«No.»
«Non posso aiutarti. Qui fino a circa cinque mesi fa lavoravano delle ebree sposate ad austriaci e qualche mezzosangue. Sono state mandate in un altro campo, più grande, Zonenstein. Adesso qui non c’è nessuno.»
Incoraggiata dalla sua risposta dettagliata e dal fatto che era giovane, un po’
ingenuo, osai chiedere: «Di cosa si occupavano le donne?»
«Cucivano divise in base alle commesse.»
«Anche a Zonenstein faranno lo stesso lavoro?»
«Suppongo di sì, erano molto brave.»
Tra il filo spinato riuscii a vedere lo spiazzo dell’adunata: era molto grande. Sulla soglia di una lunga baracca c’erano delle vecchie macchine da cucire in parte rotte, e lì accanto panche e vecchie corde. Mi parve un insieme di strumenti di tortura. Per scacciare questa sensazione chiesi: «Era con quelle macchine che facevano le divise?»
«Proprio così.»
«E adesso le stanno buttando?»
«Suppongo di sì» rispose, e un’ombra di sorriso comparve sul giovane viso.
«Strano», commentai chissà perché.
«Le macchine si usano finché non sono guaste del tutto» spiegò il giovane, e fu contento di quel che aveva detto.
All’udire la parola «guaste», che non avevo mai usato, sorrisi.
«Perché sorridi?» chiese con un tono virile ma dolce.
«Nessun motivo particolare.»
«Che fai stasera?»
«Vado a Zonenstein a cercare mia madre.»
«Peccato, avremmo potuto spassarcela.»
«Ho solo tredici anni» tentai di difendermi.
«Le donne crescono più in fretta degli uomini. Se ci ripensi, sono di guardia qui fino alle otto. Alle otto potremmo andare a divertirci.»
«Grazie» dissi, e me ne andai.
Un mese dopo il mio arrivo da zia Brunilda, avevo capito che il mio corpo si stava riempiendo di inquietudine, e quando era apparso il primo sangue, mi ero sentita sollevata. Prima di lasciare la casa, mamma mi aveva parlato del corpo della donna e del suo sviluppo, degli alti e bassi che avrei vissuto. Mi aveva parlato con un tono insolitamente pratico, cosa che aveva conferito alle sue parole un peso particolare.
Mi fermai presso il crocevia e chiesi a una donna che passava di lì quale fosse la direzione per Zonenstein. Quella mi guardò stupita: «Che ci vai a fare, a Zonenstein?»
«Mio fratello si trova lì.»
«Sono venti chilometri. Più di un giorno di cammino. Non conviene andarci a piedi. Non lontano di qui c’è un ostello, potrai pernottare lì e racimolare le forze.»
«Grazie.»
«Che il Signore vegli sulla tua strada.»
37
Per svariate ore marciai senza pensare. Alla fine vidi un cartello: ostello degli angeli, ed entrai. Era una piccola locanda gestita da una coppia di anziani. Mi accolsero con gioia e mi servirono una minestra calda, ma non erano contenti che non mangiassi carne. Ero molto stanca e dissi loro che mio fratello era di stanza al campo di Zonenstein, senza scendere nei particolari.
Non feci alcun sogno, o forse tutto si dissolse nelle profondità del mio sonno: al mio risveglio splendeva già il sole alla finestra. Mi lavai e misi la camicia di mamma.
Aveva un buon profumo, che mi colpì. Sapevo che qualcosa mi era capitato, il giorno prima, ma non ricordavo cosa. Ero ancora insonnolita, quando mi tornò davanti agli occhi il giovane soldato che avrebbe voluto venire a letto con me.
La coppia mi preparò la colazione e mi si sedette vicino. Chiesi del campo di Zonenstein, e loro mi dissero subito che lì erano imprigionate delle donne ebree sposate ad austriaci e delle mezzosangue.
«Le condizioni sono dure?» chiesi.
«Guai ad avere pietà degli ebrei. Mai dimenticare quel che hanno fatto al mondo e a noi. È giunto il momento che lavorino, invece di approfittarsene» disse la donna.
Non lo disse con rabbia, bensì con una convinzione oggettiva. Non chiesi più nulla.
Pagai e me ne andai.
Malgrado ciò mi sentivo bene. Forse perché mi ero lavata, forse perché avevo addosso la camicia di mamma. Avanzavo adagio, guardandomi intorno. Il panorama era rasserenante, e per un attimo mi soffermai sugli alberi e gli arbusti e il gregge di pecore che pascolava tranquillo su un prato. Mi tornò in mente il nostro ovile. Papà sulla soglia aveva detto: «Le ho vendute. Domani verranno a prenderle». Parlava a voce alta, e io mi ero resa conto che quelle creature inermi che per tanto tempo erano state sotto la sua ala, venivano ora abbandonate a un destino crudele.
Poi mi ricordai che anche Abramo aveva cacciato Agar e suo figlio nel deserto e se non fosse stato per il Signore, che vide la loro sofferenza e li salvò, sarebbero morti di sete. Il pensiero che Dio non dimentica le sue creature e non avrebbe dimenticato mamma, mi rallegrò.
Avevo ancora il pane e il burro che mi aveva dato Elsa. Stesi un tovagliolo e mangiai, bevendo l’acqua del fiume e concludendo il pasto con della frutta secca. Nei campi in lontananza i contadini stavano falciando l’erba medica. Riuscivo a vedere le loro braccia che si levavano e i cavalli sotto gli alberi, chini sugli abbeveratoi.
Durante le nostre gite estive, quando mamma e io ci sedevamo sotto un albero, lei diceva: «La natura e chi lavora a contatto con essa vivono in pace, solo la gente di città è inquieta». Le avevo chiesto il significato della parola «inquieta» e mamma me l’aveva spiegata.
Era passato quasi un anno da quando mamma aveva lasciato casa. Questo pensiero mi fece alzare in piedi per mettermi in cammino. Ora marciavo con energia, e dopo circa due ore e mezzo mi fermai presso un ponte di pietra decorato con statue anch’esse di pietra. Sembrava un santuario distrutto e abbandonato, e ora quelle statue incutevano terrore a chiunque si avvicinasse.
Il giorno prima che partissi da casa sua, Elsa mi aveva detto che le scoperte avvengono così, come per caso. Conoscevo questa espressione, ma detta da lei mi era suonata oscura. Ora mi resi conto che tante immagini segnavano ormai il mio cammino, alcune semplici e altre strabilianti. Prima o poi sarei tornata a raccoglierle.
Calò la sera e mi sedetti sotto un albero, mangiai quel che restava del pane e del burro e mi misi a osservare la luce sempre più intensa all’orizzonte. Ero immalinconita da questa mia vita sempre più abitata da solitudine e paura, ma non mi lasciai sopraffare dalla disperazione. Mi dissi: Sono stata inviata in missione dal Signore per salvare mamma, e il messo non può disperare. La disperazione avvelenerebbe la sua missione. Queste frasi che mi si formularono in testa davano un senso ai vagheggiamenti, e fui contenta che il mio viaggio avesse uno scopo.
38
L’indomani mi alzai molto presto e partii, così dopo qualche ora di marcia mi trovai davanti al cancello del campo di Zonenstein. Era molto più grande di quanto immaginassi. A differenza del campo di Herlich e della sua aria dimessa, quello di Zonenstein pareva un regno chiuso e inaccessibile. Baracche e catapecchie si estendevano in lungo e in largo, in mezzo c’erano alcuni edifici di mattoni. Anche l’ingresso pareva diverso: due porte di ferro molto alte che serravano tutto, e un soldato con addosso abiti ben stirati davanti a una guardiola bianca.
Presi coraggio e mi avvicinai al soldato, mi presentai e dissi: «Sto cercando mia madre, Ghisele Shenbach».
«Ebrea?» domandò quello senza guardarmi.
«No.»
«Ci deve essere un errore. Chi ti ha detto di venire qui?»
«Sono venuta di mia iniziativa, nessuno mi ha mandato qui.»
«Qui nel campo vivono ebree sposate ad austriaci e donne figlie di matrimoni misti. Cristiani di nascita non ne abbiamo.»
«Le sarei grata se potesse controllare, non vorrei che mia madre fosse finita qui per sbaglio.»
«Qui non si fanno sbagli» mi corresse subito. «Qui tutto è verificato e documentato. Se tua madre non è ebrea e nemmeno mezzosangue, questo non è il suo posto.»
«Capisco» dissi.
Le parole del soldato erano inequivocabili e perentorie, non sapevo più che cosa chiedere. Mi sfilai lo zaino dalle spalle e non mi mossi.
«Quanti anni hai?» domandò con un tono diverso.
Gli dissi la mia età.
«Sembri più grande.»
Di nuovo non sapevo cosa dire, sorrisi.
«Fra due ore finisco il turno di guardia, potremmo andare a spassarcela in osteria.»
Sapevo che era un inganno ed ebbi paura, ma dentro di me sperai che dopo essercela spassata insieme il giovane soldato mi avrebbe permesso di entrare nel campo e vedere mamma. Gli dissi: «Ti aspetto qui».
«Non qui» mi fermò subito.
Allora presi lo zaino, attraversai la strada e mi sedetti sotto un albero. Avevo fame, tirai fuori la frutta secca e mangiai.
Sin da quando ero bambina, la nostra fattoria era stata teatro di sconvolgenti faccende di sesso. Papà era molto rigido in proposito. Un bracciante che molestava una donna veniva rimproverato, e se si trattava di qualcosa in più di una molestia, lo licenziava. Tuttavia, non passava anno senza uno scandalo di questo genere.
Alcuni anni prima, quando io ero in terza elementare, da un granaio era spuntata una donna tutta spettinata, che singhiozzava e gridava con voce straziante: «Mi hanno assassinato». Avevano tentato invano di calmarla, ma lei aveva continuato a gridare:
«Mi hanno assassinato». Poco tempo dopo si era capito come erano andate le cose: un bracciante, uno che lavorava da un pezzo alla fattoria, l’aveva portata nel granaio per violentarla. Allora per la prima volta avevo sentito la parola «violentare». Mamma non mi aveva nascosto il significato di quella parola.
Quell’immagine remota, rimasta nascosta in me per anni, affiorò ora con precisa nitidezza, ed ebbi l’impressione che presto il soldato avrebbe fatto quella cosa a me.
Avrei voluto scappare, ma avevo paura. Avevo paura che mi inseguisse. La paura cresceva di momento in momento, e mi bloccava lì dov’ero.
Dopo circa due ore il soldato venne da me e mi disse che era dispiaciuto, ma gli avevano prolungato il turno e non poteva pertanto uscire con me. Mi parlò con sincerità e buona educazione, ma io credetti di capire che aveva controllato e scoperto che mia madre era ebrea, e per questo intendeva lasciar perdere il divertimento.
«Peccato» dissi.
«Non c’è niente da fare» disse tornando al suo posto di guardia.
Questo rifiuto mi rattristò. Ora sapevo che la tara di cui soffriva mamma era impressa anche in me. Questo difetto era una malattia occulta che le persone attente riconoscevano in lei facilmente, e subito dopo averla riconosciuta si allontanavano con disgusto, stringendo le labbra. Avrei voluto alzarmi e andarmene, ma non ce la facevo a tirarmi su. Mi venne in mente di aspettare il cambio della guardia e rivolgermi al nuovo soldato. Per un attimo fui contenta di me stessa, di non arrendermi facilmente, ma dentro di me sapevo che sarei andata incontro a un’umiliazione.
La sera ci fu il cambio della guardia e un soldato basso e magro sostituì quello precedente. Chissà perché, mi convinsi che il nuovo mi avrebbe capita, e mi preparai il discorso con cui rivolgermi a lui.
Mi alzai, mi avvicinai e dissi: «Signor soldato, sto cercando mia madre, potrebbe aiutarmi?»
«Tua madre è ebrea?» La domanda non tardò ad arrivare.
«Molti anni fa si è convertita.»
«Non cambia niente» mi disse cortesemente. «Chi nasce ebreo sarà sempre ebreo.»
«Anche se si è convertito?»
«Certo.»
«Tuttavia, è mia madre, e vorrei vederla.»
«È vietato entrare nel campo.»
«Potrebbe dirmi, per favore, se si trova qui?»
«Non posso. E sarebbe meglio se sparissi. Sei una mezzosangue, e potresti essere presa per un’indagine.»
«Se questi sono gli ordini, sono pronta.»
«Non sai cosa dici. Se lo sapessi, staresti attenta.»
«Sono pronta a soffrire.»
«Non si tratta di sofferenza ma di torture.»
«Se questa è la volontà del Signore, sono pronta.»
La mia testardaggine ispirò uno strano sorriso sulle sue labbra. «Ti consiglio di tornartene a casa e di non girare per posti pericolosi» disse cambiando tono. «E poi non cambia in quale campo si trova. Da questi campi non si esce.»
«Ti ringrazio molto per la tua pazienza, ma se mi dici che lei si trova qui, ti ringrazierò per il resto della mia vita.»
Il soldato mi fissò con uno sguardo malizioso e disse: «Se mi dai un bacio».
«Lo faccio volentieri» dissi, e lo baciai sulle guance.
«Come si chiama tua madre?» Glielo dissi.
Entrò nella guardiola, sfogliò uno spesso quaderno, tornò da me e disse: «Non è qui».
«E dove si trova?»
«Ci sono tantissimi campi, piccoli, medi e grandi, sparsi per tutto il Reich. Le prigioniere vengono spesso trasferite da un posto all’altro. È tutto ciò che posso dirti.»
«Come si chiama il campo più vicino?» Cercavo di strappargli anche solo un barlume di informazione.
«Gruenwald. E adesso fila via di qui, che non ti veda più nei paraggi.»
Strano, questo umiliante rifiuto non mi ferì come quello di prima. Ero contenta di essere riuscita a ottenere da lui il nome del campo più vicino e di non essermi arresa tanto facilmente. Calò la sera e non ce la facevo più a vagare. Tutto quello che mi era successo nelle ultime ore mi sembrava un’incomprensibile e assurda prova: ero felice di potermi finalmente coricare per terra, guardare le stelle e dire a me stessa che Dio in cielo vedeva tutto e mi avrebbe aiutato.
39
L’indomani m’incamminai verso Gruenwald. Per strada feci una sosta in una locanda. Le piccole locande sparpagliate lungo le strade erano posti tranquilli, immersi nel verde. I clienti erano pochi, così i proprietari servivano tutto quel che avevano a disposizione.
«Buongiorno, fanciulla» mi accolse una donna anziana. Mi fece subito accomodare a un bel tavolo, offrendomi la colazione.
Avevo fame e sete, mi godetti il pasto che mi aveva servito. I giorni trascorsi da quando avevo lasciato casa mi sembravano ora affannosi e bui, e fui contenta di ritrovarmi seduta a una finestra luminosa a bere un buon caffè, senza che il tempo incalzasse.
«Da dove vieni e dove sei diretta, fanciulla?» mi chiese la padrona.
«Sto andando a Gruenwald, a trovare mio fratello che presta servizio lì» risposi prontamente.
«È lunga la strada per arrivare laggiù. Ogni tanto passa un carretto, ti conviene aspettare.»
«Ho tanta nostalgia di mio fratello, sono sei mesi ormai che non lo vedo» mentii con convinzione.
«La guerra ci tocca tutti. I miei nipoti sono sul fronte orientale, e le mie notti trascorrono insonni.»
Rimasi a lungo alla finestra. La grande energia che prima pulsava in me si era spenta, e mi scese addosso la stanchezza che segue una grande fatica: mi addormentai.
Al mio risveglio era ormai calata la penombra, alla finestra. Faceva freddo, indossai il maglione di mamma.
«Fanciulla, dormivi bene, e non volevo svegliarti.» Tornò da me, di buon animo, la padrona.
«Scusi, ero molto stanca.»
«Ho della minestra di patate con finocchio selvatico e panna acida, è eccellente.»
«Grazie, volentieri.»
Non feci in tempo a dire grazie ed ecco il profumo della minestra arrivarmi alle narici, a rammentarmi le limpide estati a casa, il sole appeso alla finestra aperta, mamma in piedi davanti al tavolo e una nuova felicità negli occhi, come se avesse appena scoperto la primavera dentro casa. D’un tratto, quel giorno, si era voltata verso di me e mi aveva guardato piena d’amore e di gioia perché ero cresciuta, non ero più la piccola Helga, ma una ragazza con cui star seduti e tacere insieme.
A mezzogiorno, in quella stagione, mamma mi cucinava sempre la minestra di patate con il finocchietto selvatico e la panna acida, e restavamo a lungo sedute a sorbire il brodo, senza fretta. In quei radiosi giorni di primavera papà non era in casa.
Lui era nei campi, girava con i suoi amici contadini e viveva la sua vita. Non di rado lo vedevo fra loro, e solo ultimamente avevo capito che lui apparteneva alla vitalità dei campi, dei boschi, delle stalle e delle scuderie, non al silenzio di casa.
Intanto, la padrona mi portò la minestra e disse: «L’ho appena fatta».
La sorseggiai, e a ogni sorso mi tornavano davanti agli occhi i gesti pacati della mamma.
Ero ancora stanca, decisi di pernottare lì. Mi tolsi subito i vestiti e mi immersi in un sonno profondo.
Nel sogno vedevo Carl, alto e robusto, con un sorriso timido agli angoli delle labbra. Poi vinceva la timidezza e diceva: «Helga, sei cresciuta tanto da quando ti ho vista l’ultima volta».
Carl era uno dei giovani che lavoravano alla fattoria, tra l’altro era il responsabile della scuderia. Per me Carl e i cavalli erano una cosa sola. Voleva loro un bene dell’anima, e questo amore lo si vedeva quando si prendeva cura di loro, quando arava l’orto, quando conduceva papà in calesse nei boschi e nei campi. Gli volevo bene da quando l’avevo visto per la prima volta.
Ora me lo trovai davanti. Non sapevo cosa dirgli. Alla fine vincevo l’incertezza e dicevo: «Come stai?»
«Benissimo. E tu come stai? È un po’ che non ti vedo.»
«Mio padre mi ha esiliato da casa sua. Non ti è arrivata notizia, forse.»
«Un padre amorevole non caccia sua figlia» mi diceva in tono serio.
«Mamma, in caso non lo sapessi, è ebrea, e per questo non sono gradita.»
«Ma tu sei di tuo padre non di tua madre.»
«Ti sbagli. Se la madre è ebrea, anche la figlia è ebrea.»
«Così dice la legge?»
«Esatto.»
«Io la rinnego una legge così» diceva Carl, e il sorriso gli tornava sulle labbra.
Alla vista di quel sorriso buono e ingenuo, gli dicevo: «Faresti meglio a stare lontano da me. Chi ha del sangue ebreo nelle vene è un pericolo per la società ed è condannato a un lavoro sfiancante. Solo dopo anni di duro lavoro la sua natura ebraica, se così si può dire, cola via e lui può cominciare una nuova vita».
«Non ti capisco» diceva Carl sbarrando gli occhi.
«Si può anche dire, il che mi sembra pure più corretto, che la natura ebraica è una malattia molto pericolosa. Che ci si passa di generazione in generazione. Io ti ho sempre voluto bene, ho sempre sperato che un giorno o l’altro saremmo diventati amici, ma la malattia che cova in me mi impedisce di avvicinarmi a te. Spero che tu capisca.»
«Non si vede che sei malata.» Carl si ostinava a non capire.
«È una malattia occulta, solo chi sa la riconosce, e nel momento in cui la riconosce ci mette in prigione. Dunque, per favore, stai lontano da me, non vorrei attaccartela.»
«Le tue parole mi suonano molto strane.»
«Credimi, ti sto dicendo la pura verità. Si tratta, purtroppo, di una brutta malattia.
La mia povera madre ora è messa alla prova, la stanno temprando. Prego che possa reggere. Mio caro Carl, vattene, hai una vita sana e piena, non pensare più a me. Io dal canto mio ti ricorderò come una meraviglia della natura.»
Al mio risveglio, era già piena mattina. La bella stanza me ne fece ricordare una simile, solo che non sapevo più dove fosse. Il sogno rimase annidato in me a lungo, facevo fatica a congedarmi da esso e ad alzarmi, solo verso mezzogiorno mi feci forza e mi alzai.
40
«Scusi il ritardo» mi giustificai.
«Il sonno ci fa nuovi, fanciulla, ed è un bene che il Signore ci abbia dato questo dono» spiegò con una voce gentile, antica e dimenticata.
Mi sedetti a tavola e il sogno stupefacente mi abbandonò a poco a poco. La padrona mi portò una tazza di caffè fumante e due fette di pane campagnolo spalmato di burro e marmellata, dicendo: «È bene cominciare la giornata con una tazza di caffè». Si capiva che aveva attraversato molte vicissitudini, ma non aveva perso il senso della vita. «Com’è il mio pane? E il caffè?» mi chiese ammiccando.
«Ottimo.»
Il caffè in effetti era caldo e appena fatto, e mi pervase di una tale dolcezza che per un attimo dimenticai lo scopo del mio viaggio, abbandonandomi alla bevanda calda.
Dopo essere rimasta un’ora alla finestra, avevo in mente di pagare e andarmene. La proprietaria dovette capire le mie intenzioni, si avvicinò e mi disse: «Guai a perdere le speranze, ogni tanto arriva un carretto da queste parti».
«Posso fare la strada a piedi.»
«Sì, è primavera, ma ogni tanto arrivano dei temporali, senza lasciar presagire nulla. Perché bagnarsi e sporcarsi?» Sapevo che non aveva altri clienti nella locanda e che faticava a sopportare la solitudine.
Poi si sedette accanto a me e mi raccontò di suo marito, che era alcolizzato ed era morto giovane, dei suoi due figli che abitavano lontano e che da due anni non si prendevano il disturbo di venirla a trovare. «Strano» disse, «i miei nipoti mi sono più vicini dei miei figli. Sono al fronte e combattono contro il nostro nemico. Penso sempre a loro e ho paura.»
Uscii fuori e mi sedetti sotto un albero. Vidi Carl come mi era apparso nel sogno.
I pensieri che mi affollavano la mente erano dolorosi, pertanto decisi di partire.
L’ostessa insisteva ancora che restassi, in attesa di un carro, ma ero determinata a partire.
«Fanciulla, la tua dedizione a tuo fratello è commovente. Oggigiorno ognuno pensa a se stesso, e tu non dici: Io mi faccio i fatti miei e mio fratello i suoi. Hai invece lasciato la tua casa e stai andando da lui. Solo chi ha Dio nel cuore fa una cosa del genere.»
«Grazie, nonna.»
«Aspetta, voglio darti qualche provvista per il viaggio.»
La pagai e mi diressi verso Gruenwald. Era un piacevole mezzodì, e nei gesti dei contadini non si notava rabbia o timore alcuno. Lavoravano i campi e gli orti di buon animo, come avevano fatto i loro avi.
Li osservavo con fredda curiosità. Si stava annidando in me la sensazione che tutti mi spiassero e cercassero di farmi cadere in trappola. Questo presentimento era sempre più forte e non mi lasciò nemmeno quando mi sedetti e mi preparai il pranzo di mezzogiorno. Solo allora capii che le informazioni che ero riuscita ad attingere dai soldati non erano molte. A dire il vero non mi avevano rivelato nulla. Che c’erano molti campi nei dintorni, questo lo sapevo. L’esistenza degli ebrei occupava tutti, qui.
Tutti avevano i loro segni identificativi, i tratti del carattere, la fede nel passato e nel presente, e ora tutti sapevano dove erano prigionieri. Anche io, alla fin fine, sarei stata imprigionata. Speravo solo di esserlo nello stesso campo dove c’era mamma.
Di nuovo ebbi davanti agli occhi Maria Gross. Le sue apparizioni alla fattoria erano rare, come ho già detto. D’estate si sedeva in giardino con mamma, insieme bevevano acqua fredda con sciroppo di rose. Questi incontri erano molto intensi, forse perché loro due parlavano poco. Una volta la udii chiedere a mamma se non le mancasse la grande città. Mamma le aveva risposto diffusamente, in un modo che aveva fatto ridere Maria. A forza di ridere si era piegata in due, e il suo grande corpo era improvvisamente sembrato ancora più grande.
Quei lampi che risalivano dalle profondità del passato dicevano solo che la mia vita non era perduta nella desolazione dell’oblio, che un giorno o l’altro sarei tornata laggiù.
41
Lessi un capitolo dei Salmi, mi alzai e ripartii. Ero ben sveglia e il timore di sbagliare e che la gente mi facesse deviare finalmente mi abbandonò. Mi rammentai di Teresa e del lungo inverno e delle luci radiose del mattino dopo la preghiera.
Teresa mi diceva sempre: «A ciascuno il libro della radice della sua anima. Tu devi attenerti al Vecchio Testamento». Allora non sapevo che lei mi stava aprendo le porte della luce. Ero imprigionata dentro me stessa e piena di paure.
Incontrai un contadino e gli chiesi quanto ci volesse ancora per Gruenwald. Lui mi guardò e disse: «Che ci vai a fare in quel posto maledetto?»
«Mio fratello è custode lì, e sto andando a trovarlo.»
«Sia benedetto chiunque fa il custode per gli ebrei in prigione.» C’era un tono religioso nella sua voce.
«Che male hanno fatto gli ebrei?» Non mi trattenni dal chiedere.
«Non lo sai? Se non lo sai, le spiegazioni non serviranno.»
«Padre mio» dissi, «perché ti arrabbi?»
«Non ce l’ho con te ma con i tuoi limiti» mi disse, e se ne andò per la sua strada.
Solo dopo un po’ sentii i miasmi del veleno che si diffondevano su di me, ma la sera era smagliante nei suoi colori e mi fece dimenticare quel viso. Mi appoggiai a un masso e guardai le siepi in fiore e le foglioline verdi sui rami, e la prigionia di mamma mi parve d’un tratto un’astuta macchinazione. Ma io, con la forza della mia fede, l’avrei riscattata, mi dissi.
Chiusi gli occhi e vidi il direttore della fattoria. Era da molto tempo che non lo vedevo. Mi rivelava subito che il giorno prima c’era stata una festa.
«Una festa?» Chiedevo ragguagli.
«Tuo papà si è sposato con Henrietta.»
«Non posso crederci» dicevo tranquilla, per non tradire il mio sconvolgimento.
«Si è sparsa la voce che gli ebrei non torneranno più alle loro case. Che li manderanno in Oriente, a lavorare la terra nella steppa ucraina. L’intenzione, così mi hanno spiegato qui, è di sradicare la natura ebraica dalle loro anime, e di renderli degli onesti coltivatori.»
Sapevo che sarebbe andata così.
«È la vita, che vuoi farci» mormorava senza alzare il capo.
«Odio quando si dice che vuoi farci» non gli nascondevo. «Sono tornata a casa per trovare un po’ di quiete e aspettare il ritorno di mamma. Che errore imperdonabile, non mi pentirò mai abbastanza della mia avventatezza.»
Il tizio si abbassava e alla fine diceva: «Che posso fare per te?»
«Nulla. Tornerò là da dove sono venuta, per le strade. Le strade sono più buone, sono la mia vera casa.»
«Potrei portarti ovunque, dimmi dove, e ti ci porto, parlami con tono amichevole.»
«Non è il caso, sono abituata a camminare. Meglio camminare che stare in un solo posto. Promettimi che non dirai a papà che sono stata qui» dicevo, e me ne andavo.
Al mio risveglio era già sera, il cielo era colmo degli strilli degli uccelli. Il cammino, da quando ero scappata da casa di zia Brunilda, mi sembrava lungo, come un fiume sulle cui acque venivo trasportata. Tentai di farmi tornare in mente persone e luoghi che avevo visto, ma non scorsi altro che Elsa la cieca.
Per non perdermi nelle visioni, tirai fuori dal mio zaino il pane e il formaggio che mi aveva dato l’ostessa, tagliai alcune fette di pane e ci misi sopra il formaggio.
Erano freschi, e li finii ben presto. Proprio vicino a me c’era un ruscello limpido. Mi chinai, bevvi e placai la mia sete, fui contenta di reggermi in piedi e di avere fede abbastanza per lottare contro le insidie dei carcerieri.
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Poi non andai quasi più avanti. Mi coricavo sotto degli alberi ombrosi e sonnecchiavo per gran parte della giornata. Per ore e ore restavo immersa in me stessa, ad ascoltare i bisbigli del mio corpo, dimentica della missione che dovevo compiere. È vero, ogni tanto la mia coscienza mi risvegliava, camminavo per due o tre ore, ma ben presto mi stancavo e mi abbattevo.
La distanza tra Zonenstein e Gruenwald era di una settantina di chilometri, ma dato che mi aspettavano molti giorni di marcia, Gruenwald me la immaginavo come una fortezza che probabilmente non sarei mai riuscita a raggiungere. Per strada mi imbattevo in ogni genere di creature, vecchi pervertiti, matti, persino un invalido sulle grucce. Li evitavo più che potevo.
La primavera continuava a fare miracoli. Una dopo l’altra le piante si svegliavano dal loro letargo, e i prati verdi mi riportavano alla memoria la fattoria e mamma.
Come me anche lei amava i prati, i campi e gli orti. Le stalle, che si estendevano su vasti territori, mi spaventavano un po’. La prigionia delle vacche e dei vitelli mi sembrava un crimine, speravo che un giorno o l’altro venissero liberati e potessero spaziare per i pascoli, senza più restare prigionieri. Mamma conosceva questi miei pensieri, ma chissà perché non ne parlammo mai.
Dunque non di tutto avevamo parlato. C’erano questioni dolorose che mamma evitava ogni volta che venivano a galla. Anche della fattoria e di tutto quello che vi capitava non parlavamo molto.
«Tua mamma è una donna speciale nel suo genere» mi aveva detto una volta Manfred, così, en passant.
«In cosa è speciale?» avevo indagato.
«Tua mamma sa contemplare. Solo chi ama la creazione guarda in quel modo.
Quasi tutte le creature si comportano con superbia, come se il mondo fosse preda dell’arbitrio. Tua mamma nota ogni dettaglio del creato.»
Non lo sapevo? Sì che lo sapevo, ma io prendevo mamma come una cosa ovvia.
Ero sicura che tutte le madri osservassero come faceva lei, aspettando il ritorno dei figli da scuola, stando in ansia per loro quando andavano in gita, e amassero stare sedute ad ascoltarli.
Entrai in una locanda e ordinai il pranzo di mezzogiorno. Quando l’ostessa seppe che ero vegetariana, fece una smorfia e disse: «Da dove ti viene questa brutta abitudine?»
«Lo sono da sempre» risposi trattenendomi.
«Non ho mai visto nessuno nutrirsi di piante e andarne fiero.»
«Io» dissi, levando la mano. Riuscì con fatica a prepararmi un piatto di patate senza grassi, una caraffa di yogurt e del formaggio. Posò il piatto sul tavolo senza degnarmi di uno sguardo, ma con mia sorpresa il pasto era buono, e finii tutto. Notai che la gente lì mangiava a capo chino, senza parlare, e l’unico che disse qualcosa aveva un tono brontolante, accusò l’ostessa e i commensali di indifferenza. Pian piano capii che non stava accusando solo i locali del fallimento della guerra.
«Il fronte si spezza.» Udii un bisbiglio involontario. Il che accese in me nuove speranze. Non sapevo esattamente che cosa augurarmi, ma immaginavo che se la guerra fosse finita avrebbero liberato tutti i lavoratori coatti, compresa mamma.
43
Il cuore sa di cosa è presago. In ogni locanda in cui capitavo spiravano venti cupi.
Questo pessimismo aveva molte facce: umori bassi, silenzio glaciale e ubriachezza.
Non che uscissero parole esplicite, ma era chiaro: il fronte si era spezzato e per ordine del Fuhrer si doveva resistere a ogni costo. Questa notizia passava come un bisbiglio concitato. Io vedevo i cancelli dei campi sfondati e i lavoratori coatti che premevano per uscire e poi erompevano fuori in massa.
Accelerai il passo per arrivare prima possibile al campo di Gruenwald, ma degli improvvisi rovesci mi costringevano a fermarmi e a trovare riparo sotto gli alberi e nei granai. Se mi fosse capitato un carro, avrei dato tutto quel che avevo per farmi condurre a Gruenwald; ma non ne incontrai mai, e procedevo, per via del fango, a non più di un chilometro o due al giorno. Come in un incubo, mi trovavo legata mani e piedi.
Ecco arrivare finalmente un carro vuoto. Sopra c’era un ragazzo che avrà avuto quindici anni. Gli chiesi di portarmi a Gruenwald, e aggiunsi subito: «Ti pago un prezzo ragionevole».
«Sali» fu la risposta del giovane.
«Ti ringrazio molto» dissi.
«Come mai vai a Gruenwald?» domandò mentre ripartivamo.
«Sto andando a trovare mio fratello, di stanza laggiù.»
«Quanti anni hai?»
Glielo dissi.
«Sembri più grande della tua età.»
Per un attimo ebbi l’impressione che volesse adularmi. Mi sbagliavo. Disse che ero bella e mi chiese un bacio. Glielo diedi. Ma non era ancora contento, e mi abbracciò.
Sentii la forza delle sue braccia e il suo desiderio ardente. Gli dissi che ero ancora piccola e che lui non poteva guastare la mia missione.
«Ti amo» disse cercando di farsi strada nel mio corpo. Mi sentii le sue mani addosso e raggelai. Gli dissi che non poteva farlo, ma lui non si arrese. D’un tratto fermò il carro e disse: «Vieni, riposiamoci sull’erba».
Sapevo che cosa aveva in mente e gridai: «Sto compiendo una missione importante e tu non me la manderai a monte».
«Di che missione stai parlando?» domandò, guardandomi come fossi ammattita.
«Vedere mio fratello. È rimasto ferito al fronte e adesso è ricoverato a Gruenwald.»
Una bugia dopo l’altra.
«Che c’entra con l’amore?»
«Mi sto dedicando a questa missione e ho fatto voto che avrei serbato la mia modestia fin quando non avrò visto mio fratello.»
«E dopo?»
«Dopo veglierò su di lui finché non sarà guarito.»
Le mie parole, forse la mia voce, gli fecero una certa impressione, tanto che mi mollò. Ma quando ripartimmo, gli tornò la brama. Questa volta mi prese forte e si appiccicò a me. Cercai di liberarmi come potevo, e visto che non ci riuscivo alzai la voce e urlai in un modo spaventoso. Fu un urlo così forte che lo colpì, ma io non mi fidavo più di lui ormai. Gettai lo zaino e saltai giù dal carro.
«E il pagamento?» pretese.
Tirai fuori una banconota dalla tasca, la posai per terra e mi incamminai. Sapevo che per me era stata un’esperienza, una specie di prova, ed ero contenta di aver resistito. Lui non si arrese, mi venne dietro, chiese e minacciò, ma io non ebbi paura.
Una forza come non avevo mai avuto mi riempì le mani, sapevo che se si fosse avvicinato l’avrei picchiato.
Passò qualche istante e due carri mi vennero incontro. Comunicai subito ai carrettieri che quel tipo, che mi veniva dietro, voleva farmi del male. Gli anziani carrettieri saltarono a terra e gli ordinarono di tornarsene indietro e di non molestarmi. Lui non si scusò, anzi mi accusò, ma loro non badarono alle sue proteste e gli ordinarono di sparire immediatamente.
Ancora oggi sento le sue dita ossute conficcate nei miei fianchi. Un contatto del genere il corpo non lo dimentica facilmente. Fu un brutto incidente sulla via per liberare mamma, dentro di me ero fiera di avere vinto la paura e di avergli impedito di violare il mio corpo.
44
Entrai in una locanda e ordinai il pranzo. L’ostessa accolse la mia ordinazione senza commenti. L’incubo ce l’avevo ancora davanti agli occhi, ma la minestra di verdure, le patate e il formaggio fresco mi riportarono i sapori della mamma e tornai subito con lei.
Anche qui si parlava dei fronti che si erano spezzati, ma non più come un segreto da bisbigliare, bensì come un fatto incontestabile. Mi dispiacque che il mio cammino fosse così accidentato e la distanza da Gruenwald si fosse accorciata di ben poco, ma ero contenta di non essere abbattuta.
Dopo il pranzo non mi fermai, ripartii subito. La via sterrata era piena d’acqua, avanzavo adagio. All’improvviso in cielo comparvero alcuni aerei veloci e minacciosi che trafissero il silenzio, e non passò molto tempo che un tuono spaventoso scosse la terra.
La campagna cadde in preda al panico. La gente mollò gli attrezzi e si disperse, mentre a me, chissà perché, sembrava che ora le porte del campo si stessero aprendo e che i prigionieri stessero fuggendo precipitosamente. La breccia mi sembrava come l’immensa spaccatura del Mar Rosso: due muri d’acqua uno di fronte all’altro mentre la gente passava all’asciutto. Quest’immagine era nitida come mi si era rivelata con Teresa. Allora le avevo chiesto del segreto del miracolo, e Teresa mi aveva risposto:
«Ogni giorno è pieno di miracoli, solo che noi li prendiamo come una cosa ovvia.
Questa ottusità ci rende creature infime».
Per tutta la notte lottai con le tenebre e il fango, quando venne l’alba crollai sotto un albero e mi addormentai. Anche nel sonno lottavo con quel delinquente che aveva cercato di sopraffarmi. Dentro di me speravo in un miracolo, ma sapevo anche che non c’erano scorciatoie e che avrei dovuto affrontare altre battaglie.
Mi tornarono in mente i giorni di Natale a casa: si andava in chiesa e poi ci si metteva a tavola. Mamma si vestiva in modo elegante, ma non era allegra. Per la cena di Natale venivano i cugini di papà. Anche loro erano fattori, e assomigliavano a papà, impegnati negli affari della regione, il partito, e ovviamente il contributo ai combattenti al fronte. Allora capii che quella cena per mamma era una prova. Aveva paura di fallire e per molti giorni si dedicava ai preparativi. L’indomani era pallida e stanca e quasi non si reggeva in piedi. Le facevo una tazza di tè, lei afferrava la tazza con le dita tremanti.
Mi ricordai che anche io ero preoccupata per i soldati al fronte. Ogni fine settimana mandavo loro in una busta dei fiori secchi, una volta al mese un piccolo pacco per il milite ignoto. Li avvolgeva un’aura di santità; e io, come tutti, ero presa da questa potente sensazione.
Ora gli aerei tornarono, fecero un giro ma non lanciarono bombe. Questa volta la fortuna mi assistette. Un contadino che stava andando a Gruenwald era disposto a prendermi con sé. Per strada mi chiese: «Da dove vieni, dove vai?», e gli raccontai quello che raccontavo a tutti. Parlando mi rivelò che alcuni fronti si erano spezzati e, a meno di una svolta, la disfatta era vicina.
«E i campi li apriranno?» chiesi subito.
«Speriamo di no. Per la prima volta nella storia ci è stato dato il diritto di liberarci degli ebrei, e se apriranno i campi, li avremo di nuovo fra noi.»
«Non li apriranno?» Non riuscii a controllarmi.
«È un diritto storico. Un mondo senza ebrei sarà un mondo più puro, più morale, e se la guerra ha una giustificazione, per le nostre tante vittime, è proprio che ci libera da quell’infima razza. Sia che si perda sia che si vinca, il mondo sarà migliore. Mi segui?»
Non seguo, no, avrei voluto dirgli, ma non lo feci. Quell’uomo gentile, che parlava in un tono pacato, assomigliava ai cugini di papà: era educato, posato, moderato nel linguaggio, ma quando si trattava di ebrei sembrava un crociato fanatico.
Dopo due ore di viaggio giungemmo a Gruenwald. Lo ringraziai e fui contenta di essere arrivata alla meta.
45
Già a una prima occhiata mi resi conto che il campo di Gruenwald era incredibilmente più grande dei due precedenti, con delle recinzioni di filo spinato più alte e tante più torri di guardia. Oltre la recinzione riuscivo a vedere le prigioniere con i vestiti a strisce, che si muovevano a tre a tre. Erano magre e camminavano veloci. I soldati che le sorvegliavano le frustarono, i ranghi si spostarono e presero a vorticare, ma ben presto si ricomposero.
Feci il giro del campo. C’erano prigioniere in ogni dove. Camminavano a tre a tre o in fila indiana. Qua e là una di loro veniva portata fuori dalla fila e castigata con il bastone. Cercai di riconoscere mamma in mezzo a loro, ma l’abito identico e il passo lesto mi confondevano. Dopo un’ora mi stancai e mi sedetti.
Tornai a fare il giro della recinzione. Ora non si vedevano più detenute, solo soldati alti e impettiti, che comparivano e sparivano sulla soglia delle baracche. In lontananza un motore rombava producendo un suono sgradevole, e a parte questo c’erano soltanto il sole basso e un silenzio teso, ma io capii che anche dentro quelle baracche si infieriva sulle prigioniere, e dovevo presto trovare il modo di infilarmi lì dentro. Ogni minuto era perso. Questa sensazione si rafforzava in me da un istante all’altro, e il tremito alle mani mi faceva vibrare tutto il corpo.
Intanto in cielo apparvero alcuni velivoli. Si abbassarono, scagliarono alcune bombe e fecero sussultare il suolo. Pregai in cuor mio che dal cielo mi giungesse aiuto. Gli aerei continuavano a bombardare, ma non il cancello d’ingresso. Questa mancanza mi stupì, ma non persi la fiducia. Mi avvicinai all’ingresso e lo controllai da ogni parte. Era bloccato da un cancello di ferro circondato di filo spinato, e sopra c’era scritto IL LAVORO RENDE LIBERI. Questo slogan mi riportò alla mente la frase appesa davanti alla palestra della scuola: MENS SANA IN CORPORE SANO.
Tutto qui diceva di chiusura, di segreto. Che fosse un posto inaccessibile lo si capiva dalla fitta recinzione e dalle torri di guardia: l’indicibile stava racchiuso nel silenzio, nel sole ardente e nelle ombre fitte che passavano in lungo e in largo per il campo.
Tornarono gli aerei, fecero un giro, e ora sentii che venivano per aiutarmi. Si abbassarono tanto che si riuscivano a vedere l’abitacolo del pilota e le ali flessuose che si piegavano verso l’alto e verso il basso. Attesi il boato spaventoso, ma non venne. Come già prima, bombardarono molto distante dal campo e delle colonne di fumo si levarono rabbuiando il cielo. Camminai lungo la recinzione, cercando una breccia. Il filo spinato era fitto e teso da terra fino agli anelli di ferro in alto.
Improvvisamente un contadino mi fermò e mi chiese: «Che vai cercando qui?»
«Sto cercando la porta attraverso cui poter entrare nel campo. Sono venuta a trovare mio fratello che è di stanza qui.»
«In questo campo non entrano le persone, solo i camion.»
«E allora come potrò raggiungere mio fratello?»
«Non posso dirtelo, per il semplice motivo che non lo so.»
«Dio onnipotente.» Le parole mi uscirono di bocca.
Il contadino si rese conto della mia angoscia e mi disse: «Torna a casa e lascia che sia Dio a condurre le cose».
«Questo campo è chiuso ermeticamente?»
«Certo» disse andandosene via da me.
All’improvviso vidi mamma. Non credevo ai miei occhi, la chiamai ad alta voce:
«Mamma, dove sei?»
«Non lontana da te.» Mi parlò con la sua voce consueta.
«Al campo di Gruenwald?»
«Sono stata anche al campo di Gruenwald.»
«Come faccio a trovarti?»
«Sono sempre con te, mia cara. È lecito supporre che presto ci rivedremo.
L’eternità, mia cara, è anche presente» disse, e scomparve.
46
Restai attaccata alla recinzione alta e tesa, immobile. Sentivo affluire in me la forza, sapevo che non era lontano il momento in cui sarei riuscita a scavare lì sotto e ad aprirmi una breccia. Nel frattempo calò la sera, si accesero i riflettori che illuminarono a giorno tutto il campo, senza lasciare nemmeno un angolo al buio.
Decisi di tornare indietro, entrare alla locanda e ordinarmi la cena.
Alla locanda c’erano dei vecchi contadini, dei disabili e alcune donne dall’aria abbattuta. Ordinai la cena, che mi fu servita immediatamente. Avevo fame, e una volta finito tutto quello che mi avevano portato ne ordinai dell’altro.
I fronti stavano cedendo, su questo non c’era più alcun dubbio. La questione era se questa ritirata avrebbe portato con sé un’offensiva di disperazione o un ripiegamento più profondo. Alla locanda gli umori erano molto bassi, tutti temevano che sarebbe arrivata una vendetta, e crudele anche.
«Le bombe sono solo l’inizio, lo scotto da pagare sarà tremendo» li sentii dire.
Ascoltavo attentamente discorsi e mormorii.
Mi guardai intorno e dissi a me stessa: Loro non sanno quello che so io. Fra poco mi intrufolerò dentro e troverò mamma senza fatica. Mamma, suppongo, resterà stupefatta di sua figlia, che sarà riuscita a fare l’impossibile. Non l’abbraccerò e non la bacerò, la porterò fuori passando per il tunnel che avrò scavato, e solo quando saremo fuori ci saluteremo per bene.
Quando uscii era già quasi buio. Nelle case vicine al campo s’erano accese le luci, calma e serenità dimoravano nell’aria, come sempre quando la notte sta per dispiegare le sue ali. Feci il giro del campo, e anche lì non fervevano preparativi particolari. La recinzione era illuminata, constatai nuovamente quanto fosse alta, massiccia e inviolabile: eppure non mi incuteva alcuna paura. Sentivo sempre più forza dentro di me, e sapevo che al momento giusto avrei compiuto l’impensabile.
Tornai alla locanda per passare la notte. La padrona mi mostrò la stanza e la doccia e mi chiese di pregare per i soldati che al fronte stavano combattendo una guerra disperata. Non sapevo che dire e annuii. Ero stanca e confusa. Posai la testa sul cuscino e mi addormentai all’istante.
Nel sogno scavavo un tunnel sotto la recinzione. Avevo un martello, uno scalpello, una vanga e un secchio di gomma. La luce me la dava una lampada sopra la testa, che gettava fasci potenti sopra la zona dove scavavo. Lo facevo di slancio, ritmicamente, e avanzavo. La terra era dura, ma lo scalpello la sbriciolava facilmente.
Mentre scavavo, lo scalpello a un certo punto incocciò in una pietra. Nemmeno questa difficoltà improvvisa mi spaventava. Colpivo con il martello, più forte che potevo, e la pietra si spezzava, andava in frantumi. Questo traguardo mi sembrava la fase finale, o quasi, dello scavo, stavo dunque per dire grazie a Dio, ma mentre balenava in me questo senso di riconoscenza, udivo un rumore. Le pareti del tunnel crollavano, minacciando di imprigionarmi. Tutti i miei sforzi per liberare le gambe dalla terra si rivelavano vani. Sentivo il peso e il senso di soffocamento, capivo che la fine era prossima. Esclamavo: «Dio, non abbandonarmi», e poi mi svegliai.
Era già mattina piena. Dietro la tenda faceva capolino il sole, ma io ero ancora imprigionata nel letto. Dunque i miei sforzi per scavare mi avevano contratto mani e piedi, non riuscivo a muovermi.
Rimasi a lungo lì a letto. Solo verso mezzogiorno provai sollievo e dissi a me stessa: Non è niente, è stata una prova importante, guai a disperare, e così scesi in sala da pranzo. Lì la gente stava bevendo il caffè. Nei loro volti non vidi alcuna gioia.
«I fronti hanno ceduto, e ora l’esercito russo attacca le retrovie e le fa a pezzi»
mormorò un vecchio. Borbottava dentro la barba. Lo guardai e mi resi conto che stava per morire, e ne fui tanto triste.
Per un attimo pensai che non ci sarebbe più stato bisogno di alcun tunnel per tirare fuori mamma. La recinzione sarebbe caduta e i prigionieri sarebbero evasi. Mi dispiacque che la mia idea non si realizzasse, ma dentro di me ero contenta che quella possente recinzione tesa per chilometri e chilometri crollasse come le mura di Gerico.
47
Niente di quanto mi ero immaginata corrispondeva alla realtà. Il campo era ancora lì. Le prigioniere furono spedite nello spiazzo dell’adunata, e l’ufficiale continuava a strillare: ordinò di fustigarne alcune. Quelle fustigate dapprima urlarono, poi tacquero. Dopo furono tutte fatte entrare di corsa nelle baracche, e fuori rimasero l’ufficiale e alcuni suoi attendenti, che battevano i piedi dentro gli stivali.
Un po’ distante di lì, dallo spiazzo dell’adunata, alcune prigioniere stavano portando delle assi di legno e dei secchi pieni di carbone. Questo tormento così ben organizzato andava avanti nell’indifferenza e nella perfetta ignoranza da parte degli aerei che vorticavano in cielo, seminando bombe.
Mentre ero tutta tesa notai una casupola bislunga, addossata alla spessa cinta. Da uno spioncino con le grate spuntava il volto di un giovane soldato. Mi rivolsi a lui:
«Signor soldato, sto cercando mia madre, lei può forse aiutarmi?»
«Chi sei?» La domanda non tardò ad arrivare.
«Mi chiamo Helga Shenbach, sono la figlia del comandante Siegfried Shenbach»
mi presentai.
«Che è successo a tua madre?» chiese ancora.
«Si è presentata alla polizia e da allora non l’abbiamo più vista.»
«È ebrea?»
«Lo era una volta. Si è convertita molti anni fa.»
«Come si chiama?» chiese destando subito in me una grande speranza.
Glielo dissi.
«Nessuno è autorizzato a vedere le nostre detenute.» Notai un tono fervido nella sua voce.
«Solo un’occhiata» mi sfuggì di bocca, con un tono infantile.
«È tassativamente vietato, non capisci?» Mi stava parlando come un fratello maggiore che cercasse di farmi ragionare.
«No, non capisco, a dire la verità.»
«Non sai niente della purificazione della razza?»
«Sì, ne ho sentito parlare.»
«Tutti debbono sottostare a quest’ordine. Qui stiamo facendo di tutto affinché una legge fondamentale venga applicata.»
«Ma mia madre» implorava la voce dentro di me «si è convertita e si è sposata con un ufficiale pluridecorato.»
«Non cambia niente. Un’ebrea resta ebrea anche se si converte e sposa un ufficiale.
Sono le leggi della razza, e noi dobbiamo rispettarle. È una missione importante, non facile, ma stiamo tenendo duro. Ti consiglierei di allontanarti di qui. Se è vero quel che mi hai detto, allora anche tu sei a rischio. Faresti meglio a stare da tuo padre, invece di andartene in giro per posti pericolosi» mi disse in un tono niente affatto militaresco, quasi familiare.
«Questo luogo mi è assai caro. Sono arrivata qui da molto lontano e adesso, che finalmente mi ci trovo, non desidero altro che entrare.»
«Non sai quello che dici» replicò in un tono diverso.
«Voglio andare in tutti i posti in cui è stata mia madre. Se non la troverò in questo campo, la troverò di sicuro in un altro, mi hanno detto che i campi sono collegati fra loro.»
«Che vuoi?» Improvvisamente perse la pazienza.
«Entrare.»
«Ma sei ammattita?»
«Immagino che lei abbia ragione» dissi, «ma non posso vivere senza mamma.
Senza mamma la mia vita non è vita.»
«Mi rendo conto che tu sei veramente ammattita.»
«Mi chiami come le pare, ma mi lasci entrare dentro, dentro la mia vita sarà vita.»
«Se solo sapessi che cosa ti aspetta, non lo chiederesti.»
«Lo so» dissi con orgoglio infantile.
«Ti sembra di saperlo. Se lo sapessi, non lo chiederesti.»
In quel momento degli aerei passarono sopra le nostre teste e lanciarono delle bombe. La terra tremò e l’aria si riempì di un puzzo di bruciato. Stavo per dirgli: Che t’importa? Quando con mio enorme stupore si aprì una porticina e dalla casupola si udì l’ordine: «Dentro». Entrai.
48
Un giovane soldato vestito in modo impeccabile mi chiese se mia madre era ebrea.
Gli risposi come rispondevo sempre, aggiungendo subito: «Mio padre è un ufficiale pluridecorato».
«Questo lo sappiamo» disse il soldato ordinandomi di entrare in un’altra stanza.
Qui mi fu chiesto se avevo denaro e gioielli. Tirai subito fuori lo scrigno con i preziosi di mamma, aggiunsi il denaro che mi aveva dato mio padre e mi tolsi l’anello dal dito.
Nella terza stanza, che era piena di scaffali, mi fu ordinato di depositare lo zaino sopra uno di essi. Con mio grande stupore, il soldato mi chiese il mio indirizzo.
«Podere Shenbach» risposi.
«Sei la figlia di Siegfried Shenbach?»
«Esatto» risposi, e subito fui presa da una grande speranza.
«Ma tua madre è ebrea, suppongo» continuò senza risentimento.
«Si è convertita al cristianesimo molti anni fa.»
«Non c’è nulla da fare» disse in un tono diverso, e fu come se avesse detto: Mi dispiace per te. La tua statura, i capelli, persino l’espressione del volto, attestano che sei una di noi, ma è il dentro che ti rovina. Non posso farci niente. Vai incontro al tuo destino.
In mezzo alla quarta stanza c’era una donna alta e massiccia che mi ordinò di spogliarmi e di prendere una tunica a strisce da un pacco posato per terra. Lo feci in fretta.
Nella quinta stanza una donna mi ordinò di sedermi su una sedia e subito, senza chiedermi niente, mi rasò i capelli, completamente. L’operazione durò qualche minuto, ma io mi sentivo come se mi stessero togliendo strati su strati e ora fossi degna di avvicinarmi a mamma. Faceva freddo, ma non sentivo alcuna fitta, solo una vertigine che mi sollevava i piedi.
Accanto a questa stanza c’era una lunga baracca piena di panche di legno, e di donne magrissime. Attraverso degli spioncini con le grate arrivava una luce grigia che mi fece venire in mente un quadro dell’inferno appeso nella nostra chiesa, sotto il quale c’era scritto: «Ricorda davanti a chi sarai giudicato».
Quando entrai nella baracca, calò il silenzio e tutti gli sguardi si voltarono verso di me. Ebbi il presentimento di essere arrivata in un luogo dove mi stavano aspettando.
Ma le donne mi guardarono senza agitarsi e senza nemmeno porgermi la mano.
«Mi chiamo Helga Shenbach» mi presentai. All’udire la mia voce un sorriso stentato comparve su quei volti. Non avevo paura. Era chiaro che quella gelida accoglienza si sarebbe dissolta quando avessi raccontato loro come avevo ingannato il guardiano all’ingresso, per entrare.
Mi sbagliavo. Le donne sistemarono i banconi di legno, parlando in lingue diverse.
Strano, questa indifferenza non mi rattristò. Ero contenta che i miei sforzi non fossero stati vani. Da quando avevo lasciato casa nulla mi aveva distolto dal mio cammino.
Ero arrivata nel luogo dove dovevo arrivare.
«Di dove sei?» Una donna si avvicinò a me.
«Podere Shenbach.»
La donna era molto magra e aveva gli occhi spenti, infossati nelle orbite, però per un attimo si risvegliarono dal loro torpore, mi scrutarono e chiesero: Che ci fai qui tra noi?
«Sto cercando mia madre» non le nascosi.
All’udire la mia risposta lei non domandò come si chiamava mia madre, tornò invece alla sua panca. A parte questa donna nessun’altra si avvicinò. Mi nascosi in un angolo e la stanchezza mi avvolse.
Mentre sonnecchiavo, sul punto di addormentarmi per davvero, un fischio potente scosse la baracca: adunata notturna. Fui spinta insieme a tutte le altre presso la soglia, e alla fine ci mettemmo in fila per tre, mentre i nostri nomi venivano chiamati uno per uno. Udii il mio e risposi: «Presente, signore». Non ci furono né urla né castighi. Le donne vennero poi spinte di nuovo nella baracca e poco dopo erano tutte distese sui loro giacigli. Anch’io crollai sulla mia panca di legno.
Sognai che ero a casa. Carl stava sulla soglia della scuderia e strigliava un cavallo moro. Papà portava il suo completo da equitazione ed era in attesa che Carl mettesse la sella sul dorso del cavallo. All’improvviso compariva mamma. Era pallidissima e respirava a fatica. «Non vedo Helga» riusciva a malapena a dire.
Papà si voltava adagio verso di lei e diceva: «E perché questo spavento?»
«Helga è sparita» ripeteva mamma in preda all’ansia.
«Te l’avevo detto, no, è andata da Brunilda.»
«Perché proprio da lei?»
«Te l’ho già spiegato, quante volte devo ripetertelo?» rispondeva papà con insofferenza, poi montava con disinvoltura sul cavallo e partiva. Mamma restava lì, immobile. Lo stupore nel suo sguardo si andava spegnendo, al suo posto baluginava l’ironia. Io ero testimone di quel dialogo, ma non potevo muovermi, ero imprigionata sulla panca e tutti i miei sforzi per staccarmi dalle assi di legno e dire qualcosa risultavano vani. Mamma era molto sorpresa delle cose che le erano capitate, ma ogni tanto lo stupore lasciava spazio a uno sguardo ironico. Il passaggio da un’espressione all’altra era sottile, ma siccome si verificava di rado, me ne ero dimenticata: invece ora era come se la stessi riscoprendo, e ne ero contenta. Ma non per molto.
D’improvviso un fischio potente interruppe il mio sonno. Aprii gli occhi e vidi che la baracca era al buio ma tutte andavano di fretta verso la soglia, per l’adunata del mattino.
49
Eccomi stretta fra altre due, che tremo. Il freddo del mattino penetra attraverso la casacca e mi entra dentro. I nomi vengono chiamati uno per uno, il mio si sente chiaramente, rispondo: «Presente, signore». La marcia per andare al lavoro è rapida, frettolosa. Attraversiamo il campo. Le baracche sono tutte della stessa misura, stessi spazi fra l’una e l’altra. Ci riversiamo dentro un tunnel di filo spinato, ad arco. È buio e ci fa sbucare direttamente alle baracche della stazione ferroviaria.
Il lavoro comincia senza indugio. Carichiamo botti, casse, sacchi di sale e zucchero, mentre altre detenute, giunte prima di noi, scaricano dai vagoni delle casse di munizioni. Dopo tre ore filate di lavoro, riceviamo dalla sovrintendente una ciotola di tè e una fetta di pane. La pausa è breve e il lavoro di carico va avanti a ritmo febbrile. Durante il lavoro è vietato parlare. Le donne si muovono come ombre braccate, quando una inciampa le compagne l’aiutano a rialzarsi senza chiederle come si sente.
Strano, mi sento bene, in questo tormento. Forse perché sono appena arrivata. La fame e le staffilate non mi toccano. Di mamma non ho ancora chiesto, ma sento che è stata qui, o che arriverà.
Per un attimo mi sembra che siamo, tutte noi, dentro una fornace che ci tempra, privandoci ogni giorno di uno strato della nostra vecchia esistenza, e che presto diventeremo ciò che siamo degne di essere. Cambierò anche io e assomiglierò alla mamma, anche di fuori. I capelli mi si tingeranno di grigio e diventerò più bassa.
Parlerò con la sua cadenza e il suo tono di voce.
Come una luce repentina mi montano davanti agli occhi l’estate e le vacanze. Io e mamma sedute su una panchina sulla soglia del giardino dietro casa. Le rose in piena fioritura, le mele che arrossiscono e presto saranno buone da mangiare, noi immerse in quella profonda quiete, talmente intima che quasi non parliamo.
«L’anno prossimo andrò al ginnasio di Hochberg, non è così?» domando, spezzando la quiete. Mamma si strappa ai suoi pensieri, mi guarda e dice: «Ma devi passare i due esami d’ammissione».
«Ce la farò, almeno spero» dico, e la gioia della sicurezza in me stessa non viene scalfita.
«Ho tutto il materiale necessario» dice mamma, infondendomi la sensazione che per quanto concerne i miei progressi nello studio, sono in buone mani: mamma mi sosterrà.
D’improvviso, senza alcuna ragione precisa, vedo delle lacrime nei suoi occhi.
«Mamma, che succede?»
«Nulla. È l’emozione di vederti così cresciuta, e che siamo buone amiche. Tutto qui.»
Ecco spuntare alcuni aerei che rombando scaricarono delle bombe. I soldati uscirono dai gangheri, levarono le fruste e si diedero a colpire a destra e a manca.
Una donna se ne buscò razione doppia, perché al soldato era parso di vederla sorridere. Gli aerei che comparivano una o due volte al giorno spezzavano la giornata sfiancante portando un poco di indicibile speranza. Le gambe camminavano, le braccia tiravano e caricavano, ma lo spirito non aveva alcuna parte in questo duro lavoro. Lo spirito se ne stava per conto suo, distaccato dal corpo, e questo lo si riconosceva dagli occhi spenti delle detenute.
Lavoriamo sino al calare del buio. Alla fine del lavoro gli addetti ci portano i calderoni di minestra e ciascuna ne riceve una ciotola con una fetta di pane. «Una sigaretta» ho udito una donna sussurrare fra sé e sé.
50
Una sera una donna venne da me e mi chiese: «Sei la figlia di Ghisele?»
«Come fai a saperlo?» domandai sbigottita.
«Ghisele e io dormivamo insieme sulla stessa panca di legno, e abbiamo parlato tanto di te. Assomigli molto a tua madre. Difficile sbagliarsi.»
«Dov’è mamma?» dissi trattenendo il fiato.
Gli occhi spenti di quella donna si accesero, e lei rispose: «Ghisele si era molto indebolita nelle ultime settimane, è stata spedita al sanatorio. Suppongo che tornerà presto».
«Quando è successo?»
«Appena due settimane fa.»
«Dove si trova quel posto, il sanatorio?» domandai timidamente.
«Non lontano di qui, credo. Lei mi ha parlato tanto di te. Era sicura che tuo padre vegliasse su di te.»
«Volevo venire qui» non le nascosi.
«Perché?» La donna si spaventò.
«Volevo stare con mamma.»
«Ma qui, lo vedi anche tu, la vita non è vita.»
«Non sono pentita. Qui siamo tutte di noi, non è vero?» dissi, chissà perché.
«Tutte.»
«In effetti sono arrivata nel posto giusto» dissi, contenta dell’intimità che si era creata con quella donna.
Lei mi svelò ancora: «Sono stata con tua madre a Herlich, a Zonenstein e qui. Mi ha raccontato tanto di te, delle vostre gite, delle chiacchierate e del tuo talento per il disegno. Eri sempre nei suoi pensieri. Adesso mi rendo conto che sei proprio come tua madre».
«Di qui mandano al sanatorio?» domandai sorpresa.
«Ghisele si era molto indebolita, si reggeva a malapena in piedi. Chi si indebolisce viene spedito al sanatorio.»
«E ne sono già tornati, da quel posto?»
«Ne sono tornati. Non tutti.»
E tuttavia, ero sollevata.
Quella notte mi si rivelò papà: alto, robusto, con quell’andatura leggermente zoppa, elegante, che ribadiva il suo censo.
«Carl, portami Schwartz» diceva papà, che aveva intenzione di montare il cavallo nero. A me venivano i brividi, per quella richiesta. Mi sembrava che non si trattasse del cavallo nero, schwarz, ma di Schwartz il commerciante di legname, che ogni tanto compariva alla fattoria. Schwartz era un uomo esile, basso, che indossava un abito logoro, in totale contrasto con la vivacità della fattoria. Lo squallore di Schwartz divertiva papà, che scherzava con lui. A suo tempo mamma mi aveva rivelato che Schwartz era ebreo.
Carl tirava fuori dalla scuderia il cavallo nero, lo sellava, gli metteva il morso e le redini e diceva: «Prego, signor Shenbach». Papà guardava il cavallo e ne era soddisfatto: gli saliva subito in groppa.
«Papà» gridavo con la voce strozzata.
Papà si voltava verso di me con un gesto che conoscevo bene, e diceva: «Che ci fai qui?»
«Ti porto i saluti di mamma.»
«Non capisco, dove si trova?»
«È stata nel campo di Gruenwald, si è indebolita ed è stata spedita in sanatorio.»
«Sei andata fin laggiù?» diceva guardandomi con un’aria di rimprovero.
«Mi sono intrufolata di soppiatto.»
«Devi sempre fare di testa tua.»
«Volevo raggiungere mamma, è così difficile capire perché mi sono spinta fin laggiù?»
«Non è affar mio» diceva papà, come se stesse parlando di vecchi dissidi.
«Papà» gridavo cercando di fermarlo.
«Non ho tempo per un nuovo grattacapo, mi bastano quelli vecchi» diceva lanciando il cavallo al galoppo.
Tornavo a osservarlo. Il suo portamento in sella, fiero, dritto: come se stesse partendo per la guerra. Se non fosse stato per la ferita, l’avrebbero certo arruolato anche adesso. Un ufficiale con sette medaglie al merito non resta a casa mentre la patria combatte su più fronti.
«Che vuoi da me?» Ricompariva improvvisamente.
«Nulla, sono venuta a trovarti.»
«Gentile da parte tua, ma adesso devi stare da zia Brunilda. Non si può sfuggire così a un dovere come questo, torna subito da lei.»
«Preferisco stare a Gruenwald» dicevo con voce fredda.
«Va al di là della mia capacità di comprensione» gridava papà incitando il cavallo, e poi spariva.
51
Ogni mattina, nella gelida tenebra, la sirena ci sveglia. A dire la verità, siamo già tutte sveglie. Basta poco tempo al campo perché il corpo capisca cosa si pretende da lui. La stanchezza e la debolezza non ti abbandonano lì sulla panca. Esci fuori con le poche forze che ti restano e ti metti in fila, poi, dopo l’appello, vieni condotta alle baracche.
L’amica di mamma, Miriam, non le assomiglia. È alta, ha il collo lungo, scoperto, che mostra quanto sia esile la giunzione fra la testa e il resto del corpo.
Adesso capisco una cosa che prima immaginavo soltanto: le poche lettere che mamma mi ha scritto erano dettate. Lei non ha mai lavorato in sartoria, qui. Scavava fossati, caricava casse di munizioni sui vagoni, spostava legna combustibile dalle baracche al comando.
«Come ha fatto a reggere?»
«Ti parrà incredibile, ha retto meglio di tutte noi. Ci faceva coraggio. Ghisele non ha mai perso il controllo, nemmeno per un istante.»
«Parlava di papà?»
«A dire la verità, no. Eravamo tutte e due sposate con dei non ebrei, ed entrambe tacevamo, sull’argomento. Che ci sarebbe da dire? Ma tua mamma è stata fortunata: a Herlich ha trovato sua mamma, e sono state felici per qualche mese.»
«Hanno fatto pace?»
«Eccome. Sembravano due sorelle. Cercavano di stare sempre insieme, e tutti si facevano coraggio, vedendo loro.»
«E nonno?»
«È stato mandato in un altro campo. Si sono congedati all’inizio del viaggio.»
«Non immaginavo che sarebbe andata così.»
«Chi poteva immaginarselo, mia cara?» Mi parlava in tono materno.
L’indomani mi svelò una cosa: «Tua nonna è morta durante l’inverno, di tifo. Il tifo mieteva molte vittime. Lei fu una delle ultime. Stette male per qualche giorno, ma senza tradire il proprio stato. Poi una sera, al ritorno dal lavoro, crollò e non si alzò mai più».
«Sono arrivata troppo tardi» mi sfuggì detto.
«Tua nonna era una donna meravigliosa. Un viso sempre radioso. Sempre disposta ad ascoltare e aiutare. Non aveva nulla da dare, ma la luce sul suo viso era così piena di bontà. Anche all’inferno, dunque, dimora la pietà. È morta per il gran freddo, e quella stessa sera le scavammo una fossa fuori dal campo. Due guardiani armati ci sorvegliavano, scavammo con le vanghe un pezzo dopo l’altro. Alla fine riuscimmo a ricavare quel che bastava per la fossa. Non dormimmo, quella notte. Ci sedemmo sulle panche immerse nel buio, e ci sentivamo come se una parte delle nostre anime fosse sepolta anch’essa lì, sotto il ghiaccio. Tutti temevano che si ammalasse anche tua madre, ma lei non si è persa d’animo. Cercava di essere come tua nonna, di essere gentile, di rendersi disponibile. Eravamo sicure che avrebbe retto ancora per molto.
Ma ci sbagliavamo. S’indeboliva ogni giorno di più. Le offrivamo un po’ del nostro pane, ma lei lo rifiutava. La nobiltà, nell’uomo, è un fondamento esistenziale che non si annienta facilmente. Alla fine il sorvegliante del blocco si accorse delle sue condizioni, la indicò e disse: «Al sanatorio». Avremmo tanto voluto che restasse con noi e guarisse insieme a noi, ma da quando il sorvegliante del blocco la notò, non ci fu più scampo.»
«Quanti sono tornati dal sanatorio?» chiesi ancora.
«Non molti, se devo essere sincera.»
«E che cosa raccontano?»
«Le testimonianze discordano. Una donna ha detto che il sanatorio era un ottimo posto, niente di cui avere paura, e che bisognava incitare le più deboli a fare richiesta.
Un’altra, tornata da laggiù, sosteneva che il sanatorio fosse il girone più tremendo dell’inferno, ma non ha voluto entrare nei particolari. Dato il suo rifiuto, crediamo di più alla prima e aspettiamo che tutte quelle spedite laggiù tornino presto fra noi.»
52
Adesso tutte sanno che sono la figlia di Ghisele e mi trattano come fossi figlia loro.
Racconto tutto quello che mi è successo da quando mamma ha lasciato casa. Loro mi ascoltano, si bevono ogni parola. Una mi ha chiesto: «Quanto tempo è passato da quando mamma è andata via a quando Henrietta è entrata in casa?»
«Un mese, non di più», non ho nascosto loro.
«È bella?»
Faccio uno sforzo di memoria e provo a essere precisa: «Alta, piena, i capelli raccolti, vestita di blu, impeccabile».
«In parole povere, cristiana di nascita» dice la donna che ha posto la domanda facendo ridere tutte. Il buio nella baracca atterrisce un po’, sento che le immagini che rievoco strappano le donne al freddo cupo, e per un attimo la loro vita torna a essere quella di prima.
È poi saltato fuori che sotto lo strato di gelo balugina ancora la vecchia curiosità.
«Che fanno gli uomini la sera? Si ricorderanno ancora di noi, le prigioniere, quando sono seduti a tavola? O sarà proibito rievocarci?» domanda un’altra.
Racconto loro: «Nessun cambiamento particolare. Tutto com’era. Il nome del Führer viene decantato in ogni riunione, persino a casa si parla di lui. Ogni tanto si dice: «Meno male che ci siamo liberati degli ebrei».
«E dei mezzi ebrei, che si dice?»
«Sono considerati ebrei» rispondo, e mi vedo davanti zia Brunilda.
Quasi tutte qui sono ebree sposate ad austriaci, ma ci sono anche delle mezzosangue, come me. Spiccano per la loro statura e la magrezza, e sono perennemente incredule: «Che c’è di male negli ebrei, che li odiano così tanto?»
Gli aerei passano sulle nostre teste costantemente, lanciano bombe e illuminano a giorno le tenebre con dei fari potenti. È chiaro a tutti che la guerra sta finendo, ma qui non si nota alcun cambiamento. Il giorno comincia con l’appello del mattino e finisce con quello della sera, fra l’uno e l’altro ci sono il lavoro sfiancante e le frustate.
Come se non bastasse, negli ultimi giorni non abbiamo nemmeno più la notte.
Riempiamo dei sacchi per difendere l’ingresso del comando, e torniamo alle baracche solo dopo mezzanotte.
La sensazione è che la guerra finirà presto e solo noi non torneremo alla vita libera.
Noi saremo oppresse fino all’ultimo. Bisogna ammettere che lo fanno con zelo e rigore. Per chi si ferma un attimo mentre carica o parla durante l’orario di lavoro, frustate. Anche alla fine, nell’adunata, per intimidire le prigioniere.
«Che abbiamo fatto di male per essere trattate così?» ho sentito dire da una donna cui la fame e l’umiliazione avevano dato un’aria incredibilmente ascetica.
Per intanto, cerco di captare ogni dettaglio su mamma. «Ghisele era la nostra luce.
Al campo di Herlich, un campo relativamente vivibile, aveva organizzato per la sera una serie di conversazioni sull’arte rinascimentale» mi svelò un’altra donna, magrissima, che quasi non si reggeva in piedi. «La voce di Ghisele ci strappava alla disperazione riportandoci una parte della nostra esistenza perduta. A Herlich credevamo ancora che l’umiliante trattamento che ci era riservato fosse un errore.
Anche a Herlich ci castigavano, ma a mezzogiorno c’era formaggio o marmellata, e qualche volta anche una fetta di pane ben cotto. A Herlich scrivevamo, secondo gli ordini, delle lettere da mandare a casa e contribuivamo con slancio allo sforzo bellico.
A Herlich ci si alzava alle sei e non alle cinque. Ghisele diceva ogni tanto: «Non abbiamo saputo custodire la nostra anima, non per niente abbiamo dimenticato la preghiera.»
«A me non ha mai detto cose del genere» ammisi.
«Ghisele era cambiata. La vedevamo cambiare. Parlava del destino segreto degli ebrei, e non di rado prometteva che presto, uscita di qui, avrebbe recuperato il suo yiddish e l’ebraico. ‘Guai a dimenticare la parola “anima”’ ripeteva sempre. ‘In questa parola è riposta l’essenza ebraica. Questa parola ci distingue dai nostri aguzzini.’ E anche quando era ormai molto debole e si reggeva a malapena in piedi, continuò a parlare del segreto ebraico, che nemmeno gli stessi ebrei comprendono.»
Mi mancavano le parole. Alla fine dissi: «Sono contenta di essere arrivata fin qui.
Se non fossi arrivata qui in tempo, non avrei saputo quel che avete passato, voi e mamma».
«Quante persone sono tornate dal sanatorio?» domandai anche a questa donna.
«Non molte» non mi nascose.
Quella notte gli aerei bombardarono incessantemente. Eravamo sicure che nel giro di qualche ora ci avrebbero liberate. Ci sbagliavamo. Ci fecero uscire dalle baracche e ci fecero marciare verso il bosco. Chi aveva la forza di fuggire fuggì, ma eravamo per la maggior parte deboli e stanchissime, e le mitragliatrici ci avrebbero mietute come spighe.
53
Ero distesa sulla terra gelida, con la testa quasi sepolta. Le urla di terrore andavano scemando. Chissà perché mi sembrava che tutte fossero distese e ansimassero come me, solo che avevano paura di alzarsi. Poi, quando anche gli ultimi spasimi si spensero, sollevai la testa e vidi i corpi riversi. Di lì si alzava un sottile vapore.
Strano, questa morte così concreta non mi spaventò. Mi sembrava piuttosto un miraggio, pensai che fra poco tutto sarebbe tornato come prima. Noi saremmo rientrate nelle baracche, e con l’ultimo buio la tremenda sirena ci avrebbe sgomentato, e poi di nuovo l’adunata e la marcia in fila per tre, verso il lavoro.
Non ci avrebbero mai lasciato morire così. C’erano ancora una montagna di casse di munizioni e tantissimi sacchi da spostare. Questo pensiero sembrava voler dire: è il ciclo della nostra quotidianità. Non ne usciremo mai più, vive o morte. Ci vesseranno per sempre. Mi dispiaceva per me stessa e per le donne: saremmo sempre tornate là dove si fanno le adunate e si procede in fila per tre.
Iniziai a strisciare. Avanzavo rapidamente, a ritmo regolare. Mi stupii per un attimo della forza che mi spingeva avanti, ma non mi soffermai e continuai a penare così.
Dopo un’ora o due, con le prime luci dell’alba, mi ritrovai sul limitare del bosco.
Davanti a me si dispiegavano i campi mietuti. Avevo sete, cercai dell’acqua. Per mia fortuna, proprio accanto a me scorreva un ruscello. Mi chinai e bevvi.
Mi sentii meglio, cadde la cortina che avevo davanti agli occhi e vidi immediatamente le panche doppie e le donne che ne venivano fuori. Con quei corpi lunghi e magri, parevano bestie che non avevano perso agilità nemmeno in catene.
Allora mi ricordai: l’uscita era avvenuta dal cancello principale. Avevamo marciato sfinite dentro la notte. Ai lati del cammino c’erano delle casette avvolte dal buio e chiuse in un sonno profondo. Qua e là un cane randagio o abbandonato, un cavallo sveglio in un’aia. Nella più cieca indifferenza, ogni tanto baluginava una finestra illuminata, o un falò dimenticato che continuava ad ardere, e speravamo ancora che presto partisse l’ordine: «Dietrofront».
Quando eravamo entrate nel bosco, le mitragliatrici avevano cominciato a falciare senza alcun avvertimento. All’inizio sembrava tutto lontano, ma presto delle urla avevano trafitto il buio e dopo qualche istante eravamo tutte distese. C’era stata una prima raffica, alla seconda avevano sparato a tutte quelle che si muovevano o continuavano a gridare. Il massacro era durato a lungo, finché il sito era divenuto una pozza di sangue. I soldati avevano dato un’ultima occhiata, accertato il macello, e se n’erano andati.
Ero sicura che la mia fine fosse giunta, eppure ne ero uscita fuori senza un graffio.
Allora mi sedetti e vidi il mattino far capolino dai veli neri, insufflando la vita in quella luce rosata. La vita che avevo avuto in dono non mi rallegrava. Mi pareva di avere frodato le mie compagne più anziane, che avevano riposto in me la loro fiducia e mi avevano accolto nella loro disperazione, da pari a pari. Alcune mi chiamavano
«figlia mia».
Poi i contadini uscirono per andare negli orti, raccolsero i cavoli e li misero nelle cassette; altri si diedero a tagliare gli alberi. Lavoravano con calma, come ogni giorno. Non sapevo che cosa mi avrebbe riservato il prossimo futuro, rimasi distesa per terra. Mi ricordai le preghiere del mattino con Teresa, che ora suonavano come una voce spenta dentro questo vuoto. Ebbi una specie di vertigine e mi addormentai.
Sognai mamma, che esteriormente assomigliava alle donne del campo; ma i suoi occhioni, il naso che si era un po’ ristretto, non erano cambiati. «Mamma» la chiamavo, ma lei non mi riconosceva e diceva, come ogni tanto le capitava di dire:
«È un errore».
«Sono Helga.» Riuscivo a vincere il mio mutismo.
«È un errore.» Mamma restava sulle sue.
Sapevo che era mia mamma, ma tutti i miei sforzi non riuscivano a risvegliarla dal suo oblio. Mi veniva in mente che chi era stato nel campo perdeva il proprio aspetto e tutte parevano uguali. Eppure tentavo ancora, con la voce strozzata, di strapparla a quella densa uniformità. I visi delle donne si assomigliavano sempre più fra loro, si mescolavano l’uno all’altro, e così anche quei pochi tratti che ero riuscita a riconoscere finivano per sparire. Alla fine, mi guardavano tutte con un unico sguardo.
54
Gli aerei continuavano a sorvolare bombardando, ma io non mi mossi. Il pigiama a strisce da carcerata era come incollato al mio corpo. Temevo che se mi avessero trovato i contadini, si sarebbero vendicati. Mi nutrivo con l’acqua e un poco di patate selvatiche che crescevano nel bosco. Ero sicura che i soldati stessero cercando i fuggiaschi, e che presto mi avrebbero scovato. Ero angosciata dal pensiero che non avrei più rivisto mamma in questo mondo.
Dopo tre giorni di immobilità e terrore, mi alzai e mi dissi: La paura è una vergogna. Morire impauriti è una cosa spregevole. Mi tornò in mente Maria Gross, con la sua statura e i suoi occhi audaci, e mi dissi: Lei è una donna impavida, da lei si può imparare cos’è il coraggio. Mi scordavo che si era suicidata, e quando mi tornò in mente, pensai che in fondo anche il suicidio è un modo per sconfiggere la paura.
Dopo qualche giorno di vagabondaggi nel bosco, vidi alcuni contadini che agitavano delle bandiere bianche sui tetti delle case. Sembrava tutto tranquillo, nessuno nei campi, solo vacche e pecore e uccellini che con i loro strilli fendevano l’aria.
Senza pensare a quello che sarebbe potuto succedere, mi diressi verso una casa e bussai alla porta. Una contadina alta e robusta mi aprì. Le dissi, senza tanti convenevoli: «Sono una detenuta del campo, cerco del pane».
«Vi hanno liberato gli americani?»
«Sì, proprio così» risposi alzando il tono di voce.
«Te lo prendo» disse poi, offrendomi subito mezza pagnotta e un pezzo di burro.
Presi i viveri dalle sue mani e senza ringraziarla me ne andai immediatamente.
Ora la paura era svanita. A poco a poco i contadini uscirono dalle loro case. Alcuni si fermarono sulla soglia, alcuni si spinsero fin negli orti. Nessuno lavorava. Uno stupore frammisto a inquietudine era impresso nei loro gesti lenti e cauti. Mi sembravano stranieri, membri di una razza umana del tutto diversa.
Mi diressi verso il limitare del bosco. Per strada incontrai un contadino e gli chiesi di indicarmi dove fosse all’incirca la via regia. Lui me la mostrò e chiese: «Da dove vieni, dove vai?»
«Sto cercando i liberatori» non gli nascosi.
Il contadino rimase evidentemente stupito dalla mia risposta, e non chiese più nulla.
Non passò molto tempo che trovai la via regia. Camion pieni di soldati sfrecciavano lungo il sentiero sterrato. Nessuno nei pressi delle case. Mi avvicinai a un pozzo, attinsi acqua con un secchio e bevvi.
D’improvviso ecco apparire, a una certa distanza, una donna con la casacca a strisce. Camminava adagio e sembrava tutta chiusa in se stessa. Le andai incontro e mi presentai immediatamente: «Helga».
«Mi chiamo Dora» disse lei, e ci scambiammo un sorriso.
Non chiesi nulla del massacro né di come fosse scampata. Le raccontai che una contadina mi aveva dato del pane e del burro, e che se voleva, ci saremmo sedute a mangiare insieme. Lei si disse d’accordo, mangiammo senza parlare. Le visioni notturne incalzavano dentro di me, ma non avevo modo di dar loro espressione. A dire il vero eravamo stordite, e le parole avevano timore di affiorare alla luce del giorno.
«Si sono salvati in molti?» chiesi, e subito mi resi conto di quanto fosse insulsa la domanda.
Dora mi squadrò con uno sguardo aspro, come a dire: Perché me lo chiedi?
«Scusa» dissi.
«A chi chiedi scusa?» replicò freddamente.
Allora capii che la nostra amicizia non sarebbe stata una cosa facile, e tuttavia ero incantata dall’intensità della sua espressione, e mi aspettavo che mi rivelasse che cosa era accaduto quella notte, chi era scampato. Ma lei si tappò la bocca, e non parlò. Il silenzio si fece sempre più pesante, così proposi di incamminarci insieme.
Mentre marciavamo, mi chiese: «Di dove sei?»
Glielo dissi.
«Sei la figlia di Ghisele?»
«Già.»
«Dio è grande» commentò lei, coprendosi il viso con tutte e due le mani. Aveva conosciuto mamma nel campo di Herlich, mamma le aveva parlato tanto dell’arte rinascimentale. Da Herlich era stata mandata in un altro campo, e da allora non l’aveva più vista. «Dio è grande» ripeté senza guardarmi.
Dopo un po’ mi confessò: «A Herlich c’era ancora fiducia nel futuro. Ma da un campo all’altro la prepotenza era sempre più grande. In ogni campo abbiamo perso qualcosa di noi, sempre di più. Questo strano desiderio di vivere a ogni costo era e rimane brutto, per me. Ma perché incupire questa giornata, e poi tu, mi pare, sei ancora molto giovane».
55
«Quanti anni hai?» chiese Dora.
Glielo dissi.
I suoi occhi si colmarono di stupore. «Ma allora sei una bambina.»
Camminammo per un po’ senza parlare. Le luci dell’estate ci rivestivano di grazia, e c’era anche una brezza lieve che mi fece tornare in mente papà quando era di buon umore. Capitava perlopiù dopo che aveva bevuto un goccetto o quando aveva concluso un affare a Hochberg. Allora mi sembrava giovane e bello, e avrei tanto voluto condividere con lui quell’allegria, ma mamma non si lasciava mai prendere dalla spensieratezza. Vedendo papà allegro, che parlava ad alta voce, lei gli serviva un caffè, per spegnere quell’ardore.
«Torni a casa?» non potei fare a meno di chiedere.
Lei si voltò bruscamente verso di me: «Quale casa?»
Ebbi vergogna, per essermi intromessa nella sua vita.
Dopo di che disse: «Io a casa non ci torno».
La capii.
«Ho un’unica figlia, che ama suo padre, e fa bene ad amare suo padre, e a dimenticarsi di me.»
Sapevo che cosa intendeva.
Per strada incontrammo delle donne con la tunica a strisce. Una di loro chiese:
«Dove state andando?»
«Non ne ho idea» rispose Dora.
«Noi torniamo a Zonenstein, dicono che distribuiscono cibo e vestiti, lì.»
«A Zonenstein? Tornare a Zonenstein?» disse Dora senza aggiungere altro.
Ci fermammo presso un albero di mele i cui frutti erano quasi tutti caduti per terra.
Se avessimo avuto dei fiammiferi e una pentola, avremmo acceso un fuocherello e cotto quelli ancora buoni da mangiare. Il desiderio di una bevanda calda mi tormentava sin dalla mattina. Proposi di entrare in una casa e chiedere una tazza di caffè o di tè. Dora mi guardò e disse: «Io a loro non chiedo proprio nulla».
Mentre marciavamo, fantasticando, vedemmo una casa che era stata abbandonata in fretta, come dicevano chiaramente la porta e le finestre. Entrammo e subito constatammo che era così. In cucina c’era ancora odore di crauti, il pane era posato sull’asse, e nella penombra della dispensa c’erano burro, formaggio e marmellata.
In un armadio stavano appese delle divise di rappresentanza da ufficiale e alcune camicie militari. Era chiaro che in quella casa abitava la famiglia di un ufficiale che aveva prestato servizio nel nostro esercito o in un campo vicino al nostro.
Ci sedemmo nel soggiorno, ma la stanchezza e lo sfinimento che avevamo accumulato ci avevano completamente esaurito. Dopo un’ora Dora si alzò in piedi e disse: «Ho proprio voglia di preparare qualcosa di buono». Quella parola così familiare, «voglia», mi sorprese, mi venne quasi il desiderio di confessarglielo.
Dora preparò dei panini col formaggio e altri con burro e marmellata, fece bollire l’acqua e versò il caffè nelle tazze. L’aroma del caffè mi riportò davanti agli occhi le colazioni con mamma, quando ero in vacanza, o nei giorni in cui non si andava a scuola. Era un’immagine nitida, scoppiai a piangere dall’emozione.
«Perché piangi?» domandò dolcemente Dora.
«Ho visto mamma» non le nascosi.
Dalla finestra riuscivamo a vedere la corsa dei camion e i soldati esultanti.
Sapevamo che i tedeschi che abitavano qui non sarebbero tornati tanto presto, e tuttavia non eravamo tranquille. Dora disse: «Mi hanno ucciso molte cose, tra le altre anche la paura». E la sua voce suonava ferita.
Bevvi adagio il caffè caldo, assaporando ogni sorso. A poco a poco le immagini che mi avevano attorniato si dissolsero. La stanchezza prese il sopravvento. Senza rendermene conto, chiusi gli occhi e mi addormentai da seduta.
Dora evidentemente mi portò a letto, perché la mattina dopo mi ritrovai dentro un lettone, ben coperta.
56
Dora era ai fornelli e stava preparando un caffè e dei toast. Quando fu tutto pronto, tirò fuori dalla dispensa burro e marmellata. L’ultima oscurità si perdeva fra gli alberi, e fummo testimoni del sorgere del mattino. A quell’ora eravamo già dirette alle baracche. Esili ombre che presto sarebbero state attaccate alle stanghe, pronte per trascinare carichi più pesanti di loro.
«Strano» disse Dora.
Alzai gli occhi per capire che cosa volesse dire.
«Siamo tornate alle vecchie abitudini domestiche senza alcuna difficoltà» spiegò, e un’ombra di sorriso le affiorò sulle labbra. Il caffè e i toast erano buonissimi, come a casa. Se esistevano ancora un caffè e dei toast così, anche il resto sarebbe tornato, stavo per dire.
Quando mi sedevo con mamma la mattina a colazione, parlavamo della notte appena trascorsa o di cose capitate il giorno prima. Ora restammo in perfetto silenzio.
Verso mezzogiorno Dora mi sorprese svelandomi che suo marito, un ingegnere non ebreo, all’inizio l’aveva difesa, era andato a destra e a manca, era stato persino dal governatore della regione. Poi improvvisamente aveva perso la voglia e smesso di fare tentativi, e una sera aveva detto: «Non c’è nulla da fare». «‘Me ne vado’ avevo detto io. A questa mia frase non aveva reagito, così quella sera capii che il mio destino era stabilito. Pensavo che mia figlia volesse venire con me. Mi sbagliavo. In effetti ebbe qualche esitazione, ma alla fine decise di restare con suo padre. All’epoca aveva dieci anni, e c’è da supporre che non capisse la situazione, benché non le avessi mai nascosto nulla. Dentro di sé, evidentemente, lei desiderava il distacco da me, e forse aveva ragione.»
Uscimmo e scoprimmo che dietro la casa c’era un orto con dei pomodori maturi, cipollotti e zucchine, e lì accanto un magazzino pieno di ciocchi di legno da ardere.
Così vivevano le famiglie degli ufficiali. Tutto sul posto, ordinato e ben curato. Di giorno ci torturavano e la sera si godevano le loro famigliole.
Dora non parlò più. Sembrava dispiaciuta di avermi raccontato quelle cose. Avrei voluto tranquillizzarla, ma non sapevo come.
«In che mese siamo?» chiese lei.
«Non ne ho idea.»
Non avevamo più la percezione del tempo. Come una nave in un mare in bonaccia dopo la tempesta. Andavamo a letto presto e dormivamo sino a tardi. Nel sonno ambivo a tornare a quel che era stato e a vedere il futuro che ci attendeva, ma come sempre quando si dorme, le immagini si confondevano l’una nell’altra, e alla fine restavano inafferrabili.
Dentro di me, aspettavo mamma. Ogni fruscio, ogni colpo alla porta, mi faceva sussultare. Chissà perché, ero sicura che mamma stesse venendo da me. Meglio non allontanarsi di qui. Ogni passo è come una rinuncia alla speranza, stavo per dire.
Dora era brava a cucinare. A mezzogiorno faceva una minestra di verdure o di patate con burro, spezie e formaggio. Quando un piatto le riusciva particolarmente bene, diceva: «Dunque le mani non dimenticano».
Una mattina arrivò un soldato americano, e capimmo subito le sue intenzioni.
Dora, che camminava ancora con fatica, si fermò sulla porta ruggendo come una leonessa: «Sono ebrea e mi chiamo Dora, questa è mia figlia Helga, qualche giorno fa siamo state liberate dal campo. Proibito toccarci. Siamo scheletri viventi», e si sbottonò la camicia per mostrarla a lui. Il soldato fu a quanto pare atterrito dalle sue parole e da quel gesto così ardito, e non chiese nulla.
Dora, che per dire quel che aveva detto aveva racimolato tutte le sue forze, rimase pallida come un cencio. Le tremavano le mani. «Dora» dissi, e l’abbracciai. Lei chiuse gli occhi e si sedette, immobile.
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Le giornate trascorrevano una di seguito all’altra. Ero colma di pensieri e sensazioni, ma le parole non riuscivano a esprimere tutto ciò. Ogni volta che volevo dire qualcosa, la lingua mi si incollava al palato. Le familiari espressioni di casa ora mi suonavano estranee. Sedevamo tutto il giorno fuori, e facevamo più volte il giro della casa. L’anima si rifiutava di tornare al corpo.
Dora era tutta presa dalla cucina. Cercava di preparare pietanze leggere. A me pareva che facesse tutto per me e avrei voluto ringraziarla, ma non sapevo come.
Intanto tornarono i sogni. Ecco di nuovo le immagini che per molti giorni mi erano rimaste lontane: papà in elegante tenuta da equitazione, con tutte le sue medaglie appuntate sulla giacca. Una volta all’anno, nella giornata delle forze armate, indossava la divisa e partiva, in sella al cavallo più alto, diretto al luogo della riunione. Questa volta era diverso. Questa volta lo accompagnava Henrietta. Anche lei con indosso una divisa blu da equitazione. Manfred era sulla soglia del magazzino, gli occhiali da lettura calati sul naso, e assisteva agli ultimi preparativi.
Intanto arrivava Carl e comunicava a papà che i cavalli erano pronti. Carl non era cambiato per niente. La sua giovinezza spontanea, che allora mi aveva incantato, mi faceva sempre lo stesso effetto.
Questa volta regnava una tranquilla armonia fra chi stava andando alla cerimonia e chi si era preoccupato dei preparativi. In testa alla spedizione c’erano papà e Henrietta, seguiti dai dipendenti di vecchia data. Alcuni di loro indossavano variopinti abiti da festa. Tutt’a un tratto partiva la marcia di Radetzky, e quel corteo diventava sempre più solenne. Questa visione mi esaltava per un attimo, ma subito dopo mi abbattevo e mi veniva voglia di urlare, solo che la voce era bloccata, e mi svegliai spaventata.
Dora chiese: «Che cos’è che ti ha spaventato?» Il sogno ce l’avevo ancora davanti agli occhi, ne vedevo tutti i particolari ben distinti. Sentivo che mi si era aperta una porta rimasta bloccata in quegli ultimi mesi, ma non riuscivo a raccontare a Dora ciò che avevo visto.
Poco dopo eravamo sedute a tavola per la colazione. Rivelai a Dora che avevo sognato mio padre. Dora abbassò il capo per ascoltarmi. Visto che non dicevo più nulla, chiese: «Volevi bene a tuo padre?»
Per un attimo, quel suo uso del passato mi sconvolse, ma vinto lo sconcerto dissi:
«È mio padre».
«Tuo padre che ha tradito tua madre, non è così?» Dora non usò mezzi termini.
Il che mi fece molto male, stavo quasi per replicare: Non poteva comportarsi diversamente! Eppure non dissi nulla. Sapevo che questa risposta non era completa, come si diceva a scuola.
«Anche mio marito ha detto: ‘Non c’è niente da fare’. E fu l’ultimo filo fra me e lui. Mi sono presentata alla polizia in silenzio, con assoluta rassegnazione.»
«E non avevi paura?»
«No. La delusione era più cocente della paura. Quando l’avevo sposato ero sicura che stavo facendo la cosa giusta. Non avevo dubbi sul fatto che fossero i miei genitori a sbagliarsi, per non parlare di zii e nonni. Mi sentivo liberata da tutti i vincoli della vecchia eredità, e fu come spiccare il volo. Tutto, nella mia vita, parlava di radiosa speranza. La conversione al cristianesimo rappresentò il momento culminante. A confronto con la sinagoga, che frequentavamo solo a capodanno e nel giorno del Kippur, la chiesa mi sembrava un tempio pieno di luce e di gioia. Mi segui?»
Solo allora compresi quel che mamma non mi aveva mai raccontato. Ogni volta che le chiedevo dei nonni, lei era a disagio, arrossiva. A me sembrava che ciò comportasse un misterioso equivoco. Papà non menzionava mai i genitori di mia madre. Parlava sempre della gente di città, e immancabilmente con uno strano sorriso che gli faceva fremere i baffi. Una volta, quando papà disse: «Tutti i cittadini sono delle canaglie», mamma non aveva potuto fare a meno di reagire: «Non generalizzerei».
«Non sempre è proibito generalizzare.»
«Se si tratta di persone, sì, è sempre proibito.»
«Che ci si può fare, se sono tutti delle canaglie?» aveva insistito papà.
«Non tutti» aveva tenuto duro mamma.
Dentro di sé, papà sapeva che mamma aveva un lessico molto più ricco del suo e che le sue capacità espressive erano maggiori, e tuttavia aveva cocciutamente Continuato: «Tutti».
58
L’indomani Dora si alzò di buon’ora e mi svegliò dicendo: «Helga, si parte».
«Perché?» domandai ancora tutta insonnolita.
«Perché non si può più stare qui. Questa casa maledetta è piena di sozzura.»
Dora preparò per tempo dei panini, delle verdure lavate, un pacco di caffè e uno di tè, un pentolino, due tazze, cucchiai, forchette e due piatti, e disse: «Se ci sono tè e caffè, non dobbiamo preoccuparci». Notai che il viso era cambiato, delle chiazze giallastre le costellavano la fronte, e negli occhi spirava come una rabbia. Ebbi quasi l’impressione che stesse per appiccare il fuoco alla casa. Mi sbagliavo. Mise tutto quello che aveva preparato dentro due borse, e ci sedemmo a fare l’ultima colazione.
Mangiammo come al solito. Strano, pensai, come mai dobbiamo abbandonare questa casa che ci ha dato da dormire, da mangiare, e anche un’ampia finestra aperta sull’aia?
Dora colse i miei pensieri e disse: «Non senti che in questa casa ha abitato un assassino?»
Ci congedammo dalla casa con indifferenza. Chiudemmo la porta e ci incamminammo. Era un piacevole mezzogiorno, marciavamo senza domandarci verso dove. Dora in testa e io dietro di lei. Il caffè del mattino gorgogliava ancora dentro di me, ero felice che si procedesse senza premura.
Poi incontrammo alcuni uomini e donne con la divisa del campo. Il passo affrettato non si addiceva alla loro estrema magrezza.
Fu poi chiaro che lì nei pressi, davanti ad alcune baracche militari ben tenute, c’erano radunati alcuni dei nostri. Da lontano sembravano contenti. Un giovane soldato stava distribuendo della zuppa e del pane, la gente faceva assembramento intorno al calderone. Quando fummo più vicine notammo che nei loro gesti non c’era alcuna gioia, erano solo come storditi dal fatto di trovarsi lì.
Intanto, mi accorsi che Dora era diventata cupa. Cercai di parlarle, ma notai subito che teneva le labbra strette. Le offrii una scodella di zuppa, Dora la strinse e mi ringraziò con trasporto. Ero contenta di essere riuscita a strapparla alla disperazione di cui era prigioniera. Poi piegò le gambe e si addormentò.
L’indomani mi sembrò che il sonno le avesse fatto bene. Il viso era luminoso, come fosse riuscita a fugare i brutti pensieri. Mi sbagliavo di nuovo. A mezzogiorno mi confessò che aveva in mente di tornare a casa.
«Perché?» le chiesi con un fremito.
«Fatico a spiegarlo persino a me stessa.»
Le portai zuppa e polpette, sperando che cambiasse idea, e per un momento mi parve che fosse così, ma verso sera si alzò e disse: «Cara Helga, debbo andare».
«Perché?» ripetei la domanda con tanta ansia.
«Fatico a spiegartelo» ripeté lei.
«E non ci rivedremo più?» domandai nello sconforto.
«Spero che un giorno o l’altro ci rivedremo.»
«Come farò a trovarti?»
«A Hochland, semplice, a Hochland.»
L’accompagnai per un tratto di strada. Quando il sole calò sull’orizzonte mi abbracciò e disse: «Torna da quella gente, io me ne vado per la mia strada». Era tutto chiaro e freddo come in un incubo, e al tempo stesso una realtà dolorosa. Dentro di me sapevo che stava andando dritta fra le braccia della perdizione.
59
Scese la sera, io mi rincantucciai in un angolo discosto della baracca e piansi. Mi sembrava di non avere fatto abbastanza per impedire a Dora di tornare a casa. Casa sua me la immaginavo come un antro pieno di persone cattive, e il marito infuriato perché era tornata.
Più tardi, quando era ormai buio, andai al calderone dove il giovane soldato mi diede una scodella piena di una zuppa densa. Ora questa gente mi sembrava più amichevole, trovai il coraggio di chiedere a una donna se per caso avesse conosciuto Ghisele Shenbach. «Assolutamente no» mi rispose.
Quella risposta fu come uno schiaffo sulla guancia umida. Mi sedetti e aspettai che un miracolo mi facesse rialzare in piedi, e mi dicesse cosa fare. Se avessi avuto con me il Salterio che mi aveva dato Teresa, mi sarei seduta a pregare. Mi ricordavo il primo inno e lo ripetei alcune volte. Tentai di afferrare il «non calcare la via dei peccatori». Mi stupiva la parola «calcare», ma mi tornò subito in mente l’avvertimento di Teresa: «La preghiera non si spiega, la si eleva al cielo».
Tutte le persone intorno a me indossavano la divisa del campo. Difficile capire se fossero felici di essere stati liberati. Udii uno di loro che diceva: «A me non importa di girare con questi stracci, ci sto bene dentro».
«E così intendi tornare a casa?»
«Ma di quale casa parli?» reagì subito quello.
Gli uomini mi sembravano chissà perché più fiacchi delle donne. Se la prendevano facilmente e urlavano a gran voce. Le donne invece avevano imparato a sopportare senza fare trambusto.
Mentre ero lì a meditare, un tizio alto mi venne vicino e mi chiese se ero ebrea.
Quella domanda mi offese, risposi: «Solo ebrea».
Il tizio evidentemente non capì, o forse pensò che lo stessi prendendo in giro, e disse: «Non sembri ebrea».
«Mia madre è ebrea, e io ho fatto di tutto per seguire le sue orme. Se non sembro ebrea, è segno che non ho fatto abbastanza per esserne degna.»
«Scusa» disse il tizio indietreggiando, «hai i capelli biondi, sono stati quelli a ingannarmi.»
«I capelli biondi e gli occhi celesti li ho ereditati da mio padre. Chissà se riuscirò a liberarmene, prima o poi.»
«Non preoccuparti, se tua madre è ebrea, anche tu lo sei a tutti gli effetti» spiegò cambiando tono, per tranquillizzarmi.
Non gli nascosi che mio padre era il padrone del podere Shenbach.
«Siegfried Shenbach» disse il tizio sorridendo. «L’ho conosciuto. Secondo me era un fiero simbolo dell’Austria. In sella al cavallo, con le medaglie appuntate sul petto.
Certo non era un appassionato di ebrei.»
«Era sposato con mia madre.»
«Ormai lo sappiamo che la vita è una serie infinita di contraddizioni, ma se tua madre è ebrea, lo sei anche tu, a tutti gli effetti. Dove sei diretta?»
«Sto cercando mia madre.»
«Siamo rimasti così in pochi che dobbiamo vegliare gli uni sugli altri» mormorò voltandosi.
Ero triste per non essere riuscita a fermare Dora. Anche se non mi aveva svelato molte cose della sua vita, immaginavo di sapere tutto di lei. Da quando ci eravamo separate, sentivo la sua voce che mi diceva: «Gli ebrei non sono la perfezione, ma non sono assassini». «E perché sei tornata da tuo marito che ti ha tradito?» le chiedevo. A questa domanda non avevo avuto risposta, nemmeno ora. Dentro di me sapevo che Dora non era bugiarda. Gli anni nei campi non avevano intaccato la sua sincerità, diceva quello che pensava.
Continuavo a chiedere di mia madre. Non tutti i sopravvissuti erano gentili e mi davano ascolto. Ognuno scavava dentro di sé, non trovando nulla di entusiasmante.
Non di rado mi capitò di vedere qualcuno che alzava le mani sul prossimo, e lo picchiava ferocemente.
Un tizio una volta commentò: «Siamo diventati come i gentili».
«Ancora no, ma non siamo lontani» disse il suo compagno.
60
Nel frattempo, arrivò un camion con viveri e abiti. Alcuni soldati americani che parlavano un po’ di yiddish li distribuirono. Tutto avvenne con tranquillità, senza convenevoli o entusiasmi. Stranamente, nessuno aveva fretta di cambiarsi d’abito.
Posai il pacco per terra e mi avvicinai al pentolone per avere la zuppa.
L’indomani alcuni indossavano gli abiti nuovi. Sembravano in maschera, facevano quasi ridere. Alcuni si rimisero la divisa del campo, ma il freddo costrinse la maggior parte di noi a usare gli abiti nuovi.
«Sono americano» diceva uno agitando le braccia. Quel suo nuovo aspetto in effetti era piuttosto variopinto.
«Sei quello che sei, l’abito non fa il monaco» replicò un suo compagno.
I giorni seguenti furono brevi. Sonnecchiavo quasi tutto il tempo o pensavo a Dora.
A me non aveva permesso di tornare a casa, ma lei sì, ci era andata. Cercavo di capire, ma non riuscivo proprio.
Gli scampati non si fermavano qui più del necessario. Ogni giorno qualcuno se ne andava, altri arrivavano a prenderne il posto. La gente si ignorava reciprocamente, oppure dormiva in continuazione, senza alzarsi neppure per mangiare. Ci fu qualche screzio, ma quasi tutti erano sprofondati in se stessi, indifferenti al resto.
Una mattina vidi una donna alta e dritta ferma in coda per la zuppa. Assomigliava alla farmacista di Hochberg. Accanto a lei la gente si comportava pacatamente, parlava poco, aspettava paziente il proprio turno. Con grande timore mi avvicinai e le chiesi se avesse conosciuto mia madre, Ghisele Shenbach. Per un attimo rimase interdetta, subito dopo sgranò gli occhi e disse: «Certo che l’ho conosciuta. Ti chiami Helga, non è vero? Ghisele era una donna meravigliosa. Ha salvato le nostre anime».
«Che ha fatto?» osai chiedere.
«La sera ci parlava. Lei era, tu lo sai certo meglio di me, una donna molto riservata, taciturna, ma la sera si risvegliava e ci parlava come fosse stata un angelo del Signore. Dico angelo del Signore perché non trovo altri termini.»
«Di cosa parlava?» Le parole mi sfuggirono di bocca.
«Di noi, del nostro segreto.»
«Con me non parlava di questo.»
«Non eravamo capaci di parlare del nostro segreto, e l’ansia non ci portava a parlarne. Nemmeno le sofferenze più tremende sono riuscite ad aprire quella parte serrata del nostro cuore. A volte ci sembrava che il castigo che ci era inflitto ci spettasse, ma non sapevamo quale fosse il peccato di cui eravamo accusate. Ghisele parlava con grande semplicità, senza girare intorno alle cose. Le frasi le venivano dritte dal cuore. Come quella che non dimenticherò mai: ‘E tuttavia è meraviglioso essere ebrei’. Eravamo deboli e stanche, a fatica ci trascinavamo fin sulle panche di legno, e d’improvviso, da quel silenzio disgraziato, usciva una voce flebile ma chiara:
‘E tuttavia non abbiamo perso la sembianza divina’, oppure l’indomani: ‘Bisogna amare chi soffre, è degno di amore’. Ogni sera, negli ultimi istanti di veglia, lei seminava nella nostra stanchezza una frase o due, che s’infilavano nel nostro sonno e lo ristoravano. A dire la verità, alcune donne erano contrarie a queste frasi, cercavano di zittire Ghisele. Nell’udire le urla di rabbia, Ghisele taceva per qualche giorno.
Senza la sua voce le notti erano un deserto desolato, un silenzio denso che ti portava via quel poco d’anima rimasto in te.
«Una sera, dopo che eravamo state picchiate e giacevamo tutte doloranti, senza fiato, sulle panche, lei sussurrò: ‘Non è possibile che siamo così cattive’. Attingeva le sue frasi, questo lo sapevano anche le sue nemiche, dalla ferita, e con ciò ci infondeva vita.
«Verso la fine vennero giorni cupi, giorni di disperazione e inerzia, lavoravamo ore e ore nel mutismo più assoluto. Solo Ghisele lo spezzava per dare voce alle sue meravigliose frasi. Una sera dalla sua gola sgorgò la preghiera Ascolta Israele, che fece tremare la baracca. Non so da che mondo Ghisele sia venuta a noi. Alla fine era molto debole, e ci lasciò per andare al sanatorio.
«Mia cara Helga» concluse, «bada a te stessa e non mangiare conserve. Le conserve sono veleno. Solo zuppa, la zuppa è buona.»
61
Quella sera stessa cominciai a sentire dei brividi e non riuscivo più a reggermi in piedi. Mi appoggiai al muro, ma i brividi erano sempre più forti e alla fine tremavo tutta. Persi anche conoscenza, qualcuno ebbe pietà di me e mi portò in ambulatorio.
Giorni dopo, quando aprii gli occhi, trovai un’infermiera militare china su di me che mi passava uno straccio umido sulla fronte. L’infermiera, che parlava un po’ di tedesco, mi disse che mi ero ammalata di tifo e che avevo avuto la febbre alta, ma Dio in cielo mi aveva strappato dalle braccia della morte e riportato alla vita. Aveva un viso piccolo e rotondo, che esprimeva gioia perché Dio aveva fatto la sua volontà.
Mi chiese come mi chiamavo e io glielo dissi.
Chiusi gli occhi e continuai a dormire.
L’inverno giunse di colpo. Il vento sbatteva contro le pareti della baracca, ma dentro la stufa borbottava e c’era caldo. Per via della malattia avevo ancora la febbre alta, ma non come prima. Vidi Manfred che veniva da me incitando i cavalli, e li spronava con una rabbia che non era da lui.
Il passato lontano e il presente vicino si confondevano l’uno nell’altro. Un momento ero con mamma e quello dopo con Dora, e anche la donna alta e fiera continuava a parlare di mamma con ammirazione sconfinata. Ero fuori di me perché mamma mi parlava da lontano, senza avvicinarsi. Le dicevo: «Insomma, sei stata liberata, potresti venirmi vicino». Mamma mi rivolgeva uno sguardo amorevole ma non reagiva.
L’infermiera si occupava di me con grande dedizione. Non sapevo come ringraziarla, così dissi: «Sei il mio angelo».
«Non sono un angelo né la figlia di un angelo, faccio quel che un’infermiera è tenuta a fare.»
L’ambulatorio era pieno, non c’era più neanche un posticino. Mi tornò in mente Dora, con quel suo carattere introverso stampato in viso e l’impulso che l’aveva spinta a tornare a casa. Mi immaginai la sua disperazione nella vecchia casa. Il marito che rientrava e le chiedeva: «Perché sei tornata? Gli ebrei sono sempre stati separati dai non ebrei. Dicevano sempre: ‘Ci hai scelto fra tutti i popoli’. Ero sicuro che saresti tornata dagli ebrei».
«Non ci sono più ebrei» sibilava Dora fra i denti.
«È una bugia, di ebrei ce ne sono ovunque, in tutti i villaggi e le città.»
«Dov’è Cristina?» Dora ignorava le sue provocazioni.
«In collegio. Ho scoperto in lei troppi segni distintivi degli ebrei.»
Nell’udire queste sue parole lei alzava la testa e gli diceva una cosa che suonava come una maledizione, avvicinandosi intanto alla porta.
«Il tuo comportamento è assurdo» commentava il marito.
Allora negli occhi di lei si accendeva una grande rabbia, per un attimo mi sembrò che stesse per sollevare la pentola di ferro sopra i fornelli e scagliargliela in faccia.
Ma era un presentimento sbagliato. Lei sbuffava rivolta a lui: «Spregevole individuo», e sbatteva la porta.
I degenti erano perlopiù malati di tifo, febbricitanti. Ogni tanto vedevano in me una loro sorella o una compagna, e piangevano. Un malato si scosse dalla febbre e chiese:
«Di dove sei?»
«Del podere Shenbach» non gli nascosi.
«Al podere Shenbach non c’erano ebrei.»
«È vero, ma mia madre era ebrea.»
«Il Signore ti benedica. Io sono vecchio ormai, non ha senso preoccuparsi per me, ma i giovani, che ne sarà dei giovani? Meglio che si convertano, che diventino cristiani. Gli ebrei sono perennemente in pericolo, meglio cristianizzarsi» disse chiudendo gli occhi. L’indomani morì.
62
La malattia mi aveva reso molto debole, mi reggevo a malapena in piedi. Ma mi stavo riprendendo di giorno in giorno. Facevo ancora sogni ingarbugliati, come quando avevo la febbre alta. L’infermiera diceva che erano i deliri del tifo. Guai a restare troppo immersi nel sonno: bisognava mangiare, irrobustirsi. Io ascoltavo i suoi consigli e mangiavo tutto quel che lei mi dava.
Tutti mi guardavano stupiti: il mio viso, i capelli e la statura celavano bene la parte ebraica che è in me. Ma alcuni malati, sì, riconoscevano, senza ch’io dicessi nulla, che ero ebrea, e dicevano: «Tuo padre, il signor Shenbach, era antisemita, ma a suo merito va detto che non era un antisemita incallito. Ogni tanto si permetteva persino un complimento. Una volta l’ho sentito dire: ‘Gli ebrei incitano i loro figli a studiare.
Fintanto che non si vantano, va bene’. Ma quando una proposta di prezzo non gli andava, non mancava di dire: ‘Un ebreo resta un ebreo anche se ha dimenticato i suoi precetti religiosi’».
Un malato mi chiese se avevo in mente di tornare a casa o di emigrare in America.
Gli risposi senza esitazioni: «Io aspetto mamma, e non mi muovo di qui finché non l’ho ritrovata». Rimase sconvolto dalla mia determinazione.
La gente smise poi di fare domande sulle rispettive famiglie perdute, e se qualcuno ci provava tutti lo guardavano sbigottiti.
Per contro, c’erano persone che parlavano senza sosta degli orrori di cui erano state testimoni. Ripetevano la stessa storia giorno e notte. Nessuno le ascoltava, ma la loro voce alta, che a tratti diventava un grido, si udiva per le stanze e in cucina, e quando qualcuno rimproverava questi parlatori compulsivi, loro reagivano con imbarazzo:
«Non sono io, io vorrei tacere e non dire una parola». La risposta metteva l’altro in una situazione non meno triste, pertanto diceva: «Scusami, non avevo inteso».
Altri, invece, non facevano che prepararsi per il ritorno a casa. Tornare a casa era il loro unico, esclusivo desiderio. Spinti da questo impulso così forte, erano sempre pronti a partire, ancor prima di essere guariti. «Andatevene pure in America o in Palestina, io me ne torno a casa» comunicò un malato, un tizio alto senza la gamba destra.
«E che ci troverai lì?» chiese il compagno nel letto vicino.
«Quel che avevo» rispose l’altro con voce ferma.
«Ho qualche dubbio che tu riesca a ritrovare qualcosa.»
«La strada e i muri di casa li troverò di sicuro. Li ho davanti agli occhi. A me non serve nulla di più. Voglio stare nello stesso posto in cui ero prima della guerra, mangiare la stessa colazione la mattina, allo stesso tavolo, dormire nello stesso letto, andare nello stesso bar che mi piaceva frequentare.»
«Ti scordi che c’è stata la guerra.»
«È vero, e per questo non dovrei forse tornare a essere quello che ero?»
Il compagno accanto si mise una mano sugli occhi, e non reagì.
C’era discordanza e non solo sui viaggi e sui ritorni. Per ogni cosa, sugli argomenti più svariati. C’era un tizio, qui, il quale sosteneva che dal tifo non si guarisce. Sì, per un po’ si può mettere a tacere la furia della malattia, e ignorarla per un mese o due, ma quella torna e salta di nuovo fuori quando meno te l’aspetti. L’infermiera tentava invano di cavargli dalla testa quella strana idea, ma lui restava della sua opinione.
Chi si era appena appena ripreso veniva dimesso. L’infermeria era piena fino allo spasimo, ma io, che aiutavo l’infermiera ed ero considerata parte della squadra di assistenza, rimasi lì e guarii pian piano.
Non devo angustiarmi, i malati si sono affezionati a me, chiedono come sto e si preoccupano per il mio futuro. Anche i mezzi ebrei non godono di particolari simpatie, mi avvertono. Penso che i mezzi ebrei non abbiano nulla a che fare con gli ebrei. Un malato mi ha guardato e mi ha assicurato che non c’è in me alcun tratto che mi tradisca, che posso farmi strada nella vita e andare ovunque vorrò. Ma il suo vicino non è d’accordo. Sostiene invece che già a un primo sguardo si capisce che sono ebrea.
Questa diatriba mi crea imbarazzo.
Una notte mi sono infilata sotto le coperte e ho atteso il ritorno di mamma.
Miracolo, mamma è tornata improvvisamente da me, come un’alba radiosa che mi ha abbagliato. Mi sono spaventata, alzata in piedi, e non l’ho detto a nessuno.
63
Ogni giorno faccio amicizia con un malato diverso. Uno di loro, che si chiama Richard Ganz, ha tentato di spiegarmi l’enigma: «Mica lo volevamo, essere ebrei.
Pensavo che essere ebrei fosse un’onta, e che bisognasse fare di tutto per strappare via dall’anima l’ebraicità che era in noi. Ci siamo allontanati dagli ebrei, abbiamo cambiato i nostri nomi e abbiamo adottato lo stile di vita della piccola borghesia austriaca».
«Perché non volevate essere ebrei?»
«Non amavamo la natura singolare dell’ebraismo, questa diversità ci sembrava tribale e primitiva. Siamo fuggiti dai nostri genitori per non identificarci con loro, ma la mano del destino ci ha agguantato ovunque. Ci hanno imprigionati nel ghetto e dopo nei campi. Mi segui?»
Questa autoaccusa la sento in ogni angolo. Il contenuto è simile, cambia solo il tono. In un letto suona come un peccato inespiabile, in un altro come una condanna sarcastica. Un malato mi ha detto: «La Palestina non sanerà questo dolore».
In un punto appartato ci sono tre convalescenti che confabulano. Sono bassi e robusti. Non si stanno occupando delle grandi questioni del mondo, studiano come entrare in possesso dei grandi beni che ha lasciato l’esercito tedesco. Non partecipano affatto al malumore. Sono vigili e malgrado non siano ancora completamente guariti, puntano con grande determinazione ad arrivare per tempo ai depositi abbandonati.
«Un ebreo resta sempre un ebreo, non c’è nulla che possa cambiarlo» sento sbuffare un malato rivolto verso quei tre.
«Che male ti abbiamo fatto?» chiede uno di loro.
«A me non avete fatto proprio niente, ma non mettete certo in buona luce il popolo d’Israele.»
Nell’udire le parole di quell’uomo i tre scoppiano in una sonora risata. Quello scoppio di ilarità non impressiona il degente, che li fissa con uno sguardo intriso di veleno, e senza dire più una sola parola volta loro la schiena.
Difficile captare tutto quello che succede qui, ma io mi sento come se le tante sofferenze venissero assorbite dentro di me, e sono contenta di riuscire a vedere questi scampati che tornano alla vita. Una volta ho scorto persino un ebreo avvolto nello scialle da preghiera, intento a pregare. La gente intorno a lui gli gridava addosso: «Dopo i campi tu ancora preghi? Vergognati, Dio ci ha traditi e tu ancora preghi rivolgendoti a Lui? Fila via, non farti più vedere». Ma quel tizio basso e magro non si era mosso di lì e alla fine della preghiera, toltosi lo scialle, aveva un’aria affranta, era pallidissimo. Non aveva risposto alle provocazioni, era tornato al suo letto come ogni giorno dopo la visita e l’iniezione in infermeria.
La sera mi chiese se intendevo tornare a casa.
«Non ho alcuna intenzione di tornare a casa. Sto aspettando mia mamma, e finché non la trovo non mi muovo di qui.»
«Pregheremo che tu la possa trovare. Sei molto giovane, e avrai di sicuro una madre amorevole.» Quelle sue parole erano dolci, suonarono come una specie di benedizione.
Quella stessa notte feci un sogno lunghissimo. Ero seduta nel giardino dietro casa e mi stupivo del fatto che la casa fosse chiusa, aspettavo il ritorno di mamma. D’un tratto mi ricordavo che da molti giorni ormai non andavo a scuola e avevo dimenticato tutte le lezioni. Avevo paura che mamma si arrabbiasse con me.
D’improvviso, al cancello del giardino, che non usavamo mai, compariva mamma.
Era più alta del solito, avvolta in un’aureola, e indossava una lunga tunica.
«Mamma» dicevo, «non sono potuta andare a scuola, lo capisci, no, il perché?»
«Certo che lo capisco.»
«Mi sei mancata.»
«Lo sentivo, e per questo ho fatto una lunga strada, per dirti che sono sempre con te, ovunque. Nulla ci separerà mai.» Poi si toglieva l’aureola e diceva: «Eccomi davanti a te in tutta la mia natura terrena». Mi alzavo in piedi e l’abbracciavo.
«Helga, Helga» udii una voce che mi chiamava. Era un malato, venuto in mio soccorso, che mi svegliò.
64
I venti cessarono. I malati stavano alla finestra a guardare la neve. Chi era guarito se n’è andato, altri malati sono venuti a prendere i loro posti. Io misuro la febbre, preparo le medicine, lavo i degenti e cambio le lenzuola: qui mi sento come una di casa. Data la mia statura, tutti sono sicuri che abbia vent’anni. Un malato si è alzato e ha esclamato: «Proibito pensare che gli ebrei siano migliori perché hanno sofferto di più. Il bene e il male si mescolano in loro come nel resto dell’umanità».
Ogni nuova frase desta discussioni. A volte sono aspre e sgradevoli, ma la maggior parte dei malati restano prigionieri delle loro sofferenze e non partecipano a quelle diatribe. Nell’udire le urla si rintanano nella loro sofferenza e tacciono. Chiaro che fra i taciturni c’è anche chi rappresenta un rischio. Qualche giorno fa uno di loro, fra i più ostinatamente silenziosi, ha posto fine alla propria vita. Si era seduto in corridoio per tenersi lontano dalle rumorose discussioni. Una notte si è cosparso di benzina e si è dato fuoco. A parte il suo nome, Shemuel Zweig, non sapevamo nulla di lui.
È già qualche mese che sono qui, ma dato che le persone vanno e vengono, ho come la sensazione di non trovarmi sempre nello stesso posto, bensì di spostarmi. Chi viene dimesso dall’infermeria lascia dietro di sé un poco della sua anima. Io, ovviamente, vigilo e chiedo di mia madre a ogni nuova donna che arriva. A volte mi sembra che custodiscano un segreto e che non vogliano dirmelo.
D’improvviso è comparsa sulla porta dell’infermeria una donnetta con il corpo travagliato dalla guerra - era tutta pelle e ossa. All’udire il nome di mamma, ha sgranato gli occhi e ha detto, con timore reverenziale: «Ghisele era la nostra luce nella grande tenebra. Ci ha insegnato parole in yiddish e in ebraico. Dopo una giornata sfiancante, dopo una punizione collettiva, lei leggeva con grande emozione la preghiera Ascolta Israele. Capisci quello che dico? Capisci quali forze ci volevano per farsi strada verso il cuore di gente disperata?»
L’ho lavata, le ho fatto il letto, le ho misurato la febbre, la pressione, e ho chiesto al medico di visitarla. La donna era più malata di quanto non immaginassi: polmonite ed esaurimento delle forze.
Ogni ora andavo a trovarla. Dormiva quasi tutto il giorno, e quando apriva gli occhi e mi vedeva, sul suo viso fioriva un sorriso, poi diceva: «Quanto assomigli a tua madre».
La osservo mentre dorme e sento che una parte dell’esistenza di mamma è riposta in lei. Vorrei chiederle altre cose, ma non oso. La gente parla poco delle proprie esperienze, solo i malati di tifo raccontano nelle loro visioni tutto quel che i sopravvissuti non riescono a esprimere.
«Tua mamma era la luce nella tenebra. A ciascuna di noi aveva dato una parte di sé, e tutte noi sentivamo che quella parte l’aveva attinta da un pozzo profondo, riportandola alla luce. Vegliavamo su di lei, ma non è bastato. Non voleva nessun aiuto. Diceva: ‘Badate a voi, bambini’. Anche quando ce l’hanno presa, ha continuato a vegliare su di noi.»
Da quando la donna piccolina mi ha svelato quel che mi ha svelato, sento che non faccio abbastanza per gli altri: dormo più del necessario e non rispondo immediatamente ai richiami dei malati. Ogni tanto mi dimentico che non sono malati qualunque, ma persone che sono passate per tutti i gironi dell’inferno, e che bisogna rispettare le loro sofferenze, lenire ogni loro ferita. Se ci fosse mamma, qui, lei mi insegnerebbe a prendermi cura di loro, senza ferirli.
Ieri ho pregato che mamma mi svelasse come alleviare le sofferenze, quelle palesi e quelle occulte. Mamma non è apparsa, ma per mia fortuna mi ha illuminato la via, facendomi incontrare Mina. Mina è alta come me, e ho capito subito che è una mezzosangue. Ha i capelli biondi, gli occhi celesti, una lieve timidezza nel modo di fare. È rimasta nascosta per tutta la guerra, vagabondando da un luogo all’altro.
Qualche tempo fa ha deciso di uscire allo scoperto. Per qualche giorno ha vagato senza cibo né meta, alla fine è crollata. Un soldato l’ha notata e l’ha presa nella sua brigata. Il medico della brigata le ha diagnosticato il tifo e così l’ha portata qui, a curarsi.
L’ho lavata, le ho fatto il letto, le ho misurato la febbre e la pressione, ho detto al medico che c’era una nuova degente.
Dorme quasi tutto il giorno. Quand’è ora di mangiare la sveglio e la imbocco, poi lei riprende a dormire. Dopo tre settimane di sonno filato, sta meglio. Ho notato subito la luce sul suo viso. Anche a lei hanno portato via la mamma. Per tutti gli anni di guerra l’ha aspettata, ed era sicura che il suo ritorno fosse solo una questione di tempo. Una notte in sogno la mamma le ha detto che era passata all’altro mondo, e che non ci sarebbe stato più alcun incontro su questa terra.
65
L’inverno è diventato più mite, ora è calmo. Torna a me il volto di Dora. Negli ultimi mesi sono stata completamente assorbita dal lavoro, non ho più pensato a lei.
Certo si sarà chiesta come mai mi sono staccata da lei e perché io abbia chiuso le porte dei miei sogni, ma alla fine deve essersi detta: Nessuno mi vuole, tutti si tengono lontani da me. Che senso ha vivere? Questi pensieri non mi lasciano in pace.
Dora è stata per me una madre nei giorni in cui avevo bisogno di una madre. Ho raccontato alla mia nuova amica, Mina, della casa dove avevamo abitato insieme.
Mentre raccontavo, sono riaffiorate le immagini che tenevo nascoste dentro di me, ho rivisto Dora come quella prima volta. Il suo silenzio mirabile: restava delle ore seduta, con gli occhi ben vigili, senza proferire parola. Sapevo che quello era il suo modo di esprimersi, e pian piano avevo imparato a capirla.
Ma nel frattempo i degenti, guariti, se ne vanno per le loro strade ed è difficile fermarli. «Perché non restare ancora qualche giorno, per riprendere le forze?» chiedo, ma nessuno mi ascolta. Uno vuole tornare alla città dov’è nato, un altro prosegue per la Palestina. Mina si regge ormai bene in piedi, e mi dà una mano. Entrambe ci facciamo notare per la statura e i capelli biondi. Nulla di strano, se i nuovi malati sono sicuri che siamo del posto. Uno ha chiesto: «Com’è far parte del popolo degli ebrei?»
«Magnifico» ho risposto.
«Un popolo strano, non è così?»
«Un popolo meraviglioso» non ho potuto fare a meno di rispondere.
Nell’udire queste mie parole si è voltato senza replicare. Avrà sicuramente pensato che volessi adulare.
Ogni settimana arrivano qui un mezzosangue o una mezzosangue. Quasi sempre si riconoscono per la loro diversità, ma ogni tanto non si differenziano dai normali sopravvissuti. Mina e io catturiamo l’attenzione per il nostro aspetto, e ogni tanto qualcuno ci rivolge un commento oltraggioso.
«Siamo creature ibride: due anime in un corpo solo. Non è così?» ha detto Mina, e si capiva che questa frase era rimasta nascosta in lei per molto tempo.
«Non sento alcuna doppiezza. Io sono sempre con mamma. Papà si è staccato da me.»
«Come te lo immagini?»
«Ora è legato a una nuova donna, a Henrietta, e di mamma non chiede affatto.
Quando si ricorda di lei, corruga la fronte e una specie di disagio gli fa fare una smorfia. La coscienza non lo tormenta più, ma ogni tanto affiora il presentimento che lei se la sia vista brutta. Papà non ama finire nei guai. Il cittadino ligio che è in lui, il fedele ufficiale, non sopporta le complicazioni inestricabili. Mamma era la nuvola della sua vita. La nuvola è passata, ed è sicuro che non tornerà più. Solo che improvvisamente, lì per lì, il profilo di lei gli compare davanti agli occhi e incupisce per un attimo il suo campo visivo. Non ha modo di scacciare quell’ombra così familiare, e per questo si sente in difficoltà.»
«Come sai descrivere bene» ha detto Mina sorridendo.
I malati guariscono e le loro illusioni li portano via di qui. Ma non bisogna stare in pena, l’ospedale non rimane di certo vuoto. Ne arrivano degli altri, a prendere il loro posto. C’è talmente tanto viavai che dimentico i nomi della gente. Cerco di convincerli a restare e a rimettersi in forze, ma la loro inquietudine li porta fuori di qui.
Circolano, fra i malati, opinioni diverse. Questa volta, chissà perché, a proposito del sonno. Uno ha citato la strofa di una poesia. Non intendeva fare sfoggio di cultura, o impressionare. La febbre ha fatto riaffiorare dai meandri della sua memoria qualche rima, tutto lì. Un altro l’ha aggredito, urlando: «Basta parole come queste, alte. D’ora in poi si useranno solo termini semplici, comprensibili, parole senza mascheramenti rimati».
«Non volevo fare colpo, è solo che mi è tornato in mente» si è scusato il primo.
Ma quello che era sbottato non ha accettato le scuse, sostenendo che era giunto il momento di dire basta alle parole illusorie, solo parole prive di ipocrisia. Chi è stato nel campo va dritto al sodo delle cose, senza orpelli, ha aggiunto.
Il degente che era stato attaccato si è avvolto nella coperta, senza più reagire. Per un attimo è sembrato che la discussione fosse finita, e invece no. Quello arrabbiato ha continuato a pretendere che l’altro chiedesse scusa per l’errore e dichiarasse che da quel momento in poi non si sarebbe più lasciato scappare un solo verso retorico. A quel punto alcuni convalescenti gli hanno detto di piantarla, ma lui è rimasto fermo sulle sue posizioni: «Basta parole del genere».
Ma qui non si disserta solo di parole ed espressioni. Anche la gente che piange o si lamenta è stigmatizzata con disprezzo e scherno. Solo il silenzio è accettato come una lingua degna d’essere parlata. Gli occhi dei degenti guardano e dicono: Che c’è da dire? Chi ci capirà mai? Nemmeno io riesco a capirmi. Non ha senso parlare di ciò cui non si può credere. Se non sei in grado di dare un inizio e una fine alle tue parole, fai meglio a tacere. Il silenzio potrebbe, forse, portare parole nuove. Quelle vecchie sono detestabili, proibite.
Sono aspre soprattutto le discussioni notturne. La notte, chissà perché, arrivano strane rivendicazioni, e ovviamente in ogni lite torna la questione ebraica, come per ridestare la rabbia. Ieri un convalescente si è messo in ginocchio e ha gridato verso di me e Mina: «Vi prego, care fanciulle, tenetevi lontane dagli ebrei, tenetevi lontane da questa maledizione. Gli ebrei non hanno portato nulla di buono né a se stessi né agli altri. Sarebbe meglio se scomparissero, aiutateli a scomparire. Devono andare in Australia e Nuova Zelanda, solo laggiù spariranno». Questa rivendicazione qui si sente spesso, ma questa volta, visto che era rivolta direttamente a noi, mi ha fatto male in modo particolare. Per calmare gli animi ho servito a tutti i malati del tè e della torta di mele che avevamo fatto io e Mina.
66
Mentre l’inverno ancora stende il suo manto blu, etereo, nel cielo, vedo un carretto che si ferma davanti al cancello aperto. Un uomo scende dal carretto, si scherma gli occhi con le mani e si domanda dove sia finito. I suoi modi mi sono familiari, ma non riesco a vederlo bene. Chiedo: «Chi va cercando?»
«Credo di avere sbagliato strada» ha risposto il tizio con un filo di voce.
«Dove vorrebbe arrivare?» ho alzato la mia, di voce.
«Al campo di Gruenwald.»
«Non è lontano di qui, venga dentro che le offro una tazza di caffè» gli ho proposto.
«Grazie» ha detto avvicinandosi.
Ora mi sembrava più familiare, ma non ancora del tutto. Quando è stato molto vicino, proprio davanti a me, l’ho riconosciuto eccome: Manfred, nientemeno.
L’ho abbracciato con tutte le mie forze e ho esclamato: «Manfred». Era proprio lui, infatti: fronte alta, occhi saggi. Era invecchiato.
«Sei cresciuta tanto, non ti avrei riconosciuta» ha detto. Si capiva che era emozionato, ma anni di ritegno ancora gli facevano tenere dentro i sentimenti, anche adesso.
«Come stai, Manfred?» gli ho chiesto come se ci fossimo congedati solo ieri.
«Si tira avanti» ha risposto levando lo sguardo verso di me.
Non sapevo da dove cominciare. Gli ho offerto una tazza di caffè e della torta.
«Cos’è questo?» ha chiesto.
«Un’infermeria e convalescenziario per i sopravvissuti ai campi.»
Manfred ha chinato il capo, troppo imbarazzato per porre altre domande.
Avevo paura di chiedergli che cosa ne fosse stato della fattoria da quando me n’ero andata, così gli ho parlato dei miei vagabondaggi. Non gli ho nascosto che la zia Brunilda si era comportata male con me. Alla fine ho chiesto: «Papà come sta?»
Manfred ha abbassato lo sguardo, e io ho capito subito che aveva in serbo per me cose dure da spiegare. «Verso la fine della guerra tutte le fattorie della zona sono state confiscate e trasformate in campi militari. I proprietari e i lavoratori sono stati arruolati. Ovvio che si era prossimi alla sconfitta. Tutti lavoravano con disperazione febbrile, chi mollava o si defilava veniva punito.»
«Anche papà è stato arruolato?»
«Certo. La sconfitta è cominciata con dei torti tremendi. Gli ufficiali infierivano sulla gente e chi tentava di fuggire veniva ucciso, ma non è durata molto a lungo. I bombardieri americani scaricavano senza sosta, giorno e notte, così la fattoria è diventata una trappola di fuoco, nulla è rimasto in piedi.»
«E papà?»
Manfred ha chiuso gli occhi, ma non me l’ha nascosto: «Perito con tutti gli altri».
Le domande che avrei voluto porgli ora restavano mute dentro di me, ero così pentita di aver estirpato papà dal mio cuore. Ho offerto a Manfred un’altra tazza di caffè e chissà perché gli ho chiesto: «E Henrietta?»
«Siegfried l’ha sposata e hanno avuto un bambino. Anche loro dispersi.»
Tutte le domande che avrei voluto fare mi sono rimaste in gola. Ero come paralizzata.
«Sto andando a cercare Ghisele» ha detto Manfred con la sua solita voce e per un attimo la vecchiaia se ne è andata dal suo viso, sembrava proprio come me lo ricordavo.
Chissà perché non l’ho trattenuto. L’ho abbracciato e ho detto: «Io non mi muoverò di qui finché Dio non vi avrà riportato a me». È stato come in un sogno, con tutti i colori del sogno, ma anche concreto e tangibile, vero.
Strano, mi sono poi detta, papà è salito in cielo e io non me ne sono resa conto.
Avrà certo pensato a me nei suoi ultimi istanti, ma io non ho sentito alcun dolore.
Manfred è partito e io sono rimasta senza fiato. Mi sono immediatamente accorta che mi ero sbagliata a lasciarlo andare, ma ormai era troppo tardi. Il carretto si stava allontanando, e dopo qualche minuto è scomparso. Ho raccontato a Mina chi era Manfred e che cosa rappresentava per me e per mamma.
67
Mina e io cuciniamo, facciamo il bucato, prepariamo i pasti. Poi ci sediamo a conversare in yiddish e in ebraico. Ho studiato i malati nei loro letti e mi sono detta: Sono ebrei, come mamma. Io sono mezza ebrea, e per questo devo colmare la lacuna.
Non solo le lingue e le preghiere mi sono sconosciute: anche i gesti, la parlata, l’espressione sul viso e chissà cos’altro ancora.
I malati e i convalescenti sono quasi tutti della Galizia, parlano fra loro in yiddish, ma sanno anche il tedesco e citano le poesie di Goethe, Schiller e Heine, assomigliano molto alle persone che frequentavano il Caffè Zicker a Hochberg. Di quel che è stato nel campo non parlano. Ogni volta che chiedo loro ragguagli su una parola o un concetto, mi fanno un gesto di diniego come a dire: Che te ne fai di questa cosa?
Anche il medico militare, George, che viene a visitare i malati due volte alla settimana, è mezzo ebreo. A differenza di me, lui in casa ha sentito parlare yiddish e fare battute sui non ebrei, che non sanno lo yiddish e per questo la loro vita non è condita del giusto pepe. Gli piace venire qui da noi. Gli prepariamo un buon pranzo e lui porta dall’esercito alcune barzellette e un po’ di luce e di ottimismo.
Una volta ha detto: «Metà ebrei è la dose giusta. Chi è tutto ebreo o tutto gentile ha un difetto. Noi, grazie a Dio, viviamo nella giusta misura, un po’ di qui e un po’ di là.
Lo dico a tutti, io, che sono mezzo ebreo. Tutti, a parte alcuni ufficiali antisemiti, lo prendono di buon grado».
Ho rivisto mamma in sogno, le dicevo: «Scusami, mamma, se non sono venuta a cercarti. Mi prendo cura dei sopravvissuti che stanno guarendo dal tifo. Cerco di imparare da loro la lingua degli ebrei, ma per qualche ragione loro non ne vogliono sapere di insegnarmi».
«Non giudicarli male» rispondeva mamma con la sua solita voce, a me familiare sino al midollo, «non è strano che fuggano da se stessi. Chi è stato punito solo perché è ebreo, non desidera altro che fuggire da se stesso. Devi capirli.»
Avevo intenzione di raccontare a Mina il sogno, ma questo si andava disfacendo, le immagini erano sparite. Ogni tanto avevo l’impressione che Mina mi capisse anche senza bisogno di parole. Le case da cui venivamo erano così simili. È vero, sua madre a scuola non aveva studiato latino e greco e non aveva fatto l’università, ma era una donna raffinata, aveva assecondato il marito ed era diventata una buona cristiana.
Lavoriamo insieme dal mattino fino alla sera tardi. Tutti ci stimano e ci vogliono bene, ma non ci incoraggiano a imparare lo yiddish e l’ebraico.
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L’inverno è finito e la sera il cielo si accende di blu e di rosso. Ogni settimana qualche degente ci lascia. Non sono più in molti ad arrivare qui. Dopo cena i convalescenti si siedono ai loro posti e ascoltano la musica. Ogni tanto sembra una casa di preghiera dove non si prega, si medita solo, in silenzio.
Qualche giorno fa è comparso un sopravvissuto alto e smunto che ha cominciato subito a inveire contro gli ebrei. All’inizio sembrava che non sarebbe andato per le lunghe, e invece non è stato così. Ce l’aveva in particolare con i mercanti ebrei.
Da sempre il loro metodo è l’inganno, diceva. Cercano sempre di convincerti che la loro merce bacata è migliore e più a buon prezzo dell’altra. Hanno patenti, licenze, lettere di raccomandazione. In breve, una quantità di sotterfugi e mezzucci. «Voglio pubblicare un libro dove enumererò e spiegherò tutti quei loro metodi mendaci» ha concluso. «Il mondo deve sapere chi sono gli ebrei e gli ebrei debbono sapere perché li si odia.»
«Tutti gli ebrei?» ha chiesto un convalescente.
«Tutti.» La risposta è stata immediata. «Ogni professione ha il suo modo di frodare. Ma quello del commerciante all’ingrosso non è come quello di chi vende al minuto. Anche i medici, gli avvocati, i contabili, i giornalisti, ciascuno ha il suo modo di fregare. Questo popolo non dice: Uno più uno fa due. Ignorano la linea retta. E
credono invece in quelle tortuose.»
«E tu vorresti scrivere delle linee e di tutti questi metodi?»
«Sì, conosco gli ebrei come le mie tasche.»
Alla fine quel tizio si è addormentato e ha dormito per due giorni interi. Al risveglio gli ho servito la colazione. Mi ha ringraziato. Dopo aver mangiato si è alzato, ha detto: «Me ne vado», ed è partito.
A nessuno è dispiaciuto che se ne fosse andato. La gente qui va e viene, ognuno lascia un po’ di sé. Quello lì, il cui nome non sapremo mai, ha lasciato una ferita nel cuore e ogni volta che viene rievocato un’espressione cupa corruga la fronte dei convalescenti.
Intanto il Joint ha mandato un camion con vestiti, generi vari e persino carbone combustibile. La sera accendiamo la stufa e dopo cena ascoltiamo la musica. Mina e io ripetiamo parole in yiddish e in ebraico. Se non ne capiamo una, chiediamo ai degenti.
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Mentre l’inverno andava sparendo, è arrivato un tizio e ho capito subito che non era spaventato né in soggezione. Gli ho offerto una tazza di caffè e della torta e gli ho chiesto come stava. Lui mi ha detto che prima aveva intenzione di tornare nella sua città natale in Galizia, ma ci aveva ripensato e ora andava in cerca di un lavoro.
Parlava tranquillamente, come uno che, uscito da un posto silenzioso, è rimasto contagiato da quel silenzio.
Non gli ho nascosto che questo era stato a suo tempo il comando dei campi della zona, mentre ora serviva da infermeria e ospedale per i sopravvissuti. «Dove sei stato?» gli ho chiesto timidamente.
«In un posto dove c’erano gli ebrei.»
Ho capito che non aveva voglia di raccontarmi di sé ma in generale degli scampati.
Continuavo a osservarlo. Il suo viso non aveva nulla di particolare. Sembrava uguale a tutti i sopravvissuti che erano passati di qui, solo le mani e il modo in cui le muoveva attestavano che la sua anima non era rimasta intaccata, nel campo.
L’indomani stava già tagliando la legna e disponendola accanto alla stufa. Mi sono resa conto che agiva in un modo ordinato e pulito. Mi ricordava una persona che avevo conosciuto da bambina, ma non sapevo più dove e quando. I convalescenti hanno imparato ben presto a trattarlo come si deve, senza molestarlo con troppe domande. Il nome di questo nuovo personaggio è Erich. Ogni volta ci sorprende con una nuova attività. Un giorno ha preparato un cartello e ci ha scritto sopra, in caratteri ornamentali: per placare ogni sete VENITE DA NOI, CAFFÈ E SIGARETTE IN
ABBONDANZA.
Ogni giorno vado al cancello e aspetto il carretto di Manfred. È ormai passato molto tempo da quando è partito. A volte spero che abbia trovato mamma e che stia badando a lei, ma la notte nei sogni lui mi appare sfinito a forza di ricerche. Una volta mi è persino riuscito di parlargli. Non capivo che cosa lo facesse disperare. Mamma si fa vedere poco nei sogni. Ogni notte la aspetto, ma il sonno non me la riporta più.
Erich fa tutte le pulizie, lava i pavimenti, spala la neve, e quando le stoviglie si accumulano nel lavandino, fa anche i piatti. Si capisce che ama lavorare. Una volta gli ho chiesto che cosa faceva a casa sua.
«Quel che fanno gli ebrei» mi ha subito risposto.
Non lo osservo solo io. Anche gli ospiti si interrogano su questo enigma di nome Erich: l’unico che non pretende nulla. Lui non ha paura dei contadini e va da loro a comprare uova fresche, latte e formaggio. Il Joint in effetti ci rifornisce la dispensa ogni due settimane, ma non di prodotti freschi. Quando Erich ha con sé la scatola di cartone con i prodotti freschi, tutti i convalescenti gli fanno festa.
Una sera ci ha insegnato il canto Amico dell’anima. La melodia e le parole le abbiamo imparate in fretta. L’abbiamo ripetuto più volte. Una ha fatto presente che era un canto religioso. Erich non ha discusso con lei.
Un giorno è arrivato qui un ubriacone del posto che urlava a gran voce: «Ebrei in Palestina» e picchiava con i pugni sul cancello. Ho racimolato tutte le mie forze, ho aperto la porta e gli ho urlato addosso delle parole che avevo imparato alla fattoria.
Lui è rimasto sbigottito: evidentemente non immaginava di sentire toni del genere, qui. Sono stata contenta che l’antico frasario dei contadini fosse rimasto nascosto in me, per uscire al momento giusto.
Quella sera Mina mi ha rivelato che lei non sa nulla dei genitori di sua madre.
Molti anni prima li aveva incontrati alla stazione ferroviaria, e da allora non li aveva più rivisti. «Fu un incontro strano, rimasto inciso nella mia memoria come un segreto spaventoso. Mamma non ne voleva assolutamente sapere, di parlare dei suoi genitori.»
«Anche mia madre non diceva mai niente dei suoi» non le ho nascosto.
«Il canto di Erich mi ha molto rallegrato» ha detto Mina.
«Perché mai?» ho domandato io.
«Il pensiero che il Signore sia amico della mia anima, e quando canto lo sento, non è strabiliante?»
Quella notte mi sono addormentata vestita e mi sono svegliata che era ancora buio, e meno male, perché qualcuno stava tentando di entrare nel magazzino. Ho urlato con il frasario dei contadini che tengo dentro di me, e l’ho messo in fuga.
70
Le notti non sono tranquille. Una mattina abbiamo trovato scritto sul muro: «Ebrei nei forni». Era una grafia rozza ma chiara. Ho chiamato il comandante americano, e lui mi ha ordinato di stabilire dei turni di guardia e una pattuglia per la vigilanza.
Erich ha sistemato la baracca che serviva come rifugio per i gendarmi tedeschi, e noi viziamo le guardie e l’autista del furgone con caffè, panini e cioccolata. Il nostro magazzino è pieno di provviste. Peccato che la gente sia impaziente e non resti per molto qui da noi. Abbiamo tentato, Mina e io, di convincere una donna a non tornare a casa sua, da suo marito. La donna, sia detto a suo merito, non si è illusa che il marito l’accogliesse a braccia aperte, ma la nostalgia per l’unica figlia è stata più forte dei timori.
Sento che le mie braccia sono sempre più forti, che il mio corpo s’irrobustisce: riesco a sollevare un sacco di farina senza alcuna fatica. Tutti dicono che assomiglio a mia madre, ma è chiaro che ho preso anche da mio padre. Lo so, non in parti eguali.
Mia madre ha insufflato in me il suo spirito e per questo la parte che osserva e prova sensazioni è quella di mamma, ma la costituzione sarà evidentemente di papà.
Le giornate sono tranquille. Ogni tanto qui s’infiltra un nostro nemico, piazza una croce uncinata o una maledizione su una parete. Strano, nemmeno i guardiani armati li spaventano. Questi sono i nostri nemici. C’era da immaginarselo che la sconfitta avrebbe portato con sé un nuovo strascico di odio, ma in realtà non è così. I nostri nemici sono cattivi come sempre.
Erich non domanda come mai ci odiano o cose del genere, discorsi che si sentono ogni tanto qui da noi. Lui tiene gli occhi bene aperti e tutto il suo stupore dice: In cosa vi posso aiutare? Il suo corpo trattiene dentro di sé delle melodie. Ultimamente ci ha insegnato il canto Ecco quanto è buono e bello stare insieme, fratelli e la musica l’abbiamo subito fatta nostra.
Prima e dopo i pasti cantiamo e stiamo allegri con questa nuova melodia. Ho notato che da quando queste due canzoni aleggiano qui da noi c’è meno ansia, e ogni volta che il malumore fa capolino, uno dei convalescenti intona la melodia e gli altri gli vanno dietro.
Ma nemmeno questa forma di incoraggiamento impedisce alla gente di alzarsi una bella mattina e dire: Io me ne vado, non ce la faccio più a restare qui. Ultimamente uno ha preso e ha detto: «Ingenuamente pensavo ci fossimo liberati di questa tara ebraica, ed ecco che ci risiamo con la canzoncina. Che ci sarà mai di buono e bello qui? Detesto questo essere insieme. Questo essere una comunità tribale ci ha portato tante disgrazie. Non voglio stare in una baracca in cui ci si delizi dello stare insieme tra fratelli. Per via di questa musica scrivono di nuovo sui muri ‘ebrei nei forni’.
Perché provocarli? Fra poco arriverà il Joint e ci porterà gli scialli da preghiera e i filatteri e tutti li metteranno, urlando salvaci, salvaci. Potete restare qui quanto vi pare, voi. Io me ne vado. Ingenuamente pensavo che si sarebbero occupati del mio corpo, qui, lasciando in pace l’anima. Mi sbagliavo».
Stanotte ho visto mamma che si arrampicava come faceva d’inverno per vedere le distese di neve. Mamma allora esclamava a gran voce: «Che spettacolo divino!»
Anche adesso diceva così, solo che questa volta aveva il viso stanco e se non fosse stato per Manfred che le porgeva la mano, sarebbe caduta e ruzzolata giù.
Mamma e Manfred non sono tornati da me, ma una giovane donna ha fatto capolino chiedendo lavoro. All’inizio non l’ho riconosciuta, ma quando si è tolta la neve di dosso si è visto il viso e l’ho subito identificata. «Olga» ho esclamato abbracciandola forte.
Olga aveva perso i tratti dell’infanzia già in sesta classe, e ora pareva una giovane donna le cui giornate sono piene delle preoccupazioni delle casalinghe. Aveva anche un’aria abbattuta. Sul collo si distinguevano due ferite livide.
«Dio onnipotente, sono così contenta che tu sia qui. Abbiamo un’infermeria e potrai riposarti, guarire.»
Olga mi ha rivolto uno sguardo sospettoso e ha chiesto: «Chi è questa gente?»
«Ebrei» ho risposto, «sopravvissuti ai campi.»
Olga ha detto, con un certo timore: «Tu non hai paura?»
«No.»
«Io avrei paura.»
«Di che?»
«Di quella gente.»
«Sono persone buone.» Ho alzato la voce.
Avrei voluto offrirle un caffè, sedermi a chiacchierare con lei, come facevamo una volta, ma Olga era così spaventata che i miei sforzi per calmarla e raccontarle tutto quel che avevo passato da quando me n’ero andata di casa si sono rivelati vani. Dopo una mezz’ora di paura e tremiti mi ha detto: «Perdonami, Helga, debbo andare», si è messa il cappotto e io l’ho accompagnata alla porta. Ha subito cominciato a correre.
La corsa la ricordavo bene, non era cambiata, era pesante e goffa.
È stato come un brutto sogno: chiaro ma al tempo stesso indecifrabile, freddo e irritante. Quando era ormai lontana dalla baracca ho rivisto sua mamma, una donna nobile, sofferente, che passava quasi tutto il giorno in poltrona come una regina sfortunata. Il viso di Olga si è cancellato di colpo, come se non fosse mai stata qui.
71
Intanto è arrivata la primavera. La gente che non se l’è sentita di uscire con il freddo, ora si accinge a partire. Ho a malapena imparato i loro nomi, che già mi abbandonano. Mina e io cuciniamo, prepariamo torte e cerchiamo di allietarli. Erich ci aiuta con la sua fedeltà e non ci permette di lavare i pavimenti. Lui, contrariamente agli altri, non dice: Fra poco me ne vado. Si alza presto, accende la stufa e prepara il caffè, e quando gli altri si svegliano, la bevanda calda e aromatica già li aspetta con i toast, il formaggio e il burro.
Venerdì scorso ci ha insegnato la canzone Pace a voi, angeli del servizio. La melodia ha scosso gli animi. Alcuni si sono messi a piangere, e non sapevamo come consolarli. In seguito, per tutta la sera, la gente è rimasta zitta, senza lamentarsi né discutere, osservavano piuttosto se stessi cercando di capire che cosa fosse capitato in loro. Alla fine sono crollati addormentati.
L’indomani è arrivato un camion del Joint e tutti noi siamo stati presi dal lavoro di scarico. A mezzogiorno abbiamo preparato una festicciola per Rosa, che aveva deciso di partire per la Palestina. Indossava un vestito a fiori e il viso luccicava per la tanta cipria. Mina ci aveva messo un bel po’ a truccarla, continuando a mormorare:
«Vogliamo salutarti in allegria e vogliamo che ti ricordi di noi». Rosa dal canto suo si era scusata: «Sarei rimasta di più, la compagnia è simpatica, e voi siete state come figlie per me, ma non posso permettermi di stare qui, e non andare là dove i miei figli sarebbero voluti arrivare. Avevo tre figli nel gruppo degli scout ebrei sionisti. Ogni tanto mi sembra come se fossero arrivati in Palestina e mi aspettassero laggiù».
L’abbiamo rifornita di vestiti, panini e di un thermos pieno di caffè, il furgone che pattuglia intorno a noi l’ha portata alla stazione ferroviaria.
Ci siamo fermate sulla soglia e l’abbiamo accompagnata con lo sguardo. Non è stato facile dirle addio. Ci ha lasciato senza il suo affetto materno, e per tutto il pomeriggio siamo rimaste confuse, inquiete. Meno male che Erich non si è perso d’animo. Ha continuato a badare alle faccende di casa, è andato a comprare formaggi dai contadini e ha acceso la stufa. La sua semplicità continua a emozionarmi. È stato in quattro campi spietati, ma nessuno di essi ha macchiato la sua anima.
Quella sera abbiamo cantato molto e abbiamo visto Rosa che ci osservava.
«Bambini» diceva, «non state in pena per me. Non merito le vostre preoccupazioni.
Una madre che continua a vivere senza i suoi figli è un corpo senz’anima. Me ne vado in quella terra cui guardavano i miei figli, lì sarò con loro.»
Ma non era sempre stata di quest’umore. Un tempo ci aveva insegnato a cucinare, a fare le torte, a cucire, ci aveva insegnato persino una canzonetta in yiddish. Quando le avevo detto che anche noi un giorno saremmo arrivate in Palestina, lei mi aveva assicurato: «Vi farò da madre nella vostra casa. Lavorerete e studierete e io cucinerò per voi delle prelibatezze».
72
In primavera siamo rimaste con qualche mezzo ebreo ed Erich. Finite le discussioni e i litigi. La gente partiva, e chissà se li avremmo mai più rivisti. Mina piangeva e pareva inconsolabile. Anche per me era duro. Restavo ore e ore seduta senza trovare la forza di alzarmi e preparare da mangiare insieme alla mia amica.
È arrivato un nuovo amico, Thomas, un bel ragazzone che se non fosse per il tic di strizzare gli occhi, che ovviamente non riesce a dominare, somiglierebbe a Carl della fattoria. Quel tic lo rende una persona inquieta, benché nei suoi altri gesti non si noti alcun difetto.
Dopo che suo padre, ebreo, è stato preso e mandato nei campi, sua madre l’ha spedito da una parente in montagna. È rimasto due anni e mezzo nella cantina di casa, a leggere Jules Verne e Karl May, solo la notte poteva salire al piano di sopra, a respirare un’altra aria e vedere un buio diverso.
Thomas si muove con lentezza e circospezione. Le tenebre e il silenzio della cantina li ha ancora dentro le membra. Avrei voglia di dirgli: Thomas, alzati, prendi un cavallo, salici sopra e parti al galoppo. Il cavallo ti restituirà la scioltezza che hai perduto. Assomigli a Carl, e forse sei persino più bello di lui. Il posto chiuso in cui sei rimasto prigioniero ha contratto i tuoi movimenti.
Mi dispiace di non riuscire a vedere i sopravvissuti e ascoltare un po’ di quel che hanno passato. Il padre di Thomas era professore di matematica al liceo in una piccola città non lontano da Hochberg. Di quel che è successo a suo padre Thomas non sa nulla, ma ogni volta che lo evoca, un sorriso teso vibra agli angoli della sua bocca.
L’altro ieri Erich ha messo per iscritto la prima strofa della canzone Amico dell’anima in caratteri latini. Thomas l’ha letta e riletta e alla fine gli ha insegnato la musica e ha detto: «È una preghiera ebraica».
«Non ci capisco niente» ha detto Thomas timidamente.
«Le preghiere non è necessario capirle.»
Thomas ha diciassette anni ma sembra più giovane della sua età. L’infanzia non ha abbandonato i tratti del suo viso. Per due anni e mezzo non ha parlato con nessuno.
Non che la parente di sua madre fosse muta, ma non parlava con lui, si limitava a ripetergli: «Se ti chiedono chi sei, dovrai dire che sei il figlio illegittimo della mia defunta serva Orlia, e io confermerò. Se ti chiedono i documenti, dirai loro che un figlio illegittimo non ha documenti. Se sospettano che tu sia ebreo, dirai loro: Sono incirconciso e sono stato battezzato come si deve».
Ogni settimana ripeteva con lui questa versione. Lui non ha patito la fame, ma il cibo era razionato. Ogni tanto, dopo aver ripetuto la storia, lei diceva: «Sei un parassita, mangi a sbafo. Perché ho avuto questo castigo di doverti tenere in casa?
Tua madre avrebbe dovuto consegnarti insieme a tuo padre. Perché ti ha spedito da me? I cani portano parassiti. Sei un mostro. Perché mi è toccato questo castigo di tenerti? Che male ho fatto?»
Non di rado aveva pensato di fuggire, ma la parente stava bene attenta a tenere la cantina chiusa a chiave. Una volta quasi se n’era dimenticata, ma è stata più svelta di lui e l’ha spinto giù. Da allora non aveva più cercato di scappare. Thomas non racconta davvero, attinge dal mutismo una parola qua e una mezza frase là. Mina ama le sue parole. È vero, quel che non viene detto è più di quel che dice, ma ogni sua parola è come un disegno.
Una sera ha chiesto a Mina che cosa significa essere ebrei. Era una domanda candida. Mina è arrossita dall’imbarazzo e alla fine gli ha risposto: «Anche io sono come te, mezza ebrea, non conosco tutti i segreti».
«Essere ebrei è un segreto?»
«Immagino di sì. È difficile capire l’odio verso di loro. Ti ricordi di tuo padre?»
«Un poco. Era un uomo allegro, ogni cosa lo faceva ridere. Evidentemente non ho ereditato da lui questa spensieratezza. Mia madre diceva: ‘Gli ebrei sogghignano e ridono, sono fatti così’. È vero?»
«Non so che dirti» ha risposto Mina, e qualcosa della timidezza di Thomas ha contagiato anche lei. Alla fine l’ha superata e ha detto: «Mio padre, lui era uno di qui.
Lui considerava immorale ridere».
«Strano» ha detto Thomas.
«Strano cosa?»
«Se gli ebrei soffrono, perché ridono?»
73
Marie, per contro, è tutta frizzante e spensierata. Dall’istante in cui apre gli occhi sino a tarda notte, a letto, lei parla. Le sue parole imbarazzano, soprattutto Thomas, perché lei non ci pensa affatto su. Tutto quel che le viene in mente, lei lo dice: ricordi, immagini colte per strada, e ovviamente le persone che le hanno fatto del male.
Anche lei è rimasta nascosta. Lo zio che l’ha tenuta nascosta non badava solo alle coperte e ai pasti. La notte scendeva giù e abusava di lei. All’inizio parlava dello zio in modo ambiguo, ora è chiaro: lui ha infierito su di lei.
Quando le abbiamo raccontato che Erich è un ebreo sopravvissuto ai campi l’ha guardato un attimo e poi ha detto: «Non è diverso dalle altre creature. Ce ne sono, così, anche nel villaggio in cui sono nata». Non soppesa certo le parole. Quando una cosa non le piace, fa una smorfia. Dalla smorfia si capisce quanto ribrezzo prova.
Il padre ebreo lo ricorda con estrema chiarezza: faceva il venditore ambulante, e per tutta la settimana andava in giro per i paesi di campagna, poi, a fine settimana, tornava a casa, e crollava addormentato sul divano. Lei ricorda di averlo visto soprattutto addormentato. Sua madre non lo amava. Si lamentava: «Pensavo che se mi fossi sposata con un ebreo, avrei avuto tanti soldi. E invece, né soldi né rispettabilità ho avuto da lui», e diceva anche: «Dicono che gli ebrei sono intelligenti.
Mio marito, posso testimoniare, non si distingue certo per intelligenza o cultura, i contadini ne sanno più di lui. Lo fregano sempre. A fine settimana porta a casa solo spiccioli, altro che banconote. E se gli chiedo: ‘È tutto qui quel che hai guadagnato?’, lui risponde: ‘I contadini mi hanno promesso di pagare i debiti ma non hanno pagato’.
‘Perché non li hai menati, non sei mica più debole di loro, no?’ Lui mi guarda inebetito, come se gli avessi rivelato chissà quale segreto».
Marie sa fare i versi degli animali e imitare le persone. Fa sua madre e il fratello di lei da cui è rimasta nascosta, descrive il corpo grande e curvo di suo padre. «Dorme sempre» si lamentava sua madre. «E a me invece piaceva proprio vederlo dormire.
Era il sonno di una persona oppressa dalla vita, e quando tornava a casa scaricava il sacco dalle spalle e crollava. Non so se fosse un’anima semplice o un saggio. Era stanco, questo sì, lo so.»
«Se arrivasse qui lo riconosceresti?» le ho chiesto in modo sgarbato.
«Il viso addormentato lo riconoscerei facilmente. Ma da sveglio, non ne sono sicura.»
Da quando Marie è arrivata qui, il posto è in fermento. Lei ci riempie di descrizioni e confessioni. Mina l’ha già rimproverata, seppure dolcemente. Al sentire questo rimprovero, lei ha detto: «Sono stata prigioniera nella cantina dello zio per tre anni, ho un certo diritto di parlare, ma non preoccupatevi, fra poco tacerò. Posso tacere una settimana intera, persino un mese. Questo l’ho ereditato da mio padre, credo. Il suo sonno era un grande silenzio. Una volta è successo che papà ha continuato a dormire anche il lunedì, quando di solito partiva per i suoi giri. Mamma lo ha aggredito come una bestia feroce, urlando e imprecando, senza mollare finché non l’ha spinto fuori di casa. Strano, quell’uomo grande e grosso non ha fiatato e nemmeno alzato le mani. È
rimasto lì, stordito, e poi se n’è andato. Così me lo ricordo, così dunque resterà inciso nella mia memoria».
I sopravvissuti ci hanno lasciato, ma i loro spiriti sono rimasti in ogni angolo. Ogni tanto vedo Yeti e anche Rosa, partita per la Palestina. Meno male che Erich è rimasto con noi. Anche se brontola e sostiene di non essere affatto un ebreo in tutto e per tutto. I suoi avi sì, loro erano ebrei, lui no. Lui è il loro resto.
Non sono d’accordo con lui. In tutti i suoi gesti io sento che ha intenzione di comportarsi bene con gli altri, e non dire quello che sa: lui sa lo yiddish e l’ebraico, il suo corpo è pieno di melodie tradizionali. Le melodie ci nutrono mattina e sera. Ogni tanto ci facciamo prendere dal canto fino a tarda notte. «Chi ha nel corpo melodie come queste, è ebreo sino al midollo» gli ho detto. All’udire le mie parole abbiamo sorriso insieme, ma lui non era d’accordo con me. «Forse prima o poi vi capiterà di vedere un ebreo in tutto e per tutto» ha detto, e poi non ha aggiunto più niente.
I mezzosangue, comunque, non sono sereni. Ci sono giorni in cui la loro esteriorità li disturba e altri in cui guardano alle loro anime.
Una sera Mina mi ha detto: «Tu sei stata temprata all’inferno, lì sono state dette cose che dobbiamo sapere?»
«Non so che dirti. Sento che se Dio mi ridarà mia mamma, andrò con lei in Palestina e là completeremo ciò che manca. Mamma, immagino, sarà contenta di venire con me. Fra gli ebrei, lo sento, sarà tutto più facile per noi» ho aggiunto, sorpresa io stessa dalle mie parole.
«Solo in Palestina si può essere ebrei?» ha domandato Mina.
«In Palestina è più facile acquistare le qualità ebraiche.»
«Di che qualità parli?»
«Dell’amore di Dio e per l’uomo» ho risposto, pentendomi subito di quelle parole così solenni. Mamma mi aveva insegnato che solo le parole piccole, che si possono quasi toccare, sono degne di essere proferite. Quelle grandi, sarebbe meglio che restassero riposte. Mamma mi aveva insegnato tante cose, che solo ora tornavano a me.
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La mattina ci alziamo di buon’ora, prepariamo insieme la colazione, spazziamo e laviamo la baracca, e poi ci sediamo a tavola e Erich ci insegna parole nuove in yiddish e in ebraico. Il pomeriggio leggiamo poesie in yiddish e in ebraico. Nelle prime ore della sera mettiamo in tavola due bricchi di caffè e cantiamo sino a tardi.
Durante una lezione Marie è scoppiata in un riso misto a pianto. «Non ero una brava scolara, e c’è da supporre che anche adesso non farò faville. La mia maestra sosteneva che non mi concentravo, e per questo andavo male negli studi. La scuola è stata la mia prima disgrazia. Tutti mi prendevano in giro e mi davano della scema, ma io ero forte come mio padre, solo che a differenza di lui ero incapace. L’insegnante mi castigava e mia madre mi chiudeva nel magazzino.»
Ogni giorno Marie svela un pezzetto della sua vita, ma quel che resta da scoprire è tanto di più. Mentre Charlotte è tutta occhi e ascolto. Di rado la si sente proferire qualcosa. Ha diciannove anni, è la più grande tra di noi. Ci si aspetterebbe che una donna così grande esprimesse opinioni, e con decisione, ma lei no. Lei è così introversa, e il silenzio che il suo corpo emana le viene dietro ovunque vada.
«Come ti senti, Charlotte?» le ho chiesto solo per sentire la sua voce. Charlotte mi ha rivolto uno sguardo come a dire: Che vuoi sentire da me? Faccio fatica a parlare.
Ho imparato ad ascoltare. Parlare mi è difficile. Ho chinato il capo e non l’ho più importunata.
La presenza di Charlotte riempie lo spazio della baracca di un silenzio da monastero, dove infatti è rimasta sotto falso nome per più di tre anni. È un silenzio vigile il suo, che capta le parole nuove e le ripete con il suo accento.
A volte sembra che voglia esprimere qualcosa o farsi prendere dallo slancio di Marie. È un errore. Gli anni nel monastero l’hanno resa una creatura indipendente dagli altri. Non ha bisogno di nessuna compagnia. A volte si siede sul suo letto, con gli occhi sgranati, assorbe la luce e ascolta.
Così, un giorno dopo l’altro. A volte arriva da noi un ospite di passaggio, chiede ragguagli sul posto, e se ne va come se niente fosse. Ieri è comparso un sopravvissuto che ha detto di voler andare in Australia. Un cugino gli ha mandato il biglietto e adesso, prima di lasciare il continente per l’eternità, va di luogo in luogo, chissà che non ritrovi un fratello o una sorella. Lo fa perché ha imparato che la gente che uno crede morta si trova magari in luoghi diversi e strani.
Mina gli ha offerto un pasto caldo e lui ha parlato con uno strano entusiasmo.
Difficile sapere se fosse contento del viaggio in Australia o della debole speranza di trovare qualche familiare. Thomas stava seduto un po’ discosto, e ne seguiva i gesti.
Quando ha finito di mangiare ha alzato il capo e ha chiesto: «Avete per caso incontrato qualcuno di nome Shatz? È un nome molto ebraico. O forse Gutsman?
Anche questo è un nome ebraico».
«No» ho risposto.
«Vedo che state studiando lo yiddish e l’ebraico. Dovete sapere che prima della guerra ci fu una grande discussione fra i bundisti, i quali sostenevano che la vera lingua degli ebrei fosse lo yiddish, e i sionisti, per i quali doveva essere l’ebraico.
Vedo che voi ignorate questa diatriba. E fate bene.»
«Tu sai lo yiddish e l’ebraico?» ho chiesto.
«Certo. Ogni ebreo di Galizia conosce lo yiddish e l’ebraico. Non so quale sarebbe il destino di queste lingue sante, senza ebrei. Una lingua senza parlanti è come uno spirito senza corpo. Fate bene a studiare. Non mi aspettavo certo di trovare gente che studiasse le lingue sante. Siate benedetti. Io me ne vado per la mia strada. Ho ancora due settimane. Chi è stato nel campo sa che le probabilità di trovare degli scampati sono molto poche. Ma bisogna cercare. Qualcuno l’ha già detto, mi pare, che l’uomo non deve mai disperare, anche quando ha la spada sul collo.»
Volevamo che pernottasse da noi, ma lui ha detto: «Debbo andare. Se capitasse qui qualcuno che si chiama Shatz o Gutsman, ditegli che io, Mordekhai Gutsman, sono emigrato in Australia». E con queste parole ci ha abbandonati.
Quella notte abbiamo bevuto molto caffè e abbiamo cantato molto. Cantiamo seguendo l’ordine che ci ha insegnato Erich. È un lungo cerimoniale di alti e bassi.
Una volta regna la malinconia, un’altra la gioia. Marie non riesce a star dietro a questo ritmo. Ogni tanto scoppia a ridere o a piangere, ma questi suoi sfoghi non fermano il flusso delle melodie.
Quella notte Mina mi ha detto una cosa che non dimenticherò mai: «Non riesco a farmi uscire dalla testa quel sopravvissuto che vuole andare in Australia. Ce l’ho piantato davanti agli occhi. La sua inquietudine non mi dà pace».
«Che cosa provi?» ho cercato di capire.
«Provo il suo dolore infinito, e ho paura che il suo viaggio in Australia, sia una disgrazia.»
Non sapevo cosa ribattere, alla fine ho detto: «Dio lo salverà come lo ha salvato dai campi» e mi sono subito pentita di queste parole vuote uscitemi di bocca.
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L’estate è bella, in questo periodo. Piove di notte e la mattina il cielo è limpido, il fogliame fresco. Noi impariamo parole nuove ma soprattutto cantiamo. Marie è contenta della compagnia, ma senza una caraffa di birra al momento giusto diventa di cattivo umore e il mondo le sembra un inferno. Se il Joint ci rifornisse di qualche bottiglia di birra, noi e lei staremmo meglio.
Verso sera se ne va all’osteria nelle vicinanze. Un’oretta o due in birreria la rendono una donna diversa. Gli occhi diventano sporgenti, le guance si fanno rosse e l’umore alto, allora dice subito: «Gli ebrei sono un popolo meraviglioso, bisogna fare uno sforzo e imparare bene yiddish ed ebraico. Mio padre doveva essere una persona arrendevole. Se invece avesse picchiato mia madre, lei l’avrebbe trattato come si deve. Ma papà dormiva, e quando si dorme non si picchia nessuno, si lotta con gli spiriti maligni. Ogni tanto ho l’impressione che anche io dovrei dormire. Il sonno cancellerebbe i miei anni brutti, e sarei una donna nuova. Vi racconterò ancora, quando verrà il momento, che cosa mi hanno fatto i miei parenti, voi mi sarete testimoni e giudici». Ogni tanto se ne viene fuori con una storia nuova. L’altro ieri ci ha raccontato dei tre terribili aborti che ha avuto.
Thomas è attivo, studia e ripete. Difficile sapere se sia contento di quel che fa. È
diligente e bravo in tutto, anche quando lava i piatti nel lavandino. Marie lo chiama
«il nostro bravo bambino», benché abbia solo due anni più di lui. Thomas ha una voce molto amabile, quando canta in yiddish o prega tutti chiudono gli occhi e ascoltano compresi. Erich ha detto: «Non sono certo un cantore né lo sarò mai, ma una voce come quella di Thomas è cosa rara, credetemi».
Fra un’attività e l’altra ascoltiamo la musica. Tutti noi qui, compresa Marie, amiamo la musica. Ogni tanto questo posto sembra una casa di preghiera muta, in cui ognuno sta chiuso in se stesso, attingendo dal silenzio.
Erich a un primo sguardo sembra una persona cupa. Né la statura né il viso dicono nulla di particolare: è di altezza media, ha gli occhi un poco curvi, passa quasi tutto il giorno a sistemare la baracca insieme a noi. Anche durante le lezioni, non è che si faccia notare. Legge alcune volte la strofa di una poesia, spiega le parole e noi subito restiamo avvinti dalla melodia di quella strofa. Ultimamente ci ha insegnato la preghiera Signore del mondo, con la sua sommessa melodia.
Quando Erich canta il suo viso cambia, non è più grigio e anonimo, e si vede che si sente in comunicazione con un mondo che a noi è negato. Una volta ci ha quasi detto che non è il suo mondo e nemmeno quello dei suoi genitori, bensì dei suoi nonni.
Ho sognato mamma, era giovane, radiosa e mi sorrideva sulla soglia di casa. Mi piaceva rivederla quando tornavo da scuola. Le ore trascorse nel banco accrescevano la nostalgia di lei. La paura di non trovarla a casa stava sempre annidata in me, sin da quando mi avevano portato a scuola per la prima volta, e ogni volta che tornavo e la ritrovavo, ne ero immensamente felice. Anche adesso, nel sogno, ero felice di vederla, la abbracciavo e dicevo: «Che bello vederti, mamma».
«Com’è andato il compito in classe?» chiedeva.
«Questa volta era difficile» non le nascondevo.
«Sono sicura che è andato benissimo» diceva lei, scacciando le nubi che aleggiavano sopra la mia testa. Provavo sollievo, ed ebbi ancor più fiducia che mamma mi avrebbe sempre aspettato lì.
Intanto, qui le notti sono alte e vigili. Erich ci guida con prudenza verso il luogo in cui queste melodie entrano in comunicazione con i nostri segreti. Ogni tanto fa male, ma dopo che il dolore è passato giungono sollievo e soddisfazione. All’inizio avevo il presentimento che lo yiddish e l’ebraico non fossero soltanto parlate diverse, ma che rappresentassero anche diversi livelli di spiritualità. Adesso lo yiddish e l’ebraico mi paiono lingue gemelle.
Mina ha sognato che veniva con noi in Palestina. «Cantiamo e preghiamo e il nostro canto si confonderà nello sferragliare del treno, sempre più forte.» D’un tratto ha visto Rosa: «Rosa mi diceva subito che aveva deciso di non andare da sola, e aveva sempre aspettato noi, e ‘Grazie al cielo siete arrivati sani e salvi’ aggiungeva compiaciuta».
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Il nostro posto dunque si è fatto una reputazione: vengono da lontano, qui da noi.
Perlopiù mezzosangue, ma anche alcuni ebrei per un quarto per i quali la remota, dimenticata questione ebraica è una specie di tarlo. «Siete ebrei?» domandano.
«Ancora no» risponde Mina. Nell’udire questa risposta, ammutoliscono.
Così ci presentiamo ai nostri fratelli. Sono prudenti, circospetti. Non c’è da stupirsi: gli anni di clandestinità non hanno foggiato soltanto il loro percorso. I loro timori, chissà se si potranno mai fugare; ma quando capitano qui da noi e vedono con i propri occhi quanto gli assomigliamo, un sorriso di felicità affiora sui loro volti.
Alcuni restano qui da noi un giorno o due, alcuni si accontentano di una giornata.
Non c’è da preoccuparsi, torneranno. Qualche giorno fa è arrivato uno della Cecoslovacchia e ci ha subito detto: «Sono ebreo per un quarto e voglio completare ciò che manca. Potrò farlo qui?»
Mi guardo intorno: la lunga baracca è cambiata, col passare del tempo, e quasi non la si riconosce più. Sono spariti tutti i tratti militari, aspri, persino i tavoli e le sedie, rigidi e squadrati, hanno perso la loro severità. Ci sono delle tovaglie, le sedie le abbiamo foderate con dei cuscini. Non hanno più quella tinta fiera: sembrano mobili che si usano nella vita normale.
I sopravvissuti che si fermano qui ci lasciano qualche loro opera. Uno ha fatto una cassetta decorata, un’altra ha ricamato una tovaglia, un bravo artigiano ha trasformato una sedia in una poltrona, l’ha foderata e ora è molto comoda.
Anche le pareti non sono più come prima. Rosa ha ricamato un quadro con al centro la parola «Oriente», memento del fatto che gli ebrei guardano in quella direzione.
Le figure dei sopravvissuti sono in ogni angolo, in ogni letto. L’altro ieri mi è tornata in mente Yeti, che se ben ricordo era andata a cercare mamma in quel misterioso sanatorio di cui tutti parlano in modo enigmatico. Quando l’avevo vista per la prima volta, non avevo creduto ai miei occhi. Assomigliava a mamma, ma più piccola, più magra. A forza di immedesimarsi in mamma, aveva finito per assomigliarle. «Yeti» ho esclamato spaventando la gente intorno a me.
La luce del giorno si protrae fino a tardi, così stiamo a lungo seduti a cantare. Ieri Thomas ci ha stupiti raccontandoci un po’ dei tormenti subiti quando era dalla sua parente. Come ho già detto, Thomas è molto taciturno. D’un tratto ha aperto bocca per dire: «La mia parente mi sorvegliava a vista, perché non scappassi. Quando non ce la feci più a sopportare il buio e l’odore di muffa, le chiesi di consegnarmi alla polizia. Lei rimase di sasso per un attimo e poi disse: ‘Ti uccideranno’. ‘Voglio morire’ le dissi io. La sua risposta fu: ‘Meglio che tu muoia da me, piuttosto che in campo di concentramento. Chi muore in campo di concentramento lo bruciano e non ne resta ricordo’. ‘Non voglio che resti di me alcun ricordo’ affermai con decisione.
Ma lei di nuovo mi colpì dicendo: ‘La parte di ebreo che è in te sarebbe meglio morisse, ma non dimenticarti che hai anche una parte dei nostri, e quella va conservata’. Sosteneva che dopo la guerra mi avrebbe liberato della parte di ebreo che era in me, e allora sarei stato finalmente libero. ‘Ma finché si trova in me una parte di ebreo, non mi resta altro da fare che starmene in cantina. Allora che cosa farai per liberarmi dall’ebreo che è in me?’ Al che rispose: ‘So esattamente che cosa fare’.
«Alla fine della guerra alcuni soldati americani si sono fermati davanti a casa. Ho urlato a squarciagola: ‘Liberatemi’. In effetti loro sono entrati in casa e mi hanno liberato. La mia parente è caduta in preda a un attacco isterico. Ho raccontato ai soldati che sono mezzo ebreo, e per questo lei mi aveva relegato in cantina. Quelli non devono aver capito che cosa stavo dicendo. Mi hanno rivestito, mi hanno dato da mangiare e mi hanno chiesto dove volessi andare. Ho detto loro: ‘Voglio andarmene.
È tutto quello che desidero’. Allora mi hanno dato uno zaino pieno di conserve e biscotti, e ho marciato per giorni e giorni finché non sono arrivato qui».
Marie non si è trattenuta, si è avvicinata a Thomas e gli ha detto: «Devo abbracciarti e darti un bacio. Sei coraggioso, molto più coraggioso di me». Charlotte si è alzata, l’ha guardato dritto negli occhi e ha detto: «Tu sarai ebreo. Non ho dubbi che lo diventerai».
Da quando Charlotte è venuta da noi, siamo più cauti con i discorsi. La quiete che la circonda ogni tanto brucia. A tratti sembra che stia per cadere in ginocchio davanti al quadro appeso al muro, quello che ha ricamato Rosa, e che tutti noi faremo lo stesso.
Una sera, al suo ritorno dall’osteria, tutta profumata, Marie ha chiesto a Charlotte:
«Che ha fatto il monastero al tuo corpo e alla tua anima?», e tutte noi temevamo che fosse una domanda fuori luogo, e che sarebbe stato meglio non farla.
Charlotte non ha risposto. Ha stretto gli occhi, fissando il volto sfacciato di Marie con un’aria torva. Marie si è fatta un po’ indietro e poco dopo è scoppiata in un pianto tale da farla sussultare tutta. Non sapevamo come calmarla, e avevamo la sensazione che quello sguardo di Charlotte avesse smosso qualcosa nel corpo di Marie, che ora colava sangue e pus: bisognava metterla a letto.
È così da noi: pochi discorsi, nessun litigio, ma ogni tanto una parola o una frase che non intende far male e invece ferisce, toccando un tasto delicato, e scuote tutto il corpo.
Quella sera ho sentito intensamente che siamo una nuova tribù. Ci sono cose fra noi, in mezzo a noi, che mi stupiscono e a volte suscitano in me inquietudine, ma quando siamo insieme e ci guardiamo l’un con l’altro, sentiamo una grande intimità.
A differenza degli ebrei in tutto e per tutto, lo stare insieme, foss’anche temporaneo, ci dà molta gioia. Marie, in un momento di esaltazione, ha aperto la bocca e ha chiesto: «Perché vi voglio bene?»
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Mentre il sole va calando e le morbide luci passano davanti alla finestra aperta, mentre in cortile dimora la quiete della sera, vediamo un carretto attaccato a un cavallo. Un gruppo di donne sta intorno al carretto. Di lontano paiono stanche contadine di ritorno da una giornata di lavoro, ma quando si fanno più vicine riconosciamo in loro un’aria di tristezza. Non si sentono né lamenti né urla di dolore, ma procedono lente, composte, e la scena mi fa venire in mente un povero funerale di campagna. Ma dov’è il prete che guida il corteo? Ben presto notiamo un uomo anziano che procede a passo lento accanto al cavallo.
Quando sono a circa duecento metri dal cancello, lo riconosco: non è altri che Manfred. Gli sono andata incontro di corsa.
Manfred mi ha rivelato subito che ha trovato mamma in un ospedale da campo dell’esercito americano. «Hanno curato Ghisele con somma dedizione e hanno fatto di tutto per salvarla. Ho fatto in tempo a dirle di te, ma subito dopo ha chiuso gli occhi e non li ha più riaperti.»
Le donne che scortavano il carretto mi hanno guardato sorprese, si aspettavano che dicessi qualcosa. Ma io non sapevo che dire.
«Sei la figlia di Ghisele?» mi ha chiesto una.
«Proprio così» ho risposto.
«Siamo state con Ghisele in tutti i campi, anche in quello tremendo detto
‘sanatorio’. All’ultimo momento, qualche ora prima che ci soffocassero, il campo è stato abbandonato, i guardiani sono scappati, e noi siamo rimaste fra la vita e la morte. Ghisele non aveva più forze per tornare alla vita, ma tu, Dio onnipotente, assomigli moltissimo a tua madre. Manfred ci ha raccontato di te, e così abbiamo deciso di venire per accompagnare insieme tua madre all’altro mondo. Tua madre era una donna meravigliosa. Quel che ha fatto per noi, non c’è modo di raccontarlo. Ci ha salvato ogni giorno.»
Gli occhi attoniti delle donne continuavano a esprimere stupore. Avevo l’impressione che volessero farmi molte domande, ma capissero anche che non era il momento giusto.
La cassa avvolta in un drappo nero mi sembrava stretta e piccola, lì sul carro di Manfred, avrei voluto chiedere se non era troppo angusta per il corpo di mamma, ma ho subito capito che non era una domanda, bensì una sensazione, e così sono rimasta zitta. Alla fine non ho potuto fare a meno di domandare: «Cosa ha detto mamma?»
«Che cosa poteva dire? Negli ultimi giorni al campo era più debole di noi. Dopo la fuga dei sorveglianti, le bisbigliavamo continuamente nelle orecchie: «Il campo è stato abbandonato, i guardiani sono scappati, apri gli occhi, Ghisele», ma lei non ce la faceva più.»
Quella sera non ho capito che mamma era morta. Mi sembrava che mi stesse parlando per bocca di quelle donne che me l’avevano riportata, e che presto, quando si fosse ripresa dalla stanchezza del viaggio, sarebbe uscita dalla bara e mi avrebbe parlato direttamente.
Manfred mi stava accanto, senza dire nulla. Ero vuota di sentimenti, anche di dolore. Le donne, che erano stanche, si sono sedute per terra. Charlotte e Marie hanno servito una bevanda, avevano tanta sete e ne hanno chiesto ancora.
Intanto è arrivato il rabbino militare. Sembrava un gigante, in uniforme. Si è guardato intorno e ha chiesto: «Dov’è la figlia?»
«Sono io» ho risposto.
Ha chinato il capo e ha detto: «Seppelliremo tua madre al cimitero dei santi a Himmelfarb. Stanno per arrivare due furgoni. Uno servirà per la cassa e i soldati che pregheranno, l’altro per il corteo funebre».
«Queste sono le amiche di mamma» ho detto con la voce strozzata.
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Da qui in poi ogni cosa è impressa a fuoco in me: l’arrivo dei due furgoni; il caricamento della bara su quello davanti; i dieci soldati che salgono ordinatamente a bordo per la preghiera, tutt’intorno alla bara; il gruppo di donne che erano venute con mamma. I furgoni sono partiti adagio, accompagnati dagli sguardi curiosi nei cortili e sugli usci delle case.
Al cimitero di Himmelfarb siamo arrivati nel giro di un’ora. Il rabbino ci ha ordinato di entrare nella stanza per la purificazione, che per molti anni era stata fuori uso, ma tutti gli sforzi dei soldati per sfondare la porta e spezzare i lucchetti non sono valsi a nulla. Alla fine il rabbino ha deciso di purificare il corpo di mamma nell’acqua del ruscello che scorreva vicino al cimitero. A me ha proibito di partecipare a quest’ultimo, pietoso rito, così sono rimasta presso il muro di cinta.
Per un attimo ho avuto l’impressione che si trattasse di una cerimonia simbolica, alla fine della quale mamma sarebbe risorta dalla sua morte temporanea e si sarebbe alzata in piedi. Avrei voluto chiedere al rabbino il significato di quella cerimonia, ma lui girava per il cimitero cercando di decifrare le scritte sulle lapidi.
Nel frattempo si è finito di scavare la fossa, allora le donne hanno portato mamma avvolta in un sudario bianco. Le donne piangevano e io ero paralizzata. Marie, che cercava continuamente di sfuggire alla stretta delle mani e di strillare o chissà che, alla fine si è abbandonata a un piagnucolio ubriaco.
Il rabbino l’ha ignorata e ha levato la sua voce in preghiera. A me la sua voce sembrava un po’ troppo su di tono, avrebbe fatto meglio a tenere a freno quei gorgheggi.
Dopo di che hanno calato mamma nella tomba. Una donna che le assomigliava ha implorato: «Attenti, Ghisele ha già sofferto fin troppo». La voce ha fatto tremare per un attimo le mani dei becchini, ma loro hanno continuato a gettare la terra per coprire la cassa. Il rabbino stava pregando. Ora le sue preghiere erano più sommesse. D’un tratto si è spalancato un grande, minaccioso vuoto. Mina evidentemente l’ha sentita, questa minaccia, così ha esordito con la preghiera Amico dell’anima e i miei amici si sono subito uniti a lei. Poi Thomas ha cantato Signore del mondo e io avevo la sensazione che stessimo innalzando mamma, rendendo insomma più lieve la sua ascesa al cielo. La luce del giorno, che si conservava fino a tardi, ora si andava offuscando. Alla fine i miei amici sono rimasti zitti e si sono seduti intorno alla tomba scavata di fresco.
Il rabbino ha esclamato: «Il funerale è terminato, il corteo è pregato di salire sui furgoni». Ora si notava quanto fosse alto e robusto. I soldati hanno subito obbedito all’ordine e sono corsi verso la vettura, e per un attimo pareva che da quel momento in poi quel gigante con la sua voce imperiosa ci avrebbe sempre tiranneggiato. Ma mi sbagliavo di nuovo. Era un gigante buono, che ci ha lasciato tutto il tempo di prendere congedo dal posto. Le donne mi sono venute vicino, mi hanno abbracciato e baciato, hanno ripetuto che assomiglio tanto a mamma. Sentivo che mi stavano imponendo dei compiti al di là delle mie capacità.
Nello spiazzo davanti alla baracca il rabbino mi ha detto alcune frasi di quelle che si dicono alle persone in lutto. Non le ho capite, mi sono limitata a chinare il capo.
Sentivo di dover cominciare a prepararmi per il ritorno di mamma, ma perché quel gigantesco rabbino ci lasciava? Noi avevamo bisogno anche di energie fisiche, no?
Stavo per chiedergli di restare con noi, ma lui stava già ordinando agli autisti dei furgoni di tornare alla base.
Ho anche provato a convincere le donne a restare con noi, almeno per i giorni di lutto, dato che avevamo il magazzino pieno di vestiti e viveri, ma loro hanno risposto che dovevano tornare al campo, a raccogliere le loro cose per poi andare a casa. E io ho rivisto i nostri sopravvissuti, ansiosi di andare, e mi è dispiaciuto che anche loro fossero prigioniere dell’illusione di ritrovare lontano da qui, nelle loro città, i propri cari.
Una donna mi è venuta vicino e mi ha sussurrato all’orecchio: «Io a casa non ci torno. Io vado in Palestina. La Palestina è la nostra grande speranza».
I furgoni sono ripartiti, anche questa volta di fretta.
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Quella sera stessa avevo dei brividi freddi e mi sentivo debolissima, come quando avevo il tifo. Ho chiuso gli occhi e sono stata immediatamente assorbita dalla tenebra ardente, che mi ha portato di qua e di là. Alla fine ero chiusa dentro una bara, già senz’aria. I soldati che avevano pregato al funerale di mamma cercavano di aprire la cassa, ma la mazza e lo scalpello non servivano a niente. Ero stupita del fatto che dei soldati facessero tanta fatica per aprire una semplice cassa di legno, e urlavo: «Segate la cassa e liberatemi», ma loro evidentemente non sentivano la mia voce. Alla fine crollava il fondo della bara e io cascavo giù, e mi sono svegliata.
Ho visto i miei amici ed ero contenta di ricordarmi i loro nomi. Mina mi ha chiesto se mi sentivo meglio, ma io non riuscivo a muovere le labbra. Il medico che mi ha visitato ha prescritto di lasciarmi tranquilla, senza disturbarmi. Era bello, e mi stupivo che Charlotte non facesse la svenevole con lui. Ho cercato di alzare la gamba destra ma era pesantissima, come legata al letto.
Poi devo essermi addormentata ed ero di nuovo chiusa nella bara. Sentivo la voce di Thomas che cantava sommessamente Signore del mondo, mentre Marie intonava Uvetta e mandorle. La voce di lei contro quella di lui. Lei poi gridava: «Me nel campo non mi hanno bruciato, me mi hanno violentato ogni notte, e anche due volte per notte. Ho avuto tre aborti, e non potrò più avere figli cui cantare la ninnananna, ma darò a ciascuno di voi uvetta e mandorle, visto che siete i miei bambini».
Mi sono risvegliata, ma questa volta ho deciso di non addormentarmi più. Ho sentito la melodia serale di una nuova nenia che Erich stava studiando seduto al tavolo. Mi è dispiaciuto di aver perso quella lezione. Mi sono seduta sul letto, sostenendomi con le mani.
I miei amici si sono accorti che ero sveglia e mi sono venuti intorno. Avevo sete, ho bevuto uno dopo l’altro svariati bicchieri d’acqua.
«Non lasciatemi più dormire» ho chiesto.
Erano stupiti di questa mia richiesta, ma non hanno detto niente.
Intanto mi sono accorta che c’era Manfred seduto in un angolo. «Manfred» la voce è sbucata da dentro di me, «dove sei stato?»
«Ero qui» ha detto a voce bassa.
«Perché non sei venuto con noi al funerale?»
«Non sapevo se mi era permesso.»
«Tu?»
«Non sapevo se era permesso a un non ebreo di essere presente al funerale» ha detto alzandosi in piedi.
«Sei un caro gentile, una persona davvero amabile» non ho potuto fare a meno di dire.
Poi sono di nuovo sprofondata nel sonno. Ho visto mamma in poltrona, come dopo una lunga giornata di bucato. Adoravo il profumo dell’amido e il bucato appeso in cortile. Mi avvicinavo e ci strusciavo la fronte. Mamma non reagiva, ma d’un tratto apriva gli occhi e diceva: «Mio tesoro, come hai fatto ad arrivare da me?»
«È stato facilissimo» rispondevo io, «ho aperto la porta e sono entrata.»
«Strano» diceva mamma.
«Che c’è di strano qui?»
«Ero in un altro posto e adesso sono di nuovo qui. Dove sono le mie amiche?»
«Sono state al tuo funerale.»
«E perché sono di nuovo qui?»
«Perché in questa casa sono nata io e qui mi hai allattato.»
«Devo aver perduto la nozione del tempo» diceva mamma, e la testa calava verso lo schienale della poltrona.
Durante i giorni di lutto sono stata attorniata dai canti dei miei amici. La loro voce era limpida e all’altezza giusta. Lo attribuivo a Charlotte, che aveva trascorso anni in convento. Non lasciavano mai il mio letto e ogni volta che tentavo di alzarmi mi prendevano per mano e mi davano da bere del succo di mele. Ho fatto molti sogni, ma non me li ricordo. Uno solo mi è rimasto impresso: mamma con un vestito leggero, bianco, ferma presso un’acacia, che dice: «Questa fioritura mi meraviglia sempre».
Mi sono un poco ripresa. I miei amici continuavano a studiare le lingue sante e imparavano canti nuovi. Io ascoltavo, ed ero rattristata perché non potevo prendere parte a questa gioia. Ma i sogni erano nitidi. In sogno volavo sulle onde del mare, circondata di persone che avevo conosciuto al campo, sopravvissuti che avevo curato nell’infermeria. Marie piangeva sempre ed era inconsolabile. Sosteneva che il suo ebraico e il suo yiddish fossero disastrosi, e che per questo non era degna di venire in Palestina.
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Per tutti i giorni di lutto sono stata debolissima, quasi non mi reggevo in piedi.
Manfred stava seduto su un’asse non lontano da me, e vegliava sul mio sonno.
Alla fine della settimana di lutto siamo andati tutti insieme sulla tomba di mamma e abbiamo cantato tanto, per lei. Dei villani di passaggio si sono fermati, stupiti. Ci distraevano un po’ e allora Manfred ha detto loro di andarsene e di lasciarci in pace, ma loro niente. Alla fine Manfred ha urlato.
Verso sera Manfred e io siamo tornati con il carretto e gli altri a piedi. Manfred mi ha raccontato delle sue ricerche e dei suoi vagabondaggi finché non ha trovato mamma in quel campo misterioso, dove venivano deportati i più deboli. Quando l’ha trovata, lei ormai non parlava più. Le sue amiche le frizionavano la fronte con lo spirito e cercavano di tenerla in vita con sussurri e discorsi. Manfred mi ha anche svelato che ora ha in mente di tornare a casa e trascorrere da solo quel che gli resta da vivere. «Presto compirò settantatré anni. I miei avi sono morti a questa età, e c’è da supporre che anche io me ne andrò dal mondo a questa età.»
«Sono stato troppi anni in questo mondo, ho visto troppo. Adesso che Ghisele ha trovato pace, sento che tocca a me riposare.» Il suo vecchio volto non mi sembrava vecchio, così gli ho detto che vorrei ascoltare da lui le cose che sa solo lui.
«Non ho niente di allegro da raccontarti.»
«Vorrei sapere di più su mio padre.»
«Ci sono cose che è meglio non sapere. Non danno nulla, se non dolore.»
Sono riuscita a stare ancora un po’ con Manfred, a bere con lui una tazza di caffè e osservare il suo viso, i suoi gesti. Non l’ho afflitto con troppe domande. Mentre mi sedeva vicino, io vedevo il suo magazzino alla fattoria e mamma sulla soglia di casa.
Al calar del buio, Manfred si è alzato e ha detto: «È giunta per me l’ora di tornare a casa mia».
«Che fretta c’è?»
«Non sono io ad avere fretta, è la mia ora.»
Mi spiaceva che lui mi lasciasse, ma capivo che era deciso e non ho insistito. L’ho accompagnato sino al carro. D’improvviso mi sono venute le lacrime agli occhi, e quasi non mi reggevo in piedi.
«Mia cara, resterei volentieri, ma voglio trascorrere i miei ultimi giorni vicino alle cose che sono state con me tutti questi anni.»
Ho soffocato il pianto e ho chiesto scusa.
Manfred mi ha abbracciato e ha detto: «Tua madre era una donna meravigliosa, e sono sicuro che ti protegge, di lassù».
Sono rimasta a lungo ad accompagnare con lo sguardo il carretto che si allontanava, e intanto si faceva sempre più forte in me la fiducia che questa separazione da Manfred fosse temporanea, che prima o poi lui mi avrebbe raccontato tutto quello che ancora non mi aveva raccontato e insieme saremmo andati nei posti in cui eravamo soliti andare.
Ero sfinita, come dopo il funerale. I miei amici stavano cantando con devozione e io mi sono seduta sul letto senza vedere altro che le luci danzare e Marie seduta su una sedia, il viso irrigidito dai troppi caffè che gli amici le avevano fatto bere, e mi è dispiaciuto per lei e per la sua allegria ormai spenta. Quella notte ho sognato che ero su un treno pieno di gente, c’era un grande affollamento, e stranamente scoprivo che erano i sopravvissuti di cui mi ero presa cura, fra cui anche Yeti, Rosa e Zweig, che era morto. «Dove state andando?» chiedevo a uno di loro. «In un posto che ci ha detto Dio» rispondeva senza battere ciglio.
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I giorni seguenti sono trascorsi sulle ali del canto. Avevamo paura del silenzio.
Ogni volta che dei brutti pensieri facevano capolino dai loro nascondigli, ci affrettavamo a soffocarli con le canzoni. Marie non si era affrancata dalla birra e dal bere. Anche Mina e Charlotte ogni tanto tiravano un goccetto dalle bottiglie di cognac che i sopravvissuti ci avevano lasciato. Io temevo che un giorno o l’altro si trovassero dei ragazzi e mi abbandonassero. Da quando Charlotte ha cominciato a bere è diventata più bella, noi siamo incantati da lei. Mentre a Mina il cognac non fa bene. Il suo viso è raggrinzito e sulla fronte sono spuntate delle rughe.
Ogni tanto compare un mezzosangue o una mezzosangue. Noi, come ho già detto, li riconosciamo facilmente e cerchiamo di farli restare. Strano, sono attirati dai canti ma hanno paura di fermarsi qui, e tuttavia Mina è riuscita a tenere qui Max, un ragazzo alto, bello e pieno di impacci nel parlare.
Erich non è cambiato. Sembra uguale al giorno in cui è arrivato da noi. È diligente nel suo lavoro e fra una mansione e l’altra ci insegna una nuova canzone popolare o una preghiera.
Ogni tanto capita uno scampato e noi gli chiediamo di raccontarci della sua città o del campo in cui è stato prigioniero. Ieri è giunto un tizio basso che sembrava una brava persona, disposta a rispondere alle domande. Gli ho offerto una tazza di caffè e della torta di mele, e gli ho spiegato del posto.
La sera ci ha raccontato dei chassidim e del loro stile di vita, e della gioia che ne traggono. «Guai a servire il Signore di cattivo umore. Il cattivo umore ci imprigiona.
Solo nella gioia scopriamo la luce e il nostro cuore si apre alle creature.» Thomas gli ha chiesto se lui era stato un chassid, e la sua risposta è stata: «Sino ai diciassette anni ho seguito le orme di mio padre badando alle piccole cose, ma in seguito questa vita mi è parsa angusta e dissoluta, e sono scappato di casa. Il mio povero padre mi ha cercato per molti giorni, ma non è riuscito a trovarmi, perché ero fuggito sui monti e lavoravo presso degli stranieri. In cambio del mio lavoro mi davano un tetto e un tozzo di pane».
«E non sei tornato in famiglia?»
«No. Quando volevo tornare ormai non potevo più.»
«E quanto tempo sei stato dagli stranieri?»
«Tre anni, sino all’invasione dei tedeschi.»
«Chi ti ha tradito?»
«Gli stranieri presso i quali lavoravo.»
Poi abbiamo smesso di fargli domande e ci siamo dedicati al canto. Mentre noi cantavamo lui si teneva le mani sul viso. Durante una pausa ha detto: «Fate bene a cantare. Il canto e la preghiera sono meglio dei discorsi. Purtroppo io ho perso la mia voce».
Mina gli ha spiegato di Rosa e di quanto lei ci manchi da quando è partita per la Palestina. All’udire la parola «Palestina» lui si è spaventato e ha detto: «Non sono degno di andarci. Ho fatto di tutto per non poter essere laggiù. Voi siete delle persone fedeli. Io sono tutto sbagliato». Mina ha cercato di strapparlo a quella depressione.
Lui non si è scusato ma ha storto la bocca e scosso le spalle, come fuori controllo.
Non passa giorno senza una scoperta. Charlotte ha cominciato a sognare e i suoi sogni sono limpidi, cristallini. Il periodo trascorso in convento, si è scoperto, non ha intaccato la sua anima. Lei ricorda i riti con precisione strabiliante e i suoi sogni le riportano quell’antica solennità. Se non ci fosse Marie staremmo lì ad ascoltarli.
Marie ce l’ha con la Chiesa e con quel che ha fatto agli ebrei. Mina cerca di trovare un aspetto positivo nei sogni di Charlotte, ma Marie resta sulle sue. È di umore mutevole. Quando è profumata, parla continuamente e con una certa logica, ma quando esala vapori di birra diventa triste, non riesce a dire nulla e si addormenta sulla sedia. Mi dispiace per lei, per questi diversi stati d’animo che la scuotono e non la lasciano in pace.
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I giorni passano, l’autunno si avvicina. I sopravvissuti ci hanno lasciato da un pezzo, ma il Joint continua chissà perché a sostenerci. Marie ha cercato qualche volta di affrancarsi dalla birra ma i suoi sforzi sono stati vani. Charlotte e Mina buttano giù qualche bicchierino al giorno, ma questo non intacca la loro capacità di apprendimento. Studiano diligentemente e cantano a occhi chiusi. Marie ogni tanto dice che la parte straniera che è in lei se ne sta andando, e che la notte sogna di parlare già lo yiddish.
Una volta al mese andiamo a prostrarci alla tomba di mamma. Stiamo lì a lungo e cantiamo per lei, poi puliamo la lapide e strappiamo l’erba con l’aiuto di Erich.
L’abbreviazione FS sta per «figli santi». FSB invece significa «figli santi e bruciati».
SVS sta per «il Santo vendichi il loro sangue».
Non di rado incontriamo una combriccola che torna dopo aver fatto bisboccia.
Gridano: «Ebrei nei forni» e noi inveiamo con disprezzo: «Gentili all’inferno». Li conosco bene. Non mi fanno paura. Anche i braccianti della fattoria ogni tanto si ubriacavano e andavano fuori di testa. Li vedevo il sabato sera che vagavano nel cortile dell’osteria, imprecando e vomitando.
Abbiamo anche fatto un orto, e ora abbiamo pomodori, cetrioli, cipollotti e patate.
Il pensiero che mangiamo del nostro ci rallegra molto. Marie sostiene che le nostre verdure hanno un sapore particolare, e che un giorno o l’altro si riscatterà dalle schifezze e diventerà vegetariana.
Ultimamente abbiamo trascurato lo studio delle lingue sante e dei libri della Bibbia, ma le sere sono dedicate al canto, al punch e al caffè.
Thomas non fa altro che parlare della Palestina. Tra i fascicoli che ci ha mandato il Joint, ne ha trovato uno sull’agricoltura in terra d’Israele ed è stato conquistato dall’idea della comune. Charlotte, invece, è spaventata da questa idea: «Devo starmene per conto mio almeno tre o quattro ore al giorno. Senza solitudine la mia vita non sarebbe vita». Thomas le ha promesso che in Palestina, la terra della fede, capiranno la sua esigenza e potrà stare sola. Nella terra dove dimora il Signore c’è posto per il silenzio e per il canto. Marie teme di non essere abbastanza degna di essere chiamata ebrea. Se non ci fosse di mezzo la birra, sarebbe molto più facile.
«Quel che non siamo riusciti a fare qui lo faremo là» dice Mina. Mina parla della Palestina con naturalezza. Sogna il mare e le spiagge candide. Il sole e l’acqua faranno miracoli per il corpo e l’anima. È davvero strano quanto siamo cambiati.
L’ebraico e lo yiddish sono ancora incerti sulle nostre bocche, ma ogni parola è intrisa del nostro segreto. Tutti dicono che mamma parlava molto dell’anima. Io, chissà perché, sto molto attenta a non usare questa parola.
Ma fra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Per noi voleva dire anche soste, dilemmi e paure. Io ho giurato in cuor mio che prima o poi tornerò qui per portare mia mamma nella nostra terra. Mi è apparsa in sogno e gliel’ho detto. Questa volta aveva un gioiello splendente sul bavero e allora mi tornavano alla memoria i suoi preziosi che al campo mi avevano portato via e mi dispiaceva tanto. Lei mi diceva una cosa che non mi aveva mai detto: «La morte è un’illusione, siamo legate l’una all’altra con i lacci di un amore intenso».
Volevamo ringraziare Erich per tutto quello che aveva fatto per noi, ma non sapevamo come. Charlotte ha composto in sogno una musica per il primo salmo del testo sacro e l’ha dedicata a Erich.
Aspettavamo un segno, e il segno è arrivato. Ma non da dove lo aspettavamo: un impiegato del Joint ci ha comunicato che la direzione aveva deciso di chiudere l’infermeria. All’udire questa notizia, Marie è scoppiata a piangere. «Perché proprio adesso? Non sono ancora pronta.» Tutti l’hanno consolata: «Non sei sola. Sei con noi, faremo tutto insieme».
Pochi giorni dopo abbiamo impacchettato le nostre cose, e il furgone che era venuto a prendere Rosa per portarla alla stazione ha prelevato anche noi.
«Dove state andando?» ha chiesto il soldato alla guida.
«A Gerusalemme» ha risposto Charlotte. Il silenzio del monastero ancora le sfiorava il viso.
«Io avevo timore di andarci.»
«Perché?»
«Mia nonna e mia madre si facevano il segno della croce e abbassavano lo sguardo, all’udire il nome di Gerusalemme.»
«E noi ci andiamo a testa alta» ha detto Charlotte. Si capiva che aveva vinto gli indugi e ora era pronta a partire.