavi, ma si rese conto che avrebbe dato solo fastidio. Allora aspettò sullo scafo del Dark Lady,spostandosi mentre il sommergibile si spostava, e non appena il portello della stiva fu libero dal fango, si tuffò nell'acqua bassa, portando un palanchino a batteria e tenendo al massimo le lampade a spalla.

Le paratie scorrevoli dello scomparto nello scafo erano contorte e parzialmente fuse dal calore dell'ingresso nell'atmosfera; Mahnmut riuscì ad aprirle solo di qualche centimetro, prima che si bloccassero completamente. Ebbe voglia di piangere per la frustrazione e prese a pugni lo scafo, con furia impotente; all'improvviso ebbe l'impressione di non essere solo e si girò nell'acqua resa torbida dai sedimenti.

Sei piccoli omini verdi erano sul fondo del mare, lì vicino, e lo guardavano. Pareva non avessero bisogno di respirare.

Restio a "comunicare" di nuovo con loro e ucciderne uno, Mahnmut indicò la parte forzata del portello, poi la superficie; spiegò a gesti che occorreva srotolare un cavo, agganciarlo alla contorta flangia metallica e tirare.

I sei omini annuirono tutti insieme e risalirono in superficie, tre metri più in alto.

Un minuto dopo tornarono in sessanta, alcuni tirando un cavo, altri con barre nere sfilate dai rulli usati per movimentare le bizzarre teste di pietra. Lavorarono di nuovo con grande efficienza, una squadra a spostare di qualche centimetro le paratie scorrevoli sul lato opposto dello scomparto della stiva, altri a passarvi un cavo come filo nella cruna di un ago. In pochi minuti decine di robusti cavi passavano sotto le paratie bloccate. Gli omini verdi risalirono in superficie, facendo segno a Mahnmut di seguirli.

Mahnmut respirò di nuovo aria, sentì la luce del sole sul polimero e sulla pelle e salì sullo scafo del Dark Lady,mentre centinaia di piccoli omini verdi agganciavano i cavi al sistema di pulegge sulla scogliera e tiravano. E aumentavano la trazione.

Il sommergibile scricchiolò, lo scafo gemette, la fanghiglia si smosse; il Dark Lady ruotò di altri trenta gradi a dritta e si capovolse, mostrò all'aria il ventre e puntò a riva la poppa. Le paratie mobili in lega della stiva si piegarono, ma non si aprirono.

Mahnmut le assalì di nuovo col palanchino a batteria. Il metallo contorto non cedette. Il cannello ad acetilene aveva esaurito ossigeno e corrente.

I piccoli omini verdi strapparono con gentilezza Mahnmut da quella inutile fatica. Mahnmut si liberò di loro e tornò, barcollando sullo scafo viscido, verso la stiva, deciso a forzare le paratie contorte e bloccate finché non avesse consumato le sue stesse celle energetiche, ma vide allora che i POV non avevano terminato.

I piccoli omini verdi intrecciarono cavi fino a ottenerne uno solo da cinquanta. Poi lo passarono su per la parete della scogliera e attraverso una serie di pulegge più grosse del normale collegate a un traliccio di barre di supporto infisse nella roccia. Infine tesero il cavo fino alla gigantesca testa di pietra, lo avvolsero decine di volte intorno al collo e lo legarono.

Cinque piccoli omini verdi vennero avanti, spinsero in acqua Mahnmut e lo allontanarono dal sommergibile.

Mahnmut non riusciva a credere a ciò che vedeva. Aveva presunto che le grandi facce di pietra fossero sacre, per i piccoli omini verdi, e che il disporle dritte lungo la costa fosse un imperativo religioso o psicologico che richiedesse tutto il loro tempo, energie e devozione, essendo le teste di pietra la loro unica priorità. Be', si era sbagliato.

Centinaia di figure verdi girarono faticosamente la testa di pietra sulla pedana e la spinsero giù dalla scogliera.

La testa di pietra, ora faccia alla scogliera, cadde per sessanta metri, colpì gli scogli alla base della parete rocciosa e si fracassò in decine di pezzi, ma il cavo vibrò nelle pulegge, le barre saltarono via dalla roccia e l'altro capo del cavo strappò le paratie scorrevoli dello scomparto e le lanciò in aria a una cinquantina di metri, prima di tirarle fin sulla scogliera e di nuovo giù.

Centinaia di piccoli omini verdi nuotarono verso il sommergibile, ma Mahnmut arrivò per primo e accese di nuovo i proiettori.

Nella stiva aveva lasciato tre oggetti, compreso il grosso Congegno che avrebbe dovuto portare su Olympus Mons. E infilato nella nicchia, ammaccato e sfregiato e silenzioso, c'era Orphu di Io.

Mahnmut usò l'ultima energia nel palanchino per strappare le flange che imprigionavano il moravec e le cinture di sicurezza. La grande massa di Orphu cedette, libera, e sciaguattò nell'acqua. Ora la stiva era aperta in alto, il sommergibile giaceva sul dorso, ma non c'era modo per estrarre il moravec da quel pozzo parzialmente pieno d'acqua.

Altri dieci omini verdi saltarono giù con Mahnmut, trovarono punti d'aggancio nel guscio butterato e crepato di Orphu, infilarono a forza braccia e gambe sotto la sagoma irregolare del moravec. Trovarono un punto d'appoggio e fecero leva tutti insieme. Lavorando in silenzio, senza mai farlo scivolare o lasciarlo cadere, tirarono fuori Orphu, avvolsero intorno a lui dei cavi, lo trascinarono lungo lo scafo ricurvo del Dark Lady,lo calarono in acqua, infilarono sotto di lui dei rulli galleggianti che legarono insieme per formare una zattera e la spinsero dolcemente fin sulla spiaggia.

I piccoli omini verdi, ora almeno un migliaio sulla spiaggia, si spostarono e lasciarono spazio a Mahnmut che cercava di capire se Orphu era vivo o morto. Il moravec di Io giaceva immobile sulla sabbia rossa, come un trilobite fuori misura, ammaccato dalle tempeste e gettato a riva in un'oscura epoca preistorica terrestre.

Scrutando il cielo alla ricerca di cocchi volanti che parevano in ritardo sul solito orario, Mahnmut tolse dallo zaino e dalle sacche impermeabili le attrezzature ricuperate sul Dark Lady. Allineò per terra cinque piccole e potenti batterie, le collegò in serie e inserì il cavetto in uno dei superstiti connettori input di Orphu. Non ci furono reazioni dal moravec, ma la spia luminosa virtuale indicava che la corrente fluiva da qualche parte. Allora Mahnmut strisciò sul guscio ricurvo di Orphu (meravigliandosi nel vedere chiaramente per la prima volta, nella forte luce del mattino, i danni fisici) e avvitò nella presa il ricevitore radio. Provò il collegamento (ottenne un ronzio d'onda portante) e accese il microfono. «Orphu?»

Nessuna risposta.

«Orphu?»

Silenzio. Le decine di piccoli omini verdi guardavano impassibili.

«Orphu?»

Per cinque minuti continuò a chiamare ogni dieci secondi, su tutte le frequenze, ricontrollando il collegamento del ricevitore. L'intercom riceveva. Era Orphu a non rispondere.

«Orphu?»

Non c'era un vero silenzio. Dai ricettori esterni Mahnmut captava più rumori ambientali di quanto non gli fosse mai accaduto in vita sua: il lambire di onde sulla sabbia, il lieve rumore dei piccoli omini verdi che di tanto in tanto cambiavano posizione, le migliaia di sfumature di vibrazioni in una così densa atmosfera planetaria. Erano solo l'intercom e Orphu a restare morti.

«Orphu?» chiamò di nuovo Mahnmut. Controllò il cronometro. Ripeteva il tentativo da più di trenta minuti. Con riluttanza, lentamente, scese dal guscio dell'amico, mosse quindici passi sulla spiaggia e si sedette sulla sabbia bagnata, dove giungeva l'acqua. I piccoli omini verdi gli lasciarono spazio e poi lo circondarono di nuovo a rispettosa distanza.

Mahnmut li guardò, guardò la muraglia di piccoli corpi verdi, di facce inespressive, d'imperturbabili occhi neri. «Non avete niente da fare?» disse, con voce che suonò strana e soffocata ai suoi stessi ricettori uditivi. Forse era l'acustica dell'atmosfera marziana.

I POV non si mossero. La testa di pietra era ridotta in pezzi alla base della scogliera, ma i piccoli omini verdi non ci badavano. Una ventina di cavi andavano ancora al sommergibile immobile nei bassi frangenti.

Mahnmut si sentì travolgere da un'improvvisa e pesantissima ondata, una sensazione di perdita e di nostalgia. Nei tre decenni gioviani (più di trecento anni marziani) d'esistenza aveva avuto tre amici intimi. Primo, il Dark Lady,che era solo un macchinario semisenziente, ma per il quale lui era stato progettato e nel quale si adattava alla perfezione; il Lady era morto. Secondo, il suo compagno d'esplorazione, Urtzweil, ucciso quindici anni gioviani prima, metà della sua vita fa. E ora Orphu.

Mahnmut si trovava a centinaia di milioni di chilometri da casa, da solo, disadatto, non addestrato e impreparato per la missione che gli era stata affidata. Come avrebbe percorso i cinquemila e più chilometri fino a Olympus Mons per installare il Congegno? E se ci fosse riuscito? Forse Koros III sapeva cosa fare lassù, il vero motivo della missione, ma luì, il modesto Mahnmut, ex capitano del Dark Lady,non aveva nemmeno un fottutissimo indizio.

"Smettila di piangerti addosso, idiota" pensò. Diede un'occhiata ai POV. Di sicuro era un'illusione, ma gli parevano giù di morale, perfino rattristati. Non avevano pianto la morte di uno della loro specie: come potevano ora mostrare quell'emozione per la fine di un moravec, una macchina senziente che neppure si erano mai sognati che esistesse?

Mahnmut si rese conto che avrebbe dovuto comunicare di nuovo con i piccoli omini verdi, ma odiava il pensiero di dover infilare la mano nel torace di una di quelle creature e dì ucciderla per parlarle. No, l'avrebbe fatto solo quando sarebbe stato indispensabile.

Si alzò, tornò al cadavere di Orphu e iniziò a staccare le batterie.

«Ehi, non ho ancora finito di mangiare» disse Orphu nell'intercom.

Mahnmut fu così sorpreso da fare realmente un salto indietro. «Gesù, sei vivo!»

«Quanto può essere "vivo" uno di noi moravec.»

«Dio ti maledica!» sbottò Mahnmut, tra il riso e il pianto, ma soprattutto con la voglia di prendere a pugni quel granchio tutto ammaccato. «Perché non hai risposto? T'ho chiamato, chiamato, chiamato, chiamato...»

«Cosa vuoi dire? Ero in ibernazione. Da quando l'aria e l'energia si sono esaurite sul Dark Lady. Ti aspetti che chiacchieri con te, mentre sono in ibernazione?»

«Cos'è questa stronzata dell'ibernazione?» disse Mahnmut, girando intorno a Orphu. «Non ho mai saputo che i moravec si ibernassero.»

«Voi moravec di Europa non vi ibernate?»

«No, è ovvio.»

«Be', cosa posso dire? Lavorando da soli nel toro di radiazioni di Io o in qualsiasi altro punto dello spazio gioviano, noi moravec da vuoto spinto a volte incappiamo in situazioni che ci impongono di spegnere tutto per un poco, finché qualcuno non viene a ripararci e a ricaricarci. Succede. Non spesso, ma succede.»

«Quanto saresti potuto restare in... ibernazione?» chiese Mahnmut, sentendo l'ira mutarsi in una sorta di vertigine.

«Non molto. Circa cinquecento ore.»

Mahnmut estese le dita nei cuscinetti manipolatori, raccolse un sasso e lo tirò a rimbalzare sul guscio di Orphu.

«Hai sentito un rumore?» disse il moravec di Io.

Mahnmut sospirò, si sedette sulla sabbia accanto alla parte di Orphu che un tempo ospitava gli occhi e cominciò a descrivere la situazione.

Orphu convinse Mahnmut che era necessario comunicare di nuovo con i POV mediante un interprete. Anche lui odiava quanto Mahnmut l'idea di causare la morte di uno dei piccoli omini verdi (soprattutto dal momento che i POV l'avevano salvato) ma sostenne che per la missione dovevano assolutamente comunicare, e in fretta.

Mahnmut aveva riprovato a parlare con loro, usando il linguaggio dei segni e facendo disegni sulla sabbia (la mappa della costa dove si trovavano e il vulcano che dovevano raggiungere) e aveva perfino tentato la versione idiota di chi parla una lingua straniera... aveva urlato. Tutti i POV l'avevano fissato con calma, ma non avevano reagito. Alla fine uno di loro prese l'iniziativa: venne avanti, afferrò la mano di Mahnmut e se la tirò al petto.

«Lo faccio?» chiese Mahnmut a Orphu, nell'intercom.

«Devi farlo.»

Mahnmut trasalì, mentre si sentiva tirare la mano dentro la carne cedevole, mentre con le dita circondava e poi stringeva quello che poteva essere solo un cuore pulsante nel tiepido, sciropposo fluido interno del piccolo omino verde.

 

COME

POSSIAMO

AIUTARTI?

 

Mahnmut avrebbe voluto porre un centinaio di domande, ma Orphu lo aiutò a dare la precedenza alle cose necessarie.

«Il sommergibile» disse. «Dobbiamo metterlo fuori vista, prima che un cocchio sorvoli la zona.»

Mediante una combinazione di linguaggio e di immagini, Mahnmut trasmise il pensiero di spostare il sommergibile un chilometro a ovest e di spingerlo nella grotta della scogliera che sporgeva sul mare come un promontorio.

 

 

Decine e decine di piccoli omini verdi si misero subito al lavoro, mentre Mahnmut continuava a tenere la mano nel torace dell'interprete. Conficcarono sbarre nella sabbia, agganciarono altri cavi al Dark Lady e montarono pulegge. L'interprete, mano di Mahnmut intorno al cuore, attese.

«Voglio chiedergli cosa sono quelle teste di pietra» disse Mahnmut nell'intercom. «Voglio chiedergli chi sono loro e perché fanno questo.»

«No, finché non abbiamo trovato il modo di arrivare a Olympus Mons» insistette Orphu.

Mahnmut sospirò e trasmise la richiesta di aiuto per raggiungere il grande vulcano. Trasmise immagini di Olympus Mons come l'aveva visto dall'orbita e chiese se c'era un modo per viaggiare o per terra sugli altopiani di Tempe Terra o a est lungo la costa del mare Tethys per più di quattromila chilometri e poi a sud lungo la costa di Alba Patera fino a Olympus Mons.

 

QUESTO

NON

È

POSSIBILE

 

«Cosa significa?» chiese Orphu, quando Mahnmut gli riferì la risposta. «Non possono aiutarci o non si può viaggiare a est da quella parte?»

Mahnmut aveva provato una sorta di sollievo, quando l'interprete POV aveva in pratica sancito la fine della loro missione, ma ora trasmise la richiesta di Orphu.

 

IMPOSSIBILE

PER TE

VIAGGIARE

A EST

IN SEGRETO

PERCHÉ

GLI ABITANTI

DI OLIMPO

TI VEDREBBERO

E TI

UCCIDEREBBERO

 

«Chiedigli se esiste un altro modo» disse Orphu. «Forse potremmo andare via terra, per la Kasei Valles.»

 

NO

ANDRAI

AL NOCTIS

LABYRINTHUS

VIA

FELUCA

 

«Cos'è una feluca?» chiese Orphu, quando Mahnmut gli riferì la risposta. «Suona come un dessert italiano.»

«È un'imbarcazione a due alberi con vela latina» disse Mahnmut, il cui addestramento per gli abissi di Europa includeva ogni notizia disponibile sulla navigazione dei liquidi mari terrestri. «Millenni fa era usata per bordeggiare nel Mediterraneo.»

«Chiedi quando possiamo partire.»

«Quando possiamo partire?» chiese Mahnmut, sentendo la domanda come una vibrazione lungo le dita e un solletico nella mente.

 

LA CHIATTA

DELLE PIETRE

ARRIVA

AL MATTINO.

CI SARÀ

ANCHE

LA FELUCA.

POTRAI

PARTIRE

SU QUELLA

 

«Avremo bisogno di alcune altre cose da ricuperare sul sommergibile» disse Mahnmut. Trasmise l'immagine del Congegno e di due altri oggetti rimasti nella stiva, immaginò che fossero portati a riva e nascosti nella grotta marina. Poi inviò l'immagine di POV che mettevano su rulli Orphu e lo spostavano nella stessa grotta.

Quasi in risposta, decine di piccoli omini verdi entrarono in acqua e andarono al sommergibile. Altri si avvicinarono a Orphu e iniziarono a disporre i rulli in una pedana grande quanto il moravec.

«Non credo di riuscire a tenere ancora a lungo il cuore di questo ornino» disse Mahnmut a Orphu. «Pare di stringere un cavo elettrico in tensione.»

«Lascialo, allora» disse Orphu.

«Ma...»

«Lascialo.»

Mahnmut ringraziò l'interprete... ringraziò tutti quanti... e allentò la stretta. Proprio come il primo, anche quel piccolo omino verde cadde sulla sabbia, si contorse, sibilò, si prosciugò e morì.

«Oh, Dio!» mormorò Mahnmut. Si appoggiò al guscio di Orphu. I piccoli omini verdi già sollevavano il moravec e facevano scivolare sotto di lui dei rulli.

«Cosa fanno?»

Mahnmut descrisse il cadavere dell'interprete e il lavoro intorno a lui, i preparativi per trasportare Orphu e il Congegno e altri oggetti che già arrivavano dal sottomarino; i cavi erano agganciati e centinaia di POV li tiravano da riva, trascinando il Dark Lady a ovest verso la grotta dove sarebbe stato al sicuro da occhi in volo.

«Vengo con te alla grotta» disse fiaccamente Mahnmut. Il corpo dell'interprete era come un guscio marrone, secco e raggrinzito, sulla sabbia rossa. Tutti gli organi interni si erano essiccati e il fluido era colato via, formando sotto il corpo una fanghiglia simile a sangue rosso. Gli altri piccoli omini verdi non badavano al cadavere e già cominciavano a spostare Orphu sulla sabbia verso ovest.

«No» disse Orphu. «Sai cosa devi fare.»

«Ti ho già descritto le facce, quando le ho viste dal mare.»

«Era notte e usavi il periscopio» disse Orphu. «Dobbiamo esaminarne una alla luce del giorno.»

«Quella alla base della scogliera è in pezzi» disse Mahnmut, in tono lamentoso. «La successiva si trova a un chilometro verso est. Sulla scogliera.»

«Vai avanti tu» disse Orphu. «Mi terrò in contatto con l'intercom, mentre loro mi mettono a letto. Per gran parte del cammino riuscirai a vedere come trattano il Dark Lady.»

Mahnmut ubbidì controvoglia, si diresse a est, lontano dalla folla di POV che spostavano lungo la costa il suo sommergibile morto, da Orphu sui rulli, dal fresco e dalla penombra della grotta marina.

 

La testa caduta era in troppi pezzi per distìnguerne i lineamenti. Mahnmut risalì con fatica il ripido sentiero che i piccoli omini verdi avevano disceso in scioltezza. Il sentiero era stretto e ripidissimo e scivoloso come arenaria bagnata.

In cima Mahnmut si fermò un secondo per ricaricare le batterie e guardarsi intorno. Il mare Tethys si estendeva a nord fin dove arrivava la vista. A sud, nell'entroterra, la pietra rossa lasciava posto a basse montagne rosse e, vari chilometri più a nord, al verde di foreste cespugliose ai piedi delle montagne. Anche sul sentiero c'era un po' d'erba; Mahnmut proseguì verso est, lungo il bordo della scogliera.

Si fermò a guardare la piattaforma e il buco già pronto per la testa che i piccoli omini verdi avevano sacrificato, spingendola giù dalla scogliera, per aprire le porte scorrevoli della stiva. Era approntato con cura: Mahnmut vide che il gambo alla base del collo delle grandi teste di pietra entrava di precisione nell'apposito foro nella roccia. Quei piccoli omini verdi erano abili artigiani ed esperti tagliapietre.

Mahnmut continuò verso est: scorgeva la testa successiva lungo l'orizzonte orientale. Non era progettato per camminare (il suo ruolo consisteva per lo più nell'occupare un sommergibile d'esplorazione e a volte nuotare); quando si stancò d'essere un bipede, modificò le proprie articolazioni e la spina dorsale e per un poco zampettò come un cane.

Quando giunse alla successiva testa di pietra, si fermò alla base e vide che la pietra all'altezza del collo era stata fissata con una sostanza simile al cemento. Guardò a est il sentiero che i rulli e migliaia di POV avevano creato lungo la cima della scogliera e poi a ovest, dove la folla di omini verdi aveva trainato il sommergibile e spinto Orphu fin quasi nella grotta del promontorio.

«Sei sul posto?» chiese Orphu per intercorri.

«Sì» rispose Mahnmut. «Appoggiato alla testa di pietra.»

«Com'è la faccia?»

«Si vede male, da sotto. Quasi solo labbra, mento e narici.»

«Torna giù sulla spiaggia. Quelle facce vanno guardate dal mare, per chissà quale ragione.»

«Ma...» cominciò Mahnmut, fissando il ripido precipizio, almeno un centinaio di metri dalla scogliera alla sabbia. Nella roccia scivolosa scorse un sentiero appena accennato, come nell'altro sito. «Se scendo qui e mi spezzo l'osso del collo, maledizione, è tutta colpa tua.»

«D'accordo» disse Orphu. «Sento la vibrazione, mentre mi spostano, ma non ho idea di quanto sia vicino alla grotta. Riesci a vederlo?»

Mahnmut amplificò la visione e guardò a ovest. «Solo un paio di centinaia di metri dalla sporgenza rocciosa» riferì. «Ora scendo. Sei sicuro di volere che controlli anche la testa seguente? È a un altro chilometro verso est e dall'orbita le teste parevano tutte uguali.»

«Dovremmo controllare, penso» disse Orphu.

«Così parla il moravec senza gambe» brontolò Mahnmut. Iniziò la lunga e ripida discesa verso la spiaggia.

Arretrò il più possibile, finché le basse onde non gli lambirono le gambe. La faccia era decisamente identificabile. Senza dire niente, pensieroso, camminò per un altro chilometro verso est lungo il bordo dell'acqua. La faccia seguente era identica alla prima: altera, imponente, autoritaria, sguardo fiero rivolto al mare; la scultura di pietra raffigurava il viso di un vecchio, quasi calvo sulla sommità della testa, ma con lunghi e fluenti capelli ai lati del volto segnato da rughe, occhi piccoli sotto dure sopracciglia inclinate all'ingiù, rughe agli angoli, zigomi alti, mento piccolo e deciso, labbra sottili incurvate in una smorfia, identica espressione severa.

«È un vecchio» disse Mahnmut. «Decisamente un maschio umano d'età avanzata, ma non l'ho mai visto nelle banche dati di storia.»

Per alcuni secondi ci furono solo disturbi. «Affascinante» disse Orphu. «Perché un vecchio terrestre dovrebbe meritare migliaia di teste di pietra lungo la costa marziana?»

«Non ne ho idea» disse Mahnmut.

«È della razza di quelli sui cocchi?» chiese Orphu. «Ha l'aspetto di un dio?»

«Non un dio greco» disse Mahnmut. «Più che altro assomiglia a un vecchio, potente, ma dispeptico. Ora posso tornare? Prima che un togato barbagrigia a bordo di un cocchio volante venga da queste parti e mi veda qui a bocca aperta come un turista?»

«Sì» disse Orphu. «Credo che dovresti tornare.»

 

23

FORESTA DI SEQUOIE, TEXAS

 

Odisseo non raccontò la storia dei suoi viaggi, quel mattino, durante la colazione nella verde bolla in cima al Golden Gate a Machu Picchu. Nessuno si ricordò di chiedergliela. Tutti parevano distratti, pensò Ada e ben presto capì il motivo.

Lei era distratta perché aveva dormito poco, ma aveva passato con Harman la notte più fantastica della sua vita. Già in altre occasioni aveva "fatto sesso" (quale donna della sua età non l'aveva fatto?) ma, si rese conto, non aveva mai fatto l'amore,prima. Harman era stato mirabilmente tenero eppure insistente, attento ai suoi bisogni e alle sue reazioni, senza lasciarsi dominare da esse; sensibile, ma energico. Avevano dormito un poco, rannicchiati insieme nell'angusto letto contro la ricurva parete di vetro, ma si erano svegliati spesso e i loro corpi avevano rinnovato l'atto amoroso prima che le loro menti fossero del tutto partecipi. Quando il sole aveva superato la guglia, a est di Machu Picchu, Ada si era sentita un'altra. No, non era esatto: si era sentita una persona più importante, più completa, più "giusta".

Anche Hannah, pensò Ada, si comportava in maniera insolita, quel mattino: rossa in viso, estremamente vigile, attenta a ogni commento fatto dall'uomo che si era presentato come Odisseo, le lanciava di tanto in tanto un'occhiata e subito distoglieva lo sguardo, quasi arrossiva. "Oddio, ho capito" pensò Ada verso la fine della colazione, quando erano quasi pronti a partire in volo verso nord per andare a villa Ardis. "Hannah ha dormito con Odisseo."

Per un minuto non riuscì a crederci: mai, durante gli anni della loro amicizia, Hannah aveva accennato a legami sentimentali o a faccende sessuali; ma poi colse le occhiate che Hannah lanciava al barbuto Odisseo e i segnali fisici (la ragazza sedeva di fronte a Odisseo, ma col corpo reagiva ancora a ogni mossa di lui, muoveva nervosamente le mani, si teneva inclinata in avanti) e capì che era stata una notte intensa, nei domi in cima al Golden Gate.

Daeman e Savi erano chiaramente gli unici spaiati. Daeman, dello stesso umore della sera prima, continuava a fare domande sul bacino del Mediterraneo, ansioso di proseguire con Harman e Savi quell'avventura, ma anche nervoso. Savi pareva pensierosa e preoccupata, quasi afflitta, e aveva fretta di partire.

Harman era silenzioso e, pensò Ada, ovviamente ancora concentrato su di lei, anche se agli altri la cosa non risultava altrettanto ovvia. Colse un paio di volte la sua occhiata e si sentì scaldare il cuore quando lui le sorrise. Una volta le mise la mano sulla coscia, sotto il tavolo, e le diede due colpetti.

«Allora, qual è il piano?» chiese Daeman, mentre terminavano la colazione a base di croissant caldi (Ada aveva guardato con stupore Savi metterli in forno, poco prima) e burro, fragole, succo di frutta appena fatto e caffè forte.

«Il piano è di portare a villa Ardis Odisseo, Hannah e Ada... siamo in ritardo, se vogliamo arrivarci prima che sia buio... e poi di andare al bacino del Mediterraneo, tu, Harman e io» disse Savi. «Sei sempre pronto a partecipare alla spedizione, Daeman Uhr

«Pronto» confermò Daeman. A Ada non parve pronto, ma stanco o con i postumi della sbornia o tutt'e due.

«Allora raccogliamo la nostra roba e muoviamo le chiappe» disse Savi.

 

Partirono con lo stesso sonie su cui erano arrivati, anche se Hannah disse a Ada che c'erano altre macchine volanti in una delle stanze agganciate alla torre sud del ponte. Il piccolo sonie aveva nella parte posteriore un sorprendente numero di scomparti, utili per gli zaini di Savi e l'altro loro equipaggiamento; ma era Odisseo quello che portava più bagagli, compreso un fodero con una corta spada, lo scudo, cambi d'abito e due giavellotti come quelli che aveva usato nella caccia agli Uccelli Terrore. Savi si distese nell'incavatura centrale anteriore e si mise ai luminosi comandi virtuali, con Ada alla sinistra e Harman alla destra. Daeman, Odisseo e Hannah occupavano le incavature posteriori; Ada girò la testa per dare un'occhiata e vide la sua amica tenere per mano Odisseo.

Volarono a est, sopra alte montagne, e poi si abbassarono e virarono di nuovo a nord, passando su una fitta giungla e un ampio fiume marrone che Savi chiamò Rio delle Amazzoni. La giungla era una foresta pluviale, un baldacchino interrotto solo qua e là da una piramide erbosa il cui vertice s'innalzava per trecento metri, dividendo lente nubi cariche di pioggia. Savi non disse cosa fossero le piramidi e gli altri parevano troppo stanchi o preoccupati da altri pensieri per chiederlo.

Mezz'ora dopo essersi lasciati alle spalle l'ultima piramide, Savi virò bruscamente a sinistra e il sonie proseguì a ovest-nordovest, di nuovo sopra alte montagne. A quell'altezza l'aria era così rarefatta che la bolla a campo di forza entrò in funzione, anche se la distanza apparente dal terreno non superava i centocinquanta metri; l'aria nella bolla fu di nuovo pressurizzata, con un più alto contenuto d'ossigeno.

«Non andiamo fuori rotta?» chiese Harman, dopo un lungo silenzio.

Savi annuì. «Devo girare alla larga dai monoliti di Zorin che corrono lungo lo zoccolo costiero di quelli che un tempo erano Perù, Ecuador e Colombia» disse. «Alcuni sono ancora armati e automatizzati.»

«Cosa sono i monoliti di Zorin?» chiese Hannah.

«Niente di cui dobbiamo preoccuparci oggi» rispose Savi.

«A che velocità viaggiamo?» chiese Ada.

«Non alta» rispose Savi. Diede un'occhiata al display virtuale che le circondava i polsi e le mani. «Circa cinquecento chilometri all'ora, in questo momento.»

Ada provò a immaginare quella velocità. Non ci riuscì. Prima del volo col sonie non aveva mai viaggiato in un mezzo più veloce delle troike tirate da voynix e non aveva idea della velocità di una troika. Probabilmente meno di cinquecento chilometri all'ora, si disse: le montagne e le creste in basso cambiavano molto più in fretta della campagna nella corsa in troika o in carrozzella dal portale fax a villa Ardis.

Volarono per un'altra ora. A un certo punto Hannah disse: «Mi fa male il collo a furia di inarcare la testa per guardare dal bordo del sonie e la bolla è troppo bassa per mettermi a sedere. Vorrei...». Mandò un urlo. Ada, Daeman e Harman la imitarono.

Savi aveva mosso la mano sul pannello virtuale di controllo e il sonie sotto di loro era semplicemente scomparso. Nell'istante prima di serrare gli occhi, Ada vide la perfetta illusione di sei umani e i loro bagagli e le lance di Odisseo volare a mezz'aria, senza niente che li sostenesse.

«Avvisaci, se hai intenzione di farci di nuovo uno scherzo del genere» disse Harman, scosso, a Savi.

La vecchia borbottò qualcosa.

Ada trascorse un paio di minuti a toccare il freddo metallo del cofano davanti a lei, a sentire il contatto morbido e solido come cuoio del contorno dell'incavatura sotto le gambe, il ventre e il petto, prima di trovare il coraggio di riaprire gli occhi. "Non sto cadendo, non sto cadendo" continuò a ripetersi. "Sì che cadi!" le dissero gli occhi e l'orecchio interno. Ada chiuse di nuovo gli occhi e li aprì solo quando, sorvolati gli altopiani, costeggiarono una penisola che dalla terraferma correva verso nordovest.

«Credevo che avresti gradito lo spettacolo» disse Savi a Harman, come se gli altri non fossero coinvolti.

Davanti a loro l'oceano tagliò l'istmo, una distesa d'acqua per un varco di almeno centocinquanta chilometri. Savi prese quota e virò a nord in mare aperto.

«Secondo le carte geografiche che ho visto, l'istmo fra il Nord e il Sud America era sopra il livello del mare» disse Harman, protendendosi dall'incavatura per guardarsi indietro.

«Quelle tue carte sono inutili» disse Savi. Mosse le dita e il sonie accelerò e salì ancora.

Dopo mezzodì fu visibile un'altra linea costiera. Savi ridusse la quota e in breve sorvolarono acquitrini che poco dopo lasciarono posto a chilometri e chilometri di sequoie (così le chiamò Savi) che arrivavano anche a ottanta o novanta metri d'altezza.

«Chi vuole sgranchirsi le gambe sulla terraferma mentre ci fermiamo per pranzo?» chiese Savi. «O appartarsi se gli scappa il bisognino?»

Quattro passeggeri su cinque votarono sì a gran voce. Odisseo sorrise. Fino a quel momento aveva sonnecchiato.

 

Pranzarono in una radura su una collinetta, circondati da alberi maestosi come cattedrali. Gli anelli equatoriale e polare si muovevano appena nel pezzetto di cielo azzurro visibile fra i rami.

«Ci sono dinosauri qui intorno?» chiese Daeman, scrutando le zone buie sotto gli alberi.

«No» rispose Savi. «Preferiscono le parti centrali e settentrionali del continente.»

Daeman si appoggiò, rilassato, a un ceppo e mangiucchiò frutta, fette d'arrosto e pane, ma si raddrizzò quando Odisseo disse: «Forse Savi Uhr in realtà voleva dire che qui ci sono predatori più feroci che tengono lontano i dinosauri ricombinanti».

Savi lanciò a Odisseo un'occhiataccia e scosse la testa, come se sospirasse sulle malefatte di un incorreggibile ragazzino. Daeman guardò di nuovo nelle ombre di mezzodì sotto gli alberi e si spostò più vicino al sonie per terminare il pranzo.

Hannah, che staccava di rado gli occhi da Odisseo, trovò il tempo per estrarre di tasca il lino e metterselo sugli occhi. Rimase distesa per diversi minuti, mentre gli altri mangiavano in silenzio nel caldo ombroso e silenzioso. Finalmente Hannah si alzò a sedere, si tolse il lino ricamato a microcircuiti e disse: «Odisseo, ti piacerebbe vedere che cosa succede a te e ai tuoi compagni nella guerra sotto le mura della città?».

«No» rispose il greco. Con i denti strappò un pezzo di carne di Uccello Terrore rimasto dalla sera prima e masticò lentamente, poi bevve vino dall'otre che aveva portato con sé.

«Zeus è furioso e ha spostato l'equilibrio verso i troiani guidati da Ettore» proseguì Hannah, senza badare alla reticenza di Odisseo. «Hanno respinto i greci oltre la loro linea di difesa, il fossato e le palizzate, e combattono intorno alle nere navi. Sembra che la tua parte sia sul punto di perdere. Tutti i grandi sovrani, tu compreso, si sono dati alla fuga. Solo Nestore è rimasto a combattere.»

Odisseo brontolò. «Quel vecchio chiacchierone. È rimasto perché gli hanno ammazzato il cavallo e si è ritrovato a piedi.»

Hannah lanciò un'occhiata a Ada e rise. Si era riproposta di trascinare Odisseo in una discussione, era chiaro; ed era altrettanto chiaro che era convinta d'esserci riuscita. Ada ancora non credeva che quell'uomo fin troppo reale, abbronzato, pieno di rughe e di cicatrici, così diverso dai maschi rinnovati nello spedale ai quali erano abituate, fosse lo stesso Odisseo del dramma. Come molte persone intelligenti che lei conosceva, era convinta che il lino fornisse uno spettacolo virtuale, probabilmente scritto e registrato durante l'Età Perduta.

«Ricordi la battaglia vicino alle nere navi?» lo incitò Hannah.

Odisseo brontolò di nuovo. «Ricordo il banchetto la sera prima di quel miserabile giorno da cani. Dall'isola di Lemno giunsero trenta navi cariche di vino, mille misure piene, abbastanza da annegarci gli eserciti troiani, se non avessimo avuto un modo migliore di usarlo. Euneo, figlio di Giasone, lo mandò come dono agli Arridi, Agamennone e Menelao.» Guardò di traverso Hannah e gli altri. «Ecco, il viaggio di Giasone, quella è una storia che vale la pena ascoltare.»

Tutti, tranne Savi, osservarono con espressione vacua il massiccio vecchio in tunica e cintura.

«Giasone e gli Argonauti» ripeté Odisseo. Guardò da uno all'altro. «Di sicuro avete sentito quella storia.»

Savi ruppe l'imbarazzato silenzio. «Questi qui non hanno sentito nessuna storia, figlio di Laerte. I nostri cosiddetti umani vecchio stile non hanno passato, né miti, né storie di qualsiasi genere, a parte il dramma del lino. Non sanno più leggere e scrivere, esattamente come tu e i tuoi compagni non sapevate ancora leggere e scrivere.»

«Non avevamo bisogno di scarabocchi su corteccia o pergamena o fango per essere uomini degni di considerazione» brontolò Odisseo. «La scrittura fu provata in epoca precedente alla nostra e abbandonata come inutile.»

«Esattamente» disse Savi, ironica. «"L'attrezzo di un illetterato sta forse meno eretto?" Credo l'abbia detto Orazio.»

Odisseo le lanciò un'occhiataccia.

«Ci parlerai di questo Giasone e gli... gli cosa?» disse Hannah e arrossì in un modo che convinse Ada: la sua amica aveva davvero dormito con Odisseo, la notte prima.

«Ar-go-nau-ti» compitò lentamente Odisseo, calcando su ogni sillaba come se parlasse a un bambino. «E, no, non ve ne parlerò.»

Ada si trovò a guardare dalla parte di Harman e a tornare con la mente a ricordi della lunga notte appena trascorsa. Voleva allontanarsi con lui e parlargli in privato di ciò che avevano condiviso o, in mancanza di questo, voleva solo chiudere gli occhi nel caldo umido della radura chiazzata dal sole e appisolarsi, forse per sognare del loro amore. "Meglio ancora" pensò, scrutando Harman da sotto le ciglia "potremmo allontanarci di nascosto nel buio della foresta e fare l'amore di nuovo, anziché sognarlo."

Ma Harman pareva non accorgersi delle sue occhiate ed era chiaro che aveva spento il ricevitore telepatico. L'amante di Ada pareva invece interessato e divertito dai commenti di Odisseo. «Ci racconterai una storia sulla tua guerra del dramma del lino?» chiese a Odisseo.

«Era chiamata guerra di Troia e 'fanculo il vostro straccio» disse Odisseo, ma aveva bevuto forte dall'otre e pareva essersi addolcito. «Però posso raccontarvi una storia che il vostro caro pannolino non conosce.»

«Sì, per favore» disse Hannah, spostandosi più vicino a Odisseo.

«Dio ci liberi dai cantastorie» brontolò Savi. Si alzò, ripose nel bagagliaio del sonie le stoviglie del pranzo e andò nella foresta.

Daeman la guardò allontanarsi e parve chiaramente ansioso. «Credi davvero che ci siano animali da preda più pericolosi dei dinosauri?» chiese, a nessuno in particolare.

«Savi sa badare a se stessa» rispose Harman. «Ha l'arma pistola.»

«Ma se una creatura la divora» disse Daeman, continuando a fissare la foresta «chi piloterà il sonie?»

«Sta' zitto» disse Hannah. Con le lunghe dita marrone chiaro toccò il polso a Odisseo. «Raccontaci la storia che nel lino non compare. Per favore.»

Odisseo corrugò la fronte, ma vide che Ada e Harman annuivano per appoggiare la richiesta di Hannah; allora si spazzò dalla barba le briciole e iniziò.

 

«Questi fatti vissuti non compaiono e non compariranno mai nel dramma del vostro straccio. Gli eventi che vi racconterò accaddero dopo la morte di Ettore e di Paride, ma prima del cavallo di legno.»

«Paride muore?» lo interruppe Daeman.

«Ettore muore?» chiese Hannah.

«Cavallo di legno?» si stupì Ada.

Odisseo chiuse gli occhi, con le dita si pettinò la corta barba e disse: «Mi lasciate continuare senza interrompere?».

Tutti, tranne Savi che si era assentata, annuirono.

«Gli eventi che ora vi descriverò accaddero dopo la morte di Ettore e di Paride, ma prima del cavallo di legno. Era vero che in quei giorni, fra i suoi più grandi tesori, la città di Ilio possedeva un'immagine divina caduta dal cielo, voi la chiamereste meteorite, una pietra fusa e sagomata da Zeus stesso generazioni prima della nostra guerra, un segno che il padre degli dèi approvava la fondazione della città. Questa figura di pietra e metallo era chiamata Palladio, perché aveva la sagoma di Pallade... no, non di Pallade Atena, ma di Pallade compagno di Atena nella sua giovinezza. Quest'altro Pallade (nella nostra lingua la parola può essere accentata in modo da avere un significato femminile o maschile, ma qui si avvicina al termine latino virago,che vuol dire "forte vergine") era stato ucciso in un finto combattimento con Atena. Ed era stato Ilio, a volte chiamato Ilo - padre di Laomedonte, che a sua volta avrebbe generato Priamo, Tifone, Lampo, Clizio e Icetaone - a trovare la pietra stellare davanti alla tenda, un mattino, e a riconoscerla per ciò che era.

«Quell'antico Palladio, a lungo fonte segreta della ricchezza e della potenza di Ilio, era alto tre cubiti, portava nella destra una lancia, nella sinistra una rocca e un fuso ed era associato alla dea della morte e del fato. Ilio e gli altri antenati degli attuali difensori di Troia avevano fatto fare molte copie del Palladio, in molti formati diversi, e avevano nascosto e sorvegliato le false statue come quella vera, perché tutti sapevano che la sopravvivenza di Ilio dipendeva dal possesso del Palladio. Gli dèi stessi me lo rivelarono in sogno, nelle ultime settimane d'assedio a Ilio, e così esposi a Diomede il mio piano: entrare nella città e trovare il vero Palladio, in modo da tornare poi a rubarlo e segnare l'irrevocabile fine di Troia.

«Per prima cosa mi vestii di stracci come un mendicante e ordinai ai servi di colpirmi con la frusta, in modo da essere sfigurato da lividi e cicatrici. I cittadini di Ilio, vedete, erano notoriamente deboli di stomaco, quando si trattava d'imporre la disciplina ai propri servi: tendevano a viziarli, anziché punirli, e a nessun servo di buona famiglia sarebbe stato mai permesso di mostrare in giro abiti laceri e lividi di frustate; perciò pensai che gli stracci e il puzzo e, peggio ancora, i segni sanguinanti della sferza avrebbero indotto i cittadini a girare la testa dall'altra parte per l'imbarazzo. Un travestimento perfetto per una spia, non vi pare?

«Scelsi per me quel compito perché fra tutti gli achei ero il più abile nel muovermi furtivamente e nello sfruttare la mia astuzia; e inoltre perché ero già stato fra le mura di Troia, più di dieci anni prima, a capo di una delegazione incaricata di negoziare pacificamente la restituzione di Elena, prima che le nostre nere navi giungessero in forze e la guerra iniziasse. Ovviamente quei negoziati fallirono (tutti noi veri argivi ci eravamo augurati che fallissero, perché avevamo una gran voglia di menare le mani ed eravamo affamati di bottino), ma ricordavo benissimo la disposizione della città e delle porte nelle grandi mura.

«Nel mio sogno, gli dèi (quasi sicuramente Atena, che favoriva più d'ogni altro la nostra causa) mi avevano rivelato che il Palladio e le sue numerose copie erano nascosti da qualche parte nel palazzo di Priamo, ma non mi avevano indicato il luogo preciso né spiegato come distinguere dai falsi il Palladio vero.

«Aspettai il cuore della notte, quando i fuochi sui bastioni sono al minimo e i sensi umani sono meno ricettivi; allora con corda e grappino superai le torreggianti mura, uccisi una sentinella e ne nascosi il cadavere sotto un alto mucchio di fieno accantonato per la cavalleria tracia. Ilio era vasta, la più estesa città del mondo, e mi ci volle un poco per orientarmi nelle vie e nei vicoli, fino al palazzo di Priamo. Due volte fui fermato per strada da guardie armate, ma borbottai ed emisi suoni strozzati, agitando in gesti senza senso le braccia segnate dai colpi di frusta; e loro mi ritennero uno schiavo poco sveglio, giustamente frustato per la sua idiozia, e mi lasciarono passare.

«Il palazzo di Priamo era grande, aveva cinquanta stanze da letto, una per ognuno dei cinquanta figli del re, ed era ben sorvegliato dalle più scelte fra le truppe scelte troiane, con vigili guardie a tutte le porte e a ogni finestra esterna a livello della strada, con altre guardie nelle corti interne e lungo le mura (lì nessuna sentinella assonnata mi avrebbe scacciato con un gesto pigro, non importa quanto sanguinassi e quanto grugnissi come un idiota); così, dopo avere ucciso col pugnale il mio secondo troiano della notte e nascosto alla meno peggio il suo cadavere, andai a meridione per qualche caseggiato, fino alla dimora di Elena, sorvegliata anche quella, ma un po' meno.

«Morto Paride in un duello con l'arco, Elena era stata data in moglie a un altro figlio di Priamo, Deifobo, che il popolo definiva "colui che sgomina il nemico", ma che noi achei sul campo chiamavamo "chiappe di bue"; il nuovo marito non era in casa, quella notte, ed Elena dormiva da sola. La svegliai.

«Non credo che l'avrei uccisa, se avesse gridato per chiedere aiuto: la conoscevo da parecchi anni, sapete, in veste di ospite della nobile casa di Menelao e, prima ancora, in veste di uno dei suoi primi corteggiatori - quando lei fu in età da marito - anche se solo per formalità, perché già allora ero felicemente sposato con Penelope. Ero stato io a consigliare che Tindareo chiedesse ai corteggiatori il giuramento di accettare la scelta di Elena, evitando così di spargere un mucchio di sangue per le brutte maniere dei perdenti. Penso che Elena avesse apprezzato quel consiglio.

«Elena non gridò per chiedere aiuto, quella notte, quando la svegliai da un sonno agitato nella sua casa a Ilio. Mi riconobbe subito e mi abbracciò e mi chiese come stavano il suo vero marito, Menelao, e sua figlia così lontana da lei. Le dissi che stavano tutti bene, ma non precisai che a quel punto della guerra Menelao era stato gravemente ferito due volte sul campo di battaglia e meno gravemente altre cinque o sei volte, compresa la recente freccia nella natica, ed era di pessimo umore. Invece le dissi quanto marito e figlia e familiari a Sparta sentissero la sua mancanza e le facessero auguri d'ogni bene.

«Elena allora si mise a ridere. "Il mio signore e marito Menelao mi vorrebbe morta e tu lo sai, Odisseo" disse. "E sono sicura che ci penserà lui stesso, quando fra non molto le grandi mura e le porte Scee di Ilio cadranno, come l'oracolo Hock-en-bear-eeee ha profetizzato."

«Non conoscevo quel particolare oracolo - Delfi e Pallade Atena sono gli unici veggenti del futuro cui presto orecchio - ma non potevo discutere con lei; pareva probabile che Menelao le avrebbe davvero tagliato la gola, dopo gli amari anni di infedeltà fra le braccia e nel letto dei suoi nemici. Ma non glielo dissi. Le dissi invece che avrei interceduto presso Menelao, figlio di Atreo, per convincerlo a risparmiarle la vita, se lei non mi avesse tradito e mi avesse aiutato a entrare nel palazzo di Priamo e a scegliere il vero Palladio.

«"Non ti tradirei comunque, Odisseo, figlio di Laerte, consigliere abile e sincero" disse Elena. E mi indicò come aggirare le difese del palazzo e come riconoscere il vero Palladio in mezzo alle copie.

«Ma era quasi l'alba, troppo tardi per completare la missione quella notte stessa. Così uscii, percorsi le vie, salii e scavalcai e discesi le mura grazie al varco che avevo lasciato uccidendo la sentinella e dormii fino a tardi il giorno dopo, feci un bagno e mangiai e bevvi, poi ordinai a Macaone, figlio di Asclepio, il più bravo guaritore al soldo dell'esercito, di curarmi i segni delle frustate e di applicarvi un unguento.

«La notte seguente, sapendo che mi sarebbe occorso un alleato perché non avrei potuto combattere e nello stesso tempo portare la pesante pietra del Palladio, inclusi Diomede nel mio piano. Insieme, nel cuor della notte, il figlio di Tideo e io scalammo e scavalcammo il muro, uccidendo con una freccia ben centrata la nuova sentinella. Poi percorremmo rapidamente vie e vicoli, senza ripetere la recita dello sciocco schiavo frustato, quella notte, ma eliminando invece, con efficienza e in silenzio, chiunque ci fermasse; ed entrammo nel palazzo di Priamo, da una fognatura segreta che Elena mi aveva spiegato come trovare.

«A Diomede, uomo orgoglioso come tanti di quegli eroi dalla testa dura giunti da Argo, non piaceva guadare una fogna per niente al mondo, nemmeno per garantire la caduta di Ilio. Protestò e brontolò e si arrabbiò e si lamentò e divenne di umore davvero orribile, quando unimmo insulto a ingiuria, dovendo risalire il foro di uno dei cessi delle latrine nello scantinato del palazzo, dove si trovavano le stanze del tesoro di Priamo, fra le camerate delle guardie scelte.

«Eravamo furtivi, ma il puzzo ci precedeva; così fummo costretti a uccidere le prime venti guardie che incontrammo nei corridoi; la ventunesima ci mostrò come aprire la porta della stanza del tesoro senza far scattare allarmi o altre trappole; poi Diomede tagliò la gola anche a quella.

«Oltre a tonnellate d'oro, montagne di pietre preziose, cumuli di perle, pile di tessuti intarsiati, bauli di diamanti e tante altre ricchezze del favoloso Oriente, nella stanza del tesoro c'erano circa quaranta statue del Palladio disposte in nicchie. Identiche in tutto, tranne che nelle dimensioni.

«"Elena ha detto di prendere solo la più piccola" dissi a Diomede; presi il Palladio più piccolo e lo avvolsi in un mantello rosso tolto all'ultima guardia uccisa. Avevamo nelle mani la caduta di Ilio. Ora non dovevamo fare altro che sfuggire alla cattura.

«A quel punto Diomede decise di saccheggiare il tesoro di Priamo, subito, immediatamente, quella notte stessa. Il miraggio di tutto quel bottino era troppo grande, per l'avido bastardo senza cervello. Avrebbe barattato dieci anni di sangue e di fatica in cambio di poche libbre d'oro.

«Lo... dissuasi. Non descriverò la lite che seguì, quando posai a terra il Palladio avvolto nel mantello rosso e sguainai la spada per impedire al figlio di Tideo, re di Argo, di rovinare per avidità la nostra missione. La lite terminò in fretta, vinta dall'astuzia. E va bene, se insistete, ve la racconto: niente nobile combattimento, in quel caso. Niente gloriosa aristeia. Proposi di toglierci le puzzolenti tuniche prima di duellare; e mentre il grosso idiota si spogliava, gli tirai in testa un blocco di dieci libbre d'oro e lo lasciai tramortito.

«Così, alla fine, mi toccò fuggire dal palazzo di Priamo portando nell'incavo del braccio il pesante Palladio e in spalla l'ancora più pesante e nudo Diomede.

«Non potevo scavalcare le mura in quelle condizioni: ero pronto e disponibile e sul punto di lasciare Diomede nel pozzo nero della fogna dove il grande canale di scolo sfociava nel fiume che scorreva sotto le mura di Ilio; ma proprio allora Diomede riprese conoscenza e convenne di lasciare con me la città. Ce ne andammo in silenzio. Molto in silenzio. Diomede non mi rivolse più la parola, né quel giorno né la settimana seguente né dopo la caduta e il sacco di Ilio né mai più.

«E nemmeno io ho più parlato a Diomede, da quel giorno. «Dovrei aggiungere che poco dopo, quando portai il Palladio al campo degli argivi e lo nascosi bene, sicuro ormai che Ilio vivesse le sue ultime ore, cominciammo a lavorare al gigantesco cavallo di legno. Il cavallo aveva tre scopi: primo, era ovviamente un trucco per far entrare nella città me e un gruppo scelto di fidi guerrieri; secondo, era un sistema per fare in modo che i troiani stessi togliessero il grande architrave di pietra sopra le porte Scee per consentire il passaggio dell'offerta votiva, dal momento che secondo la profezia dovevano accadere due cose prima della caduta di Ilio, ossia la perdita del Palladio e la distruzione dell'architrave delle porte Scee; terzo, infine, il gigantesco cavallo era costruito come dono ad Atena per compensare la perdita del suo Palladio, dal momento che lei era anche chiamata Ippia, la dea dei cavalli, visto che proprio lei aveva domato e imbrigliato Pegaso per Bellerofonte e che traeva grande piacere dal cavalcare e allenare a ogni occasione i propri destrieri.

«Questo, amici miei, è il breve racconto del furto del Palladio e della caduta di Ilio. Mi auguro che vi sia piaciuto. Ci sono domande?»

 

Ada incrociò lo sguardo di Harman. "Questo era il breve racconto?" pensò. Vide che il suo amante accoglieva quel pensiero come se lei le avesse mandato in soffio un bacio.

«Sì, ho una domanda» disse Daeman.

Odisseo annuì.

«Perché a volte dici Troia e a volte Ilio?»

Odisseo scosse leggermente il capo, si alzò, prese dal sonie il fodero e la corta spada e si allontanò nella foresta.

 

24

ILIO, INDIANA E OLIMPO

 

Zeus è arrabbiato. Ho già visto Zeus arrabbiato, ma stavolta è molto, molto, molto arrabbiato.

Quando il padre degli dèi entra maestosamente nella semidistrutta sala di guarigione, osserva i danni, fissa il pallido corpo di Afrodite disteso in un nido di vermi verdi che si torcono sul pavimento bagnato e si gira nella mia direzione... sono sicuro che mi vede, che trapassa con lo sguardo il potere d'invisibilità dell'Elmo di Ade e mi vede! Ma anche se mi fissa per parecchi secondi e batte le palpebre su quei suoi occhi glaciali come se fosse sul punto di prendere una decisione, distoglie di nuovo lo sguardo e a me, Thomas Hockenberry, ex professore dell'Indiana University e, più di recente, ex occupante del letto di Elena di Troia, è permesso di continuare a vivere.

Ho brutti tagli al braccio destro e alla gamba sinistra, ma niente di rotto; ancora nascosto dall'Elmo di Ade alle decine di dèi che accorrono nella sala di guarigione, mi allontano dall'edificio e mi telequanto nell'unico posto cui riesco a pensare, a parte la camera da letto di Elena, dove posso stare nascosto e ricuperare: i dormitori degli scoliasti ai piedi di Olimpo.

Per vecchia abitudine vado nel mio stanzino e mi lascio cadere sul letto, ma tengo in funzione l'Elmo di Ade e dormicchio a spizzichi. È stata una lunga giornata infernale, notte e mattino compresi. L'Uomo Invisibile dorme.

Mi sveglio al rumore di grida e di tuoni al piano di sotto. Mi precipito nel corridoio. Passa di corsa lo scoliaste Blix (in realtà sono quasi travolto, perché a lui sono invisibile) e spiega col fiatone a un altro scoliaste, Campbell: «La Musa è qui e sta ammazzando tutti!».

È vero. Mi rannicchio in un angolo della scalinata, mente la Musa (la nostra Musa, quelle che Afrodite ha chiamato Melete) abbatte i pochi scoliasti rimasti in vita nei dormitori in fiamme. La dea scaglia dalle mani saette di pura energia... cliché fritto e rifritto, ma molto efficace su semplice carne umana. Blix è condannato e non c'è niente che possa fare o escogitare per lui o per gli altri.

"Nightenhelser" penso. Il flemmatico scoliaste è stato l'unico mio vero amico negli ultimi anni. Ansando, corro nella sua stanza. Il marmo è sfregiato, il legno è in fiamme, il vetro della finestra è fuso, ma non c'è alcun cadavere carbonizzato come quelli sparsi nei corridoi e nelle salette. Nessuno di quei cadaveri mi è sembrato abbastanza grosso da appartenere al massiccio Nightenhelser. All'improvviso odo grida di morte dal secondo piano, poi silenzio, a parte il crescente ruggito delle fiamme. Guardo da una finestra e vedo la Musa passare volteggiando nel cocchio, cavalli olografici al gran galoppo. Sull'orlo del panico, tossendo per il fumo (se la Musa fosse ancora nei dormitori ora mi sentirebbe) mi costringo a visualizzare Ilio e la taverna dove ho visto per l'ultima volta Nightenhelser. Aziono il medaglione TQ e me la svigno.

Nightenhelser non è nella taverna dove abbiamo fatto colazione stamattina. Passo sul campo di battaglia: Nightenhelser non è nel solito posto sulla cresta che sovrasta le linee troiane. Trovo appena il tempo di notare che Ettore e Paride guidano con successo le truppe troiane in un attacco contro gli argivi in fuga e mi telequanto in un posto ombreggiato dietro le linee greche, vicino al fossato e alla fila di picchetti, dove in passato mi sono imbattuto nel mio amico.

Nightenhelser è lì, morfizzato in Dolope, figlio di Clito, un acheo cui resta qualche giorno di vita, prima di cadere per mano di Ettore, se Omero ha ragione. Senza prendermi la briga di morfizzarmi in una figura che non sia il goffo Hockenberry, mi tolgo l'Elmo di Ade e corro incontro al mio amico.

«Hockenberry, cosa...» dice Nightenhelser, sconvolto dal mio comportamento poco professionale e dalla reazione di altri achei nei pressi. Attirare l'attenzione su di sé è l'ultima cosa che uno scoliaste vuole. A parte, forse, essere incenerito da una Musa vendicativa. Non ho la minima idea del perché la nostra Musa oggi spazzava via tutti gli scoliasti, ma sospetto d'essere stato proprio io a causare quella strage d'innocenti.

«Dobbiamo andarcene via di qui» dico, gridando per superare il frastuono di rinforzi in arrivo, di nitriti di cavalli, di rombo di cocchi. Da quel polveroso punto d'osservazione pare che l'intero centro delle linee greche abbia ceduto.

«Ma cosa dici? Oggi è una giornata importante. Ettore e Paride stanno per...»

«'Fanculo Ettore e Paride!» dico. Non in greco.

La Musa si è materializzata in alto sopra le linee troiane dove Nightenhelser e io spesso prendiamo posizione, aiutata da un'altra Musa che guida il cocchio mentre lei si sporge a esaminare con la vista potenziata le truppe. Nemmeno morfizzati noi scoliasti mortali ci salveremmo, oggi.

Quasi a dimostrarlo, la Musa detta Melete, la "mia" Musa, alza le mani e scaglia verso terra un raggio di energia coerente che colpisce un fante troiano di nome Dio, che secondo Omero dovrebbe essere vivo per essere comandato a bacchetta nel Libro ventiquattresimo, ma che muore oggi in un lampo di fuoco e in un turbine di fumo e di calore. Altri troiani si ritraggono, alcuni fuggono verso la città, perché non capiscono l'ira della dea in un giorno di vittoria ordinato da Zeus; ma Ettore e Paride sono quattrocento metri a sudovest, guidano la carica e nemmeno si girano a guardare.

«Quello non era Dio» ansima Nightenhelser. «Era Houston.»

«Lo so» dico, riportando al normale la vista potenziata. Houston era lo scoliaste più giovane e l'ultimo arrivato. Gli avevo appena rivolto la parola. Probabilmente oggi si trovava fra le linee troiane perché io ero assente.

Il cocchio della Musa vira bruscamente e vola dritto su di noi. Non penso che la porca Musa ci abbia già visto, ci troviamo fra centinaia di uomini e cavalli in movimento, ma ci vedrà in pochissimi secondi.

Non so che cosa fare. Posso mettermi l'Elmo di Ade e scappare di nuovo come un codardo, lasciando Nightenhelser a morire come Blix e gli altri, uccisi per colpa mia. Il cappuccio di cuoio e metallo non può nascondere entrambi alla visione divina della dea. "Possiamo scappare verso le nere navi" penso. Ma so già che non faremmo venti metri.

Il cocchio si abbassa e si ammanta in modo da non essere visibile ai greci al contrattacco e ai troiani. Con la nostra vista potenziata, Nightenhelser e io lo vediamo arrivare.

«Che diavolo fai?» grida Nightenhelser. Lascia cadere il bastone registratore, mentre lo circondo con le braccia e una gamba, come un fante striminzito che voglia stuprare quel ciccione d'un orso.

Tenendo il braccio intorno al robusto collo di Nightenhelser, prendo il medaglione e lo uso.

Non so se funzionerà. Non dovrebbe. Il medaglione è chiaramente fatto per teletrasportare solo la persona che lo tiene al collo. Ma quando mi telequanto, i vestiti vengono con me; e più di una volta ho portato varie cose da un posto all'altro nello spazio di Planck, perciò forse il campo quantico creato per il teletrasporto include gli oggetti a contatto col mio corpo o circondati dalle braccia.

"Già, che diavolo faccio?" penso. Il tentativo vale la pena.

Ci materializziamo nel buio, rotoliamo giù per un pendio e ci stacchiamo. Frenetico, mi guardo intorno per stabilire dove siamo. Non ho avuto il tempo di visualizzare correttamente la destinazione, mi sono limitato a desiderare d'essere altrove e a telequantarmi... da qualche parte.

Dove?

C'è chiaro di luna, quanto mi basta per vedere che Nightenhelser mi fissa, allarmato, come per paura che gli salti di nuovo addosso da un momento all'altro. Senza badargli, guardo il cielo (stelle, una falce di luna, la Via Lattea) e poi la terra: alti alberi, un pendio erboso, un fiume che scorre nei pressi.

Siamo senz'altro sulla Terra, almeno l'antica Terra di Ilio, ma il posto non ha l'aria del Peloponneso o dell'Asia Minore.

«Dove siamo?» chiede Nightenhelser. Si tira in piedi e si spazzola le vesti. «Cosa succede? Perché è notte?»

"Il lato opposto al Vecchio Mondo" penso. Dico: «Credo che siamo nell'Indiana».

«Indiana?» ripete, stupito, Nightenhelser. Si allontana di un altro passo.

«L'Indiana del 1200 e rotti avanti Cristo» dico. «Secolo più, secolo meno.» Mi sono di nuovo fatto male al braccio e alla gamba, rotolando per il pendio.

«Come ci saremmo arrivati?» chiede Nightenhelser. È sempre stato un tipo placido, un po' brontolone nei suoi modi da orso, ma mai davvero arrabbiato per qualcosa. Adesso pare arrabbiato.

«Ho telequantato tutt'e due.»

«Ma di che diavolo parli, Hockenberry? Eravamo lontano da qualsiasi portale TQ.»

Non gli rispondo, mi siedo su una piccola roccia e mi sfrego il braccio. Non ci sono molte montagne, nell'Indiana, nemmeno nell'altra mia vita qui, ma c'erano zone collinari, boscose, sassose, intorno a Bloomington, dove vivevo con Susan. Preso dal panico, credo d'avere visualizzato... be', casa mia! Mi auguro ardentemente che il medaglione TQ ci abbia trasportato anche nel tempo, oltre che nello spazio, e che questa sia l'Indiana del tardo ventesimo secolo, ma qualcosa nella purezza del cielo notturno e nell'odore di pulito dell'aria mi dice che non è così.

"Chi c'è qui nel 1200 avanti Cristo?" penso. Indiani. Sarebbe una vera ironia, se il medaglione TQ ci avesse strappato all'imminente morte per mano (alla lettera) della nostra Musa solo per portarci nel Nuovo Mondo e farci scotennare dagli indiani. "Molte tribù non scotennavano le vittime prima dell'arrivo dell'uomo bianco" mi mormora la parte pedante del cervello di professore. "Anche se mi pare d'avere letto da qualche parte che tagliavano le orecchie, come prova d'avere ucciso un nemico."

Be', questo ricordo mi fa sentire meglio. Puoi sempre confidare sul fatto che un assassino abbia una bella prosa, così si dice, e che un professore dica qualcosa di deprimente quando già sei depresso.

«Hockenberry?» dice Nightenhelser. È seduto su un sasso grosso come uno sgabello (non troppo vicino a me, noto) e si massaggia il gomito e le ginocchia.

«Sto pensando, sto pensando» rispondo, nella mia migliore imitazione della voce di Jack Benny.

«Be', quando hai finito di pensare, forse puoi dirmi perché la Musa ha appena ucciso il giovane Houston.»

Torno sobrio, ma non so come rispondere. «Ci sono cose in ballo, fra gli dèi» dico infine. «Intrighi. Macchinazioni. Accordi.»

«Parlamene» dice Nightenhelser, ironico e serio insieme.

Alzo le mani, palme in alto. «Afrodite voleva usarmi per uccidere Atena.»

Nightenhelser mi fissa. Riesce, a stento, a non restare a bocca aperta.

«So cosa pensi» dico. «"Perché proprio lui? Perché Hockenberry? Perché dargli il potere di telequantarsi e l'Elmo di Ade per rendersi invisibile?" E sono d'accordo: non ha senso.»

«Non pensavo questo» dice Nightenhelser. Un meteorite taglia il cielo stellato sopra di noi. Da qualche parte nella foresta al di là della collina una civetta emette un verso che non sembra proprio il suo tìpico chiurlare. «Mi chiedevo qual era il tuo nome proprio» soggiunge Nightenhelser.

Ora sono io, a fissarlo. «Perché?»

«Perché gli dèi ci hanno scoraggiato a usare il nome proprio e noi avevamo timore di fare amicizia, perché gli scoliasti non fanno che... sparire ed essere sostituiti dagli dèi» dice il robusto Nightenhelser, che pare un orso anche nel buio quasi totale. «Così voglio sapere come ti chiami.»

«Thomas» rispondo dopo un secondo. «Tom. E tu?»

«Keith» risponde l'uomo che conosco ormai da quasi un anno.

Si alza e guarda i boschi bui. «E ora, Tom?»

Insetti, rane e altre creature della notte fanno rumore nei boschi bui. A meno che non siano davvero indiani che si avvicinano, furtivi.

«Sai come... voglio dire, hai fatto vita da campeggiatore per un mucchio di tempo... cioè...» balbetto.

«Insomma, vuoi sapere se morirò, se mi lasci qui da solo?» dice Nightenhelser... Keith.

«Già.»

«Non lo so. Probabilmente. Ma sospetto di avere maggiori possibilità qui che non nella piana di Ilio. Almeno finché la Musa è sul sentiero di guerra...»

Sospetto che pure Keith sia fissato con gli indiani, ora.

«E poi ho tutti i piccoli giocattoli tecnologici e le attrezzature da scoliaste. Posso accendere il fuoco, usare la bardatura di levitazione per volare, se obbligato, morfizzarmi in un Apache, se necessario. Perciò ti puoi telequantare dove devi andare e fare ciò che devi fare» dice Nightenhelser. «Mi racconterai i particolari più tardi... se ci sarà un più tardi.»

Annuisco e mi alzo. Pare strano... sbagliato... lasciarlo qui da solo, ma non vedo altre possibilità.

«Sai trovare la strada?» chiede Nightenhelser. «Per tornare qui, voglio dire. A prendermi.»

«Credo di sì.»

«Credi? Credi solo?» Si passa le dita nei capelli arruffati. «Spero che tu non sia stato il direttore del tuo dipartimento, Hockenberry.»

Suppongo che l'era del nome proprio sia già finita.

 

Non c'è luogo dell'universo dove non preferirei trovarmi, anziché su Olimpo. Quando arrivo, gli abitanti di questa montagna sono radunati nella Grande Sala degli Dèi. Mi accerto di avere calzato bene l'Elmo di Ade e di non gettare ombra, poi entro di soppiatto nell'enorme edificio stile Partenone.

Nei nove e passa anni da scoliaste non ho mai visto tanti dèi nello stesso luogo. Su un lato della grande piscina in ologramma siede Zeus, più imponente che mai nell'alto trono d'oro. Come ho già detto, gli dèi sono in genere alti da due metri e mezzo a tre, tranne quando assumono forma mortale, e Zeus solitamente torreggia su di loro di almeno un metro, un divino adulto per quei cosmici bambini. Ma oggi Zeus è alto sette metri e mezzo, forse più, e un suo muscoloso avambraccio è più lungo del mio tronco. Mi chiedo fuggevolmente come ciò si accordi con la conservazione della massa e dell'energia che quell'altro scoliaste cercò d'insegnarmi anni fa, ma al momento non è importante. Mi tengo più indietro, contro la parete, lontano dagli dèi in movimento, e non faccio rumore, mossa, starnuto che mi tradirebbero ai loro raffinati sensi da supereroi: questo sì che è importante.

Pensavo di conoscere per nome tutti gli dèi e le dee, ma qui ce ne sono decine e decine che non riconosco. Quelli a me noti, gli dèi e le dee che sono stati più coinvolti nella guerra di Troia, risaltano nella folla come stelle del cinema a una riunione di politici di secondo piano; ma anche il minore di questi dèi è più alto, più bello e più perfetto di qualsiasi star umana ricordi dall'altra mia vita. Più vicino a Zeus, di fronte a lui al di là dell'ologramma della piscina (che ora divide la sala come un lungo fossato) vedo Pallade Atena, il dio della guerra Ares (evidentemente uscito dalla vasca di guarigione, rimasta intatta quando ho distrutto quella di Afrodite) e i fratelli più giovani di Zeus: il dio del mare Poseidone (che di rado viene su Olimpo) e Ade, sovrano dei morti. Il figlio di Zeus, Ermes, è in piedi vicino alla piscina e il messaggero degli dèi e uccisore di giganti è magro e bello come lo raffigurano le statue. Un altro figlio di Zeus, Dioniso, il dio dell'estatico sollievo, parla a Era e, contrariamente alla sua classica immagine, non ha in mano una coppa di vino. Per un dio dell'estatico sollievo, Dioniso pare pallido, debole e accigliato, come un uomo alla terza settimana appena di un programma di dodici. Più in là c'è Nereo, il vero dio del mare, e sembra più vecchio del tempo. Ha dita palmate alle mani e ai piedi e branchie visibili sotto le ascelle.

I Fati e le Furie sono presenti in forze, si mescolano per caso o di proposito fra gli dèi e le dee. Costoro sono dèi, più o meno, tuttavia a volte hanno potere regolatore sugli altri dèi. D'aspetto non sono tanto umani come gli dèi soliti e di loro, lo confesso, non so quasi nulla, tranne che non vivono su Olimpo, ma lontano, in uno dei tre vulcani verso sudest, vicino alla residenza delle Muse.

La mia Musa, Melete, è presente, insieme con le sorelle, Mneme e Aoide. Anche le Muse più "moderne" sono tra la folla: Calliope, Polimnia, Urania, Erato, Clio, Euterpe, Melpomene, Tersicore e Talia. Appena al di là delle Muse ci sono le dee di serie A. Afrodite non è fra loro, è la prima cosa che noto. Se ci fosse, sarei visibile a lei come quelle divinità sono visibili a me. Ma sua madre, Dione, è presente, parla con Era ed Ermes e pare davvero molto seria. Accanto a quel gruppo ci sono Demetra, dea delle messi, e sua figlia Persefone, moglie di Ade. Dietro di loro scorgo Pasitea, una delle Cariti. Più in là, come si conviene alla loro condizione inferiore, ci sono le Nereidi, nude fino alla cintola, belle e dall'aria infida.

La meta-dea chiamata Notte sta da sola. Ha veste e velo di un viola così scuro da sembrare nero e perfino gli altri dèi si tengono lontano da lei. Non so nulla di Notte, a parte voci secondo le quali perfino Zeus ha paura di lei, e non l'ho mai vista prima su Olimpo.

Come un fanatico di film che guardi allocchito tra la folla attorno alla passerella su cui sfilano gli attori candidati agli Oscar, cerco di distinguere gli dèi importanti da quelli minori. Là, per esempio, c'è Ebe, in piedi accanto ai maschi (la dea della gioventù, figlia di Zeus e di Era, è solo una serva degli dèi) e laggiù Efesto, il grande fabbro, dai capelli rossi come fiamme, parla alla moglie Charis, che è solo una delle Cariti. La gerarchia sociale fra gli dèi e le dee, noto non per la prima volta, è complicata.

All'improvviso la dea Iride, messaggera di Zeus, avanza in volo... sì, in volo... e batte le mani. «Il Padre parlerà» annuncia, con voce chiara e tersa come un assolo di flauto.

Immediatamente le conversazioni sottovoce di decine di capannelli cessano e nella grande sala piena d'echi scende il silenzio.

Zeus si alza. Il trono d'oro e i gradini d'oro mandano un bagliore che lo inonda di luce divina. «Ascoltatemi, tutti voi dèi e anche dee» attacca Zeus, con voce dolce, ma così forte che la sento vibrare contro le alte pareti di marmo. «Oggi un dio o una dea ha tentato di far male ad Afrodite, che era in cura nella nostra sala di guarigione; Afrodite vivrà, c'è mancato poco, ma occorreranno molti giorni perché guarisca. Un dio o una dea ha tentato oggi di uccidere una immortale, di uccidere una di noi che non è destinata a morire!»

I brontolii e le esclamazioni sconvolte cominciano come un brusio e aumentano fino a diventare un rombo nella grande sala.

«SILENZIO!» tuona Zeus e stavolta la sua voce è così forte che mi sbatte a terra e mi fa scivolare sul pavimento di marmo come erba mobile in un tornado. Per fortuna non vado a sbattere contro nessuno e il rumore della scivolata è soffocato dagli echi del grido di Zeus.

«Ascoltatemi ora, o dèi e dee» prosegue Zeus, con voce amplificata come dal più perfetto sistema d'altoparlanti. «Che una bella dea o un dio non tentino di sfidare il mio rigido decreto. Vi sottometterete alla mia volontà... SUBITO!»

Stavolta sono pronto per resistere alla forza d'uragano della sua voce e mi tengo aggrappato a una colonna finché non passa.

«Ascoltatemi» dice Zeus, quasi bisbigliando ora, con una sensazione di potere resa ancora più terribile dal tono dolce. «Ogni dio che violi il mio decreto e aiuti i troiani o gli achei, come ho visto fare questo mese, al ritorno su Olimpo sarà frustato dal mio fulmine e sferzato dal mio tuono, cadrà in disgrazia per l'eternità e sarà bandito da Olimpo. Sfidatemi e scoprirete cosa significa essere gettati nelle tenebre del Tartaro distante mezzo universo in spazio e tempo, nel più profondo abisso che si spalanca sotto noi quantici.»

Mentre parla, la lunga piscina bolle e gorgoglia, diventa nera come pece e poi una cosa del tutto diversa; il pozzo rettangolare (che pare una decina di piscine olimpiche poste una di seguito all'altra, ora ribollenti e piene di gorgogliante olio nero) a un tratto emette un rombo e diventa un buco che si apre in chissà quale altro luogo, scuro e infuocato e profondissimo. Rotolano fuori ondate di puzzo sulfureo; dèi e dee vicino al bordo arretrano.

«Ecco il Tartaro» tuona Zeus. «L'infimo abisso della casa di Ade, un luogo nelle profondità dell'inferno quanto la casa di Ade è nelle profondità della terra stessa. Ricordate, dèi e dee più anziani fra noi, quando mi avete seguito nella decennale guerra contro i Titani che regnavano prima di noi? Ricordate che gettai Crono e Rea, i miei stessi genitori, al di là di quelle porte di ferro e delle soglie di bronzo? Sì, e Giapeto, anche, malgrado il suo potere divino?»

La sala è silenziosa, a parte i rombi soffocati e gli ansiti e le grida che salgono dal Tartaro spalancato. Non ho il minimo dubbio che quel buco porti dritto all'inferno: non è un ologramma e si apre a meno di dieci metri da dove sono rincantucciato.

«SE HO GETTATO I MIEI GENITORI IN QUESTO ABISSO PER L'ETERNITÀ» tuona Zeus «AVETE DUBBI CHE CI METTERÒ UN SECONDO A SCAGLIARE LÀ DENTRO LA VOSTRA ANIMA URLANTE?»

Dèi e dee non rispondono, però arretrano di parecchi passi da quel fetido vuoto.

Zeus ha un sorriso terribile. «Su, mettetemi alla prova, immortali, così tutti potranno imparare.»

Un enorme cavo d'oro cade dal soffitto della sala, di traverso sul buco dell'inferno. Dèi e dee si affrettano a togliersi di mezzo. Il cavo colpisce sonoramente il marmo. È più spesso di una gomena di nave e pare ottenuto intrecciando migliaia di fili d'oro fino spessi un pollice. Peserà di sicuro varie tonnellate.

Zeus scende i gradini d'oro e alza il cavo, tenendolo con facilità nelle mani enormi. «Prendete l'altro capo» dice in tono quasi allegro.

Dèi e dee si scambiano occhiate e non si muovono.

«PRENDETELO!»

Centinaia d'immortali e di loro servi immortali si precipitano a ubbidire, si azzuffano per afferrare il lungo cavo d'oro come bambini a un piacevole tiro alla fune. Nel giro di un minuto c'è Zeus, da solo da un lato del Tartaro, a reggere con noncuranza il cavo e l'innumerevole folla di dèi e dee dal lato opposto, mani serrate sulla gomena d'oro.

«Trascinatemi dentro» dice Zeus. «Trascinatemi giù dai cieli alla terra e all'Ade e ancora più in basso, nei mefitici abissi del Tartaro. Trascinatemi giù, dico.»

Non un dio muove muscolo.

«TRASCINATEMI GIÙ, VI ORDINO!» tuona Zeus. Afferra il cavo d'oro e comincia a tirare. Sandali di dèi scivolano e cigolano e strusciano sul marmo. Parecchie centinaia di dèi e dee, tutti in fila, sono tirati più vicino all'abisso; alcuni inciampano, alcuni cadono sulle ginocchia.

«TIRATE, MALEDETTI!» tuona Zeus. «TIRATE O SARETE TRASCINATI NEL PUZZOLENTE TARTARO FINCHÉ IL TEMPO STESSO NON CADRÀ PUTREFATTO DALLE OSSA DELL'UNIVERSO!»

Zeus dà uno strattone e venti metri di cavo d'oro si ammucchiano in spire dietro di lui. Sull'altro lato, la fila di dèi e dee, Cariti e Furie, Nereidi e altre ninfe e chi più ne ha più ne metta (tutti tirano, tranne la Notte dalla veste viola) striscia e stride più vicino all'abisso. Atena, la prima, a soli dieci metri dal bordo, grida: «Tirate, dèi! Tirate dentro il vecchio bastardo!».

Ares e Apollo, Ermes e Poseidone e il resto degli dèi più potenti fanno forza. Smettono di scivolare. Il cavo si tende al massimo, si sfilaccia e scricchiola per la tensione. Le dee gridano e tirano all'unisono; Era, moglie di Zeus, tira anche più forte delle altre. Il cavo d'oro si tende e geme.

Zeus scoppia a ridere. Li tiene tutti in scacco, con una mano sola. Ora afferra il cavo anche con l'altra mano e tira di nuovo.

Gli dèi strillano come bambini sulle montagne russe. Atena e quelli accanto a lei scivolano sul marmo come su ghiaccio, sempre più vicino al ribollente abisso del Tartaro, mentre decine d'immortali minori si arrendono e lasciano la presa. Ma Atena non molla. È tirata senza sosta verso il bordo della fumante botola per l'inferno. L'intera fila di immortali che si sforzano, sudano, imprecano è trascinata verso l'abisso.

Con una risata Zeus lascia andare il cavo. Decine e decine di dèi e di dee volano all'indietro e finiscono scompostamente sull'immortale fondoschiena.

«Voi, dèi e dee, bambini, fratelli, sorelle, figli, figlie, cugini e servi... non potete trascinarmi sotto» dice Zeus. Torna al trono e si siede. «Neanche a costo di slogarvi le braccia, di sfiancarvi a morte, potreste smuovermi, se non volessi farlo io stesso. Sono Zeus, il più grande, il più potente dei re.» Alza un enorme dito. «Ma... se decido di trascinarvi sul serio, vi isso da questo Olimpo, vi spenzolo nel nero spazio sopra il Tartaro, vi lego a terra e mare insieme, aggancio il capo al corno di questa montagna detta Olimpo e vi lascio lì sospesi nelle tenebre finché il sole non diventi freddo.»

Se non avessi appena visto la scena, avrei pensato che il vecchio bastardo bluffasse. Ora so come stanno le cose.

Atena si rialza, a non più di un metro dal bordo del Tartaro, e dice: «Padre nostro, figlio di Crono, che sei nel più alto trono dei cieli, conosciamo il tuo potere. Chi può resisterti? Non noi...».

Tutti gli immortali sembrano trattenere il fiato. L'umore di Atena è leggendario, come la sua frequente mancanza di diplomazia: se ora dice la cosa sbagliata...

«Tuttavia» continua la glaucopide figlia di Zeus «ci muoviamo a pietà per quei mortali, io per i miei condannati lancieri argivi, che recitano la loro piccola parte sul loro piccolo palcoscenico, muoiono di orribile morte, annegano nel proprio sangue alla fine della loro piccola vita.»

Muove altri due passi, tanto che la punta dei sandali sporge sopra il nero abisso. Da qualche parte, migliaia di metri sotto di lei, nelle tenebre lacerate da fulmini del Tartaro, una grossa creatura mugghia di dolore e di paura. «Sì, Zeus» continua Atena «ci terremo alla larga dalla guerra, come tu ordini. Ma concedici almeno il permesso di consigliare ai nostri mortali preferiti le tattiche che potrebbero salvarli, in modo che non cadano sotto il fulmine della tua immortale collera.»

Zeus guarda a lungo la figlia. Non riesco a interpretare la sua espressione: è infuriato? divertito? spazientito?

«Cara tritogeneia... figlia terzogenita» dice Zeus «il tuo coraggio mi ha sempre fatto venire il mal di testa. Ma non perderti d'animo, perché la lezione che vi ho dato oggi non proviene affatto dalla collera, ma vuole solo mostrare a tutti i presenti quali risultati avrà la loro disobbedienza.»

Detto ciò, Zeus scende dal trono; fra le gigantesche colonne entra in volo il suo cocchio personale, con una pariglia di cavalli dagli zoccoli di bronzo, criniera dorata svolazzante (cavalli veri, vedo, non ologrammi) e atterra accanto a lui. Zeus si affibbia la corazza dorata, prende dal sostegno la frusta, sale sul carro da guerra, fa schioccare lo sverzino; pariglia e cocchio corrono sul marmo, si alzano in aria, fanno un giro della sala, trenta metri sopra la testa di dèi e dee, poi passano fra le colonne e scompaiono in un rombo di tuono quantico.

A poco a poco gli dèi e le dee e gli immortali di minore importanza escono dalla sala, mormorando e tramando fra loro, senza (ci potrei giurare) la minima intenzione di ubbidire al loro signore e sovrano.

E io... io me ne sto lì per un poco, invisibile e ben felice di esserlo. Sono ancora a bocca aperta e con il fiato corto, come un cane frustato in un giorno troppo caldo. Ho l'impressione di sbavare un poco.

A volte, qui su Olimpo, è difficile credere del tutto al rapporto di causa ed effetto e al metodo scientifico.

 

25

FORESTA DI SEQUOIE, TEXAS

 

Daeman adesso era solo, accanto al sonie, nella radura della foresta e la cosa non gli piacque.

Dopo che Savi si era allontanata, Odisseo aveva raccontato quella interminabile, inutile storia e alla fine si era inoltrato fra gli alberi. Hannah aveva aspettato un minuto e poi era andata dietro al vecchio. (Daeman aveva capito subito, al mattino, che Hannah e il barbuto avevano dormito insieme quella notte: il suo radar sessuale non sbagliava quasi mai.) Qualche minuto più tardi, Ada e l'altro vecchio, Harman, avevano detto che sarebbero andati a fare due passi ed erano scomparsi sotto gli alberi nella direzione opposta. (Daeman sapeva che anche loro avevano fatto sesso quella notte. Evidentemente solo lui e la vecchia strega, Savi, erano rimasti in bianco.)

Così adesso Daeman, tutto solo nella radura, appoggiato allo scafo del sonie, ascoltava il fruscio di foglie e lo scricchiolio di rami spezzati nel buio fra gli alberi... e quei rumori non gli piacevano proprio per niente. Se avesse visto comparire un allosauro, era pronto a balzare nel sonie... e poi? Non sapeva neppure come accedere agli ologrammi di comando, altro che attivare il campo di forza a bolla o volare via. Sarebbe stato un hors d'oeuvre su un piatto d'argento, per il dinosauro.

Pensò di gridare fra gli alberi, di chiamare Savi o qualcuno degli altri perché tornassero, ma subito cambiò idea. E se il rumore avesse attirato i dinosauri o altri predatori? Non aveva intenzione di fare l'esperimento per scoprirlo. Intanto provava un forte disagio... non solo per l'ansia, ma per la necessità di andare al gabinetto. Forse gli altri erano sgattaiolati nella foresta, con la carta igienica fornita da Savi, ma Daeman era un essere umano civilizzato; non era mai andato al gabinetto senza... be'... un gabinetto e non avrebbe cominciato ora. Naturalmente non sapeva quante ore sarebbero passate prima di arrivare a villa Ardis e Savi parlava come se volesse fermarsi solo il tempo per scaricare Hannah, Ada e quel ridicolo impostore che si faceva chiamare Odisseo, per poi puntare sul bacino del Mediterraneo o chissà dove. Daeman sapeva di non poter aspettare tutto quel tempo!

Si rese conto d'essere scoraggiato, più che spaventato. Tutti erano sembrati sorpresi, il giorno prima, quando si era offerto volontario per andare con la vecchia e Harman nella loro ridicola spedizione, ma nessuno aveva immaginato la vera ragione della sua scelta. Prima di tutto, lui era terrorizzato dai dinosauri intorno a villa Ardis. Lì non ci sarebbe tornato. In secondo luogo, tutte quelle chiacchiere sul fatto che l'uso del fax era una sorta di distruzione e ricostruzione delle persone l'avevano reso estremamente nervoso. Be', chi non si sarebbe innervosito, a così breve distanza dal risveglio nello spedale, sapendo che il suo vero corpo era stato distrutto? Lui si era faxato quasi ogni giorno, ma al pensiero di entrare in un portale fax, adesso, sapendo che quell'atto gli avrebbe distrutto muscoli, ossa, cervello e memoria per poi ricostruirne una copia da qualche altra parte, ammesso che la vecchia dicesse il vero... be', si innervosiva da morire.

Così aveva scelto di viaggiare nel sonie per qualche altro giorno, senza affrontare né i dinosauri di villa Ardis né il fax distruttore di atomi o molecole o chissà cosa.

Adesso voleva solo un gabinetto e un servitore o sua madre che gli preparasse la cena. Forse avrebbe chiesto alla vecchia di sbarcarlo a Cratere Parigi. Villa Ardis non era a grande distanza, no? Anche se aveva dato una rapida occhiata agli scarabocchi di Harman, la "mappa", non aveva idea della geografia del mondo. Tra un luogo e l'altro c'era sempre la stessa distanza... un passo nel portale fax.

La vecchia uscì dalla foresta, vide Daeman da solo, appoggiato al sonie fermo a mezz'aria, e gli domandò: «Dove sono gli altri?».

«Me lo chiedevo anch'io. Prima se n'è andato il barbaro. Poi Hannah l'ha seguito. Poi Ada e Harman sono andati da quella parte...» Indicò gli alti alberi sul lato opposto della radura.

«Perché non usi la palma?» disse Savi e sorrise come se qualcosa l'avesse divertita.

«Ho già provato» rispose Daeman. «Su quel tuo affare di ghiaccio. Al ponte. Qui. Non funziona.» Alzò la palma sinistra, pensò alla funzione "Trova" e mostrò a Savi il bianco rettangolo vuoto librato sulla mano.

«Quella è solo la funzione di ricerca diretta» disse Savi. «Una semplice freccia guida, non appena sei vicino a qualcosa, come se in una biblioteca cerchi un libro nel corridoio sbagliato. Usa farnet, la rete remota, o proxnet, la rete vicina.»

Daeman la fissò. Fin dalla prima occhiata aveva dubitato della sanità mentale di quella donna.

«Ah, è vero» disse Savi, sempre sorridendo. «Avete dimenticato tutte le funzioni. Generazione dopo generazione.»

«Ma che vai dicendo?» replicò Daeman. «Le vecchie funzioni come la lettura non sono più attive. Sono sparite quando i post-umani se ne sono andati.» Indicò gli anelli che s'incrociavano nella chiazza di cielo.

«Sciocchezze» disse Savi. Si avvicinò e si appoggiò al sonie accanto a lui; gli prese la mano e la girò, palma in alto. «Pensa tre cerchi rossi con un quadrato blu al centro di ognuno.»

«Eh?»

«Mi hai sentito.» Continuò a tenergli il polso.

"Pazzia pura" pensò Daeman, ma visualizzò tre cerchi rossi con un quadrato blu al centro.

Invece del piccolo rettangolo di luce giallastra generato dalla funzione di ricerca, quindici centimetri sopra la palma si librò un largo ovale di luce blu.

«Ehi!» esclamò Daeman, tirando indietro la mano e scuotendola con forza come se vi si fosse appena posato un enorme insetto.

«Non ti agitare» disse Savi. «È vuoto. Visualizza una persona.»

«Chi?» disse Daeman. Provava una netta sensazione spiacevole: il suo corpo faceva qualcosa che lui non sapeva potesse fare.

«Una qualsiasi. Che conosci bene.»

Daeman chiuse gli occhi e visualizzò il viso di sua madre. Quando li riaprì, l'ovale blu era pieno di diagrammi. Griglia stradale, un fiume, parole che non sapeva leggere: una veduta aerea del cerchio nero che poteva solo essere il centro di Cratere Parigi. L'immagine zumò e di colpo Daeman fu in una struttura stilizzata, quarto piano, domi sul retro vicino al cratere... non casa sua. Due figure umane stilizzate, personaggi da fumetto, ma con viso umano reale, erano a letto, la femmina sul maschio, si muovevano...

Daeman strinse a pugno la mano, spegnendo l'ovale.

«Mi spiace» disse Savi. «Ho dimenticato che oggigiorno più nessuno usa inibitori di traccia. Una tua amica?»

«Mia madre» disse Daeman, con in bocca un sapore di bile. Quello era il complesso domi di Goman, dall'altra parte del cratere: conosceva la disposizione delle stanze fin da quando era bambino e giocava nelle camere interne mentre sua madre frequentava l'uomo alto dalla pelle scura e dalla voce dolce come vino. Daeman non provava simpatia per Goman e ignorava che sua madre lo incontrasse ancora. Come Harman aveva detto prima, a Cratere Parigi era già notte.

«Vediamo dove sono Hannah e Ada e gli altri» disse Savi. Ridacchiò. «Forse anche loro vorrebbero avere attivato gli inibitori farnet.»

Daeman non aveva affatto voglia di aprire il pugno.

«Ripeti il ciclo» disse Savi.

«Come?»

«Come fai sparire la freccia di ricerca?»

«Mi basta pensare: "Spento"» rispose Daeman e tra sé si diede dello stupido.

«Forza!»

Daeman pensò: "Spento" e l'ovale blu si spense.

«Per attivare proxnet pensa un cerchio giallo con un triangolo verde al centro» disse Savi. Guardò la propria palma e sopra vi comparve un vivido rettangolo giallo.

Daeman la imitò.

«Pensa a Hannah» disse Savi.

Daeman seguì il suggerimento. La sua palma e quella di Savi mostrarono un continente, il Nord America (ma Daeman non poteva riconoscerlo), poi uno zoom nella parte centromeridionale, zoom a nord della linea costiera, zoom in una complessa serie di parole illeggibili e mappe topografiche, zoom sotto alberi stilizzati su una forma femminile stilizzata con la testa di Hannah su un corpo da fumetto, che camminava da sola... no, non da sola, si rese conto Daeman, perché al suo fianco camminava un punto interrogativo.

Savi ridacchiò di nuovo. «Proxnet non sa come elaborare Odisseo.»

«Odisseo non lo vedo» disse Daeman.

Savi introdusse il dito nel cubo olografico giallo e toccò il punto interrogativo. Indicò due figure rosse al margine dell'ombra. «Questi siamo noi» disse. «Ada e Harman saranno fuori della griglia, a nord.»

«Come sappiamo che è Hannah?» chiese Daeman, anche se aveva visto la parte superiore della testa.

«Pensa: "Primo piano"» rispose Savi. Gli mostrò l'ombra sulla palma, che aveva zumato più in basso, si era livellata e rivelava la Hannah stilizzata con la faccia della Hannah reale che camminava fra alberi stilizzati lungo un torrente stilizzato.

Daeman pensò: "Primo piano" e si meravigliò per la chiarezza dell'immagine. Vedeva l'ombra degli alberi sui lineamenti di Hannah. La ragazza parlava animatamente al simbolo (Savi l'aveva chiamato punto interrogativo) librato accanto a lei. Daeman fu lieto di non avere trovato Hannah mentre faceva sesso.

Savi intanto aveva visualizzato Ada e Harman, perché l'ombra gialla sulla sua palma cambiò e mostrò due figure che camminavano fra simboli topografici da qualche parte sopra gli immobili puntini rossi che rappresentavano Savi e Daeman.

«Tutti vivi, nessuno divorato dai dinosauri» disse Savi. «Ma vorrei proprio che tornassero, così possiamo partire. Si fa tardi. Se fossero i vecchi tempi, mi limiterei a chiamarli sulla palma e a dire loro di riportare qui le chiappe.»

«Puoi usare questo sistema per comunicare?» disse Daeman, alzando la palma vuota.

«Certo.»

«Perché noi non sappiamo farlo?» Aveva quasi un tono di rabbia.

Savi si strìnse nelle spalle. «Non sapete più un granché, voi umani del cosiddetto vecchio stile.»

«Cosa significa, "cosiddetto vecchio stile"?» replicò Daeman. Adesso era davvero arrabbiato.

«Pensi davvero che gli umani dell'Età Perduta, i veri vecchio stile, avessero nelle cellule e nel corpo tutti questi nanomeccanismi geneticamente modificati.?»

«Sì» rispose Daeman, pur rendendosi conto di non sapere proprio niente dei vecchio stile dell'Età Perduta e fregandosene anche.

Savi rimase in silenzio per un minuto. A Daeman parve molto stanca, ma forse tutte le persone antiche, dell'epoca precedente lo spedale, avevano quella brutta cera.

«Dovremmo andare a prenderli» disse alla fine Savi. «Io riporto qui Hannah e Odisseo, tu ricupera Ada e Harman. Metti la palma in proxnet, attiva la funzione di ricerca come fai di solito e sarai guidato fino a loro. Di' loro che il bus è in partenza.»

Daeman non aveva idea di che cosa significasse "bus", ma non era importante. «Ci sono altre funzioni?» chiese prima d'incamminarsi.

«Centinaia» rispose Savi.

«Mostramene una» la sfidò Daeman. Non le credeva (centinaia, ma va'!) però pensava che se avesse conosciuto anche solo un paio di funzioni nuove, sarebbe diventato popolare alle feste... un tipo interessante per le giovani donne.

Con un sospiro Savi si appoggiò al sonie. Si era alzato il vento che agitava i rami delle sequoie, in alto sopra di loro. «Posso mostrarti la funzione che alla fine spinse via dalla Terra i post-umani» disse piano. «Allnet, la rete totale.»

Daeman chiuse di nuovo il pugno e tirò via la mano. «No, se è pericoloso.»

«Nessun pericolo» disse Savi. «Non per noi. Ecco, faccio prima io.» Gli abbassò il braccio, gli schiuse le dita e gli toccò la palma in un modo che Daeman trovò quasi eccitante. Poi mise la sinistra accanto a quella di lui.

«Visualizza quattro rettangoli blu sopra tre cerchi rossi sopra quattro triangoli verdi» disse piano Savi.

Daeman corrugò la fronte - era difficile, le figure erano proprio al limite della sua capacità di trattenere l'immagine - ma alla fine, a occhi chiusi, ci riuscì.

«Apri gli occhi» disse Savi.

Daeman li aprì e l'attimo dopo si aggrappò freneticamente al sonie per sorreggersi.

Non c'era ombra sulla palma. Né mappe illeggibili né figure da fumetto.

Invece ogni cosa in vista era stata trasformata. I vicini alberi, ai quali non aveva badato se non per sfruttarne l'ombra, erano adesso sagome torreggiami e complesse, trasparenti, strato su strato di tessuti pulsanti, vivi, corteccia morta, vescicole, vene, materiale interno morto che mostrava vettori strutturali e anelli con colonne di dati in scorrimento, il dinamico verde e rosso della vita: aghi, xilema, flemma, acqua, zucchero, energia, luce solare. Se avesse potuto leggere i dati in scorrimento, avrebbe capito esattamente l'idrologia del miracolo vivente rappresentato da quell'albero, avrebbe saputo esattamente quanta pressione osmotica occorreva per portare su l'acqua dalle radici, poteva guardare in basso e vedere le radici nel terreno e il lungo viaggio, decine e decine di metri, dalle radici ai tubuli che portavano l'acqua, decine e decine di metri in verticale. Come un gigante che succhiasse da una cannuccia! E poi il movimento laterale dell'acqua, molecole d'acqua in tubature larghe solo una molecola, lungo rami larghi quindici, diciotto, venti metri, sempre più stretti, sempre più stretti, vita e sostanze nutritive in quell'acqua, energia dal sole...

Daeman alzò gli occhi e vide la luce solare come l'effettiva pioggia d'energia: luce solare che colpiva aghi di pino ed era assorbita, luce solare che colpiva il terriccio sotto i piedi e scaldava i batteri che vi si trovavano. Poteva contare gli indaffarati batteri! Il mondo intorno a lui era un torrente d'informazioni, una marea di dati, un milione di microecologie che interagivano tutte nello stesso tempo, energia per energia. Anche la morte era parte della complessa danza di acqua, luce, energia, vita, riciclaggio, crescita, sesso e fame che scorrevano tutt'intorno a lui.

Daeman vide un topo morto, quasi sepolto nel terriccio, dall'altra parte della radura, ormai poco più che pelo e ossa, ma ancora un faro di energia rosso luminoso, mentre i batteri banchettavano e le uova di mosca incubavano larve nella luce solare del pomeriggio e il lento dipanarsi di complesse proteine continuava a livello molecolare e...

Ansimante, quasi soffocato, Daeman si girò di scatto, cercò di spegnere la visione, ma la complessità era dappertutto: il marcato e grondante flusso e riflusso di energia che passava, sostanze nutritive che venivano assorbite, cellule che erano alimentate, molecole danzanti negli alberi trasparenti e nel suolo respirante e il cielo in fiamme con la sua pioggia e la sua marea di luce solare e di messaggi radio dalle stelle.

Daeman si coprì gli occhi, ma troppo tardi: aveva guardato Savi. Una donna vecchia e anche una galassia di vita. Vita annidata negli scintillanti neuroni del cervello dietro il teschio ghignante e scoppiettante come un fulmine nella serie di impulsi lungo il nervo ottico e nei miliardi di miliardi di forme viventi nelle budella, indaffarate e indifferenti tutte e... Nel tentativo di guardare da un'altra parte, Daeman commise l'errore di guardare se stesso, in se stesso, oltre se stesso, il collegamento con l'aria e il terreno e il cielo...

«Spento!» disse Savi; come un'eco, la mente di Daeman ripeté l'ordine.

Daeman ebbe l'impressione che la brillante luce solare di mezzodì, riflessa sugli alberi e sul terreno cosparso d'aghi di pino, fosse scura come la mezzanotte. Sentì che le gambe non gli funzionavano più. Ansimante, si lasciò scivolare lungo la fiancata del sonie e crollò a terra, si rigirò sullo stomaco, a braccia distese, palme piatte contro il suolo, faccia premuta contro gli aghi di pino.

Savi si accoccolò accanto a lui e gli batté dei colpetti sulla spalla. «Passerà in un minuto» disse piano. «Tu resta qui. Vado io a trovare gli altri.»

 

Quando Harman aveva suggerito di fare due passi, Ada era stata incerta (temeva che Savi si sarebbe arrabbiata o allarmata, tornando nella radura e vedendo che tutti erano spariti) ma Hannah si era già allontanata dietro Odisseo e lei non voleva restare lì accanto al sonie in compagnia di Daeman. Inoltre, non sapeva se avrebbe avuto un'altra occasione di parlare in privato al suo nuovo amante, prima che lei tornasse a villa Ardis e lui volasse con Savi al bacino del Mediterraneo.

Risalirono un'altura, seguirono un ruscello giù dall'altra parte. La foresta era viva del canto di uccelli, ma non videro animali più grossi degli scoiattoli. Harman pareva preoccupato, perso nei suoi pensieri, e toccò Ada solo quando le tese la mano per aiutarla ad attraversare il ruscello, poco sopra una cascata alta tre metri. Ada si chiese se la loro notte insieme non fosse stata un errore, un calcolo sbagliato da parte sua; ma quando si fermarono a riposare ai piedi della cascata, vide che gli occhi di Harman si concentravano su di lei, vide l'affetto e la tenerezza nel suo sguardo e fu felice che fossero diventati amanti.

«Ada» disse Harman «conosci tuo padre?»

Ada non poté non restare sorpresa. La domanda non era poi tanto sconvolgente (la gente, è ovvio, sapeva di avere un padre, in teoria) ma, come altre simili, era posta di rado. «Sapere chi era, intendi?» rispose.

Harman scosse la testa. «Voglio dire, l'hai conosciuto? L'hai mai incontrato?»

«No. Mia madre mi disse il nome, a un certo punto, ma credo che lui... sia arrivato alla quinta Ventina alcuni anni fa.» Era stata sul punto di dire: "... passato agli anelli", l'eufemismo più comune per indicare l'ascensione corporea nel cielo dei post-umani. Col cuore in subbuglio si chiese perché Harman le facesse una domanda così bizzarra. Aveva forse pensato alla possibilità di essere lui suo padre? Accadeva, ovviamente. Giovani donne facevano l'amore con uomini più anziani che avrebbero potuto essere il loro anonimo "padre di sperma" (non esisteva il tabù dell'incesto, perché da una simile unione non potevano nascere figli, e non esistevano fratelli e sorelle, perché ogni donna poteva concepire una volta sola) ma si provava un bizzarro turbamento, a pensarci.

«Non so chi fosse mio padre» disse Harman. «Savi ha detto che in un certo periodo, perfino dopo l'Età Perduta, il padre era importante per i figli quasi quanto lo è ora la madre.»

«È difficile da immaginare» disse Ada, ancora perplessa. Cosa cercava di dirle? Che era troppo vecchio per lei? Che sciocchezza!

Harman riprese a camminare e Ada lo seguì sotto gli alberi. Faceva più fresco, all'ombra, ma l'aria era più densa. Alle loro spalle, la cascata produceva un rumore attenuato. All'improvviso Ada si guardò intorno, allarmata.

«Cos'hai sentito?» disse Harman, fermandosi accanto a lei.

«Niente, ma... c'è qualcosa che non quadra.»

«Niente servitori. Niente voynix.»

Ecco cos'era, capì Ada. Erano soli. Per gli ultimi due giorni l'assenza degli onnipresenti servitori e dei voynix era stata come un rumore di fondo mancante, ma diventava più evidente adesso che erano soli, loro due. All'improvviso, senza una ragione, rabbrividì. «Riesci a trovare la strada per tornare al sonie?»

Harman annuì. «Ho preso nota del terreno e ho osservato il sole.» Indicò col ramo che usava da bastone. «La radura è proprio al di là di quell'altura.»

Ada sorrise, ma non era del tutto convinta. Controllò l'indicatore sulla palma, ma vide che era bianco, come da quando avevano lasciato il domi antartico. Era già stata nei boschi, di solito nella proprietà di villa Ardis, mai però senza un servitore librato nelle vicinanze per mostrarle la strada di casa e senza un voynix a proteggerla. Questa, comunque, era una tensione secondaria rispetto all'ansia centrale che riguardava la strana domanda di Harman.

«Perché chiedi dei padri?» disse.

Harman la guardò, mentre bighellonavano lungo il pendio e si addentravano nella foresta di sequoie: lì era quasi buio, anche se raggi di sole filtravano qua e là nel silenzio da cattedrale. «Un commento fatto da Savi stamattina» rispose. «Sul fatto che sono tanto vecchio da poter essere tuo padre. Sul fatto che mi sono imbarcato in questa cerca dello spedale... e mi sono trovato coinvolto con te... per una sorta di rifiuto della mia Ventina finale.»

La prima reazione di Ada fu di collera, seguita immediatamente da una fitta di gelosia. La collera era per lo sciocco commento di Savi (non era affare della vecchia chi dormisse con Ada né quanti anni avesse); la gelosia derivava dal fatto che Harman aveva lasciato il letto all'alba per andare a parlare con la vecchia. Ada si era limitata a dargli un bacio di saluto, quando quel mattino lui si era alzato dal letto, si era ripulito con gli ultrasuoni e si era vestito; era rimasta un po' delusa perché il suo nuovo amante non voleva trascorrere con lei un'altra ora prima che tutti scendessero per colazione, ma aveva rispettato la sua scelta, pensando che fosse solo un tipo abituato ad alzarsi presto.

Cosa c'era di tanto importante da spingerlo a lasciarla all'alba per parlare con Savi? Non aveva in programma di passare con la vecchia i prossimi giorni, nella stupida ricerca di una nave spaziale? In realtà, capì Ada, Savi faceva le veci di lei, in quella ricerca.

Studiò il viso di Harman (molto più giovanile di quello di Odisseo, che aveva sorprendenti zampe di gallina e capelli brizzolati) e vide che lui non si era accorto del suo lampo di collera e di gelosia. Harman era ancora preoccupato, ovviamente rimuginava qualcosa; Ada si chiese se l'attenzione e la sensibilità che lui le aveva mostrato negli ultimi giorni, culminate nel meraviglioso atto d'amore della notte prima, non fossero aberrazioni, un semplice preludio al sesso, anziché il suo comportamento abituale. Non lo credeva, ma non ne era sicura. Tutta l'intimità che aveva provato con Harman era forse un'illusione, una conseguenza dell'essersi infatuata di lui?

«Sai come decidere di restare incinta?» chiese Harman, continuando distrattamente a punzecchiare il terreno, col ramo che usava come bastone da passeggio.

Ada si bloccò, sconvolta. Quella domanda era... sorprendente.

Harman la guardò senza capire, come se non avesse detto niente d'insolito. «Intendo dire, sai come funziona il meccanismo?»

Continuava a non accorgersi, pensò Ada, di quanto fosse fuori luogo la domanda. Uomini e donne semplicemente non toccavano certi argomenti. «Se stai per farmi una lezione sulle api e sui fiori» disse, fredda «è un po' troppo tardi.»

Harman rise con genuino divertimento. Nell'ultimo paio di settimane quella risata aveva incantato Ada. Ora la irritò da non credersi.

«Non mi riferisco al sesso, mia cara» disse Harman. Era la prima volta, notò Ada, che usava con lei un termine affettuoso, ma non era dell'umore giusto per apprezzarlo. «Mi riferisco a quando ricevi il permesso di restare incinta, forse tra qualche decennio, e scegli il donatore di sperma.»

Ada arrossì e il fatto di non poter fare a meno d'arrossire la mandò in collera. Divenne ancora più rossa. «Non so di cosa parli.»

Invece lo sapeva benissimo, ovviamente. Erano gli uomini, in teoria, a non conoscere e a non discutere simili argomenti. Molte donne decidevano di fare domanda di gravidanza intorno alla terza Ventina. In genere bisognava aspettare da uno a due anni, poi la richiesta veniva accolta dai post-umani e i servitori ne davano comunicazione. A quel punto la donna smetteva di avere rapporti sessuali, prendeva il prescritto disinibitore di gravidanza e decideva quale dei precedenti compagni sarebbe stato il padre di sperma di suo figlio. La gravidanza si manifestava nel giro di giorni e il resto era antico come... be', come la razza umana.

«Parlo del meccanismo per il quale scegli lo sperma conservato che il tuo corpo utilizzerà» continuò Harman. «Le vere donne vecchio stile non avevano questa possibilità di scelta...»

«Sciocchezze» disse Ada, brusca. «Siamo noi, le donne vecchio stile. È sempre stato così.»

Harman scosse lentamente, quasi tristemente, la testa. «No» disse. «Anche al tempo di Savi, solo un migliaio d'anni fa, la gravidanza non era il risultato di un meccanismo così calcolato. Lei dice che i post hanno inserito in noi, nelle donne cioè, questo sistema di conservazione e di selezione dello sperma, basandosi sulla struttura genetica delle falene.»

«Falene!» esclamò Ada, non più semplicemente sconvolta, ma davvero profondamente arrabbiata, adesso. Era tanto ridicolo quanto umiliante. «Di cosa diavolo parli, Harman Uhr

Harman alzò di scatto la testa e parve notare per la prima volta la sua reazione, come se l'uso del titolo onorifico formale fosse stato uno schiaffo che lo riportava alla realtà.

«È vero» disse. «Mi spiace se ti ho sconvolta, ma Savi dice che i post hanno strutturato geneticamente questa capacità di scegliere il padre di sperma, anche anni dopo il rapporto sessuale, dai geni di una specie di falena detta...»

«Basta così!» gridò Ada. Aveva stretto i pugni. Non aveva mai colpito nessuno in vita sua né desiderato farlo, ma in quel momento era vicina a picchiare Harman. «Savi dice questo, Savi dice quello. Ne ho abbastanza, di quella vecchia puttana. Non credo neppure che sia poi così vecchia... o sapiente. È semplicemente pazza. Torno al sonie.» Si incamminò fra gli alberi.

«Ada!» la chiamò Harman.

Lei finse di non sentire, risalì il pendio, scivolando sugli aghi di pino e sul terriccio bagnato.

«Ada!»

Lei continuò, decisa, pronta a lasciarlo indietro.

«Ada, vai nella direzione sbagliata.»

 

Hannah raggiunse Odisseo a qualche centinaio di metri dalla radura. Nell'udire il rumore di cespugli scostati, il vecchio si girò di scatto e mise la mano sull'elsa della spada, ma subito si rilassò, vedendo di chi si trattava.

«Cosa vuoi, ragazza?»

«Voglio vedere la tua spada» disse Hannah, scostandosi dal viso i capelli.

Odisseo rise. «Perché no?» Sganciò dalla cintura il fodero di cuoio e le porse l'arma. «Attenta al filo, ragazza. Con questa lama potrei radermi, se mai decidessi di tagliarmi la barba.»

Hannah sguainò la corta spada e provò a soppesarla.

«Savi sostiene che lavori con i metalli» disse Odisseo. Si chinò su un ruscello, mise le mani a coppa e bevve. «A sentire lei, potresti essere l'unica persona, uomo o donna, in questo mirabile mondo nuovo, a saper forgiare il bronzo.»

Hannah scrollò le spalle. «Mia madre ricordava vecchie storie sulla forgia di metalli. Quando era giovane, giocava col fuoco e coi focolari all'aperto. Io continuo gli esperimenti.» Roteò in alto la spada e menò un fendente.

«Ci hai visto combattere in quel vostro lino» disse Odisseo.

Hannah annuì. «E allora?»

«Usi la spada in maniera corretta, ragazza. Di taglio, anziché di punta. Questo utensile è fatto per mozzare membra e squarciare ventri, niente di troppo raffinato.»

Con una smorfia, Hannah restituì la spada. «È la stessa che hai usato nella piana di Ilio?» chiese piano. «E nella missione per rubare il Palladio?»

«No» rispose Odisseo. Alzò in verticale la spada, finché su di essa non danzò un poco della luce che filtrava fra i rami. «Questa spada è un regalo fattomi da... una donna... durante i miei viaggi.»

Hannah attese altre spiegazioni, ma Odisseo, anziché raccontare un'altra storia, le chiese: «Ti piacerebbe vedere cosa la rende diversa?».

Hannah annuì.

Odisseo batté col pollice due colpetti sulla guardia dell'elsa e a un tratto la spada parve scintillare lievemente. Hannah si sporse per sentire meglio: sì, dalla lama proveniva un lieve, ma persistente, ronzio. Mosse la mano verso la spada, ma Odisseo scattò ad afferrarle il polso.

«Se la tocchi adesso, ragazza, ci perdi le dita.»

«Perché?» chiese Hannah. Non cercò di liberarsi.

Odisseo, dopo qualche secondo, le lasciò il polso. «Vibra» disse, tenendo la lama di piatto, appena sotto il livello degli occhi.

Hannah notò di nuovo d'avere la stessa statura di Odisseo. La notte prima era rimasta ad ascoltarlo nella verde sala a bolla sul ponte, dopo che gli altri erano rientrati, poi l'aveva accompagnato a fare due passi, era tornata nell'abitazione di lui a parlare per delle ore e si era messa a dormire per terra, accanto alla branda. Sapeva che Ada era convinta che fosse divenuta l'amante di Odisseo; se ne fregava e non vedeva alcun motivo per disilludere l'amica. «Pare quasi che canti» disse, girando un poco la testa per sentire meglio l'acuto ronzio.

Odisseo scoppiò a ridere e Hannah non ne capì il motivo. «Non ti preoccupare» disse lui. «Non mi è stata lanciata da una Dama del Lago, anche se non sarebbe poi molto lontano dal vero.» Rise di nuovo.

Hannah lo guardò. Non aveva la minima idea di che cosa parlasse. Si domandò se lui invece sapesse che cosa diceva. «Perché vibra?» chiese.

«Sta' indietro» disse Odisseo.

Le sequoie intorno a loro avevano per la maggior parte il tronco spesso due o tre metri, ma un albero più piccolo, forse un pino ponderosa o un abete Douglas, cresceva in una chiazza di sole, qualche metro alla loro sinistra. Probabilmente aveva trenta o quarant'armi, era alto una quindicina di metri e aveva il tronco spesso cinquanta centimetri.

Odisseo piantò a terra i piedi, strinse nella mano la spada e con noncuranza, senza sforzo, vibrò contro il tronco un fendente di rovescio.

La lama descrisse un arco tanto fluido da dare l'impressione d'avere mancato completamente il bersaglio. Non ci fu alcun rumore d'impatto. Dopo qualche istante l'alta conifera vibrò e cadde rumorosamente al suolo.

Odisseo premette di nuovo l'elsa e il debole ronzio cessò.

Hannah si avvicinò a guardare il ceppo, alto un metro e mezzo, e l'albero caduto. Il tronco pareva tagliato con precisione chirurgica, non segato. Hannah posò la mano sul ceppo: niente resina, niente trucioli. Il legno era così liscio da sembrare cauterizzato, plastificato. Hannah si girò verso Odisseo. «Quella spada si sarà rivelata molto utile, durante l'assedio di Troia» disse.

«Tu non ascolti, ragazza» disse Odisseo. Rimise nel fodero la spada e se l'agganciò alla cintura. «Me l'hanno regalata alcuni anni dopo, quando la guerra era ormai finita e avevo cominciato i miei viaggi. Se l'avessi avuta a Ilio...» Sogghignò orribilmente. «Non sarebbe rimasto troiano, dio o dea con la testa sulle spalle, ragazza. Garantito.»

Hannah si ritrovò a ricambiare il sogghigno. Non erano amanti, non ancora, ma lei contava di restare a villa Ardis, mentre Odisseo vi era ospite, e chissà cosa sarebbe potuto accadere...

«Ah, siete qui» disse Savi, scendendo il pendio verso di loro. Chiuse il pugno e quello che pareva un rilevatore palmare si spense.

«È ora di proseguire?» chiese Odisseo, parlando a Savi, ma guardando Hannah, come se fossero vecchi congiurati.

«Ora di proseguire» confermò Savi.

 

26

VALLES MARINERIS CENTRORIENTALE,

TRA EOS CHASMA E COPRATES CHASMA

 

Tre settimane nel viaggio a ovest, risalendo il fiume - il mare interno, in realtà - della Valles Marineris... e Mahnmut era sul punto di dare i numeri moravec.

La loro feluca, con un equipaggio di quaranta piccoli omini verdi, era solo una di numerose imbarcazioni dirette a est o a ovest nella fossa tettonica allagata della Valles Marineris o da nord a sud e viceversa nell'estuario che si apriva nel mare della Chryse Planitia dell'oceano settentrionale Tethys. Oltre a una ventina di altre feluche con equipaggi di POV, ogni giorno avevano sorpassato almeno tre chiatte lunghe un centinaio di metri, ognuna delle quali trasportava quattro grandi blocchi di pietra da cui ricavare le teste, tutte dirette a est dalla cava alla base della parete rocciosa sul lato meridionale del Noctis Labyrinthus, all'estremità ovest della Valles Marineris, ancora circa duemilaottocento chilometri più avanti della feluca di Mahnmut.

Orphu di Io era stato fatto rotolare a bordo e messo al sicuro nel ponte di stiva centrale, sotto un telone per nasconderlo alla vista dall'alto, legato vicino ai pezzi principali del carico e ad altri oggetti ricuperati dal Dark Lady. Al pensiero del sommergibile rimasto nelle acque basse della grotta marina lungo la linea costiera della Chryse Planitia, millecinquecento chilometri dietro di loro, Mahnmut si sentiva depresso.

Prima di quel viaggio, non sapeva d'essere capace di deprimersi, di provare un malessere emotivo e un senso di disperazione così terribili che avrebbero potuto privarlo di quasi tutta la forza di volontà e di ogni ambizione; ma il violento distacco dal sommergibile gli aveva mostrato fino a che punto potesse sentirsi giù di morale. Orphu, cieco, menomato, portato a bordo come tanta altra inutile zavorra, pareva di buonumore, anche se Mahnmut aveva imparato quanto di rado e con quanta cautela il suo amico mostrasse i suoi veri sentimenti.

La feluca era giunta, come promesso, la mattina del giorno marziano successivo al loro arrivo sulla costa; e mentre i POV portavano a bordo il povero Orphu, Mahnmut era sceso varie volte nel sommergibile allagato e aveva portato via tutte le unità amovibili - celle solari, apparecchi di comunicazione, dischi col giornale di bordo - e tutti gli attrezzi nautici che poteva trasportare.

«Hai nuotato nudo fino al relitto, ti sei riempito le tasche di gallette e sei tornato indietro sempre a nuoto, eh?» aveva detto Orphu quel mattino, quando Mahnmut gli aveva riferito il tentativo di ricuperare il salvabile.

«Cosa?» aveva replicato Mahnmut, chiedendosi se, per tutti i colpi presi, alla fine Orphu non fosse impazzito.

«Piccolo errore di logica nel Robinson Crusoe di Defoe» aveva riso Orphu. «Mi piacciono, gli errori di logica.»

«Non l'ho mai letto» aveva detto Mahnmut. Non era dell'umore giusto per scherzare. Era straziato per avere dovuto abbandonare il Dark Lady.

Nelle prime tre settimane di viaggio i due moravec discussero la reazione di Mahnmut, perché avevano ben poco da fare a bordo della feluca, a parte discutere di questo e di quello. Il ricetrasmettitore radio a corto raggio che Mahnmut aveva agganciato a Orphu, inserendolo nella presa di collegamento, funzionava bene.

«Tu soffri tanto di agorafobia quanto di depressione» disse Orphu.

«Come mai?»

«Sei stato progettato, programmato e addestrato per essere parte del sommergibile, nascosto sotto i ghiacci di Europa, circondato da tenebre e pressione micidiale, comodo in spazi ristretti. Anche le brevi sortite sulla superficie ghiacciata di Europa non ti hanno preparato a questi smisurati panorami, all'orizzonte lontano, al cielo azzurro.»

«Il cielo non è azzurro al momento» fu tutto ciò che Mahnmut disse in risposta. Era mattina presto e, come quasi tutte le mattine, la Valles Marineris era piena di nubi basse e di fitta nebbia. I pov avevano ammainato le vele: quando mancava la spinta del vento sulle vele latine dei due alberi, la feluca avanzava a remi e trenta piccoli omini verdi, quindici per lato, remavano e parevano instancabili. C'erano lanterne accese a prua, sul trinchetto, sulle fiancate e a poppa; la feluca si muoveva appena. Quella parte della Valles Marineris era larga più di centoventi chilometri e la zona dove presto sarebbero entrati era larga duecento, un mare interno più che un fiume, così vasto che, perfino nelle giornate di sereno, gli alti strapiombi della riva nord o della riva sud erano invisibili per la distanza; ma in quei canali c'era un movimento di navi sufficiente a giustificare ogni precauzione nella nebbia.

Mahnmut capì che Orphu aveva ragione, che l'agorafobia era parte del suo problema, visto che si sentiva più acutamente depresso nei giorni di sereno, quando il panorama non aveva limiti; ma capì pure che il problema era più complesso, non riguardava solo la separazione dalla sicura nicchia ambientale e dai connettori sensoriali della nave. Lui era, era sempre stato, un capitano di nave e sapeva, dai programmi di storia e poi dalle sue letture, che niente addolorava un capitano più della perdita della propria nave. Per giunta, era stato incaricato di un'importante missione, portare Koros III ai piedi di Olympus Mons dalla parte del mare, e aveva miseramente fallito. Koros III era morto, al pari di Ri Po, il moravec che sarebbe dovuto restare in orbita a ricevere, interpretare e ritrasmettere gli importanti dati del sopralluogo di Koros.

"A chi?" pensò. "Come? Quando?" Non aveva alcun indizio.

Discussero anche questo, nelle tre settimane di viaggio tranquillo. Perfino più tranquillo, di notte, perché i POV cadevano in ibernazione non appena il sole tramontava, dopo avere bloccato la feluca mediante un'ancora assai complicata (Mahnmut aveva fatto rilievi sonar e aveva stabilito che l'acqua sotto di loro era più profonda di sei chilometri), e non riprendevano a muoversi finché, il mattino dopo, la luce del sole non toccava la loro pelle verde e trasparente. Pareva chiaro che i POV acquisivano energia esclusivamente dalla luce del sole, anche se velata dalla nebbia del mattino. Di sicuro Mahnmut non aveva mai visto nessuno dei piccoli omini verdi mangiare o secernere qualcosa. Avrebbe potuto chiederlo, ma (anche se Orphu aveva ipotizzato che i singoli POV non "morivano" realmente dopo avere comunicato) non si fidava abbastanza della teoria del suo amico per infilare di nuovo la mano nel petto di una di quelle creature, stringere quello che avrebbe potuto essere il cuore e fare domande che potevano benissimo essere rimandate a un altro giorno.

Non aveva invece riserve a fare domande a Orphu. «Perché hanno mandato noi?» chiese il decimo giorno. «Non sappiamo niente della missione e non siamo attrezzati per portarla a termine, anche se sapessimo che cosa fare. È stata una pazzia, mandarci qui all'oscuro di tutto.»

«Gli amministratori moravec sono soliti dividere in compartimenti il lavoro e assegnare gli incarichi secondo i settori di competenza» disse Orphu. «Tu eri il migliore per condurre Koros al vulcano. Io ero il miglior moravec disponibile per mantenere in ordine la nave spaziale. Non hanno mai considerato la possibilità che saremmo stati la squadra superstite, rimasta a fare il lavoro degli altri due.»

«Perché no?» disse Mahnmut. «Di sicuro sapevano che la missione era pericolosa.»

Orphu ridacchiò piano. «Avranno pensato: o la va o la spacca. Cioè che, nel peggiore dei casi, saremmo morti tutti.»

«C'è mancato poco» borbottò Mahnmut. «E probabilmente fra poco non ci mancherà più niente.»

«Descrivimi la giornata» disse Orphu. «La nebbia c'è ancora?»

 

I giorni e il paesaggio e le notti erano bellissimi. Mahnmut derivava la conoscenza dei pianeti con atmosfera respirabile esclusivamente dalla banca dati riguardante la Terra e perciò il Marte terraformato era una variazione interessante.

Il colore del cielo variava da un luminoso celeste a mezzodì a un rosa rossastro al tramonto, tonalità che a volte virava a un giallo oro che infondeva fulgore in ogni cosa. Il Sole stesso pareva decisamente più piccolo di quello visto dalla Terra, come testimoniavano vecchie registrazioni video, ma era immensamente più grande, più luminoso e più caldo di quello conosciuto dai moravec galileiani negli ultimi millecinquecento anni terrestri. La brezza era dolce e odorava di salsedine e a volte, in modo sconvolgente, di vegetazione.

«Ti chiedi mai perché ci abbiano dato quel senso?» disse Orphu, quando Mahnmut gli descrisse il profumo di vegetazione, mentre dal mare Tethys entravano nell'ampio estuario della Valles Marineris.

«Quale?»

«L'olfatto.»

Mahnmut rifletté sulla domanda. Aveva sempre dato per scontato il senso dell'olfatto, anche se era inutile sott'acqua o sulla superficie di Europa e in pratica anche nella nicchia ambientale del Dark Lady... in altre parole, dovunque lui si fosse trovato. «Potrei fiutare fumi tossici nel sommergibile o nei cubicoli pressurizzati di Conamara Chaos Central» disse alla fine, sapendo però che non era una risposta soddisfacente. Per quella sorta di pericoli nei moravec erano inseriti segnalatori di maggiore efficacia.

Orphu ridacchiò piano. «Avrei potuto fiutare lo zolfo, quando ero sulla superficie di Io, ma chi ne avrebbe avuto voglia?»

«Puoi sentire gli odori?» disse Mahnmut. «Non ha molto senso, per un moravec da vuoto spaziale.»

«Già. E neanche il fatto che trascorro, trascorrevo cioè, la maggior parte del tempo a guardare cose nello spettro umano di luce visibile; però a ogni occasione guardavo.»

Mahnmut rifletté anche su questo. Era vero: lui faceva la stessa cosa, anche se poteva facilmente vedere nelle estremità dello spettro, infrarosso e ultravioletto. La vista di Orphu, Mahnmut lo sapeva, comprendeva visualizzazione di frequenze radio e di linee di campo magnetico, tutt'e due non comuni negli umani vecchio stile, che però erano molto più sensate per un moravec che lavorasse nei campi di radiazioni dure dello spazio galileiano. Perché allora il suo amico sceglieva più frequentemente le limitate lunghezze d'onda "visibili" per le creature umane?

«Credo che sia perché i nostri progettisti e tutte le successive generazioni di moravec avevano il segreto desiderio di essere umani» disse Orphu, rispondendo alla domanda inespressa di Mahnmut; l'accompagnò con un rombo ironico o divertito. «L'effetto Pinocchio, per così dire.»

Su questo Mahnmut non era d'accordo, ma si sentiva troppo depresso per discuterne.

«Che odori senti adesso?» chiese Orphu.

«Vegetazione putrefatta» disse Mahnmut, mentre la feluca prendeva il canale più meridionale del largo estuario. «Puzza come il Tamigi di Shakespeare nelle ore di bassa marea.»

 

Nella prima settimana di risalita del fiume, per non stare inoperoso e impazzire di noia, Mahnmut smontò ed esaminò come meglio poteva gli altri tre oggetti ricuperati dalla stiva merci... considerando Orphu il quarto.

Il manufatto più piccolo, un liscio ovoide più grosso del compatto tronco di Mahnmut, era il Congegno, l'elemento singolo più importante della missione del compianto Koros III. Tutto ciò che Mahnmut e Orphu sapevano del Congegno era che il moravec di Ganimede avrebbe dovuto portarlo su Olympus Mons e, se si fossero verificate certe circostanze di natura a loro imprecisata, metterlo in funzione.

Mahnmut sondò col sonar il Congegno e rimosse una minuscola parte dell'involucro di superlega riflettente. A che cosa servisse, rimaneva oscuro. La macchina, se macchina era, era macromolecolare: in pratica una singola molecola di nanotecnologia elevata al quadrato, con un durevole nucleo centrale di tremenda energia tenuta a freno solo dai campi interni della macromolecola. L'unico congegno vero e proprio che Mahnmut riuscì a scoprire era un detonatore innescato a corrente. Trentadue volt applicati nel punto giusto dell'involucro avrebbero... fatto qualcosa... alla parte interna della macromolecola.

«Potrebbe essere una bomba» disse Mahnmut, rimettendo accuratamente a posto il millimetro quadrato d'involucro metallico.

«E che bomba!» borbottò Orphu. «Se la macromolecola è un guscio d'uovo, qui abbiamo di che fare una frittata. Il tuorlo saremo noi.»

Fingendo di non avere sentito la battuta, per non rompere l'amicizia e non cedere all'impulso di gettare Orphu fuoribordo, Mahnmut guardò lo scorrere delle pareti del canyon (navigavano ancora a meno di tre chilometri dagli alti dirupi meridionali che delimitavano quel giorno il largo mare interno) e immaginò la scomparsa di tutte quelle bellissime rocce rosse, striate, a terrazze. Pensò alle mangrovie periscopiche che crescevano nelle basse paludi marziane dell'estuario, alla ginestra spinosa dalle forme geometriche naturali visibile nelle pareti più alte dei dirupi della valle, perfino al fragile cielo azzurro con increspature d'alti cirri sopra la roccia... e cercò d'immaginare la distruzione di tutte quelle meraviglie in una sola esplosione quantica tanto grande da fare a pezzi un pianeta. Non gli parve giusto. «Riesci a pensare cos'altro potrebbe essere, anziché una bomba?» chiese a Orphu.

«Così su due piedi, no» rispose il moravec di Io. «Ma un congegno che racchiude tutta quell'energia quantica implosiva rappresenta una tecnologia molto al di là delle mie conoscenze. Ti suggerirei di trattare con gentilezza il Congegno... metterci sotto un paio di cuscini, per esempio; ma visto che ha resistito all'attacco della gente del cocchio e all'ingresso nell'atmosfera che ha fregato me e ucciso il tuo sommergibile, di sicuro non può essere molto delicato. Dagli un calcio in culo e andiamo avanti. Qual è il secondo oggetto che hai preso dalla stiva?»

L'oggetto successivo era solo un po' più largo del Congegno, ma molto più comprensibile. «È una sorta di trasmettitore iperveloce» disse Mahnmut. «È ripiegato su se stesso, ma se lo accendo, si srotola sul proprio treppiede, punta al cielo un largo piatto e invia una bella raffica di... di qualcosa. Energia cifrata in raggio compatto o k-maser o forse perfino gravità modulata.»

«Che cosa se ne sarebbe fatto Koros di questo affare?» chiese Orphu. «I satelliti di trasmissione sono ancora in orbita e la nave spaziale avrebbe potuto ritrasmettere nello spazio galileiano ogni sorta di raggio o di segnale radio. Diavolo, perfino il tuo sommergibile avrebbe potuto contattare casa.»

«Forse non era prevista una trasmissione nello spazio gioviano» ipotizzò Mahnmut.

«Dove, allora?»

Mahnmut non avanzò alcuna ipotesi.

«Koros come intendeva mettere in codice i messaggi?» chiese Orphu.

«Ci sono porte per connettori a spina virtuali» disse Mahnmut, dopo avere ispezionato con cura il compatto macchinario rivestito di nanocarbonio. «Potremmo scaricare tutto ciò che abbiamo visto e appreso, metterlo in codice e trasmetterlo. A meno che non occorra un codice d'attivazione o roba del genere. Mi inserisco e controllo?»

«No» disse Orphu. «Per il momento.»

«Allora lo chiudo.»

«Quel trasmettitore cosa usa come fonte d'energia per una emissione iperveloce?» chiese Orphu, prima che Mahnmut chiudesse l'apparecchio.

Mahnmut non era esperto in quella tecnologia, ma descrisse lo schema del contenitore magnetico e del campo di forza.

«Ohi, ohi» disse Orphu. «È la felschenmass di Chevkov. Antimateria artificiale del tipo che il Consorzio ha usato come propellente della prima sonda interstellare. Qui c'è energia sufficiente a tenerci vivi e pimpanti per parecchi secoli terrestri, se solo avessimo il modo di attingervi.»

Mahnmut si era sentito accelerare i battiti del cuore. «Potevamo usarla per rimpiazzare il reattore a fusione del Lady

Orphu rimase in silenzio per vari secondi. «No, non credo» disse infine. «Troppa energia rilasciata troppo in fretta e con troppa forza. Ingovernabile. Forse tu e io avremmo potuto attingere al suo campo di mantenimento, ma non credo che avremmo potuto alimentare con essa il Dark Lady,anche se fosse stato possibile ripararlo. E hai detto che non potevi ripararlo da solo, no?»

«Avrebbe dovuto raggiungere i dock di Conamara Chaos» disse Mahnmut, con una strana combinazione di rimpianto e di sollievo alla notizia che non era un modo per riparare il povero Lady. Per quanto fosse depresso per la morte della nave, trovava ancora più deprimente l'idea di tornare indietro e viaggiare per più di duemila chilometri.

Il terzo oggetto era il più grande, il più pesante e, per Mahnmut, il più difficile da capire.