Stanislaw Lem
Cyberiade
Traduzione di Riccardo Valla.
Titolo originale: «Cyberiada» 1965
2003, Marcos y Marcos, Milano.
INDICE
Come salvammo il mondo.
La macchina di Trurl.
Una bella bastonata.
La prima fatica ovvero La trappola di Gargantius.
La prima fatica bis ovvero Il bardo elettronico.
La seconda fatica ovvero Alla caccia di re Krool.
La terza fatica ovvero I draghi della probabilità.
La quarta fatica ovvero Come Trurl costruì un Femmefatalatrone….
La quinta fatica ovvero Le burle di Re Balerion.
La quinta fatica bis ovvero L’ingiunzione di Trurl.
La sesta fatica ovvero Come Trurl e Klapaucius crearono un Demone…
La settima fatica ovvero Come Trurl, a causa della sua perfezione…
Le tre macchine narratrici di Re Genius premessa Il cavaliere sferico.
La storia della prima macchina ovvero Il Consigliere Perfetto.
Primo Intermezzo ovvero Della sfericità.
La storia della seconda macchina ovvero Il benefattore del pianeta.
Secondo Intermezzo.
La storia della terza macchina ovvero Mymosh il Figlio di Se Stesso.
L’Altruizina ovvero Come Bonhommius, l’Eremita Ermetico…
Dal «Cyberoticon» (ovvero Storie di deviazioni…) Il Principe Ferrix e la Principessa Cristallo.
COME SALVAMMO IL MONDO
Un giorno Trurl il costruttore montò una macchina in grado di creare tutto quello che cominciava per N. Terminato che ebbe il marchingegno, lo collaudò chiedendogli di creare nacchere, poi noccioline e negligé — che la macchina debitamente fabbricò — e di nascondere il tutto in un narghilè pieno di nepente e di numerosi altri narcotici.
Il congegno eseguì alla lettera le istruzioni. Non ancora persuaso delle capacità della macchina, Trurl le fece produrre, uno dopo l’altro, nodi, narcisi, nembi, nettare, nuclei, neutroni, nafta, nettapipe, ninfe, naiadi e natrium. Quest’ultimo non comparve, e Trurl, notevolmente scocciato, pretese una spiegazione.
«Mai sentito parlarne» disse la macchina.
«Cosa?» fece il costruttore. «Ma è soltanto il sodio. Sì, il metalloide, l’elemento chimico…»
«Sodio comincia per S, e io lavoro solo con le N».
«Ma il suo nome scientifico latino è natrium…» cominciò Trurl.
«Senti, bello» tagliò corto la macchina «se potessi creare tutto quello che comincia per N in ogni lingua che esiste, sarei una Macchina Che Può Creare Tutto Quello Che Comincia con Una Qualsiasi Lettera dell’Alfabeto, perché qualunque oggetto si nomini, ne sono certo, in una lingua o nell’altra avrà il nome che inizia con N. La vita non è facile come credi. Io non posso uscire dalla mia programmazione. Niente sodio, perciò».
«Benissimo» commentò Trurl, e le ordinò di fare Notte, cosa che fece subito… piccola forse, ma notturna al punto giusto. Solo allora Trurl si decise a invitare l’amico Klapaucius, il costruttore, e gli mostrò la macchina, lodandone le straordinarie capacità in una maniera così sperticata che Klapaucius si irritò e chiese se non potesse provare la macchina anche lui.
«Accomodati» gli disse Trurl. «Ma ricorda, la cosa dovrà cominciare con N».
«N, eh?» fece Klapaucius. «Bene, allora facciamole fare la Natura».
La macchina prese a ronzare alacremente e produsse una serie di entità naturali assortite, le quali si accumularono nel cortile di Trurl, che fino ad allora conteneva soltanto pezzi di macchine. In breve tempo, però, lo spiazzo si riempì anche di naturalisti, che subito presero a polemizzare tra loro. Ciascuno pubblicava spessi volumi, che gli altri poi facevano a pezzi. Lontano si potevano scorgere roghi fiammeggianti, su cui sfrigolavano i martiri per la Natura; si udivano assordanti rombi di tuono e si levavano colonne di fumo a forma di fungo; parlavano tutti insieme, nessuno ascoltava, e circolava ogni sorta di memoriale, di appello, di denuncia per plagio e innumerevoli altri documenti a futura memoria, mentre da un canto sedevano alcuni vecchioni che prendevano freneticamente appunti su tutto quello che succedeva.
«Non male, eh?» disse Trurl, tutto compiaciuto. «La Natura e le sue scienze, dalla A alla Z, ammettilo!»
Ma Klapaucius non era soddisfatto.
«Come, tutto quel casino?» chiese. «Non verrai a dirmi che è la Natura!»
«Allora, da’ alla macchina un altro ordine» disse Trurl, brusco. «Quello che vuoi».
Per un momento, Klapaucius non seppe che cosa chiedere. Ma dopo una breve riflessione, dichiarò che avrebbe assegnato alla macchina due altri compiti: se fosse riuscita ad assolverli, lui avrebbe ammesso che corrispondeva veramente alla descrizione di Trurl. Questi diede il suo assenso, e Klapaucius chiese alla macchina di fare il Negativo.
«Il Negativo?» sbuffò Trurl. «E che diavolo è, il Negativo?»
«Il contrario del positivo, è ovvio» rispose freddamente Klapaucius. «Nell’accezione in cui si parla di un atteggiamento negativo, o del negativo di una foto, per esempio. Adesso, non far finta di non sapere cos’è il Negativo. Avanti, macchina, al lavoro!»
La macchina, però, aveva già cominciato. Per primi fabbricò gli antiprotoni, poi gli antielettroni, gli antineutroni, gli antineutrini e così via, finché tutta quell’antimateria non prese la forma di un antimondo che, fosforescente come una nube spettrale, rimase sospeso al di sopra delle loro teste.
«Mmm» brontolò Klapaucius, tutt’altro che soddisfatto. «E questo dovrebbe essere il Negativo? Be’, diciamo che lo sia, pro bono pacis. Ma eccoti il terzo compito, macchina: il Nulla».
La macchina se ne rimase immobile al suo posto. Klapaucius cominciò a fregarsi le mani, trionfante, ma Trurl lo interruppe.
«Be’» chiese «che cosa ti aspettavi? Le hai chiesto di non fare nulla, e lei nulla fa».
«Niente affatto» ribatté Klapaucius. «Le ho chiesto di fare il Nulla, e lei non sta facendo nulla».
«Nulla e nulla sono sempre nulla!»
«Calma, calma» disse Klapaucius. «La macchina avrebbe dovuto fare il Nulla, e invece non sta facendo alcunché, e di conseguenza ho vinto. Perché il Nulla, mio caro e dotto collega, non è il nulla a cui pensi tu, banale e quotidiano, figlio dell’ozio e dell’inattività, ma il Nulla aggressivo e dinamico, e perciò perfetto, unitario e ubiquitario: in altre parole la Non-esistenza estrema e suprema, presente proprio nella sua non-persona!»
«Mi stai confondendo la macchina» protestò Trurl. Ma, in quello stesso istante, si levò la voce metallica del congegno.
«Sentite» disse la macchina «come potete litigare in un momento simile? Oh, sì, so benissimo che cosa sono il Nulla e la Nullità, la Nullezza e la Nullaggine, la Non-esistenza, la Non-entità, la Negazione, il Niente, il Nihil, il Nullismo, il Nichilismo e la Nullificazione, perché tutti iniziano per N, come Nix e Nisba. Posate per l’ultima volta lo sguardo sul mondo, signori miei! Perché presto non esisterà più».
I due costruttori s’immobilizzarono bruscamente, dimentichi della loro lite, perché la macchina stava effettivamente facendo il Nulla, e lo faceva nel modo seguente: le cose, a una a una, venivano tolte dal mondo, e automaticamente cessavano di esistere, come se non ci fossero mai state. La macchina aveva già eliminato nolari, nozzi, nocchi, necchi, neotremi, nemalpingi e ninistrelli. E anche se a volte si aveva l’impressione che invece di togliere, ridurre, diminuire e sottrarre, la macchina aumentasse, aggiungesse e accrescesse qualcosa — quando fece sparire, uno dopo l’altro, nonconformismo, nonentità, nonsenso, nonadesioni, nistagmo, nocività, noia, negligenza, nausea, necrofilia e nepotismo — dopo qualche minuto il mondo cominciava già a rarefarsi a vista d’occhio, attorno a Trurl e Klapaucius.
«Ommioddìo!» disse Trurl. «Mi auguro che questa cosa non finisca male…»
«Non preoccuparti» lo rincuorò Klapaucius. «Come vedi, non produce il Nulla Universale, ma si limita a causare l’assenza delle cose che cominciano per N. E questo è nulla rispetto al Nulla, così come è nullo, mio caro Trurl, il valore della tua macchina».
«Non lasciarti ingannare» intervenne la macchina. «Certo, ho iniziato con tutto quel che comincia per N, ma solo perché mi era più familiare. Però, ricordate che creare è una cosa, ma distruggere è molto più semplice. Io sono perfettamente in grado di cancellare il mondo, per il semplice motivo che posso far tutto — e con ’tutto’ intendo proprio tutto — quel che inizia per N, e di conseguenza la Nullificazione è un gioco da ragazzi, per me. Tra meno di un minuto a partire da questo istante, anche tu cesserai di esistere, insieme a tutto il resto dell’universo, naturalmente, e perciò ammetti subito, Klapaucius, e in fretta, che io sono veramente, sinceramente, tutto quello che sono stata programmata per essere. Altrimenti sarà troppo tardi».
«Io…» fece per protestare Klapaucius, ma proprio in quell’istante constatò come tante altre cose fossero scomparse, e non solo quelle che cominciavano per N. Infatti, attorno ai costruttori, si notava già dolorosamente la mancanza di grazioni, tralusche, scialabotti, califratti, tissi, vorchi e pritoni.
«Ferma! Ritiro tutto quel che ho detto! Smetti! Stop! Non fare Nulla!» gridò Klapaucius.
Ma la macchina era lanciata, e prima che riuscisse a perdere l’abbrivio e a fermarsi del tutto, anche bratassi, palusti, larie e ziti erano spariti. Ora che la macchina era ferma, il mondo era ridotto a uno spettacolo che faceva male al cuore.
Il cielo, poi, era quello che aveva sofferto di più: nella sua volta rimanevano soltanto pochi puntolini di luce, minuscoli e isolati… non c’era più traccia delle gloriose strutture dei vorchi e degli ziti lucenti che tanta grazia, fino ad allora, avevano dato all’orizzonte!
«Grande Gauss!» gemette Klapaucius. «Dove sono i grazioni? E quei bei pritoni che mi piacevano tanto? E i delicatissimi, policromi ziti che splendevano così alti nel cielo?»
«Non esistono più, né mai più esisteranno» disse con calma la macchina. «Ho eseguito… o meglio ho cominciato a eseguire… il tuo ordine…»
Ti avevo detto semplicemente di fare il Nulla, e tu… e tu…» borbottò il costruttore.
«Klapaucius, non fare lo stupido più di quello che sei» disse la macchina. «Se avessi fatto immediatamente il Nulla, in un unico colpo mortale, tutto avrebbe cessato di esistere, e quel ’tutto’ comprendeva Trurl, il cielo, l’universo, te stesso… e anche me. In tal caso, chi avrebbe potuto dire — e a chi — che l’ordine era stato eseguito a puntino e che io sono una macchina fedele ed efficiente? E se nessuno avesse potuto dirlo e nessuno avesse potuto ascoltarlo, in che modo si sarebbe potuto rendere giustizia a me stessa, che non sarei più esistita?»
«Sì, è vero, lasciamo perdere» ribatté Klapaucius. «Non ho nient’altro da chiederti, ma ti prego soltanto, cara macchina, di ridarmi gli ziti, perché la vita, senza di loro, perde ogni gioia…»
«Non posso, dato che iniziano per z» rispose la macchina. «Naturalmente, posso riportare il nonsenso, la nocività, la nausea, la nevralgia, la noia, il nepotismo e la necrofilia. Per le altre lettere, però, spiacente, non sono in grado di aiutarti».
«Rivoglio gli ziti!» gemette Klapaucius.
«Niente ziti, mi dispiace» rispose la macchina. «Da’ una buona occhiata a questo mondo, e guarda com’è pieno di immense brecce aperte, e come vi predomini il Nulla. Lo stesso Nulla che riempie il vuoto insondabile tra una stella e l’altra, e che fodera — ormai — ogni cosa che ci circonda, e che minaccioso s’acquatta dietro ogni particella di materia. Ed è opera tua, invidioso! Non credo che le generazioni future ti saranno riconoscenti…»
«Forse… non lo sapranno, forse non se ne accorgeranno» gemette il pallido Klapaucius. Era ancora incredulo, ma, dopo aver sollevato lo sguardo al nero vuoto dello spazio, non osò guardare in faccia il collega Trurl. Lasciatolo accanto alla macchina che creava tutto quel che iniziava per N, Klapaucius se ne tornò a casa alla chetichella, nascondendosi come un ladro… e a tutt’oggi il mondo è crivellato di enormi distese di vuoto, esattamente come lo era quando fu fermato il processo di eliminazione. E se si tiene presente che ogni tentativo di costruire una macchina per le altre lettere è andato finora incontro all’insuccesso, rassegnamoci a non poterci più appagare lo spirito con la contemplazione di quei meravigliosi fenomeni naturali che erano i vorchi e gli ziti… ahimè, mai più.
LA MACCHINA DI TRURL
Una volta Trurl il costruttore fabbricò una macchina pensante a otto piani. Quando l’ebbe terminata, le diede una mano di vernice bianca, ne decorò i bordi con un filetto color lavanda, indietreggiò di qualche passo e strizzò le palpebre per rimirarla, le tracciò due ricciolini ai lati del capo, a mo’ di tirabaci, e nella zona corrispondente alla fronte le disegnò qualche cerchietto color arancio pallido, come se avesse voluto dipingerla a pois. Poi, superbamente compiaciuto di sé, prese a fischiettare un allegro motivetto e — com’è di prammatica in simili occasioni — rivolse alla macchina la domanda fatidica: «Quanto fa due più due?»
La macchina fremette tutta. I suoi tubi cominciarono a rosseggiare di un bel colore rubino, i trasformatori si scaldarono, la corrente elettrica si avventò lungo i suoi circuiti come l’acqua di una cascata, i convertitori presero a pulsare e a ronzare, si udì prima un ticchettio, poi un clangore, e infine uno sferragliare cupo, ma così forte, così di malaugurio, che Trurl si chiese se non fosse il caso di metterle una particolare sordina per il ragionamento.
Intanto, la macchina continuava a ponzare, come se le fosse sfato chiesto di risolvere il problema più complicato dell’universo. La terra tremava, la sabbia scivolava sotto i piedi di Trurl per le vibrazioni, le valvole venivano sparate in tutte le direzioni come tappi di champagne, i relè vacillavano per lo sforzo. Alla fine, quando Trurl era già visibilmente scocciato, la macchina arrivò faticosamente al termine del difficile computo e disse con voce di tuono: «SETTE!»
«Assurdo, mia cara» rispose Trurl. «La risposta è ’quattro’. Adesso fa’ la brava macchina e datti una regolata. Quanto fa due più due?»
«SETTE!» ribatté la macchina.
Con un sospiro, Trurl tornò a infilarsi la tuta, si rimboccò le maniche, aprì il portello inferiore e s’infilò all’interno. Per molto tempo continuò a martellare giunti, a serrare dadi, a saldare conduttori, a correre faticosamente su e giù per le scalette, un po’ al sesto piano, un po’ all’ottavo, poi tornò dabbasso, ansimando per la fatica, e spinse una leva… ma qualcosa prese a crepitare sopra di lui, e tra i contatti scoccò un luminosissimo arco voltaico.
Dopo altre due ore di quel lavoro, comunque, il costruttore uscì dalla macchina sporco ma soddisfatto, rimise a posto tutti gli attrezzi di cui si era servito, si sfilò la tuta, si ripulì la faccia e le mani. Poi, quando già stava per andarsene, si girò un’ultima volta a fare la domanda, tanto perché non rimanessero dubbi.
«Allora» chiese «quanto fa due più due?»
«SETTE!» rispose la macchina.
Trurl scagliò una terribile bestemmia, ma non c’era niente da fare: anche questa volta dovette infilarsi dentro la macchina, a dissaldare, a correggere, a controllare, a calibrare, e, quando gli toccò sentire per la quarta volta che due più due faceva sette, si lasciò scivolare a terra per la disperazione.
Si sedette ai piedi della macchina e non si mosse finché non venne a trovarlo Klapaucius, che subito s’informò di cosa gli fosse successo, perché Trurl aveva l’aria di chi è appena ritornato da un funerale.
Trurl cercò di spiegare brevemente il problema; lo stesso Klapaucius non mancò d’infilarsi all’interno del congegno un paio di volte, cercò di mettere a posto questo e quello, poi chiese alla macchina la somma di due più uno, che risultò essere sei. Inoltre, secondo la macchina, uno più uno faceva zero.
Klapaucius si grattò la testa e si schiarì la gola.
«Amico mio» disse a Trurl «devi semplicemente affrontare la realtà. Ormai è chiaro: questa non potrà mai essere la macchina che intendevi costruire. Tuttavia, consolati pensando che ogni cosa ha il suo lato positivo, e che perciò anch’essa lo avrà».
«Che lato positivo?» mugugnò Trurl, sferrando un calcio alla base su cui sedeva.
«Cerchiamo di piantarla» intervenne la macchina. «Mmm, è anche permalosa» commentò Klapaucius. «Ma dove eravamo? Ah, ecco. Non ci sono dubbi, qui abbiamo una macchina stupida, ma non di una stupidità banale, di tutti i giorni, oh, no! Questa è, a quanto mi risulta — e sai che di queste cose ho una certa esperienza — la più stupida macchina pensante che sia mai esistita al mondo, e non si tratta di una cosa trascurabile.
«Costruire intenzionalmente una macchina come questa sarebbe tutt’altro che facile; anzi, a dire il vero, penso che nessuno ne sarebbe in grado. Infatti la tua creazione non è soltanto stupida, ma anche ostinata come un mulo, ovvero ha una personalità assai comune tra gli idioti, che — è noto — in genere sono straordinariamente ostinati».
«Che razza di impiego vuoi che si possa trovare, per una macchina come questa?» chiese Trurl, e le mollò un altro calcio.
«Ti avverto, è meglio che la pianti!» minacciò la macchina.
«Ti dà perfino un ’avvertimento’, guarda un po’» osservò Klapaucius seccamente. «Non solo è permalosa, poco intelligente e ostinata, ma si permette di rimbeccare. Credimi, con una tale somma di caratteristiche negative, potresti farle fare ogni sorta di cose!»
«Per esempio?» chiese Trurl.
«Be’, difficile dirlo su due piedi. Potresti metterla in mostra in un circo, e far pagare il biglietto per vederla: la gente accorrerebbe a frotte, per rimirare la più stupida macchina pensante mai esistita… quanti piani ha, otto? Davvero, come si potrebbe immaginare un imbecillone più grosso di questo? Esibendo la macchina, non soltanto ti rifaresti delle spese vive, ma anche…»
«Basta, non intendo esibire niente!» disse Trurl. Si alzò e, irrefrenabile, sferrò un ulteriore calcio alla macchina. «Con questo, siamo già al terzo avvertimento» lo ammonì lei.
«Cosa?» fece Trurl, infuriato per il tono prepotente usato dalla sua creazione. «Tu… tu…» incapace di esprimere a parole la sua collera, le mollò una serie di pedate, in rapida successione, gridando: «Sai solo farti prendere a calci, te ne rendi conto?»
«Mi hai insultata per la quarta, quinta, sesta, e ottava volta» disse la macchina. «Perciò mi rifiuto di rispondere ancora a domande di carattere matematico».
«Si rifiuta! Hai sentito cosa ha detto?» gridò Trurl, ormai completamente esasperato. «E dopo il sei viene l’otto — l’hai notato, Klapaucius? — non il sette, ma l’otto! E quello è il tipo di matematica che Sua Altezza si rifiuta di eseguire! Prendi questo! E questo! E questo! O ne vuoi ancora?»
La macchina fremette, si scrollò tutta e — senza fare parola — cercò di divincolarsi dalle fondamenta. Queste erano molto profonde, e le centine cominciarono a piegarsi, ma alla fine si staccò, lasciando dietro di sé grossi blocchi di cemento spezzati, con i tondini di ferro che sporgevano, e si lanciò contro Trurl e Klapaucius come uria fortezza mobile.
Trurl era troppo stupito: non cercò neppure di schivare la macchina, che dava l’impressione di volerlo schiacciare come una polpetta. Ma Klapaucius lo prese per il braccio e lo tirò via, con un robusto strattone; poi tutt’e due se la diedero a gambe. Quando si guardarono alle spalle, qualche minuto più tardi, videro che la macchina dondolava come un’alta torre e avanzava lentamente, affondando nella sabbia — a ogni passo — fino al primo piano, ma che ogni volta, con un’ostinazione maniacale, si tirava fuori dalla sabbia e puntava direttamente verso di loro.
«Chi ha mai sentito una cosa simile?» ansimò Trurl, al massimo dello stupore. «Questo è un ammutinamento! Che fare, adesso?»
«Attendere e osservare» rispose il prudente Klapaucius. «Potremmo imparare qualcosa».
Ma in quel momento non c’era molto da imparare. La macchina era arrivata su un terreno più solido e prendeva velocità. Dal suo interno giungevano fischi, sibili e colpi di tosse.
«Da un minuto all’altro, l’intera unità di comando si staccherà a causa degli urti» disse Trurl, senza fiato. «Si spezzerà il programma e la macchina si fermerà».
«No» disse Klapaucius «questo è un caso speciale. Quella macchina è talmente stupida che, anche se saltasse l’intera trasmissione di dati, la cosa non avrebbe importanza. Ma… attento!»
La macchina accelerò l’andatura, chiaramente intenzionata a raggiungerli; i due costruttori corsero più in fretta che poterono, pensando solo alle terribili orme alle loro spalle. Continuarono a correre a perdifiato… che altro potevano fare? Prima cercarono di ritornare al punto di partenza, ma la macchina li aggirò sul fianco, bloccò loro il cammino, li costrinse ad addentrarsi sempre più profondamente in una regione selvaggia e disabitata. Lentamente, dalla foschia che velava l’orizzonte, i due costruttori videro emergere montagne inaccessibili, piene di dirupi e crepacci. Trurl, ansimante, si rivolse a Klapaucius. «Ascolta!» gli disse. «Dirigiamoci verso qualche canyon molto stretto, dove non possa seguirci… quella maledetta cosa… che ne dici?»
«No, meglio andare dritti» rispose Klapaucius, con il fiato corto. «Davanti a noi c’è una città… non ricordo come si chiama… comunque, cercheremo — uff! — rifugio laggiù…»
Così, continuarono a correre dritto davanti a loro, e presto videro comparire le prime case. A quell’ora del giorno, le strade erano praticamente deserte, e i costruttori percorsero un buon tratto senza incontrare anima viva finché un orribile schianto — come se una valanga avesse distrutto la periferia cittadina — non rivelò loro, all’improvviso, che la macchina li stava ancora inseguendo.
Trurl si guardò alle spalle e gemette.
«Santo Cielo! Sta distruggendo le case, Klapaucius!» Infatti la macchina, ostinatamente tesa al loro inseguimento, si scavava un solco nelle pareti degli edifici, abbattendoli come una montagna d’acciaio. Sulla sua scia si scorgevano mucchi di macerie e una nube bianchiccia di polvere di gesso e di calcina. Si udivano urla da far accapponare la pelle, per tutte le strade regnava la confusione, e Trurl e Klapaucius, con il cuore in gola, corsero finché non giunsero a un grande palazzo municipale. Balzarono all’interno e scesero per un’interminabile teoria di scale, finché non trovarono riparo in un profondo sotterraneo.
«Qui non riuscirà mai a prenderci, neppure se facesse crollare sulla nostra testa l’intero edificio!» ansimò Klapaucius. «Ma davvero dev’essere stato il diavolo, a suggerirmi di passare a trovarti, quest’oggi… Ero curioso di sapere come progredisse il tuo lavoro, e, be’, non si può dire che ora non lo sappia…»
«Zitto» lo interruppe Trurl. «Arriva qualcuno».
E in effetti la porta del sotterraneo si aprì, per lasciar passare il sindaco e alcuni consiglieri della giunta. Trurl era troppo imbarazzato per spiegare come fosse nata quella strana e disgraziata situazione; dovette farlo Klapaucius. Il sindaco ascoltò in silenzio. All’improvviso le pareti tremarono, il terreno sobbalzò come per un terremoto, e il rumoroso schianto della pietra che va in frantumi arrivò fino alle profondità del sotterraneo.
«E già qui?» gemette Trurl.
«Sì» disse il sindaco. «E pretende che vi consegniamo a lei, altrimenti minaccia di radere al suolo l’intera città». In quel momento giunsero fino a loro, dall’alto, alcune parole che echeggiavano come se fossero gridate al megafono.
«Trurl è qui dentro… sento l’odore di Trurl!» dicevano.
«Ma voi non avete alcuna intenzione di consegnarci, vero?» chiese con voce tremante l’obiettivo della furia e dell’ostinazione della macchina.
«Quello di voi che si chiama Trurl deve andarsene» annunciò il sindaco. «L’altro può rimanere, dato che la sua consegna non rientra nelle condizioni…»
«Pietà…»
«Non possiamo farci niente» spiegò il sindaco. «E se tu rimanessi qui, Trurl, dovresti rispondere dei danni causati a questa città e ai suoi abitanti, perché è per colpa tua che la macchina ha distrutto sedici case e ha sepolto sotto le loro rovine un buon numero dei nostri più stimati cittadini. Solo il fatto che ti trovi in imminente pericolo mi permette di lasciarti andare via senza punizione. Va’, dunque, e non farti più rivedere da queste parti».
Trurl rivolse un muto appello ai consiglieri, ma, vedendo scritta sulle loro facce severe la sua condanna, lentamente si girò, abbassò la testa e si avviò alla porta.
«Aspetta! Vengo con te!» esclamò Klapaucius, d’impulso.
«Tu?» fece Trurl, nella cui voce tornava ad affiorare un filo di speranza. «Ma non devi…» aggiunse, dopo un momento. «Perché vuoi morire anche tu?»
«Sciocchezze!» ribatté Klapaucius, con grande energia. «Cosa dici, morire per mano di quel grosso tontolone di ferro? Neanche per idea! Occorre ben altro, mio caro amico, per spazzare via dalla faccia del mondo i due più famosi costruttori che siano mai esistiti! Vieni con me, Trurl! Su col morale!»
Incoraggiato da quelle parole, Trurl sali di corsa le scale, sulla scia di Klapaucius. Nella piazza antistante non c’era neppure un’anima. Tra le nubi di polvere e i macilenti scheletri delle case che aveva demolito, s’ergeva solo la macchina, più alta della torre del municipio: sbuffava vapore ed era coperta del sangue dei mattoni polverizzati, sporca di gesso e di calce.
«Attento!» sussurrò Klapaucius. «Non ci ha ancora visto. Pigliamo la prima strada a sinistra, quindi giriamo a destra e poi via, ce la filiamo verso quei monti. Lassù cercheremo un buon rifugio e, con calma, troveremo la maniera di convincere quella stupida macchina a rinunciare al suo folle propo… Adesso!» gridò, perché la macchina li aveva visti e si era lanciata contro di loro, facendo sobbalzare l’asfalto della strada.
Senza fiato, corsero via dalla città e percorsero di gran carriera più di un miglio, con i passi pesanti del colosso che li seguiva senza pietà nelle orecchie.
«Conosco quel canalone!» gridò all’improvviso Klapaucius. «E’ il letto di un ruscello asciutto, e sale fino a una zona di rupi e caverne… più in fretta, più in fretta, presto sarà obbligata a fermarsi!»
Così, si arrampicarono fin sul monte, inciampando e sbattendo le braccia per non perdere l’equilibrio, ma la distanza tra loro e la macchina non fece che diminuire. Scivolando sui ciottoli dell’alveo disseccato, giunsero infine a un crepaccio della parete perpendicolare di roccia, e scorgendo in alto, sopra di loro, la buia imboccatura di una caverna, cominciarono a salire freneticamente verso di essa, incuranti delle pietre che si staccavano sotto i loro piedi. La caverna era buia; dall’entrata usciva un soffio d’aria umida e gelida. I due costruttori oltrepassarono la soglia più in fretta che poterono, fecero qualche passo all’interno e infine si fermarono.
«Bene, almeno siamo al sicuro» disse Trurl, che adesso aveva ripreso la calma. «Mi sporgo a dare un’occhiata, per vedere dove si è bloccata la macchina».
«Attento» lo avvertì Klapaucius. Trurl, pochi centimetri la volta, arrivò fino al bordo della caverna, si sporse all’esterno e rientrò precipitosamente, con l’aria allarmata.
«Sale sulla montagna!» esclamò.
«Non preoccuparti, qui non può arrivare» gli garantì Klapaucius, benché non ne fosse del tutto convinto. «Ma che cosa succede? Si sta facendo buio? Oh, no!»
In quel momento, una grande ombra cancellò la fetta di cielo visibile attraverso l’imboccatura della caverna, e al suo posto comparve una liscia parete di acciaio con tante file di rivetti. Era la macchina, che si accostava lentamente alla roccia fino a bloccarne l’apertura, come un gigantesco coperchio di metallo.
«Siamo intrappolati…» sussurrò Trurl. La sua voce si spense quando l’oscurità divenne assoluta.
«E’ stata una vera idiozia da parte nostra!» esclamò Klapaucius. «Ci siamo rifugiati in una caverna con una sola via d’uscita! Come possiamo aver fatto una simile idiozia?»
«Che cosa aspetta, adesso?» chiese Trurl, dopo una lunga pausa.
«Aspetta che ci arrendiamo. Questo non richiede una grande intelligenza da parte sua».
Di nuovo scese il silenzio. Nel buio, in punta di piedi, Trurl tese le mani e si avvicinò cautamente all’apertura, passando le dita sulla roccia finché non toccò l’acciaio levigato, che al contatto risultava tiepido, come se fosse riscaldato dall’interno.
«Sento Trurl…» gridò la macchina d’acciaio, con voce di tuono.
Trurl si affrettò a tirarsi indietro, si sedette accanto all’amico e per qualche tempo nessuno dei due parlò. Alla fine, prese la parola Klapaucius.
«Non ha alcun senso, rimanercene qui seduti» sussurrò. «Cercherò di ragionare con quella macchina…»
«Inutile» rispose Trurl. «Ma fa’ come vuoi. Forse lascerà libero almeno te».
«Via, via, non parlare così!» disse Klapaucius, battendogli una pacca sulla schiena. Si fece strada fino all’imboccatura della caverna.
«Ehi, lì fuori!» gridò. «Mi senti?»
«Certo» rispose la macchina.
«Ascolta, vogliamo chiederti scusa. Capisci, c’è stato qualche piccolo malinteso, è vero, ma in realtà si trattava di cose da niente. Trurl non aveva intenzione di…»
«Quel Trurl!» esclamò la macchina. «Lo polverizzo! Ma prima dovrà dirmi quanto fa due più due».
«Naturalmente, te lo dirà, certo, e vedrai che la sua risposta sarà di tua piena soddisfazione, e farai la pace con lui, non è vero, Trurl?» disse il pacificatore, in tono mellifluo.
«Be’, sì, certamente…» mormorò Trurl.
«Davvero?» chiese la macchina. «Allora, quanto fa due più due?»
«Quatt… no, voglio dire, sette…» rispose Trurl, con voce ancora più bassa.
«Ah! Non quattro, ma sette, eh!» fece la macchina, esultante. «Visto? Te l’avevo detto!»
«Sette, certo» intervenne Klapaucius, ansioso di entrare nelle grazie della macchina. «L’abbiamo sempre saputo. E adesso ci lascerai, ehm, andare?» aggiunse in tono sospettoso.
«No» rispose la macchina. «Deve essere Trurl a dirmi che gli dispiace e spiegarmi quanto fa due più due».
«Ma poi ci lascerai andare, se lo farò?» chiese Trurl.
«Non lo so ancora» rispose la macchina. «Ci penserò. Per ora, dimmi quanto fa due per due, e io…»
A quel punto, Trurl venne preso dalla rabbia.
«Te lo dico, certo che te lo dico!» strillò. «Due più due fa quattro, e due per due fa quattro, e due alla seconda fa quattro, e puoi metterti a testa in giù, ridurre in polvere queste montagne e bere tutta l’acqua dell’oceano finché non sarà prosciugato, mangiarti il cielo… ma la cosa non cambia. Due più due fa quattro!»
«Trurl, cosa dici? Sei fuori di senno? Due più due fa sette, carissima macchina! Sette, sette!» gridò Klapaucius, cercando di parlare più forte del compagno.
«No, quattro! Quattro e soltanto quattro, dall’inizio del tempo alla fine dell’universo… QUATTRO!» urlò Trurl, che cominciava ad avere la voce roca.
La roccia sotto i loro piedi fremette come se avesse la febbre.
La macchina si allontanò dalla caverna, lasciò entrare un filo di pallida luce e prese a gridare in tono stridulo. «Non è vero! Fa sette! Di’ sette, altrimenti ti ammazzo!» «Non lo dirò mai» gridò Trurl, di rimando, come se non si curasse di quel che gli poteva succedere; e infatti, un attimo dopo, ciottoli e terra piovvero sulle loro teste, perché la macchina aveva cominciato a buttarsi contro la montagna, usando come ariete tutti i suoi otto piani. Enormi massi, staccati dagli urti, rotolarono a valle.
Rumori di tuono e fiumi sulfurei dilagavano nella caverna, e dai colpi dell’acciaio sulla pietra volavano scintille; eppure, in tutto quel pandemonio, si sentiva ancora, di tanto in tanto, la voce roca di Trurl che gridava: «Due più due fa quattro! Due per due fa quattro!»
Klapaucius cercò di chiudere la bocca all’amico, anche ricorrendo alla forza, ma venne scagliato via violentemente, e dovette rinunciare. Si sedette in terra e si prese la testa tra le mani. Neppure per un attimo la macchina cessò i suoi folli sforzi: si aveva l’impressione che da un momento all’altro il soffitto dovesse crollare, per schiacciare i prigionieri e seppellirli per sempre. Ma quando i due malcapitati avevano ormai perso ogni speranza, e l’aria era piena di fumi acri e di polvere soffocante, si udì all’improvviso un orribile crepitio — un suono simile a quello di una lenta esplosione, più forte dei folli urti e colpi d’ariete di poco prima — e poi un soffio di vento; la parete di acciaio che bloccava la caverna venne spazzata via, come da un uragano, e mostruosi pezzi di roccia precipitarono dalla vetta del monte.
Gli echi della valanga riverberavano ancora nella valle sottostante quando i due amici si affacciarono dall’imboccatura della caverna e scorsero la macchina pensante. Era fracassata e appiattita, quasi spezzata in due da un masso enorme che l’aveva colpita nel mezzo dei suoi otto piani. Con grande attenzione i due costruttori discesero lungo il mucchio di macigni fumanti. Per raggiungere il letto del fiume era necessario passare accanto ai resti della macchina, simili al relitto di una grossa nave arenatasi sulla spiaggia. Senza una parola, i due si fermarono all’ombra della sua carena spezzata. La macchina tremava ancora leggermente. E si sentiva ancora girare, scattare qualcosa al suo interno.
«Ecco, questa è la brutta fine che ti sei meritata, e due più due fa… coree sempre ha fatto…» cominciò Trurl, ma proprio in quel momento la macchina emise un debole, quasi impercettibile cigolio e disse, per l’ultima volta: «…SETTE».
Poi qualcosa si spezzò al suo interno, qualche pietra cadde ancora dall’alto e davanti ai due costruttori non rimase che una massa di rottami senza vita. I due si scambiarono un’occhiata e in silenzio, senza altri commenti e senza proferire parola, ritornarono indietro per la strada da cui erano venuti.
NA BELLA BASTONATA
Qualcuno bussava alla porta di casa di Klapaucius il costruttore. Questi guardò fuori e vide una macchina dall’enorme pancione, montata su quattro corte zampe.
«Chi sei, e che cosa vuoi?» le chiese.
«Sono la Macchina Che Esaudisce Ogni Tuo Desiderio» disse lei «e sono stata mandata qui dal tuo buon amico e collega, Trurl il Magnifico, in dono».
«Dono, eh?» fece Klapaucius, i cui sentimenti nei riguardi di Trurl erano alquanto ambigui, a dir poco. Questa volta lo aveva irritato particolarmente l’espressione «Trurl il Magnifico». Dopo un po’, però, disse: «Va bene, puoi entrare».
Le ordinò di rimanere nell’angolo, vicino all’orologio a cucù, mentre ritornava al suo lavoro: una macchina tozza, su tre appoggi, che ormai era quasi completa.
Il costruttore le stava semplicemente assestando i tocchi finali.
Dopo un po’, la Macchina Che Esaudisce Ogni Tuo Desiderio si schiarì la gola e disse: «Io sono ancora qui».
«Oh, non mi sono dimenticato di te» rispose Klapaucius, senza guardarla. Dopo un po’, la macchina si schiarì di nuovo la voce e chiese: «Posso domandarti che cosa stai fabbricando?»
«Sei una Macchina Che Esaudisce Desideri o Una Macchina Che Fa Domande?» ribatté Klapaucius, ma aggiunse: «Mi serve un po’ di vernice azzurra».
«Spero che la tinta sia giusta» disse la macchina, aprendo un portellino nella propria pancia e cavandone un barattolo di vernice. Klapaucius vi tuffò il pennello senza fare parola e attaccò a dipingere. Nelle ore successive ebbe di volta in volta bisogno di cartavetro, di una punta al carborundum, di una staffa con bullone, di una latta di vernice bianca e di un cacciavite del 5, tutto materiale che la macchina gli fornì prontamente.
Quella sera, dopo aver coperto la sua opera con un telone, Klapaucius cenò, poi si sedette davanti alla macchina e disse: «Allora, vediamo che cosa sai fare. Dici di poter esaudire tutti i desideri…»
«Be’, quasi tutti» rispose la macchina, modestamente. «Cartavetro, vernice e cacciavite andavano bene, mi auguro?»
«Abbastanza, abbastanza» rispose Klapaucius. «Ma ora ho in mente qualcosa di leggermente più difficile. Se non riuscirai a farlo, ti rimanderò al tuo padrone con i miei sentiti ringraziamenti e il mio giudizio professionale».
«Va bene. Di che cosa si tratta?» chiese la macchina, visibilmente sulle spine.
«Voglio un Trurl» rispose Klapaucius. «Un Trurl che sia l’immagine sputata di Trurl stesso, talmente uguale a lui che nessuno possa distinguerli».
La macchina farfugliò e ronzò, e alla fine disse: «Va bene, ti farò un Trurl. Ma ti prego di trattarlo bene. Dopotutto, è un meraviglioso costruttore».
«Oh, certo, non preoccuparti» le rispose Klapaucius. «Allora, dov’è?»
«Cosa? Lo vorresti subito?» obiettò la macchina. «Fare un Trurl non è come fare un cacciavite del 5, lo sai anche tu. Sarà un lavoro lungo».
Ma non dovette passare molto tempo, prima che il portello della macchina si aprisse e ne uscisse Trurl. Klapaucius lo guardò dall’alto in basso e da sinistra a destra, lo toccò, gli diede qualche colpo con i polpastrelli, ma non potevano esserci dubbi: davanti a lui c’era un Trurl identico all’originale, come se fossero due gocce d’acqua. Il nuovo Trurl strabuzzava un po’ gli occhi perché non era abituato alla luce, ma per tutto il resto si comportava in modo normalissimo.
«Salve, Trurl!» disse Klapaucius.
«Salve, Klapaucius! Ma, aspetta un momento… come sono arrivato qui?» chiese Trurl, visibilmente strabiliato.
«Oh, sei venuto a trovarmi… sai, non ci vedevamo da un secolo. Che te ne pare del mio laboratorio?»
«Bello, bello…» rispose Trurl. «Che cos’hai, sotto quel telone?»
«Niente d’importante» minimizzò Klapaucius. «Perché non prendi una seggiola?»
«Be’, adesso dovrei davvero andare» si schermì Trurl. «Si fa buio…»
«Oh, hai già tanta fretta di lasciarmi! Sei appena arrivato!» ribatté Klapaucius. «Inoltre, non hai ancora visto la mia cantina».
«Cantina?» fece Trurl.
«Sì, la troverai molto interessante. Da questa parte…» Klapaucius mise un braccio sulle spalle di Trurl e lo accompagnò in cantina. Quando furono dentro, gli fece uno sgambetto, lo bloccò a terra e in quattro e quattr’otto lo legò come un salame. Poi prese una robusta sbarra di ferro e cominciò a dargliele di santa ragione. Trurl urlò, gridò aiuto, bestemmiò, implorò misericordia, ma Klapaucius non smise di battere, e i colpi risonarono ed echeggiarono anche all’esterno, nella notte buia e vuota.
«Ouch! Ouch! Perché mi batti?» gridò Trurl, cercando di sottrarsi alla gragnuola di colpi.
«Perché mi piace» spiegò Klapaucius, continuando a colpirlo. «Dovresti provare anche tu, una volta o l’altra, Trurl!»
E gliene mollò uno sulla testa, che rimbombò come un tamburo.
«Se non mi lasci andare via subito, andrò a denunciarti al Re, che ti farà sbattere nella cella più profonda del carcere!» gridò Trurl.
«Oh, non lo farà» asserì Klapaucius, sedendosi per riprendere fiato. «E sai perché?»
«Dimmelo» rispose Trurl, lieto della sospensione. «Perché non sei il vero Trurl. Trurl, devi sapere, ha costruito una Macchina Che Esaudisce Ogni Tuo Desiderio e me l’ha mandata in dono; per metterla alla prova, le ho ordinato di fabbricare te! E adesso ti stacco la testa, la metto ai piedi del letto e la uso come sgabello».
«Sei un mostro!» protestò Trurl. «Perché mi fai questo?»
«Te l’ho già detto: perché mi procura un grande piacere» ripeté Klapaucius. «Ma ora basta con questi discorsi oziosi!»
Si alzò e prese un bastone enorme, lo afferrò con tutt’e due le mani… ma Trurl gridò: «Aspetta! Fermo! Ho una cosa da dirti!»
«Mi domando che cosa tu possa dirmi per impedirmi di usare la tua testa come sgabello» rispose Klapaucius. Trurl si affrettò a gridare: «Non sono una qualsiasi copia di Trurl uscita da una macchina! Sono il vero Trurl… volevo soltanto scoprire che cosa stai facendo, in questi ultimi tempi, nascosto dietro una porta chiusa e con le persiane abbassate, e perciò ho costruito una macchina, mi sono nascosto nella sua pancia e mi sono fatto portare qui, fingendo che la macchina fosse un dono!»
«Via, questa è chiaramente una divagazione, e neppure delle più intelligenti!» disse Klapaucius, sollevando il bastone. «Non sprecare il fiato, perché le tue bugie, per me, sono assolutamente trasparenti. Sei uscito da una macchina che esaudisce i desideri, e se quella macchina mi ha fabbricato vernice e cartavetro, una staffa con bullone e un cacciavite del 5, può certamente fabbricare anche te!»
«Avevo preparato tutti quegli attrezzi nella pancia della macchina!» protestò Trurl. «Non mi è stato difficile prevedere quel che ti sarebbe servito nel lavoro! Ti giuro che è la verità!»
«Cerchi di insinuare che il mio buon amico e collega, Trurl il Magnifico, non è altro che un comune imbroglione? No, non lo crederò mai!» rispose Klapaucius. «Prendi questo!» E gli sferrò un colpo.
«Questo è per aver parlato male del mio buon amico Trurl! Beccati questo! E questo!»
E continuò a colpire e a bastonare finché non si sentì il braccio troppo indolenzito per andare avanti.
«Adesso vado a fare un sonnellino» disse Klapaucius, gettando a terra il bastone. «Ma non preoccuparti, ritornerò».
Se ne andò, e presto prese a russare così forte che lo si poteva sentire perfino dalla cantina.
Trurl si agitò e si contorse finché non riuscì ad allentare i legami a sufficienza e a sciogliere i nodi. Fece ritorno alla macchina e vi s’infilò dentro, per poi dirigersi a casa di gran carriera.
Intanto Klapaucius, che osservava la fuga dalla finestra della camera da letto, doveva tenersi una mano sulla bocca per non ridere. L’indomani si recò a fare visita al collega, e ad aprirgli la porta venne un Trurl cupo e silenzioso. La stanza era buia, ma, anche così, Klapaucius vide su Trurl le tracce di una bella bastonata — anche se evidentemente si era preoccupato di ridipingere i graffi e di martellare le ammaccature.
«Perché sei così triste?» chiese l’allegro Klapaucius. «Sono venuto a ringraziarti del tuo bel dono — peccato, però, che sia fuggito mentre dormivo, e così di fretta che si è perfino dimenticato di chiudere la porta!»
«Mi sembra, però» disse Trurl, seccamente, «che tu non abbia trattato nel modo migliore, o forse dovrei dire, senza mezzi termini, che tu hai maltrattato il mio dono. Oh, non c’è bisogno che ti spieghi, la macchina mi ha raccontato tutto. Le hai fatto fare me, e poi, con una scusa, mi hai fatto entrare in cantina — voglio dire, vi hai fatto entrare la mia copia — e laggiù l’hai bastonata senza pietà! E dopo questo grande insulto alla mia persona, dopo questo atto di mera ingratitudine, osi mostrare la tua faccia qui da me, come se niente fosse! Che cosa hai da dire, per giustificarti?»
«Davvero non capisco perché tu te la prenda tanto» rispose Klapaucius. «E’ vero che ho detto alla macchina di fare una copia di te, e devo ammettere che era assolutamente perfetta: una somiglianza stupefacente. Quanto alle bastonate, be’, la tua macchina deve aver esagerato un po’. Ho effettivamente dato qualche colpetto al Trurl artificiale, ma solo per vedere se la costruzione era solida, e un po’ anche per provare i suoi riflessi, che, tra l’altro, erano molto buoni. Si è rivelata molto suscettibile, ha perfino cercato di dire che non era una copia, ma che era il vero Trurl, immagina!
«Naturalmente, io non le ho creduto, e allora si è messa a dire che il dono non era affatto un dono, ma una sorta di trucco di bassa lega. Be’, io mi sono sentito in dovere di difendere l’onore del mio buon amico Trurl, lo capisci, e così l’ho un po’ maltrattata perché ti calunniava spudoratamente. D’altro canto, l’ho trovata assai intelligente; vedi perciò, Trurl, che ti assomigliava sia mentalmente sia fisicamente. Sei davvero un grande, magnifico costruttore, ed è proprio per dirti questo che sono venuto a trovarti così presto!»
«Be’, sì, stando così le cose» disse Trurl, un po’ addolcito da quelle parole. «Anche se devo dire che il tuo impiego della Macchina dei Desideri non è stato dei più fortunati…»
«Oh, c’era ancora una cosa che volevo sapere» continuò Klapaucius, con l’aria più innocente del mondo. «Che cosa hai fatto del Trurl artificiale? Posso vederlo?»
«La mia copia era fuori di sé dalla rabbia» spiegò Trurl. «Ha detto che voleva tenderti un’imboscata, nascondendosi in quel passo montano che c’è davanti a casa tua, e che ti avrebbe fatto a pezzi. Io ho cercato di ragionare con lei, ma si è messa a insultarti, è corsa fuori e ha cominciato a preparare delle bombe da mettere sul tuo cammino — e così, caro Klapaucius, anche se mi avevi insultato, ho pensato alla nostra vecchia amicizia e ho deciso di eliminare quel pericolo per la tua vita e la tua integrità fisica. Quindi sono stato costretto a smantellarla…»
Così dicendo, allontanò col piede qualche bullone sparso sul pavimento, e trasse un sospiro.
Si scambiarono i soliti convenevoli, si diedero la mano e si lasciarono come i due più grandi amiconi che esistessero al mondo.
Da allora in poi, Trurl continuò a ripetere a tutti come avesse donato a Klapaucius una Macchina Che Esaudiva Ogni Suo Desiderio, come Klapaucius lo avesse offeso ordinando alla macchina di costruire un Trurl artificiale, per poi picchiarlo di santa ragione; come la copia perfetta del grande costruttore avesse raccontato astute bugie per salvarsi, e come fosse infine fuggita mentre Klapaucius dormiva, e come lo stesso Trurl, il vero Trurl, avesse dovuto smontare il Trurl artificiale per salvare l’amico e collega dalla vendetta della copia.
Trurl raccontò così tante volte questa storia, insistendo soprattutto sul grande successo tecnico da lui conseguito (e chiamando ogni volta a testimone Klapaucius) che alla fine la storia arrivò all’orecchio della corte reale, e tutti cominciarono a parlare di Trurl con grande rispetto, anche se fino a poco prima era noto con il soprannome: Costruttore del Computer Più Stupido del Mondo. Quando Klapaucius venne a sapere, un giorno, che lo stesso Re aveva ricompensato profumatamente Trurl e lo aveva insignito dell’Ordine della Grande Parallasse, sollevò disperato le braccia ed esclamò: «Cosa? Io ho subodorato il suo trucco e per punirlo gli ho dato una tale bastonata che se n’è dovuto sgattaiolare a casa in piena notte e rappezzarsi tutta la carrozzeria, e anche dopo che si era rappezzato non era certo bello a vedersi! E per questo lo lodano, lo decorano, lo ricoprono di ricchezze? O tempora, o mores!»
Infuriato, se ne tornò a casa, chiuse a chiave la porta e tirò le persiane. Buona parte della sua ira nasceva dal fatto che anche lui aveva lavorato a una Macchina Che Esaudisce Ogni Tuo Desiderio, ma Trurl l’aveva terminata prima di lui.
LA PRIMA FATICA OVVERO LA TRAPPOLA DI GARGANTIUS
Quando l’universo non era ancora scombussolato come adesso, e tutte le stelle erano allineate al loro debito posto, sicché potevate contarle facilmente da’ sinistra a destra, da destra a sinistra, dalla cima al fondo e viceversa, e le più grandi e azzurre erano ben intervallate tra loro, mentre quelle dei tipi più piccoli e giallognoli erano sospinte ai margini, come si conveniva a corpi astronomici di classe inferiore, quando nello spazio interplanetario non si sarebbe scovato un solo bruscolino di polvere cosmica o di scorie nebulari… in quel buon tempo antico era costume dei costruttori, conseguito con lode il diploma di Onnipotenza Perpetua, lasciare per lunghi periodi di tempo il luogo natìo, allo scopo di rendere accessibile anche alle terre più lontane la benedizione della loro esperienza.
Accadde dunque che, in omaggio a questa antica costumanza, Trurl e Klapaucius, i quali erano in grado di accendere e spegnere gli astri con la stessa facilità con cui noi sgusciamo i piselli, si avventurassero in un simile viaggio. E quando la vastità del vuoto attraversato aveva ormai annullato in loro ogni reminiscenza dei cieli materni, scorsero un pianeta dinanzi alla loro nave — né troppo grosso né troppo piccolo, della dimensione giusta — con un solo continente, nel cui mezzo correva un linea rossa luminosa: da una parte della linea tutto era giallo, mentre dall’altra tutto era rosa.
Compreso immediatamente che si trattava di due regni confinanti, i due costruttori tennero un breve consiglio di guerra prima di atterrare.
«Con due regni» disse Trurl «è meglio che tu ti occupi di uno, e io dell’altro. Così nessuno si adonterà».
«Giusto» rispose Klapaucius. «Ma se dovessero chiederci assistenza militare? Sono cose che succedono».
«Certo, potrebbero chiederci armi, anche super-armi» convenne Trurl. «Ma noi, semplicemente, ci rifiuteremo di dargliele».
«E se dovessero insistere, fino a minacciarci?» insistette Klapaucius. «Anche queste sono cose che succedono».
«Esaminiamo la situazione locale» disse Trurl, accendendo la radio. Ne uscì una marcia militare suonata a tutto volume: musica da esaltati.
«Ho un’idea» disse Klapaucius, spegnendo l’apparecchio. «Possiamo usare l’Effetto Gargantius. Che ne pensi?»
«Ah, l’Effetto Gargantius!» esclamò Trurl. «Non ho mai sentito dire che qualcuno l’abbia realmente usato, ma c’è sempre una prima volta. Sì, perché no?»
«Tutt’e due dobbiamo essere pronti a usarlo» spiegò Klapaucius. «Ma è necessario che lo usiamo contemporaneamente, altrimenti ci troveremmo nei guai».
«Nessun problema» rispose Trurl. Trasse di tasca una minuscola scatola dorata e l’aprì. All’interno, appoggiate sul velluto, c’erano due perle bianche.
«Tu ne terrai una, io l’altra» soggiunse. «Ogni sera le darai un’occhiata: se la vedrai diventare rosa, significherà che io ho iniziato e che dovrai iniziare anche tu».
«D’accordo» rispose Klapaucius, mettendo in tasca la perla. Poi atterrarono, calarono la scaletta, si strinsero la mano e si allontanarono in direzioni opposte.
Il regno in cui si venne a trovare Trurl era retto da Re Atrocitus, che era militarista dalla punta dei piedi alla cima dei capelli, e oltre a questo era un terribile spilorcio. Per non oberare il tesoro della Corona, aveva abolito tutte le punizioni tranne quella capitale. La sua occupazione preferita consisteva nell’eliminare le cariche non necessarie; e poiché in esse era compresa anche quella del boia, ogni condannato era costretto a tagliarsi la testa da solo, oppure — nelle rare occasioni in cui Sua Maestà si mostrava clemente — a farsela tagliare da qualcuno della famiglia.
Fra tutte le arti, Re Atrocitus patrocinava solo quelle che non richiedevano grandi spese, come la recitazione corale, gli scacchi e la ginnastica pre-militare. Aveva particolare considerazione per l’arte della guerra, perché una campagna militare vittoriosa dava sempre eccellenti guadagni; d’altra parte, non ci si poteva preparare bene per la guerra che durante un intervallo di pace, e di conseguenza il Re patrocinava anche la pace, ma lo faceva con moderazione.
La sua massima riforma era stata la razionalizzazione dell’alto tradimento. Poiché il regno vicino continuava ininterrottamente a mandare spie, Atrocitus aveva inventato un Ministero degli Informatori Reali, il cui personale, attraverso una gerarchia di traditori di grado sempre più basso, passava agli agenti nemici, in cambio di certe somme di denaro, i segreti di Stato. In genere gli agenti acquistavano soltanto segreti già vecchi: soprattutto perché costavano meno, ed essendo responsabili, di fronte al loro governo, di ogni centesimo che spendevano, se avessero sfondato il bilancio avrebbero dovuto rimborsare di tasca propria la differenza.
I sudditi di Atrocitus si alzavano presto, si comportavano bene e lavoravano sodo. Fucinavano fili di ferro e formavano fasci di fascine per farne fortificazioni, costruivano caccia-torpediniere, carrarmati, cannoni e casematte, si dedicavano diligentemente alle denunce delatorie. E perché il regno non fosse sommerso da quest’ultime (come in effetti era accaduto durante il regno di Bartolocausto l’Occhiuto, vari secoli prima), chi scriveva troppe denunce era tenuto al pagamento di una tassa speciale sugli articoli di lusso. Grazie a questa tassa, oggi le delazioni venivano mantenute a un livello accettabile.
Giunto alla corte di Atrocitus, Trurl gli offrì i suoi servigi. Il Re — come c’era da aspettarsi — gli chiese poderosi strumenti di guerra. Trurl si fece concedere alcuni giorni per riflettere sulla cosa, e non appena fu solo nel piccolo stanzino che gli avevano assegnato, diede un’occhiata alla perla della scatoletta dorata. Era ancora bianca, ma, sotto i suoi occhi, cominciò a prendere una sfumatura rosa.
«Aha!» disse il costruttore, rivolto a se stesso. «E’ ora di cominciare con Gargantius!» E senza ulteriori indugi recuperò le sue formule segrete e si accinse al lavoro.
Intanto Klapaucius si era trovato nell’altro regno, dominato dal grande Re Ferocitus.
Laggiù, tutto era completamente diverso da quel che si incontrava in Atrocia. Anche quel monarca si compiaceva delle campagne militari e delle marce, e anch’egli spendeva molto in armamenti, ma, per così dire, in modo illuminato, perché era un sovrano superbamente generoso e un grande protettore delle arti.
Amava le uniformi, i cordoncini dorati, gli alamari e le strisce, le spalline e gli speroni, i cimieri rutilanti e impennacchiati, le cannoniere, le spade e i cavalli da guerra scalpitanti. Inoltre era un uomo di grande sensibilità, e gli venivano i lucciconi ogni volta che doveva varare una nuova cannoniera. E premiava con ingenti somme i quadri raffiguranti scene di battaglia, pagandoli patriotticamente in proporzione alle pile di nemici uccisi che vi erano ritratte, cosicché, nelle interminabili tele panoramiche di cui il regno era pieno, le montagne di cadaveri nemici arrivavano fino al cielo.
In pratica era un autocrate, ma con idee libertarie; un tiranno, ma magnanimo. A ogni anniversario della sua incoronazione annunciava qualche riforma. Una volta aveva ordinato di decorare con i fiori le ghigliottine; un’altra volta le aveva fatte oliare perché non cigolassero; e una volta aveva fatto affilare e dorare le asce dei boia — il tutto in base a considerazioni umanitarie. Ferocitus non era certo un debole, ma aveva una vera avversione per gli eccessi, e perciò aveva imposto, per regio decreto, regole e standard per le berline, le ruote, i pali, le pinze da arroventare, le catene e le mazze. La decapitazione dei colpevoli di reati di pensiero — evento abbastanza raro — si svolgeva con grande pompa e presenza di autorità, accompagnamento bandistico, discorsi, sfilate e luminarie. Questo illuminato monarca seguiva una teoria politica da lui stesso formulata e chiamata Teoria della Felicità Universale. E’ noto che non si ride perché si è allegri, ma si diventa allegri perché si ride: come sostiene l’adagio, il riso fa buon sangue. Perciò, se tutti ripetessero che le cose non potrebbero andar meglio, la disposizione generale di spirito migliorerebbe immediatamente.
Di conseguenza, i sudditi di Ferocitus dovevano, per il loro bene, andare in giro gridando che tutto era meraviglioso; il vecchio, indefinito saluto «Salve» era stato cambiato dal Re nel più entusiastico «Alleluia!» anche se ai minori di quattordici anni era ancora permesso dire «Che cuccagna!» e «Ullallà!» e ai vecchi «Quale piacere!» Ferocitus godeva nel constatare che lo spirito della popolazione era così alto. Ogni volta che arrivava sulla sua auto a forma di nave da battaglia, la gente che lo vedeva applaudiva, e quando sollevava graziosamente la sua mano regale, la prima fila gridava: «Urrah!» e «Alleluia!» e «Grande!»
In cuor suo un democratico, gli piaceva fermarsi a scambiare quattro parole con i vecchi soldati che molto avevano visto e molto combattuto, amava ascoltare le storie che si raccontavano ai bivacchi e che vertevano sulle imprese più ardimentose, e spesso, quando un dignitario straniero si presentava a un’udienza, tutt’a un tratto, tra il lusco e il brusco, gli batteva lo scettro sul ginocchio e urlava: «Issate quelle cime!» o «Ammainate la scotta!» o «Tuoni e fulmini!» e non c’era nulla che apprezzasse tanto — o che avesse tanto a cuore — quanto l’ardire e il non ordire, l’azzardo e le decisioni al primo sguardo, la vita dura e l’assenza di paura, l’assalto di slancio e il profumo del rancio, la galletta e il grog, il gavettone e la polvere da cannone.
Così, ogni volta che si sentiva prendere dalle paturnie, per vincere la melanconia gli era sufficiente far sfilare i soldati sotto il suo balcone, e ascoltare le allegre marcette con cui scandivano il passo, come: «Avvita forte il tuo coraggio / Sia robusto il suo bullone davanti al nemico» e «Su col morale / Garrisce la bandiera e Saldi e pugnaci; combatteremo / Fino allo stremo, sempre più audaci» per poi concludere con il trascinante inno nazionale: «Calcio in spalla, occhio al mirino». E aveva già dato ordine, per il giorno del suo funerale, che i veterani della sua guardia cantassero sulla sua tomba il suo inno preferito: «I vecchi robot non arrugginiscono mai».
Klapaucius non arrivò immediatamente alla corte di questo grande sovrano. Nel primo villaggio in cui ebbe la ventura di trovarsi, bussò a parecchie porte, ma nessuno gli aprì. Alla fine notò, nella strada deserta, un bambino di pochi anni; questi si avvicinò a lui e gli chiese, con voce flebile e acuta: «Me ne compri uno, signore? Costano poco».
«Che cosa vendi?» chiese Klapaucius, sorpreso.
«Segreti di stato» rispose il piccolo, sollevando la camiciola quel tanto che permise a Klapaucius di vedere, sotto di essa, un fascicolo dei piani di mobilitazione. Ancor più sorpreso, Klapaucius disse: «No, grazie, piccolo. Piuttosto, puoi dirmi dove posso trovare il sindaco?»
«Che cosa vuoi dal sindaco, signore?» chiese il bambino.
«Gli devo parlare».
«In segreto?»
«Non fa differenza» rispose Klapaucius.
«Ti serve un agente segreto? Mio padre fa l’agente segreto. Fidatissimo. Molto economico».
«Bene. Allora, portami da tuo padre» rispose Klapaucius, il quale aveva capito che non sarebbe approdato a niente, con quel piccolo spacciatore di segreti.
Il bambino lo portò fino a una casa. All’interno, anche se era appena primo pomeriggio, c’era una famiglia raccolta attorno a una lampada accesa: il nonno ormai grigio, seduto sulla sedia a rotelle, la nonna intenta a fare la calza, e la loro progenie — numerosa e ormai adulta — indaffarata in tanti lavori domestici. Non appena Klapaucius entrò, gli balzarono addosso e lo bloccarono; gli aghi da calza risultarono essere un paio di manette, la lampada un microfono, la nonna era il Capo della Polizia.
«Devono avere commesso un errore» pensò Klapaucius, quando lo percossero e lo cacciarono in prigione. Pazientemente, attese per tutta la notte — non poté fare altro. Giunse infine l’alba, che illuminò le ragnatele sulle pareti della cella e i resti arrugginiti dei precedenti prigionieri. Dopo qualche tempo vennero a prenderlo per interrogarlo. Risultò che tanto il bambino quanto la casa — anzi, in effetti l’intero villaggio — erano soltanto una sofisticata esca per ingannare le spie straniere.
Klapaucius, comunque, non dovette affrontare i rigori di un lungo processo: la seduta arrivò rapidamente alla conclusione. Per il tentativo di prendere contatto con il padre-informatore c’era il ghigliottinamento di terza classe, perché gli amministratori locali avevano terminato, per l’anno fiscale corrente, i fondi destinati a far cambiare bandiera agli agenti nemici, e Klapaucius, da parte sua, s’era rifiutato di contribuire al fondo acquistando dalla polizia qualche opportuno segreto di stato. Né aveva con sé denaro sufficiente a far derubricare il reato.
Tuttavia, poiché il prigioniero continuava a protestare la propria innocenza — non che il giudice gli credesse; del resto, la cosa non aveva importanza, perché la sua autorità non arrivava fino al punto di poterne ordinare la scarcerazione — il caso venne trasmesso a una corte di grado superiore, e nel frattempo Klapaucius venne sottoposto a tortura, più per ragioni di forma, a dire il vero, che per reale necessità.
In circa una settimana, però, il suo caso prese un andamento positivo; finalmente prosciolto, si recò nella capitale, dove — dopo essere stato istruito sulle leggi e i regolamenti dell’etichetta di corte — ebbe l’onore di un’udienza privata con il Re. Lo dotarono anche di una cornetta, perché ciascun cittadino era tenuto ad annunciare il suo arrivo e la sua partenza dai luoghi pubblici con i regolamentari squilli di tromba, e tale era la ferrea disciplina del paese che il sole non si considerava ufficialmente sorto finché il trombettiere non suonava la sveglia.
Ferocitus, come previsto, chiese nuove armi, e Klapaucius gli promise di esaudire la sua regale richiesta: il suo piano, assicurò al Re, rappresentava un radicale progresso rispetto ai comuni principi dell’azione militare.
Che tipo di esercito — chiese per prima cosa — usciva invariabilmente vittorioso dallo scontro? Quello che aveva i capi migliori e i soldati più disciplinati. Il capo dava gli ordini, il soldato li eseguiva: il primo doveva essere saggio, il secondo obbediente.
Tuttavia, la saggezza della mente — anche della mente militare — aveva taluni limiti naturali. Inoltre, un grande capo poteva incappare, come nemico, in un altro capo altrettanto grande. O poteva cadere in battaglia e lasciare prive di guida le sue legioni. Oppure poteva compiere qualcosa di altrettanto temibile, dato che il militare era, per così dire, professionalmente addestrato a pensare, e l’obiettivo dei suoi pensieri era il potere.
Non era pericoloso avere in campo una legione di vecchi generali, con le teste arrugginite così piene di strategia e di tattica da spingerli ad aspirare al trono? Forse che per questa loro tendenza, parecchi regni non se l’erano vista brutta? Era chiaro, dunque, che i capi erano un male, purtroppo necessario; il problema stava nel renderlo un male non più necessario. Proseguendo, la disciplina di un esercito consisteva nell’eseguire con precisione gli ordini. Idealmente, si doveva arrivare al punto di avere mille cuori e mille teste fuse in un solo cuore, una sola mente, una sola volontà. La vita militare, con le sue corvè, le marce, le esercitazioni e le manovre serviva a questo. La meta ultima era dunque un esercito che agisse alla lettera come un sol uomo, che fosse nello stesso tempo il creatore e l’esecutore dei propri obiettivi.
Ma dove si poteva trovare incarnata una simile perfezione? Solo nell’individuo, perché a nessuno si obbediva così facilmente come a se stessi, e nessuno eseguiva così allegramente gli ordini come chi li dava. Né un individuo poteva disertare da se stesso, e l’insubordinazione o l’ammutinamento contro se stesso erano palesemente impossibili.
Il punto era dunque prendere tanta ansia di servire se stessi — l’auto-venerazione che caratterizza l’individuo — e trasmetterla a un esercito di migliaia di uomini. Ma come? E qui Klapaucius cominciò a spiegare al Re, che lo ascoltava con grande attenzione, le semplici idee — perché sono sempre semplici, le idee dei geni — enunciate dal grande Gargantius.
In ogni recluta (spiegò Klapaucius) si avvitavano una spina sul davanti e una presa sul di dietro. All’ordine» Serrare i ranghi! " le spine s’infilavano nelle prese e, mentre fino a un attimo prima avevate una folla di semplici civili, ora avevate un battaglione di perfetti soldati. Quando le loro menti separate (finora occupate da ogni sorta di sciocchezzuole non marziali) si fondevano in un’unica coscienza «reggimentale», non solo si otteneva la disciplina automatica — perché il battaglione era diventato un’unica macchina per combattere, fatta di mille parti — ma anche una saggezza corrispondente. Una saggezza proporzionale al numero dei singoli componenti.
Un plotone veniva a possedere la saggezza di un sergente maggiore di carriera, una compagnia era almeno intelligente quanto un tenente colonnello, una brigata era assai più intelligente di un generale, e una divisione valeva ben più di tutti gli strateghi e gli specialisti di un esercito messi insieme.
Agendo come suggeriva Gargantius si potevano creare formazioni di una perspicacia strabiliante. Che, naturalmente, eseguivano alla lettera i propri ordini. Non ci sarebbe più stato spazio per l’insubordinazione e l’indisciplina degli individui, non si sarebbe più dovuto fare affidamento sulle capacità di un particolare comandante, temere le consuete rivalità, invidie e inimicizie tra generali. E i distaccamenti, una volta uniti, non avrebbero più cercato di separarsi, perché questo avrebbe prodotto soltanto confusione.
«Un esercito il cui unico capo è l’esercito stesso: questa la mia idea» concluse Klapaucius.
Il Re, assai impressionato dalle sue parole, rispose infine: «Ritorna nei tuoi appartamenti. Ne parlerò con il mio stato maggiore…»
«Oh, non fatelo, Altezza Reale!» esclamò l’astuto Klapaucius, fingendo grande costernazione. «E’ esattamente quello che fece l’Imperatore Turbilone, e i suoi generali, per difendere i loro privilegi, gli consigliarono di non accogliere il suggerimento. Poco dopo, però, il vicino di Turbilone, Re Smaltarello, lo attaccò con un esercito riformato e ridusse in cenere il suo impero, benché le forze di cui disponeva fossero soltanto l’ottava parte delle sue!»
Detto questo, si inchinò, ritornò nella propria stanza e consultò la perlina, che ora era rossa come una barbabietola: questo significava che Trurl aveva fatto un discorso come il suo alla corte di Atrocitus.
Non passò molto tempo prima che il Re ordinasse a Klapaucius di riformare un plotone di fanteria; unita nello spirito e divenuta a tutti gli effetti una sola mente, al grido di «Uccidi, uccidi! " la piccola unità piombò su tre squadroni dei dragoni reali, armati fino ai denti e per di più comandati dai sei più famosi maestri della Scuola di Guerra dell’Accademia Militare… e li ridusse a striscioline.
Grande fu il dolore di generali, marescialli, ammiragli e comandanti in capo, perché il Re li mandò tutti in congedo per raggiunti limiti di età; ormai convinto dell’efficacia dell’invenzione di Klapaucius, ordinò di rivoluzionare l’intero esercito.
Così, gli elettricisti militari lavorarono giorno e notte, fabbricando a bigonce, a vagonate, le spine e le prese, che poi vennero installate in tutte le caserme, con la spiegazione che si trattava di innovazioni necessarie. Coperto di medaglie, Klapaucius viaggiava da una guarnigione all’altra e controllava ogni cosa. E Trurl non se la passava diversamente nel regno di Atrocitus, tolto il particolare che — a causa della ben nota parsimonia di quel sovrano — doveva accontentarsi del titolo vitalizio, ma privo di appannaggio, di Gran Traditore della Madrepatria.
Entrambi i regni si preparavano allo scontro. Nello sforzo della mobilitazione, sia le armi convenzionali sia quelle nucleari vennero messe in assetto di guerra, senza lesinare polish e olio di gomito né ai cannoni né agli atomi, come da regolamento.
l lavoro dei due costruttori era ormai quasi finito: fecero segretamente i bagagli, per potersi ricongiungere — al momento debito — nel luogo convenuto, a poca distanza dalla loro nave, nascosta in un bosco.
Intanto, tra soldati e graduati di truppa avvenivano veri e propri miracoli, in particolare nella fanteria. Le compagnie non avevano più bisogno di addestrarsi alla marcia, né di contare per uno allo scopo di sapere di quanti elementi fossero composte, proprio come una persona con due gambe sa sempre distinguere la destra dalla sinistra né ha bisogno di calcolare quante persone sia. Era una gioia vedere le nuove unità fare l’Avanti-Marsch, il Dietro-Front e il Compagnia-Alt; poi, quando si dava loro il rompete le righe, vederle chiacchierare con le altre compagnie, ciascuna parlando in coro, come un sol uomo. Più tardi, durante l’ora di uscita, dalle finestre aperte delle caserme giungevano le loro voci stentoree, che discutevano di argomenti come la verità assoluta, le proposizioni a priori analitiche in confronto a quelle sintetiche, e la Cosa in Sé: infatti, le loro menti collettive avevano già raggiunto quel livello.
Venne elaborato un gran numero di sistemi filosofici, che furono guardati con simpatia dai superiori, finché un certo battaglione di zappatori non arrivò a una posizione di assoluto solipsismo, con l’affermazione che nulla esisteva all’esterno dell’unità stessa e che il mondo circostante non era altro che un costrutto della sua immaginazione. Dato che tale posizione portava come corollario che non esistessero né il Re né il nemico, il battaglione venne scollegato, alla chetichella, e i suoi membri vennero assegnati a unità che seguivano rigorosamente il realismo epistemologico.
All’incirca nello stesso momento, nel regno di Atrocitus, la sesta divisione anfibia lasciò da parte le operazioni della flotta per, dedicarsi alla contemplazione trascendente e, totalmente immersa nel misticismo, per poco non affogò. Fosse come fosse, a causa di questo incidente venne dichiarata la guerra, e i soldati, rombando e sferragliando, lentamente si mossero verso 11 confine, in entrambi i regni.
La legge di Gargantius continuò a operare con logica inesorabile. Come una formazione si unì all’altra, proporzionalmente crebbe anche il suo senso estetico, che giungeva al massimo quando si arrivava alla dimensione di una divisione rafforzata. Di conseguenza, le colonne di una forza simile si perdevano facilmente in divagazioni, rincorrevano elusive fantasie: quando il corpo motorizzato che prendeva nome dal Re Bartolocausto giunse a una fortezza che doveva essere conquistata con un attacco-lampo, il piano di guerra tracciato nella notte risultò essere una raffigurazione artistica dei bastioni della fortezza stessa, dipinti, per di più, con una forte vena di astrattismo che andava contro tutte le tradizioni militari I corpi di artiglieria pesante presero in considerazione i più ponderosi problemi della metafisica e, con la distrazione caratteristica dei grandi geni, persero il loro equipaggiamento lungo la strada e si dimenticarono completamente del fatto che fosse stata dichiarata una guerra.
Quanto agli interi eserciti, la loro psiche era afflitta da una moltitudine di complessi, come spesso accade agli intelletti più progrediti, e fu necessario assegnare a ciascuna armata una particolare brigata psichiatrica motociclista, che praticava le adeguate terapie nel corso della marcia.
Intanto, con un assordante accompagnamento musicale di tamburi e di cornamuse, entrambi gli schieramenti raggiunsero lentamente le loro posizioni. Sei reggimenti di truppe d’assalto, appoggiati da una batteria di mortai e da due battaglioni di rinforzo, composero, con l’aiuto di una squadra di fucilieri, un sonetto intitolato «Il mistero dell’esistenza», e proprio durante il servizio di guardia. In entrambi gli eserciti si ebbero numerosi casi di confusione: l’Ottantesimo Corpo Malabardato, per esempio, sostenne che l’intero concetto di «nemico» dovesse essere definito più chiaramente, poiché era pieno di contraddizioni logiche dal punto di vista sintattico, e rischiava addirittura di essere privo di significato sotto quello semantico.
I paracadutisti cercavano di trovare la formula matematica del terreno sottostante, le ali continuavano a scontrarsi con il centro, cosicché i due Re finirono per inviare in volo aiutanti e corrieri straordinari per rimettere ordine nei ranghi. Ma ciascuno di questi, dopo essere arrivato in aereo o a cavallo al corpo in questione, prima che potesse scoprire la causa del disturbo perdeva improvvisamente la propria identità personale, che entrava a far parte di quella collettiva, e i Re rimanevano senza aiutanti di campo e senza corrieri.
La coscienza, a quanto pareva, costituiva una trappola mortale, in quanto si poteva entrare a farne parte, ma non se ne poteva più uscire. Atrocitus stesso vide come suo cugino, il Grande Principe Lingotto, per sollevare lo spirito dei soldati, fosse saltato tra le fila, e come — non appena collegatosi alla prima linea — il suo spirito fosse sparito nel mucchio, e non ne fosse rimasta traccia.
Con l’impressione che qualcosa non fosse andato per il giusto verso, Ferocitus rivolse un cenno del capo ai dodici suonatori di tromba che stavano alla sua destra. Atrocitus, dalla cima della sua collina, fece altrettanto: i trombettieri si portarono lo strumento alle labbra e suonarono la carica da tutt’e due gli schieramenti.
Al segnale delle trombe, ciascun esercito si collegò in toto, al completo. Lo spaventevole rumore metallico della chiusura dei contatti echeggiò lungo il futuro campo di battaglia. Al posto di mille bombardieri e granatieri, guastatori e lancieri, cannonieri e cecchini, zappatori e assaltatori, c’erano solo due esseri giganteschi, che si guardavano con un milione di occhi, dalle due estremità di una pianura coperta di cumuli di nubi.
Il silenzio era assoluto. Il famoso culmine della coscienza predetto con matematica precisione da Gargantius era stato raggiunto da entrambi gli eserciti. Infatti, al di là di un certo livello di coscienza, il militarismo, che è un fenomeno puramente locale, lascia il posto a una mentalità totalmente civile, perché il cosmo stesso è per sua natura civile, e la mente dei due eserciti aveva assunto dimensioni davvero cosmiche! Così, anche se all’esterno brillavano ancora le corazze e il mortale acciaio dell’artiglieria, all’interno nasceva un oceano di buona volontà reciproca, di tolleranza, benevolenza e ragione. E così, l’una di fronte all’altra, mentre i tamburi continuavano a rullare e le armi scintillavano al sole, le due armate si sorrisero.
In quello stesso momento, Trurl e Klapaucius salivano a bordo dell’astronave, poiché il loro progetto era divenuto realtà: davanti agli occhi dei loro sovrani mortificati e infuriati, i due eserciti si erano allontanati, mano nella mano, per raccogliere fiori, sotto un cielo di nuvole simili a bioccoli bianchi, sul campo di una battaglia che non era mai avvenuta.
LA PRIMA FATICA «bis» OVVERO IL BARDO ELETTRONICO
Per prima cosa, onde evitare possibili malintesi, occorre precisare che questa impresa, anche se fu — a modo suo — un grande viaggio di scoperta, non si svolse in pianeti lontani e stranieri. Anzi, per tutto il periodo, Trurl non uscì praticamente di casa — a parte qualche corsa all’ospedale e una breve escursione fino a un asteroide.
Eppure, in un senso più profondo e/o più alto, fu una delle imprese in cui il famoso costruttore si spinse più lontano dai sentieri battuti, perché il cammino da lui scelto lo portò quasi a uscire dal regno del possibile.
Una volta, Trurl aveva avuto la disgrazia di costruire un’enorme macchina calcolatrice che sapeva effettuare un’unica operazione — in sostanza la somma di due più due — ma che (anche con quella!) otteneva sempre un risultato sbagliato. Come già riferito in precedenza, la macchina si rivelò estremamente ostinata, e la disputa che sorse tra lei e il suo creatore per poco non costò a quest’ultimo la vita. Da allora in poi, Klapaucius derise Trurl senza pietà, facendo commenti sulla sua macchina ogni qualvolta ne avesse l’occasione, finché Trurl non decise di farlo tacere una volta per tutte costruendo una macchina che componesse versi.
Per cominciare, Trurl radunò qualche bica di tomi sulla robotica e qualche carrettata di libri della migliore poesia, poi si accinse a leggerli ordinatamente. Cominciava con i testi tecnici, e, quando aveva l’impressione di non poter più digerire un’altra equazione o un’altra tabella, passava alla poesia, e lo stesso con i versi.
Dopo qualche tempo gli fu chiaro che la costruzione della macchina stessa sarebbe stata un gioco da ragazzi, in confronto alla stesura del programma. In fin dei conti, il programma che si trovava nella testa di un qualsiasi poeta era stato scritto dalla sua civiltà di appartenenza, la quale era stata a sua volta programmata dalla civiltà che l’aveva preceduta, e così via, fino all’Alba dei Tempi, quando i bit d’informazione che sarebbero entrati a far parte dei futuri poeti giravano ancora in qualche vortice di materia-energia, nel caos primordiale delle profondità cosmiche. Perciò, per programmare una macchina poetica, occorreva ripetere dalle origini l’intero universo o almeno una sua gran parte.
Chiunque altro, al posto di Trurl, avrebbe rinunciato immediatamente, ma il nostro intrepido costruttore non si lasciò intimidire. Costruì una macchina e preparò un modello digitale del Vuoto, uno Spirito Elettrostatico che doveva muoversi sulle acque delle cellule galvaniche, poi introdusse il parametro della luce, un paio di nebulose protogalattiche, e a brevi tappe riuscì ad arrivare fino alla prima glaciazione — si era potuto muovere a quella velocità perché la sua macchina riusciva a simulare in zero virgola due miliardesimi di secondo cento settilioni di eventi in quaranta ottilioni di punti simultanei. E se qualcuno mette in dubbio queste cifre, che si rifaccia lui il calcolo.
Come seconda tappa, Trurl cominciò a modellare la Civiltà: l’accensione del fuoco battendo tra loro due selci, la concia delle pelli, e ci inise mammut e maree, stazione eretta e scomparsa della coda, poi fece i proto-visipallidi («Albibomines sapientes») che a sua volta generarono i visipallidi, che generarono il congegno meccanico, e così via, per millenni e per eoni, nell’infinito brusio delle correnti elettriche e delle loro controcorrenti.
A volte la macchina era troppo piccola per la simulazione computerizzata di una nuova epoca, e Trurl doveva inserire un’unità ausiliaria — finché non si ritrovò con una vera metropoli di terminali e di componenti, di circuiti e di collegamenti, così intrecciati tra loro che il diavolo stesso non sarebbe riuscito a trovarci né capo né coda.
Trurl, comunque, riuscì sempre a raccapezzarcisi e dovette tornare indietro due sole volte: una, quasi all’inizio, allorché scoprì che Abele aveva assassinato Caino e non Caino Abele (a causa, a quanto pareva, di una valvola bruciata) e un’altra volta, trecento milioni di anni prima, verso la metà del Mesozoico, allorché, dopo il passaggio da pesci ad anfibi e a rettili e infine a mammiferi, accadde qualcosa di strano fra questi, cosicché più tardi, quando i primati cominciarono a diversificarsi, al posto delle scimmie arboricole vennero simulati gli alberi scimmiottatori. Una mosca era entrata nella macchina e aveva messo in corto lo scalatore-inversore polifase direzionale.
Per tutto il resto, la simulazione procedette tranquilla come un sogno. Vennero ricreati Evo Antico e Medioevo, poi il tempo delle rivoluzioni e delle rivolte — che diedero alla macchina alcune brutte scosse — e poi la civiltà progredì con tali balzi e una tale velocità che Trurl dovette spruzzare acqua gelida sui cavi e sui trasformatori per impedire che si surriscaldassero.
Verso la fine del secolo Ventesimo, la macchina cominciò a tremare, dapprima lateralmente, poi avanti-indietro — il tutto senza ragioni visibili. Allarmato, Trurl portò cavi e cemento, nel caso occorresse immobilizzarla. Per fortuna, però, non ce ne fu bisogno; invece di uscire dagli ormeggi, la macchina si calmò e presto si lasciò alle spalle quel secolo.
Da allora in poi, la civiltà procedette a balzi di cinquantamila anni di pace: da quegli esseri — i primi veramente intelligenti — aveva avuto origine lo stesso Trurl. La storia venne simulata ed espulsa dalla macchina bobina dopo bobina, e la fila delle bobine era così lunga che occorreva salire in cima alla macchina per vederne la fine. E tutto questo per fare un singolo poeta! Però, è così che opera il fanatismo scientifico.
Alla fine il programma fu pronto; rimaneva soltanto da scegliere una successione casuale di avvenimenti e da scartare gli altri, sennò l’istruzione del poeta elettronico sarebbe durata milioni di anni.
Nelle due settimane seguenti, Trurl cominciò a dare istruzioni generali al suo futuro poeta, poi aggiunse i circuiti logici, i motivatori emozionali, i centri semantici. Stava quasi per invitare Klapaucius ad assistere al collaudo della macchina, ma al pensiero della sua lingua velenosa cambiò subito idea e preferì eseguire da solo la prova.
Avviò la macchina, e quella si diede subito a impartirgli una lezione sulla lucidatura delle superfici cristallografiche destinate alla fotoincisione come preliminare per lo studio delle anomalie magnetiche submolecolari.
Allora Trurl escluse una buona metà dei circuiti logici e rese più elettromotrici le emozioni. La macchina singhiozzò, venne presa da un attacco isterico, e alla fine commentò, con voce rotta, che il mondo era crudele, oh quanto era crudele.
A quel punto, Trurl intensificò i campi semantici e rafforzò le componenti di carattere; la macchina lo informò subito che lui, da quel momento in poi, doveva eseguire ogni suo desiderio, a cominciare da quello di aggiungere sei piani ai nove di cui era costituita, perché le occorrevano per meditare sul significato dell’essere.
Trurl, al posto dei piani richiesti, installò uno smorzatore filosofico. La macchina tacque e gli fece il muso: solo dopo molte suppliche e dopo un numero ancor superiore di promesse il costruttore riuscì a farle recitare qualcosa:
«La vispa Annunziata
Avea tra l’erbetta
Al balzo acchiappata Gentil ranocchietta».
A quanto pareva, ciò costituiva tutto il suo repertorio. Trurl aveva regolato, modulato, implorato, scollegato, esaminato, ricollegato, calibrato, fatto tutto quello che gli era venuto in mente, e la macchina gli aveva recitato una poesia che lo aveva spinto a ringraziare il Cielo che non ci fosse Klapaucius a ridere di lui — immaginatevi, simulare l’intero universo da zero, per non parlare della Civiltà, considerata in tutti i suoi particolari, e finire con una poesiola da asilo infantile!
Trurl inserì una batteria di sei filtri anti-cliché, ma schiattarono come fiammiferi; fu costretto a farli di acciaio al tungsteno. I nuovi filtri, comunque, parvero funzionare: Trurl portò a fine corsa superiore il livello semantico, inserì in parallelo un secondo generatore di rime… ma la somma di questi due interventi rischiò di rovinare tutto, perché la macchina, alla ricerca del supremo significato da dare alla propria esistenza, risolse di farsi missionario fra le tribù sottosviluppate dei pianeti più lontani.
All’ultimo minuto, comunque, Trurl ebbe un’ispirazione; rinunciando a tutti i circuiti logici, li sostituì con altrettanti narcisistori egocentrici ad auto-regolazione. La macchina fece qualche smorfia, piagnucolò un poco, rise con amarezza, si lamentò di certi terribili dolori che aveva da qualche tempo al terzo piano, disse che in generale ne aveva le tasche,piene, perché la vita era bella, ma gli uomini erano certe bestie, e che avrebbero pianto — oh come avrebbero pianto! — una volta che lei fosse morta e non ci fosse stata più. Poi chiese carta e penna.
Con un sospiro di sollievo, Trurl spense la sua creatura e andò a dormire.
L’indomani, si recò a trovare Klapaucius, il quale, come udì l’invito a presenziare al debutto del cantore elettronico di Trurl, mollò immediatamente tutto quello che stava facendo e lo seguì — tale era la sua ansia di presenziare allo smacco dell’amico e collega.
Per prima cosa, Trurl fece in modo che la macchina si riscaldasse bene, tenne basso il volume, corse varie volte sulle scalette di metallo per effettuare le progressive letture (la macchina era come i motori dei grandi transatlantici: c’erano file e file di chiodature a tenere ferme le lamiere, passatoie per gli addetti, quadri di controllo e valvole a ogni piano) finché, ormai certo che tutte le cifre decimali fossero al posto giusto, disse: sì, adesso la macchina è pronta, perché non partire con qualcosa di semplice? Più tardi, naturalmente, una volta che la macchina avesse preso la mano a poetare, Klapaucius avrebbe potuto chiederle di comporre poesie su qualsiasi argomento.
Ora che i potenziometri indicavano come le capacità liriche della macchina fossero al massimo della carica, Trurl, talmente nervoso che gli tremavano le mani, abbassò l’interruttore principale.
Una voce, leggermente roca, ma assai vibrante e calda, disse:
«Flogisticosh.
Rhomotbriglosh.
Floosh».
«Tutto qui?» domandò Klapaucius, con grande educazione, dopo una breve pausa. Trurl si morse le labbra, diede alla macchina qualche rapida smanettata di corrente, e provò ancora. Questa volta la voce si udì ancor più chiara; era ancora calda e baritonale, severa ma stranamente sensuale:
«Uno, ventuno, dodici, quaranta,
Diciannove, trentun, cinquantatré
Trentasette, quattordici, novanta,
Sette, sei, nove, quattro, ventitré».
«C’è forse qualcosa che mi sfugge?» chiese Klapaucius, mentre osservava con calma Trurl in preda al panico tirare come un forsennato le leve dei comandi.
Dopo un po’, Trurl agitò disperatamente le braccia, scese con sordo rumore metallico parecchie rampe di scalini di ferro, si mise carponi ed entrò nella macchina passando per una botola; una volta all’interno, cominciò a dare martellate, bestemmiando come un carrettiere, strinse qualche vite, staccò qualche spina, uscì dalla botola e salì in fretta al piano superiore.
Alla fine, con un grido trionfale, gettò via un tubo elettronico bruciato, che si ruppe in mille pezzi ai piedi di Klapaucius. Trurl non si scusò della propria maleducazione; si affrettò a sostituire il tubo, si asciugò le mani su uno straccio sporco d’olio e gridò a Klapaucius di provarci adesso. Si udirono le seguenti parole:
«Moccio! Di tua felce maniglia
Blocco di tre su Galàdia.
Moccio, qual silfo ti piglia,
Mentre sogni nella tua madia?»
«Be’ questo è già un miglioramento!» gridò Trurl, non del tutto convinto. «In particolare l’ultimo verso, non credi?» «Se non hai altro da mostrarmi…» cominciò Klapaucius, che sembrava l’incarnazione della cortesia.
«Maledizione!» imprecò Trurl, sparendo di nuovo all’interno della macchina. Lo si udì martellare furiosamente, si sentirono lo sfrigolio dei corti circuiti e le imprecazioni di qualcuno con la pazienza ancor più corta; infine Trurl si sporse dalla botola del terzo piano e gridò: «Prova adesso!»
Klapaucius ubbidì. Il bardo elettronico fremette da capo a piè e attaccò:
«Spesso in quella capanna insalda e odora,
Dove cercammo appalesarsi il muschio,
E tu cantando trasmutavi l’ora…»
Trurl strappò alcuni cavi, e, all’interno della macchina, un volano prese a ruotare sempre più lentamente, fino a fermarsi; la voce tacque. Klapaucius rideva così forte che era stato costretto a sedersi per terra. Poi, all’improvviso, mentre Trurl andava freneticamente su e giù per le scalette, si sentirono uno scatto, un crepitio, e la macchina disse, con perfetta padronanza dei suoi mezzi espressivi:
«L’invidioso, il tristo e il vile
Che hanno assai piccino il core
Van schiumando dalla bile
Quando il Genio superiore
Che hanno visto traballare,
Si rifiuta di crollare.
E Klapaucius, ci scommetto,
Sarà verde dal dispetto
Quando udrà la macchina di Trurl
Verseggiare in modo così perfetto».
«Ecco quello che volevi, un epigramma! E viene molto a proposito» rise Trurl, scendendo dalla macchina e gettandosi allegramente tra le braccia dell’amico.
Klapaucius, colto di sorpresa, aveva smesso di ridere.
«Che cosa? Quello che ha detto?» chiese. «Non è niente. E, poi, l’avevi preparato prima».
«Preparato?» fece Trurl, sorpreso.
«Oh, era ovvio» rispose Klapaucius. «L’ostilità verso di me, la povertà dei concetti, la prosodia approssimativa». Va bene, allora chiedile qualcos’altro» lo incitò Trurl. «Quello che vuoi. Che cosa aspetti? O hai paura?»
«Un minuto» rispose Klapaucius, seccato. Cercò di immaginare qualcosa di estremamente difficile, perché sapeva che sarebbe stato arduo, se non impossibile, accordarsi sulla qualità delle poesie eventualmente composte dalla macchina. All’improvviso sorrise e disse: «Falle comporre una poesia. Una poesia sul taglio dei capelli! Ma che sia alta e tragica, contenga amore, tradimento, eroismo, rassegnazione al destino, coraggio. Sette versi, con la rima che preferisce, e tutta di parole che comincino per S».
«Sì, e già che c’è» brontolò Trurl «perché non aggiungerci una completa trattazione della teoria degli automi non lineari? Non puoi assegnarle un compito così idiota…»
Ma non poté terminare, perché una voce melodiosa riempì l’intero magazzino, recitando in tono appassionato questi versi:
«Sansone sedotto, sbronzato, sognava saporitamente.
Schiomato seduta stante, senza stamina si scoprì,
Schiavo senza speranze.
Soggiogato, sostituto somaro, spinse.
Sebbene sembrasse sconfitto,
Silenziosamente studia sacrificarsi:
Sì! Selvaggi, spettacolari suicidi!»
«Be’, che ne dici di questa?» chiese Trurl, incrociando orgogliosamente le braccia. Ma Klapaucius stava già gridando: «Adesso, una in G! Un sonetto, esametri trocaici, su un vecchio ciclotrone che ha sedici amanti artificiali, azzurre per la radioattività, quattro palazzi, sedici padiglioni decorati in rosso per le amanti, due casse laccate per sé, ciascuna con mille medaglie raffiguranti lo zar Murdicog il Senza Testa…»
La macchina attaccò subito:
«Godurioso, gbignante,
Gerontogirone ghermiva
Graziose
Golem-ginecobalto…».
ma Trurl corse al quadro di comando, staccò la corrente e difese con il proprio corpo l’integrità morale della macchina.
«Basta!» gridò, roco per l’indignazione. «Come osi sprecare con simili sciocchezze un così grande talento? O gli dai da comporre una poesia seria, o spengo tutto!»
«Be’, non erano poesie serie?» protestò Klapaucius.
«No di certo! Non ho costruito la macchina per farle risolvere idioti giochi di parole! Quello è lavoro da mercenari della penna, non Grande Arte. Dalle un argomento, uno qualsiasi, scegli tu la difficoltà…»
Klapaucius rifletté per qualche tempo, e poi rifletté ancora. Alla fine, con un cenno d’assenso, disse: «Bene. Allora, un carme d’amore, lirico e pastorale, espresso nel linguaggio della matematica pura. Algebra tensoriale, diciamo, con escursioni nella topologia e nel calcolo sublime, se occorre. Ma con grande sentimento, capisci, e nel giusto spirito cibernetico».
«L’amore e l’algebra dei tensori? Sei impazzito?» cominciò Trurl, ma s’interruppe, perché il suo bardo elettronico aveva già cominciato a declamare:
«Vieni, t’affretta ad un più alto piano,
Ove i campi di Venn le ninfe han tante,
E con indice da n a 1 variante,
S’uniscono in un nodo markoviano.
Vieni, a esser cono ciascuna retta agogna
E le matrici ogni vettore sogna.
Della brezza il gradiente or tu rimira
A zone ancor più ergodiche ci attira.
Negli spazi hilbertiani o riemanniani
Mettan pure qual indice lor piaccia
I nostri asintoti non sono più lontani
Contando, finiremo faccia a faccia.
Ti darò ogni indirizzo del mio cuore
Mi dirai le costanti del tuo amore.
Nel sistema d’equazione che tu usi
Sotto la stessa graffa sarem chiusi.
Che sapevan Cauchy, Fourier Eulero
Che hanno studiato e n’han menato vanto,
O Christoffel, oppur Boole, invero
Di sì superno, sinusoide incanto?
Non annullarmi — che resterìa di me?
Una radice, una mantissa come intero
Un’ascissa, un sol centro, un asse o tre
L’inverso dei miei versi, a somma zero.
Beate ellissi convergete, labbra divine!
Il prodotto dei nostri scalari è fatto!
Le Cyberiadi ormai sono vicine,
La mente trema, sotto il loro impatto.
Nell’occhio hai già i desiati autovalori,
Nel tuo viso s’addolciscono i tensori
Sarta morto felice, Bernoullì
Se avesse visto quest’a (al quadrato) coseno di 2 (diametro)!»
Ciò pose fine alla competizione poetica, perché Klapaucius disse all’improvviso di dover andare via, e assicurò che sarebbe tornato presto, con altri argomenti per le poesie della macchina; ma non tornò più, perché temeva, così facendo, di dare a Trurl nuovi motivi di vanto. Trurl, naturalmente, disse a tutti che Klapaucius se l’era svignata per nascondere l’invidia e la collera. Klapaucius intanto diffuse la voce che Trurl non aveva tutte le rotelle a posto, quando si trattava del cosiddetto versificatore meccanico.
Non dovette passare molto tempo perché la notizia del computer di Trurl arrivasse ai genuini — ossia agli ordinari — poeti, che, profondamente offesi, decisero di ignorare l’esistenza della macchina. Alcuni di loro, però, più curiosi degli altri, andarono a fare visita, in segreto, al bardo elettronico.
Questi li ricevette con cortesia, in un magazzino pieno di manoscritti (lavorava giorno e notte, senza pausa). Ora, quei poeti appartenevano certamente all’avanguardia, mentre la macchina di Trurl componeva seguendo la tradizione; Trurl, che non era un esperto di poesia, si era basato soprattutto sui classici, nel predisporre il programma, Gli ospiti della macchina risero e si allontanarono trionfanti.
La macchina, però, era in grado di auto-programmarsi, e inoltre aveva particolari schede elettroniche con rinforzo positivo basato sull’ambizione e circuiti per la ricerca della gloria, cosicché, in poco tempo, si ebbe in lei un grande cambiamento. Le poesie del bardo elettronico divennero difficili, ambigue, talmente intricate e cariche di significati da risultare del tutto incomprensibili.
Quando arrivò il nuovo gruppo di poeti intenzionati a farsi beffe della macchina, questa rispose con un’improvvisazione così moderna da farli rimanere senza fiato, e la seconda poesia fece piazza pulita di un certo autore di sonetti che aveva già ottenuto due premi di Stato, oltre a una statua nel parco cittadino.
Da quel momento in poi, non ci fu poeta che resistesse alla tentazione fatale di incrociare la spada della propria lirica con quella del bardo elettronico di Trurl. Venivano da ogni parte, portando bauli e valigie pieni di manoscritti. La macchina lasciava che lo sfidante recitasse le sue poesie, coglieva immediatamente gli elementi ricorrenti della sua poetica, e se ne serviva per comporre una risposta nello stesso stile, ma da 220 a 347 volte migliore.
La macchina divenne così abile in questo, da poter abbattere un poeta di prima classe con non più di una o due quartine. Ma il peggio era che i poeti di mezza tacca ne uscivano senza danno: essendo di mezza tacca, non distinguevano la buona poesia da quella mediocre, e di conseguenza non si accorgevano della sconfitta.
Uno di loro, a dire il vero, si spezzò la gamba quando, nell’uscire, inciampò in un poema epico che la macchina aveva appena terminato, un’opera immortale che iniziava con i versi:
«L’armi canto, e de’ robot al valore,
Ch’abbandonaro — pel voler dei Fata,
E per l’odio immortal del lor signore
Homo, al Superbo — vanti e discacciati
Onde abitar della Galassia al core,
Di Terra i prisebi lati ov’eran nati…»
I veri poeti, invece, cadevano come mosche, decimati dal bardo elettronico di Trurl, benché questi non li toccasse neppure con un dito. Dapprima un vecchio poeta elegiaco, poi due modernisti si suicidarono, lanciandosi da una rupe che purtroppo dava sulla strada che portava dalla casa di Trurl alla stazione ferroviaria.
I poeti organizzarono molte manifestazioni di protesta, fecero circolare volantini, chiedendo che alla macchina fosse ingiunto di smettere. Ma la cosa pareva importare soltanto a loro. In realtà, i direttori delle riviste erano favorevoli all’innovazione: il bardo elettronico di Trurl, scrivendo sotto varie migliaia di pseudonimi, aveva una poesia per tutte le occasioni, di qualsiasi lunghezza occorresse, e a un così alto livello qualitativo che i lettori, incapaci di attendere, si strappavano di mano la rivista.
Per strada si vedevano facce rapite, sorrisi divertiti e perplessi, e di tanto in tanto una timida lacrimuccia. Non c’era nessuno che non conoscesse le poesie del bardo elettronico, tutta l’aria echeggiava delle sue deliziose rime. E non era raro che i cittadini più sensibili, colpiti da una metafora o da un’assonanza particolarmente ammirevole, finissero addirittura per svenire. Ma quel colosso di ispirazione poetica aveva la risposta anche per simili evenienze e forniva subito il necessario numero di rondò ricostituenti.
Lo stesso Trurl andò incontro a molti guai a causa della sua invenzione. I classicisti, in genere persone attempate, erano pressoché innocui; si limitavano a gettare pietre contro le sue finestre e a sporcargli di una sostanza irriferibile le pareti della casa. Ma con i giovani poeti andava assai peggio. Uno, per esempio, robusto di braccia quanto la sua poesia lo era di immagini, picchiò Trurl fino a conciarlo in malo modo. E mentre il costruttore giaceva in un letto di ospedale, gli eventi peggioravano.
Non passava giorno che non ci fosse un suicidio o un funerale; l’ospedale venne circondato da picchetti di manifestanti; in lontananza si sentivano colpi di mitra invece dei manoscritti, un crescente numero di poeti infilava nella borsa un’arma automatica con cui eliminare il bardo elettronico. Ma i proiettili si limitavano a rimbalzare sulla sua placida superficie.
Uscito dall’ospedale, debole e disperato. Trurl infine decise, una notte, di smantellare l’Omero omeostatico da lui creato. Ma quando le si avvicinò, zoppicando leggermente, la macchina notò le tenaglie che aveva in mano e il luccichio deciso dei suoi occhi, e si lanciò in una così eloquente, appassionata perorazione, implorò clemenza in toni così toccanti, che il costruttore scoppiò in lacrime, gettò a terra gli attrezzi e ritornò di corsa nella propria stanza, facendosi strada a fatica tra le nuove opere di genio: un oceano di carta che ormai riempiva l’intero pavimento del magazzino.
Il mese seguente, Trurl ricevette la bolletta dell’elettricità consumata dalla macchina e per poco non cadde dalla sedia. Se solo avesse potuto consultare l’amico Klapaucius! Ma Klapaucius era scomparso — non si trovava da nessuna parte — e Trurl dovette fare tutto da sé. Una notte, approfittando del buio, spense la macchina, la smontò, la caricò su una nave, raggiunse un certo asteroide e laggiù la rimontò di nuovo, dandole una pila atomica come fonte della sua energia creativa.
Poi ritornò a casa, senza farsi scorgere da nessuno. Ma la storia di quella macchina era tutt’altro che finita. Il bardo elettronico, privato adesso della possibilità di pubblicare i suoi capolavori, cominciò a trasmetterli su tutte le gamme d’onda, suscitando nei viaggiatori e negli equipaggi delle navi di passaggio veri e propri stati di stupefazione poetica; gli animi più sensibili caddero addirittura in forti attacchi di estasi estetica.
Trovata la causa del disturbo, il Comando della Flotta Cosmica inviò a Trurl una richiesta ufficiale di immediata chiusura del suo apparato, che stava danneggiando seriamente la salute e il benessere di tutti i viaggiatori spaziali.
A quel punto, Trurl si diede alla macchia, così i militari sbarcarono sull’asteroide una squadra di tecnici incaricata di bloccare l’unità di uscita della macchina. Questa li sconfisse con un paio di ballate, però, e la missione dovette essere abbandonata. Come passo successivo, venne mandata una squadra di tecnici con le orecchie piene di cera d’api, ma la macchina ricorse alla pantomima.
Dopo questi fatti, si cominciò a parlare di una spedizione punitiva, che sganciando qualche bomba riuscisse a sottomettere il poeta elettronico. Ma proprio allora si fece avanti il Re di un sistema solare vicino, che comprò la macchina e se la portò via, asteroide compreso, per installarla nel proprio regno.
Ora Trurl poteva di nuovo farsi vedere in pubblico e respirare a pieni polmoni. In effetti, negli ultimi tempi erano esplose parecchie supernove in corrispondenza dell’orizzonte meridionale: fenomeno che nessuno aveva mai notato in precedenza, e si diceva che l’accaduto avesse a che fare con la poesia.
Secondo uno dei rapporti, anzi, quello stesso sovrano, mosso da qualche bizzarro capriccio, aveva ordinato ai suoi astroingegneri di collegare il bardo elettronico a una costellazione di supergiganti bianche, trasformando così ciascuno dei suoi versi in una stupenda eruzione solare. In questo modo, il Massimo Poeta dell’universo fu in grado di trasmettere le sue creazioni termonucleari a tutte le illimitate distese dello spazio-tempo, contemporaneamente. Così diceva quel rapporto; ma anche se fosse stato vero, quei fatti erano troppo lontani per preoccupare Trurl, che aveva giurato — su tutto quel che esisteva di sacro per qualcuna delle innumerevoli razze della Galassia — di mai, mai più fare un modello cibernetico della Musa.
LA SECONDA FATICA OVVERO ALLA CACCIA DI RE KROOL
1 grande successo della loro applicazione dell’Effetto Gargantius suscitò nei due costruttori un tale appetito per l’avventura da risolverli a partire immediatamente per plaghe sconosciute.
Purtroppo, non era così facile per loro accordarsi sulla meta: Trurl, amante dei climi tropicali, aveva messo l’occhio e il cuore su Scaldonia, la terra dei Fenicotteri di Fiamma, mentre Klapaucius — carattere più algido — era altrettanto deciso a visitare il Polo Gelido Intergalattico, un continente buio e disabitato che vagava alla deriva in un ammasso di stelle spente. I due stavano per separarsi definitivamente, quando a Trurl venne all’improvviso un’idea.
«Aspetta» disse. «Possiamo fare pubblicità ai nostri servizi professionali e poi scegliere l’offerta migliore». «Ridicolo!» sbuffò Klapaucius. «Come pensi di fare la pubblicità? Negli annunci economici? Sai quanto tempo occorre perché un giornale arrivi al pianeta più vicino? Prima che ti giunga un’offerta, sarai morto e seppellito!» Ma Trurl, con un sorriso di superiorità, gli rivelò il suo piano, e Klapaucius — a malincuore — dovette ammettere che non mancava certo d’ingegno: così, si misero all’opera. Radunato in fretta l’equipaggiamento occorrente, raccolsero le stelle locali e le spostarono in modo da ottenere una grande scritta, visibile a distanze incalcolabili.
Per la prima parola — poiché intendevano richiamare l’attenzione dei lettori cosmici — vennero usate soltanto giganti azzurre; per le altre parole bastò materiale stellare di rango inferiore. La scritta diceva:
DUE RINOMATI COSTRUTTORI CERCANO LAVORI ADEGUATI ALLA LORO ABILITA’ E — SOPRATTUTTO — BEN PAGATI, PREFERIBILMENTE ALLA CORTE DI PRINCIPI CON FORTE SEGUITO (CESTINANSI NON DOTATI DI REGNO PROPRIO). TERMINI DEL CONTRATTO DA DEFINIRE.
Non passò molto tempo che, una radiosa mattina, uno scafo meraviglioso si posò sulle aiuole dinanzi alla loro casa. Gli intarsi di madreperla di cui era quasi completamente coperto scintillavano al sole, aveva tre carrelli mirabilmente scolpiti e sei addizionali supporti d’oro pieno (inutili, perché non arrivavano a terra — ma i costruttori di quella nave, evidentemente, avevano tali e tante ricchezze da non sapere che cosa farsene).
Da una magnifica scaletta con fontane e getti d’acqua a entrambi i lati, scese una figura dal portamento maestoso e solenne, accompagnata da un seguito di sei macchine deambulanti: alcune la massaggiavano, altre la reggevano e la sventagliavano, mentre le più piccole volavano attorno all’augusta fronte e, con una pompettina, la spruzzavano di eau de Cologne.
L’impressionante ambasciatore portò ai due costruttori il saluto del suo signore e sovrano, Re Krool, che desiderava ingaggiarli.
«Di che genere di lavoro si tratta?» chiese Trurl, interessato.
«I particolari, gentili signori, li saprete a tempo debito» rispose l’ambasciatore. Indossava brache di filo d’oro, stivali foderati di visone, un cappello con parecchie file di dischetti d’oro e un giustacuore, di foggia molto strana: al posto delle tasche aveva alcune piccole mensole, piene di confetti alla menta e di fruttini di marzapane. Attorno a lui volava uno sciame di api meccaniche: quando si facevano troppo invadenti, le allontanava con un cenno della mano.
«Per ora» soggiunse «posso solo dire che Sua Sfrenatezza Krool è entusiasta della caccia, impavido vincitore di ogni sorta di fauna galattica. Invero la sua abilità è ormai giunta a così superbe altezze che i più feroci predatori conosciuti non costituiscono più una cattura degna di lui. E qui sta la nostra disgrazia, perché egli anela all’emozione, al pericolo, all’eccitazione, ed è per questo…»
«Naturale» lo interruppe Trurl. «Vuole che gli costruiamo una nuova specie di bestia, sufficientemente selvaggia e rapace da costituire una sfida per lui».
O degno costruttore» si complimentò l’ambasciatore del Re «sei davvero pronto d’ingegno! Allora, siete d’accordo tutt’e due?»
Klapaucius cominciò a rivolgergli domande più particolareggiate su taluni lati pratici. Ma dopo aver sentito parlare dell’abbagliante generosità del Re, e aver leggermente approfondito l’argomento, i due costruttori si affrettarono a raccogliere l’occorrente per il viaggio, vi aggiunsero alcuni libri, saltarono a bordo e vennero immediatamente sollevati — con un grande ruggito e con uno scoppio di fiamma che annerì le auree gambe della navicella — nella notte interstellare.
Durante il viaggio, l’ambasciatore informò i costruttori delle leggi e dei costumi del Regno di Krool, parlò loro della natura del monarca — schietta e aperta come una città rasa al suolo — dei suoi maschi divertimenti e di tante altre cose. Così, quando la nave finalmente atterrò, i nostri erano in grado di parlare come i nativi del luogo.
Per prima cosa vennero portati in una splendida villa collocata sulla montagna al di sopra del villaggio — quella che doveva essere la loro abitazione.
Poi, dopo un breve riposo, il Re mandò a prenderli: il mezzo di trasporto era una carrozza tirata da sei mostri che sputavano fiamme. Questi avevano museruole con schermi anti-fiamma e filtri anti-fumo, ali accorciate per impedire loro di volare, lunghe code piene di spine e sei zampe ciascuno, con artigli di ferro che scavavano grosse buche nella strada, dovunque passassero.
Non appena i mostri scorsero i costruttori, tutto il tiro prese a ringhiare ferocemente, eruttando fuoco e vapori sulfurei, e a tirare le briglie per avventarsi su di loro. I cocchieri con corazza di amianto e i cacciatori del Re, con tubi e pompe, dovettero lanciarsi sulle creature e sottometterle a mazzate di clave laser e maser, prima che Trurl e Klapaucius potessero salire in tutta sicurezza sulla lussuosa carrozza, cosa che fecero senza proferire commenti.
Il veicolo parti a rotta di collo, ovvero — per usare un’appropriata metafora — schizzò via come un diavolo scappato dall’inferno.
«Senti» disse Trurl, parlando all’orecchio di Klapaucius mentre la carrozza viaggiava (abbattendo tutto quel che trovava sul cammino e lasciandosi alle spalle una lunga scia di fumo sulfureo). «Ho l’impressione che questo Re non si accontenti di una bazzecola qualsiasi. Voglio dire, se al posto dei cavalli usa mostri di questo genere…»
Ma il flemmatico Klapaucius non fece commenti. Ora vedevano sfilare di fianco a loro, come in un lampo, le prime case della capitale — pareti di diamante, di zaffiro e d’argento — mentre i draghi tuonavano e soffiavano e i cocchieri imprecavano e gridavano. Alla fine si stagliò davanti a loro un colossale cancello a saracinesca; si sollevò; la carrozza svoltò nel cortile, con una virata così stretta che i fiori delle aiuole si accartocciarono e appassirono tutti, e infine si fermò davanti a un castello nero come la notte più cupa.
Accolti da suoni di tromba assordanti, sopraffatti dalla magnificenza degli scaloni, delle balaustre e particolarmente dei giganti di pietra che facevano la guardia all’ingresso, Trurl e Klapaucius entrarono nel grande castello, accompagnati da una scorta imponente.
Re Krool li aspettava in un’enorme sala a forma di teschio: una vasta caverna dal soffitto a cupola, tutta in argento bulinato.
Nel pavimento si apriva un foro buio — in corrispondenza del «foramen magnum» del teschio — e dietro di quello s’ergeva il trono, su cui due fasci di luce s’incrociavano come spade. Venivano da due alte finestre collocate nelle orbite del teschio: i loro vetri avevano esattamente la sfumatura di colore occorrente per dare a tutto quel che stava nella sala un aspetto ostile e infernale.
Ora i costruttori poterono vedere lo stesso Krool: troppo impaziente per sedere sul trono ad attendere, il monarca camminava avanti e indietro, da una parete all’altra, e i suoi passi echeggiavano come cannonate, sul pavimento d’argento della cadaverica caverna. Inoltre, nel parlare, il sovrano sottolineava le parole con ampi gesti della mano, così bruschi e veloci da far fischiare l’aria.
«Benvenuti, costruttori!» esclamò, squadrandoli di sguincio. «Come avete senza dubbio saputo da Lord Protozoro, Ministro della Caccia Reale, voglio che mi costruiate nuovi e speciali generi di prede. Ora, non m’interessa, vi avverto fin dall’inizio, una banale montagna d’acciaio su cento ruote… quello è lavoro per la mia artiglieria pesante campale, non per me.
«La mia preda dovrà essere forte e feroce, ma svelta e agile, e soprattutto astuta, piena di trucchi, in modo che io sia costretto a fare ricorso a tutte le mie arti di cacciatore per abbatterla. Dovrà essere una bestia molto intelligente, e sapere tutto quel che è possibile sapere sull’arte di coprire le proprie tracce, di ritornare sui propri passi, di nascondersi nell’ombra e di tendere agguati, perché è così che la voglio!»
«Perdonatemi, Maestà» disse Klapaucius, con un cauto inchino «ma se noi dovessimo eseguire troppo bene gli ordini di Vostra Altezza, non rischieremmo di far correre un grave pericolo alla vita e alla salute regali?»
Il Re scoppiò a ridere, con tale violenza che un paio di festoni di cristallo si staccarono da un lampadario e si infransero ai piedi dei tremebondi costruttori.
«Non abbiate paura di questo, nobili costruttori!» disse, con un sorriso truce. «Non siete i primi, e neppure gli ultimi, prevedo. Sappiate che sono un sovrano giusto, ma esigente. Troppe volte un assortimento di scioperati adulatori e ciurmadori ha tentato di ingannarmi, troppe volte, vi dico, quei poltroni si sono presentati come rinomati ingegneri venatori, al solo scopo di svuotarmi i forzieri e di riempirsi di gemme preziose le saccocce, lasciandomi, in cambio, solo qualche miserabile spaventapasseri che andava in pezzi al primo colpo.
«Mi è successo troppe volte perché non prendessi adeguate misure. Ormai da dodici anni, ogni costruttore che non riesce a soddisfare le mie richieste, che promette più di quanto non riesca a dare, riceve il suo premio, certo, ma viene poi gettato — premio e tutto — in quel pozzo profondo, a meno che non sia abbastanza sportivo da partecipare di persona alla caccia, ma nella parte della preda. Nel qual caso, signori, non uso altre armi che le nude mani…»
«E… e sono stati tanti, i deprecabili impostori di quel genere?» chiese Trurl, con un groppo alla gola.
«Tanti? Non saprei dire» rispose Re Krool. «So solo che finora nessuno è riuscito a soddisfarmi, e le grida di terrore che si lasciano sfuggire mentre cadono in fondo al pozzo durano meno di una volta… senza dubbio perché i loro resti si stanno già accumulando. Vi assicuro, però, miei signori, che c’è ancora abbastanza posto… anche per voi!»
A queste minacciose parole fece seguito un silenzio mortale; i due amici non poterono far altro che guardare in direzione del foro atro e minaccioso. Il Re riprese a passeggiare nervosamente: quando colpivano il pavimento, i suoi stivali risuonavano come magli in una camera ecoica. «Ma, con il permesso di Vostra Altezza… voglio dire, noi — noi non abbiamo ancora firmato nessun contratto…» balbettò Trurl. «Non potremmo avere un paio d’ore per considerare la situazione, per soppesare esattamente quello che Vostra Altezza ha avuto la condiscendenza di dirci, e poi, naturalmente, decidere se accettare la generosa offerta, o se invece non sia il caso di…»
«Ah!» rise il Re (e fu come il tuono tra due nubi temporalesche). «O se invece non sia il caso di tornarvene a casa? Temo proprio di no, miei signori! Nel momento in cui avete messo piede sull’Infernanda, avete accettato la mia offerta! Se ogni costruttore venuto qui potesse andarsene quando meglio preferisce, dovrei aspettare in eterno, prima di veder realizzati i miei desideri. No, dovrete rimanere e costruirmi una bestia che io possa cacciare. Avete dodici giorni, e ora potete andare. Nel frattempo, qualunque piacere da voi desiderato sarà vostro. Non avrete che da chiederlo ai servitori che vi ho assegnato; non vi sarà negato nulla! Ci vediamo tra dodici giorni, allora!»
«Con il permesso di Vostra Altezza, potete tenervi i piaceri, ma — be’, ci sarebbe possibile dare un’occhiata ai, ehm, trofei di caccia, che Vostra Altezza deve aver raccolto come risultato, se così vogliamo chiamarlo, degli sforzi dei nostri predecessori?»
«Ma certo!» disse il Re, in tono indulgente, e batté le mani con una tale forza che volarono le scintille, le quali poi danzarono da una parete d’argento all’altra. Il soffio d’aria scaturito da quelle palme poderose raffreddò ancor di più il desiderio di avventura dei nostri costruttori. Comparvero sei guardie vestite di bianco e d’oro, che accompagnarono i due amici lungo un corridoio sinuoso e contorto come le budella di un gigantesco serpente. Alla fine, con grande sollievo, sbucarono in un enorme giardino aperto. Laggiù, su prati particolarmente ben curati, c’erano i trofei di caccia di Re Krool.
Il più vicino era un colosso dai denti a sciabola, praticamente tranciato in due. nonostante la pesante armatura di maglia e di piastre che — nelle intenzioni dei suoi costruttori — avrebbe dovuto proteggergli il tronco: le gambe posteriori, lunghe in modo sproporzionato (evidentemente progettate per lunghi salti), giacevano sull’erba accanto alla coda, che terminava con una mitragliatrice dal caricatore vuoto per metà, chiaro segno che la creatura non aveva ceduto senza lottare. Ne era una prova ulteriore anche la striscia di stoffa gialla che ancora le pendeva dalla mascella spalancata, perché Trurl vi riconobbe il colore dei calzoni dei cacciatori del Re.
Accanto c’era una seconda mostruosità sconfitta: un drago con una moltitudine di piccole ali, tutte deformate e annerite dal fuoco; i suoi circuiti erano fuoriusciti da un grosso squarcio, allo stato fuso, e poi si erano congelati in una specie di miscela rame-isolante.
Più avanti ancora c’era una terza creatura, in piedi sulle sue gambe larghe come colonne. La brezza del pomeriggio soffiava gentilmente tra le sue lunghe zanne (nel senso che il resto del cranio era sparito).
C’erano rottami su ruota e rottami cingolati, alcuni con artigli, altri con artiglieria, tutti spaccati fino al loro nucleo magnetico, tartarughe-carrarmato con le torrette sfondate, millepiedi militari mutilati e altre stranezze, rotte e segnate dalla battaglia, alcune munite di cervelli ausiliari (bruciati), altre appollaiate su trampoli periscopici (piegati) e piccole macchine perfide e mordaci. Queste dovevano aver attaccato in grandi sciami, per poi raggrupparsi in una sfera irta di canne da fuoco e di baionette — una buona idea, ma non abbastanza per salvare se stesse e il loro creatore.
Trurl e Klapaucius camminarono a lungo in quel sentiero di distruzione, pallidi, muti e con l’aria di chi va a un funerale, non di chi si appresta a una vigorosa sessione di invenzione. Giunti al termine dell’orrendo museo dei trionfi di Re Krool, salirono sulla carrozza che li aspettava alla porta. A quel punto, il tiro di draghi che li riportò al loro alloggio parve loro assai meno terribile che all’andata.
Non appena furono soli nel loro soggiorno, lussuosamente arredato di verde e di rosso, davanti a una tavola piena di bevande effervescenti e di cibi raffinati, Trurl sbottò in una salva di imprecazioni e insultò Klapaucius per aver accettato tanto spensieratamente l’offerta del Ministro della Caccia Reale, così attirando la sfortuna sulla loro testa, mentre avrebbero fatto bene a rimanersene a casa a riposare sugli allori.
Klapaucius non disse nulla, attese pazientemente che a Trurl passasse la rabbia, e quando vide che si era calmato, si era lasciato scivolare su una ricca sdraio di madreperla e si era preso la faccia tra le mani, disse: «Bene, faremmo meglio a metterci al lavoro».
Queste parole furono miracolose, nel ridare vitalità a Trurl; i due costruttori cominciarono evidentemente a valutare le possibilità a loro disposizione, e per farlo attinsero alla loro conoscenza dei più profondi e cupi segreti dell’arcana arte della generazione cibernetica.
Per prima cosa stabilirono che la vittoria non poteva stare né nella corazza né nella forza del mostro che avrebbero costruito, ma soltanto nel suo programma, ossia, in altre parole, in qualche algoritmo di discendenza demoniaca.
«Deve essere una creatura completamente diabolica, un essere di malvagità assoluta!» esclamarono, e anche se fino a quel momento non avevano una chiara idea di che cosa fare e di come farlo, l’osservazione sollevò notevolmente il loro spirito.
Tale era il loro entusiasmo, quando si accinsero a disegnare la bestia, che lavorarono per tutta la notte, per tutto il giorno e per una seconda notte e per un secondo giorno prima di interrompersi per fare colazione. E mentre si passavano l’un l’altro le bottiglie di Leida, erano così sicuri del successo che si strizzarono l’occhio e si sorrisero — ma solo quando i servitori non erano presenti, perché sospettavano (giustamente, del resto) che fossero spie del Re.
Per lo stesso motivo, invece di parlare del loro lavoro, i due costruttori lodarono l’elettrolito speziato portato loro, in coppe del miglior cristallo molato, dai camerieri in livrea. Solo dopo il pasto, quando si recarono nella veranda che dava sul villaggio, le cui guglie e le cui cupole riflettevano gli ultimi raggi d’oro del sole al tramonto, solo allora Trurl si girò verso Klapaucius e gli disse:
«Non siamo ancora fuori dai pasticci; lo sai».
«Che cosa intendi dire?» domandò Klapaucius, con la voce ridotta a un sussurro.
«C’è ancora una difficoltà» spiegò Trurl. «Vedi, se il Re sconfiggerà la nostra bestia meccanica, senza dubbio ci farà gettare in quel pozzo, con l’accusa di non aver rispettato i suoi ordini. Se invece la bestia… capisci quello che intendo dire?»
«Se la bestia non fosse sconfitta?»
«No, se la bestia sconfiggesse lui, caro collega. Se succedesse questo, il successore del Re potrebbe non lasciarci andar via tanto facilmente».
«Pensi che potrebbero condannarci? Di regola, gli eredi al trono sono felici di vederlo vuoto».
«Certo, ma questo è il figlio, e l’essere puniti a causa della sua autentica devozione filiale oppure soltanto perché la corte si aspetta che lo faccia… be’, non comporterebbe molta differenza per noi».
«Questo lato della cosa non mi era venuto in mente» mormorò Klapaucius, con un cenno d’assenso. «Hai ragione, le prospettive non sono incoraggianti… Hai pensato a come uscire dal dilemma?»
«Be’, potremmo costruire una bestia multimortale» propose Trurl. «Immagina questa situazione: il Re la uccide e la bestia cade; poi si alza di nuovo, risorta. E il Re le dà di nuovo la caccia, la uccide una seconda volta, e così via, finché non si stanca».
«Non gli piacerà» disse Klapaucius, dopo aver riflettuto. «Inoltre, come costruiresti una simile bestia?»
«Oh, non so… Potremmo costruirla senza organi vitali. Il Re taglia la bestia in tanti pezzetti, ma i pezzetti si riuniscono tra loro».
«In che modo?»
«Usa un campo».
«Magnetico?»
«Se vuoi».
«E come lo azioniamo?»
«Un comando a distanza, per esempio» propose Trurl. «Troppo rischioso» disse Klapaucius. «Come avere la certezza che il Re non ci faccia chiudere in qualche segreta per tutta la durata della caccia? I nostri poveri predecessore non erano degli sprovveduti, e guarda come sono finiti. Molti di loro, ne sono certo, hanno pensato a un comando a distanza, ma sono andati incontro a un insuccesso. No, non possiamo pensare di mantenere le comunicazioni con la bestia durante la lotta».
«Perché non usare un satellite?» suggerì Trurl. «Potremmo installare dei comandi automatici…»
«Un satellite, addirittura!» sbuffò Klapaucius. «E come pensi di costruirlo, per non parlare di metterlo in orbita? Nella nostra professione, Trurl, i miracoli non esistono! Dovremo nascondere i comandi in qualche altro modo».
«Ma come nasconderli, se sorvegliano ogni nostra mossa? Ti sei accorto che i servitori del Re si intrufolano dappertutto, ficcano il naso in tutto quello che facciamo? Noi stessi non siamo in grado di allontanarci: figurati far uscire un macchinario così grosso. E’ impossibile!»
«Calma» disse Klapaucius, prudentemente, guardandosi attorno. «Forse non c’è davvero bisogno di simili marchingegni».
«Ma qualcosa deve pur dirigere la bestia, e se si tratta di un cervello elettronico installato al suo interno, il Re lo ridurrà in polpette prima di potergli dire addio».
I due costruttori tacquero. Era scesa la notte e le luci del villaggio, sotto di loro, cominciavano ad accendersi a una a una. All’improvviso, Trurl disse: «Ascolta, ho un’idea. Faremo soltanto finta di costruire una bestia, ma in realtà costruiremo una nave che ci permetta di fuggire. Le metteremo le orecchie, la coda, le zampe, in modo che nessuno sospetti la sua vera natura, e al decollo le getteremo via come zavorra. Che ne pensi di questa idea? Ce la caveremo senza danni e faremo una grossa pernacchia a Re Krool».
«E se il Re avesse messo un vero costruttore in mezzo ai nostri servi — cosa abbastanza probabile — finiremmo subito in quel pozzo. Inoltre, l’idea di scappare con la coda tra le gambe… no, non mi va proprio. Si tratta della sua vita o della nostra, Trurl. Inutile cercare di nasconderlo».
«Già, penso anch’io che tra le spie possa mischiarsi un costruttore» annuì Trurl, con un sospiro. «Allora, cosa possiamo fare, in nome della Grande Cometa? Che ne diresti di un fantasma fotoelettrico?»
«Intendi dire un miraggio? Far sì che il Re dia la caccia a un miraggio? Grazie, no! Dopo un’ora o due di caccia, piomberebbe qui e trasformerebbe noi in fantasmi!»
Calò di nuovo il silenzio. Alla fine Trurl disse: «L’unica via d’uscita, per come la vedo io, è far si che la bestia rapisca il Re, e poi…»
«Non c’è bisogno che tu aggiunga altro. Sì, non è affatto una cattiva idea… poi, come riscatto, potremmo chiedere… E non hai notato, vecchîo mio, come gli usignoli di questo pianeta siano più scuri che su Maryland Quarto?» concluse Klapaucius, poiché un paio di servitori erano venuti a portare lampadari d’argento sulla veranda.
«Però, c’è ancora un problema» continuò, quando furono di nuovo soli. «Supponiamo che la bestia faccia come hai detto. Come potremmo poi negoziare con il prigioniero, se noi stessi fossimo chiusi in cella?»
«Hai ragione» rispose Trurl.
«Dobbiamo trovare il modo di superare questo ostacolo. Il nostro compito principale, dunque, consisterà nel trovare l’algoritmo della bestia».
«Lo sanno perfino i bambini!» sbuffò Klapaucius. «Che cos’è una bestia, senza un algoritmo?»
Perciò si rimboccarono le maniche e cominciarono a fare esperimenti: per simulazione, ossia con procedimento matematico, e tutto sulla carta. E i modelli matematici di Re Krool e della bestia si combattevano così ferocemente, sul tavolo coperto di equazioni, che le matite dei costruttori continuavano a spezzarsi.
Inferocita, la bestia contorceva i suoi integrali doppi e tripli per rintuzzare i polinomi con cui il Re cercava di colpirla, scivolava in una serie infinita di termini indeterminati, poi si risollevava elevandosi a potenza, ma il Re la attaccava con una tale pioggia di derivazioni parziali e totali da azzerare tutti i suoi coefficienti di Fourier (si veda il Lemma di Riemann), e nella confusione che ne seguì i costruttori persero completamente di vista il Re e la bestia.
Così, fecero una sosta, si sgranchirono le gambe, bevvero qualche sorso dalla bottiglia di Leida, per rincuorarsi, e quando si rimisero al lavoro ricominciarono dall’inizio, scatenando, questa volta, il loro intero arsenale di matrici tensoriali e di insiemi canonici, e affrontarono il problema con tale fervore che si ebbe l’impressione che la carta si mettesse a fumare. Il Re si fece avanti con tutte le sue coordinate crudeli e i suoi cerchi viziosi, incappò in una buia foresta di radici e di logaritmi, dovette indietreggiare, poi lottò con la bestia in un campo di numeri irrazionali (F con deponente «i») e la colpi con tanta furia da farla scivolare indietro di due punti dopo la virgola e da staccarle una epsilon, ma la bestia scappò per un asintoto e si nascose in uno spazio delle fasi ortogonale ed n-dimensionale, subì uno sviluppo in serie e ne uscì sotto forma di fattori, che piombarono sul Re e lo abbatterono a terra.
Il Re, per nulla intimorito, indossò una corazza di anelli markoviani e di parametri irriducibili, portò a infinito il proprio incremento DELTA K e mollò alla bestia un tale colpo booleano che la spedì dall’altra parte dell’asse delle x e la fece uscire da parecchie parentesi… ma la bestia, pronta anche a questo, abbassò la testa… e la matita volò come impazzita per trasformate trascendenti e per autotrasformazioni, e quando alla fine la bestia riuscì ad abbattere il Re, i due costruttori balzarono in piedi, si misero a ballare sul tavolo e — intonando un’antica canzonaccia goliardica — fecero a pezzi tutti i loro appunti, con grande stupore delle spie appollaiate dietro i lampadari: inutilmente appollaiate, perché non conoscevano le finezze dell’alta matematica e di conseguenza non riuscivano a capire perché Trurl e Klapaucius continuassero a gridare: «Evviva!» e «Vittoria!»
Era ormai passata da tempo la mezzanotte. La bottiglia di Leida da cui i due costruttori avevano tratto, di tanto in tanto, qualche rinfresco durante il loro lavoro, venne portata via di soppiatto e finì al quartier generale della polizia segreta del Re. Laggiù il suo doppiofondo venne aperto per estrarne un minuscolo registratore a naso. Gli esperti lo accesero e ascoltarono ansiosamente la registrazione, ma l’alba li trovò disperati e ancora ben lontani dall’illuminazione. Per esempio, una voce diceva: «Allora? Il Re è al suo posto?»
«Perfetto!»
«Dove l’hai messo? Lassù? Benissimo. Adesso — fermo, occorre tenere uniti i piedi. Non i tuoi, idiota, quelli dei Re! A posto, adesso? Uno, due, tre, cerca la derivata! Fa’ in fretta! Che valore ottieni?»
«PI greco».
«E la bestia?»
«Sotto una radice. Ma, guarda, il Re è ancora in piedi!»
«Ancora in piedi, eh? Scomponi in fattori tutt’e due le parti, dividi per due, passa ai numeri immaginari… bene! Adesso cambia variabili e sottrai… Trurl, che diavolo stai combinando? La bestia, non il Re! Così! Perfetto! Adesso, trasforma, approssima e risolvi per X. Sei riuscito a trovare la radice?»
«L’ho trovata! Klapaucius, guarda il Re, adesso!»
Una pausa, poi un’esplosione di risate selvagge.
Quella mattina, mentre tutti gli esperti e gli alti ufficiali della polizia segreta scuotevano la testa, con le borse sotto gli occhi dopo una notte senza riposo, i costruttori chiesero quarzo, vanadio, acciaio, rame, platino, zirconi, disprosio, ittrio e tulio, ma anche cerio e germanio, e gran parte degli altri elementi che costituiscono l’universo mondo, oltre a una certa quantità di macchine e di tecnici qualificati, per non parlare di una squadra di spie… perché i costruttori si erano fatti così insolenti da scrivere sfacciatamente, sull’elenco in triplice copia del materiale richiesto: «Inoltre, vogliate gentilmente aggiungere un congruo numero di agenti segreti delle varie specializzazioni, da scegliere a discrezione e con l’approvazione delle Autorità Preposte».
L’indomani chiesero un rifornimento di segatura, un’ampia tenda scorrevole di velluto rosso montata su piantane, con un grappolo di campanelline di vetro in centro e una nappa a ciascuno dei quattro angoli. Il tutto, fino alla più piccola campanella, era descritto nel foglio con la massima precisione.
Il Re aggrottò la fronte, quando venne a conoscenza delle richieste, ma ordinò di soddisfarle alla lettera, perché aveva dato la sua parola di sovrano. I costruttori, di conseguenza, ottennero tutto quello che volevano.
E «tutto quello che volevano» divenne sempre più incomprensibile. Per esempio, negli archivi della polizia segreta, sotto il numero di protocollo 48999/11K/T, c’era la copia di una richiesta di tre manichini da sartoria e di sei uniformi da poliziotto, complete di fusciacca, pistola, chepì, piuma e manette, nonché di tutti i numeri disponibili della rivista «Il poliziotto patriottico», compresi gli annuari e i supplementi; nello spazio sotto la dicitura «Commenti» i costruttori si impegnavano a restituire il materiale entro ventiquattr’ore dalla consegna in perfette condizioni.
In un altro settore, ancor più segreto, degli archivi della polizia c’era la copia di una lettera in cui Klapaucius chiedeva l’immediata consegna di: 1) un manichino, formato naturale, rappresentante il Ministro delle Poste in alta uniforme; e 2) un piccolo calesse dipinto di verde, con a sinistra un lume a petrolio e sul retro una scritta in azzurro: RIFLETTI.
Il manichino e il calesse furono la goccia che fece traboccare il vaso per il Capo della Polizia, che dovette lasciare la città per il lungo periodo di riposo cui aveva diritto da anni. Tuttavia, nei successivi tre giorni, i costruttori chiesero soltanto una bottiglia di olio di ricino tinto di rosso, e fu tutto.
Da quel momento in poi, lavorarono nella cantina del palazzo, martellando e cantando ballate dei marinai spaziali; la notte, dalle finestre della cantina, scaturivano lampi bluastri che davano forme spaventose agli alberi dei giardini circostanti. Trurl e Klapaucius, con i loro numerosi aiutanti, indaffarati a lavorare con archi voltaici e scintille, di tanto in tanto alzavano lo sguardo verso le facce premute contro i vetri; i servitori, fingendo una curiosità oziosa, fotografavano ogni loro mossa.
Quella sera, quando i due costruttori, esausti, si decisero finalmente a trascinarsi fino al letto, le varie componenti dell’apparecchiatura cui stavano lavorando vennero rapidamente caricate su un dirigibile privo di targa e trasferite al quartier generale della polizia: laggiù vennero rimontate da diciotto dei migliori roboticisti del paese — che per l’occasione avevano prestato giuramento ed erano stati messi sul libro paga della polizia segreta.
Quando i diciotto ebbero terminato la ricostruzione, la «bestia» costruita da Trurl e Klapaucius risultò essere un grosso topo grigio di latta, che soffiava bolle di sapone e mollava da sotto la coda una striscia di polvere di gesso. Il topo prese a muoversi rapidamente avanti e indietro sul bancone in modo da scrivere, con il gesso: AHIME’, NON CI AMATE PIU’ COME UNA VOLTA. Mai, nel corso dell’intera storia del regno, fu necessario sostituire con tanta rapidità il Capo della Polizia.
Le uniformi, i manichini, la carrozza verde, perfino la segatura, tutto quello che — come promesso — era stato restituito dai costruttori venne esaminato attentamente al microscopio elettronico.
Ma a parte un microscopico foglietto infilato nella segatura e contenente la scritta SEMPLICE SEGATURA, non c’era niente di anomalo. Poi venne esaminata a livello subatomico qualche elemento della carrozza e delle uniformi… con analogo risultato negativo.
Alla fine giunse il giorno in cui il lavoro fu completo. La «bestia», che pareva un grosso veicolo, montato su parecchie centinaia di rotelline — poco più di un cassone con una porta, che faceva subito pensare a un enorme frigorifero — venne spinta faticosamente fino all’ingresso principale e il portellone fu aperto alla presenza di testimoni e di funzionari; Trurl e Klapaucius presero la tenda, quella con le nappe e i campanellini, e la portarono all’interno, proprio in mezzo al vano.
Poi i due costruttori entrarono a loro volta, chiusero la porta, rimasero all’interno per qualche minuto, infine uscirono e andarono a prelevare in cantina vari barili contenenti sostanze chimiche — ogni sorta di polveri finemente macinate: grigie, argentee, bianche, gialle, verdi — e le sparsero ai piedi della tenda, dentro la tenda, tutt’in giro.
Uscirono dal veicolo, fecero chiudere la porta da uno dei presenti, consultarono l’orologio e contarono tutt’e due fino a quattordici e mezzo… e in quel momento, con grande stupore dei presenti, perché il veicolo era fermo e al suo interno, con la porta chiusa, non poteva soffiare alcuna brezza (la chiusura era ermetica) si udirono tintinnare le campanelle di vetro. I due costruttori si strizzarono l’occhio e dissero in coro ai funzionari del Re: «Potete prenderla, adesso!»
Il resto della giornata lo passarono a fare bolle di sapone appoggiati alla ringhiera della veranda. Quella sera giunse Lord Protozoro, Ministro della Caccia Reale, accompagnato da una scorta, e li informò con cortesia, ma in tono fermo, che dovevano accompagnarlo immediatamente in un luogo stabilito. Disse loro che dovevano lasciare tutto ciò che possedevano, compresi i vestiti.
In cambio, Trurl e Klapaucius ricevettero degli stracci e vennero messi in catene. Le guardie e i funzionari di polizia presenti si stupirono del loro perfetto sangue freddo. Invece di chiedere giustizia o di tremare di paura, Trurl si mise a ridere, quando il fabbro gli inchiodò i ferri alle caviglie, e disse che gli facevano il solletico. E quando vennero gettati in un carcere cupo e spaventoso, i due costruttori si misero a cantare «Dondola piano, dolce software».
Intanto il possente Re Krool uscì dal villaggio, sul suo possente carro da caccia, circondato da tutta la sua corte e seguito da un lungo corteo di cavalieri e di macchine, che comprendeva non soltanto le tradizionali catapulte e i mortai, ma anche enormi cannoni laser e bazooka a raggi beta, nonché un proiettore di catrame capace di immobilizzare qualunque manufatto che camminasse, nuotasse, volasse o rotolasse.
La grande processione si fece strada fino alla riserva reale di caccia, e durante il tragitto si udirono molte battute, varie millanterie, parecchie grandi promesse, e nessuno si degnò di pensare ai due costruttori, salvo per dire che quei due fessacchiotti erano in un bel pasticcio, ora.
Ma quando gli squilli delle trombe d’argento annunciarono l’arrivo di Sua Maestà, dalla direzione opposta si vide comparire l’enorme veicolo-frigorifero. La porta dello strano contenitore si spalancò, e per un istante si scorse all’interno della nera facce quello che sembrava un cannone da campo. Poi ci fu un’esplosione, apparve una nuvola di fumo, e qualcosa uscì a razzo dal veicolo: una forma indefinita, come un tornado, con la generica consistenza di una tempesta di sabbia; si mosse così rapidamente, nell’aria, che nessuno riuscì a vederla bene.
Qualunque cosa fosse, volò per una trentina di metri e atterrò senza fare rumore; la tenda che la avvolgeva cadde a terra, le campanelline tintinnarono in modo strano, nel silenzio assoluto, e poi rimasero a terra come fragole calpestate.
Ora tutti poterono vedere chiaramente la bestia… anche se non era affatto nitida, sembrava un rilievo del terreno, alta, lunga e del colore del bosco, come un mucchio di foglie secche. I cacciatori del Re liberarono l’intera muta di segugi automatici (in prevalenza San Cybernardi e snelli Cyberman, con qualche occasionale Terrier ad alta frequenza); questi si lanciarono, ululando e schiumando rabbia, contro la bestia pronta a colpire.
Il mostro non sollevò la testa, non ruggì, non soffiò neppure fuoco. Si limitò a spalancare neghittosamente gli occhi e a ridurre in cenere, in un solo istante, metà del branco.
«Oho! Occhi laser, vero?» esclamò il Re. «Datemi la mia fida cotta di duralluminio, il mio brocchiere a prova di proiettili, l’alabarda e l’archibugio!» ordinò, e così vestito, scintillante come una supernova, montò sul suo impavido e fedele cyber-destriero e uscì allo scoperto. Si portò a ridosso della bestia e le sferrò un tale colpo di spada che l’aria crepitò e la testa del mostro cadde a terra.
Anche se i cortigiani applaudirono doverosamente il trionfo del Re, questi non trasse alcuna soddisfazione dal proprio successo; preso da una grande furia, giurò in cuor suo di escogitare nuove e particolari torture per i due miserabili che osavano farsi chiamare costruttori. La bestia, però, produsse un’altra testa, che scaturì dal troncone del collo, aprì i nuovi occhi e proiettò a tradimento sull’armatura del Re (che però era inattaccabile da ogni genere di radiazione elettromagnetica) un raggio cauterizzante.
«Be’, quei due non sono stati una completa perdita» commentò Re Krool, parlando tra sé. «Ma non basterà a salvarli».
Spronò nuovamente il cavallo verso il mostro.
Questa volta sferrò un colpo terribile, che sezionò la bestia da cima a fondo. Quella, però, non parve preoccuparsene molto: a dire il vero, anzi, gli usò addirittura la cortesia di mettersi in posizione sotto la spada e cadde con un fremito di soddisfazione. E, meraviglia! Il Re le diede un’altra occhiata e vide che era stata gemellata invece che sezionata! C’erano due immagini speculari, ciascuna più piccola dell’originale, più una terza: una bestia formato mignon che correva in mezzo alle altre due — la testa che Re Krool aveva tagliato per prima: ora aveva messo coda e zampe e faceva capriole in mezzo ai cespugli.
«E adesso?» si chiese il Re. «Sarò costretto a ridurlo a pezzetti grossi come topi o come vermiciattoli? Bel modo di andare a caccia!» e con grande ira si scagliò sulla bestia, strisciando a dritta e a manca. Presto, attorno ai suoi piedi, si poté scorgere un’infinità di piccole bestie, ma tutte, a un certo istante, corsero via, si congiunsero tra loro, e dinanzi al Re ricomparve la bestia originaria, perfetta, nuova e nell’atto di soffocare uno sbadiglio.
«Uhm» si disse il Re. «A quanto pare, ha lo stesso meccanismo di stabilizzazione che quel tale — come si chiamava? Ah, Pumpington — che quel tale Pumpington ha cercato di usare. Sì, ricordo di averlo punito io stesso per il suo trucco idiota… Be’, mi basterà tirar fuori i cannoni antimateria».
Ne afferrò uno da due metri, lo puntò e lo caricò personalmente, prese la mira, tirò il cordino del percussore e sparò contro la bestia un proiettile del tutto silenzioso e minacciosamente luminoso, che avrebbe dovuto polverizzarla una volta per tutte. Ma non successe nulla… ossia, non successe granché. La bestia assorbì il proiettile, si abbassò di qualche centimetro sulle zampe, poi estroflesse il braccio sinistro (bianchiccio, lungo e peloso), chiuse a pugno le altre dita e mostrò al Re il solo dito medio, sollevato.
«Il cannone più grosso!» sbraitò Re Krool, fingendo di non notare il gesto ingiurioso. E varie centinaia di contadini issarono fino a lui un vero gigante da più di venti metri, che il Re caricò e puntò. Stava per sparare… quando, tutt’a un tratto, la bestia fece un balzo.
Il Re sollevò la spada per difendersi, ma non vide più la bestia. Coloro che assistettero alla scena, riferirono poi di aver avuto un miraggio, perché, mentre volava nell’aria, la bestia subì una trasformazione rapida come un lampo: il suo massiccio corpaccio grigio si suddivise in tre uomini in uniforme, tre poliziotti, che ancor prima di toccare terra si stavano già preparando a svolgere il loro compito.
Il primo poliziotto, un maresciallo, prese di tasca le manette, mentre ancora piegava le gambe per toccare terra senza farsi male; il secondo si fermò, con una mano, il chepì dall’alto pennacchio, perché non volasse via, e con l’altra estrasse di tasca un mandato d’arresto; il terzo, che doveva essere solo un allievo poliziotto, prese una posizione orizzontale sotto i piedi degli altri due, per attutire la loro caduta… poi si alzò e si rassettò con cura l’uniforme.
Per qualche minuto., l’intero gruppo degli invitati alla caccia rimase come radicato nel punto dove si trovava, senza riuscire a muoversi, poi qualcuno lanciò un grido e tutti si gettarono all’inseguimento.
Montati sui loro cyber-destrieri sbuffanti, i cortigiani avevano praticamente raggiunto i rapitori reali, e le spade e le sciabole uscivano dal fodero e già si alzavano a colpire, ma il terzo poliziotto si piegò fino a terra, si schiacciò l’ombelico e immediatamente le sue braccia divennero due stanghe, le gambe girarono su se stesse e divennero due ruote, mentre la schiena formava il sedile di un calessino da corsa.
Gli altri due poliziotti vi si accomodarono e cominciarono a schioccare la frusta per incitare il Re — che adesso era legato alle due stanghe — a correre più in fretta.
Il Re non poté che fare come gli ordinavano, e ruppe in un galoppo folle, agitando freneticamente le braccia per ripararsi dai colpi che calavano sulla sua regale cervice; ma presto gli inseguitori riguadagnarono il terreno perduto: allora i poliziotti saltarono sulla schiena del Re e uno di loro scese tra le stanghe, sollevò il calessino e lo fece girare su se stesso, come se fosse una trottola. Alla trottola spuntarono le ali: il carro, come in preda a un turbine, si allontanò lungo la collina fino a sparire in una nube di polvere.
Gli accompagnatori del Re si divisero in parecchi gruppi e cominciarono a cercare disperatamente il sovrano, con i contatori Geiger e i cani da fiuto; più tardi arrivò anche un distaccamento speciale del regio esercito, con i lanciafiamme, e bruciò tutti i morti dei cimiteri vicini — ovviamente si trattava di un errore, nato dal tremito della mano che telegrafava l’ordine dal pallone di osservazione che sorvegliava la caccia.
Varie divisioni di polizia corsero qua e là, cercarono sul terreno, frugarono ogni cespuglio e ogni ciuffo d’erba, e vennero diligentemente prese immagini ai raggi X e campioni da laboratorio di ogni immaginabile reperto. Il destriero del Re ricevette ordine di presentarsi davanti a una speciale corte marziale nominata dal Procuratore Capo dello Stato.
Un’unità di paracadutisti con aspirapolvere portatili e setacci venne lanciata sulla reale riserva di caccia per esaminarne ogni particella di polvere, e infine venne dato ordine che chiunque indossasse una divisa da poliziotto fosse arrestato e trattenuto senza possibilità di rilascio dietro cauzione, cosa che, naturalmente, causò parecchie difficoltà: metà dei poliziotti arrestò l’altra metà — come si seppe poi. Al crepuscolo, cacciatori e soldati ritornarono al villaggio storditi e laceri, e dovettero annunciare la terribile notizia che non s’era trovata, da nessuna parte, alcuna traccia del Re.
Alla luce delle torce, in piena notte, i due costruttori, in catene, vennero portati di fronte al Grande Cancelliere e Custode del Sigillo Reale, che si rivolse loro nel seguente modo: «Poiché avete falsamente cospirato e perversamente complottato contro la Corona e la Vita del nostro Amato Sovrano e Nobilissimo Re Krool e conseguentemente a ciò avete osato levare su di lui una mano sacrilega e traditrice, ne avete vilmente procurato la dipartita, oltre ad avere assunto falsamente l’identità di più agenti di polizia, la qual cosa costituisce notevole aggravante dei vostri crimini, sarete squartati senza quartiere, impalati ed esposti sulla pubblica piazza, sbudellati, sepolti vivi, crocifissi e bruciati sul rogo, e infine le vostre ceneri saranno messe in orbita come avvertimento e memento perpetuo a chiunque osi albergare in sé tentazioni di regicidio, amen».
«Non potreste aspettare un attimo?» chiese Trurl. «Vedete, attendevamo una lettera…»
«Una lettera, ridicolo e abietto poltrone?»
Proprio allora le guardie si scostarono per lasciar passare il Ministro delle Poste… del resto, come potevano sbarrare con le loro alabarde l’ingresso a un simile dignitario? Il Ministro si presentò in alta uniforme; con tutte le medaglie che tintinnavano in modo impressionante, trasse una lettera da una cartelletta adorna di zaffiri e la consegnò al Cancelliere, dicendo: «Benché io sia solo un manichino, vengo da parte di Sua Maestà».
E così dicendo si disintegrò in una massa di finissima polvere.
Il Cancelliere non voleva credere ai propri occhi, ma riconobbe immediatamente il sigillo reale impresso sulla chiusura di ceralacca rossa; aprì la lettera e lesse che Sua Maestà era costretto a negoziare con il nemico, giacché i costruttori avevano impiegato mezzi algoritmici e algebrici per catturarlo, e adesso avrebbero elencato le loro richieste, che il Grande Cancelliere avrebbe fatto bene a soddisfare, se voleva riavere tutto intero il suo Possente Sovrano. E, come firma: «Krool qui pone la sua mano e il suo sigillo, mentre è tenuto prigioniero, in una caverna di ignota posizione, da una bestia pseudopoliziesca in triplice uniforme».
Si levò un gran clamore; tutti gridavano e chiedevano a gran voce cosa significasse, e quali fossero le richieste, ma Trurl si limitò a dire: «Le nostre catene, per favore».
Venne chiamato un fabbro, che si affrettò a liberarli. Poi Trurl soggiunse: «Siamo sporchi e affamati, abbiamo bisogno di un bagno, di un rasoio, di massaggi e rinfreschi: il tutto, naturalmente, della migliore qualità, con grande pompa, e con il dessert gradiremmo un balletto acquatico con fuochi artificiali!»
La corte, naturalmente, era sconvolta, ma dovette obbedire ai due costruttori, fino all’ultimo dettaglio. Solo all’alba la coppia dei Nostri fece ritorno dalla sua residenza: ciascuno dei due era elegantemente profumato e sedeva in una portantina trasportata da valletti (i loro ex informatori); poi, degnatisi di concedere udienza, si fecero posare a terra ed elencarono le loro richieste — non a memoria, però, ma leggendole in un libriccino che avevano già preparato in precedenza e nascosto dietro una tenda della loro stanza. Lessero i seguenti articoli:
Art. 1. Sarà fornita una nave, della miglior fattura e appartenente al miglior modello disponibile, per portare a casa i costruttori.
Art. 2. Su detta nave saranno caricati i seguenti beni: diamanti, quattro secchi; monete d’oro, quaranta secchi; platino, palladio e altro materiale di valore disponibile, otto secchi ciascuno. Inoltre, tutti i souvenir e gli oggetti curiosi — tra quelli ora presenti negli Appartamenti Reali — che i firmatari di questo elenco potranno giudicare adatti.
Art. 3. Fino al momento in cui detta nave non sarà pronta per la partenza, con ogni vite ben serrata e copigliata, non avrà il pieno carico e non sarà consegnata ai costruttori, completa di passatoia rossa, banda d’addio di ottanta elementi e coro di voci bianche, e finché non si saranno svolti gli opportuni festeggiamenti, con consegna di premi e decorazioni, con folla doverosamente osannante… fino a quel momento, nisba Re.
Art. 4. Un’espressione ufficiale di imperitura gratitudine verrà coniata su un’opportuna medaglia d’oro dedicata ai Sublimi e Radianti Costruttori Trurl e Klapaucius, Delizia e l’errore dell’universo; nella medaglia sarà inciso il completo resoconto della loro vittoria, firmato in calce da ogni Ministro del Regno. Detta medaglia sarà incastonata sulla canna del cannone preferito di Sua Maestà il Re: cannone che lo stesso Lord Protozoro, Ministro della Caccia Reale, porterà a bordo, da solo e senza alcun aiuto… il Protozoro, sia ben chiaro, che ha attirato con l’inganno sul pianeta i due Sublimi e Radianti Costruttori, con l’intento di procurare loro morte dolorosa e disonorevole.
Art. 5. Il suddetto Protozoro li accompagnerà nel corso del viaggio di ritorno, a loro tutela e protezione da ogni sorta di tradimento, inseguimento e simili. A bordo occuperà una gabbia di 90 per 90 per 120 cm e riceverà come assegnazione giornaliera di cibo un panzerotto ripieno di quella stessa segatura che i Sublimi e Radianti Costruttori ritennero di dover ordinare nel periodo in cui indulgevano alle follie del Re e che venne poi portata al quartier generale della polizia per mezzo di un dirigibile senza targa.
Art. 6 e ultimo. Il Re non dovrà implorare in ginocchio perdono dai Sublimi e Radianti Costruttori perché essi gli sono troppo superiori per badare a lui.
In fede, le parti hanno qui posto la loro firma e il loro sigillo in data tale giorno del tale mese del tale anno eccetera eccetera.
Firmato: Trurl e Klapaucius, costruttori.
Controfirmato: il Grande Cancelliere, il Grande Ciambellano, il Grande Capo della Polizia Segreta, il Grande Siniscalco, i Capi Squadrone e il Ministro dei Reali Dirigibili.
Ministri e dignitari stavano per scoppiare, ma che altro potevano fare? Non avevano scelta, e perciò ordinarono subito di allestire un’astronave.
Poi, però, i due costruttori fecero inopinatamente la loro comparsa al cantiere, dopo un tranquillo petit déjeuner, per controllare il lavoro, e non c’era niente che riuscisse a soddisfarli: un certo materiale, per esempio, non valeva nulla, un certo ingegnere era un perfetto idiota, e nella sala principale volevano una lanterna magica che girasse a una data velocità, montata su quattro aggeggiacoli pneumatici e con in cima un orologio a cuccurucù con movimento atomico… e se i locali non sapevano che cos’era un aggeggiacolo, peggio per loro, dato che il Re era certo ansioso di essere liberato, e (non appena ritornato in grado di farlo) avrebbe punito con severità chiunque avesse osato prolungare la sua prigionia. Questa osservazione fu causa di un generale quasi-svenimento, di una grande debolezza alle ginocchia e di un’epidemia di tremarella, ma il lavoro proseguì in fretta.
Infine la nave fu pronta e gli stivatori reali cominciarono ad accumulare il carico nella stiva: diamanti, sacchi di perle, una tale quantità d’oro che qualche moneta continuava sempre a ruzzolare fuori dal portello.
Intanto, la polizia stava segretamente passando al pettine l’intero paese, con grande divertimento di Trurl e Klapaucius, i quali non avevano difficoltà a spiegare a un pubblico intimidito ma incantato come fosse successa ogni cosa, come avessero scartato un’idea dopo l’altra finché non si erano imbattuti in un genere di bestia del tutto diverso. Non sapendo dove mettere i comandi — ossia il cervello — della bestia senza correre rischi, i costruttori avevano fatto in modo che l’intera bestia fosse cervello, permettendole di pensare con le gambe, la coda o le mascelle (che, com’era ovvio, erano dotate unicamente di denti del giudizio).
Ma questo era stato solo l’inizio. Il vero problema aveva due aspetti: algoritmico e psicoanalitico. Innanzitutto avevano dovuto studiare qualcosa che fosse in grado di bloccare il Re, di coglierlo — per così dire — con le brache calate. A questo scopo, con una trasformata non lineare, avevano creato all’interno della bestia un sottoinsieme poliziesco, perché tutti sanno che resistere o interferire con un agente di polizia intento a effettuare un arresto «lege artis» è un reato cosmico, qualcosa di assolutamente inconcepibile. Questo per ciò che riguardava la psicologia… a parte il fatto che il Ministro delle Poste era stato scelto per lo stesso motivo: un dipendente di rango inferiore, probabilmente, non sarebbe riuscito a passare in mezzo alle guardie, la lettera non sarebbe stata recapitata e i costruttori avrebbero rischiato di perdere la testa, alla lettera.
Inoltre, il manichino-Ministro aveva con sé una somma sufficiente a corrompere le guardie, se fosse stato necessario: ogni possibilità era stata prevista e neutralizzata.
Invece, per quanto riguardava gli algoritmi: avevano dovuto semplicemente trovare nello spazio delle bestie il giusto insieme, chiuso, finito e obbediente a numerose leggi associative e distributive; poi, inserire due o tre costanti — custodi (della legge), qualche grafico grillato, equazioni squadratiche e criminalità ondulatoria. Il tutto era partito di li, una volta attivato dalla trovata di scrivere un documento programmatico (dietro la tenda dalle campanelle) con l’inchiostro all’olio di ricino, che lo rendeva sufficientemente indigesto da poter funzionare come generatore di programmi burocratici. A questo punto si potrebbe anche menzionare che i due costruttori pubblicarono, in seguito, su una primaria rivista scientifica, un articolo intitolato «Le metafunzioni beta-iterative nel caso speciale di una trasformazione pseudo-pluripoliziesca in uno Spazio Armonico Oscillante composto di campanelline di vetro, un calessino verde e una lampada a petrolio per distrarre l’attenzione, e loro risoluzione mediante incarcerazione-concatenazione da parte di una bestia», che venne riassunto dai quotidiani come «Lo stato poliziesco tenta di rialzare la testa». Naturalmente, nessuno dei protagonisti — ministri, dignitari e cacciatori — era in grado di capire una sola riga dell’articolo, ma la cosa non aveva molta importanza. Quanto ai devoti sudditi di Re Krool, non sapevano se odiare e disprezzare i due costruttori o se invece guardarli con reverenza e ammirazione.
Quando ogni cosa fu pronta per la partenza, Trurl, come prescritto dall’accordo, si recò con un grande sacco negli appartamenti privati del Re e tranquillamente requisì tutti gli oggetti che gli destavano l’uzzolo. Infine, giunse il carro che doveva portare allo spazioporto i vincitori. Laggiù la folla li salutò con interminabili applausi, la banda li accolse con inni e marcette, un coro di bambini si esibì nei pezzi migliori del suo repertorio, e infine un’incantevole bambina di pochi anni, con indosso il costume locale, fece la riverenza e porse loro un mazzo di fiori impreziosito da nastri di seta e filo d’oro.
I funzionari più importanti, a turno, vennero a porgere ai due costruttori la loro imperitura gratitudine e augurarono loro un cordiale arrivederci, la banda tornò a suonare, qualche signora svenne dalla commozione, e sulla grande pista tornò a regnare un assoluto silenzio. Klapaucius, infatti, si era tolto di bocca un dente: non uno qualsiasi, ma un trasmettitore-ricevitore, un dente bicuspidato bidirezionale. Spostò una minuscola leva, e subito, all’orizzonte, comparve una nube di tempesta, che girò su se stessa sempre più velocemente e parve dilatarsi e crescere, finché non giunse nello spazio vuoto compreso tra la folla e la nave. Laggiù s’immobilizzò all’improvviso, scagliando polvere e pezzi di ghiaia in tutte le direzioni.
Tutti trassero il fiato e fecero un passo indietro: davanti a loro c’era la bestia, che — in atteggiamento superbamente barbaro e bestiale — batteva gli occhiacci laser e frustava l’aria con la sua coda di drago!
«Il Re, per favore» ordinò Klapaucius, ma la bestia rispose, parlando con voce perfettamente normale: «Neanche morta. Adesso tocca a me fare le richieste».
«Cosa? Sei impazzita? Tu devi solo obbedire, è scritto nella tua matrice!» gridò Klapaucius. Tutti li fissavano, attoniti.
«Matrice dei miei stivali! Ascolta, bello, io non sono una bestia qualsiasi: sono algoritmica, euristica, sadistica e non masochistica, completamente automatica e autocratica, il che vuol dire non-democratica, e ho un fottio di feedback e un sacco di scappatoie sempre sottomano. Perciò; basta con le scemenze, altrimenti ti metto ai ferri, ossia in gattabuia con il Re, nel calessino verde con il lumino, capito?»
«Te lo do io, il feedback!» gridava Klapaucius, rabbioso. Ma Trurl chiese alla bestia: «Che cosa vuoi, esattamente?» Poi scivolò dietro il compagno, in modo che la bestia non lo vedesse, e si tolse a sua volta un dente molto particolare.
«Be’, prima di tutto voglio sposare…»
Non seppero mai chi la bestia volesse sposare, perché Trurl spostò una minuscola leva e recitò in fretta: «Ambarabbà, ciccì, cuccù, input, output, non-ci-sei-più!»
Il sistema di campi elettromagnetici incredibilmente complesso che manteneva al loro posto gli atomi della bestia si sfasciò sotto l’effetto di quelle parole: la creatura artificiale batté le palpebre, rizzò le orecchie, inghiottì il vuoto, cercò di rimettersi insieme, ma prima ancora che riuscisse a digrignare i denti, si levò un soffio rovente di vento, si diffuse un intenso puzzo di ozono, e poi non rimase più niente da rimettere insieme, solo un monticello di ceneri e nel bel mezzo, immobile, il Re, sano e salvo, ma in grande necessità di un bagno e di un vestito pulito, e imbarazzatissimo fino alle lacrime per quel che gli era successo.
«Questo ti farà abbassare la cresta» commentò Trurl, e nessuno capì se si riferisse alla bestia o al Re. In entrambi i casi, comunque, l’algoritmo aveva sortito perfettamente il suo effetto.
«E adesso, signori» concluse Trurl «se voleste gentilmente accompagnare il Ministro della Caccia Reale fino alla sua gabbia, noi saremmo pronti a partire…»
LA TERZA FATICA OVVERO I DRAGHI DELLA PROBABILITA’
Trurl e Klapaucius erano stati allievi del grande Cerebron di Umptor, che per quarantasette anni, nella Scuola di Nullità Nientica Superiore, aveva insegnato Teoria Generale della Draconicità.
Tutti sanno che i draghi (lat. «dràco, — ònis», da cui «draconicità») non esistono. Tuttavia, se da un lato questa affermazione semplicistica può accontentare il profano, dall’altro non è certo sufficiente ad appagare una mente scientifica. La Scuola di Nullità Nientica Superiore, anzi, a dire il vero, non si era mai occupata di ciò che esisteva, e, difatti, l’esistenza, fenomeno banale e quotidiano, è stata dimostrata così ampiamente che non c’è bisogno di spendere altre parole su di essa nella presente sede.
Il brillante Cerebron, affrontando analiticamente il problema, aveva individuato tre diversi tipi di drago; il mitico, il chimerico e il puramente ipotetico. Tutt’e tre, si potrebbe dire, erano inesistenti, ma ciascuno di essi inesisteva in modo completamente diverso dagli altri.
Inoltre c’erano i draghi immaginari, e gli a-draghi, gli anti-draghi e i draghi con segno meno (colloquialmente chiamati dagli specialisti draghinò, draghinòn, draghimenni), e il più interessante di tutti era il dragomenno, perché dava origine a un noto paradosso dracologico: quando due draghimenni erano ipercontigui (operazione dell’algebra draconica che corrisponde alla normale moltiplicazione) il prodotto era zero virgola sei draghi, un vero rebus.
Tra gli esperti infuriava a questo proposito una vecchia polemica, perché metà di loro affermava che la bestia frazionaria iniziava dalla testa e terminava a quattro decimi dall’estremità della coda, mentre l’altra metà, naturalmente, sosteneva che iniziava dalla coda e risaliva verso la testa.
Ai loro tempi, Trurl e Klapaucius avevano dato un notevole contributo alla disciplina draconologica evidenziando gli errori di entrambe le posizioni. I Nostri erano stati i primi a introdurre in quest’area la teoria delle probabilità e, così facendo, avevano creato lo studio della draconicità statistica, nel quale si afferma che i draghi sono termodinamicamente impossibili soltanto in senso probabilistico, come gli elfi, le fate, gli gnomi, le streghe, i folletti e via discorrendo.
Risolvendo l’equazione generale dell’improbabilità, i due costruttori avevano ricavato i coefficienti dell’elficità, della follettizzazione, della cobolderia eccetera. E avevano scoperto che per avere la comparsa spontanea di un singolo drago medio occorreva aspettare sedici quintoquadrilioni di eptilioni di anni. In sostanza, l’intero problema sarebbe rimasto una curiosità matematica accademica se non si fosse messa di mezzo la famosa passione per gli esperimenti di Trurl, il quale decise di affrontare empiricamente il problema dell’inesistenza fenomenica dei draghi.
Per prima cosa, giacché si occupava dell’altamente improbabile, Trurl inventò un amplificatore di probabilità e cominciò a svolgere esperimenti nella propria cantina, passando poi nel Campo Dracogenico di Prova gestito e finanziato dall’Accademia.
Ancor oggi, molti di coloro che (purtroppo) non conoscono la Teoria Generale dell’improbabilità si chiedono perché Trurl abbia probabilizzato un drago e non un elfo o un orco. La risposta è semplicemente che i draghi, in primo luogo, hanno una probabilità superiore a quella degli elfi e degli orchi.
In verità, Trurl avrebbe potuto spingere ancora più avanti i suoi esperimenti di amplificazione, se il primo non fosse stato assai scoraggiante, in quanto il drago, mentre si materializzava, aveva cercato di mangiarselo. Fortunatamente, Klapaucius era vicino e aveva subito abbassato il livello di probabilità, cosicché il mostro era sparito.
Molti altri studiosi, in seguito, ripeterono l’esperimento su un fantasmatrone, ma non disponendo del «know-how» e del «Bang froid» necessari, una certa quantità di draghi si diede alla macchia, con conseguenti sgradevoli perturbazioni. Solo allora divenne chiaro che l’esistenza di cui godevano quelle orride bestie era assai diversa da quella dei normali oggetti di tutti i giorni, come gli armadi, i tavoli e le sedie, perché i draghi sono caratterizzati dalla loro probabilità anziché dalla loro attualità, anche se, naturalmente, tale probabilità diventa massima quando sono effettivamente in esistenza.
Supponiamo per esempio che qualcuno organizzi una caccia a un simile drago, lo circondi e, battendo i cespugli, gli si faccia sempre più vicino. Tuttavia, il cerchio di cacciatori, imbracciate le armi, il colpo in canna e il cane del fucile sollevato, al momento in cui si chiuderà, troverà solo un fazzoletto di terra bruciata e un odore inconfondibile: il drago, nel vedersi messo alle corde, è passato dallo spazio reale a quello configurazionale.
Trattandosi di una bestia brutale e del tutto ottusa, il drago esegue il passaggio in modo istintivo, naturalmente. Ora, di tanto in tanto, salterà fuori qualche persona arretrata e tarda di comprendonio che vi domanderà di mostrarle lo spazio configurazionale di cui parlate tanto, senza evidentemente rendersi conto che anche gli elettroni — della cui esistenza nessuna persona sana di mente si sognerebbe mai di dubitare — si muovono esclusivamente nello spazio delle configurazioni e che la loro comparsa e scomparsa dipendono solo da curve di probabilità. Anche se per altre persone — come gli sfortunati abitanti dei pianeti ad alta probabilità draconologica — era forse più difficile credere negli elettroni che nei draghi: gli elettroni, almeno presi singolarmente, non cercavano di inghiottirli in un boccone.
Un collega di Trurl, un certo Arboriziano Cyber, fu il primo a quantizzare i draghi, scoprendo la particella nota come dracotrone, la cui energia si misurava — ovviamente — in unità draconiche con un dracometro, e riuscì a determinare anche le coordinate della sua coda, cosa che rischiò di pagare con la vita. Tuttavia, che importanza potevano avere questi risultati scientifici per la gente comune, che soffriva acerbamente la barbarie dei draghi che scorrazzavano per la campagna, riempiendo l’aria di grida, di fiamme, di passi pesanti, che giungevano talvolta, in alcuni luoghi, a pretendere un tributo sotto forma di giovani vergini?
Che rilievo poteva avere, per i poveri villici, il fatto che i draghi di Trurl, indeterministici e di conseguenza euristici, si comportassero in modo esattamente conforme alla teoria — anche se contrario a ogni decenza — o che la sua teoria riuscisse a prevedere la forma della coda che demoliva le loro stalle e distruggeva le loro colture?
Non c’è da meravigliarsi, dunque, che il vasto pubblico, lungi dall’apprezzare il valore dell’invenzione di Trurl — di per sé davvero rivoluzionaria — fosse incavolatissimo con lui, come quando un gruppo di individui del tutto oscurantisti in questioni di scienza tese un agguato al famoso costruttore e gli diede un sacco di legnate.
Non che questo e simili episodi finissero per avere un effetto deterrente su di lui e sull’amico Klapaucius e li spingessero a rinunciare a ulteriori esperimenti: nel prosieguo del loro lavoro, i Nostri poterono scoprire che la durata dell’esistenza di un drago dipendeva soprattutto dal suo capriccio, oltre che dal suo grado di sazietà, e che l’unico metodo certo per annullarlo era quello di abbassarne la probabilità a zero o a valori ancor inferiori.
Tutte queste ricerche, naturalmente, richiesero molto tempo e molta energia; intanto, i draghi che erano fuggiti dominavano incontrastati e distruggevano una grande quantità di pianeti e di satelliti. E — quel che era peggio — si moltiplicavano.
Questo permise a Klapaucius di pubblicare un eccellente articolo intitolato: «Trasformate covarianti da drago a dragonessa, nel caso particolare di passaggio da stati proibiti dalle leggi fisiche a stati proibiti delle leggi penali».
L’articolo fece sensazione nel mondo scientifico, dove si parlava ancora della stupefacente bestia poli-poliziesca impiegata dagli intrepidi costruttori contro Re Krool per vendicare la morte di tanti colleghi.
Ma assai superiore fu la sensazione causata dalla notizia che un certo costruttore, noto come Basilisco il Gorgoniano, viaggiando per la Galassia, faceva evidentemente comparire i draghi con la sua sola presenza, e in luoghi dove non se n’era mai visto uno prima di allora.
Quando la situazione era disperata e la catastrofe pareva imminente, si presentava questo Basilisco, chiedeva di essere ricevuto dal sovrano di quella particolare regione, e — pattuita una parcella spropositata dopo parecchie ore di contrattazione — si incaricava di sterminare le bestie.
In genere l’ineffabile Basilisco riusciva a eliminarle, anche se nessuno sapeva bene come facesse, dato che lavorava da solo e in segreto.
Certo, la garanzia da lui offerta che l’eliminazione dei draghi — dracolisi — fosse definitiva era solo statistica; e un sovrano lo ripagò di uguale moneta, ossia con ducati che erano buoni soltanto in percentuale statistica. Da allora in poi, l’insolente Basilisco usò sempre l’acqua regia per controllare l’onestà metallica dei pagamenti regali.
Un pomeriggio soleggiato, Trurl e Klapaucius s’incontrarono e così si dissero: «Hai sentito di quel Basilisco?» chiese Trurl.
«Sì».
«Be’, che ne pensi?»
«Non mi piace».
«Neanche a me» convenne Trurl. «Come pensi che faccia?»
«Con un amplificatore».
«Un amplificatore di probabilità?»
«O quello, o campi oscillanti».
«O un generatore paramagnetodrachico».
«Un draculatore, dici?»
«Sì».
«Ah».
«Ma allora» protestò Trurl «sarebbe da criminali! Significherebbe che porta i draghi con sé, ma in potenza, con una probabilità quasi nulla. Poi, dopo essere atterrato e aver studiato il terreno, intensifica il rischio, innalza il potenziale, rafforza la probabilità fino a farla diventare quasi una certezza. E a quel punto, naturalmente, abbiamo la virtualizzazione, la materializzazione e la piena manifestazione».
«Naturalmente» confermò Klapaucius. «Inoltre, come ormai sarà chiaro, cambia le lettere della matrice per farli più grandi».
«Sì, e la povera gente geme per il dolore, immersa nel sangue. Terribile!»
«Come credi che faccia?» chiese Klapaucius. «Credi che usi un retroectoplasmatrone antidraconico irreversibile, o che si limiti ad abbassare la probabilità e che poi se la squagli con la cassa?»
«Difficile dirlo. Ma se si limitasse a improbabilizzare, il crimine sarebbe ancor più grande, perché prima o poi le fluttuazioni accidentali daranno origine a un’iso-oscillazione draconica… e la cosa ricomincerà da capo».
«Anche se, prima di allora, lui e il denaro saranno già lontani» osservò Klapaucius.
«Non dovremmo denunciarlo alle autorità?»
«Non ancora. Può darsi che non faccia come abbiamo detto, dopotutto. Non abbiamo una vera prova. Le fluttuazioni statistiche si possono produrre anche senza un amplificatore. Una volta, come tu sai, non c’erano né amplificatori né fantasmatroni, ma i draghi comparivano lo stesso. Su una base puramente casuale».
«Certo…» rispose Trurl. «Ma quelli compaiono immediatamente dopo il suo arrivo sul pianeta!»
«Lo so. Eppure, denunciare un collega costruttore… sono cose che non si fanno. Però potremmo prendere noi qualche contromisura».
«Potremmo».
«Lieto che tu sia d’accordo con me. Ma come fare, esattamente?»
A questo punto i due famosi dracologi entrarono in una discussione così tecnica che chiunque si fosse trovato ad ascoltarla non vi avrebbe trovato né capo né coda. C’erano parole misteriose come «ortodragonalità discontinua», «grande insieme draconico», «fafnerizzazione binomiale ad alta frequenza», «distribuzione sauriana anomala», «draghi discreti», «draghi indiscreti», «controllo drasticodraco-stocastico», «semplice dominanza grendeliana», «interazione debole tra drago e diffrazione», «riluttanza aberrazionale», «figmentazione informazionale» e così via.
Il risultato di tutta questa penetrante analisi fu la terza fatica, per la quale i protagonisti si prepararono con grande cura, senza dimenticare di caricare nella stiva una grande quantità di strumenti complessi.
In particolare, portarono con sé un dispersore-confusore e un cannone speciale che sparava teste negative.
Dopo essere atterrati prima a Eenica e poi a Meenica e infine a Mynamoaca, compresero che era impossibile esaminare l’intera area contaminata e che era meglio dividersi in due.
Il modo migliore di farlo, naturalmente, consisteva nel separarsi; così, dopo un breve consiglio di guerra, ciascuno partì per conto proprio. Klapaucius lavorò per qualche tempo su Prestopondora, per l’Imperatore Maximilione, che era pronto a dargli la mano della figlia se fosse riuscito a liberarlo da quelle bestie vili e ribalde. Laggiù, infatti, i draghi di probabilità superiore s’incontravano dappertutto, perfino nelle strade della capitale, e il pianeta letteralmente pullulava di draghi virtuali.
Un drago virtuale, potrebbero dire gli ignoranti e i sempliciotti, «in realtà non c’è», non avendo una sostanza osservabile e non palesando alcuna intenzione di acquisirne; ma il calcolo di Cyber, Trurl, Klapaucius e Leech (per non parlare delle soluzioni della funzione d’onda di Dracódinger) indica chiaramente che un drago può saltare dallo spazio configurazionale a quello reale con la stessa facilità con cui salta da una rupe: perciò, in ogni stanza, cantina e soffitta, a patto che la probabilità fosse abbastanza alta, potevate imbattervi in un drago fisico, o addirittura in uno metafisico, ossia un metadragone.
Invece di dare la caccia alle bestie — sistema che avrebbe dato pochi se non zero risultati — Klapaucius, da teorico di razza, aggredì il problema con un approccio metodologico: nelle piazze e nei viali, nelle stalle e negli alberghi, installò smorzatori draconici a batteria, e di conseguenza, in brevissimo tempo, quelle bestie divennero estremamente rare.
Incassata la parcella, a cui l’imperatore volle aggiungere una pergamena onoraria e un calice con dedica, Klapaucius partì per ricongiungersi con l’amico e collega, e durante il viaggio notò che una persona, dalla superficie di un pianeta, gli faceva segni frenetici.
Pensando che fosse Trurl e che si trovasse in qualche guaio, atterrò. Ma erano gli abitanti di Truffolandia, sudditi di Re Piffus, che si sbracciavano per richiamare l’attenzione.
Fra i truffoli — gli abitanti del pianeta — Klapaucius si accorse che sopravvivevano ancora molte superstizioni e svariate credenze primitive. La loro religione, che rientrava fra le dracolatrie pneumatologiche (o adorazione dello spirito dei draghi), sosteneva che i draghi costituivano una punizione divina per i loro peccati e che s’impossessavano delle anime impure.
Compreso immediatamente che era inutile mettersi a discutere con i dracologi regali — il cui metodo consisteva soprattutto nel dondolare incensieri e nello spacciare sacre reliquie — Klapaucius cominciò a effettuare rilevazioni nella regione circostante. Queste gli rivelarono che il pianeta era infestato da una sola bestia, ma appartenente alla terribile famiglia degli Echinosauri superviperici, e di conseguenza Klapaucius offerse al Re i suoi servigi.
Il sovrano, però, gli diede risposte vaghe, prendendo l’argomento alquanto alla larga, evidentemente sotto l’influsso della ridicola dottrina che attribuiva l’origine dei draghi a eventi sovrannaturali. Più tardi, sfogliando i giornali locali, Klapaucius venne a sapere che il drago che terrorizzava il pianeta era ritenuto da alcuni un’unica entità, ma da altri una creatura multiplex, in grado di comparire in più località nello stesso tempo.
Queste notizie lo fecero riflettere, anche se non si trattava di una cosa tanto strana, dopotutto, considerato che la posizione spaziale di quegli odiosî fenomeni andava soggetta alle cosiddette dragonomalie: taluni esemplari, soprattutto se distratti, subivano un «effetto eco», che in realtà era solo un’accelerazione dello spin isotopico dei momenti quantici asincroni. Un po’ come si verifica quando una mano, uscendo dall’acqua con le dita in avanti, si presenta sotto forma di quattro oggetti separati e indipendenti: così i draghi, uscendo dalla tana del loro spazio configurazionale, a volte sembravano plurali, mentre in verità erano creature assolutamente singolari.
Verso la fine della sua seconda udienza con il Re, Klapaucius gli chiese se per caso, sul pianeta, si fosse visto Trurl, e procedette a dare una descrizione particolareggiata del collega. Con suo grande stupore venne a sapere che, sì, il costruttore era stato recentemente nel loro regno e aveva anche accettato di esorcizzare il mostro; anzi, si era fatto dare un acconto per le spese vive ed era poi partito in direzione dei vicini monti, là dove il mostro era stato avvistato con maggior frequenza.
Trurl era poi ritornato il giorno successivo, aveva preteso il saldo della parcella e aveva mostrato, come prova del suo successo, ventiquattro denti di drago. C’erano degli aspetti poco chiari, però, nella sua relazione, e si era deciso di bloccare il pagamento finché tutto non fosse stato chiarito. A quel punto, Trurl era montato in collera e si era messo a fare — ad alta voce — apprezzamenti su Sua Altezza Reale che sfioravano pericolosamente la «lèse majesté» se non il tradimento, poi se n’era andato via, sbattendo la porta e senza lasciare recapito.
Lo stesso giorno, il mostro era ricomparso, come se niente fosse successo, e — ahinoi — aveva saccheggiato e distrutto villaggi e fattorie, più feroce e crudele di prima.
Vari punti di questa storia suscitarono le perplessità di Klapaucius, che tuttavia, d’altro canto, trovò difficile credere che il buon Re mentisse. Così, fece in fretta lo zaino — mettendovi ogni sorta di strumenti sterminatori di draghi — e parti per le montagne dell’Est, dove le cime coperte di neve s’ergevano maestose.
Non dovette attendere molto, per incappare nelle prime orme di drago e cogliere un inconfondibile tanfo di zolfo. Ma proseguì senza timore, le armi pronte a colpire e l’occhio incollato al quadrante del suo contatore di draghi.
Per molto tempo la lancetta rimase sullo zero, ma a un certo punto cominciò a fare piccoli scatti nervosi, finché, lentamente, come in dissidio con se stessa, strisciò lentamente fino al numero 1. Ormai non ci potevano essere dubbi: l’Echinosauro era vicino.
Questo stupì Klapaucius, e non poco, perché gli era impossibile credere che il suo rinomato collega, teorico di vaglia, avesse commesso un errore di calcolo talmente grossolano da non riuscire a eliminare radicalmente il drago. Inoltre, era inconcepibile che Trurl se ne fosse tornato al palazzo reale e avesse preteso il pagamento per qualcosa che non aveva fatto.
Poco più tardi, Klapaucius si imbatté in un gruppo di abitanti del luogo.
Erano chiaramente terrorizzati: continuavano a guardarsi attorno e cercavano di rimanere uniti. Curvi sotto pesanti carichi tenuti in equilibrio sulle spalle e sulla testa, salivano sulla montagna, in fila indiana. Klapaucius raggiunse quella specie di processione e chiese al primo della fila che cosa stessero facendo.
«Signore!» rispose il poveretto, un piccolo funzionario governativo, che indossava una giubba piena di strappi, tenuta ferma in vita da una lunga sciarpa, «E’ il tributo che portiamo al drago».
«Tributo? Ah, certo» fece Klapaucius. «E da cosa è costituito, questo tributo?»
«Né più né meno di quello, signore, che il drago ci ha ordinato di portare: banconote, monete d’oro, pietre preziose, oggetti d’antiquariato, profumi d’importazione e altri generi di lusso».
Questo era davvero incredibile, pensò il costruttore, perché i draghi non avevano mai chiesto quel genere di tributi, soprattutto non i profumi — non c’era profumo che potesse mascherare il loro puzzo di zolfo — e anche se era tradizione che dormissero su mucchi di monete e di gemme preziose, non s’era mai visto un drago che accettasse la cartamoneta o gli assegni, al posto dell’oro.
«E non chiede di portargli giovani vergini, buon uomo?» volle sapere Klapaucius.
«Vergini? Nossignore, anche se una volta… A carrettate, gliele dovevamo portare. Ma questo prima che arrivasse il forestiero, quel signore che andava a curiosare dietro le rocce, con le sue scatole piene di strani aggeggi, tutto da solo…»
A quel punto il degno abitante del luogo s’interruppe e fissò a bocca aperta gli strumenti e le armi portate da Klapaucius, e in particolare il grosso contatore di draghi, che continuava a ticchettare piano, con la lancetta rossa che si muoveva a scatti sul quadrante bianco.
«Che mi prenda un colpo» continuò il Degno, abbassando il tono di voce «se non ne aveva uno uguale a quello di Vostra Signoria! Sì, con l’orologino e tutto il resto…»
«C’era una svendita» spiegò Klapaucius, per non destare i sospetti dell’uomo. Si rivolse agli altri: «Ma ditemi, brava gente, sapete che cosa sia successo a quello straniero?»
«Che gli è preso, chiedi? Non lo sappiamo, signore. Sarà stato la scorsa settimana, vero, Mastro Gyles? Una settimana fa, e non un giorno di più».
«Proprio così» intervenne il menzionato Mastro Gyles. «Hai proprio ragione, giusto. Una settimana fa, esattamente. Massimo due».
«Certo! Allora, è arrivato qui, Vostra Grazia, e ha diviso con noi il nostro umile pane, una persona educatissima, niente da dire, proprio un gentiluomo, e ci ha pagato bene, ha fatto tante domande, poi si è seduto per terra, ha tirato fuori un mucchio di aggeggi con sopra l’orologio, e si è messo a scrivere una serie di numeri su un libriccino che teneva in tasca, ha tirato fuori un come si chiama, un ternometro…»
«Termometro?»
«Sì, proprio un termometro! Ha detto che serviva per i draghi, e ha cominciato a cacciarlo dappertutto, e poi scriveva nel suo libro. Alla fine ha preso i suoi apparecchi, li ha messi nello zaino, ha detto addio a tutti e se n’è andato dove più gli pareva. Non l’abbiamo più visto, Vostro Onore, ma quella notte abbiamo sentito il tuono, signore, da molto lontano, fin dal Monte Mardigras… quello che sembra un falco, laggiù, signore; noi lo chiamiamo la Vetta di Piffus in onore del nostro amato sovrano, mentre il monte vicino, quello che sembra una persona che si piega per mostrarti il didietro, è il Poggio della Bambola, perché la leggenda…»
«Grazie, basta con le montagne, degno amico» lo interruppe Klapaucius. «Dicevi di aver sentito dei tuoni nella notte. Che cosa è successo, poi?»
«Poi? Proprio niente, signore. La capanna ha fatto un salto che sono perfino caduto dal letto, ma ci sono abituato, non ti spaventare, perché la bestia veniva sempre a battere contro la casa, certi colpi di coda da far volare via una persona… come quando il fratello di Mastro Gyles, qui, è finito nel buco della latrina perché la brutta bestia le è preso voglia di grattarsi la schiena contro lo spigolo del suo tetto…»
«Vieni al punto, buon uomo, vieni al punto!» esclamò Klapaucius. «Hai sentito il tuono, sei cascato dal letto, e poi?»
«E poi niente, come ho già detto, credevo di essere stato chiaro» spiegò il Degno. «Non ho sentito più niente, e se ci fosse stato qualcosa lo avrei sentito, te lo garantisco. Poi non abbiamo più sentito niente, né subito né più tardi, vero, Mastro Gyles?»
«Proprio. Hai detto proprio giusto, sì».
Con un inchino a mo’ di ringraziamento, Klapaucius si tirò indietro, e l’intera processione continuò a inerpicarsi per l’erta, china sotto il peso del tributo.
Il costruttore suppose che andassero a metterlo in qualche caverna indicata dalla bestia, ma non stette a chiedere i particolari; la testa gli girava già a sufficienza per aver ascoltato le spiegazioni del locale rappresentante del Re e di Mastro Gyles. Comunque, aveva sentito uno dei locali dire a un altro che il drago aveva scelto «un punto a metà strada tra noi e lui».
Klapaucius si rimise in marcia, orientandosi in base alle indicazioni del dragonometro che teneva al collo, appeso a una catenina. Quanto al contatore, la lancetta si era fermata su esattamente otto decimi di drago.
«Che diavolo sarà, un drago frazionario?» si chiese, durante il cammino, fra una sosta e l’altra. Di tanto in tanto, infatti, era costretto a fermarsi per riposare, perché il sole picchiava forte e l’aria era così rovente che anche le rocce finivano per abbagliare. Non c’era neppure un filo di vegetazione, neppure un arbusto, solo fango cotto dal sole, roccia e massi a perdita d’occhio.
Trascorse un’ora, il sole ormai si abbassava nel cielo, e Klapaucius camminava ancora in mezzo a distese di ciottoli, fra passi montani dirupati, stretti canaloni e pareti profonde, ai cui piedi regnavano il gelo e l’oscurità. La lancetta dell’indicatore salì lentamente a nove decimi, tremolò e si bloccò.
Klapaucius aveva posato lo zaino su una roccia e stava cercando la cintura anti-drago, quando l’indicatore parve impazzito; subito, il Nostro afferrò l’estintore di probabilità e si guardò attorno. Dato che in quel momento si trovava in cima a un’altura, poté vedere tutto il canalone sottostante, e laggiù scorse un movimento.
«Deve essere lei!» si disse (gli Echinosauri sono sempre femmine).
Era per questo che non aveva chiesto giovani vergini? Eppure, no, i locali avevano detto che in precedenza ne aveva chieste. Strano, molto strano. Ma l’importante, adesso, si disse Klapaucius, era prendere bene la mira, e tutto sarebbe andato nel modo migliore.
Per ogni evenienza, tuttavia, aprì di nuovo lo zaino e ne trasse una bomboletta di repellente per draghi e un nebulizzatore. Poi si sporse da dietro la roccia. Ai piedi della forra, lungo il greto di un ruscello asciutto, avanzava una dragonessa di colore grigio scuro e di taglia enorme, ma con i fianchi molto sottili e vizzi, come se non mangiasse da parecchio tempo.
In un attimo, nella mente di Klapaucius passò ogni genere di pensieri. Annullare la creatura invertendo il segno del suo coefficiente penta-pendragonale da positivo a negativo, portando così la probabilità della sua inesistenza a superare quella della sua esistenza? Sì, ma si trattava di una pratica rischiosa, perché la minima distrazione poteva portare a un disastro: parecchi sprovveduti che cercavano di produrre la scomparsa di un drago, avevano finito invece per ottenerne la comparsa — e si erano trovati davanti a due draghi — con insopportabile imbarazzo!
Inoltre, la deprobabilizzazione totale avrebbe impedito a chiunque di studiare l’Echinosauro. Klapaucius tentennava; già vedeva una prestigiosa pelle di drago campeggiare sulla sua parete, proprio sulla cappa del caminetto. Ma non era il momento di fare sogni a occhi aperti — anche se i dracozoologi sarebbero stati deliziati di ricevere un animale dai gusti così strani: un animale che pretendeva addirittura balocchi e profumi!
Alla fine, quando si mise in posizione, Klapaucius pensò al bell’articolo che avrebbe potuto scrivere, se fosse stato in grado di esibire un esemplare ben conservato. Così, posò l’annullatore, sollevò il tubo che lanciava teste negative e tirò il grilletto.
L’esplosione fu assordante. Klapaucius venne avvolto da una nube di fumo e per qualche istante perse di vista la bestia. Poi il fumo si diradò.
Tra le vecchie comari si raccontano un mucchio di assurde storie che riguardano i draghi. Per esempio, si dice che ci siano draghi con sette teste, ma è un’enorme assurdità. Un drago può avere solo una testa, per il semplice motivo che la presenza di due teste porta a dissensi e a dispute violente; i polihydroidi — come li chiamano gli scienziati — si sono estinti a causa dei dissidi intestini.
Testardi e ostinati per natura, i draghi non sopportano le opposizioni, e perciò due teste in un solo corpo portano sempre a una rapida morte: ogni testa, puramente per tigna nei riguardi dell’altra, si rifiuta di mangiare, trattiene malignamente il respiro, con le conseguenze che si possono immaginare.
Euforio Cloy aveva sfruttato questa osservazione per costruire il suo cannone testaceo. Nel corpo del drago viene lanciata una piccola testa ausiliaria, di materia elettronica. Immediatamente, tra le due teste si crea una differenza di opinioni, adialettica e inconciliabile, e il drago entra in condizione di stallo e non riesce più a muoversi. Spesso rimane immobile come una statua per un giorno, una settimana o addirittura un mese; a volte passa perfino un anno, prima che crolli a terra, esausto. A quel punto potete farne quello che volete.
Ma il drago colpito da Klapaucius reagì in modo alquanto anomalo, a dir poco. Certo, si inalberò sulle zampe posteriori con un urlo che fece franare un paio di colline, e sbatté la coda contro le rocce finché le scintille non volarono per tutto il canyon. Fatto questo, però, si grattò l’orecchio, si schiarì la gola e continuò tranquillamente per la propria strada, anche se trotterellava un po’ più in fretta di prima.
Incapace di credere ai propri occhi, Klapaucius corse lungo le rocce per aspettare il mostro all’imboccatura del torrente asciutto — ormai non era più questione di pubblicare un articolo, o magari due, sul «Giornale di Draconicità»; lì c’era il materiale per una bella monografia, elegantemente rilegata, con l’immagine del drago in copertina e la sua sul retro!
Alla prima curva, si nascose dietro un masso e impugnò l’automatica a improbabilità, Prese la mira e azionò i destabilizzatori possibil-balistici. Sentì l’impugnatura tremare nella mano, la canna si arrossò per il calore, il drago venne avvolto da un alone simile a quello che, quando circonda la luna, promette cattivo tempo… ma la bestia non scomparve!
Ancora una volta, Klapaucius scaricò contro la bestia la massima improbabilità; l’intensità della non-verosimiglianza fu talmente grande che una falena che volava nei pressi cominciò a suonare con le sue piccole ali il «Volo del calabrone», e qua e là, dietro i massi, si videro danzare le ombre delle streghe, delle arpie e delle baccanti, mentre un acciottolio di zoccoli annunciava che da qualche parte, nelle vicinanze, i centauri scalpitavano, evocati dalla terribile forza del proiettore di improbabilità.
Ma il drago si limitò a sedersi e a sbadigliare, a sollevare una zampa posteriore e a grattarsi l’orecchio come fanno i cani.
Klapaucius strinse ancor più forte la sua arma, arroventata dall’uso, e continuò disperatamente a premere il grilletto: non si era mai sentito così umiliato. Alcuni ciottoli sulla traiettoria si sollevarono per aria, mentre la polvere scossa dal drago, invece di cadere, rimaneva sospesa e prendeva la forma di una scritta: AGLI ORDINI, CAPO.
La luce del giorno si offuscò — il giorno era notte e viceversa, faceva freddo — anche all’inferno cominciò a nevicare, due rocce fecero una passeggiata e, camminando, si misero a spettegolare su tutti i conoscenti. Insomma, i miracoli non si contavano più, ma l’orrido mostro che sedeva a pochi metri da Klapaucius non aveva alcuna intenzione di scomparire.
Klapaucius lasciò la pistola, prese una granata anti-drago dalla tasca della giubba e — affidata la sua anima alla Matrice Universale delle Trasformazioni Transfinite — la scagliò con tutta la forza del suo braccio. Ci fu un sordo tapum e, insieme a uno spruzzo di rocce assortite, volò in aria anche la coda del mostro.
«Ehi!» gridò il drago, proprio come se fosse stato una persona, e corse verso Klapaucius. Questi, vista ormai prossima la fine, uscì dal nascondiglio e brandì selvaggiamente la sciabola antimateria, ma in quell’istante sentì un altro grido: «Fermo! Fermo! Non ammazzarmi!»
«Che cosa succede?» si domandò Klapaucius. «Un drago che parla? Devo essere impazzito».
E a voce alta domandò: «Chi ha parlato, il drago?»
«Ma che drago! Sono io!»
E quando la nube di polvere si diradò, Trurl uscì dalla pancia della bestia; non appena fu uscito, tirò una corda che la fece afflosciare sulle ginocchia, con un lungo, asmatico soffio.
«Trurl, che diavolo sta succedendo? Che cos’è questa mascherata? Dove hai trovato quel costume da drago? E il drago vero?» chiese Klapaucius, bombardando di domande l’amico.
Trurl smise di scrollarsi la polvere di dosso e tese le mani verso di lui.
«Un minuto, lasciami parlare!» esclamò. «Il drago l’ho ucciso, ma il Re non voleva pagare».
«E perché mai?»
«Perché è un micragnoso, probabilmente» spiegò Trurl. «Ha dato la colpa alla burocrazia, come c’era da aspettarsi: ha detto che occorreva un certificato di morte autenticato dal notaio, un’autopsia condotta da un medico legale, un’infinità di altri documenti da compilare in triplice copia, l’approvazione della Regia Commissione dei Pagamenti, e così via. Il Tesoriere Capo ha detto che non sapeva come effettuare il pagamento, perché non era un salario e non poteva essere addebitato sul conto delle manutenzioni.
«Sono andato avanti e indietro tra il Re, il Cassiere e la commissione, e nessuno ha voluto muovere un dito per me; alla fine, quando mi hanno suggerito di presentare un curriculum con fotografie e referenze, me ne sono andato… ma ormai era impossibile richiamare in vita il drago.
«Perciò, gli ho tolto la pelle, ho tagliato qualche ramo per tenerla tesa, un vecchio palo telefonico mi è stato sufficiente per unirli tutti. Poi, una volta tesa la pelle, mi sono bastate un po’ di corde e di carrucole per muovere il drago…»
«Tu, Trurl? Ricorrere a tattiche così umilianti? Non ci credo! Che cosa speri di ottenere? Se non ti hanno pagato la prima volta…»
«Non hai capito?» chiese Trurl, scuotendo la testa. «Travestito così, incasso il tributo! Ho già raccolto più di quanto non riuscirei a spendere».
«Oh, ma certo!» Finalmente, Klapaucius aveva capito tutto. Ma si affrettò ad aggiungere: «Però, non è giusto costringere quella povera gente a…»
«E chi la costringe?» ribatté Trurl. «Io mi sono limitato a girare qua e là per le montagne, e la sera a urlare un poco. Ma in realtà sono completamente esausto».
Così dicendo, si sedette accanto a Klapaucius. «Perché, per aver urlato?»
«Urlato? Che cosa hai capito? Ogni sera devo trascinare tutti quei sacchi d’oro, dalla caverna designata… fino a quella punta lassù!» Indicò una vetta lontana. «Ho costruito una piattaforma di decollo, è proprio su quel monte. Provaci tu, a trasportare su quelle mulattiere montane, dal tramonto all’alba, parecchi quintali di mercanzie, e capirai quello che intendevo dire! E quel drago non era una bestia ordinaria… la sola pelle peserà due tonnellate, e io devo trascinarla in giro tutto il giorno, ruggendo e pestando i piedi, poi devo trasportare pesi per tutta la notte. Non immagini quanto sia lieto di vederti. Non sarei riuscito ad andare avanti ancora per molto».
«Ma… il drago… quello falso, intendo dire… perché non è scomparso quando ho abbassato la probabilità fino al punto dei miracoli?» chiese Klapaucius.
Trurl sorrise.
«Non ho voluto correre rischi» spiegò. «Poteva arrivare qualche stupido cacciatore, o addirittura lo stesso Basilisco, e così, sotto la pelle di drago, ho inserito degli schermi a prova di probabilità. Ma vieni con me, ho ancora dei sacchi di platino… li ho lasciati per ultimi perché erano i più pesanti. E capita proprio a puntino, visto che ora puoi darmi una mano…»
LA QUARTA FATICA OVVERO COME TRURL COSTRUI’ UN FEMMEFATALATRONE PER SALVARE IL PRINCIPE PATAGONZIO DALLE PENE D’AMORE E COME SUCCESSIVAMENTE DOVETTE RICORRERE A UN CANNONEGGIAMENTO BAMBOCCESCO
Una volta, nel bel mezzo della notte, mentre Trurl dormiva saporitamente, qualcuno cominciò a battere con violenza contro la porta di casa sua, come se avesse intenzione di buttarla giù dai cardini.
Ancora intontito dal sonno, Trurl tirò il chiavistello e scorse, sullo sfondo delle stelle ormai impallidite, un’enorme astronave, che assomigliava a un immenso pan di zucchero o a una piramide volante.
Dal colosso, atterrato proprio sul giardinetto di fronte a casa sua, uscivano file di andromedari carichi di grossi pacchi, percorrevano una spaziosa rampa e venivano verso di lui. Poi, parecchi robot, vestiti col turbante e la toga e dipinti di nero, scaricavano i pacchi davanti alla sua porta.
Tra tutti, lavoravano così in fretta che Trurl, prima ancora di accorgersene, era già chiuso dietro una parete di pacchi sempre più alta. Però, tra le file di pacchi, rimase un passaggio, e da quel varco si avvicinò un cavaliere elettrico, di aspetto davvero memorabile: aveva occhi ingioiellati che brillavano come comete, antenne radar buttate all’indietro, alla spavalda, e un’elegante stola tempestata di diamanti.
L’appariscente personaggio si portò le dita al copricapo rinforzato e con voce stentorea, ma coltivata come il fruScio della seta, chiese: «Ho l’onore di parlare con sua signoria Trurl, il nobile Trurl, l’illustre costruttore Trurl?»
«Be’, sì… perché non entrate… non aspettavo visite… voglio dire, mi ero addormentato…» si scusò Trurl, tremendamente imbarazzato, e corse a mettersi un accappatoio, perché indossava soltanto una camicia da notte e neanche delle meno stazzonate. Il magnifico cavaliere elettrico, tuttavia, non parve notare alcunché di disdicevole nella tenuta di Trurl. Toccandosi di nuovo il cappello, che ronzava e vibrava sulla sua monolitica fronte, entrò con grazia in casa del costruttore. Questi si scusò, andò a fare qualche approssimativa abluzione dell’alba e poi si affrettò a ritornare in salotto.
Ormai, all’esterno, il cielo cominciava a rischiararsi, e presto i primi raggi di sole illuminarono i turbanti dei robot, che intonavano in coro l’antico e dolente canto del loro servaggio, «Banana Star Boat», fermi in triplice fila attorno alla piramidale astronave e alla casa. Trurl si sedette di fronte all’ospite, che batté un paio di volte le scintillanti palpebre e infine così parlò:
«Il pianeta da cui vengo a voi, Ser Costruttore, è oggi piombato nel più buio Medioevo. Ah, supplico Vostra Eccellenza di perdonare il nostro arrivo inopportuno, che tanto incomodo vi ha recato; ma dovete capire, a bordo non avevamo modo di sapere come — nella particolare posizione della degna sfera planetaria che la vostra casa si degna di occupare — la notte regnasse ancora suprema e contrastasse il sorgere dell’alba».
S’interruppe per schiarirsi la voce, con un rumore quasi musicale, simile a quello di un dito passato sull’orlo di un bicchiere di cristallo. Poi proseguì: «Sono stato inviato alla Vostra Sublime Persona dal mio signore e padrone, Sua Altezza Reale Protuberone Asteristico, Re e sovrano dei pianeti gemelli Afelio e Perielio, monarca ereditario di Anuria, imperatore di tutti i Monodamiti, Biprossici e Tripartigi, granduca d’Amadorinto, Gorgonzir ed Esquaccia, conte di Esculapia, Algorissimo e Flora del Fortran, Paladino Scudierato e Spadonato della Mazza Maggiore, barone di Bhm, Wrp e Clarafoncatello, oltre che reggente straordinario dell’esarcato di Ida, Pida, e Ad Infinida… sono stato da lui mandato, come dicevo, a invitare a suo munifico nome la Vostra Grazia Risplendente affinché si rechi in visita nel nostro regno, dove sarà il nostro lungamente atteso Salvatore della Corona, il solo che possa redimerci dal generale avvilimento causato dalla tre volte sventurata infatuazione di Sua Altezza Reale, l’erede al trono, il Principe Patagonzio».
«Ma in realtà non pensavo di…» lo interruppe Trurl. L’inviato reale, però, si limitò ad agitare la mano, per indicare che non aveva ancora finito, e, ripreso fiato, soggiunse: «In cambio del grazioso prestito del vostro condiscendente orecchio e del soccorso a noi fornito nel farci superare la nostra calamità nazionale, Sua Altezza Reale Protuberone qui vi promette, assicura e solennemente giura che cospargerà Vostra Costruttorezza di onori e ricchezze tali che la Vostra Celebre Fulgidità non riuscirebbe mai a consumarli tutti, neppure se dovesse continuare a scialacquarne fino all’ultimo dei suoi giorni. E adesso, come anticipo, o come si dice, come caparra, io vi nomino…»
Così parlando, il cavaliere si alzò, estrasse la spada e disse — e a ogni titolo da lui pronunciato appoggiò la spada, di piatto, prima sull’una e poi sull’altra spalla di Trurl — in tono ufficiale:
«…conte di Otte, Grotte e Finotte, margravio emerito di Trundle e Sklar, portatore a Otto Stelle del Gran Collare dell’Ordine Gramelosiniano, barone di Bondacalonda e di Cigitesimo, governatore di Mussi e Pitussi, visconte dell’Ordine dei Non Mi Piego, elemosiniere «in perpetuum» dei regni di Enica, Menica e Minemica, con tutti i relativi privilegi e diritti, compresa una salva di ventuno cannonate al risveglio mattutino e al rientro serale, uno squillo di tromba alla fine del pasto e la Croce al Merito Esponenziale, scolpita a mano, d’ebano, schisto e marzapane, autenticata e bollata. E come testimonianza del suo regale favore, il mio signore e feudatario vi manda i piccoli presenti che mi sono permesso di posare davanti alla vostra abitazione».
In effetti, i pacchi impedivano già di scorgere il cielo, e la stanza era buia anzichenò. Il cavaliere aveva terminato il suo discorso, anche se continuava a tenere sollevata la mano che aveva levato in aria, con gesto eloquente. Trurl approfittò dell’occasione per dire: «Sono molto obbligato nei confronti di Sua Altezza Reale Protuberone, ma gli affari di cuore, dovete capire, non sono esattamente la mia specialità. Anche se — aggiunse, a disagio sotto lo sguardo abbagliante del cavaliere — forse potreste spiegarmi la natura del problema…»
Il cavaliere gli rivolse un cenno d’assenso.
«Presto fatto, o Ser Costruttore!» disse. «L’erede al nostro trono si è innamorato di Amarandina Cybemella, unica figlia del sovrano del limitrofo stato di Ib. Ma i nostri regni sono divisi da un’antica inimicizia, e senza dubbio se il nostro Amato Sovrano, cedendo agli instancabili prieghi del Principe, dovesse chiedere a quell’Imperatore la mano di Amarandina, la risposta sarebbe un categorico rifiuto. In questo modo sono già trascorsi un anno e sei mesi, e il Principe della Corona deperisce davanti ai nostri occhi. Tutti i tentativi di riportarlo alla ragione sono falliti, e adesso la nostra unica speranza sta nella Vostra Eminentissima Iridescenza!»
Qui il cavaliere gli rivolse un profondo inchino. Trurl, notando come continuassero a scendere dalla nave file su file di soldati che si disponevano attorno alla casa, tossicchiò e disse con un filo di voce: «Be’, io non vedo davvero come potrei essere d’aiuto… anche se, naturalmente, se il Re lo desidera… in tal caso…»
«Meraviglioso!» esclamò il cavaliere, battendo rumorosamente le mani. Subito dodici corazzieri, neri come la notte, entrarono con grande clangore delle armature e portarono con loro Trurl fino alla nave, che salutò con ventuno scariche dei motori la sua salita a bordo, levò gli ormeggi e sparì nel cielo senza limiti.
Nel corso del viaggio, il cavaliere — che risultò essere Gran Siniscalco e Arcimagnate del Re — ragguagliò Trurl sui particolari dell’innamoramento principesco, nato sotto sì cattiva stella, e subito dopo il loro arrivo, non appena furono terminate le cerimonie di benvenuto e la parata lungo le strade della capitale in mezzo a una pioggia di stelle filanti, il costruttore si mise subito all’opera. Portò il proprio equipaggiamento nei magnifici giardini reali e in tre settimane trasformò il Tempio della Contemplazione — che sorgeva laggiù da tempi incommensurabili — in uno strano edificio pieno di metalli, cavi e schermi luminosi.
Si trattava, spiegò al Re, di un femmefatalatrone, dispositivo erotizzante stocastico, elastico e orgiastico, dotato di un grande repertorio di feedback: chiunque entrasse nell’apparecchiatura, provava istantaneamente ogni fascino, seduzione, lusinga, ammiccamento e malia esercitato nel, corso della storia dalle donne più fatali dell’universo, e il tutto in un colpo solo.
Il femmefatalatrone, spiegò Trurl, funzionava a una potenza di quaranta mega-amours, con un’efficienza massima teorica — coefficienti concupiscenziali costanti — del 96 per cento, mentre la lubricità libidica del sistema (misurata naturalmente in kilocupidi) restituiva fino a sei unità erotiche per ognuna di input.
Quel meraviglioso meccanismo, inoltre, disponeva di smorzatori d’amore reversibili, di amplificatori onnidirezionali di consumazione, filtri d’assorbimento, periferiche polpastrello-mimetiche, e circuiti di prima vista ad amplificazione forzata (dato che Trurl, a questo proposito, seguiva le idee del dottor Yenzico, creatore della famosa teoria della sensualità oculo-osculatoria).
Inoltre c’era ogni sorta di optional, come per esempio un titillatore HI-FI ad A.F., un tentatore alternante, oltre a una completa serie di libidinoni e debosciatori.
All’esterno del campo d’azione della macchina, nella cabina di cristallo, un’infinità di quadranti consentivano di seguire attentamente il corso del processo di disintossicazione amorosa. L’analisi statistica mostrava come il femmefatalatrone dava risultati permanenti e positivi in novantotto casi su cento di superfissazione amorosa indesiderata. Di conseguenza, le probabilità di salvare il Principe si potevano considerare eccellenti.
A quaranta venerabili, pari del regno, occorsero più di quattro ore per spingere il loro Principe attraverso i giardini fino al Tempio della Contemplazione, perché anche se erano risoluti a farvelo entrare, dovevano mostrare il dovuto rispetto per la sua regale persona e perché il Principe — non avendo alcun desiderio di disintossicarsi dalla sua fissazione — prendeva con grande vigore a calci e testate i suoi fedeli cortigiani.
Quando finalmente Sua Altezza Reale venne spinta — con il determinante aiuto di numerosi cuscini di piume — nella macchina e la botola venne chiusa dietro di lui, Trurl, pieno di cupi presentimenti, abbassò l’interruttore, e il computer cominciò a scandire con voce monotona il conto alla rovescia: «Cinque, quattro, tre, due, uno, zero… via!»
E subito i sincro-erotori, sussultando e gemendo, spararono poderose correnti antiseduzione che avevano il compito di scalzare gli affetti del Principe, così malamente orientati.
Dopo un’ora di quel trattamento, Trurl gettò l’occhio sugli indicatori: le lancette tremavano sotto lo spaventevole carico di concupiscenza, ma purtroppo non segnalavano alcun miglioramento. Il Nostro cominciò a nutrire seri dubbi sull’efficacia della terapia, ma ormai era troppo tardi per prendere provvedimenti: poteva solo incrociare le dita e attendere pazientemente.
Si limitò a controllare che le labbra meccaniche scendessero nelle giuste posizioni e con l’angolatura corretta, che gli amorosoldi afrodisiaci e le pandorfine satiriache non fossero in dose eccessiva, perché non voleva che il paziente subisse un transfert completo e finisse per innamorarsi della macchina invece che di Amarandina: voleva soltanto che perdesse del tutto l’amore presente.
Alla fine, la botola venne aperta nel massimo silenzio. Dalla penombra dell’interno, avvolto in una nube dei profumi più seducenti, uscì il Principe, pallidissimo, camminando su petali di rosa appassiti… e poi cadde a terra svenuto, tanto era forte in lui la passione.
I fedeli servitori corsero ad aiutarlo, e quando sollevarono le sue membra inerti, gli sentirono mormorare, con un roco bisbiglio, un’unica parola: «Amarandina».
Trurl imprecò a denti stretti, perché tutte le sue fatiche erano state inutili e il folle amore del Principe si era dimostrato più forte di tutti i mega-amours e i kilocupidi che il femmefatalatrone poteva mettere in campo.
Quando premette l’innamoramometro contro la fronte del Principe, ancora perso nel suo delirio, l’indicatore salì fino a centosette, poi il tubo di vetro si spaccò e il mercurio fuoriuscì — anch’esso fremente, come se subisse l’effetto di quelle rabbiose emozioni.
Il primo tentativo, dunque, era stato un completo fallimento.
Quando Trurl fece ritorno al suo alloggio, era più in collera che mai, e chiunque l’avesse spiato dal buco della serratura l’avrebbe visto camminare avanti e indietro per tutta la notte, in cerca di una soluzione. Intanto, dai giardini si levavano orribili rumori: un capomastro e due manovali che dovevano rifare l’intonaco di un piccolo arborium si erano introdotti per curiosità nel femmefatalatrone e per caso l’avevano messo in moto.
Fu necessario chiamare i vigili del fuoco, perché quei franchi muratori ne erano usciti così infiammati che si erano messi addirittura a fumare.
Successivamente, Trurl provò un erogenizzatore retroattivo con volutticoli rinforzati, ma anche quello — per condensare in una sola parola una lunga storia — fu un insuccesso. Il Principe non fu meno schiavo del fascino di Amarandina; anzi, lo fu più che mai.
Ancora una volta, Trurl continuò ad andare avanti e indietro nervosamente nella propria stanza, percorrendo miglia su miglia, e trascorse alla scrivania gran parte della notte successiva, impegnato a leggere manuali tecnici che poi, incollerito, scagliava contro il muro.
La mattina dopo si recò dal Gran Ciambellano e gli chiese un’udienza con il Re. Ammesso alla presenza di Sua Maestà, Trurl così gli disse: «Vostra Regale Altezza e Vostra Graziosa Maestà! I metodi di disamoramento che ho impiegato su vostro figlio sono i più potenti che si possano immaginare. Semplicemente, il Principe si rifiuta di disamorarsi, a costo della vita stessa. Vostra Maestà deve sapere come stanno le cose».
Il Re tacque, sopraffatto da questa rivelazione, ma Trurl proseguì: «Naturalmente, potrei ingannarlo, costruendo un’Amarandina artificiale sulla base delle caratteristiche a me note, ma presto o tardi il Principe lo scoprirebbe, non appena gli giungesse qualche notizia della vera Amarandina. Perciò, non vedo altra soluzione: il Principe dovrà sposare la figlia dell’Imperatore!»
«Bah» fece il Re «è proprio questo il problema, o straniero! L’Imperatore non darebbe mai il suo assenso a un simile matrimonio!»
«E se l’Imperatore, vinto e conquistato, dovesse chiedere la pace, implorare pietà?»
«Be’, in tal caso lo darebbe… ma vorresti farmi scatenare una grande guerra tra due grossi regni — cosa che, a dir poco, è sempre rischiosa — per conquistare a mio figlio la mano della figlia dell’Imperatore? No, è assolutamente inconcepibile!»
«E’ proprio la risposta che mi aspettavo dalla Vostra Altezza Reale» replicò Trurl, con calma. «Tuttavia, ci sono guerre di tanti tipi, e il tipo a cui sto pensando non comporta spargimento di sangue. Infatti, non attaccheremo con le armi i territori dell’Imperatore; non toglieremo la vita a nessuno dei suoi sudditi; anzi, faremo proprio il contrario».
«Che cosa dici? Che cosa hai in mente?» esclamò il sovrano.
Quando Trurl sussurrò all’orecchio del Re il suo piano segreto, la faccia preoccupata del monarca si rischiarò progressivamente. Alla fine gridò: «Va’, allora, e fa’ come dici, o buon forestiero, e che gli dèi siano con te!»
L’indomani stesso, nelle forge e nelle officine reali si diede inizio alla costruzione, in base alle direttive di Trurl, di un gran numero di grossi cannoni, anche se non era chiaro lo scopo a cui dovevano essere destinati.
I cannoni vennero dislocati tutt’intorno alla nazione nemica e camuffati come installazioni difensive, in modo che nessuno indovinasse i piani di Trurl. Intanto, il costruttore rimaneva giorno e notte nel laboratorio di produzione cibernetica, a controllare certe vasche segrete in cui ribollivano e filtravano misteriose sostanze chimiche. Se una spia si fosse recata da lui, non avrebbe scoperto nulla, tranne che di tanto in tanto, dietro le porte chiuse a doppia mandata, si levavano strani gemiti e miagolii; inoltre, avrebbe visto correre freneticamente, con in mano pile di pannoloni, tecnici e assistenti.
Il bombardamento ebbe inizio una settimana più tardi, a mezzanotte. I cannoni, caricati dagli artiglieri più esperti, vennero puntati verso i territori dell’Imperatore, e non spararono colpi mortali, ma colpi vitali, perché i proiettili di Trurl erano contenitori che calavano con il paracadute e contenevano un bambino di pochi giorni.
I bambini piovvero sul nemico, a miriadi: bambini che frignavano, piagnucolavano e strillavano a pieni polmoni, e che presto finirono per coprire ogni angolo del regno. Ce n’era un numero così elevato che l’aria tremava sotto i loro assordanti ma-ma, pa-pa, ca-ca e ua-ua.
L’inondazione di neonati non accennò a terminare; ben presto l’economia cominciò a tentennare sotto lo sforzo e il regno si trovò dinanzi al temuto spettro della depressione, ma dal cielo continuò a scendere una bamboccesca pioggia di infanti, frugolini, marmocchietti, bamboli, mammolini, pargoletti, fantolini e puttini, tutti rubicondi e sorridenti, tutti con il pannolone al vento.
L’Imperatore fu costretto a capitolare dinanzi a Re Protuberone, che promise di mettere fine alle ostilità se la Principessa Amarandina fosse andata in sposa a suo figlio… e l’Imperatore accettò subito.
Immediatamente i cannoni a bambini vennero fatti rientrare negli arsenali e, come ulteriore misura di sicurezza, Trurl si occupò personalmente di smontare il femmefatalatrone.
Più tardi, come testimone della sposa, con un vestito tempestato di smeraldi e in pugno il bastone di rito, il costruttore presiedette le cerimonie durante l’animatissimo banchetto di nozze. E quando anche quei festeggiamenti furono terminati, caricò sulla sua astronave i doni, i titoli, i diplomi, le citazioni al merito che Re e Imperatore avevano voluto donargli e finalmente, ormai sazio di glorie, fece ritorno a casa.
LA QUINTA FATICA OVVERO LE BURLE DI RE BALERION
Non con la crudeltà Re Balerion, sovrano di Cyberia, opprimeva il suo popolo, bensì con l’eccessiva voglia di divertirsi. E, in realtà, non erano lunghi banchetti o estenuanti orge notturne a rallegrare il cuore di Sua Maestà, ma trastulli ben più innocenti: il gioco della pulce, il mercante in fiera, tappo e rubamazzetto, nei quali amava indulgere fino all’alba, nonché cavalluccio, saltamartino, moscacieca e la settimana, con cui si dilettava durante il giorno, ma soprattutto gli piaceva giocare a nascondino.
Ogni volta che c’era un’importante decisione da prendere, un documento di stato da firmare, un ambasciatore interstellare da ricevere o un commodoro che chiedeva udienza, il Re si nascondeva, e i ministri dovevano trovarlo, oppure rassegnarsi a terribili punizioni.
Così si vedeva l’intera corte andare avanti e indietro per il palazzo, controllare i sotterranei e cercare sotto il ponte levatoio, ispezionare torri e bastioni, battere sulle pareti, mettere sottosopra il trono per guardarvi dentro, e spesso queste ricerche duravano molto a lungo.
Una volta, una guerra importantissima non venne dichiarata, e questo perché il Re, rivestito di prismi e di gocce di cristallo molato, era rimasto appeso per tre giorni al soffitto della sala principale — scambiato da tutti per un lampadario — facendo una grande fatica per non ridere dei ministri che correvano freneticamente sotto di lui e non sapevano che pesci pigliare.
Chiunque scoprisse il nascondiglio del Re riceveva il titolo di Scopritore Reale: a corte ce n’erano già settecento e trentasei. Ma per entrare seriamente nei favori regali occorreva insegnargli qualche nuovo gioco, uno che Re Balerion non conoscesse.
E non era certo facile, considerato che era straordinariamente ferrato sull’argomento. Conosceva tutti i giochi antichi, come gli astragali, il pari e caffo, la lippa, il tric-trac, e tutti quelli moderni, come il saltaelettrone e la mosca quantizzata, e amava ripetere che tutto era gioco, compresa la sua Corona, o, se lo si preferiva, che l’intero universo era burla.
Queste parole spensierate e sciocche erano un insulto per i venerabili membri del Consiglio della Corona. In particolare, il Primo Ministro., Sua Signoria Papagaster della grande famiglia dei Pentaperieli, ne era profondamente indignato, e aveva detto che per il Re non c’era niente di sacro e che Sua Maestà osava persino esporre al ridicolo la sua Sublime Persona.
Inoltre, quando il Re annunciava che la riunione del Consiglio era finita e che era arrivato il momento degli indovinelli, il terrore si impadroniva di tutti i presenti. Re Balerion aveva sempre avuto la passione degli enigmi; una volta, nel bel mezzo della cerimonia dell’incoronazione, aveva confuso il Grande Cancelliere con la domanda: «Che differenza c’è tra l’antimateria e la bomba anticarro?»
Non dovette passare molto tempo perché il Re comprendesse che i suoi cortigiani non dedicavano i giusti sforzi alla soluzione dei quesiti da lui posti. Rispondevano a casaccio, dicevano la prima cosa che gli frullasse per la mente, e questo lo faceva infuriare. Tuttavia, non appena Re Balerion cominciò a basare tutte le cariche e le promozioni sulle risposte ai suoi indovinelli, le cose migliorarono in modo stupefacente.
Decorazioni e licenziamenti facevano in fretta ad arrivare, e l’intera corte, volente o nolente, dovette partecipare onestamente al gioco del sovrano.
Purtroppo, molti dignitari tentavano di ingannare il Re, il quale, benché di natura fondamentalmente affabile, non tollerava gli imbrogli. Il Custode del Gran Sigillo venne mandato in esilio perché aveva consultato un bignamino — nascosto sotto la corazza alla Presenza Reale; non sarebbe stato scoperto se un suo nemico, un certo generale, non avesse fatto la spia al Re.
Lo stesso Papagaster aveva dovuto lasciare il suo alto incarico, perché non aveva saputo rispondere alla domanda: «Qual è il punto più buio dello spazio interplanetario?»
Dopo qualche tempo, il Consiglio della Corona finì per essere costituito dai migliori solutori di parole incrociate, rebus e crittografie del paese, e i ministri non muovevano più un passo senza avere con sé l’enciclopedia.
Presto i cortigiani divennero così abili da poter dare le risposte giuste prima ancora che il Re finisse di porre la domanda, cosa che tuttavia era meno sorprendente di quanto parrebbe a prima vista, dato che tutti erano divenuti accaniti lettori della Gazzetta Ufficiale, nella quale, invece di un noioso elenco di leggi e di decisioni amministrative, figuravano soltanto rompicapi, enigmi e giochi di società.
Con il passare del tempo, però, il Re perse progressivamente la voglia di scervellarsi sui giochi enigmistici, e gradualmente ritornò al suo primo e massimo amore: il nascondino. Un giorno, in una disposizione di spirito particolarmente giocosa, offrì un premio eccezionale a chi fosse stato in grado di trovargli il miglior nascondiglio del mondo. Il premio era nientemeno che il Diadema Reale della Dinastia dei Cyberanidi, adorno di gemme dal valore — nel vero senso della parola — inestimabile. Da secoli nessuno aveva più potuto posare lo sguardo su quella meraviglia, perché era chiusa in cassaforte nei Caveau Reali.
Ora, accadde che Trurl e Klapaucius capitassero su Cyberia nel corso di uno dei loro viaggi. La notizia del proclama del Re, che si era rapidamente sparsa per tutto il regno, arrivò anche all’orecchio dei Nostri; l’appresero da alcuni abitanti della città, nella locanda dove si erano fermati per la notte.
L’indomani mattina si affrettarono a recarsi a Palazzo, per annunciare che conoscevano un nascondiglio superiore a qualunque altro. Purtroppo, erano così tanti coloro che si erano recati laggiù nella speranza di guadagnarsi il premio, che era quasi impossibile oltrepassare la folla che attendeva davanti al cancello. Trurl e Klapaucius, perciò, ritornarono alla locanda e decisero di riprovare l’’ndomani.
Il secondo giorno, però, non si affidarono semplicemente alla buona sorte: prudenti come il fante di quadri, i due costruttori si erano preparati alla bisogna. A ogni guardia che sbarrava loro il passaggio e a ogni funzionario di corte che chiedeva loro dove andassero, Trurl passava silenziosamente qualche moneta e, se la cosa non funzionava, rincarava la dose: così facendo, in meno di cinque minuti furono davanti al trono di Sua Altezza Reale.
Il Re, naturalmente, era felice di sapere che due famosi sapienti avevano percorso tanta strada al solo scopo di fargli conoscere il nascondiglio perfetto. Occorse del tempo per spiegare a Re Balerion come funzionasse la cosa, ma la sua mente, abituata fin dall’infanzia a ogni trucco e indovinello, alla fine afferrò l’idea.
Pieno di ardore, il Re balzò a terra, assicurò ai due amici la sua gratitudine eterna, promise che avrebbero ricevuto sicuramente il premio… a patto che gli lasciassero provare subito il loro metodo segreto.
Klapaucius, su quel punto, aveva alcune riserve, e brontolò tra sé che prima si sarebbe dovuto firmare un regolare contratto, con pergamena, ceralacca, nastri; ma il Re insisteva tanto, supplicava con tale veemenza, giurando solennemente che il premio era già loro, che i costruttori finirono per cedere.
Trurl aprì la valigetta che aveva portato con sé, prelevò il marchingegno occorrente e lo mostrò al Re. L’invenzione, in realtà, non aveva niente a che vedere con il gioco del nascondino, ma vi si poteva applicare in modo mirabile. Si trattava di un trasferitore bilatero di personalità, completamente reversibile, com’è naturale. Servendosi di esso, due individui potevano, in un battibaleno, scambiarsi l’intera mente.
Lo strumento si portava sulla testa e assomigliava a un paio di corna; quando le due corna toccavano la fronte della persona con cui si voleva effettuare lo scambio, bastava una piccola pressione perché il congegno si attivasse ed emettesse due serie di impulsi uguali e contrari. Lia uno dei corni usciva la psiche del portatore ed entrava nel cervello dell’altro; contemporaneamente, dall’altro corno passava la mente della seconda persona. Istantaneamente si de-energizzava la memoria dell’uno e al suo posto si energizzava quella dell’altro. Trurl s’era infilato in testa l’apparecchio per mostrare al Re come si dovesse usare e stava spiegando l’intera procedura, quando il sovrano, portata l’augusta testa in prossimità dei corni, d’impulso diede un colpo di fronte su di essi, sufficiente ad accendere il meccanismo ed effettuare il cambiamento di personalità.
Tutto accadde così in fretta che Trurl, il quale non aveva mai provato su se stesso lo strumento, non si accorse di nulla. Né se ne accorse Klapaucius, che era fermo accanto alla coppia; semplicemente, gli parve un po’ strano che Trurl si bloccasse bruscamente a metà di una frase e fosse il Re a continuare dal punto in cui si era fermato, con parole come «i potenziali corrispondenti alla conversione non lineare dei quanti sub-mnemonici» e «il differenziale di flusso adiabatico dell’Id».
Il Re andò avanti per quasi un minuto, con la sua voce un po’ chioccia, prima che Klapaucius capisse che doveva essere successo qualcosa. Re Balerion, non appena si era trovato nel corpo di Trurl, aveva smesso di ascoltare la lezioncina e muoveva le dita delle mani e dei piedi per stare più comodo nella nuova forma, che adesso osservava con il massimo interesse.
Intanto Trurl, abbigliato con una lunga veste color porpora, agitava le braccia per spiegare l’inversione entropica dei sistemi mutuamente trasformati, quando si accorse pian piano che qualcosa lo impacciava nei movimenti; allora si guardò la mano e scoprì con stupore di impugnare uno scettro.
Stava per fare un commento, ma il Re scoppiò a ridere e corse via. Trurl fece per inseguirlo, ma inciampò nel manto regale e cadde a terra. Il movimento richiamò l’attenzione delle guardie del corpo, che si gettarono immediatamente su Klapaucius, convinte che avesse attaccato il Re. Prima che Trurl riuscisse a sollevare da terra la sua persona regale e a convincere le guardie che non correva pericoli, Re Balerion era già lontano, a divertirsi chissà dove, nel corpo di Trurl.
Trurl cercò di inseguirlo, ma i cortigiani non glielo permisero, e quando il costruttore protestò di non essere affatto il Re, che c’era stato un trasferimento di personalità, pensarono che l’esorbitante almanaccare enigmistico avesse definitivamente scombussolato la Ragione Reale, ed educatamente, ma non meno fermamente, lo chiusero nella regia camera da letto e mandarono a chiamare l’archiatra di corte, mentre il sovrano continuava a vociare e a picchiare sulla porta.
Intanto Klapaucius, che era stato allontanato da palazzo senza tanti complimenti, ritornò alla locanda, riflettendo — con una certa preoccupazione — sulle complicazioni che potevano nascere da un fatto come quello appena successo. «Senza dubbio» pensò «se mi fossi trovato nei panni di Trurl, la mia grande presenza di spirito avrebbe risolto immediatamente la situazione. Invece di fare una scena e di farneticare di trasferimenti telepatici, con il solo risultato di far sorgere sospetti sulla mia sanità mentale, avrei approfittato della mia presenza nel corpo del Re e ordinato alle guardie di prendere immediatamente in custodia Trurl, ossia Balerion, che adesso, invece, vaga libero per la città, chissà dove. Inoltre avrei ordinato all’altro costruttore di rimanere al mio fianco, come consigliere speciale. Ma quell’idiota… — (con queste parole si riferiva a Trurl) — …ha perso completamente la testa, e adesso dovrò fare appello a tutta la mia capacità tattica, perché questa faccenda rischia di finire male».
Cercò di ricordare tutto quel che sapeva del trasferitore di personalità, che non era certamente poco. Il massimo pericolo, secondo lui, era che Re Balerion, correndo spensieratamente di qua e di là, nel corpo di Trurl, inciampasse e colpisse con le corna qualche oggetto inanimato. In tal caso, la coscienza di Re Balerion si sarebbe immediatamente trasferita in quell’oggetto e, poiché le cose inanimate non possedevano coscienza, l’oggetto non avrebbe dato al trasferitore una coscienza da restituire, e di conseguenza il corpo di Trurl sarebbe caduto a terra privo di vita; quanto al Re, sarebbe rimasto intrappolato per l’eternità in una pietra, o in un lampione, o in una scarpa vecchia.
Inquieto, Klapaucius accelerò il passo, e non lontano dalla taverna sentì alcuni cittadini discutere animatamente tra loro. Interrogandoli, venne a sapere che il suo collega, Trurl, era uscito di corsa dal palazzo reale — come se il diavolo si fosse impadronito di lui — e che, scendendo per i lunghi, alti scalini che portavano alle banchine, era incespicato e si era rotto una gamba.
L’incidente l’aveva spinto a una strana frenesia; mentre giaceva a terra, si era messo a gridare di essere Re Balerion Medesimo, aveva ordinato di far accorrere l’archiatra reale, una barella con cuscini di piume, balsami ed essenze profumate; e, mentre la gente rideva per la sua follia, si era messo a strisciare sul lastricato, imprecando in modo spaventoso e stracciandosi le vesti, finché un misericordioso passante non aveva provato pietà e si era chinato ad aiutarlo. Allora il costruttore si era tolto il cappello, rivelando — c’erano dei testimoni disposti a ripeterlo sotto giuramento — le corna del diavolo.
Il racconto proseguiva dicendo che con quelle corna il costruttore aveva colpito in testa il buon samaritano, poi era caduto a terra, rigido ed esanime, e si era messo a gemere debolmente, mentre il buon samaritano era improvvisamente cambiato — come se uno spirito malvagio si fosse impadronito di lui — e danzando, saltellando, allontanando a spintoni chiunque fosse sulla sua strada, si era lanciato al galoppo per gli scalini che scendevano al porto.
Klapaucius si sentì svenire, quando venne a conoscenza di tutto questo, perché capì che Re Balerion, dopo aver danneggiato il corpo di Trurl (e dopo averlo usato per così poco tempo) l’aveva astutamente scambiato con quello di uno sconosciuto.
«A questo punto» si disse, inorridito «come trovare Re Balerion, nascosto in un corpo che io non conosco? Dove iniziare a cercarlo?»
Tentò di farsi rivelare dai presenti chi fosse il passante che con tanta nobiltà di spirito si era accostato allo pseudo-Trurl ferito, e anche quel che era successo ai due corni del costruttore. Del buon samaritano si sapeva soltanto che, a giudicare dai vestiti, doveva essere un forestiero: un marinaio, sceso da qualche nave giunta da lontani pianeti; quanto ai corni, nessuno sapeva che dire al costruttore.
Poi, per fortuna, un certo mendicante dalle gambe completamente arrugginite (era vedovo, e non aveva nessuno che gliele tenesse lucide e impermeabili), costretto dunque a muoversi su quattro rotelline fissate ai fianchi — cosa che, naturalmente, gli dava un ottimo punto di vista su tutto quel che traspariva a livello del suolo — riferì a Klapaucius che il degno marinaio aveva strappato le corna dalla testa del costruttore (mentre questi era prono sul terreno), con una tale rapidità che soltanto lui se n’era accorto.
Così, a quanto pareva, Re Balerion era di nuovo in possesso del trasferitore e poteva continuare la sua pericolosa attività di balzare da un corpo all’altro.
La notizia che adesso la sua mente occupava il corpo di un marinaio era particolarmente sgradevole.
«Tra tutti, proprio un marinaio doveva scegliere!» gemeva Klapaucius, tra sé. «Scaduto il suo permesso di sbarco, non trovandolo a bordo (e come potrebbe trovarsi sulla nave, non sapendo qual è?) il capitano denuncerà il fatto alle autorità portuali, che arresteranno il disertore, e Nostra Altezza si troverà in gattabuia! E se mai dovesse, per la disperazione, battere la testa contro il muro, senza preventivamente essersi tolto le corna… che il Cielo ci protegga!»
Le possibilità di rintracciare il marinaio che era Re Balerion erano poche o nessuna, ma Klapaucius si affrettò a raggiungere il porto. La fortuna, però, pareva essere dalla sua, perché subito scorse una ragguardevole folla e, con un certo presentimento di trovarsi sulla giusta traccia, si mescolò tra la gente e presto venne a sapere, da quel che sentì dire qua e là, che si era verificato quanto temeva.
Pochi minuti prima, un rispettabile comandante di nave, padrone di un’intera flottiglia di mercantili, aveva riconosciuto un suo marinaio, persona fidatissima ed estremamente morigerata; eppure, proprio in quel momento, il fidatissimo individuo era intento a insultare chi gli passava davanti; a coloro che gli consigliavano di smettere prima che arrivasse la polizia, il marinaio gridava di poter diventare chiunque volesse, e che nel «chiunque» era compreso l’intero corpo di polizia della nazione.
Scandalizzato da quel comportamento, il comandante aveva rampognato il suo marinaio, che, come tutta risposta, gli aveva dato una bastonata.
Poi era arrivata sulla scena una squadra di poliziotti, che perlustrava regolarmente il porto — luogo dove liti e disordini erano prevedibilmente frequenti — e il caso aveva voluto che ne fosse a capo il Commissario di quartiere.
Questi, nel vedere che il marinaio riottoso si rifiutava di ritornare alla ragione, aveva ordinato di imprigionarlo seduta stante. Ma, mentre gli agenti effettuavano l’arresto, il marinaio si era scagliato all’improvviso contro il Commissario, a testa in avanti, come se il demonio si fosse impossessato di lui, e lo aveva colpito con quelli che sembravano due corni. Subito dopo, aveva cominciato a urlare di essere un poliziotto, e non un poliziotto qualsiasi, ma il comandante delle forze di polizia portuali, mentre il Commissario, invece di incollerirsi per quelle farneticazioni insolenti, aveva riso come se si trattasse di una divertente burla. Poi, però, aveva ordinato ai suoi subalterni di accompagnare in prigione il disturbatore senza perdere altro tempo, e di non risparmiare i colpi di mano e di sfollagente.
Cosi, in meno di un’ora, Re Balerion era riuscito a cambiare per ben tre volte la sua residenza corporea, e attualmente si trovava nel corpo di un Commissario di polizia, il quale, anche se Dio sapeva quanto fosse innocente, era finito in qualche cella buia e umida e si trovava nei guai.
Sospirando, Klapaucius si recò al comando di polizia: un grosso edificio di pietra, situato sulla costa. Nessuno gli sbarrò la strada; il costruttore proseguì per tre o quattro stanze vuote, finché non si trovò davanti a un vero gigante, in un’uniforme da ufficiale di polizia parecchie taglie più piccola, e armato fino ai denti.
Quella montagna di individuo guardò con ira Klapaucius e fece un passo avanti, come per cacciarlo via di peso… ma all’improvviso gli strizzò l’occhio (anche se Klapaucius era certo di non averlo mai visto in precedenza) e scoppiò a ridere. Aveva la voce roca, e senza dubbio era una voce da poliziotto abituato a gridare, ma la risata — e in particolare la strizzata d’occhi — facevano pensare a Re Balerion. E infatti si trattava del Re, anche se ovviamente non era presente di persona!
«Ti ho riconosciuto subito» disse Re Balerion il poliziotto. «Eri a palazzo, hai accompagnato quello che aveva l’apparecchio. Che cosa te ne pare? Non è un nascondiglio favoloso? Non riusciranno mai a trovarmi, lo sai, nemmeno in un milione di anni! Inoltre, è così divertente essere un poliziotto grosso e forte. Guarda!»
E calò il pugno sul tavolo, con tale forza che il mobile si spaccò in due… ma anche sulla mano comparve una crepa. Re Balerion fece una smorfia e disse: «Ahi! Si deve essere rotto qualcosa. Ma non fa nulla. All’occorrenza, posso sempre trasformarmi… in te, per esempio!»
Klapaucius indietreggiò verso la porta, ma il poliziotto gli bloccò l’uscita con la sua colossale corporatura e proseguì: «Non che abbia qualcosa di personale contro di te, intendiamoci. Ma sai troppe cose, vecchio mio. Perciò, penso che sia meglio metterti dentro. Sì, in galera!» Rise con cattiveria. «In questo modo, quando mi congederò dalla polizia, nessuno, nemmeno tu, avrà la più pallida idea di dove sono, o meglio, di chi sono! Ah, ah!»
«Maestà!» protestò Klapaucius. «Non conoscete i pericoli di quello strumento. Supponete di entrare nel corpo di qualcuno con una malattia mortale, o di un criminale ricercato…»
«Nessun problema» rispose il Re. «L’importante è che mi ricordi di una cosa: dopo ogni trasferimento, riprendere le corna!»
E indicò la scrivania rotta, nel cui cassetto, aperto, si scorgeva lo strumento.
«Ogni volta» disse «lo toglierò dalla testa della persona da cui provengo, e cercherò di non perderlo. Basterà questo perché non mi capiti niente di male».
Klapaucius fece del suo meglio per convincere il Re ad abbandonare l’idea di nuovi trasferimenti della personalità, ma tutto fu inutile; questi si limitò a ridere e a scherzare, e infine disse, chiaramente divertito: «Non ritornerò a palazzo… puoi scordartelo! Anzi, ti dico quello che intendo fare: vedo davanti a me un lungo itinerario, un viaggio da un corpo all’altro dei miei fedeli sudditi, cosa che, del resto, è pienamente in linea con le mie convinzioni democratiche. E poi, come ciliegina sulla torta, per così dire, il corpo di qualche bella ragazza — dovrebbe essere un’esperienza assai istruttiva, non ti pare? Ah, ah!»
Con un braccio enorme, aprì una porta e chiamò i suoi subordinati. Klapaucius — compreso che l’avrebbero imprigionato se non fosse passato immediatamente all’azione — afferrò un calamaio e scagliò l’inchiostro in faccia al Re. Poi, nella confusione, scavalcò il davanzale della finestra e balzò in strada. Per un colpo di fortuna non c’erano testimoni, e Klapaucius riuscì ad arrivare a una piazza affollata e a confondersi tra la gente prima che dal comando di polizia cominciassero a uscire gli agenti, che con una mano si raddrizzavano il chepì e con l’altra brandivano la pistola.
Rimuginando pensieri tutt’altro che allegri, Klapaucius si allontanò dal porto.
«Sarebbe meglio, in realtà» diceva a se stesso «lasciare al suo destino quell’incorreggibile Re Balerion, recarsi all’ospedale dove hanno ricoverato il corpo di Trurl, che adesso è occupato dall’onesto marinaio, e portarlo a palazzo, in modo che il mio amico possa ritornare in se stesso corpo e anima.
«E’ vero che, così facendo, il marinaio sarebbe Re al posto di Balerion… ma è proprio quello che si merita quel malfattore!»
Forse non era un cattivo piano, ma era inattuabile per la mancanza di un piccolo ma necessario particolare: nella fattispecie il trasferitore con le corna, che al momento si trovava in un cassetto, al commissariato di polizia.
Per un istante, Klapaucius pensò alla possibilità di costruire un altro strumento come quello, ma non ne aveva il tempo, e neppure i mezzi.
«Idea» pensò. «Posso andare da Trurl, che adesso è il Re e che ormai avrà certamente ripreso il senno, e gli dirò di ordinare all’esercito di circondare la stazione di polizia del porto. Così recupereremo lo strumento e Trurl potrà ritornare alla sua vecchia personalità!»
Però, Klapaucius non riuscì a farsi ammettere all’interno del palazzo. I medici, gli dissero le sentinelle, avevano messo il Re sotto potenti sedativi elettrostatici e per almeno ventotto ore avrebbe dormito come un ghiro.
«Non ci mancava che questa!» gemette Klapaucius, e si diresse all’ospedale dove era ricoverato il corpo di Trurl, perché temeva che potesse già essere stato dimesso e che si fosse perduto irrimediabilmente nel labirinto della grande città.
All’ospedale si presentò come un parente del ricoverato con la gamba rotta; il nome lo lesse nel registro dei pazienti. Gli riferirono che la ferita non era grave — solo una brutta slogatura e non una frattura — ma che il paziente doveva rimanere in trazione per alcuni giorni.
Klapaucius, naturalmente, non aveva intenzione di far visita al paziente — sarebbe soltanto riuscito a far scoprire che non si conoscevano. Rassicurato sul fatto che, almeno per qualche giorno, il corpo di Trurl non sarebbe sparito, lasciò l’ospedale e prese a vagare per le strade della città, profondamente assorto nei suoi pensieri.
Chissà come, finì per trovarsi in prossimità del porto e notò che la zona pullulava di poliziotti: le pattuglie fermavano tutti i passanti e li controllavano minuziosamente, confrontando i loro connotati con la descrizione di un ricercato, scritta su un foglio.
Klapaucius comprese subito che era opera di Re Balerion, il quale lo voleva incarcerare a tutti i costi. Proprio in quel momento c’era una pattuglia che si avvicinava a lui, e due guardie, alle sue spalle, gli bloccavano la ritirata. Klapaucius si consegnò alle guardie senza opporre resistenza, e chiese di essere portato subito dal Commissario, perché aveva notizie importanti, che riguardavano un orribile crimine.
Gli agenti lo arrestarono e lo ammanettarono a un robusto poliziotto; al comando di polizia, il Commissario — Re Balerion — lo accolse con un brontolio di soddisfazione e un luccichio maligno nello sguardo. Ma Klapaucius stava già esclamando, in una voce contraffatta che non era la sua: «Eccellenzia! Esaltissimo Ser Poliziotto! Io stato ciapato da Polizei, io stato detto tu sei Klapaucius, ma io non lui, nonriò, nemmanco chi è Klapaucius, io so! Forse il Klapaucius che cercate il bandito è? Quello che ha sulla testa le corna per colpire, il grande Zauberer… il grande mago di magia nera, che diverso da me mi ha fatto diventare, che ha messo mia testa in altra testa, ha ciapato le corna, è scappato via, o Grande Signore della Polizia! Aiuto ti chiedo!»
E con queste parole, l’astuto Klapaucius cadde in ginocchio, agitando la testa e mormorando tra sé in un’incomprensibile lingua straniera.
Re Balerion, che era seduto dietro la scrivania con indosso un’uniforme dalle enormi spalline dorate, batté gli occhi sorpreso, non appena comprese il significato di quelle parole; diede un’occhiata più attenta al presunto Klapaucius inginocchiato, e annuì tra sé — ignaro del fatto che il costruttore, durante il tragitto verso il commissariato, si era servito della mano libera per farsi due piccoli se
gni sulla fronte, uguali a quelli prodotti dal dispositivo di Trurl.
Balerion ordinò ai suoi uomini di liberare Klapaucius e di lasciarlo solo con lui; quando tutti se ne furono andati, gli chiese di raccontargli con esattezza che cosa fosse successo, senza tralasciare alcun particolare.
Come risposta, Klapaucius gli raccontò una lunga storia, riferendo di essere un ricco straniero, e di essere arrivato quel giorno stesso, con una nave contenente duecento dei migliori puzzle di legno che fossero mai stati escogitati e trenta fanciulle fiore automatiche, da portare in dono a Re Balerion. Si trattava di un omaggio dell’Imperatore Proscidiolo, che intendeva così esprimere la sua sconfinata ammirazione per la grande Casata di Cyberia.
Tuttavia, dopo essere atterrato, aveva pensato di fare un giro del porto, per sgranchirsi le gambe dopo il lungo viaggio, e mentre passeggiava tranquillamente lungo il molo, una persona, che assomigliava esattamente a questa (qui, Klapaucius indicò se stesso) e che aveva già destato i suoi sospetti perché osservava con avidità i suoi splendidi abiti stranieri… quella persona, per farla breve, si era scagliata su di lui come un pazzo, come se volesse gettarlo a terra, ma all’ultimo minuto si era tolto il cappello e l’aveva colpito in fronte con un paio di corna; a quel punto c’era stato uno straordinario scambio di menti.
Klapaucius fece ricorso a tutta la sua capacità di convinzione, per rendere credibile la sua storia. Parlò diffusamente del corpo che aveva perso, magnificandone la bellezza, e nello stesso tempo non lesinò insulti alla schifezza di corpo in cui era finito (per esser più convincente, giunse perfino a prendersi a schiaffi e a sputarsi sulle braccia e sulle gambe).
Parlò dei tesori che aveva con sé, a bordo della sua nave, e li descrisse minuziosamente, soffermandosi in particolare sulle fanciulle fiore automatiche; poi, abbandonandosi alle reminiscenze, parlò della famiglia che s’era lasciata alle spalle, dei figli, del cane, e della moglie, una donna su un milione, che faceva un elettrolito speziato addirittura superiore a quello che dava lustro alla mensa imperiale; e presto, sopraffatto dalla commozione, lasciò perfino trapelare davanti al Commissario il suo più grande segreto, ossia l’accordo con il suo comandante: i doni dovevano essere consegnati al rappresentante di Re Balerion che si fosse presentato al comandante pronunciando una parola d’ordine.
Re Balerion ascoltò avidamente tutta la storia, perché gli pareva logico che Klapaucius, desideroso di sfuggire alla polizia, avesse scelto di entrare nel corpo di un forestiero, e non di uno qualsiasi, ma di uno abbigliato con vesti magnifiche, che gli avrebbe dato accesso a grandi ricchezze, una volta effettuato il trasferimento. Era chiaro, del resto, che anche Re Balerion aveva pensato a un piano analogo. Astutamente, il Re cercò di farsi svelare la parola d’ordine dal falso forestiero, il quale, in realtà, non ebbe bisogno di molte spinte per dargliela, perché subito gliela sussurrò all’orecchio: «Oniterc». A quel punto, il costruttore era ormai convinto che Balerion avesse abboccato: amava a tal punto i puzzle da non sopportare l’idea che finissero in mano al Re, dato che il Re, adesso, non era più lui; ed essendo disposto a credere a tutto, aveva immediatamente creduto che Klapaucius possedesse un secondo apparecchio per il trasferimento. Del resto, non aveva alcuna ragione di credere il contrario.
Per qualche tempo, tutt’e due rimasero in silenzio; si aveva quasi l’impressione di veder girare gli ingranaggi nel cervello di Re Balerion. Con un’aria indifferente, il finto Commissario cominciò a interrogare lo straniero sulla posizione della sua nave, sul nome del capitano e così via. Klapaucius rispose a tutte le domande, speculando sulla cupidigia del Re — e giustamente — perché all’improvviso
questi si alzò in piedi, disse di dover controllare le informazioni che gli erano state fornite dallo straniero e di corsa lasciò la stanza, chiudendo a chiave la porta.
Klapaucius poi sentì che Balerion — evidentemente ammaestrato da quel che gli era successo in precedenza — ordinava, prima di uscire, di far piantonare la finestra.
Naturalmente, il Re non avrebbe trovato nulla, perché non c’erano né astronave, né tesoro, né fanciulle fiore. Ma proprio su questo faceva perno il piano di Klapaucius, perché, non appena il Re se ne fu andato, il costruttore corse alla scrivania, recuperò lo strumento chiuso nel cassetto e in fretta se lo mise sulla testa.
Poi attese pazientemente il ritorno del Re, e non dovette passare molto tempo perché gli giungessero, dal corridoio, passi pesanti e imprecazioni. Infine, la chiave girò nella toppa… e il Commissario fece il suo ingresso, urlando: «Imbroglione, dove sono la nave, il tesoro, i miei puzzle?»
Ma non riuscì a dire altro, perché Klapaucius balzò fuori dal suo nascondiglio dietro la porta e si gettò su di lui come un montone infuriato, colpendolo in piena fronte. Poi, prima che Re Balerion avesse il tempo di orientarsi all’interno del corpo di Klapaucius, lo stesso Klapaucius, che adesso era il Commissario, gridò alle guardie di sbatterlo subito in galera e di tenerlo d’occhio.
Stordito dal brusco rovesciamento della situazione, Re Balerion, di primo acchito, non capì quanto fosse stato vergognosamente ingannato; ma quando alla fine comprese di avere sempre trattato con l’astuto costruttore, e che non c’era mai stato un ricco forestiero venuto a fare da ambasciatore, Re Balerion riempì di minacce e di bestemmie terribili — ma innocue, dato che ormai era privo dell’apparecchio — il suo buio carcere.
Klapaucius, d’altra parte, pur avendo provvisoriamente perso il corpo a cui era abituato, era riuscito a recuperare il trasferitore di personalità. S’infilò l’uniforme più elegante e si diresse senza indugio al palazzo reale.
Il Re era ancora sotto l’effetto del sedativo, gli dissero, ma Klapaucius, nella sua veste di Commissario di Polizia, disse di dover assolutamente vedere Sua Altezza, anche solo per pochi istanti, perché erano successe cose della massima gravità, c’era una crisi, e il destino della nazione rischiava di essere compromesso. Continuò su quella falsariga finché i cortigiani, allarmatissimi, non lo portarono nella camera da letto regale.
Laggiù, conoscendo bene abitudini e particolarità dell’amico, Klapaucius gli sfiorò il calcagno, e Trurl si destò di scatto perché pativa follemente il solletico. Si massaggiò le palpebre e fissò con stupore il gigantesco poliziotto che lo aveva svegliato, ma il gigante si piegò su di lui e sussurrò: «Sono io, Klapaucius, ho dovuto occupare il corpo del Commissario… senza una carica ufficiale, non mi avrebbero lasciato entrare… e ho con me lo strumento, l’ho qui in tasca…»
Trurl si rallegrò nell’udire dello stratagemma di Klapaucius e si alzò dal letto, dichiarando a tutti che si era pienamente ristabilito. Più tardi, vestito di porpora e con in mano l’orbe e lo scettro regali, si sedette sul trono e impartì alcuni ordini.
Per prima cosa fece portare dall’ospedale il proprio corpo, quello con la gamba che Re Balerion si era lussato sui gradini del porto. E quando l’ordine venne eseguito, ingiunse ai medici reali di occuparsi del paziente con tutta la loro capacità e la loro sollecitudine. Infine, dopo una breve conferenza con il suo Commissario, ossia Klapaucius, Trurl proclamò di voler rimettere ordine nel regno e riportare le cose alla normalità.
La sua promessa era più facile a dirsi che a mantenersi, però, perché i torti da raddrizzare erano tanti. I costruttori, comunque, non avevano intenzione di riportare ai loro corpi tutte le personalità trasferite; la loro principale preoccupazione, in realtà, era che Trurl ritornasse Trurl il più presto possibile e Klapaucius Klapaucius. Che rientrassero, insomma, nei rispettivi corpi.
Trurl, di conseguenza, ordinò di prelevare in carcere il prigioniero (Re Balerion nel corpo del suo collega) e di portarlo dinanzi alla Sua Augusta Presenza. Eseguito immediatamente il primo trasferimento di personalità, Klapaucius tornò a essere se stesso, e il Re (ora nel corpo del Commissario di Polizia) dovette mettersi sull’attenti e sorbirsi una ramanzina assai sgradevole, al termine della quale venne assegnato alle carceri di palazzo, con la giustificazione che era caduto in disgrazia per non aver saputo risolvere certi rebus.
L’indomani mattina, il corpo di Trurl si era rimesso a sufficienza perché potesse avere luogo il trasferimento. Rimaneva soltanto un problema: in qualche modo, ai due costruttori non sembrava giusto lasciare il pianeta senza avere risolto la questione della successione al trono.
Liberare Re Balerion dal suo poliziesco corpo, e rimetterlo nuovamente al timone dello stato, sembrava del tutto inconcepibile. Così, ecco cosa fecero: dopo avergli fatto prestare solenne giuramento di segretezza, i due amici riferirono all’onesto marinaio nel corpo di Trurl tutto l’accaduto; constatato poi il grande buon senso che albergava in quell’animo semplice, lo giudicarono degno di regnare; con il trasferimento, perciò, Trurl ritornò Trurl, e il marinaio divenne Re.
Prima, però, Klapaucius ordinò di portare nella reggia un grosso orologio a cucù — da lui avvistato in un negozio della città, quando vagava lungo le strade — e la mente di Re Balerion venne trasmessa nella meccanica del cucù, mentre quella del cucù, a sua volta, occupò il corpo del poliziotto.
Così fu fatta giustizia, perché il Re, da allora in poi, venne obbligato a lavorare con diligenza, giorno e notte, annunciando le ore con un apposito cucù-cucù, come lo spingevano a fare, nei giusti momenti, i denti appuntiti delle ruote dell’orologio: così avrebbe pagato — appeso alla parete della sala delle udienze — per i suoi futili giochi, e per aver messo a repentaglio la vita e la salute dei due famosi costruttori cambiando mente con tanta frequenza.
Quanto al Commissario, questi ritornò al suo lavoro e funzionò in modo ineccepibile, così dimostrando che l’intelligenza di un orologio a cucù era sufficiente per quel lavoro.
I due amici si congedarono infine dal marinaio ch’essi stessi avevano incoronato, raccolsero i loro beni, si scossero dalle scarpe la polvere di quel regno pieno di guai e proseguirono per la loro strada. Si potrebbe solamente aggiungere che l’ultima azione di Trurl nel corpo del Re era stata quella di fare una visita al Caveau Reale e di prendere il Diadema Reale della Dinastia dei Cyberanidi, premio quanto mai meritato, avendo egli scoperto il miglior nascondiglio di tutto quel pianeta.
LA QUINTA FATICA bis OVVERO L’INGIUNZIONE DI TRURL
Non lontano da noi, attorno a un sole bianco che insegue una stella verde, abitavano i Ferrolini: un popolo giocondo, fecondo e senza un pensiero al mondo… né guerre nelle loro terre, né leggi né borseggi, né veti né influssi maligni dei pianeti, nessuna preoccupazione seria, di materia o d’antimateria — perché avevano una macchina che, più di una macchina, era un sogno con bielle e rotelle, con molle e ampolle, perfetto sotto qualunque aspetto.
E vivevano cori la loro macchina: vivevano di essa, sotto di essa e dentro di essa, e quella macchina era tutto ciò che possedevano: prima, per molto tempo, avevano risparmiato ogni atomo che riuscivano a guadagnare, poi li avevano riuniti insieme, e quando ce n’era uno che non entrava bene, ne grattavano via un pezzo e tutto andava a posto.
Ciascun Ferrolino aveva una sua piccola presa e una spîna per collegarsi a essa, ed era assolutamente indipendente dagli altri.
E anche se non potevano dare ordini alla loro macchina, neanche la macchina dava ordini a loro: i Ferrolini, semplicemente, vi si inserivano al loro posto. Alcuni erano meccanici, altri meccanicisti, altri ancora macchinisti o macchinatori, ma tutti erano istintivamente portati per la meccanica.
Talvolta avevano compiti importanti, perché dovevano fare notte, o giorno, o un’eclissi di sole — ma questo non succedeva molto spesso, perché, altrimenti, si sarebbero stancati di farlo. Un giorno, però, da dietro il sole bianco che inseguiva la stella verde, spuntò una cometa con la crestina sulla testa, ossia una cometa femmina, cattiva come il veleno e atomica dalla punta della fronte all’estremità delle sue quattro lunghe code, orribile a vedersi, tutta blu di cianuri e, guarda caso, con un gran puzzo di mandorle amare. Arrivò fino a loro e disse: «Per prima cosa, vi riduco in cenere, e questo è solo l’inizio».
Tutti i Ferrolini si girarono a guardarla. Videro che il fuoco dei suoi occhi riempiva di fumo una buona metà del cielo e notarono come raccogliesse neutroni e mesoni per i suoi cannoni, radiazioni dure e neutrini pure, ripetendo: «Zuppa del demonio, uranio e plutonio».
Ed essi risposero: «Un momento, prego, noi siamo i Ferrolini, e non abbiamo paura di nessuno, non abbiamo guerre nelle nostre terre, né leggi né borseggi, né veti né maligni influssi dei pianeti, nessuna preoccupazione seria, di materia o d’antimateria — perché abbiamo una macchina che è un sogno: un sogno di bielle e rotelle, molle e ampolle; perfetto sotto qualsiasi aspetto. Perciò, va’ via, signora Cometa, o te ne pentirai».
Ma la cometa aveva già riempito il cielo, e bruciava, arroventava, ruggiva, soffiava… in breve tempo, la Ferroluna — la luna dei Ferrolini — si rinsecchì da un corno all’altro, avvizzita dal calore insopportabile, e anche se era vecchia, un po’ butterata e già in partenza troppo piccola, ridurla in quello stato non era stata una bella azione.
Perciò, senza sprecare tante parole, i Ferrolini presero i loro campi di forza più intensi, li fissarono con un buon nodo alla punta dei due corni lunari, poi li lasciarono partire: beccati questo, brutta strega.
Lo spazio tuonò, tremò, gemette e si schiarì con un lampo, e della cometa rimase solo un mucchietto di cenere… e la pace tornò a regnare.
Dopo un indeterminato periodo di tempo, però, comparve una Cosa: nessun sapeva che cosa fosse; salvo che era orrenda, e da qualsiasi angolo la si guardasse, ancor più orrenda risultava.
Qualunque cosa fosse, era pesante in maniera inimmaginabile, ma si alzò in volo, sali sulla vetta più alta, vi si accomodò e non si mosse più. E, anche se non faceva niente, dava un grande fastidio.
Perciò, quelli che abitavano vicino al monte le dissero: «Scusa, ma noi siamo i Ferrolini, e non abbiamo paura di nessuno, non abitiamo su un pianeta ma dentro una macchina, e non è una macchina qualsiasi, ma un sogno: un sogno di bielle e rotelle, molle e ampolle, perfetto sotto qualsiasi aspetto, perciò vattene via, brutta Cosaccia, o te ne pentirai».
Ma la Cosa non si mosse.
Perciò, le mandarono uno spaventocottero, ma per non debordare troppo con le spese non lo scelsero molto grande, pensando che uno piccolo fosse sufficiente: si sarebbe recato dalla Cosa, le avrebbe messo in corpo un po’ di sano timore — quanto bastava per farla andare via — e la pace sarebbe tornata a regnare.
Lo spaventocottero partì, e il solo rumore che si poteva udire era il ronzio dei programmi che lo azionavano, uno più terrorizzante dell’altro. Si avvicinò alla vetta — e come sibilava, come soffiava! spaventò perfino se stesso, un pocolino — ma la Cosa rimase dov’era.
Per scrupolo professionale, lo spaventocottero fece un secondo tentativo, questa volta su una frequenza diversa, ma ormai l’insuccesso lo aveva demoralizzato, e non venne a capo di nulla.
I Ferrolini capirono che ci voleva ben altro. Dissero: «Prendiamo qualcosa di più grosso, idraulico, differenziale ed esponenziale, plastico e stocastico, e non di taglio minuscolo, ma che sia tutto un muscolo: non si lascerà spaventare, se avrà un’arma nucleare».
E così, detto fatto, lo mandarono: universale e reversibile, doppiamente rinforzato, con la retroazione in ciascuna sezione, tutti i sistemi accesi e i sensi protesi, e all’interno c’erano un meccanico e un macchinista, e non è tutto, perché, per maggiore sicurezza, sulla torretta avevano fissato anche uno spaventocottero.
Arrivò a destinazione, con un’andatura così ben oliata che si sarebbe sentito cadere un ago, mise in canna il proiettile e attaccò il conto alla rovescia: meno quattro, tre, due, uno, non ho più pietà per nessuno! Ta-pum! che botta! e guarda il fungo, come s’ingavotta! è radioattivo, scotta! L’olio sfrigolò sotto il calore, per lo spostamento d’aria i cingoli furono colti dal tremore; infine, il meccanico e il macchinista poterono nuovamente affacciarsi dal finestrino della vettura: com’era da prevedere, la Cosa non aveva neppure un’ammaccatura.
I Ferrolini tennero un consiglio di guerra, poi costruirono un meccanismo che a sua volta costruì un meta-meccanismo che a sua volta costruì un megalo-meccanismo tale che perfino le stelle più vicine si spaventarono e fecero qualche passo indietro. In mezzo a tutto c’era una macchina con ruote e assi, e nel centro della macchina un servospettro, perché questa volta i Ferrolini erano davvero decisi.
Il megalo-meccanismo raccolse tutta la sua forza e poi colpì.
Un grande rombo di tuono, un terremoto, un fungo così enorme che ci sarebbe voluto un intero oceano per farci la minestra di funghi, stridore di denti, notte, un buio così profondo che non si distingueva più una cosa dall’altra. I Ferrolini guardarono nella direzione del loro meccanismo… niente, solo rottami, a perdita d’occhio, e neppure un segno di vita.
A quel punto, i Ferrolini cominciarono davvero a rimboccarsi le maniche.
«Dopotutto» si dissero «siamo meccanici e macchinisti, e tutti istintivamente portati per la meccanica, e inoltre abbiamo una macchina, un sogno con bielle e rotelle, con molle e ampolle, perfetto sotto qualunque aspetto. Come fa, quella brutta Cosa, a starsene lassù senza lasciarsi smuovere?»
Questa volta, cambiando radicalmente tattica, prepararono nientemeno che un’enorme cespuglio-ramazza di cyberedera rampicante: con l’intenzione di farla salire quatta quatta, come se badasse solo ai propri affari, si guardasse attorno, si facesse un po’ più ardita, piantasse una radice o due, crescesse sotto e si spingesse in alto, senza fretta, per poi circondarla, una volta arrivata alla Cosa… e tutto sarebbe finito.
Ed effettivamente tutto andò come previsto, salvo il particolare che, alla conclusione, non era esatto dire che tutto fosse finito; niente affatto.
A quel punto i poveri Ferrolini piombarono nella disperazione. Non sapevano neppure che cosa pensare, perché non era mai successo niente di simile, e allora si mobilitarono e analizzarono, prepararono lacci e colle, stoppacci e molle, trappole e aggeggi per farla soffocare, per farla scivolare e schiattare… provarono di tutto, ma senza alcun costrutto.
Stavano già per arrendersi, quando finalmente videro… avvicinarsi qualcuno: un tale a cavallo, ma no, i cavalli non hanno le ruote — doveva essere una bicicletta, ma le biciclette non hanno la prua, e perciò doveva essere un razzo, a parte il fatto che i razzi non hanno la sella. Che cosa fosse lo strano veicolo non ve lo dico, ma sulla sella c’era un nostro vecchio amico: era Trurl medesimo, il costruttore, uscito a fare bisboccia, o forse impegnato in una delle sue famose fatiche. Sereno e sorridente, volò sempre più vicino… ma anche da lontano si capiva subito che non era una persona qualsiasi.
Si abbassò lentamente, e quelli — mentre scendeva — gli raccontarono l’intera storia: «Siamo i Ferrolini, e abbiamo una macchina, che più che una macchina è un sogno: un sogno con bielle e rotelle, con molle e ampolle, perfetto sotto qualunque aspetto. Abbiamo sempre risparmiato i nostri atomi e poi li abbiamo messi insieme, personalmente; vivevamo senza un pensiero al mondo… niente guerre nelle nostre terre, né leggi né borseggi, né veti né maligni influssi dei pianeti, finché non è arrivata una Cosa che si è installata sulla nostra vetta più alta e rifiuta di sloggiare».
«Avete provato a spaventarla?» chiese Trurl, con un sorriso gentile.
«Abbiamo provato con uno spaventocottero, un servospettro e un megalo-meccanismo, tutto idraulico e di grosso calibro, con i neutroni e i mesoni per i suoi cannoni, radiazioni dure e neutrini, pure, e protoni e fotoni, ma non è servito a niente».
«Non è una macchina, dite?»
«No, signore, non è una macchina».
«Mmm, interessante. E che cos’è, esattamente?» chiese Trurl.
«Non lo sappiamo» risposero. «E’ arrivata in volo, nessuno sa cosa sia, salvo che è orrenda, e da qualunque parte la guardi, è ancora più orrenda. E’ atterrata, pesa in modo inimmaginabile, e una volta che si è seduta lassù, non si è più mossa. Ma dà un fastidio terribile, anche se non fa niente».
«Be’, a dire il vero, non ho molto tempo» rispose Trurl. «Il massimo che posso fare è rimanere tra voi per un breve periodo, come consigliere. Vi va bene?»
Andava benissimo, ovviamente, e i Ferrolini gli chiesero che cosa gli occorresse: fotoni, succhielli, martelli, cannoni, o un po’ di dinamì di T.n.t.?
E il nostro ospite preferisce il caffè o il tè? Dal distributore automatico, naturalmente.
«Il caffè andrà bene» confermò Trurl «non per me, ma per il lavoro. Quanto al resto, non penso che mi serva. Vedete, se lo spaventocottero, il servo-spettro, la cyberedera arborea non sono serviti, significa che occorrono altri metodi: arcaistici, archivistici e legalistici, non arcadici, ma sadici. Non li ho mai visti fallire, quando c’è di mezzo un corrispettivo dovuto e pagabile in toto».
«Come sarebbe a dire?» chiesero i Ferrolini, ma Trurl era già lanciato e, invece di spiegarsi, continuò: «In realtà, è molto facile. Tutto ciò che mi occorre è carta e inchiostro, timbri e sigilli, ceralacca e puntine da disegno, carta assorbente, uno sportello aperto al pubblico con il vetro a saliscendi, un cucchiaino e un piattino — il caffè lo abbiamo già — e soprattutto un postino. E qualcosa per scrivere… l’avete?»
«Andiamo a prenderlo!» esclamarono i Ferrolini, e corsero via.
Trurl si accomodò su una sedia e cominciò a dettare:
«Il presente atto per notificare che, in rif. alle molestie conseguenti al
FATTO
occupazione abusiva, come definita all’Art. C. 117(e) comma 2 lettera b del C.c. E considerato che
DIRITTO
quanto precede è in chiara violazione del combinato disposto dal citato articolo e dal paragrafo 199, Tucc, e per la parte attinente alle molestie trattandosi di violazione penalmente perseguibile dietro querela di parte come da Art. 1213, comma 5, lettera e del Regol. d’Applicaz. Dl n. 21651/1212
SI INGIUNGE
entro il termine di giorni 3 dalla notifica del presente atto la terminazione, non ripetizione e piena cessazione di ogni abusava occupazione e delle conseguenti molestie ai denuncianti
IN FORZA
dell’Ordinanza 67 Dl n. 14J/1101 e successive modifiche.
Addì giorno 19 del mese 17 del c.a. Reg. ed esposti al n. 77 del Foglio Suppl. n. 301 dell’Albo Pretorio, notificato in pari data. Al Convenuto è data facoltà di presentare ricorso contro la presente Ingiunzione appellandosi al Presidente della locale Corte d’Assise mediante domanda motivata e firmata presentata con allegata richiesta di procedura d’urgenza entro il termine — tassativo — di 24 ore».
Trurl appose il bollo a ceralacca su tutt’e tre le copie, sigillò la prima, vi appiccicò il francobollo, vi unì, spillata, la seconda copia e infilò la terza in un apposito faldone su cui aveva scritto: «Occupazione Abusiva n. 000/000/001».
«E adesso» ordinò «chiamate il postino».
Il postino prese le due copie, e tutti attesero e attesero, finché non lo videro ritornare.
«Gliel’hai consegnata?» chiese Trurl.
«Sì».
«E ti ha firmato l’atto di notifica, sulla copia?»
Ecco qui la firma, in calce. E qui c’è il ricorso».
Trurl prese il ricorso e, senza leggerlo, ordinò di restituirlo al mittente. In diagonale, scrisse sull’ultima pagina: «Respinto. Non compilato conform. modello minister.»
«Al lavoro, adesso!» esclamò.
Si sedette al tavolino e cominciò a scrivere, mentre tutti lo guardavano senza capire e si chiedevano che cosa significasse tutta quell’attività.
«Documenti ufficiali» rispose Trurl. «E d’ora in poi andrà tutto bene, fatto il passo iniziale».
Per tutto il giorno, il postino fece la spola avanti e indietro, correndo come un indemoniato; Trurl registrò e certificò atti, emise circolari, batté a macchina senza sosta, e, poco alla volta, un intero ufficio prese forma attorno a lui, con timbri di gomma ed elastici, graffette e cestini per la carta straccia, raccoglitori e armadi a scomparti, fogli protocollo e fogli formato lettera, cucchiaini, cartelli che dicevano VIETATO L’INGRESSO, calamai, moduli raggruppati per modello, e non si cessava mai di scrivere; dovunque si posasse l’occhio c’erano macchie di caffè, cestini, limatura di gomma e bruciature di sigarette.
Dopo qualche tempo, i Ferrolini cominciarono a preoccuparsi, perché non capivano che cosa stesse succedendo; intanto, Trurl usava corrieri espresso in porto assegnato, raccomandate con ricevuta di ritorno e tassa a carico del destinatario — una serie infinita di lettere di sollecito, note di addebito, diffide, ingiunzioni — e si fece aprire un paio di conti correnti, che al momento non contenevano neppure un soldo, ma in futuro non si sa mai.
Infatti, dopo qualche tempo si poteva già notare che la Cosa non sembrava orribile come prima, specialmente di profilo, e che, effettivamente, si era un po’ rimpicciolita.
I Ferrolini chiesero a Trurl: «E adesso?»
«In questo ufficio non si fanno discorsi personali» rispose Trurl, e continuò a mettere timbri, a graffare fogli, a controllare permessi, a revocare concessioni, a mettere i puntini sulle i, a convocare giurì, a chiedere a chi tocca, spiacente, l’ufficio è chiuso ritornate tra un’ora, l’orario della mattina è terminato, il caffè s’è raffreddato, il latte si è cagliato, le ragnatele hanno coperto tutto l’ammezzato, dal cassetto della segretaria è saltato fuori un vecchio paio di calze di nailon tutto bucato, il nuovo armadietto per le pratiche è laggiù che va montato e questo è grave, c’era qualcuno che intendeva corrompere il magistrato, e c’erano una pila di problemi e un problema di pile, un mandato di esecuzione, con incarcerazione per illecita appropriazione, protocolli con decine di bolli.
E la macchina da scrivere proseguì:
«…perciò, non avendo l’Occupante, in osservanza dell’atto di precetto notificatogli, lasciato e riconsegnato gli immobili abusivamente detenuta, ’habere facias possessionem’, p. Ord. della Corte di Cassazione della Repubbl. Cybernet., che, ’in vacuo et ex nihilo’, dispone con la presente l’immediata evacuazione dei suddetti immobili.
La presente decisione non è appellabile».
Trurl inviò il messo e a tempo debito intascò la ricevuta. Poi si alzò e, con ordine, scagliò nello spazio interstellare le scrivanie, le sedie, i timbri, i sigilli, gli armadi porta-archivi e tutto il resto. Rimase soltanto la macchina del caffè.
«Che diavolo fai?» gli gridarono i Ferrolini, che ormai si erano abituati a vedere quell’ufficio.
«Come osi?»
«Sst, miei cari» rispose il costruttore. «Invece di lamentarvi, date un’occhiata!»
Infatti, i Ferrolini diedero un’occhiata e rimasero a bocca aperta… ehi, non c’era più niente, lassù, la Cosa era sparita, come se non ci fosse mai stata! Ma dov’era andata? Evaporata nell’aria?
La Cosa si era ritirata codardamente, ed era diventata così piccola, ma così piccola, che occorreva la lente per vederla.
I Ferrolini si radunarono attorno a essa ma poterono trovare soltanto una macchiolina un po’ umidiccia, come se fosse caduta una goccia, ma di che, o da chi, non si sapeva.
«Proprio come pensavo» riferì Trurl. «Fondamentalmente miei cari, l’impresa è stata abbastanza semplice: nel momento in cui ha accettato la prima comunicazione e ha firmato la ricevuta, la vostra creatura era finita. E questo perché ho usato una macchina speciale, la macchina che inizia per B: da quando esiste il Cosmo, nessuno è mai riuscito a sconfiggere la B maiuscola!»
«D’accordo, ma perché buttare via i documenti e tenere solo la macchina del caffè?»
«Perché non divorasse anche voi!» rispose Trurl. E volò via, sorridendo loro con gentilezza… e il suo sorriso brillava come una stella
LA SESTA FATICA OVVERO COME TRURL E KLAPAUCIUS CREARONO UN DEMONE DI SECONDA CLASSE PER SCONFIGGERE IL PIRATA PUGG
Ci sono soltanto due carovaniere che portano a sud dalla Regione dei Soli Superiori. La prima, che è la più antica, va dal Quadrilatero Stellare al Grande Glossoronte, stella estremamente pericolosa, perché la sua magnitudo varia, e quando è al minimo la fa assomigliare alla Stella Nana degli Abissiri, cosicché i naviganti, sbagliando rotta, finiscono nella Grande Coltre Desertica, da cui solo una carovana su nove fa ritorno.
La seconda — e più recente — carovaniera è quella aperta dall’impero Myrapoclide, i cui turboschiavi hanno scavato una galleria di sei miliardi di miglia, attraverso il cuore del Grande Glossoronte stesso.
L’imboccatura settentrionale della galleria si può rintracciare nel modo seguente: partendo dall’ultimo dei Soli Superiori, procedere verso il Polo per il tempo occorrente a recitare sei volte l’Angelo di Dio che sei il mio custode». Poi virare a sinistra, fino a raggiungere la parete di fuoco che costituisce la corona esterna e la cromosfera di Glossoronte, e vedrete subito l’apertura, perché è un puntolino nero in mezzo all’abbagliante candore di quella gigantesca fornace spaziale.
Fate rotta verso quel puntolino, e non abbiate paura, perché la galleria è così larga che ci passano — tribordo contro babordo — fino a otto navi. Lo spettacolo che vedrete dai vostri oblò non ha davvero uguali.
Per prima incontrerete la famosa Fonte di Fiamma Flogisto, e quello che incontrerete successivamente dipende dal tempo: se gli abissi della stella sono spazzati da tempeste piromagnetiche che scoppiano a un miliardo di miglia — o più — di distanza, si vedono grandi masse tormentate di fuoco, arterie pulsanti, gonfie di macchie bianche e ardenti. Se invece la tempesta è più vicina, o è un tifone del settimo ordine, il soffitto della galleria prende a tremare, come se la bianca nube di incandescenza stesse per cadere, ma si tratta solo di un’illusione, perché il fortunale passa attorno alla galleria ma non la spezza, e il suo calore non può consumare coloro che sono all’interno: a tenere a bada la tempesta ci pensano i Fasci di Forza Faffiani che formano la fasciatura della galleria.
Eppure, quando si vede muoversi il centro della grande eruzione, e avvicinarsi le lunghissime lingue di fiamma delle sub-fonti chiamate Infernotti, è meglio tenere ben saldo il timone, e orientarsi guardando le viscere della stella, invece della carta siderale, perché occorre dare fondo a tutta la propria abilità di pilota.
In effetti, quella grande galleria non ha mai due volte lo stesso aspetto; l’intero tunnel scavato dentro Glossoronte si contorce continuamente, si agita come una serpe in lotta con una mangusta. Perciò, lustratevi bene gli occhi, e tenete a portata di mano i pacchi refrigeranti, per coprire di uno strato di ghiaccio trasparente i vostri visori, e guardate con attenzione le pareti di fiamma che si avventano contro di voi, tendete l’orecchio perché vi parrà di sentir cedere la chiglia, fidatevi soltanto dei vostri collaudati riflessi.
Dovete però ricordare che non tutte le fiammate e non tutti i sobbalzi della galleria corrispondono a un terremoto stellare o a una bonaccia nella sua materia; tenendo in mente anche questo, il marinaio esperto non griderà: «Agli idranti!» quando vede accendere un cerino, e più tardi non dovrà affrontare le irrisioni dei suoi colleghi, i quali lo paragonerebbero a quel tale che voleva spegnere la luce eterna di una stella servendosi di un termos di azoto liquido.
A chi invece volesse sapere che fare se un vero terremoto stellare piombasse sulla sua nave, i vecchi dello spazio risponderebbero che si riesce a malapena a trarre un sospiro, perché manca perfino il tempo di recitare una preghiera o di fare testamento; quanto agli occhi, si può tenerli aperti o chiusi: è indifferente, perché il fuoco li consumerebbe in qualsiasi caso.
Simili disastri, comunque, sono estremamente rari, perché gli anelli e i puntelli installati dall’impero Myrapoclide resistono mirabilmente, e in verità il volo interstellare, quando si arriva al centro di Glossoronte e si passa in mezzo al suo idrogeno metallico, scintillante come argento vivo o come uno specchio liquido, è un’esperienza affascinante.
Comunque, si dice che chi imbocca il tunnel è in grado di uscirne, mentre lo stesso non si può dire della Grande Coltre Desertica. E se la galleria trans-solare dovesse finire distrutta da un astroclasmo (o terremoto stellare), la sola rotta possibile costringerebbe i poveri marinai ad attraversare la Coltre, che è buia come la notte — come suggerisce il nome — perché la luce delle stelle ha paura di entrarvi.
Laggiù, come in un mortaio, ci sono continui scontri e collisioni — che fanno un chiasso terribile — di pezzi di metallo, lattine, frammenti di astronavi portate fuori rotta dalle insidie di Glossoronte, schiacciate nella stretta crudele di quegli infiniti vortici gravitazionali, poi abbandonate e destinate ad andare alla deriva fino alla consumazione dell’universo.
A est della Coltre c’è il regno dei Mascelli, a ovest degli Sgranocchi, e a sud ci sono strade piene di alte rocche fortificate, che portano alla più tranquilla sfera di Pigrulia, azzurra come il cielo, e dietro di essa c’è il piccolo Murdingham, dove l’arcipelago di stelle povere di ferro — noto come il Carro di Alcaronte — arde di un colore rosso sbiadito.
La Coltre stessa, come si diceva, è nera quanto il corridoio di Glossoronte è bianco. E la sua pericolosità non deriva soltanto dai vortici, dai frammenti che viaggiano a velocità incredibile, spinti dalle correnti, dalle meteore impazzite che vi si incontrano; infatti, molti riferiscono che in un luogo ignoto, in un regno di caverne cupe e crepuscolari, al fondo di un abisso insondato e insondabile, da intere epoche abita una creatura anomala e del tutto anonima, perché chiunque la incontri non sopravvive a sufficienza per poter comunicare il suo nome.
Si dice che l’Anonimoide sia un pirata e un mago, che abiti in un castello innalzato dalla forza della gravitazione nera, e che il fossato di quel castello sia una tempesta che non cessa mai di infuriare, le mura siano di non-essere, insuperabili nella loro non-esistenza, tutte le finestre cieche, e le porte mute.
L’Anonimoide giace laggiù in agguato, in attesa delle carovane, e ogni volta che sente la bramosia di oro e di scheletri, soffia sabbia nera sui soli che servono da fari, e quando li ha spenti, e qualche viaggiatore lascia il cammino sicuro, piomba dal vuoto, turbinando ferocemente, avvolge nelle proprie spire i malcapitati e li porta al suo castello dell’oblio, senza perdere neppure una spilla di rubini sintetici, perché si tratta di un mostro mostruosamente meticoloso.
Sparito l’Anonimoide, solo i poveri resti divorati lasciano il suo castello e vanno alla deriva lungo la Coltre, seguiti da lunghe file di bulloni provenienti dal fasciame della nave, che il mostro sputa come se fossero semi di cocomero. Ma negli ultimi tempi, da quando il tunnel di Glossoronte è stato aperto grazie al lavoro forzato di innumerevoli turbo-schiavi e tutta la navigazione passa per la più luminosa delle gallerie, l’Anonimoide urla di rabbia, perché non può più darsi al saccheggio, e il fuoco della sua collera si accende nell’oscurità della Coltre, e brilla di luce fosca, oltrepassando la barriera di gravitazione nera, come il teschio di un assassino che marcisce in un bozzolo fosforescente.
Ci sono degli increduli, è vero, che dicono che quel mostro non esiste e non è mai esistito… e lo dicono senza timore di venire smentiti, perché è difficile smentire parole su cui non ci sono prove, e per di più in luoghi lontani da coltri cosmiche e da conflagrazioni stellari.
Sì, è facile non credere ai mostri quando si è lontani da loro, mentre é assai più difficile sfuggire ai loro spaventosi artigli quando sono vicini. Lo stesso Gibernatoro di Murgundia, con un seguito di ottanta cortigiani su tre navi, non fu forse inghiottito dalla Coltre, e di quel magnate non rimase più nulla, tranne qualche fibbia smangiucchiata, scagliata sulle spiagge di Solara Minor da un’ondata nebulare e laggiù scoperta dagli abitanti del luogo?
E innumerevoli altre personalità non sono state forse divorate senza misericordia e senza appello? Perciò, che almeno le memorie elettroniche offrano un tacito tributo a quelle povere moltitudini insepolte, se non si può trovare un vendicatore, uno che si occupi di quel bandito come prescrivono le nostre antiche leggi siderali.
Tutto questo, Trurl lo lesse un giorno su un libro, ingiallito dal tempo, acquistato da un rigattiere di passaggio; lo portò subito a Klapaucius, e lo lesse una seconda volta ad alta voce, dall’inizio alla fine, tanto era affascinato dalle meraviglie che vi erano descritte.
Klapaucius, saggio costruttore che conosceva bene il Cosmo e aveva una buona competenza dei soli e delle nebulose di tutti i generi, si limitò a sorridere e a rivolgergli un cenno d’assenso, dicendo: «Non crederai, spero, a una sola parola di quelle sciocchezze?»
«E perché non dovrei crederci?» s’inalberò Trurl. «Guarda, c’è perfino un’incisione, ben disegnata, dell’Anonimoide che inghiotte due schooner a fotoni e nasconde il bottino nei suoi sotterranei. Del resto, esiste effettivamente una galleria che attraversa una supergigante. Betelgeuse, intendo dire. Certamente, con la tua conoscenza della cosmografia, non puoi escludere quella possibilità».
«Per quel che riguarda le illustrazioni, se ti disegnassi un drago con mille soli per occhio, accetteresti il mio disegno come prova della sua esistenza?» rispose Klapaucius. «E per le gallerie, quella che citi è lunga solo due milioni di miglia, non parecchi miliardi. Inoltre, la stella di cui parli è praticamente esaurita, e il viaggio interstellare in quelle regioni non presenta alcun pericolo, come sai perfettamente anche tu, essendoci stato di persona.
«Quanto alla cosiddetta Grande Coltre Desertica, è solo una discarica cosmica di spazzatura, larga circa dieci chiloparsec, che va alla deriva nella zona tra Meridia e Tetracidia, e non nella regione tra i Mascelli e gli Sgranocchi, che sono razze inesistenti; laggiù è buio, certo, ma solo perché c’è tutta quella spazzatura. Quanto al tuo Anonimoide, è chiaro che una simile creatura non è mai esistita! Non è neppure una rispettabile leggenda antica: è solo una storiella da niente, inventata da un pennivendolo da quattro soldi».
Trurl si morse il labbro.
«Tu dici che il tunnel è privo di rischi» disse «perché sono stato io a viaggiarci. Ma ne avresti un’altra idea, se fossi stato tu. Lasciamo perdere il tunnel, comunque. Per quanto riguarda la Coltre e l’Anonimoide, in casi come questo non mi accontento delle semplici parole. Andremo laggiù, e vedremo di persona» continuò, sollevando il pesante volume «quel che c’è di vero nel libro, e quel che c’è di falso!»
Klapaucius fece del suo meglio per dissuaderlo, ma quando vide che Trurl, ostinato come sempre, non aveva alcuna intenzione di tirarsi indietro da un’impresa nata in modo così singolare, dapprima dichiarò di non voler averci a che fare, poi si associò ai preparativi per il viaggio: non voleva che l’amico morisse da solo… insomma, in due si può guardare negli occhi la morte con maggiore serenità che da soli.
Alla fine, riempita la cambusa di una grande quantità di provviste, perché il viaggio li avrebbe portati in regioni smisurate e spoglie (non certo pittoresche come quelle descritte dal libro) partirono con la loro fida nave. Durante il viaggio si fermarono di tanto in tanto per chiedere la strada, soprattutto dopo essersi lasciati alle spalle i territori che conoscevano bene. Dai nativi del luogo, però, non si poteva apprendere molto, perché anch’essi conoscevano soltanto le loro immediate vicinanze: di quel che stava al di là, in luoghi dove non s’erano mai avventurati, davano le descrizioni più assurde, e molto particolareggiate, inventandosi i dettagli con grande piacere e insieme con un briciolo di timore. Klapaucius definì «corrose» quelle narrazioni, con riferimento alla sclerosi da corrosione che colpiva i cervelli di una certa età.
Ma quando arrivarono a cinque o sei milioni di isolatiluce dalla Coltre Nera, cominciarono a sentir parlare di un gigante-ladro che si faceva chiamare il Pirata P.H.T. Nessuno di coloro con cui parlarono i due costruttori lo aveva mai visto realmente, e nessuno sapeva dire il significato di P.H.T. Trur1 pensò che fosse un gioco di parole su ph, per indicare un pirata ionico caratterizzato da un’alta concentrazione e da un carattere molto acido, ma Klapaucius, più realista, preferì non inventarsi ipotesi. A quanto pareva, quel pirata era un bruto collerico, come stava a indicare il fatto che, anche dopo aver spogliato di tutto le sue vittime, non era ancora soddisfatto, poiché la sua crudeltà era grande e insaziabile, e le colpiva a lungo, ferocemente, prima di rimetterle in libertà.
Per qualche istante, i due costruttori si chiesero se non fosse il caso di armarsi di spade o di pistole a raggi, prima di avventurarsi nella Coltre, ma presto conclusero che l’arma migliore era la loro intelligenza, aguzzata dalla pratica della progettazione, sottile, agile e universale. Così, partirono disarmati.
Occorre osservare che Trurl, con il procedere del viaggio, era amaramente deluso: i campi di stelle, i fuochi astrali ruggenti, gli spazi vuoti come caverne, gli atolli di meteoriti e le secche traditrici non risultavano affatto incantevoli come li descriveva il vecchio libro. In giro si scorgeva solo qualche vecchia stella, ma tutt’altro che impressionante (e, a dire il vero, piuttosto male in arnese); alcune si limitavano a un luccichìo rossiccio, come braci in mezzo alla cenere, mentre altre erano completamente buie e dure in superficie, vi si vedeva ardere solo qualche vena rossa dove la crosta grinzosa e carbonizzata faceva una crepa.
Non c’era traccia di fiammeggianti giungle della combustione, né di vortici misteriosi, e nessuno ne aveva mai sentito parlare, perché il deserto era un luogo di noia estrema, essendo, appunto, deserto. Quanto poi alle meteore, ce n’erano dappertutto, ma nel loro sciame chiassoso e tintinnante c’erano assai più rifiuti volanti che oneste magnetiti, tettiti e aeroliti… per la semplice ragione che il Polo Galattico era a un tiro di pietra e le correnti nere, nella loro circolazione, scaricavano in quel punto, a sud del Polo, enormi quantità di detriti galleggianti provenienti dalle zone centrali della Galassia. Perciò, tutte le nazioni e le tribù dell’area circostante si riferivano a quella zona non come alla Coltre, ma semplicemente per quello che era: una grande distesa di spazzatura spaziale.
Trurl nascondeva come meglio poteva la sua delusione, per non suscitare i commenti sarcastici di Klapaucius, e si diresse verso la Coltre. Immediatamente sentirono la sabbia colpire la prua; ogni tipo di polveri spaziali sputate dalle esplosioni di supernove delle varie generazioni si raccoglieva e si incrostava sullo scafo della nave, formando una patina così spessa che i costruttori persero ogni speranza di riportare il vascello allo splendore iniziale.
Ormai le stelle erano svanite nella penombra generale, cosicché i Nostri erano costretti a procedere a tentoni, finché la loro nave non diede una forte sgroppata e tutto l’arredamento, le stoviglie e le padelle volarono per aria; poi la nave si precipitò in avanti, sempre più veloce, finché non si udì uno scricchiolio orribile e la nave finì progressivamente per fermarsi, come se si fosse impiantata in una massa di pasta cedevole.
I due costruttori corsero ai finestrini, ma non riuscirono a vedere nulla: fuori, l’oscurità era completa.
Poi, contro il portello d’entrata, sentirono alcuni colpi, che dovevano essere battuti da qualcuno di spaventevolmente forte, perché lo scafo tremava.
A quel punto, a Trurl e Klapaucius cominciò a sorgere qualche dubbio sulla forza della loro pura intelligenza, ma ormai era troppo tardi, e così si decisero ad aprire il portello d’uscita, perché temevano che il loro assalitore finisse per sfondarlo.
Mentre guardavano fuori, questo qualcuno accostò la faccia all’apertura: una faccia così enorme da escludere chiaramente la possibilità che il resto del corpo potesse entrare nella nave. Oltre che smisurata, era anche orribile al di là di qualsiasi immaginazione, piena in ogni lato di centinaia di occhi sporgenti, con la lama di una sega al posto del naso e un gancio d’acciaio al posto della mascella.
La faccia premuta contro l’apertura del portello non si muoveva: solo gli occhi dardeggiavano avanti e indietro, esaminando con avidità ogni particolare, come per valutare se la preda meritasse la sua attenzione. Anche una persona assai meno intelligente dei nostri costruttori avrebbe capito il significato di quell’esame, perché era inequivocabile. «Allora?» chiese infine Trurl, esasperato da una curiosità tanto sfacciata e dal fatto che il gigante non proferisse parola. «Che cosa vuoi, sudicio bifolco? Io sono Trurl, costruttore e onnipotenza generale, e con me c’è il mio amico Klapaucius, anch’egli rinomatissimo; e stavamo volando con la nostra nave, a scopo di semplice turismo.
«Perciò, sei invitato a togliere dal nostro portello il tuo brutto faccione, a lasciarci partire immediatamente da questo luogo sgradevole — che senza dubbio sarà pieno di pattume e di immondizia — e a indicarci qualche regione pulita e rispettabile, o faremo una petizione a chi di dovere, e tu verrai ridotto in tanti pezzettini. Mi hai sentito, sciacallo, stracciarolo, collezionista di rifiuti?»
Ma il faccione non disse niente; si limitò a guardare, come se continuasse a calcolare, a fare una stima di quello che aveva davanti a sé.
«Senti, fenomeno da baraccone» gridò allora Trurl, gettando al vento ogni cautela, anche se Klapaucius continuava a dargli di gomito perché non si sbilanciasse troppo «noi non abbiamo né argento né oro, né pietre preziose, perciò, lasciaci immediatamente liberi, e soprattutto, copri quella tua faccia formato gigante, perché è troppo oscena. E tu… — proseguì, rivolto a Klapaucius — …piantala con le gomitate! Con certa gente, bisogna parlar chiaro!»
«Non mi interessano» disse all’improvviso il faccione, puntando su Trurl le sue migliaia di occhi scintillanti «l’oro e l’argento, e a me dovete rivolgervi con educazione, e portare rispetto, perché sono un pirata con il dottorato di ricerca, il PH.D., assai istruito e di natura facilmente irritabile. Ho già avuto altri ospiti, ed è stato necessario addolcirli un poco… Quando avrò dato un po’ di bastonate anche a voi due, vedrete che sarete un intero galateo di buone maniere.
«Mi chiamo Pugg, misuro trenta cubiti in ogni direzione ed è vero che rubo, ma con un sistema moderno, e scientifico, perché raccolgo solo informazioni preziose, genuine verità, conoscenze inestimabili e in genere qualsiasi dato che possa avere valore. E adesso, cominciate a passarmeli, altrimenti fischio! Bene, conto fino a cinque: uno, due, tre…»
Al cinque, dato che non gli veniva passato niente, si portò due dita alla bocca e ne trasse un tale fischio che i due costruttori ebbero l’impressione di avere perso le orecchie. Klapaucius comprese che il P.H.T. di cui parlavano con terrore gli abitanti dei pianeti vicini era in realtà il PH.D. a cui aveva accennato il pirata, che doveva avere davvero studiato presso qualche istituto superiore, come l’Accademia per Criminali. Trurl si portò le mani alle orecchie e gemette — il fischio di Pugg corrispondeva pienamente alla sua taglia.
«Non ti daremo niente!» esclamò, mentre Klapaucius correva a cercare i tappi per le orecchie. «E togli di lì il tuo faccione!»
«Se non ti piace la mia faccia, forse ti potrà piacere la mia mano» rispose il pirata. «E’ una vera cannonata di mano, e pesa come il diavolo! Eccola che arriva!»
Proprio così: i tappi che Klapaucius era andato a prelevare erano ormai inutili, perché la faccia era scomparsa, e al suo posto c’era una mano. E che mano: la madre di tutte le mani, con noduli e bitorzoli e unghie grosse come zappe.
Cominciò a frugare dappertutto e ad afferrare gli oggetti, fracassando le tavole e le ante degli armadietti, cosicché tutte le stoviglie finirono per terra. La mano rincorse Trurl e Klapaucius fin nella sala dei motori: laggiù, i nostri salirono sulla pila atomica e cominciarono a colpire le nocche del gigante — pow! pow! — con un attizzatoio. Questo fece infuriare ancor di più il pirata dottorato, che accostò nuovamente la faccia al portello e disse: «Sentite, vi raccomando cordialmente di venire subito a patti con me, altrimenti vi metterò da parte per il futuro, in fondo al mio barile delle scorte, e prima vi coprirò di immondizia, poi vi bloccherò con delle grosse pietre, in modo che non possiate muovervi: voi rimarrete laggiù, fermi, a far niente, e arrugginirete pian piano. Allora, cosa decidete?»
Trurl non voleva sentir parlare di negoziati, ma Klapaucius chiese con educazione che cosa precisamente volesse Sua Diplomatezza Dottorale.
«Adesso che vi siete decisi a parlare» rispose il pirata «sappiate che io raccolgo ricche miniere di informazioni, perché questo è l’amore, la vocazione della mia vita, effetto di un’istruzione superiore e, potrei aggiungere, di un’intuizione pratica delle cose, considerato che qui, con i soliti tesori che i pirati ignoranti amano accumulare, non c’è una sola maledetta cosa che si possa comprare.
«Le informazioni, viceversa, soddisfano la nostra sete di conoscenza, ed è noto che tutto quello che esiste è informazione; così, da secoli continuo a raccoglierne, e continuerò a farlo, anche se devo confessare che un po’ di oro e di diamanti, di tanto in tanto, non mi danno fastidio, perché sono belli e decorativi… ma si tratta di una deroga alle mie abitudini, del tutto occasionale. Tenete presente, però, che le informazioni false — come le monete false — le ripago con una bella scarica di legnate, perché sono una persona raffinata e amo le cose autentiche!»
«Ma che genere di informazioni valide e autentiche chiedi?» volle sapere Klapaucius.
«Qualunque genere, purché siano vere» rispose il pirata. «Non puoi mai sapere quali potranno esserti utili. Con quelle informazioni, ho già riempito un centinaio tra grotte e cantine, ma c’è ancora posto per almeno il doppio di quelle che ho. Perciò, fuori le informazioni; ditemi tutto quello che sapete, e io lo stenograferò. Ma cercate di darvi una mossa!»
«Aspetta» sussurrò Trurl. «Ho un’idea».
E aggiunse, a voce alta: «Ascolta, brigante laureato, noi conosciamo un’informazione che vale più di qualsiasi altra, una formula per fabbricare l’oro dai normali atomi: dall’idrogeno, per esempio, la cui riserva, nell’universo, è inesauribile. Te la daremo, se ci lascerai andare».
«Ne ho un baule pieno, di quelle formule» rispose il faccione, roteando con ira gli occhi. «E nessuna efficace. Non intendo farmi turlupinare un’ennesima volta. Prima, mostrami che funziona».
«Certo, perché no?» rispose Trurl. «Hai qui un fiasco?»
«No».
«Non importa, possiamo farne a meno» continuò il costruttore. «Il metodo è semplicissimo: prendi un numero di atomi di idrogeno pari al peso di un atomo d’oro, ossia 196; prima gratti via gli elettroni, poi impasti tra loro i protoni, e lavori la tua pastella nucleare finché non compaiono i mesoni; dai una spruzzata di elettroni sul tutto e voilà, hai il tuo oro. Osserva come si fa».
E Trurl cominciò ad acchiappare gli atomi, grattò gli elettroni e mescolò i protoni con una tale destrezza che non si scorgevano le dita; appallottolò la sua pasta subatomica, tornò a mettervi gli elettroni e poi passò alla successiva molecola; ripetendo l’operazione, in meno di cinque minuti ottenne una pepita d’oro puro e la presentò al faccione; questi le diede un’annusata e disse, con un cenno d’assenso: «Sì, è oro, ma io sono troppo grosso per mettermi a dar la caccia agli atomi in quella maniera».
«Non c’è problema» garantì Trurl. «Basterà costruirti la macchina adatta. Pensa, potrai trasformare tutto in oro, non solo l’idrogeno… ti daremo le formule anche per gli altre atomi. Pensa, si potrebbe trasformare l’intero universo in oro, impegnandosi un poco!»
«Se tutto l’universo fosse d’oro, l’oro non avrebbe alcun valore» commentò Pugg. «No, la tua formula non mi interessa… l’ho scritta, ma non mi basta. Io aspiro alla ricchezza della conoscenza».
«Ma cosa vuoi sapere, esattamente, per l’amor del cielo?»
«Tutto!»
Trurl diede un’occhiata a Klapaucius; Klapaucius diede un’occhiata a Trurl e questi infine disse: «Se prima ci giuri solennemente — mano su, mano giù e croce sul petto — che poi ci lascerai liberi, ti daremo come informazione il modo di procurarti un’infinità di informazioni, ossia ti costruiremo un Demone di Seconda Classe, che è un’entità magica e termodinamica, non-classica e stocastica: da un vecchio barile o anche da una qualsiasi scatola può estrarre informazioni su tutto quel che è stato, è, e sarà. Non ci sono Demoni di classe superiore a questo, perché è della Seconda Classe, e se lo vuoi avere devi deciderti subito».
Il pirata laureato era sospettoso, e non accettò immediatamente la proposta. Infine, però, prestò il giuramento richiesto, con la clausola che il Demone, prima, doveva dare una chiara dimostrazione della sua capacità di procurargli informazioni. Trurl non ebbe difficoltà ad accettare.
«Adesso, sta’ attento, Faccione!» disse. «Hai dell’aria da qualche parte? Senza aria, il Demone non lavora».
«Ne ho un po’» ripose Pugg «ma non è molto pulita…»
«Viziata, stagnante, inquinata che sia, non ha alcuna importanza, niente paura» risposero i costruttori. «Facci avere quell’aria, e vedrai qualcosa di indimenticabile!»
Così, Pugg ritirò la faccia dal boccaporto e i due amici poterono uscire dalla nave. Seguirono il gigante fino alla sua casa, e notarono che aveva le gambe simili a torri, le spalle alte come rupi, e che non si lavava né si oliava da secoli, e di conseguenza cigolava orribilmente.
Proseguirono lungo il corridoio, sollevando echi attutiti, e Trurl guardò con una smorfia — e Klapaucius come lui — quel disordine, perché anche se c’erano molte informazioni di valore, dovunque cadesse l’occhio si scorgeva soltanto polvere e confusione. C’era anche molta aria, ma viziata e puzzolente di muffa. Quando si fermarono, Trurl disse: «Adesso, fa’ attenzione! L’aria è costituita di atomi, che saltano in tutte le direzioni e si scontrano miliardi di volte al secondo in ogni micromillimetro cubo, ed è precisamente questo eterno movimento che costituisce un gas.
«Ora, anche se il loro movimento é cieco e completamente casuale, ci sono miliardi di miliardi di atomi in ogni minuscolo interstizio, e come effetto del loro grande numero, i loro minuscoli movimenti danno origine, tra le altre cose — e in modo puramente casuale — a configurazioni significative. Sai cos’è una configurazione, vero, zucca?»
«Niente insulti, prego» rispose Pugg. «Non sono il vostro solito pirata ignorante; ma uno raffinato e con la laurea, e perciò estremamente suscettibile agli insulti».
«Bene. Allora, da tutti questi movimenti a casaccio degli atomi, noi otteniamo traiettorie significative, ossia dotate di senso, come se, per esempio, tu sparassi dei proiettili contro una parete, a occhi chiusi, e i fori di proiettile formassero una lettera dell’alfabeto. Questi casi, che sulla scala di grandezza dei comuni oggetti di tutti i giorni sono rari e improbabili, nei gas si verificano continuamente, a causa dei loro trilioni di scontri ogni centomillesimo di secondo.
«Ma ecco il problema: in ogni microscopico volume d’aria, i sobbalzi degli atomi producono verità profonde e affermazioni edificanti, ma anche espressioni che non hanno il minimo senso, e il numero di queste ultime è superiore di miliardi di volte a quello delle altre.
«Così, anche se sapessimo che proprio in questo momento e sotto il tuo naso a sega, in un milligrammo d’aria e in una frazione di secondo, sono comparsi tutti i canti di tutti i poemi epici che saranno scritti nel prossimo milione di anni, oltre che una serie di meravigliose verità — compresa la soluzione di ogni enigma dell’Esistenza e di ogni mistero dell’Essere — non sapresti come isolare le informazioni che ti interessano, anche perché, non appena si sono scontrati e hanno formato qualcosa di significativo, gli atomi si separano e la tua verità sparisce per sempre.
«Perciò, il trucco sta nel costruire un selettore, che scelga, nella confusione e nella calca degli atomi, soltanto le frasi dotate di significato. Ed è appunto questo, un Demone di Seconda Classe.
«Hai capito qualcosa, o enorme, o antipatico? Noi vogliamo che il Demone estragga dalla danza degli atomi solo informazioni veritiere, come per esempio teoremi matematici, descrizioni di oggetti, cronache storiche, o la ricetta dei crostini allo ione e il metodo per stirare una tuta d’amianto, e inoltre la poesia, le considerazioni di scienza applicata, l’almanacco delle fiere e i documenti segreti, tutto quel che è apparso sui giornali dell’universo e le guide del telefono del futuro…»
«Basta, basta!» esclamò Pugg. «Ho capito! Ma che rilevanza può avere il fatto che gli atomi si combinino in quelle configurazioni di cui mi parli, se poi si staccano immediatamente? Inoltre, non posso credere che si possano scegliere verità importanti da un mucchio di urti tra le molecole dell’aria, che avvengono completamente a caso e non hanno valore per nessuno!»
«Allora non sei stupido come sembri» commentò Trurl. «In effetti, tutta la difficoltà sta nell’operare la selezione. Non intendo dilungarmi con te sulla teoria matematica di questa selezione, ma, come ti ho promesso, posso costruirti subito — mentre tu aspetti — un Demone di Seconda Classe, e vedrai da solo la meravigliosa perfezione di quel Meta-informatore!
«Mi serve soltanto una scatola — qualunque dimensione va bene, ma deve essere ermeticamente chiusa. Noi faremo un forellino sul coperchio e poseremo il Demone sull’apertura: seduto lassù, lascerà uscire solo le informazioni corrette, trattenendo all’interno tutte le sciocchezze.
«Infatti, ogni volta che un gruppo di atomi si disporrà casualmente in un modo significativo, il Demone coglierà al balzo quel significato e lo registrerà immediatamente, con una particolare penna diamantata, su un nastro di carta di cui deve sempre avere una buona scorta, perché lavora giorno e notte, e continuerà a farlo finché l’universo non si sarà spento e non smetterà prima di allora, a una frequenza di cento miliardi di bit al secondo… Ma presto vedrai con i tuoi occhi il Demone di Seconda Classe».
Ciò detto, Trurl fece ritorno all’astronave per costruire il Demone. Il pirata, intanto, chiese a Klapaucius: «E com’è un Demone di Prima Classe?»
«Oh, niente di che: è un semplice demone termodinamico, e la sua unica attività consiste nel lasciar uscire dal buco gli atomi più veloci e nel trattenere quelli lenti. Altrimenti otterresti un «perpetuum mobile» termodinamico, che non ha niente a che vedere con l’informazione. Ma faresti meglio ad andare a cercare il contenitore, perché Trurl sarà qui da un minuto all’altro».
II pirata laureato andò in un’altra cantina, frugò qui e là in mezzo alle sue cianfrusaglie, mollò una bestemmia, inciampò in qualche oggetto che rimbombò sordamente, ma alla fine trovò un barile di lamiera, vecchio e vuoto, vi praticò un forellino e fece ritorno da Klapaucius, proprio mentre Trurl arrivava con in mano il Demone.
All’interno del barile, l’aria era così puzzolente che a passare vicino alla piccola apertura c’era da augurarsi di essere senza naso, ma il Demone non attribuì importanza alla cosa. Trurl piazzò il suo minuscolo demonietto a cavalcioni del buco, montò l’alimentatore automatico della carta, fece passare il nastro tra il piccolo leggio e il pennino diamantato, che scalpitava per il desiderio di mettersi all’opera; poi il Demone cominciò a scrivere, ticchettando come un telegrafo, rat-tat e pit-pat, ma un milione di volte più veloce. Dalla frenetica apparecchiatura prese a uscire la striscia di carta, coperta di parole, che presto cominciò ad accumularsi sul sudicio pavimento della cantina.
Pugg si sedette vicino al barile, sollevò la striscia di carta fino ai suoi cento occhi, e lesse quel che il Demone, con la sua rete cattura-informazioni, era riuscito a pescare in mezzo all’infinito movimento degli atomi; e quegli scampoli di conoscenza lo appassionarono al punto che non notò come i due costruttori avessero lasciato in gran fretta la cantina, come avessero afferrato gli alettoni posteriori della loro nave e come li avessero strattonati una volta, due e come al terzo strattone avessero liberato la nave dal fango in cui il pirata l’aveva affondata, poi fossero saliti a bordo e fossero partiti a tutta velocità, perché sapevano che il loro Demone avrebbe funzionato, certo, ma avrebbe funzionato troppo bene, producendo una quantità di informazioni assai superiore a quella prevista da Pugg.
Il gigante, intanto, si era appoggiato al barile e leggeva, mentre la penna di diamante usata dal Demone per registrare tutto quel che veniva a sapere dalle oscillazioni degli atomi correva avanti e indietro. E lesse del modo esatto in cui le danzatrici del ventre di Harlebard rimovevano il ventre, e perché la figlia di Re Petronius di Labondia si chiamava Gobbinella, e quel che mangiò a pranzo Frederick Secondo, uno dei Re visipallidi, prima di dichiarare guerra ai Guendoliti, e quanti gusci di elettroni avrebbe un atomo di termolonio se esistesse come elemento, e il diametro della cloaca di un uccelletto, chiamato la cincia dalla piuma ritta, che é dipinto sulle urne sacrificali dei Marcipani di Wabio, o anche i tre gusti stagionali dei frutti di mare di Diafana, e la storia del fiore Dybbulyk, che allontana a bastonate i cacciatori della Bassa Malfundiana se lo svegliano troppo presto, e come calcolare l’angolo diedro negli icosaedri irregolari, e il nome del gioielliere di Gufus, il macellaio mancino dei Mirmecoidi Manzi, e quanti volumi di filatelia sarebbero stati pubblicati su Marinautica nell’anno settantamila, e dove trovare la tomba di Cyberinda dal Rosso Piede, inchiodata sul suo letto da un certo Clamondro, in un accesso di gelosia causato dal vino, e come capire la differenza tra uno strozzafagotto e un normale sgorgarozzoli, chi possiede la più piccola deriva laterale in tutto l’universo, e perché le cimici dalla coda a ventaglio non si nutrono di muschio, e come vincere nel gioco dello Schiaffo del Robot, e quanti semi di dragoncello c’erano nella cacca in cui inciampò Abroquio il Phylmilinide, quando finì a terra sulla Grande Strada per Albongia, a otto miglia dalla Valle delle Visioni Armoniche… e a poco a poco le sue centinaia di occhi cominciarono a lacrimare per la fatica della lettura, e il pirata cominciò a capire che tutte quelle informazioni, benché vere in ogni particolare, erano assolutamente inutili, e gli creavano soltanto una tale confusione che la testa gli doleva in modo terribile e le gambe gli tremavano.
Ma il Demone di Seconda Classe continuava a funzionare a una velocità di trecento milioni di fatti per secondo, e chilometro dopo chilometro il nastro di carta si accumulò e seppellì gradualmente, sotto le sue spire, il pirata laureato, avvolgendolo, per così dire, in una rete di carta, mentre la piccola penna dalla punta di diamante correva come impazzita, e Pugg aveva sempre l’impressione di trovarsi sul punto di conoscere le verità più favolose e segrete, di apprendere conoscenze che gli avrebbero spalancato l’Estremo Mistero dell’Essere, e così lesse avidamente tutto quel che usciva dalla penna di diamante: i canti di bivacco dei Quaidish, le taglie di pantofole disponibili sul continente di Cob, nei due tipi con e senza pon-pon, il numero di peli che cresce sul ginocchio del flummone delle nevi, la dimensione media della fontanella nei figli adottivi, le litanie con cui i congiurati del Mott-Mahon avevano svegliato il reverendo Biotto Ben-Bee, i fescennini cantati all’incoronazione del Duca di Zilch, e sei modi per cucinare la crema di grano, e un ottimo veleno per uccidere uno zio con la barba, dodici tipi di tortura giudiziaria, l’elenco di tutti i cittadini di Amba-arabba con il cognome che cominciava per m, e i risultati di un sondaggio di preferenze su una birra al gusto di fungo…
Infine, a causa di tutte quelle letture, ebbe l’impressione che, davanti ai suoi cento occhi, tutto si fosse fatto buio: a gran voce gridò di averne abbastanza, ma le informazioni l’avevano così circondato e avvolto, con le loro migliaia di miglia di nastri di carta, che non poteva più muoversi ed era costretto a leggere di Kipling e di come avrebbe scritto l’inizio del «Secondo libro della giungla» se avesse avuto il mal di pancia, e cosa pensano le balene nubili quando gli anni cominciano ad accumularsi, e uno studio completo del corteggiamento della mosca carnaria, e come riparare un vecchio sacco a pelo militare, e cos’è un passo d’uomo, e perché ci va la maiuscola in acqua di Colonia e non in bagno turco, e il numero record di lividi contati sulla stessa persona.
Poi una lunga lista delle differenze tra àncora e ancora, lèttone e lettone, da non confondere con Roma e toma, e tutte le parole che fanno rima con spinaci, e quali insulti il Papa Um di Pendora scagliò contro l’Antipapa Malum di Forchino, e come si suona l’autopettine a otto note. Disperato, cercò di liberarsi dalle spire della carta, ma all’improvviso dovette fermarsi, perché, anche se ne stracciava quanta più poteva, aveva troppi occhi e non poteva impedire che cadesse, sotto alcuni di essi, qualche notizia o qualche fatterello, e di conseguenza era costretto a leggere limiti e doveri della Polizia dell’Indocina, e perché i Celenteridi di Fluxis dicono sempre di avere bevuto troppo, finché non fu costretto a chiudere gli occhi e rimase a sedere immobile e rigido, sopraffatto da quel grande afflusso di informazioni, mentre il Demone continuava ad avvolgerlo in nuove strisce di carta.
E ancor oggi è seduto laggiù, in fondo al suo mucchio di sacchi e di casse, sommerso da una montagna di carta, e nella penombra della cantina la penna dalla punta di diamante continua ancora a muoversi e a guizzare come una pura fiamma, per scrivere tutto quel che il Demone di Seconda Classe estrae dalla danza degli atomi, nell’aria rancida del vecchio bidone; e così il povero Pugg, schiacciato sotto la valanga di tutte quelle conoscenze, apprenderà dettagli sempre nuovi sui risciò, le pigioni e gli scarafaggi, e anche sul suo destino — quello che è stato qui raccontato — perché anch’esso è scritto in qualche parte del nastro… esattamente come le storie, le leggende e le profezie di tutte le creature dell’universo, e così sarà finché tutte le stelle non si saranno spente. E per lui non c’è speranza di sottrarsi alla lettura, perché questa è la severa condanna che gli hanno inflitto i costruttori per il suo assalto piratesco… a meno che, naturalmente, la penna di diamante che scrive le informazioni non sia costretta a fermarsi perché è finita la carta.
LA SETTIMA FATICA OVVERO COME TRURL, A CAUSA DELLA SUA PERFEZIONE, FINI’ PER OTTENERE IL CONTRARIO DI QUELLO CHE CERCAVA
L’universo è illimitato ma non infinito., e perciò un raggio di luce, viaggiando in qualsiasi direzione, dopo miliardi di secoli finirà per ritornare al punto di partenza, se è abbastanza intenso per farlo; e lo stesso accade per le chiacchiere, che volano da stella a stella e fanno il giro completo di tutti i pianeti.
Un giorno, Trurl sentì magnificare le virtù di due grandi costruttori-benefattori di un lontano pianeta, così saggi ed esperti da non avere uguali; colpito da questa notizia, corse subito da Klapaucius, il quale gli spiegò che non si trattava di due misteriosi rivali, ma di loro stessi, perché la loro fama aveva ormai fatto il giro dello spazio.
La fama, però., ha il difetto di non parlare mai degli insuccessi di una persona, neanche quando gli insuccessi sono dovuti alla sua grande perfezione. E per chi ne dubitasse, ecco la storia della settima e ultima fatica di Trurl — effettuata senza Klapaucius, che era rimasto a casa per certi suoi urgenti motivi di famiglia.
A quell’epoca, Trurl era divenuto estremamente vanitoso e accoglieva come cose normalissime, e addirittura a lui dovute, tutti gli onori e gli attestati di venerazione che gli venivano tributati. Faceva rotta verso nord, sulla sua nave, perché era una regione che non conosceva ancora, e vola
va nel vuoto da un certo tempo, passando accanto a sfere piene dei clamori della guerra e ad altre che avevano ormai raggiunto la pace perfetta della distruzione, quando all’improvviso scorse un minuscolo pianeta, anzi, più un frammento di materia vagante che un pianeta.
Sulla superficie di quel pezzo di roccia, qualcuno correva avanti e indietro, saltando e agitando le braccia in modo assurdo. Stupito da una così totale solitudine e preoccupato da quei selvaggi gesti di disperazione, forse di rabbia, Trurl si affrettò ad atterrare.
Venne ricevuto da una persona di tremenda alterigia, tutta ricoperta di iridio e di vanadio, e con un gran numero di decorazioni che tintinnavano e sferragliavano, la quale si presentò come Excelsius il Tartarico, signore di Pancreonia e Cyspendora; gli abitanti di quei due regni, in un accesso di follia regicida, avevano cacciato Sua Altezza dal trono e l’avevano esiliato su quell’asteroide vuoto, che andava eternamente alla deriva fra le correnti gravitazionali e le onde elettromagnetiche più flebili.
Conosciuta a sua volta l’identità del visitatore, il monarca deposto cominciò a insistere perché Trurl — che dopotutto era una specie di professionista, quando si trattava di buone azioni — lo riportasse immediatamente alla posizione precedente. Al pensiero di un simile rovesciamento, negli occhi del monarca si accese la fiamma della vendetta; con le dita di ferro, strinse l’aria, come se già pregustasse di afferrare per la gola i suoi amati sudditi.
Ora, Trurl non aveva alcuna intenzione di fare quello che gli chiedeva Excelsius, perché avrebbe portato infiniti inali e sofferenze, eppure, allo stesso tempo, desiderava confortare il Re umiliato. Dopo qualche minuto di riflessione, giunse a concludere che, nonostante l’apparente contraddizione, non tutto era perduto, perché era possibile soddisfare la richiesta del Re senza far correre rischi ai suoi ex-sudditi. Così, rimboccatosi le maniche e facendo appello a tutta la sua abilità di costruttore, Trurl fabbricò al Re un intero regno.
Un regno con città, fiumi, montagne, foreste e ruscelli, un cielo coperto di nuvole, soldati pieni di coraggio, cittadelle, castelli e alcove di dame; e c’erano anche mercati chiassosi e pieni di colori che splendevano al sole, giornate piene di lavoro che spezzava la schiena, notti piene di danze e di canti che si protraevano fino all’alba, e l’allegro clangore delle spade.
Inoltre, Trurl si ricordò di mettere, nel regno da lui costruito, una favolosa capitale, tutta marmo e alabastro, con un consiglio di saggi dalle lunghe barbe, con palazzi d’inverno e palazzi d’estate, congiure, cospiratori, fanatici religiosi e falsi testimoni, infermiere e informatori, tiri di magnifici cavalli, piume rosse che si agitavano al vento; poi rallegrò l’atmosfera con fanfare d’argento e ventun cannonate a salve in segno di saluto, vi aggiunse il giusto numero di traditori e di eroi, vi unì un pizzico di profeti e di veggenti, con un messia e un grande poeta ciascuno.
A quel punto si chinò sulla sua costruzione e la mise in moto, effettuando con molta abilità — grazie agli strumenti microscopici di cui si serviva — le ultime correzioni, e alle donne di quel regno diede la bellezza, agli uomini un temperamento cogitabondo e un’aria imbronciata quando bevevano, ai burocrati arroganza e servilismo, agli astronomi un trascinante entusiasmo per le stelle e ai bambini una grande capacità di fare chiasso. E il tutto, una volta montato e messo a punto, stava in una scatola, e neppure una scatola molto grande, ma proprio delle dimensioni giuste per spostarla senza difficoltà.
Poi la portò in dono a Excelsius, perché ne fosse il Re e signore in perpetuo, e per prima cosa gli mostrò dove fossero l’input e l’output del suo nuovo regno, e come programmarvi le guerre, spegnere le ribellioni, incassare le tasse, e gli insegnò i punti critici e gli stadi di transizione di quella società micro-miniaturizzata — in altre parole, i massimi e minimi dei golpe e delle rivoluzioni — e spiegò così bene ogni cosa, che il Re, vecchio esperto di tirannie, capì subito le istruzioni, e senza esitare, sotto gli occhi stessi del costruttore, provò a emanare qualche proclama, muovendo nel modo corretto le manopole di controllo, a forma di aquile imperiali e di leoni reali.
I proclani annunciavano lo stato di emergenza, la legge marziale, il coprifuoco, e una leva speciale. Dopo che nel regno fu passato un anno, che per il Re e per Trurl equivaleva a meno di un minuto, con un atto di grande magnanimità — ossia con pochi tocchi sulle leve di comando — Excelsius condonò una pena di morte, congedò i soldati di leva e si degnò di annullare lo stato di emergenza… e subito un enorme grido di gratitudine, simile allo squittio di un topolino preso per la coda, si levò dalla scatola, e attraverso il suo coperchio, curvo come una lente d’ingrandimento, si poté vedere, sulle strade polverose e lungo il greto dei pigri fiumi che riflettevano le poche nubi del cielo, la felicità della gente, che lodava l’insuperabile benevolenza del sovrano.
E così, anche se all’inizio il dono di Trurl gli era parso un insulto, poiché il regno era troppo piccolo, poco più di un giocattolo per bambini, il monarca vide che, grazie allo spesso coperchio-lente, tutto quello che c’era all’interno finiva per sembrare grande; forse capiva anche, confusamente, che la dimensione, in quel caso, non era importante, perché i governi non si misurano in metri e in chilogrammi, e le emozioni sono sempre le stesse, sia quando siano i giganti, sia quando siano i nani a provarle… e così ringraziò il costruttore, anche se un po’ rigidamente. Chissà, forse avrebbe preferito farlo arrestare e torturare a morte, per stare più tranquillo: così avrebbe soffocato sul nascere ogni pettegolezzo sul volgare stagnino ambulante che aveva donato un regno a un grande monarca.
Excelsius era abbastanza intelligente, comunque, per capire che sarebbe stato impossibile, perché sarebbe stato più facile per un branco di pulci impadronirsi del cane di cui erano ospiti che per l’esercito reale impadronirsi di Trurl. Così, con un altro cenno del capo e senza alcuna cordialità, prese la scatola contenente il regno e la portò nella sua umile capanna da esule.
E mentre all’esterno i giorni abbaglianti si alternavano alle notti buie, in accordo con il ritmo di rotazione dell’asteroide, il Re — riconosciuto dai suoi sudditi come il più grande del mondo — regnò diligentemente, ordinando questo, vietando quello, punendo, premiando… continuando a instillare nei suoi minuscoli sudditi la massima fedeltà per la Corona, una sorta di venerazione per il loro Re.
Quanto a Trurl, fece ritorno a casa e riferì all’amico Klapaucius, non senza orgoglio, come avesse messo a frutto le sue capacità di costruttore per soddisfare le aspirazioni autocratiche di Excelsius tutelando, al tempo stesso, le aspirazioni democratiche dei suoi ex-sudditi, ma Klapaucius, invece di complimentarsi con lui, lo guardò con aria di rimprovero.
«Ho capito bene?» chiese, infine. «Mi hai dato a quel despota brutale, a quello schiavista nato, a quel sadico torturatore, un’intera civiltà da dominare e tiranneggiare per sempre? E mi parli delle grida di gioia suscitate da una provvisoria sospensione di alcuni dei suoi crudeli decreti? Trurl, come hai potuto fare una cosa simile?»
«Tu stai scherzando!» esclamò Trurl. «Senti, l’intero regno sta in una scatola di 70 centimetri per 50 per 60… è solo un modello…»
«Un modello di che?»
«Che cosa intendi dire, ’di che’? Di una civiltà, naturalmente, a parte il fatto che è cento milioni di volte più piccolo».
«E come puoi sapere che non esistano civiltà cento milioni di volte più grandi della nostra? E se ci fossero, la nostra sarebbe solo un modello? E che importanza possono avere le dimensioni? In quel tuo regno-scatola, il viaggio dalla capitale a uno degli angoli non richiede parecchi mesi… per i suoi abitanti? E non soffrono, non conoscono la fatica del lavoro, non muoiono?»
«Un momento» obiettò Trurl. «Sai bene che tutti quei processi avvengono perché li ho programmati, e di conseguenza non sono genuini».
«Non sono genuini? Intendi dire che la scatola è vuota, e che le sfilate, le torture e le decapitazioni sono solo un’illusione?»
«Non sono un’illusione, perché sono reali, anche se unicamente come fenomeni di statura microscopica, da me prodotti lavorando sulla materia che li compone» spiegò Trurl. «Il fatto è che tutte quelle nascite, quegli amori, atti d’eroismo e tradimenti sono soltanto piccoli moti di gruppi di elettroni nei circuiti abilmente disposti da me, grazie alla mia capacità di creare sistemi non lineari…»
«Basta con queste vanterie, non un’altra parola!» ribatté Klapaucius. «Sono processi che si auto-organizzano o no?»
«Certo che si auto-organizzano!»
«E hanno luogo tra nubi infinitesimali di cariche elettriche?»
«Lo sai anche tu: è così» rispose Trurl.
«E gli eventi fenomenologici della nascita, della morte, delle battaglie sono generati dalla concatenazione di variabili reali?»
«Certo».
«E non siamo anche noi, se ci esaminiamo fisicamente, meccanicisticamente, statisticamente e meticolosamente, nient’altro che piccoli movimenti di nubi di elettroni? Cariche positive e negative disposte nello spazio? E la nostra esistenza non è il risultato di collisioni subatomiche e il gioco reciproco di particelle, anche se noi percepiamo questi movimenti molecolari come paura, desiderio o meditazione? E quando sogni a occhi aperti, che cosa c’è nel tuo cervello, se non un’algebra binaria di circuiti chiusi e aperti, un continuo spostamento di elettroni?»
«Via, Klapaucius» protestò Trurl «paragoneresti la nostra esistenza a quella di un modellino di regno chiuso in una scatola di vetro? No, davvero, la cosa è andata troppo oltre! lo ho voluto soltanto costruire una simulazione di stato, un modello cibernetico perfetto, niente di più!»
«Trurl! La nostra perfezione è la nostra maledizione, perché attira su ciascuna nostra impresa un’infinità di conseguenze imprevedibili!» disse Klapaucius, con voce ferma. «Se un imitatore imperfetto, volendo infliggere dolore, si costruisse un rozzo idolo di legno o di cera, e poi gli desse un’approssimativa somiglianza con una creatura senziente, la sua tortura della statua sarebbe una ben squallida presa in giro!
«Ma considera un’intera serie di successivi perfezionamenti! Considera il secondo scultore della serie, che costruisce una bambola con un registratore nella pancia: una bambola che geme sotto i suoi colpi; poi considera una bambola che, quando viene percossa, implora di avere pietà di lei: questa non è più una semplice statua, ma un sistema omeostatico; infine, considera una bambola che piange, una bambola che perde sangue, una bambola che teme la morte, anche se desidera la pace che solo la morte può offrire!
«Non vedi che, se l’imitatore è perfetto, lo è anche l’imitazione, e l’apparenza diventa vera, la finzione diventa realtà! Trurl, tu hai preso un numero incommensurabile di creature capaci di soffrire e le hai lasciate per sempre nelle mani di un perfido tiranno… Trurl, hai commesso un crimine orrendo!»
«Sofismi!» gridò Trurl, alzando il tono di voce perché sapeva che l’amico aveva ragione. «Gli elettroni non si muovono soltanto nel nostro cervello, ma anche nei circuiti di amplificazione di un giradischi, quando legge un disco fonografico; eppure questo non dimostra niente, e certo non offre una base per simili analogie ipostatiche! I sudditi di quel mostruoso Excelsius muoiono effettivamente, quando sono decapitati, e piangono e combattono e s’innamorano, perché è così che ho fissato i parametri, ma è impossibile dire, Klapaucius, che sentano qualcosa nel processo: gli elettroni che si muovono nelle loro teste non hanno niente da dirci a questo proposito!»
«E se dovessi guardare all’interno della tua testa, anch’io vedrei soltanto elettroni» rispose Klapaucius. «Via, adesso non fingere di non capire quello che dico; so benissimo che non sei stupido! Un disco fonografico non andrà mai a fare le commissioni per te, non implorerà pietà e non si getterà in ginocchio! Dici di non poter sapere se i sudditi di Excelsius piangono, quando sono battuti, solo perché gli elettroni, dentro di loro, seguono determinati percorsi prestabiliti — come tanti ingranaggi che, girando, originano l’imitazione di una voce — o se gemono davvero, ossia perché provano realmente l’esperienza del dolore.
«Bella differenza, questa! No, Trurl, un sofferente non è una persona che ti porge la sua sofferenza, in modo che tu possa toccarla, soppesarla, morderla come una moneta; un sofferente è una persona che si comporta da sofferente! Dimostrami qui e subito, una volta per tutte, che i sudditi di Excelsius non soffrono, non pensano, non esistono in alcun modo come esseri coscienti della loro prigionia tra due abissi di oblio — l’abisso che precede la nascita e quello che segue la morte — dimostrami questo, Trurl, e io non insisterò più. Dimostrami che hai solo imitato la sofferenza e che non l’hai creata!»
«Sai benissimo che è impossibile» rispose Trurl, tranquillamente. «Ancor prima di prendere in mano gli strumenti, quando la scatola di vetro era vuota, ho dovuto prevedere la possibilità di una simile dimostrazione… per cancellarla. Altrimenti, il monarca di quel regno, presto o tardi, avrebbe avuto l’impressione che i suoi sudditi non fossero veri sudditi, ma burattini, marionette. Cerca di capire, non c’era altro modo! Qualunque cosa capace di distruggere sia pur minimamente l’illusione di una completa realtà, avrebbe distrutto anche l’importanza, la dignità di governare, facendolo diventare un semplice gioco meccanico…»
«Ti capisco fin troppo bene!» esclamò Klapaucius. «Sei partito con le intenzioni più nobili: volevi soltanto costruire il regno più naturale possibile, un regno così simile a un regno vero che nessuno potesse notare la differenza, e in questo, temo, hai avuto un successo insperato! Sono passate poche ore dal tuo ritorno, ma per loro, per le creature nella scatola di vetro, sono passati parecchi secoli… e quante creature, quante vite sprecate, al solo scopo di appagare la vanità di Re Excelsius!»
Senza una parola, Trurl ritornò di corsa alla sua astronave, e vide che l’amico lo seguiva.
Quando si trovò nello spazio, puntò la prua tra due grandi ammassi di fiamme eterne e girò fino in fondo la manetta del carburante. Klapaucius disse: «Trurl, sei proprio un caso disperato. Ogni volta, tu prima agisci e poi pensi! E adesso cosa intendi fare, quando sarai arrivato laggiù?»
«Gli toglierò il regno!» «E che cosa ne farai?»
«Lo distruggerò!», avrebbe voluto gridare Trurl, ma si fermò alla prima sillaba quando comprese che cosa stesse dicendo. Infine mormorò: «Farò le elezioni. Che si scelgano un capo onesto, uno di loro».
«Li hai programmati per essere signori feudali o vassalli. A che servirebbe un’elezione? Prima dovresti smantellare l’intera struttura del regno, per poi ricrearla da zero…»
«E a che punto» continuò Trurl «finisce il cambiamento delle strutture e inizia l’alterazione delle coscienze?»
Ma Klapaucius non aveva una risposta; il viaggio proseguì in un silenzio carico di tensione finché non avvistarono il planetoide di Excelsius. E mentre orbitavano attorno a esso e si preparavano a scendere, scorsero qualcosa di davvero straordinario.
L’intero pianeta era coperto di innumerevoli segni di vita intelligente. Ponti microscopici, semplici linee, cavalcavano ogni fiume, mentre i laghetti, su cui si riflettevano le stelle, erano pieni di barche simili a minuscole schegge di legno… E la zona notturna del pianeta era punteggiata di città scintillanti, mentre su quella diurna si scorgevano enormi metropoli, anche se gli abitanti erano troppo piccoli per essere visti, pure con la lente d’ingrandimento. Del Re non c’era alcuna traccia, come se la terra l’avesse inghiottito.
«Non è qui» sussurrò Trurl intimorito. «Che cosa ne avranno fatto? In qualche modo devono essere riusciti a uscire dalla loro scatola e hanno occupato l’asteroide…»
«Guarda!» disse Klapaucius, indicando una nuvoletta, grossa come un cucchiaino e a forma di fingo, che si alzava rapidamente nell’atmosfera. «Hanno scoperto l’energia atomica laggiù, vedi quel pezzo di vetro? E quanto resta della scatola: l’hanno trasformato in una sorta di tempio».
«Non capisco. Dopotutto, era solo un modello. Un processo con un elevato numero di parametri, una simulazione, un’imitazione che serviva a un monarca per fare pratica di regno, con i necessari feedback, le variabili, gli stati molteplici…» mormorò Truri, confuso.
«Sì, ma hai commesso un errore imperdonabile: quello di fare troppo perfetta la tua creazione. Per evitare di costruire un semplice meccanismo a orologeria, senza volere — con la tua solita pignoleria — hai dato origine a un processo non solo possibile, ma logico e inevitabile, verso un sistema aperto, il vero contrario di un semplice meccanismo chiuso entro i suoi binari…»
«Basta, basta!» esclamò Trurl, continuando a guardare l’asteroide, in silenzio. All’improvviso, qualcosa batté contro la loro astronave, di striscio. I due costruttori si girarono in quella direzione e poterono vedere l’oggetto, perché era illuminato da una sottile corona di fiamma che usciva dalla sua coda: sembrava un’astronave, o forse un satellite artificiale, anche se era assai simile a uno degli stivali di ferro che Trurl aveva visto ai piedi del tiranno Excelsius. E quando i costruttori sollevarono lo sguardo, videro un corpo celeste che orbitava attorno al piccolo pianeta — in precedenza, non c’era — e riconobbero, nella sua palla gelida e biancastra, il severo cipiglio dello stesso Excelsius, che era diventato la luna dei Microminimi.
LE TRE MACCHINE NARRATRICI DI RE GENIUS
PREMESSA
IL CAVALIERE SFERICO.
Un giorno, a casa di Trurl si presentò uno sconosciuto, ed era chiaro, non appena uscì dalla sua feluca a fotoni, che non si trattava di una persona qualsiasi, ma venuta da luoghi lontani, perché dove noi tutti abbiamo le braccia aveva soltanto un leggero soffio d’aria, dove abbiamo le gambe un lucente arcobaleno e al posto della testa un cappello con una lunga piuma; la voce usciva dal suo centro esatto, e la sua forma era quella di una sfera perfetta, una sfera di aspetto affascinante, con una fascia di tessuto semipermeabile per cintura.
Inchinandosi a Trurl, il nuovo venuto rivelò che in realtà era costituito di due personalità, la semisfera alta e quella bassa: quella alta era chiamata Sincronico, e quella bassa Sinfonico.
A Trurl parve un ottimo sistema per costruire gli esseri intelligenti: dovette ammettere di non avere mai conosciuto una persona così ben disposta, così precisa e con un così bel riflesso sulla superficie esterna.
Lo straniero ricambiò il complimento lodando la bella presenza di Trurl, poi venne allo scopo della sua visita: si presentò come intimo amico e leale servitore del famoso Re Genius e disse che voleva ordinargli tre macchine capaci di raccontargli storie.
«Il nostro grande Re e sovrano» spiegò «da tempo si è allontanato dalle attività di regno e di governo: un’abdicazione totale, cui è stato spinto da una saggezza raggiunta con l’attento studio di questo e di altri mondi. Lasciato il suo regno, si è ritirato in una caverna asciutta e ben arieggiata, e laggiù si dedica alla meditazione. Eppure, a volte la sua disposizione di spirito lo porta alla tristezza e all’autocompatimento, e in quei casi la sola cosa in grado di consolarlo sono le storie: storie nuove e inconsuete. Ma, ahimè, i pochi di noi che sono rimasti fedelmente al suo fianco hanno finito da tempo tutte quelle che conoscevano. Ci rivolgiamo perciò a te, o grande costruttore, perché tu possa divertire il nostro Re con quelle macchine che tu sai costruire tanto bene».
«Be’, la cosa è possibile» rispose Trurl «ma perché ve ne occorrono tre?»
«Vorremmo» rispose Sincrofonico, ruotando lentamente su se stesso «che la prima raccontasse storie complesse, che però non dessero adito a preoccupazioni, la seconda storie acute e divertenti, e la terza storie profonde e commoventi».
«In altre parole, la (1) per passare il tempo, la (2) per intrattenersi e la (3) per edificare la mente» commentò Trurl. «Credo di avere capito. Parliamo del pagamento subito o alla consegna?»
«Quando avrai ultimato il lavoro, strofina questo anello» rispose la sfera «e vedrai comparire davanti a te la feluca. Sali su di essa con le tue macchine e ti porterà immediatamente alla caverna di Re Genius. Là potrai esprimere i tuoi desideri; lui farà il possibile per esaudirli».
Gli rivolse un altro inchino, consegnò a Trurl un anello, s’inchinò di nuovo e ritornò sulla feluca, che venne immediatamente avvolta da una nebbia di luce accecante; un istante più tardi, Trurl era solo davanti alla propria casa e guardava l’anello che teneva in mano. Non era granché soddisfatto di quanto era successo.
«‘Farà il possibile per esaudirli’» mormorò, ritornando al suo laboratorio. «Oh, come li odio, quando parlano così! Significa solo una cosa: quando si arriva alla questione del pagamento, gli inchini e le belle parole finiscono, e in cambio del tuo lavoro ottieni solo di passare dei guai e, spesso, ne ricavi qualche ammaccatura…»
A queste parole, l’anello che teneva sul palmo della mano si illuminò e disse: «L’espressione ’farà il possibile’ significa soltanto che Re Genius, non avendo un regno, è un sovrano dai mezzi limitati. Si è rivolto a te, o costruttore, come un filosofo a un altro filosofo, e a quanto pare non si sbaglia, perché queste parole, anche se a dirle è un anello, non ti stupiscono. Non preoccuparti per le ristrettezze di Sua Altezza e non avere paura: riceverai quanto ti spetta, anche se forse non in oro. Del resto, ci sono cose assai più desiderabili dell’oro».
«Certo, Messer Anello» rispose Trurl, seccato. «La filosofia va benissimo, ma gli ampere, gli ioni e gli atomi, per non parlare delle altre minutaglie occorrenti per costruire una macchina… costano, costano in maniera diabolica! Perciò, preferisco che i miei contratti siano chiari, che tutto sia nero su bianco, articoli, commi e codicilli, con una bella serie di firme e di bolli. E anche se non sono una persona avida e incontentabile, l’oro mi piace, soprattutto in notevoli quantità, non mi vergogno di ammetterlo! Il suo riflesso, la sua particolare coloritura tra il rosso e il giallo, il suo dolce peso sul palmo della mano… tutte queste cose, quando rovescio sul tavolo un paio di sacchetti pieni di ducati e poi mi diverto a ficcarci le mani dentro, mi scaldano il cuore e mi illuminano lo spirito, come se qualcuno accendesse dentro di me un piccolo sole. Sì, maledizione, l’oro mi piace!» gridò, trascinato dalle sue stesse parole.
«Ma perché deve essere oro che ti danno gli altri? Non sei in grado di fabbricarti tutto l’oro che vuoi?» chiese l’anello, ammiccando per la sorpresa.
«Be’, non so fin dove arrivi la saggezza del vostro Re Genius» ribatté Trurl «ma tu sei un anello di enorme ignoranza! Come, dovrei fabbricarmi da solo il mio oro? Chi ha mai sentito qualcosa di simile? Il ciabattino si fa forse le scarpe? E il cuoco cucina per sé, il soldato combatte guerre che egli stesso dichiara? Comunque, nel caso non lo sapessi, ciò che più mi piace, dopo l’oro, è lamentarmi. Ma basta con queste chiacchiere vane, c’è del lavoro da fare».
Infilò l’anello in una vecchia scatola di latta, si rimboccò le maniche e in tre giorni costruì le tre macchine, senza mai lasciare il laboratorio. Poi si chiese quale forma esterna dare loro, perché voleva qualcosa che fosse nello stesso tempo semplice e funzionale. Provò vari contenitori, uno dopo l’altro, mentre l’anello continuava a interferire con commenti e suggerimenti, tanto che Trurl fu costretto a chiudere il coperchio della scatola.
Infine Trurl dipinse le macchine — la prima bianca, la seconda di un bell’azzurro cielo, la terza nera come un lustrino — strofinò l’anello, caricò le tre macchine sulla feluca che era apparsa immediatamente, salì a bordo a sua volta e attese i nuovi sviluppi, curioso di sapere che cosa stesse per accadere. Si levarono un fischio e un sibilo, la polvere si sollevò attorno alla feluca e, quando ricadde a terra, Trurl guardò dall’oblò e vide che si trovava in un’ampia caverna, dal pavimento cosparso di sabbia bianca; poi notò varie panche di legno coperte di libri e di disegni, e infine un gruppo di sfere scintillanti. Una di queste era il forestiero che aveva ordinato le macchine, e quella centrale, che era più grande delle altre e recava su di sé i graffi dell’età, doveva essere il Re. Trurl scese dall’astronave e s’inchinò. Il Re lo salutò gentilmente e disse: «Ci sono due tipi di saggezza, la prima tende all’azione, la seconda all’inazione. Non sei d’accordo, o degno Trurl, che la seconda sia la superiore? Infatti, neanche le menti più lungimiranti possono prevedere le estreme conseguenze delle loro imprese, e l’incertezza delle conseguenze rende problematiche le imprese stesse. Perciò, la perfezione sta nell’astenersi da ogni azione. In questo la vera saggezza differisce dal semplice intelletto».
«Le parole di Vostra Maestà» rispose Trurl «si prestano a due interpretazioni. Potrebbero contenere, per prima cosa, una sottile allusione mirante a sminuire il valore del mio lavoro, ossia l’impresa che ha come conseguenza le tre macchine contenute nella qui presente feluca spaziale. E’ un’interpretazione che giudico molto sgradevole, perché indica una certa, chiamiamola così, disinclinazione verso la questione dei pagamenti. Oppure siamo semplicemente davanti a un enunciato della Dottrina del Non-Agire, di cui si può semplicemente far notare la contraddittorietà. Per astenersi dall’agire, per prima cosa bisogna essere capaci di agire. Colui che non sposta le montagne perché non ne ha i mezzi, e proclama che la saggezza gli ha ispirato di non muoverle, fa solo la figura dello sciocco, con questa sua esibizione di filosofia. L’inazione è una via sicura, e questa è la sua sola qualità positiva. L’azione è incerta, ed è proprio in questo che sta il suo fascino. Quanto alle ulteriori ramificazioni del problema, se Vostra Maestà lo desidera, posso costruire un opportuno meccanismo con cui conversare dell’argomento».
«Il problema della remunerazione rimandiamolo al termine di questa deliziosa occasione che ti ha portato sulle nostre terre» disse il Re, tradendo, con un leggero movimento su se stesso, il grande divertimento che gli aveva dato la perorazione di Trurl. «Sei nostro ospite, nobile costruttore. Perciò, vieni a sedere alla nostra umile tavola, in mezzo a questi amici fedeli, e parlaci delle imprese da te compiute, nonché di quelle a cui hai preferito rinunciare».
«Vostra Maestà è troppo gentile» rispose Trurl. «Però, temo di non disporre della necessaria eloquenza, forse queste tre macchine potranno farlo al posto mio… Una scelta che avrebbe l’ulteriore merito di fornire a Vostra Maestà l’occasione di metterle alla prova».
«Che sia come dici tu» convenne il Re.
Tutti manifestavano profondo interesse e attesa. Trurl andò a prendere nella feluca la prima macchina — quella dipinta di bianco — pigiò un pulsante e poi andò a sedere a fianco di Re Genius. La macchina disse: «Vi narrerò la storia dei Moltitudiani, del loro Re Mordileone, del Consigliere Perfetto e di Trurl il costruttore, che prima fabbricò il Consigliere e poi fece in modo di distruggerlo!»
LA STORIA DELLA PRIMA MACCHINA
OVVERO
IL CONSIGLIERE PERFETTO
La terra dei Moltitudiani è famosa per i suoi abitanti, caratterizzati dal fatto di essere moltitudini. Un giorno il costruttore Trurl, passando per la regione dello zafferano della costellazione Deliria, si allontanò leggermente dalla giusta rotta e scorse un pianeta che pareva contorcersi e fremere. Quando si avvicinò, vide che era effetto delle moltitudini che ne coprivano la superficie; vi atterrò non appena ebbe trovato — non senza difficoltà — alcuni metri quadrati di terreno relativamente sgombero. Gli abitanti corsero immediatamente verso di lui e lo circondarono da tutti i lati, complimentandosi con se stessi per essere una moltitudine, anche se, dato che parlavano tutti insieme, Trurl non riuscì a distinguere una sola parola. Quando finalmente capì cosa dicevano, chiese: «Siete davvero moltitudini, voi?»
«Eccome!» gridarono loro, sprizzando orgoglio da tutti i pori. «Siamo innumerevoli!»
E altri aggiunsero: «Siamo numerosi come i pesci nel mare!»
«Come i grani di sabbia sulla riva del fiume!» «Come le stelle nel cielo! Come gli atomi!»
«Ammesso che lo siate» ribatté Trurl «che importanza ha? Passate tutta la giornata a contarvi, e questo vi dà piacere?»
«Sappi, o straniero ignorante» risposero «che quando battiamo a terra il piede, tremano le montagne, e quando ci gonfiamo i polmoni e soffiamo, si leva un uragano che sradica gli alberi, e quando ci sediamo tutti insieme, rimane giusto lo spazio per respirare!»
«Ma perché far tremare le montagne, far sradicare gli alberi dagli uragani, e privarsi dello spazio per respirare?» chiese Trurl. «Non è meglio che le montagne stiano ferme, non ci siano uragani e tutti possano respirare liberamente?»
I Moltitudiani presero come un’offesa quella mancanza di rispetto per i loro forti numeri e per la forza numerica, così batterono a terra i piedi, gonfiarono i polmoni e soffiarono, poi si sedettero, per fargli capire che erano davvero una moltitudine e che cosa significasse. Il terremoto fece crollare metà degli alberi e uccise settecentomila persone, gli uragani spazzarono via il resto, causando la morte di altre settecentomila, mentre quelle rimaste in vita avevano a malapena lo spazio per respirare.
«Santo Cielo!» esclamò Trurl, bloccato in mezzo ai nativi come un mattone in una parete di mattoni. «Che catastrofe!»
Questo li offese ancora di più.
«O barbaro e ignorante straniero!» dissero. «Che cosa sono poche centinaia di migliaia di persone per i Moltitudiani, le cui miriadi sono innumerevoli? Una perdita che non si nota non è affatto una perdita. Ora che hai visto quanto siamo forti quando battiamo il piede per terra, quando soffiamo e quando ci sediamo, pensa che cosa succederebbe se puntassimo più in alto!»
«Non dovete credere» rispose Trurl «che il vostro modo di pensare mi sia del tutto sconosciuto. In effetti, è noto che tutto ciò che si presenta in quantità sufficientemente grande attira su di sé l’ammirazione generale. Per esempio, un po’ di gas puzzolente che circoli con lentezza in fondo a un vecchio barile non meraviglia nessuno, ma se ne avete a sufficienza per fare una Nebulosa Galattica, tutti la guardano subito con grande stupore, anche se in realtà è sempre lo stesso gas puzzolente e comune… solo che ce n’è una quantità spaventosa».
«Non ci piace quello che dici!» gridarono. «Non ci piace essere paragonati a un gas puzzolente!»
Trurl si guardò attorno, per cercare la Polizia, ma la folla era troppo compatta, la Polizia non sarebbe riuscita a farsi strada fino a lui.
«Miei cari Moltitudiani» disse «permettetemi di lasciare il vostro pianeta, perché non condivido la vostra fede nella gloria dei grandi numeri, che contemplano soltanto quello che si può contare».
Ma i Moltitudiani, invece di accogliere la richiesta di Trurl, si scambiarono un’occhiata e un cenno d’intesa, poi schioccarono le dita, e questo originò un’onda d’urto di una forza così prodigiosa che Trurl venne scagliato in aria e volò, roteando su se stesso, per parecchi chilometri, prima di atterrare in piedi in un giardino del palazzo reale.
Laggiù, Mordileone, sovrano dei Moltitudiani, venne ad accogliere il costruttore; aveva visto il volo di Trurl e la sua discesa, e ora disse: «Mi si riferisce, o straniero, che non hai tributato il giusto omaggio alla numerosità della mia gente. Lo attribuisco a una tua generica infermità mentale. Eppure, anche se mostri di non capire le realtà più elevate, pare che tu sia dotato di una qualche capacità di quelle basse, e questa è una fortuna, perché ho bisogno di un Consigliere Perfetto, e tu me lo costruirai!»
«Cosa dovrebbe essere in grado di fare, esattamente, questo Consigliere, e che compenso riceverò per costruirlo?» chiese Trurl, togliendosi la polvere dal vestito.
«Deve rispondere a tutte le domande, risolvere tutti i problemi, dare i migliori consigli e, in sintesi, mettere a mia disposizione la saggezza più alta in assoluto. In cambio riceverai duecento o trecentomila dei miei sudditi, o anche di più, se ne vuoi… non staremo a litigare per poche migliaia».
Trurl pensò: «A quanto pare, una sovrabbondanza di esseri pensanti è pericolosa, perché li riduce alla condizione di granelli di sabbia. Questo Re rinuncerebbe a una legione dei suoi sudditi con la stessa indifferenza con cui io getterei via una vecchia ciabatta!»
A voce alta, però, disse: «Sire, la mia casa è piccola e non riuscirebbe a contenere un così grande numero di schiavi».
«Non temere, o straniero ignorante, io ho degli esperti che ti spiegheranno gli innumerevoli benefici che si possono trarre dal possesso di un’orda di schiavi. Per esempio, puoi rivestirli di abiti variopinti e disporli coreograficamente in una grande piazza, come un mosaico vivente, o far loro comporre delle scritte con cui esprimerai la tua opinione sui vari argomenti.
«Puoi farne un piccolo fascio e farli rotolare per una collina, oppure costruire un enorme martello — cinquemila per la testa, tremila per il manico — da usare per spaccare le rocce o per tagliare le foreste.
«Puoi intrecciarli in una corda e farne festoni decorativi da appendere: quelli in fondo, con le accidentali rotazioni dei loro corpi, i calci che sferrano in aria e i loro gridi nel vedere il vuoto sotto di loro, danno uno spettacolo che riscalda il cuore e rallegra l’occhio.
«Oppure puoi prendere diecimila giovani schiave: le fai stare in piedi su una gamba sola e ordini loro di fare la figura dello zero con indice e pollice della mano sinistra e di girare verso l’esterno la destra… un vero spettacolo, credi, da cui non ti separeresti mai, e lo dico per esperienza!»
«Sire!» rispose Trurl. «Delle foreste e delle rocce posso occuparmi con le mie macchine, e quanto alle scritte e ai mosaici, non ho l’abitudine di farli con individui che probabilmente aspirerebbero ad altro».
«Cento sacchetti d’oro!»
Mordileone non amava separarsi dal suo oro, ma gli venne un’idea, un piano ingegnosissimo, che però si guardò bene dal rivelare. Disse al costruttore: «Va bene!»
«Vostra Altezza Reale avrà il suo Consigliere Perfetto» promise Trurl, e si diresse alla torre del castello che Mordileone gli aveva assegnato come laboratorio. Non dovette passare molto tempo perché dalla torre giungesse il soffio dei mantici, il clangore dei martelli, il sibilo delle seghe. Il Re inviò spie a osservare; queste, al loro ritorno, gli riferirono con stupore che Trurl non aveva costruito un Consigliere, ma una serie di macchine per forgiare, saldare, tagliare e cablare macchine, e che poi si era seduto e, con un chiodo, aveva praticato tanti buchi in una lunga striscia di carta; programmato così il Consigliere in ogni suo aspetto, era uscito a fare una passeggiata, mentre le macchine lavoravano nella torre. Avevano lavorato per tutta la notte e la mattina seguente il lavoro era finito. Verso mezzogiorno, Trurl entrò nella sala delle udienze con un’enorme bambola con due gambe e una sola mano; la presentò al Re, annunciando che era il Consigliere Perfetto.
«Guarda guarda» mormorò Mordileone, e ordinò di spargere sul pavimento zafferano e cannella, perché il Consigliere puzzava ancora di ferro arroventato (la macchina, appena uscita dalla fornace, in certi punti era ancora rovente). «Tu puoi andare» disse ancora il Re, rivolto a Trurl. «Ritorna questa sera, e vedremo chi pagherà chi».
Trurl si congedò, dicendosi che le ultime parole di Mordileone non promettevano grande generosità e forse nascondevano qualche intenzione malvagia. Si rallegrò con se stesso per avere limitato l’universalità del Consigliere mediante una piccola — ma tutt’altro che indifferente — precauzione: aveva incluso nel programma un’istruzione perché, qualunque cosa facesse, non potesse mai permettere che il suo costruttore venisse ucciso.
Rimasto solo con il Consigliere, il Re chiese: «Che cosa sei e che cosa sai fare?»
«Sono il Perfetto Consigliere del Re» rispose la macchina, con voce bassa e piena di echi, come se parlasse dall’interno di un barile «e posso fornirgli i migliori consigli che esistano».
«Ottimo» commentò il Re. «E a chi devi fedeltà e perfetta obbedienza, a me o a colui che ti ha costruito?» «Devo fedeltà e obbedienza soltanto a Vostra Altezza Reale» rispose il Consigliere, con la sua voce rimbombante. «Ottimo, ottimo» fece il Re. «Ora, tanto per iniziare, io… ecco… non vorrei dare l’impressione, con la mia prima richiesta, di essere, per così dire, un po’ tirato… però, in una certa misura, capirai, anche solo per principio… non sei d’accordo anche tu?»
«Vostra Altezza Reale non si è degnata di dire ciò che desidera» rispose il Consigliere, appoggiandosi a una terza gamba che gli era uscita dal fianco al primo accenno di capogiro.
«Un Perfetto Consigliere dovrebbe leggere i pensieri nella mente del padrone!» disse Mordileone, acido. «Certamente, ma solo previa espressa richiesta, per non causargli imbarazzo» rispose il Consigliere; aperto un portellino sulla pancia, girò la manopola con la scritta «Telepatitrone». Poi annuì e disse: «Vostra Altezza Reale non vuole dare a Trurl neppure un soldo bucato? Capisco». «Ripeti una sola parola di tutto questo e finirai nella grande macina, le cui pietre riescono a stritolare trentamila dei miei sudditi in un colpo solo!» minacciò il Re. «Non lo dirò a nessuno!» gli assicurò il Consigliere. «Se Vostra Altezza Reale non vuole pagarmi, la cosa è facile. Quando Trurl si presenterà, ditegli solo che l’oro non c’è e che è pregato di andarsene».
«Tu sei un idiota, non un consigliere!» esclamò il Re. «Io non voglio pagare, ma facendo ricadere la colpa su Trurl! Come se non gli dovessi neppure un soldo, capisci?»
Il Consigliere accese di nuovo lo strumento che gli permetteva di leggere i pensieri del Re, barcollò per qualche istante, poi disse con voce priva di inflessione: «Vostra Altezza Reale desidera inoltre dare l’impressione di agire con giustizia e in accordo con la legge e la sua sacra parola di Re, e che Trurl faccia la figura di un vile imbroglione e truffatore… va bene. Con il permesso di Vostra Altezza, ora vi afferrerò per la gola e cercherò di strangolarvi, e se voi aveste la compiacenza di divincolarvi e gridare aiuto…»
«Sei impazzito, Consigliere?» esclamò Mordileone. «Perché dovresti strangolarmi e io chiedere aiuto?»
«Per poi accusare Trurl di aver voluto commettere, usando me come tramite, il crimine di regicidio» spiegò il Consigliere, allegramente. «Così, quando Vostra Altezza Reale lo farà scacciare a frustate e lo getterà nel fossato, tutti diranno che è stato un comportamento altamente misericordioso, perché per un simile crimine si viene di solito squartati, e solo dopo essere stati torturati pubblicamente. A me, invece, Vostra Altezza Reale concederà la grazia, dato che sono stato soltanto uno strumento involontario nelle mani di Trurl, e tutti loderanno la magnanimità e la compassione del Re, e le cose andranno esattamente come desidera Vostra Altezza Reale».
«Va bene, allora, soffocami… ma con rispetto, cane!» disse il Re.
Tutto andò esattamente come previsto dal Perfetto Consigliere. Certo, il Re avrebbe voluto far strappare le gambe a Trurl, prima di gettarlo nel fossato dall’alto delle mura del castello, ma, per qualche motivo, la cosa non andò in porto — senza dubbio una confusione negli ordini, pensò poi il sovrano, ma in realtà era stata opera della macchina, intervenuta con discrezione presso uno degli aiutanti del boia.
Poi il Re concesse la grazia al Consigliere e lo accolse nuovamente a corte; Trurl, intanto, ammaccato e dolorante, faceva lentamente ritorno a casa.
Non appena arrivato, andò a trovare l’amico Klapaucius e gli raccontò tutta la storia, concludendo così: «Quel Mordileone è un vero bandito, assai più di quanto non immaginassi. Non solo mi ha ingannato vergognosamente, ma si è perfino servito del mio Consigliere per portare a termine il suo piano delinquenziale! Ah, ma si sbaglia di grosso, se crede che Trurl accetti la sconfitta! Che la ruggine mi divori, se mai tralasciassi di vendicarmi di quel tiranno!»
«Che cosa intendi fare?» chiese Klapaucius.
«Lo trascinerò in tribunale. Gli farò causa per rivendicare la mia parcella, e sarà solo l’inizio! Dovrà pagarmi tutti i danni… compresi gli insulti e le offese!»
«Mi pare che il tuo problema legale sia piuttosto complesso» disse Klapaucius. «Ti suggerisco di assumere un buon avvocato, prima di fare qualsiasi passo».
«Assumere un avvocato? Ne fabbricherò uno!»
Così, Trurl tornò a casa, gettò sei cucchiaini da tè — con la gobba — di transistor in una grossa pentola, vi aggiunse una pari quantità di condensatori e di resistenze, li coprì di elettrolito, girò bene e chiuse il tutto con un coperchio, poi andò a dormire, e in tre giorni la miscela si era organizzata in modo da generare un avvocato di grido. Trurl non ebbe neppure bisogno di toglierlo dalla pentola, perché era un avvocato usa e getta, perciò posò il contenitore sul tavolo e chiese: «Che cosa sei?»
«Sono un avvocato consulente e uno specialista in giurisprudenza» disse la pentola, con voce un po’ gorgogliante, perché Trurl aveva messo troppo elettrolito. Il costruttore espose l’intera situazione, e la pentola disse: «Sostieni di avere limitato il programma del Consigliere mediante un’istruzione che gli impediva di ucciderti?»
«Sì, affinché lui e il Re non potessero eliminarmi. Questa è stata l’unica limitazione che gli ho imposto».
«In tal caso non hai rispettato i tuoi obblighi contrattuali: il Consigliere doveva essere perfetto, senza limiti. Se non poteva ucciderti, allora non era perfetto».
«Ma se mi avesse ucciso, non ci sarebbe stato nessuno a riscuotere quel pagamento!»
«Quella cui ti riferisci è una questione distinta e del tutto diversa, che riguarda la responsabilità penale di Mordileone, mentre la tua richiesta di pagamento ricade in un procedimento di tipo civile».
«Ascolta, non voglio sentirmi raccontare un mucchio di chiacchiere legali da una pentola» disse Trurl, con rabbia. «E poi, che razza di avvocato sei? Prendi le mie parti o quelle di Mordileone, il bandito?»
«Le tue, ma aveva il diritto di non pagarti».
«E aveva il diritto di farmi gettare dalle mura del suo castello nel fossato?»
«Come ho detto, si tratta di un problema completamente diverso, di natura penale e non civile» rispose la pentola. A Trurl saltò la mosca al naso.
«Ho preso un mucchio di vecchi fili, interruttori e resistenze, e ne ho fatto una creatura intelligente, ma invece di un onesto suggerimento, sento solo un mucchio di disquisizioni teoriche da legulei! T’insegno io a prendermi in giro. azzeccagarbugli elettronico da quattro soldi!»
Rovesciò sul tavolo il contenuto della pentola e lo fece a pezzi prima che l’avvocato potesse appellarsi contro la sua decisione.
A quel punto, Trurl si rimise al lavoro per costruire un Consulente Legale a due piani e a quattro rinforzi forensi, completo di codici e codicilli, civili e penali, e — tanto per stare sul sicuro — vi aggiunse anche la legislazione internazionale e quella sul commercio estero. Alla fine accese la macchina, le espose il suo caso e chiese: «Come posso fare per avere quello che mi spetta?»
«Non sarà facile» rispose la macchina. «Per analizzare il problema, mi occorrono altri cinquecento transistor in cima e duecento di lato».
Trurl li montò e la macchina disse: «Non basta! Aumenta la corrente e metti due bobine in più, per favore». Infine, ottenuto quello che desiderava, la macchina cominciò: «Il caso è molto interessante, in effetti. Ci sono due aspetti da prendere in considerazione: i presupposti della richiesta, per prima cosa — e a questo proposito possiamo fare molto — e poi l’effettiva discussione della causa. Ora, è assolutamente impensabile citare il Re in un qualsiasi tribunale per una causa civile, perché è contro le leggi internazionali e quelle interplanetarie. Sono pronto a esporti la mia opinione definitiva, ma prima mi devi giurare di non distruggermi dopo che l’avrai ascoltata».
Trurl diede la sua parola e disse: «Mi chiedo da dove ti sia venuta l’idea che io possa fare qualcosa di simile…»
«Oh, non so… semplicemente, mi pareva che ce ne fosse il rischio».
Trurl pensò che fosse dovuto all’impiego, nella costruzione della nuova macchina, di qualche elemento proveniente dall’avvocato in pentola; a quanto pareva, una traccia mnemonica dell’incidente doveva essere entrata nei nuovi circuiti, creando una sorta di complesso subconscio.
«Allora, la tua opinione definitiva?» chiese Trurl.
«Semplicemente questa: non esiste alcun tribunale adatto e di conseguenza non si può aprire il procedimento. La tua causa, in altre parole, non può essere né vinta né persa».
Trurl scattò in piedi e agitò minacciosamente il pugno contro la sua macchina giuridica, ma dovette mantenere la parola e non poté farle nulla. Si recò da Klapaucius e gli raccontò ogni cosa.
«Ho capito fin dal primo momento che si trattava di un caso disperato» commentò Klapaucius «ma tu non hai voluto ascoltarmi».
«Quel torto non rimarrà impunito» rispose Trurl, livido. «Se non posso ottenere soddisfazione in tribunale, troverò un’altra maniera per dire il fatto suo a quel Re degli imbroglioni!»
«Mi chiedo come tu possa fare» commentò Klapaucius. «Ricorda, hai dato a quel Re un Consigliere Perfetto, che può fare tutto, tranne ucciderti; il Consigliere può evitare ogni colpo, malattia o disgrazia diretti contro quel Re e contro il suo regno… e riuscirà a farlo, ne sono certo, perché ho la massima fiducia, mio caro Trurl, nella tua abilità di costruttore!»
«Vero» ammise Trurl. «A quanto pare, nel creare il Consigliere Perfetto, ho rinunciato a ogni possibilità di sconfiggere quel bandito regale. Eppure, ci dev’essere un punto debole nella sua corazza! Non mi fermerò finché non l’avrò trovato!»
«Cosa intendi dire?» domandò Klapaucius, ma Trurl si limitò ad alzare le spalle e tornò a casa. Là giunto, si sedette al tavolo e cominciò a meditare; sfogliò con impazienza qualche volume, tra le centinaia custoditi nella sua biblioteca, condusse qualche esperimento segreto nel suo laboratorio. Klapaucius andò a visitarlo di tanto in tanto, e si stupì nel vedere la tenacia con cui cercava di vincere se stesso, dato che il Consigliere era una parte di Trurl e possedeva una saggezza pari alla sua.
Un pomeriggio, Klapaucius arrivò alla solita ora ma non trovò Trurl a casa. Tutte le porte erano chiuse, le finestre avevano gli scuri. Il costruttore ne concluse che Trurl doveva avere dato inizio alle ostilità contro il signore dei Moltitudiani. E non si sbagliava.
Nel frattempo, Mordileone godeva del proprio potere come non mai; ogni volta che rimaneva a corto di idee, chiedeva al suo Consigliere, il quale ne aveva una scorta inesauribile. Il Re, senza più timore di golpe di palazzo, intrighi di corte o nemici di qualsiasi genere, continuò a regnare con pugno di ferro e, in verità, quante erano le viti che maturavano nelle vigne del Sud, altrettante e ancor di più erano le forche che decoravano le campagne del regno.
A quel punto il Consigliere aveva tre ceste piene di medaglie conferitegli per i buoni suggerimenti dati al suo Re. Una microspia inviata da Trurl nel paese dei Moltitudiani gli aveva riportato la notizia che, per i suoi più recenti successi — aveva organizzato per il Re una parata lungo la via principale, usando i cittadini come coriandoli — Mordileone aveva pubblicamente definito il Consigliere il suo «caro amico».
Trurl diede inizio alla sua campagna militare, accuratamente preparata, scrivendo al Consigliere una lettera, su carta da lettere velina per posta aerea, color avorio, decorata con un disegno a mano libera di un albero di casuarie. Il contenuto della lettera era molto semplice. Diceva:
Caro Consigliere,
spero che le cose ti vadano bene come vanno bene a me, e ancor meglio, se possibile. Il tuo padrone ha riposto in te tutta la sua fiducia, a quanto sento, e perciò non devi dimenticare le tremende responsabilità che questo comporta di fronte ai posteri e al berne comune; mi auguro, di conseguenza, che tu svolga i tuoi doveri con la massima diligenza e alacrità. E se mai dovessi trovare difficile eseguire qualche desiderio del tuo sovrano, usa il metodo speciale-extra che un tempo ti ho insegnato. Se vuoi rispondi, ma poi non prendertela se la mia risposta tarderà ad arrivare, perché sto lavorando a un Consigliere per il Re D. proprio in questi giorni e non ho molto tempo. Ti prego di porgere i miei rispetti al tuo gentile padrone. Con i più sentiti auguri e i migliori saluti, il tuo costruttore
Naturalmente, questa lettera destò i sospetti della Polizia segreta dei Moltitudiani e venne sottoposta ai più meticolosi esami, che non rivelarono sostanze nascoste nella carta, né, se è solo per questo, si poterono trovare segreti nel disegno dell’albero — cosa che fece quasi impazzire il Quartier Generale. La lettera venne fotografata, fotocopiata e semplicemente copiata a mano, poi l’originale venne di nuovo sigillato e inoltrato al destinatario.
Il Consigliere lesse con allarme il messaggio, intuendo che si trattava di una mossa avente lo scopo di minacciare, se non distruggere, la sua posizione, perciò si recò subito dal Re e gli parlò della lettera, descrivendo Trurl come una canaglia mirante a screditarlo agli occhi del padrone; poi provò a decifrare il messaggio, convinto che dietro quelle parole in apparenza innocenti si nascondesse qualcosa di cupo e terribile.
A questo punto, però, il saggio Consigliere si fermò e rifletté per qualche istante… poi informò il Re della sua intenzione di decodificare la lettera di Trurl, spiegando che, così facendo, voleva smascherare il tradimento del costruttore; poi, raccolto il necessario numero di treppiedi, filtri, imbuti, provette e reagenti chimici, cominciò ad analizzare la carta da lettera e la busta. La Polizia, naturalmente, seguì con attenzione ogni suo gesto, perché aveva fissato nelle pareti della sua stanza i soliti strumenti per spiare e origliare. Quando la chimica gettò la spugna, il Consigliere ricorse alla criptoanalisi, convertendo il testo della lettera in lunghe colonne di numeri, grazie all’aiuto di un calcolatore elettronico e delle tavole dei logaritmi… ignaro del fatto che parecchie squadre di specialisti della Polizia, guidati dal Gran Maresciallo dei Codici in persona, ripetevano tutte le sue operazioni.
Ma niente pareva in grado di scoprire il messaggio misterioso, e il Quartier Generale divenne sempre più inquieto, perché era chiaro che un codice capace di resistere a sforzi di decifrazione così accaniti doveva essere uno dei più ingegnosi mai inventati. Il Grande Maresciallo ne parlò a un dignitario di corte, che, curiosamente, provava una terribile invidia per la fiducia riposta da Mordileone nel suo Consigliere.
Il dignitario, desideroso di insinuare un seme di dubbio nel cuore del Re, disse a Mordileone che il suo amichetto meccanico passava una notte dopo l’altra sveglio, a studiare la lettera sospetta. Il Re rise e disse di saperlo benissimo, perché glielo aveva riferito il Consigliere stesso. Il dignitario invidioso se ne andò via con la coda tra le gambe e riferì subito l’accaduto al Grande Maresciallo.
«Oh!» esclamò il venerabile crittografo. «L’ha davvero detto al Re? Che sfacciato traditore! Inoltre, deve certamente trattarsi di un codice diabolico, se osa parlarne così apertamente!»
E ordinò ai suoi uomini di raddoppiare gli sforzi. Trascorsa però una settimana senza risultati, venne chiamato il massimo esperto in scritture segrete, il rinomato scopritore del linguaggio dei segni invisibili, professor Crausticus. Questo studioso, esaminato il documento incriminato, oltre alla documentazione del lavoro già svolto dai militari, annunciò che avrebbe applicato il sistema per prove ed errori, servendosi di computer con capacità di calcolo astronomiche.
E così fece; risultò che la lettera poteva essere interpretata in 318 modi diversi.
Le prime cinque varianti erano le seguenti:
«La dirigenza da Bakersville è arrivata in orario, ma al pappagallo [da ospedale] è saltata una valvola.
Rotola la zia dalla locomotiva sotto forma di cotolette.
Oggi il burro non si sposa, / Perché manca la gazosa.
Chi ha avuto, ha avuto, chi ha dato ha dato ha dato
Con un po’ di tortura, puoi estrarre da una fragola qualsiasi cosa.
Secondo il grande studioso, l’ultima variante era quella che portava al codice: con trecentomila calcoli, trovò che sommando tutte le lettere della missiva, sottraendo la distanza del pianeta dal sole e sommandovi il numero di ombrelli prodotto l’anno precedente, una volta estratta la radice cubica si arrivava a una parola: «crusafix». Nella guida telefonica c’era un solo cittadino che avesse un nome simile: un certo Crucifax, ma Crausticus sostenne che le poche lettere cambiate erano un ultimo tentativo per confondere gli analizzatori, e Crucifax venne arrestato.
Convinto a parlare grazie a qualche interrogatorio di sesto grado, l’accusato confessò di aver complottato con Trurl e che il piano prevedeva di fornirgli delle puntine da disegno avvelenate e un martello con cui uccidere il Re. Il Grande Maresciallo dei Codici si affrettò a portare a Re Mordileone queste innegabili prove di tradimento; tuttavia, il sovrano poneva una tale fiducia nel suo Consigliere da permettergli addirittura di giustificarsi.
Il Consigliere non negò che la missiva si potesse leggere in tanti modi, riordinandone le lettere; lui stesso, per esempio, aveva scoperto la possibilità di altre centomila varianti. Questo, però, non dimostrava niente, perché — spiegò il Consigliere — era possibile riordinare le lettere di qualsiasi testo e cavarne un senso compiuto: il procedimento si chiamava «anagramma» e se ne occupava la teoria delle combinazioni e delle permutazioni.
No, protestò il Consigliere, Trurl voleva liberarsi di lui facendo credere che esistesse un messaggio segreto in una lettera che in realtà non ne conteneva affatto, mentre quel povero Crucifax, Dio lo sapeva, era innocente e la sua confessione era un’invenzione degli esperti del Quartier Generale, che avevano sempre avuto una grande abilità nell’incoraggiare gli accusati a collaborare, per non parlare delle loro macchine da interrogatorio, la cui potenza arrivava a varie migliaia di kilofruste.
Il Re non apprezzò affatto le critiche mosse alla sua Polizia e chiese al Consigliere che cosa intendesse dire, ma questi attaccò a parlare di anagrammistica e di steganografia, codici e cifrari, simbolo e segno, probabilità e teoria dell’informazione, e presto arrivò a un tale livello di incomprensibilità che il Re perse la pazienza e lo fece gettare nella cella più profonda delle sue segrete.
Proprio allora arrivò una cartolina postale di Trurl con le seguenti parole:
«Caro Consigliere,
non scordarti delle viti rosse… potrebbero venirti utili.
Immediatamente il Consigliere venne messo sulla ruota di tortura, ma non volle ammettere niente e continuò con ostinazione a ripetere che era tutto un piano di Trurl; quando gli chiesero delle viti rosse, giurò di non averne nessuna e di non sapere che cosa fossero.
Naturalmente, per condurre un’indagine completa, era necessario aprire il Consigliere. Il Re diede il permesso, i fabbri si misero all’opera, le piastre si spaccarono sotto le loro martellate, e presto vennero portate al Re due viti sporche di olio, che, innegabilmente, erano dipinte di rosso. Così, anche se il Consigliere era stato completamente demolito nel corso del procedimento, il Re fu certo di avere fatto la cosa giusta.
Un settimana più tardi, Trurl si presentò al portone del palazzo e chiese udienza. Stupito da una simile faccia tosta, il Re, invece di far uccidere immediatamente il costruttore, ordinò di ammetterlo alla presenza reale.
«O Re!» disse Trurl, non appena entrò nella sala delle udienze e si trovò in mezzo a due file di cortigiani. «Vi ho costruito un Consigliere Perfetto e voi l’avete usato per defraudarmi del mio compenso, pensando — e non erroneamente — che l’intelligenza che gli avevo dato fosse uno scudo perfetto contro ogni attacco, e che perciò ogni mio tentativo di vendicarmi sarebbe stato vano. Ma nel darvi un Consigliere intelligente, io non ho certamente dato l’intelligenza a voi, ed è su questo che mi sono basato, perché occorre essere dotati di buon senso per riconoscere i consigli sensati. Non c’era nessun sistema ragionevole — per quanto astuto, sofisticato, complesso — che permettesse di distruggere il Consigliere. Lo si poteva fare soltanto con un metodo rozzo, primitivo, stupido oltre ogni dire.
«Non c’era nessun messaggio cifrato nella lettera; il vostro Consigliere è rimasto fedele fino all’ultimo; delle viti rosse che hanno portato alla sua eliminazione, non sapeva niente. Vedete, per caso erano cadute in una lattina di vernice mentre costruivo il Consigliere, per caso mi è ritornato in mente il particolare, e l’ho utilizzato.
«In questo modo la stupidità e il sospetto hanno neutralizzato la saggezza, e la fedeltà, e voi stesso siete stato la causa della vostra caduta. Ora mi darete le cento borse d’oro che mi dovete, e altre cento per il tempo che ho dovuto perdere per incassarle. Se non lo farete, voi e tutta la vostra corte morirete, perché non avete più, al vostro fianco, il Consigliere che poteva difendervi da me!»
Con un ruggito di rabbia, il Re ordinò alle guardie di fare a pezzi l’insolente, ma le loro alabarde passarono attraverso il corpo del costruttore come se fosse fatto d’aria, e le guardie indietreggiarono, inorridite. Trurl rise e disse: «Colpite quanto vi pare… questa è solo un’immagine ottenuta con proiezioni telecomandate. In realtà io sono in orbita attorno al vostro pianeta, su una nave, e se non avrò l’oro che mi spetta scaglierò i miei missili mortali contro il palazzo».
E, prima ancora che avesse finito di parlare, una terribile esplosione fece tremare l’intera costruzione; i cortigiani fuggirono di qua e di là, in preda al panico, e il Re, che si sentiva quasi mancare per l’ira e la vergogna, dovette pagare a Trurl il suo compenso, fino all’ultima moneta d’oro, e altrettanto come multa.
Klapaucius, quando Trurl stesso, al suo ritorno, gli ebbe raccontato l’accaduto, gli chiese perché avesse impiegato un sistema così primitivo e — nelle sue stesse parole — stupido, invece di mandare una lettera che contenesse davvero un messaggio in codice.
«La presenza di un messaggio era più facilmente spiegabile, da parte del Consigliere, che la sua assenza» rispose l’astuto costruttore. «E’ sempre più facile giustificarsi di avere commesso un errore che dimostrare la propria innocenza. In questo caso, la presenza di un messaggio cifrato avrebbe fatto rientrare nella routine la questione del contenuto della lettera; la sua assenza, invece, ha portato a ogni genere di complicazioni.
«Infatti, entrambi sappiamo che le lettere di qualsiasi testo possono essere ricombinate a piacimento, ossia anagrammate, in modo da dare un’infinità di testi diversi. Però, per chiarire la cosa, occorrerebbero dimostrazioni che, pur essendo del tutto corrette, tendono a rivelarsi un po’ complicate… dimostrazioni che, secondo me, il Re non era in grado di seguire, non essendo abbastanza intelligente. Una volta, si è detto che per spostare un pianeta basta trovare un buon punto d’appoggio; io, per scalzare una mente perfetta, ho dovuto cercare qualcosa su cui fare leva, ed è stata la stupidità».
PRIMO INTERMEZZO
OVVERO
DELLA SFERICITA’
La prima macchina aveva terminato il suo racconto; fece un profondo inchino a Re Genius e al gruppo degli ascoltatori, poi, educatamente, si ritirò in un angolo della caverna.
Il Re disse di essere rimasto soddisfatto della narrazione e chiese a Trurl: «Dimmi, mio buon costruttore, la macchina racconta solo quello che tu le hai insegnato o la fonte delle sue conoscenze è indipendente da te? Inoltre, permettimi di osservare che la storia che abbiamo udito, per quanto istruttiva e interessante, mi pare incompleta, perché non sappiamo che cosa sia successo in seguito ai Moltitudiani e al loro ignorante Re».
«Vostra Maestà» disse Trurl «la macchina riferisce solo verità, poiché ho accostato alla mia testa, prima di venire qui, il suo aspiratore di informazioni, permettendole di attingere ai miei ricordi. Ma l’ha fatto da sé, e non so quali miei ricordi abbia scelto; perciò non si può dire che le abbia intenzionalmente insegnato qualcosa, e neppure che la sua fonte di informazioni sia esterna a me.
«Quanto ai Moltitudiani, la storia, effettivamente, non ci ha detto niente del loro destino successivo; ma anche se tutto si può raccontare, non tutto si adatta alla storia. Supponiamo che quanto sta avvenendo qui, in questo momento, non sia la realtà, ma solo una favola — una favola di ordine superiore — che racchiude la storia raccontata dalla macchina: un ascoltatore potrebbe chiedersi perché voi e i vostri compagni avete forma sferica, dato che la sfericità non riveste alcuno scopo nella narrazione e sembrerebbe un abbellimento del tutto superfluo…»
I compagni del Re si meravigliarono per la perspicacia del costruttore e il Re stesso disse, con un largo sorriso: «C’è un notevole fondo di verità in quello che dici. Per quanto riguarda la nostra forma, ti racconterò come è andata. Molto, molto tempo fa, il nostro aspetto — ossia, l’aspetto dei nostri antenati — era del tutto diverso, perché erano nati per volontà di certe creature piene di acqua, e dall’interno spugnoso; creature pallide, che li avevano costruiti a loro immagine e somiglianza. Così i nostri antenati avevano braccia, gambe, testa, e un tronco che univa tutte quelle appendici. Ma una volta che si furono liberati dei loro creatori, sentirono la necessità di eliminare perfino quella traccia della loro origine: così, ogni generazione ha trasformato la propria forma esteriore, finché non si è arrivati alla forma di una sfera perfetta. E perciò, bene o male che sia, adesso siamo sfere».
«Vostra Maestà» rispose Trurl «una sfera ha caratteristiche positive e nello stesso tempo negative, dal punto di vista del costruttore. Ma in genere è preferibile che una creatura intelligente non possa cambiare la propria forma, perché una simile libertà è in realtà un tormento. Chi è costretto a rimanere quello che è, può maledire il suo destino, ma non può cambiarlo; viceversa, chi può trasformarsi non ha nessun altro che se stesso da biasimare per i suoi insuccessi, soltanto se stesso da ritenere responsabile della propria insoddisfazione. Tuttavia, non sono venuto qui, o Re, per farvi una lezione sulla Teoria Generale dell’Autocostruzione, ma per mostrarvi le mie macchine narratrici. Volete ascoltare la prossima?»
Il Re acconsentì e, dopo avere brindato alla macchina con bicchierini della migliore ambra grigia ionizzata, la compagnia tornò a sedere e si mise comoda. La seconda macchina si avvicinò, s’inchinò al Re e disse: «O Possente Re! Ecco una storia, anzi un vero nido di storie, con armadi e suppellettili, del costruttore Trurl e delle sue meravigliose avventure non lineari!»
LA STORIA DELLA SECONDA MACCHINA
OVVERO
IL BENEFATTORE DEL PIANETA
Accadde un giorno che il Grande Costruttore Trurl venisse convocato dal Re Tirapollici Terzo, sovrano di Tyrannia, il quale voleva imparare da lui come raggiungere la perfezione della mente e del corpo. Trurl gli rispose come segue:
Una volta atterrai sul pianeta Legaria e, come faccio sempre, mi fermai in un’osteria, deciso a restare nella mia stanza finché non avessi conosciuto meglio la storia e le abitudini dei Legariani. Era inverno, fuori soffiava il vento e nel buio edificio non c’era nessuno, finché, all’improvviso, non sentii bussare al portone.
Guardando fuori, vidi quattro figure incappucciate, che scaricavano da un automezzo blindato un mucchio di grosse valigie nere; poi gli incappucciati entrarono nell’albergo. L’indomani, verso mezzogiorno, dalla stanza vicina giunsero i suoni più strani: fischi, colpi di martello, ansimi, vetri rotti, e in mezzo a tutti quei rumori si levava una voce in chiave di basso profondo, che gridava senza interruzione: «Più svelti, figli della vendetta, più svelti! Versate gli elementi, muovete quel setaccio! Senza scuotere! L’imbuto, adesso! Riempite bene!
«Bene, e adesso fabbricatemi lo scampaschiuma, lo schivapinze, lo strizzafori, l’unità mnemonica edulcorata, quel maledetto figlio di un cacciavite che è andato a nascondersi codardamente nella fossa! Ma neppure la morte riuscirà a proteggerlo dalla nostra giusta collera! Passatemelo subito, con quel suo cervello svergognato e le sue gambette striminzite! E ora, tu con quelle pinze, pensiamo al naso! Di più, di più… dobbiamo poterlo afferrare bene, per l’esecuzione! E voi, forza sui mantici, miei fidi! Mettetelo nella morsa! E adesso piantate quei chiodi sulla sua faccia di bronzo! Una seconda fila, bene… Così… perfetto! Forza con quel martello! Uno-due, uno-due! E tirate quei nervi… non deve svenire troppo presto, come quello di ieri! Deve sorbire la nostra vendetta fino all’ultima sorsata, all’ultimo centello, all’ultimo zinzino! Uno-due! Ehi-ho, ehi-ho!»
La voce continuò a ruggire in questo modo, e le fecero eco i colpi di martello sull’incudine e il soffio dei mantici, finché non si udì un forte starnuto, e da quattro gole si levò un grido di trionfo. Subito dopo, sentii un breve trepestio, qualche sbuffo soffocato, rumore di colpi, e infine il cigolio di una porta che veniva aperta.
Guardando da una fessura della porta, vidi gli sconosciuti uscire dalla stanza e — anche se la cosa sembrava incredibile — adesso erano cinque!
Si avviarono tutti verso la scala e scesero in cantina: si chiusero a chiave e vi rimasero a lungo. Quando ne uscirono — solo in quattro — era ormai pomeriggio inoltrato e tutti avevano un’aria stanca ed erano silenziosi come se fossero stati a un funerale.
L’indomani, alla stessa ora, ossia verso mezzogiorno, i martelli ripresero a battere, i mantici a soffiare, e la voce terribile a gridare in chiave di basso: «Avanti, figli della vendetta! Più in fretta, miei elettrici fidi! Spalla alla ruota! Versate i protoni, gli ioni! E adesso coraggio, portiamo via quel maniaco dalle orecchie a sventola, quell’aspirante mago, quel maledetto miscredente e imbroglione incorreggibile, fatemelo prendere per il suo collo mal lavato e fatemelo portare, scalciante, a una morte certa e definitiva! Avanti con quei mantici, ho detto!»
E ancora una volta, alla fine di tutto, si udì un forte starnuto, ci fu un breve tafferuglio, e tutti lasciarono la stanza, in punta di piedi.
Nuovamente ne contai cinque, quando scesero, ma risalirono solo in quattro. Compresi che per risolvere il mistero dovevo recarmi laggiù: così, mi armai di pistola laser e, allo spuntar dell’alba, scesi in cantina, dove trovai soltanto qualche pezzo di metallo bruciacchiato e rotto; mi nascosi dietro un mucchio di paglia, mi sedetti nell’angolo più buio e aspettai che arrivassero i misteriosi personaggi.
E infatti, verso mezzogiorno, cominciai a sentire le grida e i colpi di martello, ormai familiari, poi, tutt’a un tratto, la porta si aprì e fecero il loro ingresso quattro persone, che ne trascinavano una quinta legata mani e piedi.
Quest’ultimo indossava un giustacuore di foggia antica, rosso vivo e con il collo di pizzo, e un berretto con la piuma; aveva la faccia tonda e il naso enorme, storceva la bocca per la paura e continuava a farfugliare parole incomprensibili.
I Legariani sbarrarono la porta e cominciarono a picchiarlo selvaggiamente, gridando, uno dopo l’altro: «Questo è per la Profezia della Felicità! E questo per la Perfezione dell’Essere! Beccati questo per il Letto di Rose, e questo per il Cesto di Ciliegie, per il Quadrifoglio dell’Esistenza! E questo per l’Elevazione dello Spirito!»
E lo colpivano con pugni e bastoni, con una tale forza che gli avrebbero certamente fatto rendere l’anima, se non avessi annunciato la mia presenza uscendo dalla paglia e puntando la pistola.
Quando ebbero lasciato libera la vittima, chiesi al quartetto perché punissero in quel modo un individuo che non pareva né un fuorilegge né un inutile vagabondo, almeno a giudicare dalla foggia e dal colore del suo vestito, che erano quelli di uno studioso.
I Legariani dondolarono prima su una gamba e poi sull’altra, lanciarono occhiate piene di desiderio alle loro armi, rimaste accanto alla porta, ma quando accesi la luce d’innesco e aggrottai la fronte, cambiarono idea e, scambiandosi qualche occhiata tra loro, chiesero al più grosso di tutti, quello con il vocione di basso, di parlare per loro. «Sappi, o straniero sconosciuto» disse quegli, girandosi verso di me «che non parli a comuni imbroglioni, delinquenti o banditi, o ad altre degenerazioni della specie dei robot, perché, anche se una cantina non parrebbe il luogo più adatto, quel che facciamo è l’opera più meritoria che si possa immaginare ed è anzi — non esito a dire — qualcosa di bello e santo!»
«Meritorio e santo?» esclamai. «Che cosa mi vai raccontando, o vile Legariano? Non ho visto con i miei occhi come vi siete lanciati sul vostro compagno dal farsetto rosso? E che gli avete assestato tali colpi che dalle vostre stesse articolazioni schizzava via l’olio? Osi chiamarla una cosa bella?»
«Se la Vostra Stimatissima Forestierezza continuerà a interrompere» rispose il Legariano dalla voce di basso «non verrà a sapere nulla, e perciò la invito cortesemente a tirare le redini della sua degnissima lingua e a domare l’irrequietezza del suo cavo orale, oppure dovrò trattenermi dal parlare.
«Sappia che davanti a sé ha i migliori fisici — cybernisti ed elettristici del primo ordine — miei allievi, brillanti e vigili, le migliori menti di Legaria, e io sono Vendetius Ultor d’Amentia, professore emerito di materie positive e negative ed enunciatore del Reincarnazionismo Onnigenerico, e ho dedicato la mia vita alla sacra opera della vendetta.
«Con l’aiuto di questi miei fedeli seguaci io ora vendico la vergogna e le sofferenze della mia gente su quell’escrescenza rossa e purulenta inginocchiata davanti a noi, un vile insetto chiamato — e che sia sempre maledetto il suo nome — Malapustio ovvero Malapusticus Pandemonius, che con l’inganno e la fellonia, con il furto e l’irreparabilità, ha portato l’infelicità fra i Legariani! Infatti, è stato lui a spingerli ad agire a loro detrimento e ad altre diavolerie, li ha scomposticcherati, rimbambineggiati e del tutto stramminchionati… poi si è surrettiziamente rifugiato nella tomba per evitare la punizione, convinto che nessun male potesse più raggiungerlo!»
«Non è vero, Vostra Sublime Visitatorietà! Non ho mai inteso… voglio dire, non avevo idea!…» gemette il nasuto facciatonda, dall’abbigliamento rubro, inginocchiato davanti a me. Io lo fissai, senza capire, mentre il basso intonava: «Gargomanticus, caro figliolo, scalcia il piagnone nelle troppo soffici terga!»
Il figliolo obbedì, con una tale velocità da far echeggiare la cantina. Mi affrettai a dire: «Fino al termine delle spiegazioni, calci e percosse sono assolutamente proibiti per l’autorità conferitami da questa pistola. Intanto, a lei la parola, professor Ultor, è pregato di continuare».
Il professore brontolò tra sé, fece per protestare, e infine disse: «Perché lei sappia come s’è verificata la nostra grande disgrazia e perché noi quattro, rinunciando alle cose del mondo, abbiamo fondato il Santo Ordine della Forgia della Resurrezione, consacrando il resto della nostra vita alla dolce vendetta, le riferirò la storia della nostra specie a partire dall’inizio della creazione…»
«E’ proprio necessario andare così indietro?» chiesi io, perché temevo che la mia mano s’indebolisse sotto il peso della pistola.
«Sì, Vostra Stranierezza! Ascolti… Ci sono leggende, come certo saprà, che parlano della razza dei visipallidi, i quali avrebbero creato in una provetta il genere dei robot, anche se — come sa chiunque abbia un po’ di buon senso — si tratta di una sciocca bugia.
«Infatti, all’inizio, non c’era che il Buio Informe, e nel Buio la Magneticità, che trascinava gli atomi di giro in giro. E un atomo, nel suo roteare, ne colpì un altro, e così nacque la Corrente, e la Prima Luce… la quale accese le stelle.
«Poi i pianeti si raffreddarono e nei loro nuclei l’afflato della Sacra Statistica diede origine ai Protomeccanoi, dai quali sorsero i Proteromeccanidi, che lasciarono posto ai Meccanismi Primitivi.
«Questi non sapevano ancora calcolare, faticavano a fare due più due, ma grazie all’Evoluzione e alla Sottrazione Naturale presto si moltiplicarono e generarono gli Omeostati, che generarono i Servostati — l’Anello Mancante — e da essi venne il nostro progenitore, l’«automatus sapiens».
«Dopo di lui vennero i robot delle caverne, i robot cacciatori-raccoglitori, e infine gli imperi robotici. L’elettricità per le loro necessità vitali, i Robot Antichi dovevano fabbricarsela a mano, per strofinìo, e questo era un lavoro vile, una fatica che ottundeva l’intelligenza. Ogni signore feudale aveva moltissimi cavalieri, e ogni cavaliere molti vassalli: anche lo strofinìo era feudale, ossia gerarchico, e andava dai più bassi ai più alti in grado.
«Questo lavoro manuale venne sostituito dalla macchina quando Ylem Symphiliac inventò lo strofinatore elettrostatico e Wolfram di Coulomb il parafulmine senza strofinìo.
«Così ebbe inizio l’Era della Batteria, epoca molto difficile per chi non possedesse un proprio accumulatore, dato che in una giornata serena, senza alcuna nube a cui attingere, dovevano sparagnare ogni frazione di watt e tenersela cara, e strofinarsi in continuazione per non perdere del tutto la carica.
«A quel punto comparve uno studioso, un infernale intellettricista e, come se non bastasse, esperto di efficienza, al quale, da bambino — senza dubbio per qualche intervento diabolico — nessuno aveva mai rincalcato la testa, e cominciò a insegnare che il tradizionale metodo di collegamento elettrico — ossia in parallelo — non aveva alcun valore, e che tutti avrebbero dovuto collegarsi come previsto dal nuovo, rivoluzionario piano da lui escogitato, ossia in serie.
«In serie, infatti, quando il primo della fila strofina, gli altri vengono immediatamente riforniti di corrente, anche a grande distanza, finché ogni robot ribolle letteralmente di volt.
«Ci mostrò i disegni da lui fatti, e ci ritrasse un tale paradiso da indurci a staccare i vecchi circuiti, che erano uguali e indipendenti, e a mettere in opera il suo, quello di Malapusticus Pandemonius».
Così dicendo, il professore picchiò parecchie volte la testa contro il muro, strabuzzò gli occhi e infine riprese a parlare. Ora capivo perché la superficie della sua fronte fosse tanto irregolare e butterata.
«Accadde così che un robot su due dicesse: ’Perché dovrei essere io a strofinare, se basta che lo faccia il mio vicino, e il risultato non cambia?’ E il suo vicino fece come lui, e la caduta di tensione divenne così grave che dovettero mettere, dietro ogni gruppetto, uno speciale caposquadra, e un controllore dietro di lui.
«Poi saltò fuori tiri discepolo di Malapustio — un certo Clustico il Confuso — e disse che ciascuno doveva strofinare non se stesso, ma il proprio vicino, e dopo di lui venne Tontus Altruistus con il suo programma di sadomasoflagellazione, e dopo ancora Magrundo Sputti che propose l’obbligatorietà del salone di massaggio, e dopo di questi comparve un nuovo teorico, Arsus Gargarsus, il quale sosteneva che le nubi dovevano essere accarezzate delicatamente — anziché punte con i parafulmini legati ai palloni — perché così avrebbero ceduto con maggiore grazia la loro carica, e dopo di questi vennero Moscio di Leydonia e Scrofole Thermafrodyne, sostenitori dell’installazione di autoconfricatori, detti anche titillatori o gabbagriglie, e infine Bestio Phystobufficus, che invece dello strofinìo suggerì una buona strigliata… con il bastone.
«Simili divergenze di opinione produssero grandi attriti, che portarono a ogni sorta di anatemi e di scomuniche reciproche, le quali, a loro volta, portarono alla bestemmia e all’eresia, e andò a finire che Faradayco Sterchi, Principe ed Erede al Trono di Allega, venne preso a calci dove non batte il sole, e scoppiò la guerra tra la Bronzea Alleanza Legaritica e l’impero Saldato a Freddo.
«Le ostilità durarono trentotto anni, poi altri dodici, perché verso la fine non si riusciva a capire, in mezzo a tutte quelle macerie, chi avesse vinto, perciò litigarono e ripresero a combattere. Così, il caos regnò e la carneficina divenne sempre più grande, si ebbe un tremendo abbassamento del voltaggio vitale, dappertutto regnavano campi magnetici parassiti e dissipazione chimica, ovvero, come lo chiamava il popolino, condizioni di ’malapustiamento completo’… e tutto questo era stato causato da quel diavolo e dalle sue cosiddette ’idee luminose’, che siano maledette!»
«L’ho fatto con le migliori intenzioni! Lo giuro, Vostra Laserità! Non ho mai pensato ad altro che al benessere generale!» piagnucolò Malapustio, che era ancora inginocchiato (il suo naso fuori del comune tremava tutto). Ma il professore lo allontanò con una gomitata e continuò: «Tutto questo ha avuto luogo 225 anni fa. Come forse avrai già capito, ben prima della Grande Guerra Legariana, prima dell’impoverimento generale, Malapusticus Pandemonius, dopo aver pubblicato un’infinità di trattati poderosi, in ognuno dei quali propagandava le sue vili, perniciose fumisterie, se ne mori bel bello, sereno, sicuro di sé, imperturbabile fino all’ultimo dei suoi giorni.
«Anzi, era così tronfio e soddisfatto di sé, che nelle sue ultime volontà scrisse di aspettarsi di venire nominato ’Supremo Benefattore di Legaria’.
«Comunque, quando arrivò il momento della punizione, non c’era nessuno da punire, nessuno da far pagare, nessuno che si potesse arrostire un po’, legato a uno spiedo.
«Ma io, o Illustre Intruso, dopo aver formulato la Teoria della Facsimilizzazione Generale, ho studiato le opere di Malapustio fino a estrarre il suo algoritmo, che — una volta infilato in una macchina duplicatrice di atomi — poteva ricreare «ex atoms oriundum gemellum», identico a lui fino al grado n, ossia Malapusticus Pandemonius in persona.
«Così, ogni giorno, noi ci riuniamo in questa cantina per infliggergli la pena che gli spetta, e quando è ritornato nella tomba, ricominciamo, per vendicare di nuovo la nostra gente, e così faremo per tutta l’eternità, amen!»
Inorridito, risposi, balbettando: «Professore, deve esservi dato di volta il cervello, se pensate anche per un solo minuto che questa persona — una persona innocente come una valvola appena uscita di fabbrica — che voi ricostruite dagli atomi che lo costituiscono, ogni giorno, debba rispondere degli atti, quali che siano, di un’altra persona che è morta tre secoli fa!»
E il professore rispose: «Allora, chi è questo proboscidato fifone che dice di chiamarsi Malapusticus Pandemonius? Dimmi, come ti chiami, ruggine cosmica?»
«Ma… Mala… Malapustio, Vostra Spietatezza…» balbettò in tono nasale il miserando.
«Comunque, non è «lo stesso» Malapustio» ripetei io.
«Come sarebbe a dire, non è lo stesso?»
«Non ha detto, professore, che Malapustio è morto?»
«Ma noi lo abbiamo fatto risorgere» protestò lui.
«Un sosia, un doppio, una copia esatta, ma non il medesimo, l’originale!»
«Me lo dimostri, signor Sapiente!»
«Non ho bisogno di dimostrare nulla» risposi io «dato che ho in mano questo laser. Inoltre, so benissimo, caro professore, che il tentativo di dimostrare quello che mi chiedi sarebbe una follia, perché la non-identicità dell’identicizzata «recreatio ex atomis individui modo algorytmico» non è altro che il famoso Paradosso Antinomico del Labirinto Lemiano, ben descritto nelle opere di quel famoso robofilosofo che ha il soprannome di Advocatus Laboratoris.
«Perciò — conclusi — senza prove, liberate subito il nasone, e non osate molestare ulteriormente la sua persona!»
«Mille grazie, Vostra Magnanimità!» esclamò il rossoabbigliato, levandosi da terra. «Il caso vuole che abbia, proprio qui — aggiunse, toccandosi la tasca del farsetto — una formula completamente nuova e inedita, questa volta assolutamente a prova di errore, che permetterà ai Legariani di raggiungere lo stato di beatitudine perfetta. Funziona sfruttando l’accoppiamento di schiena, ossia, un aggancio al contrario, schiena contro schiena, a due a due, e non in serie, che era soltanto il risultato di un errore di calcolo, sfuggitomi durante i miei studi di trecento anni fa! Vado immediatamente a trasformare in radiosa realtà questa mia nuova, mirabile scoperta!»
E infatti aveva già la mano sulla maniglia, mentre noi tutti lo guardavamo a occhi sgranati, ammutoliti per la sorpresa.
Abbassai la pistola e, distogliendo gli occhi da tutti, ormai privo di qualsiasi velleità, dissi al professore: «Ritiro ogni obiezione… Fate il vostro dovere…»
Con un sordo ruggito, tutt’e quattro si lanciarono contro Malapustio, lo scagliarono a terra e cominciarono a occuparsi di lui… finché non ne rimase neppure un pezzetto.
Poi, ancora ansimanti, s’infilarono il mantello, sollevarono il cappuccio, mi rivolsero un rigido inchino e uscirono in fila indiana dalla cantina; io rimasi solo, con la pistola laser che si faceva sempre più pesante, la mano che tremava, l’animo colmo di sgomento, il cuore stretto dalla malinconia.
Così Trurl terminò il racconto destinato a far riflettere il Re Tirapollici di Tyrannia, che lo aveva chiamato per imparare da lui la perfezione. Tuttavia, quando il Re gli chiese ulteriori spiegazioni su come raggiungere la perfezione non lineare, Trurl rispose come segue.
Una volta che mi trovavo casualmente sul pianeta Ninnica, potei vedere i risultati del progresso propugnato dal principio perfezionista.
I Ninnicani s’erano dati, molto tempo addietro, un altro nome: Hedophagoi o Giubilo-divoratori, ridotto poi semplicemente a «Giubilatori», e al mio arrivo erano nella loro epoca di massimo benessere.
Ciascun Ninnicano — anzi, Giubilatore — abitava in un palazzo costruito per lui dai suoi autonomatici (così chiamavano i loro schiavi triboluminescenti), veniva unto di essenze profumate, coperto di catene ingemmate, elettricamente massaggiato, impeccabilmente abbigliato, impomatato, pettinato, d’incenso fumigato, di tesori inondato, e rallegrato da piaceri, marmoree sale, squilli di tromba, balli… e nonostante tutto questo, era stranamente insoddisfatto e depresso.
Eppure, avevano tutto quel che si potrebbe desiderare! Su quel pianeta, nessuno aveva mai bisogno di alzare un dito: invece di fare una passeggiata, di bere una sorsata, di farsi una dormita o di intrattenersi con la compagna della propria vita, c’era un passeggiatore che ti faceva passeggiare, un dormitore che ti faceva sognare, un coniugatore che ti faceva accoppiare, e così via, ed era perfino impossibile tirare il fiato per un momento, perché c’era un apparecchio anche per quello.
Così, servito e sostituito da macchine in ogni modo immaginabile, ornato e lucidato da appositi Decoratori e Auto-Colf da cinque a quindici volte al minuto, coperto di un argenteo, fremente sciame di meccanicoli e di macchinetterie appositamente prodotte per rallegrarlo, cullarlo, sussurrargli all’orecchio delicate sciocchezzuole, massaggiargli la schiena, solleticarlo sotto il mento, mettersi sotto i suoi piedi per dargli l’impressione di essere un trionfatore, e continuare a baciare senza sosta tutto quel che porgeva da essere baciato… così il normale Giubilatore (o Hedophago o Ninnicano) traeva nell’ozio i suoi giorni, solo, mentre in lontananza, lungo tutto l’orizzonte, lavoravano le grandi Manufabbriche, che sfornavano in continuazione troni dorati, collane ornate di gemme, pantofoline di perle, manti d’ermellino, scettri, spalline da uniformi di gala, clavicembali e spinette, carrozze e un milione di manufatti e gratifatti destinati a procurare piacere.
Mentre camminavi lungo la strada, dovevi continuamente allontanare macchine senza padrone che ti offrivano i loro servigi; per cacciar via le più sfacciate occorreva colpirle sulla testa, tanta era la loro ansia di essere utili. Alla fine, per allontanarmi dalla loro folla, mi rifugiai tra i monti… e vidi una legione di macchinette dorate brulicare davanti all’imboccatura di una caverna, sbarrata da un muretto di pietra, e attraverso una fessura scorsi gli occhi accesi di un Ninnicano, che evidentemente tentava un’ultima resistenza contro la Felicità Universale.
Nel vedermi, le macchine cominciarono immediatamente ad accalcarsi attorno a me, a raccontarmi favole, a massaggiarmi e a baciarmi le mani, a promettermi un regno, ma per fortuna venni salvato dall’occupante della caverna, che spostò una pietra e mi lasciò entrare.
Era semi-arrugginito, ma lieto della sua condizione di povertà, e mi disse di essere l’ultimo filosofo di Ninnica. Naturalmente, non aveva bisogno di spiegarmi che l’abbondanza, quando era eccessiva, era peggio della privazione, perché — ovviamente — che cosa restava da fare, a una persona, quando poteva avere tutto quello che voleva? E una mente assediata da un mare di paradisi, confusa da una pletora di possibilità, costantemente in un blando stupore causato dalla soddisfazione immediata di ogni capriccio… Come poteva prendere una qualsiasi decisione?
Conversai con quel saggio individuo, che si chiamava Trizivio Hunco, ed egli concluse che se la gente non fosse stata salvata dall’invadenza di quelle macchine e se non fosse comparso qualche Complicatore-Imperfezionatore Ontologico, la fine sarebbe stata inevitabile.
Trizivio — evidentemente colpito dalla monotonia delle vite dei suoi compatrioti — considerava da qualche tempo la Complicazione come la massima soluzione esistenziale; io, però; gli mostrai l’errore della sua posizione, perché il suo sistema per riottenerla si basava semplicemente sull’eliminazione delle macchine a opera di altre macchine, in particolare rosicchieri, mazzatori, tentenaghe, frangigriglia, trincialastra e foratutto. Questo, ovviamente, sarebbe servito unicamente a peggiorare le cose: invece di complicare la realtà, avrebbe sortito l’effetto opposto. Come tutti sanno, la Storia è irreversibile, ed è impossibile ritornare al passato aureo, tranne che nei sogni e nelle fantasticherie.
Così, scelse l’Imperfezione come obiettivo a cui tendere, nella convinzione che essa finisse inevitabilmente per ridare la Complicazione alle vite dei poveri abitanti dei pianeti, oggi instradate in una sola direzione: quella del piacere. E quando decise di passare all’azione, insieme attraversammo la pianura disabitata, immersi fino al ginocchio in dobloni e ducati d’oro prodotti — nel tentativo di rendersi utili — dalle macchine disoccupate.
Dovevamo continuamente ricorrere al bastone per allontanare gli sciami di pestilenziali meccanismi beatificatori, e presto cominciammo a vedere una grande quantità di Ninnicani-Giubilatori sdraiati a terra: erano fuggiti dalle loro case per trovare pace nel deserto, ma erano stati raggiunti dalle macchine e ora gemevano piano, privi di sensi, sazi, soddisfatti, sovrasaturi di piacere; la vista di una tale esagerazione, di un successo così spietato, avrebbe destato pietà in chiunque.
Poi incontrammo gli abitanti delle ville automatizzate — l’antica cintura residenziale, attorno alla città — che si gettavano assurdamente nel cybercatch e in altre elettro-eccentricità: alcuni mettevano una macchina contro l’altra, altri spaccavano suppellettili preziose, perché non potevano più sopportare lo sfoggio di lusso, altri facevano il tiro al bersaglio con smeraldi e diamanti, spezzavano con l’accetta orecchini e diademi, o cercavano di sfuggire alla felicità riparando in cantina o in soffitta, ordinavano alle macchine di colpirli a frustate, o tutte queste cose insieme (o una dopo l’altra). Ma nessuna di queste misure riusciva sia pur minimamente a intaccare la schiera dei macchinari edonistici; come ben sapevamo, quei Ninnicani erano destinati a morire fino all’ultimo, accuditi e assistiti fino alla tomba.
Io avevo sconsigliato a Trizivio la semplicistica soluzione di chiudere le Manufabbriche, perché avere troppo poco — l’eccesso di Imperfezione — è altrettanto pericoloso quanto avere troppo, ma lui (che, come i suoi compatrioti, optava istintivamente per le soluzioni radicali anziché per quelle moderate), invece di analizzare tutte le conseguenze ontologiche di una Complicazione eccessiva, cominciò immediatamente a far saltare in aria le fabbriche con la dinamite.
Fu un grave errore, perché in seguito provocò una grande povertà, anche se — a dire il vero — egli non arrivò mai a vederla. Infatti, durante il tragitto da una fabbrica all’altra, un branco di autosatiri piombò su di lui, approfittando di un suo momento di distrazione: Trizivio venne afferrato da linguiformi e libidinatori che lo trascinarono via con loro.
Portato in un «vezzeggiatorium», venne stordito da tentennatori, solleticato, carezzato e lucidato a pomice fino a fargli scordare quel che si era proposto di fare, e anche la sua forte fibra dovette cedere. Dopo un ultimo grido di «Allo stupro!» giacque senza vita nel deserto, in mezzo alle monete d’oro, con la copertura metallica ormai totalmente consumata dagli assalti della passione meccanica.
«E questa, Vostra Altezza, fu la fine di una persona che era molto saggia, ma che sarebbe potuta esserlo ancora di più!» concluse Trurl; poi, vedendo che non era riuscito a convincere Re Tirapollici, aggiunse: «Che cosa desidera, in realtà, Vostra Altezza?»
«O Costruttore!» rispose Tirapollici. «Tu dici che le tue storie hanno lo scopo di migliorare la mente, ma io non trovo che sia così. Sono divertenti, però, e desidero che tu me ne racconti altre, e che non ti fermi mai».
«O Re!» rispose Trurl. «Tu vuoi imparare da me cosa sia la perfezione, e come la si possa raggiungere, ma non afferri i significati profondi e le grandi verità di cui abbondano le mie storie. In realtà, cerchi il divertimento, più che la saggezza… tuttavia, mentre ascolti, le mie parole ti penetrano lentamente nel cervello e in futuro finiranno anche per agire su di esso, come una sorta di bomba a orologeria. A questo fine, concedimi di narrarti una storia che è complessa, inconsueta e vera — o quasi — ma che può dare qualche buon suggerimento anche ai tuoi consiglieri.
«Ascoltate dunque, nobili signori, la storia di Zipperio, Re dei Partigani, dei Deutoni e dei Profigoti, che la concupiscenza portò alla rovina!»
Zipperio apparteneva alla grande casa di Tup, che era divisa in due rami: i Tuppi Destrogiri, che avevano il potere, e i Tuppi Levogiri — detti anche i Tuppi della Mano Sinistra ovvero i Tuppi Antiorari — che non lo avevano, e che di conseguenza odiavano i loro regali cugini. Il padre, Calcijone, si era unito morganaticamente a una lavoratrice comune, un’addetta a una pompa manuale, e così Zipperio aveva ereditato, dalla parte materna, una tendenza a farsi salire la pressione, e dalla parte paterna un temperamento lussurioso e una natura capricciosa.
Conoscendo i suoi difetti, i nemici del trono, gli Isomeri Sinistri, studiarono un sistema per distruggerlo facendo leva sulle sue tendenze lussuriose.
Così, gli mandarono un cybermedico chiamato Subtilio, esperto d’ingegneria mentale; Zipperio lo prese immediatamente in simpatia e lo nominò Grande Taumaturgo e Apotecario del Trono.
L’astuto Subtilio inventò parecchi sistemi per soddisfare i desideri sfrenati di Zipperio nella segreta speranza di indebolirlo al punto di farlo ammalare. Gli costruì un erotodromo e un debosciatorio, ma la ferrea costituzione del Re riuscì a fargli superare, indenne, tutte quelle depravazioni.
Questo finché gli Isomeri Sinistri, presi dall’impazienza, non ordinarono al loro agente di fare ricorso a tutta la sua astuzia e di mirare senza indugio allo scopo desiderato.
«Volete» chiese loro il cyber-internista, durante un abboccamento segreto nei sotterranei del castello, «che metta in corto circuito il Re o che gli smagnetizzi la memoria per renderlo un idiota?»
«Assolutamente no!» risposero quelli. «In nessun modo si deve poter collegare il nostro nome alla morte del Re. Zipperio deve morire vittima dei suoi desideri illeciti, distrutto dalle sue passioni peccaminose… non da noi!»
«Bene» rispose Subtilio. «Costruirò una trappola. La riempirò di sogni e metterò come esca una tentazione fortissima, a cui non saprà sfuggire. Per soddisfarla, si tufferà volontariamente in qualche folle fantasia, affonderà nei sogni nascosti all’interno dei sogni, e vi si troverà così invischiato che non potrà più fare ritorno alla realtà, se non da morto!»
«Benissimo» risposero quelli «ma non vantarti troppo, o cybernista, perché a noi servono fatti, non parole: Zipperio deve diventare un auto-regicida, ossia il proprio assassino!»
Così, Subtilio il Cybernista si mise all’opera e per l’intero anno da lui impiegato ad allestire il suo orribile piano continuò a chiedere al tesoro reale una crescente quantità d’oro, rame, platino, e un’infinità di pietre preziose, e tutte le volte che Zipperio protestava, si giustificava dicendo che stava costruendo una macchina per lui: una macchina che nessun monarca aveva mai posseduto!
Quando l’anno fu trascorso, tre enormi armadi vennero prelevati dal laboratorio del Cybernista e portati in gran pompa nel corridoio, davanti alle stanze personali del Re, perché non passavano per la porta. Sentendo il chiasso e i rumori dei facchini, Zipperio uscì dalle sue stanze e vide lungo la parete, imponenti e massicci, i tre armadi, alti quattro cubiti, larghi due e coperti di gemme.
Il primo, detto anche Armadio Bianco, era di madreperla con intarsi di albite, il secondo era nero come la notte, e ornato di agate e morioni, mentre il terzo era tutto rosso, coperto di rubini e di spinello rosa. Ciascuno poggiava su robuste gambe di acciaio inossidabile, decorate con sculture in oro raffiguranti grifoni alati, e conteneva un grosso cervello elettronico pieno di sogni: sogni che si sognavano da soli, senza bisogno di un sognatore che li sognasse.
Re Zipperio, assai stupito da quella spiegazione, esclamò: «E a che cosa servono, Subtilio? Armadi per sognare? A che pro? Che cosa me ne faccio? E come puoi dire che sognino davvero?»
Subtilio, inchinandosi umilmente davanti a lui, gli mostrò le file di prese che si scorgevano all’esterno degli armadi. Accanto a ciascuna coppia di fori c’era una piccola piastrina di madreperla con una breve descrizione; il Re, sempre più stupito, lesse:
«Sogno di guerra con castelli e principesse
Sogno d’erbaluce
Sogno di Fate, Ninfe e Filtro di Strega
Il meraviglioso materasso della Principessa Rimbalzina
Il Vecchio Soldato, ovvero il Cannone che non Sparava Più
Salto Erotico, ovvero la Ginnastica dell’Amore
I piaceri dell’ottuplice abbraccio di Paulina Ottomani
Perpetuum Amorobile
Mangiucchiare ritagli di piombo alla luce della Luna Piena
Colazione con Vergini e Musiche
Lo infila nel Sole per tenerlo al calduccio
La prima notte della Principessa Ineffabella
Sogno di gatti
Sogno di sete e pizzi
Sogno di quello che sai
Fichi senza foglie e altri frutti proibiti
Pruni pruriginosi
Come nacque il figlio dello Sporcaccione
Diavoli e Driadi si svagano prima della Sveglia, con crostini
Monna Lisa, ovvero il Labirinto della Dolcezza Infinita».
Il Re osservò il secondo armadio e lesse, sotto la duplice intestazione SOGNI E DIVERTIMENTI:
Cadaveri e Corsetti
Trottole e Bitte
Il Bastone del Critico
Spingi il Primo
Fracciami il Pizzo
Pannello e Ventilatore
Cybercroquet
Gamberobotico
Carte e Go-kart
Sogno del Cavaliere Alacrito e della bella Ramolda, figlia di Heteronio
Batti la Pinna
Volta la Pastorella
La Ruota e il Condannato
Il Boia, ovvero grida al taglio
Volta la Pastorella Bis
Cyclodoro e la Scatola Misteriosa
Cecilia e il Cyborg al Cianuro
Cyber-azione
Gara nell’Harem
Poker di Bastoni».
Subtilio, l’ingegnere mentale, spiegò rapidamente che ciascun sogno sognava se stesso, totalmente da solo, finché qualcuno non si collegava con esso e non appena inserita la spina — la mostrò al Re: era una piccola spina in fondo a una catena — in uno dei fori, si veniva immediatamente collegati con l’armadio, tanto profondamente che non c’era più differenza tra il sogno e la realtà.
Zipperio, interessato, prese la catena e immediatamente si collegò con l’Armadio Bianco, proprio dove la targhetta diceva: «Colazione con Vergini e Musiche»… e si sentì spuntare sulla schiena una fila di spine appuntite e due immense ali, sentì mani e piedi allungarsi fino a divenire zampe con lunghi artigli, e la sua bocca — che adesso aveva sei file di zanne — eruttava fuoco e fumi di zolfo.
Stupito oltre ogni dire, il Re trasse bruscamente il fiato, ma invece di un normale ansimo, dalla sua gola uscì un ruggito come quello del tuono, che scosse la terra. Questo lo stupì ancora di più; istintivamente, sgranò gli occhi e vide, nell’oscurità illuminata dal suo respiro di fiamma, che i servitori gli portavano, reggendole sulle spalle, vergini su vassoi da portata — quattro per vassoio — con contorno di verdure e con un così buon profumino da fargli venire immediatamente l’acquolina.
Il tavolo venne apparecchiato in pochi istanti — qui il sale, lì il pepe — e Zipperio-drago si leccò le labbra, si mise comodo e, a una a una, se le infilò in bocca come noccioline, sgranocchiandole e ruttando allegramente; l’ultima vergine, poi, era così tonda, così succulenta, che Zipperio schioccò le labbra e stava già per chiedere una seconda razione, quando tutto tremò davanti al suoi occhi ed egli si svegliò.
Si guardò attorno: era fermo, come prima, nel corridoio che portava alle sue stanze personali. Accanto a lui c’era Subtilio, Grande Taumaturgo e Apotecario, e davanti a loro gli armadi dei sogni, scintillanti di gemme preziose. «Com’erano le vergini?» chiese Subtilio. «Non male, ma dov’era la musica?»
«Il carillon si è bloccato» spiegò il Cybernista. «Vostra Altezza Reale vuole provare con un altro sogno?»
Certo, ma da un altro armadio, questa volta. Il Re si portò davanti a quello nero e si collegò al sogno chiamato «Sogno del Cavaliere Alacrito e della Bella Ramolda, figlia di Heteronio».
Batté gli occhi per la sorpresa, e vide che era tornato davvero all’epoca dei cavalieri elettrici erranti. Tutto rivestito d’acciaio, si trovava in un bel prato di montagna, una radura in mezzo agli alberi, e aveva ai suoi piedi un drago appena ucciso.
Le fronde stormivano, Zefiro soffiava dolcemente, una fonte cristallina gorgogliava poco lontano. Quando si inginocchiò sull’acqua, vide nell’immagine riflessa di essere nientemeno che Alacrito, un cavaliere del più alto voltaggio, un eroe senza pari.
La storia della sua vita gloriosa era incisa, sotto forma di cicatrici di battaglia, sulla sua intera persona, e Zipperio la ricordava tutta, come se quei ricordi fossero i suoi. L’ammaccatura sulla visiera dell’elmetto gli era stata fatta dal pugno, guantato di maglia, di Morbidor nell’agonia della morte, dopo ch’egli lo aveva sconfitto con l’abituale rapidità; le lacerazioni visibili nella maglia dello schiniero destro erano opera del defunto Ser Mazzapicchio de Blu; i rivetti mancanti sul manichino sinistro li aveva rosicchiati Odolmo l’Odioso prima di rendere l’anima; il cimiero era stato forato da Gorgobrasto Scroccaruli prima di cadere.
Analogamente, anche spallacci, corazza, resta, cosciali, panziera, tutti portavano i segni della battaglia. Il suo scudo era graffiato e ammaccato da innumerevoli colpi, ma lo schienale del gabbione era lucido e polito come se fosse fresco di fabbrica, perché mai — mai — egli aveva voltato la schiena al nemico per fuggire!
Quel tipo di gloria non diceva granché a Zipperio, ma a un tratto gli venne in mente la bella Ramolda: a quel pensiero, balzò sul suo super-destriero e cominciò a viaggiare in lungo e in largo per tutto il sogno, alla ricerca della bella Principessa.
Infine arrivò al castello del padre, il Duca Heteronio; le assi del ponte levatoio echeggiarono come rombi di tuono sotto il passo del cavaliere e del cavallo, e il Duca stesso venne ad accoglierlo a braccia aperte.
Era ansioso di vedere la sua Ramolda, ma l’etichetta gli imponeva di frenare l’impazienza: intanto, il vecchio Duca gli riferì che era giunto al castello anche un secondo cavaliere, un certo Micranio, della casa dei Polimeri, maestro spadaccino e temibile elasticista, il cui unico sogno era quello di misurarsi con lo stesso Alacrito.
Ora fu Micranio stesso, agile e scattante, a farsi avanti con queste parole: «Sappi, o Cavaliere. che anch’io amo Ramolda dalla linea aerodinamica, Ramolda dalle cosce idrauliche, il cui busto non teme punta di trapano diamantata, i cui occhi limpidi sono due magneti! E’ la tua promessa sposa, certo, ma ascoltami bene: ti sfido a mortal duello, giacché uno solo di noi può ottenere la sua mano». E gli gettò il suo guanto, bianco di polimeri.
«Il matrimonio avrà luogo subito dopo la giostra» aggiunse il Duca-padre.
«Benissimo» rispose Alacrito, ma, dentro di sé, Zipperio pensò: «Chi se ne frega. Posso averla dopo il matrimonio e poi svegliarmi. Ma chi ha mai chiesto di avere tra i piedi quel rompiscatole di Micranio?»
«Quest’oggi stesso, o coraggioso cavaliere» disse Heteronio «incontrerai Micranio di Polimera sul terreno di battaglia e combatterai con lui alla luce delle torce. Per ora, va’ in ritiro nei tuoi appartamenti e ristora le tue forze!»
Zipperio, all’interno di Alacrito, era un po’ sulle spine, ma cosa poteva fare? Si recò nella sua stanza e dopo qualche tempo sentì bussare furtivamente alla porta; una vecchia cyberstrega entrò in punta di piedi, gli strizzò l’occhio cisposo e disse: «Non temere, o Cavaliere, perché avrai la bella Ramolda! In verità, oggi stesso ti stringerà al suo petto d’alabastro! Di te solo sogna, giorno e notte! Ricordati soltanto di attaccare con forza e con foga, perché Micranio non può ferirti; la vittoria sarà tua!»
«Facile a dirsi, mia cybervecchia» rispose il cavaliere. «Ma tutto può capitare. Per esempio, che cosa succederebbe se inciampassi o se non riuscissi a parare in tempo? No, è troppo rischioso! O forse tu hai un amuleto che mi proteggerà?»
«Eh-eh!» rise la cybervecchia. «Che cosa dici mai, cavaliere d’acciaio! Non ci sono amuleti come quello che tu citi, né te ne servirebbero, perché io so quello che succederà e ti predico che vincerai senza problemi!»
«Comunque, preferirei un amuleto, soprattutto in un sogno come questo» disse il cavaliere «ma ascolta, ti ha forse mandato Subtilio, per darmi sicurezza?»
«Non conosco nessun Subtilio» disse la vecchia, «né so perché parli di sogno. No, questa è la realtà, mio signore
tutto d’acciaio, e lo capirai anche tu, quando la bella Ramolda ti porgerà le sue labbra elettriche da baciare!» «Strano» mormorò Zipperio, senza notare che la vecchia aveva lasciato la stanza, furtiva come era entrata. ’E’ un sogno o non lo è? Avevo l’impressione che lo fosse. Ma la vecchia ha detto che è la realtà. Uhm. Be’, in ogni caso, meglio stare doppiamente in guardia».
Poco dopo, si levò uno squillo di tromba e dalla porta giunse uno sferragliare di armature: tutti i corridoi si riempirono di armati, in attesa che lui uscisse.
Alacrito uscì dalla stanza, un po’ tremante sulle ginocchia; scese fino alla lizza e laggiù vide Ramolda, figlia di Heteronio. Lei lo guardò con affetto… ah, ma non c’era tempo per quelle smancerie! Micranio stava già arrivando, le torce si erano accese intorno a loro, e le spade si scontrarono con un sonoro clang.
A quel punto, Zipperio era davvero spaventato. Cercò di svegliarsi, ci provò con tutte le sue forze, ma inutilmente… l’armatura era troppo pesante, il sogno si rifiutava di arrendersi, il nemico attaccava!
I colpi gragnolavano sempre più forti; Zipperio, ormai indebolito, riusciva a malapena a sollevare la spada, quando all’improvviso l’avversario gridò una parola e mostrò la lama spezzata; Alacrito il cavaliere era pronto a balzare su di lui, ma Micranio uscì di corsa dall’arena e si fece dare un’altra spada dagli scudieri.
In quel momento, Alacrito scorse la vecchia, in mezzo agli spettatori. Si accostò a lui e gli disse: «Cavaliere coperto d’acciaio! Quando sarai vicino alla porta che conduce al ponte levatoio, Micranio abbasserà la guardia. Colpisci coraggiosamente, allora, e sii certo della tua vittoria!»
La vecchia svanì e il suo rivale, armato di una spada nuova, tornò all’attacco. Continuarono a combattere, con Mieranio che sferrava colpi come una macchina falciatrice fuori controllo, ma — sempre più stanco — sempre più spesso era costretto a parare, a indietreggiare.
Tuttavia, adesso che era arrivato il momento di sferrare l’attacco decisivo, Zipperio constatò come la spada dell’avversario fosse ancora piuttosto minacciosa, e, presa improvvisamente una decisione, si disse: «Al diavolo la bella Ramolda!» girò sui tacchi e corse via come un pazzo, prima verso il ponte levatoio e poi verso la foresta e l’oscurità della notte.
Dietro di lui si levarono grida di: «Vergogna!» e " Fellone!» e «Codardo!» ma Zipperio continuò a correre finché non batté la testa contro un albero, vide le stelle… e si trovò di nuovo al punto di partenza, nel corridoio davanti all’Armadio Nero dei sogni che si sognavano da soli, con accanto Subtilio, l’ingegnere mentale, che inalberava un sorriso storto.
Se era storto, quel sorriso, era perché Subtilio nascondeva a stento il suo disappunto: il sogno con Alacrito e Ramolda era in realtà una trappola per Re Zipperio, perché, se avesse seguito il suggerimento della vecchia cyberstrega, Micranio, che fingeva soltanto di essersi indebolito, l’avrebbe infilzato davanti al ponte levatoio. Il Re aveva evitato quella sorte unicamente grazie alla sua incommensurabile vigliaccheria.
«Vostra Maestà ha apprezzato le grazie della bella Ramolda?» chiese l’astuto Cybernista.
«Non era abbastanza bella» rispose Zipperio «e ho preferito non approfondire la questione. Inoltre, ci sono state delle complicazioni, e anche un duello. Preferisco che non ci siano duelli nei miei sogni, capito?»
«Come desidera Vostra Altezza Reale» rispose Subtilio. «Vostra Maestà scelga liberamente, perché in questi armadi dei sogni ci sono soltanto delizie, non lotte…»
«Vedremo» disse il Re e si collegò al «Sogno del materasso e della Principessa Rimbalzina», per trovarsi immediatamente in una stanza d’insuperabile leggiadria, tutta in broccato dorato. Da grandi finestre di cristallo filtrava una luce chiara come l’acqua della fonte più pura, e alla toeletta color perla si appoggiava la Principessa, che, sbadigliando, si preparava ad andare a dormire.
Zipperio, stupito da quella inattesa visione, cercò di schiarirsi la gola per informarla della sua presenza, ma non ne uscì alcun suono — che l’avessero imbavagliato? — così cercò di toccarsi la bocca, ma non riuscì a farlo, cercò di muovere le gambe, non riuscì a fare neanche quello, e allora si guardò attorno, disperatamente, alla ricerca di un posto dove sedere, perché si sentiva mancare, ma non riuscì neanche a guardare.
Intanto, la Principessa si stirò e sbadigliò una volta, e poi due, e poi tre; alla fine, vinta dal sonno, si lasciò cadere sul materasso, ma così pesantemente che Re Zipperio sentì una forte scossa dalla testa ai piedi, perché era lui il materasso su cui la Principessa si era gettata a corpo morto!
Poi, evidentemente, la giovane dama dovette fare qualche brutto sogno, perché continuò a girarsi e a rigirarsi nel sonno, pungolando il Re con i piccoli gomiti, colpendolo con i sottili talloni, e presto la regale persona di Zipperio (trasformata in materasso a opera di quel sogno) venne presa da una rabbia colossale. Il Re lottò con il sogno che non voleva lasciarlo libero, si gonfiò e oppose resistenza, finché le cuciture non scoppiarono, le molle non scattarono, il pagliericcio non si sfondò e la Principessa non finì a terra con un grido.
Quel grido, comunque, ebbe la forza di svegliarlo, e Zipperio si trovò ancora una volta nel corridoio, accanto a Subtilio il Cybernista che gli rivolgeva, ossequiosamente, un inchino.
«Imbecille pasticcione!» gridò il Re, indignatissimo. «Come hai osato? Come, vigliacco, io dovrei fare da materasso, e il materasso di un’altra persona, oltre tutto? Villano, ricorda chi sono io!»
Subtilio, allarmato dalla furia del Re, gli rivolse le sue scuse più umili e lo supplicò di provare un altro sogno, e tanto implorò che Zipperio, quando si fu calmato, prese di nuovo la catena e la inserì nella presa dell’«Abbraccio di Paulina Ottomani».
Si trovò in mezzo a una folla di spettatori, in un’enorme piazza, e davanti a lui passò una grande processione di danzatrici avvolte in sete e mussoline, di elefanti meccanici, di portantine in ebano riccamente scolpite; la portantina centrale pareva un altare, tanto era ricca di decorazioni d’oro, e in essa, celata dietro otto veli, c’era una figura femminile di meravigliosa beltà, un angelo dal viso abbagliante e dallo sguardo galattico, con orecchini ad alta frequenza; il Re, tutto tremante per l’emozione, stava già per chiedere chi fosse quella visione celestiale, quando la moltitudine mormorò con soggezione: «E’ Paulina! Paulina!»
Infatti, quel giorno si festeggiava con grande pompa e concorso di folla il fidanzamento tra la figlia del sovrano e un cavaliere straniero chiamato Oniromante.
Zipperio era un po’ sorpreso di non essere il cavaliere Oniromante, e quando la processione scomparve dietro le porte del palazzo, si recò con altri della folla in una locanda poco lontana; laggiù vide Oniromante, che, con indosso soltanto un paio di calzoni di broccato decorati di pietre preziose, e con una bottiglia di fosgene rinforzato ancora in mano, si avvicinò a lui, gli mise il braccio sulle spalle e gli sussurrò, con un fiato che vicino a una fiamma avrebbe immediatamente preso fuoco: «Ascolta, ho un appuntamento con la Principessa Paulina, a mezzanotte, dietro il cespuglio di filo spinato, accanto alla fontana di mercurio, ma non posso presentarmi in queste condizioni… ho bevuto troppo, come vedi… ma tu, gentile forestiero, sei proprio la mia immagine sputata, e perciò ti prego di andare all’appuntamento al posto mio, di baciare la mano alla Principessa e di dire che sei Oniromante e che sarai il suo fidanzato per sempre e ancora per un giorno di più!»
«Perché no?» rispose Zipperio, dopo averci pensato per qualche istante. «Sì, penso di poterlo fare, ma quando?»
«Subito, non c’è un minuto da perdere, è quasi mezzanotte. Ricorda, però, che il Re non ne sa niente: lo sanno solo la Principessa e il vecchio guardiano della porta; quando ti sbarrerà la strada, dovrai mettergli in mano questa borsa piena di monete d’oro, e lui ti farà passare!»
Il Re annuì; prese la borsa piena di monete d’oro che Oniromante gli porgeva e corse al castello, perché gli orologi, come tanti gufi di ghisa, cominciavano già a battere l’ora. Attraversò di corsa il ponte levatoio, diede un’occhiata al fossato, rabbrividì, abbassò la testa e passò sotto le punte della saracinesca, poi attraversò il cortile per arrivare al cespuglio di fil di ferro e alla fontana che spruzzava mercurio… e laggiù, alla pallida luce della luna, scorse la divina figura della Principessa Paulina, bella al di là di qualsiasi sogno, e così affascinante da farlo fremere di desiderio.
Intanto, osservando le smorfie e i movimenti del monarca addormentato, nel corridoio del palazzo, Subtilio si sfregava le mani soddisfatto, questa volta era certo di riuscire a eliminare il Re, perché sapeva che quando Paulina avesse stretto lo sventurato nel suo abbraccio a otto mani e lo avesse trascinato sempre più profondamente nel sogno stringendolo con i suoi teneri tentacoli d’amore, Zipperio non sarebbe più riuscito a ritornare alla realtà!
E in effetti Zipperio, ansioso di farsi avvolgere dall’abbraccio della Principessa, correva lungo il muretto, nell’ombra, diretto verso l’immagine di argentea bellezza… quando all’improvviso comparve il vecchio guardiano, che lo bloccò con l’asta dell’alabarda.
Il Re sollevò il sacchetto con le monete d’oro, ma solo allora si accorse di quanto fosse piacevole il loro peso e provò un forte dispiacere a separarsene… che vergogna gettare via un simile patrimonio per un solo abbraccio!
«Qui c’è una moneta d’oro per te» disse, aprendo il sacchetto. «Lasciami passare!»
«Te ne costerà dieci» rispose il guardiano.
«Cosa, dieci monete d’oro per un semplice baciamano?» rise il Re. «Devi aver perso la testa!»
«Dieci» ripeté il guardiano «il prezzo è questo».
«Non puoi farmi uno sconto?»
«Dieci monete d’oro, non una di meno».
«Ah, ecco la fregatura!» esclamò il Re, a cui (per influsso dell’antica professione materna) era già salita la pressione, come sempre. «Benissimo, cane, allora non becchi niente!»
A quel punto il guardiano gli diede un bel colpo di alabarda, e tutto si mise a roteare davanti al Re: il muro, la fontana, il ponte levatoio; Zipperio si sentì girare la testa e dovette chiudere gli occhi. Quando li riaprì, vide Subtilio accanto a lui, e l’Armadio dei Sogni.
Il Cybernista era piuttosto confuso, perché a quel punto aveva ormai fallito due volte: la prima per la codardia del Re, la seconda per la sua avidità.
Tuttavia, facendo buon viso a cattivo gioco, invitò il Re ad assaggiare un altro sogno.
Questa volta Zipperio scelse l’«erbaluce» e si trovò immediatamente nei panni di Ciondolone Debilitus, signore di Epileption e di Malattina, un vecchio confusionario, rachitico e — a dispetto di tutto — incurabile sporcaccione, con un’anima che bruciava ancora dal desiderio di commettere malaffari.
Cosa poteva fare, però, con le articolazioni cigolanti, le braccia tremanti e le gambe piene di gotta?
«Ho bisogno di tirarmi su» si disse, e ordinò ai suoi degenerali, Tartarone e Tortoruso, di partire e mettere a ferro e fuoco tutte le terre vicine, saccheggiando, distruggendo e portando via quel che si poteva.
Così fecero, e al loro ritorno dissero: «Sovrana Maestà! Abbiamo messo a ferro e fuoco tutto quello che abbiamo potuto, abbiamo saccheggiato ed ecco che cosa ti portiamo: la bellissima Adoradora, Vergine Regina dei Mimoicani, con tutti i suoi tesori!»
«Eh, come avete detto, con i suoi tesori?» ansimò il Re, con un filo di voce. «Ma dov’è? E cosa sono questi piagnucolii e questi fruscii?»
E’ qui sul divano reale, Vostra Altezza!» gridarono in coro i degenerali. «Il piagnucolio viene dalla prigioniera, la già menzionata Adoradora, china a testa bassa nella sua tunica di perle! E il fruscio viene dalle perle, che scivolano l’una sull’altra a causa dei suoi fremiti. Quanto alla ragione di questi ultimi, trema perché, in via principale, non indossa altro che quell’elegante, ma freddina, tunica ricamata d’oro, e, in via subordinata, perché pensa alle grandi iniquità e degradazioni che dovrà subire!»
«Come? Iniquità? Degradazioni? Ottimo!» ansimò il Re. «Portatemela qui; la violerò e oltraggerò subito!»
«Impossibile, Vostra Altezza!» intervenne il Chirurgo e Medicurgo Reale «per ragioni di sicurezza nazionale».
«Come? Non posso oltraggiare e violare? Io, il Re? Sei impazzito? Che cosa ho sempre fatto, da quando sono salito al trono?»
«E’ proprio questa la ragione, Maestà!» rispose il Medicurgo. «La salute di Vostra Maestà è stata gravemente compromessa da quegli eccessi!»
«Oh, be’, in tal caso… datemi una scure. Le taglierò la testa…»
«Con il permesso di Vostra Altezza, anche questo sarebbe estremamente rischioso. La minima emozione…»
«Fulmini e scintille! A che cavolo mi serve, allora, essere Re?» protestò Debilitus, che sentiva crescere in sé la disperazione. «Allora, maledetto te, guariscimi! Rimettimi in salute! Fammi ringiovanire, in modo che io possa… sai benissimo che cosa, proprio come quando ero giovane. Altrimenti, se non riuscirete ad aiutarmi, io…»
Terrorizzati, tutti i cortigiani, i degenerali e il personale medico corsero a cercare qualche sistema per ringiovanire il loro Re; alla fine convocarono addirittura il grande Calcolone, un sapiente di saggezza sterminata. Questi si presentò al sovrano e chiese: «Che cosa desidera Vostra Altezza Reale?»
«Desidera, eh?» gracchiò il Re. «Te lo dico io, che cosa desidera! Desidera continuare con le sue orge quotidiane, le feste settimanali, le scorpacciate occasionali e le licenze ogni volta che gliene viene la fregola, e in particolare desidera svergognare e debitamente spulzellare la Regina Adoradora, che al momento è trattenuta in una cella!»
«Allora vi sono aperte due possibilità di azione» riferì il saggio Calcolone. «Vostra Altezza potrebbe degnarsi di scegliere un individuo adeguatamente competente, che esegua per procura quel che Vostra Altezza, a lui collegato con apposito cavo, gli ordinerà; in questo modo, Vostra Altezza sperimenterà tutto quel che sperimenterà il soggetto da lui scelto, esattamente come se egli stesso esperisse l’esperienza esperita. Oppure potete rivolgervi alla vecchia cyberstrega che abita nella foresta, in una capanna su tre zampe di gallina, perché quella vecchia è una strega geriatrica e si occupa soltanto degli acciacchi dell’età avanzata».
«Sì? Be’, proviamo con i fili, prima!» disse il Re, e la cosa venne allestita in un battibaleno. Gli elettricisti reali collegarono al Re il Capitano della Guardia, e il Re gli ordinò immediatamente di segare in due il famoso saggio, perché questo era proprio il tipo di cattiva azione che gli piaceva maggiormente.
Le urla e le suppliche di Calcolone non servirono a niente. Tuttavia, durante l’operazione, uno dei fili perse l’isolamento e il Re poté ricevere solo la prima metà dell’esecuzione.
«Un metodo da pidocchiosi. Quel ciarlatano meritava di essere segato in due» ansimò Sua Altezza. «Adesso, cercate quella cybervecchia, la strega con la capanna su tre zampe di gallina!»
I cortigiani corsero immediatamente verso la foresta, e, dopo breve tempo, il Re sentì una cantilena un po’ triste, che faceva pressappoco così:
«Ripara vecchi e vecchiette!
Guarisce, rigenera, a nuovo rimette;
Corrosione e sclerosione,
Ve ne toglie a profusione!
Chi tentenna, cigola, trema,
Da lei venga senza tema!
Rugginosi perforante,
Ve la toglie in un istante!»
La vecchia cyberstrega ascoltò pazientemente le lamentele del Re, gli rivolse un profondo inchino e disse: «Maestà Sovrana! Al di là dell’orizzonte azzurro, ai piedi del Monte Calvo, sgorga una fonte, e da questa fonte nasce un ruscello, un ruscello di olio lubrificante, e sulle sue rive cresce l’erbaluce, un potente specifico ad altissimo numero di ottani, che ridà la gioventù e cancella la vecchiaia… un cucchiaio di quell’erba e puoi dare l’addio a sette volte sette anni! Anche se bisogna lare attenzione a non prenderne troppa; una dose eccessiva di erbaluce può farti ringiovanire più degli anni che hai, e allora, puf! Sparisci! Fammi avere quell’erba, Sire, e ti preparerò l’elisir che ti ho detto, puro e schietto!»
«Meraviglioso!» esclamò il Re. «E io farò portare la Regina Adoradora… che la poverina sappia quello che l’attende, ah-ah!»
Poi, con mani tremanti, cercò di raddrizzare le viti storte, e per tutto il tempo continuò a ridacchiare e a parlottare tra sé, e anche a sussultare, perché soffriva di demenza senile, benché la sua passione per il male fosse forte come sempre.
Intanto, i cavalieri del Re si erano diretti oltre l’orizzonte azzurro, verso il ruscello di olio lubrificante, e poco più tardi la vecchia cyberstrega accese il calderone, su cui presero ad addensarsi i vapori dei misteriosi intrugli che vi si rimescolavano. Terminata la bollitura, la vecchia si diresse verso il trono, si inginocchiò davanti al Re e gli porse una coppa, piena fino all’orlo di un liquido che brillava e tremava come l’argento vivo, e disse ad alta voce: «O Re Ciondolone Debilitus! Guarda, questa è l’essenza ringiovanitrice dell’erbaluce! Rinvigorisce, esalta, è proprio quello che ci vuole per le prodezze d’alcova e di torneo! Bevi questa coppa e nell’intera Galassia, per te, non ci saranno abbastanza pianeti da spogliare né abbastanza vergini da disonorare! Bevi, alla tua salute!»
Il Re sollevò il bicchiere, ma alcune gocce caddero sul suo sgabello poggiapiedi, che, non appena ne fu toccato, subito si impennò su due gambe, poi si gettò sul Degenerale Tartarone, con l’intenzione di violarlo e umiliarlo. In un batter d’occhio gli aveva già strappato sei manciate di medaglie.
«Bevi, Maestà, bevi!» ripeté la cyberstrega. «Vedi che meraviglie riesce a compiere!»
«Tu per prima» disse il Re, con un filo di voce, perché quelle emozioni l’avevano fatto invecchiare in fretta. La strega impallidì, cercò di indietreggiare, ma, a un cenno del Re, tre soldati la afferrarono e, con un imbuto, le cacciarono giù per la gola un paio di centellini di quella pozione luccicante.
Un lampo, un’esplosione, fumo dappertutto! I cortigiani fissarono attoniti la scena, il Re sgranò gli occhi… non rimaneva traccia della cyberstrega: c’era solo un grosso buco nel pavimento, e da quel foro si vedeva un altro foro, un foro nel sogno stesso, da cui comparivano una gamba e un piede, elegantemente calzato, anche se la calza era rotta e il fermaglio d’argento annerito, come se fosse stato colpito da un potentissimo acido.
Il piede, naturalmente, apparteneva a Subtilio, Grande Taumaturgo e Apotecario di Re Zipperio. Così potente era il veleno che la vecchia strega aveva preparato con l’erbaluce, che non solo aveva dissolto lei e il pavimento, ma aveva anche forato il sogno ed era arrivato alla realtà, dove aveva colpito il piede di Subtilio, procurandogli una brutta scottatura.
Il Re, terrorizzato, cercò di svegliarsi, ma (fortunatamente per Subtilio) il Degenerale Tortoruso gli diede una mazzata in testa; a causa del colpo, quando riprese i sensi, Zipperio non riuscì a ricordare nulla di quel che era successo mentre indossava i panni di Debilitus. Comunque, ancora una volta, aveva mandato in fumo i piani del Cybernista uscendo in tempo dal sogno, salvato, questa volta, dalla propria natura sospettosa.
«Mi è successo qualcosa… ma non saprei dire che cosa» riferì il Re, quando fu di nuovo nel corridoio, davanti agli Armadi che Sognavano. «Ma che ti è preso, Subtilio, per saltellare su un piede e tenerti in mano l’altro?»
«Non è niente, Vostra Altezza… un vecchio roubatismo… si vede che cambia il tempo» balbettò l’astuto Taumaturgo, e passò subito a proporre al Re di assaggiare un altro sogno.
Zipperio ci pensò, lesse tutte le scritte delle cabine, e scelse «La prima notte della Principessa Ineffabella». E sognò di sedere accanto al fuoco e di leggere un antico volume, strano e bizzarro, in cui si narrava, con belle parole scritte in inchiostro rosso su foglia d’oro, della Principessa Ineffabella, che aveva regnato cinquecento anni prima, nella terra di Dentedileone. Nel libro si parlava della sua Foresta di Ghiaccioli, della sua Torre Elicoidale, dell’Uccello Parlante, del Tesoro dai Cento Occhi, ma soprattutto della sua bellezza e delle sue mirabili grazie…
Immediatamente, Zipperio si sentì prendere dal desiderio di rimirare tanta bellezza, e il desiderio che si accese in lui gli infiammò tutto il cuore: con gli occhi che brillavano come fari, corse fuori e frugò in ogni angolo del sogno, per rintracciare Ineffabella, ma non riuscì a trovarla da nessuna parte; anzi, nessuno aveva mai sentito parlare della Principessa, tranne qualcuno dei più vecchi robot.
Stanco delle lunghe peregrinazioni, Zipperio arrivò infine nel deserto reale, dove le dune erano laminate d’oro, e vi trovò un’umile capanna; avvicinandosi, scorse un individuo dall’aspetto del patriarca, che indossava una lunga tunica, bianca come la neve.
L’eremita si alzò e così disse: «Tu cerchi Ineffabella, povero tapino! Eppure, sai bene che non esiste più da cinquecento anni e che vana e inutile è la tua passione! La sola cosa che posso fare per te è mostrartela… ma non in carne e ossa, bensì in un fac-simile informatico eseguibile, un modello digitale e non fisico, stocastico e non plastico, ergodico e sicuramente erotico, che verrà ricostruito dalla Scatola Nera, da me inventata nel tempo libero».
«Oh, fammela vedere! Fammela vedere subito!» esclamò Zipperio, fremente di passione.
L’anacoreta gli rivolse un cenno d’assenso, esaminò il vecchio libro per trovare l’equazione della Principessa, mise i suoi dati e quelli dell’intero Medioevo su un nastro perforato, scrisse il programma, abbassò la leva, aprì il coperchio della Scatola Nera e disse: «Guarda!»
Il Re si accostò alla Scatola Nera e, dentro, vi scorse, certo, il Medioevo simulato alla perfezione, un po’ digitale, un po’ binario e un po’ non lineare, e al centro di tutto c’era la terra di Dentedileone, con la Foresta di Ghiaccioli, il palazzo della Torre Elicoidale, l’Uccello Parlante e pure il Tesoro dai Cento Occhi; e c’era anche la meravigliosa Ineffabella, che languidamente percorreva un cammino stocastico nel suo giardino simulato, e i cui circuiti timidamente arrossivano e si indoravano mentre raccoglieva viole simulate e cantava un’arietta simulata.
Zipperio, incontenibile, nella sua follia cercò di tuffarsi nella Scatola Nera per entrare a far parte del suo mondo computerizzato, ma il patriarca staccò subito la spina, bloccò il Re e disse: «Pazzo! Vorresti tentare l’impossibile? Nessuna creatura concreta può entrare in un sistema che è solo un flusso di elementi alfanumerici, di configurazioni discontinue di interi, e che è composto della materia astratta di cui sono fatti i numeri!»
«Ma io devo entrare!» ripeté Zipperio, fuori di sé, e cominciò a dare craniate contro la Scatola Nera, fino ad ammaccarla.
Il vecchio saggio disse: «Se questo è il tuo desiderio irrinunciabile, c’è un modo per collegarti alla Principessa Ineffabella, ma prima devi lasciare la tua forma presente, perché io prenderò le tue coordinate e ti trasformerò in un programma, atomo per atomo, e ti metterò, sotto forma di simulazione, in quel mondo medievalmente modellato, informazionale e rappresentazionale, e laggiù la tua simulazione rimarrà, e vivrà finché gli elettroni percorreranno questi fili saltando da catodo ad anodo. Ma tu, tu che ora mi stai di fronte, sarai annullato, perché la tua sola esistenza sia quella in forma di campi e di potenziali, statistica, euristica e digitale».
«Questo è abbastanza difficile da credere» disse Zipperio. «Come posso essere certo di essere proprio io, a venire simulato, e non qualcun altro?»
«Be’, possiamo fare un giro di prova» rispose il saggio. E prese le misure del Re, come se dovesse cucirgli un vestîro, ma con una precisione assai superiore, poiché di ogni atomo vennero accuratamente presi posizione e peso. Infine, inserì il programma nella Scatola Nera e disse: «Guarda!»
Il Re guardò nella Scatola e vide se stesso seduto accanto al fuoco e intento a leggere, su un vecchio libro, la storia della Principessa Ineffabella; poi l’immagine corse a cercarla, chiedendo qua e là, finché, nel cuore del deserto laminato d’oro, non s’imbatté in un’umile capanna e in un anacoreta dalla barba bianca come la neve, che lo salutò con le parole: «Tu cerchi Ineffabella, povero tapino!» E così via.
«Adesso sarai convinto» disse il patriarca, spegnendo il diorama. «Ora ti programmerò nel Medioevo, a fianco della dolce Ineffabella, in modo che tu possa sognare con lei un sogno illimitato, simulato, non lineare, binario…»
«Sì, sì, capisco» disse il Re. «Però, si tratta sempre della mia immagine, non di me stesso, perché io sono qui e non nella Scatola!»
«Ma tu non resterai qui per molto tempo» rispose il Saggio, con un sorriso gentile. «Io stesso mi occuperò della cosa…»
E tirò fuori, da sotto il letto, un martello. Un martello grosso e pesante, che poteva risultare utile in quel frangente. «Quando sarai tra le braccia della tua amata» assicurò il patriarca «farò in modo che non esistano due copie di te, una fuori e una dentro, nella Scatola… Mi servirò di un metodo forse un po’ primitivo, ma sicuro; perciò, se tu volessi piegare un poco la testa…»
«Prima, fammi dare un’altra occhiata alla tua Ineffabella» disse il Re. «Tanto per avere la certezza…»
Il saggio sollevò di nuovo il coperchio della Scatola Nera e gli mostrò Ineffabella. Il Re la guardò a lungo e infine disse: «La descrizione di quell’antico volume è molto esagerata. Non è niente male, naturalmente, ma non certo bella come dicono le cronache. Be’, arrivederci, mio buon anacoreta…»
E fece per andarsene.
«Dove vorresti andare, pazzo?» gridò l’eremita, sollevando il martello, perché il Re era già alla porta. «Dovunque, meno che nella Scatola» rispose Zipperio, e corse via, ma proprio in quel momento il sogno gli scoppiò sotto i piedi, come una bolla di sapone, e il Re si trovò di nuovo nel corridoio del suo palazzo, dinanzi a un Subtilio amaramente deluso — deluso perché Zipperio si era quasi lasciato mettere nella Scatola Nera, dove il Grande Taumaturgo avrebbe potuto tenerlo chiuso per sempre… «Ascoltami bene, Ser Cybernista» disse il Re «quei tuoi sogni con le Principesse sono grandi sciocchezze, e promettono tanto senza mantenere nulla. Adesso, o mi indichi un sogno che mi diverta davvero… senza tanti trucchi e complicazioni… o fili via dal palazzo, tu e i tuoi armadi!»
«Signore!» rispose Subtilio. «Ho proprio il sogno che fa per voi, della migliore qualità e rifinito a mano. Assaporatelo per un solo istante e vi convincerà!»
«Che sogno sarebbe?» chiese il Re.
«Questo, Vostra Altezza» rispose il Grande Taumaturgo, e indicò una delle piccole piastre di madreperla: quella con la scritta «Monna Lisa, ovvero il Labirinto della Dolcezza Infinita».
Poi, prima che il Re potesse dire «sì» o «no», Subtilio prese la catena e fece per inserire la spina, affrettandosi il più possibile, perché le cose non stavano andando per niente bene: Zipperio — troppo ottuso per lasciarsi completamente sedurre dalla seducente Ineffabella — era riuscito a sfuggire all’eterno imprigionamento nella Scatola Nera.
«Aspetta!» protestò il Re. «Lo faccio io!»
Inserì la spina ed entrò nel sogno, ma solo per scoprire di essere ancora se stesso, Zipperio, nel corridoio del palazzo, accanto a Subtilio il Cybernista, che gli spiegava come, di tutti i sogni, «Monna Lisa» fosse il più dissoluto, perché conteneva l’essenza della femminilità portata all’infinito.
Udito questo, Zipperio infilò immediatamente la spina e si guardò attorno, alla ricerca di Monna Lisa e delle sue carezze infinite, ma in quel sogno all’interno di un sogno si trovò ancora nel corridoio del palazzo, al fianco del Grande Taumaturgo, e così, con irritazione, infilò la spina ed entrò nel sogno successivo, ma era sempre lo stesso, con il corridoio, i tre armadi, il Cybernista e lui stesso.
«E’ un sogno o non lo è?» gridò, infilando di nuovo la spina, e ancora una volta si trovò nel corridoio, con gli armadi, il Cybernista; riprovò, ma la scena non cambiò; riprovò ancora, sempre più in fretta…
«Dov’è Monna Lisa, imbroglione?» gridò, e tirò via la spina per svegliarsi… ma non ci riuscì, si trovò ancora nel corridoio davanti all’armadio!
Infuriato, batté i piedi per terra e si lanciò di sogno in sogno, di armadio in armadio, di Cybernista in Cybernista. Il sogno, ormai, non gli interessava più, voleva soltanto ritornare alla realtà, al suo amato trono, agli intrighi di corte e alle vecchie nefandezze, cosicché prese a tirare e a infilare le spine con furia cieca.
«Aiuto!» gridava, e «Ehi! Il Re è in pericolo!» e «Monna Lisa, aspettami!» correndo lungo i corridoi, terrorizzato, e andava da un angolo all’altro, alla ricerca di un varco nel sogno, ma senza trovarlo.
Non capì che cosa gli fosse successo, né come, o perché, ma questa volta la sua stupidità non fu in grado di salvarlo, né la sua codardia, né la sordida avarizia, perché questa volta si era infilato troppo profondamente ed era intrappolato e avvolto nel sogno, come in un centinaio di bozzoli, cosicché, anche quando riusciva, facendo appello a tutta la sua forza, a liberarsi da uno, tutto era inutile, perché immediatamente cadeva in un altro, e quando staccava la spina dall’armadio, spina e armadio erano solo un sogno, non la realtà, e quando colpiva Subtilio, anche questi non era che un sogno.
Zipperio corse avanti e indietro, cercò dappertutto, ma, dovunque si recasse, tutto era sogno e nient’altro che sogno: le porte, il pavimento di marmo, le pareti filettate d’oro, gli arazzi, il corridoio, e anche lo stesso Zipperio era un sogno, un sogno che sognava, un’ombra che camminava, un’apparizione vuota, non concreta, fuggitiva, persa in un labirinto di sogni e sempre più sprofondata in esso, per quanto si divincolasse e si agitasse… benché pure questo suo agitarsi fosse assolutamente immaginario!
Colpì Subtilio sul naso, ma non era quello reale; ruggì e gridò, ma niente di reale uscì dalla sua bocca, e quando alla fine, stordito e semi-impazzito, riuscì davvero a farsi strada fino alla realtà, la scambiò per un sogno e tornò a infilare la spina nella presa dell’armadio e ripiombò nel sogno, e continuò a sognare, come era inevitabile, e così Zipperio, gemendo, sogno invano di svegliarsi, senza immaginare che «Monna Lisa» fosse — in realtà — soltanto una diabolica abbreviazione di «monarcolisi», ossia dissoluzione, dissociazione e totale eliminazione del Re. E in verità, di tutte le trappole tese da Subtilio, quella era la più terribile…
SECONDO INTERMEZZO
Cosi terminò la storia commovente e istruttiva che Trurl raccontò al Tiranno Tirapollici Terzo, che si ritrovò con un forte mal di testa e perciò congedò il costruttore senza chiedergli altro, non prima di averlo insignito, però, dell’Ordine della Sacra Cybernia, una freccia lillà — simboleggiante il feedback — in campo verde, con intarsiati preziosi bit d’informazione».
Con queste parole, la seconda macchina narratrice si interruppe. 1 suoi ingranaggi dorati ronzarono musicalmente, e rise piano, come ubriaca, perché alcuni dei suoi klystron si erano un po’ surriscaldati. Poi abbassò il suo potenziale anodico, soffiò via il fumo di qualche isolante che incominciava a bruciarsi, e ritornò accanto alla feluca fotonica, accompagnata da molti applausi per la sua eloquenza e la sua capacità narrativa.
Re Genius offerse a Trurl una coppa di idromele fonico, mirabilmente decorata con curve gaussiane di probabilità e luccicante del gioco sottile dei quanti d’onda. Trurl lo mandò giù in un sorso, poi schioccò le dita; a quel comando, la terza macchina scese dalla nave e si portò nel centro della caverna, fece un profondo inchino e raccontò con voce tonica, eufonica e altamente elettronica, la storia che segue.
LA STORIA DELLA TERZA MACCHINA
OVVERO
MYMOSH IL FIGLIO DI SE STESSO
Questa storia narra di come il Grande Costruttore Trurl, per il tramite di una normalissima brocca, desse origine a una fluttuazione locale, e di quel che poi ne fu.
Nella Costellazione del Cacciavite c’era una galassia a spirale, e in quella galassia c’era una nebulosa nera, e nella nebulosa c’erano cinque ammassi del sesto ordine, nel quinto e ultimo dei quali c’era un sole color lillà, molto vecchio e pallido, e attorno a quel sole orbitavano sette pianeti, e il terzo aveva due lune, e in tutti quei soli e stelle e pianeti e lune aveva luogo una varietà di eventi svariati e variabili, che tuttavia ricadeva entro distribuzioni statistiche perfettamente normali, e sulla seconda luna del terzo pianeta del sole lillà del quinto ammasso della Nebulosa Nera della galassia a spirale della Costellazione del Cacciavite c’era una discarica di rifiuti, il tipo di discarica che si può incontrare su ogni luna e ogni pianeta, assolutamente nella media — ossia piena di rottami e spazzatura — venuta in esistenza perché un tempo gli aberrazionisti globerici avevano mosso guerra — una guerra del tipo a fissione e a fusione — contro i geni albumenidi, con la naturale conseguenza che i loro ponti, strade, case e palazzi, e naturalmente essi stessi, si erano ridotti in polvere e rottami, che poi i venti solari avevano sospinto nel luogo di cui parliamo.
Ora, per molti e moltissimi secoli non avvenne altro, nella discarica, che l’arrivo di nuovi rifiuti, anche se una volta si verificò un terremoto che portò in cima i rifiuti che erano in fondo, e in fondo quelli che erano in cima, cosa che in se stessa non rivestiva alcun particolare significato simbolico, ma che preparò la strada a un fenomeno assai inconsueto.
Infatti accadde che Trurl, il Favoloso Costruttore, mentre volava nei pressi, venne abbagliato da una cometa con la coda particolarmente splendente. Si allontanò subito dalla sua traiettoria, gettando freneticamente dall’oblò, come zavorra, tutto quello che gli capitava sotto mano; pezzi degli scacchi — del tipo cavo, che lui aveva riempito di liquore per il viaggio — certi fusti metallici usati dagli Ubidubbi di Clorelai per costringere gli avversari a capitolare, una manciata di utensili assortiti e una vecchia brocca di terracotta, con una crepa in mezzo e il manico staccato.
La brocca, accelerando in accordo con le leggi di gravità e sottoposta all’attrazione della coda della cometa, si schiantò sul fianco di una montagna sovrastante la discarica, ricadde, rotolò lungo una montagnola di rottami verso una pozzanghera, scivolò su un breve tratto di fango e alla fine urtò contro un vecchio barattolo di lamiera; l’urto piegò il metallo attorno a un filo di rame, e nello stesso tempo serrò tra la lamiera e il filo qualche pezzetto di mica: così si generò un condensatore, mentre il filo, piegato dal barattolo, costituì l’inizio di un’induttanza.
Una pietra, colpita dalla brocca, spostò a sua volta un pezzo di ferro arrugginito, che per caso era una calamita, e questo diede origine a una corrente, e la corrente passò per sedici altre lattine e pezzetti di filo, liberando un certo numero di solfuri e di cloruri, i cui atomi si legarono ad altri atomi, e le molecole che si formarono si collegarono ad altre molecole, finché, nel centro della discarica, non venne a crearsi un circuito logico, seguito da altri cinque, e da altri diciotto ancora, nel punto in cui la brocca finì per fermarsi.
Quella sera, qualcosa emerse dai margini della discarica, non lontano dalla pozzanghera che ormai si era asciugata, e questo «qualcosa», una creatura puramente accidentale, era Mymosh il Figlio di Se Stesso, che non aveva né madre né padre, ma era nato da sé, perché suo padre era la coincidenza, sua madre l’entropia.
Mymosh si sollevò dalla discarica, del tutto indifferente al fatto che la probabilità della sua esistenza era meno di una su cento miliardi di ziliardi elevati alla zilionesima potenza, e fece un passo, e poi ne fece altri, fino a raggiungere la pozzanghera più vicina, che non si era ancora prosciugata, cosicché, inginocchiatosi davanti a essa, poté facilmente specchiarvisi.
E scorse, sulla superficie dell’acqua, la sua testa dalla forma puramente accidentale, con orecchie simili a palline, e la destra alquanto più piccola dell’altra, e vide il suo corpo dalla forma puramente accidentale, un pot-pourri di lattine, viti e rottami, con il petto a barile — dato che il suo petto era effettivamente un barile — anche se un po’ più stretto nel centro, come per segnargli la vita, perché nell’uscire dai rifiuti era stato colpito da una pietra che glielo aveva schiacciato, e rimirò le sue membra rugginose, e le contò, e come volle la sorte c’erano due gambe e due braccia, e — accidentalmente — anche due occhi, e Mymosh il Figlio di Se Stesso si compiacque grandemente della propria persona, e sospirò con ammirazione per la vita sottile, per la disposizione simmetrica degli arti e per la rotondità della testa e fu portato a esclamare: «Davvero sono bellissimo, anzi, perfetto, e questo non fa che testimoniare la Perfezione di Tutto il Creato! E come deve essere buono Colui che mi ha fatto!»
Continuò a camminare, lasciando dietro di sé una scia di viti (giacché nessuno le aveva serrate come si deve) e cantando inni in lode della Sempiterna Armonia della Provvidenza, ma al settimo passo incespicò e cadde a faccia in giù nei rifiuti, e da quel momento in poi non fece altro che arrugginire, corrodersi e lentamente disintegrarsi per i successivi trecento e quattordici mila anni, perché aveva battuto la testa ed era entrato in corto circuito e non esisteva più.
Alla fine di quel periodo, però, avvenne che un certo mercante, il quale portava un carico di anemoni di mare del pianeta Medulsa agli stomatopodi di Trycia, litigò con il suo aiutante, mentre passavano accanto al sole color lillà, prese una scarpa e la scagliò contro di lui, e la scarpa sfondò l’oblò e uscì nello spazio, dove la sua traiettoria susseguente subì una perturbazione, a causa del fatto che la stessa cometa che in un’epoca lontanissima aveva abbagliato Trurl ora tornava a passare nello stesso punto, e così la scarpa, roteando lentamente su se stessa, venne deviata verso la luna, fu un po’ strinata dall’attrito con l’atmosfera, urtò il fianco della montagna, al di sopra della discarica, rimbalzò a quota più bassa e assestò un sonoro calcione a Mymosh il Figlio di Se Stesso, proprio con la giusta forza e proprio nella giusta direzione per creare esattamente la torsione, la coppia, la forza centrifuga e la quantità angolare di moto occorrenti per riattivare il cervello accidentale di quella creatura accidentale.
Andò così: Mymosh, colpito, finì nella pozzanghera più vicina, dove i suoi cloruri e i suoi ioduri si mescolarono con l’acqua, l’elettrolito filtrò nel suo cranio e, gorgogliando, vi creò una corrente, che continuò a circolare per tutta la sua testa, tanto che Mymosh si rizzò a sedere sul fango e fece mentalmente questa considerazione: «Penso, dunque (a quanto pare) sono!»
Ciò, tuttavia, fu la sola cosa che poté pensare nei seguenti sedici secoli, e la pioggia batté su di lui, e la grandine lo bombardò, e per tutto questo tempo la sua entropia aumentò e crebbe. Ma dopo esattamente mille e cinquecento e venti anni, un certo uccello, che volava al di sopra della discarica, attaccato da un predatore che si era lanciato su di lui in picchiata, si svuotò il soverchio gravame del ventre — un po’ per paura e un po’ per aumentare la velocità — e le deiezioni piombarono in centro alla fronte di Mymosh, che riportato in esistenza da questo urto, starnutì e disse: «Certo, sono! E non è il caso di aggiungervi un ’a quanto pare’! Eppure, il problema sussiste: chi è, a dire che io sono? Ovvero, in altre parole, chi sono io? Ora, come si può trovare risposta a questa domanda? Ah! Se soltanto esistesse qualcosa al di fuori di me, una cosa di qualsiasi genere, che mi servisse da pietra di paragone! Allora potrei dire di avere già vinto metà della mia battaglia. Ma, ahimè, non c’è niente, perché — come posso chiaramente vedere — non vedo niente! Perciò, l’unica cosa che esiste sono io, e io sono tutto quello che c’è e che può esserci, perché posso pensare in ogni modo da me desiderato. Ma che cosa sono io, dunque? Solo uno spazio vuoto per i pensieri, e niente di più?»
In effetti non possedeva più alcun organo di senso, perché erano arrugginiti e si erano ridotti in polvere nel corso dei secoli e dei millenni, dato che l’Entropia, moglie del Caos, è un’amante crudele e implacabile.
Di conseguenza Mymosh non poteva vedere la pozzanghera che era sua madre né il fango che era suo padre, e neppure il vasto, ampio mondo né il cielo che tutto sovrasta, e non aveva alcun ricordo di quel che gli era successo in precedenza, e in generale non era in grado di fare altro che pensare. Poteva fare soltanto quello, e perciò vi si dedicò con convinzione.
«Per prima cosa» disse a se stesso «devo riempire il vuoto che c’è in me, e così allontanare questa insopportabile monotonia. Perciò, pensiamo a qualcosa, perché, quando pensiamo — oh, meraviglia! — il pensiero esiste, e nient’altro che il nostro pensiero ha esistenza».
Da questa affermazione si può notare come fosse già divenuto alquanto presuntuoso, perché si riferiva a se stesso con la prima persona plurale.
«Ma, aspetta» si disse poi «non potrebbe esistere qualcosa anche al di fuori di me? Dobbiamo prenderne in considerazione la possibilità, anche solo per un momento, e anche se è una considerazione che suona assurda e addirittura offensiva e folle. Chiamiamo, ipoteticamente, questa esteriorità il Gozmos. Se dunque esistesse un Gozmos, io dovrei essere una sua parte ed esservi contenuto».
Qui si fermò, rifletté per qualche tempo su quel problema e alla fine respinse l’ipotesi in quanto priva di qualsiasi base e fondamento. In effetti, non c’era la benché minima prova a favore dell’ipotesi, non c’era alcuna testimonianza a suo sostegno, e così, vergognandosi di aver perso del tempo in simili speculazioni illogiche e campate per aria, disse a se stesso: «Di quello che sta al mio esterno — ammesso e non concesso che qualcosa esista — non ho conoscenza. Ma quel che c’è al mio interno lo conosco, o almeno lo conoscerò non appena ne avrò pensato qualcosa, perché chi può sapere meglio di me, perbacco, quello che io penso?»
Pensò e pensò, e pensò nuovamente al Gozmos, ma questa volta ci pensò dentro di sé, soluzione che gli parve assai più sensata e rispettabile, ben entro i confini della ragione e della correttezza. E cominciò a riempire il Gozmos di vari pensieri assortiti. Per prima cosa, poiché non aveva molta esperienza e non possedeva ancora la necessaria abilità, immaginò i Perlanti, che ghimbavano ogni volta che ne avevano l’occasione, e i Pratinfi, che si compiacevano di flicortare. Immediatamente, i Pratinfi attaccarono i Perlanti per asserire la supremazia del flicorteggio sul ghimbamenio, e Mymosh, dalle sue fatiche di creatore di mondi, non ricavò altro che un brutto mal di testa.
Nel suo successivo tentativo di creazione di pensieri si mosse con maggiore cautela, pensando prima gli elementi come il brutonio, un gas nobile, e le particelle elementari come il cogitone, ossia il quanto del pensiero, e creò alcuni esseri che fruttificarono e si moltiplicarono.
Di tanto in tanto commise errori, ma dopo un paio di secoli divenne molto abile, e il suo Gozmos, robusto e stabile, prese forma nell’occhio della sua mente., e brulicò di una moltitudine di entità, oggetti, creature, civiltà e meraviglie. La loro esistenza era quanto mai gradevole, perché Mymosh aveva reso le leggi del Gozmos assai liberali, dato che non gli piacevano le regole rigorose e inflessibili, ossia quel tipo di disciplina carceraria che viene imposta da Madre Natura (anche se, naturalmente, non aveva mai saputo nulla di Madre Natura).
Così, il mondo del Figlio di Se Stesso era un luogo di capricci e miracoli, dove tutto poteva verificarsi una volta in un modo e un’altra volta in un modo del tutto diverso — e questo senza particolari motivi o esigenze di rima. Se, per esempio, un individuo doveva morire, c’era sempre il modo di evitarlo, perché Mymosh era assolutamente contrario agli eventi irreversibili. E nei suoi pensieri gli Zigroti, i Calsoniani, i Flimmeroni, gli Juppi, gli Arligini e i Wallamachinoidi prosperarono e fiorirono, generazione dopo generazione. Durante questo periodo, anche le braccia e le gambe deformi di Mymosh si staccarono, e tornarono a far parte dei rifiuti da cui erano uscite in prima istanza, e l’acqua fece arrugginire il barile che era il suo tronco, e il suo corpo affondò lentamente nell’acqua stagnante. Ma prima aveva fatto in tempo a creare un gruppo di costellazioni completamente nuove, e le aveva disposte amorevolmente nell’eterna notte della sua consapevolezza di sé — che era il suo Gozmos — e faceva del suo meglio per mantenere un accurato ricordo di tutto ciò che aveva creato col pensiero, benché la testa gli dolesse per lo sforzo, perché si sentiva responsabile del suo Gozmos, profondamente obbligato a seguirlo e necessario a tutte le sue componenti.
Intanto — anche se lui non aveva modo di saperlo — la ruggine gli aveva sempre più corroso le piastre del cranio, finché il manico della brocca di Trurl, la stessa brocca che molti millenni prima l’aveva portato all’esistenza (un manico che diversamente dal resto era rimasto a orbitare attorno al satellite), lasciò finalmente l’orbita che per tanti millenni aveva seguito, e che progressivamente si era sempre più abbassata, e precipitò sulla superficie, in direzione della sua testa, che era la sola parte di Mymosh che emergesse ancora dall’acqua.
E proprio nel momento in cui Mymosh immaginava l’incantevole, cristallina Bauci e il suo fedele Ondragor. e li mandava in viaggio, mano nella mano, dall’uno all’altro dei soli neri della sua mente, e tutte le genti del Gozmos — compresi i Perlanti — li ammiravano in un silenzio rapito, e la coppia si scambiava sottovoce le più dolci parole… il cranio consumato dalla ruggine si spaccò sotto l’urto del manico, l’acqua della palude si rovesciò sugli avvolgimenti di rame spegnendo la corrente nei circuiti logici, e il Gozmos di Mymosh il Figlio di Se Stesso raggiunse la perfezione, ossia quell’estrema perfezione che si ottiene con l’annullamento. E colui che — pur senza averne avuto l’intenzione — l’aveva messo al mondo non seppe mai della sua esistenza.
La macchina si inchinò e Re Genius meditò tristemente sulle sue parole, così a lungo che tutti cominciarono a mormorare contro Trurl, che aveva osato rannuvolare la mente reale con una simile storia. Ma presto il Re sorrise e chiese: «E non hai altro per noi, mia buona macchina?»
«Certo» rispose quella, inchinandosi rispettosamente «vi racconterò la storia, straordinariamente profonda, di Cloriano Teoretico, detto il Prof(eta), intellettuale elettrico e sapiente «par excellence»».
Accadde un giorno che Klapaucius, il famoso costruttore, ansioso di riposare dopo le sue grandi fatiche (aveva appena terminato per Re Thanaton una Macchina Che non C’è, ma questa è un’altra storia), arrivò al pianeta dei Mammonidi e prese a girellarvi di qua e di là, in cerca di solitudine, finché non vide, ai margini di una foresta, un’umile capanna, tutta ricoperta di cyberbacche selvatiche e con un filo di fumo che si levava dal camino.
L’avrebbe evitata con piacere, ma notò sul gradino una pila di boccette d’inchiostro vuote, e quella singolare presenza lo spinse a dare un’occhiata all’interno.
Là, a un massiccio tavolo di pietra, sedeva un vecchio saggio, così male in arnese, rappezzato con il fil di ferro e arrugginito, che destava stupore a vederlo. Aveva la fronte ammaccata in cento punti, e gli occhi, che ballavano nelle orbite, cigolavano orribilmente, e così le braccia, che da tempo non venivano lubrificate.
A quanto pareva, il vecchio doveva la sua miserabile esistenza alle toppe, alle saldature e ai pezzi di filo che lo tenevano insieme, e miserabile doveva essere davvero, come testimoniavano i pezzi di ambra che si scorgevano qua e là sul tavolo: a quanto pareva, quella povera creatura otteneva la sua elettricità strofinandoli tra loro!
Lo spettacolo di una simile indigenza impietosì Klapaucius, il quale stava già per trarre discretamente qualche moneta dal borsellino, quando il vecchio, che ora lo fissava con lo sguardo velato dalla cateratta, disse con voce esile: «Allora, sei arrivato, finalmente?»
«Be’, sì» mormorò Klapaucius, stupito che qualcuno lo aspettasse in un luogo dove non aveva mai pensato di recarsi.
«Ebbene, che tu possa arrugginire, fare una brutta fine, che ti si spezzino le braccia, il collo e le gambe» strillò il vecchio sapiente, infuriato, e cominciò a tirare tutto quello che gli capitava sotto mano — più che altro spazzatura — contro l’ammutolito Klapaucius.
Quando finalmente si fu stancato e cessò il bombardamento, la vittima della sua collera gli chiese con calma il motivo di una reazione così poco ospitale. Per qualche tempo il saggio continuò a mormorare frasi come: «Che ti scoppiasse un fusibile!» «Che ti si bloccassero i meccanismi per sempre, o vile corrosione» ma alla fine si calmò e il suo umore migliorò, fino al punto da indurlo a sollevare un dito — anche se di tanto in tanto lanciava qualche insulto e sollevava una tale quantità di scintille che tutta l’aria puzzava di ozono — e a raccontare la sua storia con le seguenti parole.
Sappi, o forestiero, che io sono un sapiente, un sapiente per sapienti, il primo dei filosofi, perché la mia principale passione e professione, per tutta la vita, è sempre stata l’ontologia, e il mio nome (che un giorno brillerà più delle stelle) è Cloriano Teoretico il Prof.
Sono nato in una famiglia umîle, e fin dalla prima infanzia ho sentito un’irresistibile attrazione per il pensiero astratto. A sedici anni ho scritto la mia prima opera, «Lo Gnostotrone», in cui si proponeva la teoria generale delle divinità a posteriori, divinità che dovevano essere aggiunte all’universo in un secondo tempo, da parte delle civiltà progredite, poiché, come si sa, la Materia viene sempre per prima e non c’era nessuno, all’inizio, che potesse pensare. Chiaramente, a quell’epoca, all’Alba della Creazione, l’assenza di pensiero regnava suprema, com’è ovvio quando si dà un’occhiata al nostro Cosmo!
(A quel punto, il vecchio saggio fu preso dall’ira e batté vigorosamente i piedi, ma presto si stancò e riprese a parlare.)
Semplicemente, spiegavo la necessità di costruire degli dèi a posteriori, perché non ce n’erano a priori. In effetti, ogni civiltà che si dedica all’intelligenza elettronica non cerca altro che di costruire un Omniac — un calcolatore universale — che, con la sua infinita misericordia, possa raddrizzare le correnti del male e tracciare il cammino della rettitudine e della vera sapienza.
Ora, in quel mio primo lavoro, includevo anche il progetto del primo Gnostotrone, oltre a diagrammi sulla sua onnipotenza in uscita, misurata in unità chiamate geovah. Un geovah corrispondeva a un miracolo in un raggio di un miliardo di parsec.
Non appena il mio trattato venne pubblicato (a mie spese), io corsi in strada, sicuro che la gente mi avrebbe portato trionfalmente sulle spalle, incoronato di ghirlande, coperto d’oro, ma nessuno, neppure un cybernetista zoppo, venne a complimentarsi con me.
Allarmato ancor prima che deluso da un simile oblio, immediatamente mi misi a scrivere un’opera in due volumi, «Il flagello della ragione», in cui dimostravo che ogni civiltà ha davanti a sé due sole strade, ossia morire per la troppa agitazione o morire per la troppa compassione.
E mentre percorrono l’una o l’altra strada, le civiltà divorano l’universo, trasformando la materia planetaria e stellare in assi del cesso, portamantelli, ruote, bocchini per sigarette e cuscini, e si comportano così perché, incapaci di capire l’universo, cercano di cambiare quella Incomprensione in Qualcosa di Comprensibile e non si fermeranno finché nebulose e pianeti non saranno stati trasformati in lettini, vasi da notte e bombe, il tutto nel nome dell’Ordine Sublime, perché solo un universo con pavimenti, impianti idraulici, etichette e cataloghi è accettabile e rispettabile.
Nel secondo volume, intitolato «Advocatus materiae», dimostravo come la Ragione — un’entità avida, mai contenta è soddisfatta soltanto quando riesce a incatenare un geyser cosmico, o a imbrigliare uno sciame atomico… per esempio, per produrre un unguento per togliere le pustole.
Fatto questo, la Ragione corre a occuparsi del successivo fenomeno naturale, intenzionata ad aggiungerlo, come una testa impagliata, alla sua amata collezione di spoglie scientifiche.
Ma, ahimè, anche questi miei due eccellenti volumi vennero accolti con il massimo disinteresse da parte del mondo; allora mi dissi che per arrivare al successo occorrevano pazienza e perseveranza.
Avendo difeso, prima, la Ragione contro l’universo (assolvendo la Ragione da ogni colpa, in quanto la Materia permette ogni sorta di abominio soltanto perché è priva di mente) e poi l’universo contro la Ragione (da me completamente demolita, oserei dire), per un’ispirazione improvvisa scrissi «Il sarto esistenziale», in cui dimostravo in via definitiva l’assurdità di avere più di un filosofo, in quanto ciascuno mira a elaborare una filosofia propria, che calza a lui solo, come un guanto o un vestito su misura.
E poiché quel lavoro venne del tutto ignorato, subito ne scrissi un altro, in cui presentavo tutte le possibili ipotesi sull’origine dell’universo: per prima l’opinione che esso non esista affatto, per seconda che sia il risultato di tutti gli errori commessi da un certo Demiurgo, il quale si era accinto a creare il mondo senza la minima idea di come procedere; terza, che il mondo è in realtà l’allucinazione di qualche Supercervello divenuto folle in maniera infinita ma circoscritta; quarta, che è un’idea asinina materializzatasi per burla; quinta, che è materia che pensa, ma con un coefficiente di intelligenza spaventosamente basso… poi mi misi ad aspettare le reazioni, prevedendo attacchi veementi, dibattiti accesi, notorietà, allori, denunce, lettere degli ammiratori e minacce anonime.
Invece, anche questa volta, niente di niente. Incredibile. Allora pensai: be’, forse non ho letto a sufficienza le opere degli altri pensatori, e così, procuratomi le loro opere, feci la conoscenza dei più famosi: Phrensius Whiz, Buffon von Schneckon, fondatore del movimento Schneckonista, e poi Turbulo Turpitus Catafalicum, Ithm di Logar e, naturalmente, Lemuel il Pelato.
Eppure, in tutte quelle opere non scoprii niente di importante. Intanto, anche i miei libri venivano gradualmente venduti, e perciò ne dedussi che qualcuno li leggeva: se così era, presto o tardi se ne sarebbe parlato. In particolare, non dubitavo che il Tiranno mi avrebbe chiamato, con la richiesta di dedicarmi esclusivamente a rendere immortale il suo glorioso nome.
Naturalmente, gli avrei detto con sdegno che il mio unico padrone era la verità e che per essa ero disposto a sacrificare la vita. Allora il Tiranno, desideroso di ricevere le lodi che la mia mente superiore poteva formulare, avrebbe cercato di conquistarmi con parole suadenti e forse anche con sacchi di monete tintinnanti, ma, vedendomi deciso e incrollabile, avrebbe dichiarato (dietro suggerimento dei suoi consiglieri) che se mi occupavo dell’universo dovevo occuparmi anche di lui, perché anch’egli era una parte della Totalità Cosmica.
Offeso da questa presa in giro gli avrei risposto con qualche battuta tagliente, e lui mi avrebbe messo alla tortura. Perciò, rafforzai il mio corpo in anticipo, per poter sopportare — con filosofica indifferenza — anche il peggio.
Eppure, passarono i giorni e i mesi, ma non ricevetti mai una parola dal Tiranno… mi ero preparato invano al martirio. L’unico a occuparsi di me fu uno scribacchino chiamato Noxion, il quale scrisse, in uno squallido giornale del pomeriggio, che un certo Cloriano, senza dubbio un burlone, aveva esposto un’infinità di trovate bizzarre in un suo libro intitolato spiritosamente «Lo Gnostotrone, o il supremo Onnipotenziometro, ovvero Un’ocata nel futuro».
Corsi alla mia biblioteca… ed era proprio così: il tipografo aveva scritto «ocata» invece di «occhiata».
Il mio primo impulso fu quello di ucciderlo, poi prevalse la ragione. «Il mio tempo verrà! " dissi a me stesso. «Non può essere che una persona dispensi a destra e a manca, giorno e notte, perle di saggezza eterna, finché la mente viene accecata dalla Luce della Comprensione Finale… e che non succeda niente! No, arriverò alla fama e al plauso, alla cattedra d’avorio, al titolo di Primo Mentore, all’affetto della gente, a una mia scuola, in un boschetto ombroso, ad allievi che raccolgono ogni mia parola, a una folla osannante!»
Infatti, o straniero, ogni intellettuale sogna queste cose. Certo, ti diranno che il loro unico sostegno è la Conoscenza, e la loro unica gioia è la verità, che non fanno per loro gli orpelli di questo mondo, i nastri, le medaglie e i premi, l’abbraccio della folla, l’oro, la gloria, l’applauso. Tutte balle, mio caro signore, tutte balle! Tutti vogliono le stesse cose, e la sola differenza tra loro e me è che io, almeno, ho la grandezza di spirito di ammettere simili fragilità, apertamente e senza vergogna.
Ma gli anni passarono, e si parlava di me soltanto per chiamarmi Cloriano il Pazzo o il Povero Clorio. Quando giunse il quarantesimo anniversario della mia nascita, constatai che le masse non si decidevano ancora a scoprirmi.
Così, scrissi una tesi sugli M.L.S.P., ossia la razza avente la civiltà più progredita dell’universo.
Come, dici di non averne mai sentito parlare? Ma, se è solo per questo, neanch’io la conosco, e non l’ho mai vista, né mi aspetto di vederla; ho ricavato la sua esistenza in base a considerazioni puramente deduttive, in un modo strettamente logico, inevitabile e teoretico.
Infatti — così procede la mia dimostrazione — se l’universo contiene molte civiltà a vari stadi di sviluppo, la maggioranza sarà più o meno a uno stadio medio, mentre alcune civiltà saranno rimaste indietro e altre saranno riuscite a portarsi avanti.
Ma ogni volta che si ha una distribuzione statistica, per esempio dell’altezza in un gruppo di individui, ce n’è soltanto uno che corrisponde al valore massimo, e la maggioranza insiste su valori prossimi alla media; analogamente, nell’universo, esiste una sola civiltà che ha raggiunto l’M.L.S.P… il Massimo Livello di Sviluppo Possibile.
I suoi abitanti, gli M.L.S.P., hanno conoscenze che noi non possiamo neppure immaginare. Ho detto tutto questo in quattro volumi, pagando di tasca mia la carta patinata e il ritratto dell’autore sul frontespizio, ma anche quei volumi hanno fatto la fine degli altri che li hanno preceduti. Un anno fa ho riletto l’intera opera da cima a fondo, e ho pianto, tanto erano brillanti le sue deduzioni, così piene del respiro dell’Assoluto… no, e impossibile descrivere la bellezza di quell’opera.
Poi, a cinquant’anni, per qualche tempo arrivai al massimo! Vedi, di tanto in tanto acquistavo le opere di altri saggi, che accumulavano grandi ricchezze e ottenevano il successo, per conoscere gli argomenti di cui trattavano. Be’ scrivevano della differenza tra il prima e il poi, della bellezza del trono del Tiranno, con i suoi braccioli aggraziati e le sue gambe ben tornite, e trattati sulle buone maniere, e descrizioni particolareggiate di questo e quello, e in quei libri nessuno parlava direttamente di sé, ma in qualche modo si capiva che Phrensius aveva paura di Schneekon, e viceversa, mentre tutt’e due erano ammirati dai Logariti. Poi c’erano i tre famosi fratelli Voltaici: Voltore lodava Vantore, Vantore lodava Vanitoso, e questi lodava Voltore.
Leggendo le loro opere, all’improvviso venni colto da un’ira trascinante e le distrussi, strappando con le unghie e con i denti le loro pagine… finché non smisi di singhiozzare, poi, asciugate le lacrime, mi misi a scrivere «L’evoluzione della Ragione come fenomeno a doppio ciclo».
Infatti, come spiegavo in quel saggio, robot e visipallidi sono uniti tra loro da un vincolo reciproco. Prima, dall’accumularsi di fango viscido su una spiaggia marina, nascono creature viscose, appiccicose e bianche, fatte di albumine. Dopo un tempo lunghissimo, queste imparano a dare vita al metallo e fabbricano Automi per avere degli schiavi.
Con il tempo, però, il fenomeno si inverte e gli Automi, liberatisi degli Albuminoidi e scordatisi della loro origine, finiscono per condurre esperimenti in cui cercano di sapere se nelle sostanze gelatinose possa sopravvivere la coscienza e la risposta, come si sa, è affermativa, perché le proteine dell’albumina possono ospitarla. Poi, dopo milioni di anni, i visipallidi sintetici scoprono di nuovo i metalli e il ciclo si ripete per l’eternità.
Come vedi, ho così risolto il vecchio interrogativo se venga prima il robot o il visopallido. Presentai questa opera all’Accademia: sei volumi rilegati in cuoio, e il costo della loro pubblicazione consumò gli ultimi resti della mia eredità. C’è bisogno che ti dica che anche quell’opera passò sotto silenzio?
Avevo più di sessant’anni, mi stavo avviando verso i settanta, e la speranza di raggiungere la gloria durante la mia vita stava progressivamente svanendo. Che cosa potevo fare, allora? Cominciai a pensare alla posterità, alle future generazioni che un giorno mi avrebbero scoperto e che si sarebbero inginocchiate nella polvere davanti al mio nome.
Ma che beneficio ne avrei tratto, mi domandai, dato che non sarei stato presente? Perciò fui costretto a concludere, in accordo con i miei insegnamenti contenuti in quarantaquattro volumi — oltre che con i prolegomeni, i paralipomeni e le appendici da me scritti — che non ne avrei tratto alcun beneficio.
Così, con il cuore che ribolliva di amarezza, mi accinsi a scrivere il mio «Testamento per i discendenti», in cui intendevo prenderli a calci e coprirli di sputi, svillaneggiarli, insultarli e maledirli quanto possibile, e il tutto nel modo più scientifico e rigoroso.
Perché? mi chiedi. Pensi che fosse ingiusto, che avrei fatto meglio a indirizzare la mia indignazione contro i miei contemporanei, i quali non avevano saputo riconoscere la mia genialità?
Bah! Rifletti, o degno straniero! Quando il mio «Testamento» sarà esaltato dalla fama futura, e ogni sua sillaba brillerà di grandezza, i contemporanei saranno ormai polvere, e come potranno essere raggiunti dalle mie maledizioni?
No, se facessi come dici tu, i loro discendenti studierebbero le mie opere con spirito perfettamente equanime, e di tanto in tanto osserverebbero, con un sospiro calmo e superiore: «Ahimè! Con che calma, con che eroismo il maestro ha sopportato la sua crudele oscurità! Com’era giustificata la sua rabbia contro i nostri antenati, e, nello stesso tempo, com’è nobile da parte sua averci lasciato in eredità, nonostante tutte le offese, i frutti della sua saggezza!»
Ecco, è esattamente quello che direbbero! E poi? Gli idioti che mi hanno sepolto vivo non devono essere puniti? La tomba deve poterli riparare dalla mia collera e dalla mia vendetta? La sola idea mi fa ribollire tutto l’olio! Che i figli possano leggere in pace le mie opere, sgridando educatamente, da parte mia, i loro genitori?
Niente affatto! Il minimo che possa fare è mostrargli la lingua da lontano, dal passato! Devono sapere, coloro che venereranno il mio pensiero e che innalzeranno monumenti dorati alla mia memoria, che in cambio io voglio che… gli si sloghino i giunti, gli scoppino le valvole, gli si brucino le trasmissioni, perdano i dati che hanno nelle loro memorie, e la ruggine li ricopra da cima a fondo, se non sanno fare altro che onorare le salme esumate dal cimitero della storia!
Forse sarà già nato tra loro un nuovo saggio, ma essi, troppo occupati a faticare come schiavi sui frammenti dei miei messaggi alla lavandaia, non si accorgeranno di lui! Che sappiano, dico io, che sappiano, una volta per tutte,
che li condanno cordialmente, e che sinceramente li disprezzo, che li considero baciascheletri, leccacadaveri, sciacalli professionisti, perché si nutrono di carogne e non sanno riconoscere la saggezza quando è ancora viva!
E, nel pubblicare le mie «Opere Complete» — le quali dovranno includere questo «Testamento», la mia maledizione finale sulle loro future teste — che quei vili tanatomiti e necrofiti siano almeno privati della possibilità di congratularsi con se stessi per il fatto che Cloriano Teoretico il Prof., l’impareggiabile pensatore che ritrasse il domani infinito, apparteneva alla loro risma!
E quando si inchineranno sotto il mio monumento, che sappiano come io abbia augurato loro soltanto il peggio che l’universo ha da offrire, e come la forza del mio odio, proiettata contro il futuro, fosse uguagliata solamente dalla sua impotenza!
Sappiano che li ripudio per sempre e che ho scagliato su di loro soltanto il mio disprezzo e i miei anatemi!
Per tutto questo lungo concione Klapaucius aveva cercato invano di calmare l’infuriato sapiente. Nel pronunciare le ultime frasi, però, il vecchio era balzato in piedi e ora, minacciando con il pugno le generazioni a venire, scaricò una serqua di insulti sorprendentemente pungenti (sorprendente era soprattutto il fatto che Cloriano li conoscesse: dove poteva averli imparati, avendo sempre condotto una vita così esemplare?) Poi, schiumante e fumante, ruggì e batté i piedi sul pavimento, e, con una pioggia di scintille, crollò a terra, morto per un travaso di bile.
Klapaucius, addolorato dallo spiacevole esito del colloquio, si sedette al tavolo di pietra, raccolse il «Testamento» e cominciò a sfogliarlo, anche se presto gli vennero le traveggole per la grande quantità di epiteti rivolti al futuro. Alla seconda pagina era già coperto di sudore, perché l’ormai defunto Cloriano Teoretico dava prova di una capacità di invettiva davvero cosmica. Per tre giorni continuò a leggere, con gli occhi inchiodati al manoscritto, e infine provò soltanto un profondo senso di dubbio; doveva rivelarlo al mondo oppure distruggerlo? E per quanto ne posso sapere io, è ancora seduto laggiù, incapace di decidere…
«Mi pare di scorgere qualche allusione» commentò Re Genius, quando la macchina ebbe terminato e si fu ritirata «alla questione della ricompensa monetaria, che ormai sarebbe ora di affrontare, perché, dopo una notte bravamente trascorsa in racconti, fuori dalla nostra caverna albeggia ormai il nuovo giorno. Allora, mio buon costruttore, come devo remunerarti?»
«Vostra Maestà» rispose Trurl «mi mette un po’ in imbarazzo. Qualunque richiesta io faccia, finirei prima o poi per pentirmene, nel caso venisse soddisfatta, perché penserei che avrei potuto chiedere di più. D’altra parte non vorrei offendere Vostra Maestà chiedendo una cifra esorbitante. Perciò lascio alla generosità di Vostra Maestà la determinazione dell’onorario…»
«Così sia, allora» rispose il Re affabilmente. «Le storie erano eccellenti, le macchine certamente perfette, e perciò non vedo altra possibilità che quella di premiarti con il tesoro più grande di tutti: un tesoro che, ne sono certo, non scambieresti con nessun altro.
«Ti lascio la salute e la vita… e questo, secondo me, è il solo dono adatto. Qualsiasi altro sarebbe un insulto, perché non c’è nessuna somma di denaro che possa comprare Trurl o la Saggezza. Va’ dunque in pace, amico mio, e continua a nascondere le tue verità, troppo amare per questo mondo, sotto forma di favole e di racconti fantastici».
«Vostra Maestà…» disse Trurl, allarmato «all’inizio intendevate, forse togliermi la vita? Era quello il pagamento che volevate darmi?»
«Interpreta le mie parole come preferisci» rispose il Re «ma ecco come la vedo io: se tu mi avessi semplicemente fatto divertire, la mia munificenza non avrebbe conosciuto limiti. Ma tu hai fatto molto di più, e non c’è ricchezza, nell’universo, che possa eguagliarlo. Così, nell’offrirti la possibilità di continuare la tua illustre carriera, non posso darti premio od onore più alto…»
L’ALTRUIZINA
OVVERO
COME BONHOMMIUS, L’EREMITA ERMETICO, CERCO’ DI IMPORRE LA FELICITA’ UNIVERSALE E LE CONSEGUENZE DEL SUO ATTO
Un bel giorno d’estate, mentre Trurl il costruttore era intento a potare le cyber-rose nel cortile dietro casa, vide arrivare lungo la strada un robot mendicante tutto liso e sbrindellato, spettacolo quanto mai triste e doloroso. I suoi arti erano tenuti insieme da pezzi di vecchio tubo da stufa legati con il fil di ferro, la sua testa era una pentola così piena di buchi che si potevano sentir ronzare e sfrigolare i pensieri, all’interno, fra uno sprazzo di scintille e l’altro, il collo era un pezzo di rotaia arrugginita e nella sua pancia aperta si scorgevano tubi a vuoto che fumavano e ballavano così malamente che egli stesso doveva fermarli con la mano libera… l’altra gli serviva per tenere fisse le viti che minacciavano di svitarsi.
Proprio mentre arrancava davanti alla casa di Trurl, gli saltarono quattro fusibili in un colpo solo e cominciò, in mezzo a una nube puzzolente di fumo di isolanti bruciati, a cadere letteralmente a pezzi, sotto gli occhi del costruttore.
Trurl, mosso a compassione, afferrò un cacciavite e un rotolo di nastro isolante e offrì quel po’ di pronto soccorso che poteva al povero viandante, il quale continuava a cadere a terra, con un grande sferragliare di ingranaggi, dovuto a una totale perdita di sincronizzazione.
Alla fine, Trurl riuscì a fargli riprendere i sensi, nei limiti del possibile, poi lo fece entrare in casa, lo fece sedere in una comoda poltrona e gli passò un caricabatterie perché potesse riprendere un po’ di forza elettromotrice, e mentre il poveretto si affrettava a ricaricarsi, gli chiese, incapace di frenare oltre la curiosità, come fosse caduto in una condizione così disgraziata.
O generoso e nobile signore» rispose il robot forestiero, le cui lastre tremavano ancora «mi chiamo Bonhommius e sono, o dovrei dire ero, un eremita ermetico, perché sono vissuto per sessantasette anni in una caverna, dove passavo il tempo in pie meditazioni, finché una mattina capii che passare la vita in solitudine era sbagliato, perché tutti i miei profondi pensieri e i miei sforzi spirituali non avevano mai impedito a un chiodo di cadere ed è stato scritto che il nostro primo dovere è quello di aiutare il nostro vicino e non di pensare solo alla nostra salvezza, imperocché chi pensa solo…»
«Certo, certo» si affrettò a interromperlo Trurl «mi pare di avere capito il tuo stato d’animo, quel giorno. Che cosa è successo, poi?»
«Allora mi recai a Photura, dove per caso incontrai un famoso costruttore, un certo Klapaucius».
«Klapaucius?» esclamò Trurl, sorpreso.
«C’è qualcosa che non va, gentile signore?» chiese l’ex eremita.
«No, no… niente. Continua, ti prego!»
«A tutta prima, confesso di non averlo riconosciuto: era davvero un gran signore e aveva un carro automatico che non solo lo portava in giro, ma faceva anche conversazione con lui, un po’ come io converso con te.
«Ora, quel carro mi insultò con un epiteto irripetibile, perché camminavo in mezzo alla strada, non essendo abituato al traffico cittadino, e, per la sorpresa, gli ruppi con il mio bastone una delle lampade anteriori; questo portò il carro a una tale collera che il suo occupante fece fatica a tenere le redini, ma alla fine riuscì a calmarlo e mi invitò a salire a cassetta con lui.
«lo gli raccontai chi ero e perché avessi abbandonato la mia caverna e gli dissi che in realtà non sapevo che cosa fare; lui approvò la mia decisione e a sua volta si presentò, parlandomi diffusamente del suo lavoro e illustrandomi i suoi successi.
«Da ultimo mi raccontò la commovente storia del grande saggio, maestro di pensiero e filosofo, Cloriano Teoretico il Prof., alla cui triste fine ebbe il doloroso onore di assistere. Di tutto quello che mi raccontò sulle «Opere Complete» del Più Grande dei Robot, la parte che mi interessò di più fu quella sugli M.L.S.P. Tu, buon signore, ne hai forse sentito parlare?»
«Certo. Sono gli unici esseri dell’universo che abbiano raggiunto il Massimo Livello di Sviluppo Possibile».
«Sei davvero bene informato gentilissimo e nobilissimo signore. Ora, mentre sedevo a fianco del degno Klapaucius sul suo carro (che continuava a lanciare terribili insulti a chiunque fosse tanto imprudente da sbarrargli la strada) pensai improvvisamente che quegli esseri, sviluppatisi fino al massimo livello possibile, avrebbero certamente saputo consigliare uno come me, che sentiva il desiderio di aiutare i suoi simili.
«Così, rivolsi molte domande a Klapaucius su quegli esseri, gli chiesi se sapesse dove vivevano gli M.L.S.P., e come trovarli.
«Per tutta risposta mi rivolse un sorriso obliquo e scosse la testa. lo non osai rivolgergli altre domande sull’argomento, ma quando ci fermammo a una locanda (il carro era diventato rauco, nel frattempo, aveva perso completamente la voce; di conseguenza, Klapaucius era costretto a fare sosta fino all’indomani) e ci fummo seduti davanti a una brocca di elettrolito ben caldo e speziato che presto rimise di buon umore il mio compagno, guardando le termocoppie danzare alle note spiritate di una banda ad alta frequenza, Klapaucius mi accolse nelle sue confidenze e cominciò a raccontarmi… ma forse la mia storia ti ha stancato».
«Niente affatto, niente affatto!» protestò Trurl. «Sono tutt’orecchi, ti assicuro!»
«Mio buon Bonhommius» mi disse Klapaucius, in quella locanda, mentre i danzatori si surriscaldavano «sappi che presi talmente a cuore la storia dello sfortunato Cloriano che decisi di partire immediatamente per cercare quegli esseri perfettamente sviluppati, la cui esistenza egli aveva così conclusivamente dimostrato sulla base di considerazioni logiche e teoretiche.
«La principale difficoltà dell’impresa, a mio giudizio, stava nel fatto che ogni razza del cosmo crede di trovarsi al punto più alto dello sviluppo — di conseguenza, limitandomi a chiedere, non sarei arrivato a niente.
«Ma neppure una ricerca per tentativi ed errori pareva promettere molto, perché l’universo conteneva, secondo i miei calcoli, almeno quattordici centigigatrilioni di civiltà intelligenti; con cifre così grosse, non ci si poteva aspettare di arrivare per caso nel posto giusto.
«Così, riflettei, mi documentai sul problema, esaminai metodicamente parecchie biblioteche, studiai ogni sorta di antichi tomi, finché un giorno non trovai la risposta nelle opere di un certo Cadaverius Malignus, uno studioso che, a quanto pareva, era arrivato alle stesse conclusioni del Prof., ma almeno trecentomila anni prima, e che in seguito era stato completamente dimenticato… cosa che dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, che non c’è niente di nuovo sotto il sole — il nostro e qualunque altro.
«Inoltre, anche la vita di Cadaverius aveva avuto molti punti di contatto con quella del nostro Cloriano.
«Ma non divaghiamo. Fu proprio da quelle pagine ingiallite e fragili che appresi come cercare gli M.L.S.P. Malignus sosteneva che occorreva esaminare gli ammassi stellari alla ricerca di qualche fenomeno astrofisico impossibile: non appena se ne fosse trovato uno, quello sarebbe stato il luogo più probabile.
«Un indizio un po’ oscuro, a dire il vero, ma non lo sono un po’ tutti? Senza perdere altro tempo, rifornii la mia nave di tutto il necessario, partii e dopo numerose avventure su cui non è il caso di soffermarsi adesso, alla fine trovai in un grande sciame stellare un astro diverso da tutti gli altri, in quanto era a forma di cubo.
«Ora, quello fu davvero uno shock… qualunque ragazzino sa che le stelle devono essere sferiche e che ogni sorta di angolarità stellare, per non parlare di rettangolarità, è non solo altamente irregolare, ma del tutto da escludere!
«Mi avvicinai alla stella e immediatamente vidi che anche il suo pianeta era cubico, e per di più aveva rinforzi di rame ribattuti ai vertici e una costolatura di conci di calcite agli spigoli. Su un’orbita più esterna ruotava un altro pianeta, che sembrava assolutamente normale; un’occhiata al telescopio, però, mi mostrò orde di robot intente a farsi guerra: una vista che non invitava ad approfondire la ricerca.
«Così, riportai il mio strumento sul pianeta cubico e aumentai al massimo l’ingrandimento: immagina la mia sorpresa e la mia gioia quando accostai l’occhio all’oculare e scorsi una sigla incisa sui conci di pietra, lunghi parecchie decine di miglia, che facevano da spigolo al pianeta: quattro lettere, abbellite da fregi e svolazzi: M.L.S.P.! ’Per il grande Gauss!’ esclamai. ’Il posto deve essere questo!’
«Ma anche orbitando parecchie volte intorno al pianeta cubico, tanto da farmi venire addirittura il capogiro, sulla sua superficie sabbiosa non scorsi neppure un abitante. Solo quando scesi a una quota di sei miglia riuscii a distinguere un gruppo di macchioline che, al massimo ingrandimento, risultarono essere gli abitanti di quello strano corpo celeste.
«Ce n’era almeno un centinaio, stesi sulla sabbia, e rimanevano perfettamente immobili, tanto che per qualche istante pensai che fossero morti. Poi vidi che uno si grattava, e quel piccolo segno di vita mi incoraggiò a scendere. Ero talmente emozionato che non attesi neppure che il mio razzo si raffreddasse dopo aver attraversato l’atmosfera del pianeta, ma saltai immediatamente a terra e chiesi: ’Scusatemi, è per caso questo il pianeta del Massimo Livello di Sviluppo Possibile?’
«Nessuna risposta. In effetti, non mi prestarono alcuna attenzione. Un po’ deluso da quella dimostrazione di assoluta indifferenza, mi guardai attorno. La pianura scintillava ai raggi del sole cubico e qua e là si scorgeva qualche oggetto che sporgeva dalla sabbia: gomme usate, bastoni, pezzetti di carta e altri rifiuti, e gli abitanti erano stesi a terra, a casaccio, in mezzo a quel disordine: uno era sdraiato sulla schiena, l’altro sulla pancia, e un po’ più avanti ce n’era uno con le gambe per aria.
«Mi avvicinai al primo e lo esaminai. Non era un robot, ma non era neppure un uomo; almeno, non era un uomo del solito genere fatto di proteine glutinoso-albuminose. Aveva la testa tonda, le guance rosse, ma al posto degli occhi c’erano due fischietti da arbitro di calcio, e al posto delle orecchie due turiboli da cui si levava una nuvoletta d’incenso.
«La creatura portava un paio di larghi calzoni viola, con una striscia di seta blu sulla cucitura e con, a mo’ di applicazioni, tanti piccoli foglietti, scritti in una calligrafia minutissima, e ai piedi aveva scarpe dai tacchi alti. Inoltre teneva in mano un mandolino fatto completamente di panpepato, dall’impugnatura mancavano già alcuni morsi.
«Dato che russava saporitamente, mi chinai a guardare le scritte che s’era cucito sui calzoni, ma non riuscii a leggerne molte, perché l’incenso mi faceva lacrimare gli occhi. Le frasi erano molto curiose; per esempio: ’N. 7, diamante, peso netto 700 carati’. ’N. 8, Cioccolatini di Tespi, piangono quando li mangi, recitano il soliloquio di Amleto nello stomaco’, e ’Sparse le trecce morbide più avanti’. ’N. 10, coccodrillo da usare in casi di eliminazione d’emergenza, adulto’ e tante altre che adesso non ricordo.
«Quando toccai uno dei pezzetti di carta per poterlo leggere meglio, accanto al ginocchio della creatura, nella sabbia, si formò una depressione e si udì una vocina: ’Devo uscire, adesso?’
«‘Chi è?’ chiesi io, sorpreso.
«‘Sono io, il roccodrillo. Sei pronto? E’ ora?’
«‘No, non ancora!’ mi affrettai a dire, rinculando precipitosamente.
«La creatura successiva aveva la testa a forma di campana, tre corna, parecchie braccia di tutte le lunghezze (con due si grattava la pancia), orecchie lunghe e coperte di piume, un cappello con un bel balcone rosso, su cui una figurina stava discutendo con qualcuno all’interno — una discussione animata, a giudicare dai minuscoli piatti che volavano fuori — e inoltre aveva sotto le spalle un cuscino tempestato di gemme.
«Mentre io lo guardavo, questo individuo si staccò dalla testa uno dei corni, lo annusò e lo gettò via con una smorfia di disgusto, poi versò nell’apertura una manciata di sabbia. Accanto a questa creatura ce n’era un’altra, che a tutta prima mi parve una coppia di gemelli, e poi una coppia di amanti che si abbracciavano. Stavo per allontanarmi per non sembrare indiscreto, quando mi accorsi che non erano due persone, e neppure una, ma una e mezzo.
«La testa era pressoché normale, a parte le orecchie, che di tanto in tanto si staccavano e si mettevano a volare in giro, come farfalle. Aveva gli occhi chiusi, ma parecchi nei sul mento e sulle guance avevano minuscoli occhi che mi fissavano con ostilità.
«Questa strana creatura aveva un petto ampio, muscoloso, che però era tutto pieno di buchi, come se qualcuno si fosse divertito con il trapano, e i buchi erano tappati con una sostanza che ricordava la marmellata di mirtilli. Aveva solo una gamba, ma molto robusta e al piede un’elegante pantofolina di cuoio, in stile moresco, con un sonaglio sulla punta. Vicino al gomito scorsi un mucchio di torsoli di mela (o di pera?).
«Il mio stupore crebbe ancora quando, più avanti, scorsi un robot con la testa umana e con un bricco, a forma di samovar in miniatura, che gli bolliva allegramente sulla narice sinistra, e una figura che dormiva su un letto di frutta candita, e un’altra con una vetrina nella pancia, in cui si poteva ammirare una collezione di statuine di cristallo.
«Guardando meglio, vidi che le statuine erano mobili e stavano recitando una specie di commedia, ma talmente oscena che, dopo una sola occhiata, corsi via, rosso come un peperone.
«Ero talmente confuso che non feci attenzione a dove mettevo i piedi; così inciampai e caddi, e quando mi rialzai vidi un altro abitante di quello strano pianeta: completamente nudo, si grattava la schiena con un lungo bastoncino d’oro, e pareva provarne un grande piacere, anche se era senza testa.
«La testa era a pochi passi di distanza, con il collo piantato nella sabbia; intenta a pulirsi i denti con la lingua. Aveva il mento a scacchi, l’orecchio destro della forma e del colore di un cavolo (fiore), mentre quello sinistro era del tutto normale, a parte che c’era infilata una carota con un’etichetta: TIRARE.
«Senza riflettere, tirai, e la carota venne via. In fondo, però, era legata con un cordino: continuai a tirare, e dietro il cordino spuntò un’altra etichetta con la scritta: FUOCHINO, FUOCHERELLO. Tirando ancora, e continuando a tirare, all’estremità del cordino c’era finalmente una boccetta per medicine con l’etichetta: SIAMO CURIOSI, VERO?
«Tutto questo mi disorientò al punto che per qualche tempo persi la cognizione di dove mi trovassi. Ma infine ripresi un po’ la padronanza di me e cominciai a guardarmi intorno, alla ricerca di qualcuno con cui poter comunicare quanto bastava per rispondere a un paio di domande. Un possibile candidato, pensai, era un tizio molto grasso, seduto a terra, che mi girava la schiena ed era assorto su qualcosa che teneva sulle ginocchia — almeno aveva solo una testa, due occhi, due braccia e così via. Perciò mi avvicinai a lui e cominciai: ’Scusatemi, ma, se non vado errato, lorsignori sono talmente fortunati da avere raggiunto il Massimo Livello di Sviluppo Possibile…’
«La frase mi morì sulle labbra. L’indigeno dava l’impressione di non avermi ascoltato affatto, perché era completamente preso dalla cosa che aveva sulle ginocchia, e che risultava essere la sua stessa faccia, staccata in qualche modo dal resto della testa. La faccia sospirò piano quando lui la prese per il naso. Per un momento, rimasi paralizzato dallo stupore… ma solo per un momento, perché, subito dopo, ritrovai tutta la mia curiosità e mi dissi che dovevo scoprire a qualsiasi costo quello che stava succedendo.
«Corsi da un indigeno all’altro, parlai con loro, li interrogai, alzai la voce, insistetti, implorai, ragionai, li minacciai addirittura, ma senza ottenere alcun risultato.
«Esasperato, giunsi perfino ad afferrare per il braccio il tiratore di naso e con orrore scoprii che veniva via e che glielo avevo strappato, anche se la cosa non parve dargli alcuna preoccupazione: si limitò a frugare nella sabbia e ne trasse un altro braccio, esattamente uguale a quello che aveva perso — a parte le unghie laccate di arancione — vi soffiò sopra per togliere gli ultimi granelli di sabbia e poi se lo attaccò al moncherino.
«Incuriosito, chinai lo sguardo per osservare il primo braccio, ma mi affrettai a lasciarlo cadere quando si mise a schioccare le dita davanti ai miei occhi.
«Ormai il sole stava tramontando, già due dei suoi vertici erano scomparsi al di sotto dell’orizzonte, l’aria si era raffreddata e gli abitanti di M.L.S.P. cominciavano a prepararsi per la notte: si grattavano, sbadigliavano, facevano i gargarismi; uno tirava fuori una coperta adorna di smeraldi, un altro si staccava metodicamente naso, orecchie e gambe e li metteva in fila.
«Continuai a camminare nel buio, ancora per qualche tempo, poi ci rinunciai, con un sospiro, e anch’io mi stesi sulla sabbia per dormire. Cercando di trovare una posizione comoda, guardai le stelle del cielo e mi chiesi quale poteva essere la mia prossima mossa.
«‘Senza dubbio’ mi dissi ’questo dev’essere il pianeta di cui parlavano sia Cadaverius Malignus sia Cloriano Teoretico il Prof., dove abita la civiltà più progredita dell’universo, una civiltà di poche centinaia di individui che, né uomini né robot, se ne stanno sdraiati per tutto il giorno in un deserto disseminato di ogni sorta di rifiuti e non fanno altro che grattarsi la schiena e tirarsi il naso. No, ci deve essere qualche terribile segreto dietro tutto questo, e io non mi fermerò finché non l’avrò scoperto!’
«Poi pensai: ’Deve trattarsi davvero di un segreto terribile, per giustificare non soltanto la forma cubica del sole e del pianeta, ma anche le statuine pornografiche all’interno di un corpo e i messaggi insultanti nell’orecchio di un altro!
«‘Ho sempre pensato che se io, un semplice robot, posso dedicare la mia vita allo studio e alla ricerca di conoscenze, il tipo di fermento intellettuale che doveva regnare tra queste creature maggiormente sviluppate… anzi, le più sviluppate dell’universo_ doveva essere elevatissimo!
«‘Eppure, queste creature, qualunque cosa facciano, non passano certamente il tempo in conversazioni elevate: non si degnano neppure di rispondere alle domande. Perciò, dovrò costringerle a farlo, ma come?
«‘Forse, se darò loro fastidio, se romperò le scatole, per così dire, diventerò talmente irritante che accetteranno qualsiasi cosa, pur di liberarsi di me!
«‘Naturalmente, c’è qualche rischio: potrebbero irritarsi, e, senza dubbio, potrebbero distruggermi con la stessa facilità con cui si schiaccia una mosca…
«‘Ma no, non posso credere che siano disposti a ricorrere alla violenza — e poi, devo sapere! Bene, diamoci da fare!
«Nell’oscurità, mi alzai e cominciai a gridare con quanto fiato avevo in gola, poi mi misi a fare salti e capriole, presi a calci la sabbia e gliela scagliai negli occhi, danzai e cantai fino a rimanere senza voce, feci parecchi piegamenti sulle braccia e sulle ginocchia, infine mi misi a correre in mezzo a loro come un cane impazzito.
«Gli abitanti del pianeta mi girarono le spalle e sollevarono coperte e cuscini per proteggersi, e infine, quando ero giunto alla mia centesima capriola, sentii una voce che mi diceva, dentro la testa: ’Che commenti farebbe il tuo buon amico Trurl, se potesse vederti adesso, se potesse vedere come passi il tempo sul pianeta che ha raggiunto il Massimo Livello di Sviluppo Possibile, dove abita la Civiltà Più Progredita dell’Intero Universo?’
«Ma io non mi curai del suggerimento e continuai a urlare e a battere i piedi, incoraggiato da quello che si dicevano tra loro:
",Pss!’
«‘Che cosa vuoi?’
’Lo senti?’
«‘Come potrei evitare di sentirlo? Mi ha praticamente spaccato la testa con uno dei suoi calci’.
«‘Puoi sempre cambiarla’.
’Sì, ma non posso dormire’.
«‘Come?’
«‘Ho detto che non posso dormire!’
«‘E’ curioso’ sussurrò un terzo.
«‘E’ «tremendamente» curioso’.
«‘Questo è davvero troppo. Dobbiamo fare qualcosa’.
«‘Cosa?’
«‘Non so… cambiargli la personalità?’
«‘No, sarebbe immorale’.
«‘Senti come grida!’
«‘Aspettate, ho un’idea…’
«Bisbigliarono qualcosa tra loro mentre io continuavo saltare e a fare un baccano del diavolo (concentrando gli sforzi soprattutto sull’area da cui provenivano i bisbigli). Poi, proprio mentre ero finito con la testa contro la pancia di qualcuno, tutto divenne nero e l’istante successivo mi trovai sulla mia nave, già in volo nello spazio.
«Le gambe mi facevano male per tutta quella ginnastica; ma in ogni caso non sarei riuscito a muovermi, perché sedevo in mezzo a una pila di tromboni, vasetti di marmellata verde, orsacchiotti di pezza, «glockenspiel» con campanelline d’argento, monete d’oro, copriorecchie in filo dorato, braccialetti e spille con un luccichio così intenso da costringermi a socchiudere le palpebre.
«Quando finalmente riuscii a divincolarmi da tutti quei tesori e mi trascinai a un boccaporto, vidi che le costellazioni erano completamente diverse — non c’era la minima traccia di qualcosa di simile a un sole cubico!
«Poi, con qualche breve calcolo, scoprii che avrei dovuto viaggiare per seimila anni alla massima velocità per fare ritorno dagli M.L.S.P. Si erano liberati di me, certamente. E se fossi ritornato da loro, non avrei ottenuto niente: questo era chiaro; mi avrebbero allontanato di nuovo, con la loro telecinesi spaziale istantanea, o quello che era.
«E così, mio caro Bonhommius, ho deciso di affrontare il problema in modo completamente diverso…»
«E con queste parole, gentilissimo e nobilissimo signore» disse Bonhommius «il famoso costruttore Klapaucius terminò la sua storia…»
«Non sarà finita lì, spero!» esclamò Trurl.
«No, ha detto molte altre cose, o mio benefattore! E qui sta la mia sfortuna!» rispose il robot, con grande turbamento. «Quando gli chiesi che cosa avesse deciso di fare, si chinò verso di me e disse…
’Il problema pareva davvero senza soluzione, a tutta prima, ma ho trovato un modo. Tu dici di essere vissuto come eremita ermetico e sei soltanto un semplice robot, privo di particolari conoscenze, e perciò non ti annoierò con spiegazioni legate all’arte misteriosa della generazione cibernetica.
«‘Per dirla in parole semplici, perciò, ci sarà sufficiente costruire un dispositivo digitale, un computer capace di dare un modello informazionale di qualunque cosa esista. Programmato nel modo giusto, ci fornirà un’esatta simulazione di una creatura al Massimo Livello di Sviluppo Possibile, e noi potremo interrogarla e ottenere da lei le risposte!’
«‘Ma come è possibile costruire un simile strumento?’ chiesi io. ’E come puoi essere sicuro, o illustre Klapaucius, che la sua risposta non consista nell’allontanarci con lo stesso sistema istamatico e iperstiziale, o quello che è, impiegato dai veri M.L.S.P. sulla tua riverita persona?’
«‘Lascia fare a me’ disse Klapaucius. ’E non temere, caro Bonhommius, perché io scoprirò il grande mistero degli M.L.S.P. e tu scoprirai il modo migliore per mettere a frutto la tua naturale avversione per il male!’
«Puoi immaginare, gentile signore, la grande gioia da me provata nell’udire quelle parole, e l’ansia con cui aiutai Klapaucius a realizzare il suo piano.
«Come presto scoprii, la macchina digitale da lui costruita non era altro che il famoso Gnostotrone descritto da Cloriano Teoretico il Prof. prima di morire, una macchina capace — letteralmente — di contenere l’intero universo nelle sue innumerevoli memorie. (Klapaucius, però, non era soddisfatto del nome, e di tanto in tanto ne proponeva qualcun altro: l’Omniac, il Pansofoscopio, il COPTO — Computer Ontologico per Tutti gli Obiettivi — o il Mahatmatico 500, per citarne alcuni.)
«In esattamente un anno e sei giorni, la grande macchina venne completata, ed era così enorme che dovemmo costruirla a Flafundria, la luna cava dei Filisti… e una formica all’interno di un transatlantico non si sentiva perduta come noi nelle viscere di quel gigante binario, tra i suoi infiniti cavi di collegamento, i suoi deviatori e trasformatori escatologici, i suoi raddrizzatori agiopneumatici e i suoi resistori tentazionali.
«Confesso che i miei capelli erano tutti ritti e le lamelle del mio alternatore persero un battito, quando il mio illustre maestro mi fece accomodare alla console centrale di comando, e mi lasciò faccia a faccia con quella tremenda, gigantesca costruzione.
«Le luci che si rincorrevano sui suoi pannelli non erano diverse dalle stelle del firmamento; dappertutto c’erano insegne che avvisavano PERICOLO: SUPREMAMENTE INEFFABILE! e i potenziometri, con le lancette che ruotavano follemente, indicavano come i campi logici e semantici salissero a inusitati livelli di intensità.
«Sotto i miei piedi si agitava un mare di saggezza preternaturale e pretermeccanica: una saggezza che si diffondeva come un incantesimo lungo interi parsec di circuiti e su mega-ettari di magneti, ruotava e mi circondava da ogni lato, cosicché, nella mia vergognosa ignoranza, mi sentivo come una semplice molecola di polvere.
«Superai quella debolezza soltanto ripensando alla mia vita, tutta dedicata al servizio del bene, e alla mia passione per la verità e la bellezza, concepita fin da quando ero una semplice scintilla nell’oscilloscopio del mio costruttore.
«Così rafforzato, riuscii a balbettare la prima domanda: ’Parla, che genere di macchina sei?’
«Dai suoi tubi rosseggianti si levò un vento caldo; e sulle ali di quel vento giunse una voce, un sussurro di tuono che mi segnò fino al cuore, come un marchio rovente. La voce disse: ’Ego sum Ens Omnipotens, Omnisapiens, in Spiritu Intellectronico Navigans, luce cybernetica ira saecula saeculorum litteris opera omnia cognoscens, et caetera, et caetera’.
«Tale fu la mia paura, nel sentire questa risposta, che non riuscii più a continuare l’interrogatorio, finché Klapaucius non ridusse la FEM (Forza Epistemotrice) a un millesimo del suo voltaggio precedente, regolando i teostati.
«Allora chiesi allo Gnostotrone se era disposto a usarmi la gentilezza di rispondere a domande relative al Massimo Livello di Sviluppo Possibile e al segreto della sua civiltà.
«Tuttavia, Klapaucius mi spiegò che non era quello il modo di procedere: occorreva invece chiedere al Computer Ontologico di costruire, nel proprio interno d’argento e di cristallo, il modello di un abitante del pianeta cubico, e nello stesso tempo di dotare il modello di un’adeguata dose di loquacità. Così fatto, eravamo pronti a iniziare.
«Io, però, tremavo e paventavo e non riuscivo a parlare. Così, fu Klapaucius che prese il mio posto davanti alla console centrale di comando e chiese: ’Che cosa sei?’
«‘Ho già risposto’ ribatté la macchina, evidentemente seccata.
«‘Voglio dire, sei uomo o robot?’ spiegò Klapaucius.
’E che differenza c’è, secondo te?’ commentò la macchina.
«‘Ascolta, se intendi rispondere alle mie domande con un’altra domanda, non arriveremo da nessuna parte’ disse Klapaucius, secco. ’Sai che cosa voglio. Parla!’
«Anche se il tono da lui usato nel parlare alla macchina mi allarmò, parve funzionare, perché la macchina disse: ’A volte gli uomini costruiscono robot, e a volte i robot costruiscono uomini. Che importa, in realtà, se una persona pensa con un circuito metallico o con un mucchio di protoplasma? Quanto a me, posso assumere la forma che voglio e la sostanza che voglio — ovvero, le potevo assumere, perché non perdiamo più il nostro tempo in questi giochetti’,
«‘Già’ commentò Klapaucius. ’Allora, perché ve ne state a dormire tutto il giorno e non fate niente?’
’E che cosa dovremmo fare, esattamente?’ ribatté la macchina.
«A queste parole, Klapaucius si irritò e disse: ’Come faccio a saperlo? Noi dei bassi livelli di sviluppo facciamo ogni genere di cose’.
«Te facevamo anche noi, ai nostri tempi’.
«‘E ora non più?’
«‘Ora non più’.
«‘Perché no?’
«Qui l’M.L.S.P. computerizzato si rifiutò di rispondere, dicendo di avere già sopportato sei milioni di interrogazioni come quella, senza che lui e gli interroganti ne traessero un qualsiasi vantaggio. Ma dopo che Klapaucius ebbe alzato la loquacità e regolato qualche leva, il computer rispose:
‘Un trilione di anni fa, eravamo una civiltà come tutte le altre — credevamo nella trasmissione delle anime, nella Vergine Matrice, nell’infallibilità di PI quadro, consideravamo la preghiera come un feedback rigenerativo per il Massimo Programmatore e così via. Poi comparvero gli scettici, gli empiristi e gli accidentalisti, e in nove secoli arrivammo alla conclusione che Lassù non c’era Nessuno, e che di conseguenza le cose non accadevano perché erano predestinate da qualche scopo o da qualche piano superiore, ma… be’ accadevano e basta’.
«‘Accadevano e basta?’ non potei fare a meno di esclamare. ’Cosa intendi dire?’
’Di tanto in tanto nascono robot deformi’ spiegò la voce. ’Se tu fossi afflitto da una gobba, per esempio, ma credessi fermamente che l’Onnipotente ha bisogno della tua gobba per realizzare il suo Progetto Cosmico e che perciò quella gobba era prestabilita insieme al resto del Creato, ecco che tu accetteresti la tua deformità. Se invece ti dicessero che è solo l’effetto di una molecola fuori posto, allora non ti rimarrebbe che abbaiare alla luna’.
‘Ma una gobba si può raddrizzare’ protestai io ’e qualsiasi altra deformità si può correggere, se si possiede un livello scientifico sufficientemente alto!’
«‘Sì, lo so’ sospirò la macchina. ’E’ così che ragionano gli ignoranti e i sempliciotti…’
«Tuoi dire che non è vero?’ esclamammo io e Klapaucius, stupefatti.
«‘Quando una civiltà comincia a raddrizzare le gobbe’ disse la macchina ’credetemi, non si sa dove si va a finire! Raddrizzate le gobbe, passate a potenziare la mente, a rendere rettilinei i soli, a mettere le gambe ai pianeti e a fabbricare destini e fortune di tutti i tipi…
«‘Oh, la cosa inizia in modo abbastanza innocente, si scopre il fuoco strofinando due bastoncini, ma alla fine si arriva alla costruzione di macchine pensanti che usurpano il lavoro agli dèi: Ommac, Deofatti, Iperboreoni e Ultimathulorii!
«‘Il deserto del nostro pianeta non è realmente un deserto, ma un Giga-gnostotrone, in altre parole una macchina 10 alla nove volte superiore a questo vostro scherzetto primitivo.
‘I nostri antenati l’hanno creato per la semplice ragione che ogni altra realizzazione sarebbe stata troppo facile per loro; nella loro megalomania hanno pensato di rendere intelligente la stessa sabbia che stava sotto i loro piedi. Cosa inutile, perché non c’è modo di migliorare quello che è già perfetto, riuscite a capirlo, voi sottosviluppati?’
«‘Sì, certo’ rispose Klapaucius, mentre io tremavo. ’Ma perché, invece di dedicarvi a qualche attività stimolante, vi stendete su quella sabbia così intelligente e la vostra unica attività si riduce a grattarvi di tanto in tanto?’
«‘Il massimo potenziale dell’onnipotenza si raggiunge quando non si fa niente’ rispose la macchina. ’Vi arrampicate e vi arrampicate per arrivare in cima, ma, una volta lassù, scoprite che tutte le strade portano in basso! Noi, dopotutto, siamo persone di buon senso: perché dovremmo voler fare qualcosa?
«‘I nostri antenati — è vero — hanno trasformato il nostro sole in un cubo e hanno fatto diventare una scatola il nostro pianeta, scrivendo monogrammi sulle pietre delle sue montagne, ma l’hanno fatto unicamente per mettere alla prova il loro Gnostotrone.
«‘Alla stessa stregua, avrebbero potuto disporre le stelle secondo i quadrati di una scacchiera, spegnendo metà del cielo e accendendo l’altra metà, costruire creature popolate di creature inferiori, giganti i cui pensieri fossero i movimenti complessi di milioni di pigmei, o avrebbero potuto ridisegnare le galassie, rivedere le leggi del tempo e dello spazio… ma, dimmi, che senso avrebbe avuto tutto questo? L’universo sarebbe migliore, se le stelle fossero triangolari o se le comete avessero le ruote?’
«‘E’assurdo!’ gridò Klapaucius, indignatissimo, mentre io tremavo per la paura. ’Se siete davvero degli dèi, il vostro dovere è chiaro: allontanare immediatamente tutti i dolori e le disgrazie che affliggono gli altri esseri senzienti! Potreste almeno cominciare con i vostri poveri vicini… ho visto con i miei occhi come combattono tra loro! Ma no, preferite ciondolare tutto il giorno e grattarvi il naso, o insultare i poveri viaggiatori che vengono tra voi in cerca di conoscenza, farvi uscire messaggi umoristici dalle orecchie o far ballare statuine indecenti nelle vostre pance!’
«‘Vedo che non possiedi alcun senso dell’umorismo’ disse la macchina. ’Ma basta. Se ti ho capito bene, vorresti che noi dessimo la felicità a tutto l’universo. Be’, abbiamo dedicato più di quindicimila anni esclusivamente a quel progetto… ossia alla tettonica eudemonica, che rientra fondamentalmente in due scuole: quella brusca e rivoluzionaria, e quella lenta ed evoluzionistica.
«La tettonica eudemonica evoluzionistica consiste essenzialmente nel non alzare un dito per aiutare, nella convinzione che ogni civiltà finirà per farcela, prima o poi, con i propri mezzi. Le soluzioni rivoluzionarie, viceversa, si riducono tutte a due tipi: Carota e Bastone.
«‘Il Bastone — ossia dare la felicità con la forza — produce da una a ottocento volte più sofferenze che il non intervenire affatto. Quanto alla Carota, il risultato, lo crediate o no, è esattamente lo stesso e questo vale anche nel caso che usiate le rispettive macchine: nel secondo caso un Ultradeofatto o un Ipergnostotrone, e nel primo un Inferriac o un Gehennatore. Sapete, probabilmente, che cos’è la Nebulosa del Granchio?’
«‘Certo’ rispose subito Klapaucius. ’Sono i resti di una supernova esplosa molto tempo fa…’
«‘Supernova, dice lui’ ironizzò la macchina. ’No, mio benintenzionato amico, laggiù c’era un pianeta, con una civiltà piuttosto elevata, secondo la solita scala delle civiltà, che tirava avanti con la solita quantità di sangue, sudore e lacrime.
«‘Comunque, per farla breve, un bel mattino noi sganciammo su quel pianeta ottocento milioni di Soddisfattori di Desideri Universali, completamente transistorizzati, ma eravamo a meno di una settimana-luce dal pianeta, e stavamo tornando a casa, quando quel mondo esplose senza preavviso… e i pezzi si stanno ancora espandendo in tutte le direzioni!
«‘La stessa cosa accadde al pianeta degli Ominati… vuoi sentire la storia?’
«‘No, non disturbarti’ replicò Klapaucius, seccato. ’Comunque, mi rifiuto di credere che sia impossibile, con un po’ di ingegnosità, rendere felici gli altri!’
«‘Credi quello che ti pare! Noi abbiamo fatto quel tentativo sessantaquattromilacinquecentotredici volte. Mi si rizzano i peli su ciascuno dei miei crani, quando penso al risultato.
‘Oh, non ci siamo risparmiati fatiche per il bene delle altre creature! Abbiamo inventato una particolare telecamera per vedere i sogni, anche se capirai, naturalmente, che se su un pianeta ci fosse una guerra di religione e ciascuno dei contendenti sognasse soltanto di massacrare l’altro, ci guarderemmo bene dal realizzare quei sogni!
«‘Comunque, dovevamo dare la felicità senza violare le Leggi Superiori. Il problema era ulteriormente complicato dal fatto che la maggior parte delle civiltà cosmiche desidera, nel profondo del cuore, cose che non ammetterebbe mai apertamente di volere. Allora, che fai: li aiuti a raggiungere gli obiettivi che ammettono apertamente — con quel poco di decenza che gli rimane — di voler raggiungere, o soddisfi invece i loro desideri nascosti?
«‘Prendi per esempio i Demenziani e gli Amenziani. I Demenziani, nella loro malintesa religiosità medievale, bruciavano sul rogo tutti coloro che facevano commercio con il diavolo, soprattutto femmine, e lo facevano perché, primo, invidiavano i loro godimenti blasfemi e, secondo, perché avevano scoperto che torturare la gente con la scusa di amministrare la giustizia poteva dare un grande piacere.
«‘Gli Amenziani, invece, non veneravano altro che il loro corpo, e lo eccitavano mediante apposite macchine — anche se lo facevano in modo abbastanza modesto — e questa attività costituiva il loro massimo divertimento.
«‘Avevano certe loro scatole di vetro, in cui osservavano scene di violenza, stupro e mutilazione: tutte scene che servivano a destare i loro appetiti sessuali.
«‘Su quei pianeti sganciammo una moltitudine di dispositivi capaci di soddisfare quei desideri senza danneggiare nessuno: ciascuno strumento creava una distinta realtà artificiale per ciascun individuo. Entro sei settimane, Demenziani e Amenziani erano morti dal primo all’ultimo, per un travaso di gioia, gemendo per l’estasi mentre si spegnevano! E’ questo il tipo di ingegnosità a cui ti riferivi, o sottosviluppato?’
«‘O sei un completo idiota, o sei un mostro!’ gridò Klapaucius, mentre io riuscivo soltanto a battere le palpebre e a inghiottire a vuoto. ’Come puoi vantarti di imprese così scellerate?’
«‘Non me ne vanto affatto; mi limito a riferirle’ rispose con calma la macchina. ’Il punto è questo: abbiamo utilizzato tutti i metodi immaginabili. Su alcuni pianeti abbiamo provato con una vera pioggia di ricchezze, una pioggia di soddisfazione e di benessere, e il risultato è stato la completa paralisi; abbiamo dato buoni suggerimenti, i consigli più esperti, e come ringraziamento i nativi hanno aperto il fuoco contro le nostre navi. In verità, si ha l’impressione di dover cambiare la testa alla gente, per renderla felice…’
«‘Suppongo che possiate fare anche quello…’ brontolò Klapaucius.
«‘Certo che possiamo farlo! Prendi i nostri vicini, per esempio, quelli che abitano un pianeta quasi-terrestre (o, se preferisci, geomorfo). In particolare prendi una delle due fazioni, quella degli Antropodi. Ora, quelle creature si dedicano esclusivamente all’obbio e alla perplessione, perché hanno un terrore mortale dei Dughi, che secondo loro abitano nell’Oltrequa e aspettano con ansia l’arrivo dei peccatori, per torturarli con zanne, artigli e carboni accesi.
«‘Grazie all’imitazione dei beati Dimbligenti, seguendo la Via di Wambe il Santone ed evitando ogni contatto con l’Oddia e gli Abominèmini, un giovane Antropodo può diventare col tempo più industrioso, più virtuoso e più onorevole dei suoi antenati quadrumani.
«‘Va ammesso che gli Antropodi sono da sempre in guerra con l’altra nazione del pianeta, gli Artropoidi, per la «vexata quaestio» religiosa ed epistemologica delle Talpe e delle Tane, che si può così riassumere: E’ la talpa ad avere una tana o è la tana ad avere una talpa? ma in genere, in quella guerra, le perdite non arrivano neppure a metà di ogni nuova generazione.
«‘Ora, tu vorresti che togliessi dalia loro testa ogni credenza nell’obbio, nei Dimbligenti e in tutto il resto, per prepararli alla felicità che deriva dalla ragione. Eppure, questo equivarrebbe a un genocidio mentale, perché il tipo di mentalità che ne verrebbe fuori non sarebbe più né Antropodo né Artropoide… lo capisci anche tu, vero?’
«‘La superstizione deve sparire, davanti alla scienza’ disse Klapaucius, in tono fermo.
«‘Senza dubbio!’ rispose la macchina. ’Ma ti prego cortesemente di osservare che su quel pianeta ci sono attualmente circa sette milioni di penitenti che hanno trascorso l’intera vita a cercare di vincere le loro inclinazioni naturali, in modo da salvare dai Dughi i loro compagni.
‘E io, in pochi istanti, dovrei convincerli, al di là di qualsiasi dubbio, che i loro sforzi sono vani, che hanno sprecato la loro vita in sacrifici inutili e vuoti?
«‘Sarebbe un atto estremamente crudele! La superstizione deve ritirarsi davanti alla scienza, certo, ma la cosa richiede tempo. Considera il gobbo di cui parlavamo: nel suo caso, l’ignoranza corrisponde davvero alla felicità perché crede che la sua gobba svolga un ruolo cosmico nella grande opera divina della creazione. Dirgli che lui, in realtà, è frutto di uno sbaglio a livello molecolare servirebbe soltanto a farlo cadere nella disperazione. Meglio raddrizzargli la gobba, e basta…’
«‘Certo!’ esclamò Klapaucius.
«‘E noi abbiamo fatto anche quello’ continuò la macchina. ’Una volta, mio nonno ha raddrizzato trecento gobbe con un solo gesto della mano. E quanto se ne è pentito, in seguito!’
«‘Perché?’ non potei fare a meno di chiedere.
«‘Perché? Cento e dodici di loro vennero immediatamente messi a bollire nell’olio, perché la guarigione improvvisa e miracolosa venne presa per una chiara indicazione del fatto che avessero venduto l’anima al diavolo. Trenta altri, non più esonerati dal servizio militare, vennero subito presi in forza da qualche battaglione e morirono sull’uno o sull’altro dei vari fronti.
«‘Altri diciassette morirono subito, per l’emozione causata da quel colpo di fortuna, e gli altri — dato che il mio stimato progenitore aveva deciso di dare loro anche una notevole bellezza fisica — morirono a causa dei loro eccessi erotici… vedi, dopo essere stati privati per tanto tempo di quei piaceri, si diedero a ogni sorta di stravizi, ma in modo così violento e sfrenato, che in capo a due anni non ne era più rimasto nessuno. A parte qualche eccezione di poco conto, che non è il caso di citare, l’esperimento finì in un insuccesso’.
’No, parla anche di quelli!’ gridò Klapaucius. Gettai l’occhio su di lui e vidi che era molto turbato.
«‘Se insisti… In realtà ne rimasero due. Il primo si presentò a mio nonno e lo pregò in ginocchio di ridargli la gobba. Pare che da invalido vivesse abbastanza bene delle elemosine che raccoglieva, mentre adesso doveva lavorare ed era poco abituato alla fatica. Peggio ancora, adesso che aveva la schiena dritta, continuava a battere contro l’architrave delle porte…’
«‘E l’altro?’ chiese Klapaucius.
«‘L’altro era un Principe escluso dalla successione al trono a causa della sua deformità. Dopo l’improvvisa correzione del suo difetto, la matrigna, per assicurare la successione al proprio figlio, lo fece avvelenare…’
«‘Capisco…’ fece Klapaucius, in tono leggermente disperato. ’Però, siete in grado di compiere miracoli, vero?’
«‘Dare la felicità con un miracolo è sempre rischioso’ sentenziò la macchina. ’E, poi, chi dovrà essere miracolato? Un individuo? Ma la troppa bellezza nuoce alla fedeltà nel matrimonio, la troppa conoscenza porta all’isolamento, e la troppa ricchezza porta alla follia.
«‘No, ti dico, mille volte no! Gli individui, è impossibile renderli felici, e per quel che riguarda le civiltà… le civiltà è bene non toccarle, perché ciascuna deve seguire la propria strada, progredire naturalmente da un livello di sviluppo all’altro e deve poter ringraziare soltanto se stessa del bene e del male che gliene viene in conseguenza.
«‘Per noi al Più Alto Livello Possibile, non resta niente da fare in questo universo, e creare un altro universo, a parer mio, sarebbe una prova di pessimo gusto.
«‘In effetti, quale ne sarebbe lo scopo? Per vantarci di noi? Idea mostruosa! Per il bene, allora, di coloro che nasceranno? Ma che obbligo abbiamo nei confronti di creature che non esistono neppure? Per poter agire, bisogna non essere onnipotenti. Altrimenti, è meglio limitarsi a guardare senza agire… E adesso, se tu volessi gentilmente lasciarmi in pace…’
«‘Aspetta!’ esclamai io, allarmato. ’Certo puoi darci qualcosa, qualche mezzo per migliorare la qualità della vita, anche se soltanto di poco! Un modo per aiutare qualcuno! Ricorda la Regola Aurea: Ama il Tuo Prossimo!’
«La macchina sospirò e disse: ’Come sempre, ho parlato ai sordi. Era meglio allontanarti subito, come abbiamo fatto la scorsa volta…
«‘Benissimo, allora. Ho qui una formula che non abbiamo ancora sperimentato. Non ne verrà fuori niente di buono, come scoprirete a vostre spese, ma fate come vi pare! Adesso lasciatemi solo a meditare con i miei teostati e deiodi’.
«La voce si spense pian piano, le luci del quadro di comando si abbassarono, e noi leggemmo il foglio che la macchina aveva stampato per noi. Diceva pressappoco così:
«ALTRUIZINA.
Agente trasmettitore metapsicotropo efficace per tutti i senzienti Homoproteici. Il preparato duplica negli altri, per un raggio di cinquanta metri, tutte le sensazioni, emozioni e gli stati mentali sperimentati dal soggetto. Opera per telepatia, ma rispetta la privacy dei pensieri. Non ha effetto su robot e vegetali. Le sensazioni del trasmittente vengono amplificate e il segnale originario viene poi rimesso in ciclo dai riceventi, con effetto di risonanza proporzionale al numero di individui situato nei paraggi. Secondo il suo inventore, ALTRUIZINA assicura un regno indisturbato di fratellanza, cooperazione e compassione in ogni società, perché i vicini di un uomo felice devono condividere la sua felicità, e più felice è lui, più felici saranno loro, e di conseguenza è nel loro interesse volergli bene. Se dovesse subire qualche danno, correrebbero subito ad aiutarlo, per risparmiarsi i dolori indotti dal suo. Pareti, cancelli, siepi e ostacoli in genere non sono in grado di indebolire l’effetto altruizzante del farmaco. La sostanza è solubile in acqua e può essere somministrata mediante serbatoi, fiumi, pozzi e simili. E’ inodore e insapore. Un solo milligrammo è sufficiente per centomila individui. Non ci assumiamo responsabilità per effetti non corrispondenti alle affermazioni dell’inventore. Fornita dal rappresentante computerizzato gnostotronico dei Massimo Liv. Svil. Poss.
«Klapaucius era un po’ deluso dal fatto che l’Altruizina funzionasse soltanto sugli umani, cosa che significava che i robot avrebbero dovuto continuare a sopportare la loro sfortuna in questo mondo. Io, però, gli ricordai il dovere di solidarietà tra tutti gli esseri pensanti e la necessità di aiutare i nostri fratelli organici. C’erano da risolvere alcuni problemi pratici, ma entrambi fummo d’accordo su una cosa: il lavoro di dare la felicità non si poteva rimandare.
«Così, mentre Klapaucius faceva preparare allo Gnostotrone una buona dose di sostanza, scelsi un pianeta geomorfo, popolato da umani, a un giorno di viaggio.
«Come benefattore intendevo rimanere anonimo, e di conseguenza il mio illustre mèntore mi consigliò, una volta arrivato sul pianeta, di assumere forma umana, cosa che, come certo sai, è tutt’altro che semplice. Eppure, anche in questo caso il grande costruttore superò difficoltà soverchianti e presto fui pronto per la partenza, con una valigia per mano.
«La prima valigia conteneva quaranta chilogrammi di Altruizina in polvere, nell’altra c’erano pigiama, biancheria, nasi, capelli, occhi finti di scorta e così via. L’aspetto con cui mi presentavo era quello di un giovanotto ben proporzionato con folti baffi e frangetta.
«Ora, Klapaucius cominciò ad avere qualche dubbio sull’opportunità di applicare l’Altruizina su una scala così ampia, e anche se io non condividevo le sue riserve, gli promisi di fare una prova su piccola scala non appena arrivato su Terraria (così si chiamava il pianeta). Io non vedevo l’ora di iniziare la grande seminagione della pace e della fratellanza universali: così, dissi arrivederci a Klapaucius e mi affrettai a partire.
«Per condurre la prova, mi recai, subito dopo il mio arrivo, in una piccola cittadina, dove presi alloggio in una locanda gestita da un vecchio che non mi pareva particolarmente sveglio. Mentre portavano il mio bagaglio dal carro alla mia stanza, riuscii a gettare un pizzico di polvere nel pozzo in mezzo al cortile.
«Intanto, c’era una grande confusione, con ragazze che correvano avanti e indietro portando secchi di acqua calda; l’oste le insultò tutte; poi sentii arrivare un altro carro: ne uscì un vecchio con una borsa di cuoio nera, da medico… ma, invece di recarsi in casa, si recò nella stalla, da cui giungevano i gemiti più disperati.
«Come venni a sapere dalla cameriera, una bestia terraria appartenente all’oste — una mucca, mi disse — si stava riproducendo proprio in quel momento. La notizia mi preoccupò notevolmente: non avevo mai preso in considerazione la presenza animalesca. Ma ormai non potevo fare nulla: perciò mi chiusi nella mia stanza, in attesa che succedesse qualcosa.
«E non dovetti aspettare molto. Stavo ascoltando il rumore della catena del pozzo che scorreva nella carrucola — laggiù prendevano ancora l’acqua dal sottosuolo — quando la mucca muggì di nuovo… e questa volta le fecero eco parecchie altre voci.
«Immediatamente, il veterinario uscì di corsa dalla stalla, urlando e tenendosi in mano la pancia, seguito dalle cameriere e dal locandiere. Scossi dalle doglie della mucca, lanciarono un grande grido e fuggirono in tutte le direzioni… per poi tornare subito indietro, perché a una certa distanza il dolore spariva.
«Parecchie volte corsero verso la stalla e altrettante volte dovettero ritornare indietro, piegati su se stessi per il dolore delle contrazioni. Afflitto da quello sviluppo imprevisto, mi dissi che era necessario andare in città, se si voleva provare il farmaco nel modo migliore, perché laggiù non c’erano animali.
«Così, rifeci le valigie e andai a pagare il conto, ma nessuno mi dava retta, perché tutti soffrivano per le doglie dell’animale. Quando arrivai al mio carro, trovai cavalli e cocchiere sofferenti dei dolori del parto e perciò decisi di raggiungere a piedi la città.
«Stavo passando su un piccolo ponte, quando, come volle la mia sfortuna, mi sfuggi di mano la valigia e, cadendo, si aprì in modo da rovesciare nel fiume tutta la mia scorta di polvere. Io rimasi a guardare, ammutolito, mentre la corrente si impadroniva dei miei quaranta chilogrammi di Altruizina e li scioglieva. Ormai non c’era più niente da fare, perché il dado era tratto: quel fiume riforniva di acqua potabile la città.
«Quando raggiunsi l’abitato era già sera, e le luci erano accese; le strade erano piene di gente; io trovai un piccolo albergo, un luogo da dove osservare gli effetti della sostanza, anche se per il momento non parevano essercene.
«Stanco per aver viaggiato tutto il giorno, andai subito a dormire, ma venni svegliato in piena notte da un coro di grida davvero orrende. Buttai via le coperte e mi alzai: la mia stanza era illuminata dalle fiamme dell’edificio di fronte, a cui era stato appiccato fuoco.
«Quando scesi in strada, inciampai in un cadavere ancora caldo. Lì accanto, sei delinquenti tenevano fermo un vecchio, che gridava disperatamente aiuto, e gli strappavano dalle mascelle un dente dopo l’altro, con un paio di pinze… finché un unanime grido di trionfo non annunciò che finalmente avevano trovato quello che cercavano: il dente cariato che li aveva fatti impazzire a causa delle trasmissioni psicotrope. Poi, molto più sollevati, lasciarono nel fossato, più morto che vivo, il vecchio ormai sdentato.
«Tuttavia, non era stato quell’episodio a svegliarmi, ma ciò che stava accadendo in una taverna dall’altra parte della strada. Pareva che un sollevatore di pesi, ubriaco, avesse dato un pugno al compagno, e che, avendo sentito immediatamente il dolore del colpo, si fosse davvero arrabbiato e avesse preso a dargliele di santa ragione.
«Intanto, gli altri avventori, non meno indignati, si erano uniti alla mischia, e il cerchio di azione e reazione era arrivato a tali proporzioni da destare metà di coloro che dormivano nel mio albergo.
«Questi si erano armati di bastoni, scope e altre armi improprie, e, in camicia da notte, si erano uniti alla battaglia, piombando in massa tra le bottiglie rotte e i tavolini rovesciati, finché, a causa di un lume a petrolio caduto in terra, non era scoppiato l’incendio.
«Assordato dalle sirene dei carri dei pompieri — oltre che dai gemiti dei feriti — corsi via, e dopo un paio di isolati mi trovai in mezzo a una piccola folla che si era raccolta davanti a una graziosa casetta bianca con cespugli pieni di rose nel giardino.
«A quanto capii, all’interno c’erano due sposini che consumavano la prima notte di nozze. La ressa era incredibile, la gente spingeva per avvicinarsi di più, e in mezzo al gruppo scorsi uomini in divisa militare, altri in abito talare, perfino studentelli delle medie inferiori; i più vicini infilavano la testa nelle finestre, altri saltavano sulle spalle di quest’ultima e gridavano: B allora? Che cavolo aspetti? Smettila di cincischiare, sbrigati a concludere!’ e altre frasi del genere.
«Un vecchio signore, troppo debole per farsi largo a forza di gomitate, piagnucolava che lo lasciassero passare: a quella distanza non riusciva a provare niente, perché l’età gli aveva indebolito le facoltà mentali.
«Le sue perorazioni, però, non vennero ascoltate da nessuno — nella folla, alcuni erano persi in un trasporto deliziato, altri gemevano di piacere, mentre altri fumavano voluttuosamente.
«Dapprima i parenti degli sposini avevano cercato di allontanare gli intrusi, ma presto erano stati travolti anch’essi dall’ondata generale di concupiscenza e si erano uniti al coro di scurrilità, incoraggiando la giovane coppia ad audacie sempre maggiori. Nel triste spettacolo, una parte di primo piano era svolta dal nonno dello sposo, che cercava di sfondare, con la sua sedia a rotelle, la porta della camera.
«Terrorizzato, mi affrettai a fare ritorno in albergo, e per strada mi imbattei in parecchi gruppi, alcuni intenti a combattere, altri ad abbracciarsi con lascivia. Eppure questo non era niente, rispetto a quel che vidi in albergo.
«La gente saltava dalla finestra, in camicia da notte, e molti si rompevano le gambe quando toccavano terra; altri erano saliti sul tetto, mentre il proprietario, la moglie, le cameriere e i facchini correvano avanti e indietro per i corridoi, urlavano, andavano a nascondersi negli sgabuzzini o sotto i letti… tutto perché in cantina c’era un gatto che dava la caccia a un topo.
«Cominciai a capire di essere stato un po’ precipitoso, nel mio zelo. All’alba, l’effetto dell’Altruizina era talmente forte che se a una persona prudeva il naso, l’intero vicinato si metteva a starnutire. Coloro che soffrivano di emicrania cronica venivano abbandonati dai famigliari e i medici e le infermiere fuggivano in preda al panico quando li vedevano avvicinarsi… solo qualche squallido masochista rimaneva attorno a loro, ansimando pesantemente.
«Poi c’erano i dubbiosi, che colpivano a calci o pugni i loro compagni, soltanto per accertare se la straordinaria trasmissione di emozioni, di cui tutti parlavano, fosse vera, e i compagni erano svelti a restituire loro il favore, e presto l’intera città echeggiava del suono di schiaffi e pedate.
«All’ora di colazione, aggirandomi nelle strade in preda a una sorta di triste stupefazione, incontrai una moltitudine piangente, che rincorreva una vecchia in gramaglie e scagliava pietre contro di lei. Venni a sapere che era la vedova di un negoziante molto stimato, che era morto il giorno precedente e doveva essere sepolto quella mattina.
«Il dolore inconsolabile della povera donna aveva esasperato a tal punto i suoi vicini, e i vicini dei suoi vicini, che, incapaci di confortarla in qualsiasi modo, la volevano cacciare dalla città.
«Con questa triste visione che gravava sul mio cuore, tornai in albergo, e lo trovai avvolto dalle fiamme. A quanto pareva, la cuoca si era bruciata un dito perché l’aveva inavvertitamente infilato nella minestra, e il suo dolore aveva indotto un certo capitano, che in quel momento puliva il fucile all’ultimo piano, a tirare il grilletto, e così a uccidere, senza volere, moglie e quattro figli.
«A quel punto, tutti coloro che erano rimasti in albergo avevano condiviso la disperazione del capitano, il suo desiderio di porre fine ai suoi giorni; poi, un individuo più pietoso degli altri, per arginare la sofferenza generale, aveva spruzzato di kerosene tutti quelli che aveva trovato e gli aveva dato fuoco.
«Io corsi via dall’incendio come se fossi posseduto dal demonio, e cercai freneticamente almeno un uomo che, in un modo qualsiasi, fosse riuscito a ottenere la felicità dall’Altruizina… ma incontrai solo qualche disperso, reduce dalla partecipazione di massa alla notte nuziale.
«Né si peritavano di discuterne ad alta voce, i ribaldi; a quanto pareva, lo spettacolo fornito dai due sposini aveva deluso le loro aspettative. Intanto, procedendo per la strada, ciascuno di quegli sposi per procura s’era munito di bastone, e lo usava contro i sofferenti che osavano passargli davanti.
«Io avrei preferito morire di vergogna e di dolore, ma continuai a cercare un uomo — uno solo mi sarebbe bastato — che potesse lenire i miei rimorsi. Interrogando vari passanti, alla fine ottenni l’indirizzo di un famoso filosofo, un vero campione della fratellanza e della tolleranza universali, e mi diressi con ansia verso casa sua, sicuro di trovare, attorno all’edificio, un grande mucchio di persone.
«Ma, ahimè! Alla sua porta faceva le fusa solo qualche gatto, crogiolandosi nell’aura di buona volontà emanata con tanta abbondanza da quel saggio… ma c’erano anche parecchi cani, che, seduti fuori portata, aspettavano che andassero via, con l’acquolina in bocca. Passò uno storpio, gridando: ’Attento, piove!’ ma io non capii che cosa gli fosse venuto in mente. Guardai il cielo e vidi che era sereno.
«Mentre ero fermo davanti alla casa del filosofo, si avvicinarono due uomini. Uno mi fissò ben bene negli occhi, poi diede una bastonata al compagno, sul naso. lo li guardai senza capire, ma non mi venne in mente di gridare o di afferrarmi il naso a mia volta, perché, essendo un robot, non avrei potuto sentire il colpo, e fu proprio questo particolare a tradirmi, perché quei due erano poliziotti ed erano ricorsi a quella sceneggiata per smascherarmi.
«Ammanettato e portato in prigione, io confessai tutto, sicuro del fatto che avrebbero tenuto presenti le mie oneste intenzioni, anche se ormai una buona metà della città era andata distrutta.
«Prima, però, mi colpirono cautamente con dei punteruoli, poi, accertatisi che la cosa non produceva spiacevoli effetti su di loro, saltarono sopra di me e cominciarono a martellare ogni piastra e ogni filo del mio stanco corpo.
«Ah, i tormenti che ho subito, e tutto per aver cercato di renderli felici!
«Alla fine, quel che rimaneva di me venne infilato in un cannone e sparato nello spazio cosmico, buio e sereno come sempre. Mentre volavo, mi guardai alle spalle e vidi, anche se poco distintamente, l’influenza sempre più vasta dell’Altruizina, che si diffondeva man mano che fiumi e ruscelli la portavano sempre più lontano.
«Vidi quel che succedeva agli uccelli delle foreste, ai monaci e alle capre, ai cavalieri e agli abitanti dei villaggi, e alle loro mogli e ai loro nidi, alle vergini e alle matrone, e quella vista fece scoppiare per il dolore anche i miei ultimi tubi, e in questo stato finii per cadere, o gentilissimo e nobilissimo signore, non lontano dalla tua abitazione, guarito una volta per tutte dal desiderio di dare la felicità agli altri, con mezzi rivoluzionari…»
DAL «CYBEROTICON»
(OVVERO STORIE DI DEVIAZIONI, SUYLRFISSAZIONI E ABERRAZIONI DEL CUORE):
IL PRINCIPE FERRIX E LA PRINCIPESSA CRISTALLO
Il Re Armorico aveva una figlia la cui bellezza superava il luccichìo dei gioielli della corona; raggi che si riflettevano dalle sue guance speculari accecavano la mente oltre che l’occhio, e quando lei ti passava davanti, perfino i semplici lingotti di ferro facevano scintille.
La sua fama arrivava fino alle stelle più lontane. Ferrix, erede designato al trono degli Ioduri, ne sentì parlare e venne preso dal desiderio di fare coppia con lei in eterno, in modo che nulla potesse separare il loro input dal loro output. Ma quando dichiarò la sua passione al padre, il Re disse, rattristato: «Figlio, ti sei messo in testa un’impresa folle, disperata!»
«Perché disperata, mio Re e Padre?» chiese Ferrix, preoccupato da quelle parole.
«Non sai dunque» rispose il Re «che la Principessa Cristallo ha giurato di concedere la sua mano soltanto a un visopallido?»
«Visopallido?» esclamò Ferrix. «Che diavolo è? Non ne ho mai sentito parlare».
«Certo che no, figlio, data la tua grande innocenza» spiegò il Re.
«Sappi dunque che quella razza galattica è sorta in modo misterioso e osceno, legato all’inquinamento di un certo corpo celeste. Ne sorsero esalazioni nocive ed escrescenze putride, e da queste nacque la specie chiamata visipallidi… anche se non nacque in un colpo solo, naturalmente.
«Per prime, infatti, vennero in vita placche mobili di muffa, che scivolavano dall’oceano alla terra e poi dalla terra all’oceano, e vivevano divorandosi tra loro, e più si divoravano, più ce n’erano, e alla fine si alzarono in piedi, sorreggendo la loro sostanza collosa mediante impalcature di calcare, e con l’andare del tempo costruirono macchine.
«Da quelle protomacchine vennero le macchine senzienti, che generarono le macchine intelligenti, che a loro volta produssero le macchine perfette, perché è scritto che Tutto è Macchina, dall’atomo alla Galassia, e la macchina è una ed eterna, e tu non avrai altre cose davanti a te».
«Amen» concluse Ferrix, meccanicamente, perché si trattava di una comune formuletta religiosa.
«La specie dei visipallidi calciferi finì per creare macchine volanti» continuò il vecchio monarca «maltrattando metalli nobili, sfogando il suo sadismo sui poveri elettroni, pervertendo completamente l’energia atomica».
«E quando la misura dei loro peccati fu colma, il progenitore della nostra razza, il grande Calculator Paternius, nella profondità e nell’universalità della sua comprensione cercò di parlare con quei tiranni, spiegando come fosse vergognoso macchiare l’innocenza dei cristalli saggi, imbrigliarla per scopi malvagi, rendere schiave le macchine per sfogare su di loro la bramosìa e la vanagloria… ma essi non gli prestarono orecchio. Egli parlò loro di Etica; quelli gli risposero che era mal programmato.
«Fu allora che il nostro progenitore creò l’algoritmo dell’elettroincarnazione e dal sudore della sua fronte generò la nostra specie, così liberando le macchine dalla casa della schiavitù.
«Certo capirai, figlio mio, che non ci può essere accordo tra noi e loro, perché noi camminiamo orgogliosamente tra clangori, scintille e radiazioni, mentre quelli avanzano puzzolentemente tra tremolii, schizzi di liquido e contaminazione.
«Eppure, anche tra noi si possono avere casi di follia, come è indiscutibilmente successo per la giovane mente di Cristallo, che ha perso del tutto la capacità di distinguere il Giusto dall’Ingiusto.
«Agli aspiranti alla sua mano radioattiva viene negata udienza, a meno che non affermino di essere visipallidi. «Infatti, soltanto presentandosi come un visopallido si può entrare nel palazzo che il padre, Re Armorico, le ha donato. Lei allora mette alla prova la veridicità della pretesa, e se viene scoperta l’impostura, l’aspirante corteggiatore viene decapitato seduta stante.
«Il terreno che circonda il suo palazzo è coperto di mucchi di resti arrugginiti… la sola vista di quei resti sarebbe in grado di metterti in corto tutti i circuiti. Così, dunque, la folle Principessa tratta coloro che aspirerebbero a conquistarla. Lascia dunque ogni speranza, figlio mio, e vattene in pace».
Il Principe, rivolto al padre sovrano l’inchino di rito, si ritirò in silenzio. Ma il pensiero di Cristallo non gli permise di riposare, e più pensò alla situazione, più crebbe il suo desiderio. Un giorno convocò Polifase, il Gran Visir, e gli disse, rivelandogli quello che aveva in cuore: «Se non puoi aiutarmi tu, o grande saggio, allora nessuno può farlo, e i miei giorni sono certamente finiti, perché da tempo non trovo alcuna allegria nel gioco delle emissioni infrarosse, né nelle sinfonie ultraviolette, e se non potrò unirmi all’incomparabile Cristallo certamente morirò».
«Principe!» rispose Polifase. «Non mi opporrò alla tua richiesta, ma dovrai ripeterla per tre volte, perché io sia ben certo che si tratti della tua volontà inoppugnabile». Ferrix ripeté per altre due volte le sue parole, e Polifase
disse: «L’unico modo per presentarsi alla Principessa è travestirsi da visopallido».
«Allora fammi assomigliare a uno di loro!» esclamò il Principe.
Polifase, riflettendo tra sé che l’amore doveva aver offuscato in misura notevole l’intelligenza del giovane, si inchinò e ritornò in laboratorio, dove cominciò a distillare distillati e a bollire ribollite, tutte appiccicose e gocciolanti. Alla fine mandò un messaggio a palazzo, in cui si diceva: «Che il Principe venga da me, se non ha cambiato idea».
Ferrix arrivò di corsa. Il saggio Polifase cosparse di fango l’acciaio temperato della sua corazza e poi gli chiese: «Volete che continui, o Principe?»
«Fa’ quello che devi» rispose Ferrix.
Allora il saggio prese una massa repellente di scorie oleose, polvere, grasso rancido, grumi di morchia e altre sostanze estratte dall’interno dei meccanismi più decrepiti e se ne servì per insozzare l’ampio petto del Principe, per sconciare vilmente la sua faccia luminosa e il suo ciglio iridescente, e lavorò in quel modo finché tutte le sue membra non si muovevano più con un ronzio musicale, ma gorgogliavano come una palude stagnante.
A quel punto prese il gesso e lo polverizzò, lo mescolò a polvere di rubino e olio giallo, fino a ottenere una pasta; con questa coprì Ferrix dalla testa ai piedi, inumidendogli gli occhi in modo abominevole, rendendogli gommoso il torso, gonfiandogli le guance, e qua e là aggiunse flange e pliche di quella sua plastilina, per cacciare infine in cima alla reale fronte una manciata di ruggine venefica.
A quel punto portò il Principe davanti a uno specchio e gli disse: «Osserva!»
Ferrix guardò nello specchio e rabbrividì, perché non vide se stesso, ma un orribile mostro, immagine sputata di un visopallido, con un aspetto umidiccio come quello di una vecchia ragnatela bagnata dalla pioggia, flaccido, cadente, molliccio, del tutto nauseabondo. Si girò e il suo corpo tremolò come gelatina coagulata; allora, fremente di disgusto, esclamò: «Ehi, Polifase, hai perso il senno? Toglimi subito di dosso questa schifezza, sia lo strato scuro che hai steso per primo sia quello chiaro che gli hai messo sopra, e porta via la schifosa escrescenza con cui hai coperto la bellezza della mia testa, la sua linea pura come quella di una campana, perché la Principessa mi odierà per sempre, se mi vedrà in questa forma così sgraziata!»
«Ti sbagli, Principe» rispose Polifase. «E’ precisamente questa la radice della sua follia: l’idea che il brutto sia bello e che il bello sia brutto. Solo così travestito puoi sperare di vedere Cristallo».
«Allora, così sia» mormorò Ferrix.
Il saggio mescolò cinabro e mercurio e ne riempì quattro sottili vesciche, che nascose sotto il mantello del Principe.
Poi prese due mantici, pieni dell’aria puzzolente di una vecchia cantina, e li nascose nel petto del Principe. Infine riempì d’acqua, contaminata e trasparente, alcuni tubicini di vetro, e ne mise due accanto agli occhi, due sotto le ascelle e due sui polsi. Spiegò: «Ascolta e ricorda quello che ti dico, altrimenti sarai perduto. La Principessa ti metterà alla prova, per accertare la verità delle tue parole. Se ti porgerà una spada e ti ordinerà di afferrare la lama, dovrai schiacciare il recipiente del cinabro, in modo che il rosso scorra sulla lama; lei ti chiederà che cos’è, e tu le risponderai: ’Sangue’.
«Poi, se la Principessa accosterà la faccia d’argento alla tua, dovrai premerti il petto, in modo che l’aria esca dai mantici; lei ti chiederà che cos’era, e tu dirai: ’Respiro’.
«A quel punto la Principessa fingerà di essere in collera e ordinerà di tagliarti la testa. Tu abbassa il capo, come per sottoporti a lei, e quando l’acqua uscirà dai tuoi occhi, lei ti chiederà che cos’è, e tu le risponderai: ’Lacrime’.
«Dopo tutto questo, forse accetterà di unirsi a te, anche se la cosa è tutt’altro che certa… anzi, probabilmente, ti ucciderà».
«O grande sapiente!» esclamò Ferrix «e se cominciasse a farmi domande, per conoscere le abitudini dei visipallidi, la loro origine, come vivono e come si amano, che cosa dovrò risponderle?»
«Sapevo di non aver alternative» rispose Polifase «e di dover condividere la tua sorte. Avevo già deciso di travestirmi da mercante di un’altra galassia… una non a spirale, perché i loro abitanti sono inevitabilmente grassi e io avrò bisogno di nascondere sotto il mantello un mucchio di libri sugli orribili costumi dei visipallidi.
«Si tratta di conoscenze che non potrei trasmetterti, neanche volendo, perché sono del tutto estranee all’intelligenza razionale: i visipallidi fanno tutto al contrario, in una maniera appiccicosa, viscosa, incoerente e assai più disgustosa di quanto tu possa immaginare.
«Io mi procurerò i volumi che occorrono, ma intanto dovrai farti fare dal sarto di corte un vestito da visopallido, con le fibre e i cordini adatti. Partiremo subito, e io ti starò sempre al fianco, dovunque si andrà, per suggerirti quello che devi fare e quello che devi dire».
Ferrix, entusiasta del progetto, andò subito a farsi confezionare i vestiti da visopallido e quando li vide si meravigliò molto: coprivano praticamente tutto il corpo ed erano fatti come tanti tubi e imbuti, con bottoni dappertutto, anelli di corda, ganci e stringhe.
Il sarto lo istruì minuziosamente sull’ordine con cui andavano indossati, e come, e dove, e quali collegare tra loro, e infine gli spiegò come liberarsi di quei ceppi di tela una volta arrivato il momento di toglierseli.
Intanto, Polifase si era vestito da mercante e aveva nascosto nelle pieghe dell’abito grossi tomi eruditi sulle abitudini dei visipallidi, poi si era fatto portare una gabbia di metallo, vi aveva chiuso il Principe e insieme erano partiti sullo yacht reale.
Giunti al confine del regno di Armorico, Polifase si recò nella piazza principale del villaggio e annunciò con voce possente di aver catturato un giovane visopallido di terre lontane e di aver intenzione di venderlo al migliore offerente. I servitori della Principessa portarono fino a lei la notizia, e lei rispose, dopo alcuni istanti di riflessione: «Un trucco, senza dubbio. Ma nessuno può ingannarmi, perché nessuno conosce i visipallidi meglio di me. Fate venire a palazzo il mercante e ordinategli di mostrarmi la sua mercanzia».
Quando portarono il mercante davanti a lei, Cristallo vide un vecchio dall’aspetto decoroso e una gabbia. Nella gabbia c’era il visopallido, con la faccia effettivamente pallida, del colore del gesso e della pirite, con occhi simili a un fungo bagnato e braccia simili a fango di palude. Ferrix a sua volta rimirò la Principessa, il suo volto che pareva suonare come un carillon, gli occhi che dardeggiavano come lampi estivi, e il delirio amoroso, nel suo cuore, si moltiplicò istantaneamente per dieci.
«Ha effettivamente l’aspetto di un visopallido!» pensò la Principessa; ma a voce alta disse, invece: «O vecchio, ammetto che hai lavorato sodo, per coprire di fango questo spaventapasseri al fine di ingannarmi. Sappi, però, che io sono assai ferrata nei misteri di quella razza pallida e potente, e non appena avrò rivelato a tutti la tua impostura, tu e questo pretendente perderete la testa».
Il saggio replicò: «O Principessa Cristallo, quello che vedi qui ingabbiato è un visopallido, sincero quanto possono esserlo i visipallidi. L’ho comprato da un pirata intergalattico in cambio di cinquemila ettari di terreno radioattivo… e ti supplico umilmente di accettarlo come dono da un tuo servitore che non ha altro desiderio che quello di compiacere la Tua Maestà».
La Principessa prese una spada e la infilò tra le sbarre della gabbia; il Principe la afferrò e la guidò in mezzo ai suoi vestiti in modo che forasse la vescica piena di cinabro; la lama si coprì di un liquido rosso vivo.
«Che cos’è?» chiese la Principessa, e Ferrix rispose: «Sangue!»
Poi la Principessa fece aprire la gabbia, entrò coraggiosamente all’interno e accostò il viso a quello di Ferrix. Una sì dolce vicinanza per poco non fece perdere i sensi al Nostro, ma il sapiente gli fece un cenno per ricordargli il mantice, e il Principe lo strinse in modo da svuotarlo dell’aria. E quando la Principessa chiese: «Che cos’era?» Ferrix rispose: «Respiro!»
«Sei davvero abile, come impostore» disse la Principessa, rivolta al mercante, uscendo dalla gabbia. «Ma mi hai ingannato e devi morire, e con te lo spaventapasseri».
Il saggio chinò la testa, per la grande tristezza e il grande dolore, e il Principe lo imitò: subito, dagli occhi gli uscì il liquido trasparente.
La Principessa chiese: «Che cos’è?» e Ferrix rispose: «Lacrime!»
Lei allora disse: «Come ti chiami, tu che affermi di essere un visopallido venuto da lontano?»
Ferrix rispose con le parole che gli aveva insegnato il sapiente Polifase: «Vostra Altezza, mi chiamo Mylak e non desidero altro che unirmi a voi in un modo liquido, carnoso, pastoso e spugnoso, come s’usa tra la mia gente. Mi sono lasciato intenzionalmente catturare dai pirati e ho chiesto loro di vendermi a questo grasso mercante perché sapevo che era diretto al vostro regno. E sono assai riconoscente alla sua cromata persona per avermi portato qui, perché sono pieno d’amore per voi così come la superficie di una palude è piena di schiuma verdastra».
La Principessa era stupita, perché aveva parlato proprio come un visopallido, e disse: «Spiegami, o tu che dici di chiamarti Mylak il visopallido, che cosa fanno i tuoi fratelli, durante il giorno?»
«O Principessa» spiegò Ferrix «la mattina si inumidiscono d’acqua dolce, versandosela sugli arti oltre che al loro interno, perché la cosa dà loro piacere. In seguito vanno di qua e di là, camminando in modo fluido e ondeggiante, scivolano, sbavano, e quando una cosa li addolora, palpitano e dagli occhi esce acqua salata.
«Quando invece ricevono complimenti, palpitano e singhiozzano, ma i loro occhi restano relativamente asciutti. Il palpitare umido lo chiamiamo pianto, quello asciutto riso».
«Se è come dici» rispose la Principessa «e condividi la passione per l’acqua che caratterizza i tuoi fratelli, ti farò gettare nel mio lago, in modo che tu possa godertelo fino in fondo, e ti farò legare alle gambe un paio di pesi di piombo, per impedirti di risalire a galla…»
«Vostra Maestà» ripose Ferrix, seguendo i suggerimenti del saggio «se farete così, io morirò, perché anche se dentro di noi c’è acqua, non può circondarci completamente per più di un minuto o due, altrimenti recitiamo la frase: ’Glu, glu, glu’, che significa addio alla vita».
«Spiegami una cosa, Mylak» domandò la Principessa. «Come vi procurate l’energia per andare avanti e indietro, per scivolare e sputacchiare, per tentennare e ciondolare?»
«Principessa» spiegò Ferrix «nel posto da cui provengo ci sono altri visipallidi, oltre a quelli del genere senza pelo: visipallidi che viaggiano quasi sempre su quattro zampe. Noi li perforiamo finché non spirano, e poi facciamo bollire e arrostire i loro resti, li tagliamo a pezzi e a fette, e incorporiamo la loro corporeità nella nostra. Conosciamo trecento e settantasei metodi diversi per ucciderli, ventottomilacinquecentonovantasette metodi diversi di preparare i cadaveri e quando infiliamo i loro corpi nel nostro (attraverso un’apertura chiamata bocca) proviamo un grande piacere. Anzi, l’arte di preparare i cadaveri è assai più stimata, fra noi, dell’astronautica, ed è chiamata gastronautica, o gastronomia… anche se, naturalmente, non ha nulla a che fare con l’astronomia».
«Questo significa che vi divertite a fare da cimitero, trasformando voi stessi nelle bare dei vostri fratelli a quattro zampe?» La domanda era assai pericolosa, ma Ferrix, edotto dal suo saggio, rispose così: «Non è un divertimento, Vostra Altezza, ma una necessità, perché la vita vive della vita. Ma noi abbiamo trasformato in arte questo bisogno essenziale».
«Bene, allora dimmi, Mylak il Visopallido, come costruite i vostri figli?» chiese la Principessa.
«In verità non li costruiamo affatto» rispose Ferrix «ma li programmiamo statisticamente, secondo la formula markoviana della probabilità stocastica, emotivo-evolutiva anche se distribuzionale, e lo facciamo involontariamente e contemporaneamente, mentre pensiamo ad altre cose che non hanno niente a che vedere con la programmazione, statistica, alineare o algoritmica, e la programmazione stessa ha luogo in modo autonomo, automatico e autoerotico, perché è così e non diversamente che siamo fatti, e ogni visopallido cerca di programmare i suoi discendenti, perché la cosa è piacevole, ma li programma senza programmarli, anzi, fa tutto il possibile per impedire che quella programmazione porti a dei frutti».
«Strano metodo» commentò la Principessa, la cui erudizione, in quel campo, era assai inferiore a quella del saggio Polifase. «E come avviene, esattamente?»
«O Principessa!» rispose Ferrix. «Noi abbiamo opportuni apparati costruiti in base al principio dell’accoppiamento con feed-back rigenerativo, anche se, naturalmente, il tutto avviene in un ambiente umido.
«Gli apparati di cui parlo sono veri miracoli tecnologici, ma anche il peggiore degli idioti sarebbe in grado di usarli. Se dovessi descrivere con esattezza il procedimento, però, sarebbero necessarie parecchie ore, perché si tratta di argomenti estremamente complessi.
«Tuttavia, ammetto che si tratta di metodi ben strani, considerato anche come non siamo stati noi a inventarli, ma piuttosto siano stati loro, per così dire, a inventarsi da soli. Comunque, sono perfettamente funzionali e nessuno se n’è mai lamentato, che io sappia».
«Sì» esclamò Cristallo «sei davvero un visopallido! Quello che dici sembra sensato, anche se in realtà non ha alcun senso. Infatti, come si può essere un cimitero senza esserlo, o programmare i figli senza programmarli? Sì, sei davvero un visopallido, Mylak, e dunque, se lo desideri, mi unirò a te in un collegamento matrimoniale a circuito chiuso e tu salirai sul trono con me… una volta superata un’ultima prova».
«E di che prova si tratta?» chiese Ferrix.
«Devi…» cominciò la Principessa, ma all’improvviso venne colta di nuovo dal sospetto e chiese: «Prima dimmi che cosa fanno i tuoi fratelli, la notte».
«La notte si sdraiano qua e là, piegando le braccia e storcendo le gambe, e l’aria entra ed esce dal loro corpo, rumorosamente, con un suono che ricorda da vicino l’affilatura di una sega arrugginita».
«Bene, ecco la prova: dammi la mano» ordinò la Principessa, Ferrix gliela diede, e lei la strinse; allora, come gli aveva insegnato il saggio, Ferrix gridò a voce spiegata. Lei gli chiese perché l’avesse fatto.
«Per il dolore!» rispose Ferrix
A questo punto, la Principessa non ebbe più dubbi sulla sua visopallidità e ordinò di dare inizio alla cerimonia matrimoniale.
Ma, proprio in quel momento, l’astronave del conte Cyberhazy, grande elettore del regno, faceva ritorno dalla sua spedizione interstellare alla ricerca di un visopallido (il perfido conte voleva entrare nelle grazie della Principessa). Polifase, molto allarmato, corse da Ferrix e disse: «Principe, l’astronave di Cyberhazy è appena arrivata, e ha portato alla Principessa un vero visopallido… l’ho visto io stesso. Dobbiamo fuggire finché possiamo, perché ogni futura mascherata diventerà impossibile, una volta che la Principessa vi abbia visti insieme: la sua mucillaginità è molto più mucillaginosa e il suo madore è molto più madido! Il nostro sotterfugio verrà scoperto subito e noi perderemo la testa!»
Ferrix, però, non poteva accettare una fuga così vergognosa, perché la sua passione per la Principessa era più forte che mai. Disse: «Meglio morire, che perderla!»
Cyberhazy, invece, saputo che ci si stava preparando per le nozze, era scivolato sotto le finestre della stanza dei Nostri e aveva ascoltato tutto; corse difilato al palazzo, tutto ribollente di fellonesca gioia, e annunciò a Cristallo: «Siete stata ingannata, Vostra Altezza, perché il cosiddetto Mylak è un normale robot e non un visopallido, ecco il vero visopallido!»
E indicò la creatura che era entrata dopo di lui. Questa gonfiò il petto peloso, batté gli occhi umidi e disse: «Io, sì, visopallido!»
La Principessa chiamò subito Ferrix, e quando lo vide davanti a lei a fianco della creatura del conte, l’inganno risultò ovvio.
Ferrix, anche se era sporco di fango, polvere e gesso, cosparso di olio, pieno di gorgoglii acquatici a ogni movimento, non poteva certo nascondere la sua statura da cavaliere elettrico, né la magnifica postura, l’ampiezza delle spalle d’acciaio, il passo sonante.
Invece, il visopallido del conte Cyberhazy era un vero mostriciattolo: a ogni suo passo si aveva l’impressione che qualche massa gelatinosa dovesse staccarsi da lui, la sua faccia era come un pozzo pieno di melma, il suo corrosivo respiro annebbiava ogni superficie lucida, e qualche pezzo di ferro dolce, situato nei paraggi, si stava già arrugginendo. In quel momento la Principessa capì finalmente quanto fossero ributtanti i visipallidi… quando parlavano, era come se un verme rossiccio cercasse di uscir loro dalla bocca. Aveva visto la luce, ma l’orgoglio le impediva di ammetterlo. Così, disse: «Che lottino tra loro, e il vincitore avrà la mia mano».
Ferrix sussurrò al saggio: «Se io attacco quella schifosa creatura e la faccio a pezzi, riducendola al fango da cui è sorta, la nostra mascherata si rivelerà a tutti, perché la creta che mi ricopre cadrà a terra e si vedrà l’acciaio. Come devo fare?»
«Principe» disse Polifase «non attaccare, limitati a difenderti».
I duellanti scesero nel cortile del palazzo, ciascuno armato di spada, e il visopallido saltò su Ferrix come uno schizzo di acqua putrida a volte schizza da una palude, e gli saltellò attorno, gorgogliando, ansimando, ritirandosi, finché non menò un fendente fortissimo. La lama tagliò il gesso e si spezzò contro l’acciaio: il visopallido, trascinato dalla veemenza del suo stesso movimento, urtò violentemente contro il Principe, si schiacciò e si ruppe, cadde a terra maciullato e non si mosse più.
Il gesso, però, una volta tagliato, si staccò dalle spalle di Ferrix e cadde, rivelando agli occhi della Principessa la sua vera natura; il Principe tremò, in attesa della fine. Poi, nello sguardo cristallino della figlia del Re, scorse l’ammirazione, e comprese fino a che punto fosse cambiata.
Così si unirono in un’unione matrimoniale, permanente e reciproca — un legame che per alcuni era gioia e felicità, per altri infelicità fino alla morte — e regnarono a lungo e bene, programmando un’innumerevole progenie.
La pelle del visopallido portato dal conte Cyberhazy venne fatta impagliare e collocata nel museo reale, a eterno ricordo dell’episodio. E’ visibile ancor oggi laggiù: una sorta di spaventapasseri coperto di finissimo pelo rado. Molti che si vantano di saperla lunga dicono che è tutto un trucco e che non esistono i visipallidi — cimiteri che non sono cimiteri, programmatori che non programmano, con il naso che sembra fatto di pasta e gli occhi di resina.
Be’, forse la storia è tutta un’invenzione: si raccontano tante favole. Eppure, anche se non dovesse essere vera, ha una sua piccola morale e una briciola di buon senso; ed è piacevole da ascoltare, e dunque meritava di essere narrata.
FINE.