Ma Le tombe di Atuan è anche e soprattutto la storia di Tenar, la bambina consacrata alle Potenze tenebrose della Terra, che viene privata di ogni cosa: casa, famiglia, persino del suo nome, per divenire Arha, la sacerdotessa delle tombe di Atuan, destinata a vivere nella solitudine più profonda del suo regno cupo e oscuro fino all’arrivo di un ladro saggio e audace che la libererà dal suo triste fato di sepolta viva.

Ursula Le Guin

Le tombe di Atuan

Solo nel silenzio la parola,
solo nella tenebra la luce,
solo nella morte è vita;
fulgido è il volo del falco
nel cielo deserto.

La creazione di Éa

PROLOGO

—  Vieni a casa, Tenar! Vieni a casa!

Nella valle profonda, al crepuscolo, i meli erano alla vigilia della fioritura; e qua e là, tra i rami in ombra, un fiore s’era aperto prematuramente, roseo e bianco, come una stellina fioca. Lungo i filari del frutteto, tra l’erba nuova, folta e umida, la bambina correva per la gioia di correre; quando si sentì chiamare non andò subito, ma fece un lungo giro prima di dirigersi verso casa. La madre, che attendeva sulla soglia della casupola, con la luce del fuoco alle spalle, guardava quella figuretta minuscola che correva e saltellava come un ciuffo di lanugine del cardo portato dal vento sopra l’erba già oscurata, sotto gli alberi.

Dall’angolo della casupola il padre, intento a raschiare una zappa incrostata di terra, disse: — Perché ti sei affezionata tanto alla piccola? Verranno a prenderla il mese prossimo. Per sempre. Tanto varrebbe seppellirla e non pensarci più. A cosa serve aggrapparti così a qualcuno che tanto dovrai perdere? Lei non vale nulla, per noi. Se ce la pagassero, quando la porteranno via, sarebbe già qualcosa; ma non ci pagheranno. La porteranno via e tutto finirà lì.

La madre non disse nulla, e seguì con gli occhi la bambina che s’era fermata e aveva alzato la testa per guardare tra i rami. Lassù, sopra le alte colline, sopra i frutteti, la stella della sera brillava di un chiarore penetrante.

—  Lei non ci appartiene: non è mai stata nostra, da quando sono venuti loro e ci hanno detto che doveva diventare la Sacerdotessa delle Tombe. Perché non vuoi capirlo? — La voce dell’uomo era inasprita dal rammarico e dall’amarezza. — Abbiamo altri quattro figli. Loro resteranno, e questa no. Quindi, non affezionarti troppo a lei. Lasciala andare!

—  Quando verrà il momento — replicò la donna, — la lascerò andare. — Si chinò verso la piccola che arrivava di corsa con i candidi piedini nudi sul suolo fangoso, e la raccolse tra le braccia. Mentre si voltava per entrare nella casupola, piegò la testa per baciare i capelli della piccola, che erano neri; ma la sua chioma, nella luce guizzante del focolare, era bionda.

L’uomo rimase fuori, con i piedi nudi e freddi posati sul suolo, e il cielo limpido della primavera che si oscurava sopra di lui. Nel crepuscolo, il suo volto era colmo di angoscia: un’angoscia cupa, pesante, rabbiosa, che lui non avrebbe mai saputo esprimere a parole. Alla fine scrollò le spalle, e seguì la moglie nella stanza rischiarata dal fuoco ed echeggiante delle voci dei bambini.

LA DIVORATA

Un corno risuonò, stridulo, e tacque. Il silenzio che seguì era rotto soltanto dallo scalpiccio di molti passi che seguivano il ritmo di un tamburo percosso in sordina, a colpi lenti come il battito di un cuore. Attraverso le crepe del tetto della sala del trono, gli squarci fra le colonne dove un intero tratto di mattoni e di tegole era crollato, la luce incerta del sole scendeva obliqua. Era trascorsa un’ora dall’alba. L’aria era immota e fredda. Le foglie morte delle erbacce che erano cresciute aprendosi a forza un varco fra le lastre marmoree del pavimento erano orlate di brina; e scricchiolavano un poco, impigliandosi nelle lunghe vesti nere delle sacerdotesse.

Avanzarono, a quattro a quattro, lungo l’immensa navata, tra le doppie file di colonne. Il tamburo rullava cupamente. Non una voce che parlasse, non un occhio che guardasse. Le torce portate dalle fanciulle nerovestite ardevano rossastre nei raggi del sole, più fulgide nell’oscurità. Fuori, sulla gradinata della sala del trono, stavano gli uomini: guardie, trombettieri, tamburini; ma oltre le grandi porte erano venute soltanto le donne, vestite di scuro e incappucciate, che camminavano lentamente, a quattro a quattro, verso il trono vuoto.

Due donne procedevano, alte e maestose nei drappeggi neri: una era esile e rigida, l’altra era pesante e ondeggiava un poco ogni volta che posava il piede sul pavimento. E in mezzo a loro camminava una bambina di sei anni circa. Indossava un camice bianco, semplice e diritto. Aveva la testa scoperta e le braccia e le gambe nude, ed era scalza. Sembrava straordinariamente piccola e minuta. Ai piedi dei gradini che conducevano al trono, dove adesso attendevano le altre, schierate in file scure, le due donne si fermarono e la spinsero avanti.

Sull’alto podio, il trono sembrava velato a destra e a sinistra da grandi ragnatele di tenebra che ricadevano dall’oscurità del soffitto: e l’occhio non riusciva a distinguere se erano tendaggi o soltanto ombre più fitte. Il trono era nero, con un luccichio smorzato di pietre preziose o d’oro sui braccioli e sullo schienale, ed era enorme. Se vi si fosse seduto un uomo, sarebbe sembrato uno gnomo: non era fatto a misura umana. Era vuoto. Su quel trono stavano soltanto le ombre.

Sola, la bambina salì quattro dei sette gradini di marmo venato di rosso. Erano così ampi e così alti che lei doveva posare tutt’e due i piedi su ognuno prima di montare sul successivo. Sul gradino di mezzo, davanti al trono, stava un grande ceppo irregolare di legno, con un incavo alla sommità. La bambina s’inginocchiò e appoggiò la testa nell’incavo, girandola un po’ a lato. Restò inginocchiata così, senza muoversi.

Una figura, avvolta in una veste di lana bianca stretta in vita da una cintura, uscì improvvisamente dalle ombre sulla destra del trono e scese i gradini, verso la bambina. Il volto era nascosto da una maschera bianca. Impugnava una spada di acciaio lucente, lunga un braccio e mezzo. Senza una parola, senza un’esitazione, levò la spada, impugnandola a due mani, sopra il collo della bambina. Il rullo del tamburo tacque.

Mentre la lama si levava in alto e restava librata, una figura nerovestita sfrecciò dalla sinistra del trono, balzò giù per i gradini, e arrestò le braccia del sacrificatore con le proprie, più snelle. Il tagliente filo della spada scintillò a mezz’aria. Rimasero così, bilanciate per un momento, la figura bianca e la figura nera, entrambe senza volto, quasi in una posa di danza, sopra la bambina immobile, con il collo bianco lasciato scoperto dal ricadere dei capelli neri.

In silenzio, le due figure si scostarono con un balzo e risalirono i gradini, dileguandosi nell’oscurità dietro l’enorme trono. Una sacerdotessa avanzò e versò una ciotola di liquido sugli scalini, accanto alla bambina inginocchiata. La macchia appariva nera, nella semioscurità della navata.

La bambina si alzò e scese laboriosamente i quattro gradini. Quando arrivò in fondo, le due alte sacerdotesse l’avvolsero in una veste nera e in un cappuccio e in un manto, e la girarono di nuovo verso la gradinata, la macchia nera, il trono.

—  Oh, i Senza Nome posino gli occhi sulla fanciulla loro offerta, che in verità è nata senza nome. Accettino la sua vita e gli anni della sua vita fino al momento della sua morte, che appartiene ugualmente a loro. Possano trovarla accettabile! Che sia divorata!

Altre voci, stridenti e aspre come trombe, risposero: — È divorata! È divorata!

La bambina, ritta, guardava il trono da sotto l’orlo del nero cappuccio. Le gemme incastonate negli enormi braccioli adunchi e nella spalliera erano velate di polvere, e sullo schienale scolpito c’erano ragnatele e macchie bianchicce di sterco di gufi. I tre gradini più alti, direttamente davanti al trono, al di sopra di quello su cui s’era inginocchiata, non erano mai stati toccati da piedi umani. Erano coperti da una coltre di polvere così alta che sembravano un declivio di terra grigia, e i piani di marmo venato di rosso erano completamente nascosti dagli intonsi depositi di tanti anni, di tanti secoli.

—  È divorata! È divorata!

Il tamburo, all’improvviso, ricominciò a suonare, battendo un ritmo più affrettato.

In silenzio, il corteo si riformò e si allontanò dal trono, verso oriente, verso il luminoso e lontano riquadro della porta. Lungo i lati, le massicce colonne binate — simili a polpacci di immense gambe pallide — salivano verso l’oscurità della volta. Tra le sacerdotesse, ora tutta avviluppata di nero come loro, camminava la bambina, e i suoi piedi scalzi calpestavano solennemente le erbacce gelate e le pietre diacce. Quando i raggi solari che scendevano obliqui dal tetto diroccato balenavano sul suo cammino, lei non alzava gli occhi.

Le guardie tenevano spalancati i grandi battenti. La nera processione uscì nella luce fredda e rarefatta e nel vento del primo mattino. Il sole era abbacinante e navigava sopra l’immensità, a est. Verso ovest le montagne rifrangevano la sua luce gialla, come la facciata della sala del trono. Gli altri edifici, più in basso sui pendii della collina, erano ancora immersi nell’ombra purpurea, eccettuato il tempio degli dèi fratelli che sorgeva su una piccola altura: il tetto, indorato di recente, rispecchiava fulgido il nuovo giorno. La nera fila delle sacerdotesse, a quattro a quattro, si snodò giù per il colle delle tombe; e via via che scendevano incominciarono a salmodiare. La melodia era di tre note soltanto, e la parola che veniva ripetuta di continuo era così antica da aver perso ogni significato, come un cartello che rimane ancora quando la strada è scomparsa. Le sacerdotesse salmodiavano all’infinito quella parola vuota. Tutto quel giorno, il giorno della Riconsacrazione della Sacerdotessa, fu pervaso dalla cupa nenia delle voci femminili, una cantilena arida e incessante.

La bambina venne condotta di stanza in stanza, di tempio in tempio. In uno di quei luoghi le posero un po’ di sale sulla lingua; in un altro lei s’inginocchiò, voltandosi verso occidente, mentre le tagliavano corti i capelli e glieli lavavano con olio e aceto profumato; in un altro ancora si prosternò su una lastra di marmo nero dietro un altare, mentre voci stridule cantavano una trenodia. Per tutto quel giorno, né lei né le sacerdotesse mangiarono e bevvero. Quando tramontò la stella della sera, la bambina fu messa a letto, nuda tra le pelli di pecora, in una stanza dove non aveva mai dormito. Era in una casa rimasta chiusa per anni e riaperta soltanto quel giorno. La stanza era più alta che lunga, e non aveva finestre. Vi aleggiava un odore morto, di chiuso e di stantio. Le donne silenziose la lasciarono lì, nell’oscurità.

La bambina restò immobile, distesa come l’avevano messa. Aveva gli occhi spalancati. Rimase a lungo così.

Vide una luce tremolare sull’altra parete. Qualcuno avanzava senza far rumore lungo il corridoio, riparando una torcia di canna con la mano, in modo che non spandesse più chiarore di una lucciola. Un bisbiglio roco: — Oh, sei lì, Tenar?

La bambina non rispose.

Una testa si affacciò nel vano della porta: una testa strana, glabra come una patata sbucciata e altrettanto giallognola. Anche gli occhi erano come occhi di patata, bruni e minuscoli. Il naso sembrava piccolo tra le grandi guance piatte, e la bocca era una fenditura senza labbra. La bambina, immota, fissò quella faccia. I suoi occhi erano spalancati, fissi e scuri.

—  Oh, Tenar, mio piccolo favo di miele, eccoti! — La voce era roca, acuta come quella di una donna, ma non era una voce di donna. — Non dovrei essere qui, dovrei stare al di là della porta, sotto il porticato, ed è là che sto andando. Ma volevo vedere come sta la mia piccola Tenar dopo questa lunghissima giornata. Come va il mio povero piccolo favo di miele?

L’uomo avanzò verso di lei, silenzioso e corpulento, e tese la mano, come per lisciarle all’indietro i capelli.

—  Io non sono più Tenar — disse la bambina, guardandolo. La mano si arrestò, non la sfiorò.

—  No — fece lui, dopo un momento, bisbigliando. — Lo so. Lo so. Ora sei la piccola Divorata. Ma io…

Lei non disse nulla.

—  È stata una giornata dura, per una bimba — riprese l’uomo, strusciando i piedi sul pavimento, mentre la minuscola luce guizzava nella mano gialla.

—  Non dovresti essere in questa casa, Manan.

—  No. No. Lo so. Non dovrei essere in questa casa. Bene: buonanotte, piccola… Buonanotte.

La bambina non disse nulla. Manan girò lentamente su se stesso e se ne andò. Il barlume svanì dalle alte pareti della cella. La bambina, che adesso non aveva più altro nome che Arha, la Divorata, rimase a giacere, supina, con gli occhi fissi nell’oscurità.

IL MURO INTORNO AL LUOGO

Crescendo, lei perse ogni ricordo di sua madre, senza neppure accorgersi di averlo perduto. Il suo posto era lì, nel Luogo delle Tombe: lo era sempre stato. Solo qualche volta, nelle lunghe sere di luglio, mentre guardava le montagne occidentali, aride e lionate nella luce che seguiva il tramonto, pensava a un fuoco che aveva fiammeggiato in un focolare, tanto tempo prima, con quella stessa luce, chiara e gialla. E insieme veniva il ricordo di qualcuno che la teneva stretta, ed era strano, perché lì era raro che qualcuno la toccasse; e il ricordo di un odore gradevole, la fragranza di una chioma appena lavata, e risciacquata nell’acqua profumata di salvia, una lunga chioma bionda che aveva il colore del tramonto e del fuoco. Non le restava altro.

Lei sapeva più di quanto ricordava, naturalmente, perché le avevano raccontato tutta la sua storia. Quando aveva sette o otto anni, e cominciava a chiedersi chi era in realtà la persona che veniva chiamata «Arha», era andata dal suo guardiano, il custode Manan, e aveva chiesto: — Dimmi come sono stata prescelta, Manan.

—  Oh, lo sai già, piccola.

E in verità lo sapeva: la sacerdotessa Thar, alta e con la voce secca, gliel’aveva detto fino a quando lei aveva imparato a memoria le parole; e adesso lei recitò: — Sì, lo so. Alla morte dell’Unica Sacerdotessa delle Tombe di Atuan, le cerimonie della sepoltura e della purificazione vengono compiute entro un mese, secondo il calendario lunare. Poi, alcune sacerdotesse e alcuni custodi del Luogo delle Tombe attraversano il deserto e vanno tra le città e i paesi di Atuan, cercando e interrogando. Cercano la bambina nata la notte della morte della Sacerdotessa. Quando la trovano, attendono e osservano. La bimba dev’essere sana di corpo e di mente, e quando cresce non dev’essere affetta dal rachitismo né dal vaiolo né da altre deformità, e non deve diventare cieca. Se raggiunge l’età di cinque anni ancora perfetta, allora è evidente che la bambina è in verità il nuovo corpo della Sacerdotessa morta. Allora viene dato l’annuncio al re-dio di Awabath, e la bambina viene portata qui nel suo tempio e istruita per un anno. Allo scadere dell’anno viene condotta nella sala del trono, e il suo nome viene restituito a coloro che sono i suoi padroni, i Senza Nome: perché lei è la Senza Nome, la Sacerdotessa Eternamente Rinata.

Era tutto, parola per parola, come le aveva detto Thar, e lei non aveva osato chiedere una parola di più. La sacerdotessa scarna non era crudele, ma era molto fredda e viveva secondo una legge ferrea, e Arha aveva soggezione di lei. Ma non aveva soggezione di Manan, tutt’altro, e gli ordinò: — Ora dimmi come sono stata prescelta io! — E lui glielo ripeté.

—  Partimmo da qui, dirigendoci verso nordovest, il terzo giorno della luna nuova; perché l’Arha che fu era morta nel terzo giorno dell’ultima luna. E prima andammo a Tenacbah, che è una grande città, anche se coloro che le hanno viste entrambe dicono che sta ad Awabath come una pulce sta a una mucca. Ma per me è abbastanza grande: devono esserci dieci centinaia di case, a Tenacbah! E poi andammo a Gar. Ma in quella città non c’era nessuna bambina nata il terzo giorno della luna precedente; c’era qualche bambino, ma i bambini non vanno bene… Perciò ci addentrammo nel territorio collinoso a nord di Gar, visitando città e paesi. Quella è la mia terra. Sono nato là, tra le colline, dove scorrono i fiumi e il suolo è verde. Non in questo deserto. — La roca voce di Manan assunse uno strano tono nel dire questo, e gli occhietti sprofondarono tra le pieghe di grasso; lui indugiò un poco, e infine proseguì. — E così trovammo tutti i genitori dei bimbi nati durante l’ultimo mese, e parlammo con loro. E alcuni mentivano. «Oh, sì, certo, la nostra piccola è nata il terzo giorno della luna!». Perché spesso i poveri, lo sai, sono ben lieti di sbarazzarsi delle bambine. E c’erano altri che erano così poveri, e vivevano in casupole così solitarie nelle valli tra le colline, che non tenevano il conto dei giorni, e quasi non sapevano misurare il passare del tempo, e perciò non potevano dire con certezza da quanto erano nate le loro bambine. Ma riuscivamo sempre a scoprire la verità, insistendo a far domande. Però era un lavoro molto lento. Alla fine trovammo una bambina, in un villaggio di dieci case, nelle valli dei frutteti, a ovest di Entat. Aveva otto mesi: ormai eravamo in cerca da molto tempo. Ma era nata la notte in cui era morta la Sacerdotessa delle Tombe, e nell’ora della sua morte. Ed era una bimba bellissima, che stava sulle ginocchia della madre e ci guardava tutti con gli occhi luminosi, mentre ci affollavamo nell’unica stanza della casa, come pipistrelli in una grotta! Il padre era povero. Curava i meli del frutteto di un uomo ricco, e di suo non possedeva altro che cinque figli e una capra. Neppure la casa era sua. Stavano tutti affollati là dentro, e dal modo in cui le sacerdotesse guardavano la piccina e parlavano tra loro si capiva che erano certe di aver trovato finalmente la Rinata. E l’aveva capito anche la madre. Teneva stretta la piccina e non diceva mai una parola. Dunque, il giorno dopo ritornammo. E guarda un po’! La bimba dagli occhi luminosi giaceva su un letto di canne e piangeva e gridava, e tutto il suo corpo era coperto di vesciche e di esantemi della febbre, e la madre piangeva ancora più forte della bambina. «Oh! Oh! La mia piccola ha le dita della strega!». Disse proprio così: intendeva il vaiolo. Anche al mio paese lo chiamavano «dita della strega». Ma Kossil, che adesso è la somma sacerdotessa del re-dio, andò al giaciglio e prese in braccio la piccina. Tutti gli altri s’erano tirati indietro, e io con loro: non tengo molto alla mia vita, ma chi entra in una casa dove c’è il vaiolo? Lei però non aveva paura. Prese in braccio la bambina e disse: «Non ha febbre». E si sputò sul dito e strofinò le macchie rosse, e le macchie sparirono. Era soltanto succo di bacche. Qeulla povera sciocca della madre aveva sperato d’ingannarci e di tenere la figlioletta! — Manan rise di cuore; la faccia giallognola non mutò, quasi, ma i fianchi erano squassati dall’ilarità. — Allora il marito la picchiò, perché temeva l’ira delle sacerdotesse. E poco dopo ritornammo al deserto, ma ogni anno un inviato del Luogo ritornava al paesino tra i meleti, a vedere come cresceva la bambina. Così trascorsero cinque anni, e poi Thar e Kossil partirono, con le guardie del tempio e i soldati dall’elmo rosso inviati dal re-dio come scorta. Portarono qui la bambina, perché era veramente la rinata Sacerdotessa delle Tombe, e questo era il suo posto. E chi era la bambina, eh, piccola?

—  Io — disse Arha, guardando lontano lontano, come se cercasse di vedere qualcosa che non poteva vedere, qualcosa che era scomparso.

Una volta chiese: — Cosa fece la… la madre, quando andarono a portar via la bambina?

Però Manan non lo sapeva: non aveva accompagnato le sacerdotesse in quell’ultimo viaggio.

E lei non riusciva a ricordare. A cosa serviva ricordare? Era perduto, tutto perduto. Era giunta dove doveva giungere. Di tutto il mondo, lei conosceva solamente un luogo: il Luogo delle Tombe di Atuan.

Durante il primo anno, aveva dormito nel grande dormitorio insieme alle altre novizie, bambine tra i quattro e i quattordici anni. Già allora Manan era stato prescelto tra i dieci custodi come suo guardiano particolare; e lei aveva il letto in una piccola alcova, parzialmente separata dallo stanzone lungo e basso nella Casa Grande, dove le ragazzine ridacchiavano e bisbigliavano prima di addormentarsi, e sbadigliavano e s’intrecciavano i capelli a vicenda nella grigia luce del mattino. Da quando le era stato tolto il nome e lei era divenuta Arha, dormiva nella Casa Piccola, nel letto e nella stanza che sarebbero stati il suo letto e la sua stanza per tutto il resto della sua vita. Quella casa era sua, la casa dell’Unica Sacerdotessa, e nessuno poteva entrarci senza il suo permesso. Quando era ancora piccola, le piaceva sentire la gente che bussava umile alla sua porta, e rispondere: «Puoi entrare»; e la irritava che le due somme sacerdotesse Kossil e Thar dessero per scontato il suo permesso ed entrassero nella sua casa senza bussare.

I giorni passavano, gli anni passavano, tutti uguali. Le fanciulle del Luogo delle Tombe trascorrevano il tempo fra studi e discipline. Non giocavano mai. Non c’era tempo, per giocare. Imparavano i canti sacri e le sacre danze, la storia delle terre di Kargad, e i misteri degli dèi cui erano votate: il re-dio che regnava ad Awabath, o gli dèi fratelli Atwah e Wuluah. Tra tutte, soltanto Arha apprendeva i riti dei Senza Nome, che le venivano insegnati esclusivamente da Thar, la somma sacerdotessa degli dèi gemelli. Questo l’allontanava dalle altre per un’ora o più ogni giorno; ma gran parte della sua giornata, come la giornata delle altre fanciulle, veniva trascorsa lavorando. Imparavano a filare e a tessere la lana dei loro armenti, e a piantare e a raccogliere e a preparare il cibo che mangiavano sempre: lenticchie, mais ridotto a una farina grossolana che serviva per una specie di pappa (o a una farina finissima che serviva per impastare il pane azimo), cipolle, cavoli, formaggio di capra, pomi, e miele.

La cosa più bella che poteva accadere loro era di ottenere il permesso di andare a pescare nel torbido fiume verde che scorreva attraverso il deserto, mezzo miglio a nordest del Luogo: portarsi dietro una mela o una pannocchia fredda di mais per pranzo e starsene tutto il giorno nell’arida luce del sole, tra le canne, a guardare la lenta acqua verde che scorreva e le ombre delle nuvole che cambiavano lentamente forma sulle montagne. Ma se una di loro lanciava un gridolino d’emozione quando la lenza si tendeva, e tirava fuori un pesce piatto e lucente che guizzava sulla riva e affogava nell’aria, allora Mebbeth sibilava come una vipera: — Sta’ zitta, sciocca! — Mebbeth, che prestava servizio nel tempio del re-dio, era una donna di carnagione scura, ancora giovane, ma dura e tagliente come l’ossidiana. La pesca era la sua passione. Bisognava mettersi dove voleva lei e non fare mai chiasso, altrimenti non le avrebbe più portate a pescare; e allora non sarebbero più andate al fiume se non per attingere l’acqua, d’estate, quando il livello del pozzo si abbassava. Era una noia atroce, camminare nel calore incandescente per mezzo miglio fino al fiume, riempire i secchi appesi all’asta a bilanciere, e poi risalire al più presto, verso il Luogo. Le prime cento braccia erano agevoli, ma poi i secchi diventavano più pesanti e l’asta bruciava le spalle come una barra di ferro rovente, e la luce opprimeva l’arida strada, e ogni passo era più faticoso e più lento. Finalmente si arrivava nella fresca ombra del cortile posteriore della Casa Grande passando attraverso l’orto, e si vuotavano i secchi nella vasta cisterna, con uno scroscio. E poi si doveva tornare indietro e ricominciare da capo quella fatica, e ancora e ancora e ancora.

Entro il recinto del Luogo — non aveva altro nome; e non gliene occorrevano altri, perché era il luogo più antico e più sacro tra tutti i luoghi delle Quattro Terre dell’impero di Kargad — vivevano circa duecento persone, e c’erano molti edifici: tre templi, la Casa Grande e la Casa Piccola, i quartieri dei custodi eunuchi, e all’esterno, vicino al muro, le caserme delle guardie e le capanne degli schiavi, i magazzini e i recinti delle pecore e delle capre e gli edifici della fattoria. Sembrava una piccola città, quando lo si guardava da lontano, dall’alto delle colline aride a occidente, dove non crescevano altro che salvia, ciuffi di erba dura, minuscole piantine ed erbette del deserto. Anche da lontano, dalle pianure a oriente, alzando gli occhi si poteva scorgere il tetto d’oro del tempio degli dèi gemelli luccicare e scintillare contro lo sfondo delle montagne, come un frammento di mica in una roccia.

Quel tempio era un cubo di pietra, intonacato di bianco, senza finestre, con un porticato basso e una porta. Più vistoso, e più recente di diversi secoli, era il tempio del re-dio, un poco più in basso, con un alto pronao e una fila di tozze colonne bianche dal capitello dipinto: ognuna era un massiccio tronco di cedro, portato per nave da Hur-at-Hur dove ci sono le foreste, e trascinato da venti schiavi attraverso le pianure sterili, fino al Luogo. Solo dopo che un viaggiatore proveniente dall’est aveva visto il tetto d’oro e le colonne sgargianti scorgeva più in alto, sul colle del Luogo, sopra tutti gli altri, fulvo e consunto come lo stesso deserto, il più antico tra i templi della sua razza: l’enorme e basso palazzo del trono, con le pareti rappezzate e la piatta cupola semidiroccata.

Dietro il palazzo, intorno alla cresta della collina, si stendeva un massiccio muro di pietra a secco, che in molti punti era parzialmente crollato. All’interno dell’anello di quel muro, parecchie pietre nere, alte sei o sette braccia, si ergevano spuntando come dita dalla terra. Appena l’occhio le scorgeva, continuava a ritornarvi. Erano cariche di significato, eppure era impossibile dire cosa significassero. Erano nove in tutto. Una era eretta, le altre più o meno inclinate, due erano cadute. Erano incrostate di licheni grigi e arancione, come se fossero chiazzate di vernice: tutte tranne una che era nuda e nera, con una specie di lucentezza opaca. Era liscia e levigata, e sulle altre, sotto l’incrostazione di licheni, si potevano scorgere, o sentire con le dita, incisioni vaghe: forme, segni. Quelle nove pietre erano le Tombe di Atuan. Erano lì, si diceva, fin dai tempi dei primi uomini, fin da quando era stato creato Earthsea. Erano state piantate nelle tenebre, quando la terraferma s’era innalzata dagli abissi dell’oceano. Erano molto più antiche dei re-dèi di Kargad, più antiche degli dèi gemelli, più antiche della luce. Erano le tombe di coloro che avevano regnato prima che esistesse il mondo degli uomini, coloro che non avevano nome; e colei che li serviva non aveva nome.

Lei non vi andava spesso, e nessun altro metteva mai piede nel recinto in cui sorgevano, sull’altura entro il muro di roccia dietro il palazzo del trono. Due volte l’anno, al plenilunio più prossimo agli equinozi di primavera e d’autunno, veniva compiuto un sacrificio davanti al trono, e lei usciva dalla bassa porta posteriore della sala reggendo un grande bacile di bronzo colmo di fumante sangue di capro; e doveva versarlo metà ai piedi della pietra nera eretta e metà su una delle pietre cadute che giacevano semisepolte nel terreno sassoso, macchiate dalle offerte cruente dei secoli.

Talvolta, Arha usciva sola nel primo mattino e si aggirava tra le Pietre, cercando di comprendere le indistinte sporgenze e cavità delle incisioni, che spiccavano più chiaramente nell’angolazione bassa della luce; oppure si metteva a sedere e levava gli occhi verso le montagne a occidente, e li abbassava sui tetti e sui muri del Luogo, laggiù, e osservava i primi segni di attività intorno alla Casa Grande e alle caserme delle guardie, e i greggi di pecore e di capre avviati ai magri pascoli in riva al fiume. Non c’era mai nulla da fare, tra le Pietre. Lei vi andava soltanto perché le era permesso andarvi, perché là era sola. Era un luogo squallido e spaventoso. Perfino nel caldo meriggio dell’estate nel deserto, lì c’era una sensazione di freddo. Talvolta il vento sibilava tra le due pietre che stavano più vicine, inclinate l’una verso l’altra come per scambiarsi segreti. Ma non rivelavano nessun segreto.

Dal muro delle tombe partiva un altro muro di pietra, più basso, che descriveva un lungo semicerchio irregolare intorno al colle del Luogo e poi proseguiva verso nord, in direzione del fiume. Non tanto proteggeva il Luogo quanto piuttosto lo tagliava in due: da una parte i templi e le case delle sacerdotesse e dei custodi, dall’altra gli alloggi delle guardie e degli schiavi che coltivavano la terra e allevavano gli armenti per il Luogo. Nessuno di costoro varcava mai il muro; in occasione di certe feste particolarmente sacre, le guardie e i tamburini e i suonatori di corno seguivano la processione delle sacerdotesse, ma non entravano nei templi. Nessun altro uomo poneva mai piede entro il recinto del Luogo. Un tempo c’erano stati pellegrinaggi e i re e i capi delle Quattro Terre venivano lì ad adorare; il primo re-dio, un secolo e mezzo addietro, era venuto a celebrare i riti nel suo tempio. Tuttavia, neppure lui aveva potuto entrare nel recinto delle tombe: anche lui aveva dovuto mangiare e dormire all’esterno del muro che cingeva il Luogo.

Era abbastanza facile scalare il muro, usando le crepe come appigli. La Divorata e una bambina che si chiamava Penthe stavano sedute in cima al muro, in un pomeriggio di primavera inoltrata. Avevano tutte e due dodici anni. Avrebbero dovute essere nella stanza di tessitura della Casa Grande, un immenso attico di pietra; avrebbero dovuto essere al lavoro sui grandi telai, sempre tramati di opaca lana nera, a tessere la stoffa per le vesti. Erano uscite per bere al pozzo del cortile, e poi Arha aveva detto «Vieni!» e aveva condotto l’altra bambina giù per il declivio, fuori vista dalla Casa Grande, fino al muro. Adesso sedevano lassù, a tre braccia d’altezza, con le gambe nude penzolanti all’esterno, e guardavano le piatte pianure che si stendevano all’infinito verso est e verso nord.

—  Mi piacerebbe vedere il mare — disse Penthe.

—  Perché? — chiese Arha, mordicchiando uno stelo amaro d’erbalatte che aveva strappato dal muro. La terra, quasi sterile, aveva finito da poco di fiorire. Tutti i piccoli fiori del deserto, gialli e rosei e bianchi, che crescevano bassi e sbocciavano in fretta, stavano andando a seme, e disperdevano nel vento minuscole piume e ombrelli biancocinerei, lasciando cadere le ingegnose lappole uncinate. Il suolo, sotto i meli del frutteto, era una marea di bianco e di rosa livido. I rami erano verdi, i soli alberi verdi in un raggio di molte miglia intorno al Luogo. Tutto il resto, da orizzonte a orizzonte, era del colore opaco e lionato del deserto, e solo le montagne avevano una tinta azzurrina e argentea, la tinta dei primi boccioli della salvia.

—  Ah, non so perché. Mi piacerebbe vedere qualcosa di diverso, ecco tutto. Qui è tanto monotono. Non accade mai nulla.

—  Tutto ciò che accade altrove incomincia qui — disse Arha.

—  Oh, lo so… Ma mi piacerebbe veder accadere qualcosa!

Penthe sorrise. Era una bambina tenera, tranquilla. Si grattò le piante dei piedi scalzi sulle pietre scaldate dal sole, e dopo un poco proseguì: — Sai, quand’ero piccola vivevo vicino al mare. Il nostro paese era appena oltre le dune, e qualche volta scendevo a giocare sulla spiaggia. Una volta, ricordo, vedemmo una flotta che passava, al largo. Corremmo a dirlo in paese, e tutti vennero a vedere. Le navi sembravano draghi dalle ali rosse. Alcune avevano veramente il collo, e testa di drago. Passavano al largo di Atuan, ma non erano navi di Kargad. Venivano da occidente, dalle Terre Interne, disse il capo del villaggio. Erano scesi tutti sulla spiaggia per guardarle. Avevano paura che sbarcassero, credo. Invece passarono, e nessuno sapeva dove stavano andando. Forse a far guerra a Karego-At. Ma a pensarci bene, forse venivano dalle isole degli incantatori, dove tutti hanno lo stesso colore della terra e sono capaci di gettarti addosso un incantesimo con la stessa facilità con cui sbattono le palpebre.

—  Non certo addosso a me — ribatté irritata Arha. — Io non li avrei guardati. Sono incantatori abominevoli e maledetti. Come osano navigare tanto vicino alla Terra Sacra?

—  Oh, ecco, immagino che un giorno o l’altro il re-dio li sconfiggerà e li ridurrà tutti in schiavitù. Ma vorrei tanto poter rivedere il mare. C’erano i piccoli polpi nelle pozze d’acqua lasciate dalla marea, e se tu gridavi «Bu!» diventavano tutti bianchi… Ecco che viene a cercarti il vecchio Manan.

Il guardiano e servitore di Arha stava avanzando lentamente lungo il lato interno del muro. Si chinava a strappare una cipolla selvatica, la metteva insieme alle altre del grosso mazzo che teneva in mano, poi si raddrizzava e si guardava intorno con gli occhietti bruni. Col passare degli anni era diventato più grasso, e la glabra pelle giallastra luccicava al sole.

—  Lasciati scivolare un po’ dalla parte degli uomini — sibilò Arha, e le due ragazzine guizzarono agili come lucertole sull’altro lato del muro restando aggrappate appena al di sotto della sommità, invisibili dall’interno. Udirono avvicinarsi i lenti passi di Manan.

—  Uuuh! Uuuh! Faccia di patata! — cantilenò Arha, un mormorio sarcastico, fievole come il vento tra l’erba.

Il passo pesante si arrestò. — Ehilà! — disse la voce incerta. — Piccola? Arha?

Silenzio.

Manan proseguì.

—  Uuuh-uh! Faccia di patata!

—  Uuuh! Faccia di patata! — bisbigliò Penthe, imitandola; e poi gemette, sforzandosi di reprimere un risolino.

—  C’è qualcuno?

Silenzio.

—  Oh, bene, bene, bene — sospirò l’eunuco, e i suoi lenti passi proseguirono. Quando ebbe superato il dosso del pendio, le ragazzine tornarono ad arrampicarsi in cima al muro. Penthe era tutta rosea per il sudore e l’ilarità repressa, ma Arha sembrava infuriata.

—  Quello stupido vecchio impiccione! Mi segue sempre dappertutto!

—  Deve farlo — disse Penthe, in tono ragionevole. — È il suo compito, badare a te.

—  Coloro che io servo badano a me. Devo soddisfare loro; non devo soddisfare nessun altro. Quelle vecchie donne e quei mezzi uomini dovrebbero lasciarmi in pace. Io sono l’Unica Sacerdotessa.

Penthe la fissò: — Oh — disse con un filo di voce, — oh, lo so benissimo, Arha.

—  E allora dovrebbero lasciarmi stare. E non continuare a darmi ordini!

Per un po’, Penthe non disse nulla ma sospirò e restò seduta a dondolare le gambe grassottelle e a guardare le immense terre pallide che salivano tanto lentamente verso l’orizzonte immane, alto e indistinto.

—  Dovrai incominciare presto a darli tu, gli ordini, sai — disse infine, con voce pacata. — Tra due anni non saremo più bambine. Avremo quattordici anni. Io andrò al tempio del re-dio, e per me le cose continueranno più o meno come adesso. Ma tu, allora, sarai veramente la somma sacerdotessa. Perfino Kossil e Thar dovranno ubbidirti.

La Divorata non disse nulla. Il suo volto era chiuso, e gli occhi, sotto le sopracciglia nere, riflettevano la luce del cielo in un brillio pallido.

—  Dovremmo rientrare — disse Penthe.

—  No.

—  Ma la maestra tessitrice potrebbe dirlo a Thar. E fra poco sarà l’ora dei Nove Canti.

—  Io rimango qui. E rimani anche tu.

—  Tu non sarai punita, ma io sì — osservò Penthe, in quel suo tono mite. Arha non replicò. Penthe sospirò, e rimase. Il sole scendeva tra la foschia, alta sopra le pianure. Lontano, lontano, sulla lunga pendenza graduale della terra, tintinnavano fievoli le campanelle delle pecore e gli agnelli belavano. Il vento primaverile soffiava a raffiche deboli e asciutte, portando un profumo dolce.

I Nove Canti erano quasi terminati, quando le due fanciulle rientrarono. Mebbeth le aveva viste sedute sul «muro degli uomini» e l’aveva riferito alla sua superiore, Kossil, la somma sacerdotessa del re-dio.

Kossil aveva il passo pesante e il volto pesante. Impassibile nella faccia e nella voce, parlò alle due ragazzine e disse loro di seguirla. Le condusse lungo i corridoi di pietra della Casa Grande, fuori dalla porta, su per il pendio fino al tempio di Atwah e Wuluah. Là parlò con la somma sacerdotessa di quel tempio, Thar, alta e asciutta e scarna come la tibia di un cervo.

Kossil disse a Penthe: — Togliti la veste.

Frustò la ragazzina con un fascio di canne, che tagliavano un po’ la pelle. Penthe subì paziente, con lacrime silenziose. Venne rimandata alla tessitura senza cena, e anche il giorno dopo sarebbe rimasta senza cibo. — Se verrai sorpresa di nuovo ad arrampicarti sul muro degli uomini — disse Kossil, — ti accadrà di peggio. Hai capito, Penthe? — La voce di Kossil era sommessa, ma non gentile. Penthe disse «sì» e sgattaiolò via, tutta china, rabbrividendo quando la pesante stoffa della veste strusciava sulle ferite alla schiena.

Arha era rimasta accanto a Thar, ad assistere alla fustigazione. Ora guardò Kossil che puliva le canne.

Thar le disse: — È disdicevole che tu ti faccia vedere ad arrampicarti sui muri e a correre con le altre ragazzine. Tu sei Arha.

Lei restò chiusa in un cupo silenzio.

—  È meglio che tu faccia soltanto ciò che devi fare. Tu sei Arha.

Per un istante la bambina levò gli occhi verso il volto di Thar e poi verso quello di Kossil, e nel suo sguardo c’era una terribile profondità di rabbia o di odio. Ma la sacerdotessa scarna non si mostrò per nulla sgomenta: si tese un poco in avanti e confermò, quasi bisbigliando: — Tu sei Arha. Non è rimasto nulla. Tutto è stato divorato.

—  Tutto è stato divorato — ripeté Arha, come aveva ripetuto ogni giorno, per tutti i giorni della sua vita, fin da quando aveva sei anni.

Thar piegò leggermente la testa; e anche Kossil fece altrettanto, mentre riponeva la frusta. Arha non si inchinò ma si voltò docile e uscì.

Dopo la cena di patate e di cipolle primaverili, consumata in silenzio nel refettorio stretto e buio, dopo il canto degli inni serali e la chiusura delle porte con le parole sacre, e il breve Rituale dell’Ineffabile, i compiti della giornata si conclusero. Ora le ragazze potevano salire nel dormitorio, e giocare con i dadi e i fuscelli, per tutto il tempo che avrebbe impiegato a consumarsi l’unica torcia di canna, e poi bisbigliare al buio, da letto a letto. Arha si avviò attraverso i cortili e i pendii del Luogo, come faceva ogni sera, verso la Casa Piccola dove dormiva sola.

Il vento della notte era dolce. Le stelle della primavera brillavano fitte, come distese di margheritine nei prati a primavera, come lo scintillio della luce sul mare d’aprile. Ma Arha non ricordava né i prati né il mare. Non alzò lo sguardo.

—  Ehilà, piccola!

—  Manan — disse lei, con indifferenza.

La grossa ombra si avvicinò scalpicciando, e la luce delle stelle brillò sulla testa calva.

—  Ti hanno punita.

—  Non possono punirmi.

—  No… È così…

—  Non possono punirmi. Non osano.

Manan stava lì, con le grosse mani penzolanti, massiccio, indistinto. Aveva l’odore delle cipolle selvatiche, e il sentore di sudore e di salvia delle vecchie vesti nere che erano strappate all’orlo e troppo corte per lui.

—  Non possono toccarmi. Io sono Arha — disse lei con voce stridula e rabbiosa, e scoppiò in pianto.

Le grandi mani pazienti si alzarono, l’attirarono, la strinsero dolcemente, le accarezzarono le trecce. — Su, su. Piccolo favo di miele, piccola mia… — Lei udiva il rauco mormorio nella profonda cavità del petto di Manan, e gli stava aggrappata. Le lacrime finirono presto di scorrere, ma Arha restò stretta a lui come se non riuscisse a reggersi in piedi.

—  Povera piccola — disse Manan, e la sollevò e la portò fin sulla soglia della casa dove dormiva sola. La posò.

—  Tutto bene adesso, piccola?

Lei annuì, si voltò, ed entrò nella casa buia.

I PRIGIONIERI

I passi di Kossil risuonarono lungo il corridoio della Casa Piccola, lenti e decisi. L’alta figura pesante riempì il vano della porta: parve rimpicciolire quando la sacerdotessa s’inchinò piegando un ginocchio sul pavimento, crebbe di nuovo quando si rialzò in tutta la sua statura.

—  Padrona.

—  Che c’è, Kossil?

—  Finora mi è stato permesso di occuparmi di certe cose riguardanti il dominio dei Senza Nome. Se così ti piace, è ormai tempo che tu apprenda, e veda, e ti addossi queste cose, che non hai ancora rammentato nella vita attuale.

La ragazza era seduta nella sua stanza priva di finestre, come se meditasse; ma in realtà non faceva nulla, e quasi non pensava. Trascorse qualche momento prima che l’espressione cupa e altezzosa del suo volto cambiasse. Tuttavia cambiò, sebbene lei cercasse di dissimularlo. Disse, con una certa timidezza: — Il labirinto?

—  Non entreremo nel labirinto. Ma sarà necessario attraversare la cripta.

Nella voce di Kossil c’era un tono che poteva essere paura, e poteva essere una finzione di paura, voluta per spaventare Arha. La ragazza si alzò, senza fretta, e disse in tono indifferente: — Sta bene. — Ma in cuor suo, mentre seguiva la pesante figura della sacerdotessa del re-dio, esultava: Finalmente! Finalmente! Vedrò finalmente il mio dominio!

Aveva quindici anni. Da un anno era diventata donna e aveva assunto nel contempo i pieni poteri di Unica Sacerdotessa delle Tombe di Atuan, somma tra le somme sacerdotesse delle Terre di Kargad, colei alla quale neppure il re-dio poteva dare ordini. Adesso tutti piegavano il ginocchio davanti a lei, perfino le austere Thar e Kossil. Tutte le parlavano con elaborata deferenza. Ma non era cambiato nulla. Non accadeva nulla. Dopo le cerimonie della sua consacrazione, i giorni avevano ripreso a scorrere come sempre. C’era la lana da filare, la stoffa nera da tessere, il grano da macinare, i riti da compiere; c’erano i Nove Canti da cantare ogni sera, le porte da benedire, le Pietre da aspergere di sangue di capro due volte l’anno, le danze del novilunio da eseguire davanti al trono vuoto. E così era trascorso l’intero anno, esattamente com’erano trascorsi gli altri anni; e nello stesso modo dovevano forse passare tutti gli anni della sua vita?

Qualche volta la noia era così intensa che lei la sentiva come un terrore: l’afferrava alla gola. Non molto tempo prima, era stata costretta a parlarne. Doveva parlare, si era detta, o sarebbe impazzita. E aveva parlato a Manan. L’orgoglio le impediva di confidarsi con le altre ragazze, e la prudenza la tratteneva dal confessarsi con le donne più anziane: Manan invece non era nulla, un vecchio sciocco fedele, e non aveva importanza ciò che gli diceva. E con suo grande stupore, lui aveva avuto una risposta da darle.

—  Molto tempo fa — le disse, — lo sai, piccola, prima che le nostre quattro terre si unissero in un unico impero, prima che un re-dio regnasse su tutti noi, c’erano moltissimi reucci e principi e capi. Erano sempre in dissidio tra loro. E allora venivano qui per risolvere i loro contrasti. Ecco cosa capitava: giungevano dalla nostra terra, Atuan, e da Karego-At, e da Atnini, e perfino da Hur-at-Hur, tutti i capi e i principi, con i loro servitori e i loro eserciti; e domandavano cosa dovevano fare. E allora la sacerdotessa si recava davanti al trono vuoto, e riferiva loro il giudizio dei Senza Nome. Ebbene, questo avveniva tanto tempo fa. Dopo molti anni, i re-sacerdoti divennero signori di tutto Karego-At, e ben presto s’impadronirono di Atuan; e adesso, da quattro o cinque generazioni, i re-dèi regnano sulle Quattro Terre, e le hanno trasformate in un impero. Perciò le cose sono cambiate. Il re-dio può domare i capi indisciplinati e risolvere da sé i dissidi. E poiché è un dio, capisci, non è necessario che consulti spesso i Senza Nome.

Arha tacque, riflettendo. Il tempo non significava molto, lì nel deserto, sotto le Pietre immutabili, quando si conduceva un’esistenza che era sempre stata vissuta nello stesso modo fin dall’inizio del mondo. Lei non era abituata a pensare ai mutamenti, alle cose vecchie che morivano, alle nuove cose che si affermavano. La turbava, vedere la realtà in quella prospettiva. — I poteri del re-dio sono molto inferiori ai poteri di Coloro che io servo — disse, aggrottando la fronte.

—  Senza dubbio… Senza dubbio… Ma questo non puoi andare a dirlo a un dio, mio piccolo favo di miele. E neppure alla sua sacerdotessa.

E Arha, vedendo lo scintillio di quegli occhietti bruni, pensò a Kossil, somma sacerdotessa del re-dio, che lei aveva temuto fin dal giorno in cui era giunta nel Luogo: e comprese ciò che intendeva dire Manan.

—  Ma il re-dio, e la sua gente, stanno trascurando il culto delle Tombe. Non viene mai nessuno.

—  Be’, il re-dio invia qui i prigionieri per i sacrifici. Questo non lo trascura. E non dimentica neppure i doni dovuti ai Senza Nome.

—  I doni! Il suo tempio viene ridipinto ogni anno, ci sono più di cento libbre d’oro sull’altare, e nelle lampade brucia l’essenza di rosa! E guarda il palazzo del trono: falle nel tetto, crepe nella cupola, muri pieni di topi e di gufi e di pipistrelli… Eppure durerà più del re-dio e di tutti i suoi templi e di tutti i re che verranno dopo di lui. Esisteva prima di lui, e quando quelli saranno tutti scomparsi sarà ancora qui. È il centro delle cose.

—  È il centro delle cose.

—  Ci sono grandi ricchezze: Thar me ne parla, qualche volta. Abbastanza per riempire dieci volte il tempio del re-dio. Oro e trofei donati secoli fa, cento generazioni addietro, chissà quando. Sono tutti rinchiusi nelle fosse e nelle copte, sottoterra. Non vogliono ancora condurmi là, mi fanno aspettare e aspettare. Ma io so com’è. Ci sono camere sotto la sala, sotto l’intero Luogo, sotto il punto dove stiamo adesso. C’è un grande meandro di gallerie, un labirinto. È come una grande città buia, sotto la collina. Piena d’oro, e di spade di antichi eroi, e di vecchie corone, e di ossa e di anni e di silenzio.

Arha aveva parlato come in estasi, rapita. Manan la scrutava. La sua faccia pesante non esprimeva mai altro che una solida e prudente mestizia, e adesso era più triste che mai. — Bene, e tu sei la padrona di tutto questo — disse. — Il silenzio e la tenebra.

—  Sì. Ma loro non vogliono mostrarmi nulla: soltanto le camere al pianterreno, dietro il trono. Non mi hanno neppure mostrato gli ingressi dei sotterranei: si limitano a parlottarne, qualche volta. Mi negano il mio dominio! Perché continuano a farmi aspettare?

—  Tu sei giovane. E forse — disse Manan con quella sua roca voce di contralto — forse loro hanno paura, piccola. Non è il loro dominio, dopotutto: è il tuo. Loro sono in pericolo, quando vi penetrano. Non c’è mortale che non tema i Senza Nome.

Arha non disse nulla, ma i suoi occhi lampeggiarono. Ancora una volta, Manan le aveva mostrato un modo nuovo di vedere le cose. Thar e Kossil le erano sempre apparse così formidabili, così fredde, così forti, che non aveva mai immaginato che potessero avere paura. Eppure Manan aveva ragione. Temevano certi luoghi, i poteri di cui lei era parte, i poteri cui apparteneva. Avevano paura di addentrarsi nei luoghi tenebrosi, paura di essere divorate.

E ora, mentre scendevano insieme a Kossil la scalinata della Casa Piccola e il ripido sentiero gradinato verso il palazzo del trono, ricordò quel colloquio con Manan, ed esultò di nuovo. Dovunque la conducessero, qualunque cosa le mostrassero, lei non avrebbe avuto paura. Avrebbe saputo cosa fare.

Kossil, che era un poco più indietro di lei sul sentiero, parlò: — Uno dei doveri della mia padrona, come lei ben sa, è di sacrificare certi prigionieri, criminali di nobile nascita, che col sacrilegio o il tradimento hanno peccato contro il nostro signore il re-dio.

—  O contro i Senza Nome — disse Arha.

—  In verità è così. Ora, non è giusto che la divorata debba compiere tale dovere finché è ancora bambina. Ma la mia padrona non è più una bambina. Nella stanza delle catene ci sono i prigionieri, inviati un mese fa, per grazia del nostro signore il re-dio, dalla sua città di Awabath.

—  Non sapevo che fossero arrivati i prigionieri. Perché non sono stata informata?

—  I prigionieri vengono portati di notte, e in segreto, per la via prescritta anticamente dai rituali delle tombe. È la via segreta che la mia padrona seguirà se prenderà il sentiero che conduce lungo il muro.

Arha si allontanò dal sentiero per seguire il grande muro di pietra che cingeva le tombe, dietro il palazzo a cupola. I massi che lo formavano erano enormi: il più piccolo pesava più di un uomo, e i più grandi avevano le dimensioni di carri. Sebbene non fossero stati levigati, erano adattati e congiunti con estrema cura. In certi tratti, tuttavia, la sommità del muro era crollata, e i massi giacevano in mucchi informi. Solo un tempo lunghissimo poteva riuscire a tanto: i giorni roventi e le gelide notti dei secoli nel deserto, i millenari e impercettibili movimenti delle stesse colline.

—  È facilissimo scalare il muro delle tombe — disse Arha, mentre lo costeggiavano.

—  Non abbiamo abbastanza uomini per ricostruirlo.

—  Abbiamo pure abbastanza uomini per custodirlo.

—  Soltanto schiavi. Non possiamo fidarci, di loro.

—  Possiamo fidarci, se hanno paura. Si stabilisca che la punizione sia per loro la stessa comminata all’estraneo cui permettessero di porre piede sul sacro suolo all’interno del muro.

—  Qual è la punizione? — Kossil non lo chiese per conoscere la risposta. Era stata lei stessa a insegnarla ad Arha, molto tempo addietro.

—  Essere decapitato davanti al trono.

—  È la volontà della mia padrona che venga posta una guardia al muro delle tombe?

—  Sì — rispose la ragazza. Nelle lunghe maniche nere, le sue dita si contrassero euforicamente. Sapeva che Kossil non avrebbe desiderato assegnare neppure uno schiavo al compito di sorvegliare il muro, e per la verità era un dovere inutile: quando mai veniva lì qualche estraneo? Non era probabile che qualcuno capitasse a meno di un miglio dal Luogo, per caso o volutamente, senza essere avvistato; e di certo non sarebbe riuscito ad avvicinarsi alle tombe. Ma una guardia era un onore dovuto, e Kossil non poteva opporsi. Doveva ubbidire ad Arha.

—  Qui — disse la sua fredda voce.

Arha si fermò. Aveva percorso spesso quel sentiero, intorno al muro delle tombe, e lo conosceva come conosceva ogni spanna del Luogo, ogni sasso e ogni roveto e ogni cardo. Il grande muro di roccia si innalzava alla sua sinistra, tre volte più alto di lei; sulla destra la collina digradava in una valle arida e poco profonda, che presto risaliva verso la catena occidentale. Girò lo sguardo sul terreno, tutt’intorno, e non vide nulla che non avesse già visto.

—  Sotto le rocce rosse, padrona.

Poche braccia più in basso, sul pendio, uno spuntone di lava rossa formava una scala o un piccolo strapiombo nella collina. Quando Arha scese e si fermò davanti alle rocce, si accorse che sembravano una porta rudimentale, alta poco più di un braccio.

—  Cosa devo fare?

Aveva imparato ormai da molto tempo che nei luoghi sacri è inutile cercare di aprire una porta se non si sa come si fa ad aprirla.

—  La mia padrona ha tutte le chiavi dei luoghi tenebrosi.

Fin dai riti per la sua maggiore età, Arha portava alla cintura un anello di ferro cui erano appesi un pugnaletto e tredici chiavi, alcune lunghe e pesanti e altre minuscole come ami da pesca. Alzò l’anello e allargò le chiavi. — Quella — disse Kossil, indicandola, e poi posò il tozzo indice su una crepa tra due rosse superfici di pietra corrosa.

La chiave, una lunga asta di ferro con due guardie ornate, si inserì nella crepa. Arha la girò verso sinistra, usando entrambe le mani perché era rigida: tuttavia girò senza difficoltà.

—  E ora?

—  Insieme…

Spinsero insieme la pietra scabra a sinistra della serratura. Pesantemente, ma senza intoppi e con pochissimo rumore, una sezione irregolare della roccia rossa rientrò, mostrando una stretta fenditura. All’interno c’era la tenebra.

Arha si chinò ed entrò.

Kossil, che era pesante e pesantemente vestita, stentò a insinuarsi attraverso quell’apertura. Appena fu entrata si appoggiò con le spalle alla porta e la chiuse, premendola.

Era assolutamente buio. Non c’era neppure un filo di luce. L’oscurità sembrava opprimere gli occhi aperti, come feltro bagnato.

Stavano chine, quasi piegate in due, perché l’andito dove si trovavano era alto poco più di un braccio e così stretto che le mani brancolanti di Arha toccavano la pietra umida a destra e a sinistra.

—  Hai portato una lampada?

Bisbigliava, come succede quando si è al buio.

—  Non ne ho portate — rispose Kossil, dietro di lei. Anche la voce di Kossil era bassa; ma aveva un suono strano, come se la donna stesse sorridendo. Kossil non sorrideva mai. Il cuore di Arha diede un tuffo: il sangue le pulsò nella gola. Si disse, rabbiosamente: questo è il mio posto, e non avrò paura.

Non disse nulla, a voce alta. Si avviò. C’era una sola direzione possibile: il passaggio si addentrava nella collina, in discesa.

Kossil la seguì, respirando pesantemente, e le sue vesti frusciavano contro la roccia e la terra.

All’improvviso, la volta si alzò; Arha poté raddrizzarsi, e quando tese le mani non sentì più le pareti. L’aria, che prima era viziata e sapeva di terra, adesso le sfiorava il volto con un’umidità più fresca, e il suo lieve movimento dava la sensazione di una grande ampiezza. Arha mosse qualche passo, cautamente, nella tenebra assoluta. Un ciottolo, scivolando sotto il suo sandalo, colpì un altro ciottolo, e quel suono minutissimo destò gli echi, molti echi, remoti, ancora più remoti. La caverna doveva essere immensa, alta e ampia, e tuttavia non vuota: e qualcosa in quella tenebra (superfici di oggetti invisibili, o pareti divisorie) spezzava l’eco in mille frammenti.

—  Qui dovremmo essere sotto le Pietre — mormorò la ragazza; e il suo bisbiglio corse nella tenebra cavernosa e si sfilacciò in fili di suono esili come ragnatele, che aderirono all’udito per molto tempo.

—  Sì. Questa è la cripta. Va’ avanti. Non posso rimanere qui. Segui il muro a sinistra. Supera tre aperture.

Il respiro di Kossil era sibilante (e sibilavano anche i minuscoli echi). Aveva paura, aveva veramente paura. Non amava essere là, tra i Senza Nome, nelle loro tombe, nelle loro grotte, nella tenebra. Non era il suo posto, quello.

—  Verrò qui con una torcia — disse Arha, orientandosi lungo la parete della grotta al tocco delle dita, sorprendendosi delle forme strane della roccia, incavi e protuberanze e curve finissime e spigoli, qua irregolari come un merletto, là levigati come il bronzo: senza dubbio un bassorilievo. Forse l’intera caverna era opera degli scultori di un lontano passato?

—  Qui la luce è proibita. — Il sussurro di Kossil era tagliente. E mentre Kossil pronunciava queste parole, Arha comprese che doveva essere così. Quella era la patria della tenebra, il centro della notte.

Per tre volte le sue dita incontrarono una breccia nella complessa oscurità rocciosa. La terza volta cercò di misurare a tastoni l’altezza e l’ampiezza del varco, e vi entrò. Kossil la seguì.

In quella galleria, che adesso saliva lievemente, passarono davanti a un’apertura sulla sinistra, e poi, a una diramazione, svoltarono a destra: sempre a tentoni, brancolando nella tenebra e nel silenzio sotterranei. In un passaggio come quello, era necessario protendere quasi ininterrottamente le mani per toccare le pareti laterali, per non farsi sfuggire una delle aperture che bisognava contare, o la biforcazione che doveva essere seguita. Il tatto era l’unica guida: non era possibile vedere la via, bisognava seguirla con la mano.

—  Questo è il labirinto?

—  No. Questo è il meandro minore, situato sotto il trono.

—  Dov’è l’ingresso del labirinto?

Ad Arha piaceva quel gioco al buio: e adesso aspirava a un enigma più grande.

—  La seconda apertura che abbiamo superato nella cripta. Adesso cerca una porta sulla destra, una porta di legno. Forse l’abbiamo già passata…

Arha udì le mani di Kossil che brancolavano inquiete lungo la parete, strusciando contro la roccia scabra. Lei continuava a tenere i polpastrelli posati leggermente sulla pietra, e dopo un istante sentì la liscia grana del legno. Spinse, e la porta si aprì cigolando, senza difficoltà. Lei rimase immobile per un momento, abbacinata dalla luce.

Entrarono in una grande camera bassa, dalle pareti di pietra intagliata, illuminata da un’unica torcia fumigante appesa a una catena. L’aria era ammorbata dal fumo della torcia, che non aveva sfogo. Gli occhi di Arha presero a bruciare e lacrimare.

—  Dove sono i prigionieri?

—  Là.

Infine lei si accorse che i tre mucchi informi, in fondo alla camera, erano uomini.

—  La porta non è chiusa a chiave. Non ci sono guardie?

—  Non è necessario.

Lei avanzò un poco di più nella camera, esitante, scrutando nella fumosa foschia. I prigionieri erano assicurati per le caviglie e per un polso a grandi anelli fissati nella roccia della parete. Se uno di loro voleva distendersi, il braccio vincolato rimaneva appeso alla catena. I capelli e la barba avevano formato un groviglio che congiurava con le ombre per nascondere i loro volti. Uno era semisdraiato, gli altri due stavano accovacciati. Erano nudi. L’odore che esalavano era ancora più forte del fetore del fumo.

Uno dei tre sembrava intento a scrutare Arha; le parve di scorgere lo scintillio degli occhi, ma non ne era sicura. Gli altri non si erano mossi, non avevano alzato la testa.

Arha si distolse. — Non sono più uomini — disse.

—  Non lo sono mai stati. Erano demoni, spiriti di belve, che complottavano contro la sacra vita del re-dio! — Gli occhi di Kossil brillavano nella luce rossastra della torcia.

Arha guardò di nuovo i prigionieri, turbata e incuriosita. — Com’è possibile che un uomo aggredisca un dio? Come è avvenuto? Tu: come hai osato attaccare un dio vivente?

L’uomo la fissò attraverso il nero cespuglio dei capelli, ma non disse nulla.

—  Hanno tagliato loro la lingua prima che li mandassero qui da Awabath — disse Kossil. — Non parlare con loro, padrona. Sono immondi. Sono tuoi, ma non perché tu parli con loro o li guardi o pensi a loro. Sono tuoi perché tu li dia ai Senza Nome.

—  Come devono essere sacrificati?

Arha non guardava i prigionieri. Era girata verso Kossil, traendo forza da quel corpo massiccio e da quella voce fredda. Si sentiva stordita, e il fetore del fumo e del sudiciume le dava la nausea; eppure sembrava che pensasse e parlasse con calma perfetta. Non l’aveva già fatto molte altre volte, in passato?

—  La Sacerdotessa delle Tombe sa meglio di chiunque altro quale morte piacerà ai suoi Padroni, e spetta a lei scegliere. Ci sono moltissimi modi.

—  Che Gobar, il capitano delle guardie, tagli loro la testa. E il sangue verrà versato davanti al trono.

—  Come se fosse un sacrificio di capri? — Kossil pareva deridere la sua scarsa immaginazione. Arha restò muta. Kossil proseguì: — Inoltre, Gobar è un uomo. Nessun uomo può entrare nei luoghi tenebrosi delle tombe, e sicuramente la mia padrona lo ricorda. Se entrerà, non potrà uscire…

—  Chi li ha portati qui? Chi dà loro da mangiare?

—  I guardiani che servono il mio tempio, Duby e Uahto; sono eunuchi, e possono entrare qui al servizio dei Senza Nome, come posso farlo io. I soldati del re-dio hanno lasciato i prigionieri legati all’esterno del muro, e io e i guardiani li abbiamo portati qui attraverso la Porta dei Prigionieri, la porta nelle rocce rosse. È sempre stato cosi. Il cibo e l’acqua vengono calati da una botola, in una delle stanze dietro il trono.

Arha alzò la testa e vide, accanto alla catena cui era appesa la torcia, un riquadro di legno incastonato nella volta di pietra. Era troppo piccolo perché un uomo potesse passare: ma una corda poteva calare esattamente alla portata del prigioniero centrale. Lei si affrettò a distogliere lo sguardo.

—  E allora, che non gli si portino più né cibo né acqua. Che la torcia si spenga.

Kossil s’inchinò. — E i cadaveri, quando saranno morti?

—  Dubi e Uahto li seppelliranno nella grande caverna che abbiamo attraversato, la cripta — disse la ragazza, e la sua voce divenne acuta e concitata. — Dovranno farlo al buio. I miei Padroni divoreranno i corpi.

—  Sarà fatto.

—  Così va bene, Kossil?

—  Così va bene, padrona.

—  Allora andiamo — disse Arha, in toni striduli. Si voltò e si affrettò a raggiungere la porta lignea e a uscire dalla Camera delle Catene, nell’oscurità della galleria. Le parve dolce e pacifica come una notte senza stelle, silente, senza luce né vita. Si immerse in quella tenebra pulita e l’attraversò, come un nuotatore che si muove nell’acqua. Kossil si affrettò a seguirla, ma rimase indietro, ansimante, muovendosi pesantemente. Senza esitare, Arha seguì le svolte omesse e scelte all’andata, costeggiò l’immensa cripta echeggiante, e procedette, china, nell’ultimo lungo corridoio fino alla porta chiusa di pietra. Si acquattò e cercò a tentoni la lunga chiave appesa all’anello che portava alla cintura. La trovò, ma non riuscì a rintracciare la serratura. Non c’era un solo puntolino di luce nella parete invisibile che le stava davanti. Le sue dita brancolarono, cercando una serratura o un chiavistello o una maniglia, e non trovarono nulla. Dove andava inserita la chiave? Come poteva uscire?

—  Padrona!

La voce di Kossil, ingigantita dagli echi, sibilò e tuonò lontano, dietro di lei.

—  Padrona, la porta non si aprirà dall’interno. Non si può uscire. Non si può tornare.

Arha si rannicchinò contro la roccia. Non disse nulla.

—  Arha!

—  Sono qui.

—  Vieni!

Lei andò, trascinandosi carponi lungo il corridoio, come un cane, fino alle gonne di Kossil.

—  Sulla destra. Affrettati! Io non devo indugiare qui. Non è il mio posto. Seguimi.

Arha si alzò in piedi e si aggrappò alle vesti di Kossil. Avanzarono, seguendo per un lungo tratto sulla destra la parete stranamente scolpita della caverna, e poi entrarono in una breccia nera nell’oscurità. Adesso salivano, lungo le gallerie, su per le scale. La ragazza si teneva ancora aggrappata alle vesti della donna. Aveva gli occhi chiusi.

C’era una luce, rossa attraverso le sue palpebre. Pensò che fosse ancora la camera piena di fumo e rischiarata dalla torcia, e non riaprì gli occhi. Ma l’aria aveva un odore dolciastro, asciutto e muffito, un odore familiare; e i suoi piedi erano su una scala ripida, quasi una scala a pioli. Lasciò la veste di Kossil e guardò. Sopra la sua testa c’era una botola aperta. La varcò, seguendo Kossil. Si trovò in una stanza che conosceva, una piccola cella di pietra che conteneva un paio di scrigni e di casse di ferro, nel dedalo delle camere dietro la sala del trono. La luce del giorno brillava grigia e fioca nel corridoio oltre la soglia.

—  L’altra, la Porta dei Prigionieri, conduce soltanto nelle gallerie. Non conduce fuori. Questa è l’unica via d’uscita. Se ce n’è un’altra, io non la conosco, e non la conosce neppure Thar. Tu dovresti ricordarla, se c!è. Ma non credo che esista. — Kossil parlava ancora a bassa voce, e con una sfumatura sprezzante. Il suo volto pesante, entro il cappuccio nero, era pallido e madido di sudore.

—  Non ricordo le svolte per trovare questa via d’uscita.

—  Te le dirò io. Una volta sola. Devi ricordarle. La prossima volta non verrò con te. Questo non è il mio posto. Dovrai andare sola.

La ragazza annuì. Levò gli occhi verso il volto della donna e pensò che era strano: pallido per la paura dominata a stento e tuttavia trionfante, come se Kossil si compiacesse della propria debolezza.

—  Dopo questa volta, andrò da sola — disse; e poi, mentre cercava di voltarsi per allontanarsi da Kossil, sentì che le gambe cedevano, e vide la stanza roteare. Cadde svenuta, in un mucchietto nero, ai piedi della sacerdotessa.

—  Imparerai — disse Kossil, immobile, respirando ancora pesantemente. — Imparerai.

SOGNI E LEGGENDE

Per diversi giorni, Arha non si sentì bene. La curarono come se avesse la febbre. Lei restava a letto, o sedeva nella mite luce autunnale sotto il portico della Casa Piccola, e guardava le colline a occidente. Si sentiva debole e sciocca. Le tornavano sempre alla mente le stesse idee. Si vergognava di essere svenuta. Non era stata messa una guardia al muro delle tombe, ma ormai lei non avrebbe più osato chiederlo a Kossil. Non voleva vedere Kossil: mai più. Perché si vergognava di essere svenuta.

Spesso, mentre se ne stava al sole, pensava come si sarebbe comportata la prossima volta che si fosse addentrata nei luoghi tenebrosi sotto la collina. Pensò molte volte alla morte che avrebbe dovuto comandare per i prigionieri successivi: più elaborata, più adeguata ai rituali del trono vuoto.

Ogni notte, al buio, si svegliava urlando: — Non sono ancora morti! Stanno ancora morendo!

Sognava molto. Sognava di cucinare, grandi paioli colmi di saporita pappa di cereali, e di versare tutto in una buca nel terreno. Sognava di dover portare un bacile pieno d’acqua, un bacile fondo, attraverso l’oscurità, a qualcuno che aveva sete. Non riusciva mai a raggiungerlo. Si svegliava, e anche lei aveva sete, ma non si alzava per andare a bere. Giaceva sveglia, con gli occhi spalancati, nella stanza senza finestre.

Una mattina, Penthe venne a trovarla. Dal portico, Arha la vide avvicinarsi alla Casa Piccola con un’aria disinvolta e sfaccendata, come se fosse capitata da quelle parti per puro caso. Se Arha non avesse parlato, non avrebbe salito i gradini. Ma Arha si sentiva sola, e le parlò.

Penthe le fece il profondo inchino di prammatica per tutti coloro che si avvicinavano alla Sacerdotessa delle Tombe, e poi si lasciò cadere sui gradini, ai piedi di Arha, ed emise un suono come fiúuh! Era diventava molto alta e grassoccia; bastava un nulla per farla diventare rossa come una ciliegia, e adesso era rossa per la camminata.

—  Ho sentito che eri malata. Ti ho portato qualche mela. — Dalle pieghe della voluminosa veste nera estrasse all’improvviso una rete di giunco che conteneva sette o otto mele gialle e perfette. Adesso era consacrata al servizio del re-dio, e serviva nel suo tempio agli ordini di Kossil; ma non era ancora sacerdotessa, e studiava ancora ed eseguiva i lavori insieme alle novizie. — Quest’anno io e Poppe abbiamo diviso le mele, e io ho conservato le migliori. Quelle davvero buone le fanno sempre seccare. Naturalmente così si conservano di più, ma mi sembra uno spreco. Non sono belle?

Arha toccò la buccia di raso d’oro pallido delle mele, guardò i ramoscelli da cui pendevano ancora le delicate foglie brune. — Sono belle.

—  Prendine una — disse Penthe.

—  Adesso no. Prendila tu.

Penthe scelse la più piccola, per deferenza, e la mangiò in dieci abili morsi succosi e interessati.

—  Mangerei tutto il giorno — disse. — Non mi sento mai sazia. Vorrei diventare cuoca, invece che sacerdotessa. Saprei cucinare meglio di quella vecchia spilorcia di Nathabba, e poi potrei leccare le pentole… Oh, hai saputo di Munith? Doveva lucidare quei vasi di bronzo dove tengono l’olio di rose: sai, quelle anfore alte e sottili col tappo. E lei ha pensato di dover pulire anche l’interno, e così ha infilato dentro la mano, avvolta in uno straccio, sai, e poi non è riuscita a tirarla fuori. Si è sforzata tanto che la mano si è tutta gonfiata al polso, sai, e così è rimasta davvero bloccata. E si è messa a galoppare per i dormitori, urlando: «Non riesco a tirarla fuori! Non riesco a tirarla fuori!». E ormai Punti è diventato così sordo che ha creduto che fosse scoppiato un incendio, e si è messo a strillare perché gli altri custodi venissero a portare in salvo le novizie. E Uahto stava mungendo ed è uscito di corsa dal recinto per vedere cos’era successo, e ha lasciato il cancelletto aperto, e tutte le capre sono scappate e si sono precipitate nel cortile e si sono imbattute in Punti e nei guardiani e nelle bambine, e Munith era lì che agitava l’anfora in preda all’isterismo, e tutti correvano di qua e di là. Poi Kossil è scesa dal tempio e ha detto: «Cosa succede? Cosa succede?».

Il tondo volto di Penthe si atteggiò a una smorfia di disprezzo, diversa dall’espressione fredda di Kossil, eppure in un certo senso così simile che Arha proruppe in una risata quasi atterrita.

—  «Cosa succede? Cosa succede?», ha detto Kossil. E poi… e poi la capra marrone l’ha presa a cornate… - Penthe si sciolse in una risata, con gli occhi traboccanti di lacrime. — E M-Munith ha colpito la… la capra con il v-v-vaso…

Le due ragazze si dondolarono avanti e indietro, squassate dall’ilarità, stringendosi le ginocchia, ridacchiando.

—  E allora Kossil si è girata e ha detto «Cosa succede? Cosa succede?» alla… alla… alla capra… — La conclusione del racconto si perse tra le risate. Infine Penthe si asciugò gli occhi e il naso e addentò distrattamente un’altra mela.

Ridere tanto forte aveva scosso un po’ Arha. Si calmò, e dopo qualche istante chiese: — Come mai tu sei venuta qui?

—  Oh, ero la sesta figlia femmina, e mio padre e mia madre non potevano tirarci su tutte e trovarci marito. Così, quando ho compiuto i sette anni, mi hanno condotta al tempio del re-dio, e mi hanno dedicata. È stato a Ossawa. Ma là c’erano già troppe novizie, immagino, perché poco dopo mi hanno mandata qui. O forse pensavano che sarei diventata una buona sacerdotessa, o qualcosa del genere. Ma in questo si sbagliavano! — Penthe addentò la mela con un’espressione di gaio rammarico.

—  Preferiresti non essere sacerdotessa?

—  Se lo preferirei? Ma certo! Preferirei sposare un porcaio e vivere in un fosso. Preferirei qualunque cosa piuttosto di vivere qui tutti i miei giorni in mezzo a un branco di donne, in un vecchio deserto dove non viene mai nessuno! Ma è inutile pensarci, perché ormai sono stata consacrata ed è fatta. Ma spero che nella mia prossima vita sarò una danzatrice di Awabath! Perché me lo sarò meritato.

Arha la guardò, uno sguardo fermo e aggrondato. Non comprendeva. Sentiva che prima di quel giorno non aveva mai visto la vera Penthe, non l’aveva mai guardata in modo da scoprire qual era in realtà: bella, rotonda, piena di vita e succosa, come una delle sue mele dorate.

—  Il tempio non significa proprio nulla, per te? — chiese, piuttosto aspramente.

Penthe, sempre sottomessa e facile a lasciarsi intimidire, questa volta non si allarmò. — Oh, so che i tuoi Padroni sono molto importanti per te — disse, con un’indifferenza che scandalizzò Arha. — Ma questo è comprensibile, perché tu sei la loro unica ancella. Tu non sei stata semplicemente consacrata: sei nata apposta. Ma guarda me. Dovrei provare tanta reverenza per il re-dio? Dopotutto è soltanto un uomo, anche se vive ad Awabath in un palazzo dai tetti d’oro e con una circonferenza di dieci miglia. Ha quasi cinquant’anni ed è calvo. Basta guardare le statue. E scommetto che deve tagliarsi le unghie dei piedi, come tutti gli altri uomini. So benissimo che è anche un dio. Ma io penso che sarà molto più dio quando sarà morto.

Arha era d’accordo con Penthe, perché segretamente aveva finito col considerare i sedicenti imperatori divini di Kargad alla stregua di dèi falsi e arrivisti che cercavano di usurpare la venerazione dovuta alle vere ed eterne Potenze. Ma nelle parole di Penthe c’era qualcosa che non approvava, qualcosa di completamente nuovo per lei, qualcosa di spaventoso. Non si era mai accorta che la gente era molto diversa e vedeva la vita in un modo molto diverso. Aveva la sensazione di aver alzato all’improvviso la testa e di aver visto librarsi oltre la finestra un nuovo pianeta immenso e popoloso, un mondo interamente sconosciuto in cui gli dèi non contavano nulla. Era spaventata dalla concretezza dell’empietà di Penthe. Impaurita, scattò.

—  È vero. I miei Padroni sono morti da molto, molto tempo; e non sono uomini… Sai, Penthe, potrei chiamarti al servizio delle tombe. — Parlò gentilmente, come se offrisse all’amica un’occasione migliore.

Il colore roseo defluì dalle guance di Penthe.

—  Sì — disse lei. — Potresti farlo. Ma io non sono… non sono il tipo adatto.

—  Perché?

—  Ho paura del buio — rispose Penthe, a voce bassa.

Arha fece udire un breve sbuffo di disprezzo, ma era compiaciuta. Aveva dimostrato ciò che voleva. Penthe poteva non credere agli dèi, ma temeva le innominabili potenze delle tenebre… come tutte le anime mortali.

—  Non lo farei a meno che tu lo volessi, lo sai — disse Arha. Tra loro scese un lungo silenzio.

—  Stai diventando sempre più simile a Thar — riprese Penthe, con quel suo fare tenero e sognante. — Grazie al cielo, non stai diventando come Kossil! Ma tu sei così forte. Vorrei essere forte anch’io. A me piace solo mangiare…

—  E allora continua — disse Arha, con superiorità divertita, e poco alla volta Penthe consumò la terza mela fino al torsolo. Un paio di giorni dopo, le esigenze dell’eterno rituale del Luogo strapparono Arha alla sua solitudine. Una capra aveva partorito due capretti gemelli fuori stagione, e secondo la consuetudine dovevano essere sacrificati agli dèi gemelli: era un rito importante, e la Prima Sacerdotessa doveva partecipare. Inoltre era il novilunio, e si dovevano compiere le cerimonie delle tenebre davanti al trono vuoto. Arha aspirò gli inebrianti fumi delle erbe che bruciavano in larghi vassoi di bronzo davanti al trono, e danzò, solitaria, avvolta nelle vesti nere. Danzò per gli spiriti invisibili dei morti e dei non nati, e mentre danzava gli spiriti affollarono l’aria intorno a lei seguendo le giravolte dei suoi piedi e i gesti lenti e sicuri delle sue braccia. Cantò i canti di cui nessuno comprendeva le parole e che lei aveva appreso sillaba per sillaba da Thar, molto tempo prima. Un coro di sacerdotesse nascoste nella penombra dietro la duplice grande fila di colonne faceva eco alle strane parole, ripetendole dopo di lei, e l’aria dell’immensa navata in rovina vibrava di voci come se anche la folla degli spiriti ripetesse incessantemente quei canti.

Il re-dio, che regnava dal suo palazzo ad Awabath, non inviò altri prigionieri al Luogo, e a poco a poco Arha smise di sognare i tre che erano morti ormai da molto tempo e sepolti in tombe poco profonde nella grande caverna sotto le Pietre.

Arha chiamò a raccolta tutto il coraggio per tornare in quella caverna. Doveva andarci: la Sacerdotessa delle Tombe doveva entrare nel suo dominio senza terrore, e conoscerne le vie.

La prima volta che varcò la botola fu difficile, ma meno difficile di quanto avesse temuto. Si era preparata, aveva deciso che sarebbe andata sola e non avrebbe perso la testa, e quando vi giunse rimase quasi sgomenta scoprendo che non c’era nulla da temere. Potevano esserci le tombe, ma lei non le vedeva: non vedeva nulla. Era buio e c’era silenzio: e questo era tutto.

Continuò ad andarci, passando sempre per la botola nella stanza dietro il trono, fino a quando imparò a conoscere bene l’intero circuito della caverna, con le sue strane pareti scolpite: bene per quanto poteva conoscerlo senza vederlo. Non si scostava mai dalle pareti, perché attraversando la grande cavità avrebbe potuto perdere il senso dell’orientamento nell’oscurità e tornando a tentoni a una parete non avrebbe saputo dove si trovava. Come aveva imparato la prima volta, là nei luoghi tenebrosi la cosa più importante era di sapere quali svolte e quali aperture aveva superato e quali l’attendevano ancora. Doveva procedere contando, perché erano tutte uguali sotto le sue dita brancolanti. La sua memoria era stata ben addestrata, e lei non aveva difficoltà in quello strano compito di trovare la strada al tatto e contando, invece di affidarsi alla vista e al buonsenso. Ben presto conobbe a memoria tutti i corridoi che partivano dalla cripta, il labirinto minore situato sotto il palazzo del trono e la cima della collina. Ma c’era un corridoio dove non si era mai addentrata: il secondo a sinistra dall’entrata nella roccia rossa, quello da cui, se vi fosse penetrata scambiandolo per un altro che conosceva, forse non sarebbe mai uscita. Il suo desiderio di entrarvi, di scoprire il labirinto, cresceva continuamente: ma lei lo dominava, in attesa di aver imparato tutto ciò che poteva.

Thar ne sapeva ben poco, tranne i nomi di certe camere e l’elenco delle direzioni da prendere e delle svolte da seguire e da omettere per arrivarvi. Lo diceva ad Arha, ma non le disegnava mai nella polvere e neppure con un gesto della mano nell’aria: e lei stessa non le aveva mai percorse, non era mai penetrata nel labirinto. Ma quando Arha le chiedeva «Qual è la via che conduce dalla porta di ferro aperta alla Camera Dipinta?», oppure «Come procede il percorso dalla Camera delle Ossa fino alla galleria presso il fiume?», allora Thar rimaneva per un po’ in silenzio e poi recitava le strane istruzioni che aveva appreso molto tempo prima dall’Arha precedente: tanti varchi da superare, tante svolte a sinistra, e così via e così via. E Arha imparava tutto a memoria, come aveva fatto Thar, spesso dopo aver ascoltato una volta soltanto. Quando giaceva sveglia nel suo letto, la notte, le ripeteva a se stessa, cercando di immaginare i luoghi, le camere, le svolte.

Thar mostrò ad Arha i numerosi spioncini che si aprivano sul labirinto, in tutti gli edifici e i templi del Luogo, e perfino sotto le rocce all’aperto. La ragnatela delle gallerie dalle pareti di pietra si stendeva sotto l’intero Luogo, e addirittura oltre le sue mura: c’erano miglia e miglia di corridoi, laggiù nelle tenebre. Tranne lei, le due somme sacerdotesse e i loro servitori personali, gli eunuchi Manan, Uahto e Duby, nessuno conosceva l’esistenza del labirinto che si stendeva sotto ogni loro passo. Tra gli altri, correvano vaghe dicerie: tutti sapevano che c’erano grotte o camere sotto le Pietre. Ma nessuno si mostrava troppo curioso, per quanto riguardava i Senza Nome e i luoghi a loro sacri. Forse pensavano che era meglio saperne molto poco. Arha, naturalmente, aveva sempre provato un’intensa curiosità, e poiché sapeva che c’erano spioncini affacciati sul labirinto li aveva cercati; eppure erano nascosti così bene, nei pavimenti o nel terreno deserto, che non ne aveva trovato nemmeno uno, neppure quello nella Casa Piccola, la sua casa, finché Thar gliel’aveva mostrato.

Una notte, all’inizio della primavera, prese una lanterna a candela e la portò giù, senza accenderla, attraverso la cripta, fino alla seconda galleria a sinistra del corridoio proveniente dalla porta nella roccia rossa.

Al buio, si addentrò per una trentina di passi nella galleria e poi varcò una porta, tastando l’intelaiatura di ferro incastonata nella roccia: quello era il limite attuale delle sue esplorazioni. Oltre la Porta di Ferro procedette per un lungo tratto; e quando finalmente la galleria incominciò a curvare verso destra, lei accese la candela e si guardò intorno. Perché lì la luce era consentita. Non era più nella cripta. Era in un luogo meno sacro, anche se forse più spaventoso. Era nel labirinto.

Le scabre e nude superfici delle pareti e della volta e del pavimento di roccia la circondavano nella piccola sfera della luce della candela. L’aria era morta. Davanti a lei e dietro di lei, la galleria si stendeva nell’oscurità.

Tutte le gallerie erano uguali, e s’incrociavano e tornavano a incrociarsi. Arha teneva scrupolosamente il conto delle svolte e delle aperture, recitando tra sé le istruzioni di Thar sebbene le conoscesse perfettamente. Sarebbe stato terribile, perdersi nel labirinto. Nella cripta e nei brevi corridoi vicini, Kossil e Thar avrebbero potuto ritrovarla, o Manan sarebbe venuto a cercarla, perché lei l’aveva condotto là parecchie volte. Ma lì nessuno di loro era mai penetrato: soltanto lei. Sarebbe stato inutile scendere nella cripta e chiamarla a gran voce, se lei era smarrita in un’aggrovigliata spirale di gallerie a mezzo miglio di distanza. Immaginava che avrebbe potuto udire l’eco delle voci che la chiamavano nei corridoi, e che avrebbe cercato di raggiungerle: ma, perduta, si sarebbe persa ancora di più. Lo immaginò così vivamente che si fermò, credendo di sentirsi chiamare da una voce lontana. Ma non c’era nulla. E lei non si sarebbe smarrita. Era molto prudente; e quello era il suo posto, il suo dominio. Le potenze della tenebra, i Senza Nome, avrebbero guidato i suoi passi, così come avrebbero fatto smarrire qualunque altro mortale che avesse osato penetrare nel Labirinto delle Tombe.

Quella prima volta non si spinse lontano, eppure abbastanza lontano perché la strana e amara e tuttavia piacevole certezza della sua solitudine assoluta e della sua indipendenza si rafforzasse in lei e la riconducesse indietro, ogni volta più lontano. Arrivò alla Camera Dipinta e alle Sei Vie, e seguì la lunga Galleria Estrema, e penetrò nello strano meandro che portava alla Camera delle Ossa.

—  Quando venne creato il labirinto? — chiese a Thar, e la scarna e austera sacerdotessa rispose: — Padrona, non lo so. Nessuno lo sa.

—  Perché venne creato?

—  Per nascondere i tesori delle tombe, e per punire coloro che tentassero di rubare quei tesori.

—  Tutti i tesori che ho visto sono nelle camere dietro il trono e nelle cantine sottostanti. Cosa c’è nel labirinto?

—  Un tesoro ancora più grande e antico. Vorresti vederlo?

—  Nessuno, tranne te, può entrare nel Tesoro delle Tombe. Puoi portare i tuoi servitori nel labirinto, ma non nel Tesoro. Se vi entrasse perfino Manan, desterebbe l’ira della tenebra; e lui non uscirebbe vivo dal labirinto. Là devi andare da sola, sempre. Io so dove si trova il Grande Tesoro. Tu mi hai insegnato la via, quindici anni orsono, prima di morire, perché la ricordassi e te la dicessi quando saresti ritornata. Posso dirti la via da seguire nel labirinto, oltre la Camera Dipinta; e la chiave che apre il Tesoro è quella argentea appesa al tuo anello, con la figura di un drago sull’asta. Ma devi andarci da sola.

—  Dimmi la via.

Thar gliela disse, e lei ricordò, come ricordava tutto ciò che le veniva detto. Ma non andò a vedere il Grande Tesoro delle Tombe. La trattenne la sensazione che la sua volontà o la sua conoscenza non fossero ancora complete. O forse desiderava tenere in serbo qualcosa, qualcosa cui pensare e che conferisse un fascino a quelle gallerie interminabili che si snodavano nella tenebra e finivano sempre davanti a pareti cieche o in nude celle polverose. Avrebbe atteso ancora un poco, prima di vedere i suoi tesori.

Dopotutto, non li aveva già visti nel passato?

Eppure provava ancora un’impressione strana, quando Thar e Kossil le parlavano di cose che lei aveva visto o detto prima di morire. Sapeva che in verità era morta, ed era rinata in un nuovo corpo nell’ora della morte del vecchio corpo; non soltanto una volta, quindici anni prima, ma cinquant’anni prima, e prima ancora, e ancora, indietro negli anni e nei secoli, per generazioni e generazioni, fino al principio degli anni, quando era stato scavato il labirinto ed erano state erette le Pietre, e la Prima Sacerdotessa dei Senza Nome era vissuta in quel Luogo e aveva danzato davanti al trono vuoto. Erano tutte una cosa sola, quelle vite e la sua. Lei era la Prima Sacerdotessa. Tutti gli esseri umani rinascevano, ma lei soltanto rinasceva sempre come se stessa. Cento volte aveva imparato le vie e le svolte del labirinto ed era giunta finalmente nella camera nascosta.

Talvolta credeva di ricordare. I luoghi tenebrosi sotto la collina le erano familiari, come se fossero non soltanto il suo dominio ma la sua casa. Quando aspirava i fumi drogati per danzate al novilunio, la sua mente diventava leggera leggera e il suo corpo non le apparteneva più; e allora danzava nei secoli, scalza nelle vesti nere, e sapeva che la danza non si era mai interrotta.

Eppure era sempre strano, quando Thar diceva: — Me l’hai insegnato tu prima di morire…

Una volta lei chiese: — Chi erano gli uomini che venivano a derubare le tombe? Davvero c’è stato qualcuno che l’ha fatto? — L’idea dei ladri le era parsa eccitante ma improbabile. Come potevano giungere segretamente nel Luogo? I pellegrini erano pochissimi, ancor meno numerosi dei prigionieri. Di tanto in tanto, altre novizie e altri schiavi venivano inviati dai templi minori delle Quattro Terre, oppure arrivava un piccolo gruppo per portare offerte d’oro o d’incensi rari a uno dei templi. Ed era tutto. Nessuno vi giungeva per caso, o per comprare e vendere, o per curiosare, o per rubare; nessuno veniva mai lì, se non aveva ricevuto l’ordine. Arha non sapeva neppure quanto distasse la città più vicina, se venti miglia o più; e la città più vicina era piccola. Il Luogo era guardato e difeso dal vuoto, dalla solitudine. Chiunque attraversasse il deserto che lo circondava, pensava Arha, aveva le stesse probabilità di passare inosservato di una pecora nera in un campo di neve.

Era insieme a Thar e a Kossil, con le quali adesso trascorreva gran parte del tempo quando non era nella Casa Piccola o da sola nelle viscere della collina. Era una fredda e tempestosa notte d’aprile. Sedevano accanto a un piccolo fuoco di rami di salvia, nel focolare della stanza dietro il tempio del re-dio, la stanza di Kossil. Oltre la soglia, nel corridoio, Manan e Duby giocavano con stecchi e segnalini, lanciando un fascio di stecchi e raccogliendone il maggior numero possibile sul dorso della mano. Qualche volta Manan e Arha giocavano ancora quel gioco, in segreto, nel cortile interno della Casa Piccola. Il tintinnio degli stecchi che cadevano, i rauchi mormorii di trionfo e di delusione, lo smorzato crepitio del fuoco, erano gli unici suoni quando le tre sacerdotesse tacevano. Tutt’intorno, oltre le mura, regnava il profondo silenzio della notte nel deserto. Di quando in quando giungeva lo scroscio di un acquazzone.

—  Tanto tempo fa, vennero molti per derubare le tombe; ma nessuno ci è mai riuscito — disse Thar. Sebbene fosse taciturna, ogni tanto amava raccontare una storia, e spesso lo faceva per istruire Arha. E quella sera sembrava disposta a raccontare.

—  E com’è possibile che un uomo osi una cosa simile?

—  Loro osano — disse Kossil. — Erano incantatori, maghi delle Terre Interne. Questo avveniva prima che i re-dèi regnassero nelle terre di Kargad: allora non eravamo così forti. I maghi venivano con le loro navi da occidente, fino a Karego-At e Atuan, per saccheggiare le città della costa e depredare le fattorie, e penetravano perfino nella città sacra di Awabath. Venivano per uccidere i draghi, dicevano; ma rimasero per derubare città e templi.

—  E i loro grandi eroi venivano tra noi per collaudare le loro spade — aggiunse Thar, — e per operare i loro empi sortilegi. Uno di loro, un possente incantatore e signore dei draghi, il più grande di tutti, incontrò qui una dura sorte. Avvenne molto tempo fa, moltissimo tempo fa, ma l’episodio viene ricordato ancora, e non soltanto in questo luogo. L’incantatore si chiamava Erreth-Akbe, ed era mago in occidente. Giunse nelle nostre terre, e ad Awabath si alleò a certi nobili ribelli di Kargad e combatté per il dominio sulla città con il sommo sacerdote del tempio interno degli dèi gemelli. Combatterono a lungo, la stregoneria del mago contro la folgore degli dèi, e il tempio venne distrutto. Alla fine il sommo sacerdote spezzò il bastone magico dell’incantatore, ruppe a metà il suo amuleto del potere, e lo sconfisse. Il mago fuggì dalla città e dal territorio di Kargad, e attraversò tutto Earthsea fino al più lontano occidente; e là un drago lo uccise, perché il suo potere era svanito. E da quel giorno la potenza delle Terre Interne è in costante declino. Ora, il sommo sacerdote si chiamava Intahin, ed era il primo della casata di Tarb, la stirpe da cui, dopo il compimento della profezia e dei secoli, discesero i re-sacerdoti di Karego-At, e da questi i re-dèi di tutto Kargad. Perciò dai tempi di Intahin la potenza delle terre di Kargad si è sempre accresciuta. Coloro che venivano per derubare le tombe erano incantatori, e cercavano sempre di recuperare l’amuleto infranto di Erreth-Akbe. Ma è ancora qui, dove lo nascose il sommo sacerdote perché rimanesse al sicuro. E anche le loro ossa sono qui… — Thar additò il suolo sotto i suoi piedi.

—  Metà dell’amuleto è qui — disse Kossil.

—  E l’altra metà è perduta per sempre.

—  Perduta come? — chiese Arha.

—  Una metà, rimasta nelle mani di Intahin, fu donata da lui al Tesoro delle Tombe, dove dovrebbe essere al sicuro per sempre. L’altra rimase nella mano dell’incantatore, ma prima di fuggire lui la consegnò a un re, uno dei ribelli, che si chiamava Thoreg di Hupun. Non so perché l’abbia fatto.

—  Per causare conflitti, per far inorgoglire Thoreg — disse Kossil. — E infatti fu così. I discendenti di Thoreg si ribellarono ancora, quando regnava la casa di Tarb; e presero di nuovo le armi contro il primo re-dio, rifiutando di riconoscerlo come dio e come re. Erano una razza stregata e maledetta. Ormai sono tutti morti.

Thar annuì. — Il padre dell’attuale re-dio, il Signore Che È Asceso, abbatté la famiglia di Hupun e ne distrusse i palazzi. Quando questo avvenne, la metà dell’amuleto, che quelli avevano sempre conservato fin dai tempi di Erreth-Akbe e di Intahin, andò perduta. Nessuno sa cosa le sia successo. E questo avvenne una generazione fa.

—  Venne gettata via come spazzatura, senza dubbio — commentò Kossil. — Dicono che non avesse l’aspetto di un oggetto prezioso, l’Anello di Erreth-Akbe. Sia maledetto, e siano maledette tutte le cose del popolo dei maghi! — Sputò nel fuoco.

—  Tu hai visto la metà che è qui? — chiese Arha a Thar.

La donna scarna scosse il capo. — È nel Tesoro, dove nessuno può entrare eccettuata l’Unica Sacerdotessa. Forse è il tesoro più grande che vi sia custodito; non so. Credo che lo sia. Per centinaia d’anni le Terre Interne hanno mandato ladri e maghi per cercare di riprenderlo; e quelli non badavano agli scrigni aperti colmi d’oro, cercando solo quella cosa. È passato molto tempo da quando vissero Erreth-Akbe e Intahin, eppure la storia è ancora conosciuta e viene raccontata, qui e in occidente. Molte cose invecchiano e periscono, col trascorrere dei secoli. Sono pochissime le cose preziose che restano tali, e le storie che vengono ancora narrate.

Arha rimuginò per qualche attimo e disse: — Dovevano essere uomini molto coraggiosi o molto stupidi, per entrare nelle tombe. Non conoscevano i poteri dei Senza Nome?

—  No — rispose Kossil, con quella sua voce fredda. — Loro non hanno dèi. Operano magie, e credono di essere dèi loro stessi. Ma non lo sono. E quando muoiono, non rinascono. Diventano polvere e ossa, e i loro spettri gemono nel vento per qualche tempo finché poi il vento li disperde. Non hanno un’anima immortale.

—  Ma cos’è la magia che loro operano? — chiese Arha, affascinata. Non ricordava di aver detto, una volta, che avrebbe rifiutato di guardare le navi venute dalle Terre Interne. — Come fanno? Cosa fanno?

—  Trucchi, inganni, giochi di prestigio — disse Kossil.

—  Qualcosa di più — disse Thar, — se le storie che si raccontano sono vere almeno in parte. I maghi dell’occidente possono suscitare e acquietare i venti, e farli spirare come vogliono. Su questo, tutti sono d’accordo e dicono la stessa storia. È per questo che sono grandi marinai; possono mettere il vento della magia nelle loro vele, e andare dove vogliono, e placare le tempeste del mare. E si dice che possano creare la luce a volontà, e la tenebra, e cambiare le pietre in diamanti e il piombo in oro; che possano costruire un grande palazzo o una grande città in un istante, almeno all’apparenza; che possano mutarsi in orsi, o pesci, o draghi, secondo il loro desiderio.

—  Io non credo a tutto questo — osservò Kossil. — Che siano pericolosi, astuti ed esperti nei trucchi, e viscidi come anguille, sì. Ma dicono che se togli a un incantatore il suo bastone di legno, lui non ha più potere. Probabilmente, sul bastone sono incisi simboli malefici.

Thar scosse di nuovo la testa. — Portano il bastone, è vero: ma è solo lo strumento del potere che hanno dentro.

—  Ma come ottengono il potere? — chiese Arha. — Da dove proviene?

—  Menzogne — rispose Kossil.

—  Parole — aggiunse Thar. — Così mi è stato detto da un tale che una volta aveva osservato un grande incantatore delle Terre Interne: un mago, come vengono chiamati. L’avevano preso prigioniero, in una scorreria a occidente. Lui mostrò un bastone di legno secco e pronunciò una parola. E tac, il bastone fiorì. E disse un’altra parola: e tac, il bastone si caricò di mele rosse. E poi disse ancora un’altra parola, e bastone e fiori e mele sparirono e con loro sparì anche l’incantatore. Con una sola parola era svanito come l’arcobaleno, in un batter d’occhio, senza lasciar tracce; e non lo ritrovarono mai più su quell’isola. Era soltanto un trucco?

—  È facile ingannare gli stolti — rispose Kossil.

Non dissero altro, per evitare una discussione; ma ad Arha dispiacque che abbandonassero l’argomento. — Come sono quelli del popolo degli incantatori? — chiese. — Sono davvero tutti neri, con gli occhi bianchi?

—  Sono neri e malvagi. Io non ne ho mai visto uno — rispose in tono soddisfatto Kossil, spostando la sua pesante mole sullo sgabello e tendendo le mani verso il fuoco.

—  Che gli dèi gemelli li tengano lontani — mormorò Thar.

—  Non verranno mai più, qui — disse Kossil. E il fuoco crepitò, e la pioggia scrosciò sul tetto, e oltre la soglia buia Manan gridò con voce stridula: — Aha! Una metà per me, una metà!

LUCE SOTTO LA COLLINA

Mentre l’anno si avviava di nuovo verso l’inverno, Thar morì. Durante l’estate l’aveva presa la malattia di consunzione; era magra, ma divenne scheletrica; era taciturna, e adesso non parlava più. Parlava soltanto ad Arha, qualche volta, quando erano sole; poi anche questo finì, e lei se ne andò, silenziosamente, nella tenebra. Quando non ci fu più, Arha sentì molto la sua mancanza. Thar era stata severa, ma non era mai stata crudele. A lei aveva insegnato l’orgoglio, non la paura.

Adesso c’era soltanto Kossil.

In primavera sarebbe giunta da Awabath una nuova somma sacerdotessa per il tempio degli dèi gemelli; fino ad allora, Arha e Kossil erano le sole signore del Luogo. La donna chiamava «padrona» la ragazza, e doveva ubbidire se lei le dava un ordine. Ma Arha aveva imparato a non dare ordini a Kossil. Aveva il diritto di farlo, ma non la forza: sarebbe stata necessaria una forza grandissima, per opporsi alla gelosia che Kossil nutriva verso un grado più elevato del suo, al suo odio per tutto ciò che non poteva dominare.

Poiché Arha aveva imparato — dalla dolce Penthe — l’esistenza dell’ateismo, e l’aveva accettato come realtà anche se le faceva paura, aveva potuto guardare Kossil con maggiore fermezza, e l’aveva compresa. Kossil, in cuor suo, non nutriva la minima venerazione per i Senza Nome o per gli dèi. Non considerava sacro null’altro che il potere. Adesso l’imperatore delle Terre di Kargad deteneva il potere: quindi ai suoi occhi era davvero un re-dio, e lei l’avrebbe servito devotamente. Ma per lei i templi erano soltanto apparenza, le Pietre erano soltanto sassi, le Tombe di Atuan erano gallerie tenebrose scavate nella terra, terribili ma vuote. Se avesse potuto, avrebbe abbandonato il culto del Trono Vuoto. Se avesse osato, avrebbe liquidato la Prima Sacerdotessa.

Arha affrontò con fermezza anche quest’ultimo fatto. Forse Thar l’aveva aiutata a capirlo, benché direttamente non avesse mai detto nulla. Durante i primi stadi della sua infermità, prima che il silenzio scendesse sopra di lei, aveva chiesto ad Arha di recarsi a visitarla quasi tutti i giorni, e le aveva parlato, le aveva detto molte cose delle azioni del re-dio e del suo predecessore, e delle consuetudini di Awabath: erano cose che lei doveva conoscere, perché era una sacerdotessa importante, ma che spesso non tornavano a onore del re-dio e della sua corte. E aveva parlato della propria vita, e aveva raccontato com’era stata e cos’aveva fatto l’Arha dell’incarnazione precedente; e qualche volta, ma non spesso, aveva accennato ai possibili intoppi e pericoli della vita attuale di Arha. Neppure una volta aveva nominato Kossil. Ma Arha era stata allieva di Thar per undici anni, e le bastava un accenno o un tono per comprendere e per ricordare.

Dopo il lugubre subbuglio dei Riti del Lutto, Arha incominciò a evitare Kossil. Quando i lunghi lavori e rituali della giornata si erano conclusi, se ne andava nella sua dimora solitaria; e ogni volta che ne aveva il tempo, andava nella stanza dietro il trono e apriva la botola e scendeva nella tenebra. Di giorno e di notte, poiché là non c’era differenza, proseguiva un’esplorazione sistematica del suo dominio. La cripta, con la sua immensa sacralità, era vietata a tutti tranne le sacerdotesse e i loro eunuchi più fidati. Chiunque altro vi si fosse avventurato, uomo o donna, sarebbe stato certamente ucciso dall’ira dei senza Nome. Ma tra tutte le regole che Arha aveva imparato, non ce n’era nessuna che proibisse l’accesso al labirinto. Non era necessario. Vi si poteva penetrare solo passando dalla cripta; e del resto, le mosche hanno forse bisogno di regole che dicano loro di non entrare in una ragnatela?

Perciò lei conduceva spesso Manan nelle zone più vicine del labirinto, perché ne imparasse la strada. Manan non era per nulla entusiasta di andarvi, ma le ubbidiva come sempre. Lei si accertò che Duby e Uahto, gli eunuchi di Kossil, conoscessero la strada della Camera delle Catene e la via d’uscita dalla cripta, ma null’altro; non li conduceva mai nel labirinto. Non voleva che nessuno, eccettuato il fedelissimo Manan, conoscesse quelle vie segrete. Perché erano sue, soltanto sue, per sempre. Aveva incominciato l’esplorazione completa del labirinto. Durante tutto l’autunno, passò molti giorni seguendo quei corridoi interminabili; eppure c’erano ancora certe parti che non aveva mai raggiunto. Si stancava a percorrere quell’immensa e insensata ragnatela di corridoi: le gambe s’indolenzivano, la mente si annoiava a calcolare senza sosta le svolte e i passaggi. Il labirinto era meraviglioso, e si snodava nella compatta roccia sotterranea come le strade di una grande città: ma era stato creato per stancare e confondere il mortale che vi si aggirava, e perfino la sua sacerdotessa sentiva che in fin dei conti era solo una grande trappola.

Perciò, via via che avanzava l’inverno, lei dedicò sempre di più le sue meticolose esplorazioni alla sala, agli altari, alle alcove dietro e sotto gli altari, alle camere dei cofani e delle casse, al contenuto delle casse e dei cofani, a corridoi e soffitte, alla polverosa cavità sotto la cupola dove si annidavano centinaia di pipistrelli, alle cantine e sottocantine che erano l’anticamera dei corridoi di tenebra.

Con le mani e le maniche profumate dalla dolcezza di un muschio trasformato in polvere rimasta per otto secoli in uno scrigno di ferro, la fronte macchiata dal viscoso sgorbio nero di una ragnatela, restava inginocchiata per un’ora a studiare i rilievi di un bellissimo cofano di legno di cedro, rovinato dal tempo, donato da qualche re, secoli addietro, alle Potenze Senza Nome delle Tombe. C’era il re, una figuretta rigida dal grosso naso, e c’era il palazzo del trono con la cupola piatta e il pronao scolpiti in delicato rilievo sul legno da un artista divenuto polvere da chissà quanti secoli. C’era l’Unica Sacerdotessa, che aspirava i fumi drogati dei vassoi bronzei e profetizzava o consigliava il re, che in quella formella aveva il naso rotto; il volto della Sacerdotessa era troppo piccolo per avere lineamenti nitidi, tuttavia Arha immaginava che fosse il suo. Si domandava cos’aveva detto al re dal grosso naso, e se lui gliene era stato riconoscente.

Aveva i suoi posti preferiti, nel palazzo del trono, così come un’altra avrebbe avuto i suoi posti preferiti per mettersi a sedere in una casa soleggiata. Spesso saliva in una specie di soffitta in una delle sacrestie, nella parte posteriore del palazzo. Vi erano conservate antiche vesti, reliquie dei giorni in cui grandi signori e re venivano in pellegrinaggio al Luogo delle Tombe di Atuan, riconoscendo un dominio più grande del loro e di ogni altro uomo. Talvolta le loro figlie, le principesse, avevano indossato quelle morbide sete bianche, ricamate di topazi e di ametiste scure, e avevano danzato con la Sacerdotessa delle Tombe. In una delle tesorerie c’erano minuscole tavolette d’avorio dipinto che mostravano quelle danze, con i re e i nobili che attendevano fuori dal palazzo perché ormai gli uomini non mettevano più piede sul colle delle tombe. Ma le ragazze potevano entrare e danzare con la Sacerdotessa, avvolte nelle sete candide. La Sacerdotessa portava le vesti nere tessute in casa, sempre, allora come adesso; ma ad Arha piaceva venire ad accarezzare quella stoffa morbida e dolce, imputridita dagli anni, con le gemme imperiture che si staccavano dalla stoffa per il loro lieve peso. In quelle cassapanche c’era un profumo diverso da tutti i muschi e gli incensi dei templi del Luogo: un profumo più fresco, più fievole, più giovane.

Nelle stanze del tesoro, Arha era capace di trascorrere una notte a scoprire il contenuto di un unico cofano, gioiello per gioiello: l’armatura arrugginita, i pennacchi spezzati degli elmi, le fibbie e gli spilloni di bronzo, d’argento dorato e d’oro massiccio.

I gufi, indisturbati dalla sua presenza, stavano appollaiati sulle travi e aprivano e chiudevano i gialli occhi. Fra le tegole del tetto brillava una stella; oppure scendeva la neve, finissima e fredda come quelle sete antiche che andavano in polvere a toccarle.

Una notte del tardo inverno, nel palazzo era troppo freddo. Arha andò alla botola, la sollevò, scese i gradini, e la richiuse. Si avviò in silenzio lungo il percorso che conosceva tanto bene, il corridoio che portava alla cripta. Là, naturalmente, non accendeva mai una luce; se portava una lanterna, perché doveva addentrarsi nel labirinto o risalire nell’oscurità della notte, la spegneva prima di giungere alla cripta. Non aveva mai visto quel posto, mai, in tutte le generazioni del suo sacerdozio. Nel corridoio soffiò sulla candela e senza rallentare il passo avanzò nella tenebra, disinvolta come un pesciolino nell’acqua buia. Lì, d’inverno o d’estate, non c’era mai né caldo né freddo: c’era sempre la solita frescura un po’ umida, immutabile. Lassù, i grandi venti gelidi dell’inverno lanciavano la neve finissima sul deserto. Lì non c’era vento, non c’erano stagioni: era chiuso, era immoto, era sicuro.

Arha stava andando verso la Camera Dipinta. Le piaceva andare là, talvolta, a scrutare gli strani affreschi che al lume della sua candela balzavano dall’oscurità: uomini dalle lunghe ali e dai grandi occhi, sereni e cupi. Nessuno sapeva dirle chi erano, e nel resto del Luogo non c’erano dipinti come quelli, ma lei credeva di saperlo: erano gli spiriti dei dannati, coloro che non rinascono. La Camera Dipinta era nel labirinto, perciò lei doveva prima attraversare la caverna sotto le Pietre. Mentre si avvicinava, lungo il corridoio in discesa, fiorì un grigiore lieve, un barlume, l’eco di un’eco di una luce lontana.

Credette che gli occhi la ingannassero, come avveniva spesso in quella tenebra assoluta. Li chiuse, e il barlume svanì. Li aprì, e riapparve.

Si era fermata ed era rimasta immobile. Grigio, non nero. Un pallore fioco, appena visibile, dove nulla poteva essere visibile, dove tutto doveva essere nero.

Avanzò di qualche passo e tese la mano verso quell’angolo della parete: e vide, infinitamente indistinto, il movimento della propria mano.

Proseguì. Era strano, quel fievole fiorire di una luce dove non era mai esistita la luce, nella più profonda tomba di tenebra: così strano che era impossibile pensare, impossibile averne paura. Camminava senza far rumore, scalza e abbigliata di nero. All’ultima svolta del corridoio si fermò; poi, lentamente, mosse l’ultimo passo, e guardò, e vide.

…Vide ciò che non aveva mai visto, sebbene avesse vissuto cento vite: la grande caverna a volta sotto le Pietre, non scavata da mani umane ma dalle potenze della terra. Era ingemmata di cristalli e ornata di guglie e di filigrane di calcare bianco, dove avevano operato le acque sotterranee, molti eoni addietro: immensa, con le pareti e la volta che brillavano, scintillavano, delicate, intricate; un palazzo di diamanti, una casa di ametiste e di cristalli, dove l’antica tenebra era stata scacciata dal fulgore.

La luce che operava quel prodigio non era forte, ma abbagliava i suoi occhi non abituati. Era un chiarore lieve, come di un fuoco fatuo, che si muoveva lentamente attraverso la caverna e traeva mille brillii dalla volta ingioiellata e faceva scorrere mille ombre fantastiche lungo le pareti scolpite.

La luce ardeva alla sommità di un bastone ligneo, e non emetteva fumo e non consumava. Il bastone era stretto da una mano umana. Arha scorse il volto accanto alla luce: un volto scuro, il volto di un uomo.

Lei non si mosse.

L’uomo attraversò e riattraversò a lungo l’immensa grotta. Si muoveva come se cercasse qualcosa, guardando dietro le spumeggianti cascate di pietra, studiando i numerosi corridoi che conducevano fuori dalla cripta, ma senza addentrarvisi. E la Sacerdotessa delle Tombe restava immobile ad attendere nell’angolo nero del passaggio.

Forse la cosa più difficile da pensare, per lei, era che stava guardando un estraneo. Molto di rado aveva visto qualche estraneo. Le pareva che dovesse essere uno dei custodi… no, uno degli uomini che vivevano oltre il muro, un capraio o una guardia, uno schiavo del Luogo; ed era venuto a vedere i segreti dei Senza Nome, forse a rubare qualcosa nelle tombe…

A rubare qualcosa. A derubare le Potenze delle Tenebre. Sacrilegio: quella parola affiorò lenta nella mente di Arha. Era un uomo, e nessun uomo doveva mai porre piede nelle tombe, nel Luogo Sacro. Eppure lui era penetrato nella cavità che era il cuore delle tombe. Era entrato. Aveva portato la luce dove la luce era proibita, dove non c’era mai stata dall’inizio del mondo. Perché i Senza Nome non l’avevano annientato?

Adesso l’uomo s’era fermato a guardare il pavimento roccioso, che era accidentato e screpolato. Si vedeva che era stato aperto e richiuso. Le zolle sterili scavate per le fosse non erano state spianate completamente.

I Padroni di Arha avevano divorato quei tre. Perché non divoravano anche costui? Cosa potevano attendere?

Spettava alle loro mani agire, alla loro lingua parlare…

—  Vattene! Vattene! — urlò Arha all’improvviso, con tutta la forza della sua voce. Grandi echi stridettero e tuonarono nella caverna, e parvero oscurare il volto sbalordito che si girò verso di lei e che per un momento, attraverso lo sconvolto splendore della grotta, la scorse. Poi la luce scomparve. Lo splendore svanì. Tenebra cieca, e silenzio.

Adesso Arha poteva pensare di nuovo. Era libera dal sortilegio della luce.

Doveva essere entrato dalla porta nella roccia rossa, la Porta dei Prigionieri, e quindi avrebbe cercato di fuggire da là. Leggera e silenziosa come i gufi dalle ali vellutate, Arha fece di corsa il mezzo giro della caverna fino alla bassa galleria che conduceva alla porta apribile solo dall’esterno. Si chinò, all’imboccatura del corridoio. Non c’erano correnti d’aria che provenissero dall’esterno: l’uomo non aveva fissato la porta perché rimanesse aperta. Era chiusa; e se lui si trovava nel corridoio, era in trappola.

Ma non era nel corridoio. Arha ne era certa. Così vicino, in quello spazio limitato, avrebbe udito il suo respiro, il calore e la pulsazione della sua vita. Nel corridoio non c’era nessuno. Si rialzò e rimase in ascolto. Dov’era andato?

La tenebra le premeva sugli occhi come una benda. Aver visto la cripta la confondeva; era frastornata. L’aveva conosciuta esclusivamente come una regione definita dall’udito, dal tocco della mano, dai soffi d’aria fresca nell’oscurità: un’immensità, un mistero che non avrebbe mai visto. Adesso l’aveva vista, e il mistero aveva lasciato posto non già all’orrore ma alla bellezza, un mistero ancora più profondo di quello della tenebra.

Avanzò lentamente, insicura. A tentoni, si avviò verso sinistra, verso il secondo corridoio, quello che conduceva nel labirinto. Poi si fermò e ascoltò.

I suoi orecchi non le dissero più di quanto le dicessero gli occhi. Ma mentre stava ritta, toccando con le mani i due lati del varco nella roccia, sentì nella pietra una fioca e oscura vibrazione, e nell’aria fresca e stantia c’era la traccia di un odore che lì non doveva esserci: l’odore della salvia selvatica che cresceva sulle colline del deserto, lassù, sotto il cielo aperto.

Arha avanzò lenta e silenziosa nel corridoio, seguendo l’olfatto.

Dopo un centinaio di passi, l’udì. L’uomo era silenzioso quasi quanto lei, ma nella tenebra il suo passo era meno sicuro. Arha udì un lieve scalpiccio, come se quello avesse incespicato sul pavimento irregolare e subito si fosse ripreso. Null’altro. Attese per qualche attimo e poi proseguì lentamente, sfiorando con le dita della destra la parete. Infine toccò una barra rotonda di metallo. Si fermò e tastò l’asta di ferro finché, sollevandosi in punta di piedi, toccò una maniglia sporgente di ferro grezzo. Con tutte le sue forze, la tirò dall’alto in basso.

Ci furono un cigolio spaventoso e un tonfo. Piovvero scintille azzurre. Gli echi si spensero in lontananza, stridenti, in fondo al corridoio dietro di lei. Arha tese le mani e sentì, a una spanna dal suo volto, la superficie corrosa di una porta di ferro.

Fece un lungo respiro.

Ritornò lentamente lungo la galleria, nella cripta, e tenendo sulla destra la parete risalì fino alla botola che portava nel palazzo del trono. Camminava senza affrettarsi, e in silenzio, sebbene il silenzio non fosse più necessario. Aveva catturato il ladro. La porta che lui aveva varcato era l’unica via per entrare e uscire nel labirinto, e si poteva aprire soltanto dall’esterno.

Adesso lui era laggiù, nella tenebra sotterranea, e non ne sarebbe uscito mai più.

Camminando eretta, a passo lento, Arha passò davanti al trono ed entrò nella lunga navata a colonne. E là, dove da un bacile di bronzo montato su un alto tripode traboccava il rosso bagliore delle braci, si voltò e si avvicinò ai sette gradini che portavano al trono. S’inginocchiò sul gradino più basso e piegò la fronte sulla pietra fredda e polverosa, costellata dalle ossa dei topi lasciate cadere dai gufi cacciatori.

—  Perdonatemi, perché ho visto infranta la vostra tenebra — disse, senza pronunciare quelle parole a voce alta. — Perdonatemi perché ho visto violate le vostre tombe. Sarete vendicati. Oh, miei Padroni, la morte lo consegnerà a voi, e non rinascerà mai!

Eppure, mentre pregava, vedeva con l’occhio della mente il tremulo splendore della grotta illuminata, la vita nel luogo della morte; e invece del terrore per il sacrilegio e del furore contro il ladro, provava soltanto stupore per quella stranezza.

—  Cosa devo dire a Kossil? — si chiese, mentre usciva nelle raffiche del vento invernale e si stringeva nel mantello. — Nulla. Non ancora. Io sono la padrona del labirinto. Non riguarda il re-dio. Lo dirò a Kossil dopo che il ladro sarà morto, forse. Come devo ucciderlo? Dovrei chiamare Kossil perché lo guardi morire. A lei la morte piace. Ma cosa stava cercando, quell’uomo? Dev’essere pazzo. Come ha potuto entrare? Soltanto io e Kossil abbiamo le chiavi della porta nelle rocce rosse e della botola. Dev’essere entrato dalla porta nelle rocce rosse. Solo un incantatore potrebbe aprirla. Un incantatore…

Si fermò, nonostante il vento che minacciava di travolgerla.

—  È un incantatore, un mago delle Terre Interne, alla ricerca dell’amuleto di Erreth-Akbe.

E tutto questo aveva un fascino così oltraggioso che lei si sentì riscaldare perfino in quel vento gelido, e rise forte. Tutt’intorno, il Luogo e il deserto che lo circondava erano neri e silenti; il vento gemeva; non c’erano luci, laggiù nella Casa Grande. La neve fine e invisibile volava nel vento.

—  Se ha aperto la porta delle rocce rosse con la magia, può aprirne altre. Può fuggire.

Il pensiero l’agghiacciò per un momento, ma non la convinse. I Senza Nome l’avevano lasciato entrare. Perché no? Lui non poteva fare del male. Che male fa un ladro se non può lasciare la scena del furto? Doveva disporre di sortilegi e di poteri maligni, senza dubbio molto forti, se si era spinto così lontano; ma non sarebbe andato oltre. Nessun sortilegio gettato da un mortale poteva essere più potente della volontà dei Senza Nome, delle presenze nelle tombe, dei re del trono vuoto.

Per rassicurarsi, Arha si affrettò a raggiungere la Casa Piccola. Manan dormiva sotto il portico, avvolto nel mantello e nella logora coperta di pelliccia che era il suo letto invernale. Lei entrò senza far rumore per non destarlo, e senza accendere la lampada. Aprì una stanzetta chiusa a chiave, un ripostiglio in fondo al corridoio. Fece schizzare una scintilla con la pietra focaia, per il tempo necessario per trovare un certo punto nel pavimento; s’inginocchiò e sollevò una piastrella, forzandola. Le sue dita incontrarono un pezzo di stoffa sudicia e pesante, poco più ampio di una spanna. Lo scostò, adagio. E si ritrasse con un sussulto, perché un raggio di luce salì dal basso e le investì il volto.

Dopo un attimo, cautamente, guardò nell’apertura. Aveva dimenticato che l’uomo portava quella strana luce, sul bastone. Aveva pensato che al massimo l’avrebbe sentito, laggiù nell’oscurità. Aveva dimenticato la luce, ma l’uomo era proprio dove lei aveva previsto che fosse: esattamente sotto lo spioncino, accanto alla porta di ferro che gli impediva di uscire dal labirinto.

L’uomo stava là, con una mano sul fianco, e con l’altra protendeva il bastone di legno, alto quanto lui, dalla cui sommità scaturiva il fievole fuoco fatuo. La testa, che Arha vedeva da un’altezza di due braccia, era un po’ inclinata da una parte. Gli abiti erano quelli di un viaggiatore o di un pellegrino, nei mesi invernali: un mantello corto e pesante, una tunica di cuoio, gambali di lana, sandali allacciati; sul dorso portava uno zaino leggero cui era appesa una borraccia per l’acqua, e al fianco aveva un coltello chiuso nel fodero. Era immobile come una statua, tranquillo e pensieroso.

Lentamente, sollevò il bastone dal suolo e ne protese la punta luminosa verso la porta (che Arha, dallo spioncino, non poteva vedere). La luce cambiò, rimpicciolì, divenne più fulgida, di uno splendore intenso. L’uomo parlò, a voce alta. Parlava in una lingua che ad Arha era sconosciuta; ma ancora più strana delle parole era la voce, profonda e risonante.

La luce in cima al bastone si ravvivò, guizzò, si affievolì. Per un attimo si smorzò completamente, e Arha non vide più l’uomo.

Riapparve la luce viola-pallido del fuoco fatuo, e Arha vide che l’uomo si girava dando le spalle alla porta. L’incantesimo per aprirla era fallito. I poteri che tenevano chiusa la serratura di quella porta erano più forti della magia posseduta dallo sconosciuto.

Lui si guardava intorno, come se si domandasse cosa doveva fare.

Il corridoio in cui si trovava era largo all’incirca un braccio e mezzo, e il soffitto era a quattro o cinque braccia dal pavimento di roccia grezza. Lì le pareti erano di pietre lavorate, disposte a secco ma commesse con cura estrema, così che sarebbe stato difficile infilare la punta di un coltello nelle giunture: e si inclinavano verso l’interno, salendo, fino a formare una volta.

Non c’era null’altro.

L’uomo si mosse. Un passo lo condusse fuori dalla visuale di Arha. La luce si spense. Lei stava per rimettere a posto il tessuto e la piastrella quando il raggio di luce salì di nuovo dal pavimento davanti a lei. L’uomo era ritornato alla porta. Forse aveva compreso che, se l’avesse lasciata e fosse penetrato nel labirinto, molto probabilmente non l’avrebbe ritrovata mai più.

Parlò, una parola soltanto, a voce bassa. — Emenn - disse, e poi di nuovo, più forte: — Emenn! - E la porta di ferro si squassò sui cardini, echi sommessi ondeggiarono come tuoni nel corridoio a volta, e ad Arha parve che il pavimento tremasse sotto di lei.

Ma la porta rimase chiusa.

Allora l’uomo rise, una risata breve, la risata di chi pensa «Quanto sono stato sciocco!». Girò di nuovo lo sguardo sulle pareti, e quando alzò la testa, Arha vide il sorriso che indugiava sul suo volto scuro. Poi si sedette, si tolse lo zaino dalle spalle, estrasse un pezzo di pan secco e lo masticò. Stappò la borraccia di cuoio e la scosse: sembrava leggera nella sua mano, come se fosse quasi vuota. La tappò di nuovo, senza bere. Poi assestò lo zaino per guanciale, si strinse nel mantello, e si sdraiò. Teneva il bastone nella destra. Quando si distese, il fuoco fatuo o la sfera di luce salì fluttuando dal bastone e aleggiò dietro la sua testa, a poche spanne dal suolo. La mano sinistra riposava sul petto, stringendo qualcosa che pendeva al collo da una lunga catena. L’uomo giaceva tranquillo, con le gambe incrociate alle caviglie; il suo sguardo vagò sullo spioncino e se ne distolse. Sospirò e chiuse gli occhi. Lentamente, la luce si affievolì. L’uomo si addormentò.

La mano stretta sul petto si allentò e scivolò via, e Arha, dall’alto, vide il talismano appeso alla catena: sembrava un pezzo di metallo grezzo, a forma di mezzaluna.

La fioca luce della magia si spense. L’uomo giaceva nel silenzio e nell’oscurità.

Arha rimise a posto la stoffa e sistemò la piastrella, si alzò cautamente e andò nella sua stanza. Giacque a lungo sveglia, nell’oscurità risonante di vento, vedendo sempre davanti a sé lo splendore cristallino che aveva brillato nella casa della morte, il dolce fuoco che non bruciava, le pietre delle pareti del corridoio, il volto tranquillo dell’uomo addormentato.

LA TRAPPOLA

Il giorno seguente, quando ebbe completato i suoi doveri nei vari templi ed ebbe terminato di insegnare le danze sacre alle novizie, Arha tornò furtivamente alla Casa Piccola, oscurò la stanza, aprì lo spioncino e scrutò. La luce non c’era. L’uomo se n’era andato. Lei non aveva pensato che sarebbe rimasto a lungo davanti alla porta inarrendevole: ma era l’unico posto da cui potesse guardare. Come l’avrebbe ritrovato, adesso che si era smarrito?

Le gallerie del labirinto, a quanto lei sapeva dalle spiegazioni di Thar e dalla propria esperienza, si stendevano per più di venti miglia di diramazioni, spirali, tortuosità e vicoli ciechi. In linea retta, probabilmente, il corridoio che si trovava più lontano dalle tombe non distava più di un miglio. Ma laggiù, sottoterra, non c’erano linee rette. Tutte le gallerie s’incurvavano, si dividevano, si ricongiungevano, si ramificavano, s’intrecciavano, si annodavano, tracciavano percorsi complicati che finivano nel punto dove cominciavano, perché non c’erano né principio né fine. Si poteva camminare e camminare e non arrivare mai in nessun posto, perché non c’era una meta cui giungere. Il meandro non aveva un centro, un cuore. E quando la porta era chiusa, non aveva fine. Nessuna direzione inutile.

Sebbene le vie e le svolte che portavano nelle varie camere e nelle varie parti di quel dedalo fossero impresse chiaramente nella memoria di Arha, nelle sue esplorazioni più lunghe lei aveva portato con sé un gomitolo di filo finissimo e l’aveva svolto dietro di sé, riavvolgendolo al ritorno. Se le sfuggiva uno solo dei passaggi e delle svolte che doveva contare, perfino lei avrebbe potuto smarrirsi. Una lampada non serviva a nulla, perché non c’erano punti di riferimento. Tutti i corridoi e le porte e le aperture erano uguali.

L’uomo poteva essere ormai lontano molte miglia di cammino e tuttavia essere ancora a dodici braccia dalla porta da cui era entrato.

Arha andò al palazzo del trono, e al tempio degli dèi gemelli, e nella cantina sotto le cucine; e scegliendo i momenti in cui era rimasta sola, guardò attraverso ciascuno di quegli spioncini nella tenebra densa e fredda. Quando venne la notte, gelida e folgorante di stelle, lei si recò in certi punti della collina e sollevò certe pietre: asportò il terriccio, scrutò di nuovo, e vide la tenebra senza stelle dei sotterranei.

Lui era là. Doveva essere là. Eppure le era sfuggito. Sarebbe morto di sete prima che lei lo trovasse. Avrebbe dovuto mandare Manan nel labirinto a cercarlo, quando fosse stata certa che era morto. E questo era un pensiero insopportabile. Mentre s’inginocchiava nella luce delle stelle, sull’aspro terreno della collina, gli occhi le si riempirono di lacrime di rabbia.

Raggiunse il sentiero che riconduceva giù fino al tempio del re-dio. Le colonne dei capitelli scolpiti splendevano bianche di brina nella luce delle stelle, come pilastri d’avorio. Lei bussò alla porta posteriore, e Kossil la fece entrare.

—  Cosa desidera la mia padrona? — chiese, fredda e vigile.

—  Sacerdotessa, c’è un uomo nel labirinto.

Kossil fu colta alla sprovvista: una volta tanto era accaduto qualcosa che non si aspettava. Restò immobile, e i suoi occhi sbarrati parvero quasi uscire dalle orbite. Arha pensò fuggevolmente che Kossil somigliava molto a Penthe quando la imitava: una risata folle le salì alla gola, venne repressa e si spense.

—  Un uomo? Nel labirinto?

—  Un uomo, un estraneo. — Poi, mentre Kossil continuava a guardarla incredula, Arha aggiunse: — So riconoscere un uomo a prima vista, anche se ne ho incontrati pochissimi.

Kossil non badò alla sua ironia. — E come ha potuto entrarvi, un uomo?

—  Per mezzo della stregoneria, credo. Ha la carnagione scura, e forse viene dalle Terre Interne. È venuto per derubare le tombe. L’ho trovato la prima volta nella cripta, sotto le Pietre. È corso all’entrata del labirinto quando si è accorto della mia presenza, come se sapesse dove andava. Ho chiuso la porta di ferro dietro di lui. Lui ha operato sortilegi, ma non è bastato per aprire la porta. Questa mattina si è addentrato nei meandri. Ora non riesco più a rintracciarlo.

—  Ha una lampada?

—  Sì.

—  Acqua?

—  Una piccola borraccia, e non è piena.

—  La sua candela si sarà già consumata — fece pensierosa Kossil. — Quattro o cinque giorni. Forse sei. Poi potrai mandare i miei custodi a trascinarne fuori il cadavere. Il sangue dovrebbe essere offerto al trono e alle…

—  No — disse Arha, con improvvisa violenza. — Voglio trovarlo vivo.

La sacerdotessa squadrò la ragazza dall’alto della propria statura massiccia. — Perché?

—  Per… per prolungare la sua fine. Ha commesso un sacrilegio contro i Senza Nome. Ha profanato la cripta con la luce. È venuto per derubare le tombe dei loro tesori. Va punito con qualcosa di peggio che sdraiarsi in una galleria a morire.

—  Sì — disse Kossil, riflettendo. — Ma come lo catturerai, padrona? È problematico. Ma l’altro modo è sicuro. Non c’è una camera piena di ossa, in qualche punto del labirinto, ossa degli uomini che vi sono entrati e non ne sono più usciti?… Lascia che i Tenebrosi lo puniscano a modo loro, nel modo tenebroso del labirinto. È una morte crudele, la morte per sete.

—  Lo so — replicò Arha. Si voltò e uscì nella notte, alzando il cappuccio per proteggersi dal gelido vento sibilante. Non lo sapeva, forse?

Era stata un’azione puerile e stupida, rivolgersi a Kossil. Da lei non avrebbe avuto aiuti. Kossil non sapeva nulla: conosceva solo la fredda attesa e alla fine la morte. Kossil non comprendeva. Non capiva che era necessario trovare l’uomo. Non doveva avvenire com’era avvenuto con gli altri. Lei non l’avrebbe sopportato. Poiché doveva essere la morte, doveva essere rapida, alla luce del giorno. Indubbiamente sarebbe stato più giusto che il ladro, il primo uomo dopo tanti secoli che avesse avuto l’ardire di derubare le tombe, morisse di spada. Non aveva neppure un’anima immortale destinata alla rinascita. Il suo spettro si sarebbe aggirato gemendo nei corridoi. Non si poteva lasciarlo morire di sete lì nell’oscurità.

Quella notte, Arha dormì pochissimo. Il giorno seguente fu pieno di riti e di doveri. A sera, in silenzio e senza lanterna, lei andò da uno spioncino all’altro in tutti gli edifici bui del Luogo e della collina spazzata dal vento. Infine ritornò alla Casa Piccola per riposare, due o tre ore prima dell’alba, ma non trovò requie. Il terzo giorno, nel pomeriggio inoltrato, si avviò sola nel deserto, verso il fiume che adesso era basso per la siccità invernale, col ghiaccio tra i canneti. Aveva ricordato che una volta, in autunno, si era spinta molto lontano nel labirinto, oltre il Crocicchio delle Sei Vie, e lungo un corridoio curvilineo aveva udito, al di là delle pietre, il suono dell’acqua corrente. Un uomo assetato, se fosse giunto fin là, non vi sarebbe rimasto? C’erano spioncini perfino lì; dovette cercarli, ma Thar glieli aveva mostrati tutti, l’anno precedente, e li ritrovò senza troppe difficoltà. La sua memoria dei luoghi e delle forme era simile a quella di un cieco: sembrava che lei cercasse al tatto la via verso ogni punto nascosto, anziché trovarlo con lo sguardo. Al secondo spioncino, il più lontano dalle tombe, quando alzò il cappuccio per escludere la luce e accostò l’occhio al foro intagliato in una lastra di roccia piatta, vide sotto di sé il fioco barlume della lampada magica.

L’uomo era lì, seminascosto. Lo spioncino si affacciava sull’estremità del vicolo cieco. Arha poteva vedere solo il dorso, il collo piegato, e il braccio destro. Era seduto accanto all’angolo delle pareti e scalpellava le pietre con il coltello, un corto pugnale d’acciaio dall’impugnatura ingemmata. La lama era spezzata. La punta giaceva esattamente sotto lo spioncino. L’uomo l’aveva rotta cercando di svellere le pietre, di raggiungere l’acqua che sentiva scorrere limpida e mormorante nel mortale silenzio del sotterraneo, dall’altra parte dell’impenetrabile muraglia.

I movimenti dell’uomo erano apatici. Dopo quelle tre notti e quei tre giorni era molto diverso dalla figura che aveva sostato agile e calma davanti alla porta di ferro e aveva riso della propria sconfitta. Era ancora ostinato, ma l’energia l’aveva abbandonato. Non possedeva un sortilegio per scostare le pietre, ma doveva servirsi di quell’inutile coltello. Perfino la luce incantata era fioca e fosca. Mentre Arha l’osservava, la luce guizzò abbassandosi: l’uomo alzò la testa con un sussulto e lasciò cadere il pugnale. Poi, caparbiamente, lo raccolse e cercò d’insinuare tra le pietre la lama spezzata.

Distesa tra le canne ghiacciate sulla riva del fiume, senza rendersi conto del luogo dove si trovava e di ciò che stava facendo, Arha accostò la bocca alla fredda bocca della roccia e la riparò con le mani perché il suono non si disperdesse. — Mago! — disse, e la sua voce, scivolando nella gola di pietra, sussurrò freddamente nella galleria sotterranea.

L’uomo trasalì e si rialzò in piedi, e così sparì dal cerchio della visibilità quando lei cercò di vederlo. Arha accostò di nuovo le labbra allo spioncino e disse: — Torna indietro lungo la muraglia dalla parte del fiume, fino alla seconda svolta. La prima svolta a destra, poi saltane una, e poi di nuovo a destra. Alle Sei Vie, di nuovo a destra. Poi a sinistra, a destra, a sinistra, a destra. Rimani lì, nella Camera Dipinta.

Spostandosi per guardare di nuovo doveva aver lasciato che un raggio della luce del giorno saettasse per un momento nella galleria attraverso lo spioncino, perché, quando guardò, l’uomo era rientrato nel cerchio della visuale e guardava in su, verso l’apertura. Il volto, che adesso sembrava segnato da cicatrici, era teso e ansioso. Le labbra erano aride e nere, gli occhi febbrili. Alzò il bastone, portando la luce sempre più vicina agli occhi di Arha. Impaurita, lei si ritrasse, chiuse lo spioncino col coperchio di roccia e con i ciottoli, si rialzò e si affrettò a ritornare al Luogo. Si accorse che le tremavano le mani, e talvolta la vertigine l’invadeva. Non sapeva cosa fare.

Se l’uomo seguiva le sue istruzioni, sarebbe ritornato verso la porta di ferro, nella camera degli affreschi. Là non c’era nulla: non aveva una ragione per andarci. C’era uno spioncino nel soffitto della Camera Dipinta, molto efficiente, nella tesoreria del tempio degli dèi gemelli: forse era per questo che le era venuta l’idea. Non lo sapeva. Perché gli aveva parlato?

Avrebbe potuto calargli un po’ d’acqua attraverso uno spioncino, e poi chiamarlo in quel luogo. Così sarebbe rimasto in vita più a lungo. Fino a quando fosse piaciuto a lei, per l’esattezza. Se gli calava acqua e un po’ di cibo di tanto in tanto, quello avrebbe continuato per giorni e mesi a vagare nel labirinto; e lei avrebbe potuto osservarlo attraverso gli spioncini, e dirgli dove avrebbe trovato l’acqua, e qualche volta dargli indicazioni false in modo che vi andasse invano: ma sarebbe stato sempre costretto ad andare dove lei gli comandava. E così avrebbe imparato a burlarsi dei Senza Nome, a ostentare la sua sciocca virilità nei sepolcreti dei Morti Immortali!

Ma finché l’uomo era là, lei non avrebbe più potuto entrare nel labirinto. Perché no?, si chiese. E si diede la risposta: Perché lui potrebbe fuggire dalla porta di ferro, che dovrei lasciare aperta dietro di me… Ma non potrebbe spingersi più lontano della cripta. La verità era che aveva paura di affrontarlo. Aveva paura del suo potere, delle arti che aveva usato per penetrare nella cripta, della magia che teneva accesa quella luce. Ma era poi tanto temibile? Le potenze che regnavano nei luoghi tenebrosi erano dalla parte di lei, non di quell’uomo. Era evidente che lui non poteva far molto, nel regno dei Senza Nome. Non aveva aperto la porta di ferro, non aveva fatto comparire viveri per magia, non aveva fatto passare l’acqua attraverso la parete, non aveva evocato un mostro demoniaco per abbattere le muraglie, come lei aveva temuto. In tre giorni di vagabondaggi non aveva neppure trovato la strada fino alla porta del Grande Tesoro, che sicuramente aveva cercato. Neppure Arha aveva seguito le istruzioni di Thar per entrare in quella camera, procrastinando quella spedizione per un certo timore, una riluttanza, la sensazione che non fosse ancora venuto il momento.

E adesso si chiese: perché l’uomo non avrebbe dovuto compiere quella spedizione per lei? Poteva guardare quanto voleva i tesori delle tombe. Tanto, non gli sarebbero serviti a niente. E lei avrebbe potuto beffarlo, e dirgli di mangiare l’oro e di bere i diamanti.

Con la fretta nervosa e febbrile che da tre giorni si era impadronita di lei, corse al tempio degli dèi gemelli, aprì la piccola cripta del tesoro, e scoprì lo spioncino accuratamente celato nel pavimento.

Là sotto c’era la Camera Dipinta, ma era immersa nell’oscurità. La via che l’uomo doveva percorrere nel labirinto era molto più lunga, forse di parecchie miglia; e lei l’aveva dimenticato. E senza dubbio, era indebolito e non camminava svelto. Forse avrebbe scordato le sue istruzioni e avrebbe sbagliato a svoltare. Pochissime persone riuscivano a ricordare le istruzioni dopo averle udite una sola volta, come ci riusciva lei. Forse non aveva neppure compreso la lingua che lei parlava. Se era così, allora vagasse pure fino a quando fosse crollato a morire nel buio, lo sciocco, lo straniero, il miscredente. E che il suo spettro gemesse per le strade di pietra delle Tombe di Atuan, fino a quando la tenebra avrebbe divorato anche quello…

La mattina seguente, molto presto, dopo una notte di scarso sonno e di sogni maligni, Arha ritornò allo spioncino nel piccolo tempio. Guardò, e non vide nulla: tenebra. Calò una candela accesa in una piccola lanterna di stagno appesa a una catena. L’uomo era lì, nella Camera Dipinta. Oltre il lume della candela, lei ne vide le gambe e una mano inerte. Parlò nello spioncino, che era grande quanto una piastrella del pavimento: — Mago!

Nessun movimento. Era morto? Era tutta lì, dunque, la sua forza? Arha fece una smorfia; il cuore le batté più forte. — Mago! — gridò, e la sua voce risuonò nella cavità della camera sottostante. L’uomo si mosse, e lentamente si sollevò a sedere, e si guardò intorno frastornato. Dopo un poco alzò la testa, sbattendo le palpebre nel vedere la minuscola lanterna che dondolava dal soffitto. La sua faccia era uno spettacolo terribile, gonfia e scura come un volto di mummia.

Tese la mano verso il bastone che giaceva sul pavimento accanto a lui, ma sul legno non fiorì la luce. Non gli restava più nessun potere.

—  Mago, vuoi vedere il tesoro delle Tombe di Atuan?

Lui guardava, stancamente, socchiudendo le palpebre nella luce della lanterna: non poteva scorgere altro. Dopo un po’, con una smorfia che forse era cominciata come sorriso, annuì, una volta sola.

—  Esci da questa stanza e va’ a sinistra. Prendi il primo corridoio a sinistra… — Arha elencò la lunga serie di istruzioni, senza pause, e alla fine aggiunse: — Là troverai il tesoro che sei venuto a cercare. E forse troverai l’acqua. Quale preferiresti, ora?

L’uomo si alzò in piedi, appoggiandosi al bastone. Guardando in alto con occhi che non potevano vederla si sforzò di dire qualcosa, ma non c’era voce nella sua gola arida. Scrollò leggermente le spalle e lasciò la Camera Dipinta.

Lei non gli avrebbe dato l’acqua. E l’uomo, del resto, non avrebbe mai trovato la strada della stanza del tesoro. Le istruzioni erano troppo lunghe perché potesse ricordarle tutte; e c’era l’Abisso, se mai fosse giunto tanto lontano. Adesso era al buio. Avrebbe perso la strada, e avrebbe finito col cadere e morire chissà dove, nelle gallerie strette e aride. E Manan l’avrebbe trovato e l’avrebbe trascinato fuori. E quella sarebbe stata la fine. Arha strinse con le dita l’orlo dello spioncino e si dondolò avanti e indietro, avanti e indietro, mordendosi le labbra come per reggere una sofferenza insopportabile. Non gli avrebbe dato l’acqua. Non gli avrebbe dato l’acqua. Gli avrebbe dato la morte, la morte, la morte, la morte, la morte.

In quell’ora grigia della sua esistenza, Kossil venne da lei, entrando a passo pesante nella stanza del tesoro, voluminosa nelle nere vesti invernali.

—  Non è ancora morto?

Arha alzò la testa. Non c’erano lacrime nei suoi occhi, nulla da nascondere.

—  Credo — disse, alzandosi e spolverandosi le gonne. — La luce si è spenta.

—  Potrebbe essere un trucco. I senz’anima sono molto astuti.

—  Attenderò un giorno per esserne certa.

—  Sì, o due giorni. Poi Duby potrà scendere e portarlo fuori. È più forte del vecchio Manan.

—  Tuttavia Manan è al servizio dei Senza Nome, e Duby no. Ci sono luoghi, nel labirinto, in cui Duby non deve andare: e il ladro è in uno di questi.

—  Allora è già profanato…

—  Verrà purificato dalla sua morte — disse Arha. Capiva, dall’espressione di Kossil, che il suo volto doveva apparire strano. — Questo è il mio dominio, sacerdotessa. Devo prendermene cura come mi comandano i miei Padroni. Non ho bisogno di lezioni sulla morte.

La faccia di Kossil parve ritrarsi nel cappuccio nero, come la testa di una tartaruga del deserto entro il guscio, lenta e acida e fredda. — Sta bene, padrona.

Si separarono davanti all’altare degli dèi gemelli. Arha, senza fretta, si recò alla Casa Piccola, e chiamò Manan perché l’accompagnasse. Da quando aveva parlato con Kossil, sapeva cosa doveva fare.

Insieme a Manan salì la collina, entrò nel palazzo e scese nella cripta. Tirando contemporaneamente la lunga maniglia, aprirono la porta di ferro del labirinto. Poi accesero le lanterne ed entrarono. Arha si avviò per prima verso la Camera Dipinta, e da là si avviò verso il Grande Tesoro.

Il ladro non era arrivato molto lontano. Arha e Manan non avevano percorso più di cinquecento passi nel tortuoso corridoio quando lo trovarono, accasciato nello stretto andito come un mucchio di stracci. Aveva lasciato cadere il bastone, prima di crollare: giaceva piuttosto lontano da lui. Aveva la bocca sanguinante, gli occhi semichiusi.

—  È vivo — disse Manan inginocchiandosi e tenendo la grossa mano giallastra sulla scura gola, per sentirne le pulsazioni. — Devo strangolarlo, padrona?

—  No, lo voglio vivo. Raccoglilo e seguimi.

—  Vivo? — chiese Manan, inquieto. — Perché, padroncina?

—  Per farne uno schiavo delle tombe! Taci e fa’ come ti dico.

Con aria più malinconica che mai, Manan si caricò faticosamente sulle spalle il giovane, come un sacco, e seguì barcollando Arha. Non poteva andare molto lontano, con un simile peso. Si fermarono una decina di volte, lungo il percorso di ritorno, perché Manan potesse riprendere fiato. A ogni sosta, il corridoio era sempre lo stesso: le pietre giallo-grigiastre commesse strettamente che salivano a formare una volta, l’irregolare pavimento di roccia, l’aria morta; e Manan gemeva e ansimava, lo sconosciuto giaceva immobile, le due lanterne brillavano fioche in una cupola di luce che si restringeva nell’oscurità lungo il corridoio, in entrambe le direzioni. A ogni sosta, dalla borraccia che aveva portato, Arha versava un po’ d’acqua nell’arida bocca dell’uomo: un poco alla volta, perché la vita, ritornando, non lo uccidesse.

—  Alla Camera delle Catene? — chiese Manan quando giunsero nel passaggio che conduceva alla porta di ferro; e a quelle parole, per la prima volta Arha si chiese dove avrebbe dovuto portare il prigioniero. Non lo sapeva.

—  No, là no — disse, nauseata dal ricordo del fumo e del fetore e delle facce irsute, mute e cieche. E Kossil poteva andare nella Camera delle Catene. — Deve… deve restare nel labirinto, in modo che non possa recuperare la sua magia. Dove può esserci una camera che…

—  La Camera Dipinta ha una porta e una serratura e uno spioncino, padrona. Se credi che lui non possa aprire le porte.

—  Non ha poteri, qui. Portalo là, Manan.

E così Manan lo riportò indietro, ripercorrendo la stessa strada che avevano seguito, troppo affaticato e ansimante per protestare. Quando finalmente entrarono nella Camera Dipinta, Arha si tolse il lungo e pesante mantello invernale di lana e lo spiegò sul polveroso pavimento. — Adagialo lì — disse.

Manan la guardò con malinconica costernazione, quasi piagnucolando: — Padroncina…

—  Voglio che quest’uomo viva, Manan. E morirebbe di freddo: guarda come trema.

—  Il tuo mantello sarà profanato. Il mantello della Sacerdotessa. Lui è un miscredente, un uomo — esclamò Manan, contraendo gli occhietti per l’angoscia.

—  Allora brucerò il mantello e me ne farò tessere un altro! Ubbidisci, Manan.

L’eunuco si chinò, docile, e scaricò il prigioniero sul nero manto. L’uomo giacque immobile come un morto, ma il sangue pulsava pesante alla gola e di tanto in tanto un lungo brivido lo scuoteva.

—  Dovrebbe essere incatenato — disse Manan.

—  Ti sembra pericoloso? — chiese ironicamente Arha; ma quando Manan indicò un occhiello di ferro piantato tra le pietre, al quale era possibile assicurare il prigioniero, lasciò che andasse alla Camera delle Catene a prendere il necessario. Manan si allontanò per i corridoi, borbottando tra sé le istruzioni: già altre volte era andato e venuto dalla Camera Dipinta, ma mai da solo.

Nella luce della lanterna, gli affreschi sulle quattro pareti sembravano muoversi, fremere: le sgraziate forme umane dalle grandi ali abbassate stavano acquattate o erette in uno squallore eterno.

Arha s’inginocchiò e fece sgocciolare l’acqua, un po’ alla volta, tra le labbra del prigioniero. Alla fine lui tossì, e alzò fiaccamente le mani verso la borraccia. Lei lo lasciò bere. Il giovane si abbandonò di nuovo, con la faccia bagnata, macchiata di polvere e di sangue, e mormorò qualcosa, una parola o due in una lingua che Arha non conosceva.

Finalmente Manan ritornò, trascinandosi dietro una catena, e un grosso lucchetto con la chiave, e una banda di ferro, che strinse intorno alla vita dell’uomo, chiudendola. — Non è abbastanza stretta, può sgusciarne fuori — borbottò, mentre fissava l’ultima maglia della catena all’occhiello piantato nella parete.

—  No, guarda. — Arha, che adesso temeva assai meno il suo prigioniero, gli mostrò che non riusciva a infilare la mano tra la banda di ferro e le costole dell’uomo. — No, a meno che resti senza mangiare per ben più di quattro giorni.

—  Padroncina — disse lamentosamente Manan, — non voglio discutere, ma… ma a cosa servirà come schiavo dei Senza Nome? È un uomo, piccola.

—  E tu sei un vecchio sciocco, Manan. E adesso vieni, e finiscila di brontolare.

Il prigioniero li guardava con occhi stanchi e febbrili.

—  Dov’è il suo bastone, Manan? Là. Lo prenderò io. È magico. Oh… e questa: prenderò anche questa. — Con un movimento rapido, Arha afferrò la catena d’argento che stava al collo dell’uomo e la sfilò passandogliela sopra la testa, sebbene lui cercasse di agguantarle le braccia per impedirlo. Manan gli sferrò un calcio alla schiena. Arha fece dondolare la catena sopra di lui, fuori dalla sua portata. — È il tuo talismano, mago? È prezioso, per te? Non sembra gran cosa: non potevi permetterti niente di meglio? Te lo custodirò io. — Si fece passare la catena sopra la testa, nascondendo il pendaglio sotto il pesante colletto della veste di lana.

—  Tu non sai cosa fartene — disse il giovane, con voce rauca: pronunciava erroneamente le parole della lingua di Kargad, ma in modo abbastanza chiaro.

Manan gli sferrò un altro calcio, e il giovane si lasciò sfuggire un gemito di dolore e chiuse gli occhi.

—  Lascialo stare, Manan. Vieni.

Arha uscì dalla camera. Borbottando, Manan la seguì.

Quella notte, quando tutte le luci del Luogo si spensero, Arha risalì di nuovo la collina, da sola. Riempì la borraccia al pozzo, nella stanza dietro il trono, e portò l’acqua e una grande e piatta focaccia azima nella Camera Dipinta del labirinto. La depose a portata del prigioniero, oltre la porta. Lui dormiva, e non si mosse. Arha ritornò alla Casa Piccola, e quella notte il suo sonno fu lungo e sereno.

Nel primo pomeriggio tornò da sola nel labirinto. Il pane non c’era più, la borraccia era vuota, e lo sconosciuto si era messo a sedere, col dorso contro la parete. Il suo volto era ancora sfigurato dal terriccio e dalle croste, ma aveva un’espressione vigile.

Arha rimase lontana, dove lui — così incatenato — non avrebbe potuto raggiungerla, e lo guardò. Poi distolse gli occhi. Ma non c’era nulla di particolare da guardare. Qualcosa le impediva di parlare. Il cuore le batteva, come se avesse avuto paura. Ma non aveva motivo di temerlo: l’uomo era in suo potere.

—  È piacevole avere un po’ di luce — disse lui, con quella voce sommessa ma profonda che la turbava.

—  Come ti chiami? — chiese lei, perentoria. La sua voce, pensò, suonava stranamente alta e acuta.

—  Ecco, quasi sempre vengo chiamato Sparviero.

—  Sparviero? È il tuo nome?

—  No.

—  Qual è il tuo nome, allora?

—  Non posso dirtelo. Tu sei l’Unica Sacerdotessa delle Tombe?

—  Sì.

—  Come ti chiami?

—  Sono chiamata Arha.

—  Colei che è stata divorata… è questo il significato? — Gli occhi scuri la scrutavano attentamente. L’uomo sorrideva appena. — Qual è il tuo nome?

—  Io non ho nome. Non farmi domande. Da dove vieni?

—  Dalle Terre Interne, a occidente.

—  Da Havnor?

Era l’unico nome di una città o di un’isola delle Terre Interne che lei conoscesse.

—  Sì, da Havnor.

—  Perché sei venuto qui?

—  Le Tombe di Atuan sono famose, tra la mia gente.

—  Ma tu sei un infedele, un miscredente.

Il giovane scosse il capo. — Oh, no, sacerdotessa. Io credo nella potenza delle tenebre! Ho incontrato i Senza Nome, in altri luoghi.

—  Quali altri luoghi?

—  Nell’arcipelago… nelle Terre Interne, vi sono luoghi che appartengono alle antiche potenze della terra, come questo. Ma nessuno è grande come questo. In nessun altro luogo hanno un tempio e una sacerdotessa, e il culto che ricevono qui.

—  E tu sei venuto per adorarle — disse lei, sarcastica.

—  Sono venuto per derubarle — disse lui.

Arha fissò quel volto grave. — Presuntuoso!

—  Sapevo che non sarebbe stato facile.

—  Facile! È impossibile. Se non fossi un miscredente lo sapresti. I Senza Nome proteggono ciò che appartiene a loro.

—  Ciò che io cerco non è loro.

—  È tuo, senza dubbio?

—  È mio.

—  Che cosa sei, dunque: un dio? Un re? — Arha lo squadrò: incatenato, sporco, esausto. — Non sei altro che un ladro!

Lui non disse nulla, ma cercò il suo sguardo.

—  Non devi guardarmi! — esclamò Arha, con voce stridula.

—  Mia signora — disse il giovane, — non intendo offenderti. Sono uno straniero, e un intruso. Non conosco le vostre consuetudini, né le cortesie dovute alla sacerdotessa delle tombe. Sono in tuo potere, e se ti ho offesa ti chiedo perdono.

Lei rimase in silenzio, ma dopo un attimo sentì che il sangue le saliva scioccamente alle guance e le faceva ardere. Ma il giovane non la guardava, e non la vide arrossire. Aveva ubbidito, distogliendo lo sguardo degli occhi scuri.

Per lunghi istanti, nessuno dei due parlò. Le figure affrescate intorno a loro li osservavano con occhi tristi e ciechi.

Arha aveva portato un’anfora di pietra, piena d’acqua. Lo sguardo del giovane continuava a posarvisi, e dopo un po’ lei disse: — Bevi, se vuoi.

L’uomo si trascinò subito verso la brocca: la sollevò come una coppa e bevve una lunga, lunga sorsata. Poi vi intrise un lembo della manica e si ripulì mani e faccia, come meglio poté, dalla polvere e dai grumi di sangue e dalle ragnatele. Impiegò un certo tempo, e la ragazza rimase a guardare. Quando ebbe terminato, il suo aspetto apparve un po’ migliore. Ma questa pulizia sommaria aveva messo in mostra le cicatrici su un lato del volto: vecchie cicatrici rimarginate da tempo, biancastre sulla pelle scura, quattro linee parallele che andavano dall’occhio alla mandibola, come lasciate dagli artigli di una zampa enorme.

—  Che cos’è? — chiese lei. — Quella cicatrice.

Il giovane non rispose subito.

—  Un drago? — chiese Arha, cercando di darsi un tono ironico. Non era forse venuta lì per beffarsi della propria vittima, per tormentarla e ridere della sua impotenza?

—  No, non un drago.

—  Dunque, almeno non sei un signore dei draghi.

—  No — replicò lui, con una certa riluttanza. — Io sono un signore dei draghi. Ma le cicatrici sono antecedenti. Ti ho detto che ho incontrato le Potenze Tenebrose in altri luoghi della terra. Quello che porto sul volto è il marchio di uno della stirpe dei Senza Nome. Ma non è più senza nome, perché alla fine ho scoperto il suo.

—  Cosa vuoi dire? Che nome?

—  Questo non posso dirtelo — rispose lui, e sorrise, sebbene la sua espressione fosse grave.

—  È un’assurdità, una sciocchezza, un sacrilegio. Loro sono i Senza Nome! Tu non sai ciò che dici…

—  Lo so meglio di te, sacerdotessa — ribatté il giovane, con voce più profonda. — Guarda ancora! — Girò la testa, perché lei vedesse i quattro terribili segni che gli sfregiavano la guancia.

—  Non ti credo — disse Arha, con voce tremante.

—  Sacerdotessa — fece lui, gentilmente, — tu non sei molto vecchia: non puoi essere da molto tempo al servizio dei Tenebrosi.

—  E invece sì. Da moltissimo tempo! Io sono la Prima Sacerdotessa, la Rinata. Ho servito i miei padroni per mille e mille anni, prima d’ora. Sono la loro ancella, e la loro voce e le loro mani. E sono anche la loro vendetta contro quelli che profanano le tombe e vedono ciò che non devono vedere! Smetti di mentire e di vantarti: non capisci che se dico una sola parola, il mio guardiano verrà qui e ti spiccherà la testa dalle spalle? Oppure, se me ne vado e chiudo questa porta, nessuno verrà mai, e tu morirai qui nell’oscurità, e Coloro che io servo divoreranno la tua carne e la tua anima e lasceranno le tue ossa qui nella polvere.

In silenzio, l’uomo annuì.

Arha balbettò e non trovò null’altro da dire: uscì in fretta dalla stanza e sbarrò rumorosamente la porta. Lui doveva credere che non sarebbe più tornata! Doveva sudare, lì nell’oscurità, e imprecare e rabbrividire e cercare di operare i suoi immondi e inutili sortilegi!

Ma con l’occhio della mente lo vide sdraiarsi per dormire, come l’aveva visto fare accanto alla porta di ferro, sereno come un agnello in un prato soleggiato.

Sputò contro la porta chiusa, tracciò il segno per scongiurare la profanazione, e tornò quasi di corsa verso la cripta.

Quando ne costeggiò la parete, dirigendosi alla botola del palazzo, le sue dita sfiorarono le delicate linee e venature della roccia, simili a trina cristallizzata. L’invase il desiderio di accendere la lanterna, di vedere ancora una volta, solo per un momento, la pietra scolpita dal tempo, l’incantevole scintillio delle pareti. Chiuse strettamente le palpebre e si affrettò a procedere.

IL GRANDE TESORO

I riti e i doveri della giornata non le erano mai sembrati tanto numerosi e lunghi e meschini. Le bambine con la faccetta pallida e i modi furtivi, le novizie irrequiete, le sacerdotesse dal volto austero e sereno ma dall’esistenza che era un groviglio segreto di gelosie e di infelicità e di piccole ambizioni e di passioni sprecate… tutte quelle donne, tra le quali era sempre vissuta, e che formavano per lei tutto il mondo umano, adesso le apparivano patetiche e noiose.

Ma lei, che serviva un grande potere, lei, la sacerdotessa della tetra Notte, era immune da quelle meschinità. Non doveva curarsi della logorante mediocrità della vita comune, dei giorni in cui l’unica gioia era di ottenere sul piatto di lenticchie una cucchiaiata di grasso d’agnello in più della vicina… Lei era completamente libera dai giorni. Sottoterra, non c’erano giorni. C’era sempre e soltanto la notte.

E in quella notte interminabile, il prigioniero: l’uomo bruno, praticante di arti tenebrose, incatenato col ferro e imprigionato nella pietra, che attendeva che lei andasse o non andasse, per portargli acqua e pane e vita, oppure un coltello e un bacile da macellaio e morte, a seconda del capriccio.

Lei non aveva parlato a nessuno di quell’uomo, eccetto a Kossil, e Kossil non l’aveva detto a nessun altro. Lui era ormai da tre notti e tre giorni nella Camera Dipinta, e Kossil non aveva ancora chiesto nulla ad Arha. Forse pensava che fosse morto, e che Arha avesse ordinato a Manan di portare il cadavere nella Camera delle Ossa. Kossil non era il tipo che prendesse qualcosa per scontato; ma Arha si diceva che il suo silenzio non era strano. Kossil voleva tenere tutto segreto, e odiava essere costretta a fare domande. E inoltre lei le aveva detto di non immischiarsi negli affari suoi. Kossil ubbidiva, semplicemente.

Tuttavia, se l’uomo lo si doveva ritenere morto, Arha non poteva chiedere cibo per lui. Quindi, oltre a rubare mele e cipolle secche nelle cantine della Casa Grande, rinunciava a mangiare. Si faceva portare i pasti del mattino e della sera alla Casa Piccola, sostenendo che voleva consumarli da sola, e ogni notte portava i viveri alla Camera Dipinta del labirinto: tutto tranne le zuppe. Era abituata a digiunare anche per quattro giorni di seguito, e non le costava sacrificio. L’uomo nel labirinto divorava quelle magre porzioni di pane e formaggio e fagioli, come un rospo divora una mosca: tac!, sparito. Era chiaro che avrebbe mangiato cinque o sei volte di più; ma la ringraziava sobriamente, come se lui fosse l’ospite e lei la padrona di casa, a una mensa come quelle di cui Arha aveva sentito parlare, le mense del palazzo del re-dio, apparecchiate con carni arrosto e pani imburrati e vini in coppe di cristallo. Era molto strano, quell’uomo.

—  Come sono le Terre Interne?

Arha aveva portato uno sgabelletto pieghevole d’avorio, per non restare in piedi mentre l’interrogava; e non voleva sedersi sul pavimento, allo stesso livello.

—  Ecco, ci sono molte isole. Quattro volte quaranta, dicono, solo nell’arcipelago, e poi ci sono i mari; nessuno ha mai navigato tutti i mari né contato tutte le terre. E ognuna è diversa dalle altre. Ma la più bella, forse, è Havnor, la grande terra al centro del mondo. Nel cuore di Havnor c’è una vasta baia piena di navi, dove sorge la città di Havnor. Le torri sono di marmo bianco. La casa di ogni principe e di ogni mercante ha una torre, e perciò s’innalzano una sopra l’altra. I tetti degli edifici sono di tegole rosse, e tutti i ponti sui canali sono coperti di mosaico, rosso e azzurro e verde. E le bandiere dei principi sono di tutti i colori, e garriscono sulle bianche torri. Sulla torre più alta sta, come un pinnacolo, la spada di Erreth-Akbe, protesa verso il cielo. Quando il sole si leva su Havnor, lampeggia per prima cosa su quella spada e la fa rifulgere; e quando tramonta, la spada rimane ancora indorata nella sera, per lunghi istanti.

—  Chi era Erreth-Akbe? — chiese Arha, subdolamente.

L’uomo alzò lo sguardo verso di lei. Non disse nulla, ma sorrise appena. Poi, come soprappensiero, disse: — È vero, qui dovete sapere ben poco di lui. Solo che venne nelle terre di Kargad, forse. E di questo, quanto ne sai?

—  So che perse il suo bastone da incantatore e il suo amuleto e il suo potere… come te — rispose lei. — Sfuggì al sommo sacerdote e riparò in occidente, e i draghi lo uccisero. Ma se fosse venuto qui, nelle tombe, non ci sarebbe stato bisogno dell’intervento dei draghi.

—  È abbastanza vero — disse l’uomo.

Arha non voleva più parlare di Erreth-Akbe, perché intuiva il pericolo di quell’argomento. — Era un signore dei draghi, dicono. E anche tu dici di esserlo. Spiegami cos’è un signore dei draghi.

Il tono di Arha era sempre sarcastico, le risposte del prigioniero sempre dirette e semplici, come se accettasse in buona fede quelle domande.

—  Uno con il quale i draghi parlano — disse, — è un signore dei draghi, o almeno questo è il nucleo della questione. Non significa la capacità di dominare i draghi, come crede molta gente. I draghi non hanno padroni. Con un drago, il problema è sempre lo stesso: ti parlerà o ti divorerà? Se puoi essere certo che farà la prima cosa e non la seconda, allora sei un signore dei draghi.

—  I draghi sanno parlare?

—  Certamente! Nella Lingua Antica, la lingua che noi uomini impariamo con tanta fatica e usiamo tanto malamente, per i nostri incantesimi di magia e di formazione. Nessuno conosce tutta quella lingua… neppure la decima parte. Non c’è il tempo per impararla. Ma i draghi vivono mille anni… Vale la pena di parlare con loro, come puoi immaginare.

—  Ci sono draghi, qui in Atuan?

—  Non ce ne sono più da molti secoli, credo, e neppure a Karego-At. Ma nella vostra isola più settentrionale, Hur-at-Hur, dicono che tra le montagne esistano ancora grossi draghi. Nelle Terre Interne stanno tutti all’estremo ovest, nel remoto stretto occidentale, su isole dove non vivono gli uomini e dove pochi uomini giungono. Se hanno fame, compiono scorrerie nelle terre a oriente; ma questo avviene di rado. Io ho visto l’isola dove vanno a danzare, tutti insieme. Volano a spirali con le loro ali immense, avanti e indietro, sempre più in alto, sopra il mare occidentale, come una tempesta di foglie gialle in autunno. — Gli occhi dell’uomo, colmi di quella visione, guardavano oltre i neri affreschi alle pareti, oltre le pareti e la terra e la tenebra, e vedevano il mare aperto, intatto nel tramonto, e i draghi aurei nell’aureo vento.

—  Tu menti — disse rabbiosamente la ragazza. — Tu stai inventando tutto.

Lui la guardò, sbalordito. — Perché dovrei mentire, Arha?

—  Per farmi sentire sciocca, e stupida, e per spaventarmi. Per apparire sapiente e coraggioso e potente, un signore dei draghi e tutto il resto. Tu hai visto la danza dei draghi, e le torri di Havnor, e sai tutto di tutto. E io non so nulla e non sono stata in nessun posto. Ma tu conosci solo le menzogne! Non sei altro che un ladro prigioniero, e non hai anima, e non lascerai mai più questo luogo. Non ha importanza se esistono oceani e draghi e torri bianche e tutto il resto, perché non li rivedrai mai più, e non rivedrai mai più la luce del sole. Tutto ciò che io conosco è la tenebra, la notte sotterranea. Ed è la sola cosa che esista. È la sola cosa che si può conoscere, alla fine. Il silenzio, e la tenebra. Tu sai tutto, mago. Ma io so una cosa soltanto… l’unica cosa vera!

L’uomo chinò la testa. Le lunghe mani, brune con riflessi di rame, erano immobili sulle ginocchia. Arha vide le quattro cicatrici sulla guancia. Si era spinto nella tenebra più lontano di lei: conosceva la morte meglio di lei, perfino la morte… Si sentì pervadere da uno slancio di odio che per un istante la soffocò. Perché se ne stava lì così indifeso eppure così forte? Perché lei non riusciva a sconfiggerlo?

—  È per questo che ti lascio vivere — disse all’improvviso, senza riflettere. — Voglio che tu mi mostri i trucchi degli incantatori. Finché avrai qualche arte da mostrarmi, rimarrai vivo. Se non ne conosci, se sono soltanto inganni e menzogne, ti finirò. Hai compreso?

—  Sì.

—  Benissimo. Continua.

L’uomo nascose la testa fra le mani per qualche attimo, e cambiò posizione. La cintura di ferro gli impediva di trovare una posizione comoda, a meno che si stendesse.

Infine rialzò la faccia e parlò, in tono molto serio. — Ascolta, Arha. Io sono un mago: quello che voi chiamate incantatore. Possiedo certe arti e certi poteri. Questo è vero. È anche vero che qui, nel luogo delle Antiche Potenze, la mia forza è scarsa e le mie arti non mi soccorrono. Potrei operarti illusioni e mostrarti prodigi di ogni genere. Ma è la parte meno importante della magia. Sapevo operare illusioni già quand’ero bambino: posso farlo perfino qui. Ma se tu vi crederai, ti spaventeranno; e forse vorrai uccidermi, se la paura susciterà in te la collera. E se non vi crederai, le vedrai soltanto quali menzogne e inganni, come tu dici; e perciò perderei ugualmente la vita. E il mio scopo, il mio desiderio, in questo momento, è di rimanere vivo.

A queste parole Arha rise, e poi disse: — Oh, resterai vivo per un po’, non capisci? Sei stupido! Avanti, mostrami queste illusioni. So che sono false, e non ne avrò paura. Anzi, non mi spaventerei neppure se fossero reali. Ma procedi. La tua preziosa pelle è salva, almeno per questa notte.

Allora l’uomo rise, come aveva fatto lei un momento prima. Si gettavano avanti e indietro la sua vita, come una palla, giocando.

—  Cosa vuoi che ti mostri?

—  Cosa puoi mostrarmi?

—  Qualunque cosa.

—  Continui a vantarti!

—  No — disse lui, evidentemente punto sul vivo. — Non mi vanto. O almeno, non ne ho l’intenzione.

—  Mostrami qualcosa che secondo te vale la pena di vedere. Qualunque cosa!

Il giovane chinò la testa e si guardò le mani per qualche istante. Non accadde nulla. La candela di sego nella lanterna dava una luce fioca e costante. I neri affreschi alle pareti, le figure alate ma non in volo con gli occhi dipinti di rosso cupo e di bianco, giganteggiavano sopra di lui e sopra di lei. Non si udiva neppure un suono. Arha sospirò, delusa e irritata. Lui era debole: parlava di cose grandi ma non faceva nulla. Non era altro che un abile bugiardo, e neppure un ladro abile. — Bene — disse lei, alla fine, e si raccolse le gonne per alzarsi. La lana frusciò stranamente, quando lei si mosse. Allora abbassò lo sguardo e scattò, sbalordita.

La pesante veste nera che portava da anni era sparita: il suo abito era di seta turchese, lucente e tenero come il cielo serotino. Si allargava a campana dai fianchi, e tutta la gonna era ricamata di sottili fili d’argento e di perle scaramazze e di minuscole briciole di cristallo, e scintillava dolcemente, come la pioggia d’aprile.

Arha guardò il mago, ammutolita.

—  Ti piace?

—  Dove…

—  È simile all’abito che ho visto addosso a una principessa, una volta, alla festa del Ritorno del sole, nella nuova reggia di Havnor — disse il giovane, guardandolo soddisfatto. — Tu mi hai detto di mostrarti qualcosa che valesse la pena di vedere. Io ti mostro te stessa.

—  Fallo… fallo sparire.

—  Tu mi hai dato il tuo mantello — replicò lui, in tono di rimprovero. — E io non posso darti nulla? Bene, non preoccuparti. È soltanto un’illusione. Guarda.

Non alzò un dito, parve; e certamente non pronunciò una parola; ma l’azzurro splendore della seta svanì, e Arha era avvolta di nuovo nella severità della veste nera.

Rimase immota, a lungo.

—  Come posso sapere — chiese infine, — se tu sei davvero ciò che sembri?

—  Non puoi saperlo — rispose il giovane. — Io non so cosa ti sembro.

Arha rifletté di nuovo. — Potresti indurmi a vederti come… — S’interruppe perché lui aveva alzato la mano indicando in alto, con un brevissimo abbozzo di gesto. Pensò che stesse lanciando un incantesimo e si affrettò a ritirarsi verso la porta: ma seguendo quel gesto, i suoi occhi incontrarono lassù, nel soffitto ad arco, il minuscolo quadrato che era lo spioncino della stanza del tesoro, nel tempio degli dèi gemelli.

Non irradiava luce, dallo spioncino; lei non poteva vedere nulla, lassù, non udiva nessuno. Ma l’uomo aveva indicato quel punto, e adesso la fissava con aria interrogativa.

Rimasero assolutamente immobili per lunghi istanti.

—  La tua magia è solo una follia, buona per gli occhi dei bambini — disse Arha, pronunciando distintamente le parole. — Trucchi e menzogne. Ho visto abbastanza. Verrai dato in pasto ai Senza Nome. Io non tornerò mai più.

Prese la lanterna e uscì, e chiuse rumorosamente, con forza, i catenacci di ferro. Poi si fermò davanti alla porta, sconcertata. Cosa doveva fare?

Cos’aveva visto e udito, Kossil? Cosa stavano dicendo, loro due? Non riusciva a ricordare. Sembrava che non dicesse mai al prigioniero ciò che voleva dirgli. Lui la confondeva sempre parlando di draghi e di torri e dei nomi dei Senza Nome, e dicendo che voleva rimanere vivo e che le era grato per il dono del mantello. Non diceva mai ciò che doveva dire. E lei non aveva mai chiesto nulla del talismano, che adesso portava ancora, nascosto sotto la veste.

Tanto meglio, poiché Kossil stava ascoltando.

Ebbene, non aveva importanza: che male poteva fare, Kossil? E mentre si rivolgeva quella domanda, Arha conosceva già la risposta. Non c’è nulla di più facile che uccidere un falco ingabbiato. L’uomo era indifeso, incatenato nella gabbia di pietra. La sacerdotessa del re-dio poteva mandare Duby, il suo servitore, a strangolarlo, quella notte stessa; oppure, se lei e Duby non conoscevano abbastanza il labirinto per arrivare fin lì, era sufficiente che soffiasse una polvere velenosa nella Camera Dipinta, attraverso lo spioncino. Possedeva cassette e fiale di sostanze malefiche: alcune per avvelenare il cibo o l’acqua, altre che drogavano l’aria e uccidevano se si respirava quell’aria troppo a lungo. E l’indomani mattina lo si sarebbe trovato morto, e tutto sarebbe finito. Non ci sarebbe più stata una luce, sotto le tombe.

Arha si affrettò a percorrere gli stretti corridoi di pietra, verso la porta della cripta, dove Manan l’attendeva, acquattato pazientemente nell’oscurità come un vecchio rospo. Le sue visite al prigioniero lo rendevano inquieto. Lei non gli permetteva di accompagnarla fin là, perciò avevano raggiunto un compromesso. Adesso era lieta che Manan fosse lì, a portata di mano. Di lui, almeno, poteva fidarsi.

—  Manan, ascolta. Devi andare nella Camera Dipinta, immediatamente. Di’ all’uomo che vieni a prenderlo per seppellirlo vivo sotto le tombe. — Gli occhietti di Manan s’illuminarono. — Dillo con voce chiara e forte. Apri la catena e conducilo… — Arha s’interruppe, perché non aveva ancora deciso quale poteva essere il nascondiglio migliore.

—  Nella cripta — suggerì premuroso Manan.

—  No, sciocco. Ti ho detto di dirlo, non di farlo. Aspetta… Quale posto poteva essere al sicuro da Kossil e dalle sue spie?

Solo i luoghi sotterranei più profondi, più sacri e celati del dominio dei Senza Nome, dove lei non osava addentrarsi. Eppure, Kossil non avrebbe forse osato qualunque cosa? Aveva paura dei luoghi tenebrosi, ma era capace di dominare il terrore per realizzare i suoi fini. Era impossibile sapere fino a che punto avesse appreso la planimetria del labirinto, da Thar, o dall’Arha della precedente incarnazione, o addirittura da esplorazioni segrete, compiute nel passato. Arha sospettava che sapesse più di quanto fingeva di sapere. Ma c’era una via che sicuramente non poteva conoscere: il segreto più gelosamente custodito.

—  Devi portare l’uomo dove ti condurrò, e dovrai farlo al buio. Poi, quando ti ricondurrò qui, scaverai una fossa nella cripta e preparerai una bara: la deporrai vuota nella fossa e la coprirai di terra, in modo che, se qualcuno la cerca possa trovarla. Una tomba profonda. Capisci?

—  No — disse Manan, austero e turbato. — Piccola, questo trucco non è saggio. Non va bene. Non dovrebbe esserci un uomo, qui! Verrà una punizione…

—  Un vecchio sciocco finirà con la lingua mozza, sì! Tu osi insegnarmi che cosa è saggio e che cosa non lo è? Io eseguo gli ordini delle Potenze delle Tenebre. Seguimi!

—  Scusami, padroncina, scusami…

Ritornarono nella Camera Dipinta. Arha attese nella galleria, mentre Manan entrava e staccava la catena dalla parete. Udì la voce profonda chiedere: — Dove andiamo, Manan? — E la roca voce di contralto rispose, cupamente: — Verrai sepolto vivo, così ha detto la mia padrona. Sotto le Pietre Tombali. Alzati! — Udì la pesante catena schioccare come una frusta.

Il prigioniero uscì, con le braccia legate dalla cintura di cuoio di Manan. L’eunuco lo seguiva, tenendolo come un cane a guinzaglio corto, ma il collare era intorno alla sua vita e il guinzaglio era di ferro. L’uomo voltò gli occhi verso di lei, ma Arha spense la candela e senza dire una parola si avviò nell’oscurità. Subito prese il passo lento ma sicuro che teneva solitamente quando non usava la lampada nel labirinto, sfiorando con la punta delle dita l’una e l’altra parete. Manan e il prigioniero la seguivano, molto più impacciati a causa del guinzaglio, e strascicavano i piedi e incespicavano. Ma dovevano procedere al buio, perché Arha non voleva che nessuno dei due imparasse la strada.

Una svolta a sinistra dalla Camera Dipinta, poi superare due aperture; arrivare fino alle Quattro Vie e oltrepassare l’apertura sulla destra; poi un lungo percorso curvilineo e una scala da scendere, lunga, sdrucciolevole, con i gradini troppo stretti per piedi umani. Arha non si era mai spinta oltre quella scala.

L’aria era più malsana, lì: immobile, e con un odore acuto. Le istruzioni erano chiare nella sua mente, e perfino il tono della voce di Thar che gliele insegnava. Giù per i gradini (il prigioniero incespicò nella tenebra, e lei l’udì ansimare quando Manan lo tenne in piedi con un poderoso strattone alla catena), e ai piedi della scala svoltare subito a sinistra. Poi continuare sulla sinistra per tre aperture, e poi prendere la prima a destra e tenersi sulla destra. Le gallerie curvavano e svoltavano: nessuna procedeva diritta. «Poi devi girare intorno all’Abisso — disse la voce di Thar, nell’oscurità della sua mente. — E la via è molto stretta.»

Arha rallentò il passo, si chinò, tastò il pavimento con la mano. Il corridoio, adesso, proseguiva diritto per un lungo tratto, dando una falsa sicurezza. All’improvviso la sua mano brancolante, che non aveva mai smesso di toccare la roccia, non sentì nulla. C’era l’orlo della pietra: e oltre quell’orlo, il vuoto. Sulla destra, la parete del corridoio scendeva a perpendicolo nell’abisso. Sulla sinistra c’era un cornicione, non più largo di una spanna.

—  C’è un abisso. Voltatevi verso la parete a sinistra, e camminate di sbieco. Fate scivolare i piedi. Tieni stretta la catena, Manan… Siete sul cornicione? Diventa più stretto. Non appoggiate il peso sui talloni. Ecco, ho superato l’abisso. Tendimi la mano. Ecco…

Il corridoio procedeva in brevi zigzag, con molte aperture laterali. Da alcune, mentre le superavano, il suono dei passi echeggiava stranamente, cavernosamente; e, cosa ancora più strana, si sentiva una corrente d’aria lievissima, un’aspirazione. Quei corridoi dovevano terminare in abissi, come quello che avevano superato. Forse, sotto quella parete bassa del labirinto, c’era una cavità, una grotta così immensa che al confronto la cripta sarebbe apparsa ben poca cosa, un enorme e nero e vuoto sotterraneo.

Ma sopra quell’abisso, dove procedevano per i bui passaggi, i corridoi si restringevano lentamente e diventavano più bassi finché Arha fu costretta a fermarsi. Quella strada non avrebbe mai avuto fine?

La fine venne all’improvviso: una porta chiusa. Mentre avanzava china, un po’ più svelta del solito, Arha vi urtò con la testa e le mani. Cercò a tentoni il buco della serratura, poi la piccola chiave infilata nell’anello che portava alla cintura, la chiave d’argento con l’asta a forma di drago: entrò, e girò. Arha aprì la porta del Grande Tesoro delle Tombe di Atuan. L’aria — secca, acre, stantia — uscì con un sospiro dall’oscurità.

—  Manan, qui non puoi entrare. Attendi fuori dalla porta.

—  Lui sì e io no?

—  Se entri in questa stanza, non ne uscirai. È la legge che vale per tutti, eccettuata me. Nessun essere mortale, tranne me, ha mai lasciato vivo questa camera. Vuoi entrare?

—  Attenderò fuori — disse la voce malinconica, nella tenebra. — Padrona, padrona, non chiudere la porta!

Quell’angoscia la snervò tanto che lasciò la porta socchiusa. In verità quel luogo la riempiva di un cupo spavento, e diffidava del prigioniero sebbene fosse legato. Appena entrata, accese la lampada. Le tremavano le mani. La candela s’infiammò con riluttanza: l’aria era morta e soffocante. Nel chiarore giallognolo, che sembrava fulgido dopo le lunghe gallerie di tenebre, la camera del tesoro giganteggiava intorno a loro, piena di ombre in movimento. C’erano sei grandi cofani, tutti di pietra, tutti coperti da una fine polvere grigia, come la muffa del pane. Nient’altro. Le pareti erano scabre, la volta bassa. C’era freddo, un freddo profondo e privo d’aria che sembrava arrestare il sangue nel cuore. Non c’erano ragnatele: soltanto polvere. Nulla viveva, lì: neppure gli scarsi ragnetti bianchi del labirinto. La polvere era spessa, molto spessa, e ogni granello poteva essere un giorno trascorso lì, dove non c’erano né il tempo né la luce: giorni, mesi, anni, epoche, tutti divenuti polvere.

—  Questo è il luogo che cercavi — disse Arha, e la sua voce era ferma. — È il Grande Tesoro delle Tombe. Ci sei arrivato. Non potrai mai lasciarlo.

L’uomo non disse nulla, e il suo volto era quieto, ma nei suoi occhi c’era qualcosa che la turbò: una desolazione, lo sguardo di chi si sente tradito.

—  Hai detto che volevi rimanere vivo. Questo è l’unico luogo dove puoi restar vivo. Kossil ti ucciderà o mi costringerà a ucciderti, Sparviero. Ma qui non può arrivare.

Lui continuò a tacere.

—  Non avresti mai potuto lasciare le tombe in nessun caso, non capisci? Qui non è diverso. E almeno sei giunto alla… alla fine del tuo viaggio. Quello che cercavi è qui.

L’uomo si sedette su uno dei grandi cofani, esausto, e la catena tintinnò con un suono aspro sulla pietra. Girò lo sguardo sulle grige pareti e sulle ombre, e poi su di lei.

Arha distolse gli occhi e li posò sui cofani di pietra. Non aveva nessun desiderio di aprirli. Non le interessavano le meraviglie che imputridivano là dentro.

—  Non è necessario che tu porti la catena, qui. — Si avvicinò e aprì la serratura della cintura di ferro, e gli sciolse le braccia dalla cintura di cuoio di Manan. — Dovrò chiudere la porta, ma quando verrò qui mi fiderò di te. Tu sai che non puoi andartene… che non devi tentare. Io sono la loro vendetta, io compio la loro volontà. Ma se io li deludessi… se tu tradissi la mia fiducia… allora si vendicherebbero. Non devi tentare di lasciare questa camera, facendomi del male o ingannandomi quando verrò. Devi credermi.

—  Farò come tu dici — mormorò lui, gentilmente.

—  Ti porterò cibo e acqua, quando potrò. Non sarà molto. Acqua a sufficienza, ma non molto cibo, per un po’: ho fame, capisci? Ma quanto basta per tenerti in vita. Forse non potrò tornare per un giorno o due, o anche di più. Devo mettere fuori pista Kossil. Ma verrò. Lo prometto. Ecco la borraccia. Bevi con parsimonia: non potrò ritornare tanto presto. Ma tornerò.

L’uomo alzò il volto verso di lei. La sua espressione era strana. — Abbiti cura, Tenar — disse.

NOMI

Arha ricondusse Manan attraverso i tortuosi percorsi, nell’oscurità, e lo lasciò nella tenebra della cripta, a scavare la fossa che doveva comprovare a Kossil l’avvenuta punizione del ladro. Era tardi, e lei andò direttamente nella Casa Piccola, a letto. Nella notte, si svegliò all’improvviso: ricordò di aver lasciato il mantello nella Camera Dipinta. Lui aveva solo la corta mantellina per riscaldarsi in quella cripta umida, né altro letto che la pietra polverosa. Una fredda tomba, una fredda tomba, pensò dolorosamente Arha; ma era troppo stanca per svegliarsi del tutto, e ben presto ripiombò nel sonno. Cominciò a sognare. Sognò le anime dei morti sulle pareti della Camera Dipinta, e le figure simili a grandi uccelli scarruffati, con mani e piedi e volti umani, acquattati nella polvere dei luoghi tenebrosi. Non potevano volare. L’argilla era il loro cibo, e la polvere la loro bevanda. Erano le anime dei non rinati, i popoli antichi e i miscredenti, coloro che i Senza Nome avevano divorato. Stavano acquattati tutti intorno a lei, nelle ombre, e di tanto in tanto emettevano un lieve suono pigolante, o uno scricchiolio. Uno le venne vicinissimo. In un primo istante lei ebbe paura e cercò di ritrarsi, ma non riuscì a muoversi. L’essere aveva una testa di uccello, non un volto umano; ma i suoi capelli erano aurei, e diceva, con voce di donna, «Tenar», dolcemente, affettuosamente, «Tenar».

Si svegliò. L’argilla le ostruiva la bocca. Giaceva in una tomba di pietra, sottoterra. Aveva le braccia e le gambe avviluppate nel sudario, e non poteva muoversi né parlare.

La disperazione divenne così grande che le squarciò il petto e come un uccello di fuoco infranse la pietra ed eruppe nella luce del giorno… la luce del giorno, fievole nella sua stanza priva di finestre.

Veramente sveglia, questa volta, si sollevò a sedere, esausta dai sogni della notte, con la mente obnubilata. Indossò le vesti, e poi andò alla cisterna del cortile recintato della Casa Piccola. Immerse le braccia e il volto, e poi tutta la testa, nell’acqua gelida, finché tutto il corpo sussultò per il freddo, e il sangue riprese a scorrere tumultuoso. Poi, ributtando all’indietro i capelli sgocciolanti, si risollevò, e alzò lo sguardo verso il cielo mattutino.

Non era trascorso molto tempo dal levar del sole, ed era una bella giornata invernale. Il cielo era giallognolo, limpidissimo. Lassù in alto, così alto che rifletteva la luce del sole e ardeva come una pagliuzza d’oro, un uccello stava volando in cerchio, un falco o un’aquila del deserto.

—  Io sono Tenar — disse lei, ma non a voce alta; e tremava di freddo e di terrore e di esultanza, là sotto il cielo spalancato, inondato dal sole. — Ho riavuto il mio nome. Io sono Tenar!

La pagliuzza d’oro volteggiò verso occidente, verso le montagne, e scomparve alla sua vista. L’aurora indorava le gronde della Casa Piccola. Le campanelle delle pecore tintinnavano, laggiù negli ovili. Gli odori del fumo di legna e della crema di grano uscivano dai comignoli della cucina e aleggiavano nel vento fresco e puro.

—  Ho tanta fame… Lui, come lo sapeva? Come sapeva il mio nome? Oh, devo andare a mangiare, ho tanta fame…

Rialzò il cappuccio, e corse a fare colazione.

Il cibo, dopo tre giorni di semidigiuno, le diede la sensazione di essere solida, come se la zavorrasse; non si sentiva più così stravolta e spensierata e spaventata. Si sentiva perfettamente capace di tener testa a Kossil, dopo colazione.

Si accostò alla figura alta e tozza, mentre uscivano dalla sala da pranzo della Casa Grande, e disse a voce bassa: — Ho liquidato il ladro… Che splendida giornata!

I freddi occhi grigi la guardarono in tralice, sotto il cappuccio nero.

—  Mi pareva che la sacerdotessa dovesse astenersi dal cibo per tre giorni, dopo il sacrificio umano.

Era vero. Arha l’aveva dimenticato, e il suo volto mostrava che aveva dimenticato davvero.

—  Non è ancora morto — disse infine, cercando di mantenere il tono indifferente che un attimo prima le era venuto così spontaneo. — È sepolto vivo. Sotto le tombe. In una bara. Ci sarà un po’ d’aria: la bara non è sigillata, è di legno. Morirà molto lentamente. Quando saprò che è morto, allora inizierò il digiuno.

—  E come lo saprai?

Confusa, Arha esitò di nuovo. — Lo saprò. I… i miei Padroni me lo diranno.

—  Capisco. Dov’è la tomba?

—  Nella cripta. Ho detto a Manan di scavarla sotto la Pietra Liscia. — Non doveva rispondere con tanta prontezza, in quel tono sciocco e conciliante: doveva conservare la sua dignità, parlando con Kossil.

—  Vivo e in una bara di legno. È molto pericoloso, con un incantatore. Padrona, ti sei assicurata che avesse la bocca tappata, in modo da non poter pronunciare sortilegi? Ha le mani legate? Quelli possono intessere incantesimi anche col movimento di un dito, perfino quando hanno la lingua tagliata.

—  Non c’è nulla di reale, nella sua magia: sono soltanto trucchi — replicò la ragazza, alzando la voce. — È sepolto, e i miei Padroni stanno attendendo la sua anima. Quanto al resto, non riguarda te!

Questa volta si era spinta troppo oltre. Altri potevano udire: Penthe e un paio di altre ragazze, Duby, e la sacerdotessa Mebbeth, tutti erano a portata di voce. Le ragazze erano tutte orecchi, e Kossil se n’era accorta.

—  Tutto ciò che avviene qui mi riguarda, padrona. Tutto ciò che avviene nel suo reame riguarda il re-dio, l’Uomo Immortale di cui io sono l’ancella. Lui cerca e scruta perfino nei luoghi sotterranei e nei cuori degli uomini, e nessuno può impedirglielo!

—  Io posso. Nelle tombe non viene nessuno, se i Senza Nome lo proibiscono. Loro esistevano prima del tuo re-dio, e continueranno a esistere dopo di lui. Abbassa la voce quando parli di loro, sacerdotessa. Non attirare su di te la loro vendetta. Verranno nei tuoi sogni, penetreranno nei luoghi oscuri della tua mente, e allora tu perderai la ragione.

Gli occhi delle ragazze brillavano. Il volto di Kossil era celato nelle pieghe del nero cappuccio. Penthe e le altre guardavano, atterrite e affascinate.

—  Loro sono vecchi — disse la voce di Kossil, sommessamente, un filo sibilante di suono che usciva dalle profondità del cappuccio. — Loro sono vecchi. Il loro culto è stato dimenticato, a eccezione di quest’unico luogo. Il loro potere è svanito. Sono soltanto ombre. Non hanno più potere. Non cercare di farmi paura, Divorata. Tu sei la Prima Sacerdotessa: questo non significa anche che sei l’ultima? Non puoi ingannarmi. Io leggo nel tuo cuore. La tenebra non mi nasconde nulla. Sta’ in guardia, Arha!

Si girò e si allontanò, con quel suo passo lento e pesante, schiacciando sotto i grossi piedi chiusi nei sandali l’erba stellata di brina, e si avviò verso le candide colonne della casa del re-dio.

La ragazza restò immobile, esile e scura, come se fosse radicata alla terra, nel cortile anteriore della Casa Grande. Nessuno si muoveva, nulla si muoveva, soltanto Kossil, in quell’immenso panorama del cortile e dei templi, delle colline e della pianura desertica e della montagna.

—  Che i Tenebrosi divorino la tua anima, Kossil! — gridò Arha, con una voce che era come il grido di un falco; levò il braccio con la mano protesa e irrigidita e scagliò la maledizione contro l’ingombrante schiena della sacerdotessa, mentre metteva il piede sulla gradinata del tempio. Kossil vacillò, ma non si arrestò e non si voltò. Proseguì, e varcò la porta del re-dio.

Arha trascorse tutta la giornata seduta sul gradino più basso del trono vuoto. Non osava entrare nel labirinto, e non voleva andare tra le altre sacerdotesse. Una pesantezza l’opprimeva e la tratteneva lì, un’ora dopo l’altra, nella fredda semioscurità della grande navata; Lei guardava le coppie di grosse colonne pallide che si perdevano nel buio in fondo alla sala, e i raggi di luce che entravano obliqui dagli squarci della volta, e il fumo che saliva in dense volute dal tripode bronzeo presso il trono. Componeva disegni sul gradino di marmo con gli ossicini dei topi, a testa china, e la sua mente era attiva e tuttavia intorpidita. Chi sono?, si chiedeva, e non trovava risposta.

Manan arrivò scalpicciando lungo la navata, tra le doppie file di colonne, quando la luce aveva cessato da tempo di trafiggere la semioscurità e il freddo era divenuto intenso. La sua faccia gonfia e giallognola era molto triste. Si fermò a una certa distanza da lei, tenendo penzolanti le grosse mani; dietro, l’orlo del mantello color ruggine si era staccato e gli ricadeva sui calcagni.

—  Padroncina.

—  Cosa c’è, Manan? — Lei lo guardò con affetto opaco.

—  Piccola, lasciami fare quello che hai detto… quello che hai detto che è stato fatto. Lui deve morire, piccola. Ti ha stregata. Lei si vendicherà. È vecchia e crudele, e tu sei troppo giovane. Non sei abbastanza forte.

—  Lei non può farmi male.

—  Se ti uccidesse, anche davanti agli occhi di tutti, all’aperto, nessuno in tutto l’impero oserebbe punirla. Lei è la somma sacerdotessa del re-dio, e il re-dio governa. Ma lei non ti ucciderà apertamente. Lo farà di nascosto, col veleno, nella notte.

—  Allora rinascerò.

Manan si torse le grosse mani. — Forse non ti ucciderà — mormorò.

—  Cosa intendi dire?

—  Potrebbe rinchiuderti in una stanza nel… laggiù… Come tu hai fatto con lui. E tu rimarresti viva per anni e anni, forse. Per anni… E non nascerebbe una nuova sacerdotessa, perché tu non saresti morta. Eppure non ci sarebbe una sacerdotessa delle tombe, e non si danzerebbero le danze del novilunio, e i sacrifici non verrebbero compiuti, e il sangue non verrebbe versato, e il culto dei Tenebrosi potrebbe essere dimenticato per sempre. Lei e il suo signore amerebbero che fosse così.

—  Loro mi libererebbero, Manan.

—  No, se saranno irati con te, padroncina — replicò a bassa voce Manan.

—  Irati?

—  A causa di lui… Il sacrilegio non espiato. Oh, piccola, piccola! Loro non perdonano!

Lei stava seduta nella polvere del gradino più basso, con la testa china. Guardava la cosa minuscola che teneva nel palmo, il cranio di un topolino. I gufi appollaiati sulle travi, al di sopra del trono, cominciarono ad agitarsi un poco: si stava facendo scuro, e la notte si avvicinava.

—  Non scendere nel labirinto, questa notte — disse Manan, a voce molto bassa. — Va’ nella tua casa e dormi. Domani mattina va’ da Kossil e dille che revochi la maledizione lanciata su di lei. E sarà tutto. Non avrai più motivo di preoccuparti. Io le mostrerò la prova.

—  La prova?

—  Che l’incantatore è morto.

Lei restò muta. Lentamente chiuse le dita, e il fragile cranio si sfracellò e si sgretolò. Quando lei riaprì la mano, non c’erano altro che schegge d’osso e polvere.

—  No — disse. Scosse la mano per farne cadere la polvere.

—  Lui deve morire. Ha gettato un incantesimo su di te. Sei perduta, Arha!

—  Non ha gettato nessun incantesimo, su di me. Sei vecchio e codardo, Manan: ti lasci spaventare da una vecchia. Come credi di poter arrivare fino a lui e di ucciderlo e di ottenere la tua «prova»? Conosci la strada per giungere fino al Grande Tesoro, la strada che hai percorso nella tenebra stanotte? Sai contare le svolte e raggiungere la scala, e poi l’abisso, e poi la porta? Puoi aprire quella porta? Oh, povero vecchio Manan, la tua mente si è annebbiata. Lei ti ha fatto paura. Adesso va’ alla Casa Piccola e dormi, e dimentica tutte queste cose. E smettila di assillarmi di continuo parlando di morte… Io verrò più tardi. Va’, va’, vecchio sciocco, vecchio pancione. — Si era alzata: sospinse dolcemente l’ampio petto di Manan, perché se ne andasse. — Buonanotte, buonanotte!

Manan si voltò, appesantito dalla riluttanza e dai cupi presentimenti ma pur sempre docile; e si avviò per la navata, sotto il colonnato e il tetto in rovina. Lei lo seguì con lo sguardo.

Quando Manan fu uscito da qualche tempo, lei si voltò e girò intorno al podio del trono, e sparì nell’oscurità retrostante.

L’ANELLO DI ERRETH-AKBE

Nel Grande Tesoro delle Tombe di Atuan, il tempo non passava. Non c’era luce, né vita, neppure il movimento di un ragno nella polvere o di un verme nella fredda terra. Pietra, e tenebra, e il tempo che non passava.

Il ladro venuto dalle Terre Interne giaceva sul coperchio di pietra di uno dei grandi scrigni, riverso come una figura scolpita su una tomba. La polvere sollevata dai suoi movimenti era ricaduta sui suoi panni. Non si muoveva.

La serratura sferragliò. La porta si aprì. La luce infranse la profonda tenebra e un soffio di corrente più pura agitò l’aria morta. L’uomo rimase a giacere, inerte.

Arha chiuse la porta e girò la chiave dall’interno; poi posò la lanterna su un cofano e si avvicinò lentamente alla figura immota. Si muoveva con timore e aveva gli occhi spalancati, con le pupille ancora dilatate per il lungo percorso attraverso la notte.

—  Sparviero!

Gli toccò la spalla e pronunciò ancora il suo nome, e un’altra volta ancora.

Finalmente lui si mosse, con un gemito. Si sollevò a sedere, col volto tirato e gli occhi spenti. La guardò senza riconoscerla.

—  Sono io, Arha… Tenar. Ti ho portato l’acqua. Ecco, bevi.

Lui afferrò la borraccia brancolando, come se avesse le mani intorpidite, e bevve, ma non molto.

—  Quanto tempo è passato? — domandò. Parlava con difficoltà.

—  Sono trascorsi due giorni da quando sei venuto in questa camera. È la terza notte. Non ho potuto venire prima. Ho dovuto rubare il cibo. Eccolo… — Arha estrasse una delle piatte pagnotte grige dal sacco che aveva portato, ma lui scosse la testa.

—  Non ho fame. Questo… questo è un luogo mortale. — Si strinse la testa fra le mani e restò immobile.

—  Hai freddo? Ho portato il mantello dalla Camera Dipinta.

L’uomo non rispose.

Lei depose il mantello e restò a guardarlo. Tremava un poco, e i suoi occhi erano ancora neri e spalancati.

All’improvviso si lasciò cadere in ginocchio sul pavimento, piegandosi su se stessa, e incominciò a piangere, con singhiozzi profondi che le squassavano tutto il corpo ma non portavano lacrime.

Il giovane scese dal cofano, con movimenti rigidi, e si chinò su di lei. — Tenar…

—  Io non sono Tenar. Io sono Arha. Gli dèi sono morti, gli dèi sono morti.

Lui le posò le mani sulla testa, spingendo all’indietro il cappuccio. Cominciò a parlare. La sua voce era sommessa, e le parole appartenevano a una lingua che lei non aveva mai udito. Quel suono le scendeva nel cuore come una pioggia. Si calmò, per ascoltare.

Quando lei tacque, il giovane la sollevò come una bambina e la depose sul grande cofano di pietra su cui era stato a giacere. Mise una mano sulla mano di lei.

—  Perché piangevi, Tenar?

—  Te lo dirò. Ciò che ti dirò non ha importanza. Tu non puoi far nulla. Non puoi aiutarmi. Anche tu stai morendo, non è vero? Quindi non ha importanza. Nulla ha più importanza. Kossil, la sacerdotessa del re-dio, è sempre stata crudele, ha sempre cercato di costringermi a ucciderti. Come ho ucciso gli altri. E io non volevo. Che diritto ne ha, lei? E ha sfidato i Senza Nome e si è fatta beffe di loro, e io le ho scagliato una maledizione. E da allora ho paura di lei, perché è vero ciò che ha detto Manan: lei non crede negli dèi. Lei vuole che vengano dimenticati; e vorrebbe uccidermi nel sonno. Perciò non ho dormito. Non sono ritornata nella Casa Piccola. Sono rimasta nel palazzo tutta l’altra notte, in una delle soffitte, dove sono custoditi gli abiti della danza. Prima che facesse chiaro, sono andata alla Casa Grande e ho rubato un po’ di cibo in cucina, e poi sono ritornata nel palazzo e ci sono rimasta tutto il giorno. Cercavo di scoprire cosa dovevo fare. E questa notte… questa notte ero così stanca che ho pensato di andare in un luogo sacro per dormire, perché forse lei avrebbe avuto paura di venirci. Allora sono scesa nella cripta. La grande caverna dove ti ho visto per la prima volta. E… e lei era là. Doveva essere entrata dalla porta delle rocce rosse. Era là, con una lanterna. Raspava nella fossa che aveva scavato Manan, per vedere se dentro c’era un cadavere. Come un ratto in un cimitero, un grande ratto grasso, e scavava. E la luce ardeva nel Luogo Sacro, il luogo tenebroso. E i Senza Nome non hanno fatto nulla. Non l’hanno uccisa e non le hanno tolto la ragione. Sono vecchi, come ha detto lei. Sono morti. Sono spariti tutti. Non sono più sacerdotessa.

L’uomo ascoltava, con la mano ancora posata sulla mano di lei e la testa un po’ reclinata. Un certo vigore era ritornato nel suo volto e nel suo portamento, sebbene le cicatrici sulla guancia spiccassero di un grigiore livido e ci fosse ancora polvere sui suoi indumenti e sui suoi capelli.

—  L’ho aggirata, passando attraverso la cripta. La sua candela gettava più ombre che luce, e non mi ha sentita. Volevo andare nel labirinto per allontanarmi da lei. Ma quando vi sono entrata, ho continuato ad avere la sensazione di udire i suoi passi che mi seguivano. Per tutti i corridoi ho continuato a sentire qualcuno dietro di me. E non sapevo dove andare. Pensavo che sarei stata al sicuro, qui, pensavo che i miei Padroni mi avrebbero protetta e difesa. Ma non lo fanno, non ci sono più, sono morti…

—  Era per loro che piangevi… per la loro morte? Ma loro sono qui, Tenar, qui!

—  E come puoi saperlo? — chiese lei, apatica.

—  Perché in ogni istante, da quando ho messo piede nella caverna sotto le Pietre Tombali, ho lottato per tenerli immobili, per mantenerli ignari. Tutte le mie facoltà sono impegnate, e in questo ho consumato la mia forza. Ho riempito queste gallerie con una rete interminabile di incantesimi, incantesimi di sonno, di silenzio, di occultamento: eppure sono ancora consapevoli di me, semiconsapevoli. E anche così sono quasi completamente sfinito dalla lotta contro di loro. Questo è un luogo terribile. Un uomo solo, qui, non ha speranza. Io stavo morendo di sete, quando tu mi hai dato l’acqua, eppure non è stata soltanto l’acqua a salvarmi. È stata la forza delle mani che me la porgevano. — E mentre diceva questo, il giovane girò la mano di lei a palmo in su e la guardò; poi si scostò, percorse qualche passo nella camera, e tornò nuovamente a fermarsi davanti a lei. Lei non disse nulla.

—  Pensi davvero che siano morti? In cuor tuo sai benissimo che non è così. Loro non muoiono. Sono tenebrosi e immortali, e odiano la luce: la breve, fulgida luce della nostra mortalità. Sono immortali, ma non sono dèi. Non lo sono mai stati. Non meritano la devozione di nessuna anima umana.

Lei ascoltava, con gli occhi pesanti e lo sguardo fisso sulla lanterna agonizzante.

—  Cosa ti hanno mai dato, Tenar?

—  Nulla — mormorò lei.

—  Non hanno nulla da dare. Non hanno il potere di creare. Il loro potere consiste nell’ottenebrare e nel distruggere. Non possono lasciare questo luogo: loro sono questo luogo; e si dovrebbe lasciarlo a loro. Non si dovrebbe rinnegarli né dimenticarli, ma non si dovrebbe neppure adorarli. La terra è bellissima, e luminosa, e mite, ma non è tutto. La terra è anche terribile, e tenebrosa, e crudele. Il coniglio grida, morendo nei prati verdi. Le montagne contraggono le grandi mani piene di fuoco nascosto. Ci sono squali nel mare, e c’è crudeltà negli occhi degli uomini. E dove gli uomini venerano queste cose e si prosternano davanti a loro, là scaturisce il male: si creano nel mondo luoghi dove si addensa la tenebra, luoghi consegnati completamente a coloro che noi chiamiamo Senza Nome, le antiche e sacre Potenze della Terra prima che venisse la Luce, le potenze della tenebra, della rovina, della follia… Io credo che abbiano fatto impazzire la tua sacerdotessa Kossil già da molto tempo: credo che lei si aggiri in queste caverne come si aggira nei labirinti del suo io, e che ormai non possa più vedere la luce del giorno. Ti ha detto che i Senza Nome sono morti: soltanto un’anima perduta, perduta alla verità, può crederlo. Loro esistono. Ma non sono i tuoi padroni. Non lo sono mai stati. Tu sei libera, Tenar. Ti avevano insegnato a essere una schiava, ma ti sei liberata.

Lei ascoltava, sebbene la sua espressione non mutasse. L’uomo non disse altro. Rimasero in silenzio; ma non era il silenzio che c’era stato in quella camera prima che lei vi entrasse. Adesso c’era il loro respiro, e il movimento della vita nelle loro vene, e la candela che ardeva nella sua lanterna di stagno, un piccolo suono vitale.

—  Come sai il mio nome?

L’uomo camminava avanti e indietro nella camera, sollevando la finissima polvere, stiracchiandosi le braccia e le spalle per liberarsi dal freddo che l’intorpidiva.

—  Conoscere i nomi è il mio mestiere. La mia arte. Per intessere la magia di una cosa, vedi, è necessario scoprire il suo vero nome. Nelle mie terre teniamo segreto il nostro nome per tutta la vita, lo nascondiamo a tutti tranne a coloro di cui ci fidiamo completamente: perché in un nome ci sono un grande potere e un grande pericolo. Una volta, all’inizio del tempo, quando Segoy fece emergere le isole di Earthsea dalle profondità dell’oceano, tutte le cose portavano il loro vero nome. E tutte le opere della magia sono ancora imperniate sulla conoscenza (la riscoperta, il ricordo) di quell’antica e vera lingua della creazione. Ci sono da apprendere gli incantesimi, naturalmente, i modi di usare le parole; ed è necessario anche conoscere le conseguenze. Ma un mago dedica la vita a scoprire i nomi delle cose, e a scoprire i modi di scoprire quei nomi.

—  Come hai scoperto il mio?

Lui la guardò per un momento, uno sguardo profondo e limpido attraverso le ombre. Esitò un istante. — Questo non posso dirtelo. Tu sei come una lanterna coperta e avviluppata, e nascosta in un luogo buio. Eppure la luce risplende: la luce non hanno potuto spegnerla. Non potevano nasconderti. Come conosco la luce, come conosco te, così conosco il tuo nome, Tenar. Questo è il mio dono, il mio potere. Non posso dirti altro. Ma tu dimmi: cosa farai, adesso?

—  Non lo so.

—  Ormai Kossil avrà trovato una fossa vuota. Cosa farà?

—  Non lo so. Se ritorno lassù, lei mi farà uccidere. Per una somma sacerdotessa, mentire è la morte. Potrebbe farmi sacrificare sui gradini del trono, se volesse. E Manan dovrebbe mozzarmi davvero la testa, questa volta, invece di limitarsi ad alzare la spada e ad attendere che la Figura Tenebrosa lo arresti. Questa volta la spada non si fermerebbe: scenderebbe e mi taglierebbe la testa.

La voce di Arha era opaca e lenta. L’uomo aggrottò la fronte. — Se rimarremo qui a lungo — disse, — tu impazzirai. La collera dei Senza Nome pesa sulla tua mente. E sulla mia. Ora che tu sei qui è meglio, molto meglio. Ma è trascorso tanto tempo prima che tu tornassi, e io ho consumato gran parte della mia forza. Nessuno può resistere a lungo ai Tenebrosi, da solo. Sono fortissimi. — S’interruppe: aveva abbassato la voce, e sembrava che avesse perso il filo del discorso. Si passò le mani sulla fronte, e poco dopo andò a bere un altro sorso dalla borraccia. Spezzò un po’ di pane e si sedette, per mangiarlo, sul cofano di fronte.

Ciò che aveva detto era vero: lei sentiva un peso, un’oppressione nella mente che sembrava oscurare e confondere ogni pensiero e ogni sentimento. Eppure non era terrorizzata, come lo era stata quando aveva percorso da sola i corridoi. Soltanto il silenzio assoluto fuori dalla camera le sembrava terribile. Perché era così? Lei non aveva mai temuto il silenzio sotterraneo, prima. Ma prima non aveva mai disubbidito ai Senza Nome, non li aveva mai contrastati.

Alla fine proruppe in una piccola risata lamentosa. — Ce ne stiamo qui, seduti sul più grande tesoro dell’impero — disse. — Il re-dio darebbe tutte le sue mogli per averne uno scrigno. E noi non abbiamo neppure sollevato un coperchio per guardare.

—  Io l’ho fatto — disse lo Sparviero, masticando.

—  Al buio?

—  Ho acceso una piccola luce. La luce incantata. È stato difficile, qui. Sarebbe stato difficile anche se avessi avuto il mio bastone; e senza quello è stato come cercare di accendere un fuoco con legna bagnata, sotto la pioggia. Ma alla fine ci sono riuscito. E ho trovato ciò che cercavo.

Lei alzò il volto, lentamente, per guardarlo. — L’anello?

—  Il mezzo anello. Tu hai l’altra metà.

—  Io? L’altra metà andò perduta…

—  Ed è stata ritrovata. Io la portavo al collo, appesa a una catena. Tu me l’hai presa, e mi hai chiesto se non potevo permettermi un talismano migliore. L’unico talismano migliore della metà dell’Anello di Erreth-Akbe è l’Anello intero. Ma del resto, come dicono, mezza pagnotta è meglio che niente. Perciò ora tu hai la mia metà, e io ho la tua. — Lui le sorrise, attraverso le ombre della tomba.

—  Quando l’ho preso, tu mi hai detto che non avrei saputo cosa farne.

—  Era vero.

—  E tu lo sai?

Lui annuì.

—  Dimmi. Dimmi cos’è l’anello, e come hai trovato la metà perduta, e come sei venuto qui, e perché. Devo sapere tutto questo: forse allora capirò cosa devo fare.

—  Forse. Sta bene. Cos’è l’Anello di Erreth-Akbe? Ecco, puoi vedere che non sembra un oggetto prezioso e non è neppure un anello. È troppo grande. Forse è un bracciale, eppure sembra troppo piccolo per esserlo. Nessuno sa perché venne fabbricato. Una volta lo portò Elfarran la Bionda, prima che l’isola di Soléa sprofondasse nel mare; ed era già antico quando lei lo portava. Alla fine pervenne nelle mani di Erreth-Akbe. Il metallo è argento duro, trapassato da nove fori. All’esterno c’è un disegno graffito, come un motivo di onde, e all’interno ci sono nove simboli del Potere. La metà che hai tu ne porta quattro e un frammento di un quinto; e anche la mia metà. La frattura spezzò quel simbolo e lo distrusse. Da allora viene chiamato il Simbolo Perduto. Gli altri otto sono noti ai maghi: Pirr che protegge dalla follia e dal vento e dal fuoco, Ges che dona costanza, e così via. Ma il simbolo spezzato era quello che legava le terre. Era la Runa del Vincolo, il segno del dominio, il segno della pace. Nessun re poteva regnare bene se non governava sotto quel segno. Nessuno sa come sia scritto. Da quando è andato perduto, ad Havnor non ci sono più stati grandi re. Ci sono stati principi e tiranni, e guerre e conflitti tra tutte le isole di Earthsea.

«Perciò i saggi nobili e i maghi dell’arcipelago volevano l’Anello di Erreth-Akbe, per ricostruire il simbolo perduto. Ma alla fine rinunciarono a inviare i loro uomini a cercarlo, poiché nessuno poteva prendere una metà dalle Tombe di Atuan; e l’altra metà, che Erreth-Akbe aveva donato a un re di Kargad, era andata perduta da molto tempo. Dicevano che era inutile cercarla. Questo avveniva molti secoli fa.

«A questo punto, entro in scena io. Quando ero un poco più vecchio di quanto sia tu ora, ero impegnato in un… inseguimento, una specie di caccia attraverso il mare. Ciò che inseguivo mi sfuggì con l’inganno, e venni gettato su un’isola deserta, non lontano dalle coste di Karego-At e di Atuan, a sudovest di qui. Era un’isoletta, non molto più grande di una barena di sabbia, con lunghe dune erbose al centro e una fonte d’acqua salmastra, e null’altro.

«Eppure vi vivevano due persone. Un vecchio e una vecchia: fratello e sorella, credo. Avevano terrore di me. Non vedevano una faccia umana da… da quanto tempo? Anni, decine di anni. Ma io avevo bisogno di aiuto e furono buoni con me. Avevano una capanna costruita col legno gettato a riva dal mare, e un fuoco. La vecchia mi diede da mangiare i mitili che strappava dalle pietre alla bassa marea e la carne secca degli uccelli marini che loro uccidevano scagliando sassi. La vecchia aveva paura di me, ma mi diede da mangiare. Poi, quando vide che non facevo nulla di spaventoso, finì col fidarsi di me e mi mostrò il suo tesoro. Anche lei aveva un tesoro… Era un vestitino. Tutto di seta, ricamato di perle. Un vestito da bimba, l’abito di una principessina. E lei era vestita di pelli di foca non conciate.

«Non potevamo parlarci. Allora io non conoscevo la lingua di Kargad, e loro non conoscevano nessuna delle lingue dell’arcipelago e sapevano ben poco anche la loro. Dovevano essere stati portati lì da bambini, e abbandonati a morire. Non so perché, e credo che neppure loro lo sapessero. Non conoscevano altro che l’isola e il vento e il mare. Ma quando me ne andai, la vecchia mi fece un dono. Mi diede la metà perduta dell’Anello di Erreth-Akbe». Tacque per qualche istante.

—  Allora non sapevo cosa fosse, come non lo sapeva lei. Il più grande dono di quest’epoca del mondo, ed era stato dato da una povera vecchia sciocca vestita di pelli di foca a uno stupido che se lo cacciò in tasca, disse «Grazie!» e se ne andò… Ebbene, proseguii il mio viaggio e feci ciò che dovevo fare. E poi avvennero altre cose, e io andai alle isole dei Draghi, a occidente, e così via. Ma continuai a tenere l’oggetto, perché provavo gratitudine per la vecchia che mi aveva dato l’unico dono che aveva da dare. Infilai una catenina attraverso uno dei fori, e la portai senza pensarci più. E poi un giorno, a Selidor, l’Isola Estrema, la terra dove Erreth-Akbe morì combattendo con il drago Orm… a Selidor parlai con un drago, un discendente di Orm. E lui mi disse cosa portavo sul petto.

«Gli sembrava molto buffo che io non lo sapessi. I draghi ci giudicano divertenti. Ma ricordano Erreth-Akbe: parlano di lui come se fosse stato un drago, non un uomo.

«Quando ritornai alle Isole Interne, mi recai finalmente a Havnor. Sono nato su Gont, che si trova non molto lontano dalle vostre terre di Kargad, verso occidente, e avevo viaggiato molto, ma non ero mai stato a Havnor. Era tempo che mi recassi là. Vidi le bianche torri, e parlai con gli uomini importanti, i mercanti e i principi e i nobili di quegli antichi dominii. Dissi loro cos’avevo con me. Dissi che, se volevano, sarei andato a cercare l’altra metà dell’anello nelle Tombe di Atuan, per trovare la Prima Runa, la chiave della pace. Perché al mondo abbiamo un disperato bisogno di pace. Quelli mi fecero grandi lodi; e uno mi fornì perfino il denaro per approvvigionare la mia barca. Perciò imparai la vostra lingua e venni ad Atuan».

Il giovane tacque, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé, nelle ombre.

—  Ma gli abitanti delle nostre città non ti hanno riconosciuto per occidentale dal colore della pelle e dal modo di parlare?

—  Oh, è facile ingannare la gente — disse lui, in tono quasi distratto. — Basta saper come fare. Si possono operare mutamenti illusori, e nessuno, eccettuato un altro mago, li riconoscerà per ciò che sono. E qui, nelle terre di Kargad, voi non avete né maghi né incantatori. È strano. Avete bandito tutti i vostri maghi tanto tempo fa, e avete vietato l’esercizio dell’arte magica; e ormai, quasi non ci credete più.

—  A me è stato insegnato a non crederci. È contrario agli insegnamenti dei re-sacerdoti. Ma io so che soltanto la magia poteva portarti alle tombe e aiutarti ad entrare dalla porta delle rocce rosse.

—  Non soltanto la magia, ma anche le informazioni utili. Noi ci serviamo della scrittura molto più di voi, credo. Tu sai leggere?

—  No. È una delle arti nere.

Lui annuì. — Ma è utile — disse. — Un antico ladro sfortunato lasciò certe descrizioni delle Tombe di Atuan, e le istruzioni per entrare, per chi fosse stato in grado di usare uno dei Grandi Incantesimi d’Apertura. Tutto questo era scritto in un libro conservato nel tesoro di un principe di Havnor. Lui mi permise di leggerlo. Perciò sono arrivato fino alla grande caverna…

—  La cripta.

—  Il ladro che descrisse il modo per entrare era convinto che il tesoro si trovasse nella cripta. Perciò avevo cercato lì, ma avevo la sensazione che dovesse essere nascosto meglio, più lontano, in quei meandri. Sapevo dov’era l’ingresso del labirinto, e quando ti ho vista sono andato là, pensando di nascondermi nel dedalo e di perlustrarlo. È stato un errore, naturalmente. I Senza Nome mi avevano già in pugno, e avevano confuso la mia mente. E da allora sono diventato sempre più debole e più stupido. Non ci si deve sottomettere a loro, si deve resistere, mantenere sempre forte e sicuro il proprio spirito. Questo l’ho imparato molto tempo fa. Ma è molto difficile riuscirci, qui, dove loro sono tanto potenti. Non sono dèi, Tenar. Ma sono più forti di qualunque uomo.

Rimasero a lungo in silenzio.

—  Cos’altro hai trovato nei cofani del tesoro? — chiese lei, con voce spenta.

—  Cianfrusaglie. Oro, gemme, corone, spade. Nulla che possa essere rivendicato da un uomo vivente… Dimmi una cosa, Tenar: come sei stata scelta per diventare Sacerdotessa delle Tombe?

—  Quando muore la Prima Sacerdotessa, vanno a cercare in tutto Atuan una bambina nata la notte in cui la sacerdotessa è morta. E la trovano sempre, perché è la sacerdotessa rinata. Quando la bambina compie cinque anni la conducono qui, al Luogo. E quando compie sei anni viene data ai Tenebrosi, che divorano la sua anima. Perciò appartiene a loro, come è sempre appartenuta a loro fin dall’inizio del tempo. E non ha nome.

—  Tu lo credi?

—  L’ho sempre creduto.

—  Lo credi anche ora?

Lei non disse nulla.

Ancora una volta, scese tra loro il silenzio carico d’ombre. Dopo molto tempo, lei disse: — Parlami… parlami dei draghi che vivono a occidente.

—  Tenar, cosa vuoi fare? Non possiamo rimanere qui a raccontarci storie fino a quando la candela si consumerà completamente e ritornerà la tenebra.

—  Non so cosa fare. Ho paura. — Lei sedeva eretta sul cofano di pietra, con le mani strette convulsamente una nell’altra, e parlava a voce alta, sofferente. Disse: — Ho paura dell’oscurità.

Lui replicò a bassa voce: — Devi compiere una scelta. O mi lasci, chiudi la porta, risali ai tuoi altari e mi consegni ai tuoi Padroni, e poi vai dalla sacerdotessa Kossil e ti riconcili con lei… e tutto finisce. Oppure apri la porta e ne esci insieme a me. Lasci le Tombe, lasci Atuan, e vieni con me oltremare. E tutto incomincia. Devi essere Arha o Tenar. Non puoi essere l’una e l’altra.

La sua voce profonda era gentile e sicura. Lei guardò attraverso le ombre quel volto, che era duro e sfigurato ma che non esprimeva crudeltà né inganno.

—  Se lascio il servizio dei Tenebrosi, loro mi uccideranno. Se lascio questo luogo, morirò.

—  Non morirai. Morirà Arha.

—  Non posso…

—  Per rinascere bisogna morire, Tenar. Non è tanto difficile come sembra, quando si guarda dall’altra parte.

—  Loro non mi lascerebbero uscire. Mai.

—  Forse no. Tuttavia vale la pena di tentare. Tu possiedi la conoscenza e io possiedo l’arte, e io e te abbiamo… — Lui indugiò.

—  L’Anello di Erreth-Akbe.

—  Sì, l’Anello. Ma io pensavo anche a una cosa che esiste tra noi. Chiamala fiducia… È uno dei suoi nomi. È una cosa molto grande. Sebbene ognuno di noi, da solo, sia debole, insieme siamo forti, più forti delle Potenze delle Tenebre. — Gli occhi dell’uomo erano limpidi e fulgidi nel volto sfigurato. — Ascolta, Tenar! — disse. — Sono venuto qui come un ladro, un nemico, armato contro di te; e tu hai avuto misericordia, e ti sei fidata di me. E io mi sono fidato di te fin dalla prima volta che ho scorto il tuo volto, per un momento, nelle grotte sotto le tombe, bellissimo nell’oscurità. Tu hai dimostrato di avere fiducia in me. Io non ti ho ricambiata. Ti darò ciò che ho da dare. Il mio vero nome è Ged. E questo è tuo, perché tu lo tenga. — Si era alzato: le porse un semicerchio d’argento scolpito e traforato. — Ricongiungiamo l’anello — disse.

Lei lo prese. Si sfilò dal collo la catena d’argento cui era appesa l’altra metà, e la staccò. Posò i due pezzi nel palmo della mano, in modo che gli orli frantumati si toccassero, e l’Anello sembrò intatto.

Non alzò il volto.

—  Verrò con te — disse.

L’IRA DELLE TENEBRE

Quando lei pronunciò quelle parole, l’uomo di nome Ged posò la mano sulla sua che teneva il talismano spezzato. Lei alzò gli occhi, sgomenta e lo vide sorridere e avvampare di vita e di trionfo. Ebbe paura di lui. — Tu ci hai liberati entrambi — disse l’uomo. — Da solo, nessuno conquista la libertà. Vieni: non sprechiamo tempo, finché ne abbiamo ancora! Reggi ancora l’Anello per un attimo. — Lei aveva serrato le dita sui due pezzi d’argento, ma quando l’uomo glielo chiese le riaprì mostrando sul palmo le due metà con gli orli spezzati che si toccavano.

Lui non li prese, ma vi posò sopra le dita. Pronunciò un paio di parole, e il sudore sgorgò all’improvviso sul suo volto. Lei sentì un lieve tremito sul palmo della mano, come se un animaletto addormentato si fosse mosso nel sonno. Ged sospirò; la sua tensione si allentò, e lui si terse la fronte.

—  Ecco — disse. Prese l’Anello di Erreth-Akbe e lo fece scivolare sopra le dita della mano destra di Tenar e oltre la mano fino al polso. — Ecco! — Lo guardò, soddisfatto. — Calza perfettamente. Dev’essere un bracciale da donna, o da bambino.

—  Rimarrà saldato? — mormorò lei, nervosamente, mentre la fascia d’argento scivolava, fredda e delicata, sul suo braccio snello.

—  Sì. Non potevo gettare un semplice incantesimo di saldatura sull’Anello di Erreth-Akbe, come una strega di villaggio che aggiusta un bricco. Ho dovuto usare un Modellamento, e renderlo di nuovo intatto. Adesso è come se non si fosse mai spezzato. Tenar, dobbiamo andare. Io prendo il sacco e la borraccia. Indossa il tuo mantello. Non c’è altro?

Mentre lei armeggiava con la serratura, Ged le disse: — Vorrei avere il mio bastone. — E lei rispose, sussurrando: — È qui appena fuori. L’ho portato io.

—  Perché? — chiese lui, incuriosito.

—  Pensavo di… di condurti alla porta. Di lasciarti andare.

—  Era una scelta che non potevi compiere. Potevi tenermi come schiavo, e essere schiava anche tu; oppure liberarmi, e liberarti insieme a me. Su, piccola: fatti coraggio, gira la chiave.

Lei girò la chiave con l’asta a forma di drago e aprì la porta che dava sul basso corridoio nero. Uscì dal Tesoro delle Tombe con l’Anello di Erreth-Akbe al braccio, e l’uomo la seguì.

Ci fu una vibrazione cupa, che non era esattamente un suono, nella roccia delle pareti e del pavimento e della volta. Era come un tuono lontano, come qualcosa d’immenso che precipitasse a grande distanza.

Lei si sentì rizzare i capelli in testa: senza indugiare a riflettere, spense la candela nella lanterna di stagno. Udì l’uomo muoversi alle sue spalle, e la voce sommessa dire, così vicina che il respiro di lui le smosse i capelli: — Lascia la lanterna. Posso far luce io, se è necessario. Che ora è, fuori?

—  Era passata da molto la mezzanotte, quando sono venuta qui.

—  Allora dobbiamo andare avanti.

Ma non si mosse. Lei comprese che doveva guidarlo. Lei sola conosceva la via per uscire dal labirinto, e l’uomo attendeva per seguirla. Si avviò, chinandosi perché lì la galleria era molto bassa, ma camminò a passo piuttosto svelto. Dalle invisibili gallerie laterali uscivano un soffio freddo e un odore umido e pungente, l’odore senza vita dell’immensa cavità sottostante. Quando il passaggio divenne un po’ più alto, e lei poté procedere eretta, rallentò, contando i passi via via che si avvicinavano all’abisso. Leggero, conscio di ogni movimento di lei, l’uomo la seguiva a pochi passi di distanza. Nell’attimo in cui lei si fermò, si arrestò a sua volta.

—  Ecco l’abisso — mormorò Tenar. — Non riesco a trovare il cornicione. No, è qui. Sii prudente, credo che le pietre stiano per staccarsi… No, no, aspetta… si stanno staccando… — Arretrò, con cautela, mentre le pietre oscillavano sotto i suoi piedi. L’uomo le afferrò il braccio e la sostenne. Il cuore le batteva forte. — Il cornicione non è sicuro, le pietre si sono smosse.

—  Accenderò una luce, e le vedremo. Forse potrò rinsaldarle con la parola giusta. Tutto bene, piccola.

Lei pensò che era strano; l’uomo la chiamava come l’aveva sempre chiamata Manan. E quando lui accese un fioco barlume sulla sommità del bastone, come il chiarore del legno putrido o di una stella dietro la nebbia, e si avventurò sulla stretta cengia a fianco dell’abisso nero, lei vide la massa scura che giganteggiava nell’oscurità più lontana, oltre l’uomo, e comprese che era Manan. Ma si sentì la voce strozzata nella gola come in un cappio, e non riuscì a gridare.

Quando Manan allungò le braccia per spingerlo giù, nell’abisso, Ged alzò gli occhi, lo vide, e con un grido di sorpresa o di rabbia gli sferrò un colpo di bastone. Al grido, la luce sfolgorò bianca e abbacinante in faccia all’eunuco. Manan alzò una delle grosse mani per ripararsi il volto, si avventò disperatamente per afferrare Ged, lo mancò e cadde.

Non lanciò neppure un grido, mentre precipitava. Neppure un suono salì dal nero abisso, neppure il suono del corpo che toccava il fondo, il suono della sua morte, nulla. Aggrappandosi precariamente all’orlo, inginocchiati, Ged e Tenar non si mossero: ascoltarono, e non udirono nulla.

La luce era un grigio fuoco fatuo, appena visibile.

—  Vieni! — disse Ged, tendendo la mano; lei l’afferrò, e in tre passi arditi lui la condusse oltre il precipizio. Spense la luce. Lei riprese a precederlo per guidarlo. Era stordita, e non pensava a nulla. Soltanto dopo un poco si chiese: A destra o a sinistra?

Si fermò.

Arrestandosi qualche passo più indietro, lui chiese, sottovoce: — Cosa c’è?

—  Mi sono perduta. Fa’ luce.

—  Perduta?

—  Ho… ho perso il conto delle svolte.

—  Il conto l’ho tenuto io — disse Ged, facendosi un poco più vicino. — Una svolta a sinistra, dopo l’abisso; poi una a destra, e ancora una a destra.

—  Allora la prossima sarà di nuovo a destra — disse automaticamente Tenar, ma non si mosse. — Fa’ luce.

—  La luce non ci mostrerà la via, Tenar.

—  Nulla ce la mostrerà. È perduta. Siamo perduti.

Il silenzio di morte si chiuse sul suo mormorio, l’assorbì.

Sentiva il movimento e il calore dell’altro, vicino a lei nella fredda tenebra. Ged cercò la sua mano e la strinse. — Continua, Tenar. La prossima svolta è a destra.

—  Fa’ luce — lo supplicò lei. — Le gallerie sono così tortuose…

—  Non posso. Non ho forza da sprecare, Tenar, loro sono… Sanno che abbiamo lasciato il Tesoro. Sanno che abbiamo superato l’abisso. Ci stanno cercando: cercano la nostra volontà, il nostro spirito. Per soffocarlo, per divorarlo. È questo che io devo mantenere acceso. Vi impegno tutta la mia forza. Devo oppormi a loro; insieme a te. Col tuo aiuto. Dobbiamo proseguire.

—  Non c’è via d’uscita — disse lei, ma avanzò di un passo. Poi ne mosse un altro, esitante come se sotto i suoi piedi si spalancasse il vuoto nero e cavernoso, il vuoto sotto la terra. La stretta calda e dura della mano di lui le serrava la mano. Avanzarono.

Dopo un tempo che sembrò lunghissimo giunsero alla scala. Non era parsa tanto ripida, prima: i gradini erano poco più di sdrucciolevoli intaccature nella roccia. Ma la salirono, e poi procedettero un po’ più rapidamente perché lei sapeva che dopo la scala il corridoio curvilineo proseguiva per un lungo tratto senza svoltare. Le sue dita, che sfioravano la parete di sinistra, trovarono un varco, un’apertura. — Qui — mormorò; ma lui parve indugiare, come se qualcosa, nei movimenti di Tenar, lo rendesse dubbioso.

—  No — mormorò lei, confusa. — Non è questa; è la prossima svolta a sinistra. Non so. Non ci riesco. Non c’è via d’uscita.

—  Stiamo andando alla Camera Dipinta — disse la voce quieta, nella tenebra. — Come dobbiamo arrivarci?

—  La svolta a sinistra dopo questa.

Tenar proseguì. Percorsero il lungo giro, superando due false piste, fino al passaggio che si diramava verso destra, in direzione della Camera Dipinta.

—  Avanti diritto — bisbigliò lei; adesso era più facile distrincarsi nella tenebra, perché conosceva i passaggi che conducevano alla porta di ferro e ne aveva contato le svolte tanto spesso; lo strano peso che le opprimeva la mente non poteva confonderla, se non cercava di pensare. Ma continuavano ad avvicinarsi a ciò che l’opprimeva e la schiacciava; e si sentiva le gambe così stanche e appesantite che un paio di volte gemette per lo sforzo di muoverle. E accanto a lei l’uomo respirava profondamente, e tratteneva il fiato, più e più volte, come se compisse uno sforzo enorme con tutte le energie che aveva in corpo. Talvolta la sua voce prorompeva, smorzata e tagliente, in una parola, o in un frammento di parola. Giunsero finalmente alla porta di ferro; e con un terrore improvviso, Tenar tese la mano.

La porta era aperta.

—  Presto! — disse lei, trascinando dietro di sé il compagno. Poi, dall’altra parte, si fermò.

—  Perché era aperta? — chiese.

—  Perché i tuoi Padroni hanno bisogno delle tue mani per chiuderla.

—  Stiamo per giungere a… — La voce le mancò.

—  Al centro della tenebra. Lo so. Comunque siamo usciti dal labirinto. Quali uscite dalla cripta ci sono?

—  Una soltanto. La porta da cui sei entrato tu non si apre dall’interno. Il percorso attraversa la caverna e segue altri passaggi fino a una botola dietro il trono. Nel palazzo del trono.

—  Allora dobbiamo andare da quella parte.

—  Ma là c’è lei — bisbigliò la ragazza. — Là nella cripta. Nella caverna. Sta scavando la tomba vuota. Non posso passarle accanto, oh, non posso passarle accanto di nuovo!

—  Ormai se ne sarà andata.

—  Non posso andare là.

—  Tenar, in questo momento io sto reggendo il soffitto sopra le nostre teste. Impedisco alle pareti di crollarci addosso, al pavimento di spalancarsi sotto i nostri piedi. Continuo a farlo dal momento in cui abbiamo superato l’abisso dove attendeva il tuo servitore. Se io posso tenere a bada il terremoto, tu hai paura d’incontrare un’anima umana insieme a me? Fidati di me, come io mi sono fidato di te! Vieni, adesso.

Proseguirono. L’interminabile galleria si allargò. Sentirono l’aria più vasta, la tenebra che si schiudeva. Erano entrati nella grande caverna, sotto le Pietre Tombali.

Incominciarono ad aggirarla, tenendosi rasente alla parete di destra. Tenar aveva percorso solo pochi passi quando si fermò. — Cos’è? — mormorò, e la voce superò appena le sue labbra. C’era un rumore nella morta, immensa, nera bolla d’aria: un tremore, un suono che si udiva nel sangue, si sentiva nelle ossa. Le pareti scavate dal tempo vibravano, vibravano sotto le sue dita.

—  Va’ avanti — disse la voce dell’uomo, secca e forzata. — Affrettati, Tenar.

E mentre avanzava vacillando, lei gridava nella mente, che era tenebrosa e scossa come la cripta sotterranea: — Perdonatemi. Oh miei Padroni, oh Senza Nome, oh antichissimi, perdonatemi, perdonatemi!

Non ebbe risposta. Non aveva mai avuto risposta.

Raggiunsero il corridoio sotto il Palazzo, salirono la scala, pervennero agli ultimi gradini e alla botola. Era chiusa, come lei la lasciava sempre. Premette la molla che l’apriva. Non si aprì.

—  È rotta — disse. — È bloccata.

Ged le passò accanto e premette con le spalle contro la botola. La botola non si mosse.

—  Non è chiusa a chiave: è bloccata da qualcosa di molto pesante.

—  Puoi aprirla?

—  Forse. Credo che lei stia aspettando lì fuori. Ha qualche uomo con sé?

—  Duby e Uahto, forse altri guardiani: gli uomini non possono entrare…

—  Non posso operare un incantesimo di apertura e contemporaneamente tenere a bada quelli che attendono là fuori e resistere alla volontà delle tenebre — disse la voce ferma e pensierosa di Ged. — Allora dobbiamo provare l’altra porta, la porta nelle rocce, quella da cui sono entrato. Lei sa che non si può aprire dall’interno?

—  Lo sa. Una volta ha lasciato che io tentassi.

—  Allora forse non se ne preoccuperà. Vieni. Vieni, Tenar!

Lei si era accasciata sui gradini di pietra, che vibravano e fremevano come se la corda di un enorme arco venisse tesa nelle immensità sotto di loro.

—  Cos’è… questa vibrazione?

—  Vieni — disse Ged, con tanta fermezza che lei ubbidì e ridiscese strisciando i passaggi e le scale fino alla spaventosa caverna.

All’ingresso si sentì opprimere da un così gran peso di odio cieco e tremendo, come il peso stesso della terra, che arretrò e senza rendersene conto gridò: — Loro sono qui! Sono qui!

—  E allora facciamogli sapere che siamo qui anche noi — disse l’uomo; e dal bastone e dalle sue mani scaturì un bagliore bianco che s’infranse contro i mille diamanti della volta e delle pareti come un’onda del mare s’infrange nel sole: un fulgore di luce nel quale i due fuggirono attraversando la grande caverna, mentre le loro ombre correvano lontane sulle trine bianche e sulle fenditure scintillanti e sulla fossa aperta e vuota. Corsero verso la bassa apertura, lungo la galleria, chinandosi, prima lei e poi lui. Nel corridoio le rocce tuonavano e si muovevano sotto i loro piedi. Eppure la luce era ancora con loro, abbagliante. Quando Tenar vide davanti a sé la morta parete di roccia, udì più forte del rombo della terra la voce di Ged pronunciare una parola; e mentre lei crollava in ginocchio, il bastone colpì al di sopra della sua testa la rossa roccia della porta chiusa. Le rocce arsero bianche, e si squarciarono.

Più oltre stava il cielo, che impallidiva nell’alba. Qualche stella bianca brillava lassù, alta e fredda.

Tenar vide le stelle e sentì il dolce vento sul volto; ma non si alzò. Rimase accovacciata, sulle mani e sulle ginocchia, tra la terra e il cielo.

L’uomo, una strana figura buia nella mezza luce che precedeva l’aurora, si voltò e le afferrò il braccio per farla alzare. Il suo volto era nero e contratto come quello di un demone. Tenar arretrò, scostandosi, urlando con una voce impastata che non era la sua, come se nella sua bocca si muovesse la lingua di una morta: — No! No! Non mi toccare… lasciami… Va’! — E, contorcendosi, indietreggiò nelle sgretolate fauci delle tombe.

L’energica stretta di Ged si allentò. Lui disse, con voce pacata: — Per il vincolo che porti, Tenar, ti ingiungo di venire.

Lei vide la luce delle stelle riflettersi sull’argento del cerchio che portava al braccio. Senza distoglierne gli occhi si alzò, barcollante. Mise la mano nella mano di lui, e lo seguì. Non poteva correre. Scesero a passo lento la collina. Dalla nera bocca, tra le rocce dietro di loro, uscì un lungo, lungo ululato ringhiante di odio lamentoso. Intorno a loro piovvero pietre. Il suolo tremò. Proseguirono, lei con gli occhi ancora fissi sul baluginio della luce delle stelle sopra il suo polso.

Erano nella valle a occidente del Luogo. Incominciarono a salire; e all’improvviso, Ged le disse di voltarsi. — Guarda…

Tenar si voltò, e vide. Erano dall’altra parte della valle, alla stessa altezza delle Pietre Tombali, i nove grandi monoliti che stavano eretti o giacevano distesi sopra la caverna dei diamanti e delle tombe. Le pietre erette si muovevano. Sussultavano e s’inclinavano lentamente, come alberi di navi. Una parve torcersi e ergersi più alta: poi fu scossa da un fremito, e cadde. Un’altra crollò trasversalmente sopra la prima, schiantandosi. E più oltre, la bassa cupola del palazzo del trono, nera contro la luce gialla dell’oriente, fremette. I muri si gonfiarono. L’intera massa gigantesca di pietra e di mattoni cambiò forma come argilla nell’acqua corrente, si afflosciò, e con un rombo e un’improvvisa tempesta di schegge e di polvere sdrucciolò lateralmente e crollò. La terra della valle s’increspò e sussultò: una specie di ondata salì il fianco della collina e un’enorme crepa si spalancò fra le Pietre Tombali, aprendosi sulla tenebra sottostante e vomitando polvere come fumo grigio. Le pietre che erano rimaste ancora erette vi precipitarono e vennero ingoiate. Poi, con uno scroscio che sembrò riecheggiare dal cielo, i neri labbri tormentati dello squarcio si chiusero; e le colline si squassarono ancora una volta e restarono immote.

Tenar spostò lo sguardo dall’orrore del terremoto all’uomo che le stava accanto, l’uomo di cui non aveva mai visto il volto alla luce del giorno. — Tu l’hai tenuto a bada — disse; e la sua voce, dopo l’immane mugghiare e urlare della terra, era pigolante come il vento in una canna. — Tu hai tenuto a bada il terremoto, l’ira della tenebra.

—  Dobbiamo andare — replicò lui, voltando le spalle all’aurora e alle tombe diroccate. — Sono stanco, ho freddo… — Barcollava, mentre camminavano, e Tenar gli prese il braccio. Nessuno dei due poteva fare di più che procedere al passo, trascinandosi. Lentamente, come due minuscoli ragni su una grande parete, salirono a fatica l’immenso pendio della collina, finché, sulla cresta, si fermarono sul terreno arido, indorato dal sole che sorgeva e striato dalle lunghe ombre sparse della salvia. Davanti a loro stavano le montagne occidentali, con le basi purpuree, e le pendici più alte colorate d’oro. I due sostarono un momento e poi superarono la cresta della collina, fuori vista dal Luogo delle Tombe, e scomparvero.

LE MONTAGNE OCCIDENTALI

Tenar si destò, scuotendosi dagli atroci sogni, dai luoghi dove aveva camminato così a lungo che la carne si era staccata da lei cosicché poteva vedere le bianche ossa binate degli avambracci scintillare fiocamente nell’oscurità. Aprì gli occhi sull’aurea luce, e aspirò il pungente profumo della salvia. E quando si destò l’invase una dolcezza, un piacere che la saturava lentamente, interamente, fino a traboccare; e si sollevò a sedere, tendendo le braccia fuori dalle nere maniche della veste, e si guardò intorno, con una gioia incontaminata.

Era sera. Il sole era calato dietro le montagne che incombevano vicine e altissime a occidente, ma il chiarore che aveva lasciato riempiva tutta la terra e il cielo: un cielo invernale, immenso, limpido, una terra immensa, nuda e dorata, di montagne e di ampie valli. Il vento era caduto. Era freddo, e c’era un silenzio totale. Non si muoveva nulla. Le foglie dei vicini cespugli di salvia erano aride e grige, gli steli delle minuscole erbe secche del deserto le pungevano la mano. L’immensa gloria silente della luce ardeva su ogni ramoscello, su ogni foglia avvizzita e su ogni stelo, sulle colline, nell’aria.

Tenar guardò verso sinistra e vide l’uomo giacente sul suolo del deserto, avvolto nel mantello, con un braccio sotto la testa, addormentato profondamente. Nel sonno il suo volto era severo, quasi aggrondato, ma la mano sinistra stava abbandonata sulla terra, accanto a una piccola pianta di cardo che portava ancora la sua lacera cappa di lanugine grigia e la sua minuscola barriera di spine. L’uomo e il piccolo cardo del deserto; il cardo e l’uomo addormentato.

I suoi poteri erano grandi, e affini alle Vecchie Potenze della Terra; era uno che parlava con i draghi, e teneva a bada i terremoti con una parola. E adesso giaceva addormentato sulla terra, accanto a un piccolo cardo. Era stranissimo. Vivere, essere al mondo, era una cosa molto più grande e più strana di quanto lei avesse mai immaginato. Lo splendore del cielo sfiorò gli impolverati capelli di Ged, e per qualche istante trasformò il cardo in oro.

La luce sbiadiva lentamente. E il freddo parve diventare più intenso, di minuto in minuto. Tenar si alzò e cominciò a raccogliere la salvia secca, raccattando i fuscelli caduti, spezzando i duri rami che crescevano nodosi e massicci — fatte le proporzioni — come quelli delle querce. Si erano fermati lì verso il meriggio, quando era caldo, e non avevano potuto proseguire a causa della stanchezza. Un paio di ginepri stenti, e il pendio occidentale della cresta da cui erano appena discesi, offrivano un discreto riparo: avevano bevuto un po’ d’acqua dalla borraccia e si erano sdraiati a dormire.

C’erano parecchi rami più grossi, sparsi sotto gli alberi, e Tenar li raccolse. Scavò una buca in un angolo, tra i sassi affondati nella terra, e preparò il fuoco accendendolo poi con la selce e l’acciarino. Le foglie di salvia e i fuscelli s’infiammarono subito. I rami secchi fiorirono in vampe rosate, profumate di resina. Ormai si era fatto buio, intorno al fuoco, e le stelle si riaffacciavano nell’immane cielo.

Il crepitio delle fiamme destò il dormiente. Si sollevò a sedere, stropicciandosi il volto impolverato; poi si alzò, rigido, e si avvicinò al fuoco.

—  Mi chiedo… — disse con voce assonnata.

—  Lo so, ma non potremmo resistere di notte, qui, senza fuoco. Fa troppo freddo. — Dopo un attimo, Tenar aggiunse: — A meno che tu conosca qualche magia che ci dia calore o che nasconda le fiamme…

Lui si sedette accanto al fuoco, quasi toccandolo con i piedi, cingendosi le ginocchia con le braccia. — Brrr - fece. — Un fuoco è meglio della magia. Ho gettato una piccola illusione intorno a noi: se passasse qualcuno, gli sembreremmo fuscelli e pietre. Tu cosa dici? Che c’inseguiranno?

—  Lo temo, eppure non credo che lo faranno. Nessuno, tranne Kossil, sapeva che tu eri là. Kossil e Manan. E sono morti entrambi. Sicuramente lei era nel palazzo, quando è crollato. Ci stava aspettando alla botola. E tutti gli altri penseranno che io fossi nel palazzo o nelle tombe, e che sia rimasta schiacciata durante il terremoto. — Anche lei si cinse le ginocchia con le braccia, e rabbrividì. — Spero che gli altri edifici non siano crollati. Era difficile vedere qualcosa dalla collina: c’era troppa polvere. Senza dubbio i templi e le case non sono caduti tutti quanti, per esempio la Casa Grande dove dormono le ragazze.

—  Non credo. Le tombe hanno divorato se stesse. Ho scorto il tetto d’oro di un tempio, quando ci siamo allontanati: non era caduto. E c’erano figure, più in basso, sulle pendici della collina: gente che correva.

—  Cosa diranno, cosa penseranno… Povera Penthe! Adesso potrebbe diventare somma sacerdotessa del re-dio. Eppure aveva sempre desiderato fuggire. Lei. Non io. Forse adesso fuggirà. — Tenar sorrise. C’era in lei una gioia che nessun pensiero e nessuna paura poteva offuscare, la stessa gioia sicura che era sorta in lei quando si era risvegliata nella luce aurea. Aprì il sacco ed estrasse due pagnotte appiattite; ne porse una a Ged, attraverso il fuoco, e addentò l’altra. Il pane era duro, e acido, e squisito.

Per qualche minuto mangiarono, in silenzio.

—  Siamo molto lontani dal mare?

—  Ho impiegato due giorni e due notti, per arrivare al Luogo. Impiegheremo un poco di più, per raggiungerlo.

—  Io sono forte — disse Tenar.

—  Lo sei. E coraggiosa. Ma il tuo compagno è stanco — replicò Ged con un sorriso. — E non abbiamo molto pane.

—  Troveremo l’acqua?

—  Domani, tra le montagne.

—  Potresti procurarci qualcosa da mangiare? — chiese lei, vagamente, con timidezza.

—  Per andare a caccia occorrono le armi e il tempo.

—  Voglio dire… lo sai, con gli incantesimi.

—  Posso chiamare un coniglio — disse lui, attizzando il fuoco con un nodoso ramoscello di ginepro. — I conigli stanno uscendo dalle tane tutt’intorno a noi, adesso. La sera è il loro momento. Potrei chiamarne uno per nome, e verrebbe. Ma tu cattureresti e scuoieresti e arrostiresti un coniglio che è venuto a farti visita? Forse se stessi per morire di fame. Ma sarebbe un abuso di fiducia, credo.

—  Sì. Pensavo: forse potresti…

—  Evocare una cena — disse lui. — Oh, potrei farlo. Su piatti d’oro, se tu volessi. Ma sarebbe un’illusione, e quando mangi illusioni finisci con l’avere più fame di prima. È nutriente, più o meno, quanto mangiare parole. — Tenar vide i candidi denti di Ged lampeggiare per un momento nella luce del fuoco.

—  La tua magia è strana — osservò, con la lieve dignità che si conveniva tra pari, una sacerdotessa che si rivolgeva a un mago. — Sembra utile solo nelle grandi cose.

Lui aggiunse altra legna al fuoco, che divampò in un crepitio di scintille odorose di ginepro.

—  Davvero puoi chiamare un coniglio? — chiese all’improvviso Tenar.

—  Vuoi che lo faccia?

Lei annuì.

Ged si distolse dal fuoco e disse sommessamente nella vasta oscurità rischiarata dalle stelle: — Kebbo… Oh kebbo…

Silenzio. Non un suono. Non un movimento. Solo, al limitare della guizzante luce del fuoco, un occhio rotondo, come un ciottolo di giaietto, vicinissimo al suolo. La curva di un dorso peloso; un orecchio, lungo, eretto nell’allarme.

Ged parlò di nuovo. L’orecchio si scosse, e dall’ombra ne apparve un altro; poi, mentre la bestiola si voltava, Tenar la vide interamente per un attimo, vide il piccolo balzo agile e morbido mentre tornava tranquilla nella notte.

—  Ah! — disse, esalando il respiro che aveva trattenuto. — È meraviglioso. — Poi chiese: — Potrei farlo anch’io?

—  Ecco…

—  È un segreto — disse Tenar, ritrovando la sua dignità.

—  Il nome del coniglio è un segreto. O almeno, non si dovrebbe usarlo con leggerezza, senza una ragione. Ma il potere di chiamare non è un segreto, vedi, ma piuttosto un dono, o un mistero.

—  Oh — disse lei. — E tu lo possiedi. Lo so! — C’era passione nella sua voce, non celata dalla finta ironia. Lui la guardò e non rispose.

Era ancora esausto dalla lotta contro i Senza Nome: aveva esaurito le forze nelle gallerie squassate dal terremoto. Sebbene avesse vinto, non gli restava l’energia per esultare. Ben presto si raggomitolò di nuovo, vicinissimo al fuoco, e si riaddormentò.

Tenar rimase seduta ad alimentare le fiamme e a guardare il fulgore delle costellazioni invernali, da orizzonte a orizzonte, finché si assopì, stordita dallo splendore e dal silenzio.

Si svegliarono entrambi. Il fuoco si era spento. Le stelle che lei aveva osservato tanto a lungo erano lontane, oltre le montagne, e a oriente ne erano sorte altre. Fu il freddo a destarli, il freddo asciutto della notte del deserto, il vento simile a una lama di ghiaccio. Un velo di nubi stava coprendo il cielo, da sudovest.

Il legno che avevano raccolto era quasi finito. — Andiamo — disse Ged. — Non manca molto all’alba. — Gli battevano i denti, così forte che Tenar faticava a capirlo. Si avviarono, salendo il lungo pendio verso occidente. Gli arbusti e le rocce spiccavano neri nella luce delle stelle, e camminare era facile come durante il giorno. Dopo un poco, il movimento li riscaldò: non rabbrividivano più, non erano costretti a procedere chini. Al levar del sole erano giunti alla prima altura delle montagne occidentali, che fino a quel momento avevano circondato l’esistenza di Tenar.

Si fermarono in un boschetto, dove le frementi foglie dorate pendevano ancora dai rami degli alberi. Ged le disse che erano abeti; lei non conosceva altri alberi che i ginepri, e i pioppi malaticci alle sorgenti del fiume, e i quaranta meli nel frutteto del Luogo. Un uccellino, tra gli abeti, pigolava «dii, dii», con una vocina sottile. Sotto gli alberi scorreva un ruscello, stretto ma poderoso, che gridava forzuto tra le rocce e le cascatelle, troppo rapido per gelare. Tenar ne aveva quasi paura. Era abituata al deserto, dove tutto è silenzioso e si muove lentamente: fiumi torpidi, ombre di nuvole, avvoltoi che volano in cerchio.

Si divisero un pezzo di pane e un’ultima fetta sbriciolata di formaggio, per colazione; riposarono un po’, e proseguirono.

A sera erano arrivati piuttosto in alto. Il cielo era coperto, e spirava un vento gelido. Si accamparono nella valle di un altro ruscello, dove c’era legna in abbondanza, e questa volta accesero un robusto fuoco di ciocchi che poteva riscaldarli veramente.

Tenar era felice. Aveva trovato il nascondiglio delle noci di uno scoiattolo, messo allo scoperto dalla caduta di un albero cavo: un paio di libbre di splendide noci e di altri frutti dal guscio levigato che Ged, non conoscendone il nome kargano, chiamava ubir. Lei ne spaccò una con due pietre, porgendo all’uomo metà del gheriglio.

—  Vorrei che potessimo rimanere qui — disse, guardando la valle ventosa. — Questo posto mi piace.

—  È un bel posto — riconobbe Ged.

—  Qui non verrebbe mai nessuno.

—  Non molto spesso. Io sono nato tra le montagne. Sulla montagna di Gont. Le passeremo accanto, facendo vela per Havnor, se prenderemo la rotta settentrionale. È bellissima, d’inverno: sorge tutta bianca dal mare, come un’onda più alta. Il mio paese era accanto a un ruscello come questo. Tu dove sei nata?

—  Nella parte settentrionale di Atuan, credo. Non ricordo.

—  Ti hanno portata via così piccola?

—  Avevo cinque anni. Ricordo le fiamme in un focolare… e nient’altro.

Lui si passò la mano sul mento, che, sebbene fosse diventato un po’ irsuto per la barba rada, almeno era pulito: nonostante il freddo, si erano lavati nei ruscelli montani. Si passò la mano sul mento, con aria pensierosa e severa. Tenar lo guardò, e non avrebbe saputo dire cosa sentiva in cuore mentre l’osservava nella luce del fuoco, nel crepuscolo della montagna.

—  Cosa farai, a Havnor? — chiese Ged: e lo chiese al fuoco, non a lei. — Tu sei… rinata veramente: più di quanto immaginavo.

Tenar annuì, con un lieve sorriso. Si sentiva appena nata.

—  Dovresti almeno imparare la lingua.

—  La tua lingua?

—  Sì.

—  Mi piacerebbe.

—  Bene, allora. Questa è kabat. - Ged buttò una pietruzza nella falda della nera veste di lei.

—  Kabat. È nella lingua dei draghi?

—  No, no. Tu non vuoi operare incantesimi: vuoi parlare con gli altri uomini, e donne!

—  Ma come si chiama una pietruzza, nella lingua dei draghi?

—  Tolk - rispose lui. — Ma non voglio fare di te la mia apprendista maga. Ti sto insegnando la lingua che la gente parla nell’arcipelago, nelle Terre Interne. Io ho dovuto imparare la tua lingua, prima di venire qui.

—  La parli in modo strano.

—  Senza dubbio. Ora, arkemmi kabat. - E Ged tese le mani perché lei gli desse la pietruzza.

—  Devo venire a Havnor? — chiese Tenar.

—  E dove andresti, altrimenti?

Lei esitò.

—  Havnor è una città bellissima — disse lui. — E tu le porti l’Anello, il segno della pace, il tesoro perduto. A Havnor ti accoglieranno come una principessa. Ti onoreranno per il grande dono che porti, e sarai la benvenuta. In quella città vive un popolo nobile e generoso. Ti chiameranno «la dama bianca» per la tua pelle chiara, e ti ameranno ancora di più perché sei così giovane. E perché sei bella. Avrai cento vestiti come quello che ti ho mostrato con l’illusione, ma veri. Sarai trattata con elogi e gratitudine e amore, tu che non hai mai conosciuto altro che la solitudine e l’invidia e la tenebra.

—  C’era Manan — disse Tenar, in tono difensivo, con le labbra che tremavano un poco. — Mi voleva bene, ed era sempre buono con me. Mi proteggeva come poteva; e per questo io l’ho ucciso. È precipitato nel nero abisso. Non voglio andare a Havnor. Non voglio andarci. Voglio rimanere qui.

—  Qui… in Atuan?

—  Tra le montagne. Dove siamo ora.

—  Tenar — disse lui, con quella voce quieta e grave, — allora resteremo. Io non ho più il mio coltello, e se nevicherà sarà dura. Ma finché potremo trovare cibo…

—  No. So che non possiamo restare. Era una sciocchezza — replicò Tenar, e si alzò, spargendo intorno gusci di noci, per aggiungere altra legna al fuoco. Era esile ed eretta, nella veste e nel mantello di lana nera, laceri e macchiati. — Tutto quello che so, ormai non serve a nulla. E non ho mai appreso altro. Cercherò d’imparare.

Ged distolse lo sguardo, rabbrividendo come per una fitta di sofferenza.

Il giorno dopo superarono la sommità della catena lionata. Nel valico spirava un vento crudo, carico di neve pungente e accecante. Solo quando furono discesi per un lungo tratto, sotto le nubi delle vette, Tenar vide la terra oltre la muraglia montuosa. Era tutta verde: verde di pinete, di prati, di campi seminati e di maggesi. Perfino nel cuore dell’inverno, quando i boschetti erano spogli e le foreste piene di rami grigi, era una terra verde, umile e mite. La guardarono da un alto declivio roccioso, sul fianco della montagna. Senza parlare, Ged indicò verso occidente, dove il sole stava scendendo dietro una densa spuma turbinante di nuvole. Il sole era nascosto, ma all’orizzonte c’era uno scintillio simile al bagliore delle pareti di cristallo della cripta, una specie di baluginio gioioso proveniente dall’orlo del mondo.

—  Cos’è? — chiese la ragazza; e lui: — Il mare.

Poco dopo, lei vide una cosa meno meravigliosa ma pur sempre mirabile. Raggiunsero una strada e la seguirono; e al crepuscolo li portò in un paesino: dieci o dodici case sgranate lungo la via. Lei guardò allarmata il suo compagno, quando comprese che si stavano avventurando tra gli uomini. Guardò, e non lo vide. Accanto a lei, nelle vesti di Ged e con la sua andatura e con le sue scarpe, camminava un altro uomo. Era bianco di pelle, e non aveva barba. Lui la guardò; i suoi occhi erano azzurri. Ammiccò.

—  Riuscirò a ingannarli? — chiese. — Come sono le tue vesti?

Tenar si guardò. Aveva addosso la gonna e la giubba marrone delle donne di campagna, e un grande scialle di lana rossa.

—  Oh — disse, fermandosi. — Oh, tu sei… sei Ged! — E quando ne pronunciò il nome lo vide con perfetta chiarezza: il volto scuro e sfigurato che conosceva, gli occhi scuri; eppure là stava lo sconosciuto dal volto latteo.

—  Non dire mai il mio vero nome davanti al altri. E io non dirò il tuo. Siamo fratello e sorella, e veniamo da Tenacbah. E credo che chiederò qualcosa da mangiare, se vedrò una faccia gentile. — Lui la prese per mano. Insieme, entrarono in paese.

La mattina dopo ripartirono con lo stomaco pieno, dopo un piacevole sonno in un fienile.

—  I maghi mendicano spesso? — chiese Tenar mentre camminavano per la strada fra i verdi campi dove pascolavano le capre e i piccoli bovini pezzati.

—  Perché me lo domandi?

—  Mi sembrava che fossi abituato a mendicare. Anzi, ci sei riuscito benissimo.

—  Ecco, sì. Ho mendicato per tutta la vita, si può dire. I maghi non possiedono molte cose, capisci. Anzi, non hanno nulla tranne il loro bastone e i loro indumenti, se amano vagare. La gente li accoglie con piacere, e offre loro cibo e riparo. E i maghi ricambiano.

—  In che modo?

—  Be’, quella donna in paese. Ho guarito le sue capre.

—  Cos’avevano?

—  Avevano le mammelle infette. Quand’ero ragazzo, badavo alle capre.

—  Le hai detto che le hai guarite?

—  No. Come avrei potuto? Perché avrei dovuto?

Dopo una pausa, Tenar disse: — Mi rendo conto che la tua magia non è utile solo per le grandi cose.

—  L’ospitalità — replicò Ged, — la cortesia verso il forestiero, è una cosa grande. I ringraziamenti bastano, naturalmente. Ma le capre mi facevano pena.

Nel pomeriggio giunsero a una città piuttosto ampia. Era costruita di mattoni d’argilla, e cinta di mura secondo l’usanza di Kargad, con bastioni sporgenti, torri di guardia ai quattro angoli, e un’unica porta, sotto la quale i pastori stavano guidando un folto gregge di pecore. I tetti rossi di cento o più case sporgevano sopra i muri di mattoni giallastri. Alla porta stavano due guardie del re-dio, con l’elmo impennacchiato di rosso. Tenar aveva visto uomini con elmi come quelli, quando venivano, più o meno una volta all’anno, per scortare al Luogo offerte di schiavi o di denaro per il tempio del re-dio. Quando lo disse a Ged, mentre passavano oltre, all’esterno delle mura, lui replicò: — Li ho visti anch’io, da bambino. Vennero a compiere una scorreria, a Gont. Entrarono nel mio paese per saccheggiarlo. Ma furono respinti. E ci fu una battaglia presso la foce dell’Ar, sulla spiaggia; molti uomini rimasero uccisi: a centinaia, dicono. Forse, ora che l’anello è reintegrato e che la Runa Perduta è ricomposta, non ci saranno più scorrerie e massacri tra l’impero di Kargad e le Terre Interne.

—  Sarebbe assurdo se continuassero — disse Tenar. — Cosa se ne farebbe, il re-dio, di tanti schiavi?

Il suo compagno parve riflettere per qualche istante. — Se le terre di Kargad sconfiggessero l’arcipelago, vuoi dire?

Tenar annuì.

—  Non credo che sarebbe molto probabile.

—  Ma pensa a quanto è forte l’impero… Quella grande città, con le sue mura e tutti quegli uomini. Come potrebbero resistere le tue terre, se attaccassero?

—  Quella non è una città molto grande — rispose Ged, cautamente e gentilmente. — Anch’io l’avrei giudicata immensa, quando ero appena disceso dalla mia montagna. Ma ci sono molte, molte città su Earthsea, e questa è solo una delle tante. Ci sono molte, molte terre. Le vedrai.

Lei non disse nulla. Continuò a camminare, seria in volto.

—  È meraviglioso, vederle: le terre nuove che emergono dal mare, quando la barca si avvicina. I campi e le foreste, le città con i porti e i palazzi, le piazze del mercato, dove vendono tutte le merci del mondo.

Tenar annuì. Sapeva che lui cercava di rincuorarla: ma aveva lasciato la gioia lassù tra le montagne, nella valle in riva al ruscello. Adesso in lei cresceva la paura. Tutto ciò che le stava davanti era ignoto. Non conosceva altro che il deserto e le tombe. A cosa serviva? Conosceva le svolte di un labirinto crollato, conosceva le danze davanti a un altare caduto. Non sapeva nulla delle foreste, delle città, dei cuori degli uomini.

Chiese, improvvisamente: — Resterai con me, là?

Non lo guardò. Ged era camuffato dall’illusione, un campagnolo di Kargad con la pelle bianca, e non le piaceva vederlo così. Ma la voce era immutata, la stessa voce che aveva parlato nella tenebra del labirinto.

Lui indugiò, prima di rispondere. — Tenar, io vado dove vengo mandato. Seguo la mia vocazione. Non mi ha ancora permesso di rimanere a lungo in una terra. Comprendi? Io faccio ciò che devo fare. Dovunque vada, devo andare solo. Finché avrai bisogno di me, starò con te in Havnor. E se avrai ancora bisogno di me, chiamami. Io verrò. Verrei anche dalla tomba, se tu mi chiamassi! Ma non posso restare con te.

Lei non disse nulla. Dopo un po’, lui aggiunse: — Là non avrai bisogno di me per molto tempo. Sarai felice.

Tenar annuì, accettando in silenzio quelle parole.

Proseguirono, a fianco a fianco, verso il mare.

IN VIAGGIO

Ged aveva nascosto la barca in una grotta, sul fianco di un grande promontorio roccioso chiamato Capo delle Nubi dagli abitanti del vicino paese, uno dei quali offrì loro, per cena, una ciotola di pesce stufato. Scesero le scogliere fino alla spiaggia, nell’ultima luce di quella giornata grigia. La grotta era una stretta crepa che affondava nella roccia per una decina di braccia; il fondo sabbioso era bagnato, poiché stava appena al di sopra del livello massimo della marea. L’apertura si scorgeva dal mare, e Ged disse che non dovevano accendere il fuoco perché i pescatori usciti di notte con le loro barchette non lo vedessero e non si incuriosissero. Perciò si stesero sulla sabbia, che sembrava tanto morbida tra le dita ma che per il corpo stanco era dura come la pietra. E Tenar ascoltò il mare a poche braccia sotto l’imboccatura della grotta, il mare che scrosciava e risucchiava e tuonava sulle rocce, e il rombo che si stendeva per miglia e miglia sulla spiaggia, verso oriente. Ripeteva sempre gli stessi suoni, eppure non erano mai identici. Non riposava mai. Su tutte le spiagge di tutte le terre del mondo si innalzava in onde irrequiete e non trovava mai pace, non era mai immobile. Il deserto, le montagne: quelli stavano immoti. Non gridavano perpetuamente con una grande voce cupa. Il mare parlava eternamente, ma il suo linguaggio le era estraneo: lei non capiva.

Nella prima luce grigia, alla bassa marea, Tenar si destò dal suo sonno inquieto e vide il mago uscire dalla grotta. Lo vide camminare, scalzo, il mantello stretto dalla cintura, sulle rocce crestate di nero, alla ricerca di qualcosa. Poi tornò, oscurando la grotta nell’entrare. — Ecco — disse, porgendole una manciata di cose umide e orrende, simili a pietre purpuree dalle labbra arancione.

—  Che cosa sono?

—  Mitili, strappati dalle rocce. E queste due sono ostriche, ancora più squisite. — Col pugnaletto che lei aveva portato appeso al mazzo di chiavi e che gli aveva prestato fra le montagne, Ged aprì un guscio e divorò il mitilo arancione, nella sua salsa di acqua marina.

—  Non lo cucini neppure? L’hai mangiato vivo!

Tenar non lo guardò mentre Ged, un po’ vergognoso ma imperturbabile, continuava ad aprire e a divorare i molluschi uno dopo l’altro.

Quando ebbe terminato, ritornò nella grotta e si accostò alla barca, che stava con la prua in avanti, sollevata su alcuni tronchi che la tenevano staccata dalla sabbia. Tenar aveva guardato quella barca, la notte precedente, con diffidenza, e senza capire. Era molto più grande di quanto lei avesse immaginato che fossero le barche, tre volte più lunga di lei. Era piena di oggetti di cui non conosceva l’uso, e aveva l’aria pericolosa. Ai lati del naso (era così che Tenar chiamava la prua) era dipinto un occhio; e mentre stava per addormentarsi aveva avuto l’impressione costante che la barca la fissasse.

Ged frugò per un momento e ritornò portando qualcosa: un pacchetto di pane duro, accuratamente avvolto per tenerlo all’asciutto. Gliene offrì un grosso pezzo.

—  Non ho fame.

Ged scrutò il volto incupito di lei.

Ripose il pane, avvolgendolo di nuovo, e poi si sedette all’imboccatura della grotta. — Tra due ore circa tornerà l’alta marea — disse. — Allora potremo partire. Hai trascorso una notte inquieta: perché non dormi un po’, adesso?

—  Non ho sonno.

Lui non replicò. Rimase seduto nello scuro arco della roccia, di profilo rispetto a lei, a gambe incrociate: lo scintillante movimento del mare era dietro di lui, mentre Tenar lo guardava dall’interno della grotta. Ged non si muoveva. Era immoto come le rocce. E da lui s’irradiava il silenzio, come i cerchi che si dilatano da una pietra gettata nell’acqua. Il suo silenzio divenne non già l’assenza della parola ma una cosa in sé, come il silenzio del deserto.

Dopo molto tempo, Tenar si alzò e si accostò all’imboccatura della grotta. Lui non si mosse. Lei lo scrutò in volto. Sembrava fuso nel rame: rigido, con gli occhi scuri che non erano chiusi ma guardavano in basso, e la bocca serena.

Era lontano da lei, come il mare.

Dov’era adesso? Su quali vie dello spirito stava camminando? Lei non avrebbe mai potuto seguirlo.

Ged l’aveva indotta a seguirlo. L’aveva chiamata col suo nome, e lei era accorsa come il piccolo coniglio del deserto era andato a lui uscendo dall’oscurità. E adesso che lui aveva l’anello, adesso che le tombe erano in rovina e la sacerdotessa era perduta per sempre, adesso non aveva più bisogno di lei e se ne andava dove lei non poteva seguirlo. Non sarebbe rimasto con lei. L’aveva ingannata, e l’avrebbe abbandonata.

Si piegò, e con un gesto fulmineo gli sfilò dalla cintura il pugnaletto d’acciaio che gli aveva dato. Ged non si mosse, come una statua derubata.

La lama era lunga soltanto una spanna, e affilata da una parte: era la miniatura di un coltello sacrificale. Faceva parte del corredo della Sacerdotessa delle Tombe, che doveva portarlo insieme alle chiavi e alla cintura di crine di cavallo e ad altri oggetti, alcuni dei quali avevano funzioni sconosciute. Tenar non aveva mai usato il pugnale; solo, in una delle danze eseguite al novilunio, davanti al trono, lo lanciava in aria e l’afferrava al volo. Lei aveva amato quella danza: era scatenata, senza altra musica che il tambureggiare dei suoi piedi. Si era tagliata spesso le dita, quando si era esercitata, finché aveva imparato ad afferrare sempre l’impugnatura del coltello. La minuscola lama era abbastanza affilata per tagliare un dito fino all’osso, o per recidere le arterie di una gola. Lei avrebbe servito ancora i suoi Padroni, sebbene l’avessero tradita e dimenticata. Avrebbero guidato la sua mano nell’ultimo atto della tenebra. Avrebbero accettato il sacrificio.

Si voltò verso l’uomo, tenendo il coltello nella destra, dietro il fianco. In quel momento, Ged alzò lentamente la testa e la guardò. Aveva l’espressione di chi ritorna da molto lontano, di chi ha visto cose terribili. Il suo volto era calmo, ma pieno di sofferenza. Quando alzò lo sguardo e parve vederla sempre più chiaramente, la sua espressione si schiarì. Infine disse «Tenar», come in un saluto, e levò la mano a sfiorare la fascia d’argento traforato e scolpito che lei portava al polso. Lo fece come se volesse rassicurarsi, fiduciosamente. Non badò al pugnale nella mano di Tenar. Spostò lo sguardo sulle onde, che si sollevavano contro le rocce sottostanti, e disse con uno sforzo: — È ora… è ora di andare.

Al suono di quella voce, il furore abbandonò Tenar. Ebbe paura.

—  Te li lascerai indietro. Adesso sei libera — disse Ged, alzandosi con improvviso vigore. Si stiracchiò, e si assestò il mantello. — Dammi una mano a spingere la barca. È montata sui tronchi, per farla rotolare. Ecco, spingi… ancora… Basta così. E adesso tienti pronta a balzare a bordo, quando ti dirò «salta». È un punto difficile per lanciarla… Ancora. Ecco! Salta! — E balzando dietro di lei, l’afferrò mentre Tenar perdeva l’equilibrio, la fece sedere sul fondo, si puntellò a gambe larghe, prese i remi e fece sfrecciare l’imbarcazione fuori, su un’onda di riflusso, sopra le rocce, oltre il promontorio ruggente e schiumante, verso il mare aperto.

Ritirò i remi quando furono lontani dagli scogli, e alzò l’albero. La barca sembrava piccolissima, adesso che lei vi stava dentro e il mare era all’esterno.

Ged issò la vela. Tutto aveva l’aria di essere stato usato a lungo, faticosamente, sebbene la vela rossocupa fosse rattoppata con grande cura e la barca fosse pulita e ben tenuta. Erano come il loro padrone: erano andate lontano, e la vita non le aveva trattate con dolcezza.

—  Ora — disse Ged, — ora siamo partiti, ora siamo liberi, siamo andati, Tenar. Lo senti anche tu?

Lei lo sentiva. Una mano tenebrosa aveva allentato la stretta che aveva serrato il suo cuore per tutta la vita. Ma non provava più gioia, come l’aveva provata invece tra le montagne. Abbassò la testa tra le braccia e pianse, e le sue guance erano umide e salmastre. Piangeva per lo spreco dei suoi anni, asserviti a un male inutile. Piangeva di dolore, perché era libera.

Aveva incominciato ad apprendere il peso della libertà. La libertà è un fardello oneroso, un grande e strano fardello per lo spirito che se l’addossa. Non è agevole. Non è un dono ma una scelta, e la scelta può essere dura. La strada sale, verso la luce: ma il viandante oberato può anche non raggiungerla mai.

Ged la lasciò piangere, non le disse una parola di conforto; e non parlò neppure quando lei smise di piangere e restò seduta a guardare la bassa terra azzurra di Atuan. Il volto di lui era severo e intento, come se fosse solo: badava alla vela e al timone, pronto e taciturno, e guardava sempre avanti.

Nel pomeriggio tese il braccio a destra del sole, verso il quale stavano navigando. — Quella è Karego-At — disse. E Tenar, seguendo il suo gesto, vide la lontana massa delle colline simili a nuvole, la grande isola del re-dio. Atuan era scomparsa, alle loro spalle. Lei si sentiva il cuore pesante. Il sole le batteva negli occhi come un martello d’oro.

La cena fu pane secco, e pesce affumicato, che per Tenar aveva un sapore ripugnante, e l’acqua del barile che Ged aveva riempito a un ruscello del Capo delle Nubi la sera prima. La notte invernale scese rapida e fredda sul mare. Lontano, verso nord, videro per qualche tempo un brillio di luci, il giallo fuoco dei paesi sulla riva di Karego-At. Poi le luci svanirono nella foschia che salì dall’oceano, e loro rimasero soli nella notte senza stelle, sulle acque profonde.

Tenar si era raggomitolata a poppa; Ged si sdraiò a prua, col bariletto d’acqua per cuscino. La barca procedeva, e le lunghe onde schiaffeggiavano lievemente le fiancate sebbene il vento fosse soltanto un alito fioco da sud. Là, lontano dalle spiagge rocciose, anche il mare era silente: solo quando sfiorava la barca mormorava un poco.

—  Se il vento spira da sud — chiese Tenar, bisbigliando perché bisbigliava il mare, — la barca non veleggia verso nord?

—  Sì, se non bordeggiamo. Ma io ho messo il vento magico nella vela, verso occidente. Domattina dovremmo essere usciti dalle acque di Kargad. E allora lascerò che vada col vento del mondo.

—  Si guida da sola?

—  Sì — rispose serio Ged. — Se le do gli ordini appropriati. Non ne occorrono molti. Ha navigato nel mare aperto, oltre l’isola più lontana dello stretto orientale; è stata a Selidor, dove morì Erreth-Akbe, nell’estremo occidente. È una barca saggia ed esperta, la mia Vistacuta. Puoi fidarti di lei.

Nella barca mossa dalla magia sopra i grandi abissi, la ragazza giaceva guardando l’oscurità. Per tutta la sua vita aveva guardato l’oscurità: ma la notte sull’oceano era un’oscurità più grande. Era senza fine. Non c’era tetto. Proseguiva oltre le stelle. Era esistita prima della vita, e avrebbe continuato a esistere dopo. Trascendeva anche il male.

Nell’oscurità, Tenar parlò. — L’isoletta dove ti hanno donato il talismano è in questo mare?

—  Sì — rispose la voce di lui, dall’oscurità. — Da qualche parte. Verso sud, forse. Non saprei ritrovarla.

—  Io so chi era, la vecchia che ti ha dato l’anello.

—  Lo sai?

—  Mi raccontarono la storia. Faceva parte della conoscenza della Prima Sacerdotessa. Me la raccontò Thar, prima quando era presente Kossil, e poi, più ampiamente, quando fummo sole: fu l’ultima volta che mi parlò, prima di morire. In Hupun c’era una nobile casata, che lottò contro l’ascesa al potere dei sommi sacerdoti di Awabath. Il fondatore della casa era il re Thoreg, e fra i tesori che lasciò ai discendenti c’era la metà dell’anello, donatagli da Erreth-Akbe.

—  Così si narra nelle Gesta di Erreth-Akbe. Dice… nella tua lingua dice: «Quando l’anello si spezzò, metà rimase nella mano del sommo sacerdote Intahin e metà nella mano dell’eroe. E il sommo sacerdote inviò la metà al Senza Nome, all’Antico della Terra in Atuan, e così andò nella tenebra, nei luoghi perduti. Ma Erreth-Akbe donò la sua metà alla vergine Tiarath, figlia del saggio re, dicendo: "Che rimanga nella luce, nella dote della fanciulla, rimanga in questa terra fino a quando potrà ricongiungersi con l’altra metà". Così parlò l’eroe prima di far vela verso occidente».

—  E quindi dev’essere passata di figlia in figlia, in quella casata, per tutti quegli anni. Non era andata perduta, come pensava la tua gente. Ma quando i sommi sacerdoti si proclamarono resacerdoti, e poi quando i re-sacerdoti divennero imperatori e cominciarono a farsi chiamare re-dèi, la casata di Thoreg divenne sempre più povera e debole. E alla fine, così mi disse Thar, rimasero soltanto due discendenti della stirpe di Thoreg, due bambini, un maschio e una femmina. Allora era re-dio di Awabath il padre di colui che regna adesso. Fece rapire i bambini dal palazzo di Hupun. Una profezia diceva che uno dei discendenti di Thoreg di Hupun avrebbe causato la caduta dell’impero, e questo gli faceva paura. Fece rapire i bambini e li fece portare su un’isola solitaria in mezzo all’oceano, senza lasciar loro altro che gli abiti che indossavano e un po’ di cibo. Non osò farli strangolare o pugnalare o uccidere col veleno: erano di sangue reale, e l’assassinio dei re attira la maledizione perfino sugli dèi. Si chiamavano Ensar e Anthil. Fu Anthil a donarti l’anello spezzato.

Ged tacque a lungo. — Ora l’intera storia è reintegrata — disse infine. — Così come l’anello è ricomposto. Ma è una storia crudele, Tenar. I bambini, l’isola, il vecchio e la vecchia che io incontrai… quasi non conoscevano il linguaggio umano.

—  Vorrei chiederti una cosa.

—  Chiedi.

—  Non voglio andare nelle Terre Interne, a Havnor. Non è il mio posto, nelle grandi città, tra gli estranei. Io non appartengo a nessuna terra. Ho tradito il mio popolo. Non ho un popolo. E ho fatto una cosa terribile. Lasciami sola su un’isola, come furono lasciati i figli del re, su un’isola solitaria dove non ci sia nessuno. Lasciami, e porta l’Anello a Havnor. È tuo, non mio. Non ha nulla in comune con me. Lasciami vivere sola!

Lentamente, gradualmente, e tuttavia sorprendendola una luce albeggiò come una piccola luna nell’oscurità davanti a lei: la luce incantata che appariva al comando di Ged. Brillava sulla sommità del suo bastone, che Ged teneva ritto mentre stava seduto di fronte a lei, a prua. Illuminava la parte inferiore della vela con un chiarore argenteo. Ged la guardava fissa.

—  Che male hai fatto, Tenar?

—  Ho ordinato di rinchiudere tre uomini in una camera, sotto il trono, perché morissero di fame. Morirono di fame e di sete. Morirono, e furono sepolti nella cripta. Le Pietre Tombali sono crollate sopra le loro fosse. — S’interruppe.

—  C’è altro?

—  Manan.

—  La sua morte pesa sulla mia anima.

—  No. È morto perché mi amava e mi era devoto. Credeva di proteggermi. Ha tenuto la spada levata sopra il mio collo. Quando ero piccola, era buono con me… quando piangevo. — S’interruppe di nuovo, perché le lacrime le riempivano gli occhi, eppure non voleva più piangere. Teneva le mani contratte sulle pieghe della nera veste. — Io non sono mai stata buona con lui — disse. — Non voglio andare a Havnor. Non voglio venire con te. Trova un’isola dove non va mai nessuno, fammi sbarcare e lasciami là. Il male fatto dev’essere espiato. Io non sono libera.

La luce dolce, ingrigita dalla nebbia del mare, scintillava tra loro.

—  Ascolta, Tenar. Ascoltami. Tu eri il ricettacolo del male. Il male si è riversato fuori. È finito. È sepolto nella propria tomba. Tu non eri fatta per la crudeltà e la tenebra: eri fatta per spandere la luce, come una lampada che irradia e dona il suo chiarore. Ho trovato la lampada spenta: non la lascerò su un’isola deserta, come un oggetto trovato e gettato via. Ti condurrò a Havnor e dirò ai principi di Earthsea: «Guardate! Nel luogo della tenebra ho trovato la luce del suo spirito. Lei ha annientato un male antico. Grazie a lei sono uscito dalla tomba. Grazie a lei ciò che era spezzato si è ricomposto, e dove regnava l’odio regnerà la pace».

—  No — replicò Tenar, angosciata. — Non posso. Non è vero!

—  E dopo — continuò Ged, pacatamente, — ti condurrò lontano dai principi e dai ricchi signori; perché è vero che quello non è il tuo posto. Sei troppo giovane e troppo saggia. Ti condurrò nella mia terra, a Gont, dove sono nato, dal mio vecchio maestro Ogion. Ormai è vecchio, ed è un grandissimo mago, un uomo dal cuore sereno. Lo chiamano «il Taciturno». Vive in una casetta, sulle grandi scogliere di Re Albi, sopra il mare. Ha qualche capra, e un orticello. In autunno vaga per l’isola, solo, tra le foreste e le montagne e le valli dei fiumi. Un tempo vissi con lui, quando ero più giovane di quanto tu sia ora. Non rimasi a lungo: non ebbi il buonsenso di rimanere. Me ne andai in cerca del male, e infatti lo trovai… Ma tu stai fuggendo dal male, e cerchi la libertà; cerchi il silenzio, per qualche tempo, in attesa di trovare la tua strada. Là troverai bontà e silenzio, Tenar. Là la lampada arderà per un poco lontano dal vento. Lo farai?

La nebbia del mare alitava grigia tra i loro volti. La barca si sollevava leggera sulle onde lunghe. Intorno a loro c’era la notte, sotto di loro il mare.

—  Lo farò — disse Tenar, con un lungo sospiro. E poi, dopo una pausa: — Oh, vorrei che fosse presto… che potessimo andare là adesso…

—  Non ci vorrà molto, piccola.

—  E tu verrai ancora, là?

—  Quando potrò, verrò.

La luce si era spenta; era tutto buio, intorno a loro.

Dopo le albe e i tramonti, dopo i giorni di bonaccia e i venti gelidi del loro viaggio invernale, giunsero al mare Interno. Veleggiarono sulle rotte affollate, tra le grandi navi, attraverso lo stretto di Ebavnor, e nella baia serrata nel cuore di Havnor, e attraverso la baia giunsero al Grande Porto di Havnor. Videro le torri bianche, e tutta la città, candida e radiosa nella neve. I tetti dei ponti e le rosse tegole delle case erano coperti di neve, e le sartie delle cento navi attraccate nel porto scintillavano di ghiaccio nel sole invernale. La notizia del loro arrivo li aveva preceduti, perché la rossa vela rattoppata della Vistacuta era ben nota in quei mari: una grande folla si era radunata sulle banchine innevate, e vessilli colorati garrivano sopra la gente nel freddo vento luminoso.

Tenar sedeva a poppa, eretta, nel lacero mantello nero. Guardò l’anello che le cingeva il polso, e poi la riva affollata e multicolore, e i palazzi e le altissime torri. Alzò la mano destra, e il sole lampeggiò sull’argento dell’anello. Si levò un’acclamazione, fievole e gioiosa nel vento, sopra l’acqua inquieta. Ged guidò la barca verso il molo. Cento mani si protesero ad afferrare la corda che lui lanciò verso la bitta. Balzò sulla banchina e si voltò, tendendo la mano a Tenar. — Vieni! — disse sorridendo, e lei si alzò e salì. Grave in volto, camminò al suo fianco per le bianche strade di Havnor, tenendogli la mano, come una bimba che ritorna a casa.

FINE