Il destino volle che fosse proprio Rosalind a trovare finalmente Graeme, acquattato nell'erba e tra i germogli secchi di bambù sulla riva opposta del Crescent Pond, lo sguardo fisso, come ipnotizzato, sulla superficie percorsa dai ragni del laghetto. «Graeme, ti abbiamo cercato dappertutto! Non ci hai sentiti gridare il tuo nome?» urlò Rosalind, esasperata. Agitò la mano in direzione di Stephen, chiamandolo perché si avvicinasse, invitandolo a guadare l'erba alta fino alla coscia, simile a una distesa di spade affilate. L'espressione sul volto di Graeme spaventò Rosalind che, per reazione, continuò a rimproverarlo. «Stavamo cercandoti tutti! Ci hai fatto preoccupare. Spero che ora sarai soddisfatto.»
Stephen giunse da loro al piccolo trotto, ansimante. Indossava una vecchia maglietta e un paio di jeans macchiati di fango dello stesso colore del letame fresco. Rosalind notò che sanguinava leggermente da un graffio sopra il sopracciglio sinistro, evidentemente procurato da un ramo basso e aguzzo. «Ehi, Graeme, stai bene?» domandò Stephen.
Vedendosi scoperto, Graeme mormorò qualcosa con tono evasivo. Si alzò in piedi, ma barcollò un poco; doveva essere rimasto acquattato a lungo. I suoi pantaloncini e la maglietta cachi erano coperti dei resti di foglioline e ramoscelli. I capelli castani e ondulati che gli ricadevano sopra le orecchie erano arruffati. Deglutì, poi rivelò: «Ho visto qualcosa. Ieri notte».
Ah sì? E che cosa? Rimasero in attesa.
«Non lo so. L'ho visto... ma non sono sicuro. Cioè, non so se ho visto che cos'era. O no...» La voce di Grame si spense miserevolmente. Era chiaro che era molto spaventato da quanto aveva visto; e non sapeva come parlarne. Non voleva correre il rischio di essere preso in giro dai fratelli, ma al tempo stesso...
Allora? Coraggio, Graeme. Parla.
«Era... un uomo, penso. Camminava su quella stradina laggiù. Erano le due di notte. Non riuscivo a dormire e sono sceso giù... e ho visto qualcosa dalla finestra.» Graeme parlava lentamente, con sofferenza. Si passò un avambraccio distrattamente sulla bocca, pulendosela. «Sono uscito sulla terrazza. L'ho visto... quell'uomo, quella cosa... alla luce della luna.»
«Qualcuno di passaggio senza permesso nella proprietà?» indagò Stephen.
«Sei sicuro che non fosse uno di noi?» ipotizzò Rosalind, cercando di sdrammatizzare. L'espressione negli occhi del fratello le dava i brividi.
Graeme rispose scegliendo con cura le parole: «Era una cosa... una cosa simile a un uomo... a un uomo senza faccia.» A un tratto sulle sue labbra comparve un sorriso. «Una Cosa senza volto.»
Stephen, fingendo di non aver sentito, si affrettò a osservare: «Probabilmente un cacciatore, di passaggio nella nostra proprietà. Qualcuno che abita nei dintorni.»
Graeme scosse furiosamente la testa. «No, non aveva il fucile. Camminava... e basta. Ma non camminava come un uomo normale. Era sulla stradina e si muoveva verso l'erba... da quella parte. Come se sapesse dove stesse andando; e non aveva fretta. Una Cosa senza volto.»
«Come poteva non avere un volto?» domandò scetticamente Stephen. «Tutte le cose in natura, tutte le creature viventi hanno una faccia. Forse stavi dormendo e hai sognato.»
«Non stavo sognando!» protestò con forza Graeme. «Io so distinguere benissimo la realtà dai sogni, e la Cosa senza volto era vera.»
Stephen rise nervosamente, con atteggiamento canzonatorio. Aveva cominciato a indietreggiare, gettando in avanti i palmi delle mani in un gesto di sufficienza; il graffio che aveva sulla fronte luccicava di sangue. «Non esistono cose senza volto! L'hai sognato e basta.»
«No», intervenne all'improvviso Rosalind, afflitta. «Io l'ho sognato. Anch'io l'ho visto. Un uomo... una cosa che somigliava a un uomo, senza faccia, in piedi vicino al mio letto.» Si coprì gli occhi con le mani, ricordando la terribile visione, sotto gli sguardi terrorizzati dei fratelli.
Vicino al mio letto, di notte; al chiaro di luna; la forma di un uomo, della testa di un uomo, eppure dove ci sarebbe dovuta essere la faccia... c'era solo pelle, grezza, senza connotati.
4. Altre persone
Le nostre giornate a Cross Hill erano imprevedibili quanto il cielo sopra Contracoeur. A causa della presenza delle montagne e dei venti che soffiavano incessantemente sul gelido lago Noir, l'aspetto del cielo cambiava in continuazione: un minuto era limpido, di un azzurro traslucido come un bicchiere appena lavato; il minuto dopo appariva chiazzato e percorso da nuvole in movimento dello stesso colore delle prugne mature. Prima di un temporale, a seconda della direzione e della velocità del vento, la temperatura poteva abbassarsi addirittura di otto, nove gradi nel giro di pochi minuti. A volte, con grande smarrimento dei bambini più piccoli, la sera cominciava all'improvviso a calare a mezzogiorno, il sole oscurato da nubi scure e frastagliate. I tuoni erano spesso tanto forti che il cielo e la terra sembravano cadere insieme in preda a violente convulsioni; i fulmini squarciavano il cielo rivelandone le cavernose e sinistre profondità, paragonabili a quelle degli scantinati di Cross Hill (la cui esplorazione ci era stata ufficialmente vietata). I tetti intaccati dai licheni e i serramenti che non chiudevano bene lasciavano filtrare l'acqua all'interno della casa; su quelli che un tempo erano stati eleganti pavimenti di marmo e parquet si formavano pozzanghere; la mamma piangeva e malediceva i nemici di nostro padre. «Come possono essere tanto crudeli, tanto vendicativi? Se solo sapessero quanto siamo infelici!» La mamma sembrava convinta che se i nemici di papà, alcuni dei quali erano stati suoi colleghi e amici, avessero saputo quanto fossimo sventurati in quel luogo terribile, avrebbero avuto pena di noi, decidendosi a scagionare completamente Roderick Matheson e a riaccoglierlo al Campidoglio, dove era suo diritto trovarsi. Se solo sapessero.
Papà si teneva sulle sue, nascondendosi per buona parte del tempo come un recluso nelle sue stanze al secondo piano della casa. Anche nelle giornate più calde e umide, papà continuava a lavorare. Mamma diceva che non lavorava mai meno di dodici ore al giorno; non si sarebbe dato tregua finché non avesse soddisfatto il suo desiderio di riscatto. A volte, tenendoci a debita distanza, ci capitava di scorgerlo mentre camminava attraverso l'erba alta; in un'occasione uno di noi alzò gli occhi e colse il bagliore bianco della camicia di papà a una delle finestre del secondo piano; non ci azzardavamo mai a salutarlo con la mano, per paura che potesse interpretare il gesto come indice di frivolezza o, peggio, come atto di scherno. Era in occasione della cena che lo vedevamo, quando decideva di unirsi a noi. Compariva seduto a capotavola prima che la mamma ci convocasse in sala da pranzo, sorridente e speranzoso come un convalescente. Mangiava lentamente, con appetito forzato, e parlava poco, come a voler conservare la voce; non gli piaceva sentirci chiacchierare, ma non voleva neppure che stessimo in assoluto silenzio «come gente a lutto». (Per quanto apparisse stanco, papà non aveva perso il suo consueto e tagliente sarcasmo, né la predisposizione agli accessi d'ira, rivolti soprattutto contro Stephen, i cui maldestri tentativi di rallegrare l'atmosfera erano da lui interpretati come «impertinenza».) Erano molte le sere, tuttavia, in cui papà mangiava da solo al piano di sopra, consumando il pasto preparato da una donna di Contracoeur, la signora Dulne, assunta part-time dalla mamma come cuoca e donna delle pulizie, il cui marito, il signor Dulne, forniva anche lui un contributo come uomo tuttofare e giardiniere. (I Dulne erano persone molto piacevoli, per quanto riservate e caute; anagraficamente, avrebbero potuto essere i nostri nonni.) Era la mamma a portare al secondo piano la cena, su un antico vassoio d'argento riccamente decorato e ossidato, decisa a tutti i costi a far mangiare papà perché conservasse le forze. Le nostre vite, il nostro futuro, dipendevano infatti dalle «forze» di papà. A partire dalla fine di giugno, sporadici visitatori cominciarono a venire a trovare papà a Cross Hill. Le loro automobili lunghe, scure e lucide sembravano comparire dal nulla, mentre avanzavano esitanti sul trascurato vialetto di pietrisco. Forse erano avvocati. O forse procuratori dello stato. In almeno un'occasione i visitatori si rivelarono essere una troupe televisiva, capeggiata da una cronista e un cameraman. La mamma vietò alla cronista di entrare in casa, ma non poté fare nulla per impedire alla troupe di riprenderla mentre, dalla soglia della porta d'ingresso, gridava rabbiosamente: «Andate via! Non siete ancora soddisfatti di quello che ci avete fatto? Lasciateci in pace!» A noi era vietato parlare con i visitatori ed eravamo stati scoraggiati anche solo dall'osservarli. Venivamo addirittura invitati a dimenticarli se li scorgevamo. Quando uno dei visitatori di papà uscì dalla casa un tardo pomeriggio, scambiò un saluto con Stephen (al lavoro insieme con il signor Dulne nell'erba alta che fiancheggiava il vialetto, dove erano impegnati, a torso nudo sotto il sole, a strappare erbacce); tuttavia, quella sera la mamma insistette che non c'erano stati visitatori quel giorno; o comunque non era venuto nessuno che Stephen potesse conoscere. Stephen, al contrario, sosteneva di aver riconosciuto senza ombra di dubbio l'ospite di papà; l'aveva già incontrato in diverse occasioni nella nostra casa di città; uno dei compagni di classe di Stephen alla scuola che aveva frequentato prima del trasloco era il figlio di quell'uomo; eppure, per quanto si sforzasse, Stephen non riusciva a ricordare il suo nome. E quando lo domandò alla mamma, lei si mostrò evasiva. «Chi? Io non ho visto nessuno. Stavo riposando. Faceva così caldo, oggi...» Stephen volle sapere se papà avrebbe sottoposto il suo caso al tribunale in tempi brevi e la mamma rispose nervosamente: «Che cosa posso saperne io, Stephen? Non mi vengono dette certe cose. Ma ti prego di non chiederlo direttamente a papà, caro. Promettimi che non lo farai!» Come se fosse necessario rivolgere a noi, e a Stephen in particolare, un simile avvertimento.
Dunque le giornate, come le notti, erano dense di tensione e imprevedibili. Per la prima volta nelle nostre vite, noi piccoli Matheson non avevamo niente da fare: nessun amico da visitare, nessuna scuola da frequentare, nessuna lezione privata, niente televisione, videoregistratore, videogiochi né computer (a eccezione dell'apparecchiatura sempre meno affidabile di Graeme), niente cinema, niente giro al centro commerciale; alcuni di noi avevano il permesso di accompagnare la mamma, o meno frequentemente papà, quando andavano a fare la spesa a Contracoeur; ma ci era proibito girare per il paese e, soprattutto, parlare con gli sconosciuti. Con nostra grande sorpresa ci vennero assegnati dei lavoretti; noi che non avevamo mai dovuto partecipare alle faccende domestiche, sapendo comunque di poter contare sulle nostre paghe settimanali e sull'uso di carte di credito a nostro nome. Quanta ingiustizia, invece, a Cross Hill, dove eravamo costretti a lavorare e non venivamo ricompensati con un solo centesimo! Anche a Neale e a Ellen, di soli dieci anni, erano stati assegnati dei compiti! La mamma ci aveva comunicato severamente che avremmo dovuto accettare il fatto di non essere più, per il momento, quelli che eravamo stati. Abbassando il tono di voce e parlando come se stesse recitando le parole di qualcun altro, disse: «Temporaneamente, dobbiamo considerarci altre persone».
Altre persone! Eravamo scioccati, imbarazzati. Sapevamo di essere stati vittime di un imbroglio. Ricordavamo quanta tristezza e compassione ci fosse nella voce della mamma quando ci parlava dei «poveri»; di quelli costretti a vivere nei ghetti degli Stati Uniti o in quella regione dal nome così strano: il «Terzo mondo»; il suo sorriso triste e malinconico quando guardavamo assieme le angosciose immagini televisive di popoli afflitti da carestie o guerre in Africa, India, o Bosnia, per esempio. Sia papà che la mamma erano soliti mostrarsi solidali con queste sfortunate popolazioni, mentre erano sprezzanti nei confronti di persone molto simili a noi, ma con meno denaro e prestigio di quanto potessero vantare i Matheson. Uomini che avevano scelto la stessa professione di papà, ma che non erano riusciti a ottenere un uguale successo, e donne la cui vita sociale era mediocre, al contrario di quella della mamma, fatta di un'infinità di amici, di club esclusivi, di attività; coloro che avevano tentato, fallendo, di assurgere allo status dei Matheson; la cui sconfitta era evidentemente dovuta a qualche difetto o inadeguatezza morale di quelle stesse persone, meritevoli dunque di essere schernite.
Ma ora, ci eravamo forse trasformati noi stessi in quelle altre persone?
Eppure Cross Hill e la vista della campagna circostante che si godeva dalla cima della collina, erano bellissime, o comunque ai nostri occhi, gradualmente, sembrarono divenire tali.
Accadeva quando meno ce lo aspettavamo. Quando ci voltavamo all'improvviso e i nostri occhi osservavano prima che avessimo il tempo di pensare.
Le montagne erano splendide quando all'alba si stagliavano dalla foschia all'orizzonte. I tramonti erano meravigliosi: il cielo a occidente, oltre la sagoma della catena montuosa, si trasformava in un vasto calderone di fuoco che sembrava alimentarsi di se stesso, consumandosi e scurendosi per gradi fino a divenire notte. In lontananza, visibili nelle giornate più limpide, gli edifici e le guglie di Contracoeur sembravano appartenere a una città fiabesca sulle rive del Black River. E il lago Noir, le cui dimensioni sembravano cambiare in continuazione, che raggiungeva la massima estensione e turbolenza quando soffiava forte il vento, come uno specchio opaco capace di assorbire tutta la luce e per questo mostrarsi, evento improbabile in natura, di un nero assoluto. Graeme abbassò gli occhi per non subire la tentazione di guardare fuori dalla finestra della sua camera; preferiva pensare di odiare Cross Hill, voleva solo tornare a casa. (Ma qual era il luogo che poteva chiamare casa, ora che la loro bella abitazione nei sobborghi della città era stata venduta? E ogni loro bene portato via! Ora che i suoi amici lo avevano dimenticato; ora che non gli mandavano più alcun messaggio per posta elettronica, neppure per rivolgersi a lui come se fosse morto!) Stephen, colmo di risentimento per la sua condizione di recluso a Cross Hill e impegnato tutto il tempo a preparare la fuga, aveva cionondimeno imparato ad amare il lavoro manuale, se non altro all'aperto e in condizioni di bel tempo; pensava realisticamente: quell'altro luogo è ormai perduto; è questa la nostra casa. In città era stato un ragazzo benvoluto e molto ammirato; né dubitava che un giorno sarebbe stato benvoluto e molto ammirato anche a Contracoeur, una volta avuta l'occasione di farsi conoscere in qualche modo.
Bella al punto da sembrare una visione onirica, fluttuante nell'aria iridescente e carica di umidità era la vista del Monte Moriah che appariva guardando verso ovest dalla camera di Rosalind, attirando su di sé gli occhi della ragazza, quasi incapace di resisterle. Nonostante il suo giovane cuore ferito e amareggiato, Rosalind si ritrovò a pensare: se solo appartenessimo a questo luogo! Potremmo essere felici qui!
5. Le biciclette
Molte delle cose che avevamo portato con noi durante il trasloco a Cross Hill erano inspiegabilmente scomparse. Da settimane, per esempio, cercavamo invano le nostre biciclette. E poi un giorno le trovammo, o meglio, trovammo ciò che rimaneva di loro. Gli sguardi fissi e increduli nella penombra della rimessa delle carrozze, ci domandavamo che cosa fosse potuto accadere. Le nostre bici, che erano state così lucide, così belle, così costose. «Porca miseria! Non ci posso credere!» imprecò Stephen. Perché la sua stupenda bicicletta da corsa era stata la più prestigiosa di tutte.
Non che Stephen praticasse seriamente il ciclismo; aveva semplicemente preteso il meglio. E i nostri genitori, naturalmente, lo avevano accontentato.
Stephen, Graeme e Rosalind, sforzandosi di trattenere le lacrime di rabbia e dolore, riuscirono a fatica a districare le cinque biciclette l'una dall'altra e a spingerle, o piuttosto a trascinarle, fuori. Che colpo! Che choc! La bicicletta da corsa a venti marce di Stephen, di fabbricazione italiana, costata oltre ottocento dollari; la American Eagle in versione ibrida a undici marce di Graeme; la Peugeot da passeggio a cinque marce di Rosalind, un tempo di un bel colore lime argentato; le Schwinn a scala ridotta dei gemelli, con le spesse gomme da mountain bike... tutte arrugginite, ammaccate, coperte di ragnatele e, a quanto pareva, di sterco di roditori. Non era più possibile riconoscere per la sua qualità la bicicletta di Stephen dalle altre; né era possibile distinguere la Schwinn del piccolo Neale, che era stata color rosso vivo, da quella un tempo azzurra della piccola Ellen. Restammo a fissare quei rottami, incapaci di darci una spiegazione, come se le nostre biciclette fossero state un rebus al quale dovevamo a tutti i costi fornire una soluzione, che tuttavia ci sfuggiva.
«Non riesco a crederci», ripeté Stephen sottovoce, asciugandosi gli occhi. «Non è giusto.»
Graeme, che a Cross Hill aveva imparato a prendere la vita con più filosofia, fu il primo a riprendersi dallo choc. Rise, colpì con un pugno il sellino saturo di polvere della sua American Eagle e ne spazzò il manubrio dalle ragnatele, affermando: «È come se fosse passato un sacco di tempo. Anni interi. Questo è l'effetto del passare del tempo sulle cose materiali».
«Il passare del tempo?» ribatté Stephen. «Ma se siamo qui appena da poche settimane!»
Rosalind ignorò il battibecco tra i suoi fratelli. Avvertì il degrado delle condizioni della sua bicicletta con un malessere fisico, come se a essere intaccato fosse stato il proprio corpo. Dopotutto, quella bicicletta era la sua, no? Non l'aveva usata molto in città, non ne aveva avuto il tempo, e a Cross Hill se n'era praticamente dimenticata; ma ora ne soffriva amaramente la perdita, inginocchiandosi per liberare i raggi dai rottami, spazzando via con una mano la polvere e le ragnatele. Se non fosse stato per il logo corroso e arrugginito della Peugeot sulla parte anteriore del telaio, avrebbe rischiato di non riconoscerla neppure. «Forse è una specie di prova di carattere», ipotizzò cautamente. «Se non ci arrendiamo...»
Stephen rise, irritato. «Io non mi arrendo di certo. Non mi arrenderò mai.»
Se i nostri genitori avessero saputo che ci eravamo messi alla ricerca delle biciclette con l'intenzione di allontanarci da Cross Hill, dirigendoci in sella verso il lago Noir e Contracoeur, naturalmente ce l'avrebbero vietato; ma ne erano all'oscuro. A meno che papà non stesse osservando i nostri movimenti dalla sua finestra al secondo piano. (Eravamo parzialmente nascosti dalla rimessa delle carrozze, o così credevamo. In realtà, non avevamo la certezza di quali fossero le finestre del secondo piano che corrispondevano alle stanze di papà: era possibile che avesse accesso a tutte le finestre, godendo così di una vista a trecentosessanta gradi di Cross Hill e del circondario.)
Tutte le gomme delle biciclette erano a terra. Eppure, sorprendentemente, non sembravano deteriorate o forate. Stephen, con fare deciso, trovò la pompa a mano, anch'essa per buona parte arrugginita, ma comunque funzionante, e gonfiò energicamente le gomme di tutti; fu così che collaudammo rapidamente le nostre bici lungo Acacia Drive prima che l'aria cominciasse a fuoriuscire nuovamente dagli pneumatici. Ridevamo di gioia, eccitati. C'era qualcosa di isterico nei nostri atteggiamenti. Eravamo come bambini alle prese con giocattoli rozzi, goffi, fatti in casa e potenzialmente pericolosi; giocattoli che avrebbero potuto esploderci tra le mani. I gemelli si incoraggiavano l'uno con l'altro a gran voce, ma le loro Schwinn erano a tal punto ricoperte di ruggine che riuscirono a completare solo qualche pedalata prima di cadere a terra sulla stradina sterrata e profondamente solcata. Graeme, dinoccolato e dagli arti lunghi, che non era mai stato un grande ciclista, come del resto non si era mai sentito completamente a suo agio con il proprio corpo, montò in cima alla sella e azionò i pedali al contrario, provò i freni (che sembravano funzionare, ma c'era da fidarsi?), tentò invano di raddrizzare il manubrio, comicamente inclinato da un lato, poi si mise in moto, grugnendo per lo sforzo di far ruotare i pedali, ma riuscendo tuttavia a percorrere qualche metro in avanti. Rosalind ebbe maggiore successo, nonostante le condizioni pietose in cui versava la sua bici; rideva ansiosa, come una ragazza ubriaca che faticava a mantenersi in equilibrio mentre il mezzo a pedali sotto di lei vibrava, sbandava, sussultava e fu più volte sul punto di cadere; eppure avanzava. Stephen la sorpassò, ferocemente aggrappato al manubrio storto della sua bici, anche lui ondeggiante come un ubriaco, ma deciso con tutte le forze a non cadere. Proprio quando si era rassegnato al fatto che la bicicletta non avrebbe più retto, crollando sotto il suo peso e scaraventandolo ignominiosamente a terra, riuscì in qualche modo a tenerla in posizione eretta, continuando ad avanzare per pura forza fisica. «Io non mi arrenderò!» gridò Stephen, ridendo. «Mai!» Guardammo nostro fratello maggiore procedere sul suo rottame di bicicletta con uno sforzo immane, la maglietta zuppa di sudore sulla schiena, come se invece di trovarsi in leggera discesa, puntato verso il cancello d'accesso alla proprietà e la strada, stesse affrontando una ripida salita. Un turbine di farfalle con ali di un arancione brillante punteggiato di chiazze nere lo avvolse come una pioggia di punti esclamativi.
Stephen si dirigeva deciso verso il cancello: ci era stato tassativamente vietato di uscire da Cross Hill senza permesso.
Il cancello di ferro battuto, elaboratamente decorato, era naturalmente aperto; aperto in modo permanente, fissato da rovi, edera e muschio.
«Ehi!» urlò Graeme all'indirizzo del fratello e della sorella più grandi, che si allontanavano pedalando. Sperava di riuscire a raggiungerli, ma la catena arrugginita della sua bicicletta a un tratto si spezzò, facendolo rotolare a terra nell'erba che fiancheggiava la stradina. Alle sue spalle i gemelli piangevano. Davanti a lui Stephen e Rosalind, con grande impegno, procedevano faticosamente ma con determinazione verso il cancello, senza mai guardarsi indietro. Graeme, ansimante, il ginocchio dolorante per la botta, li fissò. Non sorrideva più: il gioco era finito. Il pomeriggio estivo risplendeva di luce, di una luce quasi accecante, ma Graeme ricordò all'improvviso che anche la Cosa senza volto aveva attraversato Acacia Drive, al chiaro di luna, camminando in direzione del cancello. Senza preavviso, le sue ginocchia si fecero di burro. Aveva sentito voci secondo cui a Contracoeur una ragazzina, o una bambina, era stata uccisa e mutilata; altre voci simili erano riferite al villaggio di lago Noir, dove Graeme non era mai stato. Queste notizie erano giunte a Cross Hill per bocca dei Dulne, e mai avvalorate; ma ora Graeme le ricordò, e ricordò anche il terrore che aveva provato alla vista della Cosa senza volto al chiaro di luna, la convinzione che quanto stava vedendo era assolutamente vero. È vero! Anche se non può essere, è vero! Non aveva più visto la Cosa senza volto da quella notte, ed erano passati quindici giorni, eppure aveva la sensazione che la creatura, in qualche modo, sapesse della sua presenza, e di quella di tutti gli altri Matheson. Erano osservati, costantemente. Anche ora. In questo momento: alla luce del giorno. Si portò le mani ai lati della bocca e gridò, improvvisamente spaventato: «Stephen! Rosalind! Tornate indietro!»
Ma loro erano ormai troppo distanti; e continuavano incoscientemente ad allontanarsi.
Una volta oltrepassato il cancello e imboccata la stradina di campagna, Stephen si sentì stranamente più leggero, più libero; come se la gravita si fosse miracolosamente ridotta. Provò quella curiosa sensazione che aveva al mare, avanzando nell'acqua, nel momento in cui la massa liquida cominciava a sostenere il suo peso. La sua disastrata bicicletta continuò a ondeggiare, a sbandare, a sussultare sotto di lui; la sella era innaturalmente bassa, come se fosse stata regolata per un ragazzo molto meno alto, e nell'aria risuonava un insistente click! click! click!, un chiaro avvertimento che la catena poteva spezzarsi da un momento all'altro, ma Stephen non cedeva. Riuscì a innestare una marcia più alta e, gradualmente, a incrementare la sua velocità. E Rosalind, nel tentativo di tenergli testa, provò la stessa sensazione quando si ritrovò sulla strada, una stretta striscia di asfalto a due corsie a larghezza ridotta: un'improvvisa gaiezza, leggerezza, ebbrezza. Un vento fragrante le rinfrescò il volto accaldato e le asciugò le lacrime di dolore e frustrazione negli occhi. «Hai visto? Te l'avevo detto!» gridò Stephen, sorridendo. Quel suo meraviglioso sorriso, solare, capace di gonfiarle il cuore e rinfrancarle lo spirito. Quel sorriso uguale a quello di loro padre, ma sincero e adolescenziale, genuino, non venato di ironia. Risero insieme come bambini spensierati. Erano liberi! Figli di un ex giudice della corte d'appello, eppure liberi!
La consapevolezza di aver infranto un divieto dava loro le vertigini. Sapevano che avrebbero potuto essere puniti. Ma i loro pensieri non erano rivolti al possibile castigo, all'ira del padre, bensì alla balsamica aria estiva, all'intensa luce del sole che filtrava attraverso le fronde degli alberi ai lati della strada; a quella regione di colline ripide e ondulate che conoscevano appena, circondata da ombrose foreste di pini intervallate da prati aperti nei quali i fiori di campagna rifulgevano di colore: l'azzurro pallido dell'epatica e della cicoria, il giallo acceso dei girasoli nani. Non lontano dalla strada scorrevano torrenti rapidi, rocciosi e poco profondi; più in là i sempre presenti, austeri Monti Chautauqua, coperti di pini e con le cime nascoste dalla foschia. Il cuore di Rosalind batteva di una strana, illecita gioia. Il suo bel volto arrossato brillava per l'eccitazione e aveva le dita coperte della ruggine del manubrio corroso. «Stephen, aspettami!» chiamò senza fiato.
Se non sbagliava, si stavano dirigendo verso Contracoeur. O forse verso il lago Noir, inoltrandosi nella campagna? Dovevano aver percorso quattro o cinque chilometri, eppure non vedeva nulla di familiare attorno a sé. Né case, né fattorie, né punti di riferimento conosciuti. E, stranamente, la strada era del tutto priva di traffico. Rosalind avrebbe voluto condividere le sue osservazioni con Stephen, ma ormai lui l'aveva distaccata e, senza rendersene conto, continuava ad allontanarsi. Aveva la schiena completamente inzuppata di sudore e le sue gambe forti e muscolose agivano con forza sui pedali. Rosalind provò una breve fitta d'ansia; non propriamente paura, ma ansia; senza rendersene conto, aveva ripreso a pensare alla mostruosa Cosa senza volto che le era comparsa in sogno l'altra settimana e che Graeme sosteneva di aver avvistato. Com'era possibile? In una giornata d'estate come quella, in un paesaggio tanto bello, Rosalind faticava a crederci.
Eppure è così: sai che è così.
Aveva percorso un altro chilometro quando ricomparve Stephen, che tornava nella sua direzione, preoccupato da una fuoriuscita d'aria dalla gomma posteriore; con riluttanza, ripresero a pedalare insieme verso Cross Hill, che distava cinque chilometri, ma sembrava più lontana: la strada ora saliva in modo costante e il manto di asfalto, pieno di buche e spaccature e trascurato da anni, faceva battere loro i denti a ogni sobbalzo. Quando finalmente riavvistarono la recinzione in ferro battuto che cingeva Cross Hill, corrosa, parzialmente crollata e assediata da una fitta selva di rampicanti, il cielo si era scurito e appesantito di dense nubi marroni, trasportate da un vento caldo e sulfureo che soffiava dal lago Noir. C'era qualcosa che non andava? Rosalind avvertì nell'aria un senso di allarme, di apprensione. Attraverso le fronde cascanti degli alberi intravide per un attimo la vecchia casa di pietra calcarea in cima alla sua collinetta, grigio-rosa, a forma di croce. Sembrava una dimora fiabesca, certamente abitata da persone molto speciali, ma Rosalind, ansimante, esausta al limite dello stordimento, non fu in grado di decidere se la trovasse bella o francamente brutta. Che cosa potevamo saperne noi bambini della storia di Cross Hill, che cosa ci era stato raccontato a proposito del nonno di nostro padre? Solo che quell'uomo, morto ormai da decenni, aveva portato un nome di biblica altisonanza: Moses Adams Matheson. Aveva fatto fortuna, ci era stato detto, come industriale tessile a Winterthurn City, sessanta chilometri più a sud, per poi ritirarsi tra le colline di Contracoeur ai piedi dei Monti Chautauqua. Ma nella residenza non c'erano ritratti del bisnonno. In effetti, non c'era alcun ritratto di famiglia e le pareti erano ornate solo dai brandelli sbiaditi delle tappezzerie di seta; la maggior parte delle stanze nelle ali disabitate erano vuote non solo di mobili, ma anche del ricordo, della memoria degli arredi che avevano ospitato. Come se la storia fosse stata messa al bando, cancellata. Come se la storia fosse stata troppo dolorosa per essere ricordata.
Mentre Stephen e Rosalind oltrepassavano la soglia del cancello spalancato di Cross Hill, caddero a terra le prime gocce di pioggia, pungenti e ribollenti come piombo fuso. E che fatica salire verso la casa! La salita di Cross Hill non era mai parsa tanto ripida, né i solchi di Acacia Drive, che si snodava attraverso le erbose rovine del parco, tanto ardui da superare. Quando Stephen e Rosalind giunsero alla casa, erano senza fiato e fradici di sudore; avevano un aspetto tutt'altro che attraente e i loro corpi odoravano di traspirazione. La sottile camicetta e i pantaloncini di cotone di Rosalind le inguainavano il corpo snello, i seni piccoli e duri, in un modo a lei ripugnante. E, con loro grande sgomento, davanti alla casa, sui resti invasi dalle erbacce della piazzola lastricata antistante la porta d'ingresso, trovarono ad attenderli sia papà, sia la mamma. Gli altri bambini erano scomparsi, come se rinchiusi per castigo. Papà indossava una giacca di lino color panna, stropicciata, e un paio di pantaloni casual. Era visibilmente contrariato, ma si sforzava di controllare la propria rabbia; sembrava aver recuperato in parte il suo fascino ironico, come se stesse per rivolgersi a una corte, o parlare in televisione. I suoi occhi erano opachi e spenti, ma riuscì a sorridere con una certa facilità. La mamma, invece, un passo più indietro, con indosso pantaloni verde pastello e una tunica di seta in tinta, simile per foggia a un kimono, non tentò in alcun modo di sorridere; il suo volto pesantemente truccato era gonfio di sofferenza e rabbia, i suoi occhi arrossati dalle lacrime. Perché era stata certamente lei, la mamma, a essere incolpata per il cattivo comportamento dei due figli maggiori. Con tono severo, papà esordì: «Stephen, Rosalind. Come avete osato disobbedirmi? Vi siete allontanati senza permesso, senza neppure informare vostra madre o me e non avete dato vostre notizie per otto ore! Un simile comportamento è assolutamente da incoscienti». Otto ore! Stephen e Rosalind si scambiarono uno sguardo afflitto. Protestarono. «Ma non siamo stati via neppure un'ora! Abbiamo solo provato le nostre biciclette...» Eppure era chiaro che la loro assenza si era protratta per molto, molto più di un'ora. Il cielo, affollato di nuvole minacciose, si era scurito fino a far calare la penombra; la temperatura era scesa di almeno otto gradi; la pioggia fredda e pungente aveva cominciato a cadere più forte e recava l'odore della notte. Come una bambina travolta dal senso di colpa, Rosalind scoppiò in lacrime. «Papà, mi dispiace! Mi dispiace tanto!» Furioso, papà rispose: «'Ti dispiace'. Dopo tutto quello che ci avete fatto passare oggi! Andate tutti e due immediatamente nelle vostre stanze. Vi parlerò in privato.» Il volto rosso per la vergogna, Rosalind si affrettò dentro la casa; Stephen, invece, rimase dov'era, testardo e sprezzante, affermando che non erano stati via otto ore, ne era certo, e che comunque avevano il diritto di girare con le loro biciclette. «Papà, non puoi tenerci prigionieri in questo posto solo perché lo sei tu!»
Ci fu un attimo di silenzio, rotto solo dalla pioggia che cadeva frusciante sul lastricato.
Muovendosi rapidamente, ma con dignità, papà fece un passo in avanti e, prima che la mamma riuscisse ad afferrargli il braccio, colpì con la mano aperta il volto appassionato, giovane e sudato di Stephen.
6. Povera mamma
Povera mamma. «Veronica Matheson.» Un nome melodioso un tempo pronunciato tanto spesso e ora tanto raramente. Perché noi, naturalmente, la chiamavano «mamma», e i Dulne «signora Matheson», oppure, più frequentemente, solo «signora»; di tutta la famiglia, solo papà aveva la prerogativa di chiamarla con il suo bellissimo nome di battesimo; eppure quando si rivolgeva a lei, durante la cena per esempio, lo faceva solitamente con un tono di lieve e afflitto rimprovero.
Veronica, che razza di cibo è questo? Sa di terra.
Veronica, perché i bambini insistono nel presentarsi a tavola conciati come barboni? E maleodoranti come se non si lavassero da giorni?
Veronica, come mai l'aria è così pesante in questa stanza? Così umida? O sono i nostri cuori a essere umidi e pesanti?
La mamma sedeva al suo posto di fronte a papà, a capotavola, e gli rivolgeva il suo splendido, smagliante sorriso. Forse aveva udito le parole che aveva pronunciato, forse no.
Era una storia ormai vecchia, che avevamo ascoltato e riascoltato, e alla quale la signora Dulne si limitava a scuotere la testa e a sbuffare in segno di solidarietà; il racconto di come in città, appena si era diffusa la voce dell'imminente caduta in disgrazia del giudice Roderick Matheson, il telefono della mamma aveva smesso di squillare. Un mattino, all'improvviso, nella casa cominciò a regnare il silenzio. Laddove un tempo l'elegante Veronica Matheson rimaneva attonita alla constatazione della propria popolarità, iscritta nelle più prestigiose liste degli ospiti, presa in un vortice di pranzi, cene di beneficenza, inaugurazioni di musei e ricevimenti che richiedevano l'abito da sera, ora, al pari del giudice Matheson, anche lei era stata bruscamente scaricata, cancellata. «Come se mi trovassi in quarantena, affetta da una terribile malattia infettiva», commentava la mamma amaramente. «Tutti noi Matheson, anche voi bambini, ritenuti 'colpevoli fino a prova contraria'». Il suo viso delicato, attentamente truccato, cominciò ad assomigliare a un acquerello stemperato; i suoi occhi nocciola, un tempo tanto vivaci e brillanti, erano ora venati di rosso a causa delle innumerevoli crisi di pianto; il suo alito, che ricadeva accidentalmente sul volto dei bambini, aveva lo stesso odore acre dell'interno del vecchio frigorifero della cucina. «La mamma ha cominciato a bere?» ci chiedevamo sottovoce. «È ubriaca?» Amavamo la mamma, ma al tempo stesso la odiavamo. Avevamo paura di lei. Rosalind diceva: «Io non l'avevo mai conosciuta davvero prima di adesso. E voi?» Graeme rabbrividiva e scuoteva la testa. E Stephen, che tentava di vedere il lato positivo delle cose nonostante (così sospettavamo) stesse pianificando la fuga, rispondeva: «La mamma sta solo attraversando una fase. Come la metamorfosi di una farfalla». Graeme ribatteva: «Già. Una metamorfosi al contrario».
Se in città la mamma aveva avuto a disposizione ben poco tempo da dedicarci, a Cross Hill, in quegli interminabili giorni d'estate, in cui il sole pallido e offuscato sembrava trascinarsi faticosamente nel cielo, e le lancette dei pochi orologi che funzionavano davano a volte l'impressione di bloccarsi, se non addirittura di tornare indietro, di tempo per noi ne aveva decisamente troppo. Mentre papà si alzava all'alba per rimettersi al lavoro sul suo caso, la mamma si alzava tardi; il più tardi possibile, perché rifuggiva il pensiero di trascorrere un altro giorno in esilio. Si faceva il bagno in pochi centimetri di acqua tiepida e macchiata di ruggine, in un'antica vasca dalla smaltatura intaccata; ricostituiva l'elaborata maschera che era il suo volto e tentava di mettersi a posto i capelli. Vagava per la casa come uno spettro, con indosso i suoi vestiti da città, ora stropicciati e sporchi, come se fosse in attesa di un'amica per andare a pranzo al country club, o al più recente dei ristoranti alla moda. Ha bevuto anche oggi? Povera mamma. Si fece sospettosa, forse anche gelosa, nei confronti di Rosalind, che cresceva rapidamente e stava diventando una ragazza bellissima, vispa e fisicamente prestante, con una massa di ondulati capelli di un biondo ramato, schiariti dal sole; sottoponeva continuamente Stephen e Graeme ad autentici interrogatori, convinta che a ogni occasione buona scappassero per recarsi a Contracoeur, o addirittura oltre. Assegnava compiti ai bambini più grandi, ma raramente ne verificava l'esecuzione. Se un tempo dedicava maggiore attenzione ai gemelli, vestendoli con cura ossessiva in quanto «ultimi miei bambini», ora sembrava francamente annoiata dalla loro presenza, affidandosi alla dolce signora Dulne perché si prendesse cura di loro e ascoltasse le loro incessanti, ansiose chiacchiere infantili. Il piccolo Neale, un bambino intelligente e loquace che in città era stato estroverso, in campagna era diventato torvo e nervoso; si ritraeva e mostrava paura davanti alle ombre, anche la propria; era eternamente aggrappato al braccio della mamma, ripetendo un gesto tipico di bambini molto più piccoli di lui, e piangeva implorante. «È qui, entra quando non stiamo guardando e si nasconde, e se accendi la luce diventa un'ombra, se ti giri si gira anche lui e non riesci mai, mai a vederlo...» Neale si lamentava in continuazione di qualcuno, o qualcosa, che era convinto abitasse Cross Hill insieme con noi. La mamma rideva, irritata, ribattendo: «Non ho tempo da perdere con questi capricci infantili. Non posso fare la mamma ventiquattr'ore al giorno!» Anche la piccola Ellen, immagine speculare del fratello, benché un po' più minuta, con grandi e intelligenti occhi marroni e il vizio di succhiarsi il pollice, credeva che qualcuno, o qualcosa, vivesse tra le mura di Cross Hill insieme con loro, qualcosa che però diveniva invisibile di giorno. Ellen dormiva raramente tutta la notte. La povera bambina piangeva e si rigirava nel letto, ma la mamma si rifiutava di permetterle di dormire con una lampada accesa: non solo avrebbe disturbato Rosalind, con cui Ellen divideva la stanza da letto al primo piano, ma avrebbe rischiato anche di attirare su di noi attenzioni indesiderate nel buio della notte. «Cross Hill è visibile nel raggio di parecchi chilometri. Sarebbe come segnalare la strada che porta dritta ai nostri letti.»
Un giorno Ellen piagnucolava, le guance arrossate solcate dalle lacrime, e la mamma, esasperata, si inginocchiò davanti a lei, la prese per le spalle e la scosse delicatamente: «Amore, non piangere, ti prego! Non ci sono lacrime a sufficienza per tutti noi».
A mettere in stato di agitazione la mamma era prima di tutto la lettura del Contracoeur Valley Weekly, che papà ci vietava ma che la signora Dulne introduceva di nascosto a Cross Hill su richiesta della mamma stessa. Il giornale era per buona parte dedicato alle consuete notizie locali; ma ultimamente la prima pagina era stata monopolizzata da titoli sempre più angoscianti: «Scomparsa bambina di 6 anni, perlustrata la palude»; «Ragazza di 17 anni ritrovata strangolata e mutilata in granaio abbandonato»; «Scoperto cadavere di ragazzo diciannovenne, vittima di incendio doloso». Le autorità locali erano impegnate a investigare i crimini, e altri a essi potenzialmente collegati; diversi elementi sospetti erano già stati incarcerati. Rapita e inorridita, la mamma leggeva assorta il giornale, totalmente concentrata, dopodiché con voce fioca e tremula, ci diceva: «Ora capite perché papà e io non vogliamo che voi bambini andiate da soli in paese? Capite perché non dovete mai allontanarvi da Cross Hill a meno che non siate con noi?»
Come se i nostri genitori uscissero spesso da Cross Hill: mai più di una volta o due alla settimana. E Contracoeur distava solo otto chilometri! Quando andava bene ci veniva consentito di accompagnare la mamma al negozio della catena A & P per acquistare qualche piatto pronto, o al fetido drugstore dove venivamo accolti con sguardi insolenti e curiosi, o ancora ai grandi magazzini Sears o K-Mart. Noi Matheson, che in vita nostra non avevamo mai messo piede in luoghi tanto squallidi. Stephen rifiutava sdegnato di partecipare a simili, misere uscite, mentre Graeme e Rosalind, sempre ansiosi di cambiare aria, erano soliti non perderne una. Venivano avvertiti di non allontanarsi dalla mamma, e di non dare confidenza a sconosciuti, cose che naturalmente facevano appena l'attenzione della mamma era rivolta altrove. Implorarono, ottenendolo solo faticosamente, il permesso di trascorrere del tempo nella piccola biblioteca pubblica del paese, dove mentre Graeme scorreva avidamente gli scaffali nelle sezioni dedicate alla scienza e alla matematica, Rosalind, alla disperata ricerca di contatti sociali, di cui era a digiuno da troppo a lungo, avvicinava timidamente le ragazze della sua età, osando presentarsi, spiegando che lei e la sua famiglia erano giunti da poco in zona, che abitavano a Cross Hill. Le ragazze di Contracoeur la guardavano attonite. Una di loro, le labbra rosse e audaci, attraente nonostante la durezza che comunicava, ribatté: «A Cross Hill? Ma nessuno abita lì».
Piena estate. L'aria calda e sulfurea che soffiava verso sud dal lago Noir provocava alla mamma emicranie di crescente intensità.
Piena estate. Il pulsante stridio delle cicale negli alberi e le temperature che salivano oltre i trenta gradi rendevano la mamma tesa come una corda di violino.
E poi c'erano i falsi suoni, come cominciò a chiamarli lei; i «crudeli, falsi suoni»: acute vibrazioni, voci smorzate e risate provenienti da stanze distanti all'interno di Cross Hill; un telefono che squillava dove non potevano esserci né telefoni, né tantomeno squilli. Veronica? Ve-ro-ni-ca! Un torrido pomeriggio di fine luglio giunse sobbalzando lungo la stradina sterrata un'elegante Mercedes verde-argento, che sembrò sbiadire a mano a mano che si avvicinava alla rotonda davanti all'ingresso della casa; l'apparizione dell'automobile fece piombare la mamma in una frenesia fatta di eccitazione e panico, poiché concluse che doveva trattarsi della sua migliore amica, che non sentiva da mesi: era evidentemente venuta a prenderla per andare insieme a pranzo al country club. «E io non sono pronta! Non ho neppure fatto il bagno. E guardate in che stato sono i miei capelli!»
La mamma era sconvolta al punto che la signora Dulne dovette afferrarla e stringerla a sé in un abbraccio di conforto e consolazione.
Non c'era alcuna Mercedes davanti alla casa, né c'erano mai state Mercedes nel vialetto. Eppure anche Graeme sosteneva con insistenza di averla vista. Aveva visto qualcosa di verde-argento, della forma di un'auto, che era avanzata in modo irregolare per poi scomparire rapidamente in prossimità della casa.
Povera mamma. Dopo il falso allarme costituito dalla visita dell'amica a bordo della Mercedes si ammalò e rimase priva di forze per diversi giorni. Si alzò dal letto, bruscamente e pienamente rinvigorita, solo quando papà la informò che ospiti importanti erano attesi a Cross Hill una settimana più tardi, per conferire con lui sul progetto di sottoporre nuovamente il suo caso al procuratore generale dello stato. (Papà disse di aver raccolto nuovi elementi, nuove prove. Era ora in grado di dimostrare che i testimoni chiave avevano commesso spergiuro al cospetto della corte. Aveva le prove che i capi d'accusa mossi in origine contro di lui da un gran giurì tutt'altro che imparziale erano stati privi di fondamento, fin da principio.) «Non possiamo lasciare che vedano queste stanze! Sono in condizioni vergognose! Dobbiamo fare qualcosa», esclamò la mamma. Naturalmente avrebbe voluto riverniciare e riarredare le stanze in uso al piano terreno, ma non disponevamo del denaro necessario. Allora, i capelli legati allegramente sulla nuca da un foulard, con indosso un paio di larghi pantaloni di cotone e una vecchia camicia di Stephen, la mamma si mise a capo di una squadra di addetti alle pulizie formata dalla signora Dulne e dai bambini, conducendola di locale in locale, soffermandosi in particolare sulla sala della prima colazione con le sue grandi finestre che si affacciavano su Crescent Pond, dove per motivi di praticità papà intendeva intrattenere i suoi colleghi. Erano mesi, anni, che non vedevamo la mamma tanto su di giri ed entusiasta! I suoi occhi, per quanto ancora arrossati, brillavano! Sotto lo strato di trucco la pelle del suo viso appariva fresca, lucida. Nel giro di due giorni le luride e incrostate finestre della sala della prima colazione, con le loro inferriate di protezione, vennero perfettamente ripulite in modo da lasciar filtrare senza ostacolo la luce del sole; il pavimento in parquet, da tempo immemore coperto da uno strato di sudiciume, venne per buona parte pulito e lucidato; venne lucidato anche il lungo e antico tavolo in legno di ciliegio, attorno al quale posizionammo dieci eleganti sedie, non tutte perfettamente uguali, ma tuttavia in buone condizioni. Le vecchie e marciscenti tende di seta vennero rimosse e la mamma, insieme con la signora Dulne, che era una brava sarta, riattò abilmente una serie di tende più nuove e variopinte prese da un'altra stanza della casa per sostituirle. Quando papà vide quello che la mamma era riuscita a fare con il nostro aiuto sgranò gli occhi in un gesto di genuina sorpresa e gratitudine. Gli occhi gli si gonfiarono di lacrime. «Veronica, come posso ringraziarti? Tutti voi... avete compiuto una magia.» In un accesso di gioia adolescenziale afferrò le mani della mamma e se le portò alle labbra per baciarle, esitando solo brevemente alla vista di quanto erano bianche, smagrite e raggrinzite, come quelle di una donna anziana, dopo ore di lavoro a contatto con acqua e detersivo.
«Mi ami, Roderick?» domandò allora la mamma, il cuore colmo d'ansia, in un modo che i suoi bambini, presenti, trovarono mortificante. «Sono una buona moglie per te, nonostante tutto?»
Ma povera mamma! Nel volgere di pochi giorni tutto il suo lavoro venne vanificato.
Chissà come, particelle di polvere, sporco e autentico sudiciume ripresero a depositarsi negli angoli della sala della prima colazione. Nell'aria aleggiava un odore di decomposizione. Uccelli selvatici, sedotti e ingannati dai vetri puliti, si abbatterono contro le finestre, spezzandosi il collo; ora giacevano a terra, malinconici mucchietti di penne. La pioggia, sospinta dal vento attraverso i vetri rotti, macchiò e fece imbarcare il parquet, inzuppò e macchiò le sedute imbottite delle sedie. Anche le allegre tende di chintz si fecero sporche e lise come se fossero state appese lì da anni. La mamma si aggirava per la sala con le mani tra i capelli e gridava: «Che cos'è successo? Com'è possibile? Chi è stato? Chi può essere tanto crudele?» Pure noi bambini eravamo scioccati e avviliti; Neale ed Ellen si cercarono e si abbracciarono, terrorizzati, convinti che la cosa invisibile che abitava la casa insieme con noi, che riusciva a scomparire alla vista anche quando ci si girava di scatto per tentare di individuarla, fosse l'unica responsabile di quello sfacelo. Rosalind era arrabbiata e frustrata, poiché anche lei aveva lavorato sodo; era stata orgogliosa dei suoi sforzi, dell'aiuto che aveva fornito alla mamma per una buona causa. Stephen rimase in silenzio, pensieroso, mordicchiandosi il labbro inferiore come se stesse prendendo una difficile decisione. Graeme, con un malizioso ghigno di finta soddisfazione sul volto tirato e permaloso, disse: «Mamma, è il destino del mondo materiale quello di consumarsi, di deteriorarsi. Pensavi forse che noi avremmo avuto un trattamento speciale?»
La mamma si voltò verso di lui e urlò. «Ti odio! Vi odio tutti!» Ma colpì solo Graeme, tagliandogli la guancia sotto l'occhio sinistro con il bordo affilato del suo anello di smeraldi.
A quel punto la mamma barcollò e cadde. Gli occhi le si rivoltarono nella testa. Il suo corpo ricadde delicatamente sul pavimento sporco, come un sacco di stracci lasciato cadere distrattamente a terra. Fissando inorriditi quella donna affranta noi bambini sembravamo già coscienti del fatto che, dopo di allora, la mamma non sarebbe mai più stata la stessa persona.
7. Vittime
In paese i pareri erano contrastanti: l'assassino era un orso grigio, abbandonatosi alle scorrerie dopo aver assaggiato una prima volta il sangue umano; oppure l'assassino era un essere umano, anch'egli comunque folle, che imitava il selvaggio comportamento di un orso.
Ci fu un'altra vittima a fine luglio: una bambina di undici anni, ritrovata strangolata e picchiata in un bosco poco frequentato nei pressi del villaggio di Lake Noir. Inoltre, nei primi giorni di agosto un ragazzo di diciassette anni, ucciso da una serie di violenti colpi alla testa, il volto in parte deturpato, era stato rinvenuto cadavere nei pressi del muro di cinta di un cimitero a Contracoeur. Rabbrividendo, la mamma si era limitata a dare una scorsa ai terribili titoli del giornale. «Sempre la stessa storia che si ripete all'infinito. Seguendo dei cicli, come il tempo.» Né mostrò particolare sorpresa o interesse il mattino in cui lo sceriffo della zona si presentò alla nostra porta in compagnia di due vicesceriffi per interrogarci, seppure in modo informale. Ci spiegarono che stavano raccogliendo testimonianze da tutti gli abitanti della zona. Quegli uomini trascorsero buona parte del tempo della loro visita con papà, che fece una forte impressione su di loro con la sua intelligenza, la voce pacata e i modi estremamente urbani. Dovevano essere al corrente delle difficoltà professionali che Roderick Matheson stava vivendo, eppure si rivolgevano a lui chiamandolo rispettosamente «giudice», «vostro onore», o «signore»; il Campidoglio dello stato distava oltre quattrocentocinquanta chilometri e gli scandali e le lotte di potere di cui era teatro suscitavano ben poco interesse a Contracoeur.
Da parte sua, papà si mostrò cortese con la polizia. Non avevano alcun mandato di perquisizione, ma lui concesse comunque loro il permesso di perlustrare le nostre proprietà all'esterno della casa. Tutti noi, la mamma e i gemelli inclusi, che eravamo piombati in uno stato di agitazione alla vista delle auto della polizia, osservammo la scena da una delle finestre al piano superiore. Con l'aria di porre una domanda che non poteva avere risposta, la mamma chiese: «Ma che cosa sperano di trovare? Poveri idioti». Con un accenno di sorriso sul volto papà replicò: «Che guardino pure. È nel mio interesse comportarmi come un buon cittadino. Dopodiché non avranno più bisogno di tornare e non ci daranno più noia».
8. Il secondo avvistamento: la Cosa senza volto
Quello che ho perso: il mio username, la mia password, la mia anima.
Dove devo fuggire: non IRL. Non esiste.
Così avrebbe recitato il messaggio d'addio di Graeme, digitato in un primo momento alla tastiera del suo computer difettoso, sul cui monitor le parole comparivano come un ammasso senza senso di lettere, numeri e geroglifici informatici; poi scritto a caratteri cubitali alti due centimetri, con rabbia tale che la punta del pennarello di Graeme aveva lacerato la superficie del foglietto di carta.
Aveva smesso di pensare a se stesso come a Graeme Matheson. Entrambi i suoi nomi ora lo ripugnavano. «Graeme», il nome impostogli, un dono che aveva dovuto accettare indipendentemente dalla sua volontà. «Matheson», il cognome ereditato, a segnare un destino che aveva dovuto accettare, di nuovo indipendentemente dalla sua volontà.
Agli occhi della famiglia era cambiato, si era fatto riflessivo, torvo, ancora più silenzioso e introverso, da quel giorno in cui la mamma lo aveva colpito in pubblico con uno schiaffo, umiliandolo; dal giorno in cui il suo volto giovane, afflitto, attonito aveva sanguinato; dal giorno in cui la ferita irregolare si era rimarginata trasformandosi in un graffio stranamente simile a una chiusura lampo, all'apparenza sempre testardamente, perversamente, recente. (Era forse lo stesso Graeme che continuava a toccarsela per far sì che non guarisse? Forse lo faceva senza rendersene conto, oppure durante uno dei brevi, tormentati periodi di sonno.) Ma solo Graeme sapeva che i motivi del suo sconforto erano più profondi.
Perché nella biblioteca pubblica di Contracoeur aveva scoperto, in una sezione denominata «Storia della valle di Contracoeur», alcuni vecchi volumi rilegati in pelle che non venivano sfogliati da decenni; colto da curiosità, aveva letto di Moses Adams Matheson, l'«industriale tessile e protettore dell'ambiente naturale» che aveva fatto costruire Cross Hill, una delle «più rimarchevoli opere architettoniche della regione». Aveva appreso con interesse e fascinazione che il suo bisnonno aveva attraversato l'Oceano Atlantico su una nave partita da Liverpool, in Inghilterra, in terza classe, nel 1873, a dodici anni e senza essere accompagnato da alcun adulto; aveva lavorato come apprendista presso un cantiere navale di Marblehead, nel Massachusetts, ma era ben presto ripartito alla volta di Winterthurn City, nello stato di New York, dove aveva ben presto aperto il primo di una serie di stabilimenti tessili Matheson, sulle rive del fiume Winterthurn; nel volgere di dieci anni era divenuto un uomo ricco, e all'alba del nuovo secolo si era ormai trasformato in multimilionario, in un'epoca in cui capitalisti particolarmente aggressivi come J. Pierpont Morgan, John D. Rockefeller, Edward Harriman e Andrew Carnegie avevano costruito le loro sconfinate fortune per mezzo di un sistema di monopoli e cartelli, oltre che attraverso lo sfruttamento di manodopera disorganizzata e per buona parte composta da immigrati. Moses Adams Matheson non divenne mai ricco come loro, né ebbe la loro fama; eppure, scorrendo le pagine di quei testi Graeme apprese che anche suo bisnonno aveva crudelmente sfruttato i suoi operai. Donne, ragazze, addirittura bambine avevano lavorato nei suoi stabilimenti per uno stipendio di soli due dollari e mezzo alla settimana; molte di loro non raggiungevano i dodici anni, e bambine di sei e sette anni lavoravano fino a tredici ore al giorno. «Tredici ore!» sussurrò Graeme, incredulo. Lui non aveva mai lavorato seriamente prima di prestare il proprio aiuto alla folle impresa della pulizia della sala della prima colazione, sotto la guida della mamma; e anche in quel caso non aveva lavorato per più di due ore alla volta, perdipiù in modo certo non costante e concentrato. Non riusciva neppure a immaginare di lavorare per tredici ore in un giorno! Da bambino, in un ambiente afoso e soffocante o gelido e umido.
Graeme lesse con orrore dell'«incendio di South Winterthurn, 8 febbraio 1911»: uno degli stabilimenti tessili Matheson si era incendiato ed era stato raso al suolo dalle fiamme. Il rogo aveva provocato trenta vittime, tra cui molti bambini; le indagini avevano rivelato che lo stabilimento era stato privo di uscite di sicurezza e, cosa inspiegabile, la maggior parte delle porte era risultata chiusa a chiave. Si ritrovò a fissare una fotografia color seppia dello scheletro annerito di un edificio, attorniato da pompieri e curiosi; sulla neve erano stati allineati i corpi delle vittime, avvolti in sudari di tela. Quanti erano! E alcuni erano così piccoli! Diverse vittime avevano riportato ustioni tanto gravi che un'identificazione certa non era stata possibile a causa dei volti bruciati e sfigurati. Cadaveri senza volto.
Graeme ricacciò in fretta il libro sullo scaffale. Ne aveva avuto abbastanza della storia della sua famiglia. Aveva avuto ragione a provare un nauseante senso di vergogna per il fatto di essere un Matheson e di abitare le rovine di Cross Hill; eretta, come solo ora stava scoprendo, sulle ossa di povere vittime innocenti.
Decise di non dire nulla a Rosalind o a Stephen. Non per il momento, comunque. La rivelazione sarebbe stata troppo sconvolgente, troppo umiliante. Graeme si pregiava del proprio cinismo adolescenziale, ma non avrebbe voluto che anche il fratello e la sorella, più vivaci e prestanti di lui, ne fossero contagiati. Qualcuno deve proteggere gli innocenti, impedendo loro di venire a sapere troppe cose.
Si domandò se la mamma conoscesse la storia di Moses Adams Matheson. Probabilmente no. Certamente no.
E papà. Certamente sì.
Essere predestinati, oggetto di una maledizione... non vuole forse dire anche essere speciali?
Dopo quella notte di giugno, all'inizio della nostra estate in esilio, quando aveva visto la creatura che aveva chiamato la Cosa senza volto, Graeme era riuscito raramente a dormire più di un'ora o due alla volta; spesso non si svestiva neppure, né si sdraiava sul letto, divenuto per lui luogo di tormento e infelicità. E così il sonno lo sorprendeva di giorno, in attacchi paralizzanti; incapace di rimanere sveglio, sprofondava in un sonno profondo, catatonico, come un neonato, dal quale si risvegliava sbattendo le palpebre, faticando a respirare, con il cuore che gli batteva violentemente in gola. (Si ritrovava su uno dei pavimenti sporchi delle stanze in disuso di Cross Hill, oppure tra l'erba affilata del prato, incapace di ricordare come fosse finito lì. A volte qualcuno era ricurvo su di lui e gridava: «Graeme, svegliati! Graeme, ti prego, svegliati!») Al peggiorare della sua insonnia, il suo perverso orgoglio per la condizione in cui versava aumentava. Non poteva fidarsi della notte per prendere sonno, né poteva fidarsi del giorno. Quanto desiderava collegarsi in rete, vantarsi con i suoi invisibili amici nel ciberspazio affermando che lui, a differenza di tutti loro, non dormiva più. Si crogiolava nella consapevolezza che la mamma, chiusa e concentrata su se stessa, ormai indifferente nei confronti dei figli, non avesse neppure il più lontano sospetto della sua morbosa condizione; neppure papà sembrava preoccuparsene, se non a tavola, per fare dell'ironia ai suoi danni quando la testa gli cadeva in avanti o quando non rispondeva a una domanda a lui indirizzata. («Ragazzo, sto parlando con te. Dove stai vagando con la mente?» gli domandava papà, e Graeme si sforzava di tornare in contatto con la realtà, di riprendere appieno coscienza, così come un bambino avrebbe timidamente tirato il filo del suo aquilone preferito dopo che fosse stato sospinto altissimo nel cielo da un vento imprevedibile e forte abbastanza da minacciare di ridurlo in brandelli. La mia mente! La mia mente! Eccola, papà, è qui!)
Eppure essere isolato, maledetto, equivaleva a riconoscersi come speciale.
Graeme aveva smesso di credere che nostro padre si sarebbe «riscattato», o che la «giustizia» avrebbe trionfato. Aveva smesso di credere che saremmo mai tornati alla nostra precedente vita in città; di più: aveva smesso di credere che la nostra «vita precedente» fosse mai realmente esistita. Al pari del ciberspazio, nel quale aveva trascorso così tante ore della sua giovane vita, che esiste ovunque, ma anche da nessuna parte. Ed è quest'ultimo luogo, da nessuna parte, che deve prevalere. L'estrema legge di natura.
Ora che la mamma era stata spezzata da Cross Hill, ora che papà si ritirava in modo ancor più ossessivo nelle sue stanze in cima alla casa (l'accesso alle quali era proibito a noi bambini, come del resto l'accesso alla camera matrimoniale), il sentimento dominante nella nostra dimora divenne la confusione; era come se soffrissimo tutti dei postumi di uno choc, uno choc di natura silenziosa e indefinita, come quello provocato dal passaggio a bassa quota di un aereo a reazione. Era agosto; un periodo di caldo intenso, afoso e avviluppante; caldo tremulo e vibrante; inframmezzato da frequenti temporali, con la caduta di molti fulmini; un periodo di frequenti interruzioni della fornitura di corrente elettrica, quando l'impianto elettrico di Cross Hill cedeva del tutto e l'oscurità poteva protrarsi per ore. Un giorno ci rendemmo conto che il signor e la signora Dulne avevano smesso di venire alla casa; eravamo in qualche modo al corrente del fatto che l'anziana coppia non veniva pagata da mesi e aveva ormai abbandonato ogni speranza di vedersi retribuire il suo lavoro. La mamma ci offrì una spiegazione parlando con voce neutra, indifferente, come se stesse commentando le condizioni del tempo: «Verranno pagati. Papà darà loro un assegno. A tempo debito». «Ma quando?» ribattemmo noi. (Provavamo vergogna nel pensare che quella coppia di anziani tanto gentili, dai quali eravamo stati trattati così bene, potesse essere stata imbrogliata.) La mamma si limitò a sorridere e a scrollare le spalle. Dopo il «tradimento» della sala della prima colazione, così aveva preso a definire l'accaduto, la mamma sembrava sempre distaccata, priva di emozioni e sentimenti. Non è più la mamma, pensò amareggiato Graeme. Ma allora chi è?
Per ironia della sorte, gli importanti ospiti attesi da papà non si erano presentati quel mattino. Lui aveva aspettato il loro arrivo tutto il giorno, destinato a rivelarsi una delle nostre più lunghe giornate di agosto. Dapprima li aveva attesi tranquillamente, con indosso un abito gessato blu, camicia bianca e cravatta, sfogliando i documenti ordinatamente disposti in pile sul tavolo di legno di ciliegio; poi, sempre più agitato, li aveva attesi davanti all'ingresso principale di Cross Hill, sotto il portico neoclassico sbiadito dagli agenti atmosferici e attaccato dai licheni; a mano a mano che trascorrevano le ore e il sole bianco e rifulgente descriveva letargicamente il suo arco nel cielo, si fece di nuovo calmo, richiamando sul volto un'espressione di ironica rassegnazione. Fissava il cancello d'ingresso della tenuta, oltre la distesa di erba incolta, come un uomo in grado di sentire una musica inaudibile agli altri esseri umani; finché, in ultimo, neppure lui fu più in grado di captarla.
Fu una notte di metà agosto, rischiarata da una luna diafana, che Graeme decise di seguire suo fratello Stephen; di nascondersi all'esterno della casa, nell'erba del terreno paludoso che fiancheggiava il vialetto d'accesso, e aspettare la comparsa di Stephen. Era in qualche modo cosciente che Stephen si allontanava furtivamente da Cross Hill di notte, in gran segreto, in sella alla sua bicicletta; disobbedendo al monito di papà, che ci aveva intimato di non lasciare mai più la proprietà, a piedi o in bicicletta, senza il suo esplicito permesso. Graeme trovava eccitante l'idea che suo fratello disobbedisse tanto spudoratamente a nostro padre, ma provava anche una certa invidia nei suoi confronti. Dove andrà? Chi sono i suoi amici? Non è giusto! Stephen teneva nascosta la sua bicicletta in uno dei granai, oliandola costantemente, fronteggiando con la carta vetrata l'incessante aggressione della ruggine al telaio e apportando le necessarie riparazioni: benché leggera ed estremamente slanciata nel disegno, la bici da corsa italiana era anche sorprendentemente robusta. La catena della bicicletta di Graeme non era mai stata riparata, rendendo il mezzo inutilizzabile, ma Graeme aveva deciso di utilizzare quella di Rosalind; avrebbe potuto affiancare Stephen e pedalare con lui verso... dove? Contracoeur, forse?
E così Graeme si mise in attesa di Stephen, accovacciato nell'erba alta. Su tutti i lati la notte sibilava stridulamente di insetti notturni. Il richiamo di alcuni era ritmico, mentre altri emettevano versi isolati, penetranti, ad apparente imitazione del rumore di una sega elettrica. Graeme riteneva che la propria insonnia fosse in buona parte causata dal chiaro di luna. Quella luna! Un faro spietato che pungolava, occhieggiava, lo fissava laggiù in basso. Eppure è un talento quello di non dormire mai. Quello di non essere mai colto di sorpresa. Graeme era convinto di essere rimasto sveglio quando a un tratto riprese bruscamente coscienza al suono di passi che si avvicinavano, provocando una lieve vibrazione della terra; si mise a sedere, intontito, confuso, poi vide Stephen passargli vicino, o comunque una figura che credette essere Stephen: notò quanto alto e maturo era diventato; tutti avevano notato il cambiamento di Stephen quell'estate, lo sviluppo della sua muscolatura per via del lavoro a fianco del signor Dulne, con cui aveva tosato e si era preso cura dell'enorme prato, che ricresceva immancabilmente più fitto e lussureggiante nel giro di pochi giorni, con erba che s'innalzava fino all'altezza della spalla di un uomo e fiori di campagna variopinti, in un delirio di fertilità. Graeme balbettò: «Stephen...? Sono io». Solo in quel momento cominciò a temere che suo fratello potesse respingerlo, rifiutare la sua compagnia: lungo tutta l'estate Graeme si era mostrato imbronciato e scontroso, insensibile alle frequenti e amichevoli aperture di Stephen nei suoi confronti. «Stephen?» ripeté Graeme. «Aspetta. Posso venire con te? Per favore...» Gli sembrava strano che Stephen, pur avendolo identificato, si ostinasse a non parlare. Era strano anche il modo in cui aveva interrotto in maniera tanto brusca il suo cammino, a circa tre metri da Graeme, la braccia sollevate ai fianchi, la postura tesa e vigile; il suo volto, ammantato nell'ombra, non mostrava alcun segno di animazione. «Stephen...?» Graeme si mosse in avanti, senza pensare.
E in quell'istante vide che la figura davanti a sé non era il fratello Stephen, bensì la Cosa senza volto.
Graeme si fece di ghiaccio, paralizzandosi. Forse pensò che la visione potesse essere un sintomo dell'insonnia di cui era diventato così fatalmente orgoglioso: una figura da incubo che lui stesso aveva creato con la propria immaginazione; frutto di un sogno, dunque non «reale»; oppure «reale», come lo erano le atrocità riportate nel giornale settimanale di Contracoeur, ma anch'essa in qualche modo aliena, distante da lui. Non ebbe il tempo di gridare aiuto prima che la creatura si avventasse su di lui, agitando le braccia come un orso impazzito, cercando di colpirlo selvaggiamente e alla cieca. Era di gran lunga più pesante e forte di Graeme, che si ritrovò scaraventato al suolo come se fosse stato un bambino e non un ragazzo di tredici anni.
Seguì una pausa di silenzio, rotta solo dai suoni degli insetti notturni; la creatura non parlava e Graeme non era in grado di gridare, il fiato mozzatogli dalla Cosa senza volto che ora lo inchiodava a terra, infierendo su di lui con una pioggia di colpi alla testa, artigliandogli la faccia, strappandogli la carne dal volto mentre Graeme cadeva, continuava a cadere, sprofondava nel terreno sotto l'erba selvatica di Cross Hill.
9. Il figlio traditore
Per la seconda volta quell'estate, durante il nostro esilio a Contracoeur, scoprimmo al nostro risveglio la scomparsa di Graeme. E di nuovo gridammo il suo nome e ci mettemmo in cerca di lui; Rosalind ci condusse immediatamente alla riva opposta di Crescent Pond, che, a metà agosto, era ormai poco più di una grande pozzanghera nera e maleodorante tra la vegetazione palustre e i resti rinsecchiti delle piante di bambù. Ma naturalmente non trovammo nessuno laggiù. Né c'erano impronte nel terreno fangoso. «Graeme? Graeme!» chiamammo spazientiti, perché cominciavamo a provare risentimento per il comportamento infantile ed egocentrico di Graeme, da cui tutti eravamo turbati. (A eccezione della mamma, che scendeva al piano inferiore solo a mattino inoltrato, con indosso la sua sudicia vestaglia di seta, per prendere posto e rimanere pressoché immobile nella sala della prima colazione, troppo letargica anche solo per preparare il tè, compito che Rosalind aveva preso a eseguire al suo posto; posava il suo sguardo offuscato e liquido su di noi, indifferente e imperturbata.)
Dapprima papà rimase relativamente calmo, nonostante l'irritazione che provava per la sovversione del suo programma di lavoro per la giornata; poi, quando sembrò prendere corpo l'ipotesi che Graeme fosse davvero scomparso, si unì a noi nella ricerca, goffamente, con il passo incerto di un convalescente, sbattendo le palpebre per proteggersi gli occhi dalla luce accecante del sole mentre guadava la distesa di erba alta fino alla coscia, spazzandosi via le zanzare dal volto. Udimmo la sua voce tuonare in ogni angolo della proprietà: «Graeme! Ti ordino di tornare! È tuo padre che ti sta chiamando!» Era alternativamente furioso e spaventato; la sua rabbia non ci sorprese, ma la paura che comunicava ebbe l'effetto di terrorizzarci, poiché papà tradiva raramente i suoi momenti di debolezza.
Alla fine Stephen rovistò tra le cose sulla scrivania ingombra di Graeme e scoprì il criptico messaggio scritto a mano con tanta cura dal fratello:
Quello che ho perso: il mio username, la mia password, la mia anima.
Dove devo fuggire: non IRL. Non esiste.
Papà rimase stupito da quelle parole, come se non avesse ritenuto il figlio tredicenne capace di una tale eloquenza. Con voce confusa domandò a Stephen che cosa significasse «IRL», e Stephen, esitante, rispose: «Credo significhi 'In real life', papà. Nella vita reale». E papà incalzò: «Nella vita reale? Ossia?» Riluttantemente, Stephen spiegò: «IRL è un acronimo usato nel ciberspazio per definire... be', tutto ciò che è, che è reale, che non è ciberspazio». Seguì un lungo attimo di tensione in cui papà rimase a meditare su questa preoccupante rivelazione; la sua bocca pallida e ferita si mosse senza produrre alcun suono. Poi disse: «Dunque Graeme ci ha lasciati. È scappato. Mi ha ripudiato. Ha perso fiducia in me».
«Ma potrebbe essersi perso», protestò Stephen. Anche se fosse scappato, è solo un ragazzino. Potrebbe avere bisogno di aiuto, dobbiamo denunciare la sua scomparsa.» Con aria irritata e di sufficienza, papà replicò: «Graeme è un figlio traditore. Non è più mio figlio. Non potrò mai perdonarlo, e proibisco anche a tutti voi di perdonarlo, o di avere contatti con lui. Ci ha ripudiati tutti... tutti noi Matheson. Dobbiamo bandirlo dai nostri cuori».
Prima che Stephen riuscisse a bloccarlo, papà gli strappò il messaggio di Graeme dalle mani e lo stracciò.
10. Il fratello scomparso
Così accadde che nostro fratello Graeme scomparve da casa nella tarda estate del nostro esilio a Cross Hill, senza che la sua scomparsa fosse denunciata; né vennero mai trovate tracce del suo passaggio nelle rovine della vecchia casa o nel parco. Eppure, senza rendersene conto, Rosalind si ritrovava spesso a cercarlo, o comunque a cercare qualcuno... erano i momenti in cui udiva una voce fioca e risentita chiamare: «Rosalind! Stephen!» Una voce che, quando si fermava per ascoltare più attentamente, si confondeva con l'incessante soffio del vento e spariva. Rosalind si aggirava per distanti corridoi e stanze nella vecchia casa, scoprendone parti che non aveva mai visto prima: salendo scalinate strette e scricchiolanti, aprendo armadi a muro, scrutando negli angoli bui e infestati da ragnatele dove i resti dei vecchi arredi della casa si erano accumulati come i rottami di un naufragio. All'esterno si ritrovava invece attratta verso i vecchi e decrepiti granai, le viti e i glicini marciti, con la loro aura di romanticismo perduto, verso l'erba alta e ondeggiante del parco che si estendeva per diversi ettari come un mare interno. Rosalind! Stephen! Aiuto! Eppure l'immagine di Graeme, il suo volto cominciavano a sbiadire nella sua memoria, come una Polaroid esposta per un periodo troppo prolungato alla luce del sole. Inoltre, non sembravano esserci fotografie o istantanee di Graeme nella casa: la maggior parte dei ricordi e degli effetti di famiglia, un tempo raccolti ossessivamente dalla mamma in album e scatole, era andata persa nel trasloco dalla città. Pertanto, se papà avesse accettato di denunciare la scomparsa di Graeme alla polizia, avrebbe dovuto subire anche l'imbarazzo di non possedere neppure una fotografia di suo figlio da consegnare alle autorità.
Rosalind studiava ansiosa la sua immagine negli specchi foschi e punteggiati di piombo di Cross Hill. Nel corso della lunga estate era cresciuta di quasi due centimetri in altezza, il suo corpo snello cominciava a farsi sinuoso e le lunghe gambe si erano formate splendidamente; era abbronzata, mancava poco al suo quindicesimo compleanno e si era trasformata in una bellissima ragazza, sempre più indipendente e sicura. Eppure, vista in quegli antichi specchi la sua immagine riflessa appariva evanescente, tremante, precaria, come se stesse guardando in uno specchio d'acqua increspato dal vento. Stava forse per scomparire anche lei? O si trattava semplicemente della qualità inadeguata degli specchi? Aveva notato che anche l'immagine di Stephen appariva vaga e priva di definizione quando si rifletteva in alcuni di quegli specchi; i gemelli Neale ed Ellen, invece, che non erano cresciuti affatto quell'estate, ma sembravano al contrario essersi preoccupantemente ridotti in altezza di un paio di centimetri, non comparivano neppure, se non in forma di immagini solo accennate, sfocate e liquide, come acquerelli prodotti da una mano di scarso talento. A ben poco serviva rimuovere energicamente lo sporco dalle superfici degli specchi, se non a portare ulteriormente alla luce le lastre di piombo sottostanti; come aveva esclamato alzando le braccia al cielo la signora Dulne, in un'occasione in cui aveva tentato insieme con Rosalind il restauro di uno degli specchi: «A Cross Hill tutto è vecchio, ormai».
Una sera, a un'ora molto tarda, Rosalind e Stephen si erano soffermati a chiacchierare sussurrando nel corridoio buio all'esterno delle loro stanze e Rosalind si azzardò a chiedere a Stephen se anche lui stesse cominciando a dimenticare loro fratello; Rosalind faticava ormai anche a richiamare alla memoria il suo nome! In quell'occasione si sforzò in modo cosciente di pronunciarlo: «Graeme». La risposta di Stephen giunse immediata; forse troppo immediata: «No». Rosalind domandò poi se a volte udisse qualcuno chiamare in lontananza i loro nomi, in modo appena percettibile ma pungolante, come una voce trasportata dal vento; Stephen rabbrividì e annuì. Sì. A volte sentiva «qualcosa, ma non saprei dire esattamente cosa». Rosalind incalzò: «Ma sembra la voce di Graeme, vero?» La risposta di Stephen sembrò tradire il fatto che anch'egli, da tempo, stava meditando sulla questione. «Forse vuole che lo raggiungiamo, ma come diavolo possiamo farlo? Non sappiamo dov'è.» Parlarono per un po', a bassa voce, speculando su dove potesse essere andato Graeme. Era forse tornato a casa? In città? Ma che cosa avrebbe fatto lì? Era forse andato a vivere a casa di un amico? Non sembrava affatto probabile. Per quanto riguardava invece i parenti, papà e la mamma sembravano averne ben pochi; i genitori di papà erano morti da molti anni e la nonna da parte della mamma si era risposata dopo essere rimasta vedova. Ora viveva in un condominio a Sarasota, in Florida, e non aveva mai mostrato molto interesse per i nipoti. «Pensi che Graeme sia in grado di badare a se stesso, di farcela da solo?» volle sapere Rosalind, aggrottando la fronte, e Stephen rispose: «Se volessimo, potremmo tutti badare a noi stessi. Troveremmo un lavoro, saremmo indipendenti. Potremmo continuare ad andare a scuola ma vivremmo per conto nostro... perché no?» Rosalind, con voce eccitata e tremula, disse: «Credi... davvero? Ma io avrei un po' paura...» al che Stephen, spazientito, affermò: «Nostro bisnonno, Moses Matheson, venne in questo paese da solo quando aveva solo dodici anni». «È stato papà a dirtelo?» indagò Rosalind. «No», la informò Stephen. «L'ho letto in un libro, nella biblioteca, in paese.» «Ma a quei tempi la gente era diversa!» replicò Rosalind. «Io non potrei mai essere tanto forte, o coraggiosa.» Stephen, allontanandosi e portandosi un dito alle labbra, la contraddisse: «Certo che potresti».
11. «Immunità»
Stephen sbottò, sussurrando: «Non posso crederci».
Era troppo turbato per restare seduto al tavolo della biblioteca pubblica di Contracoeur; si tirò su, alzandosi in piedi ma continuando a leggere i giornali, ricurvo su di essi. Gli pulsavano le tempie e il sudore gli scorreva come lacrime lungo il volto. Non posso crederci, pensava, nauseato. Ma so che dev'essere vero.
Quei maledetti, terribili titoli. Contenuti nei quotidiani proibiti risalenti all'inverno precedente. Fotografie in prima pagina del giudice Roderick Matheson e di una mezza dozzina di altri uomini. Arrestati con l'accusa di concussione, corruzione, ostacolo alle indagini di polizia. Erano i quotidiani di Albany che a noi, ai figli di Roderick Matheson, era stato proibito leggere. Documenti che Stephen era finalmente andato a cercare nella biblioteca di Contracoeur, in aperta violazione dei divieti del padre.
Si pulì gli occhi dalle lacrime di dolore e di vergogna. Sperava che nessuno lo stesse guardando! Si domandò come poteva essere stato tanto ingenuo e stupido; come aveva potuto lasciar passare tutto quel tempo prima di mettersi alla ricerca delle prove, nonostante nutrisse già da mesi forti sospetti su quanto era accaduto.
Dovrei forse portare un coltello, un'arma con cui difendermi?
Ma Stephen non lo faceva mai. Si ricordava del coltello quando era ormai troppo tardi, quando si era già allontanato dalla casa pedalando furiosamente.
In quelle languide notti d'estate aveva preso a fuggire dalle rovine di Cross Hill. Troppo irrequieto per dormire, o per rimanere sdraiato sul letto disfatto ad ascoltare l'acuto e ritmato stridio degli insetti notturni. Nonostante la quasi totale assenza di vento in quelle umide e pesanti notti di tardo agosto, Stephen udiva la voce fioca, lamentosa e piena di rimprovero che lo chiamava. Stephen! Stephen!
Ma quando tratteneva il fiato, tendendo le orecchie, la voce scompariva come se non fosse mai realmente esistita.
Finalmente, via da Cross Hill. In segreto!
Per correre incurante dei divieti in sella alla sua agile bicicletta, che ora percorreva di gran carriera la strada illuminata dal chiaro di luna con la baldanzosa energia di un cane bastardo affamato.
La prima notte Stephen percorse forse tre chilometri prima che i rimorsi di coscienza e la preoccupazione che papà potesse scoprire la sua assenza lo spingessero a invertire la marcia. Inoltre, ebbe paura di avventurarsi oltre nel buio, la luna oscurata da nuvole piccole e dense come schegge prodotte da un'esplosione. E quella creatura che suo fratello aveva visto, o comunque aveva affermato di aver visto, chiamandola la Cosa senza volto? Stephen non credeva all'esistenza di una simile creatura, ma trovava plausibile la presenza nei dintorni di un orso che si fosse dato alla caccia degli esseri umani, il suo appetito stimolato dall'aver assaporato il sangue umano.
La seconda notte Stephen pedalò forse per sei chilometri prima di tornare indietro. Era senza fiato, ma felicissimo. Un'arma, un coltello... avrei fatto meglio a portare qualcosa con cui difendermi. Che strana cosa; ogni volta che intraprendeva uno dei suoi viaggi notturni Stephen dimenticava di portare con sé un coltello, o anche solo uno sbucciatore. Solo quando si trovava già sulla strada, circondato dalla desolata solitudine della notte, avanzando a velocità sostenuta tra colline, campi e prati tetri, bui e fragranti, vibranti di forme di vita sconosciute e invisibili... solo allora ricordava. Potrei essere in pericolo, avrei dovuto prendere qualcosa per difendermi.
Quanto avrebbe desiderato non tornare mai più alle rovine di Cross Hill! Il suo cuore batteva forte nell'estasi della fuga. Eppure, naturalmente, faceva sempre rientro: perché era un ragazzo responsabile e non si sarebbe mai sognato di abbandonare la sorella Rosalind e i gemelli Neale ed Ellen. Inoltre, nonostante tutto, non poteva negare che gli sarebbe anche dispiaciuto abbandonare papà e la mamma. Si sforzava di credere alla promessa di papà: Rimanete al mio fianco, bambini. Mi riscatterò. Riscatterò tutta la famiglia. Era vero, no? Doveva essere vero!
E così, ogni notte, Stephen rientrava a casa molto prima dell'alba, la testa dolorante per la spossatezza, ma comunque felice; i muscoli delle spalle, delle braccia e delle gambe piacevolmente provati e appesantiti. Era diventata un'autentica impresa domare la sua bicicletta, non più la slanciata, esclusiva bici da corsa italiana che era stata un costoso regalo di compleanno da parte dei genitori, ma un ibrido ferito e disastrato che comunque gli calzava comodamente tra le gambe. Sembrava viva. Ansiosa di lanciarsi in corsa lungo la strada piena di buche, penetrando strati successivi di tenebre che sembravano separarsi per accogliere il suo proprietario. Stephen! Oh, Stephen!
Al suo ritorno a casa nascondeva la bicicletta sotto un telo impermeabile in una fitta macchia di vegetazione accanto alla strada, congratulandosi per la sua astuzia. Congratulandosi, nonostante il sudore e il tremore nervoso dei muscoli, per la sua temerarietà. Teneva la bicicletta nascosta accanto alla strada in modo da poter fuggire più prontamente dalla casa, attraversando di corsa e accovacciato l'erba alta del parco e uscendo dalla proprietà attraverso un buco praticato nella recinzione di ferro battuto, senza essere visto. Sarebbe stato più facile da individuare se avesse spinto o inforcato la bicicletta per percorrere Acacia Drive.
Stephen era ormai completamente a suo agio in condizioni di clandestinità.
È stato così anche per Graeme? si domandava. Sto forse ripercorrendo il suo cammino? Mi ricongiungerò a lui?
Stephen non venne mai scoperto mentre si allontanava da Cross Hill di notte. Trovò dunque lui stesso strano, inatteso e audace il fatto che si ritrovasse a osare la fuga durante il giorno.
Verso la fine dell'estate la mamma aveva cessato del tutto di vigilare sui suoi figli. Rosalind accudiva i gemelli, che si aggrappavano a lei come bambini di tre o quattro anni, e non invece alla soglia degli undici. «Povero Neale! Povera Ellen!» Rosalind li stringeva, li baciava, tentava delicatamente di districarsi dal loro appiccicoso abbraccio. «Dovete trovare dei giochi da fare da soli. Vi prego!» Per quanto amasse il fratellino e la sorellina, Stephen mostrava nei loro confronti ancora meno pazienza di Rosalind. Se lo seguivano mentre lavorava all'esterno della casa, falciando i prati eternamente lussureggianti e fertili, tollerava solo brevemente la loro presenza, dopodiché li mandava via, battendo rumorosamente le mani e ordinando loro di rientrare in casa. «Rosalind vi sta chiamando. Andate, su!» Intanto indirizzava furtivamente lo sguardo verso la casa, verso le finestre opache alle quali, mesi prima, la mamma si era spesso affacciata per controllare che cosa stesse facendo; oppure più su, al misterioso secondo piano, dove papà forse lo stava osservando proprio in quel momento.
Ma papà si era fatto sempre più remoto, sempre più distante da noi. Raramente compariva al piano terra prima di sera, e a volte neppure allora. Non aveva più pronunciato parole di rimprovero da quando aveva sfogato la sua furia per il comportamento proditorio di Graeme. Mai più una parola venata di rabbia o di disprezzo rivolta a Stephen; si era limitato a qualche sarcastico commento a tavola, sull'aspetto «trascurato e scompigliato» di Stephen, oppure a chiedergli con tono pungente: «Ragazzo, quando è stata l'ultima volta che hai fatto un bagno? Te lo ricordi?»
E così Stephen cominciò ad allontanarsi da Cross Hill anche di giorno. Mentre riparava il tetto di un granaio, per esempio, balzava giù, correva accovacciato in direzione della strada, un sorriso da bambino euforico stampato sul volto, e andava a recuperare la sua adorata bicicletta, in attesa sotto il telo impermeabile. Agli occhi di Stephen era ogni volta un miracolo scoprire che la bici era ancora lì, nascosta. Balzava in sella e puntava verso Contracoeur. Gli sembrava la cosa più naturale e più inevitabile del mondo, come se fosse attratta a quel piccolo, anonimo paese sulle sponde del Black River da una forza potentissima. Contracoeur, in passato fiorente centro tessile e oggi afflitta da qualche difficoltà economica, ma non certo depressa quanto altri paesi simili nella regione delle montagne Chautauqua, grazie soprattutto alla persistente buona salute dell'industria del legname. Mentre un tempo aveva disprezzato Contracoeur ritenendola disperatamente provinciale, indegna di un secondo sguardo, ora passeggiava felice per le sue strade, asfaltate e non; sorrideva agli sconosciuti e gioiva del fatto che ricambiassero il suo saluto. Era un ragazzo bello, abbronzato, affabile, con capelli ondulati schiariti dal sole che gli ricadevano oltre il colletto della camicia e uno sguardo franco, diretto, caldo; eppure mancava della vanità necessaria per avere un chiaro senso di come apparisse agli occhi degli altri. Nelle occasioni in cui era andato a Contracoeur con la mamma, accompagnandola in una delle sue tese spedizioni di approvvigionamento, la gente aveva fissato Stephen in modo sfrontato; ora, da solo, avvertiva in modo ancora più marcato su di sé i loro sguardi curiosi, privi, tuttavia, per quanto potesse giudicare, di ostilità. Un pomeriggio, vedendo un gruppo di liceali impegnati in una partita di softball, Stephen si fermò a guardarli; entro un'ora venne invitato a partecipare e nel volgere di poco tempo fece la conoscenza di una decina e più di ragazzi e ragazze di Contracoeur. Dapprima, esitante, si presentò semplicemente come «Steve»; solo in seguito, quando gli domandarono dove abitasse, rivelò: «In quella vecchia casa di pietra in campagna a circa otto chilometri da qui. A Cross Hill». Quel nome aveva un sapore strano quando lo pronunciava. Sapeva di ossidazione, di annerimento.
I nuovi amici di Stephen si scambiarono una serie di sguardi, poi tornarono a fissarlo. Un ragazzo con i capelli rossi disse, con un ghigno di sufficienza sul volto: «A Cross Hill? Ma che dici? Nessuno abita lì». Un altro ragazzo gli diede una gomitata nelle costole e, sottovoce, disse rapidamente: «Evidentemente ora è abitata. Non vedi?»
Stephen sorrideva, e si sforzò di continuare a farlo. «Chi ci abitava prima?» domandò.
«Prima di che cosa?» ribatté il secondo ragazzo.
«Be', non so, diciamo cinque anni fa. Dieci anni fa.»
Aggrottando la fronte i ragazzi scossero la testa. Cross Hill era disabitata «da sempre», affermarono. Non ricordavano che fosse mai stata abitata.
In altre occasioni, a Contracoeur Stephen cercò lavoro. Lavoro a ore, presso una ditta di traslochi, come scaricatore di vagoni merci allo scalo ferroviario di Buffalo-Chautauqua, come operaio alla segheria McKearny's, dove imparò a segare e ad accatastare assi di legno. Durante l'estate era cresciuto, avvicinandosi al metro e ottanta di altezza; aveva i muscoli delle braccia e delle spalle sviluppati e tonici; era sempre di buonumore e non si lamentava mai: lontano da Cross Hill e dal lavoro manuale svolto in isolamento, ogni luogo e situazione gli sembravano improntati all'allegria e alla convivialità. I suoi datori di lavoro a Contracoeur erano molto soddisfatti di lui. E Stephen (le cui facoltà percettive erano sviluppate quanto in ogni altro Matheson) sembrava cosciente del fatto che tutta Contracouer parlava di lui. La gente del paese faceva congetture sul suo conto, lo osservava, giudicava. Possibile che mi conoscano meglio di quanto mi conosca io stesso? Un giorno di fine agosto Fred McKearny invitò Stephen a fermarsi da lui per cena e ben presto Stephen divenne amico dell'intera famiglia NcKearny, incluso il labrador Rufus, che gli appoggiò il muso sulle ginocchia mentre sedeva al tavolo della sala da pranzo. La signora McKearny trattò Stephen come se l'avesse sempre conosciuto e amato come un figlio; poi c'era il diciottenne Rick, la sedicenne Marlena e altri bambini più piccoli; Stephen era ebbro di felicità. Aveva dimenticato che cosa si provasse a sedere a tavola in piacevole compagnia, rilassato, per mangiare cibo squisito e chiacchierare e ridere come se fosse la cosa più naturale del mondo. È questa la realtà, la vita reale, si disse Stephen.
E quanto era diversa la zona semirurale in cui vivevano i McKearny, la loro grande casa bianca fatta di assi di legno, vicina ad altre abitazioni simili e attorniate da giardini, meleti, animali. Per ogni dove si aggiravano liberi cani buoni e tranquilli come Rufus. Galli e galline beccavano la terra ai lati delle strade. E non c'era un centro commerciale nel raggio di chilometri. Molti chilometri. Stephen tentò di ricordare la sua vecchia casa in città, dove nessuno conosceva i propri vicini e tutti guidavano l'automobile, spostandosi freneticamente da un luogo all'altro, eternamente intrappolati in vortici di traffico sulle tangenziali. Ora quello stile di vita gli appariva folle, aberrante, come se visto attraverso una lente distorta.
Non voglio tornarci mai più, pensò Stephen. E non ci tornerò.
Avrebbe potuto frequentare il liceo di Contracoeur, insieme con Marlena. E anche Rosalind avrebbe potuto iscriversi alla stessa scuola. I loro genitori non avevano più fatto cenno alla scuola. Forse papà contava di tornare a vivere la sua vecchia vita prima della riapertura delle scuole; che speranza irrealistica, miope e presuntuosa. Non sarebbe accaduto. Non sarebbe accaduto per molto tempo e Stephen se ne rendeva conto.
I pensieri di Stephen si rivolgevano spesso, sognanti, a Marlena McKearny, così diversa dalle ragazze che aveva conosciuto in città, dai suoi compagni di classe alla scuola privata che aveva frequentato; Marlena, che era bassa di statura, aveva le lentiggini, era carina ma non sofisticata, molto distante dai canoni adottati in città per identificare le ragazze più appetibili. C'era qualcosa nel suo modo di abbracciare Rufus, nel suo modo di rivolgersi anche a Stephen mentre rideva dolcemente, prendendo in giro il fratello maggiore Rick e facendo arrossire entrambi i ragazzi. Stephen si domandò se si fosse innamorato di Marlena. O forse di tutta la famiglia McKearny. O forse ancora della stessa Contracoeur.
Stephen si asciugò rabbiosamente gli occhi con una manica. Lo imbarazzava piangere!
Ma gli mancava tanto... la vita.
Anche Stephen, di nascosto, aveva visitato la piccola biblioteca di Contracoeur per esaminare gli scaffali dedicati alla storia locale. Anche lui aveva letto con stupore e disgustato la storia del bisnonno Moses Adams Matheson. Il «più ricco industriale tessile della valle di Contracoeur», il «sofisticato filantropo e ambientalista che aveva donato centinaia di ettari di terreno nelle montagne Chautauqua perché venissero destinati a uso pubblico». Ma poi c'era stato l'episodio di South Winterthurn, il «tragico rogo» del febbraio 1911, in cui oltre trenta persone erano morte e molte di più erano rimaste ferite. Gli operai che avevano scioperato erano stati chiusi fuori dalle fabbriche al loro tentativo di ritornare al lavoro e in numerose occasioni i partecipanti alle manifestazioni organizzate dai rappresentanti sindacali erano stati «dispersi» dal servizio di sicurezza di Pinkerton. Stephen lesse con particolare disgusto la storia della costruzione di «Cross Hill, la più ambiziosa e costosa impresa architettonica della valle di Contracoeur». La gigantesca, pretenziosa casa in pietra calcarea, ispirata alle magioni di campagna inglesi di epoca ormai lontana, aveva richiesto otto anni di lavoro ed era costata milioni di dollari. Prima che fosse completata, la moglie di Moses Matheson, Sarah (di cui i testi offrivano ben poche informazioni) era morta. A quanto pareva, Moses Matheson si era «estraniato», interrompendo ogni rapporto con il figlio, suo unico erede, e con buona parte della sua famiglia; aveva vissuto a Cross Hill, in «rigido e protetto isolamento» per diciotto anni, morendo nel 1933, all'età di sessantacinque anni, «in circostanze sospette, non avendo potuto il medico legale della contea escludere in modo assoluto la possibilità che la morte fosse stata causata da una 'lesione fatale autoinflitta'». Suicidio! Stephen voltò avidamente la pagina del vecchio e fragile volume intitolato Storia della valle dì Contracoeur, solo per scoprire che le pagine seguenti erano mancanti, strappate via in maniera rozza. Tanto meglio: non aveva comunque avuto alcuna voglia di leggere oltre.
In un'altra occasione Stephen aveva consultato l'archivio dei quotidiani di altre città, prima fra tutte la capitale dello stato, venendo a conoscenza, nuovamente con suo grande orrore, di altre notizie sul conto del padre. A partire dall'inverno precedente erano comparsi sulle prime pagine dei giornali articoli sovrastati da titoli duri e incriminanti: «Eminente giudice dello stato accusato di corruzione e concussione»; «Matheson respinge le accuse»; «Matheson chiamato a deporre davanti al gran giurì»; «Matheson accetta di parlare in cambio dell'immunità»; «Matheson ottiene l'immunità e testimonia contro ex colleghi»; «scandalo dei giudici corrotti: gli imputati si dichiarano colpevoli...». Stephen apprese con sbalordimento che le cose non erano andate così come gli erano state raccontate, che papà non era una vittima innocente della malvagità e della manipolazione di altri. Al contrario, papà aveva inizialmente respinto ciascuna delle molte accuse di concussione (una riguardava una causa da cinque miliardi di dollari mossa contro una delle più grandi aziende chimiche dello stato, accusata di inquinamento ambientale), per poi improvvisamente ammettere tutto, accettando di testimoniare contro i suoi ex compiici in cambio dell'immunità. Dunque papà non era stato affatto oggetto delle persecuzioni dei suoi nemici, bensì aveva potuto godere di un trattamento francamente molto generoso. Un articolo di fondo pregno di sarcasmo uscito su uno dei giornali di Albany riassumeva il caso nelle poche parole del titolo: «Matheson premiato per aver tradito i compiici».
Lo stesso quotidiano, in una delle edizioni di maggio, riportava la notizia che uno dei compiici chiamati in causa da papà, un alto funzionario del governo dello stato, spesso ospite dei Matheson, si era ucciso con un colpo di rivoltella all'alba del giorno in cui avrebbe dovuto cominciare a scontare una pena di otto anni di reclusione a Sing Sing.
Erano dunque queste le informazioni che ci erano state proibite, ma di cui il resto del mondo era al corrente.
E io ero stato un figlio troppo codardo, troppo rispettoso, per scoprirle da me.
Stephen si soffermò sulla rapida successione di fotografie di Roderick Matheson pubblicata dai giornali. La prima era la più familiare, quella che ritraeva un bell'uomo dall'aspetto giovanile, che dimostrava certamente meno anni della sua età, con una ciocca di capelli ribelli sulla fronte e lo sguardo sincero e sicuro rivolto verso il centro dell'obiettivo. Dopo l'arresto di papà la sua immagine era mutata repentinamente. Si era trasformato in un uomo arrabbiato, risentito, indurito, un uomo colto nell'atto di gridare ingiurie contro un cronista televisivo; in un'altra occasione era stato ritratto mentre scendeva la scalinata del tribunale dello stato, accompagnato da due agenti di polizia, curvato in avanti e con le braccia sollevate a nascondersi il volto, i polsi ammanettati, sopraffatto dal senso di colpa e dalla vergogna. Roderick Matheson in manette! Papà, un criminale! Per la prima volta la realtà dei fatti si abbatté con tutto il suo peso su Stephen: l'enormità dei crimini del padre, la vergogna di cui era stato macchiato il nome dei Matheson.
Stephen si accasciò in avanti sul tavolo della biblioteca, nascondendosi il volto accaldato e sudato nelle mani. Non posso crederci! Ma so che dev'essere vero.
12. Il volto
Quella notte era rientrato tardi a Cross Hill. Era stato come essere intrappolato in uno di quei terribili, frustranti sogni in cui ogni disperato tentativo di movimento era vano, incapace di rompere una paralisi assoluta. Era tornato dopo le dieci, a un'ora molto più tarda di quanto avesse mai osato prima. Aveva cenato con i McKearny e si era attardato a casa loro, quasi timoroso di andarsene, finché la signora McKearny non gli aveva offerto di ospitarlo per la notte, al che lui aveva balbettato di non potere, di dovere assolutamente rientrare a casa. E il signor McKearny aveva accompagnato fuori Stephen, insistendo perché portasse con sé un'arma per difendersi, un coltello da caccia di sua proprietà, con una lama lunga venticinque centimetri e affilata come un rasoio. Stephen protestò, affermando di non averne bisogno, ma il signor McKearny gli ricordò che proprio quella sera avevano parlato degli omicidi avvenuti nella valle, della mutuazione dei corpi, il cui autore era ancora sconosciuto, uno psicopatico, forse, o un orso reso oltremodo aggressivo. In ogni caso Stephen sarebbe stato più al sicuro se armato, allora accettò il coltello e se lo infilò goffamente nella cintura, inguainato nella sua custodia di cuoio, dopodiché si avviò in sella alla sua bicicletta in direzione della notte, una notte schiarita da una luna diafana e fatta di umidità, insetti rumorosi e zanzare. «Buonanotte, Stephen!» disse alle sue spalle il signor McKearny. «Che Dio sia con te!» Un'espressione tanto arcaica e pittoresca da richiamare alle labbra di Stephen un sorriso o, meglio, un tentativo di sorriso. Era molto teso, troppo teso per sorridere.
Pedalò lungo le strade di Contracoeur, imboccando poi la buia strada di campagna che conduceva a Cross Hill, sentendo accelerare il battito quando si lasciò alle spalle le luci del paese, immergendosi nella notte avviluppante e scura come l'inchiostro delle campagne, schiarita appena in modo incerto e sognante, attraverso una pellicola di nubi, dalla luna. Nelle sue orecchie risuonavano come il richiamo degli insetti notturni i titoli dei giornali: Matheson respinge le accuse! Matheson accetta di parlare! Matheson ottiene l'immunità! Matheson premiato per aver tradito i complici! Gli occhi di Stephen si offuscarono di lacrime pungenti. Cercava di ignorare certe forme ombrose e indistinte al lato della strada che avrebbero potuto essere creature viventi, ma che naturalmente erano cespugli, alberelli. Cercava di ignorare la paura che montava in lui. Cercava di ignorare la precarietà della bicicletta quando sobbalzava sulla strada crivellata di buche; l'aveva oliata con cura quella mattina, ma ormai il mattino era molto distante nel tempo. Quel mattino avrebbe potuto essere giorni fa, o addirittura settimane fa. Come aveva potuto osare rimanere via tanto a lungo? A che cosa andava incontro ora? Sentì una voce fioca e risentita vicino a lui: «Figlio traditore! Non sei più mio figlio! Non potrò mai perdonarti!»
Stephen si rese conto che davanti a sé, sulla strada, vedeva una sagoma che sembrava essere una figura umana. Possibile? Era un uomo? Un uomo alto e in posizione rigidamente eretta? Quel tratto di strada era deserto, non c'erano case nelle vicinanze e Cross Hill distava quasi due chilometri. Stephen deglutì, strinse la sua presa sul manubrio e avvertì una pugnalata di paura mentre prendeva rapidamente una decisione: non avrebbe invertito la marcia ma avrebbe accelerato, tentando di oltrepassare la misteriosa figura, che si era posizionata sul lato sinistro della strada. Stephen lo avrebbe passato sulla destra, la testa abbassata, la schiena ricurva nella tipica posizione dei ciclisti in volata. Intendeva ignorare totalmente lo sconosciuto, nonostante vedesse con la coda dell'occhio che la figura, l'uomo, o qualunque cosa fosse, sembrava essere acutamente cosciente della presenza di Stephen, in attesa di lui. Eppure in quel volto non erano visibili occhi, né connotati che Stephen fosse in grado di distinguere. La Cosa senza volto! La cosa che Graeme diceva di aver visto e che Stephen aveva considerato semplicemente un brutto sogno. Attanagliato dall'orrore, e al tempo stesso rinvigorito da esso, da una scarica di adrenalina che sembrò percorrergli le vene come una fiammata, Stephen non rallentò e aggirò la creatura, che si stava muovendo verso il centro della strada per bloccarlo. Ma lui era riuscito a oltrepassarla! Era al sicuro!
Eppure ora cadeva, centrato alla spalla da un colpo poderoso, doloroso, e si ritrovava intrappolato sotto la bicicletta, le cui ruote continuavano a girare come impazzite, un'estremità del manubrio incastrata contro il volto; era a terra impotente, dimenava le braccia e le gambe mentre la Cosa senza volto piombava su di lui, lo aggrediva, lo picchiava, assestandogli con gli artigli affilati violenti colpi al petto, alla nuca, alla faccia esposta. Troppo terrorizzato per gridare aiuto, Stephen rotolò di lato, cercando di sottrarsi all'aggressione e di proteggersi la testa e il volto con le braccia; la creatura, totalmente in preda alla frenesia dell'attacco, gli si piazzò sopra a cavalcioni. Stephen notò con orrore che in realtà aveva un volto, ma privo di connotati, fatto di pelle arrossata e arricciata come carta da cucina, con occhi e narici poco più grandi di capocchie di spillo e una bocca larga meno di due centimetri, come quella che si potrebbe immaginare propria di un mollusco. Una bocca che non era fatta per mangiare bensì per succhiare. Stephen, che lottava per salvarsi la vita, era riuscito a estrarre dal fodero il coltello da caccia e ora, senza capire esattamente come ci fosse riuscito, lo stringeva saldamente tra le dita. In seguito non avrebbe ricordato il gesto di estrarlo, ma semplicemente il suo peso nella mano: lui, Stephen Matheson, un ragazzo dei sobborghi ricchi che in vita sua non aveva mai prima impugnato un coltello del genere, tantomeno in una situazione così disperata, eppure ora lo brandiva contro l'aggressore, lo usava per colpirlo alla clavicola, procurandogli una ferita superficiale ma inattesa al punto da impedirgli di difendersi; evidentemente quel mostro era abituato a sopraffare vittime disarmate, più piccole di lui. Colta di sorpresa, la Cosa senza volto desistette per un istante dall'attacco e Stephen poté portare di nuovo la lama verso l'alto, stavolta con più forza e decisione, affondandola più profondamente nella gola della creatura; ripeté il gesto, alternando colpi fendenti ad affondi, mirando alla gola, fino a recidere un'arteria, dato che a un tratto un fiotto di sangue denso, scuro e caldo imbrattò il braccio, il volto e i capelli di Stephen. La creatura, notevolmente più grande di Stephen, si accasciò sulle ginocchia sul ciglio della strada, stordita, incredula di fronte a quanto le stava accadendo; forse non provava dolore, ma solo una grande confusione, come quella di un essere che si era creduto fisicamente invulnerabile, forse immortale. Un'illusione ora infranta, che ora sgorgava dal mostro in scuri e inarrestabili fiotti di sangue.
Con un suono strozzato, gutturale, la creatura si rialzò, malferma sulle gambe, le mani premute sulla ferita sanguinante, voltandosi stordita, ormai dimentica della presenza di Stephen; poi si allontanò, barcollando come un ubriaco e rifugiandosi nella boscaglia accanto alla strada. Stephen, anche lui stordito, sanguinante e a corto di fiato, la fissò incredulo ed euforico. Era riuscito a salvarsi! Si era tolto di dosso la Cosa senza volto e l'aveva ferita mortalmente, salvandosi la vita!
Nelle rovine di Cross Hill salì furtivamente le scale che conducevano al primo piano, dove dormivano papà e la mamma; il cuore gli batteva violentemente nel petto, non per avvertirlo, non per richiamarlo alla cautela, bensì per spronarlo, perché la cosa andava fatta, doveva essere affrontata, non poteva più tornare sui suoi passi ma andare fino in fondo. E così aprì la porta della camera matrimoniale, entrò trattenendo il fiato nella stanza che gli era stata vietata; il sangue appiccicoso, ancora caldo della Cosa senza volto gli macchiava la faccia, i capelli, i vestiti, frammisto al suo, e Stephen sapeva che doveva avere un aspetto selvaggio, terrificante. Eppure si azzardò ad accendere la luce, la lampadina ingiallita e polverosa di una lampada sul comodino. Si fermò accanto all'enorme letto a baldacchino dei genitori; ma solo la mamma vi giaceva supina, innaturalmente immobile e con gli occhi aperti, vestita di una camicia da notte sbiadita al punto da aver perso ogni colore. Il lato del letto di papà era vuoto, benché le lenzuola fossero sgualcite e non molto pulite. Il cuscino recava la pesante impronta della sua testa, un'ombra concava al suo centro. Stephen rimase a fissare la scena, non comprendendo appieno quello che stava vedendo. «mamma?» sussurrò. Allungò una mano verso di lei; osò toccarla, posandola delicatamente sulla spalla nuda che, insieme con il torso, si staccò dalla parte bassa del corpo, avvolta nella penombra, e dal collo e dalla testa. La testa, la testa calva e di un manichino, rotolò di lato sul cuscino; uno degli arti, la sinuosa gamba sinistra, si era staccata dal corpo come se l'articolazione si fosse irrigidita e fosse divenuta fragile con il tempo, e ora giaceva, in modo assolutamente improbabile, perpendicolare alla coscia. «Mamma», sussurrò di nuovo Stephen, pur vedendo che non c'era nulla di umano in quella cosa, e nulla di vivo: si trattava di un elegante manichino da grande magazzino, ben costruito, dal corpo snello e piuttosto piatto, con un volto liscio come la porcellana, bellissimi occhi spalancati attorniati da ciglia assurdamente folte. La parrucca del manichino, a riprodurre i capelli biondo cenere della mamma, ora ingrigiti e arruffati, era stata sistemata, apparentemente con cura, sul comodino.
Il bel volto di papà, una maschera realizzata con un materiale gommoso, eccezionalmente sottile, ingegnosa imitazione della pelle umana, era stata posata con altrettanta cura sul comodino dalla parte opposta del letto; la maschera era talmente realistica che alla sua vista Stephen sussultò. Sembrava essere stata lavata, oliata con una crema incolore e leggermente profumata, dopodiché era stata infilata sul calco in gesso della testa di un uomo. Anche gli occhi della maschera erano spalancati, ma erano più liquidi, avevano un aspetto più umano di quelli del manichino. Inorridito e affascinato, mosso dalla curiosità di un bambino, Stephen allungò una mano e toccò il volto con un dito. Sembrava vero! Era caldo!
Poi di corsa a svegliare Rosalind e i gemelli, che ora dormivano nella sua camera; per destare Rosalind, bofonchiante e in preda a un incubo, bastò pronunciare dolcemente il suo nome: «Rosalind». E via, fuori dalle rovine di Cross Hill, poi a piedi lungo la strada per Contracoeur, distante solo otto chilometri, senza che Stephen avesse il tempo di dare una spiegazione alle sorelle e al fratello, per formulare la quale non avrebbe comunque trovato le parole. Rosalind domandò con un filo di voce che cosa gli fosse successo, se si era ferito, se qualcuno gli aveva fatto del male, dove stessero andando, e che cosa ne era stato di papà e della mamma; i gemelli invece, ancora intontiti dal sonno, sull'orlo di un pianto dirotto, ciascuno aggrappato a una delle mani di Stephen, non domandarono nulla; né avrebbero mai domandato alcunché.
Il gufo e il gatto
di Thomas M. Disch
Conosco Tom Disch da venticinque anni. Lo conobbi alla Clarion Science Fiction Writer's Workshop, tenuta presso la Michigan State University nel 1974, dove io ero uno studente e lui faceva parte del corpo docente. Da allora lo considero con grande orgoglio uno dei miei mentori; il suo romanzo Campo Archimede dovrebbe trovare spazio nella libreria di ogni lettore intelligente di fiction fortemente improntata all'immaginazione creativa.
Pur non avendo mai abbandonato il campo della fantascienza, Disch si è fatto conoscere come autore horror con due romanzi molto apprezzati: The M.D.: A Horror Story e The Businessman: A Tale of Terror. È inoltre rinomato come autore di libri per bambini, tra cui The Brave Little Toaster e The Brave Little Toaster Goes to Mars, e ha recentemente scritto un importante saggio (lodato dalla critica) sulla fantascienza, intitolato The Dreams Our Stuff Is Made Of. Disch è anche poeta e drammaturgo.
Il maestro ha risposto all'umile richiesta di un racconto per questo libro inviando allo studente la perla riportata nelle pagine che seguono.
Zitti, zitti, guai a chi fiata!
Christopher Robin sta dicendo le sue preghiere.
Amavano in particolare le mattine, quando il signore e la signora Fairfield dormivano ancora al piano di sopra, la casa era avvolta nel silenzio e loro potevano stringersi l'uno all'altro sul dondolo in attesa che il treno passasse sferragliante lungo la riva opposta del fiume. Passavano altri treni, in altri momenti della giornata, ma spesso c'era una tale frenesia a ore più tarde che non ci si rendeva neppure conto del sopraggiungere di un treno finché non si mettevano a vibrare le finestre.
Erano in attesa di essere riparate da anni, quelle finestre, soprattutto le due che fiancheggiavano il televisore. Dampy si innervosiva ogni volta che c'era aria di temporale, certo che prima o poi un colpo di vento avrebbe risucchiato con violenza i vecchi vetri dai loro telai di alluminio. Le finestre del piano di sopra costruite all'antica, erano più solide e probabilmente sarebbero durate più a lungo del tetto. Non che fosse difficile. Anche il tetto era in pessime condizioni. Appena avesse avuto a disposizione i contanti il signor Fairfield l'avrebbe riparato, ma non c'era da sperare che ciò accadesse presto: la ricerca di un lavoro a tempo pieno lo teneva lontano da casa per buona parte della giornata.
Dopo il passaggio del treno il cielo cominciava a schiarirsi, nella camera da letto al piano di sopra scattava la sveglia, si udivano i primi rumori provenire dal bagno e il profumo della colazione si diffondeva dalla cucina. La prima colazione era il loro pasto preferito perché non cambiava mai. Un bicchierino di succo di mela, seguito da riso soffiato o corn flakes con latte e zucchero, poi una croccante fetta di pane tostato con burro e marmellata. Chinavano la testa insieme con la signora Fairfield, e anche con il signor Fairfield, quando si alzava presto, per ringraziare il Signore di quei doni.
A volte, di domenica, c'erano anche le frittelle. Prima di trasferirsi dai Fairfield (all'epoca della prima signora Fairfield), Dampy aveva vissuto all'asilo di Grand Junction, dove una volta al mese, nella sala da pranzo, si teneva una prima colazione benefica a base di frittelle. La prima signora Fairfield si era occupata spesso della preparazione delle frittelle sulla griglia a gas, producendone fino a venti alla volta. Frittelle meravigliose, qualche volte ai mirtilli, o alla noce di cocco, e se ne potevano mangiare a volontà pagando solo due dollari se si avevano meno di sei anni. In seguito le prime colazioni beneficile non riscossero più tanto successo e vi partecipavano solo i bambini, come se fosse la solita giornata di scuola, con l'unica differenza che era possibile mangiare qualche frittella; fu in una di quelle occasioni che Dampy ebbe l'incidente che gli guadagnò il suo nome: Dampy, Umidino. I bambini si scatenarono in una battaglia con il cibo, lanciando i piatti di carta come frisbee nonostante fossero sporchi di sciroppo di acero e a dispetto del severo divieto della signorina Washington. Come al solito, nessuno badò alla signorina Washington e uno dei piatti colpì Dampy, riempiendolo di sciroppo d'acero. La signora Fairfield lo portò allora a quel grande lavandino e lo pulì energicamente con una spugna, ma vedendo che il risultato non era soddisfacente, decise di posizionarlo direttamente sotto il rubinetto. Da quel giorno Dampy non tornò mai più perfettamente asciutto.
Non gli dispiaceva essere chiamato Dampy. Un nome vale l'altro, dopotutto. Ma poi ci fu il Terribile Incidente (in realtà non si trattò affatto di un incidente), ma non è il caso di parlarne. Inutile soffermarsi sul lato oscuro delle cose; inoltre, quella fu la prova che davvero non tutto il male viene per nuocere, poiché se non fosse stato per il Terribile Incidente probabilmente Dampy non sarebbe mai stato adottato in modo permanente dai Fairfield. E la casa dei Fairfield, nonostante i litigi, era di gran lunga un posto migliore dove vivere rispetto all'asilo di Grand Junction. Certo, si era sentito piuttosto solo prima dell'arrivo di Hooter, ma Dampy aveva sempre avuto la tendenza a starsene per i fatti suoi. Come la nuova signora Fairfield, del resto, che sembrava preferire la solitudine e la televisione agli amici.
Ma gli amici speciali sono un'altra cosa, naturalmente, e fin dall'inizio Hooter fu destinato a essere un amico molto speciale per Dampy. Era andato a vivere con Dampy e con i Fairfield allorché il signor Fairfield lo aveva rapito dalla sua casa nella chiesa olandese riformata di Grand Junction. Se ne stava buono buono nella sua cassetta, ad ascoltare, seppur distrattamente, il relatore dell'incontro della Alcolisti Anonimi del martedì sera, quando all'improvviso il signor Fairfield lo afferrò. Il signor Fairfield si trovava lì perché era stato arrestato per guida in stato di ubriachezza e il giudice lo aveva condannato a partecipare agli incontri due volte alla settimana. E così si era ritrovato nella chiesa olandese riformata, ad occupare la sedia pieghevole proprio accanto alla cassetta di Hooter.
Il signor Fairfield aveva mani nervose e irrequiete. Quando non giochicchiava con il sigaro era sicuramente impegnato a pulirsi le unghie con il coltellino svizzero, oppure a stracciare un foglietto di carta riducendolo in pezzetti piccolissimi. Quella sera, dopo aver trasformato in coriandoli il volantino di due pagine nel quale erano elencate le date dei prossimi incontri della Alcolisti Anonimi, cominciò a giocare con Hooter, non in modo manesco, ma certamente senza tenere in alcuna considerazione i sentimenti di Hooter stesso. Dopo che i partecipanti alla riunione ebbero condiviso le loro esperienze, la loro forza e le loro speranze (a eccezione di quelli come il signor Fairfield, che non avevano nulla da condividere) tutti si tennero per mano e recitarono il Padre nostro.
Fu allora che il signor Fairfield raccolse il giovane gufo e gli sussurrò nell'orecchio di feltro: «Hooter, ho deciso di adottarti». Parlò di adozione, ma a Hooter, portato fuori dal seminterrato della chiesa nascosto sotto la giacca del signor Fairfield e con la sensazione di essere stato tradito da un'entità superiore, parve a tutti gli effetti un rapimento. Dopo tutto il tempo che aveva vissuto nel seminterrato della chiesa si era convinto di appartenere a quel luogo, che nessuno mai lo avrebbe portato via, nonostante trascorresse tutti i sabati in una cassetta segnata da un cartello che invitava chiunque a prendere da essa ciò che volesse. Dapprima l'aveva trovata un'esperienza deprimente, ma le riunioni della Alcolisti Anonimi avevano indubbiamente costituito una consolazione nell'affrontare la solitudine e l'isolamento. Ma Hooter aveva riposto la propria fiducia nell'entità superiore, accantonando la propria volontà e imparando ad accettare la sua vita di gufo da chiesa. E ora era stato rapito.
Il signor Fairfield aprì lo sportello del suo pickup e Hooter scoprì con sorpresa che qualcuno era stato lì dentro ad aspettarlo, al freddo, per tutta la durata dell'incontro. Seduto al buio, avvolto in una coperta, l'espressione irritata per aver dovuto restare così a lungo al gelo.
«Hooter», disse il signor Fairfield. «Ti presento Dampy. Dampy, questo è Hooter. Sarà il tuo nuovo amico. Salutalo.»
Dampy non reagì immediatamente, ma dopo un istante emise un lungo e rassegnato sospiro. «Ciao», disse, scostandosi leggermente di lato per fare spazio a Hooter sotto la coperta. Quando si ritrovarono l'uno accanto all'altro, Dampy sussurrò all'orecchio di Hooter: «Non dire niente in sua presenza», orientando lo sguardo a indicare il signor Fairfield, che nel frattempo aveva estratto un sacchetto di carta marrone dal vano portaoggetti del pickup.
Alla prima zaffata di whisky dalla bottiglia stappata Hooter capì che il signor Fairfield era un altro appartenente alla schiera dei bevitori clandestini, così come il reverendo Drury, il pastore della chiesa olandese riformata. Hooter era stato spesso complice involontario delle libagioni del pastore nel seminterrato della chiesa; quando non finiva in una sola sessione il suo quarto di schnapps alla menta era solito affidare la bottiglia a Hooter, nascondendola nella cassetta dove giaceva tra giocattoli rotti e sudici vestitini per neonati. Ancora una volta, dunque, si trovava nella medesima condizione: quella di compagno di bevute silenzioso e tollerante.
«Alla vostra!» brindò il signor Fairfield, avviando il motore del pickup e mostrando la bottiglia alzata a Dampy e Hooter. Loro si scambiarono uno sguardo, avvertendo al contempo un senso di vergogna e di complicità, dopodiché il pickup si mise in moto e imboccò la Route 97.
«Ti avevo già visto, sai», rivelò il signor Fairfield. «Ogni sabato, al mercatino delle pulci. Ti avevo notato lì, sul banco delle cose gratis. Ci sei rimasto per settimane. Non riescono proprio a disfarsi di quel fottuto mostriciattolo, mi ero detto. E così, quando ti ho rivisto stasera, ho pensato: ho io il posto che fa per lui. E avrà anche un amico, lo stronzetto. Giusto, Dampy?»
Dampy era senza parole. Erano parole crudeli e provocatorie da rivolgere al povero gufo, che effettivamente, doveva ammetterlo, era piuttosto malridotto. Dampy era abituato all'insensibilità del suo padrone. Gli insulti ormai non lo scalfivano più. 11 povero Hooter, invece, doveva essere sull'orlo delle lacrime.
Il signor Fairfield sembrò leggergli la mente. «Certo, anch'io non sono granché, me ne rendo conto. Tu hai quel becco assurdo e io ho la pancia; in quanto a Dampy, lui è un vero disastro. Dampy ha più problemi della cara Abbie. Eppure non parla mai dei suoi problemi. O comunque non lo fa in famiglia. Chi lo può dire? Forse a te ne parlerà. Eh, amico, che ne dici?»
Né Dampy, né Hooter fiatarono.
Il signor Fairfield si fece un altro sorso di whisky e proseguirono il viaggio in silenzio.
Quando giunsero a casa, fu il signor Fairfield a presentare Hooter alla nuova signora Fairfield. «Guarda, tesoro, c'è un nuovo arrivato in famiglia.» Lasciò cadere Hooter in grembo alla signora Fairfield con un gufare entusiasta ma ben poco gufesco, «Uuu! Uuu!»
«Carino, non c'è che dire», commentò la signora Fairfield senza troppa convinzione. «Davvero dolce.» Fece un tiro della sigaretta che stava fumando, poi domandò: «Ma che cos'è?»
«Qual è l'uccello che fa 'Uuu! Uuu!' secondo te? È un gufo, no? Guardalo. Ha il becco da gufo, e poi quegli occhi grandi... Deve per forza essere un gufo. L'abbiamo chiamato Hooter.»
«Ma le orecchie somigliano a quelle di un orsacchiotto di peluche», obiettò la signora Fairfield.
«E con questo? Nessuno è perfetto. È un gufo del cazzo. Su, dagli un bacio.»
La signora Fairfield appoggiò la sigaretta nel posacenere e baciò delicatamente Hooter sul becco. Hooter lo riconobbe come un bacio vero, dato con autentico sentimento, e seppe di essere entrato ufficialmente a far parte della famiglia Fairfield da quel momento. Proprio lui, convinto fino a poco tempo prima di essere destinato a non fare mai parte di alcuna famiglia, di dover passare il resto della sua vita in una cassetta nello scantinato della chiesa olandese riformata.
«Ecco fatto», disse la signora Fairfield, voltandosi a guardare il marito.
«Ora digli che gli vuoi bene.»
«Ti voglio bene», obbedì la signora Fairfield, lo sguardo, piuttosto ansioso, ancora rivolto al signor Fairfield.
«Bene», esclamò il signor Fairfield, strofinandosi una mano sulla peluria che gli ricopriva la testa, dello stesso colore marrone del piumaggio di Hooter, ma molto più lunga. «Abbiamo espletato le formalità. Ora andatevene tutti a letto. Io esco.»
La signora Fairfield sembrò dispiaciuta, ma si trattenne dal domandargli dove stesse andando o se poteva accompagnarlo.
Essenzialmente, la signora Fairfield era un tipo piuttosto casalingo, e da quel punto di vista aveva parecchio in comune con Dampy e Hooter. Erano capaci di passare ore sul dondolo a guardare la televisione in compagnia della signora Fairfield, oppure a fare giochi di società sotto il tavolo della sala da pranzo, nascosti tra i cumuli di panni in attesa di essere stirati. Uscivano di casa raramente, sapendo bene che era consigliabile non farlo. Alle spalle della casa c'era il bosco, e il signor Fairfield raccontava storie paurose a proposito del bosco. La maggior parte degli animali non aveva famiglie di umani con cui vivere ed era costretta a starsene nel bosco, che poteva rivelarsi un luogo molto pericoloso, anche per un gufo. I gufi sono rapaci e danno la caccia a topi e uccelli più piccoli, ma sono essi stessi considerati prede dai lupi, dagli orsi e dai serpenti. Per quanto riguardava invece i giovani gatti, secondo il signor Fairfield entrare nel bosco equivaleva ad andare incontro a una morte certa. Dampy non doveva mai, nel modo più assoluto, inoltrarsi nel bosco, neppure in compagnia di Hooter, o sarebbero certamente stati mangiati vivi dai predatori che vi si annidavano.
Quando Dampy ascoltava quei racconti provava un brivido di paura alla schiena; Hooter, invece, si domandava a volte se il signor Fairfield non stesse esagerando con i suoi racconti sul bosco. Il fatto che il bosco esistesse non era in discussione. Si vedeva dalle finestre della casa, e si vedevano anche alcune delle creature che lo popolavano. Bastava armarsi di pazienza: cervi, due simpatiche marmotte e una moltitudine di uccelli, alcuni dei quali la signora Fairfield era in grado di identificare, come per esempio i corvi, i pettirossi e gli usignoli. Agli altri non sapeva dare un nome. Al tramonto, d'estate, comparivano anche i pipistrelli, con i loro versi acuti e fastidiosi. Ma quelle creature erano davvero tanto ostili e pericolose quanto andava sostenendo il signor Fairfield? Hooter non ne era convinto.
E, cambiando completamente ambito d'indagine, Dampy era davvero un gatto? La signora Fairfield aveva affermato una volta che a suo avviso somigliava piuttosto al koala della pubblicità della Qantas. La Qantas era la compagnia di bandiera dell'Australia, paese in cui vivevano la maggioranza dei koala, e secondo Hooter la signora non aveva tutti i torti. Pur senza naso, Dampy sembrava più un koala che un gatto.
Ma il signor Fairfield non aveva dubbi. Dampy era un gatto. Per provarlo cantava una canzone:
Il gufo e il gatto andarono per mare
in una barca verde pisello tanto carina.
Del miele e tanto denaro si ricordarono di portare,
avvolto in una banconota da una sterlina.
Il gufo guardava le stelle, ammirava il loro fulgore
e accompagnandosi con la chitarra cantava forte sempre più
O splendida gattina! O gattina mio amore,
Che bella gattina sei tu,
sei tu,
sei tu!
Che bella gattina sei tu!
«Dampy non è una femmina», protestò Hooter. Era in assoluto la prima volta che contraddiceva il signor Fairfield, il quale prima lo guardò severamente, poi gli assestò uno schiaffo che lo fece volare dall'altra parte della stanza.
«Se io dico che è una femmina, allora è una fottuta femmina. E se dico che è una gattina, allora è una gattina. Chiaro?»
«Harry, ti prego», intervenne la signora Fairfield. «Harry, ti prego», ripeté il signor Fairfield con tono stridulo, intendendo scimmiottare la moglie senza però riuscire affatto a imitarne la voce.
«A quanto pare i gatti sono tutti femmine», disse allora la signora Fairfield a Hooter. «I cani sono maschi e i gatti femmine.»
Nessuno accorse in aiuto di Hooter prima che il signor Fairfield non fosse uscito dalla stanza, ma Dampy gli rivolse uno sguardo di solidarietà, infinitamente triste.
Più tardi, quando poterono parlare senza essere ascoltati, Hooter protestò (sussurrando, con la testa affondata sotto le lenzuola): «Non possiamo fare nulla? Dobbiamo rassegnarci a essere intrappolati qui, vittime di ogni tipo di abuso?»
«Quando vuole sa essere davvero cattivo», concordò Dampy.
«Ed è altrettanto cattivo anche con la signora Fairfield.»
«Più cattivo ancora, a dire la verità. L'anno scorso, una settimana dopo Capodanno, mandò la prima signora Fairfield al pronto soccorso, dove dovettero metterle sette punti alla testa. Si vedevano chiaramente quando si toglieva il foulard che fu costretta a portare.»
«Ma come può aver fatto una cosa del genere?» domandò inorridito Hooter. «E per quale ragione?»
«Be', stavano cantando una canzone che a lui piace tanto. La ripeterono un sacco di volte. E alla fine lei disse di essere troppo stanca per continuare a cantare e lui rimase lì immobile, seduto proprio dove ti trovi tu adesso, a fissarla; poi si alzò e le spaccò la chitarra sulla testa. E sai una cosa?»
«Che cosa?»