999
(999, 1999)
a cura di AL SARRANTONIO
Indice
Introduzione di Al Sarrantonio
Amerikani morti all'obitorio di Mosca di Kim Newman
Le rovine di Contracoeur di Joyce Carol Oates
Il gufo e il gatto di Thomas M. Disch
Il Virus della Strada va a nord di Stephen King
Souvenir e tesori: una storia d'amore di Neil Gaiman
Cose che crescono di T.E.D. Klein
Venerdì santo di F. Paul Wilson
Stralci tratti dai verbali del New Zodiac e dai diari di Henry Watson Fairfax di Chet Williamson
Le megere di Eric Van Lustbader
Itinerario di Tim Powers
Il blues della ragazza pesce gatto di Nancy A. Collins
L'intrattenimento di Ramsey Campbell
Terapia intensiva di Edward Lee
La tomba di P. D. Cacek
Delle ombre e dell'oscurità di Thomas Ligotti
L'estate della rabbia di Joe R. Lansdale
Lo sconosciuto alla porta di Rick Hautala
Rio Grande Gothic di David Morrell
Des saucisses, sans doute di Peter Schneider
Angie di Ed Gorman
La cosa filamentosa di Al Sarrantonio
L'albero è il mio cappello di Gene Wolfe
Ossa rotte di Edward Bryant
Emofagia di Steven Spruill
Il libro dei numeri irrazionali di Michael Marshall Smith
Il teatro di Bentley Little
Le prove di Thomas F. Monteleone
Oscurità di Dennis L. McKiernan
Altrove di William Peter Blatty
Agli editor
Harlan Ellison e
Kirby McCauley:
Lewis e Clark di territori non meno impervi.
Nessun libro è un'isola. E questo in modo particolare deve la sua forma e la sua esistenza ad alcune persone molto speciali.
Ringrazio:
David G. Hartwell, F. Paul Wilson, Dave Hinchberger, Rich Chizmar e Matt Schwartz per avermi indicato strade fruttuose;
Pete Schneider, che è stato al mio fianco fin dall'inizio;
Jennifer Brehl, che mi ha permesso di prendere in prestito i suoi scrittori e ha scavato alla ricerca dell'oro (anche quando la pala era rotta);
Ralph Vicinanza, che ha pilotato la nave dell'agente;
Tom Dupree, supremo editor della Avon;
Marsha DeFilippo, angelo della misericordia;
e Stephen King - da scrittore a scrittore.
Introduzione
Il volume che avete tra le mani è un vero banchetto.
Si tratta semplicemente della (così credo, spero e prego) migliore raccolta di nuovi racconti di genere horror e suspense mai pubblicata.
Parte prima: Motivazioni
Nel 1996 mi prefissai l'obiettivo di assemblare, entro la fine del millennio, un'enorme antologia di racconti horror e suspense originali e inediti. La mia prima fonte d'ispirazione fu la pietra miliare di Kirby McCauley risalente al 1980, Dark Forces, che a parere di molti si è rivelata, e rimane tuttora, la migliore raccolta di racconti originali appartenenti a questo genere letterario. A sua volta, McCauley aveva tratto ispirazione da Dangerous Visions, di Harlan Ellison, opera che era riuscita pressoché da sola a mutare la percezione che i lettori avevano della fantascienza. Poiché Ellison aveva potuto vantare il successo, almeno parziale, di aver ridefinito la fantascienza elevandola da genere «ghettizzato» a genere letterario a tutti gli effetti, alla fine degli anni Settanta McCauley decise che era giunto il momento di fare altrettanto per l'horror, che all'epoca, grazie agli sforzi di autori di best-seller tra cui Ira Levin, William Peter Blatty e un giovane emergente di nome Stephen King, cominciava a sua volta ad assumere le caratteristiche di genere «ghettizzato». Secondo McCauley i tempi erano maturi per conferire all'horror, in forte espansione, una legittimità letteraria.
McCauley ebbe una serie di successori, il più noto dei quali fu Douglas E. Winter, la cui raccolta In principio era il male agì nel 1989 da iniezione di vigoria per la vitalità letteraria dell'horror. Tuttavia, a mio modo di vedere, all'approssimarsi della fine del millennio l'horror era ancora fortemente segnato dall'etichetta di genere «ghettizzato», e occorreva ulteriore impegno per assicurargli il rispetto che merita.
E fu così che, vent'anni dopo l'uscita del volume curato da McCauley, conclusi che era giunta l'ora di dimostrare, una volta per tutte, che l'horror e la suspense costituiscono un genere letterario serio.
Altre motivazioni mi hanno spinto a perseguire il mio progetto. Una è la mia ripugnanza per il fatto che, al momento in cui scrivo, non esiste alcun mercato professionale di sbocco per narrativa horror di qualità. Se da un lato ciò potrebbe in apparenza costituire una prova che il genere ha effettivamente acquisito una legittimità letteraria - uscendo per così dire dal suo ghetto - è vero l'esatto contrario: l'horror è stato confinato in maniera ancora più ristretta nella sua nicchia, al punto di rischiare la morte per asfissia. La comparsa di uno sporadico racconto di Stephen King o Joyce Carol Oates in una delle prestigiose riviste letterarie come The New Yorker è da considerarsi un'eccezione, dovuta alla popolarità degli autori piuttosto che a un allargamento dell'influenza del genere letterario stesso. Nonostante il continuato successo di alcune riviste semiprofessionali, preminente tra le quali rimane Cemetery Dance, diretta da Richard Chizmar, oggi sono praticamente inesistenti gli spazi dove possano apparire con regolarità racconti horror ben scritti. All'epoca in cui ero impegnato a farmi le ossa nell'ambiente letterario, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, le pubblicazioni che fornivano uno sbocco alla fiction erano decine, e molte di esse di carattere professionale. Se Shadows non mostrava interesse per un certo racconto, sicuramente sarebbe stato preso in considerazione da The Twilight Zone, da Night Cry oppure da Whispers. Oggi, un giovane scrittore di talento desideroso di farsi un nome non dispone di alcuno sbocco che non sia limitato a un ambito semiprofessionale. Questo stato di cose è motivo al contempo di frustrazione e di rabbia.
Un volume come quello che cominciavo a prefigurarmi avrebbe se non altro offerto ad alcuni di questi giovani autori emergenti l'opportunità di misurarsi con un mercato in grado di pagare qualcosa di più dei soliti tre centesimi a parola.
Un altro motivo di stimolo per la realizzazione del mio sogno derivava dalla speranza che un simile libro potesse addirittura segnare l'avvio di una terza epoca d'oro per l'horror (la prima risalente agli anni Trenta, in corrispondenza con il periodo di massimo di splendore di Weird Tales, sotto la direzione di Farnsworth Wright; la seconda al periodo compreso tra il 1975 e il 1990); la comparsa del volume avrebbe forse potuto riaprire alcuni dei remunerativi mercati verso i quali si indirizzavano i racconti horror negli anni Ottanta, contribuendo così a risollevare lo stato di salute dell'intero genere letterario.
L'ultima motivazione risiedeva semplicemente nel desiderio di farlo: di scoprire se la pubblicazione di una grossa antologia, priva di un tema specifico ma comprendente lavori di ottima qualità, fosse ancora possibile in questo campo alla fine del millennio.
Parte seconda: Definizioni
In questo libro troverete sia racconti horror e del soprannaturale, sia racconti di suspense privi di elementi soprannaturali. Ai fini di questo progetto e, secondariamente, per presentare il genere nel modo più completo e rappresentativo possibile, la definizione che scelgo per i termini horror e suspense è la più ampia possibile: l'unica condizione richiesta ai racconti è che siano in grado di incutere paura nel lettore. Alcuni racconti hanno per protagonista uno spauracchio. In altri casi lo spauracchio non è altro che la mente umana (a mio avviso in assoluto il luogo più terrorizzante). Ma ciò che conta è la paura in sé.
(Per discussioni migliori, più descrittive, più approfondite e divertenti su che cosa siano l'horror, il terrore, la suspense, la paura e tutto quanto ne consegue, vi rimando entusiasticamente a tre fonti: lo storico articolo di H.P. Lovecraft «Supernatural Horror in Literature»; l'introduzione alla migliore raccolta in volume singolo di ristampe di classici racconti dell'orrore mai assemblata: Great Tales of Terror and the Supernatural, curata da Phyllis Cerf Wagner e Herbert Wise per la Modern Library; e i numerosi scritti di Stephen King sull'argomento, in particolare Danse Macabre.)
Parte terza: La realtà
Ho elencato le motivazioni che mi hanno spinto a perseguire questo progetto a partire dal 1996. Ebbene, come sono andate le cose?
Il fatto che io sia riuscito a realizzare il libro è naturalmente evidente: in questo stesso istante ne state avvertendo il peso tra le mani. Siamo stati in grado di versare agli autori un compenso ragguardevole: a me personalmente risulta essere il più alto compenso mai pagato per un'antologia di narrativa horror originale (e ci tengo a precisare che lo stesso compenso è stato offerto a tutti gli autori, senza distinzioni).
Inoltre, a vent'anni dalla pubblicazione di Dark Forces, non ho incontrato alcuna difficoltà nel reperire lavori di qualità rispondenti a un elevato standard letterario.
Benché attualmente il campo sia terribilmente ristretto e il mercato lasci fortemente a desiderare, c'è ancora un sacco di narrativa di qualità e ben scritta là fuori, molta più di quanta io sia stato in grado di utilizzare. Ho alzato via via l'asticella e gli scrittori (che Dio li benedica tutti) hanno continuato a saltarla senza mai sfiorarla. A dispetto di tutto lo spazio di cui disponevo in questo libro, sono comunque stato costretto a rifiutare racconti di ottima fattura.
Infine, ho avuto la possibilità di pubblicare il lavoro di nuovi autori che non avevano mai avuto prima l'opportunità di partecipare a un progetto come questo.
Ecco dunque spiegati tre dei motivi che mi hanno spinto a realizzare questo libro.
E per quanto riguarda invece il quarto motivo, ossia la mia ambizione di stimolare l'apertura di una nuova epoca d'oro per l'horror?
Be'... questo si vedrà.
Può forse risultare più istruttivo esaminare il passato prima di tentare di predire il futuro.
Parte quarta: Avete indovinato, il passato
Nei primi anni Ottanta l'impressione era che l'horror avanzasse come uno schiacciasassi, travolgendo ogni altra forma di fiction. Il numero di autori di fantascienza, fantasy e mystery che si affrettarono a saltare nella cabina dello schiacciasassi - per non parlare degli scrittori di narrativa tradizionale o di romanzi rosa, tra cui Anne Rivers Siddons, autrice del bellissimo (benché scritto piuttosto male) romanzo The House Next Door - non fece che confermare l'improvvisa legittimazione del genere letterario (il quale, oltre a essere eccitante, prometteva anche di essere remunerativo). Il nuovo filone divenne ben presto un ricettacolo di racconti che non trovavano sbocco altrove (un fatto molto positivo, e non sono certo io il primo a rilevarlo). Pressoché dal nulla, il fenomeno prese consistenza trasformandosi in qualcosa di vibrante, eccitante e controverso - ricordate le vivaci polemiche tra i seguaci del quiet horror e quelli dello splatterpunk? - per poi cominciare a sgonfiarsi all'approssimarsi della fine del decennio, fino al punto di rischiare la scomparsa.
Per quale motivo?
La tentazione è quella di attribuire la colpa alle politiche sconsiderate, autodistruttive e ottuse di un'industria editoriale che non ha mai compreso a fondo il genere, non è mai stata in grado di distinguere il carbone dai diamanti nel suo contesto, non hai mai avuto altra preoccupazione all'infuori del profitto e ha finito per inflazionare il mercato pubblicando una quantità di opere di scarsissimo valore che hanno finito per minare l'esistenza stessa dell'horror.
Ma sarebbe troppo facile. Del resto, gli editori seguono da sempre le mode e le tendenze, inflazionano da sempre il mercato e, spinti dal loro desiderio di realizzare profitti (dopotutto l'editoria è un business, oggi come ieri, nonostante molti di noi serbino il ricordo di un'industria più gentile e a misura d'uomo prima dell'avvento delle multinazionali), da sempre mostrano la predisposizione a uccidere la gallina che ha deposto l'uovo d'oro.
Andiamo più a fondo.
Esiste una teoria secondo cui il nocciolo duro dei lettori di narrativa horror sia sempre stato di dimensioni piuttosto limitate, per poi gonfiarsi a dismisura negli anni Ottanta sull'onda di una moda; nuovi lettori (tra cui persone che non avevano mai letto molto) vennero attratti al genere dalla promessa di provare emozioni come quelle offerte da best-seller quali Le notti di Salem, Shining e Ghost Story. Ma quei cialtroni rimasero sulla giostra solo fino a quando non si stancarono delle sue evoluzioni, dopodiché rivolsero il loro interesse ad altre attrazioni.
La definizione appropriata per descrivere la fine di una moda è, naturalmente, una sola: morte di un genere.
O forse è stata l'industria dell'intrattenimento visivo - televisione, cinema, videogiochi, e più recentemente i cd-rom e le altre tecnologie legate al computer - a comportarsi come è solita fare con qualsiasi campo in forte espansione, divorandolo in un sol boccone, masticandolo e risputandolo fuori, per poi recuperare il rigurgito e ripetere l'operazione. Il risultato finale è stata la cooptazione dell'horror. (Non è forse accaduto lo stesso con la fantascienza, a dispetto dei grandi ed encomiabili sforzi di Harlan Ellison? Ricordate Guerre Stellari, uscito meno di cinque anni dopo Again, Dangerous Visions?)
E poi c'è da considerare anche un certo imborghesimento, la fuga verso quartieri più alti: molti degli autori di maggiore successo hanno abbandonato il più rapidamente possibile il ghetto dell'horror, dedicandosi a un tipo di letteratura più tradizionale e lasciandosi alle spalle una scia di spazzatura (ma non possiamo biasimarli; occorre pur sempre ricordare che stiamo parlando di un ghetto); considerando poi che nel contempo veniva pressoché stroncata anche la cosiddetta mid-list editoriale, ossia la palestra a media tiratura dove venivano invitate a farsi le ossa le nuove leve di autori in vista di un lancio nel campionato di serie A, non è difficile comprendere che cosa sia accaduto.
Parte quinta: Il futuro
Siamo dunque alle porte di una nuova epoca d'oro per l'horror?
Alcuni segni premonitori ci sono.
Tanto per cominciare, il fenomeno della piccola editoria, attiva soprattutto nel ramo delle edizioni limitate e che pochi anni fa si era ridotta al punto da apparire spacciata, ha recentemente mostrato incoraggianti segni di rafforzamento. Poiché le piccole case editrici sono operazioni a metà strada tra un disinteressato atto di amore e un'impresa tesa al profitto, il fenomeno è indicativo. Lo stesso accadde all'inizio della seconda epoca d'oro. I piccoli editori sono sciacalli (e non uso il termine in senso negativo); piombano sulla preda strappandone piccoli bocconi finché i leoni (i grandi editori) non si avvicinano sornioni per appropriarsene. I piccoli editori stanno oggi realizzando buoni profitti grazie a progetti per i quali i leoni non mostrano alcun interesse, ma ci sono segnali (e questo libro ne è uno) che i leoni cominciano ad avere di nuovo fame.
E benché siano ancora poche le riviste professionali dedicate alla narrativa horror, esiste una schiera di pubblicazioni minori interamente dedita al campo, oltre che un'autentica esplosione di riviste on-line che pubblicano lavori di autori sia nuovi, sia affermati.
Infine, il fattore più importante è che oggi sembra esserci una nuova generazione di lettori, avida di horror, che va ad aggiungersi al nocciolo duro. Si tratta di lettori che all'epoca dell'ultimo boom erano bambini, o poco più che feti; hanno scoperto gli autori degli anni Settanta e Ottanta attraverso le ristampe e i libri di seconda mano, e ora ne vogliono ancora, vogliono qualcosa di nuovo.
La realtà è che potremmo realmente trovarci sulla cresta ascendente di un nuovo boom.
Parte sesta: Questa antologia
Per quanto mi riguarda, sono in una botte di ferro: non posso sbagliare. Se questo libro dovesse rivelarsi rivoluzionario, contribuendo a ravvivare il genere, ad abbattere i muri del ghetto e a dare inizio a una terza epoca d'oro, tanto meglio. In caso contrario, potrei comunque affermare che 999 non è altro che una celebrazione del successo già ottenuto in passato dall'horror, la prova inconfutabile, racchiusa tra due copertine, che l'horror è a tutti gli effetti un genere letterario.
Ma ciò che mi renderebbe il curatore più felice del mondo è venire a sapere che qualcuno di voi avrà posizionato questo volume sullo scaffale della sua libreria tra Dark Forces e Great Tales of Terror and the Supernatural.
Rivoluzione o celebrazione? A voi il verdetto.
In ogni caso, come ho detto in apertura, questo libro è un banchetto.
È ora di mettersi a tavola.
AL SARRANTONIO
Amerikani morti all'obitorio di Mosca
Ovvero: Figli di Marx e della Coca-Cola
di Kim Newman
Quando contattai Kim Newman per posta elettronica domandandogli se fosse interessato a sottopormi qualcosa per 999, mi rispose quasi all'istante, facendomi garbatamente presente che gran parte del materiale al quale stava lavorando in quel periodo era di lunghezza superiore a ciò di cui sembravo essere in cerca. Quando insistetti, chiedendogli di poter leggere qualcuno dei lavori più lunghi a cui faceva cenno, ricevetti, di nuovo pressoché istantaneamente a mezzo posta elettronica, questo racconto imperniato sulla presenza di zombi americani nella Russia comunista.
Rimasi stupito dalla sua qualità, non tanto per il fatto che era stato scritto da Kim Newman, esperto di vampiri e autore di Anno Dracula e The Bloody Red Baron, che sapevo essere silenziosamente e sistematicamente divenuto uno dei migliori scrittori nel suo campo, bensì da come qualcosa di tanto meraviglioso potesse istantaneamente comparire sul monitor del mio computer semplicemente a seguito di una mia richiesta. È proprio vero, mi dissi: chiedi e ti verrà dato!
Kim Newman è anche noto come attore, critico cinematografico e conduttore di programmi radiofonici; altri saggi della sua magia narrativa sono comparsi in Bad Dreams, The Night Mayor e, in collaborazione con Eugene Byrne, Back in the USSA.
Alla stazione ferroviaria di Borodino, Evgeny Chirkov venne separato dalla sua unità. Al rallentare della locomotiva, balzò giù dalla carrozza atterrando sulla banchina dopo aver ricevuto l'ordine di reperire, a qualsiasi prezzo, sigarette e cioccolato. Si verificò a quel punto l'ennesima, inspiegabile crisi, e il pezzo di antiquariato alimentato a vapore non si fermò. Inciampando sul fucile, non riuscì ad agguantare le mani protese dei suoi compagni. Gli altri soldati dell'unità, sporgendosi fuori dai finestrini fino alla vita, o aggrappati alle porte delle carrozze, risero e agitarono le mani in segno di saluto. Un improvviso getto di vapore emesso da un treno che procedeva in direzione opposta lo costrinse a uno scarto improvviso, al seguito del quale inciampò di nuovo. Il sergente Trauberg trovò il capitombolo esilarante, dimenticandosi dei mille rubli che aveva premuto nella mano del soldato semplice. Chirkov corse come un forsennato, ma la locomotiva acquistava velocità. Quando sbucò da sotto la tettoia della banchina, una manciata di secondi in ritardo rispetto all'ultima carrozza, il cielo bianco sembrò riversarsi su di lui. Guardando il ciottolato nero tra i binari notò una figura appiattita con indosso quella che un tempo era stata un'uniforme, i polsi e le caviglie legate da filo di ferro, il collo appoggiato all'acciaio lucido del binario, la testa da tempo scomparsa sotto ruote massicce e affilate. Il metodo, conosciuto come la «fabbrica dei dormienti», era uno dei preferiti lungo il percorso delle strade ferrate. Lontano dalle stazioni, se ne sistemavano venti o trenta alla volta. Privati della testa, gli amerikani non erano in grado di nuocere.
Le gambe scottate dal vapore, il volto e le mani gelati dal freddo invernale, Chirkov si ritrovò a vagare nella stazione. Lo spazio ampio e cavernoso era suddiviso da pareti di sacchi di sabbia. Le famiglie si stringevano assieme come pionieri in attesa di un attacco dei pellerossa, circondandosi dei loro bagagli, gli ultimi proiettili tenuti da parte per le donne e i bambini. Chirkov si rimproverò mentalmente; l'America aveva invaso la sua fantasia, proprio come avevano avvertito i funzionali politici. Alcuni profughi giungevano da Mosca, altri fuggivano verso la città. Non c'era una regola. Un manifesto a tutta parete del nuovo segretario del Partito era stato sfigurato da una macchia rossa, divenuta nera con il tempo. La macchia di sangue incrostato tradiva la fine di una vita contro quel muro. C'erano amerikani a Borodino. A cento chilometri da Mosca, la stazione era un museo dedicato alle invasioni respinte. Targhe, statue e dipinti celebravano le centinaia di vittorie del 1812 e del 1944. Un manifesto elencava i funzionali del posto che erano stati giustiziati perché coinvolti nell'ultima controrivoluzione. L'aria era gravida di cenere, a ricordo delle politiche della terra bruciata perseguite in passato. Grandi incendi ardevano nelle vicinanze. Una unità dell'esercito era di stanza alla stazione, ma nessuno era informato sugli orari dei treni. Un ufficiale gli ordinò di mettersi in coda e di aspettare. Erano più numerosi i convogli in arrivo da Mosca che quelli diretti verso di essa, dunque alla fine la capitale si sarebbe ritrovata priva di treni.
Si avventurò fuori dalla stazione. La neve spalata dal piazzale davanti all'edificio formava un grande cumulo una decina di metri più in là. La luce del sole si rifletteva nel bianco fangoso della sua superficie. Faceva più freddo e c'era più luce che nella sua Ucraina. Un trio di soldati con volti dai lineamenti cinesi, lontani un intero continente da casa, gli proposero uno scambio di sigarette e vollero esercitarsi nell'uso della lingua russa scambiando qualche battuta con lui. Riuscì a capire che venivano da Amgu; dal punto più alto di quella città portuale era possibile vedere il Giappone. Domandò loro se sapessero dove poteva trovare un funzionario. Mentre conferivano tra loro cinguettando in una lingua aliena, Chirkov vide il suo primo amerikano. Sbucò da un punto tra i cumuli di neve e avanzò zoppicando verso la guardiola. A vederlo, l'uomo morto dava effettivamente l'impressione di essere un amerikano. A piedi scalzi, guardava goffamente la neve sciolta mista a fango e i jeans a brandelli lasciavano intravedere stinchi smagriti. La sua camicia variopinta era decorata da un pappagallo ritratto nella giungla. Portava al collo un paio di occhiali da sole, legati a un laccio. Chirkov allertò le guardie della presenza dell'amerikano. Affascinato, osservò l'uomo morto mentre camminava. A ogni passo l'amerikano scricchiolava: piccole dune di ghiaccio erano incastonate in profondità nella sua pelle. Avanzava lentamente, una creatura fragile e cieca, gli occhi di cristallo ghiacciati e sgranati, le braccia rigide lungo i fianchi.
Cautamente, il caporale lo avvicinò, gli girò attorno, poi lo colpì al ginocchio con il calcio del fucile. Le guardie avevano l'ordine preciso di non sprecare munizioni, che scarseggiavano. Un rumore secco di ossa che si spezzavano, poi l'amerikano crollò a terra come un devoto in adorazione al cospetto di un'icona. Il caporale scalciò la schiena multicolore dell'amerikano con la punta di uno scarpone e lo rigirò, posizionandolo riverso. Mentre si contorceva, schegge di ghiaccio gli si conficcarono nella carne. Chirkov aveva immaginato che i morti puzzassero, ma quello in particolare era completamente ghiacciato e non emanava alcun odore. La pelle era rosea e ben conservata, le ferite che la segnavano rosse e lucide. Allungò un braccio verso il caporale e qualcosa si ruppe nella sua spalla. Lo scarpone del caporale lo immobilizzava a faccia in giù sull'asfalto. Uno dei suoi compagni lo affiancò reggendo uno spuntone lungo trenta centimetri e ne affondò la punta nella nuca del cadavere. Lo scalpo si arricciò e si spaccò attorno al foro d'entrata. L'altra guardia si staccò dalla cintura un grosso martello di ferro e assestò con professionalità il colpo.
Era fondamentale, a quanto pareva, che lo spuntone attraversasse completamente il cranio, affondando nel suolo, congiungendo il morto alla terra e permettendo così allo spirito residuo di abbandonare il cadavere. Non era una direttiva ufficiale, ma semplicemente una tecnica che prima o poi ogni soldato si sentiva descrivere da un proprio commilitone. Il commilitone veniva sempre dalla Moldavia, oppure ripeteva quanto insegnatogli da qualcuno di quella regione. 1 moldavi sostenevano di essere abituati alla presenza dei morti. La testa dell'amerikano si aprì come una pietra spaccata da una crepa. Dallo spuntone ricaddero verso l'esterno cinque blocchi solidi di cranio. Le superfici interne erano grigiastre e venate di rosso. La creatura cessò immediatamente di muoversi. Il soldato con il martello cominciò a sbottonare la variopinta camicia e a toglierla dal torace martoriato del cadavere, concentrato come un macellaio intento a scuoiare un cavallo. I jeans erano troppo fusi con la carne per essere rimossi. Peccato; una volta tagliate le gambe a brandelli si sarebbe potuto ricavarne un paio di ottimi pantaloncini da spiaggia per qualche bella ragazza. Il caporale insistette perché fosse Chirkov a prendersi gli occhiali da sole. Erano privi di una lente, il che forse spiegava la generosità della guardia nei confronti di uno sconosciuto. Alla fine Chirkov li accettò per non essere scortese, deciso a gettare via il suo trofeo appena fosse riuscito a partire da Borodino.
Tre giorni più tardi, quando Chirkov giunse a Mosca, non gli fu possibile rintracciare la sua unità. Secondo una delle coordinatrici alla stazione centrale, era possibile che i suoi compagni fossero stati inviati a Orekhovo Zuevo, ma il superiore della donna insisteva che l'unità era stata smantellata nove mesi prima. Non volendo contraddire un eminente membro del Partito, la donna esortò Chirkov a convincersi di essere in congedo dalla sua unità. In quanto tale, venne assegnato al centro termale. La richiesta di personale da parte del centro termale era permanente e aveva sempre precedenza sulle altre. Le mansioni consistevano in qualche breve turno di guardia e lo svolgimento di lavori manuali; gli amerikani che finivano alle terme non costituivano più un pericolo. La coordinatrice consegnò a Chirkov un plico di documenti spesso come un panino francese e una serie di complicate indicazioni. I soldati in coda alle sue spalle cominciavano a dare segni di irrequietezza e Chirkov decise di avventurarsi da solo verso la sua meta. Ricordò di apporre alla divisa il permesso di mobilità, un'etichetta per bagagli blu recante un bollo timbrato. Tecnicamente, girare per la città senza esporre il permesso era un reato punibile con l'esecuzione sommaria.
I tram passavano solo sporadicamente; dopo aver aspettato un'ora alla fermata davanti alla stazione, Chirkov si convinse ad andare a piedi. Si trattava di superare dune di neve non ancora rimossa e farsi strada tra lunghe e indisciplinate code di persone. Squadre di pompieri scavavano metodicamente sentieri nella neve, affiancati da plotoni di soldati incaricati di bruciare gli edifici. Ampie zone venivano sgombrate e rivangate, il terreno ancora sufficientemente caldo da sciogliere la neve che vi si posava sopra. Dappertutto, manifesti mettevano in guardia la popolazione dagli amerikani. La linea del Partito era ancora quella di addossare la responsabilità agli Stati Uniti. Avevano scatenato una guerra batteriologica per via aerea, sosteneva con autorità il ministero; era un germe prodotto in un laboratorio segreto e disseminato in Unione Sovietica da soggetti infetti in missione suicida, travestiti da turisti. Il germe galvanizzava il sistema nervoso dei deceduti recenti, innescando il tronco encefalico e inculcando negli amerikani un disgustoso appetito per la carne umana. I servizi giornalistici mandati in onda da Voice of America sui propri morti erano falsi e manipolati ad arte, basati su riprese tratte dai film a contenuto sadico che erano un sintomo della inarrestabile decadenza dell'Occidente. Ma ognuno aveva una teoria diversa: era l'effetto della fuga di radiazioni da Chernobyl... il castigo di un Dio amareggiato e da troppo tempo ignorato... un progetto abbandonato da Stalin durante la grande guerra patriottica... un germe portato sulla terra dai cosmonauti della Novy Mir... un complotto dei fomentatori della controrivoluzione... una maledizione da sempre nota ai moldavi.
Per fortuna il centro termale si trovava a poca distanza dalla Piazza Rossa. Anche un giovane ucraino inesperto come Evgeny Chirkov sapeva a grandi linee come arrivare alla Piazza Rossa. Portava in spalla il suo fucile da un'eternità, al punto che la cinghia dell'arma gli aveva consumato la spallina dell'uniforme, riducendola in brandelli. La forma della fibbia metallica doveva ormai esserglisi impressa indelebilmente nella clavicola. Custodiva la sua unica cartuccia nel taschino della giacca, avvolta in un foglio di giornale. Dicevano che Mosca era la città più eccitante del mondo, ma non dava certo il meglio di sé stretta dal doppio assedio dell'inverno e degli amerikani. Gli elicotteri volavano bassi nel cielo e trasmettendo avvertimenti e annunci ufficiali: ai compagni si consigliava di rimanere ai loro posti di lavoro e di continuare a espletare i compiti loro assegnati; la vittoria nella battaglia contro la piovra americana era inevitabile; la crisi stava per essere superata e i massimi strateghi del paese avrebbero ben presto annunciato un contrattacco dagli effetti devastanti; i morti dovevano essere adeguatamente trattati e portati agli appositi punti di raccolta; un nuovo manipolo di traditori era stato scoperto e sarebbe stato messo alla sbarra il giorno successivo.
In una chiesa dalla caratteristica cupola a forma di cipolla i soldati erano alle prese con un cospicuo gruppo di amerikani. Trasportati sul luogo a bordo di camion coperti, i morti barcollanti venivano convogliati all'interno in serpeggianti file indiane. Al passaggio di Chirkov una donna deceduta, simile a un orso nella sua pelliccia, sotto la quale indossava indumenti intimi vietati, si staccò dalla fila. Venne efficientemente bloccata da un drappello di soldati che le conficcarono una baionetta nella nuca. I resti della donna vennero trasportati a braccia nella chiesa. Quando l'edificio si sarebbe riempito, l'avrebbero bruciato, dando vita a una sorta di sacrificio. Nella Piazza Rossa gli altoparlanti riversavano musiche militari all'indirizzo delle code. John Reed alle barricate. La tomba di Lenin non era più aperta al pubblico. Il sergente Trauberg amava raccontare quanto era accaduto nella tomba quando gli amerikani avevano cominciato a risorgere. Nessuno dubitava della veridicità del racconto. Il centro termale si trovava in una delle vie d'accesso alla piazza. Prima della rivoluzione del 1918 era stato un esclusivo centro di cura a disposizione della famiglia reale. Ora era un obitorio.
Mostrò i documenti all'emaciato ufficiale che trovò sull'ampia scalinata all'ingresso del centro termale e lo salutò militarmente, rimanendo immobile, come congelato, a schiena dritta e con il petto spinto in fuori, mentre l'uomo lo guardava sopra il plico formato dalle carte. L'ufficiale gli ordinò di procedere all'interno a passo di marcia e di rivolgersi a un certo Lyubashevski. L'ufficiale si mosse in direzione opposta, avanzando, un gradino alla volta, verso la piazza. Sotto la spolverata di neve i gradini di pietra erano ammantati dal ghiaccio: una difesa naturale. Chirkov aveva sentito dire che gli amerikani scivolavano in continuazione sul ghiaccio; molti riportavano danni tali da non riuscire più a rialzarsi, dopodiché era facile eliminarli. Le porte del centro termale, che si estendevano verso l'alto per tre volte l'altezza media di un uomo, erano punteggiate da fori di pallottole, vecchi e recenti. Aperte e non oliate, le porte cigolarono in modo preoccupante quando le spinse per oltrepassarle. L'ingresso vantava pavimenti di marmo e soffitti affrescati con ninfee e atleti in azione, ritratti in stile neoclassico. Lo scalone principale era fiancheggiato da busti di Marx e di Lenin; un ritratto del nuovo segretario del Partito, significativamente meno sbiadito dei quadri che lo attorniavano, troneggiava alla parete dietro il banco dell'accettazione.
Curiosamente accasciato dietro il banco, un uomo in abiti civili, che doveva essere Lyubashevski, era impegnato nella lettura di un pamphlet. Adagiata sulla parte interna del braccio, coccolata come un neonato, stringeva a sé una bottiglia mezzo vuota di vodka. Alzò gli occhi al nuovo arrivato e lo guardò con lieve imbarazzo, spiegando che la settimana precedente tutte le sedie dell'edificio erano state portate via per disposizione della Commissione per la salute pubblica. Chirkov gli mostrò i suoi documenti e riferì di essere stato assegnato alle terme da un funzionario della stazione ferroviaria, notizia alla quale l'uomo dietro il banco si limitò a scrollare le spalle. Il civile commentò poi che, per motivi a lui sconosciuti, soldati smarriti venivano mandati lì in continuazione dai funzionari della stazione centrale. Lyubashevski aveva le guance ingrigite da tre giorni di crescita di barba e occhi che parevano spaiati. Offrì a Chirkov un sorso di vodka, pura e forte, non diluita con neve sciolta come quella specie di topicida che gli avevano venduto a Borodino, poi sfogliò le sue carte in cerca di una firma in particolare. Alla fine optò di trattenere Chirkov al centro termale. Aprì un armadietto e ne estrasse un camice bianco con i lembi inferiori macchiati di fango. Chirkov era riluttante a scambiare il suo pesante cappotto grigio per un indumento tanto inconsistente, ma Lyubashevski lo rassicurò che al centro termale i furti di proprietà altrui erano un evento relativamente raro. La gente, parassiti inclusi, evitava il luogo a meno che la sua presenza non fosse richiesta da motivi pressanti. Prima di consegnare il cappotto, Chirkov si ricordò di staccare il suo permesso di mobilità e di trasferirlo al risvolto del camice bianco. Dopo aver preso anche il fucile di Chirkov e averlo riposto nell'armadietto, complimentandosi con il soldato per il suo ottimo stato di pulizia, Lyubashevski gli diede in consegna un revolver. Era coperto di polvere, l'acciaio gelido al punto da attaccarsi alla pelle della sua mano. Chirkov aprì il tamburo della pistola e vide che conteneva tre cartucce. Avrebbe anche potuto salvarsi giocando alla roulette russa. Non essendo stato provvisto di una fondina, si lasciò cadere l'arma nella tasca del camice; la canna spuntò da un angolo, attraverso uno squarcio nel tessuto. Dovette firmare un registro per attestare l'accettazione del revolver.
Lyubashevski gli disse di scendere alla piscina e presentarsi al direttore Kozintsev. Chirkov prese l'ascensore, una specie di gabbia metallica azionata a mano, e scese al piano inferiore, ritrovandosi in un ambiente grande come una sala da ballo. «Piscina» era il nome usato dai dipendenti del centro termale per indicare il luogo dove venivano tenuti i morti. Era effettivamente stata una piscina prima della rivoluzione; in quella vasca diverse generazioni di Romanov avevano affrontato le acque lente e docili, nel contempo trascinati lentamente verso il fondo dalle inarrestabili maree della storia. Svuotata nel 1916, la temperatura della vasca era tanto bassa che le macchie di condensa sulle superfici di marmo si trasformavano rapidamente in lastre di ghiaccio. Le pareti esterne erano ancora decorate da fregi di gesso dorati e i suoi passi risuonarono sul pavimento duro e lucido. Camminò lungo il perimetro della fossa, guardando in basso le figure in camice bianco che si affaccendavano attorno ai loro immobili clienti. La grande vasca era suddivisa in numerosi cubicoli e corridoi da sottili pareti di legno che s'innalzavano oltre quello che un tempo era stato il livello dell'acqua. Il suo sguardo si soffermò su una ragazza, i capelli biondi tirati e raccolti sulla nuca. Portava un'accesa tonalità di rossetto sulle labbra, aveva le maniche del camice tirate su fino al gomito ed era impegnata a sondare la cavità toracica del cadavere di una donna che avrebbe anche potuto essere una sua sorella, più grande forse di qualche anno. La ragazza morta presentava un foro preciso e rotondo sulla fronte e aveva i capelli impiastricciati di una sostanza che Chirkov concluse doveva essere materia grigia fuoriuscita dal cranio. Tossì per attirare l'attenzione della ragazza viva e le domandò dove potesse trovare il direttore. Lei gli disse di proseguire verso il lato più profondo della piscina e di scendere nella vasca, tra i divisori di legno. Non avrebbe potuto sbagliare; il direttore occupava il locale al centro esatto della vasca.
All'estremità più profonda della piscina trovò una scaletta. Era presidiata da un soldato che sedeva a gambe incrociate, cullandosi in grembo un revolver e suonando uno scacciapensieri. Si interruppe e spiegò a Chirkov che il motivo era quello di una canzone folk americana che narrava di un cowboy ucciso da un avvocato, The Man Who Shot Liberty Valance. La guardia si presentò come caporale Toulbeyev e domandò a Chirkov se fosse interessato ad acquistare cassette con la musica di Edward Cochran o Robert Dylan. Chirkov non possedeva un registratore, ma Toulbeyev disse di potergliene procurare uno per cinquemila rubli. Desiderando non apparire scortese, Chirkov assicurò la guardia che avrebbe preso in considerazione l'acquisto: effettivamente era un affare. Toulbeyev lasciò intendere che avrebbe potuto reperire anche altre merci: profilattici, tavolette di cioccolato, dentifricio, calzini nuovi, sapone profumato, libri e giornali messi all'indice. Chirkov sapeva che c'era un Toulbeyev in ogni unità dell'esercito sovietico. Probabilmente anche la Prima Commissione del Partito Comunista annoverava tra i suoi segretari un trafficante di dischi di musica da discoteca e gomma da masticare alla menta che aveva per clienti i massimi dirigenti del paese. Dopo aver lasciato trascorrere un adeguato periodo di tempo Chirkov avrebbe potuto prendere in considerazione di comprare sapone e un cambio di biancheria con parte dei rubli del sergente Trauberg.
Dopo essere sceso nella vasca Chirkov perse il senso dell'orientamento e la comprensione della disposizione dei cubicoli che gli aveva permesso la visione dall'alto. Era un labirinto, e si ritrovò a zigzagare tra i divisori, chiedendo indicazioni agli sporadici e assorti medici o infermieri forensi che incontrava. Il più delle volte una scrollata di spalle e un cenno del capo furono sufficienti a puntarlo in una nuova direzione. Ciascuno degli specialisti era intento a sezionare parti di cadavere, avvalendosi di minuscole, fumose e rumorose seghe elettriche e di lucidi bisturi. Passò accanto alla ragazza che aveva visto dal bordo della vasca; il suo distintivo la identificava come un membro del personale tecnico, di nome Sverdlova. Lei si presentò come Valentina. Aveva appena finito di mettere interamente a nudo la gabbia toracica del cadavere. Agli occhi di Chirkov apparve come un'incarnazione del modello della sofisticata ragazza moscovita: imperturbabile e immacolata nonostante i resti umani che le imbrattavano le braccia fino ai gomiti. Una ciocca di capelli le ricadde sul volto e lei la rimosse con un soffio. Dettava le sue impressioni a un registratore, commentando alcune anomalie fisiologiche riscontrate nella ragazza deceduta. I tessuti muscolari non decomposti opponevano una resistenza gommosa al tatto. Gli sarebbe piaciuto rimanere accanto a lei, ma doveva presentarsi a Kozintsev. Uscì dal cubicolo, salutandola e urtando con uno scarpone un secchio di latta colmo di orologi, fedi nuziali e occhiali da vista. Lei lo invitò a prendere ciò che voleva, ma lui declinò. Ricordandosi degli occhiali da sole rotti che ancora portava in tasca, li estrasse e li aggiunse al contenuto del secchio. Era come gettare un copeco in un pozzo dei desideri, e Chirkov espresse un desiderio. All'improvviso Valentina rise, come se fosse dotata di poteri telepatici. Arrossendo in volto, Chirkov proseguì.
Giunse finalmente a una porta improvvisata recante una targa con la scritta: V.A. KOZINTSEV, DIRETTORE. Chirkov bussò e, dopo aver ricevuto in risposta un grugnito, entrò. Fu come passare con un unico passo da un obitorio allo studio di uno scultore. Su uno dei tavoli notò una serie di umidi sacchetti contenenti argille colorate di ogni tonalità, allineate accanto a un samovar fumante. Al centro del locale, illuminato dalla luce gettata dal grande lampadario che illuminava l'intera piscina, un uomo con indosso un grembiule con pettorina stava lavorando al busto di un soggetto maschile calvo. Kozintsev portava una barba ben curata e un paio di occhialini rotondi. Lavorava con una mano sola; le sue lunghe dite imprimevano delicatamente una rientranza alle guance della scultura mentre con l'altra mano reggeva un bicchiere di tè. Fece un passo indietro, bevette un sorso di tè e scosse la testa, estremamente deluso dai suoi sforzi artistici. Accogliendo istantaneamente il nuovo arrivato, Kozintsev chiese l'aiuto di Chirkov per ricominciare daccapo. Appoggiò il bicchiere e si rimboccò le maniche. Appoggiarono entrambi le mani sul volto cedevole e tirarono verso il basso. La creta si staccò a blocchi: alcuni striati come muscoli, altri raggrumati come cuscinetti di grasso. Venne alla luce un cranio, macchiato dai residui di creta. Gli occhi vitrei fissavano ipnoticamente un punto nel vuoto, fissati nelle orbite con spessori ottenuti arrotolando carta di giornale. Chirkov si rese conto allora di conoscere il direttore: V.A. Kozintsev era uno dei più importanti patologi specializzati in ricostruzioni dell'Unione Sovietica. Aveva lavorato a lungo sui presunti teschi della deposta famiglia reale, applicando alla struttura ossea strati di muscolatura e poi di pelle. Aveva ricreato le teste di uomini paleolitici, di vittime di omicidi e di Ivan il Terribile.
Chirkov si presentò, mettendosi a disposizione del direttore, che lo invitò a rendersi utile in qualche modo. Kozintsez era depresso per aver perso tre giorni di lavoro e spiegò al soldato, in maniera tecnicamente dettagliata, che un cranio da solo non era sufficiente. Occorreva qualche indicazione sulla disposizione originale della muscolatura facciale. Mentre parlava rollò una sigaretta e se la infilò nell'angolo della bocca, tastandosi il taschino del grembiule alla ricerca dei fiammiferi. Chirkov apprese che quello era uno dei progetti storici di Kozintsev: lavoro di alto livello commissionato dal ministero della Cultura, che nulla aveva a che vedere con la funzione principale del centro termale, attualmente consistente nel determinare le origini e le capacità degli amerikani, ma utile per attirare alla struttura attenzione e fondi. Mentre il direttore tornava a studiare alcuni grafici di anatomia facciale, aspirando furiosamente fumo dalla sua sigaretta, Chirkov raccolse i sacchettini di creta e li ordinò in un cumulo sul tavolo. In cima a un supporto accanto al tavolo faceva bella mostra di sé una testa finta da parruccaio, protetta da una campana di cristallo: indossava una parrucca lunga ma ben pettinata, con sopracciglia, baffi e barba in tinta. Una volta ricoperto il teschio e scelto il colore della pelle di rivestimento, al modello sarebbero stati applicati i capelli. Domandò a Kozintsev a chi appartenesse il teschio e il direttore, distrattamente, rispose che si trattava di Grigori Rasputin. Aveva incontrato notevoli problemi nel recuperare occhi di vetro con le qualità necessarie. Resoconti d'epoca descrivevano il colore degli originali come azzurro acciaio, con pupille capaci di ridursi a due capocchie di spillo quando il loro proprietario si concentrava nell'esercizio dei suoi poteri coercitivi. Chirkov guardò di nuovo il teschio, ma non notò in esso alcunché di speciale. Un semplice cranio in osso, nulla più.
Ogni sera alle nove il direttore presiedeva una riunione. La partecipazione era obbligatoria per tutto il personale, Chirkov incluso. Gli era stato assegnato un alloggio nello stesso edificio che ospitava il centro termale, una piccola camera all'ultimo piano, dove dormiva su quello che un tempo era stato un lettino per massaggi. Dato che il cibo veniva fornito (a intervalli tutt'altro che regolari, naturalmente) da una mensa interna al centro termale, non c'era alcuna ragione di avventurarsi all'esterno. Durante le riunioni Chirkov fece la conoscenza delle persone che lo circondavano: l'ufficiale responsabile era il capitano Zharov, che avrebbe di gran lunga preferito trovarsi nelle strade a combattere, attività che gli era impedita da un ginocchio ferito; il capo patologo, vice di Kozintsev, era il dottor Fedor Dudnikov, un famoso scienziato e medico legale, spesso consultato dalla polizia per contribuire alla soluzione di omicidi politici, ma palesemente spiazzato dalla recente trasformazione del centro termale e dalle cause che l'avevano determinata. Il direttore ostentava un distaccato disinteresse per l'emergenza in corso e l'obitorio, di conseguenza, era gestito concretamente dalla coalizione formata da Lyubashevski, un amministratore trasferito d'ufficio dal ministero dell'Agricoltura, e Toulbeyev, la cui abilità nel tenere ben oliati gli ingranaggi del pesante apparato militare era notevolmente superiore a quella del capitano Zharov.
La ragazza notata da Chirkov, Valentina, si rivelò essere un personaggio piuttosto eminente per la sua età, una specialista nello studio degli amerikani; a ogni riunione presentava un rapporto sulle scoperte fatte nel corso della giornata. Le sue osservazioni erano francamente incomprensibili, anche per i suoi colleghi, ma a quanto pareva era convinta che gli amerikani non fossero semplicemente cadaveri rianimati. I sezionamenti e le indagini patologiche che stava svolgendo rivelavano che gli amerikani funzionavano per molti versi in modo simile agli esseri umani viventi; in particolare, la loro muscolatura si adattava gradualmente al loro nuovo stato, nonostante la perdita della carne e della pelle in eccesso. Le porzioni del corpo che si decomponevano e si staccavano erano irrilevanti ai fini del funzionamento delle creature. Valentina paragonava le goffe e barcollanti creature morte a una fase puparia, esprimendo la convinzione che gli amerikani stavano diventando più forti. Sosteneva che non andavano classificati come ex esseri umani, bensì come una specie interamente nuova, dotata di proprie forze e capacità. A ogni riunione Valentina si lamentava del fatto che il suo lavoro veniva limitato dalla possibilità di esaminare solo cadaveri morti due volte, affermando che progressi più importanti sarebbero certamente stati ottenibili catturando soggetti «vivi» per osservarne l'evoluzione. Aveva anche fornito la propria versione su ciò in cui gli amerikani avrebbero finito per trasformarsi: scheletri dotati di una spessa muscolatura, simili alle rappresentazioni fornite da vecchi disegni anatomici.
Il principale rivale di Valentina, A. Tarkhanov, ribatteva sostenendo che le sue teorie avrebbero finito per condurla in un vicolo cieco. A suo avviso gli sforzi del personale del centro termale avrebbero dovuti essere tesi a isolare il batterio responsabile della rianimazione, al fine di sviluppare una sieroterapia efficace. Tarkhanov, un membro del Partito, insisteva inoltre che il fenomeno era stato creato artificialmente da ingegneri genetici americani. Affermava che le fabbriche di mostri degli Stati Uniti erano finanziate da cartelli capitalisti con una generosità tale da vanificare ogni sforzo di reazione compiuto dalla burocrazia statale sovietica. L'unico punto su cui Valentina e Tarkhanov concordavano era la constatazione che il centro termale necessitava urgentemente di nuovi fondi. Visto che durante le riunioni tutti erano costretti a sedere sul pavimento, mentre il direttore Kozintsev se ne stava appollaiato a gambe incrociate su una scrivania, le sedie vennero citate da molti come una priorità, ma ciascuno degli scienziati aveva compilato una lunga lista di forniture e attrezzature mediche senza le quali non sarebbero stati in grado di portare avanti le loro ricerche di vitale importanza. Lyubashevski ribatteva documentando in modo dettagliato le ripetute richieste da lui inoltrate alle istituzioni competenti, citando spesso con precisione il lasso di tempo trascorso dal momento della loro presentazione. In occasione della terza riunione a cui partecipò Chirkov, Lyubashevski animò gli entusiasmi di tutti annunciando che il centro termale aveva ricevuto dalla Commissione per la difesa civile cinquantacinque coperte per bambino. La consegna era del tutto incoerente con le richieste inoltrate, ma Toulbeyev si era offerto di negoziare un baratto con l'ospedale infantile, chiedendo di scambiare le coperte con partite di verdura oppure strumenti chirurgici.
Durante la stessa riunione il capitano Zharov riferì che i suoi uomini avevano contrastato con successo un tentativo di irruzione. Due amerikani erano stati trovati all'alba davanti al portone dell'edificio, in cima alla scalinata che erano riusciti a scalare nonostante il ghiaccio, apparentemente in attesa che qualcuno uscisse. Uno dei due sostava proprio davanti al portone, mentre il secondo stava alle sue spalle, un gradino più in giù. Era come se volessero dare inìzio a una rudimentale coda. Zharov li aveva eliminati entrambi personalmente, piantandogli una pallottola nel cranio, organizzando poi il trasporto dei loro resti in uno dei punti di raccolta, dal quale c'era anche la possibilità che facessero ritorno al centro termale in qualità di campioni da esaminare. Valentina commentò che sarebbe stato più utile catturare gli amerikani e rinchiuderli in un luogo sicuro - i locali del vecchio bagno turco, suggerì - dove avrebbero potuto osservarli. Zharov si difese affermando di aver rispettato ordini di natura permanente. Kozintsev concluse la riunione con una lunga dissertazione su Rasputin, elaborando una propria teoria secondo cui il consigliere spirituale della zarina era stato meno pazzo di quanto solitamente si supponeva; inoltre, la sua influenza sulla famiglia reale si era rivelata, in ultima analisi, strumentale per lo scatenarsi della rivoluzione. Parlò con particolare interesse ed entusiasmo dei poteri di guaritore del cosiddetto monaco pazzo, delle famose mani capaci di lenire i sintomi dell'emofilia dell'erede al trono degli zar. Era sua convinzione che Rasputin aveva realmente posseduto talenti paranormali. La dissertazione sembrò fuori luogo anche a Chirkov, soprattutto allorché il direttore concluse il suo discorso ammettendo un nuovo fallimento nel progetto di ricostruzione.
Chirkov venne sorteggiato insieme con Toulbeyev per l'ultimo turno di guardia della notte; avrebbero montato alle tre del mattino e sarebbero rimasti nella loro postazione nell'androne dell'edificio fino alle nove, quando avrebbero ricevuto il cambio. Il capitano Zharov e Lyubashevski non sembravano in grado di decidere se Chirkov fosse da considerare un soldato o un assistente tecnico; il risultato fu che si ritrovò ad espletare entrambe le funzioni, a volte anche contemporaneamente. Da soldato avrebbe avuto il diritto di dormire tutto il mattino successivo al turno di guardia notturno, ma in quanto assistente tecnico era tenuto a presentarsi al direttore Kozintsev alle nove in punto. Tuttavia, Chirkov non aveva motivo di lagnarsi; una volta fatta l'abitudine alla presenza dei cadaveri, il centro termale era indubbiamente un buon posto dove prestare servizio. Se non altro, i cadaveri custoditi nella vasca della piscina erano effettivamente morti. Sebbene per motivi personali avesse sempre votato, insieme con altri due scienziati e una cuoca, a favore della proposta avanzata dalla Sverdlova di catturare amerikani «vivi» allo scopo di studiarli, nell'intimo era sollevato dal vederla sempre battuta con un ampio scarto di voti. Per quanto sicuri potessero essere i locali del bagno turco, Chirkov non trovava affatto allettante l'idea della presenza di amerikani all'interno dell'edificio. Toulbeyev, che aveva una nonna moldava, raccontava storie di wurdalak e vryolak, ed era una fonte inesauribile di aneddoti. Secondo Toulbeyev, in vita gli amerikani erano stati tutti membri del Partito: per questo molti di loro indossavano vestiti di qualità e disponevano di beni di consumo. L'ultima moda tra i morti erano i registratori portatili con cuffietta, di produzione non americana bensì giapponese. Toulbeyev ne possedeva una collezione, ciascun esemplare sottratto a un amerikano con la testa in condizioni tanto disastrate da scoraggiare gli altri soldati dalla tentazione di spogliarlo dei suoi beni. Era un peccato, rifletté Toulbeyev, che i morti non fossero soliti girare trasportando sulla schiena videoregistratori. Se così fosse stato, ciascun membro del personale del centro termale sarebbe diventato milionario, ma non in rubli: in dollari. Molti dei morti, oltretutto, avevano nelle tasche valuta straniera.
La teoria preferita di Tarkhanov era che gli amerikani impregnavano i loro soldi del batterio che avevano in corpo, diffondendo l'epidemia attraverso il contatto con il denaro. Toulbeyev, che portava sempre un paio di guanti, non sembrava granché turbato da una simile possibilità.
Proprio mentre Toulbeyev fantasticava dell'impero che avrebbe potuto costruire prelevando videoregistratori ai morti, bussarono alla porta. Non fu un battere ripetuto, di qualcuno che chiedeva di entrare, ma piuttosto un colpo sordo, come se qualcosa avesse sbattuto accidentalmente contro l'altro lato della porta di quercia. Entrambi i soldati si zittirono e tesero le orecchie. Uno dei registratori di Toulbeyev stava suonando It Came Out of the Sky di Creedence Clearwater a velocità variabile; lui allungò una mano e arrestò la cassetta, che scricchiolò in modo preoccupante al rallentare delle ghiere all'interno del congegno. Bestemmiò. Era più difficile reperire le cassette che i registratori. Regnava il silenzio moscovita delle quattro e mezzo del mattino. Fatto di una moltitudine di piccoli rumori: il vento che s'incuneava nelle fessure attorno alla porta, leggermente imbarcata; qualcuno ai piani alti colto da una crisi di tosse; spari in lontananza. Chirkov armò il revolver, sperando che nel tamburo sotto il cane ci fosse una cartuccia e, se c'era, che non avrebbe fatto cilecca. Un altro colpo, uguale al primo. Apparentemente privo di intenzionalità, il risultato piuttosto di un movimento goffo e sgraziato. Toulbeyev ordinò a Chirkov di guardare fuori attraverso lo spioncino. Il coperchietto di ottone era rigido, ma riuscì a scostarlo di lato e ad avvicinare l'occhio alla lente di vetro.
A poca distanza dallo spioncino vide il volto di un morto. Per la prima volta Chirkov si rese conto che gli amerikani erano creature che mettevano paura. Quello oltre la porta, nel buio della notte, aveva orbite vuote e una bocca in costante movimento, come se stesse masticando. Attorno al collo smagrito portava una serie di macchine fotografiche e un foulard annodato sul quale era raffigurata una donna nuda. Chirkov riferì a Toulbeyev, che mostrò notevole interesse per le attrezzature fotografiche e si avvicinò a sua volta allo spioncino. Propose di aprire il portone e piazzare una pallottola nella testa dell'amerikano. Disponendo di macchine fotografiche Toulbeyev si disse sicuro di poter reperire delle sedie. Se fossero riusciti a ottenere le sedie sarebbero stati eletti a eroi del centro termale e avrebbero avuto diritto a ogni sorta di privilegio. Dubitando del proprio coraggio, Chirkov si disse comunque d'accordo e Toulbeyev si mise al lavoro per aprire la serie di catenacci. Finalmente le porte erano libere, tenute chiuse solo dalla presa di Toulbeyev sulle maniglie. Chirkov fece un cenno con il capo; il suo compagno spalancò le porte e fece un passo indietro. Chirkov avanzò, la pistola protesa in avanti e puntata contro la fronte dell'amerikano.
Il morto non era solo. Toulbeyev imprecò e corse a prendere il fucile. Chirkov non sparò, incapace di fare altro che guardare da un volto morto all'altro. Erano in quattro, in fila, ciascuno su un gradino diverso. Uno indossava un'uniforme militare, completa di medaglie; un altro, una donna, portava un severo abito gessato e un vistoso cappello da gangster; in fondo alla fila c'era un bambino morto, una femmina, con i capelli dorati, il volto verdastro, un cappellino da baseball in testa e una bambola stretta in una mano. Si muovevano appena. Toulbeyev tornò, infilando freneticamente una cartuccia nella culatta del fucile e arrestandosi in scivolata sul pavimento di marmo, preparandosi a puntare l'arma. Apparentemente preso in contropiede dall'atteggiamento poco minaccioso dei morti, neppure lui sparò. Il freddo penetrò nell'edificio, giustificando il brivido che percorse la schiena di Chirkov. Aveva sentito dire che gli amerikani attaccavano sempre; questi, invece, se ne stavano immobili in piedi come in uno stato di dormiveglia, e ondeggiavano leggermente. Gli occhi della bambina si muovevano meccanicamente avanti e indietro. Chirkov disse a Toulbeyev di andare a chiamare uno scienziato, preferibilmente Valentina. Mentre il compagno correva in direzione delle scale, ricordò di avere a disposizione solo tre pallottole, mentre gli amerikani erano quattro. Indietreggiò nell'ingresso, gli occhi fissi sui cadaveri, e chiuse il portone, sbattendolo. Usando i pugni chiuse un paio di catenacci, poi tornò a guardare all'esterno attraverso lo spioncino. Nulla era cambiato. I morti erano ancora in fila.
Valentina indossava una vestaglia lunga fino ai piedi sopra un pigiama di cotone. Era scalza e doveva avere i piedi congelati per via del pavimento di marmo. Toulbeyev le aveva riferito dei visitatori notturni e lei ora gli stava rammentando il rapporto del capitano Zharov. Anche in questo caso gli amerikani si comportavano come osservato dal capitano: si erano disposti in fila, formando una sorta di coda. Si scostò i capelli dal volto e avvicinò un occhio allo spioncino. Facendosi sfuggire un gridolino eccitato, invitò anche Chirkov a guardare, posizionandosi in modo da vedere oltre la coda. Una figura emerse faticosamente dal buio, sbattendo i piedi sul suolo come pesci arenatisi su una spiaggia. Cadde a faccia in giù e risalì i gradini strisciando, poi si rimise in piedi. Prese posto alle spalle della bambina. Era nudo, decomposto al punto da non permettere di determinare di quale sesso fosse, poco più che uno scheletro tenuto assieme da fasci di muscolatura che somigliavano a brandelli di cuoio bagnato. Valentina disse di volere quell'amerikano in particolare per poterlo studiare, ma sarebbe stato necessario prendere anche uno degli altri. Era ancora decisa a catturare e a osservare esemplari «vivi». Toulbeyev commentò sulla stranezza della situazione e le domandò perché mai i morti si limitassero a rimanere in coda uno dietro l'altro sui gradini del centro termale. Lei disse qualcosa a proposito di un istinto residuo, indotto dal tempo passato in coda dalle persone quando ancora erano in vita, dell'innata necessità dei morti di imitare i comportamenti dei vivi, di ricreare basandosi su frammenti di memorie le vite che avevano vissuto. Toulbeyev accettò di aiutarla a catturare gli esemplari, ma si raccomandò di fare attenzione a non danneggiare le attrezzature fotografiche. Le spiegò che avrebbero potuto diventare tutti milionari.
Valentina prese il fucile di Toulbeyev e lo puntò come avrebbe fatto un soldato, la guancia appoggiata al calcio, la canna dritta. Si posizionò accanto alla porta e li coprì mentre si avventuravano fuori per compiere la missione che aveva affidato loro. Toulbeyev annunciò che si sarebbe occupato del primo della coda, l'uomo morto con le macchine fotografiche attorno al collo. Chirkov, di conseguenza, avrebbe dovuto fronteggiare lo scheletro ambulante, nonostante fosse l'ultimo in coda. A Mosca, passare avanti in una coda senza averne diritto era considerato un crimine più grave del matricidio. Toulbeyev aveva trovato chissà dove alcuni sacchi di tela delle poste. L'idea era di incappucciare gli amerikani e poi guidarli verso l'interno dell'edificio. Toulbeyev riuscì con un'abile mossa a piazzare il suo sacco sulla testa del fotografo, aggirandolo con fulminea velocità e srotolando spago da un grosso gomitolo. Mentre Toulbeyev legava i polsi del morto, lo spago segò la pelle grigia e un fluido rosso verdastro si riversò sui suoi guanti. Gli altri cadaveri in coda rimasero impassibili, ignorando il trattamento riservato al fotografo. Quando Toulbeyev ebbe spinto all'interno la sua preda, legata e immobilizzata come un maiale pronto al macello, Chirkov si concentrò sullo scheletro.
Scese cautamente al livello dello scheletro, il sacco di tela aperto e teso davanti a lui, come un bracconiere a caccia di conigli. Gli amerikani lo seguirono con gli occhi al suo passaggio e, in uno spasmo di panico che gli fece contrarre i testicoli, Chirkov appoggiò male un piede. Il suo scarpone scivolò sul ghiaccio e cadde rovinosamente sui gradini, urtando dolorosamente uno spigolo con l'anca. Slittò lungo la scalinata, gridando. Nella notte risuonò uno sparo e la bambina, che si era staccata dalla coda per avventarsi su di lui, si irrigidì come una bambola, privata senza spargimento di sangue di una porzione della testa. Toulbeyev l'aveva centrata. Giunto in fondo ai gradini, Chirkov si rialzò. Avvertiva un dolore lancinante all'anca e aveva perso sensibilità lungo tutto un fianco. Respirare l'aria gelida gli faceva dolere i polmoni e tossì emettendo esplosioni di vapore. Aveva ancora la pistola e il sacco stretti tra le mani; fortunatamente dal revolver non era partito alcun colpo. Si guardò attorno: la piazza era punteggiata da forme umane che si dirigevano a passo malfermo verso il centro termale. Risalendo di corsa le scale, incurante del pericolo rappresentato dal ghiaccio, puntò verso lo spiraglio di luce in uscita dal portone dell'edificio. Sostò brevemente per afferrare lo scheletro per un gomito e trascinarlo verso l'entrata. Non oppose resistenza. Al contatto con i muscoli del cadavere, Chirkov ebbe la sensazione di stringere la mano attorno a una serie di serpenti tesi e ripiegati su una struttura ossea. Spinse lo scheletro verso l'androne, dove Toulbeyev era in agguato con il suo gomitolo di spago. Chirkov si voltò in tempo per vedere Valentina chiudere le porte. Altri amerikani erano arrivati: avevano preso il posto dello scheletro e quello della bambina, e la coda si era allungata, occupando altri due o tre gradini. Prima di serrare il portone con i catenacci, Valentina tornò per un attimo ad aprirlo, osservando i cadaveri in fila attraverso una fessura. Erano sempre lì, immobili, per nulla agitati. Poi, come in risposta a un comando, fecero tutti assieme un passo in avanti. Il posto del fotografo venne preso dall'ufficiale, e tutti gli altri avanzarono anch'essi di un gradino. Valentina spinse le porte, chiudendole, e Chirkov riposizionò i catenacci. Senza sostare per riprendere il fiato, ordinò che gli esemplari venissero portati nel bagno turco.
La prima colazione consisteva in mezza rapa, sorprendentemente fresca, seppure crivellata da schegge di ghiaccio. La portò fuori dalla mensa per mangiarla con calma e scese in direzione della piscina per presentarsi al direttore. Supponeva che Valentina avrebbe rivelato agli altri la cattura non autorizzata di esemplari «vivi» nel corso della riunione serale. Non spettava certo a lui diffondere la notizia. Essendo giunto nel locale al centro della vasca prima del direttore, sapeva che era suo compito avviare il samovar: Kozintsev sembrava vivere di costanti infusioni di tè caldo e fumante. Mentre accendeva la carbonella, Chirkov udì un colpetto secco, come di tacchi che si scontravano per accompagnare un saluto marziale. Si voltò, ma non vide nessuno. Nel cubicolo, ogni cosa era al suo posto: argille, parrucca, attrezzi da scultore, teschio, samovar, scatole impilate a creare un improvvisato sgabello. Un altro colpetto. Alzò gli occhi al lampadario, senza notare nulla di strano. Il tè cominciò a ribollire e lui staccò un pezzetto di rapa fredda, infilandoselo in bocca, cercando di non pensare a quanto sonno avesse e tanto meno agli amerikani.
Kozintsev aveva iniziato un nuovo tentativo di ricostruzione. Il teschio di Rasputin era nascosto quasi per intero da strisce di creta. Somigliava molto alla testa dell'amerikano che Chirkov aveva catturato per Valentina: le mascelle erano tenute assieme da cordoni appiattiti di un colore rossastro che affondavano poi nelle cavità sotto gli zigomi; i denti mancanti erano stati rimpiazzati da riproduzioni smaltate, di un bianco candido che contrastava con il giallo grigiastro di quelli originali; sottili filamenti si concentravano a fasci attorno agli occhi di vetro. Era un procedimento intrigante e a Chirkov piaceva sempre di più vedere il direttore all'opera. Una serie di fotografie del monaco erano disposte su un leggio, ma Kozintsev non amava consultarle. La sua tecnica consisteva nell'estrapolare i connotati dalla forma della struttura ossea, non nell'ispirarsi a un modello dato. Il naso a patata da contadino di Rasputin era un problema. La cartilagine originale era scomparsa da tempo e Kozintsev aveva preso a creare e a distruggere nasi in modo quasi ossessivo. Alcuni giacevano ancora per terra, schiacciati sullo scosceso pavimento piastrellato della piscina. Dopo la rivoluzione i resti del guaritore erano stati riesumati dalla sua tomba nel parco imperiale da un gruppo di fanatici e, secondo quanto riferito da fonti ufficiali, bruciati; c'erano dunque dubbi, ferocemente respinti dal direttore, sulla reale provenienza del teschio.
Mentre Chirkov osservava la testa, la mascella inferiore di Rasputin si aprì, per un lieve cedimento dei muscoli di creta; poi, all'improvviso, si richiuse di scatto, sbattendo i denti. Chirkov sobbalzò, scioccato, e si lasciò sfuggire una risata nervosa. Arrivò Kozintsev, impegnato contemporaneamente in una decina di azioni diverse, togliendosi la giacca e prendendo il grembiule, salutando il suo assistente e chiedendogli una tazza di tè. Chirkov era al tempo stesso divertito e spaventato, indeciso se credere o no a quanto aveva visto. Il teschio ripeté il gesto. Kozintsev notò immediatamente il movimento e ripeté la sua richiesta di una tazza di tè. Chirkov riuscì a scuotersi, obbedì al capo e se ne versò una tazza anche per sé. Kozintsev non obiettò. Era assorto nell'esaminare da vicino il teschio, che dava minimi segni di aniinazione. La mascella si muoveva lentamente da un lato all'altro, come se stesse masticando. Chirkov pensò che forse Grigori Efimovich lo stava imitando e smise di masticare il boccone di rapa. Kozintsev gli fece notare che la testa stava tentando di muovere gli occhi, ma la creta non possedeva la stessa forza di una muscolatura vera. Si domandò ad alta voce se non fosse il caso di procedere con filamenti di corda per imitare più fedelmente la consistenza dei tessuti umani. Non sarebbe certo stata una soluzione cosmeticamente corretta. La bocca di Rasputin si spalancò, come in un urlo silenzioso. Il direttore sondò l'aria nei pressi della bocca del teschio con un dito e lo ritrasse rapidamente quando la mascella si chiuse di scatto. Rise allegramente, dando del furbacchione al monaco.
Gli amerikani era ancora sui gradini. Tutto il personale si era alternato allo spioncino. Ora la coda si estendeva fino alla piazza, seguendo il marciapiede, per scomparire dietro l'angolo dell'isolato. Toulbeyev aveva dato ordine di aggiornarlo ogni ora sulle ricchezze portate in dote dagli amerikani. Era sicuro che qualcuno in quella coda doveva avere con sé un prezioso videoregistratore: Toulbeyev possedeva copie in cassetta di La carica dei 101 e New Wave Hookers, ma non aveva modo di vederle. Il capitano Zharov era favorevole a un'eliminazione spietata dei morti, ma Kozintsev, ancora eccitato per l'attività del teschio, si rifiutava di impartire ordini e l'ufficiale non intendeva muovere un dito senza prima aver ricevuto istruzioni precise, preferibilmente in forma scritta. In via sperimentale, Zharov uscì all'esterno, scese a metà della scalinata e scelse a caso un amerikano. Gli sparò alla testa e il mucchio d'ossa, definitivamente morto, crollò a terra, lasciando libero il suo posto nella coda. Zharov prese a calci i resti del cadavere, che si smembrarono e caddero lungo la scalinata verso i cumuli di neve spalata. Dopo una breve pausa tutti i morti alle spalle della vittima di Zharov fecero un passo in avanti, salendo di un gradino. Valentina si trovava rinchiusa nei locali del bagno turco con i suoi esemplari; la notizia della loro cattura si era diffusa nel centro termale, scatenando accese polemiche. Tarkhanov si lamentò presso il direttore accusando di abuso d'ufficio la sua collega, ma Kozintsev si limitò a invitarlo a esaminare il teschio miracoloso. Il dottor Dudnikov fece una serie di telefonate al Cremlino, riferendo informazioni che giudicava interessanti a un funzionario subalterno, il quale promise provvedimenti in tempi brevi. Dudnikov sperava che gli ultimi sviluppi potessero tornare utili come leva per ottenere forniture vitali da altre istituzioni. Come sempre, il grido di battaglia era: «Sedie per il centro termale!»
Nel pomeriggio Chirkov si assopì in piedi mentre guardava Kozintsev lavorare. Nonostante i costanti, seppure appena percettibili, movimenti della mascella, il teschio collaborava e non tentò di mordere il direttore. Questi aveva requisito lo scacciapensieri di Toulbeyev ed era ora impegnato a impiantarlo tra gli spessi muscoli del collo sotto il teschio, sperando che avrebbe funzionato come una rudimentale cassa armonica dotata di corde vocali. Con notevole disgusto, Chirkov notò che Rasputin stava diventando molto esperto nel muovere i suoi occhi ciechi. Era in grado di risucchiare verso l'interno i bulbi vitrei in modo da nascondere le pupille disegnate nella parte alta delle orbite, mostrando all'esterno solo due biglie di un bianco lattiginoso. Si trattava di un uomo che era stato duro da uccidere: i suoi assassini gli avevano somministrato una dose di veleno sufficiente per stroncare un elefante, gli avevano sparato colpi di revolver al petto e alla schiena e l'avevano preso a calci e a bastonate, per poi calarlo nella Neva, avvolto in una tenda, attraverso un foro praticato nel ghiaccio. Il teschio presentava un'intaccatura che Kozintsev attribuiva allo stivale di un aristocratico. Eppure, alla fine, non erano stati gli uomini a uccidere il profeta; la causa della sua morte era stata l'annegamento. Mentre lavorava, il direttore canticchiava allegre arie di Prokofiev. Per tenere occupata la bocca del teschio, Kozintsev gli infilò tra i denti una sigaretta. Promise a Grigori Efimovich che ben presto l'avrebbe dotato di un paio di labbra, ma in quanto ai polmoni, per il momento non c'era nulla da fare. Il suo sogno segreto, che aveva confidato al teschio (e, per forza di cose, anche a Chirkov) era di estendere la sua tecnica a uno scheletro intero. Purtroppo, come lui stesso aveva previsto quando era stato ancora in vita, i resti del monaco erano stati dispersi dal vento.
Lyubashevski irruppe nel cubicolo reggendo un apparecchio telefonico il cui cavo si dipanava nel labirinto della vasca della piscina come un filo d'Arianna. Era giunta una telefonata dal Cremlino, alla quale Kozintsev era tenuto a rispondere. Mentre Chirkov e Lyubashevski rimanevano immobili, inconsciamente sull'attenti, il direttore parlò con il segretario del Partito. I casi erano due: o il dottor Dudnikov aveva imbroccato il canale giusto, oppure Tarkhanov era davvero la spia che tutti lo reputavano e aveva riferito ai suoi superiori del KGB quanto stava accadendo al centro termale. Il segretario era informato su tutti gli sviluppi. Si complimentò con Kozintsev e assicurò che nuove risorse sarebbero state assegnate all'obitorio. Chirkov ebbe l'impressione che il segretario avesse confuso due progetti distinti: Kozintsev stava ricevendo encomi per gli studi condotti in realtà da Valentina. Il direttore sarebbe comunque stato lietissimo di impiegare nuovi fondi o forniture per la ricostruzione del teschio.
Dopo la telefonata il direttore si mostrò di ottimo umore. Disse al teschio che erano vicini a un punto di svolta e insisteva con Lyubashevski di riuscire a sentire una lieve vibrazione prodotta dallo scacciapensieri. Il direttore non aveva dubbi: Grigori Efimovich stava cercando di comunicare. Gli domandò se ricordasse di aver mangiato i cioccolatini avvelenati. Da quando la mascella si era mossa per la prima volta, Kozintsev aveva dotato il teschio di rudimentali orecchie di creta, un paio di esagerati e cartoneschi coni che spuntavano in modo ridicolo verso l'esterno. Avendo abbandonato ogni velleità di riprodurre le sembianze del monaco quando era stato in vita, era passato ora al tentativo di fornirgli caratteristiche funzionanti. Considerando che il cervello di Rasputin era stato arso decine di anni prima, o in ogni caso era marcito sotto gli attacchi del tempo, era difficile immaginare con che cosa sperasse di comunicare il direttore. A un tratto, la voce del dottor Dudnikov si diffuse dagli altoparlanti per denunciare la presenza di soldati all'esterno del centro termale, intenti a piazzare cariche esplosive con il chiaro proposito di demolire l'edificio. Gli occhi di Rasputin si mossero di nuovo.
Gli artificieri stavano disponendo cariche in tutto l'androne. Erano entrati nel centro termale dalle cucine, evitando i gradini infestati da amerikani. A quanto pareva si stava formando una seconda coda, che dal portone d'ingresso si allungava in una direzione diversa. L'ufficiale reponsabile, un uomo grasso con una voglia sul volto che lo rendeva somigliante a uno spaniel, si presentò come il maggiore Andrei Kobylinski. Si aggirava per il centro termale con passo severo, ispezionando il lavoro dei suoi uomini, esprimendo orgoglio per la capacità della sua unità di demolire un edificio con il quantitativo minimo di esplosivo richiesto. Nel corso del sopralluogo Kobylinski notò alcuni punti in cui ritenne opportuno far depositare cariche aggiuntive. Agli occhi di Chirkov, per quanto inesperto, il maggiore sembrava contraddirsi: i suoi uomini stavano letteralmente tappezzando le pareti di semtex. Kozintsev e il capitano Zharov erano assorti nella lettura di un documento di dodici pagine che autorizzava la demolizione del centro termale. Il dottor Dudnikov protestò affermando che il segretario del Partito in persona, non più di un minuto prima, aveva elogiato il centro e gli importanti studi condotti nella piscina relativamente all'invasione degli amerikani, ma Kobylinski sembrava unicamente interessato a individuare quali pilastri dovessero essere abbattuti per far crollare efficacemente il vecchio e rovinato soffitto affrescato. Mentre lavoravano gli artificieri fischiettavano il motivo Girls Just Want to Have Fun.
Soddisfatto della corretta disposizione delle cariche esplosive, il maggiore Kobylinski non resistette alla tentazione di arringare il suo pubblico sul progresso e sui successi della campagna che stava portando avanti. Fece dispiegare sul pavimento una mappa di Mosca di tre metri per tre. Era punteggiata di chiazze rosse come una scacchiera distorta. I poligoni rossi indicavano gli edifici e le costruzioni fatti saltare da Kobylinski. Chirkov ebbe a intendere che il sindaco non si sarebbe detto soddisfatto finché l'intera mappa non si fosse tinta di rosso; a quel punto, a sentire Kobylinski, la crisi sarebbe stata superata. Affermò che una simile campagna avrebbe dovuto essere intrapresa fin dall'inizio della crisi, e che bisognava essere grati agli amerikani per aver stimolato l'adozione di una politica tanto lungimirante. Mentre il maggiore pronunciava il suo discorso, Chirkov notò Toulbeyev accanto al banco dell'accettazione con Lyubashevski al suo fianco, apparentemente in cerca di una penna che scrivesse. Erano impegnati a selezionare matite, gessetti e pennarelli, tracciando linee su un pezzo di carta assorbente. Sotto il banco erano già stati sistemati panetti di esplosivo collegati a detonatori per mezzo di un groviglio di fili. Kobylinski controllò il suo orologio e annunciò di essere in anticipo rispetto al suo tabellino di marcia: la demolizione avrebbe avuto luogo mezz'ora più tardi. Lyubashevski alzò una mano e si azzardò a esprimere l'opinione che l'esplosivo depositato sotto la scalinata principale era insufficiente per abbattere una struttura tanto solida. Dissentendo con un ringhio, Kobylinski si avvicinò a grandi falcate alla scalinata per esaminare le cariche in questione; concluse che fosse meglio non correre rischi e ordinò la sistemazione di altro esplosivo.
Mentre Kobylinski era distratto, Toulbeyev si avvicinò furtivamente alla mappa e si inginocchiò sopra la zona della Piazza Rossa, colorandone freneticamente una parte con un prezioso pennarello rosso. Colorò l'isolato del centro termale, estendendo l'area di devastazione a una buona porzione della piazza stessa. Quando Kobylinski tornò a esaminare la sua mappa, Toulbeyev si era già spostato discretamente all'altro capo della sala. Uno degli artificieri, con una cuffia nuova di zecca attorno al collo, fece notare al comandante un'anomalia cartografica. Kobylinski si concentrò sulla mappa e bofonchiò qualcosa, parlando tra sé. Secondo la sua mappa, il centro termale era già stato abbattuto dalla sua unità: non si trattava più di un edificio, dunque, ma di un cumulo di macerie rastrellato e bonificato. Effettivamente, un altro artificiere, con un berretto da baseball che spuntava dalla tasca posteriore dei pantaloni, ricordò in modo convincente ai suoi colleghi la distruzione del centro termale tre giorni prima. Kobylinski consultò di nuovo la mappa, posizionandosi a gattoni su di essa e percorrendo i più famosi viali della città. Si grattò la testa e batté le palpebre da sotto la voglia che gli deturpava il viso. Il direttore Kozintsev, braccia conserte e testa alta, annunciò che per quanto lo riguardava la questione era chiusa; fece richiesta agli artificieri di rimuovere i loro infernali congegni dall'edificio. La documentazione di cui era in possesso Kobylinski lo autorizzava a distruggere il centro termale una sola volta, come del resto aveva già fatto, in maniera comprovata. L'operazione non poteva essere ripetuta in assenza di ulteriori ordini, ma nel caso fosse stata avanzata richiesta di tali ordini, pesanti dubbi sarebbero sorti sull'effettiva efficienza degli artificieri di Kobylinski, da lui tanto declamata: alla maggior parte delle altre unità occorreva distruggere un edificio una sola volta perché rimanesse distrutto. Sull'orlo di una crisi di pianto, lo smarrito maggiore ordinò finalmente la rimozione degli esplosivi e, con paterna tenerezza, ripiegò la mappa e la ripose in una valigetta. Senza offrire scuse per il disturbo arrecato, gli artificieri si ritirarono.
Quella notte gli amerikani di Valentina evasero dal bagno turco e tutto il personale passò tre allegre ore dando loro la caccia. A Chirkov e Toulbeyev toccò la piscina. La corrente elettrica era stata di nuovo interrotta e dovettero avvalersi di lampade a olio, la cui luce aveva l'effetto di rendere la loro missione ancora più snervante. Erano circondati da ombre irregolari e attive, che sussurravano in moldavo di creature affamate e irrequiete. Procedettero descrivendo una lenta spirale: per prima cosa percorsero il perimetro della piscina, camminando sul bordo della vasca e illuminandone l'interno, ma erano troppi gli angoli bui impossibili da esplorare; pertanto, scesero nella vasca per mezzo della scaletta più vicina al lato profondo e avanzarono metodicamente attraverso il labirinto, serpeggiando tra le pareti divisorie, urtando corpi sezionati, spesso sul punto di sparare contro attaccapanni a stelo. Toulbeyev recitava sottovoce una litania che sosteneva essere una preghiera giapponese contro i morti malevoli: «Sanyo, sony, seiko mitsubishi, panasonic, toshiba...»
Dovettero giungere fino nel centro esatto della piscina. Gli amerikani si trovavano nel cubicolo di Kozintsev, gli occhi fissi sulla testa di osso e creta come se fosse stata una televisione a colori. Rasputin era in cima al suo supporto, nascosto sotto un panno protettivo nero i cui lembi ricadevano verso il basso come capelli. Chirkov trovò insopportabile la contemporanea presenza di Rasputin e degli amerikani e, quasi per riflesso, sparò, colpendo alla testa lo scheletro. Il colpo risuonò fragoroso nella piscina. Lo scheletro crollò a terra smembrandosi e prima che le orecchie di Chirkov smettessero di fischiare altri accorsero sul luogo per investigare l'accaduto. Il direttore Kozintsev temeva che il suo prezioso monaco fosse stato danneggiato e si affrettò a controllare sotto il panno nero. Valentina era irritata per la perdita di uno dei suoi esemplari, ma tenne a freno la lingua, soprattutto a seguito della violenta reazione dell'amerikano superstite. Il morto si scagliò fuori dal cubicolo, abbattendo pareti divisorie, facendosi largo tra lettighe e tavoli, ringhiando e schiumando. Tarkhanov, improbabile nella sua vestaglia di seta, ostacolò il cammino dell'amerikano e riportò un brutto morso. Fu Toulbeyev a eliminarlo, sgambettandolo con il manico di un'accetta, montandogli a cavalcioni sul petto e affondandogli uno scalpello nel setto nasale. L'amerikano non sembrava affatto confermare le teorie di Valentina; dopo il periodo passato in cattività appariva semplicemente più decomposto, non certo più evoluto. Valentina sostenne che la creatura abbattuta da Chirkov era stata un modello di efficienza biologica ridotto alle componenti essenziali, potenzialmente immortale. Ora era poco più che un cumulo di ossa.
Anche Kozintsev, impegnato nella costruzione di un paio di braccia di legno per la sua adorata testa rianimata, fu allarmato dalle dimensioni della coda che si era formata. Gli amerikani erano ormai disposti in quattro file e si muovevano costantemente, battendo a terra i piedi privi di terminazioni nervose come per combattere il freddo. Il capitano Zharov fece allestire una mitragliatrice nell'androne a coprire il portone, ora sbarrato; si trattava in realtà di un'azione dimostrativa in attesa di reperire nastri di munizioni dello stesso calibro dell'arma. Chirkov e Toulbeyev osservavano gli amerikani da una balconata. La coda era ordinata; quando uno degli amerikani in stato di decomposizione troppo avanzato crollava a terra, come di tanto in tanto accadeva, veniva calpestato dall'avanzata di tutti quelli alle sue spalle. Toulbeyev studiava i morti a uno a uno con un binocolo ed elencava i tesori che riusciva a distinguere. Telefoni cellulari, orologi digitali, jeans, giacche di pelle, braccialetti d'oro, denti d'oro, penne a sfera. La piazza si era trasformata in un purgatorio per borseggiatori. Al calare della notte nessuna luce si accese, neppure al Cremlino.
Al ritorno della corrente le frequenze radio di emergenza trasmettevano solo musica soave. La riunione serale registrò meno presenze del solito e Chirkov si rese conto che le scomparse di volti si erano succedute con regolarità, dovute a diserzione o sfinimento. Il dottor Dudnikov annunciò di non essere stato in grado di contattare alcuna autorità per telefono. Lyubashevski riferì che il centro termale era stato sollevato dalla minaccia di demolizione, che difficilmente si sarebbe ripresentata; tuttavia, potevano ora insorgere spiacevoli effetti collaterali nel caso in cui l'istituzione fosse formalmente ritenuta null'altro che un cumulo di macerie. Le cucine avevano ricevuto una fornitura di pesce fresco, motivo di grandi festeggiamenti, ma il capocuoco giudicava strano il fatto che molti dei pesci si muovessero ancora e neppure la decapitazione sembrava sufficiente a placarli. Valentina fece richiesta, per la centesima volta, di catturare nuovi esemplari da studiare, richiesta che venne frustrata dalla votazione, più combattuta del solito ma comunque inappellabile. Venne messo a verbale il suicidio di Tarkhanov e gli scienziati resero omaggio al collega che tutti credevano fermamente una spia, elencando i suoi meriti e le onorificenze ricevute. Toulbeyev propose una sortita per privare gli amerikani degli oggetti che potevano essere utilizzati come merce di baratto, ma nessuno si sentì di assecondarlo, fatto che fece piombare il caporale in uno stato di notevole e imbronciata depressione. Infine, come previsto, Kozintsev riferì dei progressi compiuti in giornata con Grigori Efimovich. Aveva riscosso un buon successo nel dotarlo di braccia, creando rudimentali spalle articolate, inchiodandole al supporto e ricoprendole con strati di muscoli in corda e creta direttamente collegati al collo che aveva già modellato. La testa era in grado di controllare autonomamente le braccia protendendole e contraendo fasci muscolari all'altezza dei polsi, come a stringere pugni che, al momento, non esistevano ancora. Il direttore fu anche felice di riferire che la testa produceva in continuazione suoni facendo vibrare lo scacciapensieri, mostrando il chiaro desiderio di parlare o di cantare. Quasi a voler confermare i poteri di guaritore del monaco, Kozintsev annunciò di essere quasi completamente guarito dalla sinusite che da tempo lo affliggeva.
Due giorni più tardi Toulbeyev fece entrare gli amerikani. Chirkov non aveva idea di che cosa lo avesse spinto a farlo; si limitò semplicemente ad alzarsi da dietro la mitragliatrice, attraversare l'androne e rimuovere le sbarre al portone. Chirkov non tentò di bloccarlo, impegnato nel vano sforzo di inserire nella mitragliatrice un nastro di cartucce di calibro sbagliato. Quando ebbe aperto tutti i catenacci, Toulbeyev spalancò le porte e si scostò di lato. Il primo della fila, fin dalla notte in cui avevano catturato gli esemplari per Valentina, era l'ufficiale dell'esercito. Nell'attesa gli si era deteriorato il volto e la carne staccatasi dalle guance era ricaduta verso il basso a formare due borse simmetriche all'altezza della mascella. Fece un elegante e marziale passo in avanti, entrando nell'androne. Lyubashevski si svegliò e, alzando la testa dalla branda dietro il banco dell'accettazione, domandò ad alta voce che cosa stesse succedendo. Toulbeyev staccò una manciata di medaglie dal petto dell'ufficiale e le appoggiò a terra dopo averle rapidamente ispezionate. L'ufficiale avanzò, con passo zoppicante ma risoluto, in direzione degli ascensori. Poi toccò alla donna con il gessato. Toulbeyev le prese il cappello e se lo piazzò in testa. Quelli che seguirono vennero alleggeriti dal caporale di un bracciale identificativo a catenella d'argento, di una cintura di cuoio intrecciato, di una calcolatrice tascabile e di una vecchia spilla. Raccolse tutti i pegni d'entrata in un cumulo sul pavimento. Gli amerikani si accalcarono nell'androne, formando un cuneo nell'ingresso alle spalle dell'ufficiale.
Chirkov temeva che i morti l'avrebbero divorato e si pentì di non aver fatto un serio tentativo di portare a letto il membro del personale tecnico Sverdlova. Aveva ancora due colpi nel tamburo del revolver, che gli avrebbero consentito di eliminare un solo amerikano prima di assicurarsi in prima persona la pace eterna. Ce n'erano troppi tra cui scegliere, ma nessuno sembrava interessarsi a lui. Erano tutti diretti al piano inferiore, alla piscina, dove qualcosa sembrava esercitare su di loro un'attrazione irresistibile. Toulbeyev ridacchiava esultante e si gongolava a ogni nuovo tesoro, a volte complimentandosi con i morti con pacche sulle spalle mentre gli consegnavano le loro ricchezze, e arrivando addirittura ad abbracciare una o due delle creature più inoffensive. Lyubashevski era evidentemente disgustato, ma non fece nulla. Ci volle del tempo perché la sua irritazione montasse a un livello tale da spingerlo a impartire un ordine: ordinò a Chirkov di informare il direttore degli ultimi sviluppi. Dal momento che Kozintsev, come sempre, era al lavoro nella piscina, Chirkov non dubitava che ben presto il direttore sarebbe comunque stato perfettamente al corrente delle novità. Scattò tuttavia sull'attenti e si fece largo tra la folla, reprimendo l'istinto di chiedere scusa al suo passaggio. Gli amerikani perlopiù si scostavano, permettendogli di giungere in capo all'ondata di cadaveri che stava scendendo le scale verso il piano inferiore. Sbucò in testa al gruppo e fece il suo ingresso nella piscina, urlando a tutti che stavano arrivando gli amerikani. I ricercatori alzarono lo sguardo - vide gli occhi di Valentina colmarsi di irritazione e si domandò se non fosse troppo tardi per proporle di fare sesso con lui - e la folla si accalcò alle spalle di Chirkov, avvicinandosi al ciglio della vasca.
Lui saltò dentro e avanzò tra il mobilio rovesciato verso il cubicolo di Kozintsev. Molte delle pareti divisorie erano già state abbattute a creare un corridoio che conduceva direttamente al locale del direttore. Valentina gli mostrò il broncio, poi sgranò gli occhi alla vista della foresta di gambe che si stava raccogliendo ai bordi della vasca. Gli amerikani cominciarono a cadere giù, schiacciando con il loro peso cadaveri e attrezzature, molti di loro incapaci di rialzarsi in piedi. I più resistenti e determinati continuarono a camminare, circondando e travolgendo il personale tecnico. Urla strozzate riecheggiarono tra le pareti della piscina e sul pavimento piastrellato cominciò a scorrere il sangue. Chirkov sparò un colpo all'impazzata, staccando l'orecchio a un morto con la barba che indossava un abito vecchio e liso, poi proseguì nel tentativo di raggiungere Kozintsev. Quando giunse nel centro della vasca la sua prima impressione fu che il cubicolo fosse vuoto. Poi si rese conto di quanto era riuscito a fare il direttore. Scegliendo di diventare tutt'uno con la sua creatura, V.A. Kozintsev aveva costruito un mezzo scheletro che ora si era posizionato sulle spalle, facendo della propria testa il cuore del nuovo corpo che aveva voluto dare a Rasputin. La testa, che aveva assunto proporzioni gigantesche a seguito delle esagerate applicazioni di muscoli in gomma e creta, indossava la parrucca nera e la barba posticcia, e aveva le labbra coperte di chiazze di pelle applicata a spray. La parte superiore del corpo era lignea e intricata, il torso di un gigante con braccia debitamente proporzionate, mentre la parte inferiore consisteva nelle smagrite gambe da mantide del direttore. Chirkov avrebbe giudicato il corpo incapace di reggersi in piedi, ma vide con i propri occhi che riusciva a restare in posizione eretta. Alzò lo sguardo alla caricatura del volto di Rasputin. Nelle orbite brillavano due occhi azzurri, non più vitrei ma veri.
Valentina giunse al suo fianco, ansimante. Lui la cinse con un braccio e giurò che, in caso di necessità, avrebbe usato per lei il proiettile che aveva conservato per sé. Inspirò il profumo dei suoi capelli. Insieme alzarono la testa a guardare il maniacale santone che aveva avuto in pugno una donna e, attraverso lei, un impero, determinando alla fine la distruzione di entrambi. Rasputin ricambiò il loro sguardo, poi si voltò verso gli amerikani. Affollavano ordinatamente il cubicolo, pellegrini barcollanti in visita a un santuario. Un terribile sorriso distorse i connotati del volto. Un braccio si protese in avanti e la dita della mano grande come una pagaia, fatte di strumenti chirurgici, si allargarono. La mano si posò sulla fronte del primo degli amerikani, l'ufficiale dell'esercito. Gli coprì per intero il volto, stringendogli le dita attorno alla testa. Rasputin dava l'impressione di essere forte abbastanza da schiacciare il cranio dell'amerikano, ma si limitò a tenerlo stretto nella sua presa. Alzò gli occhi al grande lampadario e da un punto all'interno del collo in legno e creta si diffuse un suono metallico e risonante, una vibrazione monotona che sembrava una sorta di inno sacro. Mentre il suono risuonava nell'aria l'amerikano nelle grinfie del monaco si scosse, perdendo pezzi di carne putrida come i veli esterni di una cipolla. Alla fine Rasputin liberò la creatura, spingendola via. L'uniforme era scomparsa, insieme con tutta la carne. Era ridotta come lo scheletro studiato da Valentina, ma era più magra, più umida, più forte. Raddrizzò la schiena e si stiracchiò, curata delle proprie infermità, la caviglia perfettamente guarita. Digrignò i denti, producendo una smorfia da bottega degli orrori, poi balzò via, affamata di carne umana. Il secondo amerikano prese il posto dell'ufficiale sotto la mano di Rasputin, e anche egli venne guarito. E così il successivo.
Le rovine di Contracoeur
di Joyce Carol Oates
Joyce Carol Oates è un autentico fenomeno nel mondo dell'editoria. La lista dei suoi scritti pubblicati è di gran lunga troppo estesa per essere riportata qui; ogni settimana può capitare di leggere un suo pezzo nel New Yorker, una recensione nel New York Times, o ancora un nuovo romanzo, una raccolta di racconti, una raccolta antologica, un libro sul pugilato o un pezzo teatrale. Anche volendo prendere in considerazione solo il suo lavoro nel campo dell'horror il nostro compito non risulta meno arduo; comunque sia, non possiamo non citare la sua raccolta Haunted: Tales of the Grotesque, l'antologia American Gothic Tales e il romanzo Zombie, vincitore del Bram Stoker Award e del World Fantasy Award.
Tra gli altri recenti lavori di Joyce Carol Oates che esulano dall'horror ricordiamo le saghe familiari Bellefleur e We Were the Mulvaneys.
«Le rovine di Contracoeur» è un racconto di grande atmosfera, denso di tetraggine poetica, al tempo stesso commovente e inquietante; si tratta del primo racconto che ricevetti per questa antologia e, nonostante il tempo trascorso dalla prima lettura, conserva tuttora la capacità di turbarmi.
1. Il primo avvistamento: la cosa senza volto
Fu in giugno, poco tempo dopo l'inizio del nostro esilio a Contracoeur. Nella mortale immobilità di una notte illuminata da una luna fredda e spettrale. Non erano passati neppure dieci giorni da quando le nostre vite erano state sconvolte; da quando nostro padre, sconfitto e in disgrazia, sradicò la famiglia dal palazzo del governo dello stato per portarla a vivere tra le rovine di Cross Hill, la tenuta del suo bisnonno ai piedi dei Monti Chautauqua. Rimanete al mio fianco, bambini. Dovete credere in me! Sarò redento. Mi riscatterò con le mie forze. Mio fratello Graeme, tredici anni, irrequieto, insonne e infelice, si aggirava nel buio del piano inferiore della casa come un gatto selvatico in trappola. In pigiama, scalzo, incurante del pericolo di urtare le dita dei piedi contro le gambe di sedie e tavoli nascosti dalle tenebre; indifferente alla possibilità che al piano di sopra, nella cameretta che condividevano, il fratellino Neale, che piangeva e digrignava i denti nel sonno, potesse svegliarsi di soprassalto e trovare vuoto il letto di Graeme, spaventandosi. Noncurante del disappunto che il suo comportamento sprezzante avrebbe destato nei nostri genitori, ancora alle prese con il trauma del trasloco a Cross Hill e la vergogna della loro nuova vita. Di giorno e di notte Graeme esprimeva il suo scontento con parole pronunciate e parole silenziose. Odio questo posto! Perché siamo qui? Voglio tornare a casa! Graeme era un ragazzino dalla carnagione pallida e giallastra, viziato, petulante e indubbiamente immaturo per la sua età: i suoi occhi si riempivano di pungenti lacrime di rabbia e autocommiserazione. Era gracile, aveva le ossa piccole; a casa aveva avuto l'abitudine di passare buona parte del suo tempo navigando nel ciberspazio e aveva avuto solo pochi amici, compagni di scuola dell'istituto privato che frequentava, anche loro abili con il computer; non era mai stato portato per le attività fisiche, né era avventato o coraggioso come il fratello maggiore Stephen. Ora rabbrividiva per il freddo, aggirandosi nel suo leggero pigiama di cotone come un predatore per le stanze sconosciute della grande casa ereditata da nostro padre; vagando furtivamente nella vecchia casa dai soffitti alti, trascurata e percorsa dalle correnti d'aria, come in una tomba in cui lui, il figlio di suo padre, il figlio di un uomo in esilio, era stato ingiustamente confinato. Quella sera nostra madre era venuta nelle nostre camere a darci il bacio della buonanotte, la mamma, con indosso un'ampia vestaglia di seta chiara che tradiva il suo dimagrimento, e i capelli, in passato bellissimi e lucidi, che le ricadevano disordinatamente sulle spalle, spenti e striati di grigio. Ci aveva accarezzato i volti con le dita sottili, mormorando: «Bambini, non siate infelici, ve ne prego. Dovete ricordare che vi vogliamo bene, che vostra madre e vostro padre vi amano. Cercate di essere felici qui a Cross Hill, cercate di dormire tranquilli in questi letti nuovi ed estranei; fatelo per noi». Graeme aveva accettato il bacio della mamma ma era rimasto sveglio per ore, i suoi pensieri in un turbinio di risentimenti e timori per le sorti di papà. Alla fine, agitato, era sceso silenziosamente dal letto, che non era (si ripeteva amaramente) il suo, ma un letto preso in prestito, scomodo e odorante di lenzuola umide e muffa. Non riesco a dormire! Non voglio dormire! Non dormirò mai più!
Ogni ora, ogni giorno e ogni notte non passava un solo minuto in cui noi, figli di un uomo sconfitto e in disgrazia, non avvertivamo la sventura della nostra condizione.
Perché tutto questo? Perché a noi?
Graeme scese lentamente la scalinata, i cui gradini cedevano leggermente sotto il suo pur modesto peso di quaranta chili. Immaginò le pupille dei suoi occhi che si dilatavano nel buio, scaltre e luminose come quelle di una civetta. La mortale immobilità delle ore dopo la mezzanotte. Il chiaro di luna penetrava obliquamente attraverso le finestre protette da inferriate sul lato orientale della casa. Nelle vicinanze il richiamo degli uccelli notturni; un assiolo; gli svassi sul lago; il mormorio del vento. Graeme rabbrividì; la casa sembrava perennemente percorsa da un vento freddo che soffiava da nord, dalla direzione del lago Noir. Perché sono stato attratto a vedere quello che non avevo alcun desiderio di vedere? Perché io, Graeme? Rimase disorientato per un istante dalle dimensioni dell'ingresso della casa, più grande di quanto apparisse di giorno, e dal doloroso contatto dei piedi sul gelido pavimento di marmo; e poi dalla vastità del locale oltre l'ingresso, una delle stanze pubbliche, così venivano chiamate, arredata solo in parte da sporadici mobili coperti da spettrali lenzuola bianche; una stanza caratterizzata da tappeti orientali saturi di polvere e dall'acre odore di muffa, di marcio, delle carogne essiccate dei topi nelle pareti. Il soffitto era così innaturalmente alto che pareva perdersi nella penombra, dalla quale pendevano lampadari che davano l'impressione di galleggiare nelle tenebre; una stanza tanto grande che si sarebbe detta priva di pareti, pronta a fondersi con il buio del parco invaso dalle erbacce. Graeme era convinto che la stanza fosse molto più piccola di giorno. O forse si era avventurato in una parte sconosciuta della casa? Perché in effetti eravamo ancora forestieri, a Cross Hill, e abitavamo solo alcune delle stanze della vecchia e imponente dimora.
Fu a quel punto che Graeme vide qualcosa muoversi sul prato all'esterno.
Dapprima fu certo che si trattasse di un animale. Perché Contracoeur sorgeva in una regione selvatica, riccamente popolata da cervi, procioni, volpi, addirittura linci e orsi; avevamo sentito dire che quella primavera erano stati avvistati alcuni orsi bruni nel centro di Contracoeur. A giudicare dalla postura eretta della figura sul prato, che ora passava lentamente davanti alle finestre della terrazza, doveva trattarsi effettivamente di un orso, pensò Graeme; il suo battito cardiaco accelerò. Eravamo stati avvertiti della presenza di orsi a Cross Hill, ma non ne avevamo ancora avvistati. Graeme si avvicinò a una delle finestre della terrazza e guardò colmo di eccitazione il passaggio della misteriosa figura a non più di una decina di metri da lui. Oltre la terrazza, lastricata di pietre ormai spaccate e frantumate, c'era un boschetto di olmi cinesi, danneggiati dalle tempeste dell'inverno precedente; alle spalle dell'olmeto correva una stradina sterrata, Acacia Drive, che in quel punto si biforcava per aggirare una fontana. La figura camminava lungo la stradina al chiaro di luna, in direzione del lago, allontanandosi dalla casa; procedeva a schiena dritta, rigida, troppo eretta, concluse Graeme, per essere un orso. E la sua camminata era ritmica e per nulla affrettata, diversa dall'andatura dinoccolata e ondeggiante degli orsi.
Quello che Graeme fece allora non rientrava affatto nel suo carattere: aprì silenziosamente la portafinestra che dava sulla terrazza e uscì all'esterno, ritrovandosi il fiato mozzato dall'aria fredda e pungente; si accovacciò dietro la ringhiera della terrazza per seguire con lo sguardo la figura che si allontanava. Un trasgressore del divieto di accesso ai terreni che circondavano Cross Hill? Ma chi poteva essere, a una tale distanza dal paese e dall'abitazione più vicina? Un cacciatore? (Eppure Graeme ebbe l'impressione che la figura non imbracciasse alcun fucile.) Non poteva certo trattarsi del canuto giardiniere che abitava in paese. Né certamente di nostro padre. E neppure del sedicenne Stephen. La figura era più alta e più massiccia di tutti loro; più alto, si rese conto con terrore Graeme, di qualsiasi altro uomo avesse mai visto prima.
Mentre Graeme la fissava dal suo precario nascondiglio dietro la ringhiera, la figura si arrestò bruscamente, come se avesse percepito la sua presenza; sembrò voltarsi in direzione di Graeme, con la testa inclinata, come ad annusare l'aria. Un raggio di luna lo illuminò e lo rivelò per quello che era: un essere senza volto.
Non un uomo, ma una cosa. Una cosa senza volto.
Graeme si premette la mano sulla bocca per impedirsi di emettere un grido di orrore. Le sue ginocchia si erano fatte di burro; doveva resistere all'istinto di alzarsi e scappare via a gambe levate per non attirare su di sé l'attenzione della cosa.
La testa della figura era di forma vagamente umana, ma più grande e oblunga, con la mascella più pronunciata. I capelli sembravano scuri, attorcigliati, trascurati. La postura eretta e a schiena rigida ricordava quella di uomini dal portamento esageratamente marziale. Eppure, dove avrebbe dovuto esserci un volto... non c'era nulla.
Un grezzo e indefinito involucro di pelle su carne che appariva brutalmente plasmata con una cazzuola. Solo accenni di rientranze laddove avrebbero dovuto trovarsi gli occhi, le narici e la bocca; forse ospitavano minuscoli orifizi, troppo piccoli per essere visti da Graeme. Non osava guardare; si era appiattito sulla lastricatura della terrazza cercando riparo dietro il muretto come un bambino terrorizzato.
Respirava in fretta, in modo affrettato. No! No! pensava. Non ho visto nulla! Sono solo un bambino, non farmi del male!
Si svegliò dopo qualche tempo, stordito, ancora colmo d'angoscia; aveva nella bocca il sapore acre e nauseabondo della bile. Doveva aver perso conoscenza... doveva essere svenuto per la paura. Era stato terrorizzato al punto da non riuscire più a respirare! E lo era ancora.
Osò sollevare la testa... lentamente. Cautamente. La luna era velata da nuvole evanescenti come pensieri fugaci. Nel boschetto di olmi cinesi tutto taceva; la stradina sterrata e invasa dalle erbacce chiamata Acacia Drive era deserta; nessun movimento, solo il perpetuo, instancabile ondeggiare dell'erba alta al vento. La natura stessa sembrava essere stata zittita da una terribile visione.
La «Cosa senza volto» era scomparsa nella notte.
2. In esilio
A Cross Hill, dove l'eterno e molesto vento proveniente dal lago Noir soffiava verso sud spazzando le nostre vite.
Nel luogo in cui esiliato, in disgrazia e temendo per la propria vita, nostro padre aveva portato la sua famiglia, moglie e cinque figli, perché vivessero nelle rovine della casa che era stata del suo bisnonno; circondata da trentasei ettari di terra trascurata nella regione rurale di Contracoeur, all'estremità orientale della catena dei Monti Chautauqua.
Il Monte Moriah, a diciotto chilometri in linea d'aria verso ovest. E il Monte Provenance a trentadue chilometri in direzione sud.
Dove milioni di anni prima giganteschi ghiacciai si erano estesi verso sud dal Polo Nord come creature rapaci viventi, rivoltando la terra e conferendole forme da incubo: picchi, precipizi, creste, dorsali, ripidi burroni, anguste valli e pianure alluvionali. Dove la domenica di Pasqua o anche a metà maggio era possibile che nevicasse, e a metà agosto l'aria della notte aveva già il sapore dell'autunno, dell'inverno imminente.
A Cross Hill, fatta costruire nel 1909 da Moses Adams Matheson, un ricco industriale tessile, in cima a un declivio risalente al periodo glaciale, cinque chilometri a sud del lago Noir (così chiamato perché le sue acque, benché pure e trasparenti come acque di sorgente quando, per esempio, vengono esaminate in un bicchiere, irradiano in massa un inspiegabile e tenebroso fulgore, opaco come la pece) e otto chilometri a est di Contracoeur (un paese di campagna con ottomilacinquecento abitanti) sulle sponde del fiume Black River. Dimora battezzata «Cross Hill» perché in tipico spirito neoclassico, la casa era stata costruita a forma di croce tronca, con pietra calcarea e granito rosa; ora, trascurata da decenni (perché il figlio e unico erede di Moses Adams Matheson non aveva mai desiderato abitarla), appariva spoglia e derelitta come una vecchia nave ammiraglia alla deriva in un mare di erba incolta, cardi e arboscelli.
Ci sarebbero voluti almeno centomila dollari, stimò mestamente papà, per rendere Cross Hill «abitabile da esseri umani»; quasi altrettanto per riportare il parco alla sua originaria bellezza (che papà aveva conosciuto solo in fotografia). Ma noi non avevamo centinaia di migliaia di dollari. Eravamo stati «ridotti in miseria: poveri». A Cross Hill saremmo stati costretti a vivere «come squatter», in poche stanze, il resto dell'enorme casa lasciata chiusa e vuota. E dovevamo essere grati, ci avvertì severamente papà, per quello che avevamo: «L'eredità lasciatami dal nonno: un rifugio».
Rifugio temporaneo, naturalmente. Perché Roderick Matheson intendeva dimostrare la sua innocenza e tornare al Campidoglio. Dando tempo al tempo.
Alla vista delle rovine di Cross Hill quel primo fatidico pomeriggio, sotto una pioggia battente, le ruote della station wagon impantanate che giravano a vuoto nel fango del vialetto, la mamma scoppiò in lacrime e pronunciò parole amare: «Io morirò in questo posto! Come puoi portarmi qui? Non ce la farò a sopravvivere». I bambini più piccoli, Neale ed Ellen, cominciarono immediatamente a piangere a loro volta. Ma papà si voltò subito e afferrò la mamma per un polso, per confortarla, o forse per zittirla; sentimmo la mamma inspirare di colpo. Papà, con voce pacata e rassicurante, disse: «No, Veronica: tu non morirai. Nessuno di noi Matheson morirà. Sarebbe solo un'altra vittoria per loro. Per i miei nemici».
I suoi nemici: alcuni dei vecchi collaboratori e colleghi di papà, tra cui amici suoi e della mamma, che l'avevano tradito per ragioni di convenienza politica; che avevano giurato il falso in una campagna tesa a svilire e distruggere la sua carriera; che avevano avuto un ruolo nell'emissione dei mandati di arresto nei suoi confronti.
Questi sono i fatti. Noi bambini ne sapevamo ben poco all'epoca e dovemmo ricostruire l'accaduto in seguito. Eravamo tenuti all'oscuro di molte cose. C'erano tante informazioni proibite.
Nell'aprile di quell'anno, poco dopo il suo quarantesimo compleanno, il giudice Roderick Matheson, nostro padre, venne arrestato nel suo ufficio della corte d'appello dello stato.
All'epoca dell'arresto, ampiamente pubblicizzato, era uno dei più giovani tra gli undici giudici della corte e di certo quello per cui si prevedeva il futuro più brillante.
Roderick Matheson rimase in custodia cautelare per dodici giorni nel carcere statale a meno di un chilometro e mezzo dalla corte d'appello. Gli venne permesso di ricevere visite solo dal suo avvocato e dalla moglie, sconvolta dagli eventi.
Poi, all'improvviso, venne scarcerato.
E fu costretto a dimettersi dalla carica di giudice. E a versare allo stato buona parte dei suoi risparmi e investimenti. La famiglia sprofondò nei debiti; in modo repentino, nel volgere di ventiquattro ore. Lui e la mamma vennero costretti a vendere la loro casa nel quartiere residenziale più prestigioso della capitale; e il cottage estivo sulla costa atlantica, a Kennebunkport, nel Maine; e tutte le numerose auto che possedevano, tranne una, oltre allo yacht, naturalmente; e le pellicce della mamma, con alcuni dei suoi gioielli più preziosi e altri effetti di valore. «Perché?» chiedevamo noi bambini, e la mamma rispondeva amareggiata: «Perché i nemici di vostro padre sono invidiosi di lui, perché sono uomini feroci che si sono messi d'accordo per rovinarlo».
Ci era vietato porre altre domande. Ci era proibito leggere i giornali o le riviste, guardare la televisione o ascoltare la radio. Quando papà venne arrestato, la mamma ci allontanò immediatamente dalla scuola privata che frequentavamo e ci vietò di comunicare anche con i nostri amici più cari per telefono o posta elettronica. La mamma ci voleva sempre in casa, voleva sapere dove ci trovavamo in ogni istante della giornata, diventava isterica se qualcuno di noi si assentava e furiosa quando rientravamo. A casa si chiudeva in camera per parlare al telefono, rimanendo attaccata al ricevitore per ore. (Parlava con papà? Con gli avvocati di papà? Con i suoi avvocati? In effetti, per un periodo prese corpo la possibilità di una separazione, del divorzio.) La voce acuta, stridula, lamentosa, perentoria, incredula, tremula della mamma risuonava alta come non l'avevamo mai sentita prima. «Com'è possibile che mi stia succedendo questo? Dio sa che non me lo merito! Dio sa che io sono innocente! E i miei bambini... che cosa ne sarà della loro vita, adesso?»
Eravamo bambini viziati, trattati con indulgenza. All'epoca non ce ne rendevamo conto, neppure Graeme ne era consapevole, ma eravamo i figli viziati di genitori ricchi, potenti, socialmente ambiziosi. Anche i gemelli Neale ed Ellen, dieci anni, con i loro volti dolci e innocenti e gli occhi sempre pieni di meraviglia, lo erano. Avevamo una vita privilegiata fatta di vestiti, computer, lezioni private (tennis, danza, equitazione), dell'orgoglio di sapere che eravamo figli del giudice Roderick Matheson, di cui tanto si parlava; le nostre vite sembravano appartenere a un film, non alla realtà; vite mutate all'improvviso e in modo irrevocabile come quelle dei bambini visti di sfuggita alla televisione, vittime di disastri naturali, terremoti, carestie, guerre. E lo stesso aspetto aveva papà quando tornò da noi, il ciuffo castano chiaro sulla fronte ora striato di grigio, le guance scavate, gli occhi vitrei e la bocca, un tempo elegante, ridotta a qualcosa di informe e schiacciata. Come un uomo che un tempo era stato un principe, sopravvissuto, ma solo a stento, a una calamità naturale.
Ci ritiravamo davanti a lui, come ci ritiravamo davanti alla mamma. Avevamo paura degli sbalzi di umore della mamma. Talvolta sembrava guardarci senza vederci, gli occhi sgranati colmi di paura e angoscia, quegli occhi verdi e nocciola un tempo splendidi e ora gonfi per le lacrime versate; altre volte correva ad abbracciarci, emettendo gridolini di dolore: «Oh, Dio! Oh, Dio! Che cosa faremo?» In queste occasioni la mamma sapeva di profumo dolce misto a sudore; il suo alito odorava di... che cosa? Vino? Bourbon? A volte cercava di offrire conforto a noi, ai suoi bambini; a volte pareva cercare conforto lei stessa; a volte era arrabbiata con papà, o con i suoi nemici; a volte, per motivi che non riuscivamo a comprendere, era arrabbiata con noi. E soprattutto con Rosalind, che a quattordici anni e mezzo, una ragazza dinoccolata, con braccia e gambe lunghe e le sopracciglia corrucciate, aveva l'atteggiamento testardo di chi sembra pensare solo per sé, aggrottando la fronte e serrando le labbra, appartandosi silenziosamente in quello spazio dove neppure una madre può penetrare. E così quando Rosalind, alta ormai quasi come la mamma, si irrigidiva tra le sue braccia, la mamma si tirava indietro e la fissava negli occhi, afferrandola per le spalle con le unghie rosse, lucide e affilate come artigli, per poi spingerla via da sé: «Che cos'hai? Perché mi guardi così? Come osi guardare me, tua madre, a quel modo!»
Il bel volto della mamma come una maschera. Una maschera di porcellana cosmetica. Una maschera che poteva infrangersi all'improvviso, come fatta di vetro, se il sangue prendeva a batterle troppo furiosamente nelle vene.
Dunque Rosalind si ritraeva da lei, andava a rifugiarsi, a nascondersi in qualche angolo di Cross Hill. Pensando che mai, mai e poi mai sarebbe cresciuta per diventare una donna tanto bella e arrabbiata quanto la mamma.
Ma fu il cambiamento di papà che ci spaventò. Se un tempo il giudice Roderick Matheson si era mostrato sempre impeccabilmente vestito, i capelli ben pettinati, non lasciandosi mai vedere, neppure brevemente, con indosso indumenti che non fossero freschi di bucato, ora portava spesso abiti stropicciati, si passava violentemente le mani tra i capelli, si radeva (così concludemmo) in modo tanto trascurato da lasciarsi la pelle dolorante, arrossata; era ancora lui, papà, e il suo volto era ancora quello tante volte fotografato, ma sembrava che una persona più vecchia, più dura, distrutta stesse tentando di prendere il suo posto. I suoi occhi, di un marrone liquido, solitamente caldi e suadenti, erano ora vitrei e opachi, la bocca contorta come se fosse impegnato a litigare con se stesso.
Papà era un uomo ferito e innocente. Un uomo tradito, cacciato, perseguitato dai suoi nemici e dai media «voraci, insaziabili, privi di qualsiasi scrupolo», ragione per cui non ci era permesso leggere i giornali o guardare la televisione. Papà era un uomo arrabbiato e, a volte, dovemmo ammetterlo, pericoloso. Al pari della mamma, anche lui era soggetto a improvvisi sbalzi di umore: ora angosciato, ora furioso; ora ottimista, ora nervoso; ora in ansia per la famiglia, ora afflitto per se stesso e per la propria carriera rovinata; ora giovanile, vigoroso, ora amareggiato e invecchiato.
A tavola, ricorrendo alla voce che usava per i discorsi, come se si stesse rivolgendo anche ad altri, non solo a noi, ci esortava: «Mia cara moglie, miei cari bambini. Statemi vicino! Un giorno molto vicino ritorneremo alla vita che ci spetta di diritto. Io riscatterò il nome dei Matheson, riscatterò tutta la nostra famiglia, lo giuro. Sono pronto a sottoscrivere questo giuramento con il mio stesso sangue».
Il volto arrossato dal vino, gli occhi ridotti a due fessure, papà prendeva la forchetta e, prima che la mamma potesse impedirglielo, se la conficcava nel dorso della mano, come se stesse infilzando una piccola e glabra creatura che si fosse inspiegabilmente e furtivamente avvicinata, strisciando, al suo piatto.
Noi sobbalzavamo, inorriditi, ma non osavamo emettere alcun suono. Ci veniva richiesta una risposta mormorata: «Sì, papà. Sì». Perché piangere in simili occasioni avrebbe irritato papà, secondo cui le lacrime in realtà avrebbero tradito il fatto che, a dispetto della nostra pronta risposta, non credevamo alle nostre stesse parole.
«È come se fosse morto, non credi? In prigione. I suoi occhi...»
Fu dopo una delle strane e appassionate scenate di papà a tavola che Stephen fece il suo commento, con voce strascicata, diversa dal solito; Stephen, la cui vita prima dell'arresto di papà era stata fatta di calcio, football americano, pallacanestro, videogiochi sportivi e brillanti amicizie in rapida evoluzione con compagni e compagne di classe; Stephen, bello come lo era stato da ragazzo Roderick Matheson, con lo stesso viso aperto del padre, gli stessi zigomi alti e ben disegnati.
Graeme scrollò le spalle e se ne andò.
Rosalind insultò Stephen con qualche parola rapida e cattiva, chiamandolo «stronzo ignorante», prima di allontanarsi anche lei.
Dopodiché, quella notte non riuscì a prendere sonno. In preda all'angoscia, affondava il volto nel cuscino umido di lacrime. È possibile che gli occhi muoiano? si domandava. Possono morire gli occhi di un uomo? Mentre il resto continua a vivere? Una domanda che si ripeté durante tutta quella interminabile notte, stregata dal vento come ogni notte in quel terribile luogo che odiava con tutte le forze, un luogo così isolato, così distante dagli amici e dalla vita che Rosalind Matheson aveva amato; svegliandosi di soprassalto all'immagine degli occhi vitrei e venati di rosso di nostro padre, che la fissavano nel buio come se fosse stato ricurvo sopra di lei, sopra il suo letto.
Dio, ti prego, aiutalo a dimostrare la sua innocenza. A riscattare il suo nome. Aiutalo a recuperare tutto quello che ha perso. Rendici di nuovo felici, rendici di nuovo noi stessi, riportaci alla nostra vera casa e rendici di nuovo orgogliosi di portare il nome Matheson.
3. Sulle rive del lago Crescent
Un mattino soleggiato e ventoso! Su uno dei sudici vetri delle finestre della sala della prima colazione si allargava una ragnatela di spaccature e all'esterno, sulla terrazza, giacevano foglie e rami d'albero, che frusciavano al vento come oggetti animati e feriti. «Dov'è Graeme?» ci domandammo l'un l'altro.
«Dov'è Graeme?» chiese la mamma con occhi irritati e preoccupati.
Perché Graeme non si era unito a noi per la colazione? Si era svegliato prima di noi, si era vestito ed era sparito. Così aveva raccontato ansiosamente il piccolo Neale.
Eppure Graeme doveva essere da qualche parte all'interno della casa. E rimaneva testardamente in silenzio ai nostri richiami. «Graeme! Dove sei?»
Da quando ci eravamo trasferiti a Cross Hill e avevamo dovuto lasciarci alle spalle la nostra vecchia vita, Graeme era sprofondato in una rabbiosa malinconia. Le sue costose apparecchiature informatiche non funzionavano in quella rovina di casa: l'impianto elettrico e le linee telefoniche erano inadeguate. A quanto pareva, nella grande camera da letto occupata dai nostri genitori in fondo al primo piano, l'accesso alla quale era severamente vietato a noi bambini, c'era una lampada dotata di una lampadina da sessanta watt; l'ufficio privato di papà al secondo piano possedeva un telefono, un fax e una o due lampade a basso voltaggio; la corrente si abbassava e mancava spesso e papà cercava di utilizzarle il meno possibile. (Eppure papà lavorava spesso tutta la notte. Era occupato nella preparazione di lunghi e dettagliati documenti legali che confutavano le accuse e le ipotesi di reato mosse contro di lui, che un giorno avrebbe consegnato al procuratore distrettuale competente; inoltre, era spesso al telefono con l'unico avvocato ancora alle sue dipendenze.) Il nuovo computer di Graeme, invece, quando veniva collegato a una delle scarne prese elettriche di Cross Hill, mostrava una schermata a chiazze grigie, del tutto priva di definizione. La maggior parte dei suoi programmi e dei suoi videogiochi erano inutilizzabili. A Cross Hill, il ciberspazio somigliava a qualcosa di vacuo; al nulla; a un vuoto come quello dell'atomo, che pare non contenga quasi niente, solo particelle vaganti, lentissime, simili a minuscole pagliuzze in un grande occhio. Era sempre più difficile, pensava Graeme, credere che un fenomeno quale il «ciberspazio» esistesse davvero da qualche parte. Aveva riattivato il suo indirizzo di posta elettronica, nonostante gli avvertimenti della mamma, ma i messaggi che aveva ricevuto da alcuni dei suoi amici rimasti in città erano giunti in forma strana ed erano per buona parte indecifrabili. Un mattino, Stephen entrò nella stanza di Graeme e lo trovò ricurvo sulla tastiera del computer, impegnato a battere rapidamente una serie di comandi che, volta dopo volta, come in un incubo di crudele comicità, facevano apparire sullo schermo tremolante e opaco le scritte ERRORE! SERVER NON DISPONIBILE! Stephen rimase scosso dalla frustrazione visibile sul volto del fratello. «Ehi, perché non lasci stare per un po'? Ci sono altre cose da fare qui. Possiamo andare in bicicletta. O a fare un giro in paese...» Ma Graeme non lo sentiva neppure. Incurvò ancora di più le spalle magre, come a raccogliersi attorno alla tastiera, digitando velocemente un'altra complessa serie di comandi. I luminosi geroglifici sul monitor scorrevano lentamente verso l'alto come se fossero stati incanalati lì da un luogo a grande distanza spazio-temporale. Alla luce pallida e densa di un nuvoloso mattino di giugno la pelle di adolescente di Graeme appariva verdastra, come metallo ossidato; i suoi occhi luccicavano di uno sconcertato e amareggiato sbigottimento. «Guarda», si rivolse disgustato a Stephen. Stephen guardò: la schermata conteneva la posta elettronica di Graeme, ma in ciascuno dei messaggi c'era qualcosa che non andava, qualcosa di sbagliato, come se fossero stati tutti maldestramente tradotti da una lingua straniera, o decodificati in maniera imprecisa:
graememat±@poverostronzo.///
comestai morto!
«Mi credono morto», disse Graeme, smorzando un singhiozzo di pianto. «Parlano di me come se fossi morto.»
«I messaggi arrivano confusi», si affrettò a intervenire Stephen. «Quando avremo sistemato l'impianto elettrico...»
Graeme premette rabbiosamente un tasto e il messaggio sparì.
«Forse sono davvero morto. Forse lo siamo tutti, morti e sepolti qui a Cross Hill.»
Stephen fece un passo indietro e rabbrividì. In momenti come quelli, l'ultima cosa che desiderava fare era confrontarsi con l'imprevedibile umore del fratello. Lui ne sa molto più di me perché è molto più intelligente. Andò ad avvertire gli altri: «Graeme comincia a comportarsi in modo strano davanti a quel computer. Dovremmo impedirgli di usarlo».
Poi venne quel mattino in cui non riuscivano a trovarlo. Lo chiamarono al piano di sopra e a quello inferiore; lo chiamarono dalle finestre, dalla terrazza, gridando in direzione dell'olmeto e della stradina sterrata conosciuta come Acacia Drive (nonostante le piante di acacie fossero da tempo rinsecchite e morte). La mamma, con i capelli argento cenere che le ricadevano sul volto, la fronte da ragazzina corrucciata per la rabbia e la preoccupazione, si accostò le mani alla bocca e gridò: «Graeme! Graeme! Dove ti sei nascosto? Vieni fuori subito! Vieni qui!» come se stessimo giocando a nascondino e lei potesse interrompere a suo piacimento il gioco. Eppure la mamma, come del resto papà, che passava gran parte della giornata al secondo piano della casa, usciva malvolentieri; alzò una mano a proteggersi gli occhi dal sole e guardò verso gli edifici all'esterno, la vecchia rimessa delle carrozze, le stalle e il granaio, con i tetti cadenti; e poi verso il torbido laghetto chiamato Crescent Pond, ai piedi della collina oltre Acacia Drive; ma una sorta di timore, o forse si trattava di vera paura, le impediva di andare alla ricerca di Graeme in quei luoghi tanto ovvi. Era a Cross Hill da dieci giorni, durante i quali non aveva visto altre persone all'infuori dei componenti della sua famiglia e del personale domestico che abitava a Contracoeur, eppure la mamma si ostinava a indossare costosi ed eleganti indumenti da città: vestiti, gonne e maglioncini; non jeans (ne possedeva qualcuno?) bensì pantaloni di seta con camicette in tinta, e scomodi sandali italiani a tacco alto. Ogni mattino, anche il più afoso, si trasformava coraggiosamente il volto nella consueta, bella, tirata maschera cosmetica, benché la pallida pelle all'altezza del collo cominciasse a rivelare i suoi anni. Portava la fede e l'anello di fidanzamento, un anello con smeraldo quadrato all'anulare della mano destra e un abbagliante orologio incastonato di pietre preziose all'esile polso. Con voce aspirata, quasi civettuola, la mamma esclamò esasperata: «Quel ragazzo! Graeme! Si comporta così per fare dispetto a me!»
Cercammo Graeme tutta la mattina; a mezzogiorno il cielo era dominato da un sole pallido e feroce. Quanto vasta era Cross Hill, storica proprietà caduta in rovina; quanti nascondigli nei suoi eleganti granai, tra le viti e i glicini, tra i sempreverdi che sorgevano vicini alla casa e nell'erba, alta in alcuni punti fino a un metro e mezzo; nel parco, nelle serre diroccate attraverso i cui vetri in frantumi uccelli dal piumaggio nero (storni, gracole, corvi?) si levavano prontamente in volo al nostro arrivo, come spiriti che abbandonassero corpi ormai morti. «Dov'è Graeme?» gridò al loro indirizzo Rosalind. «Dove si è nascosto?»