Annie, una bambina di sette anni, comincia a essere colta da strane crisi durante le quali sogna eventi passati che lei non ha vissuto e tragici fatti che puntualmente si verificano. Quasi tutti considerano semplici coincidenze queste visioni premonitrici, ma quando la piccola contribuisce al ritrovamento di un cadavere, la polizia si arrende all’evidenza. Chi è il responsabile dell’omicidio?

William Katz

Visioni di terrore

Topeka, Kansas, 3 aprile. Una bambina dell’apparente età di dieci anni è saltata o è stata spinta giù da un traliccio della ferrovia ed è morta dopo qualche attimo sotto le ruote di un treno che sopraggiungeva. La vittima non è stata identificata.

Alcuni testimoni affermano d’aver visto un uomo allontanarsi di corsa dal traliccio subito dopo l’accaduto, ma non sanno dire se lui…

1

Tarrytown, New York, 3 Aprile

A Vera parve che il sangue le abbandonasse braccia e gambe, rendendola inerte. Non poteva essere, pensò, implorò. Non poteva perdere anche Annie. Non con Harry che se n’era andato.

Sedeva rigida su una sedia di legno in una piccola sala d’aspetto del pronto soccorso. Il tanfo della formaldeide, dello iodio, del sangue umano rappreso impregnava l’atmosfera e le rivoltava lo stomaco. Udì gli strilli di Annie mentre i dottori cercavano di alleviare il dolore che le tormentava il corpicino così minuto e le straziava gli occhi.

Non doveva morire, non poteva morire. Era solo un brutto sogno.

Ma la temperatura di Annie era stata di oltre 41° quando Vera, alle due di mattina, si era precipitata al Roselawn con lei che gridava istericamente di non vederci più. Da piccola Vera aveva visto una sua cuginetta entrare in crisi e morire di colpo, mentre poche ore prima era stata del tutto normale. Vera aveva anche sentito di cose del genere capitate ad altri bambini, ma non riusciva a credere che qualcosa potesse accadere alla sua piccola.

E Annie continuava a gridare. Ondate di sofferenza che sconvolgevano Vera, attraversandola come colpi di coltello.

Vera McKay strinse i pugni e pregò per la sua bambina di sette anni. Sembrava più giovane dei suoi trentasette anni, con il viso minuto e pulito che mostrava solo qualche leggera ruga. I corti capelli castani, solitamente ben pettinati, erano tutti in disordine e le ricadevano scomposti sulla fronte. Si era infilata in fretta un semplice abito verde di cotone. Aveva esattamente l’aspetto della donna che era, una donna con pochi grilli per la testa, ma che, sopra ogni cosa, aveva il culto della semplice vita familiare.

Alzò per un attimo gli occhi proprio mentre le passava davanti, in fretta, un’infermiera con un vassoio pieno di medicine. Vera si alzò di scatto per chiedere di Annie, ma l’infermiera era già sparita prima che lei potesse raggiungere la porta. Si lasciò allora ricadere sulla sedia.

«Mamma!» udì Annie che gridava. Vera ebbe l’impulso irrefrenabile di correre nel locale del pronto soccorso, al di là del banco dell’accettazione. Ci aveva già provato una volta, solo per esserne respinta dagli inservienti.

Così rimase seduta, alzando ogni tanto gli occhi per vedere pazienti arrivare in barella, alcuni coperti da lenzuola macchiate di sangue. Fu assalita da un senso lancinante di solitudine, dal bisogno di piangere, senza avere qualcuno con cui piangere. Tra un grido e l’altro di Annie era ossessionata dalle ininterrotte chiamate che la voce dell’altoparlante, continuamente percorsa da una vibrazione elettronica, rivolgeva ai medici.

Inevitabilmente le tornò il ricordo dell’anno prima, solo per acuire la sua sensazione di vuoto desolato. Se fosse successo allora certamente Harry le sarebbe stato vicino, tenendola per mano, tranquillizzandola. Era stato un marito così completo e pareva che la vita con lui non dovesse mai finire.

L’immagine di Harry, solido, muscoloso, socievole, era lì, davanti a lei, quando all’improvviso scomparve per l’apparizione sulla porta di un giovane interno tutto sudato.

«Mrs. McKay?»

Vera alzò gli occhi, puntandoli sullo stetoscopio che gli spuntava dalla tasca del camice verde, poi sulla cartella clinica che teneva in mano.

«Sono il dottor Marsh.»

«Come sta mia figlia?» chiese ansiosamente Vera.

«La stiamo sottoponendo a degli esami.»

«E questo che cosa significa?»

«Speriamo per il meglio. Si tratta probabilmente di un’infezione virale che in particolare colpisce gli occhi. Non sappiamo ancora che cosa sia. Abbiamo chiamato gli specialisti.»

«E la vista?»

«Lasci che prima si normalizzi… se possiamo.»

«C’è il dottor Laval?»

«È arrivato qualche minuto fa con la cartella clinica di Annie. È un eccellente pediatra. Lei è fortunata ad averlo.»

«Sì. Sì, lo so. Mio marito voleva sempre che interpellassimo lui.»

Marsh si accorse che Vera era in uno stato di semichoc, conscia solo in parte di quanto stava succedendo. «Mrs. McKay», le disse con dolcezza, «devo sapere qualcosa di più di ciò che è scritto sulla cartella del dottor Laval. Se la sente di rispondere a qualche domanda?»

Vera inspirò profondamente, cercando di controllarsi. «Ci proverò», rispose.

Marsh si sedette su una grande sedia con il cuscino strappato e sbirciò la cartella. «Be’, non che sia importante, ma ha compilato i moduli che ci autorizzino a?…»

«Mi hanno fatto firmare delle carte quando siamo arrivate.»

«Molto bene. Ora, signora, Annie ha mai avuto disturbi come questi?»

«No», rispose Vera con voce rauca e malferma. «È sempre stata una bambina sanissima.»

Proprio in quel momento l’altoparlante emise uno stridore sonoro, seguito dal crepitìo di un circuito difettoso. Vera sussultò. Marsh, abituato alla cosa, aveva già pronta un’altra domanda.

«Nelle ultime ventiquattr’ore ha mangiato qualcosa di insolito?»

«No, non a casa. Naturalmente ha fatto colazione a scuola. Ma se ci fosse stato qualcosa di dannoso avreste qui altri bambini, almeno penso.»

«Probabile.» Marsh notò che a Vera tremavano le mani mentre lei giocava nervosamente con la fede matrimoniale. «Cerchi di calmarsi, Mrs. McKay. Le darò qualche pillola.» Portò la mano al taschino.

«No», si oppose Vera. «Ho preso quella roba dopo che mio marito… se n’è andato. Mai più.» Guardò Marsh, con una domanda negli occhi arrossati. «Lei sa di mio marito?»

«Oh, certo. Tutta quella pubblicità», rispose Marsh, imbarazzato. «Annie ha spesso mal di testa?»

«Non più di qualsiasi bambino normale.»

«Ferite alla testa? Contusioni?»

«No, che io sappia.»

«Qual è stata la temperatura massima che abbia mai avuto?»

«Quasi trentanove. Quando ha preso il morbillo, ma poi è scesa rapidamente.»

«Stava facendo qualche cura? Prendendo qualche medicina?»

«No. Le ho dato dello sciroppo contro la tosse, ieri. Nient’altro.»

«Ha la tosse?»

«Un pochino.»

«Bene. Ora, Mrs. McKay, riguardo il suo… be’, problema familiare. Capisco che per lei l’argomento è difficile, ma devo comunque farle la domanda: c’è stato nessun mutamento nel suo rapporto con Annie dopo la sparizione di Mr. McKay?»

«I compagni di scuola la prendevano in giro. Le dicevano che suo papà se n’era andato perché lei aveva una mamma impossibile.» Le lacrime velarono gli occhi di Vera, per poi inondarle il viso. «Naturale che c’è stato un cambiamento nei nostri rapporti. Doveva esserci.»

«Che genere di cambiamento?»

«Non volevo vedere più nessuno. Sapevo che cosa diceva la gente. Ho cominciato persino a sentirmi colpevole. A pensare che forse era davvero colpa mia se Harry se n’era andato.»

«Non dica così.»

«Lo pensavo. C’era in casa un’enorme tensione. Per un certo tempo ad Annie ho rivolto appena la parola. Lei era tutto ciò che mi era rimasto, ma… Mi limitavo esclusivamente ad aspettare e speravo che Harry tornasse.» L’espressione cupa di Vera diventò anche allarmata. «Questa cosa riguarda anche ciò che è successo ad Annie?»

«Mrs. McKay», rispose Marsh, «lo stato psicologico di Annie può anche essere in relazione con il suo male. Spesso a un violento trauma mentale seguono sintomi fisici.»

«Capisco.» Vera chinò la testa e cominciò a singhiozzare, dapprima in modo sommesso, poi incontrollabilmente. Ancora una volta si sentì colpevole; si chiese se non avesse fatto qualcosa che avesse ferito Annie.

Marsh interruppe l’interrogatorio. Nei suoi undici mesi da interno non aveva ancora imparato a trattare con i parenti dei ricoverati. Sebbene si sforzasse di assumere una posizione di distacco dai propri pazienti non poteva non commuoversi per Vera. Davanti a quell’angoscia, a quell’evidente dedizione alla famiglia non poteva prestare fede alle maligne dicerie che erano dilagate in tutta Tarrytown.

«Non c’è nient’altro che dovrei sapere su Annie?» domandò in tono sommesso.

Vera sospirò, poi scosse la testa, desolata. Riandò con la mente alla breve esistenza di Annie, alle sue malattie, alle sue abitudini. «È una bimba meravigliosa», disse. «Traumatizzata per non avere un padre. Ma, a parte questo, non c’è nient’altro.»

«Capisco», annuì Marsh.

«In ambulanza, mentre venivamo qui», proseguì Vera, «continuava a dire con voce lamentosa: ‘Lei si prenderà cura di noi, sarà lei a proteggerci’. Mi chiedo a chi si riferisse.»

«Forse a lei, signora», suggerì Marsh.

«Non lo so», replicò Vera.

Marsh si alzò, battendole gentilmente sulla spalla. «Le faremo sapere qualcosa non appena ci saranno notizie», le disse e uscì.

Vera fu sola e l’angoscia la riafferrò. Era stata una bimba trascurata dai genitori, gente frivola e mondana. Prima di sposare Harry non si era mai sentita circondata da un vero affetto. E in quel momento con Harry che se n’era andato… Vera ripensò al giorno in cui lui era sparito. Dopo la colazione del mattino aveva baciato Annie, aveva salutato Vera e si era messo al volante della sua auto per andare in ufficio. Non aveva più fatto ritorno, nessuno l’aveva mai più visto. La polizia aveva trovato la macchina a parecchi chilometri e più tardi la sua giacca era stata rinvenuta in un armadietto della Grand Central Station. Era stato per Vera un periodo doloroso e paralizzante ma perlomeno le era rimasta Annie.

Vera sentì di colpo lo struggente, inesplicabile desiderio di telefonare ai propri genitori che, ormai in pensione, si erano stabiliti in California. Ma si ricordò quanto si fossero dimostrati ostili quando Harry era scomparso. Secondo loro o Vera aveva fatto lo sbaglio di sposare il tipo d’uomo che a un certo punto se la squaglia, oppure aveva sposato un uomo rispettabile, comportandosi poi in modo da nausearlo. Probabilmente avrebbero trovato il modo di attribuire a lei anche la malattia di Annie.

Poi a Vera venne in mente che esisteva qualcuno a cui chiedere aiuto.

Frugò nella borsetta per trovare una moneta. Telefona a Ned, si disse. Il fratello di Harry era il pilastro della famiglia, quello che si era dimostrato sempre pronto a dare una mano da quando Harry era sparito. Sarebbe arrivato lì e l’avrebbe aiutata. Le avrebbe dato quel senso di calore e di premurosa attenzione.

Non aveva spiccioli. Cercò di alzarsi e di andare al banco dell’accettazione, ma le gambe non le ubbidirono. Ripiombò sulla seggiola di legno, con il respiro affannoso, la gola chiusa e arida.

Lottò per dominarsi, per dimostrare quella fermezza che tutti ritenevano le mancasse. Se le infermiere avessero fatto capolino dalla porta per vedere la donna che aveva firmato le carte? Se avessero pensato che lei era stata una moglie da quattro soldi? Non era vero. Annie lo sapeva. E quella era la sola cosa che contava.

Qualche minuto più tardi sentì all’esterno dei passi pesanti e familiari. Un’ombra cominciò ad allungarsi sul consumato linoleum verde dell’atrio. Vera si aggrappò ai braccioli della sedia. I passi erano lenti, ma a lei parvero quasi riluttanti a proseguire.

Un uomo entrò. Vera lo fissò.

«Ned!» Il sollievo nel vederselo davanti le restituì improvvisamente tutta la sua energia. Balzò in piedi e gli corse incontro.

«No, rimani seduta», la esortò Ned, la cui voce morbida e modulata risuonava familiare e confortante. «Vera, da brava!» Dolcemente la riaccompagnò alla sedia.

«Sono così felice che tu sia qui», disse lei, singhiozzando di nuovo irrefrenabilmente. «Volevo telefonarti, ma…»

«Su, su, ora calmati. Mi ha telefonato Roberta Moran. Ha visto l’ambulanza. Ero appena rientrato da quel mio viaggio d’affari. Per fortuna ero in casa. Sono corso qui subito.»

Era tipico di Ned, pensò Vera, di essere così attento, così padrone di sé. Sebbene avesse solo trentotto anni, cinque meno di Harry, Ned era sempre stato il vero capo dei McKay. Era stato il primo a rompere la tradizione di famiglia nel campo assicurativo a Tarrytown, intraprendendo la carriera legale. Gli amici lo consideravano più in gamba di Harry, che faceva l’assicuratore. Ned non solo si era fatto un nome come avvocato, ma dava di sé un’immagine di autorità, rafforzata dal suo aspetto esteriore: alto, impeccabilmente vestito con sobri abiti e panciotti tradizionali, con baffetti e barba alla Van Dyke ben regolati.

Si chinò accanto a Vera e le prese una mano. «Ho appena parlato con Laval.» Seguì un lungo istante di silenzio.

Vera riuscì a guardarlo negli occhi, terrorizzata da quanto lui potesse dirgli.

«Sono ottimisti… ma non possono garantire…»

«Voglio solo che viva.»

«Certo. Tutti noi lo vogliamo.» I muscoli del volto di Ned si irrigidirono. «Questa faccenda è come una mazzata per me», disse. «Sai quanto voglio bene ad Annie.»

«Sì.»

«Se c’è bisogno di specialisti, li faremo venire, anche in aereo. Tu lascia che me ne occupi io. E non preoccuparti della spesa.»

Vera non aveva ancora pensato ai soldi, ma l’assicurazione di Ned la rincuorò.

Vera e Ned attesero per due ore e mezzo. Scambiarono poche parole. Ogni tanto Ned faceva una puntata al pronto soccorso per avere notizie, per sentirsi dire che le condizioni di Annie erano «stazionarie», un eufemismo che a loro non diceva nulla. Finalmente il dottor Sanford Laval, il pediatra di famiglia, uscì dal pronto soccorso e si avviò verso la piccola sala d’aspetto, dove Vera era immobile sulla sedia. Era troppo agitata per dormire, sebbene avesse tanto bisogno di un buon sonno. Ned sedeva accanto a lei, a occhi chiusi.

Vera udì entrare Laval, riconoscendo il suo passo strascicato. Tutti in città sapevano che Laval aveva deciso di diventare pediatra dopo che, da adolescente, era rimasto zoppo in seguito a un attacco di poliomielite. Era ormai un uomo di mezza età, con tendenza alla calvizie e alla pinguedine e una faccia rincagnata che ricordava quella di un bulldog. Vera lo aveva sempre trovato sinceramente amichevole e coscienzioso.

Come entrò Vera e Ned si riscossero.

«Vera», disse Laval con la familiarità di chi conosceva da anni i McKay, «ho appena visto Annie.»

Gli occhi di Vera erano lucidi per l’ansietà.

2

La piccola stanza parve piombare nel silenzio. I rumori dell’atrio, gli inservienti con cigolanti carrelli pieni di cibo, l’incessante gracchiare dell’altoparlante, svanirono dalla coscienza di Vera come se non fossero esistiti. Fissò Laval che si sedeva di fronte a lei con le gambe divaricate per lasciare spazio alla pancia prominente.

«Vivrà?» chiese Vera.

«Oh, sì, credo di sì.»

«Allora…»

«È molto malata, Vera. Non posso negarlo.»

Vera capì che Laval esitava a dire tutto. Teneva gli occhi bassi, poi sbirciò Ned, cercando di evitare lo sguardo di Vera.

«Voglio sapere tutto», disse lei.

«D’accordo», annuì lui a malincuore. «Vera», proseguì lentamente, «la vista di Annie è rimasta offesa da questo virus.»

Si interruppe. Seguì un lungo silenzio. Ned e Vera si scambiarono un’occhiata terrorizzata e angosciata. Poi Vera non riuscì più a trattenersi. «Dottor Laval», implorò con una voce che era quasi un urlo, «Annie è cieca?»

«Be’», rispose Laval, «la nostra attuale diagnosi…»

«È cieca?»

Laval sospirò, un lungo, profondo sospiro. «Ora come ora, non ci vede bene. Non sapremo per un po’ se è una condizione permanente o temporanea.»

Vera si limitò a fissare Laval, odiando per un attimo l’uomo che le dava quella notizia. Poi si afflosciò sulla sedia, battendosi le ginocchia con i pugni. «Ma ha solo sette anni!» gemette. «La mia piccola ha solo sette anni!»

Ned sembrava tramortito, disperato. «C’è qualche speranza?» chiese.

«Speranza, una parola che può molto», rispose Laval. «Ma sì, la speranza c’è. Abbiamo coperto gli occhi di Annie con dei bendaggi per evitare che la luce diretta li danneggi. Le stiamo somministrando energici antibiotici, con il controllo di uno specialista. Non voglio che vi culliate nelle illusioni, ma, certo, esiste la possibilità che la cecità possa essere temporanea. Non abbiamo ancora localizzato l’area effettiva del danno, se sia nel cervello o nel sistema ottico. Questa malattia è anomala. Ma stiamo impiegando le terapie migliori a nostra disposizione.»

«Quando sapremo?» domandò Vera.

Laval fissò il soffitto, poi Vera. «Esattamente, non posso dirlo. Le prossime ventiquattr’ore saranno quelle critiche.»

«Sandy», intervenne Ned, «non vorrei offenderti, ma…»

«Dovremmo chiamare a consulto altri medici?» lo interruppe Laval, completando la frase per lui.

«Be’, sì.»

«Non mi offendi, stai tranquillo. Se occorreranno altri specialisti non esiteremo a convocarli.»

«Quando potrò vedere Annie?» chiese Vera, trasalendo alla parola «vedere» che all’improvviso assumeva un significato terrificante.

«Adesso», rispose Laval. «Ma solo per qualche minuto.»

Ned aiutò dolcemente Vera ad alzarsi. Appoggiandosi al suo braccio lei uscì lentamente nell’atrio gelato e seguì Laval verso il pronto soccorso. All’improvviso ebbe davanti un’intera famiglia in lacrime, il padre era appena morto per un infarto, e lei avvertì una strana felicità. Perlomeno, la sua Annie respirava.

Arrivò al banco dell’accettazione, bianco e freddo. «Aspettate qui», disse Laval e si avviò nel reparto degenti.

Tutt’intorno Vera scorse disperazione e sconforto. Il piccolo locale dell’accettazione era pieno di gente seduta su nude panche di legno, in attesa di notizie. Molti avevano parenti coinvolti in incidenti d’auto dovuti alla pioggia torrenziale. Altri, venuti da un quartiere popolare non lontano, aspettavano di sapere che cosa ne fosse stato delle vittime di qualche sparatoria. Alcuni offrivano un contrasto quasi comico con quella scena: aspettavano infatti il loro turno per farsi togliere schegge di vetro o un bruscolino dall’occhio.

All’improvviso echeggiò un grido altissimo. Vera e Ned videro una donna di mezza età in preda a un attacco isterico scortata fuori del reparto degenti dal marito stravolto. Vera lanciò uno sguardo interrogativo verso il banco dell’accettazione.

«Scossa elettrica», spiegò la bionda infermiera alla scrivania. «Ha perso il figlio. Diciassette anni. Ha toccato un cavo elettrico abbattuto.» Riprese a riempire moduli. Lutto e dolore facevano parte della sua routine.

Laval fu di ritorno. «Seguitemi, prego», disse. Guidò Vera e Ned lungo uno stretto corridoio imbiancato a calce fino a un piccolo complesso di stanze. Arrivarono alla E21, una cameretta privata proprio di fronte a un refrigeratore d’acqua.

«È qui», annunciò Laval. «Mi raccomando, massimo silenzio.»

Scorgeva la paura sul volto di Vera, che esitò un attimo prima di avvicinarsi alla porta.

«D’aspetto… è cambiata?» domandò.

«A parte il bendaggio sugli occhi, ci sono le bottiglie della fleboclisi. Il che è normale.»

Ned non smise di sostenere Vera, mentre entrava pian piano nella stanza. Senza piangere, fissò la piccola, il suo visetto pieno e paffuto, il naso a patatina, i biondi capelli ricciuti.

La testata del letto di Annie era rialzata, tenendo la bimba in posizione semiseduta. Dormiva, con la testa girata sulla destra. Vera trasalì al voluminoso bendaggio sugli occhi e alla enorme camicia da notte dell’ospedale che si arricciava sulle spalle della figlia. Annie appariva tranquilla, pensò Vera, ma pallida, e respirava con qualche affanno. Vera non dovette chiedere perché le sponde di metallo del letto fossero rialzate. Annie aveva avuto una convulsione incontrollabile nell’ambulanza e chissà quante altre al pronto soccorso.

Vera e Ned si accostarono al letto in punta di piedi, mentre Laval attendeva sulla porta. Con mani gentili, la donna sistemò la camicia da notte e sfiorò la pelle di Annie. Era più fresca e asciutta di quanto non fosse stata in ambulanza. Vera cercò di non guardare le bende.

«Ciao, tesoro», sussurrò, tentando un sorriso.

«Non credo ti possa sentire», disse Laval.

«Soffrirà ancora?» domandò Vera.

«Un po’, forse», rispose Laval. «Ma abbiamo farmaci per calmare il dolore.»

Con espressione vacua, Vera volle sapere. «Glielo… direte?»

«Quanto le abbiamo somministrato la terrà semincosciente. Le spiegheremo soltanto che la teniamo al buio finché non sappiamo come curarla definitivamente.»

Poi Vera, in piedi e fissando il vuoto, cominciò a muovere le labbra come se pregasse. Nessuno osò intervenire. «Tanto varrebbe che fosse morta», gemette Vera alla fine, poi cadde in ginocchio e strinse convulsamente le sponde di metallo del letto.

Le permisero di rimanere, lasciandola a vegliare a lungo dopo che Laval se ne fu andato. Ned restò con lei finché anche lui fu costretto ad andarsene per concedersi qualche ora di sonno, con la promessa che sarebbe tornato la mattina presto. Ma Vera era decisa a non muoversi dall’ospedale finché Annie non si fosse svegliata. Voleva essere la prima a parlarle, a consolarla, ad alleviare il suo terrore.

Seduta al capezzale di Annie, Vera lottò contro l’impulso disperato di abbandonarsi a un pianto isterico, mentre nuove e terribili visioni le affollavano la mente: Annie che avanzava a tentoni, tastando il pavimento con un bastone; Annie con un cane-guida; Annie che leggeva in Braille. Vera, tentando di farsi forza davanti all’ipotesi peggiore, immaginò Annie con lo sguardo vuoto dei ciechi.

Poi, alla fine, si afflosciò su una sedia e cominciò ad assopirsi, tornando sempre con il pensiero ai nitidi mormorii di Annie nell’ambulanza. «Lei avrà cura di noi. Ci proteggerà lei.»

E di nuovo Vera si chiese chi fosse colei da cui Annie si aspettava protezione per loro due.

3

Vera, finalmente, si addormentò. Fece solo un unico sogno: il sogno ricorrente di essere paurosamente sola sulla terra, di camminare lungo vie e di entrare in negozi senza trovare nessun’altra persona viva. L’aveva sognato già molte altre volte, specialmente in tempi difficili. Alimentava la sua paura di non avere assolutamente affetti che la sostenessero. Quel terrore della solitudine che spesso aveva paralizzato le sue decisioni e la sua indipendenza. Era sempre stata felice che il suo tenero marito prendesse le decisioni e che in quel momento, in modo diverso, si occupasse di lei suo cognato. La malattia di Annie, rifletté, la obbligava a tentare di essere forte, di decidere come madre e come padre.

Si svegliò alle 8.53 e si guardò attorno.

Annie non c’era più. Il letto rifatto sembrava attendere un nuovo paziente. Le avrebbero forse taciuto che Annie era morta?

Vera si slanciò nell’atrio, scontrandosi in pieno con un’infermiera che portava un vassoio colmo di cibo. I piatti volarono via e l’infermiera per poco non cadde.

«Signora, è matta?» strillò la donna.

«Dov’è mia figlia?» implorò Vera, afferrando l’infermiera e scuotendola.

Accorsero infermiere e inservienti a liberare la donna dalla stretta di Vera e trattenendo quest’ultima. «Si calmi!» le ordinò un negro gigantesco e Vera ebbe paura.

Occorsero solo pochi minuti perché qualcuno scoprisse che Annie era stata trasferita in una stanza normale nel reparto pediatria. «Settimo piano», disse brusca a Vera una capoinfermiera dai capelli grigi. Poi aggiunse con maggior dolcezza: «Lei appariva così stanca e sfinita che hanno pensato bene di non svegliarla».

Vergognandosi un po’, ma con l’ossessione di Annie, Vera corse all’ascensore. Mentre lo aspettava si guardò a uno specchio. Occhiaie pesanti e livide, capelli in disordine, vestito spiegazzato. Si sentì sporca e sudata, ma prima di ogni altra cosa voleva verificare come stava Annie. Cominciò comunque a ravviarsi i capelli con la mano, ma la porta dell’ascensore si aprì rumorosamente e lei vi si infilò.

Il portello si riaprì al settimo piano. Vera ne uscì a precipizio, per trovarsi subito davanti il banco di formica bianca dell’infermiera di guardia. Questa, una ragazza dai fiammeggianti capelli rossi, parve stupita per una visitatrice così mattiniera.

«Dov’è Annie McKay?» ansimò Vera. «Sono sua madre.»

L’infermiera consultò un elenco. «È qui, ma adesso lei non può entrare.»

«I casi urgenti non possono essere visitati anche fuori orario?»

«Sì, ma adesso c’è dentro il dottore.»

«Il dottor Laval?»

«Sì. Voglia attendere.» L’infermiera le indicò una panca.

«Mi dica solo come sta», la pregò Vera.

«Procede bene», rispose l’infermiera con un ampio sorriso. «Fuori pericolo.»

«Gli occhi?»

«Non lo so, signora. E la cartella clinica l’ha il dottor Laval.» Di nuovo, e più esplicitamente, le indicò la panca.

Vera si sedette, ma continuò a guardare da una parte e dall’altra nell’atrio. Il corridoio era bianco a pois colorati. C’erano anche dipinti sulle pareti pagliacci e animali. Ogni porta era di colore differente con applicata sopra una decalcomania di un personaggio di Walt Disney. Un’atmosfera accogliente e gaia. Ma la mente di Vera rimaneva fissa sul fatto che Annie non poteva nemmeno vedere quelle allegre decorazioni.

Con le mani strette in grembo sbirciò lo sproporzionato orologio di Topolino sopra la scrivania dell’infermiera. Di tanto in tanto, ma con frequenza, vedeva passare un bimbo su una sedia a rotelle, o altri piccoli ingessati o con cicatrici da operazione. Un’infermiera assisteva una bambina cieca, che tastava il pavimento con un bastone, ai suoi primi passi nel buio. Vera distolse lo sguardo dalla piccola testa bionda, ma il ticchettio del bastone le rimbombava nelle orecchie a mano a mano che la piccola si avvicinava.

Vi fu un tonfo sordo quando la bimba urtò contro un muro, un tintinnio quando il bastone picchiò contro un carrello. Vera deglutì penosamente.

Finalmente Laval uscì da una delle camere, evidentemente affaticato. Si muoveva lentamente, trascinando più del solito la gamba offesa.

Vera si alzò, con il cuore che batteva con violenza, poi vide un mezzo sorriso sulle labbra di Laval.

«Mi dica», lo pregò.

«Buone notizie!» annunciò Laval. Per la prima volta dopo molte ore l’ombra di un sorriso illuminò anche il viso di Vera. «Sta mostrando notevoli progressi.»

«Gli occhi?»

«Il bendaggio è ancora su, naturalmente, ma mi riprometto di toglierlo tra non molto. Annie è stata abbastanza lucida da dire che vede qualche ombra. Lo considero un ottimo sintomo.»

Sollevata, ma esausta, Vera si rimise a sedere, mentre le sue emozioni ondeggiavano tra l’euforia e l’apprensione. «Non è che possa… peggiorare?» domandò.

«Vera», ribatté Laval, dandole un colpetto sulla spalla, «c’è sempre la possibilità di una ricaduta. Ma Annie sta mostrando notevolissimi segni di ripresa.»

«Quando posso vederla?»

«Le infermiere stanno procedendo ad altri esami e io devo visitare un bambino, ma sarò di ritorno tra meno di mezz’ora. Penso che allora potrai vederla.» Dette un’occhiata al suo orologio.

Vera gli sorrise. «Grazie», gli disse. «Grazie di cuore.»

Ned arrivò un po’ più tardi e trovò Vera che aspettava nella stanza dei giochi. Era riuscita a lavarsi la faccia e a pettinarsi. Ned portava dei regali per Annie: una scatola di cioccolatini e un cagnolino di pezza, peloso, soffice e imbottito. Almeno, aveva pensato, Annie quello poteva sentirlo. A Vera, il cognato parve ancora più disfatto e teso di Laval.

«Come sta?» le chiese subito.

Vera riuscì a sorridergli. «Molto meglio. Sandy Laval è appena andato via. Ha detto che tornerà tra una ventina di minuti e allora potremo vedere Annie.»

Ned le si avvicinò e la baciò sulla guancia. «Finalmente una buona notizia. Non ho chiuso occhio.»

«Siediti», gli ordinò Vera. «Dove hai trovato regali a quest’ora?»

«In un emporio aperto tutta la notte. Spero che ad Annie…»

«Ne sarà felice. E da quanto dice il dottore sarà anche in grado di apprezzarli. Io ho fiducia in Laval.»

«Sì», annuì Ned. «Anch’io. E anche Harry l’aveva.» Poi, dopo una brevissima pausa, aggiunse: «Come vorrei ci fosse anche lui».

Vera fissò il pavimento e non rispose. Il suo desiderio di Harry era struggente. Ne poteva avvertire la presenza tangibile, sentirne praticamente lo spirito tagliente, ma bonario. Poteva vederlo, come se fosse lì, dirigersi alla reception e chiedere di Annie. Sapeva che Ned riteneva di doversi sostituire ad Harry nei confronti di Annie, con tutte le sue capacità e nei limiti raggiungibili da un uomo.

Vera riferì a Ned quanto aveva detto Laval. E poi rimasero seduti in silenzio, aspettando il ritorno del medico.

Vera lo vide, all’improvviso, sgusciare oltre la porta, diretto alla stanza di Annie. Scattò in piedi, pronta a seguirlo. Laval le sorrise.

«Voglio fare un esame preliminare», le spiegò senza neanche fermarsi. «Vi chiamerò io il più presto possibile.»

Vera tornò a sedersi.

Stare vicino a Ned le infondeva fiducia. Mentre Harry era gioviale Ned aveva sempre avuto un’indole decisa. In città era considerato il più equilibrato, il più responsabile dei due fratelli McKay. E probabilmente era vero. Quando Harry era stato poco più che ventenne, Vera lo aveva saputo molto prima di conoscerlo, era andato via da casa per andarsene a Topeka, nel Kansas, per un anno. I McKay sapevano dove si trovava, ma più tardi lui aveva troncato ogni rapporto con i suoi. A Tarrytown erano giunte voci che si fosse dato ad attività di compravendita, a transazioni sbrigative e forse scarsamente ortodosse. Vera sapeva che la condotta di Harry costituiva ciò che zia Matilda chiamava eufemisticamente «i segreti di famiglia». Ma lei li aveva accettati e aveva imparato a vivere con essi. In quel momento, ascoltando i pianti dei bambini nella corsia, vedendo con la mente Annie che giaceva a letto con gli occhi bendati, pregava che Harry tornasse a Tarrytown, come aveva già fatto una volta.

Venti minuti più tardi, l’infermiera dai vistosi capelli rossi fece capolino nella stanza dei giochi. «Il dottor Laval vi aspetta», comunicò con voce morbida e cantilenante.

Vera e Ned si alzarono di scatto, tanto che il cane di pezza cadde per terra. Ned lo raccolse in fretta e, insieme con Vera, si affrettò verso la stanza di Annie. Automaticamente Vera si ravviò i capelli con la mano e cercò di riassettarsi il vestito gualcito. Il momento era speciale; lei sperava fosse anche miracoloso. Se Annie ci vedeva Vera voleva assolutamente apparire il più presentabile possibile.

Laval andò loro incontro nel corridoio. «Adesso cercate di capire», spiegò, «non spaventatevi per il suo aspetto. Le abbiamo cambiato il bendaggio che ora è più pesante. Inoltre non è ancora cosciente del tutto. Può darsi che non vi riconosca subito. Ricordatevi, il suo fisico ha subito uno choc non indifferente ed è ancora sofferente.»

«E i suoi occhi?» chiese Vera nervosa.

«In base all’esame che ho appena fatto resto tutt’ora senz’altro ottimista. Dopo la vostra visita farò delle prove visive preliminari.»

Laval si fece da parte. Lentamente, deliberatamente, Vera si accostò all’uscio, con Ned subito dietro con i suoi cioccolatini e il cane di pezza. Vera guardò dentro. La camera era piccola, con le pareti dipinte di grigio chiaro.

Annie era a letto, perfettamente immobile. Aveva la testa fasciata più pesantemente di quanto Vera avesse previsto. Ciò nonostante, vedendo sua figlia, Vera provò un’ondata di eccitazione. E, mentre lei entrava, Annie girò leggermente la testa, come se si fosse accorta che c’era qualcuno.

«Mamma?» chiese debolmente.

«Sì.»

«Sapevo che eri tu. Hai su le scarpe buffe.»

Vera si guardò i piedi. In effetti, calzava scarpe con la suola di sughero, che producevano distintamente un suono cavo.

«È vero!» esclamò e si affrettò verso Annie. La baciò sul collo, attenta a non toccare il bendaggio. «Come ti senti, piccola mia?»

«Mi fa male.»

«Tanto?»

«No. Agli occhi, come quando si ha l’influenza. Ho l’influenza?»

«Qualcosa del genere.»

«Perché mi hanno bendata così?»

«Perché il dottore ha pensato che fosse meglio.»

«Sono all’ospedale, mammina. Me l’ha detto una signora.»

«È vero.»

«Perché non ero mai stata in un ospedale, prima?»

«Oh, ci sei stata, quando sei nata.»

«No, voglio dire, quando ero più grande.»

«Non ne hai mai avuto bisogno. Adesso il dottor Laval ha pensato che fosse una buona idea.»

«Sono appena arrivata?»

«Be’, sei qui già da un pochino. Ma dormivi.»

Ci fu una lunga pausa di silenzio. Annie si mosse per sentirsi più comoda. «Parli confuso», osservò.

Vera si voltò verso Laval, allarmata, ma il pediatra formò con le labbra la parola «normale».

«Il dottore dice che può capitare», rispose Vera. «Ma poi passerà.»

«Quando posso tornare a casa?»

«Molto presto.»

Si intromise Ned. «Ciao, Annie!»

Per un attimo la bambina parve non riconoscere la voce. Poi un sorriso apparve sul suo viso. «Zio Ned!»

«Ti ho portato dei dolci e un cane di pezza. Okay?»

«Sì!»

Ned piazzò il grosso, invitante giocattolo tra le braccia di Annie. «Ti piace?»

«Che cosa si dice allo zio Ned?» chiese Vera.

«Grazie. È morbido.»

Ned era raggiante. «Spero che tu ti diverta un sacco con lui.»

Laval estrasse dalla sua valigetta alcuni strumenti. «Annie», disse, «sono ancora il dottor Laval. Adesso devo lavorare un pochino con le tue bende. Te la senti?»

«Sì, credo di sì. Dopo potrò vederci?»

Gli adulti si irrigidirono, scambiandosi occhiate piene d’ansia.

«Vediamo se i tuoi occhi stanno meglio», si decise alla fine Laval. Con un gesto fece capire a Vera e a Ned che era venuto il momento di uscire.

«Annie», disse Vera, «zio Ned e io andiamo qui fuori intanto che il dottor Laval ti visita.»

«No!» protestò Annie. «Voglio che tu resti qui!»

La faccia di Vera assunse un’aria desolata. «È il regolamento dell’ospedale, bambina mia.»

Annie cominciò a piangere. «Mammina, ti prego, resta con me! Stai sempre con me quando andiamo nello studio del dottor Laval.» Cominciò a picchiare sul letto con le mani.

Vera si girò verso Laval, che capì al volo.

«La prassi non è questa», disse, «ma se la cosa la sconvolge faremo uno strappo alla regola.» Poi, con la faccia seria, soggiunse: «Ma sia chiaro che…»

Non ebbe bisogno di concludere la frase.

«D’accordo, cominciamo», decise Laval. Ma poi si accostò a Vera e, in modo che solo lei e Ned potessero sentire, mormorò: «Se sorge il più piccolo problema dovrò insistere perché ve ne andiate».

Entrambi annuirono in silenzio.

Laval si avvicinò al letto di Annie, stringendo con la mano sinistra un paio di piccole forbici da chirurgia. Chiuse la veneziana e spense la tenue lampadina sopra il letto. «Probabilmente gli occhi saranno sensibilissimi», spiegò con il suo sorriso contenuto.

Istintivamente Ned fece per afferrare la mano di Vera. Vera si stropicciò le mani sulla sottana, poi si sedette, sperando disperatamente che gli occhi di Annie fossero davvero sensibili alla luce.

«Vera, ti senti bene?» volle sapere Laval.

«Sì», rispose lei, con voce malferma.

«Annie», domandò Laval, «tu adesso come ti senti?»

Un sorriso sbocciò sulle labbra della bambina. «Okay», rispose.

Laval sollevò le forbici, le aprì e le accostò pian piano alle bende attorno agli occhi di Annie. Cominciò a tagliare, mentre il rumore del metallo contro la garza echeggiava nella stanzetta. A Vera, ogni cauto taglio delle forbici pareva durare un secolo.

«Scommetto che sei felice di farti togliere questi affari», disse Laval.

«Sì. Pizzicano e poi voglio vedere il mio nuovo cane.» Vera si strinse il giocattolo sotto il braccio e afferrò convulsa la mano di Ned.

Laval era ormai arrivato all’ultimo strato del bendaggio. Girò attorno al letto, piazzandosi tra Annie e Vera, preoccupato della reazione di quest’ultima alla vista di un possibile edema. Cominciò la lenta, lunga operazione di svolgere la benda, attento a che nessun lembo di garza fosse appiccicato alle ciglia. «Bene, Annie», disse, «voglio che tu chiuda gli occhi stretti stretti.»

Annie ubbidì.

«Ci siamo», annunciò Laval. «Tolgo l’ultima benda.» La striscia di garza venne via e ricadde sulla spalla di Annie. Gli occhi della bimba erano ancora leggermente gonfi e un po’ di pelle intorno si era arrossata a causa dei cerotti. Ma non era visibile nessun altro danno. Laval si spostò di lato.

Vera, nella stanzetta in penombra, riusciva a vederci poco.

«Sei sempre qui, mammina?» domandò Annie.

«Certamente. Te l’ho detto che sarei rimasta.»

«Non aprire gli occhi», ripeté Laval. Trasse di tasca una piccola torcia elettrica ed esaminò l’esterno degli occhi di Annie, poi si volse a guardare Vera. «Finora, sembra tutto normale.» Poi, di nuovo rivolto ad Annie: «Okay, Annie Grace, sei pronta ad aiutarmi?»

«Sì!»

«Adesso ti metto degli occhiali finti. Sarà buffo.» Frugò nella sua borsa, ne trasse un piccolo paio d’occhiali neri e li fece scivolare sul naso di Annie. «Con questi», spiegò, «siamo sicuri che la luce non ti farà male.»

«La luce non fa male, a me», replicò Annie con candore.

«Bene, ma ricorda, i tuoi occhi sono stati ammalati. Adesso, voglio che tu apra l’occhio destro, ma appena appena.»

Il cuore di Vera batteva all’impazzata e lei scorse sul volto di Ned, che teneva la mano di Annie, sudore e tensione.

Annie aprì l’occhio destro. «Non vedo niente!»

Vera deglutì spasmodicamente.

«Per forza», esclamò Laval. «Questi occhiali sono scurissimi. Non puoi vedere attraverso le loro lenti. Quindi, dobbiamo aiutarci, vero?»

«Già.»

Laval accese la torcia e la tenne obliqua a un metro da Annie.

«Ehi, vedo un fuoco!» esclamò Annie.

Vera fu percorsa da un’ondata di sollievo.

Laval mosse in giro la torcia. «Adesso che cosa vedi?»

«Altri fuochi. In posti diversi.»

«Benone. Ogni fuoco resta o sparisce?»

«Va via.»

«Perfetto. Ora ti rivelo un piccolo segreto. È la mia pila quella che vedi. E quando starai meglio te ne regalerò una uguale.»

«Grazie», disse Annie.

Laval rifece l’esperimento con l’occhio sinistro, con gli stessi risultati. «Bene», ripeté ancora. «Sono molto contento di te, Annie. Ti sei comportata ottimamente.»

Annie sorrise, raggiante.

«Adesso voglio che tu ti guardi in giro e mi dica se vedi qualcos’altro.»

Annie girò lentamente la testa da un lato, poi dall’altro. «Scorgo la luce da quella parte», rispose, indicando verso la finestra.

«Ti fa male agli occhi?»

«No.»

«Fissa attentamente quella luce. È solo una luce, o qualcos’altro?»

Annie strizzò gli occhi. «Credo che sia una finestra con la veneziana, come ne abbiamo a casa.»

Vera sorrise, con gli occhi pieni di lacrime. «È un miracolo», sussurrò.

Laval si rivolse a Ned. «Penso che andiamo bene», disse. «È un sintomo davvero confortante vedere oggetti anziché solo strisce di luce.»

«L’ho visto prima», sbottò all’improvviso Annie.

Laval sorrise all’entusiasmo della bambina. «Davvero? Che cosa hai visto?»

«Mi faceva paura.»

«Oh?»

«Cadevo su un binario. Sa, dove ci passano i treni. E finivo sotto il treno.»

«Be’, non è piacevole.»

Vera e Ned trasalirono. Ned lanciò un’occhiata preoccupata a Laval. Ma il medico sollevò entrambe le mani, come per esortare alla calma. Si accostò ad Annie e le afferrò una spalla. «Via, Annie», spiegò, «quello che hai avuto non è stato altro che un brutto sogno, niente altro. Una bambina grande come te non avrà paura di una cosa del genere, no?»

«No», replicò calma Annie, «solo che non stavo dormendo.»

«Ma certo che dormivi.»

«No, sentivo anche la gente nell’atrio. Nella camera qui accanto c’è un ragazzo che non sta mai zitto. Si lamenta sempre, come Alan a scuola, sai, mamma?»

«Sì, tesoro.» Vera in realtà non le dette troppo peso, felice com’era che non fossero soltanto i sogni le cose che Annie poteva vedere.

«Bene», disse Laval, «hai avuto quello che i grandi chiamano sogno a occhi aperti. Eri mezza addormentata e mezza sveglia.»

«Ma se non ero nemmeno stanca», ribatté Annie.

Laval e Ned si misero a ridere. Non Vera. L’insistenza di Annie era insolita e Vera ne era colpita in un modo che né Laval né Ned potevano capire.

«Ora voglio che tu tenga questi occhiali per un po’», ordinò il dottore. «Più tardi verrà un’infermiera a toglierteli. Okay, Annie?»

«Okay.»

«Desidero che questi occhi si abituino alla luce nel modo opportuno.» Si girò verso Vera. «Attenta a non alzare la veneziana o ad accendere la luce.»

«Senz’altro.»

«Annie», proseguì Laval, «adesso ce ne andiamo, ma torneremo presto.» Accennò con il capo a Vera, che si accostò alla figlia e la baciò sulla guancia.

«Piccolina mia, sono tanto orgogliosa di te. Ora voglio che tu riposi. Mammina va a parlare con i dottori e le infermiere.»

«Mammina?»

«Sì?»

«Credi che papà sappia che sono malata?»

Vera lanciò un’occhiata a Ned, che abbassò gli occhi, a disagio. «Non credo, piccola», le rispose. «Se lo sapesse verrebbe a trovare la sua Annie? Giusto?»

«Sì, credo di sì. Quando torna non dirglielo. Voglio raccontarglielo io.»

«Okay. Non glielo dirò.»

«Annie», intervenne Ned, «voglio che tu guarisca presto. Non deludermi.»

«Okay, zio Ned.»

«Eravamo d’accordo di andare a vedere Annie a New York. Ricordi?»

«Certo!»

Vera, Ned e Laval uscirono, avviandosi lungo l’atrio, oltre le infermiere, gli inservienti e altri familiari. Si isolarono in un punto tranquillo vicino a una grande finestra.

«Bene», disse Laval battendo leggermente le mani, «tutto quanto ho detto lì dentro è vero. Sono molto soddisfatto.»

«Lei è soddisfatto?» esclamò Vera. «A me sembra di sognare. C’è solo una cosa…»

«Sì?»

«Quel sogno… cadere sui binari, essere travolta.»

«Trauma post crisi. Ne vedo tutti i giorni.»

«Continuerà?»

Laval trasse un respiro profondo e si guardò in giro, salutando alcune infermiere, prima di rispondere. «Può darsi, ma dubito che sarebbe preoccupante. Qui dentro Annie può avere qualche reazione. Per un bambino questo è un posto che mette paura, Vera. Ma a casa riacquisterà il suo equilibrio.» Guardò l’orologio.

«Devo scappare», soggiunse. «Ci sentiamo, comunque.» Fece per andarsene.

«Solo un’altra cosa», lo fermò Vera. «Quando c’era lei, Annie ha avuto altri sogni del genere?»

Laval si strinse nelle spalle. «No, non esattamente», rispose. «Brontolava qualcosa nel sonno. Ma succede sempre. In effetti era qualcosa di simile a quanto ha detto poco fa. Mormorava ‘binari… Topeka’.» Alzò di nuovo le spalle. «Niente altro.»

Un brivido gelato corse lungo la spina dorsale di Vera al nome «Topeka», ma si dileguò subito. Così, aveva menzionato Topeka? Annie non sapeva le dicerie su Harry che correva la cavallina.

Laval fece di nuovo per allontanarsi. «Grazie, Sandy», gli gridò dietro Vera, con voce colma di commossa sincerità. È un gran giorno.»

Laval si volse a guardarla, con un viso stanco, e riuscì ad abbozzare un sorriso.

4

Annie continuò nel suo miglioramento, senza scosse e rapidamente. Alcuni tra i medici si chiedevano se il virus che l’aveva colpita non fosse un’affezione nuova cui mancavano precedenti. Ogni giorno Laval prescriveva una gradazione più leggera degli occhiali di Annie, i cui occhi a mano a mano si abituavano sempre più alla luce. L’acutezza visiva migliorava costantemente. Laval cominciò a dire a Vera che la vista di Annie quasi certamente sarebbe diventata molto più che accettabile. Le sue condizioni psichiche, aggiunse anche Laval, risultavano equilibrate, anche se non si poteva ancora escludere il sopraggiungere di reazioni.

Cinque giorni dopo aver tolto le bende i timori di Laval sulle «reazioni» si avverarono.

Erano le 8.30 di mattina. Annie dormiva nella sua stanza, al buio, con la porta chiusa. Un’infermiera l’aveva controllata alle 8.15, trovandola normale. Un’altra infermiera era appena entrata, riferendo poi l’identica cosa.

Alle 8.31 Annie cominciò ad agitarsi, con un’espressione di sofferenza sul visetto rotondo. Gemette. Gli occhi malati si spalancarono, rivelando una paura che subito si trasformò in autentico terrore.

Annie si mise a sedere, con un sussulto. Girò gli occhi sulle ombre, con i loro contorni di mobili, fiori e giocattoli.

Cominciò a piangere, una cosa che, stranamente, non aveva mai fatto dopo l’operazione. Le lacrime le inondavano le gote. Si sentiva il cuore battere forte forte.

«Mammina», chiese, «sei qui?»

Ma udì soltanto il ronzìo del condizionatore d’aria.

«Mamma?» domandò a voce più alta, ma, con la porta chiusa, nessuno la sentì.

«Mammina, attenta! Sta’ attenta!»

Balzò dal letto e si infilò gli occhiali scuri, per abitudine. Quando aprì la porta della camera, la luce vivida dell’atrio la ferì. Socchiuse gli occhi. Poi, respirando affannosamente, oppressa da un terribile presentimento, irruppe nell’atrio e cominciò a gridare.

«Mammina, attenta! Non voglio che tu muoia!»

Si scatenò un pandemonio.

Alcune infermiere si precipitarono verso Annie. Vedendole, lei le evitò cambiando direzione di corsa.

«Torna qui!» ordinò un’infermiera. Un’altra sbucò fuori da una stanza. In due bloccarono Annie.

«Voglio la mia mamma!» urlò lei. «Non voglio che lui le vada contro!»

Le sue grida si sentivano per tutto il piano.

Mentre le infermiere le si affannavano intorno arrivò un inserviente in loro aiuto.

Le infermiere, preoccupate per Annie, la riportarono nella sua stanza. Altri bimbi, spaventati dalle grida e dalla confusione, correvano su e giù per l’atrio.

Un’infermiera rimise maternamente a letto Annie massaggiandole le braccia per confortarla. «Da brava, Annie», le sussurrò con voce dolcissima, «ti sei presa un bello spavento. Ma non vogliamo che succeda ancora, vero? Perché non…»

Ma Annie di colpo invocò ancora: «Mammina!»

«Ora calmati», insisté l’infermiera Kendall, ripetendo la frase con voce sommessa, mantenendo un tono dolce e cantilenante.

Lentamente Annie si tranquillizzò. L’affanno diminuì. Il battito del cuore tornò quasi normale. Ma, a causa della crisi, era madida di sudore. Restò distesa, fissando il soffitto. «La mia mamma sta bene?» chiese.

«Ma certo», ribatté la Kendall, sorridendo. «Sarà qui tra poco, infatti. Pensi che dovremmo raccontarle tutto questo?»

«Non lo so», rispose Annie. «Avevo tanta paura.»

«Che cos’era?»

«Vedevo dentro la mia testa come un film. La mia mamma guidava la sua macchina. E c’era quell’altra auto. Veniva avanti proprio in mezzo alla strada e verso mia mamma, ma poi l’ha urtata di fianco.»

L’infermiera Kendall scosse la testa, come se condividesse il racconto di Annie. «Scommetto che sei felice che quel sogno sia finito», osservò.

«Non era un sogno.»

«Ma certo che lo era. Un sogno molto, molto brutto.»

«In parte era un sogno», replicò Annie.

«Ecco, lo vedi.»

«No, un momento. L’ho fatto mentre dormivo, ma poi mi sono svegliata e c’era ancora. Era cominciato prima che quell’uomo arrivasse con la sua auto. Volevo avvisare la mamma che stava arrivando.»

«Be’», disse la Kendall, sinceramente commossa, «credo che dovresti dimenticare tutta la faccenda. È stato soltanto un piccolo incubo, tutto qui. Capita anche a me, continuamente.»

«Davvero? E lei che cosa fa?»

«Be’, se mi sveglia, com’è successo a te, sollevo le mani, me le agito davanti e lo faccio andare via.» Le fece vedere. «In questo modo.»

Annie sorrise, ripetendo il gesto.

«Proprio così», approvò la Kendall. «Fai così se qualche brutto sogno ti capita ancora. Okay?»

«Okay.»

La Kendall rimase con Annie, anche se era arrivato il suo turno di servizio.

Vera arrivò poco dopo.

«Mammina!» esclamò Annie vedendola entrare.

L’infermiera intuì immediatamente dall’espressione del viso di Vera che c’era qualcosa che non andava. «Mrs. McKay», le domandò, «non si sente bene?»

Dapprima Vera non rispose. Si diresse da Annie, la baciò, poi si sedette sul bordo del letto. Aveva il respiro corto e le mani tremanti.

«No, non sono malata», rispose alla fine. «Ma la mia piccola per poco non ha perso sua madre. Venendo qui, un’auto ha saltato lo spartitraffico. Mi ha preso di fianco, sul lato guida, strappando letteralmente la fiancata della macchina. Qualche centimetro più a sinistra e…»

La Kendall la fissò a bocca aperta, incredula.

Annie cominciò a tremare e poi a gridare istericamente: «Visto? Visto che avevo ragione?»

«Che cosa succede?» domandò Vera, scossa dalla reazione di Annie.

La Kendall, senza perdere tempo a spiegare, tentò di calmare Annie.

«Avevo ragione!» gridò la bambina. «La mia mamma quasi moriva!»

«No, sto bene, Annie, sono qui con te», esclamò Vera, perplessa e allarmata per l’isterismo della figlia.

Accorsero altre due infermiere a calmare Annie, mentre la Kendall sospingeva Vera nel corridoio.

«La bimba si è agitata», le spiegò, «ha avuto un brutto sogno e, Mrs. McKay, parola mia, quel sogno era uguale al suo incidente.»

Vera impallidì. «È la seconda volta che succede», precisò. «Il primo sogno era pazzesco, ma non si riferiva a niente di reale. Ma questo», proseguì Vera, «è impossibile. Identico al mio incidente? Non può essere.»

La Kendall si strinse nelle spalle e tornò in camera di Annie. «Probabilmente è solo una coincidenza. A volte i bambini sognano le brutte cose che accadono in famiglia.»

Le infermiere calmarono Annie, che però continuava a tremare e a piangere sommessamente. La Kendall, preoccupata, dichiarò: «Faccio chiamare Goodpaster».

«Chi è?» domandò Vera.

«Il nostro psichiatra infantile. Un uomo straordinario, mi creda.»

Qualche minuto più tardi il dottor Carl Rudolph Goodpaster uscì dall’ascensore. Vera lo scrutò mentre si affrettava verso la camera di Annie. Sulla quarantina, alto e molto curato, impeccabilmente vestito di marrone, lo psichiatra aveva un sorriso per tutti.

«Salve, ciao», disse allegramente, passando rapidamente oltre Vera ed entrando nella stanza di Annie. «Allora, qual è il problema?»

Quando la Kendall gli ebbe spiegato Goodpaster fece ad Annie un’iniezione sedativa e la bimba nel giro di qualche minuto si calmò. Il medico le si sedette vicino.

«Allora, signorina», cominciò con voce morbida, «abbiamo fatto un sogno molto brutto.»

«Succedeva alla mia mamma», chiarì Annie.

«Eccome! Ma hai fatto altri brutti sogni, prima, e quelli non sono diventati veri, è così?»

«Sì», rispose Annie con voce sonnolenta per l’effetto del sedativo.

«Sei proprio in gamba.» La voce di Goodpaster si alzava alla fine di ogni frase, quasi una posa per gli adulti, un divertimento per i piccoli. «Vedi? Non devi prendertela. Quasi tutti i nostri sogni non si avverano. Probabilmente, adesso, quando ti addormenterai, farai un sogno bello. Non preoccuparti.»

Goodpaster vide che Annie si stava assopendo, quindi le batté dolcemente sulla testa e si alzò. «Appena torno parleremo un po’ dei tuoi sogni belli», le disse. «Ora fai la nanna.»

Annie chiuse gli occhi. Goodpaster sorrise alle infermiere, compiaciuto. La Kendall lo avvertì che la mamma di Annie aspettava nell’atrio e lui uscì dalla stanza.

«Mrs. McKay», esclamò con calore, tendendo la mano.

Vera gliel’afferrò, annuendo.

«Carl Goodpaster. Sua figlia è una bambina deliziosa.»

«La ringrazio.»

«Si riprenderà benissimo. Senz’altro il dottor Laval le avrà spiegato che i bambini spesso hanno questi piccoli sconvolgimenti psicologici dopo una crisi. Quanto alla coincidenza con l’incidente che è capitato a lei, chi sa? I libri sono pieni di episodi del genere.»

«Mi chiedevo se non si tratti di percezioni extra sensoriali», osservò Vera.

«Potrebbe avere ragione. Sorprendente, a volte, come i genitori sappiano che cosa stanno facendo i loro figli e viceversa. È un argomento da non escludere, Mrs. McKay, ma nulla che riguardi l’ambiente scientifico.»

«Mi toglie un peso.»

«È per questo che sono qui», proseguì Goodpaster, con un sorriso smagliante. «Mi faccia chiamare per qualsiasi, minimo problema. Annie ha attraversato un periodo critico non indifferente. Tutt’e due potreste trarre beneficio da qualche consiglio.»

«Lo penso anch’io», ammise Vera.

Goodpaster se ne andò quasi con lo stesso slancio con cui era arrivato. Suo malgrado, Vera rimase turbata da una sensazione di disagio non appena lo psichiatra l’ebbe lasciata. Non poteva fare a meno di intuire che quello aveva minimizzato qualcosa di serio. Ma scacciò i propri dubbi, sicura che l’ospedale si serviva certamente e soltanto dei medici migliori. E quando sbirciò nella stanza vide che Annie dormiva tranquilla con un leggero sorriso sulle labbra.

Goodpaster attraversò festoso l’atrio, accarezzando teste di piccoli pazienti e ammiccando alle infermiere, diretto verso il suo studio, per consultare l’elenco dei bambini da visitare i cui problemi erano più grandi di quelli che lui avesse mai avuto.

«Mi scusi, signore…»

Goodpaster si fermò e si girò. Quella voce l’aveva già sentita. Si trovò di fronte un uomo grasso e tozzo, dalle guance rosee e dai capelli arruffati, insaccato in un abito blu di dubbia qualità. La tasca della giacca era talmente rigonfia di carte e di penne che la cucitura aveva ceduto.

«Si ricorda?» chiese l’uomo con un sorrisetto.

Goodpaster si strinse nelle spalle. «Mi dispiace, veramente no.»

«Forse ricorda il vestito, vecchio e consunto com’è.» Allargò le braccia per sottolineare l’affermazione.

«Ricordo l’abito, sì», rispose Goodpaster un po’ seccato, «ma questo è quanto.»

Il visitatore estrasse un logoro portacarte, tutto sporco di tabacco, che cadde in parte sul pavimento. Gli fece balenare sotto gli occhi una tessera. «Larry Birch, del New York Daily News. Parlai con lei l’anno scorso riguardo agli adolescenti cui piace tanto bere, qui dalle nostre parti.»

«Ah, sì», esclamò Goodpaster, poco entusiasta d’essere visto insieme con quel trasandato giornalista. «Voleva parlarmi di questo, adesso?»

«Be’, non esattamente, signore. Voglio parlare di Annie McKay.»

«Una bella e brava bambina», osservò Goodpaster. «Ma veramente non c’è molto di cui parlare.»

«Oh, non saprei, signore.» Birch si appoggiò alla parete. «Una bambina il cui padre è sparito, mi sono occupato anche di quella faccenda, e che si ammala e quasi perde la vista. C’è parecchio da parlarne, dottore.»

Goodpaster sbirciò il suo cronometro d’oro. «Senta», propose, «perché non va in amministrazione, in modo che possiamo fissare un appuntamento?»

«Oh, è questione di un minuto, signore.»

«Non dispongo nemmeno di un minuto.»

«Trenta secondi, allora», ribatté Birch, seguendo Goodpaster, che già stava per allontanarsi e piazzandoglisi davanti, bloccandolo. «È qualcosa di più di una storia strappalacrime, dottore. Da quanto si dice questa bimba è una, per così dire, che ‘vede’ le cose.»

Goodpaster diventò paonazzo in viso. «Lei come lo sa?»

«È il mio mestiere.» Birch alzò le spalle, con aria disinvolta.

«Guardi che lei sta parlando di notizie confidenziali», lo avvertì Goodpaster. «Se desidera sentire i familiari, può darsi che loro…»

«Disturbare la madre? Mi suggerisce di fare questo?»

«Be’…»

«Senta, dottore, qualcuno mi ha riferito che questa bambina sapeva che sua mamma quasi rimaneva ammazzata in un incidente. Allora qual è la sua opinione al riguardo?»

«Nessuna opinione. La cosa non è importante.»

Birch tossì, una tosse da fumatore piena di catarro, poi ricominciò: «Quindi, lei non è interessato alla cosa?»

«Ne sono interessato, certo. Ma non è mio reame.»

«Non è suo che cosa?»

«Reame, campo. La bambina è una paziente del dottor Laval, il quale non mi ha chiesto nessun parere.»

«Così lei non ha alcuna opinione?»

«Gliel’ho detto. Se mi chiamano a esaminare la bambina potrei saperne di più. Ma questo dipende dal dottor Laval.»

Birch scribacchiò qualche appunto su un taccuino con le pagine piene di orecchie, servendosi di un mozzicone di matita. «Lei intende dire che è un problema burocratico.»

«Il caso non presenta possibilità di crisi ripetitive, né di serie infermità», rispose Goodpaster.

Il medico tentò di nuovo di aggirare l’ostacolo. E di nuovo Birch non mollò la preda, seguendola fin dentro l’anticamera dello studio, che aveva le pareti tappezzate di fotografie di bambini.

«Non posso più dedicarle nemmeno un secondo», insisté Goodpaster. «Si rivolga all’amministrazione.»

«Ancora qualche domanda.»

«Senta Mr. Burns…»

«Birch. Larry Birch. Del New York Daily News

«Mi scusi, Birch, ma il colloquio finisce qui.»

«Dottore, la storia non finisce. La bambina ha avuto un’altra visione, sì o no? Crede di essere caduta da un traliccio della ferrovia a Topeka…»

«Questo dove l’ha saputo?» domandò Goodpaster, la cui giovialità fanciullesca si stava tramutando in collera e risentimento.

«Via, via», lo ammonì Birch, agitando un dito. «Noi proteggiamo le nostre fonti. Ho degli amici qui dentro, dottore. Ma lei come spiega questa visione?»

«È un sogno, non una visione. Se lei riesce a fare capire esattamente il suo nome deve anche sapere usare il vocabolo giusto. Non spiego né posso spiegare e comunque a chi importa?»

«Dottore», disse Birch, «la differenza è che io sono sicuro di come mi chiamo. Vede, lei non sembra rendersi conto di ciò che la faccenda comporta. Quanti sono i bambini che sognano di cadere sulle rotaie di un treno?»

«Un sacco, sono pronto a scommetterlo.»

«Subito dopo che è realmente accaduto a Topeka?»

«Come sarebbe a dire?»

«Una bambina cadde, o fu sospinta, giù da un traliccio a Topeka, poche ore prima che Annie si ammalasse. Poi Annie ebbe questa visione.»

Goodpaster si strinse nelle spalle. «Il mio campo è la psichiatria», rispose. «Si rivolga a quelli che pubblicano certe cose.»

«Non stimola il suo interesse, proprio per niente?» chiese Birch.

«No, no davvero. Probabilmente qualche infermiera ha accennato a quell’episodio mentre Annie era semicosciente. Lo ha registrato nel cervello. Ecco tutto.»

«Impossibile.»

«Perché?»

«Perché l’episodio non fu riferito in nessun modo da New York se non la mattina seguente… dopo che Annie aveva raccontato il suo, già, il suo sogno. Nessuno poteva avere saputo la notizia in precedenza.»

«Be’», ribatté Goodpaster, «allora il mistero lo risolva lei. La terrà occupato.» Sgusciò oltre Birch e si precipitò in studio, salutando, strada facendo, qualche bambino e la sua assistente.

«Ehi, dottore», gli gridò dietro Birch, ma Goodpaster fece orecchie da mercante. «Dottore», ripeté Birch, «che cosa significa ‘ci protegge lei’?»

Goodpaster ignorò la domanda e Birch lasciò l’ospedale, chiedendosi quale potesse essere la risposta. Decise di tenere in sospeso il suo articolo. Spesso aveva come norma di accumulare e tenere da parte il materiale finché non disponeva di un qualche elemento essenziale. Dapprima aveva pensato che si trattasse soltanto di un articolo tipo ‘famiglia sconfigge la cattiva sorte’. In quel momento intuì che era molto di più. Si rendeva conto che i sogni di Annie potevano essere davvero solo sogni e che forse gliene sfuggiva la spiegazione ovvia. Era così che di solito andava a finire in quelle storie più strane di un romanzo. Ma nel caso di Annie McKay c’era qualcosa che lo attirava. Non riusciva a togliersi dalla testa il terrificante rapporto tra la tragedia di Topeka e la visione di Annie. Forse, pensò, ma solo forse, era qualcosa che giungeva da un’altra dimensione, da una potenza ultraterrena.

O forse lui era soltanto un cronista annoiato che aveva lasciato una famiglia del cui dramma si era già occupato sul giornale, un cronista che attribuiva un significato assolutamente inesistente a delle circostanze che erano solamente bizzarre.

5

Vera e Ned affiancarono la sedia a rotelle di Annie, mentre un’infermiera la spingeva verso l’ascensore. Annie tornava a casa. I suoi occhiali erano solo leggermente scuri e la bimba sarebbe probabilmente stata in grado di farne a meno di lì a qualche settimana. Il leggero ematoma era scomparso.

Annie indossava una camicetta di velluto rosso e una gonna in tinta. Teneva in grembo il suo cane di pezza. Cronisti e fotografi le si affollarono attorno. La piccola che aveva riacquistato la vista era una celebrità, un argomento che emozionava sempre i lettori.

Le infermiere applaudirono, secondo una tradizione del reparto pediatrico, mentre Annie passava. Altri piccoli pazienti erano fermi sulla soglia delle loro stanze, con l’aria di chi è dimenticato, desiderando di poter tornare a casa anche loro. Annie li salutò gioiosa, agitando le mani e promettendo di farsi viva.

Un radiocronista piazzò davanti al viso di Annie un registratore portatile. «Annie, che effetto fa vedere di nuovo?»

La faccia di Ned assunse un’espressione sdegnata per la cinica domanda.

«È bello», rispose Annie, sorridendo.

«Ti sei fatta degli amici qui in ospedale?»

«Sì. Mi hanno dato il loro numero di telefono e verremo a trovarli.»

«Hai pregato molto?»

«La mia mamma lo fa per me.»

«E tuo papà?»

Cadde di colpo il silenzio. Vera e Ned fissarono il cronista. Ned stava per intervenire quando Annie rispose.

«È andato via.»

Il radiocronista accusò il colpo e arrossì. «Buona fortuna, Annie», concluse, «da tutti i nostri ascoltatori.»

Annie fu condotta nell’ascensore, le cui porte si chiusero.

Dato che l’auto di Vera era ancora in riparazione fu Ned a portare a casa lei e Annie attraverso le tranquille vie di Tarrytown. Alla vista di luoghi a lei familiari Annie si rianimò: i movimenti del suo corpicino divennero più scattanti, più eccitati, più simili a quelli di ogni altro bambino.

La casa dei McKay era un edificio a due piani, di arenaria rossastra e con stucchi, situata in uno dei quartieri più vecchi della città. Aveva, diceva qualcuno, un aspetto abbastanza comune, poco appariscente, che rifletteva la determinazione di Harry di non gareggiare con la gente nuova e brillante di Tarrytown. Il prato era ben tenuto, ma piccolo, e le macchie di arbusti esprimevano, più che il gusto di un giardiniere, il tocco dilettantesco di Harry e Vera.

Quel giorno, sebbene in strada fossero parcheggiate parecchie automobili, Annie non sospettò che fosse stato organizzato in suo onore un party di benvenuto. Quando la bambina fece il suo ingresso in casa, una folla di amici e vicini la circondò. La confusione era enorme, quasi insopportabile. Annie ricevette baci e pacche sulla schiena da averne a sufficienza per tutta la vita. Arrivò anche il dottor Laval a portarle, come le aveva promesso, la torcia elettrica. C’erano i suoi insegnanti e molti compagni di scuola a raccontarle in lungo e in largo che cos’era successo a scuola durante la sua assenza.

Roberta Moran era una donna ben piazzata, di trentacinque anni, amica intima di Vera. Abbracciò Annie, così come fece sua figlia, che era nella stessa squadra delle Giovani Esploratrici di Annie. Roberta diede a quest’ultima un pezzo di torta e poi andò ad aiutare Vera. «Siamo amiche per che cosa?» le disse quando Vera volle opporsi.

Anche Lily Singleton, capo dell’Associazione genitori e insegnanti, una delle donne più impegnate della città, capitò lì per qualche minuto. Raramente faceva visite di convenienza e Vera fu particolarmente commossa dalla sua premura. Snella, sulla quarantina, dai modi sbrigativi, Lily Singleton diede per quasi tutto il tempo una mano a Roberta Moran, bisbigliando con lei, cosa che sorprese Vera, che non sapeva neanche che Roberta e Lily si dessero del tu. Vera si rese conto che era stata così assorbita dalle vicende di Annie da aver perso ogni nozione degli avvenimenti locali.

La bambina ricevette molti regali, ma continuò a tenersi stretto il cane di pezza che lo zio le aveva portato. Ned scattò fotografie e Annie era al settimo cielo per tutte quelle attenzioni… e per i doni.

Ma, mentre Ned stava per scattare un’altra istantanea, la bambina sembrò di colpo estraniarsi e sbarrò gli occhi nel vuoto. Ned abbassò la Nikon. «Che cosa ti succede, tesoro?» domandò ansiosamente. «Annie, non ti senti bene?»

Lei lo guardò, ma non rispose. Nella mente, però, vedeva una scena nuova e paurosa: la madre che scivolava sul pavimento della cucina e batteva un polso contro un armadietto. Ma, nella confusione che le era intorno, lasciò che la visione svanisse, senza dire niente anche se assalita dall’impulso disperato di gridare e correre dal dottor Laval. Il baccano degli ospiti era addirittura intimidatorio, l’atmosfera troppo eccitata. La visione sparì come se non fosse avvenuta.

«Annie, stai bene?» insisté Ned.

«Sì», rispose lei quasi impercettibilmente.

«Allora girati da questa parte e sorridi.» Ned puntò di nuovo la macchina fotografica.

Qualche minuto più tardi Vera scivolava sul pavimento della cucina, picchiando forte il polso contro la dispensa. La botta era dolorosa, ma non grave, per cui Vera non ne parlò con nessuno.

Il dottor Laval volle che Annie non riprendesse la scuola prima di tre settimane, come minimo. La bambina rimase quasi sempre in casa, giocando con i suoi nuovi balocchi o smaltendo con grandi dormite i postumi dell’operazione. Ma il tempo primaverile era una tentazione e lei non vedeva l’ora di uscire e giocare.

In una calda e soleggiata giornata Vera e Annie stavano gustando un gelato in cucina e finalmente la madre annunciò quello che Annie aveva tanto atteso. «Questa mattina ho parlato con il dottor Laval. Ha detto che oggi puoi stare fuori un pochino. Ma, mi raccomando, non stancarti troppo correndo su e giù. Okay?»

«Okay», rispose la bambina. Terminò in fretta il suo gelato, facendolo gocciolare sulla maglietta.

«Attenta!» la rimproverò Vera.

Lei non le diede nemmeno retta. «Andiamo!» esclamò.

Vera non si era aspettata l’invito. «Senti, tesoro, ho ancora da fare in casa. Perché non esci da sola? Io ti guarderò dalla finestra della cucina.»

«Oh, dai, mammina! È la prima volta che esco.»

Vera si arrese all’entusiasmo della figlia. «E va bene», acconsentì. «Fammi almeno finire il mio gelato… senza sporcarmi il vestito.»

Il gelato di fragola fu inghiottito alla svelta e Vera prese Annie per mano. «Andiamo!» disse con vivacità. «Ti spingerò sull’altalena, ma pianino, e niente acrobazie.»

Si avviarono verso la porta, con Annie che tirava sua madre e le saltellava intorno. Vera fece scattare la serratura e girò la maniglia.

In quel momento Annie si immobilizzò.

«No!» gridò e indietreggiò.

«Che cosa ti prende?» le chiese Vera.

«Non esco!»

La madre, stupita e irritata, le domandò: «Che cosa?»

«C’è qualcosa sul prato, mammina! L’ho visto proprio ora. E un pezzo di vetro. Mi taglierà!»

Vera si inginocchiò e strinse a sé Annie, che aveva cominciato a tremare. «Su, perché pensi una cosa del genere? Sono uscita questa mattina e il prato era bellissimo!»

«C’è un pezzo di vetro!» insisté la bambina.

«E com’è finito lì?» ribatté Vera.

«Non lo so, ma c’è!»

«Ascolta», cominciò Vera dolcemente, «facciamo così. Io esco e ti sto davanti. Guarderò proprio bene e anche tu guarderai. Vedrai che non c’è niente.»

Annie si allontanò di un passo dalla madre. «No!» ribatté.

«Sì, invece», disse Vera, sempre dolcemente. «Devi vedere tu stessa.»

«Ho già visto.»

Allora Vera si alzò e la prese per mano. Provava una certa irritazione verso la figlia, ma l’attribuì alle lunghe settimane durante le quali era rimasta confinata sola in compagnia di una bambina. Si controllò e si mantenne comprensiva ma decisa.

«Su!» esclamò. «Guarda com’è pulito il prato. Vedi nessun pezzo di vetro?»

«C’è!»

«Allora andremo a cercarlo. Se lo troviamo, lo buttiamo via, così puoi giocare fuori.» Cominciò a tirarsi dietro Annie, chiedendosi perché mai si fosse di colpo spaventata all’idea di uscire di casa.

«È vicino al tavolo da picnic», disse Annie sommessamente. «L’ho visto.»

«Che cosa?» Vera cominciava a rendersi conto che le paure di Annie erano un altro dei suoi ‘sogni a occhi aperti’ o ‘visioni’ o che altro fossero. Preoccupata e smarrita, si diresse cautamente verso il tavolino da picnic.

«Così lo vedrai!» sbottò Annie. Si liberò dalla mano di Vera e rientrò di corsa in casa.

Vera si fermò e ispezionò con lo sguardo ogni centimetro del prato.

E allora vide il riflesso scintillante.

Una scheggia di vetro, aguzza e minacciosa, sporgeva dal terreno, esattamente là dove Annie aveva detto. Chiunque, camminandovi o cadendovi sopra, si sarebbe gravemente tagliato.

«Mio Dio!» mormorò Vera. Sconvolta, si coprì il viso con le mani, indietreggiando istintivamente. Si sforzò di padroneggiarsi, dicendosi di non perdere la testa. Sii razionale, si esortò. Ragiona. Doveva esserci una qualche spiegazione, proprio come i medici avevano sostenuto. Erano tutte piccole, banali coincidenze. Non era forse così?

Probabilmente Annie faceva un po’ di scena per darsi importanza, per essere al centro dell’attenzione. Magari aveva scorto dalla finestra quel pezzo di vetro. Vera guardò verso casa: il tavolo da picnic impediva assolutamente di notare il vetro. La bambina era rimasta sulla porta del retro a osservarla, evidentemente sconvolta. Per un attimo Vera scordò le proprie supposizioni e tornò dalla figlia. La portò sul divano in soggiorno e l’abbracciò.

«Non aver paura di quello stupido pezzo di vetro», le disse. «Mammina lo butterà via.»

Ma era decisa ad andare a fondo sull’episodio.

«Annie», chiese all’improvviso, «voglio che tu dica alla mamma la verità, come hai sempre fatto.»

«Okay.»

«Come sapevi che il vetro era lì?»

«Te l’ho detto. L’ho visto nella mia testa.»

«Sei sicura di non averlo già notato prima?»

«Non l’avevo mai visto», insisté Annie.

«Forse una delle tue amiche lo ha visto e te l’ha detto.»

«Non mi ricordo nessuno che mi abbia detto una cosa del genere», replicò Annie.

«Non te lo ricordi?»

«È così.»

Vera ne fu stranamente sollevata. Forse un altro bambino aveva visto il pezzo di vetro e ne aveva parlato. Ma ciò non spiegava le altre visioni della figlia.

Estrasse dal terreno la scheggia e la mise nella pattumiera mentre Annie la sorvegliava dalla finestra. Poi, lasciandola a divertirsi con un gioco di pazienza, andò in camera da letto e telefonò in studio al cognato. Non le piaceva disturbarlo, lui era sovraccarico di lavoro e aveva perso un sacco di tempo quando Annie era stata in ospedale, ma non sapeva a chi altro rivolgersi. Roberta probabilmente avrebbe riso di tutta la faccenda, ma Ned era il fratello di Harry, sicuramente le avrebbe dato retta.

Lo studio di Ned era un ambiente elegante con mobili di noce, quadri di pregio e un grande tappeto orientale. Si diceva fosse il più bello studio legale della Contea di Westchester ed era stato fotografato per Architectural Digest e il New York Times Magazine. Ned ne andava orgoglioso ed era sempre felice di mostrare ai visitatori l’impianto stereo nascosto, il computer e la raccolta di penne stilografiche Mont Blanc d’oro massiccio. Era convinto, e l’aveva detto molte volte a Harry, che un uomo lo si giudica dal suo ufficio.

Nella stanza prima dello studio lavorano due segretarie e un procuratore. Le macchine per scrivere IBM, elettroniche, erano sempre in azione, i telefoni non tacevano mai. L’aura del successo spirava in ogni angolo e la maggior parte dei clienti di Ned riteneva che se lo meritasse. La disponibilità e la premura che lui dimostrava per la cognata erano concesse a tutti coloro che rappresentava.

Quando Vera telefonò, stava lavorando a un contratto di vendita per uno stabile di appartamenti. Si fece subito passare la comunicazione.

«Ha avuto un’altra visione», gli riferì Vera, senza preamboli.

«Riguardo a che cosa?» domandò lui, diventando improvvisamente teso.

Lei gli descrisse l’episodio. Ned, appoggiato allo schienale della sedia anatomica, ascoltò e fece qualche domanda… ma continuò nel proprio lavoro. Prese appunti e riuscì anche a riscontrare su un testo un paragrafo del contratto mentre Vera parlava.

«Non vedo problemi», sentenziò alla fine. «Magari Annie fa un po’ di scena. Ultimamente ha ricevuto un sacco di attenzioni e adesso la sua vita sta tornando quella di sempre. Probabile che voglia di più.»

«Ma queste cose hanno un’impronta comune, Ned», insisté Vera. «In ospedale voleva mettermi in guardia contro quell’auto. Poco fa voleva impedire che io potessi tagliarmi. Sembra, so che è pazzesco, sembra che veda il pericolo prima che si manifesti.»

Ned gettò il fascicolo sulla scrivania e si raddrizzò di scatto sulla sedia. «Ma dai!» ribatté quasi irritato. «Tu stai troppo davanti al televisore. Annie non ha intuito nessun pericolo quando si è vista cadere sulle rotaie. E non la stavamo certo portando su una strada ferrata.»

«Questo è vero, lo ammetto.»

«Certo che è vero. Senti, forse dovresti consultare di nuovo il dottor Goodpaster. Quell’uomo mi piace. Potrebbe darti qualche consiglio.»

Vera rimase muta. «Allora?» la sollecitò Ned.

«Non voglio farlo ancora», si decise Vera alla fine. «Non voglio sottoporre Annie ad altri esami e prove. Ne ha già passate abbastanza.»

«Sì, ti capisco», convenne Ned, con tono comprensivo, quasi pietoso. «Dammi retta, per ora scordiamocelo. Credimi, ti stai preoccupando senza motivo. Però voglio che tu mi telefoni ogni volta che Annie ti dà dei problemi. Sono sempre pronto ad aiutare la famiglia di Harry. Capito? Voglio che tu mi telefoni. D’accordo?»

«Lo farò», rispose Vera, con una voce che era un sussurro. Si sentiva rassicurata, convinta che non c’era niente per cui angosciarsi e tanto felice che Ned fosse così pronto ad aiutarla.

6

Annie era pronta per rientrare a scuola. Vera le comprò un nuovo paio di jeans con una giacchetta in tinta e una cartella di tessuto scozzese con sopra il suo nome in lettere arancione. Annie era sempre più vivace. Ormai teneva gli occhiali solo per qualche ora al giorno. La vista era buona, tranne, di tanto in tanto, un annebbiamento delle pupille, che di solito spariva in qualche secondo. Dopo l’episodio della «scheggia di vetro» non aveva più avvertito niente di anormale.

Vera cominciò a cercarsi un lavoro. I risparmi e le obbligazioni fiduciarie di Annie assicuravano loro da vivere, ma Vera si sentiva estranea alla comunità. Ogni giorno scorreva le offerte di impiego sul New York Times e sulla stampa locale. Il giorno prima del rientro a scuola di Annie doveva avere un colloquio con una certa Mrs. Cynthia Malone, negli uffici lì in città di una ditta di contabilità. Cercavano un elemento per un lavoro amministrativo, impiego che lei e Ned ritenevano adatto. Vera telefonò a Mrs. Curtis, una stagionata e materna baby-sitter, perché si prendesse cura di Annie durante la sua assenza.

La signora arrivò con dieci minuti di ritardo, mentre Vera era già sulle spine per il suo appuntamento, e baciò Annie su entrambe le guance.

«Di’ in bocca al lupo alla mamma.»

«In bocca al lupo, mammina. Spero che tu ottenga il posto.»

Vera uscì di casa e si mise al volante della Buick verde, la stessa auto che Harry guidava il giorno della sua sparizione, ma che ormai aveva tutta l’intera fiancata sinistra nuova. Avviò il motore, regolò lo specchietto retrovisore e imboccò il vialetto che dava sulla strada.

Dentro casa, Mrs. Curtis si sistemò sul divano con una copia di Good Housekeeping, mentre Annie giocava sul tappeto con una bambola meccanica. Quando sentì la madre che usciva in retromarcia, corse alla finestra e la salutò. Vera le sorrise e le rispose sventolando la raano e la bambina osservò la Buick girare e immettersi sulla strada.

Questione di attimi e il suo viso assunse un’espressione dubbiosa. Trasalì e si chinò in avanti, come per vedere se c’era qualcosa. Poi cominciò a respirare affannosamente. La fronte le si imperlò di sudore e, di colpo, gli occhi le si riempirono di lacrime.

«No, mammina!» gridò.

Mrs. Curtis alzò gli occhi. «Che cosa c’è, cara?»

«Mammina!»

«Non fare i capricci, Annie. La mamma tornerà.»

Ma Annie si slanciò verso la porta d’ingresso, mentre Mrs. Curtis esclamava: «Oh, no, cara. Non devi».

Non era ancora riuscita ad alzarsi dal divano che già Annie aveva spalancato la porta.

«Annie, torna indietro!» le ordinò Mrs. Curtis, attraversando ondeggiante il soggiorno.

La bambina corse fuori. Cominciò a gridare e ad agitare le braccia, mentre Vera si allontanava giù per la via.

«Mamma, fermati! Non andare, mammina! È terribile! È spaventoso!»

Mrs. Curtis le corse dietro, ma la gara era impari. Annie filava con velocità eccezionale, la voce che lacerava la quieta aria pomeridiana.

Vera era già abbastanza distante per vedere o sentire quello che stava succedendo. Ma, quando Annie sbucò di volata sulla strada, evitando per un pelo un’auto che passava, Vera arrivò a un segnale di stop. Sbirciò nel retrovisore e vide il viso sconvolto e terreo della figlia che correva verso di lei. Allora saltò giù dall’auto.

«Mammina, non andare!» gridò Annie. «La gente tossisce, mammina!»

Vera l’afferrò, spingendola sull’orlo della strada. «Ora calmati, tesoro», la implorò. «La mamma è qui.»

Ansimando, esausta, arrivò Mrs. Curtis. «Oh, Mrs. McKay, ho cercato di fermarla, mi creda. Ho cercato, ma…»

Vera, con un cenno, la tranquillizzò. «Adesso ci sediamo qui sull’erba», disse alla figlia sconvolta, «e tu racconti alla mamma che cos’è successo.»

La macchina era rimasta in mezzo alla strada, col motore ancora acceso. «Okay», disse Vera. «Ora parla.»

Annie tremava e singhiozzava. «Mammina», piagnucolò, «l’ho visto. C’è stato un grosso scoppio e la gente tossiva e cadeva per terra!»

«Dove?»

«Non lo so. Non l’avevo mai visto prima.»

«Era una casa?»

«No, era dove la gente lavora.»

«Che cosa stavano facendo quelle persone?»

«Stavano scrivendo con il lapis e avevano le macchine come quella di papà.»

«Addizionatrici?»

«Credo di sì. Ma sai una cosa?»

«Che cosa?»

«Ho visto un block-notes che qualcuno aveva in mano. E c’eri su tu. Diceva: ‘Vera McKay’ vicino a un ‘ore quindici’.»

Con un senso di vertigine, Vera capì che si trattava di un’altra visione. Annie stava parlando della ditta dove doveva avere il colloquio.

«Mammina, ho paura!»

Vera la strinse a sé. «Non aver paura, tesoro. Non ti succederà niente.»

«Ma a te?»

«Neanche a me accadrà nulla. In quel posto non ci vado.» Si alzò di scatto. «Vieni con me.»

«Dove?»

«Dai, vieni!» La prese per mano e ritornò rapidamente verso casa, inciampando più volte, ma senza mai fermarsi. Spalancò l’uscio d’ingresso e corse al telefono.

Compose il 911, il numero delle emergenze.

«Voglio segnalare un incendio al Mercantile Building», disse con voce tremante. «C’è stata un’esplosione!»

«Bene.» All’altro capo del filo la voce femminile era pacata, abituata a chiamate del genere. «Il suo nome, signora?»

Vera abbassò il ricevitore. Non poteva dare il proprio nome. Se Annie si era sbagliata?

Afferrò la bambina per mano e si precipitò fuori. Mrs. Curtis aveva riportato la macchina a casa e aspettava davanti alla porta. Vera le passò accanto, con Annie a rimorchio, come una freccia e risalì sull’auto. «Dove andiamo?» continuò a chiedere la piccola mentre sua madre metteva in moto.

«Vedrai», rispose Vera seccamente.

Filò per Tarrytown, ignorando i limiti di velocità e districandosi nel traffico. Accese l’autoradio, sperando vi fossero notizie, ma le emittenti locali stavano trasmettendo dischi rock, interrotti solo da comunicati pubblicitari. Passò alle stazioni di New York, alla ricerca di qualche accenno a un’esplosione e a un incendio nel Westchester, ma niente anche lì. Però cominciava a sentire ululati di sirena in lontananza.

Vigili del fuoco? Polizia? Si diresse rapidamente verso il centro direzionale e il Mercantile Building, un edificio di arenaria di cinque piani, costruito nel 1917, uno dei più alti di Tarrytown e che ospitava molte ditte importanti. Dominava un quartiere costituito da costruzioni più modeste e da negozi.

La polizia stava laboriosamente sbarrando al traffico tutta la zona, ordinando a negozianti e clienti di allontanarsi. Avvicinandosi, Vera scorse ampie volute di fumo, ma non individuò da quale edificio si levassero. Frenò e si fermò vicino a un poliziotto che deviava il traffico.

«Che cosa succede?»

«Incendio.»

«Dove?»

«Mercantile Building. Temiamo si stia propagando.»

«Posso parcheggiare qui?»

«Finché non intralcia il passaggio.»

Freneticamente, Vera cercò un buco dove parcheggiare, scovandolo alla fine in un’area di sosta vietata.

A piedi, abbordò un altro agente. «Sa com’è cominciato?» gli chiese, trattenendo il respiro.

«Sì. Uno scoppio. Non si avvicini troppo.»

«No», rispose lei, ripensando all’incredibile visione di Annie. «No, stia tranquillo.» Si allontanò, con un’espressione sbalordita, quasi trasognata sul viso. Dopo pochi passi, lei e Annie videro una squadra della Croce Rossa che stava approntando un posto di pronto soccorso e un centro notizie per le vittime e i parenti. Vera si avvicinò a una donna dai capelli grigi, con un bracciale della Croce Rossa, seduta davanti a un tavolino pieghevole.

«Mi scusi», le chiese, costringendola ad alzare gli occhi da alcuni moduli che stava compilando, «saprebbe dirmi se una certa Mrs. Cynthia Malone è rimasta coinvolta nell’incendio?»

«Lei è una parente o un’amica intima?» le domandò la donna.

«Né l’una né l’altra.»

«Be’, era dentro il palazzo. Temo sia morta, signora.»

Vera deglutì. «Capisco.»

«La conosceva?»

«In un certo senso.»

«Mi dispiace molto.»

«Sì», rispose Vera, «anche a me.» Senza altre parole, riprese Annie per mano e si allontanò, sempre più sconvolta dall’ululato delle sirene, tra la gente che evacuava il quartiere e le macchine della polizia e dei pompieri che arrivavano di continuo. Aveva trovato quello che voleva: Annie, ancora una volta, aveva preavvertito il dramma.

«Chi è morto, mamma?» le chiese la bambina.

«Una signora», le rispose lei, con la mente assente.

«Quale signora?»

«La signora con cui dovevo parlare.»

«Vedi? Avevo ragione», dichiarò Annie.

«Sì, avevi ragione», ammise Vera. Poi le balenò in testa un pensiero sconvolgente: Annie aveva saputo dell’incendio tanto da salvare sua madre. Forse la sua visione poteva salvare altra gente sorpresa in quell’inferno.

«Vieni!» disse Vera. Assieme alla bambina si avviò risolutamente verso il luogo dell’incendio.

Questione di minuti, e il Mercantile Building si profilò davanti a loro, appena visibile tra il fumo denso. I cordoni della polizia, rafforzati da transenne di legno, impedivano a Vera di procedere oltre. Guardò il caos davanti a lei: le vie ingombre da una ragnatela di tubi, le ambulanze che arrivavano e ripartivano, l’acqua degli idranti che inondava gli angoli e s’ingolfava nei tombini. Scorse cadaveri, coperti da teli, allineati lungo il marciapiede. Udì i gemiti dei feriti che venivano trasportati via, la pelle ustionata e coperta di vesciche.

E sentiva le urla di quelli ancora intrappolati dentro.

Come spiritata, tentò di passare al disotto delle transenne, insieme con Annie.

«Non si può!» abbaiò un agente di polizia.

«Devo!» ribatté lei senza fermarsi.

«Spiacente, signora.» Il massiccio poliziotto, la cui cintura conteneva a malapena il ventre prominente, si precipitò e l’afferrò rudemente, facendole male a un braccio. «Gli ordini sono questi. Se là dentro c’è qualcuno dei suoi, possiamo informarci. Ma lei di qui non si muove.»

Gli occhi di Vera avvamparono di collera. «Io posso aiutare!» insisté. Indicò Annie. «Lei può essere d’aiuto! Dobbiamo parlare con il capo dei pompieri!»

«Oh, ma davvero?»

«Sì.»

«Non crede che abbia qualcos’altro da fare, in questo momento?»

«Devo parlargli!» ripeté Vera, gesticolando nervosamente.

«Lei sa com’è cominciato l’incendio?»

«Ne so qualcosa.»

Il poliziotto, pur convinto di trovarsi di fronte a una mentecatta, non voleva rischiare di essere rimproverato per avere ignorato una testimone potenziale. «Mi segua!» disse infine.

«Presto, per favore! C’è gente che sta morendo!» lo implorò Vera.

Ma il poliziotto non era disposto a muoversi più rapidamente. Pilotò Vera e Annie oltre una transenna e avanzò per quasi cento metri verso un camioncino dei pompieri, irto di antenne. Ci si infilò dentro.

Vera attese, conscia dell’assurdità di dovere passare per una trafila burocratica per salvare delle vite umane. Tentò di prepararsi su quanto avrebbe detto ai responsabili dei servizi antincendio, ma aveva la mente troppo confusa, troppo oppressa da tutto quanto stava accadendo.

Qualche attimo dopo, un pompiere in uniforme saltò giù dal portello posteriore.

«Vicecapo O’Brien», disse a Vera. «In che cosa posso esserle utile?»

Vera fissò quel viso dalla dentatura sproporzionata e dalla pelle color carota. «Lei non mi crederà», disse.

«Signora, stiamo lottando contro un incendio. Lasci che sia io a giudicare e decidere. Okay?»

«Sono io che ho dato l’allarme», gli confidò Vera.

«Grazie. È tutto?»

«No.»

«Signora, venga al punto.»

Vera tirò un profondo respiro. «Mi chiamo Vera McKay. Stavo andando al Mercantile Building per un colloquio. Mia figlia, qui, mi ha scongiurato di non farlo. Lei ha avuto questa… visione… di uno scoppio.»

«Lo ha sentito dire alla radio?»

«No, non alla radio.»

O’Brien si strinse nelle spalle. «E allora, che cosa vuole da me? che le dia una medaglia?»

«No, ma non capisce? Mia figlia presagisce le disgrazie prima che accadano.»

O’Brien sbirciò impaziente verso l’edificio in fiamme.

La frustrazione di Vera esplose. «Potrebbe essere una veggente. Potrebbe aiutarla.»

«Assurdo.»

«La metta alla prova! Come si sentirebbe se la bambina avesse avuto ragione e lei avesse ignorato quanto ha detto?»

La botta arrivò a segno. O’Brien abbassò gli occhi su Annie. «Sai qualcosa, tu?»

Annie lo fissò, impaurita da quei modi arcigni, e non aprì bocca.

«Una valanga di informazioni», commentò O’Brien. «Grazie, signora.» Voltò loro le spalle e ritornò al camioncino.

Vera rimase come inebetita. Il poliziotto che l’aveva scortata la squadrò. «Forse le conviene tornare a casa», disse freddamente. «È un reato ostacolare i vigili del fuoco.» Senza nemmeno riaccompagnarla attraverso i cordoni della polizia, si allontanò.

«Non prendertela», suggerì Vera ad Annie. «Il nostro dovere l’abbiamo fatto.»

O’Brien riapparve con alcune mappe del Mercantile Building. Sbirciò Vera, senza aprire bocca, e cominciò a trottare verso l’edificio, accompagnato da un pompiere con una ricetrasmittente portatile.

Il fumo soffiava denso verso Annie e Vera, facendole soffocare e tossire. «Togliamoci di qui», esortò Vera. Coprì con la mano il viso della figlia e insieme si avviarono verso lo sbarramento della polizia.

Improvvisamente la bambina si fermò.

«Che cosa ti succede?» le chiese ansiosa Vera, temendo che si sentisse svenire per il fumo. Ma Annie girò sui tacchi, la lasciò e cominciò a correre verso O’Brien.

«Annie, fermati!» Vera si precipitò alle sue calcagna.

«Ehi, signore!» gridò Annie a O’Brien che, nella confusione delle pompe e delle sirene, non la sentì. La bambina superò tubi, aggirò barelle e attrezzi. Qualche poliziotto cercò di bloccarla, ma lei correva più veloce di loro.

«Torni indietro!» gridò ancora a O’Brien.

Finalmente lui la udì. Si girò, indispettito. «Ferma quella ragazzina», ordinò a un pompiere che si trovava lì, e riprese a trottare via.

«No!» gridò Annie. «Ho visto dov’era lo scoppio! L’ho detto alla mamma!» Riuscì a schivare il pompiere che cercava di fermarla e a raggiungere O’Brien, tirandolo per una manica. «Torna indietro», le impose lui. «Ehi, qualcuno porti via questa bambina!»

«Signor pompiere», lo supplicò Annie, «deve fermarsi!»

«Torna da tua madre!»

«Lo scoppio è stato in cantina, vicino ai frigoriferi.»

O’Brien si fermò. Sì, c’erano delle celle frigorifere in cantina, di proprietà di una ditta di elettrodomestici. «Ci sei stata altre volte?»

«No. Mai.»

Intanto era sopraggiunta anche Vera. «Annie», ansimò, «non fare più una cosa simile!»

«Zitta!» ordinò O’Brien. Si inginocchiò davanti alla bambina. «Mi giuri che non eri mai stata in quelle cantine?»

«Non ha mai messo piede in quel palazzo», disse Vera.

O’Brien alzò gli occhi verso il pompiere che era con lui. «Chiamami il sovraintendente.»

L’altro obbedì, usando la ricetrasmittente.

«Ora», disse O’Brien ad Annie, «c’è altro che tu mi debba raccontare?»

«Sì. Ho visto un grosso barile azzurro.»

«Un grosso barile azzurro», ripeté O’Brien, pensando che quella volta Annie lo prendesse in giro.

«Più grosso di lei», aggiunse la bambina.

D’un tratto, gli occhi di O’Brien brillarono. «C’è un serbatoio di prodotti chimici laggiù», esclamò eccitato. «Verniciato di blu. Dev’essere quello che ha ceduto.»

«Ne usciva fuori della roba», concluse Annie.

«Sia ringraziato il Cielo», mormorò O’Brien. Ordinò a una squadra di pompieri di mettersi la maschera e scendere in cantina, mantenendo il contatto con le ricetrasmittenti. Lui riportò Vera e Annie verso il camioncino.

Dentro il camioncino, zeppo di dispositivi elettronici di comunicazione, attesero notizie.

Nel silenzio quasi assoluto i minuti trascorsero, e le radio restavano mute. Qualsiasi comunicazione per o da un edificio in fiamme era comunque difficoltosa.

Stranamente Annie non aveva visto altre vittime. La sua visione sembrava orientata unicamente a salvare Vera, come se sulla famiglia McKay vegliasse una forza protettiva. Stava ai vigili del fuoco localizzare, con metodi tradizionali, le altre vittime.

Vera sbirciò fuori da un angusto finestrino. Una folla di cronisti e fotografi si accalcava attorno all’automezzo. Individuò un volto, Larry Birch, riconoscendolo da quando si era occupato della sparizione di Harry.

La radio di O’Brien gracchiò. Un pompiere, la voce soffocata e disturbata, riferiva dall’interno dell’edificio in fiamme.

«Capo, siamo nella cantina. Ci sono dei corpi vicino a una fila di frigoriferi, e qualcuno è vivo. Sono strisciati verso uno sfiatatoio per respirare. Stiamo cercando di portarli fuori. Oh, c’è un uomo vicino a una bicicletta. E morto. Quel serbatoio fuma ancora. Vedremo di chiuderlo e fare uscire questa gente.»

O’Brien ascoltò, sbalordito, poi palesemente emozionato. Afferrò Annie e la strinse a sé. «Bambina del miracolo!» esclamò. «Bambina del miracolo mandata dal cielo.»

Larry Birch stava spiando dal finestrino dell’automezzo. Capì tutto quanto stava succedendo: da tempo aveva imparato a comprendere le parole dal movimento delle labbra, nelle cronache delle riunioni politiche. In quel momento, ne aveva conferma, la sua supposizione era esatta. Annie faceva notizia, in modo sensazionale.

7

«Non voglio che la si sfrutti!» ripeté enfaticamente Ned.

Lui, Vera, Annie e il dottor Laval si trovavano, il giorno dopo, nel soggiorno di Vera, pedine in un dramma che stava dilagando. Giornalisti e cameraman presidiavano in folla il prato lì fuori, calpestando e distruggendo l’erba e i fiori. Aspettavano la conferenza stampa prevista per le cinque del pomeriggio.

Ned era stremato. Aveva trascorso la notte a prendere accordi per la conferenza stampa e a declinare offerte da parte di editori e agenti pubblicitari. Tra le due e le tre di mattina, aveva impiegato un’ora a liberarsi di un uomo che voleva far esibire Annie su un palcoscenico di Las Vegas a diecimila dollari per ora… sempre che il cinquanta per cento delle sue predizioni risultasse esatto. Un sacerdote voleva invece che tenesse un corso di letture sull’«Ispirazione divina». Parecchia gente, di persona o per telefono, aveva chiesto aiuto per questioni personali, alcuni pretendevano addirittura che Annie indovinasse che cosa c’era nei testamenti dei parenti. Vera aveva appena trovato un attimo libero per telefonare a Mrs. Curtis, scusandosi per il comportamento tenuto il giorno prima.

Ned misurava la stanza a grandi passi, il vestito tutto cincischiato, il volto rasato con parecchia approssimazione. «Dopotutto, la bambina ne ha passate abbastanza», attaccò, «la pubblicità è l’ultima cosa che vogliamo.»

«D’accordo», disse Laval. «Per quanto riguarda i medici, puoi stare tranquillo.»

«Oh, non so proprio, Sandy», ribatté Ned. «Certi dottori farebbero carte false pur di mettersi in mostra. Di alcuni sono anche il legale.»

«Non posso controllare quello che dicono. Ma, come pediatra di famiglia, la stampa ascolterà me.»

«Credi? Ho sempre pensato che la stampa dia retta a chiunque disponga della storia più sensazionale.»

«Può darsi.»

«Sanno esattamente che cos’è successo in ospedale. Non so ancora come riusciremo a darne una spiegazione convincente.»

«E tu lascia fare a me», disse Laval.

Ned guardò l’orologio sulla parete. «Va bene. Andiamo fuori tra qualche minuto. Cerchiamo tutti di essere gentili, qualsiasi cosa ci chiedano. Quella gente è capace di raggirarti come vuole. Gli daremo un resoconto onesto, ma, sia chiaro, non vogliamo trarne nessun profitto, niente quattrini o pubblicità o altro.»

Alle cinque in punto il gruppo uscì di casa in fila indiana, Annie in testa, Ned in coda.

Laval si girò verso di lui mentre oltrepassavano la soglia. «Auguri», gli disse.

I quattro si trovarono davanti una batteria di microfoni, alcuni regolati all’altezza di Annie. Ned si piazzò al centro del gruppetto. «Signore e signori», esordì con il tono da principe del foro, «siamo davvero orgogliosi della nostra piccola Annie.» Si fermò, mentre alcuni fotografi scattavano istantanee della bambina, quindi proseguì. «Desidero sottolineare, comunque, che i medici non hanno trovato conferma che lei sia dotata di facoltà speciali. Ha avuto intuizioni rivelatesi esatte. Ha salvato sua madre, e quel suo presentimento ha guidato i vigili del fuoco alla scoperta dell’incendio. Di questo, ringraziamo la Provvidenza.

«Noi chiediamo soltanto che ad Annie sia consentito di condurre un’esistenza normale. Doveva rientrare a scuola oggi, ma la confusione e lo scompiglio gliel’hanno impedito. Speriamo possa raggiungere presto i suoi compagni.»

Si tirò in disparte cedendo, come d’accordo, il posto a Laval davanti al microfono. «Quale pediatra di Annie», esordì Laval, «desidero confermare quanto ha appena detto Mr. McKay. Annie è una deliziosa bimba assolutamente normale. Vogliamo avere la certezza che tutto questo non la danneggi. Come forse saprete, esistono molti esempi di persone che predicono il futuro. Nessuno può, in realtà, capire tali circostanze, ma raccomandiamo vivamente alla stampa di non attribuirvi eccessiva importanza. E ora, a quanto mi risulta, la famiglia potrà rispondere alle vostre domande.»

«Vogliamo parlare con Annie!» gridò un cronista, cui altri fecero eco.

Ned sorrise paternamente alla nipote. «Annie è qui, disponibile», precisò, «ma cercate di capire che è affaticata.» Guidò gentilmente la bambina davanti al microfono. «Parla qui dentro, tesoro.» E sorrise alla stampa.

«Annie», gridò un cronista, «che cosa ne dici di tutta questa attenzione intorno a te?»

Annie ridacchiò. «È come alla TV quando la mamma guarda il telegiornale. È divertente.»

«Quando hai detto ai pompieri dell’esplosione nella cantina è stato come se avessi visto la scena in quel momento?»

«No. Lo scoppio l’avevo visto prima, quando la mamma stava andando via in macchina.»

«Si dice che non è la prima volta che ti succede. È vero?»

Ned si intromise bruscamente. «Annie ha sperimentato qualche periodo critico. Ci sono stati episodi analoghi, ma i medici concordano nel dire che si è trattato di coincidenze.» Guardò Laval, che annuì, confermando.

«Ma la bambina ha predetto il futuro», ribatté un cronista. «A noi risulta così.»

Laval si accostò al microfono. «Per essere esatti», precisò, «Annie sembrava conoscere fatti che stavano accadendo altrove. Ma chi può sapere come abbia avuto quelle idee?»

Di botto, Larry Birch si fece strada tra il gruppo di giornalisti e li fronteggiò. «Ciao, Annie», cominciò con la sua cadenza newyorkese, «prima di andare in ospedale hai mai visto qualcuna di queste scene nella tua mente?»

«No», rispose la bambina.

«Dottor Laval», domandò Birch, «perché?»

Laval si fece pensieroso. «Non lo so», rispose. «Potrei solo fare delle ipotesi al riguardo.»

«È possibile», continuò Birch, «che sia stata la malattia di Annie a causare tutto questo?»

Gli altri cronisti ammutolirono, attenti.

«Non ho mai saputo di circostanze del genere», rispose Laval.

«La domanda non era questa.»

«Be’, no», confermò il medico, «non è possibile.»

«È vero o no che quando si è svegliata all’ospedale la bambina ha riferito di avere visto se stessa spinta giù, o cadere, da un traliccio a Topeka?»

Ned intervenne di nuovo, il volto arrossato per la rabbia. «E allora?»

«Non lo sa, signore, che una bambina è morta esattamente in quel modo, il giorno prima, a Topeka, e che Annie ha avuto la sua visione prima che la notizia venisse trasmessa da New York?»

Pandemonio.

Nessuno dei giornalisti aveva saputo del fatto. Vera non l’aveva saputo. Si coprì il volto con le mani, tremando come una foglia. «Oh, Dio!» gemette, senza che nessuno potesse sentirla.

Birch si odiò per il colpo inferto a Vera, ma aveva capito che era il momento giusto per vanificare i tentativi di minimizzare le visioni di Annie.

«È vero?» chiese un cronista a Laval.

«Sì», rispose il dottore sommessamente, a disagio.

«E questo non preoccupa i familiari?» domandò un altro giornalista a Ned.

«No», sbottò Ned. «Come avvocato, ho visto molte cose che sembravano vere e non lo erano. Non credo ai miracoli, io!» Di colpo, circondò con un braccio le spalle di Annie e cominciò a ricondurla verso casa. «La tensione è troppa per la piccola», disse. «Non è davvero leale né per sua madre né per lei. Grazie a tutti.»

Gli uomini della stampa protestarono, tumultuando. «Solo un altro minuto», pregarono e si accalcarono come avvoltoi sui McKay, qualcuno cercando di impedir loro di entrare in casa. Ma Ned si fece strada a spintoni. E alla fine la famiglia e Laval riuscirono a evitarli.

I giornalisti gridarono, formulando qualche altra domanda al di là della porta, poi cominciarono a disperdersi. Vera, però, sbirciando attraverso la veneziana, scorse Larry Birch in piedi, discosto dagli altri, intento a scribacchiare appunti.

«Non è andata bene», disse Vera.

«Perché?» le domandò Ned.

«Perché non ti ha creduto nessuno.»

«Sciocchezze. Facevano il loro mestiere. E, francamente, me ne infischio di quello che pensano.»

«A me invece importa», dichiarò Vera.

«Perché?»

«Perché non la smetteranno di indagare.»

«E non troveranno niente.»

«Non ne sono così sicura.» Il tono di Vera era deciso e tagliente e innervosì Ned, che non amava essere contraddetto.

«Non preoccuparti di loro», l’ammonì.

«Me ne preoccupo. Non sapevo nulla dell’incidente del treno. Ma Annie sapeva.»

«Sono sicuro che è spiegabile.»

«Ma un sacco di altre cose non lo sono! E io voglio qualcosa di più che le rassicuranti parole di un avvocato.»

Ned rimase interdetto. Anche il remissivo Laval abbandonò la sua aria da cherubino e abbassò gli occhi, nervosamente, su una macchia del tappeto.

«Non c’è da illudersi», proseguì Vera, cercando di dominare le proprie emozioni, «Annie prevede le cose esattamente, le centra. Non possiamo ignorarlo, né impedirlo.»

Ned rise, tradendo la propria scarsa conoscenza dell’animo umano. «Vera», disse con calore, «mi rendo conto di che cosa provi. Tu e io vogliamo troppo bene ad Annie. Ma tu non sei tu, in questi momenti. Il fatto che quel giornalista abbia accennato al treno ti ha sconvolta. Ma sono certo che il nostro Sandy Laval sarà d’accordo con me…»

«Vera ha ragione», dichiarò il medico.

Il sorriso svanì dal viso di Ned. «Che cosa?»

«Hai sentito perfettamente. Tutta questa faccenda mi ha riempito di dubbi. So che dovrei rifiutare certe teorie mistiche, ma Annie possiede facoltà razionalmente inspiegabili.»

«Sandy», ribatté Ned, con voce velenosa, «sei stato proprio tu, qui fuori, a dire alla stampa di agire responsabilmente. Adesso bada a come parli.»

«Lo so», ammise Laval, incapace di sostenere lo sguardo di Ned, «ma forse Annie dovrebbe essere visitata da specialisti adatti… non dallo psicanalista della scuola.»

Ned parve momentaneamente stupefatto dall’improvviso voltafaccia del dottore. Scrutò Annie, che stava sfogliando un album da colorare. «La cosa mi ripugna», disse. «Altri esami. Altri dottori. Magari altri trattamenti pericolosi.»

«Sono sua madre», ribatté Vera. «La verità l’aiuterebbe. Dobbiamo scoprire che cosa le sta succedendo.»

Ned schioccò le dita, rendendosi conto che non poteva opporsi ulteriormente alla volontà di Vera senza sembrare villano. «Faremo così, allora», concluse. «Andremo da medici illustri, il meglio che offra il mercato. Sandy, tu chi consigli?»

«Non è il mio campo», rispose Laval. «Ma farò qualche telefonata. Me ne interesso io.»

La discussione era finita. Vera guardò Ned, che stava fissando Annie. Il cognato appariva disfatto.

8

Gli «specialisti adatti» di Laval furono un fiasco.

Vera portò Annie dal dottor Harrison Donnell, l’eminente psichiatra dell’Ospedale universitario di New York, il quale diagnosticò che Annie non aveva nessuna facoltà speciale. Era Vera, disse, che si ricordava soltanto «le predizioni» esatte di Annie, dimenticando però quelle fasulle. Chiunque, asserì benevolmente, ha delle intuizioni che talvolta si avverano e può capitare che giungano a gruppi.

Per il responso Vera sborsò settecentocinquanta dollari.

Poi portò Annie in una clinica di White Plains, dove i dottori ammisero che poteva anche avere qualche facoltà extrasensoriale, ma che era roba di tutti i giorni. C’erano stati, dissero, migliaia di piccoli fenomeni psichici. Meglio ignorarli.

Dello stesso parere furono i medici di tre altre cliniche, una delle quali a Chicago, specializzata in bambini «insoliti». Alla fine Vera rinunciò, giungendo alla conclusione che nessuno, nella scienza medica, aveva qualcosa di importante da dirle. Aveva sborsato quasi tremila dollari, non un centesimo dei quali rimborsabile dalla polizza d’assicurazione, poiché le visite erano da considerarsi volontarie e quindi escluse dalle spese «coperte». Vera era preparata a rinunciare ad ogni tentativo di sapere la verità sulle strane visioni di Annie, se queste visioni si limitavano a dileguarsi senza ritornare ed erano dimenticate dalla bambina.

In un polveroso e affollato supermercato di Broadway, a Manhattan, una donnina minuta con un foulard in testa, occhiali scuri e un logoro abito rosso era in fila alla cassa, in attesa di pagare una scatola di prugne secche. Stava leggendo attentamente un giornale, concentrata su un articolo riguardante Annie McKay e le sue bizzarre facoltà. Era così assorta nella lettura da non accorgersi che chi la precedeva aveva pagato e se n’era andato.

«Su, signora, venga avanti!» esclamò la cassiera.

«Torno dopo», disse la dottoressa Marie Neuberger, continuando a leggere l’articolo. Lasciò le prugne e uscì in fretta dal supermercato, adocchiando una cabina telefonica sul marciapiede e dirigendovisi decisa.

Vi entrò e chiuse la porta. Formò immediatamente il numero del Daily News e fu messa in linea con Larry Birch. Quest’ultimo non fu sorpreso di sentirla, perché già molte volte in precedenza si erano parlati.

«Birch», disse lei con determinazione, «questa bambina, la McKay. Ho letto che cosa scrivono di lei. Io posso aiutarla, ne sono sicura. Si dia da fare.»

Riattaccò senza salutare, tornò sui suoi passi e acquistò le prugne.

Annie tornò a scuola qualche settimana dopo. I suoi compagni, con la naturale volubilità dell’infanzia, avevano già dimenticato la breve celebrità di Annie. Erano più interessati ai regali che aveva ricevuto e a riempirle la testa con quello che era successo durante la sua assenza. Vera aveva cercato di tenerla al passo con il programma scolastico. Agli insegnanti era stato raccomandato di trattarla come un qualsiasi altro allievo, e fecero del loro meglio. Le avevano riservato una particina nella recita della classe, che sarebbe stata rappresentata il giorno di Natale, un atto di fiducia verso Vera che entusiasmò Annie.

Era trascorso più di un mese dall’episodio dell’incendio e la vita della bambina stava tornando alla normalità.

Non c’erano state altre visioni di sorta, niente che sconvolgesse la sua tranquillità. Il dottor Laval la giudicò quasi completamente guarita e le prescrisse occhiali da lettura, che lei cercava di non mettere. A scuola il suo profitto era buono, ma aveva bisogno di aiuto per quanto riguardava la matematica, punto debole anche della madre.

La normalità era, per Vera, una benedizione. L’incubo di Annie sembrava averla abbandonata. Adesso poteva dedicarsi alla casa, cercarsi un lavoro, seguire attentamente gli sviluppi dell’indagine sulla sparizione di Harry.

In una calda sera agli inizi di giugno, Annie si addormentò sodo, dopo un impegnativo giorno di scuola. Il suo respiro era normale, il colorito bello, lo stato generale di salute eccellente. L’umore, prima di coricarsi, allegro e sereno. All’altro capo del pianerottolo, anche Vera, nel grande letto matrimoniale, dormiva saporitamente.

Appena dopo le due si levò una leggera brezza e la luna sparì dietro uno schermo di dense nubi. Un cane vagabondo abbaiò, lontano, e un’auto rombò veloce lungo la via, facendo schizzare sassolini contro un segnale di «rallentare» fuori della casa dei McKay.

Annie si agitò nel letto, borbottò qualcosa di incoerente e riprese a dormire.

Qualche minuto dopo, si rivoltò ancora tra le lenzuola. Quella volta sbatté con un braccio contro il comodino.

Il rumore destò Vera, ma non era uno di quei rumori che automaticamente mettesse all’erta il suo istinto materno e lei non se ne preoccupò. Rimase a letto, in una specie di dormiveglia.

Poi Annie gemette, un forte gemito angosciato, e, poco dopo, di nuovo, borbottando la parola «mammina». Allora Vera balzò giù dal letto, si buttò sulle spalle la vestaglia azzurra e si precipitò sul pianerottolo verso la porta della bambina. Parzialmente illuminata dalla luce di un piccolo paralume, Annie era immobile. Quindi si girò di scatto. «Mammina», gemette ancora una volta.

Vera rimase sull’uscio, volendo che l’episodio si snodasse da sé e cercando di interpretarlo. Era una visione o semplicemente un incubo?

«Mamma!»

Annie scattò a sedere, eretta, rigida, urlando sempre più forte: «Mamma, ho paura! L’ho visto!»

Vera corse da lei, stringendola a sé. «No, tesoro, no», le disse. «Mammina è qui. Fai la brava.» Cominciò a scuoterla dolcemente. «Svegliati! Su, da brava. È solo un sogno!»

Accese la luce e vide che la bambina stava sudando, le labbra tremanti, gli occhi chiusi. All’improvviso parve calmarsi. Aprì lentamente gli occhi e fissò davanti a sé, come se guardasse attraverso la parete.

«Che cos’è successo?» le domandò Vera. Per la prima volta ebbe quasi paura della propria figlia.

«L’ho visto», ripeté Annie.

«Chi?»

Annie continuò a fissare il vuoto, quindi urlò e spalancò le braccia, in un gesto senza speranza. Vera cercò di placarla, ma lei balzò dal letto, guizzò via e cominciò a sbattere contro i mobili. Rovesciò una sedia, colpendo poi una foto del padre su un tavolino.

«Ferma!» le ordinò Vera. Ma Annie la superò di corsa, irrompendo sul pianerottolo urlando. Vera la inseguì giù per le scale.

Riuscì alla fine a raggiungerla in cucina, dove la bloccò, scuotendola finché non smise di gridare e di singhiozzare.

Annie le si aggrappò come non aveva mai fatto. «Mammina, ho paura», gemette.

«È tutto passato», rispose Vera, cullandosela dolcemente.

«Era un’altra scena.»

Il cuore di Vera parve fermarsi, in una stretta dolorosa. «Raccontamela», le disse pacatamente, anche se era terribilmente agitata.

Annie ansimava forte e parlò con frasi incerte, a spezzoni. Aveva il volto teso e disperato. «Ho visto papà.»

Vera chiuse gli occhi, tirò un respiro profondo e lottò per restare calma. «Penso sia una cosa bellissima», le disse dolcemente.

«No», ribatté Annie. «Era disteso giù, mammina. Era ferito alla testa.»

«Oh!»

«Una ferita in testa, tanto brutta!»

Vera cominciò a massaggiarle la schiena. «Forse ha avuto un piccolo incidente. Magari ha picchiato la testa.»

Di botto, Annie la fissò con due occhi freddi. «Mamma», gridò, «era morto!»

A Vera parve che le avessero conficcato una lama nello stomaco. Scoppiò in lacrime e scosse Annie. «No, non era morto!» gridò. «Tuo papà non è morto. Non pensarlo nemmeno!»

«Sì, invece!»

Vera si sentì svenire. Avendo paura a lasciarla sola, la prese e la portò sul divano in soggiorno. Poi telefonò subito a Ned.

Dovette attendere sei squilli prima che Ned rispondesse.

«Pronto?» disse con voce impastata.

«Ned, sono Vera.» Il suo respiro affannoso sembrava riempire il microfono.

«Che cos’è successo?» le chiese il cognato, di colpo lucido.

«Potresti venire da noi? So che è tardi, ma…»

«Ti serve un dottore? Un’ambulanza?»

«No, ho solo bisogno di te.»

Ned non fece domande. «Vengo subito.»

Riappesero. Vera si tenne stretta Annie. «Zio Ned sta arrivando», la rassicurò. «Metterà a posto tutto.»

Meno di mezz’ora dopo la Cadillac di Ned frenò nel vialetto.

«Allora, di che cosa si tratta?» chiese lui.

«Ne ha avuta un’altra», rispose Vera.

Ned fissò Annie con un’occhiata di finto malumore. «Annie, mi hai fatto fare tutta questa strada per scoprire che hai visto di nuovo le cose?»

Per la prima volta da quando si era svegliata. Annie sorrise. Zio Ned le era tanto simpatico. «Sì», rispose, ma poi il sorriso svanì. «Non era proprio bello, anzi era orribile.»

Ned si sedette sul divano e le circondò le spalle con un braccio. «Raccontami», disse.

Annie sbirciò, apprensiva, sua madre.

«Ned», spiegò Vera, «Annie ha avuto una visione… ha visto Harry. Morto.»

Ned trasalì e abbassò lo sguardo. «Annie, questo non è possibile.»

«Qualcuno l’aveva colpito in testa!» esclamò la bambina.

Vera si accorse che Ned era diventato di pietra. Si massaggiava la mano sinistra con la destra, serrando poi il pugno sinistro. «Hai visto uno che lo picchiava sulla testa?» ansimò.

«Sì! No. Ho visto che aveva la testa tutta rotta.»

Ned era come inebetito. Vera poteva capirlo: lui e Harry si volevano bene. C’erano tutti gli elementi per ritenere che Harry fosse morto, ma era sempre stata un’idea astratta. Il sentirlo affermare categoricamente era uno choc.

«Annie», disse alla fine Ned, dimostrando una strana incapacità a parlare con fermezza, «non può essere assolutamente così. Chi potrebbe volere far del male a tuo papà?»

«È così!» insisté Annie. «Era proprio come quelle altre scene che vedevo.»

Ned parve totalmente scombussolato. Frustrato, proseguì: «Annie aspetta qui». Vera lo accompagnò in cucina e chiuse la porta. Si sedettero al tavolo. «Senti», sussurrò Ned concitatamente, «questa volta è grossa. Voglio dire, vedi benissimo come m’ha ridotto. Ma, Vera, la mia paura è che tu attribuisca troppa importanza alla cosa e riapra tutta la faccenda dei veggenti eccetera eccetera.»

«Ned», proruppe Vera con veemenza, «avresti dovuto sentirla come smaniava!»

«Naturale che smaniava», replicò Ned. «Harry è sparito, sì o no? Una bimba è portata a pensare che suo padre sia morto. Ha avuto un incubo, ecco tutto.»

«Vede la scena, Ned. Ormai lo sa. Ho paura. Forse Harry è…»

«No, no. Senti, siamo tutti e due nervosi e sono le tre passate. Sentirla dire… Non voglio nemmeno ripeterlo, ma non può essere vero.»

«Come lo sai?»

Ned la fissò freddamente, così come squadrava i testimoni durante un processo. «Vera, hai bisogno di altri giornalisti? Vuoi provocare uno scandalo di famiglia?»

Vera trasalì alla parola «scandalo».

Ned si alzò e cominciò a passeggiare avanti e indietro. «È stato un incubo. La sua immaginazione si è messa a galoppare e la bambina è in ansia per Harry. Tutto qui.»

«E tu non sei in ansia?» gli domandò Vera.

«Certo che lo sono. Mi preoccupa che mia nipote si svegli urlando.»

«Forse abbiamo bisogno di uno psichiatra.»

«Ancora un altro?»

«Magari ne troviamo di migliori, Ned.»

«Be’, può darsi. Domattina me ne interesso.»

Parlarono ancora qualche minuto, concludendo poco, e tornarono da Annie, che era molto cupa in viso.

«Come va?» chiese Ned.

«Bene», rispose Annie in tono per nulla convinto.

Ned le si sedette di nuovo vicino. «Adesso faresti bene a tornare a nanna. Che cosa ne diresti se ti portassi su per le scale a cavalluccio?»

Annie non rispose. Gli occhi bassi, giocherellava con un bottone del pigiama. Quando lo zio se la issò sulle spalle lei non si oppose, ma non si mise neanche a ridere come avrebbe fatto di solito.

Ned la portò di sopra e la rimise a letto. La bambina era inquieta, ma anche esausta, e ben presto si addormentò. Ned si trattenne ancora una mezz’ora, per assicurarsi che fosse tranquilla e per cercare di persuadere la cognata a non lasciarsi deprimere da quell’ultimo episodio. Poi se ne andò e Vera pensò che era una fortuna avere accanto un uomo tanto servizievole.

Ma non riuscì a prendere sonno. Si buttò sul letto, angosciandosi per Annie, ossessionata dalla visione che lei aveva appena avuto di Harry morto.

Annie dormiva profondamente, ma un’ora prima dell’alba Vera cominciò a svegliarsi a intermittenza. Durante uno di quei momenti di veglia udì un rumore provenire dalla camera della figlia. Si sedette sul letto, intontita.

Sentiva il fruscio di vestiti contro le pareti, mani che urtavano oggetti, come se cercassero qualcosa a tentoni nel buio. Passi sul pavimento. Un leggero, morbido scalpiccio sul tappeto.

Vera balzò giù dal letto. «Annie!» chiamò.

Ma era troppo tardi.

Un grido. Tonfi sordi e rovinosi. Gemiti infantili. E poi… silenzio.

«No!» urlò Vera.

Si precipitò sul pianerottolo e vide Annie rannicchiata per terra in fondo alle scale, col sangue che le sgorgava dal naso.

Volò giù da lei. Sapeva di non doverla muovere e quindi si precipitò al telefono, annaspò con il ricevitore e fece il numero del pronto soccorso.

«Ho bisogno d’una ambulanza.»

Vera dovette aspettare solo venti minuti per sapere delle condizioni di Annie. Seduta tutta sola nella piccola, ormai familiare, stanza vicino al pronto soccorso di Roselawn, udì il passo zoppicante del dottor Laval, che era accorso all’ospedale dopo essere stato avvertito dalle infermiere. Apparve sulla porta della sala d’aspetto, trascinandosi dietro la gamba offesa, con indosso una camiciola sportiva azzurra e pantaloni grigi. Sorrise debolmente.

«Assolutamente niente di grave», disse.

Un peso enorme sembrò abbandonare le spalle di Vera, che abbassò la testa respirando di sollievo.

Laval entrò e le batté sul braccio. «Annie ha fatto una brutta caduta. Ma, a parte qualche leggero ematoma, non c’è nessun danno serio.»

«Sarà del tutto normale?» chiese Vera.

«Ma certo. Se pensi a danni cerebrali, stai tranquilla. È sveglia, cosciente e potrai vederla tra qualche minuto.»

Sulle labbra di lei spuntò un caldo sorriso, che però svanì rapidamente. «Non so come sia successo», cominciò. «Avrei dovuto far mettere un cancelletto su quelle scale.»

«Dai! Nessuno mette un cancelletto per una bambina di quell’età.»

«Ma…»

«Andiamo a vederla.»

«Sì.»

Lentamente, sentendosi di colpo invecchiata, si alzò per seguire Laval, ma si ricordò all’improvviso di avere indosso un vestito da casa e le pantofole. «Non ho avuto il tempo di cambiarmi», si scusò.

«Nemmeno io», ribatté Laval con un sorriso. Assieme si diressero verso il pronto soccorso.

Annie non era ancora nella sua stanza. Giaceva su un letto nella sala comune, zeppa di armadietti, apparecchiature elettroniche e barelle, e impregnata dall’odore di medicamenti e disinfettanti. C’erano altri letti, ma tutti vuoti. Il pavimento era costellato di macchie.

Annie aveva un aspetto piuttosto buono. Aveva un grosso bernoccolo sul lato destro della testa, e qualche cerotto sulle braccia, le gambe e il viso. Gli occhi erano bene aperti e vigili, ma la bambina stava fissando il soffitto quando Vera entrò e sul momento ne ignorò la presenza.

«Ciao, tesoro», disse Vera, cercando di sembrare il più naturale e disinvolta possibile.

Stranamente, sinistramente, la testa di Annie rimase immobile.

«È il sedativo», bisbigliò Laval. «Un attimo di pazienza.»

«Stai bene?» domandò Vera.

Lentamente, Annie girò la testa verso sua madre e la fissò senza parlare. Vera fu assalita da un’improvvisa paura, perché ciò che vedeva sul viso della figlia non era intontimento, ma choc. Uno choc profondo, quello dovuto alla vista di qualcosa di terribile. «Che cosa c’è?» chiese, agghiacciata dalla paura. «Annie, che cos’è successo?»

Finalmente le labbra della bambina cominciarono a muoversi. «Mammina», pronunciò con voce a malapena percettibile, «sono caduta per le scale.»

«Sì, tesoro, lo so. Ma passerà presto.»

«Era venuto per uccidermi.»

Vera guardò ansiosamente Laval, poi altri medici e infermiere che erano lì ad ascoltare. «Vedi, Annie, hai fatto un altro dei tuoi sogni», le disse pensosamente.

«L’ho visto, mamma. Aveva una pistola. Voleva uccidermi. Ecco perché sono scappata dalla mia camera e sono caduta.»

«Chi era, tesoro?»

«Non ti arrabbierai con me?»

«No, certo.»

«Mammina… era zio Ned!»

Vera gettò un’occhiata ai dottori e alle infermiere. «Su, Annie», disse, «dovresti vergognarti. Lo zio Ned ti vuole bene più di chiunque altro, tranne la tua mamma.»

«L’ho visto!» gridò di colpo Annie, facendo voltare la testa di tutti quanti erano nel corridoio. L’espressione decisa, quasi fanatica, gli occhi brucianti, urlò ancora: «Mamma, mi ero svegliata e lui era fuori della finestra. Mi puntava contro una piccola pistola. Mi sono spaventata, sono scappata e sono caduta dalle scale!»

Seguì un silenzio di tomba, mentre Laval e Vera cercavano la risposta adatta, ma era difficile. «Annie», si decise Laval, con voce sinceramente affettuosa, «penso che tua mamma abbia ragione. Un brutto sogno, Ann. Un brutto sogno.»

«Bambina mia», aggiunse Vera, «perché mai zio Ned vorrebbe farti del male?»

«Non mi vuole più bene», spiegò imbronciata Annie, «perché vedo le scene.»

«Ma dai!» rispose Vera. «Ti vorrebbe bene anche se fosse la fine del mondo.»

Allora Annie rovesciò indietro la testa e fissò il soffitto.

Vera fece cenno a Laval di seguirla fuori della stanza. «Torniamo subito», disse alla figlia.

«Tu non mi credi», dichiarò la bambina.

«Ma no, dobbiamo solo parlare», la rassicurò Laval.

Vera e il dottore si appartarono in un corridoio che portava a una camera per i raggi X e lei si accorse di un cambiamento della propria opinione riguardo alle rivelazioni di Annie. Questo, pensò, doveva essere un brutto sogno e nient’altro. Non poteva essere una visione, una facoltà soprannaturale. Chiaramente, Ned McKay non sarebbe mai venuto a uccidere Annie.

Laval le offrì il miglior suggerimento che gli era possibile. «Non agitarti», le disse, «perlomeno Annie non si è fatta male seriamente.»

«Ma la sua mente», gemette Vera. «Che cosa ci sta succedendo dentro?»

Laval si strinse nelle spalle. «Se lo sapessimo davvero, mia cara, potremmo fare qualcosa.»

Vera restò un attimo pensierosa, come se stesse riconsiderando quanto aveva detto la figlia. «Sa, Ned ha una pistola.»

Laval la guardò, stupito. «Non vorrai per caso suggerire…»

«No, no, naturalmente, ma Annie sapeva che lui l’aveva.»

«Senz’altro, l’avrà vista in qualche occasione», ipotizzò con aria pensierosa Laval, «e l’arma le è rimasta impressa nella mente. È così che le cose entrano poi nei nostri sogni.»

«Lei pensa che Annie creda davvero che Ned?…»

Il medico allargò le braccia. «Brancolo nel buio, e non dovrei», ammise. «Che cos’abbia visto lei, lo ignoro. E tu?»

«Anch’io. Ma non riesco a sopportare quello che sta succedendo.» Vera si premette le dita sugli occhi, disperata. «C’è all’opera qualche forza maligna. È come se il diavolo si sia impossessato di lei.»

«Ehi, non vorrai credere a una cosa del genere.»

«Sì. Penso che sia al disopra di tutti noi.»

«Vera», l’ammonì Laval, «la cosa peggiore che puoi fare è pensare al diavolo. Vedo in continuazione gente che lo fa e ne viene distrutta.»

Vera sospirò, ancora una volta suggestionata da una voce pacata e autorevole. «Probabilmente lei ha ragione, ma una madre vuole delle risposte.»

«Ma le risposte giuste, Vera.»

«Certo.»

Non aggiunse altro e ritornò a fare un’altra visitina ad Annie, per controllarne le condizioni. Sentendola avvicinarsi, la bambina si voltò a guardarla. C’era nei suoi occhi un fiero risentimento. Quegli occhi che sembravano vedere tante stupefacenti cose in quel momento sembravano ardere e trapassare Vera, fissi nell’ignoto. Erano occhi che nessuno avrebbe osato dimenticare.

9

«Ha detto che tentavi di ucciderla. Ha detto che eri alla finestra, con una rivoltella.»

Ned, seduto dietro l’imponente scrivania, scuoteva tristemente la testa mentre Vera parlava. Aveva pesanti borse sotto gli occhi arrossati: le conseguenze evidenti dello sfinimento fisico della notte precedente.

«Questo è davvero triste», disse, tamburellando nervosamente sulla scrivania. «Mi sconvolge il fatto che Annie sia stata di nuovo in crisi. Non so, forse è arrabbiata con me per qualcosa. Chi può capire quello che le passa per la testa?»

«Non ha nessun motivo per essere in collera con te, Ned», lo rassicurò Vera.

«Forse lo è», disse Ned con tono depresso, assumendo un’aria colpevole e dispiaciuta. «Ho sempre minimizzato quelle sue visioni. Naturalmente l’ho fatto per il suo bene, ma una bambina può non capirlo. Magari ce l’ha con me per questo.»

«Ned, Annie ti adora.»

«I bambini fanno presto a cambiare idea, Vera.»

«Forse dovresti andare a trovarla all’ospedale. Le farà piacere.»

Ned si appoggiò allo schienale e sospirò profondamente. «Per me lo farei, ma è meglio che tu senta Laval. Se Annie crede sul serio che ho cercato di farle del male potrebbe reagire negativamente vedendomi.» Intrecciò le mani. «Dio mio, non avrei mai creduto di doverci pensare due volte per vedere Annie.»

Vera si sentiva a pezzi. Ned, l’uomo che aveva fatto tanto per loro, era lì, sconvolto e umiliato da una crudele accusa infantile. «Ned, ti prego, non sentirti in colpa», gli disse. «Il problema è Annie. Ma siamo noi gli unici che dobbiamo risolverlo.»

«E come?» domandò lui. «A noi occorre qualcuno che abbia la dovuta competenza nel campo delle turbe…»

«Dillo, non fermarti.»

«Non intendevo quello.»

«Delle turbe mentali?» Vera era chiaramente sconvolta davanti alla realtà che finalmente veniva a galla. «Della pazzia?»

Ned sgusciò fuori dalla sedia e le si avvicinò, passandole le mani sulle spalle. «Vera, è un argomento scabroso. Annie non è pazza. Tu questo lo sai. Io lo so. Ha solo un piccolo problema.»

«Piccolo», gli fece eco Vera, ironicamente.

«Ho fatto qualche indagine», proseguì Ned. «Sto cercando di documentarmi su tutto quanto c’è di meglio e di più progredito che possa aiutarla e mi hanno detto di un posto chiamato Whiteside Clinic. È subito a nord di Briarcliff. È ritenuta di prim’ordine nel trattamento dei bambini.»

«Ci diranno le stesse cose degli altri», replicò Vera. «Forse ci occorre qualcos’altro, un posto specializzato in… fenomeni psichici insoliti. Ho letto una volta che alla Duke University c’è un laboratorio per queste faccende.»

«Posso accertarmene», disse Ned, «ma ho paura di spingermi al di fuori della scienza medica. Sta’ a sentire. Perché prima non tentiamo con la Whiteside? Puoi farci un salto a dare un’occhiata, a parlare con la direzione. So che il paziente ci rimane per un po’ e che anche i parenti possono alloggiare li. Magari ti ci troveresti bene.»

«Be’, magari, Ned. Non so più che cosa dire o fare.»

«Organizzo tutto io», la rassicurò lui. «E dirò a Laval di andare a visitare Annie. Vera, andrà meglio, credimi. Qualcuno saprà finalmente come risolvere la faccenda.»

Vera alzò gli occhi su di lui e gli sorrise. Riusciva sempre a rincuorarla. Sapeva come risolvere i problemi. Già la sua sola presenza era confortante. Lei si stupiva che avesse accolto le accuse di Annie con così tanto garbo e che desiderasse con tutto il cuore che la nipote guarisse.

Vera lasciò lo studio, sentendosi in un certo senso più tranquilla di quando vi era entrata. Ogni idea di attrito tra lei e Ned era svanita. Sì, non avrebbe trascurato di tentare con la clinica di Whiteside e con qualsiasi altra possibilità. Ma ne conosceva i rischi, e non s’abbandonava a speranze assurde.

S’incamminò lungo la via affollata e rumorosa dove Ned aveva lo studio. S’era infilata gli occhiali scuri, sperando di non venire riconosciuta. Non gradiva le occhiate, i mezzi accenni di chi l’aveva vista alla televisione o sui giornali.

Quando arrivò alla sua auto trovò sul sedile anteriore una busta marrone. Sull’angolo sinistro, in alto, l’intestazione New York Daily News. Dentro, un ritaglio di giornale ingiallito, un articolo a piena pagina su un’eccentrica psichiatra di New York, una certa Marie Neuberger.

Rapidamente, Vera si mise a leggere:

Questa è la storia di una psicanalista che crede agli spiriti. È la vicenda di una dottoressa la quale è stata, almeno ufficiosamente, bandita dalla sua professione, ma che ha aiutato innumerevoli persone che erano state derise, ridicolizzate o ignorate perché i loro disturbi non ricadevano nell’ambito delle malattie conosciute dalla scienza di Esculapio. Affermate associazioni mediche hanno tentato, per anni, di far togliere la licenza alla dottoressa Neuberger, i cui precedenti pazienti, tuttavia, sono sempre intervenuti a sua difesa. E anche se, attualmente, pendono contro di lei due accuse per pratiche illecite, sembra ci siano scarse possibilità che lei perda la sua fama di «ultima spiaggia» per anime tormentate.

Vera restò perplessa e attratta, ma il suo interesse era temperato dal suo conservatorismo. Aveva sempre preferito il medico illustre e rispettabile. Per quanto riguardava Annie, si poteva dar fiducia a quella donna, che il News descriveva come eccentrica, quasi una fattucchiera? Non era semplicemente qualcuna che speculava sui terrori di gente senza speranza? Ned avrebbe disapprovato. Poco, ma sicuro. Vera, comunque, continuò a leggere, finché l’attenzione le si concentrò su una frase:

… una volta, la dottoressa Neuberger cercò di far parlare uno dei suoi pazienti con un parente morto. Il paziente affermò che la cosa riuscì, ed eguale dichiarazione fu fatta da «esperti» stupefatti affluiti da un circolo sperimentale di parapsicologia.

Vera avvertì come una scarica elettrica. Annie pensava di aver visto Harry morto: quello poteva forse servire.

Sbirciò al centro della pagina la firma dell’articolista: Larry Birch. Sull’angolo destro inferiore, c’era una nota personale scarabocchiata a penna:

Se ne è interessata, mi telefoni. Niente abito scuro, cravatta di Pierre Cardin o scarpe lucide, ma la Neuberger è grande. L.B.

Seguiva il numero di telefono del Daily News.

Vera guardò dal finestrino giusto in tempo per scorgere una vecchia Chevrolet scassata uscire da un parcheggio lì vicino. Al volante c’era Larry Birch, con i soliti capelli arruffati.

Lei lo seguì con lo sguardo, completamente disorientata. Aveva il disperato bisogno di credere in qualcosa, in qualcuno. In un certo senso il trasandato Larry Birch le andava a genio. I suoi articoli in occasione della sparizione di Harry erano stati sensibili e onesti. La sua stessa sciatteria faceva quasi tenerezza, lo rendeva più umano. E aveva il fiuto giornalistico di dove stava la gente «buona», di chi era genuino e reale.

Vera tornò all’ospedale per stare un po’ con Annie, che era stata trasferita in una cameretta singola. Laval l’aveva fatta assegnare a un reparto speciale per bambini tenuti sotto osservazione psichica. Laval aveva convinto Vera che era per il bene della piccola, e che non sottintendeva un bel niente.

La stanza di Annie era dipinta di un verde tenue e conteneva un televisore e una piccola libreria. Aveva anche, su una parete, uno specchio speciale che permetteva ai medici di osservare Annie, senza essere visti, dal locale attiguo. Una telecamera e un microfono, posti sulla parete sopra un termometro dall’apparenza innocente, la registravano ventiquattr’ore su ventiquattro, e una macchina fotografica sul soffitto fotografava ogni quattro minuti il suo comportamento nel sonno. Dispositivi e precauzioni che davano a Vera la sensazione che la figlia avrebbe ricevuto le cure idonee durante la degenza in ospedale.

Il programma terapeutico prevedeva per Annie due giorni di intensivi esami psichiatrici, che includevano interviste e i soliti test, associazioni di parole, disegni rivelatori, quozienti base di intelligenza. Quando Vera giunse all’ospedale, la bambina stava eseguendo un test grafico, in cui doveva disegnare le cose che più o meno le piacessero. A tale scopo l’avevano portata in una gaia sala giochi, piena di colore, facendola lavorare con la psicoioga dell’equipe medica. Non c’era con lei nessun altro.

Ai visitatori non era permesso di attendere in quello speciale reparto e quindi Vera rimase in una sala d’aspetto due piani più in basso a leggere una rivista, ansiosa di vedere Annie non appena il test si fosse concluso. Aveva sott’occhio un articolo di Good Housekeeping sul come allevare un bambino in una famiglia cui fosse rimasto uno solo dei genitori. Le risultava ancora imbarazzante leggere articoli su quel tema e cercò di tenerne nascosto il titolo mentre altri visitatori andavano e venivano.

Due piani sopra, Annie stava disegnando un cavallo, uno dei soggetti che più le piacevano. La psicoioga prendeva appunti sui colori scelti da Annie, sul suo entusiasmo e su qualsiasi elemento nel disegno stesso che rivelasse timori o desideri insoliti. Le cose andavano bene. Annie era distesa sul pavimento di linoleum, nel suo grembiule giallo, intenta a disegnare il collo marrone e bianco del cavallo, prolungando il tratto verso il corpo e le zampe anteriori che galoppavano. Per una bimba della sua età, la verosimiglianza era ragionevolmente buona.

Ma, iniziando la zampa destra, Annie si bloccò di colpo. Le sue mani s’irrigidirono. La psicoioga che la sorvegliava notò il cambiamento, ma pensò che, semplicemente, avesse delle difficoltà con il disegno.

«Voglio la mia mamma», piagnucolò Annie.

La psicoioga continuò a osservarla, ignorando l’implorazione.

Gli occhi della piccola si spalancarono di colpo. Il suo respiro divenne rapido e ansante. «Voglio la mia mamma», ripeté.

La psicoioga sorrise. «Guarda, Annie, che tua mamma è a un altro piano.»

«La voglio!» Saltò in piedi, gli occhi già lucidi di lacrime. Poi lasciò cadere la matita colorata e si precipitò fuori del locale.

La psicoioga, una ventenne minuta, mise giù penna e taccuino e le corse dietro. Ma Annie, con velocità sorprendente, già filava urlando lungo l’atrio, come un’invasata.

Infermiere e inservienti sentirono il tumulto e accorsero, dandosi all’inseguimento di Annie che si lanciava verso le scale in cerca di Vera.

«Mamma! Mammina, dove sei?»

Un’infermiera fece scattare il pulsante rosso di allarme, che diffuse in ogni piano uno scampanellìo contenuto, e si portò subito dopo al microfono dell’impianto generale di diffusione. «Paziente in crisi», annunciò pacatamente, dando l’ubicazione di Annie in tono quasi casuale, cercando di non disturbare gli altri ricoverati.

Annie galoppò giù per le scale, sfiorando due sanitari che restarono lì impalati. All’improvviso venne affrontata da due inservienti vestiti di bianco, che le sbarrarono ogni via di fuga.

«Mammina!» gridò, «ho visto papà morto, vicino al ponte!»

Un inserviente riuscì ad afferrarla, ma ce ne volle un altro per domarla. La bimba ansimava spasmodicamente, piangendo da isterica, la pelle gelata e intrisa di sudore.

Cercarono di riportarla nella stanza, ma lei scalciava e si sbracciava violentemente. Dovettero inchiodarla sul pavimento e chiedere un intervento d’emergenza.

Vera, avvisata da un’infermiera, accorse, salendo i gradini a due a due.

Si fermò inorridita vedendo due robusti inservienti infilare ad Annie una camicia di forza. La bimba sanguinava dalla bocca, macchiando di rosso i due uomini e il pavimento.

Alzò gli occhi e scorse Vera. «Mamma!» gridò. «Papà… morto, vicino al ponte!»

Qualche attimo dopo accorse un dottore con un’enorme siringa e immerse l’ago nel braccio di Annie.

La piccola emise un urlo selvaggio, poi si afflosciò.

La collera invase Vera. Nessuno, d’ora in avanti, avrebbe trattato sua figlia in quel modo!

In silenzio seguì gli inservienti che riportavano in camera Annie inerte. Vera lottò disperatamente per non esplodere, per dominare l’impulso irrefrenabile di scagliarsi contro i «professionisti» che circondavano Annie, che restavano fedeli così rigidamente alle loro rispettabili idee. Nella sua collera, nel suo orrore, prese una decisione: no, non avrebbe più permesso che Ned decidesse del destino di Annie, per quanto caro e affettuoso, per quanto bene intenzionato fosse. Anche lui era schiavo del rispetto per la medicina tradizionale. Quelle persone che trasportavano Annie, che l’avevano legata e drogata… erano loro i rappresentanti della scienza. Avevano fallito. Tutti avevano fallito.

10

Larry Birch non era mai stato così soddisfatto.

Guidava la grigia Chevrolet lungo la Saw Mill River Parkway, a venti chilometri oltre il limite di velocità. Vera e Annie erano sui sedili posteriori. Nonostante gli scossoni e i sobbalzi provocati dalla guida caotica di Birch e dall’assoluta mancanza di sospensioni dell’auto, nessuno protestava. Il senso di liberazione, di ansia per una soluzione che sembrava vicina erano troppo grandi.

«Sono nauseato», aveva detto il dottor Laval quando Vera gli aveva dichiarato che sarebbe andata da Marie Neuberger. «Quella non è scienza medica», l’aveva rimproverata, «è ciarlataneria.» E Laval si era immediatamente lavato le mani del caso di Annie. «Non avrò mai niente a che fare con medicastri», aveva dichiarato, disponendo che la cartella e i precedenti clinici di Annie non fossero trasmessi alla Neuberger.

Laval voleva anche avvertire Ned delle intenzioni di Vera, ma lei fece appello alla loro amicizia, al segreto professionale per insistere perché il cognato non venisse informato immediatamente.

Birch girò per la West Side Highway, che correva lungo il fiume Hudson. Era in estasi: pensava compiaciuto a quanto, con il suo aiuto, stava prendendo forma. Certo, era posto di nuovo davanti al problema etico di «costruire» una notizia sensazionale grazie al proprio intervento, ma accantonò ben presto ogni scrupolo. Non stava forse aiutando una povera bambina afflitta da un male misterioso? Non era lui, prima di tutto, un essere umano e, dopo, un giornalista? Sì, da quella sua azione caritatevole avrebbe tratto modesti utili: una storia da prima pagina, l’invidia dei colleghi, forse il Premio Pulitzer. Ma che cos’era tutto ciò rispetto alla soddisfazione di avere salvato una famiglia?

All’uscita della Settantanovesima strada, Birch lasciò la West Side Highway. Poco dopo transitava per vie brulicanti di una folla pittoresca ed etnicamente composita. Piegò a sud su Broadway che, in quella parte a nord dalla zona dei teatri, era un’arteria residenziale e commerciale, piena di piccoli negozi e di supermercati, molti con la merce esposta sul marciapiede. Poi infilò la Settantaquattresima Ovest per fermarsi davanti a un grande edificio residenziale in stile barocco.

«Perché ci fermiamo?» domandò Vera.

«Siamo arrivati.»

«È qui che vive la dottoressa?»

«Già. Proprio qui all’Ansonia. Guardi, Mrs. McKay, non storca il naso. Questo è un vecchio edificio famoso, un simbolo. Ci ha vissuto un sacco di artisti. Alcuni ci abitano tutt’ora.»

Vera guardò gli «artisti» che ciondolavano lungo il marciapiede lungo e stretto, che percorreva l’intero isolato. C’erano bohémien dall’abbigliamento trascurato, qualche coppia di invertiti che si prendeva in giro a vicenda, uno sfaccendato di passaggio e un assortimento di gente qualunque. Nessuno avrebbe trovato collocazione a Tarrytown.

«Che razza di medico vorrebbe esercitare in un posto del genere?» chiese Vera, preoccupata.

«Marie Neuberger», rispose Birch, girando la chiavetta dell’accensione e lasciando spegnare il motore con un ultimo sussulto. «È una di quella razza.»

Vera soffocò i suoi sentimenti di conservatorismo provinciale. Sapeva che poteva essere l’ultima speranza per Annie.

Scesero dall’auto e Vera fu immediatamente aggredita dal puzzo degli scappamenti e dai cattivi odori che aleggiano, in una giornata calda, nella Settantaquattresima Ovest. Birch, Annie e Vera entrarono nel vecchio Ansonia e, nell’atrio, presero l’ascensore. Lentamente raggiunsero l’ottavo piano e s’inoltrarono lungo l’oscuro pianerottolo, in cui stagnavano aromi della cucina dell’Europa orientale. In uno degli appartamenti qualcuno pestava su un pianoforte scordato, forse per rievocare il passato splendore dell’Ansonia, ma l’esecuzione risentiva delle più modeste capacità degli attuali inquilini.

Birch guidò Vera e Annie davanti a una porta verde di legno, in fondo al pianerottolo. La vernice era scrostata e sopra lo spioncino era avvitata una targa sbiadita: DR. MARIE NEUBERGER.

Birch tentò di suonare il campanello, ma il pulsante era bloccato. Allora bussò e un po’ di vernice e di polvere caddero sul logoro zerbino rosso.

Vera strinse forte la mano di Annie. Sentiva crescere in sé la tensione. L’Ansonia sembrava una di quelle case stregate dei romanzi o dei film dell’orrore.

Dall’interno si sentì un rumore di passi rapidi, decisi, più forte a mano a mano che si avvicinavano alla porta.

Di colpo lo spioncino si aprì.

«Chi è?» chiese una voce con un lieve accento mitteleuropeo.

«Birch. Ho con me le McKay.»

«Desidera una visita?»

«Sì», rispose il giornalista, «siamo qui per questo.»

«La visita è per lei, Birch? È malato?»

«No, è per le McKay», spiegò lui sempre parlando alla porta chiusa.

«Che lo dica la signora, allora.»

«Sì», intervenne Vera, «desidero la visita.»

Tre serrature scattarono una dopo l’altra, poi la porta si aprì, cigolando sinistramente.

Un piccolo volto dalla carnagione terrea e dalle rughe accentuate fece capolino. Marie Neuberger era esile e, come minimo, sulla sessantina. Capelli bianchi, raccolti a crocchia sulla nuca. Indossava una gonna jeans su una calzamaglia nera, con una camicia scozzese troppo grande. I freddi occhi marrone erano protetti da occhiali dalle lenti azzurrate, senza montatura. Si accorse che Vera era sconcertata dal suo aspetto.

«Lo so», disse, sempre senza sorridere. «Non assomiglio ai medici della televisione. Sono poco presentabile, vero?»

«Oh, no», si affrettò a rispondere Vera.

«Lei mente, ma è okay. Lei mente per farmi sentire meglio.»

Vera arrossì, non sapendo che cosa rispondere.

Marie Neuberger li squadrò, uno dopo l’altro. «Non visito qui sulla porta», disse. «Di solito la gente viene dentro.»

Accennò all’interno dell’appartamento e i tre entrarono. L’alloggio era reso scuro da piante artificiali che toglievano gran parte della luce. Il mobilio era vecchio, in stile provenzale, sui toni del bordeaux. Le pareti quasi tutte nude, dipinte di una tinta mostarda. Ma qua e là si notava una litografia e, sistemato in un angolino, c’era un gruppo di vecchie fotografie ingiallite. Vera le fissò, cercando di mostrarsi incuriosita.

«Le interessano?» le chiese la Neuberger.

«Sì.»

«I miei insegnanti, a Vienna.»

«Dovevano essere grandi uomini.»

«Contraddizione in termini. Si sbagliavano tutti ed erano barbosi.»

«Allora perché tiene appese qui le loro foto?»

«Hanno figli in America», rispose la Neuberger. «A volte vengono a far due chiacchiere. Non voglio rompere i ponti con la vecchia patria.» Si avvicinò alle fotografie. «Hanno studiato tutti con Freud. Che bidone, quello.»

«Sigmund Freud?» si stupì Vera.

«E chi altri? Il macellaio? Un dritto, quello. Delle creature umane ne sapeva quanto io so dei pinguini. Aveva soltanto ciò che oggi si chiamano buone relazioni pubbliche.» I suoi occhi guizzavano da Vera ad Annie. «Chi è la paziente?» chiese asciutta.

«Tutt’e due», rispose Birch.

La Neuberger alzò lo sguardo al soffitto. «Che cosa credete che sia questa, una fabbrica?»

«Si tratta della mia bambina», si affrettò a spiegare Vera. «Ma anch’io posso aver bisogno di aiuto.»

«Perché crede alle sue storie fantastiche?»

Vera sussultò. «Non sono…»

«Sì, sì, sì, lo so. Non lo sono mai.»

Vera si sentì di colpo scombussolata. Lanciò un’occhiata apprensiva a Birch.

«Perché guarda lui?» domandò la Neuberger. «Lui non dovrebbe nemmeno essere qui.» Si rivolse al giornalista. «Lei se ne vada e aspetti giù dabbasso.»

Birch era abituato ai modi della Neuberger, ma si finse sorpreso. «Dottoressa, sono amiche mie. Non posso davvero piantarle qui.»

«Perché no? Annegheranno qui da me? O se ne va lei, o se ne vanno loro. Questo non è uno spettacolo teatrale come giù in città.»

Birch si strinse nelle spalle. «Vado a fare due passi», disse a Vera. «Comunque non mi allontanerò. Qui si troverà benissimo.»

Vera avvertì un’immediata, illogica paura, ma non si oppose.

Quando Birch si chiuse la porta alle spalle, lei capì che aveva oltrepassato il punto da cui sarebbe stato impossibile tornare.

«Questa gente dei giornali», commentò la Neuberger, scuotendo la testa mentre richiudeva accuratamente l’uscio, «bisogna stare in guardia da loro. Questo Birch è uno di quelli onesti. Mi procura pazienti. Ma poi ne tira fuori degli articoli.» Accennò bruscamente verso il divano color porpora. «Lei e la piccola, sedetevi. Coraggio.»

Obbediente, Vera prese Annie per mano, e si accomodarono entrambe. Lei si era concentrata tanto intensamente sulla Neuberger da non accorgersi che la mano della bambina tremava. Notava solo in quel momento che Annie era come pietrificata.

«Ha sposato sua figlia, lei?» le domandò la dottoressa.

«Prego?» rispose Vera, attonita.

«Le tiene la mano, come nelle belle statuine.»

«Penso sia un pochino spaventata.»

«Di che cosa? Di me? L’ha portata qui in macchina?»

«Sì.»

«Aveva paura?»

«No.»

«E allora… non era spaventata per i pazzi che circolano in macchina, degli ubriachi e dei vagabondi, ma ha paura di me. Non è un buon segno… lei si comporta in modo sbagliato con sua figlia.»

«Perché? Che cosa le faccio, io?»

«È lei che la rende timorosa. La piccola sente che sua madre ha paura di me.»

Vera, a disagio, si agitò sul divano. «Be’, forse…»

«Lei è un’insicura. Dipende da altre persone. Le va una birra?»

«Birra?»

«Sa che cos’è una birra, no?»

«In uno studio medico?»

«Signora, qui non siamo in chiesa. Birra?»

«No… grazie.»

«La bimba?»

«Birra ad Annie?»

«Signora», disse la Neuberger, con condiscendenza, «la birra non fa male ai bambini. Questa è un’altra delle storie fasulle a cui lei crede. La piccola si berrà una Heineken.»

«No!» ribatté Vera con fermezza.

«Okay, io sì.» La Neuberger marciò in cucina. Vera, nonostante tutti gli avvertimenti che aveva ricevuto, era terrorizzata. Quella donna era matta, dava i numeri. Sbirciò l’orologio. Quando avrebbe potuto squagliarsela educatamente?

Annie le si strinse vicino e le sussurrò all’orecchio: «Mamma, che cosa c’è che non va in quella signora?»

«Che cosa vuoi dire?» bisbigliò Vera.

«Parla in modo strano.»

«Be’, certe persone fanno così.»

«Mammina, ho paura. Credo sia una strega. Andiamo a casa.»

«Forse lo faremo. Ancora qualche minuto e poi decideremo.»

La Neuberger tornò poco dopo, portando un boccale di birra. Ne ingollò un buon quarto prima di riprendere a parlare. «Fa bene», spiegò. «Dilata le arterie.»

«Capisco», disse Vera.

La Neuberger si appollaiò su una grande poltrona di fronte al divano. «Così, lei è venuta da me perché è già stata dappertutto, da altri. Giusto?»

«Sì. Abbiamo tentato di tutto.»

«Siete state da alcuni dei cosiddetti psichiatri. Quelli che hanno studi eleganti, con interfono e quattrini in banca.»

«Sì.»

«E lei ha un problema con la piccola», aggiunse la Neuberger. «Naturalmente l’ho vista alla televisione e ne ho letto sui giornali, ma questo non conta. Ma, a quanto mi risulta, la bimba vede le cose.»

«Sì», rispose Vera.

«E allora?»

La faccia di Vera assunse un’espressione interdetta. «Lei non si intende di queste cose?»

La Neuberger alzò le braccia, fingendosi mortificata. «Non sono Dio. Dio forse lo sa… forse.»

Mentre Vera la osservava, la Neuberger posò il bicchiere e la fissò attentamente, con occhi che sembravano bruciare, penetrare nel fondo del suo animo. Ebbe paura di quell’esame, ma allo stesso tempo quegli occhi sembravano possedere una speciale seconda vista e tanta saggezza.

«Mia figlia sembra in grado di predire il futuro», disse Vera.

La Neuberger rise di cuore. «Assurdo. Nessuno è in grado.»

«Ma lei sì.»

«E lei si aspetta che io, un medico, creda a queste stupidaggini?»

«Ma io pensavo lei credesse nel…»

«Ah!» esclamò l’altra. «Queste storie sul mio conto circolano ovunque. Ricevo delle lettere così strane. Signora, io credo soltanto quando c’è una prova. Qui che cosa vedo io, se non una madre isterica?»

«Non sono un’isterica. Lei sa benissimo di che cosa sto parlando. Voglio il suo aiuto.»

«Allora deve raccontarmi esattamente come è cominciata questa bizzarra faccenda. Dopo sarò io a dirle qual è il problema, sempre che quanto sentirò abbia senso. A quanto ne so, suo marito ha tagliato la corda.»

«Mio marito è scomparso l’anno scorso.»

«Ma lei era felice. Il suo matrimonio non aveva problèmi.»

«Lei come lo sa?» domandò Vera.

«Da come abbassa la voce e gli occhi e cambia il ritmo del discorso quando parla di lui.»

«Capisco», mormorò Vera.

«Dopo che lui, questo marito, se n’è andato, le cose per lei si sono fatte difficili?»

Vera sospirò profondamente. «Ero rimasta sola. È stato molto duro.» Sembrò perdersi in un ricordo lontano.

«La piccola ha reagito male alla scomparsa del padre?»

«Molto. Erano molto vicini.»

«Vicini, quanto?»

«Gliel’ho detto, molto.»

«Il che non mi dice niente.»

«Erano sempre insieme.»

«Fisicamente?»

Vera alzò le braccia, esasperata. «Be’, in quale altro modo?»

«Si comporti educatamente con me!» scattò la Neuberger. «Ci sono parecchi modi di essere insieme. Si può essere nella stessa casa, a mezzo metro da un altro, e nemmeno accorgersene. Io sono insieme con la gente quando vado in metropolitana. E non significa che le voglia bene.»

«Capisco che cosa vuol dire», rispose Vera. «Si parlavano sempre. Non per il fatto che Harry ci fosse o meno. Lui le prestava sempre attenzione.»

«E questo, alla piccola, manca.»

«Naturalmente.»

«Mi dica se sua figlia ha mai avuto qualcuna di quelle stranezze prima che il padre se ne andasse.»

«No, era perfettamente normale.»

La Neuberger frugò in un armadietto e ne tirò fuori una scatola di biscotti. «Ecco, carina», disse, «prendine uno.» Era la prima cosa gentile che avesse fatto e Vera notò anche che i suoi lineamenti severi si erano un po’ addolciti.

Annie esitò, guardando la madre, la quale annuì che andava bene. La bambina esitò ancora.

«Coraggio!» insisté la Neuberger.

Annie scese lentamente dal divano, le si avvicinò e prese il biscotto. «Grazie», disse quasi in un bisbiglio e tornò a sedersi.

«Un pochino viziata», commentò la dottoressa.

«Che cosa?» esclamò Vera.

«Ho visto che si aspettava che le portassi io il dolcetto. È un sintomo. Deve stare attenta. Specialmente con il papà assente, i bambini diventano viziati, poiché la famiglia cerca di compensare quell’assenza.»

«Ci starò attenta», promise Vera, riconoscendo che il suggerimento era buono.

«Adesso mi racconti dall’inizio della strana faccenda.»

«È stato parecchi mesi fa», cominciò Vera. «Annie si è ammalata gravemente una sera e…»

«Quando ha cominciato a riprendersi sono cominciati anche i problemi.»

«Sì. Ha avuto una visione: cadeva sui binari del treno nello stesso identico modo in cui una ragazzina era morta a Topeka appena prima che lei si ammalasse.»

«Sì, questo l’ho sentito dire. Non deve farci caso. Naturalmente sua figlia l’aveva saputo da qualcuno, anche se dicono che nessuno ne era a conoscenza. La cosa è spiegabile.»

«Ma poi», aggiunse Vera, «Annie ha saputo che per poco non restavo vittima di un incidente automobilistico.»

«Nessuno attorno a lei ne era al corrente?»

«No, impossibile», rispose Vera. «Annie lo ha saputo nell’attimo stesso in cui stava succedendo.»

«Che importanza ha?»

Vera trasalì. Guardò dubbiosa la psichiatra. «Non la seguo, dottoressa.»

«Che importa se ha fatto queste cose?» ribatté la Neuberger. «Ci sono tante spiegazioni! Ne vuole una, gliene do una. Ma in questo gli altri medici probabilmente avevano ragione. Avranno sostenuto che era una coincidenza, o una delle solite percezioni extrasensoriali.»

«Sì.»

«Quindi il caso finisce qui.» La Neuberger si alzò, evidentemente in procinto di accompagnarle alla porta.

«Ma lei non ha capito!» protestò Vera. «È successo ancora, altre volte.»

La Neuberger alzò le spalle. Vera era stupefatta. La Neuberger era più rigida, più ottusa di tutti gli altri dottori.

«Mi sta dicendo», chiese Vera, «che non c’è nient’altro che possa fare?»

«Senta», replicò la Neuberger, «si metta nei miei panni. Se fosse lei ad ascoltare questa storia che cosa direbbe?»

«Ma lei non ha ascoltato tutta la storia.»

La psichiatra sbirciò l’orologio, poi con fare indifferente si sedette di nuovo. «Okay, se ha qualcos’altro da dirmi, parli. Le dedico ancora qualche minuto.»

«Ci sono stati altri episodi», proseguì Vera, parlando sempre più in fretta, sperando che la Neuberger fosse disposta ad ascoltare. «C’è stata la volta in cui sapeva che una scheggia di vetro era nel prato di casa,»

«Per forza, lo sapeva», commentò la Neuberger, «abitava e viveva lì.»

«Mi lasci finire, la prego!»

«Continui pure. Credo, però, che mi stia facendo sprecare del tempo.»

«Sto cercando di esporle i fatti!» ribatté Vera, quasi gridando. Guardò alla sua sinistra. Annie si era raggomitolata a un’estremità del divano, chiaramente impaurita. «La stiamo facendo spaventare.»

«Lei la sta spaventando», replicò la Neuberger. «Vada avanti.»

«Annie non sapeva che c’era il vetro. E non poteva assolutamente saperlo.»

«Assurdo! L’aveva visto in precedenza.»

«No, non l’aveva visto!» insisté Vera, cominciando a mostrarsi esasperata. «Lo chieda ad Annie!»

«La smetta di ordinarmi che cosa devo fare!»

«Non sto ordinando. Sto suggerendo!»

Di scatto, Annie si mise seduta. «Non lo sapevo da prima», disse spontaneamente.

«È tua mamma che ti istruisce a dire questo!» sbottò la Neuberger.

«Non è vero!» insisté Vera. Squadrò con rabbia la Neuberger, ma questa ricambiò l’occhiataccia. Quella vecchia non voleva, non poteva essere suggestionata o influenzata. Vera si sentì svuotata d’ogni energia.

«Mi dica», continuò la dottoressa, accavallando le gambe in modo goffo, decisamente mascolino, «lei ha uno di quegli agenti teatrali, vero?»

«Non la capisco.»

«Qualcuno con la giacca dai grandi risvolti e che telefona sempre in California. Che procura scritture per la piccola in teatro.»

Dapprima Vera non comprese del tutto. Poi l’enormità dell’accusa le apparve evidente. «Sta insinuando», proruppe indignata, «che io cerco di far quattrini perché Annie ha avuto queste visioni? Vuol forse dire che la manderei su un palcoscenico, come un fenomeno da baraccone?»

«È quello che sto dicendo.»

«Allora lei è senz’altro in malafede», affermò Vera, incapace di frenarsi.

«Questo non è vero», ribatté la Neuberger. «Sto solo esponendo dei fatti. L’ho vista in televisione, con folle di giornalisti, a fare la scena.»

Vera scrollò la testa, disperata, e si voltò indietro, tentando di trattenere la collera. «Quella», disse con tono quasi condiscendente, «era una conferenza stampa. I cronisti volevano parlare con noi di Annie dopo che lei aveva salvato delle vite umane. Questo riesce a capirlo?»

La Neuberger sbuffò in modo quasi sprezzante. «Lei sta tentando di farmi fessa», disse. «Sapeva di sicuro i vantaggi della pubblicità. Non riesce a darmela a bere.»

«È inutile andare avanti», replicò Vera bruscamente. «Niente può farle cambiare opinione.»

«Lei si arrende troppo facilmente», osservò la Neuberger. «Gli americani sono dei molli.» Riprese il bicchiere di birra e ne ingollò parecchie sorsate, quasi fino in fondo. Quando ebbe finito fissò compiaciuta il bicchiere, come se interpretasse uno short pubblicitario alla televisione. «Stimolante», disse. «Adesso», ordinò, «mi dica qualcosa di più della sua storia.» Vera fu tentata di porre fine a quell’umiliazione, ma era sopraffatta dal disperato bisogno di trovare qualche aiuto per Annie. «Stavo andando a un colloquio per un impiego. Ero in macchina e Annie mi è corsa dietro. Incredibile. Sapeva che c’era un’esplosione nel palazzo dove stavo recandomi. Ecco com’è diventata così… famosa.»

«Famosa», ripeté la Neuberger con una sfumatura di cinismo. Si appoggiò allo schienale della poltrona e alzò la testa, osservando il soffitto. Poi chiuse gli occhi, evidentemente riflettendo. Li riaprì di colpo e si rivolse ad Annie. «Io ti piaccio?» le chiese.

Annie cominciò a dondolare le gambe avanti e indietro, come fanno i bambini quando si sentono imbarazzati. «Sì», rispose. Vera le aveva detto di essere sempre gentile, indipendentemente dai suoi reali sentimenti.

«Mi dirai la verità?» continuò la Neuberger.

«Sì.»

«Allora raccontami come inventi questi scherzetti. Chi ti suggerisce di dire queste cose?»

Annie alzò le spalle.

«La verità!» insisté la psicanalista.

«La mamma ha spiegato…»

«Tu, spiegalo!»

Vera ribollì all’allusione che avesse mentito. Ma aveva fiducia in Annie e decise di non interferire.

«Vedo le scene», precisò Annie, «proprio come ha detto la mamma.»

«Sono sogni, naturalmente», dichiarò la Neuberger.

«No che non lo sono. Vedo le scene nella mia testa, come alla televisione.»

«Chi ti ha suggerito di dire così?»

«Nessuno.»

«Tu non mi stai raccontando la verità.»

«Sì, invece!»

«Non mi piacciono i bambini che dicono le bugie!»

Allora Annie scoppiò in lacrime, nascondendo la testa in grembo alla madre.

«Come può!» esclamò Vera, dominandosi, ma con le lacrime agli occhi. «È solo una bambina e lei la tratta come spazzatura!»

«Non è vero», ribatté freddamente la Neuberger.

«Lo è», scattò Vera, alzando la voce. «È verissimo. Forse per questo lei è al bando nella sua professione. Forse per questo lei esercita in una vecchia casa squallida come questa!»

«Mrs. McKay», ribatté la dottoressa, con un’improvvisa sincerità nella voce, «io sto cercando di aiutarvi.»

«Un bell’aiuto davvero!» commentò Vera, cui era sfuggito il cambiamento di tono della Neuberger. «Gli altri dottori non ritengono di essere in tribunale. Perché lei sì?»

«Perché il mio sistema funziona. Ho aiutato altra gente come voi due, Mrs. McKay», proseguì, «so che lei pensa che sia un’originale. Non mi stupisce, ma nemmeno mi preoccupa. Il metodo che uso è insolito. Tende a cavarle informazioni esattamente come un dentista estrae un dente. Già so di voi due più di qualsiasi altro dottore, ma di questo per ora non parleremo. La stragrande maggioranza dei medici, quelli con l’orologio d’oro, si preoccupa della propria immagine, di ciò che gli altri possono pensare di loro. Io mi preoccupo soltanto di risolvere il problema. Devo anche convincermi che lei non sia un’imbrogliona. Se questo non le va a genio, quella è la porta. Se vuole il mio aiuto, si adegui al mio metodo.»

Vera abbassò gli occhi, non sapendo che cosa ribattere, sentendosi di colpo imbarazzata, ma ancora incollerita per un «metodo» che metteva Annie alla tortura.

Squillò il telefono, uno squillo lacerante e sonoro che rimbombò sulle pareti quasi spoglie. La Neuberger si alzò con un’agilità che smentiva i suoi anni e si diresse a un tavolino, dove il telefono era nascosto dietro una pila di libri.

«Sì, pronto.»

Ascoltò e Vera la vide oscurarsi in volto, annoiata.

«Sì, sì, sì. È qui, ma questo è uno studio medico, non un club di ritrovo. Non posso passargliela.»

Ascoltò ancora, con un’espressione seccata sul punto di diventare rabbiosa.

«Attenda, Mr. Blablabla», disse aspramente, poi si girò verso Vera. «È per lei. Questo scocciatore dice che è urgente, ma io non lo credo affatto.»

«Chi è?» domandò Vera.

«Un certo Mr. Ned.»

Vera esitò, ma decise che evitare di rispondere sarebbe stato peggio. «Devo parlargli?» chiese alla Neuberger.

«Questo Ned può turbarla ancora di più», rispose la psicanalista. «Secondo me dovrebbe lasciarlo perdere. Ma se non può farne a meno…»

«Sì, credo di doverlo fare.» Vera accarezzò ancora Annie, si alzò e si diresse al telefono.

«Ned… sono Vera.»

«Che cosa diavolo ti è venuto in mente di fare?» replicò lui seccamente.

11

Ned andava avanti e indietro nel suo studio, con il ricevitore incollato all’orecchio, mentre con la mano libera gesticolava come se stesse arringando una folla.

«Ho appena parlato con Laval», disse. «Ascolta, Vera. Non mi capita molto spesso di arrabbiarmi con te, ma questa volta l’hai fatta grossa. Credo davvero che tu abbia esagerato.»

«Non so», rispose Vera con il cuore che le batteva forte e assalita dall’atavica deferenza verso i componenti maschili della famiglia.

«Non lo sai? Se non lo sapevi, allora perché non hai consultato me prima di portare Annie da una mediconzola da strapazzo?»

«Perché devi subito presumere che…»

«Senti, Annie è troppo importante per me.»

«Ma di tutto quello che abbiamo tentato, niente ha funzionato.»

«Tu non sai essere paziente, Vera, e ti manca l’esperienza necessaria per affrontare certi problemi. Sei sottosopra, e lo sei stata per un bel po’. Adesso, Sandy non vuol più sentir parlare di Annie e, considerato quanto ha fatto per lei, non ti sembra una pazzia? E se lui non vuole più saperne per colpa di questa ciarlatana, nessun altro vorrà impegnarsi.»

«E allora?» domandò Vera, cercando di controllarsi. «Ce n’è stato uno, dico, uno solo, che sia riuscito a darci una mano?»

«A darci una mano? Hanno salvato la vita ad Annie e, come minimo, ti hanno impedito di impazzire in tutta questa faccenda. Non ti hanno immischiata con streghe e fattucchiere.»

«Ma non hanno nemmeno aiutato Annie.»

«Vera, tu cerchi i miracoli», disse Ned, adottando una tattica più condiscendente, quasi paterna. «Guarda, capisco quanto tu ti senta frustrata. Vengo lì a prenderti e ne parliamo. Potremmo accompagnare via Annie, in Europa, magari. Ci sono ottimi medici anche all’estero. Qualcuno saprà che cosa fare.»

Nonostante le sue riserve sulla Neuberger, e il brusco attacco della dottoressa nei confronti di Annie, Vera si sentì irritata dai rimproveri di Ned.

«Rimango qui ancora un po’», dichiarò seccamente. «Fammi sentire che cosa dice questa dottoressa e, se non ne ricavo niente, proveremo quello che suggerisci.»

«Ma potrebbe essere troppo tardi», insisté Ned.

«Staremo a vedere», replicò conciliante lei.

Vi fu una lunga pausa. «Vera», proruppe Ned, «non vorrei metterti alle strette, ma Annie è la figlia di mio fratello. Ho qualche responsabilità verso di lei. Voglio essere sicuro che sia protetta.»

«Siamo entrambi interessati alla stessa cosa, Ned», ribatté Vera, «ma io resto qui.»

Ned era deluso e furente, ma cercò di controllarsi. «Come vuoi», concluse pacatamente, «ti concedo una proroga. Finisci la tua visita con la Neuberger. Ascolta quello che ti dice. Ma stasera ti telefono a casa.»

Vera non rispose e Ned riattaccò. Per lei era stato un colloquio impegnativo, il più difficile che avesse mai sostenuto da quando era entrata a far parte della famiglia McKay. Da una parte provava un certo orgoglio. Dall’altra, sapeva di essere intrappolata tra un medico eccentrico e un cognato che si era sempre dimostrato devoto e affettuoso.

«Se l’è cavata bene», commentò la Neuberger. «Non l’avrei mai creduto.»

«Grazie», rispose Vera seccamente, risentita per il complimento a doppio senso.

«Signora», proseguì la Neuberger, «non so se l’imbrattacarte, Birch, gliel’ha detto, ma il mio metodo esige che i pazienti rimangano qui almeno per una notte. Ciò mi permette di valutarli in diverse condizioni. Inoltre non amo i discorsi affrettati, come succede con gli psichiatri alla moda.»

«Rimanere qui?» sbottò Vera.

«Crede che sia una fogna, qui?»

«Mai saputo di un metodo simile», esclamò Vera, circondando con un braccio le spalle di sua figlia, in un gesto protettivo.

«E quegli altri contaminuti non hanno mai saputo che cosa affligge questa bambina», la rimbeccò la Neuberger. «Però lei ci è andata. Perché? Perché hanno cravatte di seta comprate nei negozi di lusso.»

«Ritengo di sì», ammise Vera, sorridendo perfino alla battuta della Neuberger. «Ma se restiamo, Ned vedrà rosso.»

«E allora? È Dio, lui? Scaglia tuoni e fulmini?»

«No, ma è sempre stato come un secondo padre per Annie. Si preoccupa per lei. È un uomo sensibile.»

La Neuberger fece una smorfia. «Anche lui, senza dubbio, porta cravatte di seta e ha una macchina di lusso.»

«Sì.»

«Una categoria di persone di cui ho sempre diffidato. Ma questo Ned non può certo farle del male.»

Vera fece un cenno di diniego, sinceramente perplessa. «Penso proprio di no», rispose.

«Perché lo pensa soltanto?»

«Non lo so. È strano. Una delle ultime visioni di Annie era che Ned veniva in casa per ucciderla.»

La Neuberger si irrigidì di colpo. Una luce cupa e intensa le balenò negli occhi. «Mi dica di più», disse lentamente.

«Oh, non era niente…»

«Spetta a me deciderlo. Lei mi dica.»

Vera si sentì quasi incapace di riferire una storia che coinvolgeva Ned. Per un attimo le sembrò di essere una visionaria, una pettegola. Ma ubbidì alla Neuberger. «Una notte Annie si è svegliata e ha avuto la visione di suo padre… morto.»

«Normale», stabilì la psicanalista abbozzando un sorriso. «Continui.»

«Aveva una brutta ferita in testa», disse Vera. «Be’, ho telefonato a Ned e lui è arrivato di corsa. Ha confortato Annie, e me, e lei è tornata a letto.

«Però, più tardi si è svegliata ed è caduta dalle scale. Ho dovuto riportarla in ospedale. Mi ha detto di aver avuto la visione di Ned che stava venendo con una pistola per ucciderla.»

La Neuberger non aprì bocca, ma Vera intuì che il racconto la turbava. L’anziana dottoressa appariva scossa e agitata. Per la prima volta sembrava dimenarsi sulla poltrona e giocherellare nervosamente con le dita. «Lei… ha parlato a Ned di questa faccenda?» chiese alla fine.

«Sì.»

«Lui che cos’ha detto?»

«È stato molto comprensivo.»

«La bimba è stata trattenuta in ospedale, dove lei ha pagato, e non le hanno fatto niente?»

«Sì, direi proprio che è successo così.»

«E Annie ha avuto un’altra visione?»

«Sì. Mio Dio, è stato terribile. Ha visto suo padre morto, vicino al ponte di Tarrytown. Allora in ospedale le hanno messo la camicia di forza e l’hanno drogata. In quel momento ho deciso di venire da lei.»

«Capisco. In passato la bambina ha mai inventato storie poco plausibili?»

«Non proprio.»

«È una risposta un po’ insufficiente.»

«Voglio dire che tutti i bambini dicono cose che fanno arrabbiare i genitori. Ma Annie non ha mai avuto il vizio di mentire… o roba del genere.»

«C’è la possibilità che qualcun altro possa dare alla piccola le notizie che poi lei rivela?»

«Penso proprio di no.»

La Neuberger sorrise maliziosa. «Perché no? Forse lo nasconde solo a lei.»

«Non mi nasconderebbe nulla.» «Chi lo dice? Ha un documento che lo garantisca?» «No, ma…»

«Vede, signora, sono una psicanalista. Non è una novità: quando uno dei genitori se ne va di casa, a volte il bambino è portato a una certa ostilità contro il genitore che è rimasto. Annie può credere che sia stata lei, sua madre, a far scappare il marito. Potrebbe recitare tutta una commedia, senza parlargliene… per ripicca.»

«Su questo non posso assolutamente esser d’accordo!»

«Bella scoperta! Ieri sono stata convocata per la cosiddetta verifica della mia denuncia dei redditi. Anch’io non ero d’accordo, eppure ho dovuto pagare duecento dollari. Chi si cura se uno è o non è d’accordo? Mi hanno detto che avevo lavorato di forbici sulla mia dichiarazione delle tasse. Immaginarsi! E conoscevo Freud!»

«Ma Annie e io siamo così legate!»

«Sempre.»

«Che cosa vuol dire, sempre?»

«Ogni mamma ritiene di essere legata ai suoi figli quando c’è un problema come il suo. Il punto è: è possibile, e non dia fuori di matto o non si metta a sfasciarmi i mobili, che la piccola sia stata in contatto con il padre?»

«Non capisco.»

«Mi spiego. A volte, quando abbandona la famiglia, il padre si tiene segretamente in contatto con i figli. Ha mai sentito raccontare di padri che rapiscono i figli?»

«Sì.»

«Quindi, nel nostro caso, il padre potrebbe, come si dice, ronzare di nascosto nei paraggi. Magari vedere la piccola vicino a scuola, o telefonarle quando lei non è a casa. E le raccomanda di non dire niente a mammina.»

Vera scosse la testa, totalmente incredula. «Non Harry! Non Annie!»

«Li conosce entrambi così a fondo?»

«Sì!»

«Allora come mai lei non è in grado di spiegare perché la bambina si comporti come una demente?»

«Non è una demente!»

«Lei si aspetta che io creda che Annie sia una specie di veggente? Pensa proprio che io presti fede a queste stupidaggini?»

A Vera montò di nuovo il sangue alla testa. «Dopo tutto questo», gridò concitata, «lei dubita ancora di me?»

«Dubito sempre», disse la Neuberger con notevole supponenza. «Qui capitano un sacco di imbroglioni. Pensano che io dia loro la benedizione per andare a giocare a Las Vegas.»

«Noi non apparteniamo a quella categoria.»

La Neuberger alzò le spalle. «Vedremo. Adesso smettiamo. Lei aspetti qui.»

«Aspettare che cosa?» le domandò Vera.

«Che io rifletta. Devo sistemarvi per stanotte, organizzare tutto.»

Vera non era rimasta d’accordo di restare, ma non aveva nemmeno rifiutato. «Avrà le risposte?» chiese, dopo una breve esitazione.

La Neuberger allargò le braccia. «Chi può saperlo? Tutti vogliono le risposte, come in un libro di testo», disse. «Devo consultare libri e appunti, magari anche telefonare a qualche collega.»

«Ma… qualche idea ce l’ha?» Il volto di Vera andava assumendo un’aria di disperata ansietà.

«Idee ne ho. Ma non le do una garanzia come quando compra un televisore. Se non posso aiutarla, comunque, non le presenterò nessuna parcella.»

«Dottoressa, lei ritiene che Annie sia… mentalmente disturbata?»

Per la prima volta il volto della Neuberger si illuminò di un sorriso da nonna. Un sorriso che riscaldava la stanza, donandole vivacità e umanità.

«No», rispose come se fosse stata sempre una cosa ovvia, «non è mentalmente disturbata.»

«Sia ringraziato il cielo», mormorò Vera.

«Per le turbe mentali, la manderei da uno di quei pagliacci con l’infermiera che seleziona gli appuntamenti. Qui la cosa è differente.» La Neuberger si alzò e si stiracchiò. «Adesso aspetti qui. Mangerete in cucina. Ho del salame che ho preso in quel buon negozio qui sotto, non le porcherie del supermercato, e ci sono anche vino e minestra. Più tardi parleremo ancora.»

La Neuberger scomparve nei meandri del suo appartamento, si infilò un cardigan e andò in uno studiolo tappezzato di libri. Si sedette su una seggiola di legno, prese un taccuino giallo e un mozzicone di matita e cominciò a mettere giù appunti.

Dopo la sparizione della dottoressa, i sentimenti di Vera nei suoi confronti cominciarono a oscillare dal calore al sospetto, all’ostilità e viceversa. E intuiva che chiunque venisse in contatto con quella strana donna probabilmente sperimentava la stessa gamma di sensazioni. Raccontò ad Annie le fiabe preferite mentre il sole tramontava e il soggiorno diventava ancora più deprimente. Alla fine la bambina disse di avere fame e madre e figlia andarono in cucina.

Il locale conservava le originarie pareti a piastrelle bianche e i tubi dell’acqua non incassati nel muro. Gli elettrodomestici erano vecchi, ma puliti. Il frigorifero ben rifornito, con una netta prevalenza dei cibi che denotavano l’origine europea della Neuberger: budini, abbondanza di birra, ingredienti per la pastasciutta. Vera decise di rinunciare al salame e preparò invece una minestra e un’insalata di tonno. Mentre mangiavano, cercò di distrarre Annie con giochi di parole e di aritmetica.

Alle nove di sera Annie si addormentò sul divano, in braccio alla madre. E Vera rimase ancora ad aspettare. Era dalle cinque che Marie Neuberger non si faceva vedere. A volte Vera si chiedeva se anche la dottoressa non si fosse addormentata… o peggio. Appena dopo le nove, però, Vera udì tonfi di volumi che venivano chiusi, poi la voce della psicanalista che parlava al telefono. Non riuscì a percepire tutto quanto veniva detto, ma qualche parola filtrò attraverso le pesanti porte di legno del vecchio e già glorioso edificio: morte… avvertimento… protettrice… confusione.

Finalmente, poco dopo le dieci si aprì una porta.

Una lama di luce guizzò da un lungo corridoio sul tappeto persiano e sul divano. Vera alzò gli occhi. Marie Neuberger le stava davanti, in piedi. «È risolto», disse.

Il cuore di Vera ebbe un tuffo. Ma poi la sua abituale prudenza ebbe il sopravvento. «Mi dica», fu la sua contenuta risposta.

La Neuberger accennò con la testa verso il settore privato dell’appartamento. «Nel corridoio a sinistra c’è una cameretta», disse. «Metta a letto la piccola.»

Vera prese in braccio Annie e la portò nella stanzetta degli ospiti, adagiandola sul lettino, l’unico pezzo d’arredamento oltre a una vecchia cassapanca. La bambina si svegliò per un momento, si guardò attorno imbambolata e riprese a dormire. Vera uscì senza far rumore e tornò dalla Neuberger.

«Sediamoci in cucina», propose la psicanalista. «Così non sveglieremo la povera bimba.»

Vera la seguì ed entrambe sedettero al tavolo dal consunto ripiano di formica rossa. Il ventilatore del piccolo locale frusciava e ogni tanto una delle ventole, allentata, urtava il telaio producendo un suono metallico. A parte quel rumore monotono, la cucina era silenziosa e dava una sensazione di calda intimità.

La Neuberger consultò brevemente il suo taccuino, inforcando gli occhiali che teneva nel taschino del cardigan. Poi li tolse e li posò sul tavolo fissando Vera. «Allora», disse, «lei ha un problema e lo esamineremo insieme. La prego di ascoltarmi senza preconcetti, perché quello che sentirà non se lo sentirà dire da altri medici.»

«Senz’altro», rispose Vera. Si sporse in avanti, le mani strette, quasi tremando per l’ansia.

«Cominciamo con un semplice assunto», esordì la Neuberger. «Credo che lei sia sincera.»

Vera sospirò di sollievo e si lasciò ricadere indietro.

«E credo che la bimba, anche lei, dica la verità.»

«Io so che dice la verità!» confermò Vera, convinta, per la prima volta, che qualcuno prendeva sul serio il problema.

«Adesso dobbiamo porci la domanda», proseguì la Neuberger, «di come avvengano questi cosiddetti miracoli. Dev’essere coraggiosa. Il solo fatto che le dica che lei e la piccola siete sincere non deve farla esultare. La faccenda è seria… una faccenda grave. Che mi rattrista.»

La gola di Vera parve chiudersi. Il suo respiro divenne affannoso.

«C’è pericolo per lei e per Annie», affermò asciutta la Neuberger. «Ecco perché la bambina ha queste visioni, per lottare contro questo pericolo. Per proteggervi. Per salvarvi.»

Gli occhi di Vera si riempirono di terrore.

«Ascolti attentamente», la rimproverò la dottoressa. «Mi sono sempre chiesta se i morti possano inviare segnali ai viventi, non proprio a tutti i viventi, ma a una particolare persona. Uno muore, il cervello muore, ma che cos’altro fa? Entra in una sfera spirituale dove continua a esistere? Invia idee, pensieri, avvertimenti a qualcuno nel mondo dei viventi?»

Vera cominciava a sentirsi disorientata. «Questo che cosa c’entra con?…»

La Neuberger sollevò una mano grinzosa. «Ora le spiego, non mi interrompa. Io credo che qualcosa sia trasmessa dal defunto, se lo spirito di chi è morto è correttamente influenzato.

«Ora, è pacifico che queste faccende di Annie sono cominciate con la sua malattia. Le cose che vede non possono essere spiegate come coincidenze o percezioni extrasensoriali come le hanno detto gli altri medici. Io penso…»

La Neuberger si interruppe, si sporse e afferrò la mano di Vera, un gesto assai raro in quella donna di solito austera e riservata. «Penso», continuò, «che c’entri la bambina morta nel Kansas.»

Un brivido gelato percorse Vera dalla testa ai piedi. «Quella che è caduta sui binari?»

«Sì. Nella sua visione, Annie ha creduto di essere lei quella bambina. Ho fatto qualche telefonata. Mi sono convinta che Annie non poteva assolutamente aver saputo di quella morte. E sono anche convinta che la grave malattia di Annie è stata provocata dal decesso di quella bambina. In un modo, che noi mortali non afferriamo, la percezione di quella piccola morta è entrata in Annie, subito dopo che lei è caduta sui binari del treno, nel Kansas. Questo ingresso ha prodotto un violento trauma nell’anima di Annie, ne ha indebolito la resistenza e ha causato la sua apparente infermità. C’è un’identità spirituale tra quella bambina morta e lei.»

Vera sussultò.

«Annie vede quello che la bambina morta vuole che lei veda. Nel nulla, al di là della vita, la morta ha un punto di vantaggio. Può vedere ciò che l’Annie vivente non può vedere. Normalmente, lei vede le cose normali. Ma a volte interviene lo spirito della bambina morta. Fa sì che Annie sperimenti le strane cose di cui lei mi ha parlato… queste predizioni.»

«Ma perché?»

«Si sarà accorta», replicò la Neuberger, fissando Vera negli occhi, «che queste predizioni, se ascoltate, aiutano lei o la piccola. Consideri la prima visione. Annie voleva avvertirla di un incidente automobilistico, ma le è stato impossibile. Poi c’è stato quel pezzo di vetro nel prato che avrebbe potuto tagliarla. Fortunatamente lei lo ha cercato e lo ha visto. Sì, e quindi l’incendio del palazzo. E poi…»

Di colpo, Vera si portò le mani sul viso, che le si era contratto in una smorfia di disperazione. «Harry!» gemette. «Annie ha detto che era…»

«Ci arriviamo!» urlò la Neuberger. «Si controlli!»

«Sì, sì, cercherò.»

«Ascolti, adesso», insisté l’altra. «Ascolti più attentamente che mai, perché stiamo arrivando al nocciolo di tutto quanto.» Cominciò a parlare più lentamente, perché Vera capisse bene ogni parola. «La bambina del Kansas è diventata la protettrice di Annie, e sua. È dall’altra parte, nel nulla tra vita e morte, morta fisicamente, parte del suo spirito inserito in Annie. Vede quello che è pericoloso per lei e per Annie.»

«Perché?» domandò Vera.

«Perché a sua volta il suo spirito è influenzato. Un’altra persona, morendo, si è unita a lei.»

La Neuberger vide Vera che si irrigidiva, le vene del collo che pulsavano. Rafforzò la stretta sulla mano di Vera. «Lei intuisce il seguito», disse.

Vera abbassò gli occhi, tentando di assumere un’aria coraggiosa.

«L’altra persona è Harry», dichiarò la Neuberger senza enfasi. «E lei deve accettare il fatto che è morto e, da morto, protegge voi due tramite lo spirito di questa bambina di Topeka. Tramite il suo spirito ha trovato il modo di tornare alla famiglia che, da vivo, ha abbandonato.»

Vera cominciò a piangere. La Neuberger non fece nessun tentativo perché smettesse. «Non voglio credere a questo», singhiozzò Vera. «È soprannaturale. È assurdo.»

«Deve crederci. È la sola spiegazione. Non è logico, naturalmente, perché queste cose non rientrano nell’ambito della logica.»

«Ma lei non può provare…»

«Non ancora. Ma presto ci riuscirò.»

Vera tremava e le sue lacrime, rotolandole giù dalle gote, bagnavano il tavolo. «Io… io non so che cosa dire», gemette. «Gli altri medici…»

«Se ne scordi, di quelli.»

«Se Harry è morto», chiese Vera, esitando, «ha un significato che fosse ferito alla testa e che si trovi vicino al ponte?»

«Direi che è probabile, ma dovremo controllare.»

Vera all’improvviso smise di piangere e guardò incerta la Neuberger, come se dubitasse di lei. «Ma la visione di Harry morto, vicino al ponte… non è un avvertimento contro un pericolo.»

«Questo lei non lo sa», le spiegò la dottoressa. «Lei non può sapere che cosa può comportare la notizia della morte di suo marito. Questo verrà a saperlo… da Annie.»

«Quando?»

«Quando coloro che sono dall’altra parte saranno pronti.»

Vera si abbandonò contro lo schienale della sedia, tentando di raccogliere le idee, di affrontare l’enormità di quanto aveva appena ascoltato. Impossibile recepirlo nella sua complessità, inquadrarlo in una qualsiasi prospettiva razionale. Poi un pensiero le balenò in testa, un orrendo pensiero, da incubo. Guardò la Neuberger, gli occhi dilatati dal terrore. «Annie ha creduto che Ned fosse venuto per ucciderla!» ansimò. «Che cosa significa questo?»

«Non lo so davvero», rispose la Neuberger. «Certo sembra assurdo. Tenga presente che è possibile che alcune visioni siano soltanto incubi. Potrebbero essere venute, nel caso specifico, per pura coincidenza. Ma, d’altra parte…»

«D’altra parte che cosa?» la sollecitò Vera.

«Una persona prudente terrebbe un po’ più d’occhio questo Mr. Ned.»

«Sì», ammise Vera, troppo attonita e confusa per rendersi conto delle implicazioni di quanto stavano dicendo. Si agitò inquieta sulla sedia. «Dottoressa, c’è qualcosa di troppo perfetto nella faccenda. La bambina muore là nel Kansas. Annie si ammala immediatamente. Harry… si mette in contatto con la bambina…»

La Neuberger sorrise, consapevole dell’obiezione. «L’intera scienza medica mi riderebbe dietro se mi mettessi a spifferare queste cose. Ma tutto collima. Forse un giorno riusciremo a capire. Magari scopriremo qualcosa sulla bambina del Kansas, anche se, attualmente, Birch mi dice che non sanno ancora chi era.»

«Ho quasi paura», dichiarò Vera, «di quello che potrebbe accadere nell’immediato futuro.»

«Non abbia paura. Io credo che suo marito stia tentando di rendere chiare le circostanze del proprio decesso. Penso che stia cercando di dire che non ha abbandonato la propria famiglia. È possibile, io non lo so, che la stessa cosa che ha posto fine alla sua vita sia quella che ora minaccia lei e Annie.»

Vera scrollò il capo, completamente frastornata da quella giungla di idee e di teorie. «Adesso che cosa facciamo?» domandò.

Il viso della Neuberger si illuminò di colpo. «La domanda mi piace», disse.

«Perché?»

«Perché significa che lei accetta la mia diagnosi.»

Vera tacque. Sì, quello era implicito nella sua domanda e lei si chiedeva se avesse davvero avuto intenzione di spingersi fin lì. «È tanto strano», disse quasi impercettibilmente.

«Ma lei la accetta?»

Per un attimo le balenò in mente il pensiero della collera di Ned. Si sentì di colpo restia, timorosa, di nuovo pronta a rifugiarsi nel guscio a lei tanto familiare. Ma lottò contro la tentazione di fare marcia indietro. Al di là di tutto, l’istinto le suggeriva di essere finalmente sulla strada giusta. Ed era sempre più attratta dall’autoritaria personalità della Neuberger. L’anziana psicanalista le appariva come una persona le cui capacità andavano ben oltre quelle di altri medici.

«Sono con lei», disse Vera sommessamente.

«Le occorrerà molta forza d’animo, molto coraggio», l’avvertì la Neuberger. «Dobbiamo rendere più stretto il contatto tra il padre e la bimba.»

«Come?»

«Annie dev’essere tenuta il più vicino possibile al luogo dove ha visto suo padre morto. In base alla mia esperienza, la vicinanza fisica è essenziale. Penso sia possibile che le facoltà spirituali dei defunti si indeboliscano con la distanza, un po’ come le radio onde. Le possibilità di nuove visioni saranno più elevate se Annie è vicina al luogo.»

«C’è un motel nei pressi del ponte di Tarrytown.»

«Il posto adatto.»

Vera sospirò: si accingeva a iniziare una nuova fase della propria esistenza e ne era consapevole. «Farò la prenotazione», disse.

«Anche per me.»

«Che cosa?»

«Vengo anch’io», spiegò la Neuberger. «Quando ho in cura un paziente sto con lui notte e giorno, non come quei dottori che vanno al club in campagna. Io vivo con il paziente, ne studio ogni azione. Devo essere presente quando Annie avrà un’altra visione.»

Vera stava abituandosi alla Neuberger, quindi la pretesa non la stupì più di tanto. «Capisco», disse. «Prenoterò anche per lei.»

«E io le sono grata. Ma devo farle una richiesta precisa.»

L’espressione di Vera dimostrò che, chiaramente, non capiva.

«Riguarda quel Ned», precisò la Neuberger.

Vera abbassò gli occhi.

«Attenzione! Noi non sappiamo. Può darsi benissimo che sia un uomo meraviglioso. Ma bisogna salvaguardare Annie da lui… per ogni evenienza.»

Con uno scatto, Vera gridò disperata: «Perché dovrebbe volerla uccidere? Perché? Perché? Non esiste nessun motivo!»

«Silenzio!» impose brusca la Neuberger, alzandosi in piedi. «Le domande sono premature. Quante volte devo ripeterglielo?»

«Ma io voglio parlarne!» la implorò Vera. «Non lo capisce? Ecco perché continuo a tornare sull’argomento.»

La Neuberger si sedette di nuovo e riafferrò la mano di Vera. «Sì che capisco. Le spiego una cosa. Può darsi che qualcuno abbia tentato di uccidere Annie. Un pazzo. Un maniaco. Suo padre, attraverso lo spirito della piccola morta, l’ha messa in guardia. Ma Annie ha ricevuto un’immagine falsata dell’assassino e ha pensato che si trattasse di Ned.»

Vera ne fu rinfrancata. «Sì», disse, «questo rende tutto molto più chiaro. Molto più chiaro.»

«Ma… proteggiamola», insisté di nuovo la psicanalista.

«D’accordo», annuì alla fine Vera. «Conosco quelli della polizia di Tarrytown. Strano, di solito è Ned che si occupa di cose del genere.»

«Non adesso», replicò la Neuberger con tono molto deciso.

«Certo. Me ne occuperò io stessa.»

Vera trascorse la notte in casa della Neuberger e Ned non telefonò. Rimase chiuso in casa, turbato, facendo piani, riflettendo. Era deciso a discutere fino in fondo con Vera sul trattamento medico da riservare ad Annie, anzi, sull’intero problema della piccola. Il punto focale, era come impostare esattamente la discussione, e vi si dedicò con la sua mentalità di avvocato. Accarezzò l’idea di un’azione legale che sottraesse Annie alla Neuberger. Ma questo, lo sapeva bene, avrebbe inevitabilmente gettato cattiva luce sul nome dei McKay. Rimuginò tutta notte sulla questione.

Birch, da parte sua, restò di guardia fuori dell’Ansonia finché le luci si spensero nell’appartamento della Neuberger. Sapeva, per esperienza personale, che la dottoressa avrebbe avuto la meglio su Vera, che alla fine avrebbe superato i propri pregiudizi sull’eccentricità della psicanalista per rendersi conto del suo effettivo valore. Birch prese dal taschino un mozzicone di matita, aprì il suo taccuino macchiato di caffè e cominciò ad abbozzare l’inizio del suo articolo:

Mentre le luci impallidivano, a una a una, era evidente che la battaglia stava per avere inizio. Da un lato v’erano due creature torturate, Vera McKay e la sua figlioletta Annie, aiutate da un medico eccezionale, la dottoressa Marie Neuberger. Di fronte a loro, c’erano potenze al di là dell’umana comprensione, potenze che potevano tormentare, annichilire e distruggere.

12

Il giorno dopo Vera andò a Tarrytown per un appuntamento con il detective Edward Simeon, del Dipartimento di polizia. Conosceva e apprezzava Simeon. Era stato incaricato delle indagini sulla sparizione di Harry e l’aveva sempre trattata con cortesia e tatto, tenendola regolarmente informata sugli sviluppi dell’indagine, finché ogni traccia era svanita.

Vera e Simeon si incontrarono nella sala operativa del distretto locale. A differenza degli stereotipi della TV, la sala era moderna, con lampade fluorescenti, soffitti insonorizzati, moquette grigia e pareti bianche. C’erano dodici scrivanie di metallo ordinatamente disposte su file di quattro.

Simeon occupava la terza scrivania di una fila vicina alla parete. Era un uomo ossuto, quasi emaciato, di cinquantacinque anni, che ne dimostrava dieci di più. Un viso lungo, cui le borse sotto gli occhi davano un’espressione malinconica e abbattuta. Quasi del tutto calvo, con qualche ciuffo di capelli completamente grigi. Parlava con una voce stridula, con continue interruzioni, che risuonava sempre affaticata. Tutti a Tarrytown sapevano che sua moglie non era sana di mente, e che la sua malattia lo stava stremando psicologicamente, fisicamente e finanziariamente da oltre dieci anni.

«Ho bisogno di aiuto», gli disse Vera.

«Aiuto di che genere?»

«Protezione per Annie, mia figlia.»

«Oh?»

«Credo possa essere in pericolo.»

«Come mai e perché?»

Vera, in un abito estivo verde, si schiarì la gola. «Mi è molto difficile parlarne», rispose. «Agente Simeon, certamente avrà saputo dai giornali che Annie ha avuto dei problemi.»

«Sì, signora», rispose Simeon, «e mi dispiace molto, mi creda.»

«Be’», continuò lei, «Annie ultimamente ha… sognato… che suo zio Ned, cioè Ned McKay, voleva ucciderla. So che sembra assurdo.»

«Lo è», replicò Simeon, impassibile.

«Ma Ned e io siamo un po’ in disaccordo. Annie è in cura con una nuova dottoressa, la quale ritiene… che Ned potrebbe costituire un pericolo. Ora, io non sono di questo parere…»

«Spero bene di no.»

«Ma, forse, per il bene di Annie…»

Simeon parve costernato. Si sporse in avanti e il suo esile busto sembrò incapace di sorreggere la testa. «Signora», disse, «la conosco ormai da lungo tempo e lei ha tutta la mia simpatia. Mi creda, so quello che lei e la piccola avete passato. E so qualcosa dei disturbi mentali. Ma non posso distaccare un agente per proteggere Annie sulla base di quanto lei sostiene. Voglio dire, abbiamo gente a Tarrytown con problemi effettivi. Abbiamo casi di divorzi, in cui gli interessati si minacciano reciprocamente con pistole e coltelli.»

«Ma Annie potrebbe aver ragione circa suo zio.»

«Mrs. McKay, cerchi di capire che se distaccassimo un uomo per via di ogni brutto sogno, entro un’ora non avremmo disponibile un solo agente.»

«Senta», lo implorò Vera, «lei sa dell’incendio in città. Lei ha visto che Annie ha queste facoltà. La bimba sembra che sappia cose che noi non sappiamo.»

Simeon sorrise con tutta la comprensione che gli riuscì di chiamare a raccolta. «Mrs. McKay», ribatté, «una motivazione del genere è inaccettabile. Non credo di offenderla dicendole che la gente ha i suoi dubbi riguardo ad Annie.»

Vera si lasciò andare con la schiena contro la spalliera della sedia. La tesi ufficiale, educatamente confermata da Ed Simeon, era che la credibilità di Annie non era stata comprovata e che qualsiasi nuova visione non poteva trovare credito. «Mi dispiace di averla disturbata», disse a Simeon. «Grazie lo stesso.» Fece per alzarsi.

«Non mi ha affatto disturbato», ribatté Simeon. «Vorrei poterla aiutare, ma nel caso specifico è impossibile. Per qualsiasi altra evenienza, comunque, mi avverta senz’altro. O magari mi faccia telefonare da Mr. McKay.»

«Ned?» esclamò Vera. «Agente Simeon, di che cosa abbiamo parlato finora?»

Simeon le lanciò un’occhiata scettica. «Su, signora», disse, «Ned McKay è uno degli uomini più stimati della città.»

Vera se ne andò, ma il male era fatto. Simeon restò dell’idea che lei non fosse del tutto in sé. Quando poi seppe che la «nuova dottoressa» di Annie era Marie Neuberger i suoi sospetti aumentarono. Già ci si era preoccupati, al comando di polizia, di Vera, preoccupati per le sue affermazioni circa le facoltà di Annie.

Vera rimase profondamente ferita dal rifiuto di Simeon. La faceva sentire più sola che mai. E questo senso di isolamento la obbligò a ritenere di dover raggiungere una qualche intesa con Ned in merito alle cure di Annie. Naturalmente non credeva ancora che il cognato avesse cercato di uccidere Annie. Accettava la teoria della Neuberger che Annie lo avesse, nella sua visione, confuso con un’altra persona. E capiva anche la collera di Ned per il fatto che la nipote fosse stata affidata alla Neuberger. In un certo senso Vera rimpiangeva di non averlo ascoltato.

Andò da lui, allo studio, senza preavviso. Come al solito, aveva numerosi clienti in attesa, ma volle riceverla quasi immediatamente.

«Entra, accomodati», disse mentre la segretaria, con Vera dietro, apriva la porta. Le sorrise, come se nessun attrito fosse mai esistito tra loro.

«Come sta Annie?» le domandò premurosamente, mentre la faceva accomodare sulla sedia dei clienti e lui stesso si metteva alla scrivania.

«Sta bene, grazie.»

«Dov’è adesso?»

Lei esitò. «Con la dottoressa Neuberger.»

Un’ombra leggera di pena sfiorò il viso di Ned. «Vera, questo mi dispiace.» Premette il tasto dell’interfono sulla scrivania. «Non ci sono per nessuno», avvertì. Poi tornò a fissare la cognata. «Sta facendo qualche progresso con lei?» chiese, con un tono di voce che tradiva ampiamente il suo scetticismo.

«Sinceramente, non lo so ancora. Sta provando.»

Ned scosse la testa, costernato, un atteggiamento che aveva perfezionato in tribunale. «Vera, davvero non riesco a capire. Di solito sei sempre così equilibrata! Sei andata sempre nei migliori ospedali e dai migliori medici. E adesso, di colpo, diventi un’esperta in psicanalisi, ciarlatanerie, bassifondi di Manhattan e via dicendo.»

«Ned», ribatté lei, «non posso discuterne con te. Ho ritenuto che la Neuberger potesse essermi utile. Nessun altro ci è riuscito. Questo lo capisci, vero?»

«Ma esistono così tanti bravi dottori», obbiettò lui. «Finora ne abbiamo solo consultato qualcuno.»

«Può darsi, ma non siamo approdati a un bel niente e io ero preoccupata per Annie. Questa nuova dottoressa ha delle idee.»

«Su questo non ho dubbi», replicò ironico Ned.

«So che non approvi i suoi metodi, ma concedile almeno una possibilità.»

«Adesso che cos’ha in mente di fare con la nostra Annie?»

«Vuole che ci trasferiamo in un motel vicino al ponte di Tappan Zee. Annie ha avuto quella visione, ricordi, di Harry morto… vicino al ponte.»

«Che cosa ci vuole fare?» esplose con rabbia Ned. «Tenere una seduta spiritica?» Poi si rese conto della propria asprezza e la sua voce tornò subito al timbro affettuoso. «Vera, Vera», mormorò, «che cosa stai combinando a te stessa? Che cosa stai combinando ad Annie?»

«Ned, ti ho detto…»

«Questa donna è una pazza patentata, una vergogna della professione medica. Le visioni di Annie sono un problema mentale. Lei non sa dove sia Harry. Per quanto ne sappiamo tutti, sta vagolando dalle parti di Chicago.»

«Io voglio provarci», insisté Vera, con calma.

«Vuoi andare a stare nel motel? Perché?»

«Per essere vicina allo spirito di Harry.»

«Oh, Gesù Cristo benedetto! Verrà a saperlo tutta la città.»

«Non posso preoccuparmene, Ned. Ci andiamo. Tutt’e tre.»

«Anche lei?»

«Sì, fa parte del suo metodo terapeutico.»

«Vera, mi rifiuto di credere che tu faccia una cosa simile.»

«Ned, cerca di ascoltarmi bene, adesso. Procederemo in questa fase del trattamento, ma c’è una seria complicazione.»

«Denaro?»

«No. Non te ne chiederei mai. La dottoressa Neuberger ritiene che Annie debba essere protetta.»

Ned si oscurò in viso, di colpo. «Perché?»

Vera armeggiò nervosamente con le mani, come spesso faceva quando non riusciva ad affrontare un argomento. «So che sembra assurdo, e ti garantisco che nessuno ti sospetta di niente, ma ti ricordi quando Annie ha creduto che tu stessi… per farle del male?»

«Certo.»

«Per mettere l’anima in pace a tutti, e per dimostrare che tu non costituisci nessun pericolo, la dottoressa pensa che Annie dovrebbe avere una guardia del corpo.»

Ned si fece visibilmente teso. Vera capiva che era turbato e sbalordito. «Be’, questa è… una decisione senz’altro singolare.»

«Ned, noi crediamo in te. Tutto ciò è assurdo. Anche la dottoressa pensa che Annie abbia avuto solo un incubo. So e capisco i tuoi sentimenti. Ecco perché ho voluto parlarti di persona. Fa solo parte della cura.»

Ancora una volta, Ned scelse la via conciliante. «Certo», rispose. «Capisco. Senti, facciamo quello che è giusto. Ho già detto che la paura che Annie ha di me non dev’essere presa alla leggera, per quanto assurdo possa essere. Se insisti nell’affidarti a quella donna, proviamolo. E se vuole che Annie venga comunque protetta, sono io che voglio lo sia, e sono io che pagherò per questa protezione.»

«Oh, no, non posso accettare!»

«No, Vera, insisto! Facciamo le cose per bene. Guarda, non sono d’accordo con te, ma dobbiamo tentare qualsiasi strada per Annie. Giusto?»

Vera parve rilassarsi, concedendosi per sino un sorriso. «Sì», rispose con calore. «Ned, sono felice tu sia la persona che sei.»

Se ne andò poco dopo, convinta che ogni crisi con Ned era stata risolta.

L’Empire Motel difficilmente poteva essere classificato come lussuoso.

Come struttura seguiva il modello, incompiuto, dei migliori motel di Tarrytown e della vicina Westchester. L’Empire aveva trentotto anni ed era costituito da due file di casette prefabbricate di legno, ognuna delle quali ospitava una camera. In origine le costruzioni erano state uffici prefabbricati per un campo d’addestramento militare durante la seconda guerra mondiale, dichiarato superfluo dopo la fine delle ostilità. Davanti ad ogni camera c’era la prescritta area di parcheggio, delimitata da strisce bianche sull’asfalto e numerate. L’interno delle stanze aveva i mobili essenziali, abbastanza in ordine, un vecchio televisore a colori e un bagno, sempre pulito, ma con la pressione dell’acqua insufficiente.

Non c’erano ristorante o snack bar, ma gli ospiti potevano procurarsi tavolette di cioccolato da un distributore fuori della stanza numero 26. La direzione era in un piccolo edificio a sé stante, che ospitava anche l’alloggio dei proprietari. L’ufficio era una cameretta con una scrivania verde di legno e dépliant per i turisti sparpagliati su una mensola. Le tariffe, quaranta dollari a notte per una camera doppia in alta stagione, erano esorbitanti dato il livello del motel, ma i proprietari dell’Empire sapevano che i loro «ospiti» non potevano trovare nient’altro altrove e non avevano scelta.

Il ponte di Tappan Zee si profilava a meno di un chilometro di distanza ed era chiaramente visibile dal motel. Scavalcava l’Hudson e collegava due parti dello Stato di New York. In quel momento era al centro dei programmi e delle teorie di Marie Neuberger, dato che poteva essere la chiave delle misteriose visioni di una bambina. L’elegante ponte raramente era stato oggetto di un così grande, profondo interesse.

Annie e Vera ebbero la camera numero 16, a due letti, mentre alla Neuberger venne assegnata la 17. Grazie all’interessamento di Ned, Vera si era assicurata un servizio di sorveglianza, all’esterno della stanza, ventiquattr’ore su ventiquattro. Le guardie sarebbero state in divisa e venivano messe a disposizione da una locale agenzia specializzata che era stata in rapporto con Harry. I turni di vigilanza si sarebbero susseguiti ogni otto ore.

Su insistenza della Neuberger a Larry Birch era stato vietato di soggiornare all’Empire contemporaneamente a Annie. Così lui fu costretto a prendere in affitto una stanza a due minuti di strada dal motel, la cui insegna luminosa e parte del parcheggio erano visibili dal balcone del secondo piano. Si era anche procurato una radio della polizia che lo avvisasse di qualsiasi «avvenimento» capitasse nel motel.

Vera non lo sapeva, ma Ned aveva assunto un detective privato, che alloggiava nella camera attigua a quella della Neuberger, per tenerla d’occhio e riferire su quanto stava facendo ad Annie.

Poche ore dopo il loro arrivo al motel, in una giornata calda e soleggiata, la Neuberger, Vera e Annie si riunirono nella stanza della psicanalista. Le due donne si sedettero su due poltroncine, mentre la bambina saltava sul letto cigolante. Fuori della porta una guardia di ventidue anni, dai capelli ramati, stava a cavalcioni di un cartone del latte, il volto quasi nascosto da occhiali da sole.

La Neuberger era «vestita» per l’occasione: indossava un informe abito verde con in testa un foulard rosso, portatole dalla Russia da un vecchio amico.

«Voglio che la piccola si renda conto», disse la dottoressa, guardando severamente Annie, «che è una faccenda da prendere sul serio. Non possiamo permetterci giochi e trastulli come il giorno del compleanno. Non possiamo concederci sogni a occhi aperti. Annie, ascolti quello che sto dicendo?»

«Sì», rispose la bambina, rimbalzando agilmente sul letto e distratta da una macchia marrone che aveva visto sul soffitto.

«Farai del male a te stessa se racconti ciò che non è vero. Ma se, in effetti, vedi qualcuna di quelle strane cose, dillo alla mamma, e lei me lo riferirà. Hai capito bene?»

«Sì.»

«Anche nel bel mezzo della notte, Annie. Svegli tua mamma subito e lei sveglierà me. E racconterai tutto, senza tralasciare niente e senza aver paura di essere presa in giro.»

«Okay», rispose Annie, non capendo bene quello che le stava dicendo la Neuberger, ma rendendosi comunque conto che si aspettavano da lei nuove visioni.

«Ora, mia cara Vera», proseguì la Neuberger, «lei ha qui un ruolo importante, anche se non ha visioni. Può darsi che la piccola dica a lei cose che a me non direbbe. Quindi, se io non sono presente, lei sarà la sola ad ascoltare ciò che Annie dice. Deve trascrivere tutto, parola per parola, se ci riesce. Ho portato block notes e penne.»

«Farò come dice», assicurò Vera.

«Molto bene. Inoltre tenga occupata la bambina. A volte i piccoli, quando si annoiano, inventano frottole. Mia sorella era una di quelle. Accidenti, che bugiarda!»

Uscirono tutt’e tre per fare una passeggiata insieme, con la Neuberger attentissima ad ogni minima sfumatura nel comportamento di Annie. La bimba sembrava perfettamente normale. Saltellava, tenendo la mano di Vera, senza dimostrare nessun turbamento per essere stata sbalestrata da casa all’appartamento della Neuberger e poi al motel. Non manifestò neppure emozione per essere vicina al ponte. Anche quando il Tappan Zee le fu sopra la testa lei non fece nessun cenno alla visione di suo padre morto.

Trascorsero tre giorni e tre notti. Vera non si era mai accorta fino ad allora di quanto le mancasse la propria cucina.

E non accadeva niente.

Le guardie si davano il cambio, scambiandosi battute sulla stravagante signora che era con le McKay, facendo ipotesi sulla categoria di persone che aveva il coraggio di affidarsi, o solo accompagnarsi, a Marie Neuberger.

La quarta notte, però, fu diversa.

Era una serata calda e afosa, di quelle che fanno invocare la pioggia a rinfrescare l’aria. La temperatura si manteneva sui ventisette gradi e non si muoveva una foglia. Sulla vallata dell’Hudson incombeva un puzzo, gas d’automobili, rifiuti industriali, fiume inquinato, imprigionato da un’atmosfera immobile. I condizionatori d’aria dell’Empire Motel funzionavano al massimo, creando un concerto ininterrotto di ronzii e cigolii, udibile dentro e fuori. Vera mise a letto Annie alle 20.30, ma ci volle più di un’ora perché la bambina prendesse sonno. Quando la vide addormentata, lei comunque accese un piccolo paralume sul tavolo e aprì una copia del Parents Magazine, vegliando, attenta a qualsiasi suono che provenisse da Annie.

Nella camera attigua Marie Neuberger stava annotando le sue osservazioni del giorno e le sue ultime riflessioni su Annie. Non era scoraggiata per l’assenza da parte della piccola di visioni relative al ponte così vicino.

Vera, alle 22.08, stava finendo un articolo sui mobili per i bambini. Nonostante il rumore del condizionatore d’aria percepì il cri-cri di un grillo fuori della finestra. Alzò gli occhi, stupita per come un animaletto simile riuscisse a produrre un suono tanto forte, poi passò a un altro articolo.

Alle 22.14 udì Annie emettere un verso, come un gorgoglio.

Un suono soffocato, come quelli che a volte segnalano l’inizio di un raffreddore.

Vera spiò la figlia per qualche momento, la vide tranquilla e immobile e decise che non c’era da preoccuparsi.

Annie ripeté il brontolìo.

Poi, di nuovo.

«Paparino», gemette.

Vera lasciò cadere la rivista sul tavolo. «Annie», sussurrò, «stai bene, tesoro?»

Annie si rigirò e brontolò ancora, questa volta abbastanza forte da spaventare Vera.

«Che cosa non va?» le domandò Vera con voce agitata.

Il respiro di Annie divenne più pesante. Gocce di sudore le imperlarono la fronte.

Annie si rigirò ancora, percuotendo forte col braccio il materasso.

Vera si lanciò alla porta, girandone la chiave nervosamente e aprendola.

La guardia, Elmer Greer, un poliziotto in pensione di sessantadue anni, non era al suo posto e stava chiacchierando con un cliente nell’area di parcheggio. Vedendo Vera, cercò di riguadagnare in tutta fretta la sua postazione. Ma i venti chili in più gli permisero solo di trotterellare verso la stanza.

Vera si precipitò alla porta della Neuberger e bussò. La dottoressa, ancora sveglia, aprì subito. «Che cosa c’è, che cosa c’è?» chiese.

«Annie», ansimò Vera.

La Neuberger afferrò carta e matita e si affrettò verso la camera di Annie.

Elmer Greer arrivò proprio mentre le due donne erano a metà strada fra le due stanze. «Posso essere utile?» domandò senza fiato.

«Faccia da testimone», gli disse la Neuberger. «Tenga a mente tutto.»

Greer si limitò a stringersi nelle spalle davanti a un ordine così strano e si risistemò sulla propria sedia.

La Neuberger e Vera entrarono nella stanza di Annie.

Si bloccarono entrambe, di colpo.

Annie era scesa dal letto. Aveva indossato la sua vestaglietta rossa e calzato le pantofole. Aveva gli occhi spalancati, deliranti.

Cominciò a dirigersi verso la porta.

Vera si mosse per fermarla.

«No!» ordinò la Neuberger. «Vediamo dove ci porta.»

Come se fosse guidata da una presenza invisibile, Annie uscì all’aperto. Sembrava essere in un altro mondo.

«Meglio fermarla!» suggerì Greer, ma la Neuberger gli impose con un gesto di trarsi in disparte.

Annie entrò nel parcheggio.

«Stiamo attente alle macchine», disse la Neuberger. «Fermiamo loro non lei.»

Ma non arrivava nessuna automobile e Annie scivolò attraverso il parcheggio in un bosco lì nei pressi. «Paparino», continuava a mormorare.

All’improvviso cominciò a correre, lasciando interdette Vera e la psicanalista.

Annie galoppò tra gli alberi. «Papà!» gridò questa volta, con tutto il fiato.

Oltrepassò la zona di luce che veniva dal motel, immergendosi nel buio. Solo le sue grida e lo scintillìo dei capelli sotto il chiaro di luna indicavano dov’era.

La Neuberger e Vera cercarono di starle dietro, senza perderla di vista, ma, come altre volte, Annie correva fortissimo. Sempre di più. La Neuberger fu costretta a fermarsi. Vera continuò l’inseguimento. Elmer Greer non ci provò neppure.

Annie deviò bruscamente sulla destra, verso il ponte, la sua figuretta delineata dalle luci. «Papà!» gridò. «Voglio venire da te!»

Alla fine, in un folto d’alberi all’ombra del Tappan Zee, si fermò. Vera, abbastanza vicina da riuscire a vederla, la osservò che riprendeva fiato, per poi guardare giù verso la terra umida e scoppiare in singhiozzi.

«Papà», disse sommessamente, «voglio che tu venga fuori da lì sotto.»

13

E di nuovo le sirene ulularono a Tarrytown. Quella volta, però, convergevano su un’Annie che non stava per essere trasportata all’ospedale. Era viva, in buona salute, anche se ossessionata di trovarsi sopra la tomba del padre.

Le auto della polizia frenarono con uno stridio di pneumatici, fermandosi nel parcheggio del motel. Ne scesero i rappresentanti della legge che Elmer Greer, il quale aveva finalmente trovato un compito, guidò alla «tomba».

Vera e la Neuberger erano con Annie. Larry Birch, avvisato dalla radio della polizia, era corso al motel, restando però discretamente in disparte. Ned McKay era stato informato dal suo detective privato e successivamente convocato dalle autorità; ma aveva ritenuto più prudente non farsi vedere.

Gli agenti erano agli ordini del sergente Charles Washington, un negro gigantesco, già stella di prima grandezza nella squadra di football della Sleepy Hollow High School, e forte di un’inappuntabile carriera di quindici anni nella polizia. Washington aveva un aspetto autoritario e imponente, ma parlava con voce morbida, quasi vellutata. Il suo perenne sorriso e il suo rifiuto di perdere le staffe lo avevano reso inestimabile nel prevenire disordini razziali e nel raffreddare zuffe familiari.

Washington si portò dietro tre agenti mentre avanzava tra gli alberi, usando un’enorme pila elettrica per farsi strada. Trovò Vera, Annie e la Neuberger in una piccola spianata, circondata da alberelli e erbacce. La bambina tremava e rabbrividiva, mentre la madre le circondava le spalle con un braccio. La psicanalista stava ancora prendendo appunti.

«Che cosa succede qui?» domandò affabilmente Washington.

«Qualcosa di veramente profondo», rispose la Neuberger.

«Non capisco, signora.»

Vera tolse per un attimo il braccio dalle spalle di Annie e avanzò di fronte a Washington. «Sergente, mi chiamo Vera McKay.»

«Lo so, signora, dalla chiamata.»

«Allora lei conosce, probabilmente, la storia di mia figlia.»

«Be’, certo. I giornali e tutto il resto, capisce.»

«Ha avuto un’altra visione.»

Washington esitò, non sapendo lì per lì come affrontare quel problema. «Signora», chiese, «in che cosa possiamo esserle utili?»

«Mia figlia ha visto suo padre», spiegò Vera nervosamente, «sepolto quii»

«Oh, capisco.»

Uno degli agenti si coprì la bocca con la mano per nascondere una risata. Washington lo fulminò con un’occhiata di rimprovero. «Signora», domandò, «è sicura che non si sia trattato di un incubo? Sa, anch’io ho dei figli piccoli. Succede.»

«Non era un incubo», ribatté Vera. «Dobbiamo scavare qui. Se mia figlia ha ragione, lei sa che cosa troveremo.»

«Sì, signora.»

«Abbiamo bisogno della polizia. Se mio marito è… è meglio ci sia un poliziotto come testimone.»

«Senz’altro, signora.»

«Avete delle vanghe?» chiese Vera.

Washington sembrò restio a rispondere. «Be’, le abbiamo», rispose alla fine, senza entusiasmo.

«Qualcosa non va?» chiese Vera.

«Signora, ho per lei una profonda simpatia», replicò l’uomo, «ma la cosa è, come si suoi dire, irregolare.»

«Ah, il libretto dei regolamenti», ironizzò la Neuberger.

«Sì, signora. Non posso impiegare degli uomini per questa faccenda delle visioni. Devo avere qualcosa di effettivamente evidente.»

Vera divenne chiaramente agitata. «Annie ha già avuto ragione altre volte», scattò. «Mio marito è scomparso. Nessuno l’ha visto. Ci aiuti, per carità. Sarò io stessa a scavare. Mi dia solo una pala e rimanga come testimone.»

Washington, diviso tra la compassione e la burocrazia, sospirò e si concesse una breve pausa per riflettere. «Non voglio interpellare il mio capo», spiegò, «perché non sarebbe mai d’accordo. La sola cosa che posso fare è lasciar qui un paio di uomini e ripassare a prenderli domani. Io non posso rimanere.»

«Incorruttibili sbirri», brontolò la Neuberger. Washington fece finta di non sentirla.

«Ma se troviamo qualcosa», disse Vera con la voce che le tremava all’idea del corpo di Harry sottoterra, «lei non si sentirebbe uno sciocco a non essere rimasto?»

Washington ci rimuginò su un attimo. Non aveva pensato a quella possibilità. «Be’», ammise, «potrebbe esserci qualche grana.» Seguì una lunga pausa, carica di tensione. «Forse un modo c’è per cui potrei giustificare di aver lasciato qui un uomo.» Gli era venuta un’idea, un diversivo tattico che aveva usato in precedenza. «Potrei dire che la bambina necessitava di protezione contro eventuali profittatori della faccenda…»

«Naturale!» concordò la Neuberger. «Potremmo rovinarla, torturarla.»

«Ritengo che questo potrei spiegarlo», proseguì Washington, pensando a voce alta. «Anzi, potrei addirittura restare io stesso, ma senza collaborare. Dovremmo solo osservare e basta.»

«Sì, naturalmente», annuì Vera.

Washington spedì un agente a prendere le vanghe.

Vera chiese a Elmer Greer di aiutarla a scavare. Greer, umiliato dalla propria precedente incapacità a essere di grande aiuto, accettò subito. Il sergente Washington si sentì un intruso, ma permise ai suoi uomini di illuminare con le grosse torce della polizia la scena.

Vera e Greer iniziarono a scavare subito dopo le 23.30.

L’aria era ancora satura di umidità. Tutti quanti attorno al gruppetto respiravano con difficoltà, risentendo dell’umidità. E la temperatura cominciò ben presto ad abbassarsi rapidamente. L’aria umida penetrava nelle ossa, quasi a sottolineare l’atmosfera livida e spettrale già creata dalle torce. Un televisore dall’Empire era sintonizzato a tutto volume su una replica del Tenente Colombo e la Neuberger, al di sopra del rumore delle vanghe che affondavano nel terreno, udiva chiaramente la voce di Peter Falk.

Per un po’ nessuno fu molto loquace. Tutti, Annie compresa, osservavano i due che scavavano. La lontana, animata eco del traffico sul Tappan Zee offriva uno stridente contrasto con quel sordo lavoro.

Era passato solo un quarto d’ora, quando Washington si fece avanti con un’aria colpevole sul viso. «Lasci fare a me, signora», pregò. «Non è giusto. Infrangeremo un pochino i regolamenti.»

«Ma no, ce la faccio benissimo», rispose Vera.

Ma Washington vedeva la sua faccia pallida e spaventata. Tra la confusione generale, ossessionato dai regolamenti di polizia, il sergente non aveva pensato che in realtà Vera stava scavando per cercare il corpo del marito.

«Dia a me, signora. La prego, si metta là a sedere.» Con dolcezza, le tolse la vanga di mano.

«Grazie», sussurrò Vera, e Washington poté scorgerle gli occhi luccicanti di lacrime.

Il sergente affondò la pala nel terreno, tirandone su tre o quattro volte di più di quanto fosse stata capace Vera. Il suolo era duro e l’umidità lo rendeva ancora più pesante. Elmer Greer si arrese e fu sostituito da uno degli uomini di Washington.

Un radiomessaggio gracchiò nella ricevente dell’auto di Washington e fu distintamente udito dal punto dello scavo. Il poliziotto tornò lentamente alla macchina e rispose spiegando che stava ancora «analizzando» la situazione al motel.

La fossa raggiungeva la profondità di quasi un metro e mezzo.

Washington era zuppo di sudore da capo a piedi. Scavava per accontentare Vera, convinto tuttavia che non ne sarebbe uscito niente. «Signora», disse, «chiunque seppellisca un uomo in un bosco come questo, normalmente non scaverebbe così a fondo, sa?»

«Lei non crede che Harry sia lì sotto?» chiese ingenuamente Vera.

«Signora, non so dove sia. Ma non penso proprio che si trovi qui sotto.»

Vera sospirò profondamente, dolorosamente, poi chinò gli occhi su Annie, che era seduta su una coperta, mezza imbambolata dal sonno. «Tesoro, tu che cosa ne dici?»

«Papà è lì», rispose la bimba.

«Ne sei certa?»

«L’ho visto, mammina.»

Washington e l’agente si scambiarono un’occhiata scettica, che non sfuggì a Vera.

«Non so che cosa dire di più!» esclamò questa. «Vi sono grata di quanto state facendo, ma non posso chiedervi di aiutare se pensate che è inutile.»

La Neuberger intervenne bruscamente. «Io a questa piccola credo», affermò decisa. «Lavorerò io.»

«Non glielo permetterei, signora», replicò pacatamente Washington.

«Dobbiamo scavare ancora», riprese la psicanalista. «Dobbiamo avere la certezza. Una normale fossa è profonda circa due metri. Forse questo assassino era un perfezionista. Sì, ne ho visti altri del genere.»

«D’accordo», acconsentì Washington. «Andremo giù ancora un po’.» Ritornò al lavoro, assieme all’aiutante.

Vera guardò ansiosa Annie. La testa della piccola ciondolava. «È così tardi», disse rivolta alla Neuberger. «Forse è meglio che la riporti al motel.»

«No», si oppose la Neuberger. «Potremmo averne bisogno qui. Potrebbe avere un’altra visione. In quella squallida stanza sarebbe inutile.»

Vera non obiettò.

Intanto il televisore all’Empire era stato spento e la voce di Peter Falk non giungeva più tra gli alberi. Il traffico sul ponte era diminuito, come sempre accadeva a quell’ora di notte, così anche quel rumore si era affievolito. Alla fine, un silenzio quasi assoluto dominò la scena. Le pile delle torce stavano esaurendosi e la visibilità si faceva più scarsa.

Vera avvertiva una sensazione sempre più pressante d’impotenza mista a paura.

E in quel momento… Washington si fermò.

«Che cosa c’è?» chiese la Neuberger.

Il sergente non le rispose. Si girò invece verso l’agente che lo aiutava. «Fammi luce qui», gli disse con un tremito improvviso nella voce.

Vera e la Neuberger si fissarono a vicenda.

Washington scrutò nella fossa, guidato dal raggio tremolante della pila. Vera, d’impulso, scattò in avanti, anche lei per guardare. «Non vedo niente», disse.

«Pietra frantumata qui giù, signora», le spiegò Washington.

«Che cosa significa?»

«È quello che accade quando la terra viene smossa con la vanga.»

«Le vostre vanghe?»

«No, Mrs. McKay. Quel punto lì non l’abbiamo toccato affatto.»

La constatazione colpì Vera come un pugno. Di colpo, senza pensarci, strappò la vanga dalle mani dell’agente e cominciò a scavare freneticamente.

«No!» gridò Washington.

«Lo troverò!» proruppe Vera, irrigidendo le mascelle. Saltò dentro la fossa. «Se è qui sotto, lo troverò.»

Sembrava un’invasata, le mani strette sul manico della vanga, le vene sporgenti, la pelle di un pallore cadaverico.

La Neuberger era strabiliata, Washington stupefatto.

La terra volava via a raffiche. Vera sembrava quasi ringhiare mentre lavorava con una velocità febbrile. Washington cercò d’intervenire per aiutarla. «No», lo bloccò Vera. «Voglio farlo da sola, adesso. Se l’hanno messo qui sotto, sarò io a tirarlo fuori!»

Washington si tirò indietro e rimase a osservare, nel raggio delle torce che stava indebolendosi.

Vera si affannò per quattordici minuti, con il fiato pesante, pieno di sospiri, sussulti e colpi di tosse. Poi, le mani tremanti di terrore, si fermò e fissò il punto dove stava scavando.

Lasciò cadere la vanga e indicò.

«Lì!» disse con un’espressione mistica sul viso contratto.

Washington si avvicinò lentamente alla fossa. Guardò dentro e vide un brandello di stoffa azzurro pallido, a righine sottili. «Sembra far parte di una manica», osservò preoccupato.

Allora, quasi repentinamente com’erano esplosi, il vigore selvaggio e la determinazione abbandonarono Vera. Si appoggiò alla vanga e cominciò a singhiozzare irrefrenabilmente. «Non posso!» gridò.

Washington si affrettò a farla uscire dalla fossa. La condusse vicino ad Annie e alla Neuberger. «Cerchi di riposarsi, adesso, Mrs. McKay», le disse con dolcezza. «Ce ne occupiamo noi.»

Ma il freddo Washington, il tetragono poliziotto che si vantava di non farsi mai prendere dall’emozione, si accorse che stava tremando. Poteva esserci un corpo lì sotto. La bambina poteva aver ragione. Guardò il suo aiutante, un agente di vent’anni, ancora alle prese con l’acne giovanile, e gli lesse la paura sul volto.

Comunque Washington aveva un lavoro da fare. Prese la vanga e si calò con prudenza nella fossa. Con il tocco preciso di uno scultore saggiò la terra attorno al pezzo di stoffa per vedere se fosse attaccato a qualcosa. Sì, era attaccato, non veniva via. Scese con la punta di qualche centimetro. Con una delicatezza sempre più crescente l’enorme callosa mano di Washington guidò la vanga finché, di colpo, incontrò qualcosa di duro. Grattò con l’attrezzo, cercando di mettere a nudo l’ostacolo.

Il sergente deglutì: fissava carne umana pietrificata.

Abbandonò la vanga. Con espressione cupa tornò da Marie Neuberger, che era discosta da Vera un due o tre metri. «Signora», le bisbigliò, «abbiamo trovato resti umani.»

La psicanalista annuì: lo aveva previsto.

«Forse, signora, sarebbe meglio che Mrs. McKay si allontanasse…»

«L’accompagnerò al motel», disse la Neuberger. «Lei non scavi più finché non torno. Devo essere presente.»

«D’accordo, signora.»

La Neuberger si avvicinò a Vera. «Vera», le disse, «penso che dobbiamo rientrare. È meglio.»

Vera, ancora singhiozzando sommessamente, la fissò, quasi rabbiosa. «L’hanno trovato!» Prima che la Neuberger riuscisse a rispondere, scattò in piedi e si slanciò verso la fossa.

Washington le si parò davanti di scatto, facendola quasi cadere. «Non guardi, signora!»

«Voglio vedere. Lui è mio, non vostro!»

«Signora, non è più come prima!» Afferrò Vera, tentando di bloccarla.

«No!» urlò lei. Si divincolò e corse sull’orlo della fossa. Guardò dentro, nel buio. «Fatemi luce!» ordinò. Washington capì che non si poteva fermarla. Si avvicinò alla fossa e vi diresse il raggio della torcia.

Vera guardò dentro, con reazioni dapprima esitanti. La vista della carne rinsecchita non sembrava ancora scuoterla. «Voglio vedere di più», disse con calma.

Washington si calò dentro piano e cominciò a rimuovere altro terriccio. Apparve la sagoma di una spalla.

A Vera si mozzò il fiato e le gambe le si piegarono.

La Neuberger si mosse per sorreggerla.

«Ancora!» insisté Vera con voce quasi soffocata, in un parossismo di agonia.

Washington esitò un attimo, poi continuò. Il contorno di un uomo affiorò, a mano a mano che la terra veniva rimossa. Vera aveva riguadagnato un minimo di controllo, ma teneva gli occhi chiusi mentre Washington lavorava.

Alla fine il sergente fu pronto a scoprire la testa del morto. Alzò lo sguardo su Vera. «Tenga chiusi gli occhi, signora.» Poi, quasi religiosamente, rimosse un po’ di terra.

La testa, pensò Washington, risultava notevolmente ben conservata, come se una forza superiore fosse intervenuta perché la prova del delitto rimanesse intatta. L’identità della salma non lasciava dubbi. Washington riconobbe Harry McKay dalle fotografie delle persone scomparse. «Ho finito, signora», disse sommessamente a Vera.

Con lentezza, con solennità, lei aprì gli occhi, prima guardando davanti a sé, quasi riluttante a riconoscere quel corpo. Ma poi abbassò la testa, puntando gli occhi umidi di lacrime dentro la fossa illuminata dalla torcia. Contemplò il volto, pietrificato, rigido, eppure intatto nei lineamenti. «Harry», disse con voce sommessa, quasi infantile.

Poi svenne.

I poliziotti la trasportarono al motel, mentre Washington, tornato alla sua auto, lanciò per radio un messaggio, uno solo, raramente trasmesso nella pacifica Tarrytown.

All’alba sul luogo della fossa c’era il caos.

Cronisti e fotografi si accalcavano dietro le transenne di legno per vedere meglio. Automobili provenienti dal Tappan Zee deviavano per costeggiare il posto, dopo aver sentito al giornale radio del rinvenimento della salma di Harry. Gente che affluiva in macchina da Tarrytown, alcuni con macchine fotografiche, altri che si passavano la voce. Rapidamente si sparse la notizia che i cadaveri erano due.

Gli ospiti del motel elargirono alla stampa i particolari della corsa di Annie nei boschi e ci volle ben poco perché il fatto divenisse di dominio mondiale. Ancora una volta Annie era una celebrità. Vera e la Neuberger la tennero al sicuro nel motel, nella camera sorvegliata da una squadra di poliziotti di Tarrytown. «No comment», era la sola risposta autorizzata di fronte alle domande della stampa.

La parola «sovrannaturale» costellò gli articoli dei giornali e provocò l’afflusso di esseri viscidi e subdoli, cani attorno a un osso. «Ministri» e «guaritori» fasulli apparvero intorno al motel, con Bibbie e libri di fede alla mano, di cui alcuni in vendita, decisi a immortalare su pellicola l’avvenimento e a divulgare la loro contorta versione delle facoltà di Annie.

L’investigatore Ed Simeon arrivò, in abito azzurro estivo spiegazzato, cravatta dal nodo approssimativo, aspetto ancora più emaciato del solito.

Non aveva chiuso occhio e l’incubo di dover affidare la moglie a una clinica statale per malattie mentali lo torturava mentre si avviava verso il luogo della tomba, taccuino in mano, pronto al suo compito. La persona scomparsa era stata trovata. Ora Simeon doveva trovare un assassino.

Subito dopo arrivò la Cadillac di Ned McKay. Ne emerse un Ned sconvolto, ovviamente a pezzi. Barba non fatta, capelli spettinati, netta antitesi all’immagine abituale. Indossava un pullover rosso e pantaloni beige e aveva le scarpe slacciate.

Simeon lo scorse, gli si avvicinò e gli pose, comprensivo, una mano sulla spalla. Insieme si diressero verso la fossa. Simeon gli fece strada fin sull’orlo, ma lì Ned fu assalito da una batteria di flash. Si coprì gli occhi, il volto contratto dalla rabbia. Simeon fissò severamente i fotoreporter, ma loro se ne infischiarono. Ned si voltò di scatto per evitare le macchine fotografiche, incespicando e facendo cadere un po’ di terra nella fossa.

Alla fine i fotografi desistettero. Ned fissò l’umido sepolcro, immobile e privo d’espressione in viso, per qualche attimo. «È Harry», piagnucolò, come se fosse ancora necessaria l’identificazione. «Sembra riposare così in pace laggiù.» Poi si morse le labbra. Simeon cercò di tirarlo via, ma lui si oppose. «Che strano», disse, «quel pazzo, o chiunque ha fatto questo, ha scavato così in profondità.»

«Sì, signore», convenne Simeon, ripetendo il commento del sergente Washington, «davvero singolare.»

«Non l’avremmo mai trovato, se non fosse stato per Annie», proseguì Ned con una voce che, rispetto al solito, era un bisbiglio. «Bimba benedetta da Dio.»

«Sì, signore.»

«Voglio andare da lei e da Vera.»

Simeon se lo tirò dietro e l’affidò a un agente perché lo scortasse fino alla stanza dove alloggiavano Vera e Annie.

Non appena Ned cominciò a tornare sui suoi passi i giornalisti presero a bersagliarlo di domande, demolendo quel poco di austerità che ancora restava nell’atmosfera.

«Mr. McKay, suo fratello era forse in qualche guaio?»

Ned continuò a camminare, ma non cercò di evitare le risposte. «No», rispose con voce triste. «Harry si teneva fuori da qualsiasi problema.»

«La cosa non ha l’impronta di un regolamento di conti tra gang rivali?»

«Non so niente del genere», ribatté Ned. «Chi poteva volere la morte di Harry?»

«Non potrebbe essere opera di un cliente scontento?» chiese un giornalista. «Magari qualcuno cui era stato rifiutato un indennizzo?»

Ned si strinse nelle spalle. «Come faccio a saperlo? Vi sono pazzi dappertutto.» Scosse la testa e a quasi tutti i cronisti sembrò sul punto di scoppiare in lacrime.

«Non prova un certo sollievo ora che è finita?» gli domandò una giornalista.

Ned si fermò. Si girò verso la donna, di colpo duro e risoluto in volto. «Non è finita», disse seccamente. «Dobbiamo scoprire chi è stato a ucciderlo. Allora sarà finita.» Riprese a camminare, raggiungendo poi il parcheggio dell’Empire e facendosi accompagnare alla stanza di Vera.

Aprendogli la porta, lei rimase a guardarlo, il volto tormentato, gli occhi gonfi e lacrimosi. Non aprì bocca. Gli cadde tra le braccia e ricominciò a singhiozzare.

«Dentro», sussurrò Ned. «Evitiamo i giornalisti.» Dolcemente le circondò le spalle con un braccio e la fece rientrare in camera. Annie dormiva sul letto. Marie Neuberger, su una sedia, stava terminando di stendere una particolareggiata serie di appunti sugli incredibili avvenimenti della nottata.

La psicanalista sollevò lo sguardo. Le fu facile indovinare chi era il nuovo venuto.

«È questo, Ned?» chiese freddamente a Vera.

«Sì, è lui», confermò Vera tra i singhiozzi.

Ned la fece sedere e si precipitò verso la psicanalista. «Vorrei scusarmi», le disse, trasudando sincerità. «Le dobbiamo tutto. Ero davvero prevenuto sul suo lavoro. Credo proprio che la mia linguaccia di avvocato mi abbia preso la mano.» Poi, d’impulso, strinse la mano alla Neuberger.

«Ha detto bene», rispose la dottoressa. «Chi si converte diventa il miglior credente.»

Ned guardò Annie. «Piccolo angelo», disse, con voce roca. «Chi mai avrebbe pensato che sarebbe toccato a lei trovare il corpo di suo padre?» Si avvicinò di nuovo a Vera. «Dovesse costarmi ogni giorno che mi rimane», dichiarò, «e fino all’ultimo centesimo, questa faccenda la chiariremo. Da questo momento rinuncio ad ogni altra mia attività. Aiuterò la polizia. Farò qualsiasi cosa per scoprire chi ci ha portato via il nostro Harry.»

14

«In base a mio giudizio professionale Harry Rudolph McKay, adulto, di razza bianca, è morto a causa di una ferita alla testa, ferita inferta con un pesante strumento contundente. Non sono state riscontrate altre cause che hanno contribuito alla morte e non si sospetta nessuno in particolare.»

La relazione del coroner, divulgata due giorni dopo il ritrovamento di Harry McKay, confermava ciò che tutti avevano supposto. Agli ordini del detective Simeon, il Dipartimento di polizia di Tarrytown intraprese una delle più grandi indagini della sua storia. Ned McKay richiese formalmente al Ministero della giustizia l’intervento del FBI, ma la richiesta fu respinta poiché non c’erano prove che i confini di Stato fossero stati oltrepassati, presupposto essenziale per un’azione federale.

Marie Neuberger si trasferì in casa di Vera, quando lei e Annie vi fecero ritorno. Sperava che la bambina rivelasse, con una visione, chi era l’assassino del padre.

La polizia piantonò la casa per tenere lontani i giornalisti e dirottò il traffico dei curiosi. Vera fu di nuovo costretta a usare una speciale cassetta postale a causa della strana corrispondenza che riceveva: infatti patetiche richieste di aiuto rivolte ad Annie cominciarono ad arrivare dopo le prime notizie del ritrovamento della salma, spesso di genitori di figli scomparsi. A malincuore, Vera doveva respingerle. Come la Neuberger era convinta che le facoltà di Annie operavano soltanto per la loro famiglia.

Le esequie di Harry ebbero luogo quattro giorni dopo la relazione del coroner. Fu un avvenimento che mobilitò i mass-media. Giornalisti, fotografi, cameraman di tutto il mondo affollarono il cimitero di Mount Haven, nei sobborghi di Tarrytown, dissezionando ogni attimo del rito come se rispetto e riservatezza non esistessero più.

Il rito funebre cominciò alle undici di mattina nella piccola cappella di legno del camposanto. Vera aveva deciso di lasciare a casa Annie, poiché le esequie e l’assalto dei fotografi avrebbero potuto traumatizzarla. La Neuberger rimase con la piccola, tenendola costantemente d’occhio, nel caso che il funerale provocasse in lei qualche nuova visione.

Un organista eseguì in sordina alcuni inni mentre trecento persone sfilavano accanto alla bara chiusa, che, per esplicita richiesta di Ned, era di solida quercia, foderata di seta e lino. Niente era troppo bello per Harry, aveva affermato Ned, insistendo anche per accollarsene le spese. Volle anche che il fratello fosse sepolto con l’abito grigio che gli piaceva tanto e che la Bibbia della famiglia McKay, cimelio ereditario da oltre mezzo secolo, fosse interrata con lui.

Quando la sfilata terminò i presenti occuparono i lucidi banchi della chiesetta. Ned scortò la cognata nella prima fila, poi prese posto sul pulpito, di fianco al sacerdote. Vera si comportava con notevole forza d’animo. L’intervallo di tempo tra la scoperta del cadavere e le esequie aveva costituito un opportuno cuscinetto che le aveva permesso di riprendersi dallo choc. Indossava un sobrio vestito nero, ravvivato soltanto da un medaglione al collo che racchiudeva la fotografia di Harry.

Dopo una breve preghiera Ned andò al leggio. Con voce insolitamente esitante, pronunciò l’unico panegirico del rito.

«Tutti amavano mio fratello», disse con voce tremante, in piedi dietro al leggio. «Non aveva nemici, nemmeno in affari. Non ebbe mai parole dure contro nessuno, inclusi i suoi concorrenti. Chiunque abbia posto fine ai suoi giorni è un pazzo, un essere malato, uno da assicurare alla svelta alla giustizia. Ma, conoscendo Harry, sappiamo che probabilmente chiederebbe che il proprio assassino fosse perdonato. Perché ecco com’era: buono e misericordioso. Ricordo che una volta, mentre stava passando accanto a dei ragazzi che giocavano a baseball, fu colpito alla schiena con violenza dalla palla. Un colpo estremamente doloroso, ma Harry si preoccupò assai più del ragazzo che l’aveva colpito. Andò da lui e gli assicurò che andava tutto bene, che si era trattato solo di un incidente. Questo era il nostro Harry. Sarà ricordato e rimpianto da tutti coloro che lascia sulla terra, qui e ovunque.»

Molti dei presenti annuirono. Dopo aver concluso con un tributo per Annie e Vera, Ned si mise alla testa di un gruppo di becchini che trasportarono il feretro su un’altura vicina. Il terreno era coperto di corone di fiori, alcune inviate da compagnie d’assicurazione di altri stati. Una veniva addirittura da un gruppo inglese d’indagine sui fenomeni dello spirito.

Era presente il fior fiore di Tarrytown, ma ancora una volta la solennità del momento fu distrutta dalla continua presenza di fotografi e cameraman, che protendevano come armi le loro macchine e i loro microfoni.

Vera sedette silenziosa presso la tomba, con Ned al fianco che le teneva la mano. In pochi minuti fu tutto finito. Il corpo di Harry McKay venne calato sottoterra, mentre un elicottero della polizia di Tarrytown sorvolava la zona, scattando foto dei presenti. Ed Simeon obbediva alla tradizionale convinzione che spesso gli assassini si divertono ad assistere ai funerali delle loro vittime.

Prima d’interrogare Vera, Simeon attese un altro giorno. Voleva muoversi rapidamente, ma non era insensibile al dolore dei McKay.

Su richiesta di Vera, il colloquio si svolse in cucina, in modo che Annie non sentisse. Ned insisté per assistervi, sia come membro della famiglia, sia come legale della cognata. I tre sedettero intorno al tavolo di formica. Dal soggiorno proveniva un profumo di fiori.

Simeon si era buscato una brutta tosse. Il suo viso sembrava più lungo del solito. Aveva l’aspetto di un uomo che non sarebbe arrivato in tempo alla pensione.

«Mrs. McKay», cominciò Simeon con la sua voce rauca, «mi rendo conto che è duro per lei, ma di suo marito ne sa più di chiunque altro al mondo, tranne forse Mr. McKay, e ci occorre il suo aiuto.»

Vera annuì; si era completamente ricomposta, sebbene avesse gli occhi ancora gonfi per il gran piangere.

«Vede, signora», proseguì Simeon, «a volte la gente in situazione come la nostra tace determinate cose perché è a disagio, o ritiene di potere danneggiare il ricordo di qualcuno. Le chiedo di non farlo. A lungo andare è controproducente.»

«Stia tranquillo», lo assicurò Vera.

«Signora, appena prima di scomparire suo marito non aveva qualche grossa preoccupazione: soldi, amici, famiglia?»

«No. Era assolutamente sereno. Non c’era niente che lo turbasse.»

«Gli capitava di dover parlar male di qualcuno?»

«No. Non lo faceva mai.»

«Mai, signora?»

«Mai», confermò Vera.

«Forse è un po’ esagerato», ribatté Simeon. «Mrs. McKay, sappiamo tutti che era un uomo come si deve, ma qualche volta deve essersi espresso aspramente, anche su cose di poco conto. Se ha avuto attriti con qualcuno dobbiamo saperlo.»

Vera sospirò e alzò gli occhi al cielo. Ne aveva passate tante che era difficile avere idee chiare. Ned notò il suo turbamento e intervenne immediatamente. «Signor Simeon, lei ha sentito il mio panegirico, di cui confermo ogni parola. Harry non aveva assolutamente nemici. In realtà, l’unico problema che aveva quando è scomparso era con un riparatore di macchine per scrivere, una sciocchezza, naturalmente.»

«Non lo metto in dubbio, signore», disse Simeon. «Se questa è la verità non voglio altro. Andiamo avanti. Nessun tipo sospetto era mai venuto in casa o in ufficio o nei paraggi?»

Ned e Vera si guardarono, stringendosi nelle spalle. «No», rispose lei, «non che io sappia.»

«Esatto», aggiunse Ned.

«Mr. McKay ha mai ricevuto minacce anonime?»

«No.»

«Nei mesi precedenti alla sua morte ha avuto qualche particolare difficoltà in casi assicurativi?»

Di nuovo intervenne Ned. «Casi difficili ce ne sono sempre», disse. «La gente si ritrova delusa dalle polizze. I danni vengono decurtati. Ma sono cose di ordinaria amministrazione, in cui di solito si raggiunge un accordo, e Harry si batteva sempre a favore dei suoi assicurati. Era famoso per questo.»

«Inoltre», aggiunse Vera, «non spettava a Harry prendere decisioni che potessero irritare gli assicurati. Toccava alle compagnie assicuratrici, e i clienti lo sapevano.»

«Be’», commentò Simeon, «la gente può e non può saperlo, signora. Lei resterebbe sorpresa di come si arrabbiano certe persone se il perito, per un parafango ammaccato, gli tira via dieci dollari dall’indennizzo che loro pensano di dover ricevere. Se la prendono col primo che capita.» Prese qualche appunto; la sua faccia malinconica ricordò a Vera il muso di un bassett hound.

«Non credo che lei approderà a qualcosa su questa direttrice», osservò Ned. «Se c’era qualche grosso problema, l’avrei saputo.»

«Bene, dovremo controllare i libri della sua compagnia», dichiarò Simeon.

«Nessun problema», rispose Ned.

Simeon si rivolse a Vera e fu evidente della tensione dei suoi muscoli del collo che il difficile stava arrivando. «Signora», disse, «la prego di non offendersi, ma devo rivolgere qualche domanda… personale.»

«Dica pure», replicò Vera.

«Be’, quando era più giovane, Mr. McKay era noto per i suoi… successi in società.»

Vera riuscì ad abbozzare un leggero sorriso. «Capisco a che cosa allude.»

«E, signora, be’… da giovane, qualcuno sgarra.»

«Ma andiamo!» scattò Ned.

«Mr. McKay, anche questo fa parte delle indagini.»

Ned si fece rosso di collera. «Ma mio fratello è appena stato seppellito!»

«Signore, non posso aspettare», ribatté Simeon. «Sono piste e indizi che si raffreddano presto, e Mr. McKay è stato ucciso mesi fa.»

Vera mise una mano su quella di Ned. «Non preoccuparti. Sono tranquilla. Non credo che Harry abbia fatto pazzie dopo che ci siamo sposati. Diceva a volte che i suoi giorni da leone se li era lasciati alle spalle.»

«Ma non c’è stata nessuna crisi nel vostro matrimonio?» domandò Simeon.

«No, direi proprio di no.»

«Nessuna diceria, nessun sospetto che Mr. McKay avesse trovato… nuovi interessi?»

«No. Rincasava e restava con noi tutte le sere, quando i suoi impegni glielo consentivano.»

«Si assentava per viaggi d’affari?»

«A volte.»

«Dove, signora?»

«Oh, Washington, Atlanta, a volte Chicago. Qualche puntata a St. Paul perché c’è una grossa compagnia d’assicurazioni.»

«Non si è mai chiesta se fossero solamente gli affari il motivo di quei viaggi?»

«Oh, ritengo che ogni moglie se lo chieda, ma nel nostro caso era diverso. Il nostro matrimonio era perfetto. Non solo buono. Perfetto.»

«Capisco.»

Il colloquio si trascinò, con Simeon che non approdava a niente di concreto. Il detective rimase lì per quasi tutta la giornata, sondando in ogni direzione, ripetendo in modo diverso, cinque o sei volte, la stessa domanda. Non poteva sapere che il passo più importante per lo sviluppo dell’indagine stava verificandosi proprio alla sua scrivania, nel suo ufficio.

Durante quel giorno arrivarono all’apparecchio di Simeon tre telefonate, tutte di donne, tutte per dire che avevano informazioni sul caso McKay. Ogni donna lasciò detto che avrebbe richiamato. Per il centralinista della polizia fu evidente che ognuna delle tre aveva camuffato la propria voce telefonando, senza lasciare né nome né numero.

Telefonate analoghe pervennero al Daily News, per Larry Birch. Birch fu informato quando a sua volta chiamò il giornale. Le donne, anche in quel caso, avevano promesso di ritelefonare dopo le cinque, quando Birch fosse rientrato per buttare giù i suoi articoli.

Come sempre, la scrivania di Birch era un caos di giornali, tazze di caffè, ritagli di stampa e scartafacci vari. Birch si lasciò andare sulla sedia, davanti alla vecchia Remington Standard in precario equilibrio su un vacillante tavolino, e si sgranchì le tozze dita callose pronte a pestare sui tasti. Inserì nel rullo una velina gialla e batté inchiesta mckay sull’angolo a sinistra in alto.

Poi scrisse:

Oggi la polizia ha passato al setaccio Tarrytown alla ricerca di indizi sul più strano assassinio cui la Contea di Westchester abbia assistito da anni. Sotto le direttive del detective Edward Simeon, un veterano dalla faccia malinconica, gli agenti hanno rastrellato la zona dove è stato trovato il corpo di Harry McKay, stimato agente assicurativo di Tarrytown. Hanno anche interrogato gli abitanti dell’area limitrofa.

Uno dei funzionari ha detto…

Squillò il telefono e Birch si fermò, afferrando il ricevitore. Contemporaneamente accese un registratore collegato al telefono.

«Birch.»

«Mr. Birch?»

«Sì, Larry Birch.»

«L’ho chiamata prima, Mr. Birch, ma lei non c’era.» La voce era soffocata, come se parlasse attraverso un fazzoletto.

«Adesso ci sono», ribatté Birch.

«Sì, lo sento. Sa perché le telefono?»

«Se è vero quanto mi hanno riferito, riguarda il caso McKay.»

«Esatto.»

«Mi dica, allora», sollecitò Birch.

«Mi è molto difficile.»

«Glielo renderò facile per quanto posso. Cominciamo con il suo nome.»

«Oh, questo non è necessario. I nomi verranno dopo.»

«Aiuta molto sapere chi è la persona», replicò Birch. «Aumenta la credibilità, se non altro.»

«Preferisco di no», insisté la voce.

«Come vuole. Che cos’ha da dirmi?»

La voce, di colpo, si fece cupa. «Mr. Birch, temo che la stiano ingannando.»

«Oh? E chi mi starebbe ingannando?»

«Vera McKay.»

«In che modo mi starebbe ingannando?»

La voce sospirò. «Be’, Mr. Birch, sono certa che lei ritenga la McKay una dolce, innocente creatura affranta per la morte del marito.»

«Sì, francamente è così.»

«E che abbia una figlia con strane facoltà.»

«Già. Anche questo è vero.»

Altro sospiro. «Vede? La stanno prendendo per il sedere. Il fatto è, signor giornalista, che Vera McKay odiava tremendamente Harry. Litigavano in continuazione. Già, lui la trattava come spazzatura… così diceva lei.»

Birch si irrigidì sulla sedia pericolante. «Lei come fa a saperlo?» chiese arcigno.

«Oh, me l’ha detto un uccellino.»

«Sia chiara!»

«A suo tempo e luogo, Mr. Birch. Ma per il momento lei dovrebbe sapere che la sua cara Vera voleva il divorzio, ma aveva paura che Mr. Ned McKay la inchiodasse con un sacco di cavilli legali, se capisce che cosa voglio dire.»

«Non del tutto. Sono un innocentino.»

«Questi McKay sono così uniti! Se la furba Vera avesse tentato di divorziare da Harry, Ned sarebbe ricorso ad ogni codicillo per controbatterla e tutta Tarrytown avrebbe approvato.»

«Sbaglio», commentò Birch, «o Mrs. McKay non le è molto simpatica?»

«Oh, non saprei. Vera può essere piacevole quando non sfodera gli artigli. Ma c’è tutto un altro lato della faccenda che lei non ha considerato.»

«Perché ha tanto interesse che io lo consideri?»

«Puro spirito di giustizia, signore. Alcuni di noi vogliono che Tarrytown rimanga pulita.»

«Harry McKay sapeva che sua moglie voleva il divorzio?» domandò Birch.

«Chi lo sa? Harry era un taciturno. Non amava parlare delle sue cose personali.»

Birch tacque per riordinare le idee. La telefonata era una bomba, del tutto inaspettata e parecchio sospetta. Sapeva di non poterci credere alla lettera, ma sapeva anche di non poterla ignorare. Doveva accertare quell’accusa, anche se la cosa gli ripugnava.

«Senta», disse, «non mi piace ripetermi, ma quanto mi racconta avrebbe molto più successo se sapessi chi è lei.»

«Lo saprà», rispose la voce, «quando si aprirà il processo.»

«Che processo?»

«Oh, capisce, finiranno con il pescare qualcuno per la morte di Harry, colpevole o no. Conosce la polizia. Ma quando l’avvocato difensore comincerà a cercare testimoni, provi un po’ a indovinare chi salterà fuori a sussurrargli all’orecchio qualcosa su Vera McKay?»

«Gentile da parte sua, no?»

«Voglio che trionfi la giustizia, Mr. Birch.»

«Vedo. Tra parentesi, ha qualche prova per avvalorare quanto mi dice?»

«Solo la mia parola… e quella di un sacco d’altra gente.»

«Che cosa diavolo significa?»

«Significa che tantissime persone non sono disposte a lasciarla passare liscia a Vera McKay.»

E l’interlocutrice troncò di colpo la comunicazione. Perplesso, Birch spense il registratore. La sola cosa che gli saltò subito all’occhio riguardo alla telefonata era la promessa della donna di testimoniare al processo. Gli informatori anonimi non si espongono quasi mai. Inoltre la donna aveva detto che altra gente sarebbe salita sul banco dei testimoni. Sembrava sicura di sé, convinta.

Eppure, Birch se ne rendeva conto, poteva trattarsi di qualche esaltata che iniziava una campagna di calunnie che avrebbe smessa solo in cambio di «considerazione». Impossibile accertare subito la verità, almeno per lui.

Con un simile dilemma irrisolto, continuò a scrivere il suo articolo. Era a pagina quattro quando il telefono squillò di nuovo. Riaccese il registratore e alzò il ricevitore.

«Qui Birch.»

Ancora una voce femminile, quella volta piuttosto autoritaria, quasi militaresca. «Ho delle notizie», disse la donna.

«Davvero?» chiese Birch. «Riguardo a che cosa?»

«McKay.»

«Chi parla, prego?»

«Non intendo dare il mio nome.»

«Che persone timide incontro oggi!» esclamò Birch. «Mi dica, signora.»

«Alcuni di noi qui in città sono turbati dalla morte di Harry McKay. Era un uomo molto stimato.»

«Sì, lo so.»

«Non sua moglie.»

«Ah sì?»

«Sono sicura che altri intendono dirglielo e posso confermare quanto affermano. Tutte queste storie sulla vedova disperata mi danno il voltastomaco. Quella si disperava soltanto quando non la portavano a cena fuori. Questa è Vera McKay.»

«A me sembra proprio a posto», ribatté Birch.

«Naturalmente. E una splendida commediante, un’autentica Sarah Bernhardt. Ma odiava Harry con tutta l’anima. Non aveva limiti. Lo ridicolizzava.»

«In che modo?»

«Sparlava sempre di lui. Che era grande e grosso, ma un po’ scemo. Che, senza l’appoggio del fratello, sarebbe stato uno zero. Ricordo che lo definiva un seccatore e che lei non poteva vederselo tra i piedi.»

«Sa una cosa?» ribatté Birch. «Moltissima altra gente con cui ho parlato la pensa in modo diametralmente opposto.»

«Oh, la gente parla bene per decenza», affermò la voce, «specie quando si tratta dei McKay. Non vengono certo a raccontarle…»

«Continui.»

«Non vengono a raccontarle che Vera spesso diceva di desiderare la morte di Harry.»

«Questa non la bevo.»

«L’ho sentita con le mie orecchie.»

«Forse in un momento di rabbia.»

«Oh, no. Anzi, rideva e diceva: ‘Se solo morisse, troverei un altro gonzo entro dieci minuti’. Così diceva.»

«Non ci credo.»

«Ci crederà quando sarà ripetuto sotto giuramento, Mr. Birch, e non solo dalla sottoscritta.»

Di nuovo l’impegno a testimoniare e la convinzione che anche altri l’avrebbero fatto. Chiaramente era una campagna orchestrata. Ma perché, si chiese Birch, quelle donne erano decise a distruggere Vera? Di sicuro i loro motivi non obbedivano allo spirito di giustizia.

«Mai visto una donna suscitare tanto odio», disse Birch, «ma, francamente, quelli con cui ho parlato a faccia a faccia amano Vera.»

«Per forza», replicò la voce. «Lei era molto abile nell’accattivarsi la gente. Ma, ogni tanto, con qualcuna di noi, si apriva. Qualche bicchierino le scioglieva la lingua.»

«Beve?»

«Beveva.»

«Lo sa, c’è in tutto questo l’allusione che sia stata Vera McKay a uccidere il marito», commentò Birch, perentorio.

«Oh, lei dice?»

La telefonata cessò di colpo.

Birch rimase seduto per un po’, cercando di individuare in quella telefonata gli elementi che l’avevano fatto sentire tanto diffidente. Poi si ricordò all’improvviso del caso Bronson. Bronson, un reduce della seconda guerra mondiale, aveva costituito un gruppo di killer per un’attività criminale organizzata. Quando uno dei suoi uomini veniva arrestato, quello dava solo il suo nome, il grado e il numero di matricola. Quelle donne sembravano seguirne l’esempio: sembravano macchine sottoposte a un controllo esterno. Era possibile che facessero parte di qualche setta fanatica o associazione criminosa. Ma, si disse Birch, lui non poteva ignorare la possibilità che quelle donne affermassero il vero.

15

Il viso bagnato di lacrime, le labbra tremanti, Vera sedeva nel suo soggiorno di fronte al detective Simeon. Ned stava al suo fianco, cercando vanamente di tranquillizzarla. Marie Neuberger, sbalordita per le notizie sulle telefonate, se ne stava seduta, fissando con aria cupa il pavimento, chiedendosi se la sua paziente le aveva detto tutta la verità.

«Non è… non è vero!» esclamò Vera, singhiozzando irrefrenabilmente. «Perché queste donne dicono cose del genere? Chi sono? Io non so chi sono.»

«Feccia della peggior specie», asserì Ned, nel suo miglior stile retorico. «Della specie che rovina case e famiglie.»

«Ma perché?» singhiozzò Vera.

«Malati di mente», rispose Ned. «Persone che godono nel fare cose di questo tipo. Lei ha detto che è una faccenda organizzata. Potrebbe magari essere una porcheria escogitata in un ambiente studentesco.»

«Vede, signora», disse Simeon, diffidando, da buon professionista, sia delle telefonate sia di Vera, «queste donne hanno detto che sarebbero pronte a deporre contro di lei. Il che non può non riguardarci.»

«Ma mi faccia il piacere!» sbottò Ned. «Certi scherzi non riguardano voi. Sono una maledizione solo per noi.»

«Può darsi, ma io devo andarci a fondo. Mrs. McKay, ci sarà un’indagine sul suo conto. Vede, in tutta franchezza, posso dirle che una di queste donne si è offerta di vedermi segretamente. Ha detto che in questa occasione rivelerà la propria identità e che porterà un’amica. La faccenda si fa seria quando la gente esce allo scoperto.»

«Il che non accadrà», affermò Ned.

«È già accaduto», confidò Simeon.

Vera lo fissò, sbalordita. Ned restò a bocca aperta. La Neuberger scosse la testa.

«Sta scherzando, naturalmente», disse Ned.

«Ho avuto un colloquio con la donna mezz’ora fa», ribatté Simeon.

Vera lo guardò dritto negli occhi, il viso sconvolto dalla collera. «Chi è?»

«Non posso dirlo», rispose Simeon deciso. «Dobbiamo tutelarla. Ma le posso dire, Mrs. McKay, che è persona stimatissima qui da noi.»

«Impossibile!»

«Lo è, signora. E so anche che lei e questa donna siete, a quanto mi risulta, amiche.»

«Bell’amica», mormorò Vera, lottando per dominare la rabbia.

«Ci ha raccontato di essere stata con lei in alcuni ristoranti, precisandone le date in modo che io potessi controllare e, signora, le garantisco che quelle colazioni ci sono proprio state.»

«Vado al ristorante un sacco di volte», ribatté Vera. «Perlomeno, ci andavo prima che Harry… sparisse. Non è un delitto pranzare fuori casa.»

«No, certo», ammise Simeon. «Ma quello di cui la signora dice che avete parlato è…»

«Per favore!» scattò Ned. «Deve proprio torturare questa povera donna?»

«Sto solo citando dei fatti», replicò il detective.

«Okay», disse amaramente Ned, «ma cerchi di capire quello che sta provando Vera. Se lei è mai stato bersagliato di una campagna di calunnie…»

«È questo il punto», disse Simeon. «Perché mai queste donne dovrebbero fomentare una campagna simile contro Vera McKay?»

«L’ho già detto. Menti malate, malvagità.»

«Signore, sono troppe le persone coinvolte. Non può spiegarlo in questo modo.» Simeon si rivolse a Marie Neuberger, estremamente imbronciata, che indossava un paio di logori blue jeans, ballerine e un maglione di lana troppo grande per lei. «Lei, signora, è molto taciturna. Ha qualche idea al riguardo?»

La Neuberger alzò gli occhi al soffitto. «Si aspetta forse che io analizzi un’intera città?» chiese. «Lei parla come un pivello. No, non ho nessuna teoria. È tutto uno schifo. Mi si rivolta lo stomaco.»

«Anche a me», riconobbe Simeon. Arrischiò un sorriso all’indirizzo di Vera. «Mrs. McKay, la faccenda presenta un bel po’ di problemi, per lei e per me.»

«Ma io non ho fatto niente!» protestò Vera.

«Personalmente, le credo», rispose Simeon. «Però è inevitabile che ci saranno dei sospetti.»

«Che cosa intende dire, quali sospetti?» domandò Vera.

«Vuole dire», intervenne sarcasticamente Ned, «che qualche genio penserà che tu sei coinvolta nell’omi…»

«Oh, no!» mormorò Vera, interrompendolo. «Oh, mio Dio, no!» E si nascose la testa tra le mani.

«Odio dover fare così», brontolò Simeon. «Mi dispiace dover riferire notizie così brutte. Adesso bisogna che vada.»

Ned lo guardò con squisita comprensione. «Non è colpa sua», disse calmo. «Lei sta facendo il suo dovere.»

Il detective lo ringraziò con un cenno del capo, si alzò lentamente e scivolò fuori della casa, senza che Vera in realtà se ne accorgesse.

Nel soggiorno dei McKay cadde un lungo silenzio. Annie apparve per un attimo sulle scale, dopo un sonnellino, vide l’aria che tirava e ritornò nella solitudine della sua stanza. Alla fine Marie Neuberger si alzò, osservò alcune foto di famiglia appese a una parete e batté le mani.

«Non mi va affatto a genio», dichiarò con solennità tutta europea. «Questa faccenda crea una complicazione dopo l’altra.»

Ned parve preso in contropiede. «Dottoressa, lei non crede a una virgola di tutto questo, vero?»

«Sono una scienziata», rispose la Neuberger. «Io mi baso solo sui fatti, non su isterie collettive come chi mi critica. Come si fa a credere a qualcuno, qui? E che importanza ha? Chiacchiere e stampa esploderanno e semineranno dolore e dispiaceri. Dobbiamo tagliare la testa al toro.»

«In che modo?» domandò Vera.

«So che ci sono psicologi che, dopo aver tentato inutilmente tutto, ricorrono a macchine per scoprire le bugie.»

«La macchina della verità?» chiese Ned.

«Esattamente. Con certa gente spregevole dobbiamo adeguarci. Voglio che Vera si sottoponga a una di quelle prove.»

«No!» obiettò subito Ned.

«Perché dice di no?»

«Non permetterò che Vera si sottoponga alla prova della macchina della verità. Come avvocato, posso dirle che quegli strumenti sono affidabili solo all’ottanta per cento, il che per me non è sufficiente. Persone che dicono la completa verità, spesso risultano bugiarde. Niente da fare.»

Vera sollevò lentamente la testa. «Io sono disposta, invece», affermò tranquilla.

«Ecco!» esclamò la Neuberger. «Lei sì che ha coraggio.»

«Spiacente!» insisté Ned. «Adesso parlo come avvocato della famiglia. Sono io che decido che cosa fare o non fare.»

Ci fu un nuovo lungo, pensoso silenzio. La Neuberger era chiaramente scontenta. «Allora», domandò poi, «come facciamo a vedere dove sta la verità?»

La risposta non era facile e le due donne guardarono Ned. Evidentemente si era nel suo campo specifico. «Vede», disse lui, «questo mi spiace. Dottoressa Neuberger, ho cercato di vedere le cose dal suo punto di vista e nutro un grandissimo rispetto per lei. Ma mi sorprende e mi turba che lei possa dubitare di Vera con tanta facilità.»

«Non dubito per niente», ribatté la Neuberger. «Badi bene, questa famiglia mi piace. Ma che piaccia a me, conta poco.»

Di nuovo Vera cercò di calmare le acque. «Non essere in collera con la dottoressa Neuberger», disse a Ned. «Posso capire quello che prova. Queste donne bisogna affrontarle direttamente. Le loro calunnie vanno controbattute.»

«Le controbatteremo in tribunale», disse Ned cupo.

«Potrebbe essere troppo tardi», obiettò la psicanalista.

«Non c’è altro modo», disse Ned. «Quelle mentono. Hanno montato una congiura. È quasi impossibile smentire una campagna così subdola. Ma metto la gente sotto giuramento, la sottopongo a un controinterrogatorio stringente e vedrai che le contraddizioni saltano fuori, eccome.»

Ma Vera era preoccupata per la Neuberger. «Per quanto riguarda lei, qual è il suo parere?»

«Una gran confusione», rispose la dottoressa. «Vera, cerchi di capire che sono stata tradita molte volte. Devo essere prudente. Ma non l’abbandonerò per i pettegolezzi di altre femmine. Finora lei non ha fatto niente per cui potessi sospettarla. E verso Annie ho degli obblighi. Rimango al vostro fianco… a meno che non venga provato che le cose siano tutte a suo netto sfavore.»

Il fatto che la Neuberger non le lasciasse sollevò molto Vera. Adesso, i sospetti che fosse stata lei, Vera, a fare fuggire Harry sarebbero tornati a galla, si sarebbero dilatati in qualcosa di molto peggio. Giornalisti come Larry Birch non ci avrebbero creduto tanto facilmente. Ma Simeon, era evidente, la considerava come una sospetta. Vera non riusciva a immaginare nessuna delle proprie amiche coinvolta in tali mostruose menzogne.

I cronisti meno responsabili diedero ascolto alla campagna di calunnie e la trasformarono in un’orgia di articoli scandalistici, attenti a evitare il reato di diffamazione, ma abilissimi a introdurvi quel pizzico di malizia che fa vendere i giornali e rovina la reputazione. Un cronista iniziava così il suo pezzo:

Le autorità hanno oggi preso in esame la possibilità che Vera McKay, vedova dell’ucciso Harry McKay, assicuratore a Tarrytown, possa saperne di più, di quanto finora abbia ammesso, in merito alla sparizione del marito. Quelli che una fonte assai attendibile, vicina agli ambienti del procuratore distrettuale, definisce come «nuovi e inquietanti» indizi a carico di Mrs. McKay, sono emersi in questi ultimi giorni. Pur rifiutando di scendere in particolari…

La fonte attendibile vicina agli ambienti del procuratore distrettuale, così come ogni smaliziato lettore poteva intuire, era il procuratore distrettuale stesso.

S. Richardson Tremont amava essere il P.D. della Contea di Westchester. Era il coronamento di un sogno nato con lui, vagheggiato per lui dal padre, eminente avvocato penalista. Avendo raggiunto il traguardo, Tremont non nutriva ulteriori ambizioni. Voleva soltanto mantenersi la carica e ciò significava l’accumulo di un più che pingue record di incriminazioni, essenzialmente nei casi importanti. Lo zelo di Tremont era sostenuto da un’innata sfiducia nel prossimo che gli rendeva facile pensare il peggio quasi di chiunque. Le dicerie su Vera trovarono subito una vasta eco in lui.

Tremont aveva la pelle olivastra, con i pori molto dilatati, e la bocca leggermente storta, dovuta a una brutta protesi dentaria. Vestiva senza badare a spese, ma i vestiti che portava non sembravano mai fatti su misura per il suo metro e settantacinque. I capelli crespi, ribelli al pettine, si arruffavano al minimo soffio di vento.

Appena informato dalla polizia di Tarrytown delle telefonate anonime, Tremont convocò una conferenza stampa e dichiarò che il caso McKay aveva subito una svolta decisiva. Seduto alla scrivania nel suo sobrio ufficio, si autodefiniva il procuratore distrettuale del popolo, espose i motivi che lo portavano a una simile conclusione.

«Queste nuove fonti sono credibili», disse ai giornalisti. «Non sono false. Non provengono da persone animate da spirito di vendetta. Ne sono molto preoccupato.»

«Secondo lei, perché sono venute fuori tutte assieme in una volta?» chiese un cronista.

«Tormento intimo», rispose Tremont.

«Tormento intimo?»

«L’ho già sperimentato in altre occasioni. Gente che conosce i protagonisti di un caso vede che le cose non vanno nel verso giusto. Vede che un colpevole sta per cavarsela, o che sta per diventare un eroe. La gente si parla, si consulta e concorda di farsi avanti. È così che otteniamo alcune delle nostre migliori informazioni.»

«Può citarci altri casi dove è successo così?» domandò un altro giornalista.

«Dovrei controllare gli archivi.»

«Dicky», intervenne una terza reporter, chiamandolo con il diminutivo usato dagli amici di Tremont, «quando vedremo queste donne?»

«Nessuna anticipazione al riguardo. Sono considerate testimoni essenziali, secondo la procedura. Sono coperte dal segreto istruttorio, per ora.»

«I sospetti su Vera McKay si estendono agli episodi in cui è coinvolta la figlia?»

«Quei cosiddetti fenomeni psichici?» chiese Tremont alla giornalista.

«Esatto.»

«Naturalmente, sì. Mi sono sempre soffermato su certi fatti. Uno dei miei primi casi riguardava una donna la quale pretendeva che sua figlia fosse in contatto con i defunti. Dava a noleggio la bambina alle vedove inconsolabili. E anche nel caso in esame c’è qualcosa di affine.»

«In che senso?»

«Lasciamo perdere. Devo cautelarmi prima di un processo. Ma stiamo controllando la possibilità che la madre abbia istruito la ragazzina per quelle faccende. Stiamo cercando di scoprire perché. Ne saprò di più tra breve.»

«Puoi fare qualche accenno, al momento attuale, circa la tua opinione, Dicky?»

«In via confidenziale», dichiarò solennemente Tremont, «stiamo lavorando sulla teoria che Mrs. McKay possa essere stata coinvolta con qualcun altro. Ora, è possibile che i due siano in attrito. Mrs. McKay, temendo che il suo antico complice la lasciasse nei guai, potrebbe avere indotto sua figlia a inscenare l’affare delle visioni, ivi compreso il ritrovamento della tomba. Poi si atteggia a madre affranta e innocente di una figlia benedetta dal Cielo. Premetto però che questa è solo una teoria.»

La teoria era stramba e ogni giornalista lì presente lo sapeva. Sapeva anche che Tremont credeva ad ogni parola che pronunciava. Non che fosse cattivo. Però aveva un concetto della natura umana in base al quale giudicava Vera in un modo ancora più severo di quello del più velenoso dei giornalisti.

«Ha qualche prova concreta su tutto questo?» domandò uno scettico cronista.

«Francamente no. Stiamo mettendo assieme, con logica, tutti i pezzi, sperando che le prove si concretizzino. Ho avuto molte intuizioni durante la mia carriera e ritengo assai fondata quella attuale.»

La conferenza stampa era finita. Larry Birch, che era rimasto in fondo all’ufficio di Tremont e non aveva fatto domande, era turbato. Vedeva che i giornali stavano montando un processo e sapeva che non poteva fare niente per impedirlo.

I suoi timori si avverarono rapidamente. Attraverso commenti di fonti non nominate, mediante fantasiose ricostruzioni, i giornali dipinsero Vera come una donna ambigua, probabilmente bugiarda, dal futuro incerto.

Annie era descritta come una bambina che poteva senz’altro essere stata «plagiata» e la Neuberger come una psicanalista che recitava con zelo una parte. Nessuno, naturalmente, formulava accuse dirette. Ma le subdole insinuazioni, il continuo dubitare di queste persone e delle loro motivazioni erano altrettanto dannosi.

Tremont sospettava, ma voleva le prove.

Squadre di agenti setacciarono la zona dov’era stato trovato il corpo di Harry, anche con l’aiuto di bulldozer. Si scavò un intero acro, come se la polizia stesse cercando qualche reperto archeologico. Era l’arma del delitto che volevano. Intervennero anche esperti in costruzioni che frugarono parte dell’impianto di fognatura e le fondamenta del ponte di Tappan Zee.

Altre squadre, armate di mandati di perquisizione, si concentrarono sull’auto di Harry McKay e sulla sua casa.

All’improvviso, in un secco e torrido pomeriggio, con il sole ancora alto nel cielo, esplose una febbrile attività attorno al garage di Vera McKay. Gli agenti della squadra di Simeon stavano frugando il posto e uno di loro si precipitò all’autoradio e chiamò d’urgenza il comando. Dopo qualche minuto apparve Simeon, cupo e teso. Vera e la Neuberger videro dalla finestra che davanti alla casa si stava fermando un’altra macchina, con la scritta reparto medicina legale — polizia di tarrytown. Nessuna delle due donne ebbe la minima idea di che cosa stesse accadendo.

Poco dopo Simeon suonò il campanello della porta e Vera andò subito ad aprire.

«Posso parlarle, signora?» chiese il detective.

«Certo», rispose Vera.

Simeon entrò. «Forse le converrebbe far venire qui Mr. McKay», suggerì.

«Perché?»

«Be’, è il suo avvocato.»

«Sta lavorando», ribatté Vera. «Non voglio disturbarlo in questo momento.»

«Allora potremmo combinare un appuntamento», propose Simeon.

Guardò Vera con un’espressione che, più che scetticismo, rivelava un sottile disprezzo mai dimostrato in precedenza.

«Voglio sapere a quale proposito», insisté Vera.

Simeon esitò, cercando di fornirle una risposta adeguata e nello stesso tempo burocraticamente idonea. «Non è escluso che debba affrontare nuovi problemi.»

Vera arretrò istintivamente, come per difendersi. «Quali problemi?»

«Signora, non credo sia possibile discuterne senza che lei abbia l’assistenza di un legale.»

Vera guardò alle spalle di Simeon. La porta era ancora aperta e lei scorse distintamente un poliziotto che stava dirigendosi alla sua auto con in mano un sacchetto di plastica, contenente un oggetto pesante. «Che cosa stanno portando via?» domandò.

Simeon scosse la testa. «Mrs. McKay, non si ostini. Lei deve avere un avvocato.»

«E se non posso disporre subito di Ned?»

Simeon sbirciò l’auto della sezione di medicina legale, che stava partendo in quel momento. «Facciamo così», disse, «devo fare un salto al laboratorio. Che cosa ne dice di telefonare da lì a Mr. McKay e trovarsi sul posto?»

«D’accordo», rispose Vera, con calma. «Ma voglio che mi dica che cos’hanno portato via dal mio garage.»

Simeon la fissò dritto negli occhi, uno sguardo freddo e sicuro. «Signora», ribatté, «penso lo sappia benissimo anche lei.»

Il laboratorio della polizia era in un edificio di mattoni, a un piano, in una strada di campagna nella zona nord di Tarrytown. Simeon vi portò il suo reperto e vi rimase per quattro ore, ordinando al proprio ufficio che la sua presenza lì o altrove non doveva essere comunicata ai giornalisti. Durante la sosta al laboratorio fece diverse telefonate a Tremont, che si barricò nel proprio ufficio, disdicendo ogni impegno. Un’atmosfera di attesa gravava sia sul laboratorio sia sull’ufficio del Procuratore Distrettuale.

La fonte di tutto ciò era un martello.

Uno degli agenti di Simeon lo aveva scoperto, notando che presentava sulla sua superficie macchie marrone scuro. In quel momento i tecnici stavano esaminando ogni millimetro dell’oggetto, prelevandovi particelle di terriccio, una parte di capello umano e le macchie incrostate. Il martello venne cosparso di polvere per le impronte digitali e la sua superficie contundente fotografata sotto un potente microscopio. Quando l’esame fu completato, il martello fu sigillato in una scatola di plastica e restituito a Simeon. Il detective telefonò a Ned McKay, gli disse che occorreva urgentemente un incontro, presente Vera, e ne concordò l’ora.

Simeon disse a Ned che l’incontro sarebbe stato traumatizzante.

L’indomani Simeon, Ned e Vera si trovarono a casa di lei. Annie era stata mandata a giocare a casa dei Moran. Simeon permise a Marie Neuberger di presenziare, data la sua qualità di consulente medico di Vera. Il detective era anche accompagnato da un collaboratore, un giovane agente della Omicidi. Il giovanotto aveva con sé il martello, ancora sigillato nella sua scatola.

L’atmosfera era tesa ed elettrica, con Vera che ormai si affidava interamente a Ned e con Ned fornito di carta, penna e un piccolo registratore.

Né Vera né Ned sapevano che il Procuratore Distrettuale Tremont aveva già indetto una conferenza stampa per l’ora successiva e aveva informato i mezzi di comunicazione che era in procinto di rilasciare una dichiarazione di importanza decisiva.

Simeon sedeva a disagio su una grande poltrona di fronte a Vera, che, come d’abitudine, si era sistemata su un angolo del divano, con Ned all’altra estremità. La Neuberger e l’aiutante di Simeon stavano su sedie prese in cucina.

«Mrs. McKay», esordì Simeon, «sono certo che lei si rende conto che questa è un’indagine ufficiale di estrema gravita.» La voce era esitante e sommessa. «Desidero sottolineare che qualsiasi cosa lei dica può essere usata più tardi contro di lei.»

Vera guardò Ned.

«Mrs. McKay se ne rende conto», rispose lui. «Dal momento che ovviamente non ha niente da nascondere, la sua premessa non significa molto.»

«Bene», disse Simeon meccanicamente. «Ora, Mrs. McKay, il soggetto di questo nostro incontro è un oggetto trovato nel suo garage.»

«Che cos’è?» domandò Vera.

«Un martello.»

«Eh?»

«Lei possiede un martello, vero, signora?»

«Sì. Naturalmente.»

«Lo usa, Mrs. McKay?» Era una domanda strana e Simeon, nel formularla, la scrutò negli occhi, cercandovi il minimo segno di nervosismo.

«A volte», rispose Vera. «Molte piccole riparazioni le faccio io stessa.»

«Naturale.»

«Che cos’è tutto questo interesse per un martello?» chiese lei.

Simeon, prima di rispondere, fece una pausa a effetto, per cercare di esasperare la tensione. Fissò Vera, poi Ned, poi la Neuberger e di nuovo Vera. «È stato usato per uccidere suo marito», disse alla fine.

Lei si irrigidì. Si portò le mani al viso, poi girò di scatto la testa verso Ned.

Lui risultò non meno scioccato di Vera. «Questo come lo sa, signor Simeon?» chiese, trattenendo uno scatto d’ira.

«Analisi di laboratorio», rispose il detective. «Signore, il sangue di Harry McKay appartiene allo stesso gruppo di quello trovato sul martello. Ci sono anche frammenti d’osso che corrispondono al tipo di osso nella ferita.»

Vera si era fatta cerea ed era rimasta col fiato mozzo alla descrizione. «Lei ha trovato quello nel mio garage?»

«Eh sì, signora. Ed era anche accuratamente nascosto.»

«Non capisco», mormorò lei.

«Intende dire», spiegò Ned, guardando cupamente Simeon, «che qualcuno non voleva che fosse trovato.»

«Proprio così, signora. Noi riteniamo che Mr. McKay sia stato ucciso con quest’arma e poi trasportato là dove fu seppellito. L’arma fu riportata qui e nascosta.»

Scese un silenzio di tomba. «No!» sussurrò Vera inorridita. «Oh no, non sta per caso dicendo che io…»

«Signora, l’evidenza…»

«Mi rifiuto di ascoltarla!» scattò Vera. «È disgustoso! È infame! È degno di quelle donne!» Si girò verso Ned. «Diglielo tu!»

Ma Ned si limitò a scuotere la testa, costernato. «Vera», disse sommessamente, «sentiamo il resto. Sono certo che c’è un equivoco.» Riportò lo sguardo su Simeon.

«Signora», disse il detective, «ho fatto un sacco di considerazioni su questa faccenda. Lei è l’unica che abbia facile accesso al garage, ho notato che è sempre chiuso a chiave. Chiunque altro avrebbe o sotterrato o buttato nel fiume il martello. Certo nessuno estraneo si sarebbe arrischiato a penetrare nel suo garage per nasconderlo. Non ne aveva motivo.»

«Sì, per poi accusare me!»

«Lei ha visto troppi film gialli, signora. Quando io metto questo martello insieme con le affermazioni di tutte quelle donne, disposte a confermarle sotto giuramento in tribunale, il quadro è abbastanza eloquente.»

Vera si abbandonò contro lo schienale, ancora incredula. «Non è vero», disse a bassa voce. «Mi vogliono torturare. È criminale, Harry, io lo amavo. Tutti lo sanno.» Lasciò ricadere la testa sul petto. «Sto sognando, non può essere vero.»

«Credo che abbia il diritto di vedere la cosiddetta arma del delitto», disse Ned stizzito.

«Naturalmente», rispose Simeon. Fece un cenno al suo collaboratore, che gli consegnò il pacco.

«Posso pensare a molte possibilità al riguardo», proseguì Ned. «So che lei non vorrà negare a Mrs. McKay ogni opportunità di confutare questa sua strana teoria.» Si rivolse a Vera. «Non preoccuparti. Questi pasticci sono all’ordine del giorno.»

«Io voglio solo giustizia», disse il detective. Cominciò a disfare il pacchetto. La scatola di plastica scintillò alla luce. Simeon si alzò e andò da Vera. La Neuberger, che era rimasta praticamente immobile per tutto l’incontro-scontro, fissò intensamente la scatola, sapendo che quanto conteneva poteva significare la rovina di Vera. Anche Ned la fissò, ma senza perdere la propria freddezza professionale.

Simeon mise la scatola sotto il naso di Vera. «Signora», disse piano, «sono certo che lei riconoscerà questo martello che abbiamo trovato nel suo garage.»

Vera dovette farsi forza per guardare dentro la scatola.

Di colpo si ritrasse.

Una vampata di furore le accese il volto.

«Quello non è mio!» gridò.

«Su, Mrs. McKay», disse Simeon, «lei sa…»

«Non è mio!» ripeté lei. Poi, con un movimento brusco, si girò verso Ned. Lo guardò, in un primo momento quasi serenamente, come schernendolo. Poi si alzò lentamente e superò la breve distanza che la separava dall’altra estremità del divano, dove il cognato, attonito, era seduto.

Il viso di Vera era tornato ad avvampare di un furore più intenso, più bruciante. Di colpo, protese l’indice agitandolo davanti a Ned e poi puntandoglielo direttamente contro.

«È suo!» disse con voce dura come l’acciaio.

Choc per tutti. Ned apparve stupefatto, la bocca aperta. Vera gli si avvicinò ancora di più. Protese l’indice e picchiò dritto nel petto di Ned… forte.

«È il tuo», disse tagliente. «Tu l’hai ucciso. Tu hai ucciso il mio Harry!»

16

«Vera», disse Ned, «questa è un’assurdità e tu lo sai.» Si rivolse a Simeon: «Il martello apparteneva a mio fratello. Ce l’aveva da anni. Veniva da casa dei nostri genitori».

«Non è vero!» esclamò Vera. Cominciò a percuotersi le ginocchia con le mani, agitando selvaggiamente la testa.

La Neuberger sedeva, silenziosa. Guardò con attenzione Vera, quindi Ned e infine Simeon. «Che prova ha lei», chiese bruscamente, «che questo martello appartenesse a Harry McKay?»

Il detective si strinse nelle spalle. «Era nel suo garage», rispose.

La Neuberger sbuffò, sprezzante. «E questa è una prova? Sarebbe bastata a Sherlock Holmes?»

«Comunque, signor Simeon», disse con forza Ned, «questo non rende colpevole Vera McKay, né rende colpevole me, naturalmente. Mia cognata è chiaramente sconvolta. Non si rende neanche conto di quello che dice. Non penso che, ora come ora, possa sostenere oltre questo…»

«No!» insisté Vera. «Voglio parlarne. Parliamone finché la faccenda non è chiarita!»

«Vera, ascoltami! Sono il tuo avvocato. Sono…»

«No! Non me ne importa! Questo martello è tuo, Ned.»

Ned sbirciò Simeon. «Non è più lei», commentò a bassa voce.

«Signora», domandò il detective, ignorando per il momento Ned, «se il martello è di Ned McKay, dov’è quello di suo marito?»

«Non lo so», ribatté Vera. «Come posso saperlo? Non badavo a cose del genere. Forse l’assassino… Dio sa che cosa. Non ho ucciso mio marito. Per quale ragione avrei dovuto farlo?» Scoppiò in singhiozzi disperati.

«Be’», rispose Simeon, ritenendo necessario chiarire fino in fondo la propria posizione agli effetti futuri, «moltissime di quelle donne pensavano che una ragione lei ce l’avesse, signora.»

«Non rispondere!» le ordinò Ned.

Ma Vera si girò ancora di scatto verso di lui. «Perché non mi difendi?» lo implorò. «Perché non dici niente?»

«Vera, sono un avvocato. C’è tempo e luogo.»

«Tu mi stai abbandonando! Certo, ci sei di mezzo!»

«Vera, smettila!» Ned scattò in piedi. «Nessuno ti sta abbandonando, ma sei nei guai. Lo capisci o no? Hai un problema legale di fronte.»

«Che cosa vuoi dire?» le chiese lei, furibonda.

«La polizia ovviamente ritiene… be’, ne parliamo dopo.»

«No! Adesso!»

Ned abbassò gli occhi, cercando di evitare lo sguardo della cognata. «Vera», disse, «non riesco personalmente a credere che tu abbia ucciso Harry. Ma altri lo credono. Non mi ero mai accorto di nessun serio attrito tra voi due. Forse non vedevo quello che avrei dovuto vedere.»

Vera ascoltava in un silenzio stupefatto.

«Tutti noi vorremmo ignorare quanto hanno affermato quelle donne», proseguì Ned, «e sono certo che ne dimostreremo l’inconsistenza. E il martello… era di Harry, Vera. Quando mi hai accusato d’avere ucciso mio fratello, anche se eri sconvolta, ho capito che si è trattato soltanto di un meccanismo irrazionale di difesa. Stavi cercando di distogliere l’attenzione dal fatto che era il martello di Harry.»

«Perché mi stai facendo questo?» gli domandò Vera, disperata.

«Non ti sto facendo niente», ribatté Ned. La sua voce divenne suadente, quasi mielata. Una voce fiduciosa e convinta. «Affronterai il processo, Vera. Io ti aiuterò. Mi caverò il sangue per te, se sarà necessario. Non posso accettare il fatto che tu abbia ucciso Harry.»

A Simeon parve di scorgere delle lacrime negli occhi dell’avvocato.

Ned si accostò a Vera e le mise una mano sulle spalle. «Qualsiasi cosa tu abbia o non abbia fatto», le disse, «non posso odiarti, nemmeno dopo la tua terribile accusa contro di me. Questa faccenda è una tragedia per tutti noi, e specialmente per Annie, cui adesso voglio bene più che a chiunque altro, compreso Harry.»

Nella stanza piombò un lungo, pesante silenzio che Simeon aveva sperimentato molte altre volte. Un momento tipico e ricorrente quando non c’è più altro da dire, quando ha parlato l’evidenza, quando le carte sono tutte in tavola. Nessuno era soddisfatto. Nessuna persona con un po’ di umanità, pensò Simeon, poteva rallegrarsi di quanto era successo alla famiglia McKay di Tarrytown.

Il passo successivo fu uno dei più penosi della sua carriera di detective. Lentamente, con riluttanza, si tolse di tasca un paio di manette.

«No!» si ribellò Ned. «Questo non è necessario. Sono sicuro che Mrs. McKay capisce l’importanza di collaborare. Verrò e resterò con lei, finché sarà necessario.»

«Benissimo», rispose Simeon, mettendo via le manette.

L’ufficio «registrazione» al comando di polizia era tipico. Un annoiato e panciuto sergente sedeva a una grande scrivania, posta su una piattaforma alta trenta centimetri. Il locale era scarsamente illuminato, con deprimenti pareti grigiastre. Puzzava di sigari scadenti.

Vera sedeva su una lunga panca di legno, aspettando il suo turno, con Simeon da un lato, Ned dall’altro e la Neuberger vicina al detective. Vera era muta, come in trance, incapace di registrare il fatto che stava per essere formalmente accusata dell’assassinio del marito. Sembrava tutto un incubo, qualcosa che sarebbe svanito all’alba, qualcosa di bizzarro, di cui si sarebbe occupato Ned.

«McKay, Vera», citò il sergente, come se stesse spuntando delle voci dall’elenco della spesa.

Fu Ned a far alzare a metà la cognata dal sedile. Simeon li guidò fino alla scrivania in mezzo al chiacchiericcio degli altri arrestati.

Vera sentì a malapena quello che seguì. Vi fu un rapido scambio di parole tra Ned e il sergente, che buttò giù qualche dato. Qualche minuto più tardi, Vera si trovò in un’altra stanza attigua alla prima, in piedi di fronte a un anziano e indifferente magistrato con tanto di toga, seduto su uno scanno ad ascoltare le imputazioni, al ritmo di una al minuto.

Di nuovo le parole fluirono come un ronzio confuso e Vera non si rese nemmeno conto che veniva messa in libertà provvisoria, sotto la responsabilità di Ned, dietro una cauzione di venticinquemila dollari, che lui stesso versò.

Poi fu riaccompagnata a casa, ma quell’esperienza aveva cambiato per sempre la sua vita.

Sebbene molti della stampa l’avessero previsto, persino sperato, la notizia dell’imputazione di Vera per l’assassinio di Harry McKay esplose come una bomba. I cronisti andarono a nozze con le vicende del caso McKay e munsero tutto il possibile dalla situazione in cui Vera si veniva a trovare. Due giornalisti, addirittura, firmarono un contratto con un editore di New York per scrivere in velocità una versione romanzata del caso per un tascabile economico a grande tiratura, sperando, sia loro sia la casa editrice, che Vera fosse processata e risultasse colpevole.

Il fulcro dell’attenzione era adesso S. Richardson Tremont. Simeon, attraverso il procedimento d’imputazione, era diventato qualcosa di più di un testimone per l’accusa, colui che sarebbe stato chiamato per esporre le prove raccolte dalla polizia. Stava a Tremont sottoporre il caso al gran giurì. Se quest’ultimo indiziava Vera, e di solito i gran giurì fanno quello che il procuratore distrettuale chiede, allora lei avrebbe subito il processo. Già Tremont si vedeva al centro di uno dei grandi processi della storia di Westchester. E, secondo la sua particolare mentalità, era convinto di svolgere un compito indispensabile alla società civile. Vera McKay, gli diceva la sua indole diffidente, era la personificazione del male. Doveva essere estraniata per il bene della società e perché sua figlia ne fosse protetta.

Tremont uscì dalla sua modesta casa il giorno successivo all’imputazione di Vera, diretto verso il suo ufficio e a un’altra conferenza stampa. Aprì la portiera della Chevrolet Monte Carlo nera, messagli a disposizione dalla contea e parcheggiata sul vialetto, ma sentì dei passi che gli si avvicinavano, violando l’erba del suo prato. Si girò a guardare. Riconobbe l’uomo, di cui però non conosceva il nome.

«Mr. Tremont?»

«Sì?»

«Larry Birch. New York Daily News

«Oh, certo», rispose il procuratore con un pronto sorriso. «Ho letto i suoi articoli.» Non era vero.

«Grazie», disse Birch. «Vede, signor Procuratore Distrettuale, mi sto ponendo degli interrogativi sul caso McKay.»

«Eh?»

«Lei non pensa?…»

Tremont sollevò di colpo una mano come per zittirlo. «Tra alcuni minuti terremo una conferenza stampa. Senza dubbio il suo giornale è stato avvisato.»

Birch si grattò la testa. «Perbacco!» esclamò. «Non credo proprio. O magari hanno perso l’appunto. Io di certo non l’ho avuto.»

«Sarà nel mio ufficio. Sarò lieto di vederla lì.»

«Oh, signore», disse Birch con comica timidezza, «ho un appuntamento con il dentista che…»

Tremont non aveva nessuna voglia di inimicarsi la stampa. «Che cosa vuole sapere?»

Birch tirò fuori il suo taccuino e la penna, soddisfatto di essersi assicurato, ancora una volta, un’intervista in esclusiva. «Signore, molta gente nutre dei dubbi sulle prove di questo caso.»

«Veramente?»

«Sì, signore, anche se può sembrare sorprendente. Mrs. McKay ha sempre goduto di un’ottima reputazione. Sì, ci sono state voci dopo la scomparsa di Mr. McKay e la bambina è stata presa in giro dai compagni di scuola, ma erano malignità. Non è mai venuto a galla niente di concreto. Poi si scopre il cadavere del marito e subito succede un sacco di cose.»

«All’osservatore attento non sfugge il momento opportuno.»

«Ben detto, signore», ribatté Birch. «Ma l’osservatore attento è molto sorpreso per com’è arrivato velocemente questo momento opportuno. Le donne che si sono fatte vive. Dico, qualcuna di loro poteva pure andare dalla polizia dopo la scomparsa di Harry McKay.»

«Ma non l’hanno fatto.»

«E questo non le dà da pensare?»

Tremont assunse di botto un’aria seccata. «Ne abbiamo già parlato nell’ultima conferenza stampa. Le signore probabilmente pensavano che Harry alla fine si fosse deciso ad abbandonare una situazione penosa.»

«E poi», lo interruppe Birch, «quando occorreva la prova tangibile la polizia trova l’arma del delitto.»

Tremont sorrise con condiscendenza. Sollevò di nuovo la mano destra e agitò l’indice, come un maestro che catechizzi un allievo. «Lei dimentica», sentenziò, «che è stato solo pochi giorni fa che abbiamo saputo che c’era un delitto. Prima non potevamo cercare un’arma del delitto.»

«Perché no?»

«Perché ‘no’?»

«Lo chiedo a lei, signore.»

«Perché non ce n’era il motivo.»

«Nessuno aveva mai sospettato il delitto?»

«No.»

«Quindi, nessuno aveva mai sospettato Vera McKay di avere fatto del male al marito.»

«Esatto, Mr. Birch.»

«Il che mi sorprende.»

«A che proposito?»

«A proposito di come Mrs. McKay potesse essere una così pessima moglie e non ci fosse stato nessuno a chiedersi a voce alta se non era stata lei a fare fuori il marito in tutti quei mesi dopo che lui era sparito dalla faccia della terra.»

«Be’», osservò Tremont alzando le spalle, «la gente, in quel periodo, può anche avere fatto commenti in privato.»

«In una città come questa, signore, i commenti in privato diventano molto presto di dominio pubblico.»

«Sì, lo ammetto», disse Tremont consultando l’orologio. «Forse non siamo stati sospettosi come dovevamo. Ma qui da noi non crediamo alla caccia alle streghe.»

«Lo vedo», ribatté Birch.

«Adesso devo proprio scappare.»

«Solo un minuto ancora, signore», insisté Birch. «Sembra che abbiate solo prove indiziarie indirette. In realtà non avete provato niente.»

«Molti casi sono basati su prove indiziarie indirette, che spesso sono le più risolutive, dipende dalle circostanze.»

«Non è che vi lasciate sfuggire troppo facilmente dalle maglie altri sospettati?»

«Non ci sono altri sospettati.»

Birch inarcò le sopracciglia cespugliose. «So da fonti vicine a lei che Mrs. McKay ha affermato che l’arma del delitto appartiene al cognato.»

«La McKay può dire quello che le pare», replicò Tremont. «Ned McKay non è e non è mai stato un sospettato, tant’è vero che gli ho appena parlato stamattina. È molto turbato per tutta la faccenda, specialmente per la sorte della bambina. È davvero un gran bravo zio, quell’uomo.»

Tremont salì in macchina e si dileguò.

Da quando aveva guidato Vera alla tomba di Harry, Annie non aveva più avuto altre visioni. Era diventata, perlomeno temporaneamente, il personaggio dimenticato di un dramma che le sue strane facoltà avevano creato. Eppure, nonostante l’età, era consapevole che qualcosa era andata spaventosamente male. Scontrosa, cercava di isolarsi, tentando persino di non farsi vedere da Vera e dalla Neuberger, che, entrambe, notavano la sua tensione e si preoccupavano.

Mentre Tremont stava illustrando alla stampa in che modo avrebbe sottoposto al gran giurì il caso della McKay, Vera, la Neuberger e Annie stavano facendo, in ritardo, colazione. La psicanalista cercava di passare insieme con la bambina il maggior tempo possibile, studiandola, analizzandola, tentando di aiutarla in quel periodo difficile. E voleva trovare la risposta alle domande che lei e Vera si erano poste, da quando il nuovo incubo era cominciato in quel breve tratto di terreno vicino all’Empire Motel. Dov’era adesso l’angelo protettore? Dov’era lo scudo soprannaturale che aveva salvato Vera dall’incendio e dagli incidenti, che aveva aperto la strada alla verità sulla sparizione di Harry? Perché permetteva che Vera fosse torturata in quel modo?

«Hai fatto qualche sogno ieri notte, Annie?» chiese la Neuberger, mentre la bambina addentava un toast.

«Sì», rispose lei, masticando.

«Raccontami com’era, allora.»

«Lo stesso sogno che ho avuto anche la notte prima», disse Annie. «La mamma se ne andava via, come papà, ma non era morta.»

«Capisco. E tu, mentre tutto questo succedeva, dormivi sempre?»

«Sì. Come la notte ancora prima.»

La Neuberger sondava la bambina per accertarsi che avesse avuto un sogno, non una nuova visione. Ora ne era sicura. «Questa volta la mamma dove andava?» le domandò.

Annie abbassò gli occhi.

«Devi dirmelo. L’altra notte hai detto che andava in un bosco. Anche questa volta nello stesso posto?»

«No», rispose Annie. «Il poliziotto, la portava via lui, come hanno detto alla TV.»

Vera si agitò. Aveva cercato di mantenere l’atmosfera di casa normale, per quanto possibile, di fronte alla dura prova che l’attendeva, ma Annie a volte aveva sentito i telegiornali, che inevitabilmente avevano parlato del probabile arresto di Vera, e aveva compreso fin troppo bene.

«La TV si sbaglia, tesoro», disse Vera tentando di rassicurarla.

«Però continuano a dire così», ribatté Annie. Guardò la madre, desolata. «Ti metteranno in prigione?»

«No», disse Vera, lottando per mostrarsi calma. «Annie, è tutto uno sbaglio.»

Allora intervenne la Neuberger. «Parlami ancora del sogno», chiese alla bambina.

«Non c’era poi molto altro.»

«Dimmelo lo stesso.»

«Mettevano in prigione la mamma e lei doveva indossare un vestito buffo, quello che una volta ho visto in un film. Mi venivano attorno dei bambini. Restavano qui davanti a casa e gridavano.»

La Neuberger vide le lacrime spuntare negli occhi di Annie. «Che cosa gridavano?»

Annie guardò Vera, quasi per scusarsi. «Gridavano: ‘Tua mamma ha ucciso tuo papà!’» Poi scoppiò a piangere, respinse la sedia così violentemente da farla quasi capovolgere e cercò di abbandonare la tavola.

Vera l’afferrò per un braccio. «Sono dei bugiardi!» proruppe, dimenticando che si trattava solo di un sogno. «Annie, io volevo bene a papà. Non lo sai?»

Ma la bambina, spaventata dalla reazione della madre, cercò di divincolarsi. «Lasciami andare!» gridò.

«No!» si ostinò Vera. «Non voglio che tu gli creda! È tutto un errore, Annie! Vedrai!»

«La lasci andare», l’ammonì, calma, la Neuberger. «Vuole restare per conto suo.»

Vera ubbidì e la bimba corse su per le scale e si sbatté dietro la porta della sua camera.

Negli occhi di Vera si riflettevano la paura e l’angoscia. «Sospetta di me», disse alla Neuberger con voce tremante, tormentandosi le mani.

«C’era da aspettarselo», spiegò pacatamente la Neuberger. «La mente infantile è facilmente influenzarle, ecco perché i bambini si fanno irretire da estranei. Lei deve aspettarsi dei problemi con Annie finché questa mostruosa menzogna non si dimostrerà falsa.»

«Se», mormorò Vera.

«Non ho capito. Che cosa, se?»

«Se sarà dimostrata falsa. Tutta quella gente è contro di me. Non riesco a sperarlo.» Vera era madida di sudore freddo. «Il martello è di Ned. So che è suo.»

Stava cominciando a divagare, senza concatenare troppo le idee, ma la Neuberger sapeva che era un bene, una specie di sfogo. Vera tacque, con gli occhi che saettavano intorno alla stanza, come se sospettassero di ogni cosa. «Lui sapeva che il martello è suo!» esplose poi. «Perché non l’ha detto? Ci vuole bene. Mi occorre un avvocato.»

Si voltò guardando un cassetto vicino all’acquaio della cucina, si alzò all’improvviso e vi si diresse. Dal piano di sopra arrivavano chiaramente i patetici singhiozzi di Annie. Vera aprì il cassetto e ne tirò fuori una busta. «L’ho avuta qualche giorno fa», spiegò alla Neuberger. «L’ho messa qui e non ci pensavo neanche più. Chissà dove avevo la testa.»

«Che cos’è?» domandò gentilmente la psicanalista.

«È di Mr. Birch del News. Da quando mi ha indirizzata a lei, credo si consideri mio consigliere permanente.» E rise, nervosa. «Ha un avvocato per me.»

«Dovrebbe intendersene», commentò la Neuberger. «È l’amico di tutti gli imbroglioni.»

Vera trasse la lettera dalla busta. Era scritta su carta del Daily News, macchiata di ditate lungo gli orli. Vera fissò il nome che Birch aveva battuto a macchina: elwood P. frain. Poi lui aveva aggiunto di suo pugno: «Se la Neuberger le va, questo signore le piacerà ancora di più. È il migliore».

«Voglio vedere questo tizio», dichiarò Vera alla Neuberger. «E al più presto.»

Fissò ancora la lettera, consapevole che la sua esistenza presto si sarebbe incrociata con l’illustre avvocato difensore Elwood P. Frain.

17

Occorsero solo quaranta minuti al gran giurì della Contea di Westchester per raggiungere una decisione sul caso del Popolo contro Vera McKay, iscritto a ruolo sotto il numero 63457. Un sorridente Richardson Tremont uscì dalla sala delle udienze, attraversò un corridoio coperto da una passatoia e raggiunse una piccola saletta per le conferenze, per leggere la seguente dichiarazione a un ansioso gruppo di cronisti:

«Il gran giurì ha rinviato a giudizio Vera McKay per l’assassinio premeditato del marito. Sono estremamente soddisfatto di tale decisione e credo che la macchina della giustizia stia procedendo nella direzione giusta. Mi riprometto di aprire il procedimento entro quattro settimane all’incirca e non ho dubbi sul suo esito».

Tremont gongolava. Larry Birch, nauseato, si rintanò in fondo all’atrio. Era il tipico comportamento da gran giurì, pensò, con i giurati che facevano esattamente ciò che il giudice istruttore aveva chiesto. Dopo la sua dichiarazione, Tremont posò sorridente per i fotografi. Segretari e giovani di studio fecero capolino nella saletta per gettare un’occhiata a quello storico evento e arricchire il bagaglio dei loro pettegolezzi.

Ned McKay ricevette per telefono nel suo studio la notizia del rinvio a giudizio. I giornalisti piombarono da lui, sollecitando la solita dichiarazione di sorpresa e di contrarietà. Ned li ricevette e parlò senza consultare appunti, esponendo quanto, per una maggiore efficacia, aveva imparato a memoria.

«Sono turbato», disse, «da ciò che è accaduto questa mattina. Naturalmente mia cognata è innocente finché la sua colpevolezza non venga comprovata, ma l’idea che abbia potuto compiere quello di cui è accusata mi sconvolge. Non ho mai notato in lei nessuna tendenza criminale.

«La mia angoscia è in particolare rivolta a sua figlia Annie, che, in questi ultimi mesi, è passata attraverso così penose vicende. Farò tutto quanto è in mio potere per aiutarla in questa dura prova.»

Era una strana dichiarazione, priva di quella sdegnata difesa di Vera che tutti si erano aspettati. Birch non era andato nello studio di Ned, ma ne sentì i commenti dalla sua autoradio. Si avverava ciò che tante altre volte aveva visto: verdetto di colpevolezza, precipitoso e a furor di popolo.

Lo studio dell’avvocato Elwood P. Frain era degno di un re, ciò che lui riteneva appropriato alla sua posizione tra i luminari del foro. Perché Frain, a volte stigmatizzato per le sue eccentricità, era temuto dai colleghi per la sua smaliziata destrezza procedurale. Durante i trentaquattro anni della sua carriera aveva perso esattamente quattro cause, tutte e quattro riguardanti assassini la cui innocenza non sarebbe stata dimostrabile neanche da un dio.

Vera e la Neuberger erano sedute nel regale ufficio, in attesa che il Grande Uomo emergesse da una conferenza che si svolgeva in un antistudio. Vera era impressionata dall’arredamento. La scrivania di Frain era lunga due metri e mezzo, con il piano in marmo massiccio del Vermont, su cui spiccava un antico calamaio d’oro. Il telefono era placcato oro, la matita a scatto, lì a fianco, di puro platino. Il pavimento scompariva sotto un autentico tappeto rosso afgano, alto due centimetri e mezzo. Ogni armadietto, ogni scaffale erano un pezzo di antiquariato italiano. Anziché la tradizionale illuminazione di un ufficio, Frain si serviva di due lampadari di cristallo, di modello esclusivo, in vetro Steuben.

Di colpo, una pesante porta di quercia venne spalancata. Una figura irruppe di slancio nello studio. «Mrs. McKay, immagino», disse il nuovo venuto.

Vera lo guardò. «Sì», rispose piuttosto stupita.

«Eccomi qui ad assicurarle la libertà.»

Né Vera né la Neuberger credevano ai propri occhi. Era quello Elwood Frain?

Frain non superava il metro e cinquantacinque, aveva una rotonda pancetta prominente ed era completamente calvo. La faccia, che dimostrava tutti i suoi cinquantatré anni, era «decorata» da un paio di baffetti. Aveva gli occhi dal taglio leggermente a mandorla, che gli conferivano un tocco orientale, ma il vestito era decisamente in stile Ordine degli Avvocati di New York: gessato nero, con panciotto in tinta e orologio d’oro con catena con la chiave della Phi Beta Kappa, la più antica associazione universitaria americana, i cui membri eccellono per qualità accademiche. Il convenzionalismo, però, si arrestava all’altezza delle ginocchia. Frain calzava infatti stivaletti neri da cowboy.

«Mi spiace per quanto le è successo», dichiarò a Vera, precipitandosi a stringerle la mano e poi battendole paternamente sulla spalla. La voce era acuta, penetrante e sgradevole. «Lei è vittima di forze schiaccianti. Noi le sbaraglieremo.»

«Pensa davvero di riuscirci?» gli domandò Vera.

«Gesù non ha trasformato l’acqua in vino?» ribatté lui e andò a sedersi alla scrivania.

«C’è gente che sparla di me», precisò Vera.

«E di me!» replicò Frain. «E rincarerà la dose adesso che il suo avvocato difensore sono io. Ma ci ho fatto il callo e non me ne preoccupo assolutamente. Ecco come mi comporto.»

«Mr. Birch ha detto che lei è il migliore», ricordò Vera.

«Lo sono.»

«Mi piace questa sicurezza», commentò la Neuberger. «Lei mi assomiglia.»

«Ne sono lusingato, dottoressa. Mio fratello è medico a Los Angeles, oculista specialista in bambini. Una professione deliziosa. I suoi pazienti non muoiono e non migliorano mai.» Frain rise della propria piccola freddura. «Adesso», proseguì, «ho bisogno di qualche risposta da lei, mia cara.»

«Dica pure.»

«Ma dev’essere sincera con me. Un avvocato può aiutare soltanto se il cliente da informazioni precise e veritiere.»

«Non dubiti.»

«E io le credo. Allora, mi dica la verità, ha ucciso lei suo marito?»

Vera sussultò. «No, naturalmente», rispose con fermezza.

«Benissimo. Era una domanda inevitabile. Prassi ordinaria. Ha qualche idea su chi avesse potuto desiderare la sua morte?»

Vera esitò. «Non proprio», rispose con un sospiro.

Frain la fissò con attenzione, aggrottando poi la fronte. «Non posso assumere la sua difesa», l’ammonì,. «se lei tenta di ingannarmi.»

Ci fu un pesante silenzio, durante il quale Vera si rese conto che Frain era senz’altro capace di leggerle nel pensiero. «D’accordo», disse alla fine, «ma mi è difficile. Non voglio danneggiare qualcuno che potrebbe essere innocente.»

«Questo lo lasci giudicare a me», disse Frain. «Qui non possiamo mettere in galera nessuno. Non possiamo spedire nessuno a Sing Sing. Tutto quanto possiamo fare è parlare.»

Vera tirò un profondo sospiro. «Bene, non so perché, ma a volte mi viene l’idea tremenda che mio cognato, Ned… voglio dire, il martello con cui Harry è stato ucciso era suo. Ne sono certa. So che sembra assurdo…»

«No, non lo è. Caino non uccise Abele? Il più antico delitto noto all’umanità fu un fratricidio.»

«Ma Ned non aveva nessun motivo.»

«Lei questo non lo sa, quindi non lo dica. E poi non gliene serviva uno necessariamente.»

«Questo non quadra», disse la Neuberger.

«Ci sono molti delitti senza motivazione, delitti passionali. Delitti per contrasti insignificanti. E la maggior parte accade nell’ambito familiare o tra amici.»

Vera scosse la testa, sempre più smarrita. «Ma è stato sempre così buono con noi.»

«Be’, e che cos’altro si aspettava che facesse?» chiese Frain. «Che sventolasse una bandiera con su scritto che aveva ucciso suo fratello?»

Vera abbassò gli occhi, sentendosi tremendamente ingenua. «No», rispose sommessamente, soggiogata da Frain.

«Ora, che cos’altro le fa pensare che Ned McKay abbia eventualmente a che fare con questo atroce crimine?»

Vera gli parlò della visione di Annie, in cui Ned voleva ucciderla, e dei propri sospetti sul martello.

«La visione se la scordi», le ordinò Frain agitando una mano, sprezzante. «Potrei portare al banco dei testimoni, tutti in una volta, Mosè, Freud e Houdini, e nessuno crederebbe una virgola di quella faccenda. Dobbiamo attaccarci al concreto. Non dobbiamo dare l’impressione che lei sia fuori di testa.»

«Ma le visioni sono vere», intervenne la Neuberger.

«E con questo?» ribatté Frain. «La verità è in un processo quello che l’onestà è nel commercio delle automobili usate: una convenienza, non una necessità.» Ridacchiò. «I suoi sospetti su suo cognato si basano su quanto mi ha esposto ora?»

«Più o meno. Come ho detto, il martello…»

«La parola di Ned McKay contro la sua. Anche se trovassimo qualcuno che l’abbia visto usare il martello a casa, lui direbbe d’averlo preso in prestito da suo marito. È un punto morto.»

«E allora che cosa possiamo fare?» gli domandò Vera.

«Quello che fanno quasi tutti in queste situazioni. Ci concentreremo sulla sua difesa, non alla ricerca di altre persone sospettabili… almeno per ora. Lei non ha in mano niente contro Ned.»

«Ha ragione. È un sollievo per me. Era soltanto un’idea balorda.»

«Bene, mi parli di queste donne linguacciute.»

La faccia di Vera avvampò per la collera. «Non so nemmeno chi siano.»

«Si sprema le meningi. E si ricordi di giocare a carte scoperte con me. Non ha proprio nessuna idea di chi volesse calunniarla, per un qualsiasi motivo?»

«No», affermò Vera con sicurezza.

Frain alzò le spalle, accentuando il gesto a significare che la convinzione di Vera risultava piuttosto assurda. «Mi sembra impossibile», osservò con tono ironico e meravigliato. «Capita quasi a tutti di scontrarsi con la gente, o perlomeno di avere qualche idea riguardo a chi non siamo simpatici.»

«Ma io sono sempre andata d’accordo con tutti», rispose Vera.

«Quindi, in proposito, buio assoluto», si rammaricò Frain. «Mi dica, Annie ha mai avuto delle discussioni a scuola che potessero riflettersi su di lei?»

«Che mi risulti, no.»

«Ha per caso delle abitudini o dei comportamenti che altri possano disapprovare?»

«Per esempio?»

«Per esempio bere, drogarsi, fare orgette. Sia sincera, la prego.»

Vera sembrò stupefatta, poi imbarazzata. «Ho sempre cercato di vivere in modo decente», rispose.

«Senta», rimbeccò Frain, «smetta di fare la Vergine Maria. Lei deve fare qualcosa di sbagliato.»

«A volte sono timida e la gente crede che sia fredda», ammise Vera.

«Quindi qualcuno pensa che lei lo disprezzi. Be’, è già qualcosa. E questo, nessuno glielo ha mai detto in faccia?»

«No, lo intuisco e basta.»

«Naturalmente, quando suo marito scomparve, vi furono pettegolezzi su di lei.»

«Sì, ma senza seguito. Non furono amici o persone che mi conoscevano a metterli in giro.»

«Osservazione centrata», commentò Frain. «Lei pensa di essere una persona simpatica, mia cara?»

«Mi sforzo di esserlo.»

«Non era questa la domanda. Impari a deporre correttamente.»

«Mi sembra di essere simpatica alla gente», disse Vera. «Io mi sforzo di esserlo.»

«Ha mai sentito Harry giudicarla male, magari in un momento di rabbia?»

«Naturalmente no!»

«Ecco che si inalbera di nuovo. Non deve farlo», la rimproverò Frain, alzando la voce. «Si comporti così al processo e la giuria la sospetterà senz’altro.»

«Cercherò di non farlo», gli assicurò Vera.

«Ricorda il vecchio proverbio che la moglie è l’ultima a sapere? È sempre possibile che Harry ce l’avesse con lei. Dopo l’ufficio potrebbe essere andato al bar a scaricare le grane di famiglia. E magari anche rincarando la dose. Ma chiunque, sentendolo, poteva spettegolare in giro, aggiungendovi del suo.»

«Non posso credere una cosa simile da parte di Harry.»

«Non le sto chiedendo di credere niente», scattò Frain, piuttosto seccato. «Le sto chiedendo se potrebbe essere possibile.»

«Ma non lo è!» si accanì Vera. «Harry non ha mai frequentato i bar. Ci volevamo bene.»

«È sicura di sapere che cosa c’era nei più intimi recessi della sua mente?»

«Sì, ne sono sicura.»

«Direi proprio», sentenziò Frain, «che lei o è Dio o un’illusa. Non c’è altra alternativa.»

Vera diventò penosamente conscia di come Frain la stesse guardando severamente e capiva che l’avvocato non approvava del tutto il suo modo di rispondere. «Credo di avere conosciuto mio marito», aggiunse a voce bassa.

«Lo credo anch’io», ribatté Frain. «Quanto a fondo lo conoscesse è legato agli sviluppi del processo. Solo, si prepari a tutte le insinuazioni che l’accusa le scaglierà addosso.» Sorrise. Non era un sorriso gradevole, e nemmeno cordiale, ma faceva capire a Vera che l’ometto cercava di aiutarla, di corazzarla contro la battaglia imminente. «Voglio chiederle qualcosa di molto importante», disse.

«Sentiamo», rispose Vera, allarmata da quel brusco cambiamento.

«Lei è molto affezionata a sua figlia?»

«Oh, tantissimo.»

«Sono inseparabili», aggiunse la Neuberger. «Un affetto del genere non l’ho visto spesso.»

«Ha mai fatto alla piccola niente che possa essere usato contro di lei?»

«Non penso proprio.»

Di nuovo, si intromise la Neuberger. «Averla portata da me, ecco quello che quei farabutti potrebbero rinfacciarle. Potrebbero anche dire che lei non si è valsa delle tradizionali cure mediche, con quei dottori le cui mogli sfoggiano grossi anelli. E diranno che lei ha fatto del male a Annie credendo alle sue visioni. Tutte cose che ho già visto.»

«La dottoressa ha ragione», disse Vera con crescente apprensione. «Ma prima avevo fatto esaminare la piccola dai medici tradizionali. Senza nessun giovamento.»

«A parte la situazione attuale, c’è qualcos’altro? Ha mai fatto del male ad Annie?»

«Non gliene farei mai.»

«Sono certo che Annie ha sofferto molto quando suo padre è scomparso. C’è stato qualcuno che ha tentato di riversare su di lei la responsabilità totale o parziale di questo?»

«No. Ero in pena per la piccola e ho interpellato lo psicologo della scuola, ma lui è stato molto comprensivo.»

«Le ha raccomandato qualcosa che lei si è rifiutata di fare o che non ha fatto?»

«Allude alle cure?»

«Sì.»

«Lui mi ha suggerito soltanto di fare alcuni discorsi ad Annie e io ho seguito i suoi consigli.»

«Non crede che quello psicologo abbia espresso qualche critica al suo comportamento?»

«Non riesco a pensare a niente del genere.» Vera constatava che l’espressione di Frain a poco a poco era diventata sempre più cupa, così come il tono delle domande. «Che cosa c’è che non va?» chiese, sapendo comunque che la domanda poteva essere fuori luogo.

Frain si concesse una pausa a effetto, indugiando con lo sguardo, per alcuni istanti, sulle pareti dello studio. «Mia cara», disse infine, «ho per lei una notizia molto penosa, che avrà sviluppi davvero dolorosi.»

Vera si appoggiò alla spalliera della sedia, tesa e ansiosa. Non aveva la minima idea di che cosa le stesse piombando addosso.

«Proprio mentre stavo venendo qui», spiegò Frain, «sono stato informato che Mr. Ned McKay ha presentato istanza al Tribunale dei minori per ottenere la custodia temporanea di sua figlia.»

La faccia di Vera di colpo diventò rossa. «Oh, mio Dio!» mormorò. «Perché?»

«La richiesta, cui ci opporremo nettamente, si basa sul fatto che lei non è una madre idonea.»

«Non sono idonea?»

«Si controlli, mia cara. Agitarsi non le servirà a niente. Mr. McKay sostiene di essere uno zio affettuoso, dalla reputazione ineccepibile. Il suo costante interessamento e la sua sollecitudine nei confronti della bambina non si possono mettere in discussione. Inoltre, asserisce che lei è accusata di omicidio, con una reputazione che sta per essere messa in dubbio. Insiste perché la piccola sia affidata a lui, almeno finché il processo non sarà concluso. Poi sarà il verdetto a decidere a chi verrà affidata Annie.»

Vera cominciò a scuotere la testa, incredula e atterrita. «Quel miserabile!» gemette, sconvolta e furente. «Per tutti questi anni ho creduto che fosse dalla mia parte. Tutti questi anni…»

«Un momento», la interruppe Frain, con una voce che stava diventando di nuovo stridula. «Lei non giudica la faccenda nel modo giusto. Supponiamo che suo cognato si sia sempre comportato lealmente con lei. Supponiamo che voglia davvero bene ad Annie. La sua non sarebbe un’iniziativa logica?»

«Lei si schiera dalla sua parte?» gli domandò Vera, furibonda.

«Certo che no. Deve smetterla di saltare alle conclusioni. In una causa lei deve sempre capire il punto di vista dell’avversario. Altrimenti è finita. Può darsi che Mr. Ned McKay sia del tutto in buona fede.»

Vera era troppo sbalordita e distrutta per poter connettere lucidamente. Riuscì solo a guardare Frain, implorando il suo aiuto. «Non voglio perderla», ansimò alla fine e cominciò a piangere disperatamente.

«Farò del mio meglio», rispose Frain, impietosito e commosso, «ma dovremo mettercela tutta. Suo cognato gode di un’eccellente reputazione in città. Mentre lei, diciamo, è piuttosto compromessa.»

«Non riesco a crederci», sussurrò Vera. «Annie è tutto quello che ho. Non possono portarmela via. Non può togliermela.»

«La cosa è nelle mani del giudice», disse Frain.

Di colpo gli occhi di Vera lampeggiarono di terrore. «Ma se Ned voleva uccidere Annie… mio Dio, l’avrà con sé! Che cosa le farà?»

«Ci stiamo muovendo», sentenziò Frain, «su un terreno assolutamente vago. Non posso garantirle proprio niente. Lei è in una posizione difficile, mia cara signora… molto molto difficile.»

Sedendo sullo scanno, pronto ad ascoltare la petizione di Ned, il giudice Archie S. Brendel consultò rapidamente alcuni appunti. Poi si schiarì la gola, come faceva di solito quando cominciava a procedere. Gli occhiali sulla punta del naso riflettevano la luce nella montatura di metallo. I suoi capelli, ricci e grigi alle tempie, avevano un taglio perfetto. Brendel, a quarantotto anni, tentava di apparire nello stesso tempo come un giudice e un uomo, i cui migliori anni professionali dovevano ancora venire.

Non tutto era per vanità. Brendel amava davvero la legge e traeva un’enorme soddisfazione dalle udienze che presiedeva. Il fatto era, però, che spesso vedeva il lato astratto della legge e minimizzava l’elemento umano.

La sala delle udienze era piccola. Tutte quelle del Tribunale dei Minori erano piccole, poiché le udienze avvenivano a porte chiuse.

Brendel sedeva su un normale banco soprelevato, mentre le parti in causa occupavano due tavoli di fronte a lui. A uno sedeva, da solo, Ned McKay. All’altro stavano Vera ed Elwood Frain. Annie, il cui destino stava per essere deciso, non era nemmeno presente; Marie Neuberger non era ritenuta parte in causa e quindi non le era permesso di assistere.

Vera e Ned, di colpo avversari in giudizio, non si scambiarono neanche un’occhiata. Nell’atmosfera carica di tensione, si comportavano come se non si fossero mai conosciuti. Ned sembrava particolarmente colpito dal cambiamento e giocherellava nervoso con una penna nell’attesa, evitando di guardare verso il tavolo di Vera. Sebbene conoscesse Elwood Frain da molti anni non lo salutò.

La famiglia McKay stava dividendosi.

Brendel guardò Ned. «È pronto, Mr. McKay?»

«Sì, vostro onore.»

«Mr. Frain?»

«Pronto, vostro onore.»

«Mr. McKay», chiese Brendel, «è assistito da un legale?»

Ned si alzò lentamente. «Vostro onore», dichiarò, «ho scelto di rappresentare me stesso.»

Brendel lo sbirciò da sopra gli occhiali. «Conosce i rischi che corre?»

Ned si rendeva conto del pericolo di farsi coinvolgere emotivamente dal suo caso tanto da rimetterci le penne. Correva il rischio perché quella era la causa più importante della sua vita e non si fidava di nessun altro.

«Sì, li conosco.»

«Molto bene. Mr. McKay», proseguì il giudice, «l’istanza che lei mi pone davanti è quanto mai seria. Come sa, raramente un bambino è sottratto ai genitori e comunque solo dopo che siano addotte prove esaurienti a sostegno della richiesta.»

«Ne sono consapevole, vostro onore. Questa è una delle cause più penose che abbia mai dovuto intraprendere, ma i fatti parlano da sé.»

«Lei ha qualche prova che Mrs. McKay abbia effettivamente maltrattato la bambina?»

«Naturalmente no», rispose Ned. «Ama Annie. Ma ci sono altre cose. Mrs. McKay è sospettata di omicidio.»

«Solo sospettata», lo rimproverò Brendel.

«Certo. Ma è per l’assassinio del padre della bimba che la si accusa. Io temo che la piccola possa risentirne.»

«Vuole alludere al fatto che la signora potrebbe far del male a sua figlia?»

«No di certo, quando è in condizione di ragionare.»

«Ovviamente questa è solo un’ipotesi.»

«Sono d’accordo», disse Ned, «ma stiamo parlando della vita di una bambina. E io ne chiedo soltanto la custodia per la durata del processo. Se Mrs. McKay è assolta, tutto a posto. Le riconsegno Annie con enorme piacere. Se è condannata, però, mi rivolgerò immediatamente a questa corte per ulteriori decisioni.»

«Lei mi sta chiedendo di togliere una figlia alla madre in conseguenza di ciò che potrebbe verificarsi, anziché di ciò che si è verificato.»

«Sì, vostro onore. Ma prego vostro onore di ricordare che sono lo zio di Annie McKay. La piccola mi conosce da quando è nata. Sono sempre a casa sua.»

«Comunque, per la bambina sarebbe un trauma.»

«Non terribile. A casa con me si troverà benissimo.»

«Ha altre considerazioni da esporre?»

«Sì, vostro onore. Mrs. McKay ha affidato Annie alle cure di una certa dottoressa Marie Neuberger, una psicanalista dalla reputazione, diciamo, controversa. Ritengo che Annie abbia diritto a cure più adatte, specie nei momenti in cui soffre di continui stress psicologici.»

«A quanto mi risulta, la bambina sta bene», sottolineò Brendel.

«Forse», ribatté Ned. «Ma i precedenti della dottoressa Neuberger sono ben noti, così come le sue teorie. Il problema di quale danno possa arrecare è effettivo. Ha perso due cause per condotta professionale scorretta.»

«Ritiene, Mr. McKay, di poter essere obiettivo in questa sede? Dopotutto, è stato suo fratello a essere assassinato. Forse il suo interessamento verso la piccola è una reazione emotiva, comprensibile, naturalmente.»

«Sono sicuro di poter essere obiettivo, vostro onore. Sono avvocato e capisco le implicazioni del caso.»

«Può dimostrare di non nutrire nessun rancore verso Mrs. McKay?»

«Be’», rispose Ned, «veramente non posso provare quello che non esiste. Ma invito la corte a cercare le conferme che desidera da vicini e amici. Testimonieranno che ho sempre avuto eccellenti rapporti con mia cognata. Le voglio bene. Ma voglio bene anche ad Annie.»

«Mi risulta, però, che Mrs. McKay ha accusato lei di averle ucciso il marito. È vero?»

«In un momento di esasperazione, vostro onore.»

«Comunque è vero…»

«Sì, signore, ma non ho dato alla cosa il minimo peso.»

«Tuttavia potrebbe infuenzare la sua opinione su Mrs. McKay. O mi sbaglio?»

Ned esitò un attimo. Frain appariva compiaciuto. Da come l’udienza era andata avanti sino a quel momento, secondo lui, il giudice non sembrava condividere le argomentazioni di Ned. Frain si chinò verso Vera e le sussurrò all’orecchio: «Credo che il suo caro cognato sia in difficoltà». Lei rimase in silenzio.

«Vostro onore», ricominciò Ned, «il mio giudizio su Mrs. McKay è stato influenzato da molti fattori. Uno dei quali, posso ammetterlo, è la sua accusa. Cosa più che naturale. Altro fattore, i commenti fatti su di lei da donne della nostra comunità.»

«Da avvocato, Mr. McKay, lei dà peso alle chiacchiere?» gli chiese Brendel.

«Certamente no. Ma come zio, devo essere sensibile a tutto.»

Brendel continuò a porre stringenti domande a Ned, mostrando a volte la propria impazienza di fronte alla mancanza di prove precise e definite contro Vera. La legge ammetteva l’allontanamento di un bambino dai genitori solo se il bambino fosse stato effettivamente in pericolo e Brendel applicava la legge rigorosamente alla lettera. Quando ebbe finito con Ned, si rivolse a Frain.

«Mr. Frain, ha sentito le motivazioni di Mr. McKay. Suppongo che lei non sia d’accordo.»

Frain, tutt’altro che cerimonioso e cortese, scattò in piedi, come un giocattolo a molla, davanti al banco imponente. «Non sono d’accordo?» proruppe retoricamente. «Vostro onore, sono indignato per l’attacco, del tutto ingiustificato, verso Mrs. McKay. E sono sbalordito dal comportamento di un uomo che dovrebbe precipitarsi a difenderla, anziché bersagliarla con tutte quelle assurde calunnie.»

«Lei può garantire che la bimba non corre pericoli?» gli domandò Brendel.

«Certo che posso. È sintomatico, vostro onore, che nessuno di quelli che attaccano Mrs. McKay metta in dubbio la sua devozione per Annie.»

«Mr. McKay sottolinea che è sospettata di omicidio e che quindi non si può rischiare di affidarle una vita umana.»

«Questa è una violazione del nostro sistema legale», dichiarò Frain, la cui voce aspra sembrava tagliare l’aria. «Mrs. McKay verrà comunque assolta, ma fin da ora ha il diritto di essere considerata innocente.»

Brendel consultò alcuni appunti che aveva preso durante il discorso di Ned. «Che cosa può dirmi sulla qualità dell’assistenza medica attualmente riservata alla piccola?»

«Posso solo rilevare», rispose Frain, «che Mrs. McKay ha dovuto affrontare una malattia di Annie che le è stata quasi fatale. Ovviamente è una di quelle madri che ricorre soltanto ai migliori medici.» Lì Frain, da attore consumato, fece spallucce, come a minimizzare il punto successivo. «Ora, in merito alla dottoressa Neuberger, lei è una psicanalista. Come vostro onore sa bene, in base alla sua vasta esperienza, la psicanalisi è un campo in cui le valutazioni personali differiscono largamente. Una ciarlatana per alcuni è una dea per altri.»

«Concordo», disse Brendel.

«Obiezione!» gridò Ned, saltando in piedi.

Brendel ne fu sbalordito. Le obiezioni erano rare in procedimenti del genere. «Su che cosa verte la sua obiezione?» chiese.

«Contesto la sostanza generale delle affermazioni di Mr. Frain», esclamò Ned. «Sono del tutto irrilevanti.»

«Forse perché lei non riesce a capirle!» ribatté ferocemente Frain.

Brendel picchiò con il suo martelletto, cosa che di solito era costretto a fare solo per giovani indisciplinati. «Signori, vi richiamo all’ordine!»

I due tornarono a sedersi.

«Mi rendo conto», continuò Brendel, «della tensione che questo caso comporta, ma cercate di controllarvi. Mr. McKay, a lei la parola.»

Ned si alzò lentamente, parlando questa volta in tono più calmo. «Vostro onore», cominciò, «i punti da me sollevati sono fondati. Mrs. McKay è sotto accusa. In vita sua, non ha mai manifestato nessuna tendenza alla violenza, ma, se l’accusa è giusta, può avere ucciso suo marito, mio fratello. Ora ci viene detto che si è sempre dimostrata devota verso Annie. Ma si era sempre mostrata devota anche verso Harry. Che cosa prova tutta questa devozione?»

«La maternità è un’altra cosa!» lo interruppe Frain. «Mogli che uccidono i mariti ce ne sono a bizzeffe. Quante volte ha sentito di una madre che abbia ucciso sua figlia?»

Di nuovo Brendel picchiò con il martelletto. «All’ordine, Mr. Frain!»

«Chiedo scusa, vostro onore.»

Mr. Frain era soddisfatto. Maestro nelle interruzioni, sapeva di conseguire comunque un effetto dirompente prima di essere richiamato all’ordine. Di nuovo bisbigliò all’orecchio di Vera: «Questa volta credo di averlo in pugno. Non è ben preparato».

Ned proseguì, lamentando che il giudice non desse sufficiente peso ai trascorsi di Marie Neuberger e alla sua reputazione negativa presso l’ordine dei medici.

L’udienza si trascinò, durando in totale tre ore buone, di gran lunga più di quanto avessero pensato gli interessati. Vera, amareggiata per le allusioni maligne di Ned sulla sua idoneità come madre, si sforzò di mantenersi calma, ascoltando i continui suggerimenti che Frain le bisbigliava all’orecchio. Solo una volta le fu chiesto di parlare, quando Brendel le chiese se sarebbe stata psicologicamente in grado di avere cura di Annie durante il processo. «Sì», aveva risposto con sicurezza.

Il giudice Brendel, alla fine, si ritirò per riesaminare il verbale. Chiese alle due parti di ripresentarsi alla corte alle nove del mattino seguente.

All’ora fissata, Ned, Vera e Frain ripresero posto nella saletta. Brendel entrò, sedette al banco e aprì una cartelletta marrone. Scrutò le due parti. Era evidente che né Ned né Vera avevano chiuso occhio quella notte.

«Ho preso la mia decisione», annunciò Brendel.

Tutti i presenti si sporsero, ansiosi.

«Vagliate le prove, nell’applicazione delle norme di legge», continuò Brendel, «questa corte decide per Mr. McKay.»

18

Nella sala piombò un silenzio attonito. Né Vera né Elwood Frain si erano aspettati quel verdetto.

«Non può!» gridò Vera all’improvviso. Saltò in piedi e con la mano spazzò il tavolo, facendo volare via una matita. «Non può portarmi via Annie!»

Le sue grida superarono le pareti rivestite di legno massiccio dell’aula e si sentirono fin giù nell’atrio. La gente si fermò e guardò l’uscio del Tribunale dei Minori. Accorsero immediatamente gli uscieri.

«Era combinato!» urlò Vera. Al che Frain cercò di trattenerla, ma lei lo respinse con violenza. «Aveva combinato tutto fin dal principio! So come vanno certe faccende. Conosco questi sporchi intrallazzi politici!»

Brendel non fece nessun tentativo per interromperla. Aveva assistito abbastanza spesso a proteste clamorose in casi analoghi per sapere che il sistema migliore era lasciare sfogare la collera. Si limitò a fissare Vera malinconicamente, come se simpatizzasse con lei.

«Non ve la lascerò portare via!» continuò Vera, mentre gli uscieri entravano silenziosamente dal retro, aspettando un cenno da Brendel per accompagnarla fuori. «La nasconderò. Fuggiremo, ma non permetterò che quell’uomo si prenda mia figlia!»

Frain ripeté il tentativo di dissuaderla, sapendo che se la stampa fosse venuta a sapere di quella scena l’immagine di Vera ne sarebbe risultata danneggiata già prima dell’inizio del processo. Ma si rese ben presto conto che era ormai troppo tardi e, amareggiato per l’inaspettato verdetto, capì la disperazione della propria cliente.

Ned non si era mosso, limitandosi a scuotere tristemente la testa. A fior di labbra, quando colse l’occhio di Brendel su di lui, sillabò la frase: «Odio questa faccenda». Meglio quelle parole che manifestare che lui desiderava proteggere Annie proprio da quel genere di condotta isterica. Anche ai giudici non piace sentirsi dire frasi del tipo: «Io gliel’avevo detto che era così».

Vera, all’improvviso, abbandonò il tavolo e si lanciò verso il banco, agitando selvaggiamente il pugno contro Brendel. «Voglio farla sottoporre a inchiesta!» gridò. «Voglio appellarmi contro questa ingiustizia! Voglio che intervenga il governatore!»

Frain si precipitò a tirarla indietro, ma Brendel alzò una mano, facendo segno all’avvocato di non intervenire lasciando che gli uscieri risolvessero da soli la situazione.

Gli uscieri con calma si avvicinarono a Vera. «Non toccatemi!» gridò. Quelli esitarono un attimo.

«Voglio sentire da lei», disse Vera con veemenza, «voglio sapere come ha preso la sua decisione. Quanto le hanno dato?»

Allora Brendel picchiò un colpo con il suo martelletto. «Signora», rispose con gentilezza, «sarò felice di chiarirle i miei criteri.»

«Ma certo. Altre menzogne!»

«Se vuole ascoltarmi…»

«L’ascolterò. Poi andrò dai giornali. Voglio che sappiano tutti!»

I due uscieri stavano per intervenire, ma Brendel fece loro cenno di aspettare. «Signora», disse gravemente, «capisco la sua angoscia. Mi creda, avrei voluto evitare questo. Se lei desidera informare la stampa è suo diritto farlo, senz’altro. Ma la prego di riconoscere che un giudice deve agire secondo la legge.»

«Quale legge?» proruppe Vera.

«La legge dello Stato di New York, signora. Prendendo la mia decisione sul presente caso, io ho tenuto conto della tensione cui lei sarà sottoposta durante il processo, della gravità dell’accusa contro di lei e dei precedenti medici e psichiatrici alquanto confusi di sua figlia. Peraltro, ho anche vagliato l’idoneità di Mr. McKay a prendersi cura della bambina durante il processo, la sua reputazione nella comunità e il fatto che lui abbia molto radicato il senso della famiglia.»

«Quale senso della famiglia?» domandò Vera con amarezza, ma già un po’ più calma.

«Ma… lui mostra chiaramente un vivissimo affetto per voi e soprattutto per Annie. Inoltre, questa corte ha esaminato il lavoro di legale che ha svolto per il patrimonio del fratello e lo ha riscontrato estremamente valido.»

«Ma la ucciderà!»

A quell’uscita, Brendel con un cenno impose agli uscieri di avvicinarsi a Vera, pronti ad afferrarla per le braccia. «Mrs. McKay», disse parlandole come a un bambino, «l’affermazione che lei ha fatto è gravissima. Credo convenga, e certo il suo avvocato ne converrà, che non esiste la minima prova che Mr. McKay voglia fare del male ad Annie.»

L’atteggiamento e l’espressione di Vera indicavano un odio puro. Girò attorno al banco, per raggiungere Brendel e affrontarlo direttamente. Fulminei, gli uscieri intervennero e l’afferrarono. Ancora prima che si rendesse conto di che cosa stava accadendo, Vera fu trasportata fuori dell’aula e trascinata in un’infermeria nel seminterrato, dove le fu prontamente somministrato un sedativo che la rese incosciente.

Frain rimase in aula, accasciato per la scena cui aveva appena assistito. Era quella la sua cliente, una donna che lui doveva tentare di difendere da un’accusa di assassinio; era evidente che la McKay non poteva più resistere alle enormi pressioni esterne. Come si sarebbe comportata durante il processo era un grosso punto interrogativo; una nube minacciosa che incombeva sui suoi piani. Pensò per un attimo di ricorrere in appello contro il verdetto di Brendel. Ma il comportamento isterico di Vera era ormai agli atti e qualunque giudice d’appello che ne avesse preso visione avrebbe emesso una sentenza sfavorevole.

Frain si alzò lentamente e andò da Ned per stringergli la mano. Ned alzò gli occhi, ma non tese la destra. «Preferirei non darle la mano», disse. «Mi sento tutt’altro che orgoglioso.»

«Capisco», rispose Frain. «Le telefonerò in studio per concordare la consegna della bambina.»

«Non c’è fretta», ribatté Ned. «Cerchi di rendere l’impatto il meno duro possibile per Vera, se ci riesce.»

Il giudice Brendel chiese ai due legali se avessero altro da sottoporre alla corte. Alla risposta negativa di entrambi, tolse la seduta.

Una cosa era sentenziare che Annie doveva stare con Ned, un’altra rendere operativa la sentenza.

Frain riportò a casa Vera nel tardo pomeriggio. Intontita dalla pesante dose di sedativo, continuava a piagnucolare: «Non me la porteranno via… no… no!»

La Neuberger la mise a letto, poi andò in camera di Annie e la trovò che giocava con una bambola che eseguiva passettini di danza. La bambina appariva notevolmente serena per essere passata attraverso tante traversie. Indossava un grembiulino rosa e aveva un nastro nei capelli e sembrava completamente immersa nel suo gioco.

«Annie», le disse la dottoressa. «Devo parlarti. Voglio che mi ascolti bene.»

«Okay», rispose la bambina.

«Tua mamma non si sente bene. C’è un uomo che decide quello che è meglio per i bambini come te. Lui pensa che forse dovresti andare a stare un po’ in casa di tuo zio Ned.»

Annie smise di giocare e fissò la Neuberger, terrorizzata. «No!»

«Ma è una bella cosa.»

«No. La mamma non vuole più bene allo zio Ned. E lui voleva uccidermi. Lo so!»

«Penso che dovrai andarci.»

Annie lasciò cadere la bambola, si alzò e cominciò a indietreggiare. «Non voglio andarci. Voglio restare qui. La mia mammina è qui.» Di scatto, infilò la porta e si lanciò verso la camera di Vera, spalancando l’uscio con violenza. «Mammina!» gridò a Vera che dormiva. «Svegliati, mammina.»

La Neuberger accorse, ma Annie già era riuscita a svegliare Vera, scuotendola. Ancora sotto gli effetti del sedativo, Vera appariva molto poco lucida, ma comprese le grida disperate di sua figlia.

«Mammina, zio Ned vuole uccidermi con una rivoltella! Mammina, non lasciare che mi portino da lui!»

Nonostante gli sforzi della Neuberger, Annie non desisteva. E, a mano a mano che l’effetto del sedativo si attenuava, Vera rientrò in crisi, chiudendosi poi a chiave in camera insieme con Annie.

Frain telefonò a Ned per dirgli della tempestosa reazione di Annie e chiedergli di riconsiderare la sua richiesta. Ned fu di tutt’altro parere. «La voglio qui», si ostinò e la mattina seguente ottenne dal giudice Brendel l’autorizzazione formale per l’immediato prelievo di Annie.

E così, mentre un’esausta Vera dormiva, due funzionari dell’Ufficio per l’assistenza infantile si presentarono in casa McKay, diedero ad Annie un dolcetto che conteneva un blando tranquillante e la portarono via, dicendole che, su richiesta di Vera, l’accompagnavano al parco dei divertimenti. La Neuberger assisté alla patetica scena. Aveva già sperimentato i capricci della legge e sapeva che sarebbe stato inutile opporsi.

Quando si rese conto di quanto era successo Vera scivolò di nuovo nell’apatia che l’aveva già invasa dopo la scoperta del cadavere di Harry. In stato letargico, più morta che viva, inerte e sorda a quanto le si diceva. Senza Annie e con Harry morto non valeva più la pena di continuare a esistere.

La sua unica speranza era nella propria rivendicazione al processo imminente.

19

«È un circo», scrisse Larry Birch, osservando la scena fuori del tribunale della Contea di Westchester a White Plains. «La gente di questa fiorente e compiaciuta provincia sembra avere trovato lo spettacolo dell’anno. C’è chi lo paragona apertamente alla saga di Lizzie Borden.»

C’era un po’ di esagerazione, ma non troppo. Nell’edificio di mattoni a due piani del tribunale erano confluiti più giornalisti di quanti mai si fossero occupati in precedenza di un processo nella Contea. L’atmosfera era di festa, ricca di aspettativa. Alcuni dei giornalisti erano commentatori televisivi noti in tutta la nazione e avevano immediatamente attirato il loro circolo di ammiratori.

«Tu che cosa pronostichi?» chiese Birch a un collega del New York Post.

«Colpevole», rispose quello.

«Perché?»

«Aumenta la tiratura. Chi se ne frega di uno che viene assolto?»

La stessa domanda Birch la rivolse a un cronista televisivo.

«Colpevole», fu la risposta. «Non c’era nessun altro.»

La risposta turbò Birch, perché anche lui si era soffermato su quell’aspetto. Le giurie, lo sapeva bene, spesso condannano un accusato perché sembra essere il solo possibile assassino.

Birch continuò il suo sondaggio, attraverso una folla eterogenea di spettatori fra cui impiegati che utilizzavano l’intervallo per il caffè e massaie in giro a fare spese. La sensazione predominante era che Vera fosse colpevole, con un’ampia percentuale di persone che disapprovava si fosse rivolta a una psicanalista «ciarlatana» dell’West Side. Alcune donne affermavano che il fatto di avere tolto a Vera la figlia era la «prova» della sua colpevolezza.

Elwood Frain entrò in tribunale con Vera. L’avvocato era magnifico, in un abito su misura dal taglio impeccabile, con panciotto di satin e stivaletti grigi di camoscio. Vera indossava un modesto tailleur blu scuro con camicetta bianca e portava grossi occhiali scuri per nascondere gli occhi gonfi.

Tremont fece il suo ingresso qualche minuto più tardi, destando meno impressione di Frain, ma largamente favorito al totalizzatore. La sua dichiarazione alla stampa si limitò a esprimere la speranza che giustizia era fatta e a sottolineare che il popolo, a Westchester, «non può lasciare impunito il delitto». Si abbandonò anche alla riflessione, espressa a voce alta, sul tipo di donna che era capace di privare la propria figlia del padre. Le sue parole suonavano tanto più convincenti proprio perché lui credeva a quello che stava dicendo.

Birch entrò in aula per prendere posto nel settore riservato alla stampa. Si chiedeva quando avrebbe visto la prima dei testimoni segreti che avevano sparlato di Vera e che evidentemente erano l’arma principale nelle batterie di Tremont. Rimuginò sulla propria idea che quelle fossero in sostanza manovrate dall’esterno, come se facessero parte di una congiura. Sembrava un’ipotesi stiracchiata, e, comunque, assurda.

L’aula si riempì rapidamente fino a traboccare. L’anemico condizionatore d’aria era allo stremo e la temperatura sfiorava i ventisette gradi. Furono portati altri ventilatori per rinfrescare l’atmosfera rovente. Era come un processo dei vecchi tempi, quando la calura era più feroce del pubblico accusatore. Birch sapeva che il disagio rendeva più difficile la concentrazione dei giurati.

I colpi di martello echeggiarono sopra il brusio della folla, che li ignorò. Il martello risuonò ancora, e poi ancora, ma svogliato, diretto riflesso dell’uomo che sedeva al banco. Il giudice Melvin Watson era seccato e annoiato. Di lì a un anno sarebbe andato in pensione e si sarebbe dedicato a tempo pieno alla pesca. Era un uomo dall’aspetto mite, la cui pigrizia era leggendaria tra i giudici di Westchester. Gli avevano affidato il caso McKay perché non aveva altri impegni. Non aveva nessun particolare interesse al processo né tanto meno alle sue possibili conseguenze. Era un uomo, come una volta aveva scritto un cronista locale, che un giorno sarebbe morto senza lasciare nessuna traccia di sé.

«Silenzio in aula!» ordinò senza convinzione Watson. «Esigo silenzio.»

Alla fine la gente si calmò.

«Ha inizio il procedimento del Popolo contro Vera McKay», cominciò Watson. «So che al riguardo c’è stata parecchia pubblicità e che qualcuno si aspetta di assistere a un buono spettacolo. Io non organizzo spettacoli, quindi che ognuno si comporti doverosamente.»

La giuria era stata formata mediante una speciale selezione preprocessuale, un esperimento per accelerare la prassi, in modo che Watson poté passare direttamente alle dichiarazioni preliminari. «Ascolterò le eccezioni introduttive.»

Frain scattò in piedi. «Chiedo che l’accusa venga ritirata, vostro onore.»

«In base a che cosa?»

«In base al fatto che il procedimento, nei suoi termini, non ha ragione d’essere.»

«Respinto. Mr. Tremont, a lei.»

Tremont si alzò e avanzò lentamente verso la giuria, composta da otto donne e quattro uomini, tutti di mezza età. Si schiarì la voce e automaticamente si ravviò i capelli.

«Signore e signori della giuria», cominciò, «non è facile mandare una vicina in galera per tutto il resto della vita, ma non è neanche facile perdere un vicino per un brutale delitto. Il crimine merita la punizione e la punizione si adegua al crimine. Nei giorni che seguiranno dimostreremo che la donna che siede al tavolo della difesa, che asserisce di essere l’innocente spettatrice, la madre devota, la vedova affranta, è in realtà una cinica assassina che odiava il marito che l’amava tanto. Non fatevi fuorviare da appelli alla vostra compassione o pietà, perché costei non ha avuto compassione né pietà quando ha fracassato la testa di Harry McKay.»

Vera appariva composta, mascherando il tumulto interiore.

«È vostro dovere», proseguì Tremont, «fare in modo che giustizia sia fatta, che la società sia protetta. Tutti voi sapete che cosa accade quando i criminali sentono di poter sfuggire alla punizione. Lo vedete sulle strade di New York, ogni giorno. Fate in modo che non accada anche qui.»

Tremont aveva concluso e ritornò alla svelta al suo posto. La tirata era stata tipica di lui: incentrare l’accusa sui mali della società e predicare il collasso della legge e dell’ordine se non gli avessero dato retta. Larry Birch scrisse nei suoi appunti che Tremont sarebbe potuto benissimo essere un evangelista se fosse nato con una maggiore dose di fuoco e zolfo.

Prima di alzarsi Frain attese qualche attimo, sperando di creare attesa tra giornalisti e pubblico, ma più segnatamente tra i giurati. Finalmente si alzò in piedi, con un’espressione di esagerato stupore sul volto. «Signore e signori», iniziò, senza abbandonare il tavolo della difesa, «sono confuso.» Sorrise e sollevò le mani in un gesto di candore. «Io, nella dichiarazione preliminare del procuratore distrettuale, non ho sentito nominare nessuna prova contro la mia cliente. E voi?» Girò attorno lo sguardo, conscio che quel suo insolito esordio polarizzasse subito l’attenzione. «Non ho sentito nulla che mi indurrebbe a rinchiudere questa donna in un tetro e lurido carcere per il resto della sua vita. Qualcuno di voi ha sentito?»

Frain si allontanò leggermente dal suo tavolo, dando l’impressione di essere un ometto in minatura nell’immensa aula. «Amici miei», continuò, «stiamo parlando della vita di una donna, non di un’altra tacca sulla pistola del procuratore. Stiamo parlando di uno specifico, controverso dibattimento nella Contea di Westchester e non», guardò verso Tremont e sorrise beffardo, «del declino della civiltà occidentale. Non so neanche perché questa donna sia sottoposta a processo. Forse lo sa il procuratore distrettuale. Forse si degnerà di svelarvelo lui. Ma io so che lei è innocente. Amava suo marito, questo è un fatto. Oh, ci saranno le solite malelingue in giro a dire che non gli voleva bene. La bontà suscita sempre invidia, gelosia, persino odio.» Guardò intensamente i giurati. «Sapete bene come certe persone odino due coniugi felici.»

E quindi si sedette, bruscamente.

Watson fece un debole cenno verso Tremont. «Può chiamare i testimoni.»

Tremont si alzò di nuovo. Tradizionalmente, le testimonianze introduttive vertevano su argomenti di routine e tecnici: riassunto del crimine, relazioni di laboratorio, procedure di polizia. Ma Tremont aprì l’escussione dei testi d’accusa con una bomba.

«Chiamo Roberta Moran», annunciò a un’aula che subito ammutolì.

Tutti puntarono gli occhi su Vera, che restò sbalordita e si chinò verso Elwood Frain. «È la mia vicina di casa. A volte fa da baby-sitter ad Annie. Sua figlia gioca con la mia. È lei che ha telefonato a Ned la notte in cui Annie si è ammalata. Non riesco a crederci.» Provava l’impulso irrefrenabile di andare lei stessa a fronteggiare direttamente Roberta Moran.

«Ha mai avuto attriti con lei?» le chiese Frain.

«No.»

«A scuola, Annie è più brava di sua figlia?»

«Credo siano circa allo stesso livello.»

«Harry la conosceva?»

«Buongiorno, buonasera e basta.»

Frain si strinse nelle spalle. «Dovremo aspettare e sentire che cosa dice.»

Roberta Moran, con un aspetto più matronale del solito, si portò al banco, evitando accuratamente di guardare Vera. Il cancelliere le si accostò con aria svogliata. Lei posò la tozza mano sinistra sulla Bibbia.

«Giura solennemente di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità?»

«Lo giuro», rispose la Moran.

«Si sieda.»

Tremont allora si avvicinò con passo scattante al banco dei testimoni. «Buon giorno, Mrs. Moran», disse.

«Buon giorno», rispose la donna, con una traccia di nervosismo nella voce.

«Per il verbale, vuole darci nome e cognome completi?»

«Roberta Harriet Moran.»

«È sposata?»

«Sì.»

«E abita due case più in là dell’accusata?»

«Esatto.»

«Da quanto tempo è vicina di casa di Vera McKay?»

«Quando abbiamo traslocato lì tre anni fa, i McKay ci abitavano già.»

«Capisco. Come definirebbe i suoi rapporti con Vera McKay?»

«Siamo amiche. Ci vediamo alcune volte la settimana.»

«Un buon rapporto?»

«Cordiale… in apparenza.»

Vera si irrigidì di colpo a quella nota stridente.

«In apparenza?» domandò Tremont.

«Be’, sa, Vera era così tesa l’anno scorso che mi sentivo a disagio per lei.»

«Come descriverebbe questa tensione, Mrs. Moran?»

La Moran guardò Vera con un’espressione compassionevole, ma lei distolse lo sguardo.

«Be’», replicò la Moran, «non è facile parlarne…»

«Ci provi», insisté Tremont.

«Va bene. Vera e Harry non andavano d’accordo, capisce? Fingevano sempre il contrario, ma lei veniva sempre da me a lamentarsi del marito.»

Vera restò a bocca aperta per la sorpresa e l’indignazione.

«Di che cosa si lamentava, esattamente?» la incalzò Tremont.

Frain esplose: «Obiezione, vostro onore! Argomentazioni del genere si identificano con il pettegolezzo!»

«Obiezione respinta», brontolò Watson. «Risponda alla domanda, Mrs. Moran.»

«Be’, Vera, a dir poco, trovava che Harry era noioso. Tutto lavoro, capisce, e quando si dedicava alla famiglia, così diceva lei, sembrava dedicarsi quasi esclusivamente ad Annie.»

«Questo è tutto?»

«Evidentemente Harry non aveva una grande opinione di Vera. Perlomeno lei la pensava così. Sa, i McKay sono gente importante a Tarrytown e Vera, be’, non è che si ammazzasse in casa. E credo che i suoi commenti a proposito di altri uomini non migliorassero la situazione.»

«Sia più precisa, per favore.»

«Vera ha gli occhi lunghi. Mi spiace ammetterlo, ma è così. Avevo l’impressione che Harry lo sapesse. A Vera piaceva un amico di lui che lavorava alla Camera di Commercio.»

«E non ha mai dato seguito a queste… simpatie?»

«Non lo so.»

«Mi dica, Mrs. Moran, Mrs. McKay ha mai accennato a un suo interesse a divorziare da Harry?»

«Del matrimonio era insoddisfatta.»

«Voleva il divorzio, allora…»

Frain saltò su di nuovo. «Obiezione, obiezione! L’accusa sta influenzando la teste!»

«Obiezione accolta», stabilì Watson. «Stia attento, Mr. Tremont.»

Tremont annuì, avendo già raggiunto lo scopo e si rivolse di nuovo a Roberta Moran. «Mrs. Moran, Mrs. McKay non ha mai manifestato interesse a risolvere i suoi problemi matrimoniali?»

«Oh, sì.»

«In che modo?»

«Parlava di lasciare Harry e di portarsi via Annie, ma lei non è tipo da decisioni ferree, capisce? Aveva paura.»

Vera stava ormai fissando apertamente la Moran, quasi non volesse credere ai suoi occhi. «È una menzogna dietro l’altra», sussurrò a Frain. «Non c’è una parola di vero.»

Frain, accorgendosi della sua crescente agitazione, le mise una mano sulle sue, per tranquillizzarla. «Verrà il nostro turno», la rassicurò. Continuava però a scrutarla, preoccupato che lei non riuscisse a mantenersi calma.

«Non è vero», bisbigliò Vera. «Perché Roberta sta comportandosi così?»

Tremont continuò a battere il ferro. «Mrs. Moran», chiese, «se Vera McKay aveva paura di lasciare Harry, che cosa voleva fare, allora?»

«Oh, diceva di volergli parlare chiaro una volta per sempre, ma non lo faceva mai. Lui era così grande e grosso che lei aveva sempre paura di essere picchiata.»

«Nient’altro?»

«Be’…»

«Vada avanti.»

«A volte si dicono certe cose senza averne l’intenzione.»

«Tutta la verità, Mrs. Moran.»

Roberta Moran sbirciò di sfuggita in direzione di Vera. «Una mattina», riferì con un sospiro e un’espressione virtuosa, «Vera è venuta da me dopo che le bambine erano andate a scuola. In quell’occasione mi ha detto, più decisa che mai, quanto odiasse Harry. Ha detto…»

«Sì?»

«Ha detto: ‘Come vorrei che ci fosse qualcuno che lo facesse fuori’.»

Putiferio in aula.

Giornalisti che abbandonavano l’aula precipitandosi a telefonare per riferire quella testimonianza schiacciante. Spettatori che rumoreggiavano.

Frain, livido, si alzò ancora una volta. «Obiezione, vostro onore! L’affermazione è irrilevante e ingannevole. Molta gente dice cose che non pensa, dettate solo da impulsi emotivi del momento. La giuria non dev’essere influenzata…»

«Obiezione respinta. Proceda, Mr. Tremont.»

«Vostro onore», dichiarò il procuratore distrettuale, «non ho altre domande.» Guardò Frain. «A lei la teste», disse e quindi ritornò, trionfante, al proprio posto.

Larry Birch osservò attentamente Frain, domandandosi in che modo il maestro avrebbe controbattuto l’offensiva sferrata da Tremont proprio all’apertura del dibattito. Lo stesso Birch era profondamente scettico su Roberta Moran, insospettito dal suo comportamento da robot programmato: gli sembrava imbeccata. Scrisse sul taccuino che «la teste iniziale sembrava troppo perfetta, troppo ideale per l’accusa per essere attendibile. Pare uscita da un film di Hollywood, o da una vecchia commedia».

L’attenzione si concentrò sul Elwood Frain che si era alzato lentamente e si avvicinava al banco dei testimoni. Per un attimo rimase muto, limitandosi a fissare negli occhi un’ansiosa Roberta Moran.

«Buon giorno, Mrs. Moran», le disse in tono cupo.

«Buon giorno.»

«Mi consenta di porle una domanda, signora», proseguì Frain, soppesando ogni parola. «Lei ritiene che una donna che voglia uccidere il proprio marito andrebbe in giro a raccontarlo a tutti?»

Tremont balzò in piedi. «Obiezione! La domanda è capziosa!»

«Obiezione accolta», concesse Watson.

Frain sospirò. «Ritiro la domanda. Con la teste ho finito.» Tornò al suo posto. La domanda, non inserita a verbale, non si sarebbe però cancellata dalla memoria dei giurati.

«Questo è tutto il suo controinterrogatorio della teste?» gli chiese Watson.

«Sì, vostro onore, per il momento», rispose Frain.

Watson fece spallucce e fece cenno a Tremont di chiamare il teste seguente. Tremont si alzò. «Chiamo Lily Singleton.»

Vera era senza parole.

«Chi è?» le domandò Frain.

«La presidentessa dell’Associazione genitori-insegnanti. Lavoriamo assieme. È sempre in contatto con me. Era al party di Annie, quando è uscita dalla clinica.»

«Ha litigato con quella?»

«Mai.»

«Ne è sicura?»

«Mai.»

«Ha qualcosa contro di lei?»

«Non credo.»

Lily Singleton raggiunse con deliberata rapidità il banco e prestò giuramento come se fosse roba di tutti i giorni. Era l’immagine di un’organizzazione, di un dinamismo, di un’efficienza incredibili. Il morbido, lucente completo pantaloni di velluto era fuori luogo nell’aula, ma lei non se ne curava. Era l’ultima moda di Westchester e tanto bastava.

«Le sue generalità, signora?» le chiese Tremont.

«Lily Susan Singleton», sillabò la voce autoritaria, quasi metallica.

«Indirizzo?»

«Quattro sedici River Lane, Tarrytown.»

«Posso chiederle il suo rapporto con l’accusata?»

«Oh, conosco Vera McKay da circa tre anni. Lavoriamo assieme nell’AGI, che presiedo da due anni consecutivi.»

«A suo merito», commentò Tremont. «Mrs. Singleton, come descriverebbe Vera McKay?»

«Vera è sempre stata una delle nostre migliori collaboratrici», rispose la Singleton. «È competente ed efficiente. Le è sempre piaciuto lavorare per la scuola, diceva che la distoglieva dai suoi problemi.»

«Quali problemi, Mrs. Singleton?»

«Quelli che aveva con Harry.»

Vera la fissò. «È una menzogna!» esplose, questa volta abbastanza forte da essere udita da tutti.

Watson picchiò con il suo martelletto per superare il mormorio nell’aula. «Silenzio», impose pigramente. «Mrs. McKay, si astenga dall’interrompere.»

Frain si alzò. «La convenuta deplora la sua esclamazione», disse. «Ma ha trovato… difficile riconoscere il vero in ciò che è stato detto.»

Altro brusio tra i presenti.

Tremont proseguì. «Desumo, quindi, Mrs. Singleton, che Mrs. McKay avesse seri problemi matrimoniali.»

«Seri è un eufemismo. Erano di dominio pubblico a Tarrytown. Certa gente era pronta a scommettere quanto e se quel matrimonio sarebbe durato.»

«Il motivo di questo?»

«Be’, santo Cielo, Vera non si lasciava sfuggire occasione per lamentarsi di Harry. Ricordo che appena prima che lui… sparisse, o che cos’altro fosse, stavamo preparando gli addobbi per un ballo dell’Associazione e Vera ha affermato di non avere nemmeno accennato ad Harry che ci sarebbe stato un ballo.»

«Le ho detto perché non glielo aveva accennato?»

«Ha sostenuto che voleva venirci da sola… per divertirsi davvero.»

La folla cominciò a mormorare, ma il brusio fu subito zittito dalla domanda successiva.

«Quell’affermazione, signora, l’ha colpita?» domandò Tremont.

«Be’», rispose Lily Singleton, «non è così che si fa a Tarrytown, o in generale dappertutto, in occasioni del genere.»

«Come si è comportata Mrs. McKay al ballo?»

«Benissimo, in realtà. La gente che ignorava i suoi veri sentimenti le ha chiesto perché Harry non fosse presente. Pensavano non stesse bene e che lei fosse venuta perché faceva parte dell’Associazione.»

«Che cos’ha spiegato Mrs. McKay a quella gente?»

«Che Harry stava bene, ma che era voluto restare a casa per vedere alla TV una partita di pallacanestro. Lo ha messo in cattiva luce e mi sono accorta che ne godeva.»

«Quella sera le ha parlato dei propri sentimenti verso Harry?»

«Oh, sì.»

«Che cosa le ha detto, Mrs. Singleton?»

«Be’, eravamo circa a metà della festa. Vera sembrava divertirsi molto. Si guardò intorno e mi disse: ‘Sarebbe tutto così se lui fosse morto’.»

Emozione e mormoni in aula e ancora una volta i cronisti volarono a telefonare in redazione l’ultima novità.

Frain era turbato dalla deposizione della Singleton perché la teste era così sicura di sé. Non sarebbe stato facile metterla in difficoltà. Si chinò verso Vera. «Lei ha mai detto niente di tutto ciò?»

«No», rispose lei.

«Dobbiamo scoprire il motivo per cui queste donne depongono così. E ci sarà ben altro, mi creda.»

«Sono tutte d’accordo», commentò Vera con amarezza.

«Già, ma provi a dimostrarlo. Dovremmo riuscire a svelare che esiste una congiura.»

Vedendo che Frain la scrutava intensamente Vera capì quello che lui stava pensando. Dubitava di lei. Come ogni avvocato, anche Frain talvolta era stato ingannato dai clienti. Un’eventualità che gli faceva paura, che lo umiliava.

L’emozione in aula si placò quando il giudice Watson, consultando l’orologio in previsione dell’intervallo di colazione, picchiò con il martelletto. Dal momento che Tremont aveva praticato una così larga breccia nel fronte avversario, tutti si aspettavano che avesse concluso le sue domande e avrebbe passato la teste a Frain. Ma il procuratore distrettuale aveva da fare un’altra domanda.

«Mrs. Singleton, qualcuno potrebbe dire che il commento di Mrs. McKay era estemporaneo e insignificante. È accaduto qualcosa quella sera, o in qualche altra occasione, che le facesse pensare non fosse tale?»

Lily Singleton si mosse a disagio sulla sedia di legno. «Be’… sì», rispose.

«Ci dica, allora.»

«Più tardi, quella sera, Vera mi ha detto che si augurava che Harry morisse. Io l’ho presa sul ridere e le ho risposto che, sicuramente, non parlava sul serio, che in quel momento era arrabbiata con il marito. Ma lei ha ribattuto, e me lo ricordo esattamente: ‘Vedrai’. Nient’altro. Solo: ‘Vedrai’.»

Tremont si girò verso Frain. «A lei la teste, avvocato.»

«Nessuna domanda», dichiarò Frain. Riteneva inutile tentare di smantellare una deposizione basata su riferimenti precisi, per quanto scettico fosse sulla loro veridicità.

Watson, sollevato, poté pestare con il suo martelletto. «La seduta è aggiornata alle ore quattordici di questo pomeriggio.»

Pubblico e giornalisti si alzarono, stiracchiandosi, dando inizio agli interminabili commenti che sarebbero andati avanti anche ben oltre l’emissione del verdetto. Frain era seriamente preoccupato. Il fronte d’attacco di Tremont era chiaramente bene orchestrato e Frain sapeva che nei processi, come in guerra, il risultato era uno solo quando il numero era schiacciante su ogni altra cosa. E il pericolo era anche maggiore in una piccola città come Tarrytown.

Mentre l’aula si stava svuotando, ci fu un’improvvisa confusione sul fondo. Giornalisti e fotografi, costretti fuori durante la seduta, si piazzavano in posizione, a spese degli spettatori.

Era arrivato Ned McKay, tutto tirato a lucido, ma cupo in volto.

«Mr. McKay», gli chiese uno dei giornalisti, «perché non è venuto quando il processo è cominciato?»

«Ritenevo che la mia presenza potesse risultare inopportuna nella fase iniziale e ho voluto evitarlo. Ho deciso di venire durante l’intervallo, per poi restare un po’.»

«Ha saputo delle deposizioni delle testi?»

Ned sospirò e scosse la testa, sconfortato. «Sì», rispose con evidente tristezza. «Ho ascoltato la radio.»

«Che cosa ne pensa?»

Ned si strinse nelle spalle. «Che cosa posso dire? Che cosa si può dire? Sento cose cui non riesco a credere.»

Proprio in quel momento Vera e Frain lasciavano l’aula da una porta lì vicina. Alcuni cronisti si staccarono da Ned per intervistare i due, ma quasi tutti gli altri non si mossero, affascinati da un possibile incontro tra gli ormai nemici McKay. Un giornalista, anzi, tentò addirittura di spingere Vera, che si era fermata e fissava Ned. Frain tentò di trascinarla via, ma lei resisté. Era quello, dopotutto, l’uomo che aveva Annie e che, se lei fosse stata condannata, avrebbe potuto tenersela per sempre.

Le telecamere si accesero, in agguato. I giornalisti pregavano per un incontro-scontro, ma furono delusi. Vera, consigliata da Frain, che le sussurrava all’orecchio i pericoli di eventuali battute, di cui poi si sarebbe pentita, girò le spalle e si allontanò.

Allora si fece avanti Birch. «Ehi, Mr. McKay!» gridò. «Dov’è Annie?»

Ned McKay sorrise. «È a casa mia… con un’infermiera, naturalmente, una vecchia amica di famiglia. Non l’affiderei mai a nessun altro.»

«Non crede», domandò Birch, «che nel primo giorno del processo a sua madre lei dovrebbe essere con la bambina, cercando di renderle meno dura la cosa?»

Una tensione vorace immobilizzò l’orda dei giornalisti. Ned si accigliò e di colpo parve sulla difensiva. Maledisse tra sé quella domanda. «Sono stato con Annie questa mattina», rispose. «E naturalmente tornerò da lei non appena la seduta di questo pomeriggio si sarà conclusa. Oggi non vado in studio. Voglio stare con lei stasera. Amo moltissimo mia nipote.»

20

L’udienza riprese qualche minuto dopo le quattordici, con Ned McKay tra il pubblico.

Immediatamente Tremont riattaccò come un rullo compressore, trattenendo al banco docili testimoni a favore della rappresentazione. Deposero altre donne e Birch credette di riconoscere la voce di una di loro. Tutte seguirono fedelmente le orme delle testi della mattinata: Vera odiava Harry. I coniugi litigavano. Vera voleva togliersi di torno il marito. Nessuna dichiarò che lei aveva detto di volerlo uccidere, ma l’implicazione non passò inosservata alla giuria.

Il dibattimento continuò per due buone giornate interrotto soltanto da qualche testimonianza su aspetti tecnici. In una il detective Simeon esibì il martello trovato nel garage di Vera McKay. Frain tentò di sottolineare che il martello poteva esserci stato messo di proposito e poteva anche non essere appartenuto a Vera, ma persino lui intuiva che una marea prorompente stava salendogli contro. In effetti risultava che molti di coloro di cui Vera si era fidata per anni le si erano rivoltati contro. Mentivano, gli aveva detto lei. Ma chi poteva saperlo? Perché avrebbero mentito così in tanti?

Il terzo giorno scoppiò un’altra bomba.

«Chiamo Frances Crawford», proclamò Tremont.

Vi fu un immediato rumoreggiare nell’aula, punteggiato da esclamazioni di stupore. Frances Crawford, una rotondetta cinquantenne, era la moglie del reverendo Milton Crawford, uno degli ecclesiastici più stimati di Tarrytown e il più anziano proprietario terriero del posto. Che Frances Crawford potesse deporre per l’accusa sembrava impossibile. Quell’affabile, paciosa, artritica donna che cosa mai poteva conoscere che fosse disposta a usare contro una parrocchiana, una componente di una famiglia di vecchio ceppo?

Dopo i preliminari, quello che Frances Crawford sapeva diventò palese.

«Ha avuto un incontro con Mrs. McKay qualche mese prima che il marito scomparisse?» domandò Tremont alla moglie dell’ecclesiastico.

«Sì.»

Vera, stupefatta per la presenza della Crawford, restò seduta scuotendo la testa, una reazione che le era divenuta abituale durante gran parte delle deposizioni. «Non è vero», disse a Frain che a sua volta si era ormai abituato alla frase. «La conosco appena.»

«Ci descriva l’incontro», disse Tremont.

Mrs. Crawford si tormentò le mani, tentando di tirarsi le dita gonfie e irrigidite. «Be’», rispose, «Mrs. McKay mi ha telefonato, era agitatissima, e mi ha chiesto di riceverla.»

«Le ha precisato la ragione?»

«Oh, più o meno. Ha detto di avere un problema, un problema di coscienza. Le ho chiesto perché non si rivolgeva a mio marito e mi ha risposto che non credeva che lui avrebbe capito, mentre io sì, invece. Allora l’ho invitata a venire da me, senz’altro.»

«E Mrs. McKay che cosa le ha detto?»

Mrs. Crawford sospirò e scosse la testa, come fosse rattristata per quello che doveva rivelare. «Mi ha confessato che si era messa con un altro uomo.»

Di colpo Vera saltò in piedi, rovesciando una pila di carte sul tavolo della difesa. «È una menzogna!» La sua voce echeggiò per tutta l’aula. «Lei mente, come tutte le altre!» Frain tentò di afferrarla, ma lei si girò e lo colpì in viso con il pugno sinistro, un colpo che ebbe molto più effetto sulla gente in aula che non su Frain. Tuttavia l’avvocato piroettò su se stesso, facendo accorrere i suoi collaboratori.

«Tutto quanto qui è un’ignobile commedia!» gridò Vera.

Si scatenò il caos, mentre gli uscieri accorrevano per fermarla. «Non osate toccarmi!» gli ringhiò Vera. E questa volta tornò a sedersi, crollando con la testa sul piano del tavolo e singhiozzando.

Watson batté a più riprese il martelletto, con poco successo.

Frain, con un livido sulla faccia, era seduto su una sedia vicino al tavolo della difesa e scuoteva la testa perché era tutto intontito. Un’infermiera di servizio accorse al suo fianco, ma lui coraggiosamente la congedò con un cenno, per difendere il proprio prestigio e la propria dignità.

Larry Birch non si era perso niente della scena ed ebbe la certezza di avere assistito al naufragio di qualsiasi possibilità di salvezza per Vera. La sua attenzione, però, non era puntata su Vera, o su Frain e nemmeno su Tremont, ma sulla teste. Ecco lì, pensava, la moglie di un sacerdote, una donna che asserisce che Vera era andata da lei per avere guida e conforto. Eppure, davanti al suo tormento, se ne resta seduta sul banco dei testimoni, limitandosi a guardare freddamente, priva di qualsiasi espressione, la sua vittima. Come se Frances Crawford fosse una specie di macchina.

Frain, malfermo sulle gambe ma indomito, ritornò al tavolo della difesa. Da buon attore quale era, il suo primo atto fu di preoccuparsi di Vera.

«Vostro onore!» esclamò Frain. «La mia cliente è sconvolta di fronte a questa deposizione altamente discutibile. Chiedo una sospensione.»

Watson guardò Tremont. «L’accusa ha obiezioni?»

«No, vostro onore», rispose Tremont, ovviamente soddisfatto del collasso nervoso dell’accusata. «La pietà rende necessaria una sospensione.»

Watson consultò l’orologio. «Vista la situazione e l’ora, la corte si aggiorna alle nove di domani mattina.»

L’aula fu fatta sgomberare e gli uscieri fecero eclissare Vera e Frain da una porta laterale, distante dai giornalisti. Tremont si fermò per essere intervistato, ma l’obiettivo principale della stampa era Ned che, di fronte all’esplosione di Vera, si era limitato a chinare la testa. Si avviò lentamente verso il fondo dell’aula e, anche se non si offriva apertamente ai giornalisti, non mostrava nemmeno di volerli eludere.

«Mr. McKay», gli chiese una giovane cronista, «che cos’ha pensato durante la protesta di Mrs. McKay?»

Ned abbassò gli occhi, cercando la risposta adatta. «È difficile esprimerlo a parole», disse. «Devo ammettere che in parte ho pensato a me stesso. Sembra che dovrò avere cura di Annie più a lungo di quanto prevedessi. Dovrò cominciare a pensare a come allevarla, al vestiario, alla scuola, cose del genere.»

«La bambina è consapevole di quello che sta accadendo al processo?»

«Sì, lo è. Abbiamo pensato che sia meglio farle vedere la televisione. Sa com’è, cerchi di nascondere le cose a un bambino e non fai che peggiorare la situazione.» Sospirò profondamente. «Adesso vado a casa, da lei. La scena di oggi l’avrà sconvolta, naturalmente. Ha bisogno di me.» E, così dicendo, aggirò i giornalisti e si avviò in fretta alla sua automobile.

Frain e la Neuberger salirono in macchina con Vera per riportarla in fretta a casa. Troppo annichilita per connettere, se ne stava stoicamente sul sedile posteriore, distrutta. La Neuberger, al suo fianco, comprendeva come la sua amica si sentisse sola, brutalizzata e abbandonata.

«Una bella carogna, quella moglie del sacerdote», commentò la dottoressa. Frain la sbirciò, con aria seccata, ma lei lo ignorò. «Ho sempre diffidato della gente così intima con Dio. Ipocriti, ecco che cosa sono.»

Vera rimase in silenzio.

«Sono assalti rabbiosi che andranno a vuoto», proseguì la Neuberger. «Falliranno per il più profondo dei motivi.»

Vera parve rianimarsi di colpo. «Perché?» domandò, chiaramente scettica. «Perché dovrebbero fallire?»

La Neuberger, compiaciuta che Vera reagisse, rispose. «Al nostro uomo di legge, dal linguaggio ricercato, verrà da ridere, ma noi abbiamo il nostro segreto, vero?»

Per la prima volta da lungo tempo Vera abbozzò un sorriso. Un debole sorriso, pieno di sofferenza. «Sì», annuì, comprendendo che la Neuberger stava alludendo alle visioni di Annie.

«Colei che dal nulla», continuò la dottoressa, «ci protegge non è ancora intervenuta. All’inizio ne ero preoccupata. Forse era la fine. Forse non vi avrebbe più aiutate. Ma oggi, in tribunale, ho capito che c’era un’altra spiegazione. Non so al cento per cento se sia esatta, ma non manca di logica. Rifletta: questo angelo custode non ritiene che tutto quanto è successo in tribunale sia abbastanza grave da richiedere il suo intervento. Non crede che niente di questo arrechi danno effettivo. Aspetta, aspetta il momento in cui il suo aiuto sia effettivamente necessario.»

Frain si voltò di nuovo e di scatto. «Cerchi di smetterla!» la implorò, patetico. «Lei può influenzare molto negativamente il cervello di Vera.»

«No, invece!» esclamò Vera. «È l’unica che capisce.»

Frain roteò i suoi occhietti a mandorla.

«Pensa», domandò Vera alla Neuberger, «che tornerà?»

«Sono una comune mortale», rispose la dottoressa alzando la mano grinzosa con un’insolita aria di umiltà, «ma se colei che protegge torna, lo farà tramite Annie.»

Vera deglutì, cercando di controllarsi. «Annie non è con noi», disse con amarezza. «Potremmo non saperlo mai.»

«Allora, forse c’è qualcosa da tentare», rispose la Neuberger. Diede un colpetto sulla spalla di Frain. «Avvocato, lei conosce tutti quegli sfaticati delle alte sfere. Che cosa si può tentare?»

«Proprio niente», ribatté Frain, la cui voce già penetrante risuonò ancora più acuta nell’interno dell’auto. «Non crederà mica che possa ottenere una revoca basata su questi vaneggiamenti?»

La Neuberger non rispose. Inutile rispondere, perché lei e Vera conoscevano la risposta. L’improvviso ottimismo di un attimo prima si rafforzò. Evidentemente Annie sarebbe rimasta da Ned. Ma se il pericolo era costituito da Ned, Annie aveva con lei l’angelo protettore e si sarebbe salvata. L’unica certezza di Vera era che il processo sarebbe continuato e che Elwood Frain sapeva quale ne sarebbe stato l’esito, nonostante ogni suo sforzo.

Finalmente arrivarono a casa. Frain aiutò Vera a scendere e la scortò fino all’ingresso buio. L’andatura di lei risultava più lenta e esitante del solito e la Neuberger si rese conto che presto sarebbero occorse le cure del medico di famiglia per rimetterla, almeno fisicamente, in condizioni accettabili.

Ned McKay, di ritorno dal tribunale, salutò Annie con un abbraccio e un bacio. Chiaramente si era riguadagnato la sua fiducia, in parte coprendola di regali, tra cui il modellino funzionante di una stazione televisiva. Era di nuovo il vecchio zio Ned, pieno di entusiasmo e di attenzioni. Non c’era nessun presagio minaccioso o funesto.

«Come sta la mia mamma?» gli chiese Annie, come non mancava mai di fare.

«Oh, non c’è male», rispose Ned. «Oggi era un po’ nervosa, Annie cara. Lo vedrai alla TV. Ma credo che le passerà subito.»

«Ha dato un pugno all’uomo che le siede accanto», sbottò Annie.

«Sì. Sì, glielo ha dato.»

Mentre salutava l’infermiera, Ned capì che Annie aveva già visto il telegiornale. «Ma non penso che ne avesse l’intenzione. A volte basta un momento di nervoso. Direi che dovresti telefonare alla mamma e dirle quanto le vuoi bene.» Ned incoraggiava la piccola a telefonare a Vera almeno una volta al giorno.

Annie chiamò, ma fu la Neuberger a rispondere. Vera dormiva, sotto l’effetto di un tranquillante. La Neuberger spiegò che non si sentiva bene, ma che avrebbe richiamato quando si fosse svegliata. Annie ci rimase male, ma cercò di mostrarsi coraggiosa.

«Sono sicurissimo che la mamma starà bene», la rassicurò di nuovo Ned. «Adesso dorme proprio per rimettersi. Meglio non disturbarla, ti pare?»

«No», rispose Annie, docilmente.

«Perché non facciamo un gioco?» propose Ned.

«Okay. A Merlino.»

Merlino era un nuovo gioco elettronico che Ned aveva comprato qualche giorno prima. Andarono in soggiorno e si sedettero sul tappeto per giocare. Di solito Ned faceva vincere Annie, ma ogni tanto la batteva perché non si insospettisse. Come al solito, Annie cominciò a stancarsi dopo sette-otto partite, sbadigliando più volte e accelerando nelle battute conclusive. Per le sei e mezzo era pronta per la cena e un’ora dopo Ned la mise a letto.

Cominciò a leggerle Il palloncino rosso, uno dei suoi racconti preferiti. La prima volta che gliel’aveva letto, Ned aveva cercato di riassumerglielo, solo per accorgersi che Annie lo sapeva a memoria. Questa volta, mentre stava avvicinandosi alla conclusione, si accorse che la piccola faticava a tenere gli occhi aperti e ben presto si addormentò. Ned spense la luce, scese dabbasso, domandò all’infermiera dei progressi di Annie e poi la lasciò libera per il resto della serata.

Qualche minuto più tardi telefonò Elwood Frain. Di solito era lui a chiamare quando Vera voleva parlare con Annie, per evitare un contatto diretto tra Ned e Vera.

«La mia cliente vorrebbe parlare con la piccola», disse l’avvocato, come se annunciasse una visita regale.

«Apprendo che la sua cliente ha avuto una leggera collisione con la sua mascella», rispose Ned, incapace di rinunciare alla frecciata.

«Pura casualità», ribatté Frain. «La mia cliente stava manifestando la propria irritazione davanti a una deposizione particolarmente odiosa.»

«Bene», disse Ned in tono più cordiale, rendendosi conto di esser potuto sembrare ostile, «le auguro il meglio. Lei sa come la penso.»

«Naturalmente.»

«Annie non ne poteva più dal sonno. È andata a letto. Non ho voluto si stancasse troppo. Non può telefonare domattina?»

«Certamente», rispose Frain.

«Diciamo verso le otto», disse Ned, che concluse lì la telefonata.

Dopo che ebbe riattaccato compose un altro numero, irrigidendosi in tutto il corpo mentre completava le ultime cifre, come se il gesto avesse un profondo significato. All’altro capo del filo il telefono squillò una volta, due volte. Poi rispose una voce femminile.

«Tutto pronto», disse Ned. «Trovati qui all’ora esatta. Passa parola.»

La donna non rispose, limitandosi a riattaccare.

Poi Ned salì solennemente in camera sua e aprì un ampio ripostiglio. Sul fondo c’era un baule da marina, chiuso con due lucchetti. Li aprì servendosi di una chiave appesa alla catena del panciotto, sollevò il coperchio e guardò dentro. Il suo sguardo incontrò un mare di tessuto nero. «Questa notte», promise lui.

Annie dormiva bene a casa di suo zio. C’era già stata altre volte, quando Vera accompagnava Harry in qualche viaggio. Il letto nella stanza degli ospiti era soffice, l’atmosfera accogliente. Probabilmente, aveva detto Ned a una delle sue segretarie, Annie ci dormiva meglio che non a casa propria, con tutte le emozioni del processo.

Anche quella sera stava dormendo sodo. Durante le prime ore non aveva quasi cambiato posizione. Non risentiva nemmeno della forte umidità che era calata su Tarrytown insieme con una fitta nebbia. Era distesa, pacifica, con il braccio stretto attorno al cagnolino di pezza che lo zio Ned le aveva portato in ospedale.

E poi, all’improvviso, cominciò ad agitarsi.

Sollevò la testa dal cuscino e quindi la riadagiò, come se fosse troppo pesante.

Cercò di riprendere sonno, ma sollevò di nuovo la testa e aprì gli occhi, spalancati e spaventati. Strinse forte il cane di pezza.

Girò attorno lo sguardo. Il respiro le si fece affannoso. Le pareva di vedere qualcuno ritto di fronte a lei.

Era un sogno? Un incubo? Una visione? Non lo sapeva.

L’immagine di quelle persone si intensificò. Annie era terrorizzata e vi si concentrò tentando di decifrare la scena.

C’erano delle persone, in piedi, a semicerchio, tutte che la guardavano, gli occhi pieni di furore. Le scrutò una per una. Pensò di riconoscere una donna, ma senza esserne sicura. Erano vestite… in modo strano. Tuniche nere. Scarpe nere. Guanti neri.

Annie aguzzò gli occhi su un’altra donna. Sì, era Mrs. Moran.

E sembrava in collera.

E, vicino a lei, c’era Mrs. Singleton, la signora dell’AGI. Annie l’aveva vista spesso in giro per la scuola. Anche lei aveva un’aria feroce.

Annie saltò giù dal letto e cominciò a indietreggiare, ma la gente avanzava su di lei. Un uomo, al centro del gruppo, con il viso nascosto dal buio, accese un fiammifero. Prese da un tavolo una torcia, l’accese e la diede a Mrs. Moran. Poi, passando lungo il semicerchio, consegnò una torcia ad ognuno.

I volti emersero dalle tenebre.

Annie vide altri che conosceva: Mrs. Crawford, la moglie del pastore… e il dottor Laval.

«Mamma!» gemette Annie.

Spiava, confusa e dubbiosa, quegli adulti dal comportamento così strano.

«Mammina», mormorò di nuovo.

E poi anche l’uomo al centro, il capo, avanzò in piena luce. Era zio Ned. Sembrava più arrabbiato degli altri e anche lui era vestito di nero.

Annie indietreggiò ancora, ma era ormai contro la parete. Ebbe voglia di urlare. E di scappare. Ma da chi? Vera e la dottoressa Neuberger non c’erano. C’era soltanto Ned.

Annie era ormai terrorizzata, smarrita, una bimba sola, senza nessuno a cui ricorrere.

Ma si chiedeva anche: che cosa stava facendo quella gente? Che cosa stava facendo zio Ned?

Di colpo la visione cominciò a sbiadire. Annie allungò una mano per toccarla, ma continuava ad allontanarsi e ben presto scomparve.

Annie, ancora una volta al buio, dapprima non si mosse. Era spaventata, incerta su quanto aveva visto. Voleva chiamare lo zio Ned, ma l’immagine di lui vestito di nero le ricordò una precedente visione, quella di lui che veniva per ucciderla.

La bimba si riaccostò lentamente al letto e vi mise su un ginocchio, quasi a cercare rifugio sotto le coperte. Vi salì sopra, le molle cigolanti sotto il suo peso.

Poi udì dei rumori venire dal pianterreno.

Rumori strani.

C’era gente dabbasso. Forse zio Ned aveva ospiti, ma non gliene aveva parlato. E quei rumori non erano di persone riunite per un party: gli ospiti di Ned stavano cantando. Le voci ritmate risuonavano lugubri, minacciose.

Annie scese di nuovo dal letto e andò alla porta in punta di piedi, attenta a non fare il minimo rumore. Aprì l’uscio e una lama di luce si stagliò sul tappeto.

Il canto era più forte, ma Annie non riusciva ancora a capirne le parole. Sgusciò pian piano fuori della stanza, guardando da ogni parte che non ci fosse nessuno, e poi, rannicchiandosi, strisciò verso la cima delle scale.

Quel che vide là sotto la paralizzò di terrore.

Lì, nel soggiorno, ecco la sua visione che si materializzava.

C’era il semicerchio di persone, in piedi, con le torce… tutte vestite di nero.

C’era Mrs. Moran.

E Mrs. Singleton.

E il dottor Laval.

E, al centro, con la torcia tenuta più alta di tutti, c’era zio Ned.

L’espressione sul suo volto era determinata, cattiva, sinistra. Un’espressione che Annie non gli aveva mai visto.

E continuavano a cantilenare, monotoni… sempre le stesse parole che echeggiavano attraverso il pianterreno e su per le scale sino a lei.

Con il cuore che le batteva all’impazzata, tremando in tutto il corpo, Annie cominciò a scivolare verso la stanza di Ned, pregando di non venire sorpresa. Il suono della cantilena le riempiva le orecchie, ma copriva anche ogni suo rumore.

Quando fu nella camera dello zio si precipitò al telefono e con dita nervose e sudate formò il numero di casa sua.

«Per favore, mammina», sussurrò, «per favore, sii a casa.»

L’apparecchio squillò una volta, due volte, poi una terza.

Vera, addormentata, sfinita dagli avvenimenti della giornata, non si svegliò che al quarto squillo. Intontita, sollevò il ricevitore, pensando si trattasse di qualche altro maniaco che si divertiva ad angosciarla.

«Pronto.»

«Mamma?»

«Piccola mia!» Vera si sedette di colpo.

«Mammina, ho paura!»

«Che cosa? Annie?»

«Mammina, è terribile!»

La Neuberger, che aveva teso l’orecchio sin dal primo squillo, uscì di volata dalla stanza attigua per ascoltare a una derivazione.

«Annie», domandò Vera, «che cos’è successo?»

«Mamma!» il respiro ansimante di Annie ne rendeva poco intelligibili le parole. «Mamma, loro sono giù al pianterreno.»

«Loro chi? Annie, cerca di calmarti!»

«Zio Ned», rispose Annie. «È giù dabbasso con delle altre persone. C’è Mrs. Moran. E Mrs. Singleton. Prima le ho viste come in un film.»

«Una visione», intervenne la Neuberger. «Ha avuto un’altra visione.»

«Sì», disse Annie. «Vedevo quella gente che mi stava intorno, tutta vestita di nero. Avevano in mano dei bastoni, mammina. Li tenevano alti, con il fuoco in cima.»

«Torce», disse la Neuberger.

«Poi il film è sparito e adesso loro sono per davvero giù dabbasso. Cantano una canzone!»

Vera, disorientata, capiva solo in parte quanto Annie le stava dicendo. «Che cosa stanno cantando, tesoro?» domandò.

«Di me, credo», bisbigliò Annie. «Ho paura, mamma!»

La Neuberger si intromise. «Annie, dobbiamo sapere che cosa stanno cantando. Alza il ricevitore.»

Annie corse alla porta e la spalancò, tirando il filo del telefono così da dirigere il ricevitore verso la tromba delle scale.

Vera e la Neuberger sentirono. Il canto era rabbioso, sinistro. Filtrava attraverso il telefono in tutta la sua agghiacciante follia:

LA BAMBINA DEVE MORIRE

LA BAMBINA DEVE MORIRE

IL NOSTRO CAPO È IL MESSAGGERO DI SATANA

TUTTI QUELLI DEL SUO STESSO SANGUE DEVONO PERIRE

LUI DEVE ESSERE IL SOLO

LA BAMBINA DEVE MORIRE

ANNIE MCKAY DEVE MORIRE

La voce di Ned McKay sovrastava le altre, facilmente identificabile tra il coro.

Per un attimo Vera e la Neuberger rimasero incapaci di parlare, le loro menti paralizzate dal nuovo incubo. La prima a riprendersi fu la Neuberger. «È una setta», disse con calma, intuendo l’importanza di mantenere il controllo. «È una setta di streghe.»

«Mio Dio», mormorò Vera. «Ned…»

Ma ad Annie le teorie non interessavano. «Mamma, che cosa devo fare?» domandò e cominciò a piangere.

«Annie!» esclamò la Neuberger. «Adesso ascoltami bene. Rimani lì al telefono. Io vado subito a un altro apparecchio e torno.» Mise giù il ricevitore e si affrettò a un altro telefono che Harry aveva fatto installare in casa per suo uso d’affari. Rapidamente chiamò la polizia. «Devo segnalarvi un incendio», dichiarò. «Forse doloso. Una strana faccenda.» Diede l’indirizzo di Ned e quindi fece un’identica telefonata ai pompieri.

Tornò di corsa all’apparecchio in linea con Annie. «Annie», ordinò, «devi scappare da quella casa. Subito! Adesso arriviamo anche noi. Fa’ come ti dico!»

Riattaccò e si affrettò a raggiungere Vera, che era ancora seduta, inebetita, il ricevitore appoggiato all’orecchio. La Neuberger glielo tolse di mano e lo riappese. «Qui non le siamo di alcun aiuto», le disse. «Si infili qualcosa. Andiamo là con la polizia. Adesso il pericolo è grande!»

«Che cosa le succederà?» gemette Vera.

«Si vesta!» gridò la psicanalista. «Vuole aiutarla o no?»

Terrorizzata, ossessionata da orribili presagi, Vera scese dal letto.

«Adesso capisco», le disse la Neuberger, mentre Vera afferrava i vestiti. «Avrei dovuto sospettarlo. Suo cognato, quel Ned, è il capo di questa setta di indemoniati. Da quello che cantavano sappiamo che lo considerano il messaggero di Satana sulla terra.

«Ma il messaggero dev’essere puro. Nessun altro può esistere avendo lo stesso suo sangue. Quindi, questo Ned deve distruggere tutti i propri consanguinei, quale atto di devozione a Satana.»

Vera la guardò, il volto devastato dall’angoscia più torturante. «È lui che ha ucciso Harry.»

«Sì», rispose la Neuberger, «questo è ovvio, adesso.»

«E Annie!…»

«Ha già tentato di ucciderla, come diceva la visione. Adesso non dobbiamo perdere un minuto. Il loro rito sta procedendo ancora. Ned deve eliminare Annie, un altro discendente dello stesso sangue, che ha nelle vene il sangue di suo fratello. Dalle torce deduco che il piano è di servirsi del fuoco, per poi dire che è stato un incendio a colpire la casa.»

Vera e la Neuberger corsero fuori e salirono in macchina. Partirono a tutta velocità, dirette verso l’abitazione di Ned, che distava quattro minuti, i quattro minuti più lunghi della vita di Vera.

In lontananza udirono le sirene che ancora una volta ululavano per i McKay.

Le auto della polizia e le autopompe convergevano sulla casa di Ned.

Annie cercava di fuggire. Al primo piano c’era un balcone, ma Ned lo aveva chiuso a chiave. Annie sapeva che c’erano finestre che davano sul tetto piatto dell’autorimessa, circa un metro più sotto, ma anche quelle erano bloccate. Pensò di correre giù dalle scale, al pianterreno, e di lì guadagnare il portone, ma c’erano Ned e gli altri.

Non c’era nessuna via di fuga.

E, mentre la cantilena proseguiva, Annie riuscì alla fine ad afferrare le parole della sua condanna:

LA BAMBINA DEVE MORIRE

LA BAMBINA DEVE MORIRE

ANNIE MCKAY DEVE MORIRE

E Annie pensò che sarebbe diventata realtà.

21

Autopompe e macchine della polizia arrivarono quasi contemporaneamente.

Ned ne scorse le rosse luci lampeggianti mentre si avvicinavano e le sirene lanciavano il loro penetrante avvertimento.

«Qualcuno ha visto le torce!» gridò Ned, interrompendo il demoniaco canto di morte. «Stanno arrivando. Ci scopriranno!»

Il panico sembrò paralizzare gli adepti.

Disperatamente cercarono di strapparsi di dosso i loro paramenti, tentarono di nascondere le loro segrete esistenze. Per fuggire e ricostituire la setta.

Ma le sirene e il lampeggiare delle luci li rendevano frenetici e imprudenti. Gettarono via le torce a casaccio, senza preoccuparsi di dove andavano a finire. Ned fu il solo a tentare di spegnere le fiamme.

Una lambì una tenda. Nel giro di pochi attimi la incendiò e il fuoco si estese guizzante a un divano, divampando poi in tutta la casa, divorandola. Era impossibile controllarlo. Le fiamme si propagarono selvaggiamente per tutto il pianterreno. Le porte si erano bloccate.

Prima ancora che le autopompe si fermassero ne balzarono giù i vigili del fuoco per aprire gli idranti.

Ma Ned comprese: era troppo tardi. Tutt’intorno era fuoco. I seguaci di Satana cadevano, soffocati dal fuoco. I loro paramenti li avevano trasformati in torce umane.

Ma c’era un ultimo atto di devozione.

«La piccola deve morire!» intonò Ned, come suprema sfida alla morte. «Annie McKay deve morire!»

Afferrò una torcia e la gettò su per le scale. Subito un arazzo sulla parete prese fuoco. Annie si rifugiò di corsa nella camera di Ned, ma già avvertiva il calore dietro di sé. Il fuoco le rendeva difficile respirare.

Cominciò a tossire.

Picchiò con il pugno contro le imposte della finestra, ma le sue mani erano troppo deboli per rompere il vetro. Vide l’auto di sua madre arrivare a tutta velocità e fermarsi con una paurosa sbandata davanti alla casa.

«Mamma!» gridò e picchiò contro i vetri con tutta la forza. Ma le sue grida divennero presto un rantolo orribile con l’infittirsi del fumo.

Vera scorse Annie che gridava e gesticolava. Istericamente si slanciò verso il primo piano, attirando l’attenzione dei pompieri. Cercò di precipitarsi nel rogo per salvare Annie, ma un vigile del fuoco la bloccò, facendola quasi cadere per terra.

«Resti qui, signora!» le gridò.

«Mia figlia è lassù!» urlò di rimando Vera.

«Ci pensiamo noi!»

Ma Vera riusciva a pensare solo all’incendio dell’edificio del centro, l’incendio che Annie aveva previsto con la sua visione. Ricordò i cadaveri, l’orrore… e adesso Annie era intrappolata.

Tutto le si confuse davanti agli occhi, mentre il fumo si levava alto dalla casa. Un muro crollò, rivelando la spaventosa visione della setta, dei corpi dei suoi adepti contorti dalle fiamme, riversi sul pavimento.

I pompieri, con veloce efficienza, innalzarono una scala a telescopio fino al primo piano. Prima che Vera se ne rendesse conto un tenente vi si arrampicò, ruppe la finestra con un’ascia e trasse in salvo Annie.

Annie dal viso arrossato e i capelli strinati.

Ma viva.

L’angelo custode era intervenuto.

E, mentre la trasportavano giù dalla scala, Annie si guardò alle spalle e colse l’ultima, definitiva fugace visione dello spaventoso ghigno satanico sul volto di zio Ned.

Più tardi, nel caos delle rovine fumanti, la polizia di Tarrytown, sempre sotto la guida del detective Simeon, trovò il baule e, dentro, un taccuino bruciacchiato su cui Ned aveva scritto la storia della setta. Aveva orgogliosamente documentato come avesse assassinato Harry con un martello, nascondendo poi l’arma nel garage di Vera. Di fianco all’annotazione c’era scritto: «E così vuole Satana».

Più avanti la descrizione, sempre di Ned, di quello che sarebbe successo ad Annie McKay: «La sua carne sarà mutata in cenere, le sue ossa in carbone».

Quelle note liberavano Vera da qualsiasi imputazione. Entro ventiquattr’ore S. Richardson Tremont si presentò al giudice Watson per riconoscere che la sua accusa non aveva più ragion d’essere. Con rara magnanimità, chiese che ogni addebito venisse rimosso, richiesta che Watson esaudì subito.

I giornalisti si accalcarono sul prato davanti alla casa di Vera, come avevano già fatto tante volte dopo la sparizione di Harry McKay. Ma adesso l’atmosfera era di festa, di vittoria. Cronisti che avevano formulato i più gravi dubbi sull’onestà di Vera, di colpo la trovavano immagine del coraggio e simbolo dell’amore materno. Larry Birch sottolineò, in un suo articolo, che «i medici sotterrano i loro errori e i giornalisti archiviano i propri». E, prendendo appunti e stilando articoli, i reporter avevano ancora sott’occhio il fumo che saliva dai resti della casa di Ned McKay.

Di lì a un paio di giorni, però, una certa normalità ritornò in casa di Vera e Annie. Ma, inevitabilmente, una domanda aleggiava nell’aria: la «protettrice» sarebbe tornata? Fu la prima domanda che Vera rivolse alla Neuberger, quando la confusione e l’emozione si furono placate. Le due donne erano sedute assieme nel soggiorno, mentre Annie giocava al piano di sopra. La Neuberger ci aveva pensato, all’angelo custode, riflettendo sul suo ruolo futuro nell’esistenza di Annie.

«Credo», disse la psicanalista, «che sia stata l’ultima volta che è venuto in difesa della bambina.»

Vera ne fu sorpresa e rattristata. «Non aiuterà più Annie?»

«Naturalmente non posso esserne certa», ribatté la Neuberger, «ma ne dubito. Vede, la protettrice è venuta in un momento cruciale per Annie. La sua vita era minacciata da un parente. Lo spirito di Harry McKay è intervenuto attraverso l’angelo custode per salvare la propria figlia. Ma Ned era l’unico pericolo e Harry lo sapeva. Adesso, Vera, suo marito può riposare in pace e credo che anche la protettrice riposerà. Secondo la mia esperienza, gli spiriti dell’aldilà, nel nulla, intervengono soltanto nelle questioni più gravi.»

Vera guardò su verso le scale. Comprese all’improvviso che Annie aveva perduto parte di sé. La piccola, privata del padre, era anche priva dello spirito di lui. E la protettrice, chiunque fosse, non avrebbe più vegliato su di lei. «È come se Dio se ne fosse andato», disse.

La Neuberger annuì solennemente. «Quello che dice è molto profondo», commentò. «Ha ragione. È come se Dio se ne fosse andato.»

Vera chinò la testa. Per un attimo pensò soltanto a una tomba, là nel Kansas. La sua mente vi si concentrò e non riuscì a liberarsi da quel pensiero. La tomba di una bambina che, dall’aldilà, era diventata la protettrice di Annie. Vera si appoggiò allo schienale della sedia, consapevole di un’ossessione che si stava impadronendo di lei. «Chi era?» bisbigliò, troppo sommessamente perché altri potessero udirla. «Mi domando, chi era?»

EPILOGO

Vera non avrebbe avuto pace finché quella domanda non avesse avuto risposta. La domanda che dominava i suoi pensieri, i suoi progetti, i suoi discorsi. Anche dopo che Marie Neuberger se ne fu tornata a Manhattan, Vera continuò a telefonarle ogni giorno, alla ricerca febbrile di un modo qualsiasi per scoprire l’identità della bambina morta nel Kansas. Da Larry Birch aveva appreso che ormai le autorità di Topeka sapevano chi era, l’avevano fatta seppellire, ma non erano riusciti a rintracciare nessun parente. Finché non l’avessero trovato il nome della defunta restava segreto.

«Forse non lo saprà mai», le fece osservare la Neuberger, parlando al telefono nella propria cucina oscura e ben rifornita.

«Ma non riesco a togliermelo dalla testa. Perché lo spirito di quella bambina era così strettamente legato a quello di Harry?»

«Questo non lo so», le rispose la Neuberger. «E sapere chi fosse può anche essere controproducente.»

«Venga con me nel Kansas», la implorò Vera. «Forse andando là di persona…»

«Ma lei ha già scritto più di una lettera.»

«È molto facile ignorare le lettere», ribatté Vera. Il suo atteggiamento, la Neuberger lo capiva, rifletteva una determinazione nuova, un nuovo spirito di fiducia in se stessa che era andato aumentando dopo che l’incubo era finito.

«Conosco bene questi burocrati», disse la Neuberger. «Loro non pensano. Sanno solo quello che c’è nei regolamenti. Non mi va l’idea che lei si faccia tutto quel viaggio per subire una delusione. Che potrebbe essere grossa e angosciarla.»

«A questo sono preparata», insisté Vera. «Non possono ferirmi più di quanto non lo sia già stata.»

«Questo sì che è coraggio! Sono fiera di lei.»

«La prego, venga con me, allora», la supplicò di nuovo Vera. «Perlomeno è una possibilità. Forse troviamo una scappatoia alle leggi locali. O forse c’è il modo di aggirarle. Se ci mettiamo a discutere con calma con quelli là e…»

«D’accordo, d’accordo», finì con il dire la dottoressa. «Vengo con lei, ma soltanto sotto il profilo del rapporto tra medico e paziente, questo sia chiaro.»

«Naturalmente», concordò Vera. Anche se le probabilità le erano nettamente sfavorevoli, il fatto che la Neuberger fosse disposta ad accompagnarla nel Kansas le causava un enorme ottimismo. Almeno qualcosa si faceva. Non aveva mai rinunciato alle proprie speranze.

Il viaggio fu programmato per i giorni immediatamente precedenti il Natale.

C’erano sei gradi sotto zero quando Vera e Marie Neuberger arrivarono a Topeka. Subito dopo avere prenotato una camera in un albergo modesto, ma pulito, le due donne si recarono dal funzionario preposto agli archivi del Dipartimento di polizia di Topeka, con il quale avevano preso appuntamento.

Rodney Earl Seivart governava il suo piccolo impero da un improvvisato ufficio al terzo piano della centrale di polizia. Era in effetti un piccolo locale già adibito a magazzino, adiacente alla sezione archivi. Una parete della stanza era costituita da una rete metallica e chiunque passasse per il corridoio poteva vedere esattamente quello che Seivart stesse facendo.

«Speravo che non veniste», disse Seivart a Vera e alla Neuberger, appoggiandosi allo schienale della sedia. «Non posso fare nulla per voi. Nessuno può fare nulla, neanche il sindaco di Topeka. La legge è chiara, signore.»

«Non si potrebbe fare qualcosa… in modo non ufficiale?» gli domandò Vera.

«Mi sta chiedendo di infrangere la legge, signora?»

«No, non esattamente. Be’… sì, un piccolo strappo alla regola. Lo si fa continuamente, ne sono certa.»

«Forse a New York», ribatté Seivart, intrecciando le mani dietro la nuca e guardando fuori dell’unica squallida finestra. «Ma non qui. Siamo molto ligi, a Topeka.»

«Non ne dubito», rispose Vera, cercando di essere gentile, ma ribollendo per il comportamento di Seivart.

«Mi scusi», intervenne la Neuberger, «posso farle una domanda?»

«Certo», disse Seivart. Squadrò la Neuberger dalla testa ai piedi, sul punto di scoppiare a ridere per gli abiti fuori moda che lei indossava.

«Se conoscere l’identità della bambina morta risultasse utile alla mia attività professionale, non potremmo intenderci? Quasi tutti gli Stati aiutano la ricerca scientifica.»

Seivart sorrise. Un sorriso noncurante che dimostrava ogni assenza di comprensione. «Signora, il suo tipo di ricerca non è riconosciuto qui da noi. Inoltre la legge non prevede la cosa.»

«Lei ne è proprio sicuro?» gli chiese la Neuberger.

«Conosco la legge a memoria. Vuole che gliela citi?»

«No no no. Ce la risparmi.»

Seivart si alzò bruscamente. «Se non c’è altro in cui possa essere utile, signore…»

«Non è disposto ad aiutarci in nessun modo?» gli domandò Vera.

«Nel caso specifico, no, ormai è chiuso. Ora, se permettete, avrei un altro impegno.»

Un agente scortò, quasi spinse, fuori dell’ufficio e della Centrale Vera e la Neuberger. Le due donne si trovarono sul marciapiede, senza avere concluso assolutamente nulla. La loro prima giornata a Topeka era finita male.

La stessa storia si ripeté più e più volte. Andarono dal capo della polizia, dal coroner della Contea, ebbero perfino un breve abboccamento con il vicesindaco. Larry Birch fece in modo che i giornali locali le intervistassero e uno pubblicò un succinto editoriale sollecitando il consiglio comunale a fare un’eccezione alla legge circa la notifica ai consanguinei del defunto, visto la speciale natura del caso McKay. Il consiglio rifiutò di prendere in esame la faccenda. Tutti sembravano volere ignorare la richiesta di Vera.

Allora lei si rivolse personalmente alle autorità religiose, ma anche loro se ne lavarono le mani, dichiarandosi incompetenti davanti alla legge. E la Neuberger, la cui reputazione la seguiva ovunque, fece un buco nell’acqua quando tentò di ottenere l’appoggio dell’ordine dei medici di Topeka.

Dopo quattro giorni Vera cominciò a rendersi conto che, probabilmente, non sarebbe mai riuscita a conoscere l’identità di colei che aveva protetto Annie.

La mattina del quinto giorno, lei e la Neuberger stavano nella camera dell’albergo, occupate in silenzio a fare le valigie, quando trillò il telefono. Vera sollevò il ricevitore.

«Pronto?»

«Signora», disse una fresca voce maschile, «parlo con Mrs. McKay?»

«Sì, sono io.»

«Signora, qui è il portiere. È arrivata una lettera per lei e non volevo che la dimenticasse al momento di partire.»

«Oh… grazie», disse Vera. «Da chi è spedita? C’è l’indirizzo del mittente?»

«Un attimo, prego.» L’impiegato prese la lettera dalla casella di Vera e riprese il ricevitore. «Non c’è il mittente. Ma il timbro postale è di Topeka, quindi deve essere stata spedita da qualcuno qui in città.»

«Grazie mille», ripeté Vera.

Chi poteva scriverle da Topeka? Vera non riuscì a dominare la curiosità. Lei e la Neuberger smisero di colpo di affaccendarsi con le valigie e scesero nella hall in ascensore.

Al banco Vera ritirò una busta bianca. Conteneva soltanto un biglietto di carta su cui era scritto: «Tomba 2015. Città».

Un improvviso brivido gelato attraversò Vera, ma, senza mostrare segni esteriori di emozione, passò il foglietto alla Neuberger. Temeva una burla crudele.

Non avrebbe mai saputo che il biglietto era stato spedito da una giovane impiegata di un piccolo ufficio comunale che amministrava il cimitero pubblico. La ragazza aveva letto di Vera sul giornale e si era impietosita. Potendo consultare correntemente, per ragioni di lavoro, le registrazioni tombali, si era presa la responsabilità di rilevare il numero della fossa.

«Dobbiamo andarci… subito!» disse la Neuberger.

«Sì», mormorò Vera.

Le due donne si fecero portare in taxi al cimitero cittadino, in uno dei sobborghi di Topeka. Il camposanto era ben tenuto, con file di piccole lapidi inserite nel terreno, con la numerazione delle tombe. Circa metà delle lapidi portavano l’iscrizione «Sconosciuto».

Il cimitero era aperto al pubblico e Vera e la Neuberger vi si addentrarono senza attirare particolare attenzione. Anziché domandare dove fosse la 2015 si misero a percorrere il viale principale, orientandosi con l’andamento della numerazione delle fosse.

Quando furono all’altezza della tomba 1700 il cuore di Vera cominciò a galoppare. La consapevolezza di quanto stava accadendo cominciò a dominarla. Per un attimo si fermò, le gambe che non la reggevano, e la Neuberger, subito, fece il gesto di sorreggerla.

«Sto bene», disse Vera senza fiato e riprese a camminare.

Un altro tratto.

Superarono la fossa 1956.

Poi la 1987.

Vera accelerò.

Cominciò quasi a correre, ma la Neuberger la trattenne.

«Non si mostri troppo ansiosa», l’ammonì. «La gente ci vede.»

Apparve la tomba 2004, appena vicina al viale. Vera e la dottoressa si fermarono, poi cominciarono a camminare lentamente, lasciando il viale, tra i contrassegni delle tombe. Vera le contò senza neanche guardare i numeri.

La vide quando distavano di sei fosse.

Doveva essere la 2015.

Gli ultimi metri… e si fermarono davanti alla 2015. Poi guardarono la dicitura.

Vera arretrò, quasi svenendo, allorché lesse il nome: «LAURA ELLEN MCKAY».

«Chi è questa?» chiese la Neuberger, stupefatta al nome di McKay.

Vera strinse gli occhi, come se rivivesse tutto un passato. «È di Harry», sussurrò. Lacrime le filtrarono tra le palpebre chiuse. «Ne sono sicura», aggiunse. «Harry aveva una figlia illegittima nel Kansas. Era un segreto di famiglia. La madre era fuggita con la piccola e Harry non l’aveva mai più rivista. Almeno… almeno la madre le aveva lasciato assumere il nome di McKay.»

E quindi Vera volse le spalle alla tomba.

«Adesso è chiaro», disse la Neuberger annuendo cupamente, mentre la portata della demoniaca carneficina diveniva evidente. «Ned ha trovato la bambina e l’ha uccisa durante un viaggio nel Kansas, spingendola su un binario della ferrovia. Ha dovuto farlo perché lei portava il sangue di Harry e tutti i consanguinei dovevano morire.

«Ma da morta lei è diventata di nuovo figlia di Harry… e la protettrice di Annie. È diventato l’angelo custode della sorellastra che non aveva mai conosciuto. Ha salvato la discendenza di sangue che Ned e la sua setta volevano distruggere.»

Per due buoni minuti dopo la spiegazione della Neuberger Vera rimase quasi immobile. Rimase muta, preferendo restare perduta nei propri pensieri, nel proprio ricordo di tempi più felici. Ma poi si girò di nuovo e si avvicinò lentamente alla tomba. Si inginocchiò e spazzò via un po’ di terra accumulatasi sul piede dell’iscrizione.

E allora, ansimò, la gola serrata da un nodo.

C’era lì una scritta, incisa a mano, leggera, appena leggibile:

«La bambina deve morire, la bambina deve morire».

«Ned è riuscito in qualche modo a tracciare queste parole», disse la Neuberger. «Se non fosse stato per questa bambina le avrebbe tracciate anche sulla tomba di Annie.»

Vera si alzò e fissò per qualche istante il nome, laura ellen mckay. «Era una buona sorella», disse.

«Sì», rispose la Neuberger, «lo era.»

E uscirono dal cimitero.

FINE