Andrea Camilleri

La caccia al tesoro

2010

Indice

Risvolti

Uno

Due

Tre

Quattro

Cinque

Sei

Sette

Otto

Nove

Dieci

Undici

Dodici

Tredici

Quattordici

Quindici

Sedici

Diciassette

Diciotto

Nota

Risvolti

Un torpore inerte ha invaso il commissariato di Vigàta: un tedio strascicato. Ammortisce pure il trallerallera di Catarella, che adesso incespica tra rebus e cruciverba. Montalbano legge un romanzo di Simenon, e distratto va sfogliando una vecchia annata della «Domenica del Corriere»: al telefono continua il dài e ridài querulo e molesto della suscettibile fidanzata, lontana sempre, lontanissima.

Eppure un diversivo c'era stato. Due anziani bigotti, fratello e sorella, a furia di preterìe e giaculatorie, avevano rincappellato pazzia sopra pazzia. La loro demenza era arrivata al fanatismo delle armi. E la sceriffata santa aveva lasciato sul campo uno strumento di passioni tristi e appassite: una bambola gonfiabile, disfatta dall'uso; una di quelle pupazze maritabili che (diceva Gadda) tu le

«basci, e ci piangi sopra, e speri icchè tu voi. E, fornito il bascio, te tu la disenfi e riforbisci e ripieghi e riponi, come una camiscia stirata». Un'altra bambola gemella, ugualmente disfatta, ma data per cadavere di giovane seviziata, era stata trovata poi in un cassonetto della spazzatura, in via Brancati. Sembrò una stravaganza. Non ci si fece caso più di tanto. Tornò l'assopimento, vellicato appena dalla curiosità per delle anonime ed enigmistiche lettere in versi che invitavano il commissario Montalbano a una caccia al tesoro. La posta in gioco risultava misteriosa. Richiedeva comunque un'indagine, una pista da seguire, delle tracce da decifrare. Era qualcosa, in mancanza d'altro: nell'ozio forzato, nell'assenza di un delitto. Montalbano decide allora di aggiungere gioco a gioco. Associa alla caccia, in qualità di aiutante da mettere alla prova, uno studente di filosofia, un aspirante epistemologo, un maghetto alla Harry Potter interessato a studiare la mente investigativa del commissario di Vigàta. L'ozio sbandato s'infosca, all'improvviso. Si carica di trepidazioni e di malessere. Il gioco si fa tenebroso. Sprofonda in abissi cupi e sordidi. Si stringe attorno a una demenza erotomane, a una psicopatia: a una fantocciata rorida di sangue, a un'operazione alchemica che trasmuta vero e falso. Si arriva al terrore gorgonico. Montalbano si ritrova inavvertitamente invischiato in un noir degno di Hannibal Lecter. Si era lasciato sviare, all'inizio, dall'indicazione di una strada di periferia. La via Brancati l'aveva portato al Don Giovanni in Sicilia, all'onesto libertinismo inscenato davanti a una bambola di gomma portata da Parigi. Una diversa letteratura lavorava invece la realtà, all'insaputa di Montalbano. Quest'altra strada portava alla «moglie» di pezza e stoppa decapitata dal pittore Oskar Kokoschka e buttata nella spazzatura; alla «moglie» di spessa gomma che Gogol' uccide in un racconto di Landolfi; alle bambole perturbanti, manomesse dal sadismo, di artisti quali Hans Bellmer e Cindy Sherman.

Salvatore Silvano Nigro

Uno

Che Gregorio Palmisano e sò soro Caterina erano pirsone chiesastre fin dalla prima gioventù, era cosa cognita in tutto il paìsi. Non si pirdivano 'na funzioni matutina o sirali, 'na santa missa, un vespiro, e certi volte annavano in chiesa macari senza un pirchì, sulo che ne avivano gana. Il liggero profumo di 'ncenso che stagnava nell'aria doppo la missa e l'aduri della cira delle cannile era per i Palmisano meglio del sciauro del ragù per uno che non mangiava da deci jorni.

Sempri agginocchiati al primo banconi, non calavano la testa nella prighera, la tinivano isata, con l'occhi bene aperti, ma non taliavano però né verso il granni crocifisso supra all'altaro maggiori né verso la Madonna che stava addulurata ai sò pedi, no, non staccavano manco per un attimo la taliata dal parrino, di quello che faciva, di come si cataminava, di come girava le pagine del Vangelo, di come binidiciva, di come moviva le vrazza quanno diciva domino vobisco e po' finiva con ite, missa est.

La vera virità era che avrebbiro voluto essiri parrini tutti e dù, mittirisi cotte, stole, paramenti, rapriri la porticeddra del tabernacolo, tiniri 'n mano il calice d'argento, comunicare i divoti. Tutti e dù, macari Caterina.

La quali, quanno aviva ditto a sò matre Matilde cosa avrebbi voluto fari da granni, quella l'aviva risolutamente corriggiuta:

«Vuoi diri la monaca».

«No, mamà, il parrino».

«Cè! E pirchì vuoi fari il parrino e la monaca no?» aviva spiato arridenno la signura Matilde.

«Pirchì il parrino dice la missa e la monaca no».

E inveci erano stati obbligati ad aiutari il patre che faciva il grossista di alimentari che tiniva stipati in tri granni magazzini uno appresso all'altro.

Alla morti dei genitori, Gregorio e Caterina avivano cangiato merci, al posto di pasta, buatte di conserva di pommodoro, stoccafisso salato, si erano mittuti a vinniri cose d'antiquariato. Era Gregorio che procurava la robba firriannosi le chiesi cchiù vecchie dei paisi vicini e i palazzi mezzo sdirrupati di nobili un tempo ricchi e ora addivintati morti di fame. Uno dei tri magazzini era chino chino di crocifissi, a principiare da quelli da tiniri appinnuti al collo con una catenella a finiri a quelli a grannizza naturale. E c'erano macari tri o quattro croci nude, in facsimile, enormi, pesantissime, destinate a essiri portate d'incoddro a un penitenti nelle processioni della simana santa, mentri i tinti centurioni romani gli davano scuriate.

Addivintati lui sittantino e lei sissantottina, avivano svinnuto i tri magazzini, ma una certa quantità di robba se l'erano portata di notte nella loro casa, all'ultimo piano di un palazzo allato al municipio.

Era 'na casa di sei càmmare spaziose e con un terrazzo, nel quale i dù non annavano mai, troppo granni per un frati e 'na soro che non si erano mai voluti maritare e non avivano manco nipoti.

La loro fissazioni religiosa aumentò col fatto che non avivano cchiù nenti chiffare, niscivano sulo per annare in chiesa, affiancati, passi rapidi, testa calata, senza arrispunniri ai saluti e po' tornavano a 'nserrarsi 'n casa, le persiane sempre chiuse, come se erano eternamente a lutto.

La spisa gliela faciva 'na fìmmina che avivano avuto per puliziare i magazzini, ma non le pirmittivano mai di trasire 'n casa. Alla matina la fìmmina trovava supra alla porta un pizzino tinuto da 'na puntina da disigno nel quali Caterina aviva scrivuto quello che le abbisognava e sutta allo zerbino ci stavano ammucciati i soldi nicissarii.

Quanno tornava, appuiava 'n terra i sacchetti, tuppiava, e avvirtiva, prima di ghirisinni:

«La spisa!».

Non avivano televisioni e quanno facivano ancora l'antiquari, nisciuno mai li vitti leggiri un libro o un giornali, sulo il breviario, come fanno i parrini.

Passati 'na decina d'anni, qualichi cosa cangiò. I Palmisano non niscero cchiù da casa, non frequentarono cchiù la chiesa, non s'affacciarono mai a un balcuni, manco quanno passava la processioni del patrono del paìsi.

L'unico contatto a voci e a pizzini col mondo di fora era quello con la fìmmina che faciva la spisa.

'Na matina i vigàtisi si addunaro che tra il primo e il secunno balcuni dei Palmisano era comparso un granni striscione bianco con supra scritto a stampatello:

«PECCATORI, PENTITEVI!».

'Na simanata appresso, tra il secunno e il terzo balcuni, ne spuntò un altro:

«PECCATORI, VI PUNIREMO!!».

La simana doppo ne comparse un terzo, questo però cummigliava per intero la balaustra del terrazzo ed era il cchiù granni di tutti:

«VI FAREMO PAGARE CON LA VITA I VOSTRI PECCATI! ! !».

Montalbano, visto il terzo striscione, s'apprioccupò.

«Ma non mi fari ridere!» gli disse Mimì Augello. «Sono due poveri vecchi svaniti, affetti da mania religiosa!»

«Mah!».

«Cos'è che non ti persuade?».

«I punti esclamativi. Da uno sunno addivintati tri».

«Embè?».

«Signo che hanno 'ntiso dari delle scadenze ai peccatori. E questo è l'ultimo avviso».

«Ma chi sarebbero poi 'sti peccatori?».

«Tutti siamo peccatori, Mimì. Te lo sei scordato? Sai se Gregorio Palmisano ha il porto d'armi?».

«Vado a controllare».

Tornò squasi subito, tanticchia scuruso 'n facci.

«Ce l'ha il porto d'armi. L'ha addimannato quanno faciva l'antiquario e gli è stato dato. Un revolver. Ma ha denunziato macari dù fucili da caccia e 'na pistola che erano appartinuti a sò patre».

«Senti, domani ti fai diri da Fazio in quale chiesa annavano e po' vai a parlari col parroco».

«Ma quello è tenuto al segreto del confessionale!».

«E tu non gli devi spiare i segreti, gli devi sulo addimannare a che punto di cottura secondo lui può essiri arrivata la loro pazzia e se la ritiene pericolosa o no. Intanto io telefono al sinnaco».

«Per fari che?».

«Voglio che mandi 'na guardia dai Palmisano perché levino questi striscioni».

La guardia comunali Landolina s'appresentò a casa Palmisano che erano le setti di sira. Siccome che doppo il telegiornale c'era 'na partita del Palermo, lui voliva sbrogliatisi presto, tornari a la sò casa, mangiare e assistimarisi in pultruna.

Tuppiò, ma nisciuno vinni a raprirgli. Siccome Landolina, oltre a essiri un omo tistardo e scrupoloso, non voliva perdiri tempo, non sulo continuò a tuppiare cchiù forti che potiva col pugno chiuso, ma pigliò macari a càvuci la porta fino a quanno 'na vecchia voci mascolina non spiò:

«Cu è?».

«Polizia municipale! Apra!».

«No».

«Apra immediatamente!».

«Vattinni, guardia, che è meglio pi tia!».

«Non minacci e apra subito!».

Gregorio non lo minazzò cchiù, semplicementi gli sparò un colpo di revorbaro attraverso la porta.

La pallottola sfiorò la testa di Landolina che voltò le spalli e sinni scappò.

Scinnute le scali e arrivato nella strata principali, la guardia vitti un fui fui di pirsone tra vociate, lamentazioni, biastemie e prighere. Gregorio e Caterina, da dù balcuni diversi, avivano accomenzato a sparari fucilate contro alla genti che passava.

Accussì principiò l'assedio delle forze dell'ordine, vale a dire Montalbano, Augello, Fazio, Gallo e Galluzzo, al fortino dei Palmisano. La folla dei curiosi era tanta ma viniva tinuta a distanza dalle guardie comunali. Doppo un'orata, arrivarono macari i giornalisti e le televisioni locali.

Alle deci di sira, visto e considerato che manco il parroco munito di un altoparlanti era arrinisciuto a convincere i dù vecchi parrocciani ad arrinnirisi, Montalbano arrivò alla conclusioni che abbisognava dari l'assalto al fortino. Mannò Fazio a vidiri come si potiva arrivari al terrazzo, macari dal tetto o da qualichi appartamento vicino. Fazio tornò doppo un'orata di coscienziosi soprallochi dicenno che non c'era verso, da nisciun appartamento si potiva acchianare al tetto o avvicinarisi al terrazzo.

Allura il commissario col cellulare tilefonò a Catarella.

«Chiama subito i pomperi di Montelusa...».

«'Ncendio c'è, dottori?».

«Lasciami finire! E digli di venire qua subito con una scala che arrivi al quinto piano di un palazzo».

«Al quinto piano 'ncendio c'è?».

«Non c'è nessun incendio!».

«E allura pirchì voli i pomperi?» spiò Catarella con logica implacabile.

Santiò, chiuì la comunicazione, fici il nummaro dei vigili del foco, si qualificò, spiegò quello che voliva. Il centralinista spiò:

«Subito?».

«Certo!».

«Il fatto è che i due mezzi con le scale sono impegnati. Potranno essere a Vigàta diciamo tra un'oretta. In quanto alla fotoelettrica, non c'è problema, la mando subito».

Il subito significò un'altra orata persa.

Ogni tanto i Palmisano sparavano qualichi fucilata e qualichi revorbarata tanto per mantinirisi in esercizio. La fotoelettrica arrivò, pigliò posizioni e po' addrumò. Tutta la facciata del palazzo vinni inondata da 'na luci violenta e cilistrina.

«Grazie, dottor Montalbano!» ficiro gli operatori televisivi.

Pariva propio che si doviva girari un film.

La scala inveci arrivò che era passata l'una di notti, vinni allungata fino a quanno non toccò la balaustra cummigliata dallo striscione.

«Ora io acchiano» fici il commissario. «Tu, Fazio, veni appresso a mia. Mimì, tu con Gallo e Galluzzo invece annate a mettervi darrè alla porta e mentri io li tengo 'mpignati dalla parti del terrazzo, circate di sfunnarla e di trasire».

Appena mise il pedi supra al primo gradino, Gregorio, comparso all'improviso addritta da darrè lo striscione, gli sparò un colpo di revorbaro. E scomparse. Montalbano s'arriparò di cursa dintra a un portoni e disse a Fazio:

«È meglio se acchiano io solo. Tu resti nella strata e mi fai un foco di copertura».

Appena Fazio sparò il primo colpo che spirtusò lo striscione, il commissario fici il primo gradino.

S'afferrava alla scala con la sula mano mancina, dato che nella dritta tiniva il revorbaro, acchianava quatelosamente.

Era junto all'altizza del quarto piano quanno Gregorio tutto 'nzemmula ricomparse a malgrado che Fazio sparava e gli tirò 'na revorbarata che lo mancò di picca.

Istintivamente Montalbano incassò la testa tra le spalli e nel movimento che fici gli capitò di taliare sutta, verso la strata. Di colpo, un sudori gelido lo vagnò tutto ed ebbi un firriamento di testa che a momenti lo faciva pricipitari. Dal funno della panza, gli arrivò in gola un rigurgito di vommito. Capì che era la virtigine che l'assugliava. Non ne aviva mai patito. E ora, certo per la vicchiaglia, ecco che s'appresentava quanno non avrebbi dovuto.

Sinni stetti un longo minuto senza potirisi cataminare, con l'occhi 'nserrati, ma po', stringenno i denti, ripigliò la salita, ancora cchiù a lento di prima.

Arrivato all'altizza della balaustra, si isò di scatto, pronto a sparari, ma vitti a colpo d'occhio che il terrazzo era diserto, Gregorio sinni era ritrasuto in casa chiuienno la porta-finestra e ora di certo stava darrè la persiana col revorbaro puntato.

«Spegnete la fotoelettrica!» gridò.

E satò supra al terrazzo stinnicchiannosi 'n terra. La pistolettata di Gregorio arrivò puntuali, ma la violenta luci che si era astutata di colpo l'aviva accecato, costringennolo a sparari ammuzzo. Macari Montalbano sparò, ma non vidiva nenti. Po', a picca a picca, la vista gli tornò normali.

Ma a susirisi addritta e a corriri sparanno verso la porta-finestra manco ci pinsava, Gregorio stavolta di sicuro sarebbi arrinisciuto a colpirlo.

Mentri si spiava chiffare, Fazio satò la balaustra e gli si stinnicchiò allato.

Ora sintivano colpi di fucili viniri dall'interno.

«Questa è Caterina che sta darrè alla porta e spara ai nostri» gli disse a voci vascia Fazio.

Supra al terrazzo non c'era nenti di nenti, un vaso di sciuri, 'na corda stisa coi panni, una qualisisiasi cosa darrè alla quali ripararisi, nenti. Però, appuiati al muro, ci stavano tri o quattro longhi pali di ferro, forsi i resti di un vecchio gazebo.

«Che facciamo?» spiò Fazio.

«Corri ad agguantare uno di quei pali di ferro. Se non se l'è mangiato la ruggine, ce la farai a forzare la porta-finestra. Dammi il tuo revolver. Pronto? Uno, due, tre, via!».

Si susero addritta, e Montalbano pigliò a sparari con le dù armi sintennosi tanticchia riddicolo, pariva lo sceriffo di 'na pellicola miricana. Po' s'affiancò a Fazio che faciva leva con il palo continuanno a sparari ma stavolta attraverso la persiana. Finalmenti la porta-finestra si sbarracò e s'attrovarono nello scuro squasi fitto, pirchì la granni càmmara nella quali trasirono era appena rischiarata dalla luci splapita di un lumi a pitroglio posato supra a un tavolino. Era da tempo che in quella casa non usavano cchiù luci elettrica, di certo gliela avivano tagliata.

Indove si era ammucciato il vecchio pazzo? Sintirono sparari dù colpi di fucile qualichi càmmara appresso. Era Caterina che contrastava i tentativi di Mimì, di Gallo e di Galluzzo di sfunnari la porta d'ingresso.

«Valla a pigliari di spalle» disse Montalbano a Fazio ridannogli la sò pistola. «Io vado a circari a Gregorio».

Fazio scomparse da 'na porta che dava in un corridoio.

Ma nella càmmara c'era un'altra porta, chiusa, e il commissario ebbi la cirtizza, va a sapiri pirchì, che il vecchio era là dintra. S'avvicinò a pedi leggio, girò la maniglia della porta che si raprì tanticchia. L'attisa revorbarata non arrivò.

Allura la spalancò di colpo, ghittannosi contemporaneamente di lato. Non ci fu nisciuna reazione.

E che faciva Fazio? Pirchì la vecchia continuava con le fucilate?

Tirò un respiro longo e trasì, piegato in dù, pronto a sparari. E subito non accapì cchiù indove s'attrovava.

C'era 'na speci di foresta dintra al cammarone, ma fatta di cosa?

Po' accapì, sintennosi paralizzato da uno scanto irrazionale.

Alla luci di un altro lumi a pitroglio vitti decine e decine di crocifissi, di varia grannizza, da quelli di un metro a quelli che toccavano il soffitto, tinuti addritta da basi di ligno, fino a formari appunto

'na foresta 'ntricata pirchì erano assistimati in modo che si taliavano reciprocamente e il vrazzo d'una croci perciò tagliava di traverso il vrazzo della croci allato, mentri un'altra croci, cchiù vascia, stava girata di spalli facci a facci con un'altra croci della stissa altizza e accussì di seguito.

Il commissario si fici subito pirsuaso che Gregorio non era lì, di sicuro non si sarebbi mittuto a sparari in quella càmmara a rischio di colpire qualichi crocifisso. Ma non si potiva cataminare, era scantato come un picciliddro che veni a trovarisi sulo in una chiesa vacante e illuminata dalle cannile. In funno al cammarone c'era 'na porta aperta, dalla quali passava la deboli luci di un altro lume a pitroglio. La taliava, quella porta, ma non arrinisciva a fari un passo.

A fargli affrontare la traversata del bosco fu il grido di Fazio 'n mezzo a un orrendo squittio sorcisco che erano le vociate dispirate di Caterina.

«Dottore, l'ho presa!».

Balzò in avanti zigzagando tra i crocifissi, ne urtò uno che variò ma non cadì, s'apprecipitò oltre la porta. Era 'na càmmara con un letto a dù piazze.

Gregorio puntò il revorbaro e sparò mentri il commissario si ghittava 'n terra. Si sintì il percussore che faciva clic, l'arma era scarrica. Montalbano si susì. Il vecchio, uno scheletro, àvuto di statura, i capilli bianchi fino alle spalli, completamenti nudo, taliava strammato il revorbaro che ancora tiniva

'n mano. Montalbano, con una pidata, glielo fici cadiri 'n terra.

Gregorio si misi a chiangiri.

E po' il commissario s'addunò, mentri l'orrore squasi lo sopraffaciva, che supra a uno dei cuscini posava la testa di 'na fìmmina dai longhi capilli biunni, il resto del corpo era inveci sutta al linzolo.

Immediato capì che si trattava di un corpo privo di vita.

S'avvicinò al letto per vidiri meglio e sintì a Gregorio che gli ordinava, con una voci che pariva fatta di carta vitrata:

«Non osare avvicinarti alla sposa che Dio m'ha dato!».

Sollevò il linzolo.

Era 'na decrepita bambola gonfiabile, aviva perso 'na parte dei capilli, le ammancava un occhio, una minna era addivintata grinzosa e aviva il corpo qua e là cosparso di tondini e rettangoli di gomma grigia. Si vidi che Gregorio, quanno alla bambola ci spuntava un pirtuso per la vicchiaglia, pigliava e la vulcanizzava.

«Salvo, dove sei?».

Era la voci di Augello.

«Sono qua, è tutto a posto».

Sintì 'na rumorata stramma e taliò nella càmmara allato. Gallo e Galluzzo, muniti di potenti torce a pila, stavano spostanno i crocifissi in modo da formare un corridoio. E quanno finero, dal funno Montalbano vitti avanzare, tra i crocifissi che facivano ala, a Mimì e a Fazio che tinivano a forza 'n mezzo a loro a Caterina che si dibattiva facenno sempri uno squittio topigno.

Caterina pariva nisciuta para para da un libro dell'orrore. Portava 'na cammisa di notti lorda e tutta pirtusa, i capilli giallastri e bianchizzi arruffati, l'occhi tondi sbarracati, grassissima, curta, un solo denti longo che faciva 'mpressioni nella vucca che sbavava.

«Ti maledico!» fici Caterina talianno a Montalbano con l'occhi pazzi. «Tu abbruscerai vivo nelle fiammi dell'infernu!».

«Appresso ne parliamo» le arrispunnì il commissario.

«Io chiamerei un'ambulanza» suggerì Mimì. «E li spedirei direttamente al manicomio o quello che è».

«In cella di sicurezza non li possiamo tenere» rincarò Fazio.

«Va bene, chiamate l'ambulanza e portateveli fuori. Ringraziate i vigili del fuoco e mandateli a casa. La porta è stata sfondata?».

«Non ce n'è stato bisogno, l'ho aperta io dall'interno» disse Fazio.

«E tu che fai?» spiò Augello.

«I fucili li aveva tutti e due lei?» addimannò a Fazio inveci d'arrispunniri.

«Sissi».

«Allura 'n casa deve esserci ancora un'arma, la pistola del patre. Voglio dari un'occhiata. Voi andate, ma lassatimi 'na torcia».

Ristato sulo, Montalbano s'infilò il revorbaro 'n sacchetta e fici un passo.

Ma po' ci ripinsò e si rimisi 'n mano l'arma. Vabbeni che non c'era cchiù nisciuno, ma era la casa stissa che lo squietava. La torcia proiettò supra le pareti le ùmmire dei crocifissi che addivintarono giganteschi.

Montalbano attraversò di cursa il corridoio aperto dai sò omini e s'arritrovò nella càmmara che dava nel terrazzo.

Niscì fora, sintiva il bisogno di tanticchia d'aria. E per quanto quella del paìsi era fatta fitusa dal fumo della cimenteria e dai gas delle machine, gli parse aria fina di montagna rispetto all'altra che aviva respirato nelle càmmare dei Palmisano.

Po' tornò dintra e s'addiriggì alla porta che mittiva nel corridoio. Subito a mano manca, c'erano tri càmmare in fila, la pareti di destra era senza aperture.

La prima era la càmmara di letto di Caterina. Supra al comò, al commodino e al tangèr c'erano ammassate centinara di statuine della Madonna ognuna con un lumino addrumato davanti. Alle pareti, 'mpiccicati al muro, un altro centinaro di santini tutti raffiguranti sempri la Madonna. Ogni santino aviva sutta un ripianino di ligno nel quali ci stava un lumino addrumato. Pariva un cimitero di notti.

La porta della secunna càmmara era chiusa, ma la chiavi stava 'nfilata nella toppa. Il commissario la girò, raprì, trasì. Qui lo scuro era fitto. Alla luci della torcia vitti ch'era un gran cammarone, stipato di pianoforti, dù o tri erano a coda e uno aviva il coperchio della tasterà isato. Ragnatele enormi brillavano tra un pianoforti e l'altro. Po', tutto 'nzemmula, il pianoforti a coda sonò. E mentri Montalbano gridava per lo scanto e si tirava narrè, nell'oricchi sintì risonargli tutta la scala musicale, do re mi fa sol la si. C'erano morti viventi in quella mallitta casa? Spiriti? Era tutto sudato, il revorbaro nella mano gli trimava tanticchia, ma attrovò la forza lo stisso di isare il vrazzo e illuminare novamenti il cammarone. E finalmenti vitti al musicista fantasma. Era un surci granni che corriva all'impazzata da un pianoforti all'altro. Si vidi che aviva caminato macari supra alla tastera.

La terza càmmara era la cucina. Ma fitiva tanto che il commissario non ebbi il coraggio di trasiricci. La pistola l'avrebbi fatta circari l'indomani da qualichiduno dei sò omini.

Quanno tornò in strata, non c'era cchiù nisciuno. S'addiriggì verso la sò machina parcheggiata nelle vicinanze del municipio, mise in moto e sinni partì per Marinella.

Si fici 'na gran doccia e doppo non si annò a corcare, ma si misi assittato nella verandina.

E fu accussì che inveci d'essiri, come al solito, arrisbigliato dalla prima luci del jorno, fu lui a vidiri il jorno che s'arrisbigliava.

Due

E accussì addecise di non annarisi a corcare, dù o tri orate di sonno non gli sarebbiro sicuramenti aggiovate, anzi, l'avrebbiro fatto addivintari cchiù 'ntordonuto.

In funno, pinsò mentri annava in cucina a pripararisi un'altra cafittera di quattro, la storia che m'è capitata stanotti è pricisa 'ntifica a un incubo avuto nel sonno, che ti assuma a galla tutto 'nzemmula appena sei vigliante e la memoria te lo fa durare ancora, però sempri cchiù splapito, sulo 'na jornata, tanto che, doppo un'altra nottata di sonno, quell'incubo si scancella, fai fatica a ricordartelo, ne perdi via via contorni e dettagli, addiventa come un mosaico attaccato dal tempo, con larghe chiazze di muro grigio al posto delle colorate tessere cadute.

Perciò ancora vintiquattr'ori di pacienza e po' ti scorderai di quello che hai visto e che ti è successo dai Palmisano.

Pirchì non arrinisciva in nisciun modo a livarisilla dalla testa la forti 'mprissioni che gli aviva fatto quell'appartamento.

La foresta di crocifissi, la bambola gonfiabile invecchiata col sò propietario, il cammarone dei pianoforti con le ragnatele, il sorci concertista, la luci trimolanti dei lumi a pitroglio... e Gregorio nudo sicco come uno scheletro e Caterina con un dente sulo... Come pellicola dell'orrore, non c'era mali.

Il problema però era che non si era trattato di 'na finzione, ma di 'na cosa vera, di una realtà, macari se a questa realtà tanto assurda ci mancava picca e nenti per essiri finzione.

Ma il vero problema, che lui aviva tentato d'ammucciare parlanno di incubo, di verità, di finzione, consistiva in una quistione che non voliva affrontari e cioè nel diverso comportamento tra lui e gli altri sò omini.

E non l'affrontò manco stavolta pirchì s'approfittò che il cafè era passato.

Se lo portò nella verandina, s'assittò, si vippi la prima tazza della secunna cafittera.

Taliò a longo il celo, il mari, la pilaja. La jornata che nasciva voliva essiri gustata a picca a picca come 'na confittura troppo dolci.

«Buongiorno, commissario» lo salutò il solito piscatori solitario e matutino che stava traficanno alla sò varca.

Lui arrispunnì isanno un vrazzo.

«Bona pisca!» gli agurò.

«Posso parlari?» fici Montalbano secunno comparenno all'improviso e attaccanno senza aspittari risposta. «Il problema che sta circanno di evitari si può arridurre a dù dimanne. La prima è: pirchì Gallo e Galluzzo non erano minimamente scantati dalla foresta di crocifissi e anzi li spostavano con una certa 'ndiffirenza? La secunna è: pirchì Mimì Augello, videnno la bambola gonfiabile, non s'impressionò, ma anzi sorridi pinsanno che Gregorio era un vecchio porco?».

«Beh, ognuno è fatto a modo sò e si comporta di conseguenza» fici, indifiso, Montalbano primo.

«Questo è banalmente vero. Ma il problema è che c'è stato un tempo nella sò vita nel quali il nostro commissario avrebbe reagito come Gallo e Galluzzo davanti ai crocifissi e come Mimì davanti alla bambola. Un tempo».

«La vogliamo finire?» spiò Montalbano capenno indove l'altro annava a parare.

«Voglio concludere. Secunno mia, il signor commissario, da allora ad oggi, è cangiato per colpa della vicchiaglia, ma fatica assà, anzi, si rifiuta d'ammetterlo. Per esempio, si trova come se avisse avuto un trapianto d'occhi».

«Ma che minchiate dici?».

«Lo so che ancora non ci semo arrivati, al trapianto d'occhi. Ma a lui la vicchiaglia gli ha fatto l'operazioni. Ora ha occhi diversi 'nnistati in una testa che invecchia».

«In che senso diversi?».

«Assai cchiù sensibili. Non sulo vidi le cose, ma percepisce macari l'alone che c'è torno torno a quelle cose, è come un leggero vapore acqueo che si alza da esse e che...».

«E secunno tia quali alone c'era torno torno alla bambola gonfiabili?» spiò, a sfida, Montalbano primo.

«L'alone della disperazione, della solitudine. Quella di un omo sulo che passa la notti abbrazzato a

'na pupa inerte e s'illude che sia 'na criatura viva, e macari la chiama amori mio».

«Arriva alla conclusioni».

«In conclusione, gli accomenza a fagliare la friddizza, il distacco davanti ai fatti. Si lascia coinvolgere, turbare. Macari prima si lassava pigliare, ma ora, con l'età, è addivintato troppo, come dire, vulnerabile».

«Basta accussì» fici Montalbano susennosi di scatto. «Mi aviti scassato i cabasisi».

Contrariamenti a quanto aviva addeciso, si annò a fari dù orate di sonno e quanno la sveglia sonò, si susì, come previsto, completamenti 'ntronato.

Doccia, varba e biancheria frisca l'assistimarono alla meno peggio, mittennolo comunque in condizioni d'appresentarisi in ufficio.

Catarella, vidennolo trasire, satò addritta e si misi a battergli le mano.

«Bravo, dottori! Bravo!».

«Che ti piglia? Che siamo, a teatro?».

«Ah dottori dottori! Maria, quant'era bravo! Maria, quant'era agilo! Maria, quant'era sverto! Un quilibrista di circolo questri pariva!».

«Chi?».

«Vossia, dottori! Meglio del ginematò era! Stamatina ci lo ficiro vidiri 'n televisioni!».

«A mia?!».

«Sissi, dottori, a vossia! Quanno salivava la scala dei pomperi, revorbaro in pugno, lo sapi con chi era 'na stampa e 'na figura?».

«No».

«Priciso 'ntifico a Brusi Vìllisi, l'accanosce a quell'attori miricano che s'attrova sempri 'n mezzo a sparatorie, palazzi che abbrusciano, papori che affunnano...».

«Va bene, calmati e mandami a Fazio».

Ci mancava sulo 'sta camurria futtuta! Accussì mezzo paìsi che non l'aviva viduto nella nottata in diretta, se la potiva scialare alle sò spalli taliannolo replicato in televisioni! Bruce Willis ! Figurati!

Ma se pariva 'na pellicola dei fratelli Marx!

«Bongiorno, dottore».

«Com'è finita coi Palmisano?».

«E come doviva finiri? Il pm Tallarita li ha carricati bono. Resistenza, tentato omicidio plurimo, tentata strage...».

«Dove li hanno portati?».

«In una clinica per malattie mentali, sorvegliati a vista».

«Mi pare eccessivo, se non hanno armi, che vuoi che...».

«Dottore, lo sa che ha fatto Caterina a un 'nfirmeri?».

«Che gli ha fatto?».

«Gli ha rumputo 'n testa 'na seggia!».

«E pirchì?».

«Pirchì si vidiva chiaramenti che era un arabo. Epperciò, secunno lei, un nimico di Dio».

«Senti, manna qualichiduno a circari 'na pistola che deve essiri ammucciata nell'appartamento dei Palmisano».

«Provvedo subito. Ci mando Galluzzo e altri due».

'Na mezzorata appresso Fazio tuppiò e trasì.

«Dottore, mi scusi, ma aieri, quanno niscì dall'appartamento dei Palmisano, la chiuì la porta? Le chiavi io le avevo lassate 'nfilate nella toppa doppo che avivo rapruto al dottor Augello».

Montalbano ci pinsò supra tanticchia.

«Lo sai che non te lo so dire se l'ho chiusa o no? Perché?».

«Perché mi ha telefonato ora ora Galluzzo che ha trovato la porta dell'appartamento dei Palmisano spalancata».

«Manca niente?».

«Secunno Galluzzo, non dovrebbe ammancari nenti, tutto è suppergiù come se l'arricordava da stanotti. Ma come si fa a capirlo in quel cafarnao?».

Mi compiaccio con lei, caro commissario, per il supremo coraggio, per il grande sprezzo del pericolo dimostrato quando è rimasto solo nella famosa casa dell'orrore. La lunga lotta sostenuta col sorcio musicante l'ha stremata a un punto tale che se ne è scappato a gran velocità, scordandosi addirittura di chiudere la porta. Poco male. Torno a congratularmi.

«Fazio, levami una curiosità».

«Mi dica, dottore».

«Ma a tia, quella casa, non ti ha impressionato?».

«Dottore, non minni parlasse! Quanno ho viduto quel cammarone chino chino di crocifissi, a momenti, rispetto parlanno, mi cacavo nei cazùna, mi cacavo!».

L'avrebbi abbrazzato, a Fazio. Tutti erano 'mpressionati e scantati. Sulo che non lo lassavano vidiri. E accussì i sò ragionamenti matutini erano inutili.

All'una annò a mangiare da Enzo. Aviva 'na gran fami attrassata, dato che la sira avanti, a causa del viriviri che era capitato, non aviva avuto il tempo per mangiare. S'assittò al tavolino solito.

La televisioni era addrumata e sintonizzata su «Televigàta». L'audio era abbasciato che squasi non si sintiva, ma le immagini che stava videnno erano quelle dell'interno dell'appartamento dei Palmisano.

Un cornuto di giornalista doviva aviri approfittato della porta che lui aviva lassato aperta, era trasuto e si era mittuto a ripigliare l'abitazione dei dù vecchi pazzi. Evidentemente, si serviva di un faretto a batteria per illuminare e la luci, piglianno di taglio crocifissi e pianoforti, li faciva emergere dallo scuro che li circondava sinistri, minazzosi, perigliosi, accussì come gli erano apparsi la notti avanti.

«Buongiorno, dottore. Che le porto?».

«Torna tra cinque minuti».

Ora l'operatore era trasuto nella càmmara di letto di Gregorio.

E supra alla bambola gonfiabile ci ristò almeno cinco minuti di fila, facennola prima vidiri 'ntera e po' dettaglianno i capilli caduti, l'occhio ammancante, la minna grinzosa, e ammostranno a una a una le tante riparazioni che Gregorio le aviva fatte per non farla sgonfiare e che parivano tante piccole ferite coperte dallo sparatrappo.

«Allora, che le porto?».

Com'è che il pititto gli era passato di colpo?

Aviva mangiato accussì picca che non ebbi manco bisogno di farisi la solita passiata meditativa.

Tornò in ufficio e si misi a firmari carte. Era da 'na misata che non capitava nenti di sostanzioso.

Certo, la facenna dei Palmisano era stata 'na cosa movimentata, a tratti tragicomica, ma non aviva portato a conseguenzie, non c'erano stati né morti né feriti. Cchiù volte anzi in quella misata aviva pinsato di pigliarisi qualichi jorno e ghirisinni a Boccadasse da Livia. Ma aviva sempri lassato perdiri, scantannosi che un imprevisto avrebbi potuto obbligarlo a interrompiri la vacanza. E chi l'avrebbi tinuta allura a Livia?

«Galluzzo finalmenti la trovò la pistola» fici Fazio trasenno.

«Dov'era?».

«Nella càmmara di Caterina. 'Nfilata dintra a 'na statuetta cava della Madonna».

«Altre novità?».

«Calma piatta. Lo sapi che Catarella ha una sò teoria in proposito?».

«Su cosa?».

«Supra al fatto, per esempio, che ci sono meno furti».

«E come se lo spiega?».

«Dice che i latri, quelli nostrali, quelli che arrobbano nelle case della povira gente o nella vurzetta d'una fìmmina, si vrigognano».

«E di che?».

«Dei loro colleghi cchiù grossi. Degli industriali che mannano al fallimento la ditta doppo aviri fatto scompariri i soldi dei risparmiatori, delle banche che trovano il modo di fottere i clienti, delle grandi imprese che arrobbano il dinaro pubblico. Mentri loro, mischini, si devono contintare di deci euri, di 'na televisioni scassata, di un computer che non funziona... Si vrigognano e gli passa la gana».

Come c'era da aspittarselo, a mezzanotti «Televigàta» mannò in onda 'na trasmissione spiciali ricontanno tutta la facenna dei Palmisano.

Naturalmenti fici vidiri le immagini di Montalbano che acchianava la scala mentri Gregorio dal tirrazzo gli sparava e la cosa, vista dall'esterno, dava raggiuni a Catarella: pariva propio che a lui nisciuno lo potiva firmari, bastava vidiri con quanta determinazione scavalcava la balaustra tinenno

'n mano il revorbaro, con quali voci ordinava di astutare la fotoelettrica.

'Nzumma, 'na cosa digna della serie «Capitani coraggiosi».

Non trapelava nenti dello scanto, del trimolizzo, della vertigini provata a mità acchianata. Per fortuna, non c'era apparecchio al munno, manco la radiografia, manco la tac, capaci di mostrari 'na segreta pena, uno scanto saputo beni ammucciare. Ma quanno partì la ripresa della bambola gonfiabile, il commissario astutò.

Non la riggiva, gli faciva cchiù 'mpressioni che manco 'na picciotta in carni e ossa.

Ma prima di annarisi a corcare, telefonò a Livia.

«Ti ho visto, sai?» fici subito lei.

«Dove?».

«In televisione, sul nazionale».

Bastardi cornuti, quelli di «Televigàta» si erano vinnuti il servizio!

«Ho avuto molta paura per te» continuò Livia.

«Quando?».

«Quando hai avuto quel momento di vertigine sulla scala».

«Vero è. Ma nessuno se n'è accorto».

«Io sì. Ma non potevi mandarci Augello che è assai più giovane di te? Queste non sono più cose che puoi fare alla tua età!».

Montalbano principiò a squietarsi. Macari lei ci si nutriva con quella camurria dell'età?

«Parli come se fossi Matusalemme, minchia!».

«Non dire parolacce, non le sopporto! Chi sta parlando di Matusalemme? Lo vedi che sei diventato nevrotico?».

Con un comincio accussì, non potiva che finiri a schifìo.

«Ah dottori dottori! Ah dottori! Il signori e guistori è da stamatina alle otto che la chiama! Maria, quant'è arraggiato! Dici che voli essiri filefonato subitissimo uggentevole!».

«Va bene, passamelo» disse annanno verso la sò càmmara.

Si sintiva la coscienza a posto, nell'ultimi tempi, dato che non era capitato nenti, non aviva avuto la possibilità di fari cose che all'occhi del signori e guistori potivani pariri errori o manchevolezze.

«Montalbano?».

«Mi dica, signor questore».

«Mi spiega perché ha permesso che alcuni operatori televisivi facessero i loro porci comodi in casa di quei due vecchi pazzi?».

«Ma io non...».

«Sappia che sto ricevendo una quantità di telefonate di protesta, dal vescovado, dall'unione padri di famiglia cattolici, dal circolo fufu...».

«Non ho capito il nome del circolo, mi scusi».

«Fufu. Le va meglio con effe effe? Sono le iniziali del circolo Fede e Famiglia».

«Ma perché protestano?».

«Per le immagini di un'oscena bambola gonfiabile!».

«Capisco. Però io non ho permesso niente».

«Ah, no? Allora come sono entrati?».

«Probabilmente dalla porta».

«Rompendo i sigilli?».

Non erano stati mittuti, i sigilli. Ma avrebbi dovuto farli mettiri o no? Comunque, sigilli o non sigilli, la porta avrebbi dovuto almeno chiuirla.

L'unica era accomenzare a parlari in legal-burocratese, quello che doppo dù frasi uno non ci accapisce cchiù 'n'amata minchia.

«Signor questore, mi consenta. Nella fattispecie non abbiamo ravvisato gli estremi onde si dovesse far ricorso all'apposizione dei suddetti sigilli, atteso che nell'appartamento in oggetto, che pure era stato teatro di comportamenti quantomeno violenti, non si evidenziavano danni fisici a persone ragion per cui...».

«Va bene, va bene, ma comunque, entrando senza un'autorizzazione, hanno commesso una grave infrazione».

«Gravissima. E ci potrebbe essere dell'altro» fici il commissario 'ntinzionato a mittirici il carrico da undici.

«Cioè?».

Vai col legal-burocratese.

«Chi ci dice che l'operatore e il giornalista non abbiano asportato qualche oggetto ivi contenuto?

Più che una casa di civile abitazione, detto appartamento di vasta capienza pare trattarsi invero d'una sorta di negozio d'antiquario, ove trovansi, non repertati, vuoi croci d'oro artisticamente cesellate, vuoi bibbie pregevolmente istoriate, vuoi rosari di madreperla, argento e oro, nonché...».

«Va bene, va bene, provvederò» interrompì il questori, 'nfastiduto dal tono di voci di Montalbano.

E accussì quelli di «Televigàta» s'imparavano, avrebbero avuto gatti da pittinari.

Nel notiziario che trasmittivano all'ura di mangiare, il notista principe di «Televigàta», Pippo Ragonese, quello con la facci a culu di gaddrina, disse, arraggiato, che l'emittente, «nota per la sua totale indipendenza di giudizio», era stata «fatta segno da più parti di forti pressioni» perché non venisse cchiù mannato in onda il servizio sulla casa dei Palmisano e, soprattutto, la parte che arriguardava la bambola. Lassò capiri che il giornalista e l'operatori che erano trasuti nell'appartamento rischiavano d'essiri incriminati «d'effrazione e furto d'oggetti artistici».

Di fronte a tali intimidazioni, Ragonese proclamò sullennementi che da quel momento in poi, e per tutto il doppopranzo, fino al notiziario delle otto di sira, «Televigàta» non avrebbi trasmesso altro che le immagini della bambola.

E accussì ficiro.

Ma fino alle sei, pirchì a quell'ura s'appresentarono dù carrabbineri e sequestrarono la cassetta, d'ordine del prefetto.

All'indomani matina, manco a dirlo, tutti i giornali e le televisioni nazionali parlarono della facenna. 'Na poco erano contrari al sequestro, uno dei dù cchiù 'mportanti quotidiani, quello che si stampava a Roma, fici un titolo che diciva accussì:

«Non c'è limite al ridicolo».

Altri inveci erano favorevoli, infatti l'altro giornali, quello che si stampava a Milano, titolò:

«La morte del buon gusto».

E non ci fu comico italiano che quella sira stissa non s'appresentò in televisioni abbrazzato a 'na bambola gonfiabile.

Quella notti fici un sogno indove, com'era ovvio e prevedibile, se non ci trasiva 'na vera e propia bambola gonfiabile, c'era qualichi cosa che ci annava assà vicino.

Stava facenno all'amuari con una gran beddra picciotta biunna che travagliava come commissa in una fabbrica di manichini, diserta, dato che era passata l'ora di chiusura. Stavano corcati supra a un divano dell'ufficio vendite con 'na decina di manichini, mascoli e fìmmine, torno torno che li taliavano con l'occhi fissi e un surriseddro di cortesia.

«Dai, dai» gli faciva ansimante la picciotta con l'occhi a un granni ralogio che stava supra alla pareti, pirchì tutti e dù sapivano qual era il problema: lei aviva avuto un pirmisso che l'aviva fatta addivintare fìmmina, ma se non fossiro arrinisciuti a concludiri la facenna entro cinco minuti, lei sarebbi tornata a essiri per sempri un manichino.

«Dai, dai...».

Ce la facivano finalmenti, che fagliavano sulo tri secunni al tempo stabilito e i manichini si mittivano a battiri le mano.

S'arrisbigliò e curri a farisi 'na doccia. Ma com'è che a cinquantasetti anni faciva sogni da vintino?

Forsi che la vicchiaglia non era accussì vicina come pariva che era? Il sogno l'acconsolò.

Mentri stava annanno in ufficio, il motori della machina fici 'na rumorata stramma e po' si fermò di colpo provocanno 'na gran battaria di frenate, clacsonate, biastemie, insulti. Doppo tanticchia si rimisi 'n moto, ma il commissario addecise che era vinuta l'ora di portari la sò machina dal meccanico, c'erano parecchie e svariate cose che o non funzionavano cchiù o che funzionavano a testa sò.

Tre

Il meccanico detti 'n'occhiata al motori, ai freni, all'impianto elettrico e po' scoti la testa sdisolato.

Priciso 'ntifico a un medico davanti al letto di un malato terminali.

«Dottore, mi pari che la machina oramà è da rottamare».

Quel verbo lo fici arraggiari di colpo. Appena che lo sintiva diri, appena che lo liggiva, gli principiavano a firriare i cabasisi. E non era la sola parola a fargli 'st'effetto, ma c'erano macari precariato, contingenza, incapienti, bacchettare, pregresso, e decine d'altre.

Lingue oramà morte avivano inventato parole meravigliose e ce l'avivano lassate in eredità eterna.

E il taliàno, inveci, quanno sarebbi morto com'era inevitabile, dato che oramà era 'na colonia della lingua 'nglisi, che avrebbi tramandato ai posteri? Rottamare? Inciucio? Dazione?

«Non ci penso manco lontanamente» fici sgarbato.

Passò 'n'altra jornata di calma piatta, come diciva Fazio. La sira si fici accompagnari a Marinella da Gallo. Prima di riaviri la sò machina sarebbiro passati tri jorni.

Doppo avirisi mangiato le triglie a brodo e la caponatina priparate da Adelina, ristò assittato supra alla verandina,

Aviva un cori d'asino e uno di lione. Avrebbi voluto partirsene l'indomani stisso per Boccadasse, ma forsi avrebbi dovuto farlo prima, troppo tempo stava passanno senza che era capitato nenti e perciò la probabilità che continuava a non capitare nenti si era arridotta di assà.

Doppo essirisi fumato dù sicarette, gli vinni gana di corcarsi e principiare a leggiri un romanzo di Simenon, Il Presidente, che si era accattato appresso ch'era stato dal meccanico.

Chiuì la verandina. Annò a pigliare il libro che aviva posato supra al tavolino e s'addunò che aviva lassato addrumata la luci nell'ingresso.

Si mosse per astutarla e fu allura che notò 'n terra 'na busta bianca, evidentemente 'nfilata da qualichiduno sutta la porta. 'Na normalissima busta da littra.

C'era già quann'era trasuto e non l'aviva notata? O ce l'avivano mittuta quanno stava nella verandina?

Supra alla busta c'era l'indirizzo scritto a stampatello con una biro: PER SALVO MONTALBANO. E

in alto, a sinistra: caccia al tesoro. La raprì. Mezzo foglio con una speci di poesia: Tre per tre non fa trentatré

e sei per sei

non fa sessantasei.

La somma che risulterà

un altro numero darà.

Se i tuoi anni aggiungerai,

l'enigma risolverai.

Ma che strunzata era? Uno sgherzo? E pirchì non gliela avivano mannata per posta?

Non aviva nisciuna gana di risolviri indovinelli e di mittirisi a jocari alla caccia al tesoro all'una di notti.

'Nfilò la busta nella sacchetta della giacchetta che lassava di solito nella prima entrata e si annò a corcare portannosi il libro appresso.

Erano squasi le novi del matino quanno arrivò in ufficio. La notti avanti aviva astutato tardo la luci, non ce la faciva a staccarisi dal libro. Doppo 'na decina di minuti lo chiamò Catarella.

«Dottori, ah, dottori! Al tilefono c'è 'na voci fimminina di fìmmina che fa voci che non ci accapiscio che voci che fa quanno che fa voci!».

«Ma ha domandato di me?».

«Non s'accapisce, dottori».

Non aviva gana di sintirisi sturdiri dalle voci di 'na fìmmina che faciva voci quanno faciva voci.

«Passala al dottor Augello».

Doppo manco tri minuti s'appresentò Mimì che era serio serio e chiuttosto agitato.

«E’ una donna completamente isterica, dice che era andata per buttare la spazzatura e ha visto un cadavere dentro a un cassonetto».

«Ti ha detto la strada?».

«Via Brancati 18».

«Va bene. Pigliati a qualcuno e vai».

Augello s'impacciò.

«Veramente avevo detto a Beba che stamatina l'accompagnavo con Salvuccio a...».

Altro giramento di cabasisi. Certo che gli aviva fatto piaciri quanno Mimì e sò mogliere Beba avivano addeciso di mittiri al figlio il sò stisso nome.

Ma non sopportava che lo chiamavano Salvuccio.

«Ho capito. Ci vado io in via Brancati. Ma tu avverti subito la Scientifica, il pm e Pasquano».

Gallo proprio non arrinisciva a trovarla, 'sta mallitta via Brancati.

Era da 'na mezzorata che firriavano a vacante e nisciuno di tutti quelli ai quali spiavano pariva averla mai sintuta nominari.

«Andiamo a domandare in municipio» proponi Fazio.

Ma Gallo voliva attrovarla da sulo, si era 'ntistarduto. E non c'era nenti di pejo di Gallo quanno guidava col nirbùso. Infatti pigliò 'na strata contromano e a vilocità.

«Stai attento!».

«Ma se non c'è nisciuno!».

E in quel priciso momento s'attrovarono davanti a un'altra auto che aviva girato l'angolo comparenno 'mprovisa.

Montalbano chiuì l'occhi. La strata era stritta, Gallo sterzò alla dispirata e anno a sbattiri contro la bancarella esterna di un negozio di frutta e virdura.

C'erano pommidori, arance, limuni, racina, cicoria, patate, scalora, milinciane, 'nzumma tutto addivintò uno scrafazza scrafazza.

Il negozianti niscì arraggiato e attaccò turilla. La cosa avrebbi potuto fari perdiri qualichi orata, ma Montalbano ammostrò i documenti e disse di mannare il conto al commissariato. Quello accettò immediato, accussì avrebbe potuto come minimo triplicare il danno.

Ripigliarono a firriare a vacante.

Tutto 'nzemmula al commissario tornò a mente il criterio col quale tutti gli uffici toponomastici, tutti, senza cizzione, tanto quelli dei paìsi quanto quelli delle granni cita, davano i nomi alle strate.

Le strate cchiù centrali vinivano immancabilmente intitolate a cose astratte come libertà, repubblica, indipendenza; quelle tanticchia meno centrali, a omini politici del passato, Cavour, Zanardelli, Crispi; quelle immediatamente appresso ad altri politici ma cchiù recenti, De Gasperi, Einaudi, Togliatti. E via via, sempri cchiù distanti dal centro, vinivano gli eroi, i militari, i matematici, gli scienziati, gli industriali, fino ad arrivari a qualichi dentista. Ultimi, nelle strate d'estrema periferia, quelle cchiù miserabili, quelle che confinavano con l'aperta campagna, i nomi degli artisti, scrittori, scultori, poeti, pittori, musicisti.

E infatti via Vitaliano Brancati consistiva in quattro casuzze indove le gaddrine giravano in libertà. E questa fu in un certo senso 'na fortuna.

Pirchì torno torno a 'na quarantina vistuta di nìvuro assittata supra a 'na seggia tinennosi un fazzoletto vagnato supra alla fronti ci stavano 'na fìmmina sittantina e dù omini. In altre strade ci sarebbi stato inveci un assembramento da disperdiri a manganellate.

Davanti a una delle casuzze c'era un solitario cassonetto. Il catafero non potiva essiri che lì.

«Qualcuno di voi l'ha aperto oltre alla signora?».

La sittantina e i dù omini ficiro 'nzinga di no. Fazio raprì il cassonetto e Montalbano si isò sulla punta dei pedi per taliare dintra.

In funno al cassonetto c'era sulo quel corpo.

«Minchia d'una minchia!» disse il commissario.

E po', rivolto a Fazio:

«Tenimillo fermo».

Voliva sincerarsi, tanto l'aviva strammato quello che vidiva. Fazio s'aggrappò con le dù mano al bordo e fici da contrappiso. Montalbano si detti 'na spinta, si tenne isato con le mano appuiate supra all'orlo del cassonetto, po' si calò dintra a mezzo, con la panza piegata supra all'orlo, allungò un vrazzo, toccò il corpo, si tirò narrè, posò novamenti i pedi 'n terra.

Fazio lo taliava interrogativo. Macari la fìmmina che era assittata si era susuta e aviva fatto un passo in avanti 'nzemmula all'altri. Ma lui sinni ristava muto, 'ntordonuto, 'mparpagliato.

«E una bambola gonfiabile» disse alla fine.

Ma quante ce n'erano, a Vigàta?

«Meglio accussì» fici Fazio. «La possiamo lasciare lì».

«No, tiratela fuori».

Fazio si fici aiutare da Gallo. La posaro 'n terra e la taliaro, in silenzio.

Di colpo, tutti e tri erano addivintati muti e serii.

Pirchì la bambola era pricisa 'ntifica a quella che Gregorio Palmisano tiniva nel sò letto. Ci ammancava 'na parti dei capilli, ci ammancava un occhio, aviva 'na minna grinzosa e il corpo era chino chino di tondini e di quatratini di gomma.

Propio in quel momento arrivò il dottor Pasquano e appresso a lui la machina per il trasporto dei cataferi. Montalbano, appena che lo vitti arrivare, pinsò che avrebbi in quel momento preferito attrovarsi in una foresta circondato da armali feroci. E infatti Pasquano, da quel gran cornuto che era, si misi a fari tiatro.

Si acculò allato alla bambola e principiò a esaminarla.

«Il cadavere non presenta segni di violenza» disse.

«Dutturi, vidissi che 'na pupa è» l'avvertì la fìmmina che l'aviva scoperta e sinni stava ancora là, cchiù confusa che pirsuasa.

«Allontanatela» fici Pasquano. «Io devo lavorare».

E continuò:

«Forse è deceduta per cause naturali».

«Dottore, ora basta» disse Montalbano.

Pasquano satò addritta come un grillo, russo 'n facci.

«E non me la domanda l'ora della morte, ah?» sbottò. «Ma non lo vede che lei non è più capace di distinguere un cadavere da un pupo? Un'altra volta, prima di scomodarmi, si accerti che il morto sia un vero morto e non un manichino! Cose da rincoglioniti totali!».

Acchianò santianno in machina e sinni partì.

I dù barellieri s'avvicinarono lenti e dubbitosi. Taliarono la bambola. Po' uno si grattò la testa.

L'altro spiò:

«Ma la dobbiamo portare via con noi?».

«No, no, potete andare anche voi, grazie». Si sintiva annichiluto.

Naturalmenti, appena partuto Pasquano, arrivò la Scientifica al gran completo, un camioncino e dù machine.

Dalla prima scinnì il capo, Vanni Arquà, che al commissario stava sullennemente 'ntipatico. Ed era abbondantemente ricambiato.

«Non scaricate, non ce n'è bisogno» disse Montalbano all'omini della Scientifica che principiavano a scinniri scatole, balige e machine fotografiche dal camioncino.

«Perché?» spiò Arquà.

«C'è stato un equivoco».

Arquà anno a taliare il catafero, tornò narrè nìvuro 'n facci.

«E uno stupido scherzo!».

«Arquà, non è stato uno scherzo! Si è trattato di...».

«Farò immediatamente rapporto al questore!».

«Fai come cazzo vuoi».

Sinni ghiero macari loro.

E subito appresso, per ultimo come d'abitudini, arrivò il pm Tommaseo che guidava come un cani

'mbriaco. Scinnì affannato.

«Scusatemi, scusatemi, ho avuto un piccolo incidente che...».

Vitti la bambola stinnicchiata 'n terra e l'occhi gli sparluccicarono.

«Ma è una donna!» fici apprecipitannosi.

Un vampiro in astinenza. Appena si trattava di fìmmine, Tommaseo pirdiva la ragione. Stravidiva per i delitti passionali, per le belle picciotte morte malamenti, per ogni ammazzatina che aviva a che fari col sesso.

«Che significa?» spiò sdilluso al commissario doppo aviri viduto di che si trattava.

«La signora qui presente l'ha vista nel cassonetto e ha creduto che era il corpo di una donna.

Purtroppo, dottore, non ho fatto in tempo ad avvertirla dell'equivoco».

«Mi scusino» disse Tommaseo agli altri.

Non pariva per nenti arraggiato come gli altri. Pigliato suttavrazzo a Montalbano, se lo portò sparte.

«Così, tanto per informazione, ma lei lo sa dove le vendono queste bambole?» gli spiò a voci vascia.

Finalmenti, quanno sinni ghiero tutti, carricarono la bambola nel bagagliaio e tornaro in commissariato senza scangiarisi parola.

Sgombrò la scrivania da tutta la mezza quintalata di carti che c'erano supra e ci fici mettiri la bambola stinnicchiata per largo.

«Ho bisogno dell'altra» disse a Fazio che lo stava a taliare muto, senza capacitarisi di cosa aviva 'n testa il commissario.

«Quale altra?».

«Quella di Palmisano».

Fazio lo taliò a vucca aperta.

«Pirchì, non è chista?».

«No».

«Cè! Sicuro che non è la stissa?».

«Sicuro. Semmai è 'na gemella».

«Talè! Io avivo pinsato che quelli di "Televigàta" se l'erano pigliata per fotografarla meglio e po', non potennola riportare narrè, l'avivano ghittata nel cassonetto».

«Quanto ci scommetti che sono due?».

«Ma quante bambole gonfiabili circolano a Vigàta?».

«Me lo sono spiato macari io. Vai».

Ma Fazio non si cataminò. Pariva dubbitoso.

«E come faccio a portarla qua?».

«Che significa?».

«Dottore, come faccio a scinniri scali scali con quella in braccio? E se nesci qualichi coinquilino e mi vidi?».

«Che vuoi che dica? Sei un poliziotto nell'esercizio delle...».

«Ma io mi vrigogno!».

«Non mi fari ridiri!».

«Per favore, ci mandi un altro».

«Fazio, dimmi la verità. Non è che è tutta 'na scusa? Non è che ti scanti a tornari in quel posto?».

«Beh, tanticchia sì».

Montalbano l'accapiva benissimo.

«Allura mannaci a Gallo e a Galluzzo. Ah, senti, in commissariato deve esserci un baule. Mi pare d'averlo visto nel garage. Se lo portano appresso e c'infilano dintra la bambola».

Aviva sbagliato a farla mettiri supra la scrivania, non potiva scriviri e per arrispunniri alle tilefonate avrebbe dovuto appujarsi supra alla sò panza. E la cosa gli faciva tanticchia di schifìo.

Oltretutto l'avivano tirata fora da un cassonetto della munnizza. La meglio era stinnicchiarla 'n terra.

La pigliò da sutta le ascilli, la isò, la tenni addritta e in quel priciso momento comparse Mimì Augello.

«Pardon, vedo che sei impegnato, torno più tardi. Ma quando vuoi fare certe cose, ti consiglio di chiudere la porta a chiave».

«Dai, Mimì, non fari il cretino e trasi».

«Perché t'interessa la bambola di Palmisano?».

«Bih, che camurria! Non è la bambola di Palmisano!».

E gli contò l'intera facenna.

«Ho mandato a pigliare l'altra» concludi.

«Perché?».

«Per confrontarle. Voglio vidiri se sono perfettamente uguali».

«Se lo sono o non lo sono, che te ne fotte?».

«Mimì, se non ci arrivi da sulo, non so che farci. Po' te lo spiego».

Gallo e Galluzzo gli portarono la bambola di Palmisano e lui la fici mettiri 'n terra allato all'altra.

«Maria, pricise sunno!» fici Gallo taliannole ammaravigliato.

«È com'è possibile?» si spiò Galluzzo.

Montalbano un'idea se l'era fatta, ma siccome era arrivata l’ura di annare a mangiare, non arrispunnì. Voliva ricollocari le carte supra alla scrivania, ma si scoraggiò subito, erano tante.

Allura sinni niscì dicenno a Catarella di rimettirigli la càmmara in ordine e di procurargli 'na lenti d'ingrandimento per quanno tornava.

Mangiò talmente svogliato che Enzo lo rimproverò.

«Oggi non m'ha dato sodisfazioni dottore». Non c'era bisogno di farisi la passiata al molo, perciò annò subito in ufficio. Trasenno nella sò càmmara, per picca non gli pigliò un sintomo.

Catarella aviva mittuto le dù bambole assittate supra alle dù pultrune e parivano che stavano a chiacchiariare tranquillamenti.

Santianno, le stinnicchiò arrè 'n terra, lassanno mezzo metro di distanza tra l'una e l'altra. Supra alla scrivania, ora daccapo cummigliata di carte, c'era la lenti d'ingrandimento. La pigliò e si misi agginocchiato tra i corpi e si calò a taliare con la lenti l'orbita vacante della bambola di Gregorio.

Po' osservò l'orbita dell'altra, quella del cassonetto. Appresso strappò un tondino di gumma che c'era tanticchia supra all'ombelico di quest'ultima e ripitì l'operazioni con l'altra.

Doppo tanticchia che travagliava, sintì la voci di Mimì viniri di davanti alla porta.

«Ci ha capito qualcosa, Holmes?».

«Sì».

«E cosa?».

«Elementare, Watson. Ho capito che lei è uno strunzo» fici il commissario annannosi ad assittare darrè la scrivania.

«Sul serio, che stavi talianno con la lenti?» spiò Mimì.

«Controllavo se potivo aviri 'na risposta plausibile a un problema che mi ero posto».

«Cioè?».

«Ti rispunno con una dimanna. Secunno tia dù cose fabbricate contemporaneamente, ma, attenzioni, tenute assà distanti tra loro e diversamente usate nel tempo, metti, che so, due biciclette, possono invecchiari, perdiri pezzi, spirtusarisi nello stisso identico modo e negli stissi posti?».

«Non ho capito».

«Ti faccio un esempio. Metti che dù fìmmine vanno al mercato e s'accattano dù pignate uguali.

Trent'anni appresso noi ne ritroviamo una. È scassata, le ammanca il manico mancino, ha un'ammaccatura alla base, due buchi nel fondo, uno di tri millimetri e un altro di dù millimetri e mezzo, a quattro centimetri di distanza. Chiaro?».

«Chiaro».

«Po', ghittata dintra a un cassonetto, ne troviamo un'altra con le stesse precise identiche caratteristiche, il manico mancino mancante, l'ammaccatura, i due buchi, eccetera eccetera. Ti pare possibile che pur essendo state usate da dù fìmmine diverse e macari con frequenze diverse, le pignate si deteriorino tutte e dù allo stisso modo?».

«Impossibile».

«Inveci queste bambole pare che ci siano arrinisciute. Questo è il punto. Taliale bene».

«L'ho fatto e non arrinescio a capacitarmi».

«Sai l'unico modo possibile qual è?».

«Dimmelo tu».

«Nella prima pupa, quella di Palmisano, l'invecchiamento, la perdita dei pezzi, i pirtusa, sono avvenuti, diciamo accussì, per cause naturali, per usura del tempo e dell'uso, appunto. Nella secunna, quella del cassonetto, i danni invece sono stati provocati artificialmente».

«Vuoi babbiare?».

«Per niente. Qualichiduno che possidiva 'na bambola uguali a quella di Palmisano, ma tinuta meglio assà, ha visto le immagini trasmesse da "Televigàta", le ha registrate e se n'è sirvuto come guida per riprodurre gli stissi guasti nella sò bambola».

«Come fai a dirlo?».

«Si vidi chiaramenti che l'occhio di quella del cassonetto è stato asportato con un taglio netto, circolare, fatto con una lama, mentri in quella di Palmisano la gomma torno torno all'occhio mancante si è sfilacciata da sola e ha provocato la caduta del bulbo. E ancora: i pirtusa della bambola del cassonetto sono stati fatti inveci con un punteruolo, tant'è vero che se li talii con la lenti, arrisultano tutti eguali. Al contrario, i pirtusa dell'altra sunno completamente diversi uno dall'altro, uno è cchiù granni, uno è tanticchia cchiù nico...».

«Ma pirchì qualichiduno avrebbe dovuto perdiri tutto questo tempo a fari 'na cosa simili, priva di senso?».

«Forsi un senso ce l'ha, anzi, un senso ce l'ha di sicuro, ma noi non riusciamo a trovarlo».

Quattro

Tornaro a taliarle. Po' Montalbano spiò:

«Tu ne sai niente di 'ste bambole?».

«Io non ne ho mai avuto di bisogno» fici Mimì, tanticchia arrisentito e offiso.

«Non lo sto minimamenti mittenno in dubbio. Le tue capacità di gaddro nel gaddrinaio sono state, e restano, indiscusse. Io volivo sapiri se mi potivi dari qualichi semplici 'nformazione».

Augello ci pinsò supra. Po' parlò.

«'Na volta ho visto un documentario in una televisioni satellitare. Questi sono modelli antiquati, addirittura primitivi. Ora ne fanno di altre materie, tipo gommapiuma, però non sono più gonfiabili, parino fìmmine vere, fanno 'mpressioni».

«Quindi queste due di quando sarebbero?».

«Boh, direi di 'na trentina d'anni fa».

«Tommaseo stamatina m'ha spiato dove le vendono e io non ho saputo dirgli nenti. Tu lo sai?».

«Beh, su internet...».

«Lassa perdiri internet. Io sto parlanno di queste. Internet vallo a diri a Tommaseo che è chiaro che ne voli aviri una. Indove si potivano accattare 'na trentina d'anni passati?».

«Sai, certo non le fabbricavano in Italia. Considera che sgonfiate non è che pigliavano molto posto. Di sicuro te le spedivano dall'estero per pacco postale, facenno in modo che il contenuto non si capiva, macari scrivennoci supra indumenti o cose simili. Bastava sapiri a quale indirizzo fari l'ordinazioni».

«E quindi, 'n conclusioni, due pirsone di Vigàta, Gregorio Palmisano e un altro sconosciuto, si sarebbero fatte spediri, contemporaneamente o squasi, 'na trentina d'anni fa, dù bambole eguali».

«Accussì pare».

«Po', trent'anni doppo, allo sconosciuto capita di vidiri in televisione la bambola di Palmisano e fa in modo che la sò assomigli in tutto e per tutto all'altra».

«Va bene, Salvo, ma torniamo sempri a coppe, allo stisso punto: pirchì l'ha fatto?».

«E pirchì sinni è libirato ghittannola nel cassonetto?» rincarò il commissario.

Sinni ristaro in silenzio.

«Senti» fici tutto 'nzemmula Mimì taliannolo nell'occhi. «Non è che ti stai fissanno?».

«Su cosa?».

«Su 'ste bambole. Non è che ti metti a fari un'indagine come quella supra al cavaddro ammazzato?».

«Ma va, che ti veni 'n testa, è sulo per passari tempo».

Ma stava dicenno 'na farfantaria. In quella facenna c'era qualichi cosa che lo squietava.

Al momento di chiamari a Gallo per essiri accompagnato a Marinella, riflittì che le bambole non avrebbi potuto lassarle nell'ufficio. Capace che Catarella ci faciva accomidare a qualichiduno mentri lui non c'era e figurati che bella figura che avrebbi fatto! Potiva farle mettiri in magazzino o addirittura ghittarle.

Ma qualichi cosa dintra di lui gli diciva che gli sarebbero potute serviri.

Allura le fici mettiri nel bagagliaio e se le portò appresso.

Le assistimò nello sgabuzzino indove Adelina tiniva le scope e le altre cose che servivano per puliziare la casa. Le taliò ancora 'na volta l'una allato all'altra, addritta.

No, la bambola del cassonetto non era perfettamente uguali alla gemella.

Ora che stavano in piedi, la differenza si notava meglio. La minna della secunna bambola era grinzosa sì, ma aviva tri rughe in meno. Quella era la parti cchiù difficili da copiare. Non era vinuta beni.

Forsi per questo motivo lo sconosciuto l'aviva ghittata nella munnizza?

E questo significava che avrebbi circato di fari di meglio? Ma indove l’annava a trovari una terza bambola?

Nel pigliare le sigarette e l'accendino dalla sacchetta della giacchetta toccò 'na busta. La tirò fora, la taliò.

Era quella che aviva attrovato la sira avanti 'rifilata sutta alla porta e della quali si era completamenti scordato.

La caccia al tesoro.

Annò in cucina, raprì il frigorifero e gli cadero le vrazza.

Tanticchia di caciocavallo, quattro passuluna, cinco sarde sottoglio e 'na troffa d'acci, chiuttosto scarso il contenuto. Però meno mali che Adelina il pani frisco glielo aviva accattato.

Raprì il forno. E fici un ululato lupigno di filicità. 'Na porzione bastevole per quattro di milinciane alla parmigiana, fatte con tutti i sacramenti!

Addrumò il forno per quadiarle, annò nella verandina, conzò la tavola, sciglienno 'na buttiglia di vino speciali. Aspittò che la parmigiana quadiasse bona, e po' se la portò a tavola nella teglia stissa, senza travasarla in un piatto.

Quanno finì, un'ora e mezza doppo, alla teglia non ci sarebbi stato nisciun bisogno di lavarla.

L'aviva accuratamenti puliziata col pani, il suco era 'na maraviglia.

Si susì, sconzò, annò a pigliari la littra e 'na biro e si riassittò supra la panchetta.

Tre per tre

non fa trentatré

Montalbano scrisse il nummaro 9

e sei per sei

non fa sessantasei.

Scrisse 36.

La somma che risulterà

un altro numero darà.

9 più 36 faciva 45.

Se i tuoi anni aggiungerai,

l'enigma risolverai.

Aviva 57 anni epperciò il risultato era il nummaro 9364557. Un nummaro di telefono, era chiaro.

Senza prefisso e quindi era sottinteso che era quello della provincia di Montelusa.

E ora che fari?

Lassari perdiri quella minchiata o continuari il joco?

La curiosità la vincì facilmenti. Tanto, erano jorni nei quali aviva tempo di perdiri.

Era da anni che non gli capitava di potiri spardare intere jornate. Si susì, annò in càmmara di mangiare, fici il nummaro.

«Pronto?» arrispunnì 'na voci mascolina.

«Montalbano sono».

«Commissario, lei è?».

«Scusi, con chi sto parlando?».

«Non m'arriconosce? Tano sono, il barista del Marinella».

«Scusami, Tano, ma siccome...».

«Che fa, passa?».

«A fare che?».

«Per pigliarisi la littra che hanno lassato per lei aieri. Non l'hanno avvisata?».

«No».

«Se vuole, gliela porto a casa, però verso l'una, doppo la chiusura».

«No, grazie, vengo tra 'na mezzorata».

Prima di nesciri, taliò quanto whisky aviva 'n casa. Mezza buttiglia.

Giacché c'era, meglio accattarisinni una nova. Aviva calcolato mali la distanza, ad arrivari a pedi fino al bar Marinella ci mise 'nfatti quaranta minuti.

Quanno trasì, Tano stava posanno la cornetta del tilefono.

«Se arrivava un minuto prima, ci potiva parlari».

«Con chi?».

«Con la pirsona che ha lassato la littra per vossia».

Dubitava assà che quella pirsona aviva gana di parlari con lui.

«Ha telefonato?».

«Ora ora».

«Che voliva?».

«Voliva sapiri se era passato a ritirarla e io gli arrispunnii che sarebbi arrivato a momenti».

«Che voci aviva?».

«Pirchì, non lo conosce?».

«No».

«A mia parse 'na voci d'omo chiuttosto anziana. Ma forsi era finta. Non salutò, nenti, voliva sulo sapiri se lei era passato. Ecco la sò littra».

La pigliò da sutta al bancone e gliela pruì.

'Na busta uguali a quella che aviva già arricivuta, con l'indirizzo scritto allo stisso modo e la stissa speci d'intestazioni: caccia al tesoro. Se l'infilò 'n sacchetta, ordinò la buttiglia, la pigliò, la pagò e niscì. A tornari c'impiegò inveci squasi un'orata. Caminava a lento, si voliva godiri la passiata.

Arrivato, si riassistimò supra la panchetta, raprì la busta. Dintra c'era un mezzo foglio con una poesia.

Or che sei entrato nel gioco

per forza dovrai continuare.

Seguendo questo mio fioco lume,

sforzati di indovinare.

Allora, mio buon Montalbano,

dov'è che la via si fa stretta,

diventa una ruota e dal piano

risale infino alla vetta?

Se tu l'indovini, comincia ad andare,

percorrila tutta e infine vedrai

un posto che ti è famigliare

e lì un 'altra nuova troverai.

A parte che i versi erano 'na vera e propria fitinzia dal punto di vista della metrica, non ci accapì nenti. No, 'na cosa veramenti l'aviva accapita. E cioè che quello che gli scriviva era uno strunzo prisuntuoso. Lo si capiva da quel «mio buon Montalbano», che pariva ditto da uno che pinsava d'essiri minimo minimo il patreterno.

Comunque sia, l'indovinello non avrebbe potuto arrisolvirlo quella notti stissa. Aviva bisogno di

'na carta topografica. Epperciò la meglio era annarisi a corcare.

Non è che dormì bono, fici sogni strammi indove bambole gonfiabili gli facivano 'na poco d'indovinelli che lui non sapiva arrisolviri.

Gallo passò a pigliarlo alle otto e mezza.

«Fammi un favore. Dopo che m'hai lasciato, vai in Comune e fatti dare una carta topografica di Vigàta. O uno stradario, meglio. Se non ce l'hanno, domandagli una copia del nuovo piano regolatore. Oppure se hanno delle vedute del paese ma riprese dall'alto».

«Ah dottori dottori!» sclamò Catarella appena che misi pedi in commissariato. «Ci sarebbi che c'è un signori che l'aspetta e che voli parlari con vossia di pirsona pirsonalmenti».

«Chi è?».

«Lui dici che il nomi suo di lui sarebbi che si chiama Girolamono Cacazzone».

«Siamo sicuri che si chiama accussì?».

«Chi devi essiri sicuro, dottori? Io, vossia o Cacazzone?».

«Tu».

«Io pi parti mia sicurissimo sono! Forsi è lui che non è accussì sicuro di chiamarisi Cacazzone come sugno sicuro io!».

«Va bene, fallo passare».

Doppo dù minuti s'appresentò un ottantino con capilli e pili tutti bianchi, vuoi per l'età, ma soprattutto pirchì era un albino. D'altizza media, vistuto trasannato, scarpi 'mpruvulazzate, ariata di chi pari sempri spaisato, macari nel retrè della sò casa. Per l'età che aviva, si mantiniva bastevolmente bono. Sulo che gli trimavano tanticchia le mano.

«Sono Girolamo Cavazzone».

E come ti sbaglivi?

«Voleva parlarmi?».

«Sì».

«Si accomodi e mi dica».

L'altro si taliò torno torno con la facci strammata di chi, arrisbigliato da un sonno piombigno, non arrinesci a capacitarisi indove s'attrova.

«Beh?» l'invogliò il commissario.

«Ah, sì, ecco. Mi perdoni. Mi sono come dire permesso di disturbarla per domandarle un consiglio. Forse lei però non è la persona più adatta ma io non sapendo a chi...».

«L'ascolto» tagliò Montalbano.

«Certamente lei, ecco, non lo sa, ma io sono nipote di Gregorio e di Caterina Palmisano».

«Ah, sì? Non sapevo che avessero parenti».

«Da una ventina d'anni e più non ci frequentavamo. Questioni di famiglia, ereditarie... non so se...

Insomma, mia madre non aveva ereditato niente, tutto era andato agli altri due figli, Gregorio e Caterina e allora...».

«Senta, per favore, proceda con ordine».

«Mi scusi... sono mortificato... I miei nonni materni, Angelo e Matilde Palmisano, l'anno dopo essersi sposati ebbero una figlia, Antonia. Tenga presente che nonna Matilde ebbe Antonia quando ancora non aveva compiuto diciannove anni. Antonia, a diciotto anni, si sposò con Mario Cavazzone e nacqui io. Senonché, diciotto anni dopo avere avuto Antonia, nonna Matilde, che aveva allora trentasette anni, inaspettatamente fece un figlio, Gregorio. E poi arrivò anche Caterina.

Non so se mi sono spiegato bene».

«Si è spiegato benissimo» fici Montalbano che a un certo momento non ci aviva cchiù caputo nenti, ma non aviva gana di sintirisi arripitiri la genealogia.

«E quindi, essendo il parente più prossimo, io vorrei sapere da lei se... se stando cosi le cose... dato che le cose con tutta evidenza... ma sempre, s'intende, nella più stretta legalità...».

«Scusi, ma di quali cose parla?».

«Ecco, non vorrei sembrare uno che s'approfitta... la disgrazia è sempre disgrazia, per carità, e va rispettata, ecco... ma siccome... sempre legalmente, questo è sottinteso...».

Si fermò, pigliò sciato e po' sparò:

«Non possono essere considerati morti?».

«Chi?».

«I miei zii Gregorio e Caterina Palmisano».

«Sono pazzi, non sono morti».

«Ma sono incapaci d'intendere e di volere e quindi...».

«Senta, signor Cacazzone...» disse Montalbano abbuttato, sbaglianno il cognome apposta.

«Cavazzone».

«Vogliamo parlarci chiaro? Lei è venuto a domandarmi se c'era la possibilità per lei di ereditare dai suoi zii pur essendo questi ancora in vita ma dichiarati incapaci d'intendere e di volere. E cosi?».

«Beh, in un certo senso...».

«No, signor Cavazzone, questo è l'unico senso possibile. E io allora le dico che in questa materia non ci capisco niente. Si rivolga a un avvocato. Buongiorno».

Non gli pruì manco la mano. Quel vecchio ottantino con un pedi nella fossa, che voliva fari la jena con dù poviri pazzi 'nfilici, l'aviva profondamenti distrubbato. L'altro si susì cchiù 'mparpagliato di quanno era arrivato.

«Buongiorno» disse.

E niscì.

«Al Comune» fici Gallo trasenno «non hanno una carta di Vigàta. E manco lo stradario o fotografie dall'alto».

«E che hanno, nenti?».

«Hanno le piante del nuovo piano regolatore, sei fogli granni, che comprennino tutto il paìsi, ma dato che il piano non è ancora definitivo le carte non possono essiri date in visura».

«Vuoi diri in visione?».

«Nonsi, in visura, accussì mi dissiro».

«E che veni a diri in visura?».

«In visione».

Ecco un'altra orrenda parola da mettiri 'nzemmula a rottamare e compagnia bella.

«E la visura, m'ha ditto l'impiegato, bisogna sia espressamente richiesta, per iscritto e su carta intestata, da un'autorità competente».

«E chi sarebbe 'st'autorità?».

«Vossia, per esempio».

«Sì, ma competente di che?».

«Forsi competente di essiri un'autorità».

«Vabbene, la domanda ora te la scrivo e tu gliela porti».

«Dottori, ci sarebbi che c'è al tilefono il figlio della signura Cirribbicciò».

Doviva essiri Pasquale, il figlio d'Adelina, noto sdilinquenti e latro, che trasiva e nisciva dalla galera, e che gli era tanto affezionato, a malgrado che lui l'aviva qualichi volta arristato, da aviri voluto che fusse patrino di battesimo di sò figlio. Cosa che era stata causa di 'na sciarriatina con Livia, la quali non concepiva, nella sò mentalità nordica, che un commissario della polizia avissi come figliozzo il figlio di un pregiudicato.

«Va beni, passamelo».

«Dottori, Cirrinciò Pasquale sono».

«Dimmi, Pasquà».

«Ci voliva diri che portai a mè matre allo spitale».

«Oddio! Che le è successo?».

«Si pigliò uno scanto grannissimo nella sò casa a Marinella».

«E pirchì?».

«Dovenno pigliari 'na scopa, raprì lo sgrabbuzzinu e ci cadero di supra dù cataferi di fìmmina.

Almeno accussì criditti e ci pigliò un sintomo».

Matre santa, le bambole! Si era scordato di lassare un biglietto per avvertire Adelina!

«Non... non sono cataferi, ma...».

«Lo so, dottori. Mè matre niscì fora di casa facenno voci come 'na pazza e po' svinni. Quanno s'arripigliò, mi chiamò col cellulari. Io allura l’annai a pigliare di cursa, però prima di portarla allo spitale trasii 'n casa per vidiri di che si trattava. Mi accapisce? Pirchì si erano cataferi veri, che vossia aviva voluto ammucciare, 'nzumma, io potiva darle 'na mano d'aiuto...».

«A fare che?».

«Come a fari che? A livargli l'impaccio. A fari scompariri i cataferi. Oggi è facili con l’àcito».

Ma che minchia gli passava per la testa, a quello? Che lui si tiniva dù cadaveri 'n casa aspittanno l'occasioni bona per sbarazzarisinni? Meglio cangiare discorso, masannò avrebbi dovuto ringraziarlo della ginirosa offerta di complicità in occultamento di cadaveri.

«E ora Adelina come sta?».

«La fevri a quaranta havi. Si prioccupa per vossia. Mi dissi d'avvisarla che non ci poti priparari nenti di mangiare per stasira».

«Va bene, ti ringrazio. Abbrazza per conto mio a tò matre e falle tanti auguri».

L'altro non arrispunnì, stava ancora all'apparecchio.

«Pasquà, c'è altro?».

«Sissi. Dottori, se vossia mi permette, ci vorrìa diri 'na cosa».

«Dimmela».

«Ci voliva diri che vossia, essenno che è un omo sulo e che la sò zita non la veni a trovari spisso, epperciò...».

«Embè?».

«Epperciò è logico che vossia havi ogni tanto di bisogno...».

«Ma c'è tò matre che mi duna adenzia».

«Dottori, 'sto tipo d'adenzia non glielo pò dari mè matre».

«Allura a che ti riferisci?».

«'Nzumma, senza offisa, se vossia voli 'na beddra picciotta, abbasta che mi fa 'na tilefonata e io gliel'attrovo, inveci di sfogarisi cu 'na pupa. 'Na beddra picciotta russa, romena, moltava, come la preferisce vossia. Biunna, nìvura, a gusto sò. Garantita sana e pulita. A gratis, dato che si tratta di vossia. Mi spiegai? Voli che provido?».

Sbalorduto ora che aviva accapito la proposta, Montalbano ristò senza sciato. Non ce la faciva a raprire la vucca.

«Pronto, dottori, mi sente?».

Riappinnì il ricevitore. Questo sulo ci ammancava! E ora chi glielo livava dalla testa ad Adelina e a sò figlio che lui si corcava con le bambole gonfiabili? Stetti cinco minuti boni 'ncapace di fari nenti, arrinisciva sulo a santiare.

Cinque

Gallo tornò 'na mezzorata appresso.

«Tutto a posto».

«E le carte dove sono?».

«Le devono fotocopiare».

«E ci voli tutto 'sto tempo?».

«Dottore, ma lei non lo sa come sono fatti nell'uffici? Me li volivano dari domani a matino, ma io arriniscii ad avirli per oggi doppopranzo alle quattro. Però hanno voluto deci euri. Sei per la simplici copiatura e quattro per diritti d'urgenza».

«Eccoteli qua».

Caccia al tesoro, 'na minchia.

Intanto lui aviva già dovuto sborsari deci euro. Il jocatore misterioso avrebbi dovuto portari pacienza, capace che doviva aspittari al jorno appresso.

Tambasiò in ufficio fino a che si fici l’ura di annari a mangiare, niscì che era stuffato a morti.

Possibbili che non capitava cchiù un furto serio, 'na sparatoria, un tintato omicidio? Com'è ch'erano addivintati tutti santi?

Da Enzo si fici 'na gran mangiata, un po' pirchì aviva pititto a malgrado della parmigiana della sira avanti e un po' per ripagari il trattore della sdillusioni precedenti. Antipasto completo, nel senso che assaggiò tutto quello che c'era, spaghetti alle vongole veraci (veramenti veraci), cinco triglie di scoglio (veramenti di scoglio).

Considerò che Enzo, in cucina, non aviva nisciuna fantasia, faciva sempri gli stissi piatti. Ma si trattava sempri di cose freschissime ed Enzo le cucinava da Dio. A Montalbano 'n cucina la fantasia piaciva, ma sulo se era garantita da un artista dei fornelli, masannò era meglio ristari dintra alla normalità.

E stavolta dovitti farisi la passiata al molo fino a sutta al faro. S'assittò supra allo scoglio chiatto, ci stetti 'na vintina di minuti ad arricriarisi al sciauro d'alghe e di lippo, 'na speci di muschio virdi, profumatissimo, che cummigliava il bagnasciuca dello scoglio e che brulicava di minuscoli armaluzzi marini, e doppo sinni tornò in ufficio.

Erano passate da picca le quattro quanno Gallo gli portò le fotocopie del piano regolatore. Sei fogli grannissimi, arrutuliati e numerati.

No, non se li potiva portari a Marinella, ci ammancavano sulo le carte, già ci tiniva le dù bambole.

A occhio e cruci calcolò che, spostanno le dù pultrune e il divanetto, ce l'avrebbi fatta a ottiniri lo spazio nicissario per mettiri i sei fogli 'n terra, aperti l'uno appresso all'altro seguenno la nummarazione.

Spostò i mobili, raprì la prima carta e la misi supra al pavimento.

E qui accomenzò la camurria, pirchì il foglio aperto non ci voliva propio stari, si arrutuliava novamenti. Allura pigliò dalla scrivania la lenti d'ingrandimento, tri libretti d'istruzioni varie, il codice pinali, dù scatole di firmagli, 'na scatola di biro, 'nzumma tutto quello che potiva sirviri da piso ma che non era 'ngombrante e doppo un quarto d'ura di santioni arriniscì a mettiri i sei fogli nell'ordine giusto tinennoli fermi coi diversi oggetti pusati strategicamente.

Ma l'insieme arrisultò che era troppo granni per poterlo taliare stannosinni addritta. Allura pigliò

'na seggia e ci acchianò supra.

Dalla sacchetta tirò fora la poesia.

Ma com'è che Mimì Augello si trovava a passari sempri in queste occasioni?

«Stasira che film fanno? Superman? L'omo ragno? 007 da Vigàta con amore? Opuro si tratta di un discorso alla nazione?» spiò.

Montalbano non gli arrispunnì e Augello sinni annò scotenno la testa.

Sicuramenti, pinsò il commissario, si è fatto pirsuaso che io mi sto rimbambenno a ogni jorno che passa. Pirchì inveci non pinsava a se stisso che era obbligato a portari l'occhiali a malgrado che era cchiù picciotto?

La prima quartina della poesia non sirviva a nenti. Le indicazioni accomenzavano dalla secunna e precisamenti dalle paroli: dov'è che la via si fa stretta.

Scinnì, pigliò 'na biro e un foglio di carta, riacchianò.

Ma ci si vidiva picca, il soli era girato e dalla finestra non trasiva cchiù tanta luci.

Scinnì novamenti, addrumò il lampadario centrali e macari il lume da tavolo che orientò verso le carte. Riacchianò supra alla seggia. Il lume da tavolo non era direzionato bono.

Scinnì, lo posizionò meglio, riacchianò. Squillò il tilefono.

Scinnì santianno e ridenno, gli pariva di stari interpretanno 'na commedia di Beckett.

«Ah dottori dottori! Ah dottori!».

Questo esordio da tragedia greca in genere Catarella lo riservava per le chiamate del questore, la divinità superna, Zeus, che si manifestava dall'Olimpo.

«Che c'è?».

E infatti:

«Ci sarebbi che c'è il signori e guistori che ci voli pallari uggentevole!».

«Passamelo».

«Montalbano? Cos'è questa storia?».

«Quale storia, signor questore?».

«Il dottor Arquà m'ha inviato un dettagliato rapporto».

L'aviva ditto e l'aviva fatto, quel granni e grannissimo cornuto! Facemo finta di non sapiri nenti.

«Che rapporto, signor questore?».

«E per l'intervento da lei chiesto alla Scientifica».

«Ah, quello!».

«Secondo il dottor Arquà o lei ha voluto fare uno scherzo imbecille a lui, alla sua squadra, al dottor Tommaseo e al dottor Pasquano...».

Maria, quanti dottori! Manco uno spitale!

«... oppure lei non è più in grado di distinguere un cadavere da una bambola gonfiabile».

A questo punto, Montalbano addecise che abbisognava addimannare soccorso uggentevole, come diciva Catarella, al linguaggio legal-burocratese.

«Premesso che, per quanto attiene alla seconda parte del rapporto formulato e testé trasmessole dal dottor Arquà, dove apprendo venir formulata a mio carico non una circostanziata contestazione, ma una bassa e gratuita insinuazione, che purnondimeno si evince lesiva, mi avvarrò prestamente della facoltà di difesa concessami in alto loco versus il suddetto...».

«Senta, qui si tratta di...».

«Mi lasci finire, per favore».

Secco, brusco, da pirsona offisa nella dignità e nell'onori.

«Per quanto invece afferisce alla parte prima, quella dove il sunnominato dottore addebita a una mia volontà carnascialesca il fatto in oggetto, io mi vengo a trovare, mio malgrado, a dover rendere edotta l'autorità competente e a ciò appunto preposta, della facilmente acclarabile nonché personale e incontrovertibile sua responsabilità».

«Sua di chi, scusi?».

«Sua di lei, signor questore».

«Mia?!».

«Sissignore, sua. Col dovuto, immutato rispetto, facciole invero presente che ella, prendendo in visura il rapporto Arquà e chiedendomene spiegazioni, effettualmente mi bacchetta per una sua convinzione pregressa e nel contempo non fa altro che avallare l'ipotesi che io sia persona capace di scherzi idioti, rottamando così in un colpo solo un'onorata e specchiata carriera ultra ventennale, fatta di sacrifizi, di assoluta dedizione al lavoro...».

«Via, Montalbano!».

«... di rinunce, di onestà, mai un inciucio, mai accettata una dazione, in qualsiasi contingenza, pur nel precariato delle...».

«Montalbano, non faccia così! Io non intendevo mica offenderla!».

Ora abbisognava tirare fora la voci rotta, al limite delle lagrime.

«E invece l'ha fatto! Forse senza volerlo, ma l'ha fatto! E io ne sono così addolorato, così distrutto che...».

«Senta, Montalbano, mi ascolti. Non pensavo che la cosa potesse sconvolgerla tanto. Finiamola qua. Alla prima occasione che capita, ne riparliamo, va bene? Ma con calma, senza agitarsi, va bene?».

«Grazie, signor questore».

Si congratulò con se stisso, aviva recitato beni, se l'era sbrogliata senza troppa perdita di tempo.

Chiamò a Catarella.

«Non ci sono per nessuno».

Acchianò novamenti supra alla seggia e accomenzò a taliare le carte settore per settore e a pigliare appunti.

'N capo a 'na mezzorata, arrisultò che il sissanta per cento delle strate di Vigàta a un certo punto del loro tracciato si restringivano. Ma quelle che lo facivano in modo squasi esagerato erano tri. Si signò i nomi e passò alla secunna indicazioni, quella che diciva che la strata diventa una ruota.

Come potiva 'na via addivintari 'na rota?

Ammenoché non voliva significari che lì c'era un capolinea d'autobus che avrebbi dovuto pigliari.

Riconsiderò le tri strate.

E di colpo s'addunò che una di esse, e precisamenti la via Garibaldi, doppo essirisi stringiuta verso la fini come i pantaluna che si portavano un tempo, annava a sbucare in una rotatoria.

Ecco qual era la ruota di cui parlava la poesia!

E fatta la rotatoria, c'era 'na strata, via dei Mille, che acchianava verso la collina indove ci stava, a mezza costa, il camposanto e po' proseguiva traversanno i quartieri novi a nord del paìsi. L'aviva attrovata, ne era sicuro.

Taliò il ralogio, erano le cinco e mezza. Perciò tempo ne aviva quanto ne voliva. Ma santiò, arricordannosi che la machina gliela avrebbiro riconsegnata all'indomani matina. Ma che ci pirdiva a provari?

«Montalbano sono. Vorrei sapere se la mia macchina...».

«Tra 'na mezzorata può viniri a ritirarla».

Chi era il santo protettore dei meccanici? Non lo sapiva. E tanto per non sbagliari, li arringraziò cumulativamenti.

Niscì dalla càmmara e disse a Catarella che annava via e che non sarebbi cchiù tornato in sirata.

«Ma domani a matino torna, dottori?».

«Tranquillo, Catarè. Ci vediamo domani».

Quello, se lui moriva, era capace di moriri macari lui di malinconia, come capita a certi cani. E

Livia, sarebbi stata capaci di moriri di malinconia pirchì lui non c'era cchiù?

«Vogliamo rivoltare la domanda? Tu, se Livia scomparisse, moriresti di malinconia?» spiò

'ntipatico Montalbano secunno.

Preferì non arrispunniri.

Tri quarti d'ura appresso, faciva la rotatoria e imboccava via dei Mille.

Sorpassò il camposanto e continuò ad acchianare tra dù ali di cimento, grigi falansteri a mità tra un càrzaro messicano d'alta sorveglianza e un manicomio-bunker per pazzi furiosi e assassini visto come l'incubo di un pazzo furioso e assassino. Quella viniva chiamata, va a sapiri pirchì, edilizia popolare.

Secunno 'sti genii dell'architettura, il popolo doviva bitare in case che appena 'nfilavi la chiavi nella porta e ci trasivi per la prima volta, i muri accomenzavano a sbriciolarsi sutta ai tò occhi come gli affreschi sotterranei quanno ci arriva l'aria e la luci.

Càmmare niche, accussì scurose che dovivi sempri tiniri la luci elettrica addrumata, che ti pariva d'essiri in alta Svezia. L'architetti erano arrinisciuti nella gigantisca 'mprisa di scancillari macari il soli siciliano.

Quanno era nico qualichi volta sò zio l'aviva portato da 'n amico che aviva la campagna da quelle parti e lui quella strata, allura trazzera, se la ricordava che era, a mano dritta, tutta un gran bosco di maestosi aulivi saraceni e, a mano manca, 'na distesa di vigne a perdita d'occhio.

E ora sulo cimento. Accomenzò a 'nsultarli tutti, architetti, 'ngigneri, geometri, capomastri, muratori, con una raggia irrazionale, ma talmenti forti che il sangue gli faciva battiri le tempie.

«Ma pirchì me la piglio tanto?» si spiò.

Certo, il guasto alla natura, la morti del gusto, la prevalenza del laido, non sulo ferivano, ma macari offinnivano. Però era chiaro che 'na bona parti della sò arraggiatura era dovuta al fatto che a

'na certa età s'addiventa 'nsofferenti, non tinni va beni una. Altra conferma che stava addivintanno vecchio.

La strata continuava ad acchianare, ma ora a dritta e a manca c'erano villette fortunatamente senza pretese, con tanticchia d'orto dalla parti di darrè indove firriavano in libbirtà gaddrine e cani. Po', tutto 'nzemmula, le villette scomparsero, la strata procediva tra dù muri a sicco e, fatti ancora un centinaro di metri, finiva.

Montalbano fermò e scinnì.

La strata però non era vero che finiva, era l'asfalto che non c'era cchiù, pirchì da lì in avanti tornava a essiri l'antica trazzera d'una volta, tutta di scinnuta fino a valle. Era arrivato propio in cima e stetti tanticchia a godirisi il paisaggio.

Alle sò spalli il mari, davanti a lui il paìsi lontano di Gallotta, arroccato supra a un'altra collina, a mano dritta la dorsale di Monserrato che dividiva il territorio di Vigàta da quello di Montelusa. Rare le macchie di verde, oramà la terra non la coltivava cchiù nisciuno, fatica e dinaro persi.

E ora? Indove doviva annare? Nel posto in cui s'attrovava, propio in cima, non sulo non c'era 'na casa, ma non passava manco anima criata.

Percorrila tutta e infine vedrai

un posto che ti è famigliare.

Accussì faciva la poesia, e lui le aviva seguite le sò indicazioni, la strata l'aviva percorsa tutta, sulo che lì non c'era nenti di famigliare. Che sgherzo era?

A 'na decina di metri dalla strata ci stava 'na baracca di ligno, di un tri metri per tri, malannata, pariva abbannunata, e di certo non gli era famigliare. Comunque, era l'unico loco indove avrebbi potuto aviri qualichi 'nformazioni.

Non era un viottolo vero e propio quello che portava alla baracca, ma 'na pista appena appena signata dal passaggio dell'omo. Per scoprirla, uno doviva taliare il tirreno con attenzioni, signo che non ci caminavano spisso.

Seguennola, il commissario s'attrovò davanti alla porta chiusa. Tuppiò, nisciuno arrispunnì.

Appuiò l'oricchio al ligno, tra 'na tavola e l'altra, e non sintì la minima rumorata. No, oramà ne era certo, la baracca era disabitata.

E ora che faciva? Sfunnava la porta o sinni tornava narrè, avenno fatto quel viaggio ammatula?

«E facemu trentuno» si disse.

Anno nella macchina, pigliò 'na chiavi 'nglisa e tornò. Dato che la porta non combaciava cchiù con lo stipiti, c'infilò 'n mezzo la chiavi e fici leva. Il ligno era fracico e al terzo tentativo si spaccò.

Abbastaro dù pidati e la toppa cadì all'interno. Montalbano raprì la porta e trasì.

Non c'era un mobile, 'na seggia, uno sgabello, nenti.

Ma il commissario era ristato apparalizzato, a vucca aperta, la gola di colpo sicca, mentri un sudori friddo l'assammarava.

Pirchì non c'era un centimetro delle pareti che non fusse cummigliato da fotografie sò. Ecco il motivo per cui nella poesia gli si diciva che il posto gli sarebbi stato famigliare!

Arriniscì finalmenti a cataminarisi, ad avvicinarisi alla pareti di 'n facci per taliarle cchiù da vicino. Non erano esattamente fotografie, erano riproduzioni al computer delle immagini che

«Televigàta» aviva trasmesse.

Lui che parlava con Fazio, lui che accomenzava ad acchianare supra la scala dei pomperi, lui che scinniva pirchì Gregorio aviva sparato, lui che riacchianava, che si firmava a mezzo, che ripigliava ad acchianare, che satava la balaustra... In ogni pareti della baracca le immagini si ripitivano eguali.

'Na busta bianca spiccava in mezzo a quella centrali, tinuta da un pezzetto di scotch. La strappò malamente, tanto che appresso sinni vinniro cinco o sei fotografie che cadero 'n terra. Ne pigliò una a caso, se la misi 'n sacchetta 'nzemmula alla busta, niscì.

«Chi fici, dottori, tornò? M'aviva ditto che non tornava» disse, tra il contento e l'ammaravigliato, Catarella.

«Ti dispiace?».

Montalbano aviva cangiato idea strata facenno. A Catarella gli vinni un mezzo sintomo.

«Dottori, ma che dici? A mia, quanno che m'apparisci di pirsona pirsonalmenti, mi veni squasi di cadiri 'n ginocchio!».

Montalbano per un attimo ebbe l'orrenda visione di se stisso con un manto azzurro come la Madonna di Fatima.

«Ho bisogno che tu mi spieghi 'na cosa».

Catarella barcollò come doppo 'na mazzata 'n testa. Troppe emozioni in picca secondi.

«Io... io a vossia? Spiegari? Voli babbiare?».

Il commissario cavò dalla sacchetta la fotografia pigliata nella baracca e gliela misi sutta all'occhi.

Ammostrava a lui che mittiva il pedi supra al primo scaluni della scala dei pomperi con un'ariata non precisamenti disinvolta.

«Cos'è?».

Catarella lo taliò 'mparpagliato.

«Chisto vossia è! Non s'arriconosce?».

«Non ti ho domandato chi è, ma cosa è!» fici Montalbano stropiccianno il foglio tra il pollice e l'indice.

«Carta» arrispunnì Catarella.

Montalbano santiò, ma mentalmenti. Non voliva metterlo in agitazioni, voliva che gli spiegava qualichi cosa d'informaticcia.

«E 'na fotografia sì o no?».

Catarella gliela livò dalle mano.

«Mi permittisse».

La studiò tanticchia e po' detti la sintenza.

«Chista è 'na fotorafia che non è 'na vera fotorafia».

«Bravo! Vai avanti».

«Chista non è stata fatta con una machina fotorafica, ma è stata passata da un vuaccaessi a un computeri e doppo stampata».

«Bravissimo! E come è stato ottenuto il VHS?».

«Cettamenti registranno la trasmissioni che fici "Televigàta"».

«E come si ottengono le fotografie?».

«Colleganno il registratori a 'na piriferica del computer, 'na piriferica che si acchiama quisizione video».

Dell'ultima parti non ci aviva accapito 'n'amata minchia, ma aviva saputo quello che voliva sapiri.

«Catarè, sei un Dio!».

Catarella, di colpo, arrussicò, scostò le vrazza, allargò le dita e fici un mezzo giro supra a se stisso.

Quanno Montalbano gli faciva un elogio, sinni gloriava tanto da pariri un pavone che fa la rota.

Appena arrivato a Marinella, s'arricordò che non aviva nenti di mangiare. Sintiva tanticchia di pititto e sarebbi stato sbagliato satare la cena pirchì, a tarda notti, quel pititto di sicuro sarebbi addivintato vera fami. Allura cavò dalla sacchetta la littra ancora chiusa e la fotografia, le posò supra al tavolino, annò a darisi 'na lavata 'n facci e po' risto 'ndeciso pirchì non gli spicciava di tornari da Enzo doppo che c'era stato a mezzojorno.

Sonò il telefono.

«Pronto?».

«Da quand'è che non ci vediamo?» fici 'na bella voci fimminina che arriconobbe immediatamenti.

«Dai tempi di Rachele» arrispunnì. «Ne hai notizie?».

«Sì. Sta bene. L'altro giorno ho ammirato in televisione le tue prodezze e mi è venuta voglia di vederti».

«Si può fare».

«Stasera sei libero?».

«Sì».

«Allora tra mezz'ora arrivo. Pensa intanto a un bel posto dove portarmi a cena».

Era contento di rividiri a Ingrid, la svidisa che gli era amica, confidenti e, all'occasioni, macari complice.

Per fari passari quella mezzorata, gli vinni 'n testa di leggiri le nove istruzioni della caccia al tesoro, pigliò la busta 'n mano ma la riposò squasi subito, capace che c'era scritta qualichi cosa che gli avrebbi fatto viniri il nirbùso. Leggerla prima di annare a mangiare perciò non era cosa, c'era il rischio che avrebbi potuto fargli passari il pititto.

Tutto 'nzemmula gli tornò a menti quello che era capitato ad Adelina e annò a raprire lo sgabuzzino per controllare le bambole. Là dintra non c'erano cchiù.

Sicuramenti Pasquali le aviva cangiate di loco. Ma indove aviva potuto mittirle? In cucina non c'erano. Raprì l'armuàr e non erano manco lì. Vuoi vidiri che se l'era portate a la sò casa? La meglio era fargli 'na tilefonata, accussì avrebbi potuto addimannargli notizie di Adelina.

Sei

Gli arrispunnì la mogliere di Pasquale la quali gli dis se che sò marito era nisciuto e sarebbe tornato tra un'orata.

«La fazzo chiamari?».

«No, grazie. Sto uscendo e torno tardi».

«Gli devo diri qualichi cosa?».

«Beh, sì».

Ma era nicissario ricorriri a un giro di paroli in modo che lei non accapiva di che parlava...

«Gli dica che di quelle cose che lui sa dove trovare ne ho bisogno urgente. E che mi telefoni domani mattina».

Po' sinni anno nella verandina a fumarisi 'na sicaretta.

Appena vitti a Ingrid 'nquatrata nella porta, strammò.

Ma com'è che per quella fìmmina l'anni non contavano? L'ingranaggio del tempo, per lei, si era

'ncippato. Anzi, gli parsi squasi cchiù picciotta dall'ultima volta che l'aviva viduta, ed era passato chiossà di un anno. Era vistuta come sempri, jeans, cammisetta e sandali. Ed era elegantissima come se aviva di supra un abito di gran marca.

S'abbrazzaro stritti. Ingrid non usava profumi, non ne aviva di bisogno, era la sò pelli a profumare di vircoco appena cogliuto.

«Vuoi entrare?».

«Non ora, dopo. Hai deciso dove andare?».

«Sì, c'è un ristorante a riva di mare, a Montereale marina che...».

«Quello degli antipasti? Lo conosco. Andiamo con la mia».

Non arriniscì ad accapire di che marca fusse la machina di Ingrid, ma era del tipo che a lei piaciva assà. A dù posti e chiatta come 'na linguata.

Sogliole a quattro ruote, velocissime. Con un'altra fìmmina di certo non se la sarebbe sintuta d'acchianare supra a quella speci di siluro, ma di lei si fidava. Oltretutto, quanno stava ancora in Svezia, era stata meccanico di machine da cursa.

Ci 'mpiegò 'na vintina di minuti ad arrivari al ristoranti, a fari lo stisso percorso il commissario ci mittiva chiossà di tri quarti d'ura. Quanno guidava, Ingrid prifiriva non parlari, ogni tanto però dava

'na taliata a Montalbano, gli sorridiva e gli faciva 'na liggera carizza supra alla gamma.

Scigliero il tavolino cchiù vicino al mari, che s'attrovava a 'na vintina di metri dalla spiaggia. Il ristoranti era famuso per la quantità e la qualità d'antipasti, tanto che squasi tutti i clienti satavano il primo. Accussì addecisero di fari macari loro. Ordinaro macari 'na bottiglia di bianco ghiazzato.

Mentri aspittavano che portassiro i primi antipasti, ne approfittaro per parlari tanticchia. Ingrid sapiva che a Montalbano, quanno s'attrovava davanti il piatto sirvuto, piaciva raprire la vucca sulo per mangiare.

«Tuo marito come sta?».

«E chi lo vede? Ormai, da quando è stato eletto, viene a Montelusa sì e no una volta ogni due mesi».

«E tu non lo vai a trovare a Roma?».

«A fare che?».

«Beh, dato che siete sempre marito e moglie...».

«Dai, Salvo, lo sai che lo siamo solo formalmente. E tra l'altro, a me conviene così».

«Nuovi amori?».

«Ti metti a fare il commissario?».

«Ma no, era tanto per parlare».

«Allora, tanto per parlare, ti rispondo di no».

«Quindi, da un anno, niente uomini?».

«Stai scherzando? Secondo il cattolico che sei, una donna deve andare con un uomo solo se ne è innamorata?».

«Se fossi quel cattolico che pensi tu, dovrei risponderti che una donna deve andare solo con l'uomo che è suo marito».

«Figurati la noia!».

Arrivò il cammareri portanno in equilibrio i primi sei piatti.

Doppo dodici diversi antipasti abbunnanti e dù buttiglie di vino, in attesa che arrivasse il secunno,

'na grigliata di pisci, ripigliaro a parlari.

«E tu?» spiò Ingrid.

«Io cosa?».

«Sempre fedele a Livia, sia pure con qualche eccezione?».

«Sì».

«Questo sì riguarda la fedeltà o le eccezioni?».

«La fedeltà».

«Vuoi dire che dopo Rachele...».

«Niente».

«Nemmeno una piccola tentazione?».

«In quanto a quelle, anche grandi».

«Davvero? E come fai a resistere? In quel momento reciti una preghiera e il diavolo se ne scappa?».

«Dai, non sfottere».

«Non ti sto sfottendo. Tutt'altro. Ti ammiro. Sinceramente».

«Una volta facevi meno domande».

«Si vede che mi sto del tutto italianizzando e divento sempre più curiosa degli altri. E dimmi: ti costa molto?».

«Cosa?».

«La resistenza alle tentazioni».

«Qualche volta sì, m'è costato. Ma negli ultimi tempi, mi costa sempre di meno. Sarà per l'età».

Ingrid lo taliò e po' si misi a ridiri di cori.

«Cos'è che ti diverte?».

«La storia dell'età. Ti sbagli di grosso. In queste cose l'età c'entra poco. Te lo dico per esperienza personale. Ci sono trentenni che da questo punto di vista sembrano settantenni e viceversa».

Portaro la grigliata e un'altra buttiglia. Quanno finero, Montalbano le spiò se voliva un whisky.

«Sì. Ma da te».

Appena Ingrid pigliò il vialetto che portava alla casa del commissario, spiò:

«Aspettavi qualcuno?».

«No».

Puro lui aviva notato la machina stranea ferma davanti alla porta.

Quanno le si affiancaro, dall'altra machina scinnì 'na picciotta vintina, un metro e ottanta di billizza, biunna, 'na gonna a livello puberale e con un trucco tanticchia troppo pisanti. Macari loro scinnero.

«Montalbano?».

«Sì».

«Io avere sonato ma nessuno rispondere. Allora pensato che tu fuori ma poi tornare».

Il commissario era strammato. Ma chi era? Che voliva?

«Senta...».

«Me non avere detto che tu volere fare cosa a tre. Io faccio, ma solo con te. Me non piacere con altra donna. Però può guardare».

«Se è per questo...» fici Ingrid chiuttosto arraggiata. «Vi lascio subito. Ciao Salvo e buon divertimento».

Fici per trasire nella sò machina. Ma non ci arriniscì pirchì Montalbano l'affirrò per un vrazzo mentri s'arri volgiva alla picciotta.

«Senta, signorina, dev'esserci un equivoco. Io non...».

«Avere capito. Tu rimorchiato e piacere quella. No problema. Io andare».

Montalbano lassò il vrazzo di Ingrid, s'avvicinò all'altra e le fici a voci vascia.

«Ti pago lo stesso. Quanto ti devo?».

«Tutto pagato. Ciao».

Trasì nella machina e partì facenno marcia indietro.

Montalbano, ancora mezzo strammato, raprì la porta di casa e Ingrid lo seguì, muta. E quanno il commissario raprì macari la porta-finestra, si annò ad assittare nella verandina, sempri senza diri parola. Lui pigliò la buttiglia di whisky e dù bicchieri e si assittò allato a lei supra la panchetta.

Ingrid stappò la buttiglia nova e inchì mezzo bicchieri, ma non servì a Montalbano.

«Non capisco perché te la prendi tanto» attaccò il commissario versannosi il whisky. «In fondo, tra noi due...».

«Tra noi due un cazzo!».

Il commissario pinsò che la meglio era di viviri 'n silenzio. Doppo tanticchia fu lei a parlari.

«Non credere che io sia gelosa. Me ne fotto delle tue donne».

«E allora perché fai quella faccia?».

«Perché sono profondamente delusa».

«Di che?».

«Di te. Non immaginavo che tu arrivassi ad essere così ipocrita!».

«Ti vuoi spiegare?».

«Ma come? Al ristorante m'hai detto che non c'erano state eccezioni dopo Rachele e invece c'era qui una puttana che t'aspettava. Secondo te, quindi, andare con una puttana non costituisce eccezione, perché una puttana tu evidentemente non la consideri nemmeno una donna!».

«Ingrid, sei completamente fuori strada! Si tratta di un equivoco. Ora ti spiego tutto».

«Tu non sei tenuto a darmi spiegazioni e inoltre io non le voglio sentire. Vado in bagno».

Ma tu talìa che casino gli aviva combinato quel grannissimo strunzo di Pasquale! Per la raggia, si calumò un intero bicchieri. Sintì a Ingrid che nisciva dal bagno e po', doppo tanticchia, sintì che faciva un grido.

«Che succede?».

«Niente, niente».

Non rientrò subito. Po' tornò scàvusa, tinenno i sandali in una mano. Ma era cangiata. Ora aviva l'occhi che le sbrilluccicavano e un sorriseddro malizioso e sfottente.

«E bravo Salvo!» fici tornanno ad assittarisi allato a lui.

«Senti, ti vorrei spiegare...».

«Te lo ripeto, non me ne importa delle tue spiegazioni. Ne ho conosciuti uomini, ma mai uno così ipocrita come te!».

Arrè con l'ipocrisia! Ma stavolta, mentre parlava, era chiaro che le viniva di ridiri. Che le stava passanno per la testa?

«Al ristorante» ripigliò «m'hai detto che era l'età che ti faceva resistere meglio alle tentazioni. E

invece hai trovato un modo particolare. Che bugiardo che sei, Salvo!».

Si inchì novamenti il bicchieri.

«Certo, per noi donne c'è il vibratore. Ma non è la stessa cosa».

Ma di che parlava?

«Perché due?» continuò lei. «Oltretutto sono tutte e due bionde. Non era meglio se te ne sceglievi una bionda e l'altra bruna?».

Allura, di colpo, ci fu la luci.

«Dove le hai trovate?».

«Sotto il tuo letto. M'ero chinata per slacciarmi i sandali e...».

Ma lui non l'ascutava cchiù. Si era susuto, l'aviva scavalcata ed era curruto nella càmmara di dormiri. Le dù bambole gonfiabili erano propio sutta al letto. Quello strunzo di Pasquale aviva pinsato bono di ammucciarle lì. Tornò nella verandina.

«Ora tu ti scoli la bottiglia mentre mi stai a sentire» disse risoluto.

Le contò tutto, in certi passaggi Ingrid dovitti tinirisi la panza che le faciva mali per il troppo ridiri.

Al momento di ghirisinni, che erano le tri di notti e tutto il whisky che c'era in casa era finuto, Ingrid si batti 'na mano sulla fronti.

«Me lo stavo dimenticando! C'è un mio amico che ti vuole conoscere».

«Un tuo ex?».

«Ma no, figurati. E un ragazzo ventenne, estremamente intelligente. E molto innamorato di me, ma è soprattutto un tuo ammiratore. Mi farebbe molto piacere se gli parlassi. Si chiama Arturo Pennisi».

«Digli di telefonarmi domani mattina verso mezzogiorno, in ufficio. A nome tuo. Ce la fai a guidare?».

«Spero di si. Non ti chiedo di ospitarmi perché alle otto vengono i muratori. Sto facendo fare dei lavori. Ciao. Ti voglio bene».

Lo vaso a leggio supra la vucca, niscì fora, trasì in machina, partì.

Ma quel tanticchia di sonno che l'aviva assugliato verso le dù, ora gli era completamenti sbariato.

Annò a lavarisi la facci, po' pigliò la busta del joco e tornò ad assittarisi nella verandina. Stavolta non c'era il sò nome, ci stava sulo scritto: caccia al tesoro.

Però, prima di raprirla, si misi a pinsari a come potiva essiri l'omo che aviva organizzato il joco e pirchì l'aviva fatto. Aviva scoperto, per spirenzia, che se ti fanno dù dimanne una appresso all'altra, è sempri meglio accomenzare a rispunniri dalla secunna, pirchì la risposta che darai a questa secunna dimanna in qualichi modo ti aiuterà ad arrispunniri alla prima.

Epperciò: pirchì quella cosiddetta caccia al tesoro? Che 'ntiresse ne ricavava quello che l'aviva organizzata? 'Ntiresse di natura pratica, economica, non era manco da pinsaricci. A 'na caccia al tesoro in genere partecipano diverte pirsone, singolarmenti o a gruppi, qua inveci pariva che il concorrenti era unico e sulo: lui. Tant'è vero che supra alla busta del primo pizzino che aviva arricevuto c'erano il sò nome e cognome. E inoltre nel primo verso della secunna quartina era tirato in ballo direttamenti:

Allora, mio buon Montalbano.

E ancora: le pareti della baracca di ligno non erano tappezzate di sò fotografie?

Non c'era dubbio quindi che, più che un joco, si trattava di 'na sfida personali. E non al Montalbano omo, ma al Montalbano in quanto sbirro.

Ora chi è che sfida uno sbirro? O un altro sbirro, per esempio in una gara di bravura a chi risolve per primo un caso, opuro 'na pirsona che ha 'na certa mentalità. Non necessariamenti una mentalità di sdilinquenti, sia chiaro, ma comunque uno dotato di 'na testa tanticchia contorta, al quali piaciva addimostrare che lui era cchiù bravo e cchiù 'ntelliggenti dello sbirro.

E che voliva fari sapiri indirettamenti al commissario che se ne aviva gana, avrebbi potuto fari la qualunque, pirchì tanto Montalbano non sarebbi mai arrinisciuto a scoprirlo pirchì non era alla sò altizza, al livello della sò 'ntelligenza.

Allura c'era da spiarisi se un omo accussì si sarebbi mantinuto sempri dintra ai limiti di un joco fatto tanto per passari tempo opure, a un certo punto, gli sarebbi vinuto il firticchio di fari un joco cchiù pisanti e periglioso. Ai limiti della liggi o addirittura fora da quei limiti.

Come volevasi dimostrare, arrispunnenno alla secunna dimanna aviva in parti arrisposto alla prima: chi era l'omo?

Certo, la dimanna non presupponeva 'na risposta con nome e cognome.

Annava formulata meglio: che tipo era quell'omo? Doviva 'nzumma farne un profilo.

E qui gli vinni da ridiri. In tante pillicule miricane c'era spisso uno psicologo che travagliava con la polizia e che faciva i profili degli assassini scanosciuti. Nelle pillicole, 'sti psicologi erano sempri bravissimi, di un serial killer che non avivano mai viduto arriniscivano a diri quant'era àvuto, l'età che aviva, se era schetto o maritato, quello che gli era capitato quanno aviva cinco anni e se viviva birra o coca-cola. E ci 'nzirtavano sempri.

No, meglio non allargarsi tanto. Non si trattava di un vecchio, pirchì un vecchio non avrebbi saputo adoperari gli strumenti tecnologici che erano sirvuti a riprodurre le fotografie, ma un omo che potiva aviri dai vinti ai sissanta anni. Cioè a diri mezzo paìsi. 'Ntelliggenti, superbo, portato a cridirisi tanto cchiù furbo e abile degli altri da sintirisi in qualichi modo capace di vinciri qualisisiasi partita avissi voluto jocare. Un omo, in definitiva, pericoloso.

Non era meglio allura 'nterrompiri la caccia al tesoro, inveci di continuari la sfida? No, sarebbi stato un errore. Di certo la mancata partecipazione l'avrebbi pigliata come un'offisa e si sarebbi vendicato. Come? Ma facenno qualichi cosa di clamoroso, qualichi cosa che avrebbi obbligato a Montalbano a continuare. No, era cchiù giudizioso non corriri quel rischio.

Pigliò la busta, la raprì, tirò fora il foglio.

La solita poesiola che faciva vommitare, che macari un cantastorie mezzo analfabeta si sarebbi vrigugnato di scriviri.

Ma che bravo che sei stato!

Il posto giusto hai indovinato!

1-2/17-9-17/10-5-1-14-7-5/13-2/6-7-2-8-16-7-2

12-11/14-9-7-12-2/2-13-13-2/6-16-9-17-2/8-5-17-1216-7-2!

7-13/11-3-5-10-10-6-8-13/12-5-12/9-5-V-3-13-6/1-23-1-13-3-2, 15-16-13-7-1-16-12-5/4-2/7-13/F-13-3-13/3-2-1-13-116-4-13-3-2.

Certo il modo ti sorprenderà,

ma il gioco è questo e continuerà.

Bih, che camurria! E che era, la «Settimana enigmistica»? L'aneddoto cifrato? Riservato ai solutori cchiù che scarsi? E quei dù versi, chiamiamoli accussì, iniziali gli arricordavano la stissa altizza poetica di un carosello indove c'era un robot che diciva alla patrona: Or che bravo sono stato,

posso fare anche il bucato?

Ancora non gli calava sonno, a malgrado del vino e del whisky che si era tracannato, e allura annò in bagno a spogliarisi, si lavò, si rinfilò la cammisa e, in mutanne, pigliò 'na biro e un foglio di carta e tornò ad assittarisi nella verandina.

Se l'autore della, si fa per diri, poesia, aviva arrispittato le regole enigmistiche, a ogni nummaro uguali doviva corrisponniri 'na littra uguali.

Ed era chiaro che tutte le vocali e le consonanti che erano state cifrate dovivano attrovarsi comprese nei dù distici in chiaro, vale a diri il primo e l'ultimo.

Accomenzò dal principio della poesia. Scrisse il primo verso e sutta ci misi, per prova, 'na serie di nummari, dall'uno a proseguire.

M a c h e b r a v o c h e s e i s t a t o

1 2 3 4 5 6 7 2 8 9 3 4 5 10 5 11 10 12 2 12 9

Dato che nel primo verso del secunno distico c'erano cinco gruppi di nummari, questo significava che il verso era fatto di cinco paroli.

Po' copiò il secunno verso e sutta continuò coi nummari.

Appresso scrisse i primi tri gruppi di nummari e sutta ci misi le vocali o le consonanti corrispondenti seguenno la numerazioni che aviva appena finito di fari.

1-2 / 17-9-17 / 10-5-1-14-7-5

M a n o n s e m p r e

Ci aviva 'nzirtato al primo colpo! Decifrati, i dù versi facivano accussì: Ma non sempre la bravura

ti porta alla buona ventura!

Ora pigliò i primi dù gruppi del terzo distico e li copiò.

7-15 / 12-13-9-11-11-6-8-15 /

Sutta ci scrisse le vocali e le consonanti corrispondenti e gli vinni fora: R g t 1 o i i b v g

Che non significava 'na minchia, manco in cinìsi o in groenlandisi. Ma subito gli vinni di pinsari:

«Vuoi vidiri che il codici del terzo distico s'attrova nell'ultimi dù versi in chiaro e abbisogna perciò ricomenzari a nummarari ogni vocali e ogni consonanti ripartenno da 1?».

Ci provò. E arrisultò essiri la strata giusta:

La prossima

Macari stavolta ci aviva viduto bono. Continuò.

La prossima non dovrai cercare,

qualcuno te la farà recapitare.

Risolto il messaggio, risto tanticchia sdilluso.

Aviva perso un sacco di tempo a sforzarisi di fari un profilo del promotore della caccia e ne era vinuto fora un ritratto che potiva forniri qualichi motivo di prioccupazioni. Però l'indovinelli, le crittografie, i jochi enigmistici che proponiva erano veramenti terra terra, propio 'na cosa per principianti. Li faciva accussì apposta, stimannolo incapaci d'arrisolviri problemi cchiù complessi o pirchì era questo il livello dello stisso che li proponiva?

Comunque, visto e considerato che doviva sulo aspittari che l'altro si faciva vivo, si susì, chiuì la porta-finestra e si annò a corcare.

Sette

L'arrisbigliò il tilefono. Erano le novi del matino.

«Pronto, dottori? Pasquale sono. Che fici, non ci piacì la picciotta che le mannai? Mi spiega bono come la voli che stasira stissa gliene manno un’autra?».

Gli tornò di colpo a menti la malafiura fatta con Ingrid. E gli vinni gana di pigliarlo a mali paroli.

Ma arriniscì a controllarisi. In funno quello, a modo sò, gli voliva fari un piaciri.

«Pasquà, ma che ti passò per la testa?».

«Non la voliva?».

«Ma chi te l'ha detto che la volevo!?».

«Dottori, vossia stisso!».

«Io?! Ma se al telefono non ti dissi nenti e riattaccai!».

Pasquale fici 'na pausa e po' sclamò:

«E chisto fu l'errori!».

«Quale errore?».

«Mio, dottori. Pinsai che dato che taciva, acconsintiva. E po' vossia, di rinforzo, tilefonò».

«Come di rinforzo?».

«Sissi, dottori. Mè mogliere m'arriferì che vossia le aviva ditto che aviva bisogno urgenti di quelle cose che io saccio indove attrovare. E accussì pinsai che s'arrifiriva alle buttane».

Vuoi vidiri che annava a finiri che doviva essiri lui a dimannargli scusa? La meglio era cangiare argomento.

«Come sta Adelina?».

«La fevri ci calò. Ma ci spuntaro tanti puntini russi. 'U dutturi dici che è 'na conseguenzia dello scanto, ca po' passano».

«Vabbene, ti saluto».

«Me lo dice come mi devo arregolari?».

«Per cosa?».

«Per la facenna delle buttane. Le servino sempri opuro addubba con le bambole?».

Montalbano pirdì la vista dell'occhi.

«Senti, Pasquà, te lo dico 'na volta per tutte! Fatti i cazzi tò, chiaro?».

«Come voli vossia» fici l'altro tanticchia offiso.

Quelle dù mallitte bambole non le potiva continuari a tiniri casa casa, capace che gli procuravano qualichi altro guaio.

Ma indove mittirle? Ci pinsò supra tanticchia e a un certo punto si fici pirsuaso d'aviri attrovato la soluzioni perfetta. Tanto perfetta, che si maravigliò di non avirla pinsata prima.

Seppellirle dintra a 'na fossa scavata nella rina allato alla verandina.

Raprì lo sgabuzzino, pigliò 'na pala, scinnì sulla pilaja, scigli il posto, si taliò torno torno per vidiri se passava qualichiduno e accomenzò a scavari.

Non era cosa facili pirchì la rina, essenno asciutta e finissima, sciddricava e tornava a inchiri la buca. Doppo un quarto d'ura si misi a torso nudo.

C'impiegò un'orata di travaglio pisanti, ma alla fini arriniscì a scavari la buca della grannizza giusta. Ma era morto di stanchizza. E si era vivuto chiossà di dù litra d'acqua.

Annò a tirari fora da sutta al letto la prima bambola, la pigliò, ma arrivato alla porta-finestra si bloccò santianno. A 'na decina di metri, propio all'altizza della verandina, c'era 'na famigliola, patre, matre e dù picciliddri, scinnuti da 'na machina. Stavano tiranno fora 'n ombrelloni.

Nenti da fari, quelli avivano 'ntinzioni di firmarisi a longo.

Portò la bambola nell'anticàmmara, annò a pigliari l'altra e gliela misi allato, si puliziò di tutto punto, si vistì, niscì fora, acchianò 'n machina e l'avvicinò cchiù che potiva alla porta a marcia indietro, accussì del trasbordo delle bambole non sinni sarebbi addunato nisciuno, capace che se qualichiduno lo vidiva a distanza si mittiva a fari voci che stava ammuccianno cataferi nel bagagliaio.

S'addunò troppo tardo, a mità strata, che l'auto che gli caminava davanti stava frinanno pirchì c'era un posto di blocco di carrabbineri. Epperciò fu costretto a firmari di colpo. La machina che stava darrè, di conseguenzia, vinni a sbattiri violenta contro la sò. La fìmmina che guidava la machina di darrè scinnì di cursa 'nfuriata, vitti di straforo il contenuto del bagagliaio che s'era rapruto per la botta, fici 'na vociata longa che parse pricisa 'ntifica a 'na sirena di papore e cadì longa 'n terra, sbinuta.

I carrabbineri, che non ci avivano accaputo nenti, a vidiri la fìmmina che crollava a sacco vacante, si misiro a corriri verso le dù machine con le armi puntate e facenno voci a tutti di non cataminarisi.

In un vidiri e svidiri Montalbano, al quale si era attortato il collo per il cosiddetto colpo di frusta, fu obbligato a scinniri dalla machina a mano in alto.

«La signora non...» principiò.

«Zitto!».

Un appuntato, che s'era calato a taliare dintra al bagagliaio, s'avvicinò al commissario e lo taliò storto.

Intanto dù automobilisti erano arrinisciuti ad arrisbigliari la fìmmina sbinuta. La quali, appena raprì l'occhi, satò addritta, puntò l'indici contro Montalbano e si misi a ululari isterica:

«Assassino! Assassino!».

Montalbano non sapiva se ridiri o chiangiri, certo è che stava sudanno friddo. Intanto si annava formanno 'na coda di machine che non finiva cchiù. E il nummaro dei curiosi, che scinnivano dalle machine e vinivano di cursa a taliare quello che stava capitanno, aumentava, ma era 'na stima per difetto, di cinco-sei unità al minuto secondo.

«Senta, mi lasci spiegare...» fici rivolto all'appuntato.

L'altro isò un vrazzo a intimargli di stari con la vucca chiusa.

«Tu vieni con noi».

«E perché?».

«Smercio di materiale pornografico».

«Vorrei spiegare...».

«Ti spieghi in caserma!».

E questo sulo ci ammancava!

Essiri portato alla caserma dei carrabbineri e lì, 'na volta scoperto chi era, addivintari un gran motivo di divertimento, di gran scialo per tutti. No, doviva evitarlo, meglio tentari d'arrisolviri subito la quistioni a costo d'abbassarisi fino alla oramà comica frase «lei non sa chi sono io».

«Sono un commissario della polizia di Stato».

«E io sono il Papa!».

«Posso prendere i documenti?».

«Sì, ma muoviti lentamente».

Arrivò in commissariato coi capilli ritti supra la testa per la gran raggia, il collo torto e le mano che gli trimavano.

«Maria, dottori! Che fu?» spiò allarmato Catarella.

«Niente, ho avuto un piccolo incidente. Mandami a Fazio».

«Dottore, che fu?» arripitì Fazio appena che lo vitti.

«Nenti, 'na cretina m'ha tamponato e per picca i carrabbineri non m'arristavano».

Gli contò com'era annata.

«Pirchì non si fa dari un'occhiata al collo?».

«Doppo, doppo. 'Sta camurria ci mancava! Senti, nel mio bagagliaio ci sono le due bambole.

Quella di Palmisano, falla riportare nella casa col sistema del baule. L'altra inveci la rimittiti nel baule che lassate nel garage a mia disposizione».

«Provvedo subito».

Finalmente sinni era sbarazzato di quelle dù gran camurrie!

Ma si sbagliava.

Quelle dù gran camurrie avrebbiro continuato a dargli fastiddio macari a distanza. Manco la mummia di Tutankamon portava tanta jella! Infatti, 'na mezzorata appresso, non ce la fici cchiù a reggiri al gran dolori che aviva al collo. Tra l'altro, accussì cumminato, non avrebbi potuto manco mittirisi a guidare. Mimì Augello l'accompagnò al pronto soccorso dello spitale di Mont elusa.

'N conclusioni, un'orata appresso, s'arritrovò con un collare bianco al collo, di quelli che te lo tengono fermo e tu pari priciso 'ntifico a Frankenstein quanno ti devi cataminare.

Tornò in ufficio e stetti un quarto d'ura 'nsirrato nella sò càmmara a santiare per sfogarisi.

Non se la sintiva di annare a mangiare da Enzo con quella gaggia torno torno al collo. E po': sarebbi arrinisciuto a mangiare e a viviri normalmenti, senza allordari la cammisa e la tovaglia come un picciliddro di qualichi misata o un vecchio rincoglionito e vavoso? Meglio fari 'na prova solitaria a Marinella.

In quel momento lo chiamò Catarella.

«Ci sarebbi che c'è uno al tilefono che ci voli parlari a vossia di pirsona pirsonalmenti».

«Uno mandato da un tale?».

Catarella, naturalmenti, non accapì lo sgherzo.

«Nonsi, dottori, non lo manda il signor Untale, ma la signura sbidisa amica sò, la signura Sciosciostrommi».

Doviva essiri il picciotto di cui gli aviva parlato Ingrid.

«Passamelo».

«Il dottor Montalbano?».

«Sì».

«Sono Arturo Pennisi, mi scusi se la disturbo, Ingrid m'ha detto di chiamarla verso quest'ora».

«Lei vuole incontrarmi?».

«Sì».

«Ha la macchina?».

«Sì».

«Preferisce a casa mia o in ufficio?».

«Dove è più comodo per lei».

«Allora venga in commissariato stasera alle sette. Le va bene?».

«Benissimo. La ringrazio tanto per la sua cortesia».

Aviva la vuci di un picciotteddro educato, Arturo.

Siccome sapiva che dintra al frigorifero c'era quello che aviva viduto nell'ultimo inventario, vale a diri picca e nenti, prima di nesciri dal paìsi si firmò davanti a 'na salumeria che stava chiudenno e s'accattò pani frisco, passuluna, tonno al naturali, salami e prosciutto. Conzò la tavola nella verandina e principiò a mangiare.

Il collare gli tiniva la testa àvuta e non gli pirmittiva d'abbasciarla per cui non arrinisciva a vidiri il piatto che aviva davanti. Abbisognava spostarlo di 'na quarantina di centimetri cchiù in là e il problema s'arrisolviva. Lo stisso valiva per il bicchieri, se lo voliva inchiri doviva tinirlo a vrazza stise. La terza cosa che accapì fu che non potiva raprire assà la vucca.

Non c'erano ostacoli grossi che gli impidivano di mangiare in pubblico. Finuto di sconzare, si anno a corcari per recuperari il sonno perso la notti avanti. Ma non gli vinni facile attrovari la posizione giusta della testa. S'arrisbigliò alle quattro e tilefonò in ufficio. Non c'erano novità e accussì se la pigliò commoda.

Quanno Catarella gli comunicò che era arrivato il picciotto che aspittava, era da un dù orate che si stava stuffanno a morti. Quella calma piatta aviva fatto il miracolo: supra alla sò scrivania non c'erano cchiù quintalate di carte da firmari, ma 'na chilata scarsa. L'aviva fatto apposta a lassarisi quella chilata: il pinsero di dovirisinni stari in ufficio senza fari assolutamenti nenti l'atterriva.

Arturo Pennisi era priciso 'ntifico a un Harry Potter vintino.

Portava persino lo stisso tipo di occhialetti. Non pariva minimamenti 'mpacciato. Tant'è vero che attaccò lui a parlari per primo e trasì subito in argomento.

«Ho chiesto a Ingrid di presentarmi a lei perché sono molto interessato ai suoi metodi d'indagine».

«Vuole fare il poliziotto?».

«No».

«Studiare criminologia?».

«No».

Montalbano lo taliò interrogativo e l'altro si sintì in do viri d'aggiungiri:

«Sono al secondo anno d'università, studio filosofia, voglio diventare un epistemologo».

Aviva le idee chiare. Però le diciva senza l'entusiasmo dei picciotti della sò età che si sono tracciati 'na strata e vogliono seguirla sino 'n funno.

Però, se non arricordava mali, l'epistemologia non era la filosofia della scienza? E che ci accucchiava la filosofia della scienza con l'omicidio?

«Ma perché i miei metodi d'indagine, come li chiama lei, e che sono tutt'altro che scientifici, la interessano?».

«Mi scusi, avrei dovuto chiarire meglio. Mi interessa il funzionamento del suo cervello quando conduce un'indagine».

«Due più due fa quattro».

«Non ho capito, scusi».

«Le ho riassunto come funziona il mio cervello».

Harry Potter, per la prima volta, sorridì.

«Non si offende se le dico che non ci credo?».

«Senta, io non vorrei deluderla, ma le assicuro che...».

«Mi permetta d'insistere. Posso portarle un esempio che la riguarda direttamente?».

«Faccia pure».

«Ingrid mi ha raccontato come vi siete conosciuti».

«Embè?».

«Ingrid, ai suoi occhi, avrebbe dovuto rappresentare il numero quattro, vale a dire la somma di due più due».

«Si spieghi meglio».

«Mi ha raccontato che avevano fatto in modo che diventasse la principale indiziata di un delitto o qualcosa di simile, ma che lei, commissario, non ha creduto a quegli indizi. Non ha creduto, in quel caso, che due più due facesse quattro».

'Ntelliggenti, il picciotto, non c'era che diri.

«Vede, in quel caso...».

«In quel caso, se mi permette, lei, a un certo punto di quell'indagine, ha capito che seguire supinamente una regola aritmetica l'avrebbe indotta in errore. E ha scelto un'altra strada. E questo che m'interessa. Quando e come avviene, in lei, questo scarto. Come ha fatto insomma il suo cervello a negare coraggiosamente il terreno solido dell'evidenza per addentrarsi nelle sabbie mobili delle ipotesi?».

«Certe volte non me lo so spiegare nemmeno io. Ma, praticamente, lei cosa vuole da me?».

«Vorrei che lei mi consentisse di seguirla da vicino. Le assicuro che non le arrecherei nessun disturbo, non interferirei in nessun modo, mi creda, me ne starei in silenzio ad osservarla».

«Non lo metto in dubbio, ma cade male».

«In che senso?».

«Nel senso che, attualmente, non ho in corso nessuna indagine. Facciamo così. Lei mi lasci i suoi numeri di telefono. Se dovesse capitare qualcosa d'interessante per lei, l'informerò».

La sdillusione 'nfantili che comparse supra alla facci di Arturo gli fici pena. Pariva un picciliddro che gli negano la caramella. La virità era che gli stava propio simpatico. E po' da tempo sintiva il bisogno di parlari con una pirsona 'ntelliggenti. Gli volli dari 'na speci di premio di consolazioni.

«Senta, in questi giorni mi sta succedendo una cosa un po' strana. Non è né un delitto né un reato, l'avverto subito».

Il picciotto parse un cani affamato che vede a dù passi un osso con la carni ancora attaccata.

«Mi sta bene tutto».

Montalbano cavò dalla sacchetta i tre foglietti con le poesie della caccia al tesoro, gli altri fogli con le soluzioni inveci se li tinne. Gli contò come era accomenzata la storia. E concludì:

«Ecco, questi sono gli originali che la prego di restituirmi. Risolva per conto suo gli indovinelli e poi ne parliamo».

Per picca Arturo non gli vasò le mano.

L'indomani, in commissariato, pariva non dovissi capitare assolutamente nenti di nenti, come da cchiù di un misi succidiva. Dalla matina alle otto fino all'una, vale a diri in cinco ure, Catarella arricivì 'na sula telefonata, ma era di uno che voliva sapiri come si faciva a trasire nella polizia.

Montalbano, che già da mezzojorno sintiva un gran pititto, capì a 'sto punto d'aviri un problema.

Il non fari nenti tutta la santa jornata, il tambasiare, lo starisinni assittato in ufficio a leggiri un'annata della «Domenica del Corriere» del 1920 accattata supra a 'na bancarella opuro il taliare fisso il muro che aviva davanti a mezzo tra l'esercizio yoga e lo stato catatonico, lo facivano cadiri in una specie di malinconia depressiva. E allura, di certo per combattiri 'sta depressione, istintivamenti al sò corpo smorcava 'na gran fami lupigna alla quali lui non potiva fari nisciuna resistenza.

La conseguenzia era che, quella matina stissa, aviva dovuto 'nfilare la barretta della cintura dei pantaluna in un novo pirtuso, signo che la circonferenza-vita si era preoccupantemente allargata. La cosa aviva fatto sì che si era rapidamente rispogliato, 'nfilato il costume ed era annato a farisi 'na natata di un'ura a malgrado che l'acqua era accussì ghiazzata da fari viniri un sintomo.

Alla trattoria di Enzo, pur avenno fatto il proposito di mantinirisi dintra limiti ragionevoli di mangiata, sbracò davanti a un piatto di involtini di pisci spata e sinni fici portari un'altra porzioni, pur avennosi agliuttuto in precedenza 'na bella varietà d'antipasti di mari e un gran piatto di spachetti alle vongole.

La passiata al molo fino a sutta al faro fu perciò cchiù che necessaria e macari l'assittatina supra allo scoglio chiatto con relativa sicaretta.

Verso le sei arricivì 'na tilefonata da Catarella.

«Dottori, ci sarebbi che c'è quel picciotto che vinni aieri, quello mannato dalla signura Sciosciostrommi».

«Passamelo».

«Dottori, non posso in quanto che il soggetto attrovasi in loco».

«Allora fallo venire».

Accussì parlanno con Arturo si sarebbi fatta l’ura di tornari a Marinella.

«Non l'aspettavo così presto» fici Montalbano.

«Siccome mi trovavo da queste parti, ci ho provato. E mi scusi se non le ho telefonato prima».

«Ma lei abita a Montelusa o...».

«No, a Vigàta. I miei stanno a Montelusa. Io invece vivo da solo, ho un appartamento qua a Vigàta. Mi piace il mare».

Un altro punto a favori del picciotto.

«Ha avuto modo di dare un'occhiata a...».

«Sì. Ho risolto i giochetti. Veramente elementari».

Cavò dalla sacchetta i tri foglietti, li posò supra alla scrivania e continuò:

«Non sono andato al bar Marinella, l'ho reputato inutile, ma in compenso ho trovato la baracca di legno in alto, alla fine di via dei Mille, e ci sono anche entrato».

«Ha visto che tappezzeria originale?».

Harry Potter sorridì.

«Il suo sfidante evidentemente nutre nei suoi riguardi un vero e proprio culto della personalità».

«Le foto sono ancora tutte lì appese?».

«Sì, tutte. Perché?».

«Boh, così. Si è fatta un'idea?».

«Sì».

«Me ne parli».

«Beh, è chiaro che lo sfidante vuole fare apparire le cose in un certo modo. Come dire, vuole farle sembrare più innocenti di quanto non lo siano. L'elementarità, direi quasi la stupidità, dei versi è, secondo me, voluta».

«Lei crede?».

«Di questo ne sono convinto. C'è un contrasto più che evidente tra il disarmante infantilismo delle poesiole e il complesso lavoro tecnologico fatto per ottenere quelle fotografie della baracca».

«Forse sono due persone, uno scrive le lettere e l'altro...».

«L'escluderei».

«Perché?».

«Perché ha tutta l'aria di essere un duello tra due persone, lei e l'altro».

Ragionava bene, il picciotto.

«E che tipo sarebbe?».

«Fino a questo momento abbiamo a disposizione poco materiale per un ritratto soddisfacente.

Possiamo solo dire che è una persona che si nasconde dietro le apparenze, come definirle, piuttosto ingenue di uno che vuole soltanto giocare una sfida innocua».

«Ma le cose, secondo lei, non stanno così».

«Direi proprio di no. C'è qualcosa in tutto questo che non mi convince».

«Insomma, abbiamo a che fare con un tipo furbo».

«Più che furbo: assai intelligente».

«E dunque non possiamo che aspettare la prossima lettera» concludì Montalbano susennosi e pruiennogli la mano.

«Mi terrà informato?».

«Certamente. Mi levi una curiosità. Come ha fatto a trovare via dei Mille?».

«Mi sono fatto dare una carta dal Comune».

Otto

Quella sira, doppo aviri combattuto 'na dura battaglia con quattro porzioni di cuddriruni che si era accattato (aviva addeciso di mangiarisinni solo dù, inveci persi e se le dovitti agliuttire tutte) tilefonò a Livia. Preferì non dirle nenti del collare.

«Sono ingrassato» le disse sdisolato.

«Questo solo ti mancava».

Maria, quant'era grevia, Livia, certe volte! Che significava? Che aviva già tutti i peggiori difetti fisici che un omo può aviri? Meglio fari finta di non aviri sintuto.

«Non riesco a controllarmi nel mangiare, sarà che da un mese non faccio niente, credimi, un impiegato del catasto ha una vita certamente più movimentata della mia».

«Mi stai dicendo che da un mese te ne stai in panciolle?».

In panciolle! Che modo di diri 'ntipatico! E po' che cavolo erano 'ste panciolle?

«Beh, quasi».

«E non sei riuscito a trovare nemmeno due giorni per venire da me?».

«No, vedi, ci ho pensato, ma poi, forse perché speravo che capitasse qualcosa...».

«Che significa speravo? Speravi che succedeva un contrattempo che t'impedisse di venire? Non sei obbligato, sai? Puoi restartene lì senza far niente quanto vuoi! Ma non sperare però che sia io a scendere giù!».

«Madonna, come la stai facendo lunga! Ho sbagliato verbo, va bene? Volevo dire temevo».

«Certo che siamo scarsini in italiano».

«E tu invece sei bravissima! Hai una padronanza assoluta! Tiri fuori perfino le panciolle! Ah ah!».

L'azzuffatina violenta durò meno di cinco minuti, appresso accomenzò a calari di tono, appresso ancora arrivarono le scuse reciproche, mentri la conclusioni fu che Montalbano le promittì che alle sei del doppopranzo del jorno appresso avrebbi pigliato l'aereo per Genova.

L'indomani a matino, che era in ufficio da 'na mezzorata, la porta si raprì con un botto tali che fici satare in aria a Montalbano il quali stava seguenno con estrema concentrazioni il percorso d'una musca lungo il bordo della scrivania.

«Dimanno pirdonanza, il pede mi sciddricò» si giustificò mortificato Catarella.

Aviva dovuto tuppiare col pede pirchì le mano le aviva 'mpignate a reggiri un pacco chiuttosto grosso.

«Portaro ora ora questo pacco che dice che deve essiri conzignato a vossia di pirsona pirsonalmenti».

«E chi lo dice?».

«C'è scrivuto supra al pacco».

Calò la testa a leggiri:

«Al commissario Salvo Montalbano, personale».

«Chi l'ha portato?».

«Un picciliddro».

«C'è scritto cosa contiene?».

«Sissignura, libri».

Non aviva ordinato libri né alla libreria di Vigàta e manco a qualichi editore. E macari se l'avissi ordinati, sarebbiro arrivati per posta e no consignati a mano.

«Dammelo» fici susennosi e annanno verso Catarella.

Lo pigliò, lo soppesò. Granni com'era, avrebbi dovuto contenere minimo una trentina di libri. E 'na trentina di libri sarebbiro pisati chiossà di quanto pisava quel pacco.

C'era qualichi cosa che non quatrava.

«Mettilo supra al tavolinetto».

Il tavolinetto faciva parti del salottino che c'era in un angolo della càmmara.

«Lo rapro?».

«Ora no».

Catarella niscì e lui continuò a taliare la musca che ora sinni stava a esplorari un foglio 'ntistato della questura. Ma ogni tanto l'occhio gli cadiva supra al pacco, gli faciva troppa curiosità.

A un certo momento non arriggì cchiù, si susì e si annò ad assittari supra a 'na pultruna in modo da potirlo taliare cchiù da vicino.

Era leggermenti rettangolari, àvuto 'na cinquantina di centimetri, confezionato con normali carta da imballaggio e legato nei dù sensi con lo spaco grosso.

Pirchì quel comunissimo pacco lo faciva accussì squieto?

Beh, mancava il mittente, era stato recapitato a mano da un picciliddro inidentificabili, diciva di continiri libri mai ordinati, e infine quel «personale» che in genere si scrivi supra a 'na littra, non supra a un pacco, erano tutte cose non tanto normali.

E po' c'era un'altra facenna che... Ah, ecco, manco a farlo apposta, la sira avanti aviva sintuto alla televisioni che un gruppo anarchico aviva spiduto un pacco esplosivo a 'na caserma di carrabbineri.

A Vigàta anarchici non ci 'nni erano, ma strunzi, sì, quanti sinni volivano.

Meglio annarci con quatela e senza chiamari a nisciuno.

Pigliò il pacco tra le dù mano aperte e lo stringi forte.

Sintì 'na curiosa rumorata soffocata, come uno scatto, che lo fici susiri di cursa e annare ad ammucciarisi acculato darrè alla scrivania aspittannosi un'esplosione che non vinni.

Vinni 'nveci Mimì Augello. Possibile che quello arrivava sempri quanno non doviva arrivari?

«Che film è?» s'informò. «La casa della paura? Nightmare? Montalbano contro i fantasmi?».

«Mimì, scomparisci e non scassare» fici il commissario susennosi addritta e taliannolo in un modo che l'altro accapì che era meglio obbidiri subito e senza discussioni.

«Sì, ma se ti fai dari 'n'occhiata da qualichi medico sarebbi meglio» disse ghiennosinni.

Montalbano annò a chiuiri la porta a chiavi e tornò a travagliare.

Novamenti assittato, si calò in avanti fino a quanno la sò testa si vinni ad attrovare a qualichi millimetro dal pacco, ci appuiò le mano ai lati, stringi forti e sintì lo stisso scatto.

Ma stavolta non scappò, non si cataminò, pirchì aviva accapito di cosa si trattava.

Avvolta nella carta d'imballaggio di sicuro ci doviva essiri 'na scatola di latta. Livò tutta la carta circanno di moviri il meno possibbili il pacco.

Ci aviva 'nzirtato.

Era 'na vecchia scatola di viscotti dei «Fratelli Lazzaroni».

S'arricordò che, quann'era nico, sò zia ne aviva una pricisa 'ntifica dintra alla quali ci tiniva littre e fotografie. Questa che aviva davanti era ancora cchiù vecchia, doviva risalire alla prima mità del novecento, infatti nel coperchio, che arriportava le midaglie e i premi avuti nei concorsi, ci stava macari l'orgogliosa scritta: «Fornitori della Real Casa».

Il coperchio era tinuto fermo con diversi giri di scotch.

Il commissario pigliò la scatola, la sollevò con le dù mano, se l'accostò all'oricchio e la scosse a leggio. Non sintì nisciuno scruscio.

Allura si susì, annò a pigliari un paro di forbici e livò tutto lo scotch.

Ora viniva la parti cchiù difficili: sollevare il coperchio. Se si trattava di una bumma, di certo era quello il gesto che avrebbi innescato l'esplosioni.

Ma quanto sarebbi stata forti l'eventuale esplosioni? Capace che, oltre a lui, ammazzava a qualichi altro e faciva sdirrupare mezzo commissariato.

Non era meglio chiamare l'artificieri? E se po' arrisultava che dintra c'erano veramenti viscotti o cose duci, non annava a finiri nel riddicolo?

No, l'unica era azzardare da sulo.

Stava sudanno. Si livò la giacchetta, ristò in cammisa, s'agginocchiò davanti al tavolinetto e, facenno forza coi dù pollici, isò di mezzo millimetro il coperchio circanno di taliare dintra.

A malgrado la tensione, gli vinni di ridiri e per un momento lassò perdiri.

Gli era tornato a menti un joco che gli era capitato di vidiri in televisioni, indove il conduttore rapriva pacchi con la stissa tecnica che stava adopiranno lui.

S'asciucò il sudori dalla fronti passannoci supra il vrazzo e riaccomenzò daccapo. Ci misi cinco minuti boni a livari il coperchio e a posarlo 'n terra. Dintra c'era un involto di tila cerata, a sua volta

'nfilato in un sacchetto di nylon trasparenti.

Pigliò la forbici e tagliò tutta la parti superiori del nylon senza mai tirare fora l'involto dalla scatola. Ora avrebbi potuto pigliarlo in mano e scartari la tila cirata. Ma preferì tagliarla in cima con la forbici. Non fu un travaglio facili, ma in capo a 'na decina di minuti l'involto era praticamente aperto, attraversato da 'na poco di tagli, abbastava pigliare la tila cirata e sollevarla. Posò la forbici, pigliò dù capi della tila con le mano, li tirò verso l'esterno.

Vitti dù granni occhi morti che lo taliavano. Sintì nelle nasche l'aduri duciastro del sangue, satò addritta, fici 'na gran vociata, anno a sbattiri contro la porta, la raprì e s'attrovò davanti a Mimì Augello.

«Che fu?».

«C'è... mi parse 'na testa dintra al pacco».

Intanto era arrivato Fazio.

«Sintii un grido... Che fu?».

«Vieni con me» gli fici Augello.

Trasero nell'ufficio. Montalbano tirò un longo respiro e li seguì. Ma già Augello aviva scartato completamente la tila.

«E 'na testa d'agnello» disse Mimì.

Infilò 'na mano dintra al pacco, tirò fora, tinennola per un angolo, 'na busta avvolta nel nylon macchiato di sangue, piegò la testa in modo che potiva leggiri in trasparenza.

«E indirizzata a tia, Salvo» disse. «C'è scritto: caccia al tesoro».

Mentri Augello posava la littra supra alla scrivania, Montalbano, che era tanticchia aggiarniato, anno a chiuiri novamenti la porta con la chiavi.

«Nisciuno, all'infora di voi dù, deve sapiri nenti di questa facenna, chiaro?» disse a Mimì e a Fazio.

«Questa è una tipica intimidazione mafiosa che non può passare sotto silenzio» ribattì Augello. «E

io non intendo...».

«Mimì, non accomenzare a parlari taliàno, pirchì la mafia non c'entra 'na minchia».

«E allura di che si tratta?».

«Di una caccia al tesoro. Non c'è scritto macari supra alla busta?».

«Senti» disse friddo Augello «o tu mi dici subito di che si tratta veramenti, o io nescio da questa càmmara e di questa storia non ne voglio sapiri cchiù nenti».

«Mimì, non te lo posso diri pirchì è 'na cosa accussì assurda...».

«Come vuoi» fici Augello risintito.

Girò la chiavi, raprì la porta, niscì.

«Procurati dù para di guanti di lattice, 'na poco di buste trasparenti e torna» disse Montalbano a Fazio.

S'assittò al posto sò e taliò la busta. A quanto si travidiva attraverso il nylon allordato, né la busta né la scrittura erano diverse dalle precedenti.

Tornò Fazio.

«Chiudi a chiave».

Fazio gli pruì un paro di guanti e doppo s'infilò i sò.

«Che devo fare?».

«Tira fora la testa. Ma metti nei sacchetti tutto quello che può serviri per le impronte, la tila cirata, la scatola stissa».

«Dottore, le posso fare una domanda?».

«Certo, dimmi».

«Perché le interessano le impronte? Tagliare la testa a un agnello, non è considerata cosa da codice penale».

In taliàno, come per straniare la dimanna, non farla addivintari personali. Tanto Mimì era stato

'mprudenti, tanto quateloso ora era Fazio.

«Non saprei risponderti. Ho come un presentimento che potranno servirci in futuro».

Il commissario si misi i guanti e pigliò 'n mano la busta. Il foglio di nylon che l'avvolgiva era tinuto da dù pezzetti di scotch. Li livò, svolgì il foglio, libbirò la busta. 'Nfilò dintra a uno dei sacchetti portati da Fazio il foglio di nylon e i dù pezzetti di scotch.

Po' con un tagliacarti raprì la busta, tirò fora il solito mezzo foglio, e la 'nfilò nel sacchetto. Il mezzo foglio era piegato in dù epperciò non si liggiva quello che c'era scritto.

«Ecco fatto» disse Fazio.

Montalbano si susì e s'avvicinò.

La testa dell'agneddro Fazio l'aviva posata 'n terra, supra a un foglio di giornali. La tila cirata e la scatola di latta erano state 'nfilate in dù sacchetti diversi.

«Che devo fare con la testa?».

«La vai a ghittare in un cassonetto senza fariti vidiri da nisciuno».

«Vabbeni».

«L'hai taliata? Che ne dici?».

«Dottore, prima l'agneddro è stato ammazzato, macari strangolato con una corda, e po' chi l'ha ammazzato ha circato di tagliargli la testa. Ma siccome non era un macellaro, non aviva spirenzia, e prima devi aviri provato con un coltello e appresso ha usato 'na sega elettrica, si vidi dal taglio netto dell'osso».

«E quanno l'ha fatto, secunno tia?».

«Aieri a sira. La carni è ancora frisca. Prima di mittiri la testa nella tila cirata, l'ha lassata sgocciolare per evitare che dintra alla scatola ci fosse troppo sangue».

«In quell'armadio nel tuo ufficio c'è ancora spazio?».

«Sissi».

«Ha la chiave?».

«Sissi».

«Allora vai subito a gettare la testa, poi torni, ti pigli i reperti, macari il sacchetto che è supra la scrivania, metti tutto nell'armadio e chiudi a chiave. La chiave te la tieni tu».

'Na volta sulo, raprì il mezzo foglietto, lo liggì, era un'altra poesia, pigliò un foglio, la copiò, misi il mezzo foglietto nel sacchetto di nylon e lo sigillò. Il foglio con la poesia copiata lo piegò e se lo misi 'n sacchetta.

La caccia al tesoro aviva avuto 'na svolta.

Da quello che gli aviva ditto Fazio, e non aviva nisciun motivo di dubitari delle sò paroli, lo sfidante non era ghiuto da un qualisisiasi macellaro ad accattarisi 'na testa d'agneddro, ma aviva fatto tutto lui stisso con le sò mano.

E questo stava a indicari 'na poco di cose 'ntiressanti.

La prima era che quella pirsona era stata accussì fridda e determinata da pigliare a un agneddro vivo, strangolarlo con una corda e po' sirrargli la testa e tutto al sulo scopo di continuari 'na speci di joco.

Quanti, dintra al commissariato, e accomenzanno da lui, Montalbano, sarebbiro stati capaci di fari altrettanto? Nisciuno, ci potiva mettiri la mano sul foco. E uno fatto accussì, che arraggiunava accussì, che agiva accussì, non potiva essiri un potenziali assassino?

La secunna cosa era che quell'omo doviva per forza possidiri 'na sò campagna con qualichi vestia, macari se abitualmenti viveva in paìsi. Di sicuro non era annato ad arrubbarlo, all'agneddro. Troppo rischioso. 'Na campagna nelle vicinanze, indove tiniva macari la sega elettrica per tagliari i rami dell'àrboli.

Comunque sia, era chiaro che il joco stava addivintanno pisanti.

Il che portava alla conseguenzia che non era cchiù il caso di lassare Vigàta per ghirisinni qualichi jorno a Boccadasse.

O matre santa! Con Livia erano ristati d'accordo che sarebbi vinuta a pigliarlo all'aeroporto!

Meglio avvertirla subito, mentri lei s'attrovava in ufficio, accussì oltretutto sarebbi stata costretta a non fari catunio, a non attaccare lite, data la vicinanza dei colleghi. Fici il nummaro diretto e infatti fu la sò voci ad arrispunniri. Parlò tutto di fila, un sciato sulo, senza dari a Livia il tempo d'interrompirlo.

«Senti, Livia, proprio or ora è capitato quel contrattempo che sp... che temevo. Non credo proprio di potercela fare a partire. Credimi, sono mortificato e soprattutto avevo tanta voglia di... Pronto?

Pronto?».

Ma Livia aviva già riattaccato. E pacienza, nella tilefonata serali avrebbi dovuto sopportari tutto quello che lei diciva, non potiva darle torto.

Da Enzo stavolta non s'abbuffò. Mangiò regolarmenti, ma la passiata al molo se la fici lo stisso.

Si assittò supra allo scoglio chiatto, s'addrumò 'na sicaretta, e sulo quanno l'ebbi finuta cavò dalla sacchetta il foglio nel quale aviva trascritta la poesia.

La testa dell'agnello

è vera leccornìa,

la lingua e il cervello

non son da buttar via.

C'è chi la sa fare

in umido o arrostita

o messa ad infornare:

da leccarsi le dita!

Dopo che l'hai gustata,

bevi un quarto di vino

e fai una passeggiata fino

ad un posticino

ch’è un pezzetto di cielo.

Qui infine un poco sosta.

Non cadrà nessun velo

e non avrai risposta.

Di primo acchittu, non accapì indove lo sfidante voliva annare a parare. Allura si la riliggì daccapo. E alla fini si fici pirsuaso che la poesia gli 'ndicava un altro percorso, però viniva macari gentilmenti avvirtuto che, 'na volta fattolo, non avrebbi attrovato nenti. Ma se al termine non gli sarebbi stata fornita la minima indicazione per arrivari a un'altra tappa, che senso aviva fargli circare 'na strata? Nisciuno. E dunque? Forsi che la tappa prisenti della caccia al tesoro voliva essiri un momento di riposo? No, non funzionava. Addecise di lassare perdiri o almeno di pigliarisilla commoda. Non sarebbi annato subito alla cerca. Ma po' ci ripinsò. Capace che se lo sfidante non gli dava un'indicazioni diretta, lui, sul posto, avrebbi potuto attrovare lo stisso qualichi cosa di utile. Gli vinni un'idea. Tornò alla sò machina di cursa. Partì arripitennosi 'n testa la secunna quartina, quella che principiava: C'è chi la sa fare...

La saracinesca della trattoria di Enzo era calata per tri quarti. Signo che dintra c'era ancora qualichiduno. Parcheggiò, scinnì, anno davanti alla saracinesca, ci si acculò davanti.

«C'è qualcuno?».

«Cu è?».

«Montalbano sono».

«Aspittasse che vengo a rapriri».

Quanno Enzo ebbi davanti al commissario lo taliò 'mparpagliato.

«Dottori, che c'è?».

«Ho bisogno di un'informazione. Quanti sono i ristoranti e le trattorie di Vigàta?».

«Un momento che faccio il conto».

Chiuì l'occhi e si misi a contare con le dita.

«Unnici, mi pari» disse alla fini.

«Ce ne sono che preparano teste d'agnello?».

Enzo sbarracò l'occhi ammaravigliato: «Havi spinno di 'na testa d'agneddro?».

«Non mi passa manco per l'anticàmmara del ciriveddro. Voglio sulo sapiri».

«Dottori, nisciuna trattoria o ristoranti di qua la fa. Forsi su ordinazione. Ma come piatto jornaliero l'escludo».

Fici 'na pausa.

«Però mi pari d'arricordare che mi dissiro, qualichi tempo fa, che c'è un posto indove...».

Era dubbitoso. E Montalbano non lo forzò.

«Trasemo dintra. Se lo piglia un cafè?».

«Perché no?».

C'era un cammareri che puliziava 'n terra. Enzo annò a trafichiare 'n cucina, tornò doppo tanticchia. Il cafè era bono, ma il trattori continuava a starisinni in pinsero. Tutto 'nzemmula si detti

'na manata sulla fronti.

«Michele Lauria!».

Currì all'apparecchio a muro, pigliò l'elenco che c'era allato, supra a un ripiano di ligno, lo sfogliò, fici un nummaro.

«Michè, ti distrubbo? Pozzo parlari? Ti voliva spiari 'na cosa. Fusti tu a parlarimi di uno spaccio di vino indove che fanno macari cose arrustute? E puro la testa d'agneddro? Sì? E mi sai diri unn'è e comu ci s'arriva?».

Ascutò tanticchia, ringraziò, posò la cornetta, si voltò verso il commissario con un gran sorriso.

«Vossia l'accanosce la strata per Gallotta?».

Nove

Epperciò si tornava daccapo a dudici. Montalbano si fici la rotatoria, accomenzò ad acchianare per via dei Mille, superò il cimitero, i casermoni, le villette e arrivò in cima, alla fini della strata. Firmò un attimo. A mano manca, la baracca di ligno con le sò fotografie, Gallotta davanti a lui, a 'na distanza di un sei chilometri, prima c'era 'na scinnuta a valli e po' la salita verso la punta della collina attorno alla quali stava arroccato il paìsi. Quei sei chilometri di strata non avivano asfalto, erano 'na trazzera che curriva campagna campagna, che però pirmittiva il passaggio delle machine, e lui se l'aviva fatta, quella trazzera, se l'arricordava benissimo, in occasione di un'indagine.

Rimisi 'n moto e accomenzò lentamenti a scinniri a valle. Fatti un tri chilometri, principiò la salita.

Fino a quel momento aviva 'ncontrato a 'n'altra machina che viniva in senso inverso e a tri omini a cavaddro.

Aviva sempri taliato a dritta e a manca per vidiri se c'era 'na qualichi indicazione, ma non aviva viduto nenti. Finalmenti, quanno ci stava pirdenno le spranze, a un mezzo chilometro da Gallotta, a mano manca, vitti un viottolo all'inizio del quali c'era un àrbolo con un pezzo di tavola 'nchiovato, supra al quali ci stava scrivuto: VINO Sifa da manggiare.

Il viottolo era stritto, ma ci si passava. A dritta e a manca l'àrboli erano avuti e fitti. 'Na trentina di metri doppo, c'era uno spiazzo con una casuzza a un piano. Supra alla porta, c'era la stissa 'nsigna dell'àrbolo, con gli stissi errori, sulo che era scrivuta a caratteri cchiù grossi. Allato alla porta, supra a 'na seggia di paglia, ci stava 'na sittantina tutta spittinata, con le pantofole e un fallarino.

Quanno vitti arrivari la machina, si susì e trasì. Il commissario firmò, scinnì e la seguì. Era un cammarone con una decina di tavolini con la tila cirata supra, c'era un bancone darrè al quali si era mittuta la vecchia. Alle spalli di lei dù vutti di vino, un frigorifero chiuttosto granni, scansie a muro con buttiglie e bicchieri.

«Chi ci pozzo sirbiri?».

«Un bicchieri di vino».

La vecchia lo spillò direttamenti dalla vutti. Era ottimo:

«Chi faciti da mangiare?».

«Sulo alla sira, facemo cose per accumpagnari il vino».

Dunque cucinavano sulo la sira, quanno dal paìsi vinivano ccà a jocare a carti e a viviri.

«Vero è che faciti la testa d'agneddro?».

«Sissi, ma il sabato sira. Quanno c'è cchiù genti».

«Come la fate?».

«Certi siri in umito, certi sire fritta, opuro arrosto, 'nfornata...».

Corrisponniva tutto.

«E nell'altri jorni?».

«Sasizza, costi di porco, cacio all'argintera, cose accussì».

«Me ne dà un altro?».

La vecchia lo sirvì. Pagò, salutò, niscì. E ora che viniva? Cavò dalla sacchetta la poesia.

E fai una passeggiata

fino ad un posticino

eh'è un pezzetto di cielo

E qua accomenzava il difficile. L'indicazioni data dalla poesia era troppo vaga. Fai una passeggiata. D'accordo, ma verso indove? Pigliari la machina e... No, un momento. Sintì, a istinto, che la machina non la doviva pigliari.

Indirettamenti, lo suggeriva la poesia stissa. Mangiati la testa d'agneddro, viviti un quarto di vino e po' fatti 'na passiata, 'na caminata a pedi, digistiva, come a quella che lui di solito si faciva doppo mangiato supra al molo. Quindi il posticino che assimigliava a un pezzetto di celo doviva per forza essiri nei paraggi. Si taliò torno torno. E notò che il viottolo che lui aviva fatto fino allo spiazzo nel quali ora s'attrovava continuava. Sulo che non era cchiù un viottolo, si trasformava in una speci di pista in mezzo all'àrboli fitti, tutta buche e avvallamenti. Ci s'avvicinò. Si vidivano tracce di rote d'automobili, chiaramenti auto forastrata. La sò machina non ce l'avrebbi mai fatta. Anzi, nisciuna machina di cità forsi sarebbi stata capace di fariccilla.

Ora la sittantina si era novamenti assittata supra alla seggia di paglia.

Potiva spiare a lei indove portava la pista, ma non aviva gana di farisi notari assà, di suscitare dimanne e curiosità. L'unica era di annare di pirsona.

Accapì subito doppo che aviva fatto i primi passi, che macari a pedi non sarebbi stato facili caminare. Ai dù lati c'erano vecchi e giganteschi àrboli di garrubbo, che facivano 'na forti ùmmira scurosa e le cui radici spisso traversavano la pista come serpenti sutta la rina. Era un continuo succedersi di dossi e avvallamenti che obbligavano il corpo a stari in un equilibrio precario. Se ti storcivi un pedi, eri fottuto. Sarebbiro passati jorni e jorni prima che qualichiduno ti scopriva. 'Na lepri gli tagliò la strata velocissima. E doppo tanticchia fu la volta di uno scorsone di dù metri, un verdone che non lo dignò di 'na taliàta. Da quann'è che non vidiva armali in libbirtà? E da quant'è che non sintiva 'na gran quantità d'aceddri cantari tutti 'nzemmula?

Doppo 'na decina di minuti si sintì stanco. Non era abituato a caminare con un pedi a mezzo metro in vascio e l'altro pedi a mezzo metro in àvuto, con il corpo allatato pejo della torri di Pisa. S'assittò sutta a un garrubbo e s'addrumò 'na sicaretta.

Quann'era picciliddro, le garrubbe, che dicivano essiri il mangiare dei quatrupeti, a lui, a malgrado che non era quatrupete, gli piacivano assà. Se le sbafava sia al naturali, ch'erano duci duci, sia

'nfornate, che pigliavano tanticchia d'amarostico. 'Na volta sinni era mangiate tante che aviva avuto il malo di panza per dù jorni di seguito.

Quanno si sintì arriposato, ripigliò a caminare. Doppo 'na decina di minuti accapì d'essiri arrivato.

La pista portava a un grannissimo slargo con al centro un laghetto minuscolo. Che non si accapiva né come si era formato né pirchì s'attrovava lì. Era granni come un quarto di campo di calcio, perfettamenti circolari, pariva un laco artificiali, ma non lo era. E lo sfidante aviva scrivuto giusto ch'era un pezzetto di cielo. Pirchì l'acqua immobili aviva lo stisso 'ntifico colori del cielo. Uno stormo d'aceddri si stava abbiviranno e qualichiduno si stava macari facenno il bagno. Picca discosto da loro, a ripa, un cani dormiva arrutuliato su se stesso.

Montalbano s'assittò 'n terra.

La pista firriava torno torno al lachetto, po' acchianava la costa fino a 'na casuzza a un piano.

Darrè alla quali ci stava 'na speci di boschetto. Il commissario pinsò che avenno fatto trenta, tanto valiva fari trentuno.

S'arriposò ancora tanticchia, po' si susì e s'addiriggì verso la casuzza.

Mano a mano che s'avvicinava e potiva vidirla meglio, si addunava ch'era mezza sdirrupata. La porta non c'era cchiù e non c'erano cchiù manco le imposte nella finestra che le stava allato. Macari della finestra del piano di supra ristava sulo il pirtuso rettangolari.

Trasì.

Il piano terra era fatto di 'na sula càmmara. A dritta c'erano i resti di 'na cucina in muratura con dù fornelli che funzionavano a ligna. Allato, 'na speci di lavabo di petra 'nfilato nel muro e vicino i resti di 'na giarra. 'N terra, qualichi preservativo, dù siringhe e un sacco a pilo tutto spirtusato...

Nisciun mobile.

A manca si partiva 'na scala di ligno che portava al piano di supra. Prima d'acchianaricci, Montalbano la scutuliò con le dù mano per controllari se riggiva. Il ligno non era né fracico né tarlato. Acchianò.

La càmmara di supra era completamenti vacante come quella di sutta. E macari qua preservativi e siringhe.

Niscì di cursa dalla casa, scantannosi che, se ci s'attardava, si viniva ad attrovari con qualichi pulici che gli caminava di supra.

Ristò tanticchia a taliare il laghetto. Suggestivo, senza dubbio, ma non gli diciva nenti di nenti per quanto arriguardava la caccia al tesoro. Del resto lo sfidante glielo aviva onestamente anticipato: Non cadrà nessun velo

e non avrai risposta.

Non potiva diri d'aviri sulo perso tempo, pirchì la passiata era stata bella e igienica. Beh, forsi non tanto igienica, visto che 'na pulici gli aviva appena pizziculiato 'na mano.

A rifari la stissa strata tornanno, sempri a caminare 'nclinato come la torri di Pisa, e per soprappiù con il collare che gli pizzichiava il collo a causa dell'abbonnanti sudori, si stancò assà.

Tanto che arrivato allo spiazzo indove aviva lassato la machina, ci trasì dintra e ci ristò ad arriposarisi fumanno 'na sicaretta. La seggia di paglia allato alla porta era vacante, forsi la vecchia stava accomenzanno a priparari il mangiare per la sira.

Doppo tanticchia, mise 'n moto e partì.

L'unico risultato che aviva ottenuto, riflittì mentri sinni tornava in commissariato, non era gran cosa, ma nello scuro nel quali si cataminava rappresentava come un piccolissimo pirtuso, granni quanto la testa di uno spillo, attraverso il quali passava 'na goccia di luci.

E cioè che via dei Mille, la strata per Gallotta, e i paraggi di Gallotta stissa, erano tirreno canosciuto e praticato dallo sfidante. Era cchiù che sicuro che manco Fazio accanosciva l'esistenzia di quel laghetto che aviva l'acqua colori di celo.

«Catarè, hanno telefonato per me?».

«Nonsi, dottori, né per vossia né per nisciuno».

Continuava la granni bonaccia. Fici per ripigliare a caminare verso la sò càmmara, ma Catarella lo firmò.

«Dottori, me lo duna un aiutino?».

«A fare che?».

«Le palori 'ncrociate».

«Che vuoi sapere?».

«Qua ci sta scrivuto, combatterono contro i topi. Palora di quattro caselli. E a mia mi è nisciuto pane. Però io il pani non l'haio mai viduto combattiri, semmai sunno i surci che se lo mangiano».

«È la Batracomiomachia» fici il commissario.

Catarella aggiarniò.

«Matre santa, dottori, che palori che ci nescino!».

«Non t'impressionare, la parola che cerchi è rane».

«Mi scusasse, dottori, ma allura che è la cosa che ci vidi di notti, non è il pimpistrello?».

«No, Catarè, è il radar».

«Maria, vero è! Grazii, dottori!».

«Catarè, tu per caso l'accanosci un laghetto vicino a Gallotta?».

«Nonsi, dottori, a mia i pinnichic mi piaci farli a ripa di mari».

«Mandami a Fazio».

Com'è che la sò scrivania era novamenti cummigliata di carte da firmari? Capace che se tutto

'nzemmula, in un colpo sulo, tutti l'omini scomparivano dalla facci della terra, per jorni e jorni le carte da firmare avrebbiro continuato misteriosamenti ad accumularisi supra alle scrivanie degli uffici del munno intero.

«Mi dicisse, dottore».

«Fazio, tu l'accanosci a un laco, molto piccolo, che s'attrova nei paraggi di Gallotta?».

«Sissi».

La risposta lo pigliò di sorprisa. Era cchiù che convinto che macari Fazio avrebbi ditto il contrario.

«Ci vai a fare i pinnichic, come dice Catarella?».

«Nonsi, dottori, non mi piace fari i picnic, ma circa un dù anni avanti che vossia arrivasse qua, ci capitò un fatto».

«Che fatto?».

«Vicino al lago c'era 'na casuzza indove ci abitava un viddrano, vidovo, mi pare che s'acchiamava Parisi, sì, Tano Parisi, con una figlia sidicina beddra assà. E un jorno Tano vinni a denunziari la scomparsa di 'sta sò figlia che non m'arricordo cchiù come si chiamava. E da allura di lei non se ne seppi cchiù nenti».

«Sono state fatte indagini?».

«E come no? Ci partecipai macari io. Il commissario di allura, Bonvicino, fici arrestare il patre».

«E pirchì?».

«Pirchì corrivano voci che Tano, sò patre, s'approfittava di lei. Il medico del paìsi non lo disse chiaramenti, ma fici accapire al dottor Bonvicino che la picciotta era 'ncinta».

«Ma non poteva avere avuto una relazione con un altro?».

«E infatti. Un'altra parti del paìsi sostiniva che era vero che il patre sinni approfittava, ma che lei se la faciva macari con un omo di Gallotta, che era stato quest'omo a metterla incinta e che la giovane, scantannosi di diri al patre che era prena, si era ammazzata ghittannosi nel lago».

«Ma è così profondo?».

«Profondissimo, dottore. Ogni tanto qualichi geologo lo veni a studiari. Non se lo spiegano».

«Non ha un nome?».

«Cu?».

«Il lago».

«Sissi, lo chiamano 'u lacu d'o Signuri, il lago di Dio. Dicino che a Dio, quanno stinnì la tila del celo supra al munno criato, ci 'nni superchiò un pezzo. Allura lo strappò, l'arravugliò, con l'indice fici un pirtuso profondissimo nella terra, propio in quel posto vicino a Gallotta, c'infilò la tila del celo che gli era superchiata, la spingi in funno in funno e la cangiò in acqua. Per questo è accussì funnuto e ha quel colori».

E quindi lo sfidante accanosciva macari la liggenda.

«E il padre della ragazza che fine ha fatto?».

«Vinni assolto per insufficienza di prove. Ma quelli che lo continuavano a cridiri l'assassino della propria figlia non si davano paci e certe notti annavano a sparari contro la casa. Allora Tano si scantò che prima o poi l'ammazzavano e cangiò paìsi. Ma pirchì le interessa il laco? Capitò qualichi cosa nell'accampamento?».

«Quali accampamento?».

«Da qualichi tempo c'è un accampamento dintra al boschetto darrè la casuzza. Picciotti stranieri che vivono al naturali, droca e culo di fora. Ogni tanto finisci a schifìo e ci scappa la cutiddrata».

«Dottori? Ci sarebbi che c'è al tilefono la cammarera sua di lei. Ci la passo?».

«Adelì, come stai?».

«Beni, dottori. Ci voliva diri che domani a matino torno a travagliare».

«Te la senti?».

«Sissi. Ma vossia mi devi fari un favori. Non ci havi a pariri che mi voglio 'ntromittiri nelle sò cose, ma...».

«Forza, parla».

«Mi devi livari d'in mezzo a quelle pupe. Mi fanno 'mpressioni. Maria, quanto scanto che mi pigliai!».

«Non ti preoccupare, le livai».

Mangiò picca, non gli piaciva annare in trattoria la sira da sulo. Oramà aviva pigliato la bitudini di mangiare a Marinella. Meno mali che quella era l'ultima volta e che all'indomani, raprenno il frigorifero o il forno, avrebbi attrovato le meravigliose sorprise d'Adelina.

Sinni stetti a taliare tutti i telegiornali, nazionali e locali. A Salemi avivano ammazzato a uno che stava tornanno da 'na campagna che aviva nelle vicinanze e nisciuno, ovviamente, aviva viduto o sintuto nenti. Il moventi pariva essiri 'na questioni d'eredità che si strascinava da anni, ma il caso s'appresentava lo stisso complicato assà. Ebbe un'improvisa botta d'invidia per il collega incaricato delle indagini.

Possibile che stava accomenzanno a patire 'na crisi d'astinenza da omicidi? Prima d'annarisi a corcare, addecise di tentare di fari la paciata con Livia e la chiamò.

«Senti, malgrado che tu stamattina abbia interrotto la mia telefonata...».

«Io non ho interrotto niente».

«No?».

«No. E’ caduta la linea. Io sono stata lì per un po' a dire pronto pronto e poi ho riattaccato».

«Perché non hai richiamato?».

«Perché avevo sentito l'essenziale, cioè che non venivi più, e non mi andava di telefonarti dall'ufficio. E se lo vuoi proprio sapere, ero sicura che non saresti venuto».

«Ti giuro, Livia, che...».

«Lascia perdere».

Ci fu 'na pausa stimabile a quaranta sutta zero. Po' lei ripigliò a parlari, e sarebbi stato meglio se non lo faciva.

«Qual è la scusa stavolta?».

«Quale scusa, scusa?».

«Quella che ti sei inventata per non partire».

«Ma quale scusa! Non ho bisogno d'inventarmi delle scuse, io! Vedi, siccome sono stato coinvolto, mio malgrado, in una caccia al tesoro e ci sto partecipando...».

«Cooosa?!».

Matre santa, aviva sbagliato a principiare il discorso accussì! E come faciva a chiarirle come stavano le cose? Non ci sarebbi arrinisciuto manco con gli argani! Ad ogni modo, perso per perso, la meglio era tentare.

«Ascoltami, per favore, ora ti spiego».

«Ma che mi vuoi spiegare? La caccia al tesoro? Lo so come funziona, ci ho giocato qualche volta anch'io».

«No, vedi, questa è una caccia un po' particolare che...».

«Chi è la tua partner? Ingrid o qualcuna che non ho ancora il piacere di conoscere?».

«Dai, che c'entra In...».

«Ma smettila! Ma finiscila! Il signorino non viene a trovarmi perché deve partecipare a una caccia al tesoro con le sue amiche! Sai che ti dico? Mi sono stufata! E tanto!».

«E io no?».

Livia riattaccò. E per fortuna, pirchì a sintirisi chiamari signorino, Montalbano aviva perso il lumi della ragione.

In conclusioni, inveci di fari la paciata, al danno aviva aggiunto altro danno. Però, a ben considerari, non era tutta colpa sò. Livia non gli pirmittiva mai di finiri un discorso, l'interrompiva sempri e a lui lo pigliava il nirbùso.

Comunque, per quella sira, era meglio non richiamarla.

L'indomani a matino si diriggì direttamenti allo spitale di Montelusa.

Vinni visitato e gli dissiro che non aviva cchiù bisogno di portari il collare.

Si sintì come doviva sintirisi uno schiavo libbirato dalle catini.

«Telefonate, novità?».

«Nisciunissima, dottori. Mi lo duna un aiutino?».

«Che stai facenno?».

«Un rebussi».

«No, quelli non li so fare».

Non era vero, era 'na farfantaria, ma potiva un commissario con un passato brillante, e sia pure con un prisenti grigio, arridducirisi ad arrisolviri jochi enigmistici con un centralinista che oltretutto era Catarella?

Po', che erano passate le unnici e lui da un dù orate stava a mittiri firme, gli arrivò 'na tilefonata di Arturo.

«Nessuna novità, dottor Montalbano?».

«Beh, sì».

«Me la può dire?».

«Per telefono? Sarebbe troppo lungo».

«Allora posso passare?».

Non aviva gana di mittirisi a raggiunari, quella matina. Si vidi che il doviri fari firme inutili sutta a carte ancora cchiù inutili gli apparalizzava il ciriveddro.

«Potrebbe venire qua verso le cinque?».

«E come no? Alle cinque, sarò puntualissimo».

Ardiva di sapiri la novità, il picciotto, lo si capiva dalla voci.

Doppo essirisi stipato con pasta al nìvuro di siccia e 'na mezza chilata di gammaroni, si fici la solita passiata fino al faro, s'assittò supra allo scoglio chiatto e passò 'na mezzorata bona a scassare i cabasisi a un grancio.

Po' sinni tornò in ufficio e alle cinco spaccate Arturo s'appresentò.

Il commissario in quel momento era 'mpignato al tilefono col capo di gabinetto del questore, il dottor Lattes, il quali voliva conto e raggioni pirchì dal commissariato non avivano ancora arrispunnuto al questionario nummaro 3289/ PA/ 045, questionario che lui, Montalbano, non aviva la minima idea di che trattava e indove s'attrovava.

«Provvedo subito, dottore».

Riattaccò, chiamò a Fazio.

«Puoi venire un momento?».

Mentri aspittava, scrisse il nummaro del questionario supra a un foglio di carta. Trasì Fazio.

«Senti, vogliono una risposta urgente al questionario con questo numero di protocollo. Perciò...»

fici pruiennogli il foglio. «Pigliati tutte le carte che stanno qua sopra, portale nel tuo ufficio e cercalo».

A Fazio ci vosiro dù viaggi per libbirari la scrivania.

Dieci

Per tutto il tempo che era stato ad aspittari, Arturo si era agitato supra alla seggia, smanioso. Ma quanno Fazio finì, non si tenne cchiù.

«Allora» fici 'mpaziente.

Montalbano, senza parlari, cavò la littra con la poesia e gliela pruì. Il picciotto squasi gliela strappò dalla mano.

«E chiaro che si tratta di un altro percorso» disse doppo averla liggiuta dù volte.

Tutto 'nzemmula, a Montalbano vinni in testa di metterlo alla prova.

Voliva vidiri quanto era 'ntelliggenti.

«D'accordo, ma lei ha scoperto qual è? Io, francamente, stavolta non ci ho capito niente. Tant'è vero che non ho nemmeno tentato di mettermi in cerca come l'ultima volta. Per esempio, cos'è la storia della testa dell'agnello?».

«Beh, a mio parere, ma posso anche sbagliarmi, si tratta prima di tutto di trovare un posto, oppure una località, dove cucinano abitualmente la testa dell'agnello».

«Lei dice? Quindi un ristorante di Vigàta?».

«Non credo che in un ristorante si trovi questo tipo di piatto. Forse in qualche osteria».

«E poi? Trovato il posto, in che direzione si deve fare la passeggiata? Non lo dice».

«Probabilmente, una volta individuato il luogo, si può capire che direzione prendere».

«Forse lei ha ragione, ma comunque mi sembra una ricerca inutile, tutta fatica sprecata».

«Perché?».

«Non li ha letti gli ultimi due versi? Dicono che non ci sarà risposta alle mie domande. E allora perché perdere tempo?».

«Non credo che le cose stiano esattamente così».

«E come stanno, secondo lei?».

«Credo che il suo avversario intenda dire che lì non troverà nuove istruzioni da parte sua, ma che dovrà essere lei, col suo intuito, a scoprire qualcosa che in seguito potrà tornarle utile».

«Sarà come dice lei, ma io non intendo più muovermi. Rinunzio a continuare questo stupido gioco».

Un'espressione di sdillusioni si stampò supra alla facci del picciotto. Anzi, del picciliddro. Pirchì propio un picciliddro pariva in quel momento.

«Rinunzia?!».

Vuoi vidiri che si mittiva a chiangiri?

«Direi di sì».

«Ma lei non può tirarsi indietro!».

«Perché, scusi? Non sono stato io a proporre il gioco, non mi è stato nemmeno domandato se intendevo giocare, e quindi posso ritirarmi quando mi pare e piace».

«Posso farle una proposta?» spiò Arturo.

Ora tiniva le mano junte a prighera. Il proposito del commissario di abbannunari la partita pariva che l'aviva mittuto in stato d'agitazioni.

«Mi dica».

«E se ci andassi io al posto suo?».

«Non lo ritengo opportuno».

«E perché?».

«Se l'avversario scopre che mi sto facendo aiutare da lei...».

«Ma io farò in modo di non farmi scoprire! Starò attentissimo!».

«Ne è capace?».

«Mi metta alla prova».

Era quello che Montalbano spirava che diciva. Sinni stetti tanticchia in silenzio come a valutare il prò e il contro della proposta e po' disse:

«D'accordo».

Arturo satò addritta, l'occhi sbrilluccicanti d'alligrizza.

«Grazie della fiducia. Mi farò vivo presto».

Si stringerò le mano. Il picciotto niscì di gran cursa. Pariva un cani che assicutava 'na lepri.

Doppo cinco minuti trasì Fazio.

«Trovato!».

A compilare il questionario 3289/PA/045, «inerente proposte e rilievi su mansioni e compiti dell'addetto all'archivio», ci misi chiossà di un'orata, tra santioni, biastemie e momenti di scoramento tali da fargli pinsari al suicidio.

Prima di nesciri dal commissariato, pinsò di tilefonare a Ingrid. Voliva spiarle 'na poco d'informazioni a riguardo d'Arturo che era un picciotto che l'intricava assà.

Pur sapenno di aviri scarsissime probabilità d'attrovarla in casa a quell'ura, sicuramenti era fora con qualichi amico o qualichi amica, ci volli provari lo stisso.

«Bruondo bruondo qui palla tu?» fici 'na voci di basso profunno, tipo cantanti di blues, o del Bolscioi, se si prefirisci, sulo che appartiniva a 'na fìmmina.

Ingrid aviva la specialità di cangiare cammarere e cammareri alla scadenza di ogni quinnici jorni sulo pirchì era assà volubile in merito, ma se li annava a scegliri sempri provenenti da posti accussì scogniti che per annarli ad attrovari supra alla carta geografica ci voliva 'na grossa lenti d'ingrandimento.

«Montalbano sono».

«Qual tuo nuomme? Montabbano o Suonno?».

Pensa che bello acchiamarisi Suonno! Veramenti gli sarebbi piaciuto. Il commissario le arrispunnì nella stissa lingua.

«Montabbano. Qui voi pallare con signora Ingrid».

«Spitarre».

Di certo, voliva diri aspettare. E dovitti spitarre, infatti, un cinco minuti nel corso dei quali cchiù volte fici pronto pronto, nello scanto che era caduta la linia e lui avrebbi dovuto ricominzari a parlare con quella cammarera dell'Alto Turkestan.