Neil Gaiman
Nessun dove
Nessun dove semplicemente non esisterebbe se non fosse per Lenny Henry. Perciò questo libro è dedicato a lui e a Polly McDonald: ostetrici gemelli che non si somigliano affatto tranne che nell’essere entrambi insopportabilmente alti.
È dedicato anche a Clive Brill e Beverly Gibson, che sono tutti e due di statura normale.
«Non sono mai stato a St John’s Wood. Non oso. Avrei paura della sterminata oscurità di abeti bianchi, timore di imbattermi in un calice rosso sangue e nel batter d’ali dell’Aquila.»
PROLOGO
Richard Mayhew non si stava divertendo molto quella notte, l’ultima prima di andare a Londra.
Aveva iniziato la serata in modo piacevole: si era divertito a leggere i messaggi di saluto e a ricevere l’abbraccio di numerose signorine di sua conoscenza non del tutto prive di attrattiva; si era divertito ad ascoltare gli avvertimenti relativi ai rischi e ai pericoli di Londra e per il dono dell’ombrello bianco con la piantina della metropolitana londinese che i ragazzi gli avevano acquistato tutti insieme; aveva apprezzato i primi boccali di birra; poi, però, a ogni ulteriore boccale si era reso conto di divertirsi decisamente meno, e da quel momento se ne stava seduto a tremare sul marciapiedi davanti al pub, valutando gli opposti pro e contro del dare di stomaco e del non dare di stomaco, senza divertirsi affatto.
All’interno del pub, gli amici continuavano a festeggiare la prossima partenza di Richard con un entusiasmo che, a suo modo di vedere, cominciava ad apparire quasi sinistro.
Si teneva stretto all’ombrello arrotolato, domandandosi se andare a Londra fosse davvero una buona idea.
«È meglio che fai attenzione» disse una voce stridula e senile. «Ti cacceranno via senza lasciarti dire né ai né bai. Oppure ti metteranno dentro. Non mi stupirei affatto.» Due occhi penetranti lo fissavano da un viso adunco e sudicio. «Tutto bene?»
«Si, grazie» rispose Richard.
Il volto nero di polvere si addolci.
«Tieni, poverino» disse ficcandogli in mano una moneta da cinquanta pence. «È da tanto che vivi in strada?»
«Non sono un senzatetto» spiegò Richard imbarazzato, tentando di restituire il denaro alla donna. «La prego, lo tenga lei. Io sto bene. Sono soltanto uscito a prendere un po’ d’aria. Domani parto per Londra» aggiunse.
Lei lo scrutò con sospetto, quindi si riprese i cinquanta pence e li fece sparire sotto gli strati di scialli e cappotti che la ricoprivano.
«Sono stata a Londra» gli confidò. «Ero sposata li, ma lui era un poco di buono. Mia mamma me l’aveva detto di non sposarmi con uno di fuori, ma anche se a guardarmi oggi non si direbbe, allora ero giovane e bella e ho seguito quello che mi diceva il cuore.»
«Sono sicuro che era bellissima» commentò Richard. La certezza di stare per sentirsi male cominciava lentamente ad affievolirsi.
«Proprio una grande idea! Io una casa non ce l’ho, quindi so come ci si sente» disse la vecchia signora. «È per questo che ti credevo uno di strada. Che ci vai a fare a Londra?»
«Ho trovato lavoro» le rispose pieno di orgoglio.
«Che tipo?» chiese lei.
«Be’, in Borsa» disse Richard.
«Io facevo la ballerina» spiegò la vecchia signora, mettendosi goffamente a dondolare lungo il marciapiede, mormorando tra sé e sé una musichetta stonata. Poi prese a ondeggiare da una parte all’altra come un fuso sul punto di terminare il movimento rotatorio, per arrivare infine a fermarsi proprio di fronte a Richard.
«Fammi vedere la mano» gli disse «e ti leggerò il futuro.»
Fece come gli era stato detto.
La donna prese nella vecchia mano quella di Richard e batté più volte le palpebre, come un gufo con un topo nello stomaco che cominciasse ad avere qualcosa da obiettare sul fatto di essere stato inghiottito.
«Hai davanti a te una strada molto lunga…» disse.
«Vado a Londra» ribadì Richard.
«Non solo Londra…» Fece una pausa. «E non la Londra che conosco io.»
Iniziò a piovere.
«Mi dispiace» disse la vecchia signora. «Comincia tutto con delle porte.»
«Porte?»
Lei annui. La pioggia si fece più intensa. «Starei attenta alle porte, se fossi in te.»
Un po’ malfermo sulle gambe, Richard si alzò. «Va bene» disse, incerto sul modo in cui si dovrebbero prendere in considerazione informazioni del genere. «Lo farò. Grazie.»
La porta del pub venne aperta, e luce e rumore si riversarono in strada.
«Richard? Va tutto bene?»
«Si, sto benone. Rientro tra un attimo.»
La vecchia signora si stava già allontanando con passo traballante, bagnandosi sotto la pioggia.
Richard si senti in dovere di fare qualcosa per lei, anche se non poteva certo darle del denaro. Le corse dietro. «Prenda!» le disse. Iniziò ad armeggiare con l’ombrello, nel tentativo di trovare il pulsante per aprirlo. Poi un clic, ed ecco sbocciare una smisurata mappa della metropolitana.
La vecchia signora glielo tolse di mano, annuendo.
«Hai un buon cuore. A volte è quanto basta per essere al sicuro ovunque si vada.» Poi scosse la testa. «Nella maggior parte dei casi, però, non è cosi.»
Quando una folata di vento tentò di strapparglielo, strinse l’ombrello con forza, aggrappandosi con entrambe le braccia. Quindi se ne andò nella notte piovosa, una figura bianca coperta dai nomi delle stazioni della metropolitana: Earl’s Court, Marble Arch, Blackfriars, White City, Victoria, Angel, Oxford Circus…
Con lucidità da ubriaco, Richard si ritrovò a ponderare sull’eventualità che a Oxford Circus ci fosse davvero un circo: uno di quelli con pagliacci, belle donne e bestie feroci.
La porta del pub si apri: un’esplosione di rumore, quasi il volume del locale fosse stato messo al massimo.
«Richard, mezza sega, questa dannatissima festa è per te e ti stai perdendo tutto il divertimento.»
Rientrò nel pub, l’impulso di vomitare dissolto in tutte quelle stranezze.
«Sembri un ratto annegato» commentò qualcuno.
«Ma se non l’hai mai visto un ratto annegato» ribadi Richard.
Qualcun altro gli allungò un bicchiere di whisky. «Tieni, manda giù. A Londra uno scotch come si deve non lo trovi di certo.»
«Sono sicuro che lo troverò» disse Richard con un sospiro. Dai capelli, l’acqua gli colava dritta nel bicchiere. «A Londra c’è tutto.»
Si scolò il bicchiere di whisky, poi un altro, quindi la serata diventò nebulosa e si concluse in una serie di immagini frammentate: dopo di che ricordava soltanto la sensazione di stare per lasciare un luogo che aveva un preciso significato per un altro più grande e antico che di significato non ne aveva; e di aver vomitato a più non posso in un canale di scolo in cui scorreva acqua piovana, chissà dove e a quale ora antelucana; e una figura bianca, come una sorta di piccolo scarafaggio tondeggiante, che si allontanava da lui camminando sotto la pioggia.
La mattina seguente Richard prese il treno per Londra, stazione di Euston. Sua madre gli diede una tortina cucinata da lei appositamente per il viaggio, e un thermos di tè; e Richard Mayhew se ne andò a Londra sentendosi da schifo.
UN ALTRO PROLOGO
QUATTROCENTO ANNI PRIMA
Era la metà del sedicesimo secolo, in Toscana, e stava piovendo: una pioggia fredda e spregevole che faceva diventare grigio il mondo.
Dal piccolo monastero sulla collina si levò verso il cielo del mattino una densa chiazza di fumo nero.
Due uomini se ne stavano seduti sulla collina, a osservare l’edificio che prendeva fuoco.
«Questa, mister Vandermar» disse il più piccolo dei due, agitando una mano unta in direzione del fumo, «sarà davvero una splendida conflagrazione, non appena conflagrerà. Benché un assoluto rispetto per la verità mi imponga di confessare il dubbio che qualcuno degli abitanti sia nella posizione più adatta per apprezzarla appieno.»
«Vuole dire per il fatto che sono morti, mister Croup?» domandò il suo socio. Stava mangiando qualcosa che dall’aspetto poteva essere stato un cucciolo di cane, e adoperava il coltello per staccare grossi pezzi di carne dalla carcassa e metterseli in bocca.
«Per il fatto che, come ha avvedutamente messo in evidenza, mio saggio amico, sono morti.»
Ecco come è possibile distinguere i due che hanno appena parlato: per prima cosa, quando sono in piedi, mister Vandemar è più alto di mister Croup di due teste e mezzo.
Secondariamente, gli occhi di mister Croup sono di uno sbiadito azzurro cobalto, mentre quelli di mister Vandemar sono marroni.
In terzo luogo, mentre mister Vandemar ha ricavato gli anelli che porta alla mano destra utilizzando il teschio di quattro grossi corvi, mister Croup apparentemente non indossa gioielli.
In quarto luogo, a mister Croup piacciono le parole, mentre mister Vandemar ha sempre fame.
Il monastero prese fuoco, con un risucchio d’aria: era conflagrato.
«Non mi piace la salvia» disse mister Vandemar. «Ha uno strano sapore.»
Si udì un grido, poi un potente boato, mentre il tetto crollava, quindi un rombo mentre le fiamme salivano sempre più alte.
«Qualcuno non era morto» commentò mister Croup.
«Adesso lo è» ribatté mister Vandemar, e addentò un’altra fetta di cucciolo crudo. Aveva trovato il suo pasto già morto in un fosso mentre si allontanavano a piedi dal monastero. Amava il sedicesimo secolo.
«E ora?» domandò.
Mister Croup fece un largo sorriso, con denti che parevano un cimitero disastrato. «A circa quattrocento anni da qui» rispose. «Londra Sotto.»
Mister Vandermar mandò giù la notizia insieme a un altro pezzo di cucciolo. Infine chiese, «A uccidere gente?»
«Oh, si» rispose mister Croup. «Questo ritengo proprio di poterglielo garantire.»
UNO
Ormai erano quattro giorni che non smetteva di correre, una sfrenata fuga a capofitto attraverso tunnel e corridoi. Era affamata e stanca, e faceva sempre più fatica ad aprire le nuove porte che le si paravano davanti.
Trovò un posto in cui nascondersi, un minuscolo cunicolo di pietra, sotto al mondo, dove sarebbe stata al sicuro, o almeno cosi sperava e pregava, e finalmente si addormentò.
Mister Croup aveva assunto Ross all’ultimo Mercato Fluttuante, che si era tenuto nell’abbazia di Westminster.
«Lo consideri un canarino» aveva detto a mister Vandemar.
«Perché, canta?» aveva chiesto mister Vandemar.
«Ne dubito; ne dubito nel modo più totale e assoluto. No, mio valente amico, il mio pensiero era metaforicamente associato all’utilizzo che di quegli uccellini viene fatto quando vengono portati in miniera.»
Vandemar fece un cenno di assenso.
Il signor Ross non somigliava a un canarino sotto nessun altro punto di vista: era grande e grosso — quasi quanto mister Vandemar — e sudicio, e parlava ben poco, anche se aveva ritenuto suo dovere chiarire che gli piaceva uccidere, e che era molto bravo; ciò diverti mister Croup e mister Vandemar quanto le vanterie di un giovane Mongolo che avesse appena saccheggiato il suo primo villaggio o dato fuoco a una iurta per la prima volta avrebbero divertito Gengis Khan. Era un canarino e non l’avrebbe mai saputo. Perciò il signor Ross, con la maglietta lercia e i jeans incrostati, andò per primo, mentre Croup e Vandemar, in elegante completo nero, lo seguivano.
Nell’oscurità del tunnel, un fruscio: mister Vandemar aveva in mano il coltello, che non ci restò a lungo perché stava già vibrando dolcemente a una decina di metri di distanza.
Si avvicinò e lo raccolse. Sulla lama era infilzato un ratto, la bocca che si apriva e si chiudeva impotente mentre la vita lo abbandonava. Ne frantumò il cranio tra pollice e indice.
«Ecco un topolino che non andrà più in giro a raccontare storie» commentò mister Croup, sogghignando per la battuta di spirito.
Mister Vandemar non disse nulla.
«Topolino. Storie. Ha capito?»
Mister Vandemar tolse il ratto dal coltello e cominciò a sgranocchiarlo con aria pensosa.
Mister Croup glielo levò di mano con un colpo secco. «La smetta» disse. Mister Vandemar, un po’ accigliato, mise via il coltello.
«Coraggio» sibilò mister Croup per rincuorarlo. «Ci sarà sempre un altro ratto. E adesso avanti! Abbiamo cose da fare. Persone da rovinare.»
Tre anni a Londra non avevano cambiato Richard, anche se era cambiato il suo modo di percepire la città.
Appena arrivato, Londra gli era sembrata immensa, strana e fondamentalmente incomprensibile, con soltanto la piantina della metropolina a dare una parvenza di ordine.
Poco a poco si era reso conto che la piantina della metropolitana era una comoda invenzione che rendeva più semplice la vita, ma non aveva punti in comune con la realtà: come appartenere a un partito politico, aveva pensato una volta, con orgoglio. Poi, dopo avere tentato di spiegare la similitudine tra la mappa della metropolitana e la politica a un perplesso gruppo di sconosciuti incontrati a una festa, aveva deciso per il futuro di lasciare ad altri eventuali commenti sulla politica.
Con il passare del tempo, si era sorpreso a dare Londra per scontata; dopo un po’ aveva cominciato a vantarsi di non avere visitato nessuno dei monumenti (a eccezione della Torre di Londra, quando zia Maude era arrivata in città per un fine settimana e, benché riluttante, era dovuto andare con lei).
Jessica aveva cambiato tutto. Durante dei fine settimana altrimenti ragionevoli, Richard si era ritrovato ad accompagnarla in luoghi come la National Gallery e la Tate Gallery, dove aveva imparato che se si cammina troppo a lungo per le sale di esposizione si ha male ai piedi, che dopo un po’ i grandi tesori dell’arte mondiale finiscono per fondersi e confondersi l’uno con l’altro, e che è quasi al di là delle umane possibilità di comprensione accettare il prezzo sfacciatamente imposto da bar e caffè all’interno dei musei per una fetta di torta e una tazza di tè.
«Ecco il tuo tè e il tuo bigné» le disse. «Avremmo speso meno per comprare uno di quei Tintoretto.»
«Non esagerare» rispose Jessica, allegramente. «E in ogni caso alla Tate non ci sono quadri del Tintoretto.»
«Se avessi preso la torta di ciliege avrebbero potuto permettersi un altro Van Gogh» ribatté Richard.
«No che non avrebbero potuto» disse Jessica piccata.
Richard aveva incontrato Jessica in Francia due anni prima, durante un fine settimana a Parigi; in realtà l’aveva scoperta al Louvre, perché camminando a ritroso nel tentativo di ritrovare il gruppo di colleghi di lavoro che aveva organizzato la gita le aveva pestato un piede mentre lei stava ammirando un diamante di dimensioni e importanza storica davvero notevoli. Dopo avere inizialmente provato a scusarsi in francese, aveva rinunciato e cominciato a scusarsi in inglese, per poi di nuovo tentare di chiedere scusa in francese per avere chiesto scusa in inglese, finché si era accorto che Jessica era inglese che più inglese non si può e quindi, a mo’ di risarcimento, le aveva offerto un costoso panino francese e del succo di mela frizzante incredibilmente caro e, insomma, in verità è cosi che era cominciato tutto.
Dopo di che non era più riuscito a convincere Jessica che non era il tipo di persona che visita musei e gallerie d’arte.
Richard era rimasto intimidito da Jessica, che era bella e spesso anche spiritosa, e che di certo avrebbe fatto strada. Jessica, invece, aveva visto in Richard enormi potenzialità le quali, opportunamente incanalate dalla donna giusta, l’avrebbero reso un perfetto complemento matrimoniale.
Se solo fosse un pochino più ambizioso, mormorava tra sé, e quindi gli regalava libri dai titoli come Vestito per il successo e Le centoventicinque abitudini dell’uomo di successo, e manuali per la gestione degli affari come si trattasse di una campagna militare, e Richard ringraziava sempre e altrettanto sempre si prefiggeva di leggerli tutti. Gli comprava i capi di abbigliamento che pensava dovesse indossare — e lui lo faceva, durante la settimana; e un giorno, ritenendo fosse il momento giusto, gli disse che sarebbero dovuti andare a cercare un anello di fidanzamento.
«Perché esci con lei?» chiese Garry, della sezione conti aziendali, diciotto mesi dopo. «E terrificante.»
Richard scosse il capo. «È dolcissima quando la conosci bene.»
Garry appoggiò il troll che aveva preso dalla scrivania di Richard. «Mi sorprende che ti lasci ancora giocare con questi.»
«La questione non è mai stata sollevata» rispose Richard.
In realtà la questione era stata sollevata. Jessica, però, si era convinta che la raccolta di troll di Richard rappresentasse un tenero segno di eccentricità, paragonabile alla collezione di angeli del signor Stockton, ed era giunta alla conclusione che i grandi uomini collezionano sempre qualcosa.
Non è che Richard collezionasse davvero troll. Piuttosto, in un vago e decisamente vano tentativo di infondere un po’ di personalità al suo mondo lavorativo, aveva piazzato troll di plastica in zone strategiche della scrivania, dove si trovava anche una fotografia di Jessica su cui quel giorno faceva bella mostra di sé un bigliettino adesivo post-it giallo.
Era venerdì pomeriggio.
Richard aveva notato che gli avvenimenti di un certo rilievo sono vigliacchi: non si presentano uno a uno, ma preferiscono procedere in massa e lanciarsi su di te tutti in una volta.
Prendiamo questo particolare venerdì, per esempio.
Era, come Jessica gli aveva fatto notare almeno una dozzina di volte nel mese precedente, il giorno più importante della sua vita. Non il più importante nella vita di lei, è ovvio. Quello si sarebbe verificato in futuro quando, Richard non aveva dubbi in proposito, l’avrebbero nominata primo ministro, o regina, o Dio. Ma era con assoluta certezza il più importante nella vita di lui. Perciò era un vero peccato che, a dispetto del post-it giallo che Richard aveva lasciato sulla porta del frigorifero di casa e dell’altro post-it appiccicato sulla fotografia di Jessica sulla scrivania, se ne fosse del tutto e completamente dimenticato.
Per di più, c’era il rapporto Wandsworth, i cui tempi di consegna erano scaduti e che aveva assorbito praticamente tutti i suoi pensieri. Richard controllò un’altra sfilza di numeri; poi si accorse che pagina 17 era sparita e si mise all’opera per stamparne una copia; ed ecco un’altra pagina, e sapeva che se solo l’avessero lasciato finire in pace… se, miracolo dei miracoli, il telefono non avesse squillato…
Squillò. Premette il pulsante del vivavoce.
«Pronto? Richard? L’amministratore delegato vuole sapere quando gli consegnerai il rapporto.»
Richard guardò l’orologio. «Cinque minuti, Sylvia. È quasi concluso. Devo solamente aggiungere la proiezione profitti e perdite.»
«Grazie, Dick. Scendo poi a prenderlo.»
Sylvia era, come amava spiegare, la «PR dell’AD», e si muoveva sempre in un’atmosfera di assoluta efficienza.
Spense il vivavoce; il telefono squillò di nuovo, immediatamente.
«Richard» disse chi stava all’altro capo del filo, con la voce di Jessica, «sono Jessica. Te ne sei dimenticato, vero?»
«Dimenticato?» Cercò di ricordare cosa poteva avere dimenticato. Guardò verso la fotografia di Jessica in cerca di ispirazione, e trovò tutta quella di cui aveva bisogno sotto forma di bigliettino giallo appiccicato sulla di lei fronte.
«Richard? Solleva il ricevitore.»
Sollevò il ricevitore, leggendo contemporaneamente l’annotazione sul post-it.
«Scusa, Jess. No, non me ne sono dimenticato. Ore diciannove, ristorante italiano Ma Maison. Ci incontriamo là?»
«Jessica, Richard. Non Jess.» Tacque per un istante. «Dopo quello che è successo l’ultima volta? Non penso proprio. Tu riusciresti a perderti sul balcone di casa!»
Richard stava per ribattere che chiunque avrebbe potuto scambiare la National Gallery con la National Portrait Gallery, e che non era stata lei a passare l’intera giornata fuori sotto la pioggia (cosa che a suo parere era divertente almeno quanto aggirarsi in uno qualsiasi dei due musei in questione fino a farsi venire male ai piedi), ma pensò fosse meglio soprassedere.
«Vengo a prenderti a casa» disse Jessica. «Cosi facciamo due passi insieme fino al ristorante.»
«D’accordo, Jess. Scusa… Jessica.»
«Hai confermato la prenotazione, non è vero Richard?»
«Si» menti Richard tutto serio. L’altro telefono sulla scrivania si era messo a squillare con insistenza. «Jessica, guarda, io…»
«Bene» disse Jessica, e interruppe la conversazione.
La più grossa somma di denaro che Richard avesse mai speso in assoluto era servita per l’anello di fidanzamento di Jessica, diciotto mesi prima.
Sollevò il ricevitore dell’altro telefono.
«Ciao Dick» disse Garry. «Sono io, Garry.»
Garry lavorava a qualche metro da Richard, e lo salutò agitando la mano da dietro una luccicante scrivania del tutto priva di troll.
«È ancora valida la proposta di andare a bere qualcosa insieme? Hai detto che potevamo esaminare il rendiconto Merstham.»
«Metti giù quel dannato telefono, Garry. Certo che è ancora valida.»
Richard abbassò il ricevitore. C’era un numero telefonico in fondo al bigliettino giallo, che Richard si era diligentemente scritto parecchie settimane prima. E aveva prenotato: ne era quasi certo. Però non aveva confermato la prenotazione. L’intenzione l’aveva sempre avuta, ma c’erano state cosi tante cose da fare e tutto quel tempo a disposizione. Ma gli avvenimenti di un certo rilievo procedono in massa…
Adesso Sylvia era in piedi accanto a lui. «Dick? Il rapporto Wandsworth?»
«Quasi pronto, Sylvia. Guarda, aspetta solo un secondo, puoi?»
Fini di digitare con forza il numero, e fece un sospiro di sollievo quando una voce rispose. «Ma Maison. Cosa posso fare per lei?»
«Vorrei un tavolo per tre per stasera» disse Richard. «Credo di avere prenotato. E se l’ho fatto, vorrei confermare la prenotazione. Se invece non l’ho fatto, mi chiedo se potrei prenotare ora. Per favore.»
No, non era segnata alcuna prenotazione per la sera a nome Mayhew. O Stockton. O Bartram — il cognome di Jessica. E quanto a prenotare un tavolo…
Non erano le parole che Richard trovò decisamente sgradevoli, ma il tono di voce con cui l’informazione venne trasmessa. Un tavolo per questa sera avrebbe dovuto essere prenotato anni prima, magari dai genitori di Richard. Un tavolo per questa sera era impossibile: persino se il papa, il primo ministro e il presidente francese si fossero presentati là quella sera senza una conferma di prenotazione, sarebbero stati rispediti in strada.
«Ma è per il capo della mia fidanzata. So che avrei dovuto telefonare prima. Siamo soltanto in tre, non potrebbe gentilmente…»
Avevano riattaccato.
«Richard?» disse Sylvia. «L’amministratore delegato aspetta.»
«Pensi» domandò Richard «che me lo darebbero un tavolo se richiamassi offrendo una grossa mancia?»
Nel sogno erano tutti insieme, a casa. I suoi genitori, suo fratello, sua sorella. Erano in piedi nella sala da ballo. Erano cosi pallidi, cosi seri. Ianua, sua madre, le sfiorò la guancia e le disse che era in pericolo. Nel sogno, Porta rise e rispose che lo sapeva. La madre scosse il capo: no, no — adesso era in pericolo. Adesso.
Porta apri gli occhi. L’uscio si stava aprendo, piano piano; trattenne il fiato.
Dei passi, felpati sul selciato. Magari non si accorge di me, pensò. Magari se ne va. E poi pensò, disperata, Ho fame.
I passi esitarono. Era ben nascosta, ne era certa, sotto un mucchio di giornali e di stracci. Ed era possibile che l’intruso non volesse farle del male. Potrà sentire il mio cuore che batte forte? Poi i passi si avvicinarono, e lei sapeva cosa doveva fare, anche se aveva paura.
Una mano strappò via la copertura che la riparava, e si trovò a fissare un viso inespressivo che si contrasse in un ghigno feroce. Rotolò su un fianco raggomitolata su se stessa, e la lama del coltello rivolto al suo petto la raggiunse invece al braccio.
Fino a quel momento non aveva mai pensato di riuscire a farlo. Mai creduto di poter essere abbastanza coraggiosa, o impaurita o disperata da osare. Ma allungò una mano, la posò sul petto di lui, e apri…
Era umido, caldo e scivoloso; strisciò e barcollò per liberarsi dal peso dell’uomo, poi, con passo incerto, lasciò quel luogo.
Giunta nel lungo e stretto tunnel esterno, trattenne il respiro mentre si appoggiava pesantemente al muro, sfinita e singhiozzante.
Era allo stremo delle forze. Aveva dato fondo alle proprie energie. La spalla cominciava a pulsare dolorosamente. Il coltello, pensò. Ma era salva.
«Oh perbacco, perbacco» disse una voce nel buio alla sua destra. «È sopravvissuta al signor Ross. Chi l’avrebbe mai detto, mister Vandemar.» La voce aveva un suono di fanghiglia melmosa.
«Neppure io l’avrei mai detto, mister Croup» disse una voce piatta alla sua sinistra.
Accesero una luce tremolante. «Tuttavia» aggiunse mister Croup, gli occhi lampeggianti nell’oscurità sotterranea, «a noi non sopravviverà.»
Porta gli diede una ginocchiata, forte, all’inguine: senti qualcosa contorcersi sotto gli abiti e si mise a correre, tenendosi la spalla sinistra con la mano destra.
E continuò a correre.
«Dick?»
Richard allontanò da sé l’interruzione con un gesto della mano. Teneva la propria vita quasi sotto controllo, ormai. Ancora soltanto qualche minuto…
Garry ripeté il suo nome. «Dick? Sono le sei e trenta.»
«Sono cosa?»
Fogli, penne, tabulati e troll vennero scaraventati nella ventiquattr’ore di Richard, che la chiuse e scappò via.
Mentre si dirigeva verso l’uscita si infilò il soprabito. Con Garry alle calcagna. «Allora, andiamo a bere qualcosa?»
«Bere?»
«Dovevamo uscire insieme stasera per discutere del rendiconto Merstham. Ricordi?»
Era per stasera? Richard si fermò un istante. Se mai, decise, avessero ammesso la disorganizzazione come sport olimpico, di certo avrebbe potuto degnamente rappresentare l’Inghilterra.
«Garry,» disse «mi dispiace. Ho fatto confusione. Questa sera devo vedere Jessica. Portiamo fuori a cena il suo capo.»
«Il signor Stockton? Degli Stockton? Quello Stockton?»
Richard annui.
Si precipitarono giù dalle scale.
«Sono certo che ti divertirai» commentò Garry. «E come sta il Mostro della Laguna Nera?»
«Per essere precisi, Garry, Jessica è di Ilford. Ed è sempre la luce e l’amore della mia vita, grazie per avermelo chiesto.»
A quel punto erano arrivati nell’atrio e Richard si lanciò verso la porta automatica, che clamorosamente non si apri.
«Sono passate le sei, signor Mayhew» spiegò il signor Figgis, la guardia addetta alla sicurezza del palazzo. «Deve firmare il registro con l’ora di uscita.»
«Ci mancava anche questo,» disse Richard senza rivolgersi a qualcuno in particolare, «ci mancava proprio.»
Il signor Figgis odorava vagamente di sciroppo per la tosse e di lui si raccontava da più parti che possedesse una collezione di giornaletti porno a dir poco enciclopedica. Sorvegliava il portone con una diligenza quasi maniacale, non essendo ancora riuscito a dimenticare la sera in cui la costosa attrezzatura informatica di un intero piano aveva alzato i tacchi e preso il volo, insieme a due vasi di palme e al tappeto Axminster dell’amministratore delegato.
«Quindi la nostra uscita è rimandata?»
«Mi dispiace, Garry. Ti va bene lunedi?»
«Certo. Lunedi va benissimo. Allora ci vediamo lunedi.»
Il signor Figgis controllò le firme e si accertò che non avessero con sé computer, vasi di palme o tappeti, dopo di che premette un pulsante sotto la sua scrivania e la porta si apri.
«Porte» commentò Richard.
La strada sotterranea si biforcava e si diramava; scelse una direzione a caso, tuffandosi nei tunnel, correndo, inciampando e muovendosi a zig zag.
Dietro di lei bighellonavano mister Croup e mister Vandemar, rilassati e contenti come stessero visitando la grande esposizione del Crystal Palace.
Quando giunsero a un incrocio, mister Croup si chinò, trovò la più vicina traccia di sangue e la seguirono.
Erano come iene, che portano allo sfinimento la propria preda. Loro potevano aspettare. Loro avevano tutto il tempo del mondo.
Per una volta la fortuna era dalla parte di Richard. Prese un taxi guidato da un tassista particolarmente entusiasta che lo portò a casa seguendo un itinerario insolito che prevedeva strade della cui esistenza Richard non si era mai accorto. Scese di corsa dal taxi, lasciando una buona mancia e la ventiquattr’ore, riuscì a fare cenno all’autista che si fermò appena prima di infilarsi in un viale di scorrimento e recuperò la borsa, quindi sali le scale a razzo e si fiondò nel suo appartamento.
Quando entrò in sala si stava già togliendo i vestiti: la borsa attraversò la stanza roteando e fece un attcrraggio di fortuna sul divano; prese le chiavi e le appoggiò con cura sul tavolino all’ingresso, in modo da non dimenticarle.
Poi corse in camera da letto.
Il cicalino del citofono squillò.
Richard, vestito per tre quarti del suo completo migliore, si lanciò a rispondere.
«Richard? Sono Jessica. Spero che tu sia pronto.»
«Oh, si. Arrivo subito.»
Infilò il soprabito e corse via, sbattendo la porta dietro di sé.
Jessica lo stava aspettando in fondo alle scale. Lo aspettava sempre li. A lei non piaceva l’appartamento di Richard: la faceva sentire femminilmente a disagio. C’era sempre la possibilità di trovare un paio di mutande, be’, praticamente ovunque, per non parlare dei blocchi serpeggianti di dentifricio indurito cementati sul lavandino del bagno: no, non era proprio un posto da Jessica.
Jessica era molto bella; al punto che a Richard capitava di ritrovarsi a guardarla chiedendosi come ha fatto a mettersi con me?
E quando facevano l’amore — cosa che accadeva nell’appartamento di Jessica nella zona di Barbican, nel letto di ottone di Jessica con le gelide lenzuola di lino bianco (i genitori di Jessica le avevano detto che i piumini erano démodé) — dopo, al buio, lei lo abbracciava stretto, i lunghi riccioli bruni scompigliati a coprirgli il petto, e gli sussurrava quanto lo amava, mentre lui a sua volta le diceva di amarla e di voler stare con lei per sempre, e entrambi ci credevano.
«Santo cielo, mister Vandemar. Sta rallentando.»
«Rallentando, mister Croup.»
«Deve perdere molto sangue, mister V.»
«Sangue delizioso, mister C. Tiepido sangue delizioso.»
«Non ci vorrà molto.»
Un click: il rumore di un coltello a serramanico che si apre, vuoto, solo e buio.
«Richard? Cosa stai facendo?» chiese Jessica.
«Nulla, Jessica.»
«Non avrai di nuovo dimenticato le chiavi?»
«No, Jessica.»
Richard smise di tastarsi le tasche e sprofondò le mani in quelle del soprabito.
«Allora, stasera, quando incontri il signor Stockton,» disse Jessica «devi renderti conto che non è soltanto un uomo molto importante. È anche una vera e propria entità societaria in sé e per sé.»
«Non vedo l’ora» sospirò Richard.
«Come hai detto, scusa?»
«Non vedo l’ora» ripeté Richard con tono entusiasta.
«Oh, sbrigati» disse Jessica, che cominciava a emanare un’aura di quella che, in una donna meno notevole, sarebbe forse stato possibile descrivere come una crisi di nervi. «Non dobbiamo fare aspettare il signor Stockton.»
«No, Jess.»
«E non chiamarmi a quel modo, Richard. Detesto i nomignoli. Sono cosi svilenti.»
«Potete darmi qualcosa?» L’uomo sedeva nel vano di un portone, con un cartello sul petto scritto a mano in cui faceva sapere al mondo di essere senza casa e affamato. Non c’era bisogno di cartelli per capirlo e Richard, che aveva già le mani in tasca, si mise a rovistare alla ricerca di una moneta.
«Richard. Non abbiamo tempo» disse Jessica che faceva beneficenza e investiva con estrema moralità. «Dunque, voglio che tu faccia buona impressione, il fidanzato-assennato. È importante che un futuro sposo faccia buona impressione.» Poi il viso le si increspò e lo abbracciò per un istante, dicendo: «Oh, Richard. Io ti amo. Lo sai questo, vero?»
E Richard annui, perché lo sapeva.
Jessica diede un’occhiata all’orologio e accelerò il passo.
Con discrezione, Richard lanciò all’indietro una moneta da una sterlina verso l’uomo nel portone — che l’afferrò con la mano sudicia.
«Non hai avuto problemi con la prenotazione, vero?» chiese Jessica.
E Richard, che non era molto bravo a mentire quando gli veniva fatta una domanda diretta, rispose con un «Ah, ah.»
Aveva scelto male. Il corridoio finiva contro un muro. In condizioni normali non sarebbe certo stato un impedimento, ma era cosi stanca, cosi affamata, e il dolore era cosi forte…
Respirava a singulti, singhiozzava e piangeva. Il braccio era freddo e la mano sinistra intorpidita.
«Che sia benedetta la mia piccola anima nera, mister Vandemar, vede anche lei quello che vedo io?» La voce era sommessa, poco distante: dovevano esserle più vicini di quanto avesse immaginato. «Con il mio piccolo occhio, adocchio qualcosa che sarà…»
«Morta in un attimo, mister Croup» disse una voce sopra di lei.
«Il principale ne sarà entusiasta.»
Cercò di fare ricorso a tutto quello che riusciva a trovare dentro di sé, nel profondo dell’anima, facendo leva su tutto il dolore, il male e la paura. Era sfinita, stremata e assolutamente esausta. Non aveva un posto dove andare, niente più forza né poteri, niente tempo.
«Anche se fosse l’ultima porta che apro» pregò, silenziosamente, Temple e Arch, il Tempio e l’Arco. «Da qualche parte… Da qualunque parte… salva…» Quindi pensò, «Qualcuno.»
E tentò di aprire una porta.
Mentre veniva afferrata dall’oscurità udi la voce di mister Croup, che le parve giungere da molto, molto lontano.
«Maledizione», diceva la voce.
«Mi stai dicendo che hai veramente promesso loro un extra di cinquanta sterline per un tavolo per questa sera? Sei un idiota, Richard.»
Jessica non trovava divertente la cosa.
«Hanno perso la mia prenotazione. E hanno detto che tutti i tavoli erano già riservati.»
«Probabilmente ci metteranno a sedere accanto alla cucina» sospirò Jessica. «O alla porta. Hai detto che era per il signor Stockton?»
«Si.»
Sospirò di nuovo.
Nel muro, a poca distanza da loro, si apri una porta da cui usci qualcuno che rimase in piedi barcollando per un lungo e terribile istante, quindi crollò sull’asfalto.
Richard rabbrividì.
«Dunque, quando parli con il signor Stockton, fai bene attenzione a non interromperlo. E a non contraddirlo — non gli piace essere contraddetto. Quando fa una battuta, ridi. Se non sei certo che abbia fatto una battuta di spirito, guardami. Mi… be’, mi metterò a tamburellare sul tavolo con l’indice.»
Avevano raggiunto la persona sul marciapiede. Jessica la superò a grandi passi. Richard esitò. «Jessica?»
«Hai ragione. Potrebbe pensare che mi sto annoiando. Se fa una battuta, mi tocco il lobo dell’orecchio.»
«Jessica?»
«Che c’è?»
«Guarda.» Indicò il marciapiede. La persona era a faccia in giù, avvolta in abiti ingombranti; Jessica prese Richard sottobraccio e lo tirò con forza verso di lei.
«Se presti loro attenzione, Richard, se ne approfittano. Ce l’hanno tutti una casa. Sono certa che starà benissimo quando le sarà passata la sbornia.»
Le? Richard abbassò lo sguardo. Era proprio una ragazza.
Jessica continuò, «Dunque, ho detto al signor Stockton che noi…» Richard aveva appoggiato un ginocchio a terra. «Richard? Cosa stai facendo?»
«Non è ubriaca» rispose Richard. «È ferita.» Si guardò la punta delle dita. «Sanguina.»
Jessica lo osservò, nervosa e perplessa. «Arriveremo in ritardo» gli fece notare.
«È ferita» ribadì semplicemente lui. Sul suo viso si era dipinta un’espressione che Jessica non aveva mai visto.
«Richard» disse, con tono minaccioso, poi si ammorbidi un pochino e offri un compromesso. «Chiama un’ambulanza, allora. Spicciati.»
Gli occhi della ragazza si aprirono, bianchi e grandi in un viso che era poco più di una chiazza di polvere e sangue. «Non in ospedale, per favore. Mi troveranno. Portatemi in un posto sicuro. Per favore.» La voce era flebile.
«Stai perdendo sangue» disse Richard. Si voltò per capire da dove fosse venuta, ma il muro era una liscia e ininterrotta distesa di mattoni.
«Mi aiuti?» sussurrò la ragazza, chiudendo gli occhi.
«Quando telefoni al pronto soccorso» disse Jessica «non dare il tuo nome. Potrebbero chiederti un resoconto o qualcosa del genere, e non lascerò che questa serata venga rovinata da… Richard? Cosa stai facendo?»
Richard aveva sollevato la ragazza e la teneva in braccio. Era incredibilmente leggera. «La porto a casa mia, Jess. Non posso lasciarla qui. Di’ al signor Stockton che sono davvero spiacente ma era un caso di emergenza. Sono certo che capirà.»
«Richard Oliver Mayhew» disse gelida Jessica. «Tu ora rimetti giù quella persona e vieni qui immediatamente. Altrimenti questo fidanzamento è da considerarsi chiuso, finito, terminato. Ti avverto.»
Richard sentiva il sangue caldo e appiccicoso che gli inzuppava la camicia. A volte non hai alternative.
Si allontanò lentamente.
Jessica rimase ferma sul marciapiede, guardandolo rovinare la sua grande serata, gli occhi brucianti di lacrime. Dopo qualche minuto era sparito alla vista, e allora, solo allora, con voce chiara e stentorea disse: «Merda!» e scagliò a terra la borsetta con tutta la forza che aveva, sufficiente a sparpagliare sull’asfalto telefonino, rossetto, agenda e una manciata di Tampax.
Poi, dato che non c’era altro da fare, raccolse il tutto e lo rimise nella borsetta, quindi si diresse verso il ristorante, ad aspettare il signor Stockton.
Sorseggiando del vino bianco, cercò di fornire un’adeguata spiegazione del fatto che il suo fidanzato non fosse con lei, e si ritrovò a domandarsi disperata se non potesse semplicemente dire che Richard era morto.
«È stata una fine rapida e improvvisa» disse Jessica sottovoce, desiderando che fosse vero.
Lungo tutta la strada, Richard non si era mai fermato a pensare. Non che l’avesse fatto esattamente di sua propria volontà. In un qualche angolo della parte ragionevole e assennata del cervello, qualcuno — un Richard Mayhew ragionevole e assennato — gli diceva quanto era stato ridicolo, che avrebbe dovuto limitarsi a chiamare la polizia o un’ambulanza; che era pericoloso sollevare una persona ferita; che aveva realmente, seriamente, irritato Jessica; che quella sera avrebbe dovuto dormire sul divano; che stava rovinando l’unico completo buono; che la ragazza puzzava in modo terribile… ma si ritrovò a mettere un piede davanti all’altro e, con i crampi alle braccia e un forte dolore alla schiena, ignorando le occhiate dei passanti, continuò a camminare. Giunse al portone del palazzo in cui abitava e incespicando sali le scale, poi arrivò davanti alla porta del suo appartamento e si rese conto di avere dimenticato le chiavi sul tavolino in corridoio, all’interno…
La ragazza allungò una mano sudicia verso la porta, che si apri.
Non avrei mai pensato di essere cosi contento per non avere chiuso bene la porta, pensò Richard, che portò dentro la ragazza — richiudendo la porta dietro di sé con un piede — e la adagiò sul letto.
Lo sparato della sua camicia elegante era zuppo di sangue.
Lei pareva non del tutto cosciente. Gli occhi si muovevano sotto le palpebre.
Le tolse la giacca di pelle. La parte superiore del braccio sinistro e la spalla presentavano un lungo taglio. Richard trattenne il fiato.
«Senti, chiamo un medico» disse con tono tranquillo. «Mi ascolti?»
Gli occhi della ragazza si spalancarono, pieni di paura. «Per favore, no. Starò bene. Non è grave come sembra. Ho solo bisogno di dormire. Niente dottori.»
«Ma il tuo braccio — la spalla…»
«Starò bene. Domani. Per favore!» Era poco più che un sussurro.
«Be’, suppongo, d’accordo» e lasciando un po’ di spazio al buonsenso disse, «Senti, posso chiederti…?»
Ma si era già addormentata.
Usci dalla stanza in punta di piedi, richiudendosi la porta alle spalle. Quindi si sedette sul divano, davanti al televisore, domandandosi cosa aveva fatto.
DUE
Si trovava da qualche parte nel sottosuolo, molto in fondo: forse in un tunnel, o nelle fogne. La luce era ridotta a qualche debole sprazzo, che definiva il buio, piuttosto che disperderlo.
Non era solo. C’erano altre persone che gli camminavano accanto.
Che correvano, ora, attraverso la parte interna della fognatura, inzaccherandosi di melma e di sporcizia. Goccioline d’acqua cadevano lentamente, limpide come cristallo nell’oscurità.
Svoltò un angolo, ed eccola là che lo aspettava.
Era enorme. Riempiva completamente lo spazio della fognatura: la testa massiccia abbassata, corpo e fiato fumanti nell’aria gelida. Una sorta di cinghiale, pensò all’inizio, poi si rese conto che era una sciocchezza: non esistono cinghiali cosi grandi. Aveva le dimensioni di un toro, di una tigre, di un’automobile.
La Bestia lo fissò, indugiò per un centinaio di anni, mentre lui sollevava la lancia.
Quindi caricò.
Scagliò la lancia, ma era già troppo tardi, e senti che la Bestia gli aveva tagliato il fianco con le zanne affilate come rasoi, senti che la sua vita si stava spegnendo nel fango: e si accorse di essere caduto a faccia in giù nell’acqua, che si era tinta di rosso acceso e creava densi mulinelli di sangue che lo soffocavano…
Tentò di gridare, tentò di svegliarsi, ma riusciva soltanto a respirare fango e sangue e acqua, e a provare un grande dolore…
«Brutto sogno?» chiese la ragazza.
Richard si mise a sedere sul sofà, respirando a fatica. Le tende erano ancora tirate, ma sapeva che era mattina. Cercò a tentoni il telecomando, che chissà come gli si era incuneato tra le reni, e spense il televisore.
«Si» rispose. «Più o meno.»
Strofinò via le tracce di sonno che gli incrostavano gli occhi e fece l’inventario di se stesso, notando con piacere di essersi tolto le scarpe e la giacca prima di addormentarsi. Lo sparato della camicia era coperto di sangue secco e sporcizia.
La ragazza senza casa non diceva nulla. Aveva un aspetto disastroso: pallida e minuta, sotto al sudiciume e al sangue ormai asciutto e di colore marrone. Era vestita con una quantità di abiti uno sopra l’altro: vestiti curiosi, velluti impolverati, pizzi inzaccherati, buchi attraverso i quali si potevano intravvedere ulteriori strati e stili.
Richard pensò che sembrava uscire da un’incursione di mezzanotte nella sezione riservata alla Storia della moda nel Victoria and Albert Museum, e avesse ancora indosso tutto ciò che aveva arraffato.
Richard non sopportava le persone che affermano cose ovvie, quelle che ti vengono a riferire situazioni di cui non potresti non accorgerti da solo neppure volendo: «Piove» oppure, «Ti si è appena rotto il fondo del sacchetto della spesa e tutto il tuo cibo è finito nella pozzanghera» o anche, «Ooh! Scommetto che fa male!»
«Sei sveglia, allora» disse Richard, odiandosi.
«Che baronia è questa?» domandò la ragazza. «Che feudo?»
«Hmm. Come, scusa?»
Si guardò intorno con aria sospettosa. «Dove sono?»
«Appartamento quattro, Newton Mansions, Little Comden Street…»
Si fermò. Lei aveva aperto le tende e stava osservando la vista alquanto ordinaria che si godeva dalla finestra di Richard. Osservava a occhi spalancati le auto e gli autobus, e il piccolo insieme disordinato di negozi — un giornalaio, un panettiere, una farmacia e una rivendita di alcolici — sotto di loro.
«Sono a Londra Sopra» disse.
«Si, sei a Londra» ribadì Richard. Sopra a cosa? si chiese. «Penso che probabilmente ieri sera eri in stato di shock o qualcosa di simile. Il taglio sul braccio era molto brutto.» Attese che dicesse una parola, che spiegasse. Lei gli lanciò un’occhiata, poi abbassò di nuovo lo sguardo verso gli autobus e i negozi. Richard continuò: «Io, be’, ti ho trovata sul marciapiede. C’era un sacco di sangue.»
«Non preoccuparti» gli disse con aria seria. «La maggior parte del sangue apparteneva a qualcun altro.»
Lasciò ricadere la tenda.
Quindi si esaminò il taglio sul braccio.
«Bisogna farci qualcosa» disse. «Vuoi darmi una mano?»
Richard cominciava a sentirsi in acque un po’ troppo profonde per le sue possibilità. «In realtà non me ne intendo molto di pronto soccorso» disse.
«D’accordo,» fece lei «se sei davvero tanto schizzinoso, vuol dire che ti limiterai a tenere le bende e ad annodare le estremità che non riesco a raggiungere. Ce le hai le bende, vero?»
Richard annui. «Oh si» disse. «Nella scatola del pronto soccorso. Sotto il lavandino.»
Dopo di che andò in camera a cambiarsi, e si chiese se sarebbe mai stato possibile rimediare al disastro che aveva sulla camicia (la sua camicia migliore, quella che gli aveva comprato, oddio, Jessica, chissà come sarà nervosa).
L’acqua sanguinolenta gli rammentava qualcosa, una specie di sogno che gli era capitato di fare, forse, ma che non riusciva a ricordare nemmeno fosse stata in gioco la sua stessa vita.
Tolse il tappo e lasciò defluire il liquido dal lavandino, che riempi nuovamente di acqua pulita a cui aggiunse un torbido schizzo di Dettol: l’odore pungente del disinfettante gli parve oltremodo sensato e salutare: un rimedio per la stranezza della situazione e per la sua ospite. Lei si chinò, per farsi sciacquare il braccio e la spalla con l’acqua tiepida.
Richard non era mai stato schifiltoso come pensava di essere. O meglio, era incredibilmente sensibile quando si trattava di sangue sullo schermo: un film di zombie ben fatto o anche una storia realistica relativa a medici e chirurghi lo lasciavano raggomitolato in un angolo, in iperventilazione, con le mani sugli occhi, a brontolare cose come «Ditemi quando è finito.» Ma se doveva confrontarsi con sangue vero, con vero dolore, si metteva d’impegno e provava a fare qualcosa per migliorare la situazione.
Ripulirono la ferita — che era meno profonda di quanto Richard ricordasse dalla sera precedente — e la bendarono, e la ragazza fece del proprio meglio per non tirarsi indietro durante l’operazione. Richard si ritrovò a chiedersi quanti anni potesse avere, e quale fosse il suo aspetto sotto a tutto quel sudiciume, e perché vivesse in strada e…
«Come ti chiami?» gli chiese.
«Richard. Richard Mayhew. Dick.»
Fece cenno di si con il capo, come stesse imparandolo a memoria. «Richardrichardmayhewdick» ripeté.
Il campanello suonò.
Richard guardò la confusione nel bagno e la ragazza, e si domandò cosa ne avrebbe pensato un osservatore esterno dotato di buon senso. Come, per esempio… «Oh, Signore» disse, immaginando il peggio. «Scommetto che è Jess. Mi ucciderà.» Limitare i danni. Limitare i danni. «Senti» disse alla ragazza. «Tu aspetta qui.»
Si chiuse la porta del bagno alle spalle e si diresse verso il corridoio.
Apri la porta d’ingresso e si produsse in un grandioso e sentito sospiro di sollievo. Non era Jessica. Si trattava di — cosa? Mormoni? Testimoni di Geova? La polizia? Non era in grado di dirlo. Comunque, erano in due.
Indossavano completi neri un po’ unti, un po’ lisi, e persino Richard, che si annoverava tra quanti soffrono di dislessia sartoriale, percepiva che c’era qualcosa di strano nel taglio di quegli abiti. Erano il tipo di completo che avrebbe potuto creare un sarto di duecento anni fa, a cui gli abiti moderni fossero stati soltanto descritti, senza averli visti realmente. Le linee erano sbagliate, e altrettanto dicasi per gli accessori.
Una volpe e un lupo, pensò involontariamente Richard. Poi si chiese perché mai l’avesse pensato.
Il primo uomo, la volpe, era più basso di Richard. Aveva capelli lisci e untuosi e colorito pallido; quando Richard apri la porta fece un ampio sorriso, con appena una frazione di secondo di ritardo. «Un buon mattino a lei, buon signore,» disse «in questa bella e piacevole giornata.»
«Si, certo, buongiorno» rispose Richard.
«Stiamo conducendo un’indagine personale e di natura assai delicata come dire, porta a porta. Le dispiace se entriamo?»
«Be’, non è proprio il momento migliore» fece Richard. Poi chiese, «Siete della polizia?»
Il secondo visitatore, un uomo alto, il lupo, che se ne stava qualche passo dietro al suo amico, tenendo stretta al petto una pila di fotocopie, fino a quel momento non aveva detto nulla, limitandosi ad attendere, imponente e impassibile. Ora scoppiò a ridere, una sola volta, con tono profondo e volgare. C’era qualcosa di insano in quella risata.
«Purtroppo» disse l’uomo più basso «non abbiamo questo privilegio. Una carriera nella legge e nella giustizia, per quanto indubbiamente allettante, non era scritta nelle carte che la Signora Fortuna ha distribuito a mio fratello e a me. No, siamo soltanto privati cittadini. Permettete che faccia le presentazioni. Io sono mister Croup, e questo gentiluomo è mio fratello, mister Vandemar.»
Non sembravano fratelli. Non sembravano niente che Richard avesse già visto.
«Suo fratello?» chiese Richard. «Non dovreste avere lo stesso cognome?»
«Sono colpito. Che cervello, mister Vandemar. Definendolo perspicace e sottile non gli si rende giustizia. Alcuni di noi sono cosi acuti» e si chinò verso Richard, mettendosi sulla punta dei piedi per arrivargli al viso, «che potrebbero addirittura tagliarsi da soli.»
Richard arretrò di un passo.
«Possiamo entrare?» chiese mister Croup.
«Cosa volete?»
Mister Croup sospirò in quello che ovviamente immaginava fosse un tono alquanto malinconico. «Stiamo cercando nostra sorella» spiegò. «Una bambina ribelle, testarda e volitiva, che ha quasi spezzato il cuore della nostra povera mamma vedova.»
«È scappata» chiari mister Vandemar, mellifluo. Ficcò in mano a Richard una fotocopia. «È un pochino… strana» aggiunse, facendo roteare un dito vicino alla tempia, a indicare che la ragazza era completamente matta.
Richard abbassò lo sguardo sul foglio.
Diceva:
AVETE VISTO QUESTA RAGAZZA?
Sotto alla scritta c’era una fotografia fotocopiata in bianco e nero di una ragazza che a Richard parve una versione dai capelli lunghi, più curata e pulita, della giovane che aveva lasciato nel bagno.
Ancora più sotto, un’altra scritta:
RISPONDE AL NOME DI PORZIA. MORDE E SCALCIA.
SCAPPATA DA CASA. DITECI SE L’AVETE VISTA. LA RIVOGLIAMO INDIETRO.
PREVISTA RICOMPENSA.
E sotto al tutto, un numero di telefono.
Richard guardò di nuovo la fotografia. Era senza dubbio la ragazza nel suo bagno.
«No» disse. «Purtroppo non l’ho vista. Mi dispiace.»
Mister Vandemar, tuttavia, non lo ascoltava. Aveva alzato la testa e stava annusando l’aria, come chi sentisse l’odore di qualcosa di strano o sgradevole. Richard allungò la mano per restituirgli la fotocopia, ma l’omaccione si limitò a spingerlo via e a entrare nell’appartamento, un lupo in cerca di preda.
Richard lo rincorse.
«Dove crede di andare? Si fermi. Esca subito di qui. Guardi che non può entrare…» perché mister Vandemar aveva proseguito dritto verso il bagno.
Richard si augurò che la ragazza — Porzia? — avesse avuto la presenza di spirito di chiudere la porta a chiave. Invece no, si spalancò alla prima spinta di mister Vandemar, che entrò seguito da un Richard che si sentiva come un cane di piccola taglia che abbaia inutilmente ai tacchi del postino.
La stanza da bagno non era molto grande. Conteneva una vasca, un water, un lavandino, numerose bottiglie di shampoo, una saponetta e un asciugamano. Quando Richard ne era uscito, un paio di minuti prima, conteneva anche una ragazza piuttosto sporca e insanguinata, un lavandino molto insanguinato e un kit di pronto soccorso aperto. Ora brillava di un ordine perfetto.
Non c’erano angoli in cui la ragazza avrebbe potuto nascondersi.
Mister Vandemar usci dal bagno, spinse la porta della camera da letto e vi entrò, guardandosi intorno.
«Non so cosa pensiate di fare» disse Richard. «Ma se voi due non uscite immediatamente da casa mia, telefono alla polizia.»
A quel punto mister Vandemar, che era intento a esaminare il salotto, si voltò verso Richard, che all’improvviso si rese conto di avere una gran paura, come un cagnolino che avesse scoperto che quello che pensava fosse un normale postino era in realtà un enorme alieno mangiatore di cani proveniente da uno di quei film per cui Jessica non aveva mai tempo.
Richard si trovò a chiedersi se mister Vandemar fosse il tipo di persona a cui si implora, «Non farmi del male!» e se, in caso affermativo, la preghiera sarebbe servita a qualcosa.
Quindi il volpino mister Croup disse, «Be’, si, mister Vandemar, cosa le è preso? Immagino che la preoccupazione per la nostra cara, dolce sorellina gli abbia fatto perdere la testa. Ora, domandi scusa a questo signore, mister Vandemar.»
Mister Vandemar annui e si fermò un attimo a pensare. «Credevo di aver bisogno di usare il bagno» disse. «Non era cosi. Mi dispiace.»
Mister Croup cominciò a imboccare il corridoio.
«Bene. Mi auguro vorrete perdonare al mio errante fratello la mancanza di finezza nei rapporti sociali. L’ansia per la nostra povera madre vedova e per nostra sorella, che anche ora, proprio mentre parliamo, vaga per le strade di Londra senza alcuno vicino che le voglia bene e si prenda cura di lei, gli ha quasi sconvolto la mente, glielo garantisco. Ma a parte questo, è un ottimo compagno da avere al proprio fianco. Non è vero, omone?»
Avevano già superato la soglia e si trovavano sulle scale. Mister Vandemar non disse nulla, ma non sembrava sconvolto dal dolore.
Croup si voltò verso Richard, producendosi in un altro sorriso volpino. «Ci faccia sapere se la vede» disse.
«Addio» rispose Richard. Poi chiuse la porta a chiave e, per la prima volta da quando abitava li, tirò anche il catenaccio.
«Non grasso» disse mister Vandemar.
Mister Croup, che aveva tagliato i fili del telefono di Richard non appena questi aveva minacciato di chiamare la polizia, e cominciava a chiedersi se avesse reciso i fili giusti, dato che la tecnologia del ventesimo secolo non era il suo punto di forza, gli tolse di mano un volantino.
«Non ho mai detto che lo sia» disse. «Sputo!»
Mister Vandemar scatarrò una boccata di muco e la sputò con precisione sul retro della fotocopia. Mister Croup spiaccicò con forza il foglio contro il muro, accanto alla porta di Richard. Un incollaggio rapido, e un incollaggio forte.
AVETE VISTO QUESTA RAGAZZA? chiedeva.
«Ha detto ’omone’. Vuol dire grasso.»
«Omone vuole anche dire grand’uomo. Forte, gagliardo, robusto, valoroso, coraggioso, intrepido, prode, risoluto e deciso» disse mister Croup. «Gli crede?»
Ripresero a scendere le scale.
«Che mi venga un accidente» disse mister Vandemar. «Sentivo il suo odore.»
Richard attese accanto alla porta finché udì sbattere il portone del palazzo, parecchi piani più sotto. Stava percorrendo il corridoio diretto in bagno, quando il telefono squillò, facendolo sobbalzare.
Tornò indietro a tutta velocità e sollevò il ricevitore.
«Pronto?» disse. «Pronto?»
Dall’altra parte non proveniva alcun suono, poi si udì un click e la voce di Jessica che usciva dalla segreteria telefonica posta sul tavolino accanto all’apparecchio. E diceva: «Richard? Sono Jessica. Mi dispiace che tu non sia a casa, perché questa sarà la nostra ultima conversazione e avrei tanto voluto dirtelo in faccia.»
Si rese conto che il telefono era completamente muto. Dal ricevitore spenzolava una trentina di centimetri di filo, che era poi stato tagliato di netto. Si mise a gridarci dentro comunque, urlando cose come «Jessica!» e «Sono qui!» e «Ti prego non riagganciare!»
«La notte scorsa mi hai messo davvero in grande imbarazzo, Richard» continuò la voce. «Per quanto mi riguarda il nostro fidanzamento è rotto. Non ho alcuna intenzione di restituirti l’anello, e neppure di rivederti mai più. Mi auguro che tu e la tua paperella zoppa bruciate all’inferno. Addio.»
«Jessica!» strillò più forte Richard, sperando forse di riuscire a introdursi nella rete delle telecomunicazioni grazie all’aumento di volume.
La cassetta smise di girare, ci fu un ulteriore clic, e una lucina rossa cominciò a lampeggiare.
«Brutte notizie?» chiese la ragazza.
Se ne stava in piedi proprio dietro di lui, nella piccola zona cucina, con il braccio accuratamente bendato. Stava togliendo dalla scatola delle bustine di tè, per metterle in due tazze. La teiera bolliva.
«Si» rispose Richard. «Molto brutte.» Si diresse verso di lei e le mostrò il volantino dell’AVETE VISTO QUESTA RAGAZZA? «Sei tu, vero?»
Aggrottò le sopracciglia. «La fotografia è mia.»
«E tu sei… Porzia?»
Scosse il capo. «Sono Porta, Richardrichardmayhewdick. Latte e zucchero?»
A quel punto Richard si sentiva in acque davvero troppo profonde per le sue possibilità e disse, «Richard. Solo Richard. Niente zucchero.» Poi aggiunse, «Senti, se non è una domanda troppo personale, puoi dirmi cosa ti è successo?»
Porta versò l’acqua bollente nelle tazze. «È meglio che tu non lo sappia» rispose semplicemente.
«Oh, be’, scusa se…»
«No, Richard. Davvero. È meglio che tu non lo sappia. Non ti servirebbe a niente. Hai già fatto più di quanto dovevi.»
Tolse le bustine di tè e gli allungò una tazza. Nel prenderla in mano si accorse di essersi portato appresso il ricevitore del telefono.
«Be’, insomma, non potevo certo lasciarti là.»
«Avresti potuto» disse lei «ma non l’hai fatto.»
Si appiatti contro il muro per sbirciare dalla finestra. Richard si alzò e la raggiunse, mettendosi anche lui a guardare fuori. Sull’altro lato della strada mister Croup e mister Vandemar si stavano allontanando dall’edicola, e la scritta AVETE VISTO QUESTA RAGAZZA? risaltava in primo piano in vetrina.
«Sono davvero tuoi fratelli?» chiese.
«Per favore» disse Porta, per nulla impressionata. «Dammi un attimo di tregua.»
Lui prese a sorseggiare il té, fingendo che fosse tutto normale.
«E allora dove sei stata?» chiese. «Fino a ora?»
«Ero qui» rispose. «Senti, con quei due ancora in giro dobbiamo far avere un messaggio a…» Esitò. «A qualcuno che ci può aiutare. Non oso uscire di qui.»
«Bene, non hai un posto dove andare? Qualcuno a cui telefonare?»
Gli tolse di mano il ricevitore muto, filo penzoloni, e scosse la testa. «I miei amici non si contattano per telefono» disse. Riagganciò il ricevitore sul telefono, dove rimase, solo e inutile.
All’improvviso sorrise con aria maliziosa. «Briciole di pane!» disse.
«Come, scusa?» chiese Richard.
Apri la finestrella sul retro della camera da letto che dava su uno spicchio di tegole e grondaie e sparse all’intorno le briciole. Per raggiungere la finestra era necessario mettersi in piedi sul letto di Richard.
«Ma non capisco» disse Richard.
«Certo che non capisci» convenne Porta. «Zitto, adesso.»
Un battere d’ali ed ecco la lucentezza cangiante rosso-grigioverde di un piccione. Si mise a beccare le briciole e Porta allungò la mano per afferrarlo. La osservò incuriosito, ma senza lamentarsi.
Si sedettero sul letto. Porta diede il piccione in mano a Richard, mentre lei gli legava un messaggio alla zampa utilizzando un elastico blu acceso che in precedenza era servito a tenere unite le bollette dell’energia elettrica.
Richard non era un reggi-piccioni particolarmente entusiasta.
«Non ne vedo la ragione» spiegò. «Voglio dire, non è un piccione viaggiatore. È solo un normalissimo piccione di Londra. Di quelli che cacano sulla statua di Lord Nelson.»
«Ecco fatto» disse Porta. Aveva le guance piene di escoriazioni e i capelli spettinati; spettinati, ma non arruffati. Gli tolse di mano il piccione e lo sollevò delicatamente, portandoselo all’altezza del viso. Lui inclinò la testa da un lato e ricambiò lo sguardo.
«D’accordo» disse, poi emise un suono che pareva il liquido gorgoglio tipico del linguaggio dei piccioni, «d’accordo Crrupll, vai a cercare il Marchese de Carabas. Hai capito?»
Il piccione le rispose con un altrettanto liquido gorgogliare.
«Bravo ragazzo! Ora ascolta, è molto importante, quindi faresti meglio a…»
Il piccione la interruppe con un borbottio di impazienza. «Scusa» disse Porta. «Certo che sai quello che fai.»
Portò il volatile alla finestra e lo lasciò andare.
Richard aveva osservato il tutto con un certo stupore. «Sai, pareva quasi che ti capisse» commentò mentre l’uccello rimpiccioliva nel cielo e spariva dietro a qualche tetto.
«Ma guarda» disse Porta. «E adesso aspettiamo.»
Si diresse alla libreria posta in un angolo della stanza da letto, trovò una copia di Mansfìeld Park che Richard non aveva mai saputo di possedere, e andò in salotto.
Richard la segui. Lei prese posto sul divano e apri il libro.
«Allora è un vezzeggiativo di Porzia?» chiese.
«Cosa?»
«Il tuo nome.»
«No.»
«Come si scrive?»
«P-o-r-t-a. Come quelle attraverso cui puoi passare.»
«Oh.» Doveva dire qualcosa, perciò aggiunse: «E che razza di nome è Porta?»
Lei lo guardò con i suoi occhi dallo strano colore e rispose, «E il mio nome.» Dopo di che tornò a Jane Austen.
Richard prese il telecomando e accese il televisore. Poi cambiò canale. Cambiò ancora. Sospirò, e cambiò di nuovo.
«Allora, cosa stiamo aspettando?»
Porta voltò pagina, senza alzare lo sguardo. «Una risposta.»
«Che tipo di risposta?»
Si strinse nelle spalle.
«Oh, non importa.»
In quel momento gli venne in mente che la ragazza aveva una pelle bianchissima, ora che si era ripulita di buona parte dello sporco e del sangue. Si chiese se il pallore fosse determinato da una malattia o dalla perdita di sangue. O se semplicemente non passasse molto tempo all’aria aperta. Forse è stata in prigione. Anche se sembrava un po’ troppo giovane per quello. Forse l’omaccione aveva detto la verità affermando che era pazza…
«Senti, quando sono arrivati quegli uomini…»
«Uomini?» negli occhi dallo strano colore passò un lampo.
«Croup e hmm, Vanderbilt.»
«Vandemar.» Riflette per un istante, poi annui. «Si, suppongo che li si possa chiamare uomini. Due braccia, due gambe e una testa ciascuno.»
Richard riprese il discorso. «Quando sono venuti qui, prima, tu dov ’eri?»
Lei si leccò il dito e voltò pagina. «Ero qui.»
«Ma…»
Smise di parlare, a corto di argomenti. Nell’appartamento non c’era neppure un buco dove avrebbe potuto nascondersi. Però dall’appartamento non era uscita. E tuttavia…
Si udì raspare e una figura scura corse rapida fuori dall’ammasso di videocassette che si trovavano sotto al televisore.
«Gesù!» disse Richard, lanciando il telecomando verso quell’ombra più forte che poteva. Si fracassò sulle videocassette con un gran botto. Della figura scura, nessuna traccia.
«Richard!» disse Porta.
«Va tutto bene» spiegò. «Penso fosse solo un ratto o qualcosa del genere.»
Gli lanciò uno sguardo furioso. «Certo che era un ratto! L’avrai spaventato, poverino!» Si guardò intorno, poi emise un sibilo basso e profondo fischiando tra gli incisivi. «Ehi?» chiamò. Si mise in ginocchio sul pavimento, Mansfìeld Park ormai dimenticato. «Ehi?»
Lanciò un’altra occhiataccia a Richard. «Se gli hai fatto del male» minacciò; poi, dolcemente, alla stanza, «Mi dispiace, è un idiota, ehi?»
«Non sono un idiota» disse Richard.
«Shh!» fece lei. «Ehi?»
Due occhietti neri spuntarono da sotto il divano. Segui anche il resto della testa, che sbirciò fuori con sospetto. Era decisamente troppo grosso per essere un topo, Richard ne era sicuro.
«Ciao!» disse Porta con calore. «Stai bene?»
Allungò la mano. L’animale ci sali sopra, arrampicandosi fino ad accoccolarsi in braccio alla ragazza, che gli accarezzò il fianco con le dita. Era marrone scuro, con una lunga coda rosa. Attaccato al fianco aveva qualcosa che pareva un pezzo di carta ripiegato.
«È un ratto» disse Richard, con la consapevolezza che ci sono occasioni in cui un uomo dovrebbe essere perdonato quando afferma qualcosa di ovvio.
«Si, è cosi. Sei pronto a chiedere scusa?»
«Come?»
«Chiedere scusa.»
Forse non aveva sentito bene. Forse era lui quello che stava diventando pazzo. «A un ratto?»
Porta non disse nulla, ed era un silenzio molto esplicito.
«Mi dispiace» disse Richard al ratto, con grande dignità, «se ti ho spaventato.»
Il ratto guardò Porta.
«No, lo pensa davvero» disse lei. «Non lo dice tanto per dire. Dunque, cosa mi porti?»
Armeggiò sul fianco del ratto e ne trasse un pezzette di carta marroncina piegato e ripiegato molte volte, che era stato legato con quello che a Richard parve proprio un elastico blu acceso.
Lo srotolò: un pezzo di carta marrone dai bordi irregolari, con sopra scritto qualcosa in una grafia molto sottile.
Lei lesse e annui. «Grazie» disse al ratto. «Apprezzo ciò che avete fatto per me.»
Questo sgambettò veloce sul divano, lanciò un’occhiataccia a Richard e in un attimo era già sparito nell’ombra.
La ragazza di nome Porta passò il foglietto a Richard. «Ecco» disse. «Leggi.»
Era tardo pomeriggio nel centro di Londra e, con l’autunno che volgeva al termine, era quasi buio. Richard aveva preso la metropolitana per Tottenham Court Road e ora stava camminando lungo Oxford Street diretto a ovest, il foglietto di carta ben stretto in mano.
«È un messaggio» gli disse allungandogli il bigliettino. «È del Marchese de Carabas.»
Richard era certo di avere già sentito quel nome. «Carino» commentò. «Cos’è, aveva finito le cartoline?»
«Cosi è più rapido.»
Superò le insegne luminose del Virgin Megastore, poi il negozio che come souvenir di Londra vendeva berretti da poliziotto e piccoli autobus rossi, poi il negozio dove vendevano la pizza al taglio, infine svoltò a destra…
«Devi attenerti alle indicazioni scritte qui. Cerca di non farti seguire da nessuno.» Quindi sospirò e aggiunse, «Davvero non ti dovrei coinvolgere fino a questo punto.»
«Se seguo le indicazioni… potrai andartene di qui più in fretta?»
«Si. »
In Hanway Street, una stradina stretta e buia, piena di malinconici negozi di dischi e di ristoranti chiusi, l’unica fonte di luce spioveva dai club privati al primo piano degli edifici. Ci passò sotto.
«’… Gira a destra in Hanway Street, poi a sinistra in Hanway Piace, quindi ancora a destra in Orme Passage. Al primo lampione che incontri ti fermi… ’ Sei sicura che sia giusto?»
«Si.»
Non ricordava di avere mai visto Orme Passage, anche se in Hanway Piace c’era già stato, perché li si trovava un ristorante indiano che piaceva molto a Garry dell’ufficio. Per quel che ne sapeva lui, Hanway Piace era una strada senza uscita.
Il Mandeer: ecco come si chiamava il ristorante. Superò la porta d’ingresso, i gradini che lo invitavano a scendere e a entrare, poi svoltò a sinistra…
Si era sbagliato. C’era davvero un Orme Passage. Poteva persino leggerne il relativo cartello stradale:
ORME PASSAGE W1
Non c’era da stupirsi se non l’aveva notato prima: si trattava di poco più che uno stretto corridoio tra i palazzi, illuminato da uno scoppiettante lampione a gas.
Non se ne trovano più molti di questi, pensò Richard, sollevando le sue istruzioni verso la luce per dare un’ultima controllatina.
«’Poi ruota su te stesso tre volte contro le lancette’?»
«Significa in senso antiorario, Richard. »
Ruotò, per tre volte, sentendosi uno stupido.
«Senti, perché devo fare tutto questo, solo per incontrare un tuo amico. Voglio dire, non ha senso…»
«Ne ha di senso, invece. Davvero. Fallo, giusto per accontentarmi, va bene?»
E gli aveva sorriso.
Smise di girare. Camminò fino al termine del corridoio. Niente. Un bidone della spazzatura di metallo e, accanto a esso, qualcosa che poteva essere una pila di stracci.
«Ehi?» disse Richard. «C’è nessuno? Sono l’amico di Porta. Ehi?»
No. Non c’era nessuno.
Richard si senti alquanto sollevato. Adesso poteva tornarsene a casa e spiegare alla ragazza che non era successo niente. Poi avrebbe chiamato le ’autorità competenti’, che avrebbero ’risolto tutto’.
Appallottolò il foglietto di carta e lo tirò verso il bidone.
Quella che Richard aveva preso per una pila di stracci abbandonati si dilatò e si alzò in piedi con un unico movimento fluido, e una mano afferrò al volo la pallina di carta.
«Credo appartenga a me» disse il Marchese de Carabas.
Indossava un trench molto ampio, alti stivali neri e abiti laceri. Gli occhi erano di un bianco incandescente nel viso scuro. Per un istante fece un sorriso a trentadue denti, come per una barzelletta tra sé e sé, quindi si inchinò davanti a Richard dicendo: «De Carabas, al tuo servizio, e tu sei…?»
«Hmm» disse Richard. «Be’, hmm.»
«Tu sei Richard Mayhew, il giovanotto che ha salvato la nostra povera Porta ferita. Come sta ora?»
«Be’, sta bene. Il braccio è ancora un po’…»
«Indubbiamente i suoi tempi di recupero stupiranno tutti noi. La sua famiglia ha sempre avuto questa straordinaria capacità. È sorprendente che qualcuno sia riuscito a ucciderli, non è vero?» L’uomo che diceva di chiamarsi Marchese de Carabas camminava nervosamente su e giù per la stradina. Era sempre in movimento.
«Qualcuno ha ucciso la famiglia di Porta?» domandò Richard.
«Non andremo molto avanti se non fai che ripetere tutto ciò che dico, ti pare?» disse il Marchese, che ora si trovava in piedi proprio di fronte a Richard. «Siediti» ordinò.
Richard si guardò intorno alla ricerca di qualcosa su cui sedersi. Il Marchese gli appoggiò una mano sulla spalla e lo mandò a conoscere da vicino l’acciottolato.
«Sa che non costo poco. Cosa mi offre esattamente?»
«Scusi?»
«Qual’è l’accordo? Ti ha mandato qui a negoziare, giovanotto. I miei servigi costano caro, e non do mai campioni omaggio.»
Richard si strinse nelle spalle, per quanto possibile nella posizione in cui si trovava. «Mi ha detto di dirle che vuole che la riporti a casa — ovunque essa sia — e le procuri una guardia del corpo.»
Anche quando il Marchese era immobile, gli occhi non smettevano di spostarsi da una parte all’altra. Su, giù, intorno, come stesse cercando qualcosa, pensando a qualcosa. Addizionando, sottraendo, valutando.
Richard si chiese se quell’uomo fosse del tutto sano di mente.
«E mi offre?»
«Be’, nulla.»
Il Marchese si soffiò sulle unghie e le lustrò sul risvolto del trench. Quindi voltò il capo. «Lei offre a me… nulla!» Sembrava offeso.
Richard si rimise in piedi aiutandosi con le mani. «Cioè, non ha parlato di denaro. Mi ha semplicemente detto che sarebbe stata in debito con voi di un favore.»
Gli occhi lampeggiarono. «Di che genere di favore, esattamente?»
«Uno davvero grande» rispose Richard. «Ha detto che sarebbe stata in debito di un favore molto, molto grande.»
De Carabas sogghignò come una tigre che ha appena individuato un contadinello sperduto. Quindi si rivolse a Richard. «E tu l’hai lasciata sola?» chiese. «Con Croup e Vandemar là fuori? Be’, cosa stai aspettando?»
Si chinò e da una tasca trasse un piccolo oggetto metallico. Lo infilò in un tombino alla fine della stradina e lo girò. Il coperchio del tombino venne sollevato facilmente; il Marchese rimise a posto l’oggetto metallico, e da un’altra tasca estrasse qualcosa che a Richard ricordò un po’ un fuoco d’artificio o una torcia.
Fece scorrere la mano lungo l’oggetto e a un’estremità esplose una fiammata rossastra.
«Posso fare una domanda?» chiese Richard.
«Certo che no» disse il Marchese. «Tu non fai domande. Tu non ricevi risposte. Tu non ti allontani dal sentiero. Tu non pensi neppure a quello che ti sta capitando in questo momento. Capito?»
«Ma…»
«E, più importante di tutto: niente ma. Ora, c’è una donzella da salvare» disse de Carabas. «E il tempo è essenziale. Muoviti!»
Richard si mosse, cominciando a scendere la scaletta di metallo posta nel muro al di sotto del tombino, sentendosi in acque cosi eccessivamente profonde per le sue possibilità da avere bisogno di un batiscafo per poter rivedere la superficie.
Richard si chiedeva dove fossero. Non sembrava una fogna. Forse era un tunnel per i cavi telefonici, o per treni di piccole dimensioni. O per… qualcosa. Si rese conto di non sapere molto riguardo a ciò che accadeva sotto i suoi piedi.
Procedeva nervosamente, preoccupato di infilare il piede da qualche parte, di incespicare nel buio rompendosi una caviglia. De Carabas camminava davanti a lui a grandi passi, con noncuranza, apparentemente non interessato che Richard lo seguisse oppure no.
La fiamma rossa creava ombre immense sui muri del tunnel.
Richard si mise a correre per non rimanere troppo indietro.
«Vediamo…» disse de Carabas. «È necessario che io l’accompagni al mercato. Il prossimo si terrà, hmm, tra due giorni, se ben mi ricordo, come peraltro faccio sempre. Fino a quel momento, la posso nascondere.»
«Mercato?» chiese Richard.
«Il Mercato Fluttuante. Ma non c’è bisogno che tu ne sia al corrente. Basta con le domande.»
Richard si guardò attorno. «Be’, stavo per chiederle dove fossimo. E immagino che si rifiuterà di dirmelo.»
Il Marchese sogghignò di nuovo. «Molto bene!» disse. «Sei già abbastanza nei guai.»
«Può proprio dirlo» sospirò Richard. «La mia fidanzata mi ha piantato, e con ogni probabilità dovrò comprare un telefono nuovo…»
«Per Temple e Arch! Un telefono è davvero l’ultimo dei tuoi problemi!»
De Carabas appoggiò la torcia a terra, dove continuò a sfrigolare e fiammeggiare, e prese ad arrampicarsi su dei pioli di metallo infissi nel muro.
Richard esitò, poi lo segui.
I pioli erano freddi e arrugginiti. Mentre saliva gli si sgretolavano sotto le mani in grossi pezzi, e frammenti ragginosi gli entravano negli occhi e in bocca.
La luce scarlatta sotto di lui tremolava, poi si spense. Stavano salendo nella più assoluta oscurità.
«Allora, torniamo da Porta?»
«Alla fine. Prima devo organizzare qualche cosetta. Un’assicurazione. E quando entriamo nella luce del giorno, non guardare in basso.»
«Perché no?» chiese Richard.
In quel momento la luce del giorno gli colpi il viso; e lui guardò giù.
Era giorno (Come era possibile che fosse giorno? chiese una vocino da un angolo remoto del suo cervello. Era quasi notte nel momento in cui era entrato nel vicolo, quando, un ’ora prima?), e si teneva stretto a una scaletta di metallo che si inerpicava sul lato esterno di un edificio molto alto (ma qualche secondo prima stava salendo la stessa scala che, però, si trovava all’interno, non è vero?), e sotto di lui poté vedere…
Londra.
Automobili minuscole. Autobus e taxi minuscoli. Minuscoli edifici. Alberi. Camion in miniatura. Persone piccole, piccole, piccole. Per un istante erano a fuoco, poi scivolavano via sfocate, molto sotto di lui.
Dire che Richard non fosse particolarmente portato per l’altezza sarebbe senz’altro corretto, ma non darebbe il quadro completo della situazione. Sarebbe come affermare che il pianeta Giove è più grande di una papera. Indubbiamente vero, ma un pochino limitativo.
Odiava la cima di rupi e scogliere, e i palazzi alti: da qualche parte dentro di lui era insita la paura che un giorno si sarebbe ritrovato a camminare sul crinale di una scogliera e avrebbe semplicemente fatto un passo nel nulla.
Richard si bloccò. Le mani si avvinghiarono ai pioli. Gli facevano male gli occhi, in fondo, dietro al globo oculare. Cominciò a respirare troppo in fretta, troppo a fondo.
«Qualcuno» disse una voce divertita sopra di lui «non stava ascoltando, vero?»
«Io…» La gola di Richard era fuori uso. Deglutì, ammorbidendola. «Non riesco a muovermi.» Gli sudavano le mani. E se avessero sudato tanto da farlo semplicemente scivolare nel vuoto…
«Certo che riesci a muoverti. Altrimenti, puoi rimanere li appollaiato contro il muro finché ti si gelano le mani, ti cedono le gambe e precipiti, per andare a morire spiaccicato qualche centinaio di metri più sotto.»
Richard alzò lo sguardo verso il Marchese, che guardava in giù verso Richard e continuava a sorridere. Quando si accorse di essere osservato lasciò la presa di entrambe le mani e agitò le dita nella sua direzione.
Di riflesso, Richard fu preda di un’attacco di vertigini soltanto a vederlo.
«Bastardo» disse sottovoce, ma staccò la mano destra dal piolo e la sollevò di una trentina di centimetri andando a trovare il piolo successivo. Quindi, spostò di un gradino anche la gamba destra.
Poi ripeté l’operazione con la mano sinistra.
Dopo un po’ si trovò sul limitare di un tetto piatto: ci sali e si accasciò.
Era consapevole del fatto che il Marchese si stava allontanando a grandi passi lungo il tetto. Richard si nascose il viso tra le mani e avverti la struttura solida sotto di lui. Il cuore gli batteva forte nel petto.
Una voce roca disse: «La tua presenza non è gradita, de Carabas. Vattene via. Fuori dai piedi!»
«Old Bailey» senti che diceva de Carabas. «Hai un aspetto meraviglioso. Sei in piena salute.»
Poi dei passi strascicati verso di lui, e un dito che lo pungolava con delicatezza tra le costole. «Stai bene, ragazzo? Sto cuocendo dello stufato qui dietro. Ne vuoi un po’? È corvo.»
Richard apri gli occhi. «No, grazie» rispose.
Per prima cosa vide le piume. Non sapeva se si trattasse di un soprabito, di una cappa o di chissà che, ma qualunque cosa fosse quel capo di abbigliamento, era ricoperto di penne. Da tutto quel piumaggio spuntava una faccia, gentile e rugosa. Dove non era coperto di piume, il corpo appariva avvolto a destra e a sinistra da funi. Richard si scopri a ricordare una rappresentazione di Robinson Crusoe a cui aveva assistito da bambino: questo era Robinson Crusoe, se avesse fatto naufragio in cima a un tetto invece che su un’isola deserta.
«Mi chiamano Old Bailey, ragazzo» disse l’uomo Robinson Crusoe. Armeggiò alla ricerca di un paio di occhiali, che teneva appesi al collo con uno spago, li inforcò, e attraverso di essi scrutò Richard. «Non ti riconosco. A quale baronia serbi fedeltà? Qual’è il tuo nome?»
Richard si mise seduto. Sul lato opposto del tetto c’era qualcosa che pareva una tenda. Una vecchia tenda marrone, molto rammendata e punteggiata di bianco dagli escrementi degli uccelli.
«Taci!» disse il Marchese de Carabas. «Non dire un’altra parola.» Quindi si rivolse a Old Bailey. «Chi mette il naso dove non dovrebbe a volte…» fece schioccare rumorosamente le dita sotto il naso del vecchio, che sobbalzò «… lo perde. Ora, tu mi devi un favore da vent’anni, Old Bailey. Un grosso favore. È tempo che lo riscuota.»
Il vecchio lo guardò di sottecchi. «Sono stato un pazzo» disse piano.
«Non c’è pazzo più pazzo di un vecchio pazzo» confermò il Marchese. Si infilò la mano in una delle tasche interne del trench e ne trasse una scatolina d’argento, più grande di una tabacchiera, più piccola di una scatola per sigari e più riccamente decorata di entrambe. «Sai di cosa si tratta?»
«Vorrei non saperlo.»
«La terrai al sicuro per me.»
«Non voglio.»
«Non hai scelta» disse il Marchese de Carabas. Quindi diede un colpetto a Richard con la punta quadrata di uno stivale. «Bene» disse. «È meglio che ci diamo una mossa, ti pare?»
Attraversò il tetto a grandi passi, con Richard che lo seguiva tenendosi ben lontano dalla facciata del palazzo. Il Marchese apri una porta e cominciarono a scendere per una scala a chiocciola male illuminata.
«Chi era quell’uomo?»
I passi risuonavano sulle scale nella luce fioca.
«Non hai ascoltato una parola di quello che ho detto, vero? Sei già nei guai. Ogni cosa che fai, ogni cosa che dici, ogni cosa che senti, non fa che peggiorare la situazione. Faresti meglio a pregare di non esserti spinto troppo oltre.»
Richard piegò la testa da un lato. «Mi scusi» disse. «So che questa è una domanda indiscreta, ma lei, per caso, è clinicamente pazzo?»
«Possibile, ma assai improbabile. Perché?»
«Be’,» ribatté Richard «uno di noi deve esserlo per forza.»
Si trovavano ora nel buio più assoluto, e Richard inciampò leggermente mentre raggiungeva l’ultimo scalino, alla ricerca di un ulteriore inesistente gradino.
«Attento alla testa» disse il Marchese, e apri una porta mentre Richard batteva la fronte contro qualcosa e usciva, riparandosi gli occhi dalla luce.
Richard si strofinò la fronte. Poi si strofinò gli occhi. La porta che avevano appena attraversato era quella dello stanzino delle scope sulle scale del palazzo in cui abitava.
Il Marchese stava esaminando il volantino dell’AVETE VISTO QUESTA RAGAZZA? attaccato accanto alla porta di Richard.
«Non il suo lato migliore» commentò.
Quindi Richard apri la porta d’ingresso, ed eccolo a casa. Era, gli fece piacere notare attraverso le finestre, un’altra volta notte.
«Richard!» esclamò Porta. «Ce l’hai fatta!»
Mentre lui era fuori, si era lavata, e l’aspetto degli strati di abiti dava l’idea che si fosse sforzata di eliminare sporco e sangue anche da li. Su viso e mani non c’era più traccia di sudiciume. Richard si chiese quanti anni avesse: quindici? sedici? di più? Non era comunque in grado di dirlo.
Aveva indossato la giacca di pelle che portava quando l’aveva trovata: un’enorme cosa marrone che somigliava a un vecchio giaccone da aviatore e che in qualche modo la faceva sembrare più piccola di quanto fosse in realtà, e anche più vulnerabile.
«Be’, si» disse Richard.
Il Marchese de Carabas appoggiò un ginocchio a terra davanti alla ragazza, chinò il capo e disse, «Mia signora.»
Lei pareva a disagio.
«Oh, alzati, de Carabas. Sono lieta che tu sia venuto.»
Si rialzò con un unico, armonioso movimento. «Mi è dato di capire» disse «che sono state pronunciate le parole favore, molto e grande. Congiuntamente.»
«Più tardi.» Andò da Richard e gli prese le mani. «Richard. Grazie. Ti sono davvero molto grata per tutto quello che hai fatto. Ti ho cambiato le lenzuola nel letto. E vorrei tanto ci fosse un modo per poterti ripagare.»
«Te ne vai?»
Annui. «Sono al sicuro adesso. Più o meno. Spero. Per un po’.»
«E dove vai?»
Gli sorrise dolcemente e scosse il capo. «Ah-ah. Sono uscita dalla tua vita. E tu sei stato meraviglioso.»
Si alzò sulla punta dei piedi e lo baciò sulla guancia.
«Se mai avessi bisogno di mettermi in contatto con te…?»
«Non ne avrai. Mai. E…» poi fece una pausa. «Senti, mi dispiace, d’accordo?»
Richard si controllò i piedi, con aria imbarazzata. «Non c’è nulla di cui dispiacersi» disse, e aggiunse incerto: «È stato divertente.»
Quindi alzò gli occhi.
Ma non c’era più nessuno.
TRE
Domenica mattina Richard prese dal cassetto in fondo all’armadio il telefono a forma di Bat-mobile che gli aveva regalato zia Maude un Natale di qualche anno prima, e lo inserì nella presa.
Provò a telefonare a Jessica, ma senza successo. La sua segreteria telefonica era spenta, e cosi anche il telefonino. Probabilmente era andata in campagna a casa dei suoi genitori.
I genitori di Richard erano morti entrambi. Suo padre era deceduto all’improvviso quando Richard era ancora un ragazzo, per un infarto. E da quel momento sua madre aveva iniziato a morire piano piano, cosicché quando Richard se ne era andato da casa si era semplicemente spenta: sei mesi dopo essersi trasferito a Londra aveva ripreso il vagone letto per la Scozia e aveva trascorso gli ultimi due giorni in ospedale, seduto accanto al suo capezzale. A volte lo riconosceva, altre volte lo chiamava con il nome di suo padre.
Richard si sedette sul divano a rimuginare. I fatti dei due giorni precedenti diventavano sempre meno reali, sempre meno verosimili. A essere reale restava il messaggio lasciato da Jessica nella sua segreteria. Lo ascoltò e lo riascoltò, quella domenica, sperando ogni volta che si addolcisse, che nella sua voce apparisse un po’ di calore. Non accadde.
Pensò di uscire a comprare il giornale, poi decise di non farlo. Arnold Stockton, il capo di Jessica, una caricatura di uomo dai molti menti che si era fatto da sé, era il propietario dei giornali della domenica che non appartenevano a Rupert Murdoch. I suoi giornali parlavano di lui. E anche gli altri.
Invece, si fece un bel bagno caldo, ingurgitò parecchi panini e numerose tazze di tè. Per un po’ guardò la televisione e si costruì delle conversazioni immaginarie con Jessica.
Alla fine di ogni dialogo mentale facevano l’amore in modo selvaggio, rabbioso, appassionato e solcato di lacrime; dopo di che tutto era di nuovo a posto.
Lunedì mattina la sveglia di Richard non suonò. Si precipitò in strada alle nove meno dieci, la valigetta che ondeggiava furiosamente, e si mise a guardare di qua e di là come un folle, alla ricerca di un taxi.
Poi sospirò di sollievo, perché una grossa auto nera era entrata nella sua via e si dirigeva proprio verso di lui, con la scritta gialla TAXI in brillante evidenza. Agitò la mano.
«Taxi!»
Il taxi lo superò lentamente, ignorandolo, svoltò l’angolo e sparì.
Un altro taxi. Un’altra luce gialla a indicare che era libero. Questa volta Richard si mise a fare segnali in mezzo alla carreggiata.
Sterzò per superarlo e continuò per la sua strada.
Richard cominciò a imprecare sottovoce.
A quel punto si diresse di corsa verso la stazione della metropolitana più vicina.
Si tolse di tasca una manciata di monete, colpi con rabbia il pulsante della macchinetta dei biglietti per ottenerne uno di sola andata per Charing Cross, e infilò le monete nella feritoia.
Ogni moneta che inseriva scendeva dritta attraverso le viscere della macchina, per precipitare rumorosamente nel cassettino sul fondo. Non apparve alcun biglietto.
Tentò con un altro distributore. E con un altro ancora.
L’uomo addetto alla vendita dei biglietti era al telefono quando Richard si rivolse a lui per lamentarsi e acquistare direttamente quello che gli serviva; e a dispetto — o forse a causa — delle grida di Richard e del suo disperato picchiettare con una moneta sulla barriera di plexiglass, se ne rimase risolutamente a chiacchierare.
«Fanculo» annunciò Richard, saltando la barriera.
Nessuno lo fermò.
Nessuno parve interessato.
Scese le scale correndo, sudato e ansimante, e arrivò sulla banchina affollata proprio mentre arrivava un treno.
Da bambino, Richard aveva sofferto di incubi in cui semplicemente non esisteva. Non importava quanto rumore o cosa facesse, nessuno si accorgeva di lui.
Cominciò a sentirsi cosi anche in quel momento, mentre davanti a lui la gente si spintonava; venne preso a gomitate dalla folla, spinto di qua e di là da chi scendeva e da chi saliva.
Insistette, spingendo e sgomitando a sua volta, ed era quasi riuscito a salire — aveva già un braccio sul treno — quando le porte cominciarono a chiudersi sibilando. Ritirò la mano, ma la manica del soprabito rimase incastrata.
Richard si mise a prendere a pugni la porta e a gridare, aspettandosi almeno che il guidatore aprisse quel tanto che bastava a liberargli la manica. Invece il treno cominciò a muoversi e Richard fu costretto a correre sulla banchina, inciampando, sempre più veloce.
Lasciò cadere la valigetta e prese a tirare disperatamente la manica con la mano libera.
La manica si strappò e lui cadde in avanti, spellandosi le mani e lacerandosi i pantaloni all’altezza del ginocchio.
Con qualche difficoltà si rimise in piedi, ripercorse la banchina e recuperò la valigetta.
Guardò la manica strappata, la mano escoriata e i pantaloni bucati.
Poi risali le scale e lasciò la stazione della metropolitana. Nessuno gli chiese il biglietto neppure all’uscita.
«Mi dispiace, sono in ritardo» disse Richard a nessuno in particolare.
L’orologio sul muro dell’ufficio diceva che erano le dieci e mezzo.
Lasciò cadere la valigetta sulla sedia e si asciugò il sudore dal viso con il fazzoletto.
«Non potete immaginare cos’è stato arrivare qui» continuò. «Un vero incubo.»
Abbassò gli occhi sulla sua scrivania. Mancava qualcosa. O, per essere più precisi, mancava tutto.
«Dove sono le mie cose?» chiese alla stanza, alzando leggermente la voce. «Dove sono i miei telefoni? Dove sono i miei troll?»
Controllò nei cassetti. Vuoti anche quelli: neppure la carta di un Mars o una graffetta piegata a indicare che Richard fosse mai stato li.
Sylvia stava arrivando verso di lui, in conversazione con due gentiluomini piuttosto robusti. Richard le andò incontro.
«Sylvia? Cosa sta succedendo?»
«Mi scusi?» disse lei educatamente. Indicò la scrivania ai due signori nerboruti che la sollevarono uno da un lato e uno dall’altro e iniziarono a trasportarla fuori dall’ufficio.
«La mia scrivania. Dove la portano?»
Sylvia lo guardò fisso, lievemente perplessa. «E lei è…?»
Non so che farmene di questa merda, pensò Richard. «Richard» rispose sarcastico. «Richard Mayhew.»
«Salve» disse Sylvia. Quindi la sua attenzione scivolò su Richard come l’acqua sulle penne di un’anatra e disse, «No! Non là!» ai traslocatori, e si mise a rincorrerli mentre portavano via la scrivania.
La guardò andarsene. Poi attraversò l’ufficio e raggiunse la scrivania di Garry.
«Garry. Che succede? È uno scherzo o cosa?»
Garry si guardò intorno, come se avesse sentito un rumore. Quindi scosse il capo, sollevò il ricevitore del telefono e iniziò a comporre un numero.
Richard sbatté la mano sul telefono, interrompendo la comunicazione. «Guarda che non è divertente, Garry. Non so a che gioco stiate giocando, tutti voi!» Garry alzò lo sguardo su di lui. Richard continuò, «Se sono stato licenziato, basta che me lo diciate, ma questo far finta che io non sia qui…»
A quel punto Garry sorrise e disse, «Salve. Si, sono Garry Perunu. Posso esserle di aiuto?»
«Non penso proprio» rispose Richard con freddezza, e se ne andò dall’ufficio, lasciando la valigetta dietro di sé.
L’ufficio di Richard si trovava al terzo piano di un grande edifìcio piuttosto vecchio e pieno di correnti d’aria, a pochi passi dallo Strand.
Jessica lavorava circa a metà altezza di una grande struttura di specchi e cristallo nella City di Londra, quindici minuti a piedi in fondo alla strada.
Richard camminò fino in fondo alla strada.
Arrivò al palazzo Stockton in dieci minuti, superò di slancio le guardie di sicurezza in uniforme di servizio al piano terra, entrò in ascensore e sali.
L’interno dell’ascensore era pieno di specchi, e mentre saliva osservò la propria immagine riflessa. Aveva la cravatta mezza slacciata e di sghimbescio, il soprabito strappato e i pantaloni bucati, e i capelli erano un informe ammasso sudaticcio… Signore, aveva un aspetto tremendo.
Si udì un suono flautato e la porta dell’ascensore si apri.
Il piano del palazzo Stockton dove lavorava Jessica era decisamente opulento, in una sorta di stile minimalista.
Accanto all’ascensore c’era una receptionist, una creatura posata ed elegante il cui stipendio netto aveva tutta l’aria di superare alla grande quello di Richard. Stava leggendo Cosmopolitan. All’avvicinarsi di Richard non sollevò neppure lo sguardo.
«Ho bisogno di parlare con Jessica Bartram» disse Richard. «È importante. Le devo parlare.»
La receptionist lo ignorò.
Segui il corridoio fino a raggiungere l’ufficio di Jessica. Apri la porta ed entrò. Era in piedi davanti a tre grandi manifesti, che pubblicizzavano «Angeli sull’Inghilterra — Una mostra itinerante» e recavano ognuno una diversa immagine di angeli. Mentre lui entrava si voltò e gli sorrise con calore.
«Jessica. Grazie a Dio! Senti, credo di stare impazzendo o qualcosa di simile. È iniziato tutto stamattina quando non riuscivo a prendere il taxi, poi l’ufficio e la metropolitana e…» Le mostrò la manica strappata. «È come se fossi diventato una specie di nonpersona.»
Lei gli sorrise di nuovo, con aria rassicurante.
«Senti» disse Richard. «Mi dispiace per l’altra sera. Cioè, non per quello che ho fatto ma per averti causato dei fastidi e… guarda, mi dispiace tanto, è roba da matti e onestamente non so proprio cosa fare.»
E Jessica annui, continuando a sorridere, poi disse, «Lei penserà che sono una persona orribile, ma ho davvero una pessima memoria per le facce. Mi dia un secondo e ci arrivo.»
A quel punto Richard ebbe la conferma che era tutto vero. Che qualunque pazzia si stesse verificando quel giorno stava accadendo sul serio.
«Non importa» disse. «Lascia perdere.»
E se ne andò, fuori dalla porta e lungo il corridoio. Era quasi arrivato all’ascensore quando si senti chiamare.
«Richard!»
Si voltò. Ma allora era uno scherzo. Una specie di meschina vendetta. Qualcosa di spiegabile.
«Richard… Maybury?» Pareva orgogliosa di sé per essersi ricordata tanto.
«Mayhew» disse Richard, e si infilò in ascensore, le cui porte cantarono un triste trillo di flauto mentre si chiudevano dietro di lui.
Richard ritornò a casa a piedi, sconvolto, confuso e arrabbiato. Qualche volta aveva provato a fare cenno a un taxi, ma senza la concreta speranza che si fermasse e, infatti, nessuno lo fece.
Gli facevano male i piedi e gli bruciavano gli occhi, e sapeva che presto si sarebbe risvegliato da quell’oggi e che un lunedì come si deve, un lunedì sensato, un rispettabile, onesto lunedì qualunque sarebbe finalmente cominciato.
Riempi la vasca di acqua calda, abbandonò i vestiti sul letto e entrò nel bagno.
Si era quasi assopito quando udi una chiave girare nella toppa, una porta aprirsi e richiudersi, e una armoniosa voce maschile che diceva:
«Naturalmente siete i primi a vederlo oggi, ma ho una lista di persone interessate lunga come il mio braccio.»
«Non è grande come mi aspettavo dalla descrizione» disse una donna.
«Si, è compatto. Ma mi piace pensare che sia un pregio.»
Richard non si era preoccupato di chiudere a chiave la porta del bagno. Dopo tutto era l’unico abitante dell’appartamento.
Un’altra voce maschile più roca e sgarbata borbottò, «Credevo avesse detto che l’appartamento era vuoto. A me questo pare piuttosto ammobiliato.»
«L’affittuario precedente deve avere lasciato qui parte del suo equipaggiamento. Non ero a conoscenza della cosa.»
Richard si alzò in piedi nella vasca. Poi, dato che era nudo e quelle persone potevano entrare in qualunque momento, si rimise a sedere. Quindi, quasi in preda alla disperazione, si guardò intorno alla ricerca di un asciugamano.
«Oh, guarda, George» disse la donna nel corridoio. «Qualcuno ha lasciato un asciugamano su questa sedia.»
Richard prese in considerazione, e respinse, come modesti sostituti di un asciugamano una spugna loofah, una bottiglia di shampo mezza vuota e una paperella di plastica gialla.
«Com’è il bagno?» chiese la donna.
Richard afferrò la pezzuola per lavarsi il viso e se la drappeggiò davanti all’inguine. Quindi si alzò, la schiena appoggiata contro il muro, preparandosi a sentirsi ignominosamente imbarazzato.
La porta venne spalancata, e i tre entrarono nel bagno: un giovane con cappotto di pelo di cammello e una coppia di mezza età. Richard si chiese se fossero imbarazzati quanto lui.
«È un po’ piccolo» disse la donna.
«Compatto» corresse il cappotto di pelo di cammello, con tono suadente. «Comodo da tenere in ordine.»
La donna passò il dito lungo il bordo del lavandino e arricciò il naso.
«Credo che abbiamo visto quello che c’era da vedere» disse l’uomo di mezza età.
Uscirono dal bagno.
«Sarebbe molto pratico per tutto» disse la donna. La conversazione prosegui a voce più bassa.
Richard scavalcò il bordo della vasca e avanzò lentamente fino alla porta. Individuò l’asciugamano sulla sedia in corridoio, allungò un braccio e lo afferrò.
«Lo prendiamo» disse la donna.
«Lo prendete?» disse il cappotto di pelo di cammello.
«È proprio quello che vogliamo» spiegò lei. «O lo sarà, dopo che lo avremo fatto diventare accogliente. Sarà pronto per mercoledi?»
«Naturalmente. Faremo portare via tutta questa robaccia domani, nessun problema.»
Dalla soglia del bagno, Richard, infreddolito, sgocciolante e avvolto nell’asciugamano, lanciò uno sguardo furioso.
«Non è robaccia» disse. «Sono le mie cose.»
«Allora passeremo a prendere le chiavi nel vostro ufficio.»
«Scusatemi» disse Richard. «Qui ci abito io.»
Mentre si dirigevano verso la porta d’ingresso, superarono Richard con uno spintone.
«Non mi… nessuno di voi mi sente? Questo è il mio appartamento. Io vivo qui.»
«Se mi può spedire il contratto via fax in ufficio per i dettagli…» disse l’uomo scortese, poi la porta si chiuse con forza dietro di loro, e Richard si ritrovò nel corridoio di quello che era il suo appartamento a tremare, nel silenzio, per il freddo.
«Questo» annunciò al mondo, in aperto contrasto con le prove fornite dai suoi sensi, «non sta accadendo.»
Il Bat-telefono squillò e i fari lampeggiarono. Richard sollevò il ricevitore con circospezione.
«Pronto?»
La linea era disturbata, piena di sibili e di crepitii come se la chiamata provenisse da molto, molto lontano. La voce all’altro capo del filo non aveva un tono familiare.
«Signor Mayhew?» disse. «Il signor Richard Mayhew?»
«Si» rispose. E poi, felicissimo, «Riesce a sentirmi! Oh, grazie al cielo. Chi parla?»
«Il mio socio e io ci siamo incontrati con lei sabato, signor Mayhew. Stavo chiedendo informazioni riguardo al luogo dove si trovava una certa giovane signora. Si ricorda?» L’inflessione era untuosa, sgradevole, volpina.
«Oh. Si. È lei.»
«Signor Mayhew. Ci ha detto che Porta non era con lei. Abbiamo ragione di credere che stesse imbellettando la verità probabilmente più del dovuto.»
«Be’, lei ha detto di essere suo fratello.»
«Tutti gli uomini sono fratelli, signor Mayhew.»
«Non è più qui. E non so dove sia.»
«Lo sappiamo, signor Mayhew. Siamo perfettamente a conoscenza di entrambi questi fatti. E per essere eminentemente sincero, signor Mayhew — e sono certo che lei desidera che io sia sincero, giusto? — se fossi in lei non mi preoccuperei più della giovane signora. I suoi giorni sono contati, e il numero in questione non è neppure in doppia cifra.»
«Senta, perché mi ha chiamato?»
«Signor Mayhew,» disse mister Croup con aria servizievole «sa che sapore ha il suo stesso fegato?»
Richard non rispose.
«Perché mister Vandemar mi ha promesso che glielo strapperà lui personalmente e glielo infilerà in bocca prima di tagliarle la sua piccola gola triste. Cosi potrà scoprirlo, non le pare?»
«Chiamo la polizia. Non potete minacciarmi a questo modo.»
«Signor Mayhew. Lei può chiamare chi crede. Ma odio l’idea che possa pensare che la stiamo minacciando. Né io né mister Vandemar facciamo minacce, non è vero mister Vandemar?»
«No? E allora cosa diavolo state facendo?»
«Stiamo facendo una promessa» disse mister Croup in mezzo alle scariche elettrostatiche, all’eco e ai sibili. «E sappiamo dove abita.»
Detto questo riagganciò.
Richard teneva stretto in mano il Bat-telefono, lo guardò, poi premette violentemente il pulsante del numero nove per tre volte.
«Servizio emergenze. Come posso aiutarla?»
«Può passarmi la polizia, per favore? Un uomo ha appena minacciato di uccidermi, e non credo stesse scherzando.»
Segui una pausa. Sperò di essere stato messo in contatto con la polizia. Dopo qualche istante la voce disse, «Servizio emergenze. Pronto? C’è nessuno in linea? Pronto?»
Allora Richard riappoggiò il Bat-telefono sul tavolino, andò in camera da letto e si vesti, perché aveva freddo, era nudo e spaventato, e proprio non aveva alternative.
Tolse la borsa sportiva nera di sotto il letto e ci infilò dei calzini. Mutande. Qualche maglietta. Il passaporto. Il portafogli.
Indossava jeans, scarpe da ginnastica e un maglione pesante.
Si ricordò del modo in cui la ragazza di nome Porta gli aveva detto addio. Il modo in cui aveva esitato. Il modo in cui aveva detto che le dispiaceva…
«Lo sapevi» disse all’appartamento vuoto. «Tu sapevi che sarebbe successo questo.»
Andò in cucina, prese della frutta dalla ciotola e la mise nella borsa. Poi la chiuse con la cerniera e usci nella strada buia.
Il bancomat gli prese la carta con un VITT.
DIGITARE IL CODICE SEGRETO, disse.
Richard digitò il suo numero di identificazione.
Lo schermo diventò bianco. Poi disse, attendere prego.
Schermo vuoto. Da qualche parte nelle profondità della macchina qualcosa brontolava e borbottava.
CARTA NON VALIDA. CONTATTARE LA PROPRIA BANCA.
Si udi un clung e la carta usci di nuovo.
«Può darmi qualcosa?» disse una flebile voce alle sue spalle.
Richard allungò all’uomo la carta del bancomat.
«Ecco» disse. «Tieni. Ci sono circa millecinquecento sterline sul conto, se riesci a fartele dare.»
L’uomo, che era alto e magro, e aveva una disordinata barba biondastra e le mani nere per la vita di strada, prese la carta del bancomat, la guardò, la rigirò e disse, con voce piatta, «Grazie. Con questa e sessanta pence mi prendo una bella tazza di caffè.» E restituì la carta a Richard.
Richard sollevò da terra la borsa, poi si voltò verso l’uomo e gli disse, «Aspetta un momento. Tu mi vedi.»
«Non c’è niente che non va nei miei occhi» fece l’uomo.
«Senti,» disse Richard «hai mai sentito parlare di un posto che si chiama ’Il Mercato Fluttuante’? Devo trovarlo. C’è una ragazza di nome Porta…»
Ma l’uomo stava indietreggiando nervosamente, allontanandosi da lui.
«Guarda, ho davvero bisogno di aiuto» disse Richard. «Per favore!»
L’uomo lo guardò fisso.
Richard sospirò. «D’accordo» disse. «Scusa se ti ho disturbato.»
Gli voltò le spalle e, afferrando la maniglia della borsa con entrambe le mani per impedire che tremassero, cominciò a percorrere High Street.
«Ehi» sibilò l’uomo.
Richard lo guardò. Gli stava facendo cenno di avvicinarsi.
«Vieni, vieni qui, presto!»
L’uomo si mise a scendere velocemente alcuni gradini a lato della strada — gradini disseminati di rifiuti, del tipo che portano ad appartamenti vuoti e trascurati in un seminterrato. Richard gli incespicò dietro. Ai piedi della scala c’era una porta. L’uomo spinse per aprirla, attese che anche Richard entrasse, e la richiuse dietro di sé.
Oltre la porta, si trovarono immersi nell’oscurità.
Uno scricchiolio e il rumore di un fiammifero che prende vita. L’uomo lo accostò allo stoppino di una vecchia lampada da ferroviere, che si accese, illuminando leggermente meno di quanto avesse fatto il fiammifero, poi si avviarono insieme in quel luogo tenebroso.
C’era puzza di muffa, di umido e di mattoni vecchi, di marcio e di buio.
«Dove siamo?» sussurrò Richard.
La sua guida lo zitti.
Giunsero a un’altra porta in un muro.
L’uomo bussò ritmicamente. Ci fu un momento di pausa.
La porta si spalancò.
Per un attimo Richard rimase accecato dalla luce improvvisa. Si trovava in un’enorme stanza a vòlte, un salone sotterraneo, pieno di fumo e di luce. Piccoli fuochi ardevano per tutta la stanza. Persone dalla forma indistinta stavano accanto alle fiamme, arrostendo piccoli animali su degli spiedi. La gente si affrettava da un falò all’altro.
Gli ricordava l’inferno. 0 meglio, il modo in cui si immaginava l’inferno quando era ragazzino
Il fumo gli raschiò la gola, e tossì.
Un centinaio di occhi lo fissarono. Un centinaio di occhi imperturbabili e poco amichevoli.
Un uomo si diresse verso di loro a passi rapidi. Aveva i capelli lunghi e una barba irregolare, e a Richard parve che i suoi abiti laceri fossero decorati di pelliccia — di pelo arancione, bianco e nero, come il manto di un gatto. Era alto, ma camminava curvo, le mani sul petto.
«Cosa? Cos’è? Cos’è questo?» chiese alla guida di Richard. «Chi ci hai portato, Iliaster? Parla-parla-parla.»
«Viene da Sopra» rispose la guida. (Iliaster? pensò Richard).
«Domandava di Lady Porta. E del Mercato Fluttuante. Gliel’ho portato, Lord Parla-coi-Ratti. Pensavo avreste saputo cosa farne.»
Adesso intorno a loro c’era oltre una dozzina di persone decorate di pelliccia. C’erano uomini e donne, e anche qualche bambino. Si spostavano a ondate: momenti di immobilità seguiti da corse precipitose.
Lord Parla-coi-Ratti mise la mano all’interno dei suoi stracci impellicciati e ne trasse una scheggia di vetro lunga circa venti centimetri e dall’aria pericolosa. Della pelliccia mal conservata era stata avvolta intorno alla metà inferiore della scheggia a formare una sorta di impugnatura improvvisata.
La luce dei falò rifulse dalla lama di vetro.
Lord Parla-coi-Ratti appoggiò il frammento tagliente contro la gola di Richard.
«Oh, si. Si-si-si» cinguettò. «So esattamente cosa farne.»
QUATTRO
Mister Croup e mister Vandemar avevano installato la propria abitazione nelle cantine di un ospedale vittoriano chiuso dieci anni prima per i tagli al bilancio del servizio sanitario nazionale.
Gli imprenditori interessati allo sviluppo della zona, che avevano annunciato l’intenzione di trasformare la costruzione in un incomparabile caseggiato formato da alloggi di gran lusso, erano svaniti uno a uno non appena l’ospedale era stato chiuso, e cosi se ne stava là anno dopo anno, grigio, vuoto e indesiderato, con assi inchiodate alle finestre e lucchetti alle porte.
Il tetto era in pessimo stato e la pioggia colava all’interno dell’ospedale vuoto, propagando umidità e putridume in tutto l’edificio.
La struttura era stata disposta intorno a un pozzo centrale che lasciava entrare una luce grigia e ostile.
Il mondo dei seminterrati al di sotto dei reparti deserti comprendeva oltre un centinaio di stanzette, alcune vuote, altre contenenti attrezzature sanitarie abbandonate. In una stanza c’era una tozza e gigantesca caldaia di metallo. Nella successiva si trovavano servizi igienici e docce bloccati e privi di acqua. Il pavimento di questi seminterrati era in gran parte ricoperto da un sottile strato di acqua piovana mista a olio, che rifletteva oscurità e decadimento verso il soffitto marcio.
Scendendo le scale dell’ospedale fino a dove era possibile arrivare, attraversati i locali con le docce deserte, superate le toilettes del personale, oltrepassate le stanze piene di vetri rotti in cui il soffitto era completamente crollato, creando un’apertura verso la tromba delle scale che stava al di sopra, si giungeva a una piccola scaletta di ferro. E scendendo anche quei gradini, superando la zona paludosa in fondo alla scala e attraversando una porta di legno mezza marcia, ci si ritrovava nello scantinato, una stanza enorme in cui per centoventi anni il materiale di scarto dell’ospedale era stato accumulato, abbandonato e dimenticato; ed era là che mister Croup e mister Vandemar avevano per il momento stabilito la propria dimora.
I muri erano umidi, e dal soffitto colava acqua. Negli angoli si stavano lentamente decomponendo le cose più strane, alcune delle quali un tempo erano state vive.
Mister Croup e mister Vandemar stavano ammazzando il tempo.
Mister Vandemar aveva trovato da qualche parte un centopiedi — una creatura rosso-arancio lunga quasi venti centimetri, con pericolose punte velenose su entrambe le estremità — e se lo faceva correre sulle mani, osservandolo mentre gli girava tra le dita, scompariva su per una manica per riapparire un minuto dopo in uscita dall’altra.
Mister Croup stava giocando con delle lamette da barba. In un angolo ne aveva trovata una scatola intera, lamette vecchie di almeno cinquant’anni avvolte nella pergamina, e si era messo di impegno a pensare a come utilizzarle.
«Se posso avere la sua attenzione, mister Vandemar,» disse infine «punti i suoi occhiettini luccicanti su questo.»
Affinché smettesse di dimenarsi, mister Vandemar prese con delicatezza la testa del centopiedi tra un pollice enorme e un indice massiccio, quindi guardò mister Croup.
Mister Croup appoggiò la mano sinistra contro il muro, le dita allargate. Nella mano destra teneva cinque lamette, prese attentamente la mira e le scagliò verso il muro.
Ogni lametta si conficcò con precisione nella parete, tra le sue dita. Sembrava il numero di un bravissimo lanciatore di coltelli in miniatura.
Mister Croup tolse la mano dal muro, lasciandoci infisse le lamette, a evidenziare la posizione in cui erano state le dita, quindi si voltò verso il suo socio in cerca di approvazione.
Mister Vandemar non era per nulla impressionato.
«Be’? Cosa c’era di tanto intelligente?» chiese. «Non ha colpito nemmeno un dito.»
Mister Croup sospirò. «Non l’ho fatto?» ribadì. «Perbacco, che mi si squarci la gola, ha ragione. Come ho potuto essere cosi sventato?» Estrasse le lamette dal muro, una a una, e le lasciò cadere sul tavolo di legno. «Perché non mi fa vedere lei come si dovrebbe fare?»
Mister Vandemar annui. Ripose il suo centopiedi nel vasetto di marmellata vuoto.
Poi appoggiò la mano sinistra contro la parete.
Alzò il braccio destro: in mano teneva il coltello, pericoloso, tagliente e perfettamente bilanciato. Socchiuse gli occhi e lanciò.
L’arma attraversò l’aria come un coltello da lancio particolarmente grande e affilato che vola attraversando l’aria a una velocità davvero notevole. Con un rumore sordo la lama si conficcò nel muro, avendo prima colpito e trapassato il dorso della mano di mister Vandemar.
Suonò un campanello.
Mister Vandemar alzò lo sguardo, soddisfatto, con un coltello che gli attraversava la mano. «Così» disse.
In un angolo della stanza c’era un telefono. Si trattava di un vecchissimo modello in legno e bachelite, inutilizzato in ospedale già dagli anni Venti. Mister Croup sollevò il ricevitore, che era collegato a un filo molto lungo e ricoperto di stoffa, e parlò nell’imboccatura che era attaccata alla base. «Croup e Vandemar» disse suadente. «Antica Ditta. Annientamento ostacoli, eliminazione seccature, estirpazione arti fastidiosi e odontoiatria tutelare.»
La persona all’altro capo del filo disse qualcosa. Mister Croup si fece piccolo per la paura.
Mister Vandemar diede uno strattone alla mano sinistra, che era inchiodata al muro dal coltello.
«Oh. Si, signore. Certo, signore. E posso dirvi quanto la vostra confabulazione telefonica illumini e rallegri la nostra altrimenti tediosa e squallida giornata?» Un’altra pausa. «Naturalmente, smetterò di adulare e di strisciare. Con vero piacere. Un onore, e — cosa sappiamo? Sappiamo che…» Un’interruzione; si mise le dita nel naso con aria riflessiva, paziente. «No, non sappiamo dove si trova in questo preciso momento. Ma non è necessario. Stasera sarà al mercato e…» Serrò le labbra, poi aggiunse, «Non abbiamo intenzione di violare l’armistizio del mercato. Più che altro di aspettare che lasci il mercato per squartarla…» Rimase un attimo in silenzio, in ascolto, annuendo di quando in quando.
Con la mano libera, Mister Vandemar tentò di estrarre il coltello dal muro, ma si era conficcato con troppa energia.
«Si può fare, certo» disse mister Croup nell’imboccatura. «Voglio dire, sarà fatto. Naturalmente. Si. Lo capisco. E, signore, forse potremmo discutere del…?»
Ma colui che aveva chiamato aveva già interrotto la comunicazione. Mister Croup fissò per un attimo il ricevitore, quindi lo riappese al suo gancio.
«Pensi di essere cosi dannatamente intelligente» bisbigliò. Poi si accorse dell’impiccio in cui si trovava mister Vandemar e disse, «Fermo!» Si chinò, estrasse il coltello dal muro e dal dorso della mano di mister Vandemar, e lo appoggiò sul tavolo.
Mister Vandemar agitò la mano sinistra e piegò le dita, poi tolse i frammenti di intonaco ammuffito dalla lama del coltello. «Chi era?»
«Il nostro datore di lavoro» rispose mister Croup. «Sembra che l’altro non funzioni. Non è abbastanza grande. Dovrà proprio essere la femmina Porta.»
«Perciò non abbiamo più il permesso di ucciderla?»
«Questo, mister Vandemar è il succo della questione, proprio cosi. Ora, sembra che la piccola signorina Porta abbia annunciato che assumerà una guardia del corpo. Al mercato. Questa sera.»
«E allora?» Mister Vandemar si sputò sul dorso della mano, nel punto dove era entrato il coltello, e sul palmo della mano, nel punto dove il coltello era uscito.
Mister Croup sollevò dal pavimento il suo cappotto, pesante, nero e lucido per l’età. Lo indossò.
«E allora, mister Vandemar, perché non assumere anche noi una guardia del corpo?»
Mister Vandemar fece scivolare il coltello al proprio posto, nella custodia dentro la manica. Indossò il cappotto anche lui, infilò con foga le mani in tasca e fu piacevolmente stupito di trovarci quasi mezzo topo. Bene. Era affamato.
Quindi si mise a meditare sull’ultima affermazione di mister Croup con l’intensità di un patologo legale che disseziona il suo unico grande amore, e, accorgendosi della falla nella logica del suo socio, mister Vandemar disse, «Non abbiamo bisogno di una guardia del corpo, mister Croup. Noi facciamo male alla gente. Non sono gli altri a far del male a noi.»
Mister Croup spense le luci.
«Oh, mister Vandemar» disse, gustando il suono delle parole, come gustava il suono di tutte le parole, «se ci tagliamo, non sanguiniamo forse anche noi?»
Mister Vandemar ci pensò sopra un istante, al buio. Poi, con precisione inoppugnabile, disse, «No.»
«Una spia dal Mondo di Sopra» disse Lord-Parla-coi-Ratti. «Sai, dovrei farti un bel taglio dalla gola allo stomaco e predire il futuro con le tue budella.»
«Senti» disse Richard con la schiena contro il muro e lo stiletto di vetro premuto contro il pomo d’Adamo. «Penso che tu stia facendo un grosso errore. Mi chiamo Richard Mayhew. Posso dimostrare la mia identità. Ho la tessera della biblioteca. Le carte di credito. Tante cose» aggiunse disperato.
Con la fredda lucidità che si impossessa di chi ha di fronte a sé uno squilibrato che sta per tagliargli la gola con un pezzo di vetro rotto, Richard si accorse che sul lato opposto della sala la gente si stava gettando al suolo, in un inchino estremamente profondo, e rimaneva a terra.
Una figurina nera si stava dirigendo verso di loro.
«Sono certo che se ci pensiamo un attimo ci renderemo conto di essere stati tutti molto sciocchi» disse Richard. Non aveva idea di cosa significassero quelle parole, se non che gli erano semplicemente uscite di bocca e che finché parlava non era morto. «Ora, perché non metti via quel coso e — scusa, quella è la mia borsa» quest’ultima frase era rivolta a una ragazza magra e sporca sui diciassette/diciotto anni che si era impossessata della borsa di Richard e ne stava svuotando con forza il contenuto sul selciato.
La gente nella sala continuava a inchinarsi e a rimanere china, mentre la piccola figura si avvicinava.
La figura raggiunse il gruppo di persone che circondava Richard. Nessuno di loro la notò. Stavano tutti guardando Richard.
Si trattava di un ratto. Alzò lo sguardo verso di lui e per un attimo Richard ebbe la bizzarra impressione che gli avesse strizzato l’occhio.
Quindi si mise a squittire ad alta voce.
L’uomo con lo stiletto di vetro si gettò in ginocchio, e lo stesso fecero le persone riunite li intorno. E cosi, dopo un momento di esitazione, fece anche il senzatetto, l’uomo che avevano chiamato Iliaster.
Richard fu l’unico a rimanere in piedi. La ragazza magra lo tirò per il gomito, e pure lui si mise in ginocchio.
Lord Parla-coi-Ratti si inchinò cosi profondamente che i suoi lunghi capelli spazzavano il pavimento, e squitti in risposta al ratto, increspando il naso, mostrando i denti, squittendo e soffiando, in tutto e per tutto come un ratto formato gigante.
«Ehi, qualcuno sa dirmi…» bofonchiò Richard.
«Zitto!» disse la ragazza.
Con aria un po’ sprezzante, il ratto sali sulla mano sudicia di Lord Parla-coi-Ratti, e con grande rispetto l’uomo lo sollevò fino al viso di Richard. Ondeggiava languidamente la coda.
«Questo è Padron Codalunga, del clan Grigio» disse Lord Parla-coi-Ratti. «Dice che hai un aspetto decisamente familiare. Vuole sapere se vi siete mai incontrati prima.»
Richard osservò il ratto. Il ratto osservò Richard. «Suppongo sia possibile» ammise.
«Dice che si stava liberando da un’obbligazione verso il Marchese de Carabas.»
Richard lo guardò più da vicino. «È quel ratto? Si, ci siamo già incontrati. In verità gli ho lanciato contro il telecomando.»
Alcune delle persone li intorno parvero scioccate. La ragazzina magra addirittura squitti. Richard quasi non se ne accorse; finalmente c’era qualcosa di familiare in quella pazzia.
«Ciao, Rattino» disse. «È bello rivederti. Sai dov’è Porta?»
«Rattino!» esclamò la ragazza tra uno squittio e un soffocato grido di raccapriccio. Attaccata agli abiti cenciosi aveva una piccola spilla rossa macchiata d’acqua su cui stava scritto Ho 11 anni a caratteri gialli.
Lord Parla-coi-Ratti agitò minacciosamente lo stiletto di vetro verso Richard. «Non puoi rivolgerti a Padron Codalunga se non attraverso me» disse.
Il ratto squitti un ordine. L’espressione sul viso dell’uomo si oscurò.
«Lui?» disse, guardando Richard con disprezzo. «Senta, non ho neppure un’anima disponibile. E se semplicemente gli tagliassi la gola e lo spedissi giù al Popolo delle Fogne…»
Il ratto squitti un’altra volta, risoluto, poi spiccò un balzo dalla spalla dell’uomo fino a terra e svanì in uno dei numerosi fori che trivellavano i muri.
Lord Parla-coi-Ratti si alzò.
Un centinaio di occhi erano fissi su di lui. Si voltò verso la sala e guardò tutti gli altri, accucciati accanto ai fuochi untuosi.
«Non so cosa stiate guardando, tutti» strillò. «Chi gira gli spiedi, eh? Volete che la roba da mangiare si bruci? Non c’è niente da vedere. Continuate. Andate-andate via.»
Richard si rimise in piedi, un po’ nervoso.
Lord Parla-coi-Ratti si rivolse a Iliaster. «Deve essere accompagnato al mercato. Ordini di Padron Codalunga.»
Iliaster scosse il capo e sputò per terra. «Be’, io non ce lo porto» disse. «Vale più di tutta la mia vita, quel viaggio. Voi parla-coi-ratti siete sempre stati buoni con me, ma là non ci posso andare. Lo sapete.»
Lord Parla-coi-Ratti annui. Ripose lo stiletto.
Quindi fece a Richard un sorriso sdentato. «Non sai quanto sei stato fortunato, poco fa» disse.
«Si, lo so» rispose Richard. «Eccome se lo so.»
«No,» disse l’uomo «non lo sai. Eccome se non lo sai.» E scosse il capo, ripetendo ’Rattino!’ tra sé.
Lord Parla-coi-Ratti prese sottobraccio Iliaster, e i due si allontanarono quanto bastava per non farsi udire. Poi cominciarono a discutere, lanciando nel frattempo occhiatacce a Richard.
La ragazzina magra stava ingurgitando una delle banane di Richard in quello che egli ritenne l’utilizzo gastronomicamente meno erotico possibile del frutto in questione.
«Sai, quella doveva essere la mia colazione» disse Richard.
Assunse un’espressione colpevole.
«Io mi chiamo Richard, e tu?»
La ragazza che, a un esame più approfondito, sembrava essersi mangiata quasi tutta la frutta che Richard aveva portato con sé, alzò gli occhi con aria imbarazzata. Poi fece un mezzo sorrisino e disse qualcosa che dal suono pareva molto simile ad Anestesia.
«Avevo fame» disse lei. «Be’, anch’io» commentò lui.
La ragazza diede un’occhiata ai piccoli fuochi intorno alla stanza. Poi si rivolse di nuovo a Richard. «Ti piace il gatto?» chiese.
«Si» rispose Richard. «Mi piacciono molto i gatti.» Anestesia parve sollevata. «Petto o coscia?» domandò.
La ragazza di nome Porta attraversò a piedi la corte, seguita dal Marchese de Carabas.
C’erano centinaia di altre piccole corti come questa a Londra, di vicoli e cortiletti per le scuderie, minuscole tracce del tempo che fu, immutate da trecento anni. Anche la puzza di urina era la stessa che riportavano le cronache di Samuel Pepys.
Mancava ancora un’ora all’alba, ma il cielo iniziava a rischiarare, per diventare di un intenso colore plumbeo.
La porta era malamente ricoperta di assi e di sudici manifesti di gruppi musicali dimenticati e locali notturni chiusi da tempo.
Si fermarono davanti alla porta e il Marchese la fissò, tutta assi, chiodi e manifesti com’era, e parve assolutamente indifferente.
«Perciò l’entrata è questa?» chiese.
Lei annui. «Una delle entrate.»
Lui incrociò le braccia. «Be’? Di’ apriti sesamo o quello che devi dire.»
«Non voglio farlo» rispose. «Non sono sicura che stiamo facendo la cosa giusta.»
«Molto bene» distese le braccia e le fece un inchino. «Ci vediamo, allora.»
Cominciò a incamminarsi per la strada da cui erano venuti. Porta gli afferrò il braccio. «Mi abbandoni cosi?» chiese. «Come se niente fosse?»
Lui fece un largo sorriso, per nulla divertito. «Certo. Sono un uomo molto impegnato. Ho cose da fare. Persone da vedere.»
«Senti, aspetta.» Gli lasciò la manica, mordendosi il labbro inferiore. «L’ultima volta che sono stata qui…» la voce si spense.
«L’ultima volta che sei stata qui hai trovato i tuoi familiari morti. Bene, ecco fatto. Non dovrai spiegarlo di nuovo. Se non entriamo, il nostro rapporto di lavoro è da considerarsi concluso.»
Alzò lo sguardo verso di lui, il viso pallido nella luce che precede l’alba. «Ed è tutto?»
«Potrei augurarti buona fortuna per la tua futura carriera, ma temo di dover dubitare del fatto che vivrai abbastanza a lungo da averne una.»
«Sei proprio senza ritegno, vero?»
Lui non rispose.
La ragazza ritornò alla porta. «D’accordo» disse. «Vieni, entriamo.»
Porta appoggiò la mano sinistra sulla porta inchiodata e con la destra strinse la manona scura del Marchese. Delle minuscole dita si intrecciarono ad altre più grandi. Chiuse gli occhi.
… Qualcosa sussurrava e tremava e mutava…
… E la porta crollò nell’oscurità…
Il ricordo era recente, pochi giorni soltanto. Porta si aggirava nella Casa Senza Porte gridando «Sono a casa!» e «C’è nessuno?» Era scivolata con circospezione dall’anticamera in sala da pranzo, in biblioteca, in salotto: nessuna risposta. Non c’era nessuno da nessuna parte. Si trasferì in un ’altra stanza.
La piscina era una struttura vittoriana al coperto, costruita in marmo e ghisa. Suo padre l’aveva trovata da giovane, abbandonata e sul punto di essere demolita, e l’aveva inserita nell’impianto della Casa Senza Porte.
Porta non aveva idea di dove si trovassero le varie stanze della casa, flsicamente. Era stato suo nonno a costruirla, prendendo una camera qui e una là in tutta Londra, stanze separate e prive di porte.
Camminava lungo il bordo della vecchia piscina, contenta di essere a casa. Poi guardò verso il basso.
C’era qualcuno che galleggiava sull’acqua e lasciava dietro di sé due nuvolette gemelle di sangue, una dalla gola, l’altra dall’inguine. Era suo fratello, Arco. Aveva gli occhi spalancati e ciechi.
Si rese conto di avere aperto la bocca. Poteva sentirsi urlare.
«Che male» disse il Marchese. Si massaggiò energicamente la fronte e girò la testa come cercando di alleviare un improvviso attacco di torcicollo.
«È per i ricordi» spiegò Porta. «Sono impressi nei muri.»
Lui sollevò un sopracciglio. «Avresti dovuto avvertirmi.»
«Si» rispose. «Giusto.»
Si trovavano in un’ampia sala bianca. I muri erano tutti coperti di quadri. Ogni quadro rappresentava una stanza diversa.
«Décor interessante» riconobbe il Marchese.
«È il salone d’ingresso. Da qui si può entrare in ogni stanza della Casa. Sono tutte collegate.»
«Dove sono situate le altre camere?»
Porta scosse il capo. «Non lo so. A chilometri da qui, probabilmente. Sono sparse in tutto il Mondo di Sotto.»
Il Marchese era riuscito a coprire l’intera stanza con una serie di lunghi passi impazienti. «Davvero notevole. Una casa associativa, in cui ogni stanza è collocata da un’altra parte. Davvero immaginativa. Tuo nonno era un uomo dalle grandi visioni, Porta.»
«Non l’ho mai conosciuto.» Deglutì, poi riprese, parlando a se stessa quanto a lui, «Avremmo dovuto essere al sicuro qui. Non avrebbe dovuto esserci per nessuno la possibilità di farci del male. Solo la mia famiglia poteva andare in giro per la casa.»
«Speriamo che il diario di tuo padre ci fornisca qualche indizio» commentò il Marchese. «Da dove cominciamo a cercare?»
Si strinse nelle spalle.
«Sei sicura che tenesse un diario?»
Annui. «Era solito andare nel suo studio e isolare i collegamenti finché aveva finito di dettare.»
«Allora cominceremo dallo studio.»
«Ma ci ho guardato. L’ho fatto. Ci ho guardato. Quando stavo ricomponendo il corpo…» E cominciò a piangere, con singhiozzi bassi e rabbiosi, che parevano emergere a fatica dal profondo del cuore.
«Su. Su» disse il Marchese de Carabas, in maniera un po’ goffa, dandole una pacca sulle spalle. Poi, per buona misura, aggiunse, «Su.»
Non era un gran che come confortatore di afflitti.
Gli occhi dallo strano colore di Porta erano colmi di lacrime. «Puoi… puoi concedermi solo un secondo? Starò benissimo.»
Lui annui e camminò fino al punto più lontano della sala. Quando si voltò a guardarla, era ancora là, tutta sola, che si stagliava contro il bianco salone d’ingresso, pieno di quadri di stanze, e si stringeva in un abbraccio solitario, tremando e piangendo come una bambina.
Richard era ancora turbato per avere perso la borsa.
Lord Parla-coi-Ratti non aveva ceduto di una virgola. Aveva sentenziato baldanzoso che il ratto — Padron Codalunga — non aveva assolutamente parlato di restituire a Richard le sue cose. Aveva solo detto di accompagnarlo al mercato.
Poi aveva comunicato a Anestesia che sarebbe spettato a lei di portare l’uomo del Mondo di Sopra al mercato e che, si, era un ordine. E che era ora di smettere di piagnucolare e il momento di mettersi in marcia.
A Richard aveva detto che se lui, Lord Parla-coi-Ratti, l’avesse visto di nuovo, lui, Richard, si sarebbe trovato in guai davvero grossi.
Aveva ribadito che non aveva idea di quanto fosse stato fortunato e, ignorando le sue richieste perché gli restituisse la roba — o almeno il portafogli — li accompagnò a una porta, che poi chiuse a chiave dietro di loro.
Richard e Anestesia camminarono fianco a fianco nel buio.
Lei portava una lampada improvvisata costruita con una candela, una lattina, del filo e una vecchia bottiglietta di tamarindo. Richard si sorprese della rapidità con cui i suoi occhi si adeguarono alla semioscurità. Sembrava stessero passando attraverso una serie di volte sotterranee. In qualche occasione gli parve di cogliere un movimento, negli angoli più lontani delle volte, ma che si trattasse di essere umani, ratti o chissà che altro, quando arrivavano nel luogo in cui si era verificato il guizzo, non c’era più nulla.
Quando tentò di parlare di quei movimenti con Anestesia, lei lo zitti con un sibilo.
Senti una folata gelida sul viso. Di punto in bianco la ragazza-ratto si acquattò, appoggiò a terra la lampada-candela e si mise a tirare e strattonare con forza una grata di metallo fissata nel muro, che si apri di colpo, mandandola a gambe all’aria.
Fece cenno a Richard di entrare.
Lui si chinò e procedette lentamente attraverso il foro nel muro. Dopo una trentina di centimetri, il pavimento finiva.
«Scusa» bisbigliò Richard. «C’è un buco qui.»
«Non è un gran dislivello» gli disse. «Va’ avanti.»
Richiuse la grata dietro di sé. Adesso si trovava scomodamente vicina a Richard. Lui procedette piano, nell’oscurità. Quindi si fermò.
«Tieni» disse la ragazza, dandogli da reggere il manico della piccola lampada, e saltò giù nel buio.
«Ecco» disse. «Non era poi tanto terribile, vero?» Il suo viso si trovava circa un metro al di sotto dei piedi ciondolanti di Richard. «Forza, passami la lampada.»
La abbassò verso di lei, che dovette saltare per afferrarla.
«Bene» bisbigliò. «Vieni.»
Scavalcò il ciglio, rimase sospeso un istante, poi si lasciò andare. Atterrò con mani e piedi nel fango soffice e umido. Si tolse il fango dalle mani pulendole sul maglione.
Pochi passi più in là, Anestesia apri un’altra porta.
La attraversarono, e lei se la chiuse alle spalle.
«Possiamo parlare, adesso» disse. «Non ad alta voce, però possiamo parlare. Se vuoi.»
«Oh. Grazie» fece Richard. Non gli veniva in mente niente da dire. «Perciò… hmmm… tu sei un ratto, è cosi?» chiese.
Lei ridacchiò. «Magari fossi cosi fortunata. Mi piacerebbe. No, io sono una parla-coi-ratti. Noi parliamo ai ratti.»
«Cioè, chiacchierate e basta?»
«Oh, no. Facciamo delle cose per loro. Voglio dire,» e il tono della sua voce sottintendeva che Richard non ci sarebbe mai arrivato da solo a capirlo, «ci sono delle cose che i ratti non possono fare, sai. Voglio dire, non avendo le dita, il pollice, e, insomma, cose. Aspetta…»
Lo spinse contro il muro, all’improvviso, e gli tappò la bocca con una mano sudicia. Quindi spense la candela.
Non accadde nulla.
Poi Richard udì delle voci lontane.
Aspettarono.
Delle persone passarono loro accanto e li superarono, parlando a bassa voce.
Quando ogni suono fu spento, Anestesia gli tolse la mano dalla bocca, riaccese la candela e proseguirono.
«Chi erano?» chiese Richard.
Lei fece spallucce. «Non importa» rispose.
«E allora cosa ti fa pensare che non sarebbero stati contenti di vederci?»
Lo guardò con aria alquanto triste, come una mamma che cerca di spiegare al suo piccino che, si, anche quella fiamma scotta. Tutte le fiamme scottano. Fidati, per favore.
«Vieni» disse. «Conosco una scorciatoia. Possiamo fare un salto a Londra Sopra. Per un pochino.»
Salirono alcuni gradini di pietra, e la ragazza spinse una porta, che si apri. La attraversarono e questa si richiuse alle loro spalle.
Richard si guardò intorno, perplesso.
Si trovavano sull’Embankment, l’argine del Tamigi. Era ancora notte — o forse era di nuovo notte. Non sapeva per quanto tempo avessero camminato nel sottosuolo e nell’oscurità.
La luna non si vedeva, ma il cielo era una profusione di nitide e scintillanti stelle autunnali. Anche i lampioni erano accesi, e cosi le luci su ponti e palazzi, che parevano astri terreni e brillavano riflessi nelle acque del Tamigi.
È il paese delle fate, pensò Richard.
Anestesia spense la candela.
«Sei certa che sia la strada giusta?»
«Si» rispose lei. «Certissima.»
Si stavano avvicinando a una panchina, e non appena ci posò sopra gli occhi, a Richard parve fosse uno degli oggetti più desiderabili che avesse mai visto. «Possiamo sederci?» domandò.
Lei si strinse nelle spalle, e si sedettero agli estremi opposti della panchina.
«Fino a venerdì» disse Richard «lavoravo da uno dei migliori analisti finanziari di Londra.»
«Che cosa fa un analista eccetera?»
«Lavora.»
Lei annui soddisfatta. «Bene. E…?»
«In realtà lo stavo solo ricordando a me stesso. Ieri… era come se non esistessi più per nessuno, qui sopra.»
«E perché è cosi» spiegò Anestesia.
Una coppia di nottambuli, che si era mossa nella loro direzione camminando lentamente lungo l’argine, tenendosi per mano, aveva preso posto sulla panchina, nel mezzo, proprio tra Richard e Anestesia. I due avevano cominciato a baciarsi, appassionatamente.
«Scusate» disse loro Richard.
L’uomo aveva infilato una mano sotto al maglione della donna e la muoveva in qua e in là con grande entusiasmo, un viaggiatore solitario alla scoperta di un continente inesplorato.
«Rivoglio la mia vita» disse Richard alla coppia.
«Ti amo» disse l’uomo alla donna.
«Ma tua moglie…» fece lei, dandogli una leccatina vicino all’orecchio.
«Che vada a scopare il mare» rispose l’uomo.
«Non mi frega di quello che si scopa lei» commentò la donna con una risatina da ubriaca. «Basta che io possa scoparmi te…» Gli mise una mano tra le cosce e ridacchiò più forte.
«Andiamo» disse Richard a Anestesia, sentendo che la panchina cominciava a diventare un luogo meno piacevole, quindi si alzarono e si allontanarono. Incuriosita, Anestesia si voltò a sbirciare la coppia che stava gradualmente assumendo una posizione sempre più orizzontale.
Richard non disse nulla.
«Qualcosa non va?» chiese Anestesia.
«Assolutamente tutto» rispose Richard. «Hai sempre vissuto di sotto?»
«No. Sono nata qui» esitò. «Non credo ti interessi sapere di me.»
Richard si rese conto, con una certa sorpresa, che invece gli interessava. «Sbagli.»
La ragazza si mise a giocherellare con le perline di quarzo infilate nella collana che aveva al collo, poi iniziò a parlare, senza guardarlo.
«La mamma ha avuto me e le mie sorelle, ma è diventata un po’ strana nella testa. La signora è venuta e si è presa cura delle mie sorelle, e io sono andata a stare da mia zia. Lei viveva con quel tizio. Mi faceva sempre male. Faceva delle cose. L’ho detto alla zia e lei mi ha picchiata. Diceva che mentivo. Diceva che mi portava dalla polizia. Ma io non mentivo. Perciò sono scappata. Era il giorno del mio compleanno.»
Avevano raggiunto l’Albert Bridge, più che un ponte un monumento kitsch da cui pendevano migliaia di lucine gialle.
«Faceva cosi freddo» continuò Anestesia, poi fece una pausa. «Dormivo per strada. Dormivo di giorno, quando faceva un pochino più caldo, e andavo in giro di notte, tanto per muovermi. Avevo undici anni. Per mangiare rubavo il pane e il latte davanti alle case. Odiavo farlo. Giravo nelle strade dei mercati e prendevo le mele marce e le arance e le cose che gli altri buttavano. Vivevo sotto un cavalcavia a Notting Hill. Poi mi sono ammalata per davvero. Quando sono rinvenuta ero a Londra Sotto. Mi avevano trovata i ratti.»
«Hai mai cercato di ritornare a tutto questo?» chiese, indicando le case silenziose, calde e deserte. Le auto nella notte. Il mondo reale…
Scosse il capo. Tutte le fiamme scottano, piccolino. Imparerai. «Non puoi. O uno o l’altro. Nessuno li ha tutti e due.»
«Mi dispiace» disse Porta con voce esitante. Aveva ancora gli occhi rossi.
Il Marchese, che si era divertito giocando un gioco degli astragali con delle ossa e delle monete antiche, la guardò. «Davvero?»
Si mordicchiò il labbro inferiore. «No. Veramente no. Non mi dispiace. Ho corso e mi sono nascosta e ho corso cosi tanto che… questa è stata la prima occasione per…» Si interruppe.
Il Marchese raccolse le monete e le ossa e le ripose in una delle sue tante tasche.
«Dopo di te» disse.
La segui di nuovo alla parete di quadri. Lei appoggiò una mano sull’immagine dello studio di suo padre, e con l’altra afferrò la manona del Marchese.
… La realtà si alterava…
Erano nella serra a bagnare le piante.
Entrata aveva un pìccolo annaffiatoio tutto per lei. Ne era cosi fiera. Era proprio uguale a quello della mamma.
Cominciò a ridere, una risata spontanea, da bambina.
E anche sua madre si mise a ridere, finché mister Croup la tirò forte per i capelli, un colpo secco e improvviso, e le tagliò la gola da un orecchio all’altro.
«Ciao, papà» disse Porta sommessamente.
Sfiorò il busto del padre con le dita, accarezzandogli una guancia. Un uomo magro, ascetico, quasi calvo. Cesare come Prospero, pensò il Marchese de Carabas. Non si sentiva molto bene. Quell’ultima immagine era stata dolorosa.
Quadro: studio di Lord Portico. Quello era un inizio.
Osservò la stanza, gli occhi che passavano da un dettaglio all’altro. Il coccodrillo impagliato che pendeva dal soffitto; i libri, un astrolabio, specchi, curiosi strumenti scientifici; sui muri c’erano delle mappe; una scrivania, coperta di lettere.
La parete bianca dietro la scrivania era deturpata da una macchia rosso-marrone.
Sulla scrivania c’era un piccolo ritratto della famiglia di Porta. Il Marchese lo studiò attentamente.
«Tua madre e tua sorella. Tuo padre. E tuo fratello. Tutti morti. E tu, come sei riuscita a salvarti?»
Abbassò la mano. «Sono stata fortunata. Ero andata in esplorazione per qualche giorno… sapevi che ci sono ancora dei soldati romani accampati vicino al fiume Kilburn?»
Il Marchese non lo sapeva, e la cosa lo metteva di malumore. «Hmm. Quanti?»
Lei si strinse nelle spalle. «Poche decine. Erano disertori dalla diciannovesima legione, credo. Il mio latino è un po’ approssimativo. Comunque, quando sono tornata qui…»
Fece una pausa e deglutì, gli occhi dallo strano colore colmi di lacrime.
«Ricomponiti» disse bruscamente il Marchese. «Ci serve il diario di tuo padre. Dobbiamo scoprire chi è stato.»
Lo guardò con disapprovazione. «Sappiamo già chi è stato: Croup e Vandemar…»
Lui allargò una mano, e parlò agitando le dita. «Loro sono braccia. Mani. Dita. Ma c’è un cervello dietro a tutto questo, e vuole morta anche te. Quei due non costano certo poco.»
Si guardò intorno nello studio in disordine.
«Il suo diario?» domandò il Marchese.
«Non è qui» rispose Porta. «Te l’ho detto. Ho guardato.»
«Avevo l’errata convinzione che la tua famiglia fosse particolarmente abile nell’individuare aperture, evidenti oppure no.»
Lei lo guardò in cagnesco. Poi chiuse gli occhi e mise pollice e indice ai lati del proprio dorso nasale.
Il Marchese esaminò gli oggetti sulla scrivania di Portico. Un calamaio; un pezzo degli scacchi; un dado in osso; un orologio d’oro da taschino; svariate penne d’oca e…
Interessante.
Era una statuina che rappresentava un cinghiale, o un orso accucciato, o forse un toro. Difficile a dirsi. Aveva le dimensioni di un pezzo degli scacchi piuttosto grande ed era stato intagliato grossolanamente in un blocco di ossidiana nera. Gli ricordava qualcosa, ma non avrebbe saputo dire cosa.
Lo prese in mano, lo voltò. Lo avvolse con le proprie dita.
Porta abbassò la mano. Pareva perplessa e confusa.
«Cosa c’è?» domandò il Marchese.
«È qui» rispose, semplicemente. Iniziò a camminare su e giù per lo studio, la testa piegata ora da un lato ora dall’altro.
Il Marchese fece scivolare la statuina in una tasca interna.
Porta era in piedi davanti a un mobiletto alto. «Qui» disse. Allungò la mano: si udi un click e si apri un piccolo pannello laterale. Porta infilò la mano nella cavità buia, e ne estrasse qualcosa all’incirca della forma e delle dimensioni di una palla da cricket. La passò al Marchese.
Era una sfera, realizzata in ottone antico e legno pregiato, con inserti in rame lucido e lenti di vetro.
Gliela tolse di mano.
«È questo?»
Lei annui.
«Ottimo.»
Aveva un’aria seria. «Non so come ho fatto a non trovarlo prima.»
«Eri sconvolta» disse il Marchese. «Ero certo che fosse qui. E io mi sbaglio cosi di rado. Ora…» e sollevò il piccolo globo di legno. La luce colpi i vetri e rimbalzò dal rame all’ottone.
Gli scocciava moltissimo, ma lo disse comunque: «Come funziona?»
Anestesia aveva portato Richard in un piccolo parco sull’altro lato del ponte, poi gli aveva fatto scendere dei gradini di pietra accanto a un muro. Aveva riacceso la candela e aperto una porta di servizio, che si era poi richiusa alle spalle.
Scesero alcuni scalini, circondati dall’oscurità.
«C’è una ragazza che si chiama Porta» disse Richard. «È poco più giovane di te. La conosci?»
«Lady Porta. So chi è.»
«Quindi, a quale, hmm, baronia appartiene?»
«Nessuna baronia. È della casata degli Arch. La sua famiglia era molto importante.»
«Era? Perché non lo è più?»
«Qualcuno li ha uccisi.»
Già, ricordava che il Marchese aveva detto qualcosa al riguardo.
Un ratto attraversò loro la strada. Anestesia si fermò sui gradini e fece un profondo inchino. Il ratto indugiò un attimo.
«Sire» disse la ragazza.
«Ciao» fece Richard.
Il ratto li guardò il tempo di un battito di ciglia e si lanciò giù dalle scale.
«Allora» disse Richard. «Cos’è un mercato fluttuante?»
«E molto grande» rispose Anestesia. «Ma i parla-coi-ratti non ci vanno quasi mai. A dire la verità…» Esitava a continuare. «No. Rideresti di me.»
«No di certo» disse Richard, convinto.
«Be’,» disse la ragazza magra «ho un po’ di paura.»
«Paura? Del mercato?»
Erano arrivati in cima alla scala. Anestesia era indecisa, poi girò a sinistra. «Oh, no. Durante il mercato c’è l’armistizio. Se uno fa del male a un altro, tutta Londra Sotto gli si riversa addosso come una tonnellata di acqua di scarico.»
«E allora di cosa hai paura?»
«Di arrivarci. Lo tengono ogni volta in un posto diverso. Si sposta. E per arrivare nel posto dove sarà stasera…» prese a giocherellare nervosamente con le perline di quarzo che aveva al collo. «Dovremo attraversare un quartiere proprio brutto.» Sembrava davvero spaventata.
Richard represse l’istinto di passarle un braccio intorno alle spalle.
«E dove sarebbe?» chiese.
Si voltò verso di lui, si tolse i capelli dagli occhi e disse, «Night’s Bridge, il ponte della notte.»
«Vorrai dire Knightsbridge, il ponte dei cavalieri» ribadì Richard, mettendosi a ridacchiare piano per quella pronuncia che falsava il senso.
Lei si allontanò seccata. «Visto?» disse. «L’avevo detto che avresti riso.»
I tunnel profondi erano stati costruiti negli anni Venti per un tratto ad alta velocità della Northern Line. Durante la seconda guerra mondiale, le truppe acquartierate là erano migliaia, e i loro rifiuti dovevano essere pompati al livello superiore, cioè quello delle fogne, con l’aria compressa: entrambi i lati dei tunnel erano stati ricoperti da letti a castello di metallo. Al termine della guerra i letti a castello rimasero dov’erano, e sulle loro basi di rete vennero ammassate delle scatole di cartone, ognuna delle quali conteneva lettere, schedari e carte: segreti del tipo più stupido, depositati giù in fondo per essere dimenticati.
Il sistema economico aveva fatto chiudere definitivamente i tunnel profondi nei primi anni Novanta. Le scatole con i segreti erano state rimosse, per essere conservate nei computer, fatte a pezzi o bruciate.
Varney abitava nella parte più profonda dei tunnel profondi, molto, molto al di sotto della metropolitana di Camden Town. Aveva impilato i letti a castello davanti all’unica entrata, quindi aveva realizzato delle decorazioni. A Varney piacevano le armi. Se le costruiva da solo, utilizzando ciò che riusciva a trovare, a prendere o a rubare. Pezzi di auto e di macchinari venivano trasformati in uncini, coltelli a serramanico, balestre e baliste, piccoli mangani e trabocchi per rompere i muri, clave, spadoni e mazze ferrate. Se ne stavano appese alle pareti del tunnel profondo, oppure appoggiate in un angolo, con aria cattiva.
Varney aveva l’aspetto di un toro, se si riesce a immaginare un toro rasato, senza corna, ricoperto di tatuaggi e i cui denti avessero subito un crollo totale. E russava anche.
La lampada a olio accanto alla testa aveva la fiammella al minimo. Varney dormiva su un mucchio di stracci, russando e tirando su col naso, con l’elsa di una spada a due lame appoggiata al suolo a portata di mano.
Una mano fece aumentare l’intensità della lampada a olio.
Varney teneva stretta la spada a due lame prima ancora di avere aperto gli occhi. Sbatté le palpebre, guardandosi intorno. Non c’era nessuno: niente aveva scomposto la pila di letti a castello che bloccava la porta. Cominciò ad abbassare la spada.
Una voce disse, «Psst.»
«Eh?» fece Varney.
«Sorpresa!» disse mister Croup entrando nel cerchio di luce.
Varney fece un passo indietro: grosso errore. Si trovò un coltello alla tempia, con la punta della lama accanto all’occhio.
«Non sono consigliati ulteriori movimenti» disse mister Croup, servizievole. «A mister Vandemar potrebbe accadere di avere un piccolo incidente con il suo vecchio infilza-rane. La maggior parte degli incidenti si verifica tra le mura domestiche. Non è forse vero, mister Vandemar?»
«Non credo alle statistiche» rispose la voce di mister Vandemar. Una mano guantata si protese alle spalle di Varney, gli piegò la spada e la lasciò cadere, deformata e ritorta, al suolo.
«Come stai, Varney?» chiese mister Croup. «Bene, c’è da augurarsi! È cosi? In piena forma, con fiocchi e controfiocchi, pronto per il mercato di stasera? Sai chi siamo?»
Varney fece la cosa più simile a un cenno di consenso che non implicasse il movimento di alcun muscolo. Sapeva chi erano Croup e Vandemar.
Con gli occhi scrutava le pareti. Eccola li: la stella del mattino, la mazzafrusto: una sfera di legno munita di punte, ornata di chiodi, appesa a una catena, nell’angolo estremo della stanza…
«Si dice che una certa giovane signora concederà un’audizione per guardie del corpo, questa sera. Hai pensato di presentarti per il posto?» mister Croup si stuzzicò i denti. «Enuncia con chiarezza.»
Con la forza della mente, Varney sollevò la stella del mattino. Era la sua specialità. Piano, ora… dolcemente… La tolse dal gancio e la spinse in alto verso la cima dell’arco del tunnel…
Con la bocca, disse, «Varney è il miglior bravo e guardia del corpo del Mondo di Sotto. Dicono che sono il migliore dai tempi di Hunter.»
Varney posizionò mentalmente la stella del mattino nell’ombra al di sopra e dietro la testa di mister Croup.
Per prima cosa spaccherà il cranio di Croup, poi passerà a Vandemar…
La stella del mattino precipitò verso la testa di mister Croup: Varney si gettò in basso, lontano dalla lama di coltello che gli pesava sull’occhio.
Mister Croup non guardò in alto. Non si voltò. Si limitò a spostare la testa, con una rapidità oscena, e la stella del mattino lo superò andando a fracassarsi a terra, spargendo intorno schegge di mattone e cemento.
Mister Vandemar afferrò Varney con una mano. «Gli faccio male?» chiese al suo socio.
Mister Croup scosse il capo: non ancora. A Varney disse, «Tentativo passabile. Quindi, ’miglior bravo e guardia del corpo’, vogliamo che tu stasera vada al mercato. Vogliamo che tu faccia ciò che serve per diventare la guardia del corpo personale di quella certa giovane signora. Poi, quando hai avuto il posto, c’è una cosa che non devi dimenticare. Puoi anche proteggerla dal resto del mondo ma quando siamo noi a volerla, noi ce la prendiamo. Capito?»
Varney si passò la lingua sui suoi ruderi di denti.
«Mi state corrompendo?» chiese.
Mister Vandemar aveva sollevato la stella del mattino. Con la mano libera stava smontando la catena, anello dopo anello, e lasciava cadere a terra i pezzi di metallo contorto. Tink.
«No» rispose mister Vandemar. Tink. «Ti stiamo intimidendo.» Tink. «E se non fai quello che dice mister Croup, noi ti…» tink «… faremo male…» tink «… molto male, prima di…» tink «… ucciderti, anche peggio.»
«Ah» fece Varney. «Allora lavoro per voi, non è cosi?»
«Si, è cosi» disse mister Croup. «Mi spiace dirlo, ma purtroppo non abbiamo lati positivi.»
«Questo non mi preoccupa» disse Varney.
«Bene» disse mister Croup. «Benvenuto a bordo.»
Si trattava di un marchingegno molto elegante, realizzato in legno di noce, ottone e vetro, rame e specchi, avorio intagliato e intarsiato, prismi di quarzo e ingranaggi di ottone, molle e ruote dentate. Il tutto risultava più grande di un televisore, benché lo schermo vero e proprio non superasse i 15 centimetri. Era una lente d’ingrandimento sullo schermo stesso ad aumentare le dimensioni dell’immagine.
Dal lato sporgeva una grande tromba di ottone, simile a quelle che si trovano sui vecchi grammofoni. Il meccanismo aveva l’aspetto che avrebbe avuto un insieme di televisore e videoregistratore se gli stessi fossero stati inventati e costruiti trecento anni prima da Sir Isaac Newton. Cosa che non si distaccava poi molto dalla realtà.
«Guarda» disse Porta.
Appoggiò la sfera di legno su una piattaforma. Delle luci attraversarono la macchina e illuminarono la sfera, che cominciò a girare e rigirare su se stessa.
Sul piccolo schermo apparve un viso aristocratico, vividamente colorato. Lievemente fuori sincrono, dalla tromba usci una voce crepitante, nel mezzo di un discorso.
«… Che due città debbano essere cosi vicine e tuttavia in ogni cosa tanto lontane; i possidenti sopra di noi, e gli spodestati, noi che viviamo al di sotto e nel mezzo, che abitiamo nelle fenditure.»
Porta fissava lo schermo, pallida in volto.
«… Eppure sono dell’opinione che ciò che rende mutilati, storpi, paralizzati noi abitanti del Mondo di Sotto sia la nostra gretta faziosità. Il sistema di baronie e feudi risulta divisivo e insensato.» Lord Portico indossava una giacca da casa vecchia e lisa, e una papalina. La sua voce sembrava giungere fino a loro attraverso i secoli, non risalire a poche settimane o giorni prima.
Tossì.
«Non sono il solo ad abbracciare tale convinzione. Ci sono alcuni che desiderano vedere le cose come stanno. Ci sono altri che desiderano che la situazione peggiori. Ci sono alcuni…»
«Puoi farlo andare più veloce?» domandò il Marchese.
Porta annui. Toccò una leva d’avorio posta di lato: l’immagine divenne poco più che un’ombra, si frammentò e si riformò.
Ora Portico indossava il cappotto. La papalina era sparita. Aveva un taglio profondo su un lato della fronte. Non era più seduto alla scrivania, e parlava con tono pressante e sommesso. «Non so chi vedrà questo, chi lo ritroverà. Ma chiunque siate, vi prego di portare questo a mia figlia, Lady Porta, se è ancora in vita…» Una scarica elettrostatica attraversò l’immagine e il sonoro.
«Porta? Ragazza mia, questo è male. Non so quanto tempo mi resta prima che scoprano questa stanza. Penso che la mia povera Ianua, tuo fratello e tua sorella siano morti.»
La qualità del suono e dell’immagine cominciava a peggiorare.
Il Marchese lanciò un’occhiata a Porta. Aveva il viso umido: le lacrime traboccavano dai suoi occhi, lasciando una scia lucente sulle guance. Sembrava non rendersi conto di stare piangendo e non tentava in alcun modo di asciugare le lacrime. Si limitava a fissare l’immagine del padre e ad ascoltarne le parole.
Scrack. Bzzz. Scrack. «Ascoltami, ragazza mia» le disse il padre morto. «Va’ da Islington… puoi fidarti di Islington… Credimi… Islington…»
Diventò un’ombra. Il sangue gli era sceso dalla fronte sugli occhi, e lo tolse con la mano. «Porta? Vendicaci. Vendica la tua famiglia.» Dalla tromba del grammofono si udì un forte bang. Portico voltò il capo verso qualcosa non inquadrato nello schermo. Aveva un’aria stupita e impaurita. «Cosa…?»
Usci dall’inquadratura. Per un istante l’immagine rimase immutata: la scrivania, il muro bianco dietro di essa. Poi un arco di sangue rosso acceso schizzò quel muro.
Porta diede un colpetto a una leva laterale, facendo diventare grigio lo schermo, e si girò dall’altra parte.
«Tieni.» Il Marchese le allungò un fazzoletto.
«Grazie.» Si asciugò il viso e si soffiò energicamente il naso. Poi si mise a fissare il vuoto. Alla fine, disse, «Islington.»
«Non ho mai avuto niente a che fare con Islington» disse il Marchese.
«Pensavo fosse solo una leggenda» commentò Porta.
«No di certo.»
Il Marchese si allungò sulla scrivania per prendere l’orologio d’oro da taschino e lo apri. «Ottima lavorazione» commentò.
Lei annui. «Era di mio padre.»
Richiuse il coperchio con un click. «È ora di andare al mercato. Comincia presto. Il Signor Tempo non ci è amico.»
Lei si soffiò di nuovo il naso, quindi affondò le mani nelle tasche della giacca di pelle. Poi si volse verso di lui, il faccino da elfo accigliato, gli occhi dallo strano colore e luminosissimi. «Sei davvero convinto che possiamo trovare una guardia del corpo in grado di affrontare Croup e Vandemar?»
Il Marchese le indirizzò uno sfolgorio di denti. «Dopo Hunter non c’è più stato nessuno con la benché minima possibilità. No, cercherò qualcuno che possa darti il tempo di scappare.»
Assicurò la catena dell’orologio al panciotto, lasciando scivolare l’orologio nell’apposito taschino.
«Cosa stai facendo?» chiese Porta. «Quello è l’orologio di mio padre.»
«Ma non lo usa più, vero? Ecco fatto. Piuttosto elegante, direi.» Osservò le emozioni alternarsi sul viso di lei: dolore, rabbia, rassegnazione.
«Andiamo» disse la ragazza.
«Il Ponte della Notte non è molto lontano da qui» disse Anestesia.
Richard si augurò che fosse vero. Erano alla terza candela, e si stupiva che fossero ancora sotto Londra: era pressoché convinto di aver percorso quasi tutta la strada per la Fine del Mondo.
«Ho proprio paura» continuò lei. «Non ho mai attraversato il ponte.»
«Mi pareva avessi detto che c’eri già stata al mercato.»
«È il Mercato Fluttuante, sciocco. Te l’ho già detto. Si sposta. Zone diverse. L’ultimo a cui sono andata si teneva in quella grande torre con le campane. Il Big… qualcosa. E quello dopo era…»
«Il Big Ben?»
«Forse. Eravamo all’interno dove girano tutte quelle ruote enormi, ed è stato li che ho preso questo…»
Gli mostrò la collana. Alla luce della candela i quarzi luccicanti mandarono bagliori giallastri. Lei sorrise, come una bambina.
«Ti piace?» chiese.
«È bellissima. L’hai pagata molto?»
«Ho dato della roba in cambio. È cosi che funzionano le cose qui sotto. Ci scambiamo la roba.»
Poi svoltarono un angolo e videro il ponte.
Avrebbe potuto essere uno dei ponti sul Tamigi, pensò Richard; un enorme ponte di pietra che si estende sopra un baratro, nella notte. Ma non c’era cielo sopra quel ponte, e non c’era acqua sotto.
Si innalzava nell’oscurità.
Richard si chiese chi l’avesse costruito e quando. Si chiese come era possibile che qualcosa del genere potesse esistere sotto la città di Londra, senza che nessuno lo sapesse.
Alle spalle di Richard si udì un brusio di voci.
Qualcuno gli diede uno spintone mandandolo lungo e disteso per terra. Alzò gli occhi. Un uomo gigantesco, rozzamente tatuato, vestito con abiti improvvisati di pelle e di gomma, che parevano ritagliati da un interno di automobile, lo osservava dall’alto in basso. Dietro a lui c’erano dozzine di persone, uomini e donne: persone che parevano dirette a una festa mascherata con costumi di infima qualità presi a nolo.
«Qualcuno» disse Varney, che non era dell’umore migliore, «mi stava tra i piedi. Qualcuno farebbe bene a guardare dove va.»
Una volta, da piccolo, mentre tornava da scuola, Richard aveva incontrato un ratto in un fosso a lato della strada. Vedendolo, il ratto si era sollevato sulle zampe posteriori, soffiando e saltando, e spaventando a morte Richard, che aveva indietreggiato, stupito che un essere cosi piccolo fosse pronto a lottare contro qualcosa tanto più grande.
Anestesia si mise in mezzo, tra Richard e Varney. Lanciò un’occhiata furiosa al gigante e cominciò a sibilare come un ratto arrabbiato messo alle strette. Varney fece un passo indietro.
Sputò sulle scarpe di Richard, dopo di che girò sui tacchi e il manipolo di persone si diresse sul ponte e nel buio.
«Tutto a posto?» chiese Anestesia, aiutando Richard a rimettersi in piedi.
«Sto bene» rispose. «Sei stata coraggiosissima.»
Lei guardò in basso, con aria timida. «Non sono davvero coraggiosa» disse. «Ho ancora paura del ponte. Anche quelli avevano paura. Ecco perché sono andati tutti insieme. L’unione fa la forza. Dei veri bulli!»
«Se dovete attraversare il ponte, vengo con voi» disse una voce femminile.
Richard non riusci mai a capire che accento avesse. In quel momento pensò fosse canadese o americano. In seguito ritenne che potesse essere africano, australiano o persìno indiano. Non riuscì mai a individuarlo.
Era una donna alta, con lunghi capelli color bruno fulvo e la pelle scura, come lo zucchero caramellato. Indossava indumenti di pelle chiazzata, grigia e marrone. Sulla spalla portava una sacca da viaggio in pelle alquanto vissuta.
Teneva in mano un bastone, aveva un pugnale alla cintura e una torcia elettrica legata al polso con una cinghia.
Era, senza alcun dubbio, la donna più bella che Richard avesse mai visto.
«L’unione fa la forza. Se desidera venire con noi, è la benvenuta» disse, dopo un istante di esitazione. «Mi chiamo Richard Mayhew, e questa è Anestesia. È quella di noi che sa cosa sta facendo.»
La ragazza-ratto gongolava.
La donna vestita di pelle lo osservò dalla testa ai piedi. «Vieni da Londra Sopra» gli disse.
«Si.»
«E vai in giro con una parla-coi-ratti. Perbacco!»
«Sono il suo guardiano» disse Anestesia con aria feroce. «E tu chi sei? A quale signore devi fedeltà?»
La donna sorrise. «Non devo fedeltà a nessun uomo, ragazza-ratto. Qualcuno di voi due ha già attraversato il Night’s Bridge, il temibile Ponte della Notte?»
Anestesia scosse il capo.
«Bene. Allora ci divertiremo, giusto?»
Procedettero verso il ponte.
Anestesia diede a Richard la lampada-candela. «Tieni» disse.
«Grazie.» Richard guardò la donna vestita di pelle. «C’è davvero qualcosa da temere? Cosa c’è sul Knightsbridge, o Night’s Bridge che sia cosi pericoloso?»
«Solo quello che hai detto.»
«Intendi un tipo in armatura?»
«Intendo quel tipo di armatura che cala quando finisce il giorno. Questo c’è da temere.»
La mano di Anestesia andò in cerca di quella di Richard, che la afferrò con forza, una piccola mano in una più grande. Lei gli sorrise e ricambiò la stretta.
Quindi misero piede sul ponte, e Richard iniziò a comprendere il buio: il buio come qualcosa di solido e reale.
Richard sentiva che gli sfiorava la pelle, cercando, spostandosi, esplorando: gli scorreva nella mente. Poi gli scivolò nei polmoni, dietro gli occhi, in bocca…
A ogni passo la luce della candela diventava più fioca. Si accorse che la stessa cosa stava accadendo anche alla torcia della donna vestita di pelle.
Buio, totale e assoluto.
Rumori. Un fruscio, un movimento inconsulto. Richard sbatté le palpebre, accecato dalla notte.
I suoni erano sempre più cattivi, più affamati. A Richard parve di udire delle voci: un’orda di giganteschi troll deformi, sotto il ponte…
Qualcosa nell’oscurità scivolò accanto a loro e li superò.
«Cos’è?» squitti Anestesia. La piccola mano tremava in quella più grande.
«Shh!» sussurrò la donna. «Non attirare la sua attenzione.»
«Che succede?» bisbigliò Richard.
«Il buio» spiegò con calma la donna vestita di pelle. «Tutti gli incubi che emergono al calare del sole, fin dai tempi delle caverne, quando ci si rannicchiava gli uni accanto agli altri alla ricerca di calore e sicurezza. Questo è il momento di avere paura dell’oscurità.»
Richard si rese conto che qualcosa gli stava strisciando sul viso. Chiuse gli occhi: tanto non faceva alcuna differenza rispetto a ciò che vedeva o sentiva. La notte era assoluta.
E fu allora che cominciarono le allucinazioni.
Vide una figura cadere verso di lui nella notte, in fiamme, le ali e i capelli che andavano a fuoco.
Sollevò le mani: li non c’era nulla.
Jessica lo guardò, il disprezzo negli occhi.
Avrebbe voluto gridarle qualcosa, dirle che gli dispiaceva.
Metti un piede dopo l’altro.
Era un bambino, pìccolo, che tornava a casa da scuola, dì notte, lungo una strada senza lampioni. Non importava quante volte l’avesse fatto, non diventava mai più facile, mai più piacevole.
Era in fondo alla fognatura, perso in un labirinto. La Bestia lo stava aspettando.
Poteva sentire un lento sgocciolio d’acqua. Sapeva che la Bestia aspettava. Afferrò saldamente la lancia… Poi un rombo, dal profondo della gola della Bestia, da dietro dì lui. Si voltò. Con lentezza, con angosciante, terrìbile lentezza, l’animale caricò, nell’oscurità.
E caricò.
Mentre lui moriva. Continuò a camminare.
Con lentezza, con angosciante, terribile lentezza, l’animale caricò, ancora e ancora, nell’oscurità…
Ci fu un crepitio, e un chiarore cosi forte da far male. Era la fiamma della candela, nel suo candelabro di bottiglietta di tamarindo. Non aveva mai fatto caso a quanta luce può produrre una singola candela. La sollevò con orgoglio.
«Sembra che abbiamo attraversato con successo» disse la donna vestita di pelle.
Richard si accorse che il cuore gli batteva all’impazzata, che non riusciva a parlare. Si costrinse a respirare lentamente per calmarsi.
«Suppongo» disse esitante «che non siamo mai stati veramente in pericolo. Era come il castello delle streghe… dei rumori nel buio. E l’immaginazione fa il resto. Non c’era niente da temere, vero?»
La donna lo guardò con aria di compatimento, e Richard si rese conto che nessuno gli teneva la mano.
«Anestesia?»
Dall’oscurità sulla cima del ponte giunse un rumore sommesso, come un fruscio o un sospiro. Una manciata di perline di quarzo scese ticchettando dalla curvatura del ponte, nella loro direzione.
Richard ne prese una. Veniva dalla collana della ragazza-ratto.
«Sarà meglio… Dobbiamo tornare indietro. È…»
La donna sollevò la torcia, illuminando il ponte. Richard poteva vederlo tutto, ed era deserto.
«Dov’è?»
«Andata» rispose la donna con tono piatto. «Se l’è presa il buio.»
«Dobbiamo fare qualcosa» disse Richard.
«Del tipo?»
Lui apri la bocca. La richiuse. Maneggiò il piccolo blocco di quarzo e osservò gli altri, a terra. «Non lo so.»
«È andata» ripeté la donna. «Il ponte si prende un pedaggio. Sii felice che non abbia preso anche te. Ora, se stai andando al mercato, è per di qua, da questa parte. Vieni?»
Richard rimase là al buio per alcuni istanti scanditi dai violenti battiti del suo cuore pesante, poi infilò nella tasca dei jeans la perlina di quarzo e segui la donna, che lo precedeva di qualche passo.
Nel seguirla gli venne in mente che ancora non conosceva il suo nome.
CINQUE
La gente scivolava e fluiva nell’oscurità circostante impugnando lampade, torce e candele. A Richard pareva uscita da un documentario sui branchi di pesci, che luccicano e si muovono repentini nell’oceano… Acque profonde, abitate da esseri che hanno perso l’uso degli occhi. Acque davvero troppo profonde…
Richard segui la donna vestita di pelle che aveva salito qualche gradino. Gradini dì pietra bordati di metallo. Si trovavano in una stazione della metropolitana.
Si unirono a un gruppo di persone in coda in attesa di scivolare attraverso una grata, aperta all’incirca per una trentina di centimetri per scoprire la porta che conduceva fuori, sul marciapiede.
Immediatamente davanti a loro c’era una coppia di ragazzi, molto giovani, che portavano entrambi un legaccio stretto intorno al polso. L’altro capo dei legacci era tenuto da un uomo pallido e calvo che puzzava di formaldeide. Appena dietro di loro, invece, c’era un uomo con la barba grigia e un micino bianco e nero sulla spalla. Il gattino si stava lavando tutto assorto, poi diede una leccatina all’orecchio dell’uomo, quindi gli si acciambellò sulla spalla e si mise a dormire.
La coda procedeva lentamente quando, una a una, le sagome che si trovavano in cima scivolavano nello spazio tra la grata e il muro e avanzavano nella notte.
«Perché vai al mercato, Richard Mayhew?» chiese con tono pacato la donna vestita di pelle.
«Spero di incontrare degli amici. Be’, una amica, a dire il vero. In realtà non conosco molte persone di questo mondo. In qualche modo stavo iniziando a conoscere Anestesia, ma…» la voce gli venne meno. Fece la domanda. «È morta?»
La donna si strinse nelle spalle. «Si. O come se. Spero che la tua visita al mercato dia un senso alla sua perdita.»
Richard rabbrividì. «Lo spero anch’io» disse.
Stavano arrivando alla fine della coda.
«Tu cosa fai?» le chiese.
Lei sorrise. «Vendo servizi fisici personali.»
«Oh» fece lui. Poi, «Che tipo di servizi fisici personali?»
«Affitto il mio corpo.»
«Ah.»
E uscirono nella notte.
Richard si voltò a dare un’occhiata. Il cartello sulla stazione del metrò diceva: Knightsbridge. Non sapeva se ridere o piangere. Sembrava fossero le prime ore del mattino. Richard abbassò lo sguardo sul suo orologio e vedere che i numeri digitali erano scomparsi lasciando uno spazio vuoto non lo sorprese affatto. Forse si erano esaurite le pile. Forse il tempo a Londra Sotto era solo un lontano parente del tipo di tempo a cui era abituato. Si slacciò l’orologio e lo lasciò cadere nel più vicino cestino per la spazzatura.
Lo strano assortimento di persone stava sciamando per attraversare la strada, oltrepassando le doppie porte di fronte a loro.
«Lì?» chiese, spaventato.
La donna annui. «Lì.»
L’edificio era molto grande e pieno di luci. Vistosi blasoni sul muro affermavano che erano in vendita articoli di ogni genere approvati da vari membri della famiglia reale. Richard, che nei fine settimana aveva trascorso parecchie ore con i piedi doloranti, arrancando al seguito di Jessica attraverso i negozi più illustri di Londra, l’avrebbe riconosciuto anche senza l’enorme insegna che ne proclamava l’identità:
«Harrods?»
Hunter annui. «Solo per questa sera» disse. «Il prossimo mercato potrà essere ovunque.»
«Si, ma insomma…» disse Richard «Harrods!»
Entrarono attraverso la porta laterale. La stanza era al buio. Superarono il bureau de change e il reparto pacchi regalo. Attraversarono un’altra sala buia dove si vendevano occhiali da sole e statuine. Poi entrarono nella Sala Egizia. Luci e colori colpirono Richard come un pugno in pieno petto. La sua compagna si voltò verso di lui: stava sbadigliando, come una gatta, il dorso della mano a nascondere il vivido rosa della bocca.
«Bene. Sei arrivato. Sano e, più o meno, salvo. Io ho degli impegni di lavoro, perciò addio.» Un rapido cenno del capo, ed era scomparsa tra la gente.
Richard rimase li, solo in mezzo alla calca, abbeverandosene.
Era follia pura. Di quello non c’era alcun dubbio.
Il rumore era molto forte. La gente discuteva, contrattava, gridava e cantava. Erano venditori ambulanti che mostravano la propria mercanzia, decantandone la superiorità. Si udiva della musica — una dozzina di generi musicali diversi, suonati in una dozzina di maniere diverse su altrettanti strumenti diversi, la maggior parte improvvisati, improbabili,, improponibili.
Richard sentiva odore di cibo. Di cibi di ogni tipo.
Le bancarelle erano state sistemate in tutto il negozio. Accanto, quando non sopra, a banconi dove durante il giorno erano stati venduti profumi, orologi, ambra o foulard di seta, i venditori notturni avevano installato i loro banchetti improvvisati.
Tutti compravano. Tutti vendevano.
Si aggirava per le immense stanze del grande magazzino come in trance, incapace persino di fare una stima approssimativa del numero di persone presenti al mercato: un migliaio? Duemila? Cinquemila?
Una bancarella era stipata fino all’inverosimile di bottiglie, bottiglie piene e vuote, bottiglie di ogni forma e dimensione; un’altra offriva lampade e candele; passò davanti a un chiosco dove si vendevano luccicanti gioielli in oro e argento, e a uno in cui la gioielleria pareva creata utilizzando pezzi di vecchie radio; c’erano banchi con ogni sorta di libri; altri che vendevano vestiti — rattoppati e nuovi, e strani; tatuatori; un dentista; un vecchio curvo che vendeva cappelli; qualcosa che somigliava molto a un albergo diurno; persino un fabbro…
Le bancarelle erano intervallate da venditori di cibarie. Alcuni cuocevano la propria merce sul fuoco vivo: pietanze al curry, patate, caldarroste, funghi, pane.
Richard si ritrovò a chiedersi come mai il fumo dei fornelli non facesse scattare il sistema antincendio. Poi si ritrovò a chiedersi come mai nessuno saccheggiasse il negozio: perché montare bancarelle proprie? Perché non prendere direttamente la roba del grande magazzino?
Nella gente che lo circondava c’era qualcosa di profondamente tribale, decise Richard. Cercò di individuare i diversi gruppi: c’erano quelli che parevano scappati da una recita in costume; quelli che gli ricordavano gli hippy; gli albini con abiti grigi e occhiali scuri; quelli raffinati e pericolosi, in completo elegante e guanti neri; le donne gigantesche e praticamente identiche che si aggiravano in gruppetti di due o tre e incontrandosi facevano un cenno d’intesa; quelli dai capelli arruffati che dall’aspetto sembravano proprio vivere nelle fogne e che puzzavano in maniera terribile; e centinaia di altri…
Si chiese come la Londra normale — la sua Londra — sarebbe apparsa a un alieno. E il pensiero lo rese spavaldo.
Continuando a camminare, cominciò a chiedere in giro:
«Mi scusi, sto cercando un uomo di nome de Carabas e una ragazza che si chiama Porta. Sa dove posso trovarli?»
La gente scuoteva il capo, distoglieva lo sguardo e si allontanava, scusandosi.
Richard fece un passo indietro e pestò il piede a qualcuno.
Qualcuno che superava di parecchio i due metri ed era ricoperto di ciuffetti di pelo rossiccio. Qualcuno i cui denti erano stati limati fino a diventare aculei appuntiti. Qualcuno che sollevò Richard con una mano grande quanto la testa di un montone e ne portò il viso cosi vicino alla bocca del suddetto qualcuno da farlo quasi vomitare.
«Sono davvero spiacente» disse Richard. «Io — io sto cercando una ragazza di nome Porta. Sa dove…»
Ma qualcuno lo lasciò ricadere sul pavimento e se ne andò.
Una zaffata di odori di cucina si diffuse in tutto il piano, e Richard, che era riuscito a dimenticare la fame (fin da quando aveva declinato l’offerta di una prelibata fetta di gatto arrosto, non sapeva più quante ore prima), si ritrovò con l’acquolina in bocca e i processi mentali avviati verso un lento e inesorabile blocco.
La donna dai capelli color ferro che gestiva il banchetto di cibo li accanto non gli arrivava alla cintola. Quando Richard provò a rivolgerle la parola, scosse il capo e si appoggiò un dito sulle labbra. Non poteva parlare, o non parlava, o non voleva. Richard si mise a mimare un negoziato per dei panini con formaggio e insalata e per quello che alla vista e all’olfatto sembrava un bicchiere di limonata fatta in casa.
Il cibo gli costò una biro e un pacchetto di fiammiferi che non ricordava di possedere.
La donnina doveva essere convinta di avere fatto decisamente un buon affare, perché quando gli diede quello che aveva chiesto aggiunse anche un paio di biscotti alle noci.
Ora Richard era in piedi in mezzo alla folla, ad ascoltare la musica — qualcuno, per un motivo che a lui sfuggiva completamente, stava cantando il testo di Greensleeves, una famosa canzone di epoca elisabettiana, sulle note di Yakkety-Yak — , a osservare il bizzarro bazaar che gli si svolgeva intorno e a mangiare i panini.
Mentre finiva l’ultimo boccone, si rese conto di non avere fatto per niente caso al sapore di quanto aveva appena ingurgitato, quindi decise di rallentare il ritmo e di masticare i biscotti con calma. Sorseggiò la limonata, facendola durare il più possibile.
«Le serve un uccello, signore?» domandò una voce briosa, molto vicina. «Ho corvi neri e corvi imperiali, cornacchie e storni. Uccelli belli, saggi. Gustosi e saggi. Fantastici.»
Richard rispose «No, grazie» e si voltò.
L’insegna dipinta a mano che si trovava sopra il banco diceva
«OLD BAILEY: UCCELLI E INFORMAZIONI»
Tutto intorno c’erano altri cartelli più piccoli: «LO VUOI, LO SO!» e «NON TROVERAI STORNI PIÙ CARNOSI!!!!» e anche «QUANDO È TEMPO DI CORVO, È TEMPO DI OLD BAILEY!!» Richard si scoprì a ripensare all’uomo-sandwich che aveva visto appena arrivato a Londra, che se ne stava all’uscita della stazione della metropolitana di Leicester Square con un cartello davanti e uno sulla schiena per esortare il mondo a una Minore Lussuria Con Meno Proteine, Uova, Carne, Fagioli, Formaggio e Vita Sedentaria. Uccelli saltellavano e sbatacchiavano le ali all’interno di gabbiette che parevano ricavate intrecciando antenne televisive.
«Informazioni, allora?» continuò Old Bailey, ravvivando la parlantina da venditore. «Mappe dei tetti? Storia? Notizie segrete e misteriose? Se non lo so io, probabilmente è meglio dimenticarsene. Ecco cosa dico sempre.»
Il vecchio indossava ancora il cappotto piumato, ed era avvolto in corde e funi. Guardò Richard di sottecchi, poi inforcò gli occhiali che teneva legati al collo con uno spago e lo osservò attentamente attraverso le lenti.
«Aspetta un attimo. Io ti conosco. Tu stavi col Marchese de Carabas. Sul tetto. Ricordi? Eh? Sono Old Bailey. Ti ricordi di me?» Allungò la mano e strinse quella di Richard, agitandola furiosamente su e giù.
«In realtà» disse Richard «sto proprio cercando il Marchese. E la giovane signora di nome Porta. Penso che probabilmente siano insieme.»
Il vecchio si mise a saltellare, cosa che provocò il distacco di alcune penne dal cappotto e un coro di rauca disapprovazione da parte dei numerosi uccelli che lo circondavano.
«Informazioni! Informazioni!» annunciò alla stanza affollata. «Visto? Gliel’avevo detto. Diversificare, avevo detto. Diversificare! Non puoi passare la vita a vendere corvi per stufato — comunque sanno sempre di ciabatte bollite. E sono cosi stupidi. Duri come il muro. Hai mai mangiato corvo?» Richard scosse il capo. Quella era una cosa di cui poteva essere certo, in ogni caso.
«Cosa mi dai?» chiese Old Bailey.
«Prego?» fece Richard, saltando goffamente da un banco all’altro.
«Se ti do l’informazione, che me ne viene?»
«Non ho soldi» rispose Richard. «E ho appena dato via la mia penna.»
Cominciò a vuotarsi le tasche.
«Ecco!» disse Old Bailey. «Quello!»
«Il mio fazzoletto?» domandò Richard. Si trattava di un fazzoletto non esattamente immacolato, regalo di zia Maude per il suo ultimo compleanno.
Old Bailey lo afferrò e se lo agitò festante sopra la testa.
«Non temere, ragazzo!» canticchiò trionfante. «La tua ricerca è alla fine! Vai laggiù, oltre quella porta. Non puoi non vederli. Stanno facendo l’audizione.»
Un corvo gracchiò malignamente.
«Fatti i becchi tuoi» gli disse Old Bailey. Mentre a Richard disse: «Grazie della bandierina!»
E prese a saltellare intorno alla bancarella, felice e contento, agitando il fazzoletto avanti e indietro.
L’audizione? pensò Richard. Poi sorrise. Non aveva importanza. La sua ricerca, come aveva detto il vecchio e pazzo uomo dei tetti, era alla fine.
Si diresse verso il Reparto Alimentari.
Lo stile, per le guardie del corpo, era tutto. A nessuna mancava una specialità di qualche tipo, e non vedevano l’ora di mostrarla al mondo.
In quel momento Ruislip era intento all’ingaggio contro il Damerino Senza Nome.
Il Damerino Senza Nome somigliava un po’ a un libertino dei primi anni del diciottesimo secolo, uno che non riuscendo a trovare dei veri abiti da libertino avesse dovuto arrangiarsi con quanto recuperato a una fiera di beneficenza. Aveva il viso incipriato di bianco e le labbra dipinte.
Ruislip, l’avversario di Damerino, era la rappresentazione del tipo di sogno che si potrebbe fare mentre ci si addormenta guardando un incontro di sumo alla televisione, con un disco di Bob Marley in sottofondo: un gigantesco Rasta che pareva in modo impressionante un bebé obeso e enorme.
Stavano faccia a faccia, nel mezzo di un cerchio formato da spettatori e altre guardie del corpo.
Nessuno dei due uomini muoveva un muscolo.
Il Damerino superava Ruislip di una testa buona. D’altra parte, Ruislip pesava almeno quanto quattro damerini messi assieme, anche se ognuno avesse portato una grossa valigia di pelle straripante di lardo.
Si fissavano, senza mai interrompere il contatto visivo.
Il Marchese de Carabas toccò la spalla di Porta e le fece un cenno. Stava per accadere qualcosa.
Due uomini, che si limitavano a guardarsi…
Poi la testa del Damerino oscillò all’indietro, come fosse stato colpito al volto. Un piccolo livido rosso-violaceo gli comparve sulla guancia. Increspò le labbra e sbatté le ciglia.
«Oh!» disse, quindi distese al massimo le labbra imbellettate, nell’agghiacciante parodia di un sorriso. Gesticolò.
Ruislip barcollò e si portò le mani allo stomaco.
Il Damerino Senza Nome sorrise in modo smaccatamente compiaciuto, agitò le dita e mandò baci agli spettatori.
Ruislip lo fissava con rabbia, mentre ripeteva l’assalto mentale.
Le labbra del Damerino cominciarono a grondare sangue. L’occhio sinistro iniziò a gonfiarsi. Barcollò. Il pubblico rumoreggiava soddisfatto.
«Non è terribile come sembra» bisbigliò il Marchese a Porta.
Il Damerino Senza Nome vacillò, all’improvviso. Cadde in ginocchio come se qualcuno lo stesse spingendo giù, e fini lungo e disteso sul pavimento. Poi sobbalzò, come se qualcuno l’avesse appena preso a calci, con forza, nello stomaco.
Ruislip appariva trionfante. Gli spettatori applaudirono, educatamente. Il Damerino si contorceva, poi sputò sangue sulla segatura che copriva il pavimento del reparto Pesce e Carne di Harrods.
«Il prossimo» disse il Marchese.
Il Damerino venne trascinato in un angolo da alcuni amici e prese a dare violentemente di stomaco.
Anche il successivo aspirante guardia del corpo era più magro di Ruislip (all’incirca come due damerini e mezzo, che portassero però un’unica valigia piena di lardo in due). Era ricoperto di tatuaggi e vestito con abiti che sembravano realizzati unendo vecchi coprisedili per auto e tappetini di gomma. Aveva la testa rasata e scherniva il mondo con i denti marci.
«Sono Varney» disse, si raschiò la gola e sputò sulla segatura un ammasso verdognolo. Si diresse sul ring.
«Signori, quando siete pronti» disse il Marchese.
Ruislip pestò ritmicamente i piedi nudi sul pavimento, uno-due, uno-due, e cominciò a fissare duro Varney. Sulla fronte di Varney si apri un piccolo cratere da cui usciva un rivolo di sangue che gli gocciolava nell’occhio. Varney ignorò la cosa, e parve invece concentrarsi sul braccio destro.
Lo sollevò lentamente, come si opponesse a una foltissima pressione. Poi scaraventò il pugno contro il pomo d’Adamo di Ruislip. Che precipitò al suolo con il rumore di una mezza tonnellata di fegato fresco lasciato cadere in una vasca da bagno.
Varney ridacchiò.
Con estrema lentezza, Ruislip si rimise in piedi.
Varney si pulì il sangue dalla fronte e mostrò al mondo la sua bocca in rovina con un ghigno terrificante. «Vieni» disse. «Grasso segaiolo. Colpiscimi ancora.»
«Quello promette bene» bofonchiò il Marchese.
Porta rabbrividì. «Non ha un aspetto molto gradevole.»
«Gradevole in una guardia del corpo» predicò il Marchese «è utile quanto la capacità di rigurgitare un’aragosta intera. Ha un aspetto pericoloso.»
In quel mentre ci fu un mormorio di apprezzamento, quando Varney fece qualcosa di piuttosto doloroso a Ruislip, qualcosa di rapido, che implicava l’improvviso contatto tra il ginocchio foderato in similpelle di Varney e i testicoli di Ruislip. Il mormorio era un’approvazione del tipo sobrio e profondamente poco entusiasta che di solito si riscontra solo nei sonnacchiosi pomeriggi domenicali, durante gli incontri di cricket tra paesi limitrofi.
Il Marchese applaudì educatamente con il resto degli astanti. «Ottimo, signore» commentò.
Varney guardò Porta e le fece l’occhiolino, quasi con aria di possesso, prima di rivolgere nuovamente l’attenzione su Ruislip.
Porta rabbrividì.
Richard udì gli applausi e andò in quella direzione.
Venne superato da cinque giovani donne estremamente pallide e vestite in modo pressoché identico. Indossavano lunghi abiti di velluto, tutti scuri al punto da sembrare quasi neri pur essendo rispettivamente verde scuro, marrone scuro, blu notte, sangue intenso e nero vero e proprio.
Tutte avevano i capelli neri e portavano gioielli d’argento; tutte erano pettinate e truccate alla perfezione. Si muovevano in silenzio: solo un fruscio dei pesanti velluti quando passavano, un fruscio che pareva quasi un sospiro.
L’ultima, quella vestita di nero, la più pallida e la più bella, sorrise a Richard.
Che, un po’ circospetto, restituì il sorriso.
Quindi si mosse verso l’audizione.
Si teneva nel reparto Pesce e Carne, nella zona al di sotto della scultura del pesce di Harrods.
Il pubblico gli voltava le spalle e formava un cerchio con due o tre persone una dietro l’altra. Richard si chiedeva se sarebbe stato facile trovare Porta e il Marchese, e in quel momento la folla si apri e li vide, seduti entrambi sul bancone di vetro del salmone affumicato. Aprì la bocca per gridare «Porta!» e mentre lo faceva comprese il motivo per cui la folla si era aperta: un uomo enorme, paralizzato dalla paura, praticamente nudo non fosse stato per il pezzo di stoffa giallo, rosso e verde che gli avvolgeva la parte bassa del torace a mo’ di pannolino, era stato catapultato oltre gli spettatori, come lanciato da un mangano, e gli stava atterrando proprio addosso.
«Richard?» disse la ragazza.
Lui apri gli occhi. La messa a fuoco del viso andava e veniva. Degli occhi dallo strano colore, che fissavano i suoi, in un viso giovane e pallido, quasi da folletto.
«Porta?» fece.
Era furiosa. Era molto più che furiosa.
«Temple e Arch, Richard! Non posso crederci. Che ci fai qui?»
«Anch’io sono contento di vederti» disse debolmente Richard. Si mise a sedere, chiedendosi se avesse una commozione cerebrale. Chiedendosi come poteva scoprirlo. Chiedendosi come aveva potuto pensare che Porta sarebbe stata felice di vederlo.
Lei, le narici frementi, si fissava intensamente le unghie, come non si fidasse a dire altro.
L’omone dall’orribile dentatura, che l’aveva fatto cadere sul ponte, stava lottando contro un nano. Combattevano con delle spranghe di ferro, e la lotta non era impari come avrebbe potuto sembrare. Il nano era straordinariamente veloce: si rotolava, colpiva, rimbalzava, si tuffava; ogni suo movimento faceva apparire Varney goffo e sgraziato al confronto.
Richard si rivolse al Marchese, che guardava il combattimento con attenzione.
«Cosa sta succedendo?» chiese.
Il Marchese gli concesse un’occhiata, quindi riportò lo sguardo sull’azione che si svolgeva davanti a loro. «Tu» disse «sei immerso in qualcosa di troppo profondo per le tue possibilità, ossia nella merda fino al collo, tanto per essere chiaro, e davvero poche ore, immagino, ti separano da una fine prematura e senza alcun dubbio disonorevole. Noi, al contrario, stiamo facendo un’audizione per guardie del corpo.»
Varney mise in comunicazione la sua spranga di ferro con il nano, che cessò istantaneamente di balzare e guizzare per mettersi a giacere privo di sensi.
«Penso che abbiamo visto abbastanza» disse il Marchese ad alta voce. «Grazie a tutti. Signor Varney, può cortesemente attendere un istante?»
«Perché sei voluto venire?» chiese con freddezza Porta.
«Non è che avessi molta scelta» ribatté Richard.
Lei sospirò.
Il Marchese stava marciando intorno al perimetro, congedando le diverse guardie del corpo che aveva già visionato, distribuendo qualche parola di lode qui e un consiglio là. Varney aspettava pazientemente in un angolo.
Richard azzardò un sorriso in direzione di Porta. Fu ignorato.
«Come sei arrivato al mercato?» chiese la ragazza.
«C’erano quelle persone-ratti…» cominciò Richard.
«Parla-coi-ratti» corresse lei.
«E, vedi, il ratto che ci aveva portato il messaggio del Marchese…»
«Padron Codalunga» disse lei.
«Be’, ha detto che dovevano accompagnarmi qui.»
Porta alzò un sopracciglio e piegò lievemente la testa da un lato. «Ti ha portato qui un parla-coi-ratti?»
Annui. «Per quasi tutta la strada. Era una ragazza. Si chiamava Anestesia. Lei è… be’, le è successo qualcosa. Sul ponte. Per l’ultima parte del tragitto mi ha portato qui un’altra signora. Credo che fosse una… lo sai.» Esitò, poi lo disse. «Prostituta.»
Il Marchese aveva fatto ritorno. Se ne stava in piedi di fronte a Varney, che appariva oscenamente compiaciuto di se stesso.
«Conoscenza delle armi?» domandò il Marchese.
«Uh!» disse Varney. «Mettiamola cosi: se ci si può affettare qualcuno, far schizzare via una testa, spaccare le ossa o fare un bucaccio in una pancia, Varney le usa da maestro.»
«Precedenti datori di lavoro soddisfatti del servizio?»
«Olympia, la Regina dei Pastori, i Finitori in Guardia Bassa. Per un po’ mi sono occupato della sicurezza della fiera di maggio di Mayfair.»
«Bene» disse il Marchese de Carabas. «La tua abilità ha molto colpito tutti noi.»
«Mi pareva di aver capito» disse una voce femminile «che aveste pubblicato un’inserzione per una guardia del corpo. Non per dilettanti fanatici.»
La sua pelle aveva il colore dello zucchero caramellato caldo, e il suo sorriso avrebbe fermato una rivoluzione. Era vestita da capo a piedi di morbide pelli grigie e marroni.
«È lei» bisbigliò Richard a Porta. «La prostituta.»
«Varney» ribadì Varney, offeso, «è la migliore guardia del corpo e bravo del Mondo di Sotto. Lo sanno tutti.»
La donna si rivolse al Marchese. «Sono già finite le prove di selezione?» chiese.
«Si» disse Varney.
«Non per forza» rispose il Marchese.
«Allora» gli disse lei «vorrei fare l’audizione.»
Solo un attimo di esitazione e il Marchese disse, «Molto bene.» Fece un passo indietro, balzò sul banco del salmone affumicato e si mise comodo a osservare l’azione.
Varney era indubbiamente pericoloso, per non dire prepotente, sadico e attivamente dannoso per la salute fisica di quanti lo circondavano. Non era, però, particolarmente sveglio. Rimase, li, fermo, a fissare il Marchese, mentre il seme del dubbio si insinuava e si insinuava, sempre più insinuante. Infine, incredulo, chiese, «Devo lottare contro di lei?»
«Si» rispose la donna vestita di pelle. «A meno che tu non voglia prima sdraiarti un pochino.»
Varney cominciò a ridere: un ghigno da maniaco.
Smise di ridere un attimo dopo, quando la donna gli diede un gran calcio al plesso solare, che lo abbatté come un albero.
Accanto alla sua mano, sul pavimento, si trovava la spranga di ferro utilizzata nel combattimento con il nano. L’afferrò e la sbatté violentemente contro il viso della donna — o l’avrebbe fatto se lei non avesse schivato il colpo. Rapidissima, gli picchiò le mani aperte sulle orecchie. La spranga volò dall’altra parte della stanza.
Ancora traballante per il dolore alle orecchie, Varney estrasse un coltello dallo stivale. Di quanto accadde dopo, non fu mai del tutto certo: sapeva solo che il mondo aveva ruotato sotto i suoi piedi e si era ritrovato a faccia in giù sul pavimento, con il sangue che gli colava dalle orecchie e il suo stesso coltello alla gola. Il Marchese de Carabas stava dicendo, «È sufficiente!»
La donna alzò gli occhi, tenendo sempre il coltello contro la gola di Varney. «Allora?» chiese.
«Davvero notevole» disse il Marchese.
Porta annui.
Richard era sbalordito: era stato come vedere Emma Peel, Bruce Lee e un tornado particolarmente temibile tutti condensati in un solo essere, con una generosa farcitura di riprese tratte da un documentario sulla vita animale che una volta aveva visto in TV e che mostrava l’uccisione di un cobra reale da parte di una mangusta. Era cosi che si muoveva. Era cosi che aveva lottato.
La donna abbassò gli occhi verso Varney. «Grazie, signor Varney» disse educatamente. «Temo che non avremo bisogno dei suoi servigi, dopo tutto.»
Gli scese di dosso e si mise il coltello alla cinta.
«E tu ti chiami?» domandò il Marchese.
«Mi chiamo Hunter» rispose lei.
Nessuno proferì parola. Poi Porta, titubante, disse, «Quell’Hunter?»
«Esatto» disse Hunter, spazzolando via la polvere dai gambali di pelle. «Sono tornata.»
Chissà dove una campana suonò, due volte, dei rintocchi profondi che fecero vibrare i denti di Richard. «Cinque minuti» bofonchiò il Marchese. Poi, rivolgendosi agli spettatori rimasti, disse, «Credo che abbiamo trovato la nostra guardia del corpo. Grazie a tutti. Non c’è altro da vedere.»
Hunter si diresse verso Porta e la squadrò dall’alto e dal basso.
«Puoi impedire che mi uccidano?» chiese Porta.
Hunter piegò il capo in direzione di Richard. «A lui oggi ho salvato la vita tre volte, sul ponte, venendo al mercato.» Varney si era faticosamente rimesso in piedi, e con la mente aveva sollevato la spranga di ferro.
Il Marchese vide cosa stava facendo ma non disse nulla.
L’ombra di un sorriso comparve sulle labbra di Porta. «Questa è bella» disse. «Richard pensava che fossi una…»
Hunter non seppe mai cosa Richard pensava che fosse. La spranga precipitò verso la sua testa come un bolide. Si limitò ad allungare il braccio e ad afferrarla: le si fermò agevolmente nel palmo della mano con un tuapp.
Andò da Varney.
«È tua?» chiese.
Le mostrò i denti, gialli, neri e marrone.
«In questo momento» disse Hunter «siamo sotto l’Armistizio del Mercato. Ma se provi a fare un’altra cosa del genere, revoco l’armistizio, ti spezzo entrambe le braccia e te le faccio riportare a casa con i denti. Ora,» continuò piegandogli il braccio dietro la schiena, «di’ mi dispiace. Con gentilezza.»
«Uau» fece Varney.
«Si?» disse lei, con aria incoraggiante.
Sputò fuori un «Mi dispiace» come se stesse per soffocare.
Lo lasciò andare.
Varney rinculò a distanza di sicurezza, impaurito e furioso, tenendo sempre gli occhi su Hunter, senza mai voltarle le spalle. E, una volta raggiunta la porta del Reparto Alimentari, esitò prima di strillare, «Sei morta! Sei morta e fottuta, ecco quello che sei!» con una voce che rasentava le lacrime.
Quindi si girò e corse via dalla stanza.
«Dilettanti» sospirò Hunter.
Ripercorsero la strada che aveva seguito Richard.
Adesso la campana rintoccava ininterrottamente, con suono profondo. Veniva suonata da un omone nero vestito di nero, con indumenti da frate domenicano, ed era stata posta accanto al banco che Harrods riserva alle gelatine di frutta di alta qualità.
Se il mercato non poteva lasciare indifferenti, ancora di più colpiva la rapidità con cui tutto veniva smantellato, fatto a pezzi e messo via. Ogni traccia del fatto che si fosse tenuto li stava scomparendo: le bancarelle venivano smontate, impilate sulle spalle dei proprietari e portate chissà dove.
Richard scorse Old Bailey, le braccia cariche di cartelli rudimentali e gabbie per uccelli, che usciva barcollando dal negozio.
La folla si diradò. Il mercato scomparve. Il piano terra di Harrods aveva l’aspetto di sempre, stucchevole e rispettabile come tutte le volte che ci aveva fatto un giro con Jessica.
«Hunter, il Cacciatore» disse il Marchese. «Ho sentito parlare di te, naturalmente, ma dove sei stata per tutto questo tempo?»
«Ho cacciato» rispose semplicemente lei. Poi, rivolta a Porta, «Puoi prendere ordini?»
Porta annui. «Se proprio devo.»
«Bene. Allora forse posso salvarti la vita» disse Hunter. «Se accetto l’incarico.»
Il Marchese si fermò. La guardò di sottecchi, diffidente. «Hai detto se accetti l’incarico…?»
Hunter apri la porta e uscirono sul marciapiede di Londra. Era notte. Mentre si trovavano al mercato aveva piovuto e i lampioni si specchiavano sul catrame bagnato.
«L’ho accettato» disse Hunter.
Richard si sentiva sempre più un bagaglio al seguito. Porta evitava di guardarlo negli occhi, il Marchese lo ignorava e Hunter lo trattava come una cosa del tutto non pertinente.
«Sentite» disse. «Non voglio annoiare o essere di peso, ma io che faccio?»
Il Marchese si voltò a fissarlo, gli occhi grandi e bianchi nel viso scuro. «Tu?» disse. «Cosa fai tu?»
«Be’,» disse Richard «come faccio a tornare alla normalità? È come se fossi entrato in un incubo. La settimana scorsa, tutto aveva un senso e adesso di senso proprio non…» le parole gli si spensero sulle labbra. Deglutì. «Voglio sapere come fare per riavere la mia vita» spiegò.
«Non la riavrai venendo con noi, Richard» disse Porta. «Per te sarà piuttosto dura comunque. Mi… mi dispiace davvero.»
Hunter, che guidava il gruppo, si inginocchiò sul marciapiede. Si tolse dalla cintura un piccolo oggetto metallico che utilizzò per sbloccare un tombino che portava alle fogne. Lo sollevò, guardò all’interno con circospezione, scese, quindi fece entrare Porta.
Mentre scendeva, Porta evitò di guardare Richard.
Il Marchese si grattò un lato del naso. «Giovanotto,» disse «ci sono due Londra. C’è Londra Sopra — quella dove vivevi tu — e Londra Sotto — la Parte Sotterranea — abitata dalle persone che sono precipitate nelle fenditure del mondo. Tu sei uno di loro, adesso. Buona notte.»
Cominciò a scendere la scaletta del pozzetto fognario. Richard disse «Aspetti!» e afferrò il tombino prima che si chiudesse. Seguì il Marchese all’interno.
All’inizio del pozzetto il tanfo di cloaca era molto forte — un’untuosa puzza di cavolo, di morte. Si aspettava che scendendo peggiorasse, invece si dissipò abbastanza rapidamente.
Dell’acqua grigia correva, poco profonda ma veloce, sul fondo del tunnel di mattoni.
Richard ci mise dentro i piedi. Poco più in là poteva scorgere la luce degli altri, perciò si mise a correre, schizzando, lungo il tunnel finché li raggiunse.
«Vattene» disse il Marchese.
«No» rispose lui.
Porta lo guardò. «Mi dispiace tanto, Richard» disse.
Il Marchese si intromise. «Non puoi tornare alla tua vecchia casa, al tuo vecchio lavoro o alla tua vecchia vita» gli disse, quasi con gentilezza. «Non esiste nessuna di quelle cose. Lassù, tu non esisti.» Erano arrivati a un raccordo, un luogo dove si univano tre tunnel. Porta e Hunter si infilarono in uno dei tre, quello dove non scorreva acqua, senza guardarsi indietro. Il Marchese indugiava.
«Devi solo cercare di affrontare la situazione nel miglior modo possibile» disse a Richard. «Nelle fognature, nella magia e nel buio.» Poi fece un ampio sorriso: «Bene, felice dì averti rivisto. Tutta la fortuna del mondo. Se riesci a sopravvivere per i prossimi due o tre giorni, forse puoi anche riuscire a farcela per un mese intero.»
Detto questo si voltò e prese a percorrere la fogna a grandi passi.
Richard si appoggiò al muro, ascoltando l’eco dei tacchi che si allontanavano, il flusso dell’acqua che gli correva accanto, diretta all’impianto di pompaggio della zona est, e il lavorio della fogna.
«Merda» esclamò.
Poi, con sua grande sorpresa, per la prima volta dopo la morte di suo padre, da solo, al buio, Richard Mayhew si mise a piangere.
La stazione della metropolitana era quasi deserta e quasi buia. Varney la attraversò, rasentando i muri, lanciando occhiate nervose dietro di sé e di fronte, da un lato e dall’altro.
Aveva scelto una stazione a caso ed era andato in quella direzione sui tetti e tra le ombre, accertandosi di non essere seguito. Non aveva intenzione di tornare al covo nei tunnel profondi di Camden Town. Troppo rischioso. C’erano altri posti in cui Varney aveva nascosto armi e cibo. Sarebbe rimasto in superficie per un po’. Fino a che la faccenda fosse passata nel dimenticatoio.
Si fermò accanto a un distributore di biglietti, in ascolto, nel buio.
Silenzio assoluto. Certo di essere solo, si concesse di rilassarsi. Si fermò in cima alla scala a chiocciola e fece un respiro profondo.
Una voce vicino a lui, untuosa come olio lubrificante esausto, disse con tono colloquiale, «Varney è il miglior bravo e guardia del corpo del Mondo di Sotto. Lo sanno tutti. Ce l’ha detto il signor Varney in persona.»
E una voce dall’altro lato rispose, dolcemente, «Non è carino mentire, mister Croup.»
Nell’oscurità più fitta, mister Croup caldeggiò il concetto. «No, non lo è, mister Vandemar. Devo dire che la considero un’offesa personale, che mi ha profondamente ferito. E deluso. Quando non si hanno lati positivi, le delusioni non si prendono molto bene, che ne pensa mister Vandemar?»
«Tutto il male possibile, mister Croup.»
Varney si lanciò in avanti e si mise a correre nel buio, scendendo a capofitto per la scala a chiocciola.
Una voce dalla cima delle scale, quella di mister Croup: «Dovremmo considerarla una vera e propria forma di eutanasia.»
Il rumore dei piedi di Varney si allontanò fragorosamente dalla ringhiera di metallo, riecheggiando per la tromba delle scale. Ansava e ansimava, le spalle che rimbalzavano contro il muro, mentre ruzzolava in avanti alla cieca, nell’oscurità.
Raggiunse gli scalini più in fondo, dove un cartello segnalava ai passeggeri in uscita che per arrivare in cima c’erano 259 gradini, e che soltanto persone in piena forma potevano anche solo pensare di tentare l’impresa. Tutti gli altri, suggeriva il cartello, avrebbero fatto meglio a usare l’ascensore.
L’ascensore?
Qualcosa produsse un suono metallico, e le porte dell’ascensore si aprirono con maestosa lentezza, inondando di luce il corridoio.
Varney armeggiò alla ricerca del coltello: prese a imprecare, accorgendosi che ce l’aveva ancora quella puttana di Hunter. Allungò la mano verso il machete che teneva nel fodero sulla spalla.
Era sparito.
Dietro di sé udì un educato tossicchiare, e si voltò.
Mister Vandemar era seduto sui gradini in fondo alla scala a chiocciola.
Si stava pulendo le unghie con il machete di Varney.
A quel punto mister Croup gli fu addosso, tutto denti, artigli e piccole lame; e Varney non ebbe neppure il tempo di gridare.
«Addio» disse mister Vandemar, impassibile, senza smettere di tagliarsi le unghie.
Allora cominciò a scorrere il sangue. Sangue rosso e tiepido in una quantità spaventosa, dato che Varney era un omone e se l’era tenuto tutto dentro.
Quando mister Croup e mister Vandemar ebbero finito, però, era quasi impossibile notare la minuscola macchiolina di sangue in fondo alla scala a chiocciola.
Alla prima lavata, ogni traccia sarebbe scomparsa per sempre.
Hunter procedeva per prima. Porta camminava nel mezzo. Il Marchese de Carabas si occupava della retroguardia. Nessuno dei tre aveva pronunciato verbo dopo avere lasciato Richard, mezz’ora prima.
All’improvviso Porta si fermò. «Non possiamo farlo» disse con tono piatto. «Non possiamo lasciarlo là da solo.»
«Certo che possiamo» disse il Marchese. «Anzi, l’abbiamo già fatto.»
Lei scosse il capo. Si era sentita colpevole e stupida fin dal momento in cui aveva visto Richard all’audizione, sdraiato sulla schiena sotto il peso di Ruislip. Non le andava proprio.
«Non essere sciocca» disse il Marchese.
«Mi ha salvato la vita» ribadi lei. «Avrebbe potuto lasciarmi sul marciapiede, ma non l’ha fatto.»
Il Marchese alzò un sopracciglio: distaccato, distante, un vero seguace dell’ironia. «Mia cara giovane signora,» disse «non abbiamo in programma di portare con noi un passeggero, durante questa spedizione.»
«Non assumere quell’aria di superiorità con me, de Carabas» disse Porta. Sembrava stanca. «Penso di poter decidere chi viene con noi. Lavori per me anche tu, no? O è vero il contrario?»
Lui la fissò con una freddezza piena di rabbia. «Lui non viene con noi» affermò con un tono che non ammette replica. «E comunque a quest’ora sarà già morto.»
Richard non era morto. Se ne stava seduto al buio, su un cornicione a lato di un canale per le acque piovane, chiedendosi cosa fare, chiedendosi in quali acque infinitamente troppo profonde per le sue possibilità si sarebbe potuto trovare.
Decise che fino a quel momento la vita l’aveva preparato alla perfezione per lavorare in Borsa, fare acquisti al supermercato, guardare la partita di calcio in TV la domenica pomeriggio e accendere il riscaldamento quando aveva freddo. Aveva però totalmente fallito nell’addestrarlo a un’esistenza da non-persona sui tetti e nelle fogne di Londra, a un’esistenza al freddo, all’umido e al buio.
Il baluginio di una luce. Passi che si avvicinano. Se, pensò, si fosse trattato di un branco di assassini, cannibali o mostri, non sarebbe nemmeno stato in grado di provare a battersi. Che lo finissero pure, ne aveva avuto abbastanza. Abbassò gli occhi nell’oscurità e li fissò nel punto in cui avrebbero dovuto trovarsi i suoi piedi. I passi si avvicinarono ulteriormente.
«Richard?» Era la voce di Porta.
Sobbalzò. Poi la ignorò deliberatamente. Se non fosse per te, pensò…
«Richard?»
Non alzò gli occhi. «Cosa?» rispose.
«Senti,» disse lei «tu non ti troveresti in questo guaio se non fosse per me. E non credo che sarai più al sicuro restando con noi, però… Be’…» Si strinse nelle spalle. Un respiro profondo. «Mi dispiace. Vieni?»
«Dato che al momento non ho altri impegni,» disse con una studiata noncuranza che rasentava l’isterismo, «perché no?»
Lei lo abbracciò stretto.
«E cercheremo di farti tornare indietro» disse. «Promesso. Una volta trovato quello che sto cercando.»
Cominciarono a percorrere il tunnel. Richard poteva vedere Hunter e il Marchese che li aspettavano all’entrata. Il Marchese aveva l’aria di uno che è stato costretto a inghiottire della polpa di limone. «E cosa stai cercando?» chiese Richard, il cui morale aveva ripreso leggermente quota.
«È una lunga storia» rispose la ragazza con tono solenne. «Al momento stiamo cercando un angelo di nome Islington.»
Richard scoppiò a ridere. Non riusciva a frenarsi. C’era indubbiamente un po’ di isterismo, ma anche la stanchezza di chi è in qualche modo riuscito a credere a svariate decine di cose incredibili, senza neppure avere prima fatto una colazione decente. La sua risata echeggiò nei tunnel.
«Un angelo?» disse ridacchiando confuso. «Che si chiama Islington come il quartiere?»
«Abbiamo molta strada da fare» disse Porta.
E Richard scosse il capo, sentendosi spremuto, svuotato e defraudato.
«Un angelo» bisbigliò ai tunnel e al buio. «Un angelo!»
Il Gran Salone era tutto ricoperto di candele. C’erano candele accanto ai piloni di ferro che sostenevano il soffitto. Candele in attesa vicino alla cascatella che scendeva da un muro e nel piccolo stagno scavato nella roccia sottostante. Candele raggnippate ai lati del muro di roccia. Candele ammassate sul pavimento. C’erano candele nei candelabri che facevano ala alla grande porta tra due neri piloni di ferro. La porta era realizzata con liscia silice nera inserita in una base d’argento che si era scurita con il passare dei secoli diventando quasi nera anch’essa.
Le candele erano spente, ma al suo passaggio guizzanti fiammelle prendevano vita. Nessuna mano le aveva toccate, nessun fuoco aveva sfiorato i loro stoppini. Il suo abito era semplice e bianco; o più che bianco. Un colore, o un’assenza di colore, cosi luminoso da far trasalire. Aveva i piedi nudi sul freddo pavimento di roccia del Gran Salone. Il viso era pallido, saggio e gentile; e, forse, un po’ malinconico.
Era molto bello.
E in un attimo, tutte le candele del Salone erano accese.
Si arrestò presso lo stagno nella roccia; si inginocchiò vicino all’acqua, mise le mani a coppa, le tuffò nel liquido cristallino e bevve. L’acqua era molto fredda, ma anche molto pura. Terminato di bere chiuse gli occhi per un istante, quasi stesse benedicendo.
Quindi si alzò e se ne andò per dove era venuto, attraversando il Salone; e quando passava le candele si spegnevano, come avevano fatto per decine di migliaia di anni.
Non aveva ali, eppure era senza alcun dubbio un angelo. Islington lasciò il Gran Salone, anche l’ultima candela si spense e tornò il buio.
SEI
Richard scrisse mentalmente un appunto per il suo diario.
Caro Diario, cominciò, venerdì avevo un lavoro, una fidanzata, una casa e una vita che aveva senso. (Be’, per quanto senso possa avere qualunque vita). Poi ho trovato una ragazza ferita e sanguinante sul marciapiede e ho cercato di fare il Buon Samaritano. Adesso non ho più fidanzata, né casa, né lavoro, e me ne vado in giro a quasi un centinaio di metri sotto le strade di Londra con un’aspettativa di vita pari a quella di un’efemera.
«Da questa parte» disse il Marchese.
«Ma non sembrano tutti uguali questi tunnel?» chiese Richard, mettendo temporaneamente da parte le annotazioni per il diario. «Come si fa a capire qual’è uno e qual’è l’altro?»
«Non si capisce» disse il Marchese. «Infatti ci siamo irrimediabilmente persi. Non ci troveranno mai più. Tra un paio di giorni ci uccideremo a vicenda per procurarci il cibo.»
«Sul serio?»
«No.»
Richard riprese a redigere il diario mentale.
Ci sono centinaia di persone in quest’altra Londra. Forse migliaia. Persone che provengono da qui o persone che sono cadute nelle fenditure. Io sto vagando senza meta con una ragazza che si chiama Porta, la sua guardia del corpo e il suo psicotico gran visir. La notte scorsa abbiamo dormito in un piccolo tunnel che secondo Porta una volta era una sezione della fognatura del quartiere di Regency. Quando mi sono addormentato, la guardia del corpo era sveglia, e lo era anche quando mi hanno svegliato. Credo non dorma mai. Per colazione abbiamo avuto della torta di frutta; il Marchese ne aveva in tasca un bel pezzo. Perché mai qualcuno dovrebbe tenersi in tasca delle fette di torta di frutta? Mentre dormivo mi si sono asciugate le scarpe. Quasi del tutto.
Voglio andare a casa.
E sottolineò mentalmente l’ultima frase per tre volte, la riscrisse a caratteri cubitali con l’inchiostro rosso e ci fece intorno un circoletto, prima di aggiungere punti esclamativi a profusione sul margine mentale lì a fianco.
Per lo meno il tunnel in cui stavano procedendo era asciutto. Era un tunnel high-tech: tutto tubi d’argento e muri bianchi.
Il Marchese e Porta camminavano insieme, davanti. Hunter si spostava in continuazione: a volte era dietro di loro, a volte su un lato o sull’altro, spesso li precedeva di qualche passo, fusa con le ombre. Quando si muoveva non produceva alcun rumore, fatto che Richard trovava piuttosto sconcertante.
Davanti a loro spuntò una luce.
«Ci siamo» disse il Marchese. «È la stazione di Bank. Ottimo posto da cui cominciare le ricerche.»
«È fuori di testa» commentò Richard. Non intendeva farsi sentire, ma anche la più sotto delle voci si diffondeva e riecheggiava nell’oscurità.
«Davvero?» disse il Marchese.
Il terreno cominciò a rimbombare: un treno della metropolitana, da qualche parte, molto vicino.
«Richard, lascia perdere» disse Porta.
Ma ormai gli stava uscendo di bocca: «Be’,» disse «vi state comportando da sciocchi tutti e due. Non esistono gli angeli.»
Il Marchese annui commentando, «E già, certo. Adesso si che ti capisco. Gli angeli non esistono. Cosi come non esiste una Londra Sotto, né parla-coi-ratti, né pastori a Shepherd’s Bush.»
«Non ci sono pastori a Shepherd’s Bush solo perché si chiama ’boschetto dei pastori’» puntualizzò seccamente Richard.
«Ci sono» disse Hunter dall’oscurità, proprio accanto al suo orecchio. «Prega di non incontrarli mai.» Sembrava serissima.
«Dite quello che volete,» riprese Richard «ma io continuo a non credere che qui sotto si aggirino stuoli di angeli.»
«Non stuoli di angeli» precisò il Marchese. «Un angelo.» Erano giunti alla fine del tunnel. Davanti a loro c’era una porta chiusa a chiave. Il Marchese si fece da parte. «Mia signora?» disse a Porta.
Lei appoggiò per un attimo la mano sulla porta, che si apri senza far rumore.
«Forse» insistette Richard «intendiamo cose diverse. Gli angeli che ho in mente io sono tutti ali, aureole, trombe e pace-in-terra-agli-uomini-di-buona-volontà. »
«Esatto» disse Porta. «È proprio cosi: un angelo.»
Attraversarono la porta.
Istintivamente Richard chiuse gli occhi. Troppa luce, che gli trafiggeva la testa come un attacco di emicrania. Quando gli occhi si furono abituati al chiarore, Richard si accorse di trovarsi nel lungo tunnel pedonale che unisce le stazioni della metropolitana di Monument e Bank. Nei tunnel si aggiravano numerosi pendolari, nessuno dei quali diede ai quattro neppure un’occhiata di striscio.
Nel tunnel echeggiava il vivace lamento di un sassofono: I’ll Never Fall in Love Again di Burt Bacharach e Hal David, suonata neanche troppo male.
Richard si impose di non canticchiare.
Si stavano dirigendo verso Bank.
«Allora chi stiamo cercando» chiese con aria da innocentino. «L’angelo Gabriele? Raffaele? Michele?»
Passando davanti a una piantina del metrò il Marchese indicò col dito: «’Angel’, stazione dell’angelo: ’Islington’.»
Richard cambiò argomento. «Sapete, un paio di giorni fa ho tentato di salire su un treno della metropolitana, ma non me lo ha permesso.»
«Devi solo fargli capire chi è che comanda, tutto qui» disse dolcemente Hunter, dietro di lui.
Porta si mordicchiava il labbro inferiore. «Questo ci lascerà salire» disse. «Se riusciamo a trovarlo.»
Innamorarsi vuol dire stare
sempre nell’occhio del ciclone…
Io, no non mi innamoro più…
Scesero qualche scalino e svoltarono a un angolo.
Il suonatore di sassofono aveva steso il cappotto davanti a sé, sul pavimento del tunnel. Sul cappotto c’erano delle monete che parevano messe da lui stesso per convincere i passanti che chi li aveva preceduti aveva lasciato qualcosa.
Non si faceva imbrogliare nessuno.
Il suonatore di sassofono era estremamente alto; aveva i capelli neri fino alle spalle, e una lunga barba biforcuta che incorniciava degli occhi infossati e un naso severo. Indossava una maglietta sbrindellata e jeans macchiati di olio.
Quando i viaggiatori lo raggiunsero smise di suonare, tolse la saliva dall’imboccatura, riposizionò l’ancia e si lanciò in un’interpretazione della canzone di Julie London Cry me a river.
Ora, dici mi dispiace…
Con sorpresa, Richard si rese conto che l’uomo poteva vederli — e che faceva del suo meglio per fingere di non riuscirci. Il Marchese si fermò di fronte a lui. Il lamento del sassofono si affievolì nervosamente. Il Marchese fece lampeggiare un largo e gelido sorriso.
«Sei Lear, vero?» chiese.
L’uomo annui circospetto. Le dita accarezzavano i tasti del sassofono.
«Cerchiamo Earl’s Court» continuò il Marchese. «Capita per caso che sulla tua persona si trovi qualcosa di simile a un orario dei treni?»
Lear si inumidì le labbra con la punta della lingua. «Non è impossibile. Cosa me ne verrebbe se ce l’avessi?»
Il Marchese si ficcò le mani nelle tasche del soprabito. Poi sorrise, come un gatto a cui siano state affidate le chiavi di un istituto per canarini disobbedienti ma cicciottelli.
«Si dice» buttò li oziosamente, come stesse solo passando il tempo, «che Blaise, il maestro di Merlino, una volta scrisse una musica da danza cosi allettante da attirare il denaro fuori dalle tasche di chiunque la ascolti.»
Gli occhi di Lear divennero due fessure. «Questo varrebbe ben più di un orario dei treni» disse. «Se tu ce l’avessi davvero.»
Il Marchese fece una perfetta imitazione di qualcuno che scopre: perbacco, ha ragione, varrebbe di più! «Be’, allora,» disse magnanimo «suppongo ciò significhi che mi dovresti un favore, giusto?»
Lear annui, lentamente e con riluttanza. Si frugò nella tasca posteriore, ne estrasse un pezzo di carta piegato e spiegazzato che tenne ben alto in mano.
Il Marchese si allungò per prenderlo. Lear allontanò la mano. «Prima fammi ascoltare la musica, vecchio imbroglione» disse. «E sarà meglio che funzioni.»
Il Marchese alzò un sopracciglio. Infilò velocemente la mano in una delle tasche interne del soprabito, e quando la tirò fuori di nuovo conteneva un fischietto e una piccola sfera di cristallo. Guardò la sfera di cristallo facendo quel tipo di «hmm» che significa «ah, ecco dov’era finita», e se la rimise in tasca. Quindi piegò le dita, si portò il fischietto alle labbra e cominciò a suonare.
Era un motivetto strano e brioso, che saltellava e si contorceva. Richard credette quasi di avere ancora tredici anni, quando a scuola, durante l’intervallo per il pranzo, ascoltava la radio portatile del suo migliore amico, attento alla classifica dei dischi più venduti, perché la musica era importante come può esserlo solo quando si è adolescenti: era tutto quello che aveva sempre voluto sentire in una canzone…
Una manciata di monete tintinnò sul cappotto di Lear.
Il marchese abbassò il fischietto.
«Allora sono in debito, vecchia canaglia» disse Lear, con un cenno del capo.
«Si, lo sei.» Il Marchese gli prese il foglio — l’orario dei treni — e lo esaminò attentamente, quindi annui. «Ma a buon intenditor poche parole: non esagerare. Basta poco per avere molto.»
E i quattro ripresero il cammino, lungo il corridoio, circondati da manifesti che pubblicizzavano film e biancheria intima e dagli sporadici avvisi dall’aria ufficiale che consigliavano agli artisti di strada di allontanarsi dalla stazione. Li seguiva il lamento del sassofono e il suono del denaro che atterrava sul cappotto.
Il Marchese li condusse a una banchina della Central Line.
Richard si diresse verso il limitare della banchina e guardò in basso. Si chiese, come faceva sempre, quale fosse la rotaia sotto tensione, poi si scopri a sorridere, involontariamente, a un topolino grigio che si aggirava con coraggio sui binari, alla timida ricerca di panini abbandonati e patatine cadute dal sacchetto.
«Attento allo Spazio Vuoto» gli disse Hunter, con tono pressante. «Resta qui dietro. Accanto al muro.»
«Cosa?» chiese Richard.
«Ho detto» ripeté Hunter «attento allo…»
E in quell’istante fece irruzione sul lato della banchina. Era diafano, simile a un sogno, una cosa spettrale color fumo nero che prorompeva come seta sotto uno strato di acqua. Spostandosi a una velocità stupefacente pur dando l’impressione di muoversi al rallentatore, si avvinghiò con forza alla caviglia di Richard.
Pungeva, anche attraverso la spessa stoffa dei Levi’s. La cosa lo trascinava verso il bordo della banchina, e lui barcollò.
Quasi con distacco si accorse che Hunter aveva estratto il bastone e con esso colpiva il tentacolo, ripetutamente e con forza.
Si udì uno strillo lontano, sottile e stupido, come di un bambino idiota privato del suo giocattolo.
Il tentacolo di fumo lasciò la caviglia di Richard, scivolò indietro oltre il bordo della banchina e spari.
Hunter afferrò Richard per la collottola e lo tirò verso il muro.
Richard ci crollò contro. Dove la cosa aveva toccato i jeans, il colore era stato succhiato via, e adesso sembravano un maldestro esempio di tintura a nodi. Sollevò la gamba dei pantaloni: sulla caviglia e sul polpaccio stavano spuntando minuscole vesciche rosse.
«Cosa…» si provò a parlare ma non usci alcun suono. Deglutì e ritentò, «Cos’era quello?»
Hunter abbassò lo sguardo verso di lui. Il suo viso pareva intagliato in un legno scuro. «Non credo abbia un nome» rispose. «Vivono negli spazi vuoti. Ti avevo avvertito.»
«Io… io non ne avevo mai visto uno prima.»
«Non facevi parte del Mondo di Sotto, prima» disse Hunter. «Aspetta vicino al muro. È più sicuro.»
Il Marchese stava controllando l’ora su un grosso orologio d’oro da tasca. Lo ripose nel taschino del panciotto, consultò il foglio che gli aveva dato Lear e annui soddisfatto. «Siamo fortunati» sentenziò. «Il treno per Earl’s Court dovrebbe passare tra circa mezz’ora.»
«La stazione di Earl’s Court non è sulla Central Line» fece notare Richard.
Il Marchese lo guardò, palesemente divertito. «Una mente come la tua è proprio rincuorante, giovanotto» disse. «Non c’è nulla come la totale ignoranza, vero?»
Il vento cominciò a soffiare. Un treno della metropolitana si fermò alla loro stazione. Persone che scendevano e persone che salivano, immerse negli impegni quotidiani. Richard le guardò con invidia.
«Attenzione allo spazio vuoto tra treno e banchina» intonò una voce registrata. «Non sostare davanti alle porte. Attenzione allo spazio vuoto. »
Porta diede un’occhiata a Richard. Poi, preoccupata per ciò che aveva visto, gli si avvicinò prendendogli la mano. Era molto pallido, e il respiro si era fatto rapido e breve.
«Attenzione allo spazio vuoto tra treno e banchina» tuonò un’altra volta la voce registrata.
«Sto bene» mentì coraggiosamente Richard a nessuno in particolare.
Il pozzo centrale dell’ospedale di mister Croup e mister Vandemar era un luogo freddo, umido e tetro. Dell’erba ispida e disordinata cresceva tra scrivanie abbandonate, pneumatici d’auto e pezzi di mobili per ufficio. L’impressione generale offerta da quell’area era che una decina d’anni prima (forse per noia, forse per frustrazione, forse addirittura come opera d’arte di qualche genere) un gran numero di persone avesse gettato il contenuto dei propri uffici dalle molteplici finestre affacciate là sopra, lasciando poi il tutto a marcire.
C’erano vetri rotti. Vetri rotti in abbondanza. C’erano anche parecchi materassi. Per qualche ragione non facilmente comprensibile, e in un momento non meglio identificato, ad alcuni dei suddetti materassi era stato dato fuoco. Nessuno sapeva perché, e a nessuno importava. L’erba, crescendo, aveva attraversato le molle.
Intorno alla fontana ornamentale che si trovava al centro del pozzo e che da parecchio tempo non era particolarmente ornamentale e neppure molto fontana, si era sviluppata una nicchia ecologica completa. Con l’aiuto della pioggia, un tubo dell’acqua incrinato e sgocciolante li vicino l’aveva trasformata in luogo di riproduzione per numerose ranocchie che ci si lasciavano cadere allegramente, esultanti per la mancanza di predatori naturali non alati. A loro volta, corvi, cornacchie e qualche sporadico gabbiano consideravano quel posto un self-service di prelibatezze gastronomiche senza gatti e specializzato in rane.
Lumache si allungavano indolenti sotto le molle dei materassi bruciati; chiocciole lasciavano tracce bavose sui vetri rotti. Grossi scarafaggi neri si affrettavano con aria operosa su telefoni di plastica grigia ormai in frantumi e su vecchie bambole Sindy mutilate.
Mister Croup e mister Vandemar erano saliti fin li per cambiare aria. Camminavano lentamente lungo il perimetro del cortile centrale, i pezzi di vetro che scricchiolavano sotto i loro piedi. Nei logori completi neri parevano ombre.
Mister Croup era in preda a una furia ben celata. Camminava due volte più veloce di mister Vandemar, girandogli intorno, quasi danzando al ritmo della propria rabbia. A volte, incapace di trattenere l’ira dentro di sé, mister Croup si lanciava contro il muro dell’ospedale, attaccandolo tìsicamente a calci e pugni, come fosse un indegno sostituto di una persona vera.
Mister Vandemar, da parte sua, si limitava a camminare. Era una camminata troppo decisa, troppo costante e inesorabile per poter essere definita una passeggiata. La morte cammina come mister Vandemar. Impassibile, mister Vandemar osservava mister Croup prendere a pedate una lastra di vetro appoggiata al muro. Che si frantumò con un fragore di grande soddisfazione.
«Io, mister Vandemar,» disse mister Croup contemplando i frammenti «io, per quanto mi riguarda, ne ho già avuto abbastanza. Quasi. Quel rospo sbiancato… agire con cautela, gingillarsi, cinci-schiare, perdere tempo… potrei fargli schizzare gli occhi dalle orbite con un dito…»
Mister Vandemar scosse il capo. «Non ancora» disse. «È il nostro capo. Per questo lavoro. Dopo che ci ha pagati, magari potremo divertirci un po’ a modo nostro.»
Mister Croup sputò per terra. «È un inutile stupido intrigante… Dovremmo macellare quella cagna. Annullarla, cancellarla, inumarla e ammortizzarla.»
Un telefono cominciò a squillare, forte. Mister Croup e mister Vandemar si guardarono attorno perplessi. Infine mister Vandemar trovò il telefono a metà di una pila di detriti sopra a un pendio formato da cartelle mediche macchiate di pioggia. Il filo tagliato penzolava dal ricevitore. Lo prese e lo passò a mister Croup.
«Per lei» disse.
A mister Vandemar i telefoni non piacevano.
«Qui mister Croup» disse Croup. Poi, ossequioso, «Oh, siete voi signore…»
Una pausa.
«Al momento, come avevate richiesto, se ne va in giro libera come l’aria. Purtroppo la vostra idea della guardia del corpo è andata a male come una mela marcia… Varney? Si, è decisamente morto.»
Un’altra pausa.
«Signore, comincio ad avere qualche problema concettuale riguardo al ruolo svolto da me e dal mio socio in queste birbonate.»
Ci fu una terza pausa, e mister Croup divenne più pallido del pallido.
«Poco professionali?» chiese gentilmente. «Noi?»
Chiuse la mano a pugno e la sbatté, con una certa forza, contro un muro di mattoni. Nel tono di voce però, non si percepì alcun cambiamento, mentre diceva, «Signore, posso con il dovuto rispetto ricordarvi che mister Vandemar e io abbiamo bruciato fino alle fondamenta la città di Troia? Abbiamo portato la Morte Nera nelle Fiandre. Il nostro ultimo incarico prima di questo è stato torturare a morte un intero monastero nella Toscana del sedicesimo secolo. Noi siamo estremamente professionali.»
Mister Vandemar, che si era divertito ad acchiappare piccole rane e a vedere quante riusciva a infilarsene in bocca in una sola volta prima di essere costretto a masticare, disse, con la bocca piena, «Mi è piaciuto farlo…»
«Il punto?» chiese mister Croup, dando un colpetto per togliere della polvere immaginaria dal liso completo nero, ignorando del tutto quella vera. «Il punto è che siamo degli assassini. Dei tagliagole. Noi uccidiamo.»
Ascoltò qualcosa, poi, «Bene, e per quanto riguarda quello del Mondo di Sopra? Perché non possiamo ammazzarlo?» Mister Croup ebbe uno spasmo, sputò di nuovo e prese a calci il muro, mentre se ne stava li in piedi tenendo in mano il telefono mezzo rotto e coperto di ruggine.
«Spaventarla? Siamo tagliagole, non spaventapasseri.» Una pausa. Fece un respiro profondo. «Si, capisco, però non mi piace.» Ma la persona all’altro capo del filo aveva riattaccato. Mister Croup diede un’occhiata al telefono. Quindi lo sollevò con una mano e procedette metodicamente a ridurlo in minuscoli frammenti di metallo e plastica sbattendolo contro il muro.
Mister Vandemar passò oltre. Aveva trovato una grossa lumaca nera con la parte inferiore di un bell’arancione brillante, e la stava masticando come fosse un sigaro di liquirizia. La lumaca, che non era molto astuta, stava cercando di strisciare via lungo il mento di mister Vandemar.
«Chi era?» chiese mister Vandemar.
«Chi diavolo pensa che fosse?»
Mister Vandemar masticò meditabondo, poi succhiò la lumaca aspirandola in bocca quasi fosse un blocco di spaghetti scotti, neri e arancione. «Uno spaventapasseri?» azzardò.
«Il nostro datore di lavoro.»
«Era la mia seconda ipotesi.»
«Spaventapasseri» sputò mister Croup, disgustato. Stava passando da una rabbia rosso-violacea a un grigio e untuoso malumore.
Mister Vandemar inghiottì il contenuto della bocca e si pulì le labbra sulla manica. «Il modo migliore per spaventare i passeri» disse mister Vandemar «è di scivolargli alle spalle, mettere la mano intorno ai loro sottili colli da passero e stringere finché non si muovono più. Questo li spaventa a morte.»
Quindi tacque, e da lontano, sopra le loro teste, udirono il rumore di passeri e corvi che volavano lassù, gracchianti di rabbia.
«Passeri. Corvi. Famiglia dei passeriformi o passeracei. Nome collettivo» intonò mister Croup, assaporando il suono della parola: «omicidio.»
Richard era rimasto ad aspettare contro il muro, vicino a Porta. Lei parlava poco; si mangiava le unghie, passava le mani nei capelli, che si rizzavano in tutte le direzioni, poi cercava di lisciarli di nuovo.
Indubbiamente non aveva mai conosciuto una persona cosi.
Quando si accorse di essere osservata, si strinse nelle spalle e ondeggiando sprofondò ulteriormente nei suoi strati di vestiti, nascondendosi nella giacca di pelle. Gli occhi guardavano il mondo da dentro una giacca. L’espressione sul suo viso fece ricordare a Richard un bambino senza casa che aveva visto dietro il Covent Garden l’inverno precedente: non sapeva se fosse maschio o femmina. La madre chiedeva l’elemosina, supplicando i passanti di darle del denaro per nutrire il bambino e il neonato che teneva in braccio. Il bambino, invece, fissava il mondo senza domandare nulla, anche se doveva avere freddo e fame. Stava li, fermo, a fissare.
Hunter si avvicinò a Porta, controllando la banchina a destra e a sinistra. Il Marchese aveva detto dove dovevano aspettare e si era allontanato. Da chissà dove, Richard udi il pianto di un bambino.
Il Marchese scivolò fuori da una porta con scritto ’uscita’ e si diresse verso di loro. Stava succhiando una caramella.
«Divertito?» chiese Richard. Stava arrivando un treno.
«Faccende di lavoro» rispose il Marchese. Consultò il pezzo di carta e l’orologio. Indicò un punto sulla banchina. «Questo è il treno per Earl’s Court. Statemi dietro, voi tre.»
Poi, mentre il treno del metrò — un treno dall’aspetto alquanto banale, notò Richard, deluso — rimbombava e sferragliava entrando nella stazione, il Marchese si chinò per superare Richard e dire a Porta, «Mia signora? C’è una cosa che forse avrei fatto meglio a menzionare prima.»
Gli occhi dallo strano colore si volsero verso di lui. «Si?»
«Be’,» disse «il Conte potrebbe non gradire particolarmente la mia visita.»
Il treno rallentò e si fermò. La carrozza vicino a cui si trovava Richard era completamente vuota: le luci erano spente, era cupa, deserta e buia. Le altre porte del treno si aprirono con un sibilo. Passeggeri salivano e scendevano. Le porte del vagone buio rimanevano chiuse.
Con il pugno, il Marchese tamburellò sulla porta un rap ritmico e complicato. Non accadde nulla. Richard si stava già chiedendo se il treno sarebbe ripartito senza prenderli a bordo, quando la porta del vagone venne aperta dall’interno. Da un’apertura di una ventina di centimetri spuntò un viso di vecchio che li osservò incuriosito.
«Chi bussa?» chiese.
Attraverso lo spazio tra le porte scorrevoli Richard poteva vedere alte fiamme, gente e fumo. Attraverso il vetro sulle porte stesse, però, continuava a vedere solo una carrozza buia e vuota.
«Lady Porta» disse dolcemente il Marchese «e i suoi compagni.»
La porta si spalancò, ed eccoli giunti alla Corte del Conte, Earl’s Court.
SETTE
Sparsa sul pavimento c’era della paglia, sopra a uno strato di giunchi. Un bel fuoco di legna ardeva e crepitava in un grande camino. C’erano polli che becchettavano e si aggiravano con aria sussiegosa. C’erano sedili con cuscini ricamati a mano e arazzi che coprivano porte e finestrini.
Quando il treno sobbalzò per uscire dalla stazione, Richard barcollò in avanti. Allungò una mano, si aggrappò alla persona più vicina e riuscì a recuperare l’equilibrio.
La persona più vicina era un vecchio uomo d’armi basso e grigio, che, stabili Richard, avrebbe potuto essere scambiato per un impiegato statale da poco in pensione non fosse stato per l’elmetto, il sorcotto, la cotta di maglia saldata grossolanamente e la lancia. Cosi com’era, pareva comunque un impiegato statale da poco in pensione che, del tutto controvoglia, fosse stato costretto a unirsi alla compagnia teatrale amatoriale del quartiere e obbligato a recitare la parte dell’armigero.
L’uomo basso e grigio guardò Richard socchiudendo gli occhi miopi e disse, «Scusi.»
«Colpa mia» rispose Richard.
«Lo so» ribadì l’omino.
Un levriero irlandese camminava a passi felpati lungo il corridoio, per fermarsi a fianco di un suonatore di liuto, che sedeva sul pavimento pizzicando le corde e producendo in maniera discontinua una lieta melodia. Il cane fissò Richard, sbuffò sdegnoso, si sdraiò e si mise a dormire.
Nell’angolo più lontano del vagone, un anziano falconiere con un falco incappucciato sul polso stava scambiando battute scherzose con un piccolo crocchio di damigelle, tutte molto vicine alla data di scadenza e alcune scadute da tempo. Ovviamente qualche passeggero guardava i quattro viaggiatori; altri, altrettanto ovviamente, li ignoravano.
Era come se qualcuno avesse preso una piccola corte medievale e l’avesse trasportata, per quanto possibile, su una carrozza di un treno della metropolitana, pensò Richard.
Un araldo si portò la tromba alle labbra e lanciò uno squillo stonato. Un immenso uomo anziano, in pantofole e con un’enorme veste da camera foderata di pelo, attraversò traballando la porta di collegamento con il vagone successivo, il braccio appoggiato sulla spalla di un giullare con un logoro abito da buffone.
L’omone era davvero immenso. Su un occhio portava una benda che lo faceva sembrare leggermente disorientato e confuso, come un uccello con un occhio solo. Sulla barba grigio-rossa c’erano briciole di cibo e dal fondo della logora vestaglia di pelliccia spuntavano quelli che parevano pantaloni di pigiama.
Questo, pensò correttamente Richard, deve essere il Conte.
Il giullare del Conte, un uomo anziano con la bocca contratta e il viso dipinto, sembrava essere sfuggito a un’esistenza fatta di caratteri invisibili in fondo alle locandine dei music hall un centinaio di anni prima. Condusse il Conte a uno scranno intagliato nel legno che aveva l’aspetto di un trono piuttosto malfermo, dove il Conte si sedette. Il levriere si alzò, percorse la carrozza con passo felpato e si posizionò accanto ai piedi pantofolati del Conte.
Earl’s Court, la Corte del Conte, pensò Richard. Ma certo. Dopo di che iniziò a chiedersi se a Barons Court ci fosse un Barone e a Ravenscourt un Corvo Imperiale e…
Il piccolo armigero tossi una tosse asmatica e disse, «Allora, voi. Dichiarate il vostro intento!»
Porta si fece avanti. Teneva la testa ben dritta, e pareva più alta e più a proprio agio di quanto Richard l’avesse mai vista, e disse, «Chiediamo udienza a Sua Grazia il Conte.»
Dal fondo del vagone il Conte tuonò: «Halvard, cosa ha detto la giovane ragazza?» Richard si chiese se fosse sordo.
Halvard, l’anziano uomo d’armi, cambiò posizione, mise le mani a coppa intorno alla bocca e strillò, per superare lo sferragliare del treno, «Chiedono udienza, vostra grazia.»
Il Conte spostò da un lato il pesante cappello di pelo e si grattò la testa meditabondo. Sotto il cappello stava diventando calvo. «Davvero? Un’udienza? Che meraviglia. E chi sono, Halvard?»
Halvard tornò a rivolgersi a loro. «Vuole sapere chi siete. Fatela breve, comunque. Non dilungatevi.»
«Sono Lady Porta» annunciò Porta. «Lord Portico era mio padre.»
Sentendo questo, il Conte si illuminò, si chinò in avanti e sbirciò attraverso il fumo con l’unico occhio buono. «Ha detto di essere la figlia maggiore di Portico?» chiese al buffone.
«Si, vostra grazia.»
Il Conte fece cenno a Porta di avvicinarsi. «Vieni qui» disse. «Vieni-vieni-vieni. Lasciati guardare.» Avanzò lungo il corridoio, afferrando le grosse maniglie di corda che pendevano dal soffitto per mantenere l’equilibrio mentre camminava. Davanti allo scranno di legno del Conte fece la riverenza. Lui si grattò la barba e si mise a fissarla.
«Siamo stati tutti sopraffatti dal dolore alla notizia della sfortunata…» cominciò il Conte, poi si interruppe e disse: «Tuo padre… be’, tutta la tua famiglia, è stato…» La voce si affievolì, quindi continuò, «Sai che avevo per lui la massima stima e rispetto, abbiamo fatto qualche affare insieme… Buon vecchio Portico… pieno di idee…» Si fermò. Diede un colpetto sulla spalla del giullare e sussurrò, con un querulo boato, abbastanza potente da superare con facilità il rumore del treno, «Va’ e facci divertire, Tooley. Guadagnati la pagnotta.»
Il buffone trotterellò lungo il corridoio con una smorfia artritica e una boccaccia reumatica. Si fermò di fronte a Richard.
«E tu chi saresti?» chiese.
«Io?» fece Richard. «Hmm. Io? Il mio nome? Be’, è Richard. Richard Mayhew.»
«Io?» squitti il Buffone, in un’anziana e alquanto teatrale imitazione dell’accento scozzese di Richard. «Io? Hmm. Io? Oh, zietto! Questo non è un uomo, ma un citrullo con il gonnellino!»
I cortigiani ridacchiarono poco interessati.
«E io» disse de Carabas al giullare, con un sorriso accecante, «sono il Marchese de Carabas.»
Il buffone strizzò gli occhi.
«De Carabas il ladro?» chiese. «De Carabas il dissotterratore di cadaveri? De Carabas il traditore?» Si rivolse ai cortigiani intorno a loro. «Ma questo non può essere de Carabas! Perché? Perché de Carabas è stato bandito dalla presenza del Conte molto tempo fa. Forse si tratta piuttosto di una faina troppo cresciuta.»
I cortigiani ridacchiarono, a disagio, questa volta, e iniziò a propagarsi il sordo brusio di una conversazione preoccupata. Il Conte non disse nulla, ma strinse con forza le labbra e cominciò a tremare.
«Mi chiamo Hunter» disse Hunter al giullare.
Al che i cortigiani tacquero. Il giullare apri la bocca come stesse per dire qualcosa, la guardò e richiuse la bocca.
L’accenno di un sorriso si affacciò all’angolo delle labbra perfette di Hunter. «Continua» disse. «Di’ qualcosa di buffo.»
Il giullare si fissava la punta delle scarpe consunte. Poi mormorò, «Il mio segugio è privo di naso.»
Il Conte era rimasto a fissare il Marchese de Carabas come una miccia a combustione lenta, occhio spalancato, labbra sbiancate, incapace di credere all’evidenza dei propri sensi. Quindi esplose saltando in piedi, un vulcano dalla barba grigia, un anziano ma feroce guerriero. La testa sfiorava il tetto della carrozza. Puntò il dito verso il Marchese e gridò, sputacchiando per la rabbia: «Questo non lo tollero, no di certo! Fatelo venire avanti!»
Halvard agitò una lugubre lancia in direzione del Marchese, che a passo lento si avviò verso la testa del treno, fino ad arrivare accanto a Porta, di fronte al trono del Conte. Il levriere emise un ringhio sordo.
«Tu» fece il Conte, infilzando l’aria con un dito tremante. «Ti conosco, de Carabas. Non ho dimenticato. Sarò anche vecchio, ma non ho dimenticato.»
Il Marchese fece un inchino.
«Posso ricordare a vostra grazia» disse cortesemente «che avevamo fatto un patto? Io ho negoziato il trattato di pace tra la vostra gente e Raven’s Court, e in cambio voi eravate d’accordo a concedermi un piccolo favore.»
Allora esiste una Raven’s Court, pensò Richard. Chissà com’è? Chissà se c’è un corvo?
«Un piccolo favore?» disse il Conte. Aveva assunto un intenso color barbabietola. «È cosi che lo chiami? Ho perso decine di uomini per la tua stupidità durante la ritirata da White City. Ho perso un occhio.»
«E se mi è permesso dirlo, vostra grazia,» disse garbatamente il Marchese «avete una benda molto affascinante. Si adatta alla perfezione al vostro viso, mettendolo in risalto.»
«Ho giurato…» esplose il Conte, la barba che si rizzava, «ho giurato… che se mai avessi rimesso piede sui miei domini, ti avrei…» esitò. Scosse il capo, quindi riprese. «Mi tornerà alla mente. Io non dimentico.»
«Avrebbe potuto non gradire particolarmente la tua vista?» sussurrò Porta a de Carabas.
«Be’, non la gradisce» bofonchiò lui in risposta.
Di nuovo Porta si fece avanti. «Vostra grazia,» disse con voce alta e chiara, «de Carabas è qui con me come mio ospite e mio compagno. Per la fratellanza che c’è sempre stata tra la vostra famiglia e la mia, per l’amicizia che legava mio padre e…»
«Ha abusato della mia ospitalità» tuonò il Conte. «Ho giurato che… se mai fosse entrato di nuovo nei miei domini l’avrei fatto sbudellare e lasciato a rinsecchire… come, come qualcosa che è stato, hmm, prima sbudellato e poi, be’, messo a seccare, hmm…»
«Forse — un’aringa, mio signore?» suggerì il giullare.
Il Conte si strinse nelle spalle. «Non ha importanza. Guardie, prendetelo!»
Lo fecero. Anche se tutte le guardie avevano già visto i sessanta, reggevano ognuna una balestra, puntata alla gola del Marchese; e le loro mani non tremavano, né per età né per paura.
Richard guardò Hunter. Sembrava che la cosa non la disturbasse affatto: osservava la situazione quasi divertita, come chi ammira la rappresentazione di una pièce teatrale.
Porta si mise a braccia conserte, la schiena ben dritta e la testa all’indietro, il mento appuntito sollevato e deciso. Non sembrava quasi più un cencioso folletto di strada, ma piuttosto una persona abituata a ottenere ciò che vuole. Gli occhi dallo strano colore lampeggiavano. «Vostra grazia, il Marchese è con me, mi accompagna nella ricerca. Le nostre famiglie sono amiche da cosi lungo tempo…»
«Si, lo sono» interruppe il Conte. «Da centinaia di anni. Centinaia e centinaia. Conoscevo anche tuo nonno. Tipo simpatico. Un po’ vago.»
«Ma sono costretta ad affermare che considererò qualunque atto di violenza contro il mio compagno come un atto di aggressione contro di me e la mia casata.» La ragazza fissò il vecchio, che torreggiava sopra di lei. Rimasero immobili per qualche istante, come congelati. Il Conte, in preda all’agitazione, si tirava la barba rossa e grigia, quindi sporse in avanti il labbro inferiore come fanno i bambini piccoli. «Non ce lo voglio, qui» disse.
Il Marchese estrasse dal taschino l’orologio d’oro che aveva trovato nello studio di Portico. Lo esaminò con noncuranza, poi si rivolse a Porta come se nessuno dei fatti appena accaduti si fosse mai verificato. «Mia signora,» disse «ti sarò certamente più utile fuori da questo treno. Ho molte altre strade da esplorare.»
«No» disse lei. «Se te ne vai tu, ce ne andiamo tutti.»
«Non credo sia il caso» rispose il Marchese. «Hunter si prenderà cura di te finché sei a Londra Sotto. Ci incontreremo al prossimo mercato. E nel frattempo, non fare niente di stupido.»
Il treno si stava fermando a una stazione.
Porta fissò lo sguardo sul Conte: grandi occhi dallo strano colore in un viso pallido a forma di cuore. «Lo lascerete andare in pace, vostra grazia?» chiese.
Lui si passò la mano sul volto, strofinò prima l’occhio buono, poi la benda, quindi guardò la ragazza.
«Lasciatelo andare» disse il Conte. «Ma la prossima volta…» fece correre un ditone rugoso in orizzontale all’altezza del pomo d’Adamo «… Aringa.»
«Conosco la strada» disse il Marchese alle guardie, e si diresse verso la porta aperta.
Halvard sollevò la balestra e la puntò in direzione della schiena del Marchese. Hunter allungò la mano e abbassò la punta dell’arma verso il pavimento.
Il Marchese mise piede sulla banchina, si voltò e fece un ironico ciao-ciao con la manona. La porta si chiuse dietro di lui con un sibilo.
Il Conte si sedette sul grande scranno in fondo al vagone, senza proferire parola.
Il treno sferragliava e rollava nel tunnel buio.
«E le buone maniere?» brontolò tra sé il Conte. Li guardò con l’occhio fisso. Poi ripeté la frase, con un boato cosi poderoso che Richard poté sentirlo rimbombare nello stomaco, come un colpo di grancassa. «DOVE SONO LE ME BUONE MANIERE?»
Fece avvicinare uno degli anziani armigeri. «Saranno affamati dopo il viaggio, Dagvard. E pure assetati, senza dubbio.»
«Si, vostra grazia.»
«Fermate il treno!» gridò il Conte.
Le porte si aprirono sibilando e Dagvard si affrettò a raggiungere la banchina.
Richard fece caso alle persone sulla banchina. Nessuna sali sulla loro carrozza. Nessuna pareva notare qualcosa di strano.
Dagvard si diresse a un distributore automatico in un angolo. Si tolse l’elmo, quindi batté ritmicamente sul lato della macchina con il guanto di ferro.
«Ordini del Conte» disse. «Cioccolato.»
Un ronzio del motorino in fondo alle viscere della macchina, ed ecco che decine di barrette al cioccolato vennero sputate fuori, una dopo l’altra Dagvard le raccolse nell’elmo di metallo.
Le porte stavano cominciando a richiudersi. Halvard infilò l’impugnatura della picca tra le due porte scorrevoli che si aprirono di nuovo e cominciarono a fare apri-chiudi sbattendo contro l’impugnatura dell’arma.
«Si prega di non ostruire il passaggio» disse una voce dall’altoparlante. «Il treno non può ripartire se le porte non sono tutte chiuse. »
Il Conte, un po’ sbilenco, stava osservando Porta con l’occhio buono.
«Allora. Cosa ti conduce da me?»
Lei si inumidì le labbra. «Be’, vostra grazia, indirettamente la morte di mio padre.»
Annui compassato. «Già. Cerchi vendetta. Con ragione, peraltro.» Tossi, quindi, con tono basso e profondo declamò, «Valorosa è la lama che combatte, lampeggia il fuoco furioso, spada d’acciaio affondata nell’odiato cuore, rosso il… il… qualcosa. Già.»
«Vendetta? Si, è ciò che ha detto mio padre. Ma io voglio solo capire cosa è successo e proteggere la mia persona. La mia famiglia non aveva nemici.»
In quel mentre, Dagvard ritornò barcollando sul treno con l’elmo pieno di barrette di cioccolato e di lattine di Coca Cola; le porte poterono chiudersi e il treno riparti.
Il cappotto era coperto di monetine, banconote — e scarpe. Scarpe calzate da piedi che prendevano a calci i soldi di metallo, schiacciavano e strappavano quelli di carta, lacerando la stoffa del cappotto. C’era denaro dappertutto.
«Lasciatemi solo» implorava Lear. Aveva le spalle contro il muro del sottopassaggio. Lungo il viso colava del sangue, che gli tingeva di rosso la barba. Il sassofono gli pendeva mollemente e goffamente sul petto.
Era circondato da un piccolo gruppo di persone — più di venti, meno di cinquanta — che si urtavano e si spingevano, una massa irrazionale, gli occhi vuoti e fissi, che lottava e graffiava nel disperato tentativo di dare a Lear il proprio denaro.
Anche sulla parete piastrellata c’era del sangue, nel punto in cui Lear aveva battuto la testa. Lear allungò un braccio per colpire una donna di mezza età con la borsetta spalancata e un pugno di biglietti da cinque che avanzava verso di lui. Nella foga di dargli il denaro, gli graffiò il viso. Lui si girò per evitarla e cadde sul pavimento del tunnel.
Qualcuno gli calpestò la mano. La faccia gli fu spinta in una poltiglia di soldi. Cominciò a singhiozzare, e a inveire.
«Te l’avevo detto di non abusarne» disse una voce elegante poco lontano. «Birbantello.»
«Aiutami» rantolò Lear.
«Be’, ci sarebbe un controincantesimo» ammise la voce, quasi riluttante.
La folla stava premendo sempre più da presso, ora. Il lancio di una moneta da cinquanta pence gli tagliò la guancia. Si acciambellò in posizione fetale, abbracciandosi e nascondendo il viso tra le ginocchia.
«Recitalo, dannazione» disse Lear. «Tutto quello che vuoi… basta che li fai smettere…»
Il suono di un fischietto sali dolcemente e echeggiò nel sottopassaggio. Una frase semplice, ripetuta più e più volte, ogni volta leggermente diversa: le variazioni di de Carabas.
I passi si allontanarono. Strascicati, all’inizio, poi con un certo ritmo. Si allontanavano da lui. Apri gli occhi.
Il Marchese de Carabas se ne stava appoggiato contro il muro, suonando il fischietto. Quando vide che Lear lo guardava, si tolse il fischietto dalle labbra e lo ripose in una tasca interna. Gettò a Lear un rattoppato fazzoletto di lino bordato di pizzo perché si togliesse il sangue dalla fronte e dal viso.
«Mi avrebbero ammazzato» disse, con aria accusatoria.
«Ti avevo avvertito» disse de Carabas. «Ritieniti fortunato che passavo da queste parti.»
Aiutò Lear a mettersi seduto.
«Ora» disse de Carabas «penso proprio che tu mi debba un altro favore.»
Lear sollevò il cappotto — strappato, sporco di fango e coperto dalle impronte di tanti piedi — dal pavimento del sottopassaggio. All’improvviso sentiva molto freddo e si avvolse il cappotto a brandelli intorno alle spalle. Monete e banconote caddero a terra, precipitando o svolazzando. Le lasciò dov’erano.
«Sono stato davvero fortunato o l’hai fatto apposta?»
Il Marchese sembrava quasi offeso. «Non so proprio come puoi arrivare a pensare una cosa di questo genere.»
«Perché ti conosco. Ecco come. Allora, di che si tratta stavolta? Furto? Incendio? Omicidio?» Lear sembrava rassegnato, e anche un po’ triste.
De Carabas si allungò verso di lui e si riprese il fazzoletto. «Furto, temo» disse. «Mi trovo nell’urgente necessità di procurarmi una statuetta della dinastia Tang.»
Lear rabbrividì. Poi, lentamente, annui.
A Richard venne data una barretta al cioccolato di quelle piccole, del tipo da distributore automatico, e una larga coppa d’argento, decorata intorno al bordo con pietre che gli sembravano zaffiri. La coppa era piena di Coca Cola.
«Vorrei proporre un brindisi ai nostri ospiti» disse Tooley, il vecchio giullare. «Una bambina, una guardia, uno sciocco. Possa ognuno di loro ricevere ciò che merita.»
«Quale sono io?» bisbigliò Richard a Hunter.
«Lo sciocco, è ovvio» gli bisbigliò di rimando.
«Ai vecchi tempi» commentò Halvard malinconico, dopo avere sorseggiato la Coca Cola, «bevevamo vino. Io preferisco il vino. Non è cosi appiccicoso.»
«E tutte le macchine vi danno le cose che chiedete?» domandò Richard.
«Oh, si» rispose il vecchio. «Ascoltano il Conte, capisci? Lui governa il Mondo di Sotto nella metropolitana. Il pezzo con i treni. È signore delle linee Central, Circle, Jubilee, Victoria, Bakerloo — be’, tutte tranne, la Underside Line, la linea del Mondo di Sotto.»
«Cos’è la Underside Line?» chiese Richard.
Halvard scosse il capo e increspò le labbra.
Hunter sfiorò la spalla di Richard con le dita. «Ricordi cosa ti ho detto a proposito dei pastori di Shepherd’s Bush?»
«Hai detto che era meglio che non li incontrassi. E che non facessi domande.»
«Giusto» disse lei. «Ora alla lista di cose che è meglio tu non sappia aggiungi anche la Underside Line.»
Porta ripercorse il vagone verso di loro. Sorrideva. «Ha deciso di aiutarci» disse. «Venite, l’incontro è in biblioteca.»
Richard era quasi orgoglioso di se stesso per non avere chiesto «Quale biblioteca?» o sottolineato il fatto che non si può tenere una biblioteca su un treno. Si limitò a seguire Porta in direzione dello scranno del Conte, ora vuoto, poi dietro di esso e attraverso la porta di comunicazione che portava in biblioteca.
Si trattava di un’ampia stanza di pietra con il soffitto molto alto. I muri erano tutti coperti di scaffali. Ogni scaffale era carico di oggetti. C’erano libri, certo, ma i ripiani ospitavano molte altre cose: racchette da tennis, bastoni da hockey, ombrelli, una vanga, un computer portatile, una gamba di legno, svariate tazzine, decine di scarpe, binocoli, un piccolo ceppo, sei burattini, una lampada di lava, numerosi CD, dischi (LP, 45 giri, 78 giri), videocassette e filmini in superotto, dadi, automobiline giocattolo, dentiere, orologi, torce, quattro gnomi da giardino di misure assortite (due che pescano, uno dall’aria trasognata), pile di giornali, riviste, libri di magia per stregoni, sgabelli a tre piedi, una scatola di sigari, un pastore tedesco di plastica con la testa che va su e giù, calzini… La stanza era un piccolo impero di oggetti smarriti.
«Questo è il suo vero dominio» mormorò Hunter. «Cose perdute. Cose dimenticate.»
Incastonate nel muro di pietra c’erano delle finestre. Attraverso di esse Richard poteva scorgere la sferragliante oscurità e le luci fugaci dei tunnel della metropolitana.
Il Conte era seduto per terra a gambe larghe, intento a dare carezze e grattatine sotto il mento al levriero. Il giullare gli stava a fianco, con aria imbarazzata. Appena li vide, il Conte si rimise in piedi, aggrottando la fronte.
«Ah. Eccovi qui. Bene, ci deve essere un motivo se vi ho chiesto di venire, mi tornerà in mente…» Si tirò la barba grigio-rossa, un gesto piccino per un uomo tanto immenso.
«L’Angelo Islington, vostra grazia» disse educatamente Porta.
«Oh, si. Tuo padre aveva un sacco di idee, sai. Ha chiesto il mio parere in proposito. Non mi piacciono i cambiamenti. L’ho mandato da Islington.» Si fermò. Socchiuse l’unico occhio. «Te l’avevo già detto?»
«Si, vostra grazia. E noi, come possiamo andare da Islington?»
Annui come se la ragazza avesse affermato qualcosa di molto profondo. «Una sola volta per la via rapida. Dopo di che dovrete seguire la strada più lunga. Pericoloso.»
Con molta pazienza Porta chiese, «E la via rapida sarebbe…?»
«No, no. Bisogna essere un apritore per utilizzarla. Va bene solo per la famiglia di Portico.» Le appoggiò una manona sulla spalla. Poi la mano sali fino alla guancia. «Meglio che resti qui con me. A riscaldare la notte di un vecchio, eh?» La guardò con occhio lascivo e le toccò una ciocca di capelli con le dita avvizzite.
Hunter fece un passo verso Porta, che le fece un gesto con la mano: no. Non ancora.
Porta alzò lo sguardo verso il Conte e disse, «Vostra grazia, sono la figlia maggiore di Portico. Come posso raggiungere l’Angelo Islington?»
Richard era stupito della capacità di Porta di mantenere la calma di fronte all’ovvia incapacità del Conte di vincere la battaglia contro il passare del tempo.
Il Conte strizzò l’unico occhio in un ammiccamento solenne: un vecchio sparviero con la testa piegata da un lato. Poi le tolse la mano dai capelli.
«Proprio cosi, proprio cosi. La figlia di Portico. Come sta il tuo caro genitore? Bene, mi auguro. Uomo esperto. Brav’uomo.»
«Come facciamo ad andare dall’Angelo Islington?» chiese Porta. Questa volta la sua voce tremava.
«Hmm? Usate l’Angelus, ovviamente.»
Richard si trovò a immaginare il Conte sessanta, ottanta, cinquecento anni prima: un guerriero possente, un astuto stratega, un grande donnaiolo, un buon amico, un nemico implacabile. Da qualche parte, in quello che vedeva, c’era ancora il relitto di quel grande uomo.
Il Conte armeggiò sugli scaffali, spostando penne, pipe e cerbottane, piccoli doccioni e foglie morte. Poi, come un vecchio gatto che inciampa su un topo, afferrò una piccola pergamena arrotolata e la diede alla ragazza.
«Ecco, piccina» disse il Conte. «Qui c’è tutto. E suppongo sia meglio che vi facciamo scendere alla vostra fermata.»
«Ci fate scendere?» chiese Richard. «Dal treno?»
Il Conte si guardò intorno alla ricerca della fonte del rumore, mise a fuoco l’immagine di Richard e fece un grandioso sorriso. «Oh, quisquilie» tuonò. «Qualunque cosa per la figlia di Portico.»
Porta teneva stretta in mano la pergamena con aria trionfante.
Richard si accorse che il treno cominciava a rallentare e lui, Porta e Hunter vennero condotti fuori dalla sala di pietra e di nuovo all’interno del vagone.
Mentre la velocità diminuiva, Richard sbirciò sulla banchina.
«Scusate, che stazione è?» chiese.
Il treno si fermò proprio davanti a uno dei cartelli che indicano il nome della stazione: british MUSEUM. In qualche modo era la stranezza che faceva traboccare il vaso. Poteva accettare la faccenda di Attenzione allo Spazio Vuoto e la Corte del Conte e persino quella strana biblioteca, ma, dannazione, la piantina della metropolitana la conosceva a menadito. E quello era davvero troppo. «Non c’è una stazione del British Museum» disse Richard con fermezza.
«Non c’è?» tuonò il Conte. «Be’, hmm, allora dovete stare molto attenti quando scendete dal treno.» Scoppiò a ridere, felice e contento, e diede un colpetto sulla spalla al suo giullare. «Hai sentito, Tooley? Sono divertente quanto te!»
Il giullare sorrise, il sorriso più tetro che si sia mai visto. «I miei fianchi si strappano, le mie costole si spezzano e la mia ilarità è assolutamente incontenibile, vostra grazia» commentò.
Le porte si aprirono con un sibilo.
Porta sorrise al Conte. «Grazie.»
«Via, via» disse l’immenso vecchio, allontanando Porta, Richard e Hunter dal vagone caldo e fumoso verso la banchina deserta. Le porte si richiusero e il treno riparti, e Richard si ritrovò a fissare un cartello che, a prescindere dal numero di occhiate di sottecchi — e persino dal fatto che distogliesse lo sguardo per voltarsi di scatto e coglierlo di sorpresa — si ostinava a portare scritto
BRITISH MUSEUM
OTTO
Era tardo pomeriggio, e il cielo senza nubi stava passando dal blu reale a un violetto intenso, con una spruzzatala di rosso-arancio e giallo-verde a ovest, sopra Kensington, dove, dal punto di vista di Old Bailey, il sole era appena tramontato.
Cieli. Mai due uguali. Né di giorno né di notte. Era un esperto di cieli, Old Bailey, e questo era proprio un bel cielo.
Old Bailey aveva piantato la tenda per la notte su un tetto di fronte alla cattedrale di St Paul, nel centro della City di Londra. Era affezionato a St Paul, e almeno lei era cambiata poco negli ultimi trecento anni. Era stata costruita in pietra Portland bianca, che era lentamente diventata nera a causa della fuliggine e della sporcizia nella fumosa aria londinese, ma adesso era stata ripulita ed era ritornata bianca. Comunque, era sempre St Paul.
Non era certo che si potesse dire altrettanto del resto della City: scrutò oltre i tetti, fissando lo sguardo lontano dal suo amato cielo, giù sul marciapiede illuminato al sodio. Poteva scorgere telecamere di sicurezza affisse a un muro, qualche auto, un impiegato che aveva lavorato fino a tardi e ora chiudeva una porta e si dirigeva verso la metropolitana.
Brrr. Il solo pensiero di scendere sottoterra gli metteva i brividi. Era un uomo dei tetti, e orgoglioso di esserlo; aveva abbandonato il mondo a livello del terreno tanto tempo prima…
Old Bailey si ricordava di quando la gente viveva nella City, invece di lavorarci soltanto; viveva, amava e rideva, costruiva case una appoggiata all’altra, ogni casa piena di persone. In effetti, il rumore, la confusione, la puzza e le canzoni dal viale là in fondo (allora noto come Shitten Alley, il viale merdoso) erano diventati leggendari a quel tempo.
Adesso nella City non abitava più nessuno. Era una zona fredda e squallida, piena di uffici e di persone che ci lavoravano di giorno per tornarsene a casa da un’altra parte la sera. Non era più un luogo dove vivere. Gli mancava persino la puzza.
L’ultimo sprazzo di sole arancione stava svanendo nel porpora della sera.
Copri le gabbie, in modo che gli uccelli si facessero un sonnellino. Questi brontolarono, poi si misero a dormire.
Old Bailey si grattò il naso, dopo di che entrò nella tenda a prendere un vecchio tegame per stufato, tutto annerito, dell’acqua, patate, carote, sale e un paio di storni morti e spennati.
Usci di nuovo all’aperto, accese un fuocherello in una latta da caffè nera di fuliggine ed era sul punto di mettere a cuocere lo stufato quando si accorse che qualcuno, nell’ombra accanto a un gruppo di camini, lo stava osservando.
Brandì il forchettone da barbecue e lo agitò con aria minacciosa verso i camini. «Chi è là?»
Il Marchese de Carabas usci dall’ombra, accennò un inchino e fece uno splendido sorriso. Old Bailey abbassò il forchettone. «Oh,» disse «sei tu. Be’, cosa vuoi? Notizie? O uccelli?»
Il Marchese si avvicinò, prese una rondella di carota cruda dallo stufato di Old Bailey e si mise a sgranocchiarla. «Informazioni, in realtà.»
Old Bailey ridacchiò esultante. «Ah ah! C’è un colpo di scena! Eh?» Quindi si chinò verso il Marchese. «Cosa offri in cambio?»
«Cosa ti serve?»
«Forse dovrei fare come te. Dovrei chiedere un favore, un giorno. Un investimento» ghignò Old Bailey.
«Troppo costoso, a lungo termine» disse il Marchese senza traccia di ironia.
Old Bailey annui. Il sole era calato, e cominciava a fare freddo, molto freddo e molto in fretta.
«Scarpe, allora. E una balalaica.» Diede una controllatina ai guanti senza dita: c’erano più buchi che guanto. «E guanti nuovi. Ci aspetta un inverno bastardo.»
«Molto bene. Te li porterò.» Il Marchese de Carabas infilò la mano in una tasca interna e, come un prestigiatore fa apparire una rosa dal nulla, fece apparire la statuirla nera rappresentante un animale che aveva preso nello studio di Portico. «Ora, cosa mi puoi dire di questa?»
Old Bailey inforcò gli occhiali e prese l’oggetto dalle mani di de Carabas. Era freddo al tatto. Si sedette su un condotto dell’aria condizionata, quindi dopo avere rigirato in mano la statuetta di ossidiana più e più volte, dichiarò: «È la Grande Bestia di Londra.»
Il Marchese non disse nulla, gli occhi impazienti che correvano dalla statuina a Old Bailey, il quale, godendo del piccolo momento di disagio del Marchese, continuò. «Dunque, dicono che prima dell’incendio e della peste, un macellaio che viveva accanto al fossato di Fleet Street tenesse all’ingrasso una qualche povera creatura per Natale. (Qualcuno dice che era un maialino, altri dicono di no, altri non sono nemmeno sicuri che avesse un animale). Una notte la bestia scappò, corse verso il fossato e scomparve nelle fogne. E nelle fogne si è nutrita, ed è cresciuta, cresciuta sempre di più, diventando inoltre sempre più malvagia e pericolosa. Hanno anche mandato delle squadre di cacciatori a cercarla, di tanto in tanto.»
«Deve essere morta trecento anni fa.»
Old Bailey scosse il capo. «Cose come quella, sono troppo feroci per morire. Troppo vecchie, grandi e pericolose.»
Il Marchese sospirò. «Pensavo fosse solo una leggenda» disse. «Come quella degli alligatori nelle fogne di New York.»
Old Bailey annui, come uno che sa: «Cosa, quei grossi predoni bianchi? Ci sono eccome! Avevo un amico che ci ha perso una testa con uno di loro.» Un momento di silenzio. Old Bailey restituì la statuetta al Marchese. Poi alzò la mano e la fece scattare verso de Carabas come fossero fauci di coccodrillo. «Nessun problema,» grugnì Old Bailey «ne aveva un’altra.»
Il Marchese fece sparire la statua della Bestia nel soprabito.
«Aspetta» disse Old Bailey.
Entrò nella tenda marrone e ne usci con in mano la scatola d’argento che il Marchese gli aveva dato l’ultima volta che si erano visti. «E di questa che si fa?» chiese. «Sei pronto a riprendertela? Mi fa venire i brividi e mi si accappona la pelle ad averla intorno.»
Il Marchese era andato verso il limitare del tetto e aveva saltato i due metri e mezzo che lo separavano dall’edificio vicino. «Me la riprenderò quando sarà tutto finito» gridò. «Speriamo che tu non debba usarla.»
Old Bailey si sporse. «Come farò a sapere se devo usarla?»
«Lo saprai» strillò il Marchese. «E i ratti ti diranno come fare.» E con questo era già al di là dell’edificio e scivolava lungo la facciata usando tubi di scarico e cornicioni come appigli.
«Spero di non scoprirlo mai, è tutto quello che posso dire» disse tra sé Old Bailey. Poi un pensiero lo colpi. «Ehi!» urlò alla notte e alla City. «Non ti dimenticare le scarpe e i guanti!»
I cartelli pubblicitari decantavano la magnesia effervescente, gite al mare per due scellini, aringhe affumicate e lustrascarpe. Erano relitti anneriti della fine degli anni Venti o dell’inizio dei Trenta.
Sembrava regnare un totale abbandono: un luogo dimenticato. «È la stazione del British Museum» ammise Richard. «Ma… ma non c’è mai stata una stazione del British Museum. È tutto sbagliato.»
«È stata chiusa all’incirca nel 1933, e poi venne isolata» spiegò Porta.
«Che cosa strana» commentò Richard. Era come passeggiare attraverso la storia. Poteva udire i treni echeggiare nei tunnel vicini, sentiva un soffio d’aria al loro passaggio. «Ce ne sono molte di stazioni come questa?»
«Più o meno cinquanta» disse Hunter. «Ma non tutte sono accessibili. Nemmeno a noi.»
Nell’ombra al margine della banchina ci fu un movimento.
«Salve» disse Porta. «Come stai?» Si accucciò a terra. Un ratto marrone uscì alla luce e le annusò la mano.
«Grazie» disse allegramente la ragazza. «Anch’io sono felice che neppure tu sia morta.»
Richard si avvicinò. «Hmm, Porta, potresti dire al ratto qualcosa per me?»
Il ratto voltò la testa verso di lui.
«La signorina Baffetti dice che se hai qualcosa da dirle, puoi farlo tu direttamente» disse Porta.
«La signorina Baffetti?»
Porta fece spallucce. «È una traduzione letterale. In rattese suona molto meglio.»
Richard non ne dubitava affatto. «Hmm, salve… signorina Baffetti… Senta, c’era una dei vostri parla-coi-ratti, una ragazza di nome Anestesia. Mi stava accompagnando al mercato. Stavamo attraversando quel ponte nel buio e lei semplicemente non è mai arrivata dall’altra parte.»
Il ratto lo interuppe con un acuto squiik. Porta iniziò a parlare, un po’ esitante, come un traduttore simultaneo. «Dice… che i ratti non danno a te la colpa della perdita. La tua guida è stata… hmm… presa dalla notte come tributo.»
«Ma…»
Il ratto squittì di nuovo. «A volte ritornano…» disse Porta. «Lei ha preso nota del tuo interessamento… e te ne ringrazia.»
Il ratto fece a Richard un cenno con la testa, socchiuse gli occhietti neri e lucidi, quindi saltò sul pavimento e si affrettò a tornare nell’ombra.
«Ratto simpatico» commentò Porta. Il suo umore pareva essere notevolmente migliorato da quando aveva la pergamena. «Su di là» disse, indicando un passaggio a volta completamente bloccato da una porta di ferro.
Giunti li, Richard si mise a spingere contro la lastra di metallo. Era sprangata dall’esterno.
«Sembra sia stata sigillata» disse Richard. «Ci servono degli attrezzi speciali.»
Porta sorrise, all’improvviso, e il suo viso parve illuminarsi. Per un attimo, il volto da folletto divenne bellissimo. «Richard,» disse «nella mia famiglia… Siamo apritori. È il nostro talento. Guarda…» Allungò una mano sudicia e toccò la porta. Per un lungo istante non accadde nulla, poi si udi un gran fracasso dall’altro lato, e un clunk dal loro. Porta spinse il portone che, con un poderoso stridore dei cardini arrugginiti, si apri.
Porta alzò il colletto della giacca di pelle e si ficcò le mani in tasca: Hunter illuminò con la torcia l’oscurità al di là del portone: una rampa di scale di pietra che saliva, nel buio.
«Hunter, puoi restare in retroguardia?» domandò Porta. «Vado avanti io e Richard può stare nel mezzo.»
Salì un paio di gradini. Hunter rimase dov’era. «Signora?» chiese. «Stai andando a Londra Sopra?»
«Proprio cosi» rispose Porta. «Andiamo al British Museum.»
Hunter si mordicchiò il labbro inferiore. Poi scosse il capo. «Io devo rimanere a Londra Sotto» disse, con un tremolio nella voce.
Richard notò che per la prima volta vedeva Hunter manifestare un’emozione che non fosse spontanea competenza o, occasionalmente, indulgente divertimento.
«Hunter,» disse Porta «sei la mia guardia del corpo.»
Hunter pareva a disagio. «Sono la tua guardia del corpo a Londra Sotto» rispose. «Non posso venire con voi a Londra Sopra.»
«Ma devi!»
«Mia signora, non posso. Pensavo avessi capito. Il Marchese lo sa.»
Hunter si prenderà cura di te finché sei a Londra Sotto, ricordò Richard. Già.
«No» disse Porta, il mento appuntito sollevato e all’infuori, gli occhi dallo strano colore stretti a fessura. «Non capisco. Cos’è?» aggiunse sprezzante. «Una maledizione o qualcosa del genere?»
Hunter esitava, si inumidì le labbra, poi annui. Era come se stesse ammettendo di avere una malattia socialmente imbarazzante.
«Senti, Hunter,» Richard udì la propria voce dire, «non essere sciocca.»
Per un attimo pensò che l’avrebbe colpito, e sarebbe stata un brutta cosa, o persino che si sarebbe messa a piangere, e sarebbe stato molto, molto peggio. Invece, fece un respiro profondo e disse, con tono misurato: «Camminerò al tuo fianco mentre sarai a Londra Sotto, e guarderò il tuo corpo da qualunque male possa accaderti. Ma non mi chiedere di seguirti a Londra Sopra. Non posso.»
Incrociò le braccia sul petto, si mise a gambe leggermente divaricate e, per l’inferno, aveva proprio l’aspetto della statua di una donna che non andava da nessuna parte, realizzata in ottone, bronzo e zucchero caramellato.
«D’accordo» disse Porta. «Andiamo, Richard.» E iniziò a salire i gradini.
«Senti,» disse Richard «perché non restiamo qui sotto? Possiamo trovare il Marchese e andare tutti insieme, e…» Porta stava sparendo nell’oscurità sopra di lui. Hunter era piantata in fondo alle scale.
«Aspetterò qui finché torna» gli disse. «Tu puoi andare o rimanere, come vuoi.»
Richard si mise all’inseguimento su per le scale, più in fretta che poteva, al buio. Ben presto scorse la luce della lampada di Porta. «Aspetta!» ansimò. «Per favore!»
La ragazza si fermò ad aspettarlo, poi quando l’ebbe raggiunta e si trovava accanto a lei su un pianerottolo claustrofobicamente piccolo, attese che riprendesse fiato.
«Non puoi semplicemente scappar via cosi» disse Richard.
Porta, invece, non disse nulla; la linea delle sue labbra era diventata leggermente più stretta, il mento sempre leggermente sollevato.
«È la tua guardia del corpo!» disse Richard.
Porta cominciò a salire la successiva rampa di scale e Richard la segui. «Be’, saremo di ritorno abbastanza presto» ribadi la ragazza. «Allora potrà ricominciare a proteggermi.»
L’aria era pesante, opprimente e umida. Richard si chiese come è possibile stabilire se l’aria è malsana in assenza di un canarino, e si accontentò di sperare che non lo fosse. «Penso sia probabile che il Marchese lo sapesse. Della maledizione o quello che è» disse.
«Si» concordò lei. «Immagino che lo sapesse.»
«Lui…» cominciò Richard. «Il Marchese. Be’, insomma, a essere sincero mi pare un pochino evasivo.»
Porta si fermò. Gli scalini terminavano contro un rozzo muro di mattoni. «Hmm. Dire che è un pochino evasivo è come affermare che i ratti sono impercettibilmente coperti di peluria.»
«E allora perché ti sei rivolta a lui? Non potevi mandarmi a cercare qualcun altro perché ti aiutasse?»
«Ne parleremo poi.» Srotolò la pergamena che le aveva dato il Conte, diede un’occhiata alla grafia arcaica, quindi la arrotolò di nuovo. «Non avremo problemi» affermò in tono conclusivo. «È tutto qui. Dobbiamo solo entrare al British Museum. Troviamo l’Angelus e usciamo. Facile. Una bazzecola. Non c’è da preoccuparsi. Chiudi gli occhi.»
Obbediente, Richard chiuse gli occhi.
«Non c’è da preoccuparsi» ripeté lui. «Quando lo dicono nei film significa sempre che sta per succedere qualcosa di terribile.»
Senti una leggera brezza sul viso. Era cambiato qualcosa nella qualità del buio oltre le sue palpebre chiuse.
«Allora, qual’è la tua opinione?» chiese Porta. Anche l’acustica era cambiata: si trovavano in una stanza più grande. «Puoi aprire gli occhi, adesso.»
Aprì gli occhi. Erano dall’altra parte del muro, in quello che a prima vista sembrava lo sgabuzzino di un rigattiere. Ma non si trattava di normali cose vecchie: c’era un che di strano e di speciale nella qualità degli oggetti sparsi. Era il genere di cianfrusaglie rare, magnifiche, strane e costose che ci si aspetta di trovare in un posto come…
«Siamo nel British Museum?» chiese.
La ragazza aggrottò le sopracciglia, meditabonda, o forse in ascolto. «Non esattamente. Siamo molto vicini. Penso che questo sia una specie di deposito o di magazzino. Qualcosa del genere.»
Allungò la mano per toccare la stoffa di un abito antico indossato da un manichino di cera.
«Vorrei che fossimo rimasti con la guardia del corpo» disse Richard.
Porta piegò la testa da un lato e lo guardò seria. «E tu da cosa devi essere protetto, Richard Mayhew?»
«Da niente» ammise. Quindi svoltarono un angolo e disse, «Be’… forse da loro» e allo stesso tempo Porta esclamò «Merda!»
Il motivo per cui Richard aveva detto «Forse da loro» e Porta aveva esclamato «Merda!» era il seguente: mister Croup e mister Vandemar se ne stavano in piedi su dei plinti ai lati del corridoio che stavano percorrendo. A Richard ricordarono orribilmente una mostra di arte moderna a cui una volta l’aveva portato Jessica: un affascinante giovane artista aveva allestito una mostra che prometteva di abbattere tutti i tabù dell’arte, e a questo scopo il suddetto artista aveva intrapreso una campagna sistematica di ruberie nelle tombe, per esporre quindi in contenitori di vetro i trenta reperti più interessanti dei suoi saccheggi.
La mostra venne chiusa dopo che «Cadavere trafugato numero 25» fu venduto a un’agenzia pubblicitaria per una somma a nove zeri, e che i parenti del Cadavere trafugato numero 25, vedendo una fotografia della scultura sul quotidiano Sun, citarono in giudizio artista e agenzia per avere una parte dei proventi e la possibilità di cambiare il titolo dell’opera d’arte in «Edgar Fospring, 1919-1987, marito, padre e zio affettuoso. Riposa in pace, papà.»
Richard aveva fissato con orrore i cadaveri rinchiusi nel vetro con i loro completi macchiati e i vestiti rovinati: si odiava perché stava guardando, eppure non riusciva a distogliere lo sguardo.
Mister Croup sorrise, come un serpente che tenta di inghiottire una falce di luna, cosa che aumentava ulteriormente la sua somiglianza con i Cadaveri trafugati dal numero 1 al numero 30. «Cosa?» disse il sorridente mister Croup. «Nessun signor Marchese ’So tutto e quanto sono intelligente’? Nessuna ’Oh, non te l’avevo detto? Accidenti! Non posso salire’ Hunter?» Fece una pausa, per ottenere un effetto drammatico. C’era qualcosa del prosciutto marcio in mister Croup. «Cospargetemi il capo di cenere e datemi del lupo cattivo se questi non sono due agnellini sperduti, tutti soli, fuori dopo il tramonto.»
«Può dare del lupo anche a me, mister Croup» disse mister Vandemar, servizievole.
Mister Croup scese dal suo plinto. «Una parolina gentile nelle vostre orecchiette confuse, piccoli agnellini» disse. Richard si guardò intorno. Doveva pur esserci un posto dove scappare. Allungò la mano e afferrò quella di Porta, continuando a cercare disperatamente con lo sguardo.
«No, vi prego. Restate dove siete» disse mister Croup. «Ci piacete cosi, e non vogliamo essere costretti a farvi del male.»
«Si che lo vogliamo» intervenne mister Vandemar.
«Be’, d’accordo, mister Vandemar, se vuole metterla in questi termini. Vogliamo fare del male a entrambi. Vogliamo farvi decisamente molto male. Ma non è per questo che siamo qui ora. Siamo qui per rendere le cose più interessanti. Vedete, quando le cose si fanno noiose, il mio socio e io diventiamo irrequieti e, per quanto possa risultarvi difficile crederlo, perdiamo il nostro carattere deliziosamente solare.»
Mister Vandemar mostrò i denti, a riprova del carattere deliziosamente solare. Era senza dubbio la cosa più orribile che Richard avesse mai visto.
«Lasciateci soli» disse Porta, con voce chiara e ferma.
Richard le strinse la mano. Se riusciva a essere cosi coraggiosa, poteva esserlo anche lui. «Se volete farle del male» annunciò «dovrete prima uccidere me.»
Mister Vandemar parve sinceramente compiaciuto all’idea. «Benissimo» disse. «Grazie.»
«E faremo del male anche a te» disse mister Croup.
«Non ancora, però» aggiunse mister Vandemar.
«Vedete,» spiegò mister Croup con una voce che pareva burro rancido, «in questo momento siamo qui solo per spaventare la ragazzina.»
La voce di mister Vandemar era un vento notturno che soffia su un deserto di ossa. «Farti soffrire» disse. «Rovinarti la giornata.»
Mister Croup si sedette alla base del plinto di mister Vandemar. «Siete andati in visita alla Corte del Conte, oggi» disse, in quello che Richard sospettava essere un tono lieve e familiare.
«E allora?» disse Porta. Si stava lentamente allontanando dai due.
Mister Croup sorrise. «Come facciamo a saperlo? Come sapevamo dove trovarti?»
«Ti possiamo prendere in qualunque momento» disse mister Vandemar, quasi in un sospiro.
«Sei stata venduta, piccola coccinella» disse mister Croup, rivolto solo e unicamente a Porta. «C’è un traditore nel tuo nido. Un cuculo.»
«Andiamo!» disse la ragazza. E si mise a correre.
Richard correva con lei, nella sala con le cianfrusaglie, verso una porta. Che al tocco di Porta si apri.
«Mandi loro un saluto, mister Vandemar» disse la voce di mister Croup, un po’ più lontana.
«Addio» disse mister Vandemar.
«No-no» corresse mister Croup. «Au revoir.»
E allora fece un suono — il cu-cù cu-cù che potrebbe fare un cuculo se fosse alto un metro e settanta e avesse una predilezione per la carne umana — mentre mister Vandemar, fedele alla propria natura, piegava all’indietro il testone e ululava come un lupo, spettrale, selvaggio e pazzo.
Erano fuori, all’aria aperta, nella notte, e correvano lungo un marciapiede. Richard cominciava a pensare che il cuore gli sarebbe schizzato dal petto per la violenza con cui batteva. Vennero superati da una grossa auto scura.
Il British Museum era al di là di un’alta cancellata dipinta di nero. Discrete luci nascoste illuminavano l’esterno del grande palazzo bianco, le colonne, i gradini e i muri.
Arrivarono a un cancello, che Porta afferrò con entrambe le mani, spingendo. Non accadde nulla.
«Non riesci ad aprirlo?» chiese Richard.
«Cosa ti sembra stia cercando di fare?» rispose seccamente la ragazza.
All’ingresso principale a qualche metro di distanza, stavano arrivando dei gran macchinoni da cui scendevano coppie eleganti che proseguivano a piedi verso il museo.
«Laggiù» disse Richard. «L’ingresso principale.»
Porta annui, poi si guardò alle spalle.
«Si direbbe che non ci stiano seguendo» disse. Si affrettarono verso il cancello aperto.
«Stai bene?» chiese Richard. «Cosa è successo?»
Porta quasi spari nella giacca di pelle. Era pallida e aveva dei semicerchi scuri sotto gli occhi.
«Sono stanca» disse con tono piatto. «Ho aperto troppe porte oggi. Consumo energia ogni volta e mi serve un po’ di tempo per recuperare. Qualcosa da mangiare e sono a posto.»
Al cancello c’era una guardia che esaminava minuziosamente gli inviti istoriati che ognuno degli uomini ben rasati e in smoking e delle signore profumate in abito da sera doveva presentare, per spuntarne i nomi sulla lista prima di farli entrare. Accanto a lui, un poliziotto in uniforme osservava inflessibile gli ospiti.
Richard e Porta attraversarono il cancello, e nessuno diede loro una seconda occhiata. Sui gradini di pietra che portano all’ingresso del museo si era formata una coda a cui si unirono anche Richard e Porta. Un uomo dai capelli bianchi accompagnato da una signora molto orgogliosa della pelliccia di visone che indossava, si mise ordinatamente in coda dietro di loro.
Un pensiero colpì Richard: «Possono vederci?» chiese.
Porta si rivolse al signore dietro di lei, lo fissò e disse «Salve.»
L’uomo si guardò attorno con un’espressione stupita sul volto, come non fosse certo di cosa avesse attirato la sua attenzione. Quindi si accorse di Porta che gli stava proprio di fronte. «Salve…?» disse.
«Sono Porta» si presentò la ragazza. «E questo è Richard.»
«Oh…» fece l’uomo. Poi si frugò in tasca, ne estrasse un sigaro e si dimenticò di loro.
«Ecco. Visto?» disse Porta.
«Penso di si» ribatté lui.
Per qualche tempo non dissero nulla, mentre la coda procedeva lentamente verso l’unico ingresso aperto del museo. Porta controllò lo scritto sulla pergamena, quasi a cercare rassicurazione. Quindi Richard chiese, «Un traditore?»
«Volevano solo farci innervosire» rispose Porta. «Cercavano di turbarci.»
«E hanno fatto un lavoro dannatamente buono, se è per questo» commentò Richard. Attraversarono la porta aperta ed eccoli nel British Museum.
Mister Vandemar era affamato, perciò tornarono indietro passando da Trafalgar Square.
«Spaventarla» mormorò mister Croup, disgustato. «Spaventarla. Come siamo ridotti.»
In un cestino dei rifiuti, mister Vandemar aveva trovato un mezzo panino alla lattuga e gamberetti e lo stava facendo diligentemente a pezzettini da lanciare sul selciato di fronte a sé per attirare un piccolo stormo di piccioni tiratardi.
«Dovevamo seguire la mia idea» disse mister Vandemar. «L’avremmo spaventata molto di più se gli avessi strappato la testa mentre lei non guardava. Poi gli facevo salire la mano su dalla gola e agitavo le dita all’interno. Strillano sempre» disse in confidenza «quando cadono le palle degli occhi.»
Fece una dimostrazione con la mano destra, conficcando le dita verso l’alto per poi agitarle con forza.
Mister Croup proprio non voleva sentirne parlare. «Perché diventare cosi schifiltoso a questo punto del gioco?» domandò.
«Non sono schifiltoso, mister Croup» ribadì mister Vandemar. «Mi piace tanto quando cadono le palle degli occhi. Prendere gli occhi e sbatacchiare.»
Alcuni piccioni grigi, in giro anche se era passata l’ora di andare a dormire, si avvicinarono tutti impettiti per beccare i frammenti di pane e gamberetti, disdegnando la lattuga.
«Non lei,» disse mister Croup «il principale. Uccidetela, rapitela, spaventatela. Perché non si decide?»
Mister Vandemar aveva terminato il panino, perciò balzò sul gruppo di piccioni, che fecero ricorso alle ali producendo dei suoni secchi e qualche occasionale e lamentoso cuu.
«Gran bella presa, mister Vandemar» disse mister Croup con aria di approvazione.
Mister Vandemar stringeva in mano un piccione stupito e sconvolto che brontolava e si dimenava per liberarsi, cercando senza successo di beccargli le dita.
Mister Croup sospirò, con tono drammatico. «Be’, comunque, non c’è dubbio che adesso abbiamo messo la volpe nel pollaio» disse soddisfatto.
Mister Vandemar teneva il piccione all’altezza della faccia. Si udi un rumore di mandibole, quando gli staccò la testa con un morso e iniziò a masticare.
Le guardie di sicurezza stavano dirigendo gli ospiti del museo verso un corridoio che sembrava quasi fungere da sala di attesa. Porta le ignorò completamente e prosegui verso i saloni del museo con Richard alle calcagna.
Attraversarono la sala egizia, salirono parecchie rampe di scale e giunsero in una stanza che un cartello indicava con il nome di Gotico inglese del primo periodo.
«Secondo questa pergamena» disse la ragazza «l’Angelus è proprio qui.»
Porta abbassò lo sguardo sulla pergamena. Lo rialzò per guardarsi intorno. Fece una smorfia di dissenso e ridiscese le scale, percorrendo di nuovo la strada da cui erano arrivati.
Richard provava un’intensa sensazione di déjà vu, prima di rendersi conto che si, certo che il posto gli pareva familiare: era li che passava i fine settimana all’epoca di Jessica. E cominciava a sembrargli una cosa accaduta a qualcun altro tanto, tanto tempo prima.
«Allora, l’Angelus non c’era?» chiese Richard.
«No, non c’era» rispose Porta con una foga che Richard ritenne un po’ eccessiva rispetto alla domanda.
«Oh» disse. «Tanto per sapere.»
Entrarono in un’altra stanza. Richard si chiese se stava cominciando a soffrire di allucinazioni per l’eccesso di zuccheri assunti alla Corte del Conte o per deprivazione sensoriale. «Sento della musica» disse. Sembrava un quartetto d’archi.
«La festa» disse Porta.
Giusto. Le persone in smocking con cui avevano fatto la coda. No, l’Angelus non sembrava essere neppure là. Porta si incamminò verso il salone successivo e Richard le andò subito dietro. Avrebbe voluto rendersi più utile.
«Questo Angelus» chiese «che aspetto ha?»
Per un attimo pensò che stesse per sgridarlo per aver fatto la domanda, invece si fermò e si sfregò la fronte. «Qui dice solo che ha sopra l’immagine di un angelo. Ma non dovrebbe essere tanto difficile trovarlo. In fondo,» aggiunse speranzosa «quante cose con sopra un angelo potranno mai esserci?»
NOVE
Jessica era leggermente sotto pressione. Era preoccupata, nervosa e agitata. Aveva catalogato la collezione, provveduto a far si che il British Museum ospitasse la mostra, organizzato i lavori di restauro dei più importanti oggetti in esposizione, collaborato ad appendere e posizionare la collezione e redatto la lista degli invitati al meraviglioso vernissage.
Che importava che non avesse un ragazzo, diceva agli amici. Tanto, anche in caso contrario non avrebbe avuto un minuto di tempo da dedicargli. Eppure, sarebbe bello, pensò, in un attimo di pausa: qualcuno con cui visitare le gallerie d’arte nel fine settimana. Qualcuno con cui…
No. Non voleva raggiungere quell’angolo della sua mente. Non lo poteva fissare cosi come non avrebbe potuto afferrare una goccia di mercurio, e si concentrò di nuovo sulla mostra.
Anche adesso, all’ultimo minuto, c’erano ancora talmente tante cose che potevano andare storte. Più di un cavallo era caduto sull’ultimo ostacolo. Più di un generale troppo sicuro di sé aveva visto una vittoria certa trasformarsi in sconfitta nei minuti finali della battaglia.
Jessica intendeva semplicemente assicurarsi che tutto andasse per il verso giusto.
Indossava un vestito di seta verde, un generale senza spalline che passa in rassegna le sue truppe, fingendo stoicamente che il signor Stockton non avesse mezz’ora di ritardo.
Le truppe consistevano in un capo cameriere, una decina di persone di servizio, tre donne delle società di catering, un quartetto d’archi e il suo assistente, un giovane di nome Clarence. Jessica era convinta che Clarence avesse avuto il posto perché a) dichiaratamente gay, e b) altrettanto dichiaratamente nero, quindi era per lei una fonte di continua irritazione il fatto che fosse di gran lunga l’assistente migliore, più efficente e competente che avesse mai avuto.
Ispezionò il tavolo dei beveraggi. «Siamo a posto con lo champagne? Si?»
Il capo cameriere le indicò la cassa di champagne sotto il tavolo.
«E con l’acqua minerale gassata?»
Un altro cenno del capo. Un’altra cassa.
Jessica increspò le labbra. «E che mi dite dell’acqua minerale non gassata? Non tutti hanno una passione per le bollicine, sapete.»
C’era acqua minerale non gassata in abbondanza. Bene.
Il quartetto d’archi si stava scaldando. La musica non era abbastanza forte da soffocare il rumore proveniente dal corridoio. Era il rumore di una folla piccola ma facoltosa: il borbottio di signore in visone, e signori che, non fosse stato per i cartelli con scritto VIETATO FUMARE — e forse anche per il consiglio dei rispettivi medici — avrebbero tirato fuori un sigaro; il borbottio di giornalisti e celebrità varie che sentivano il profumo di canapé, vol-au-vent, bocconcini prelibati e champagne gratis.
Clarence stava parlando al telefonino, un marchingegno sottile e richiudibile che faceva sembrare i trasmettitori di Star Trek ingombranti e fuori moda. Lo spense, abbassò l’antenna e lo rimise nella tasca Armani del suo completo Armani senza rovinarne la linea. Sorrise, con aria rassicurante. «Jessica, l’autista del signor Stockton mi ha telefonato dall’auto. Avranno un altro paio di minuti di ritardo. Non c’è da preoccuparsi.»
«Non c’è da preoccuparsi» gli fece eco Jessica. Un fallimento. Un fallimento. La cosa era destinata a essere un disastro. Il suo disastro. Prese una coppa di champagne dal tavolo, la vuotò e allungò il bicchiere al cameriere addetto agli alcolici.
Clarence inclinò la testa da un lato, in ascolto della brontolante risonanza che proveniva dal corridoio oltre la porta. Guardò l’orologio, poi guardò Jessica con aria interrogativa, un capitano che interroga il proprio generale. Nella Valle della Morte, allora, capo?
«Il signor Stockton sta arrivando, Clarence» disse calma. «Ha richiesto una visita privata prima che l’evento abbia inizio.»
«Devo uscire a vedere come vanno le cose?»
«No» disse Jessica, decisa. Quindi, altrettanto decisa, «Si.»
Risolta la questione cibo e bevande, Jessica si diresse dal quartetto d’archi, per chiedere, per la terza volta quella sera, cosa esattamente intendevano suonare.
Clarence apri la doppia porta. Era peggio di quanto avesse pensato: dovevano esserci più di cento persone nel corridoio.
E non erano solo persone. Erano Persone. Alcune addirittura Personalità.
«Mi scusi» disse il presidente della Commissione per le belle arti. «L’invito diceva le otto in punto e sono già le otto e venti.»
«Solo qualche minuto» lo rassicurò educatamente Clarence. «Disposizioni di sicurezza.»
Una donna con cappello iniziò a fare pressione su di lui, con voce stentorea, prepotente e decisamente parlamentare. «Giovanotto,» cominciò «sa chi sono io?»
«Veramente no» menti Clarence, che sapeva esattamente chi fosse ognuno di loro. «Attenda solo un attimo. Vado a chiedere se qualcuno qui dentro lo sa.»
Si richiuse la porta alle spalle.
«Jessica? Stanno per fare una rivolta.»
«Non esagerare, Clarence.»
Si muoveva nella stanza come un turbine di seta verde, posizionando il suo staff di servizio con i vassoi di canapé o di bicchieri di champagne negli angoli strategici; controllando il sistema di diffusione sonora, il podio, il sipario e il cordone per aprirlo. «Posso già vedere i titoli» disse Clarence aprendo un giornale immaginario «Orrore al museo: ricchi vecchietti travolgono fanciulla del marketing nella corsa al canapé.»
Qualcuno aveva iniziato a bussare alla porta. Il volume dei suoni provenienti dall’esterno era aumentato. Qualcuno stava dicendo, a voce molto alta, «Scusi. Hmm. Scusi.» Qualcun altro stava informando il mondo che si trattava di una vergogna, una vergogna pura e semplice, non c’erano altre parole per descriverla.
«Decisione esecutiva» disse Clarence all’improvviso. «Li faccio entrare.»
Jessica urlò «No! Se lo fai…»
Ma era troppo tardi. Le porte si erano aperte e l’orda premeva per entrare nella sala. L’espressione di orrore sul viso di Jessica si trasformò in rapita delizia. Scintillò verso la porta. «Baronessa» disse, con un radioso sorriso. «Non so dirle quanto sono felice che sia potuta venire stasera alla nostra piccola mostra. Il signor Stockton è stato trattenuto improrogabilmente ma sarà qui a momenti. La prego, prenda un canapé…»
Al di sopra della spalla visonata della baronessa, Clarence le fece un allegro occhiolino. Jessica elencò mentalmente tutte le parolacce che conosceva. Non appena la baronessa si diresse verso i vol-au-vent, Jessica raggiunse Clarence e, senza smettere di sorridere, gliene dedicò qualcuna all’orecchio.
Richard si bloccò. Una guardia di sicurezza stava andando di filato verso di loro, spostando il raggio luminoso della torcia da una parte all’altra. Si guardò intorno alla ricerca di un posto in cui nascondersi.
Troppo tardi. Un’altra guardia si stava dirigendo nella loro direzione, oltre le enormi statue delle divinità greche, agitando la torcia.
«Tutto bene?» chiese la prima guardia.
L’altra fece qualche passo avanti, fermandosi proprio accanto a Richard e Porta.
«Spero di si» disse. «Ho già dovuto fermare un paio di ubriaconi in pompa magna che volevano incidere le loro iniziali sulla Stele di Rosetta. Detesto questo tipo di incarichi.»
La prima guardia puntò il raggio luminoso della torcia dritto negli occhi di Richard, quindi lo fece scivolare via a sfiorare le ombre. «Non smetterò mai di dirtelo» disse, con il soddisfatto piacere del vero profeta, «è La maschera della Morte Rossa che si ripete in continuazione. Un’elite decadente si riunisce a far festa mentre la civiltà va in rovina.» Si mise le dita nel naso e se le pulì sulla suola di cuoio delle scarpe nere ben lucidate.
La seconda guardia sospirò. «Grazie, Gerald. Bene, adesso continuiamo il giro.»
Le guardie uscirono insieme dalla sala. «L’ultima volta che hanno fatto una festa abbiamo scoperto che qualcuno aveva vomitato in un sarcofago» disse uno degli uomini, poi la porta si richiuse alle loro spalle.
«Se fai parte di Londra Sotto» spiegò Porta a Richard, con tono colloquiale, mentre camminavano fianco a fianco verso la sala successiva, «di solito non si accorgono neppure della tua esistenza, a meno che non li fermi e parli con loro. E anche in quel caso, si dimenticano di te in un batter d’occhio.»
«Ma io ti ho vista» fece Richard. Era da un po’ che quel fatto gli dava da pensare.
«Lo so» disse Porta. «Non è strano?»
«Qui è tutto strano» ribadì Richard con foga. La musica degli archi si faceva più forte.
«L’Angelus è là dentro» annunciò Porta puntando il dito nella direzione da cui proveniva la musica.
«Come lo sai?»
«Lo so» disse con assoluta certezza. «Andiamo.» Uscirono dal buio per immettersi in un corridoio illuminato. Attraverso il corridoio campeggiava un grande cartello con sopra scritto:
ANGELI SULL’INGHILTERRA
UNA MOSTRA DEL BRITISH MUSEUM
sponsorizzata dalla Stockton S.p.A.
Attraversarono il corridoio e superarono una porta aperta, per entrare nella grande stanza in cui si stava svolgendo la festa.
C’era un quartetto d’archi che suonava e numerosi camerieri che rifornivano di cibo e bevande una stanza affollata di gente ben vestita. In un angolo della sala si trovava un piccolo palco con sopra un podio, a lato di un sipario lungo e pesante.
La stanza era completamente piena di angeli.
C’erano statue di angeli su minuscoli piedistalli. Dipinti di angeli sui muri. Affreschi con angeli. C’erano angeli enormi e angeli minuscoli, angeli risoluti e angeli amabili, angeli con ali e aureola e angeli senza, angeli bellicosi e angeli pacifici. C’erano angeli moderni e angeli classici. Centinaia e centinaia di angeli di ogni forma e misura. Angeli occidentali, medio-orientali e orientali. Angeli di Michelangelo. Angeli di Joel Peter Witkin, di Picasso, di Warhol. La collezione di angeli del signor Stockton era «indisciplinata fino a sfiorare il trash, ma di certo notevole per il suo ecclettismo» (Time Out).
«Penseresti che sono incontentabile» chiese Richard «se dicessi che trovare qualcosa con sopra un angelo in questa stanza è come cercare di trovare un… oh mio Dio, Jessica!»
Richard senti il sangue defluirgli dal viso. Fino a quel momento aveva pensato che si trattasse di un modo di dire. Non aveva mai creduto che potesse accadere davvero.
«Qualcuno che conosci?» chiese Porta.
Richard annui. «Era la mia… Be’, dovevamo sposarci. Siamo stati insieme per un paio d’anni. Era con me quando ti ho trovata. Era quella nella… Che ha lasciato quel messaggio. Nella segreteria telefonica.»
Jessica stava conversando con Andrea Lloyd Webber, Janet Street-Porter e un signore occhialuto che sospettava fortemente fosse uno dei Saatchi, quelli dell’agenzia di pubblicità e pubbliche relazioni. Ogni due o tre minuti controllava l’orologio e lanciava un’occhiata in direzione della porta.
«Lei?» chiese Porta, ricordandosi di quanto era successo. Poi, sentendosi in dovere di dire qualcosa di carino di una persona che per Richard era stata tanto importante, aggiunse «Be’, è molto…» fece una pausa e pensò, «… pulita.»
Richard fissava Jessica dall’altra parte della stanza. «Sarà… sarà infastidita dalla nostra presenza?»
«Ne dubito» rispose Porta. «A dire il vero, se non fai qualcosa di stupido, come rivolgerle la parola, probabilmente non si accorgerà nemmeno di te.» Quindi, con molto più entusiasmo, disse: «Cibo!»
Piombò sui canapé come una ragazzina col naso imbrattato di fuliggine, i capelli da folletto e una grande giacca di pelle marrone, una ragazza che non avesse mangiato in modo adeguato da anni. Enormi quantità di cibo vennero immediatamente stipate nella sua boccuccia, masticate e inghiottite mentre, allo stesso tempo, più sostanziosi panini venivano avvolti nei tovaglioli di carta e messi in tasca.
Poi, con in mano un piatto di carta su cui aveva ammonticchiato cosce di pollo, fette di melone, vol-au-vent ai funghi, sfogliatine al caviale e salsicce di cervo, cominciò ad aggirarsi per la stanza, fissando assorta ogni singolo angelico manufatto. Richard la seguiva con un panino al finocchio e brie e un bicchiere di succo d’arancia appena spremuto.
Jessica era molto perplessa. Aveva notato Richard, e avendo visto lui si era accorta anche di Porta. C’era qualcosa di familiare in quei due: era come un’immagine in un angolo remoto del cervello, impossibile da identificare e fonte di grande irritazione.
Le fece tornare alla mente un aneddoto che le aveva raccontato sua madre, quando aveva incontrato una donna che conosceva da sempre — con cui era andata a scuola, aveva fatto parte del consiglio parrocchiale e aveva gestito la tombola alla fiera del paese — e della quale si era resa conto, a una festa, di non sapere il nome, pur essendo a conoscenza del fatto che aveva un marito che lavorava nella pubblicità e si chiamava Eric e un golden retriever di nome Major.
La cosa aveva lasciato la madre di Jessica alquanto contrariata.
E stava distraendo Jessica.
«Chi sono quelle persone?» chiese a Clarence.
«Loro? Be’, lui è il nuovo direttore di Vogue, lei è la corrispondente del New York Times per le belle arti. Quella nel mezzo è Emma Freud, credo…»
«No, non loro» disse Jessica. «Loro. Là.»
Clarence guardò nel punto che stava indicando. Hmm? Oh, loro. Non riusciva a capire come avesse potuto non notarli prima. L’età, pensò. Avrebbe compiuto ventitré anni di li a poco. «Giornalisti?» disse poco convinto. «Hanno un aspetto piuttosto trendy. Grunge chic? Ti prego! So di avere invitato The Face…»
«Io lo conosco» disse Jessica, frustrata. In quel momento lo chauffeur del signor Stockton telefonò da Holborn dicendo che erano quasi arrivati al British Museum, e Richard le scivolò via dalla testa come mercurio liquido che sgocciola tra le dita.
«Visto qualcosa?» chiese Richard.
Porta scosse il capo e inghiottì una boccata di coscia di pollo masticata frettolosamente. «È come giocare a ’Individua il piccione’ a Trafalgar Square» commentò. «Ma non c’è niente che avverto come l’Angelus. La carta diceva che vedendolo l’avrei riconosciuto.»
Riprese ad aggirarsi nella sala, facendosi strada tra un Capitano d’Industria, il Leader dell’Opposizione e la Squillo Meglio Pagata dell’Inghilterra del sud.
Richard si voltò, e si trovò faccia a faccia con Jessica. Aveva i capelli pettinati alti sulla nuca, che le incorniciavano perfettamente il viso di riccioletti bruni. Era molto bella. Gli sorrideva. Fu il sorriso a smuoverlo.
«Ciao Jessica» disse. «Come stai?»
«Salve. Non ci crederà,» disse lei «ma il mio assistente non ha preso nota del suo giornale, signor hmm.»
«Giornale?» fece Richard.
«Ho detto giornale?» disse Jessica con una dolce e tintinnante risatina piena di auto-biasimo. «Rivista… stazione televisiva. Lei è nei media, vero?»
«Hai un aspetto splendido, Jessica» disse Richard.
«Lei è in vantaggio nei miei confronti» ribadì la ragazza con aria maliziosa.
«Sei Jessica Bartram. Sei la responsabile marketing della Stockton. Hai ventisei anni. Il tuo compleanno cade il ventitré aprile, e quando sei all’apice della passione tendi a canterellare a bocca chiusa la canzone dei Monkees I’m a believer…»
Ormai Jessica non sorrideva più.
«È una specie di scherzo?» chiese con freddezza.
«Oh, e negli ultimi diciotto mesi siamo stati fidanzati» aggiunse Richard.
Jessica sorrise nervosamente. Forse si trattava davvero di uno scherzo, di una di quelle spiritosaggini che tutti gli altri sembravano capire e che lei non riusciva mai ad afferrare.
«Credo che lo saprei se fossi stata fidanzata con qualcuno per diciotto mesi, signor hmm.»
«Mayhew» disse Richard per darle una mano. «Richard Mayhew. Mi hai piantato, e io non esisto più.»
Jessica fece un cenno frettoloso a nessuno in particolare dall’altra parte della sala. «Arrivo subito!» gridò disperata, cominciando a indietreggiare.
«I’m a believer» canticchiò tutto allegro Richard «I coiddn’t leave her if I tried…»
Jessica afferrò una coppa di champagne da un vassoio di passaggio e lo inghiotti in un sorso. Al lato opposto della stanza poteva vedere l’autista del signor Stockton, e dove si trovava l’autista del signor Stockton…
Si diresse verso la porta.
«Allora, chi era?» chiese Clarence mettendosi al suo fianco.
«Chi?»
«Il tuo uomo del mistero.»
«Non lo so» ammise lei. Poi aggiunse, «Senti, forse sarebbe meglio chiamare la sicurezza.»
«D’accordo. Perché?»
«Perché… perché ti chiedo di chiamare la sicurezza» poi il signor Arnold Stockton entrò nella sala e tutto il resto le usci dalla testa.
Era voluminoso e facoltoso, il signor Stockton: una vignetta d’uomo, con una circonferenza enorme, molti menti e un grande stomaco. Aveva superato i sessanta; i capelli erano grigio-argento, e li teneva troppo lunghi sulla nuca perché vedere che teneva i capelli troppo lunghi metteva a disagio la gente, e al signor Stockton piaceva molto mettere la gente a disagio.
Paragonato a Arnold Stockton, Rupert Murdoch era un losco speculatore di quart’ordine e il defunto Robert Maxwell una balena arenata. Arnold Stockton era un pitbull, ed era proprio cosi che spesso lo ritraevano i caricaturisti.
La Stockton possedeva un po’ di tutto: satelliti, quotidiani, case discografiche, parchi di divertimento, libri, periodici, fumetti, stazioni televisive, compagnie cinematografiche.
«Il discorso lo pronuncio subito» disse il signor Stockton a Jessica come preambolo. «Poi me la svigno. Ci torno un’altra volta, senza tutti quei palloni gonfiati tra i piedi.»
«Bene» disse Jessica. «Si. Subito il discorso. Certo.»
Quindi lo condusse al piccolo palco e sul podio. Per ottenere il silenzio fece tintinnare le unghie contro un bicchiere. Nessuno ci fece caso, perciò prese il microfono e disse «Scusatemi.» Questa volta la conversazione si acquietò. «Signore e signori. Stimati ospiti. Vorrei dare a tutti voi il benvenuto al British Museum» disse «e alla mostra, sponsorizzata dalla Stockton, ’Angeli sull’Inghilterra’, e in particolar modo all’uomo cui dobbiamo tutto questo, il nostro direttore generale e presidente del Consiglio di amministrazione, il signor Arnold Stockton.»
Gli ospiti si misero ad applaudire, senza avere dubbi riguardo a chi avesse raccolto la collezione di angeli e, peraltro, pagato lo champagne.
Il signor Stockton si schiari la voce. «Bene» disse. «Non sarà una cosa lunga. Quando ero piccolo, venivo al British Museum al sabato, perché l’ingresso era gratuito e a casa non giravano molti soldi. Però salivo gli alti gradini per raggiungere l’entrata e scendevo in questa sala sul retro per guardare quest’angelo. Era come se sapesse cosa pensavo.»
(Clarence rientrò nella stanza affiancato da un paio di guardie della sicurezza. Indicò Richard, che si era fermato ad ascoltare il discorso del signor Stockton. Porta stava ancora esaminando i pezzi esposti. «No, lui» Clarence continuava a ripetere alle guardie, in tono sommesso. «No, guardate, proprio là. Visto? Lui.»)
«Comunque. Come tutte le cose che non vengono custodite con attenzione» continuò il signor Stockton «è andato in rovina, caduto a pezzi sotto gli stress e le tensioni dei tempi moderni. È marcito. È andato a male. Be’, ci è voluta un carrettata di soldi» fece una pausa per dare maggior peso all’espressione — se lui, Arnold Stockton, pensava fosse una carrettata, di carrettata certamente si trattava — «e decine di artigiani hanno passato un sacco di tempo a restaurarlo e a sistemarlo. Dopo Londra, la mostra andrà in America, poi in tutto il mondo, cosi forse potrà ispirare qualche altro piccolo birbante senza un soldo a costruirsi un impero nelle comunicazioni.»
Si guardò intorno. Rivolto a Jessica mormorò, «E adesso che faccio?»
Lei indicò il cordone a lato del sipario.
Il signor Stockton tirò il cordone e il sipario ondeggiò e si apri, rivelando un vecchio portale.
(«No. Lui» disse Clarence. «Per la miseria! Ma siete ciechi?»)
Poteva essere stato l’ingresso di una cattedrale. Era alto come due uomini e abbastanza largo perché ci passasse un pony. Intagliato nel legno del portale e dipinto in rosso, bianco e lamina d’oro, c’era un angelo straordinario. Che fissava il mondo con vuoti occhi medievali.
Gli ospiti fecero un oh! di stupore, quindi applaudirono.
«L’Angelus!» Porta si era messa a tirare la manica di Richard. «Eccolo! Richard, vieni!»
Corse verso il palco.
«Mi scusi, signore» disse una guardia rivolta a Richard. «Possiamo vedere il suo invito?» aggiunse un’altra, afferrandolo saldamente, ma con discrezione, per un braccio. «Ha un documento?»
«No» rispose Richard.
Porta era sul palco. Richard tentò di liberarsi con uno strattone, nella speranza che le guardie si dimenticassero di lui. Non lo fecero.
Una volta preso in custodia, intendevano trattarlo come avrebbero fatto con qualsiasi altro trasandato, sporco e mal rasato intruso. La guardia che teneva Richard per il braccio accentuò la stretta, mormorando: «Non pensarci nemmeno!»
Sul palco, Porta si era fermata, chiedendosi come fare affinché le guardie liberassero Richard. Quindi fece l’unica cosa che le venne in mente. Si avvicinò al microfono, si alzò in punta di piedi e si mise a urlare con quanto fiato aveva in gola nel sistema di diffusione sonora.
Il suo strillo era notevole: senza alcun aiuto esterno poteva attraversare il cervello come un trapano superpotente con segaossi incorporato. E amplificato…
Una cameriera lasciò cadere il vassoio con i bicchieri. Teste che si voltavano. Mani che coprivano le orecchie. Interruzione di ogni conversazione. La gente fissava il palco sconcertata e inorridita.
E Richard ne approfittò per liberarsi con uno strattone e scappare via, dicendo alla guardia sbigottita, «Mi dispiace, ho sbagliato Londra.»
Raggiunse il palco e afferrò la mano sinistra di Porta, tesa verso di lui. Con la mano destra la ragazza toccò l’Angelus, l’enorme portone di cattedrale. Lo toccò e lo aprì.
Questa volta nessuno lasciò cadere il bicchiere. Erano pietrificati, lo sguardo fisso, del tutto sopraffatti — e, momentaneamente, accecati. L’Angelus si era aperto, e da dietro il portale la luce aveva invaso la stanza di fulgore. Gli invitati si erano coperti gli occhi, poi, esitanti, avevano provato a riaprirli ed erano semplicemente rimasti attoniti a fissare. Era come se in quella sala fossero stati sparati dei fuochi d’artificio. Non fuochi da interno, quegli strani bastoncini su cui i lampi di luce scoppiettanti si arrampicano lentamente per lasciare un cattivo odore una volta spenti; e neppure quelli che si accendono in giardino, ma veri e propri fuochi da professionisti, quelli che vengono sparati cosi in alto da creare problemi agli aeroplani: quelli che chiudono una giornata a Disneyland o fanno venire l’emicrania ai vigili del fuoco ai concerti dei Pink Floyd. Era un momento di magia pura.
Il pubblico guardava, estasiato e stupito. L’unico rumore che si sentiva era il lieve, ansimante mormorio di meraviglia che la gente fa quando guarda i fuochi artificiali: il suono della soggezione.
Poi un giovane sudicio e una ragazza con il viso imbrattato di fuliggine che indossava una giacca di pelle troppo grande entrarono in quello spettacolo di luce e scomparvero. Il portale si richiuse dietro di loro. I giochi di luce erano terminati.
E tutto era di nuovo normale. Gli ospiti, le guardie, i camerieri strizzarono gli occhi, scossero le rispettive teste e, avendo avuto a che fare con qualcosa del tutto al di fuori della loro esperienza, si ritrovarono in qualche modo d’accordo, senza aver detto una parola, che in realtà non era accaduto nulla.
Il quartetto d’archi riprese a suonare.
Il signor Stockton se ne andò, dopo aver salutato con un brusco cenno del capo i vari conoscenti che stavano tra lui e l’uscita.
Jessica si avvicinò a Clarence. «Cosa ci fanno qui» chiese gentilmente «quegli uomini della sicurezza?»
Le guardie in questione se ne stavano in mezzo agli ospiti, e si guardavano attorno come se fossero altrettanto incerte sul da farsi.
Clarence cominciò a spiegare il motivo per cui le guardie si trovavano là, ma si rese conto di non averne la benché minima idea. «Me ne occupo io» disse, sempre efficente.
Jessica annui. Diede un’occhiata alla sua festa e sorrise benignamente. Stava andando tutto decisamente bene.
Richard e Porta entrarono nella luce. Poi, all’improvviso, diventò buio, e fresco, e Richard socchiuse gli occhi per l’immagine residua della luce sulla retina, che lo aveva lasciato quasi cieco: un evanescente alone verde-arancio che scompariva piano piano mentre gli occhi si abituavano all’oscurità che li circondava.
Si trovavano in un salone molto ampio, scavato nella roccia. I piloni di ferro che reggevano il soffitto, neri e coperti di ruggine, proseguivano fino nel buio più lontano, forse per chilometri. Scaturito da un angolo non meglio identificato poteva sentire un dolce rumore di acqua corrente: una fontana, forse, o una piccola cascata. Porta gli stava ancora tenendo la mano, stretta.
In lontananza, una fiammella tremolò e si accese. Poi un’altra. E un’altra ancora. Era una miriade di candele, e verso di loro, camminando in mezzo alle candele, veniva una figura alta, vestita di un semplice abito bianco.
La figura sembrava muoversi lentamente, ma doveva invece camminare con grande rapidità, dato che dopo pochi secondi era già al loro fianco. Aveva i capelli dorati e il viso pallido. Non era molto più alto di Richard ma lo faceva sentire come un bambino piccolo. Non era un uomo. Non era una donna. Era molto bello.
Aveva una voce pacata, e disse, «Lady Porta, vero?»
Porta rispose «Si.»
Un sorriso gentile. Un cenno del capo verso di lei, con aria quasi umile. «È un onore incontrare finalmente te e il tuo compagno. Sono l’Angelo Islington.»
Aveva occhi grandi e limpidi. Il suo abito non era bianco come Richard aveva inizialmente pensato: sembrava intessuto di luce.
Richard non credeva agli angeli. Non aveva mai creduto agli angeli, e, dannazione, non avrebbe certo cominciato ora. Tuttavia, è molto più facile non credere a qualcosa quando non ti sta guardando dritto in faccia, chiamandoti per nome.
«Richard Mayhew» disse. «Anche tu sei il benvenuto qui, nei miei saloni.»
Si voltò. «Vi prego,» disse «seguitemi.»
Richard e Porta seguirono l’angelo. Le candele si spegnevano da sole al loro passaggio.
Il Marchese de Carabas attraversò a grandi passi l’ospedale vuoto, facendo scricchiolare vetri rotti e vecchie siringhe sotto la punta quadrata degli stivali neri da motociclista.
Attraversò una doppia porta che conduceva a una scala sul retro. Scese i gradini.
Attraversò i tunnel sotterranei dell’edificio, muovendosi con un po’ di fastidio intorno ai mucchi di immondizia in disfacimento. Attraversò le docce e i bagni, scese una vecchia scaletta di ferro che portava a una zona paludosa, quindi apri una porta di legno mezza marcia e entrò.
Si guardò intorno, ispezionando con disprezzo il gattino mangiato a metà e la pila di lamette da barba.
Poi rimosse i detriti da una sedia e si mise comodamente a sedere, nella lussuosa umidità dello scantinato, e chiuse gli occhi.
Finalmente la porta della stanza venne aperta, e qualcuno entrò.
Il Marchese de Carabas apri gli occhi e sbadigliò. Poi illuminò mister Croup e mister Vandemar con un largo sorriso.
«Salve, ragazzi» disse de Carabas. «Pensavo fosse arrivato il momento di venire qui giù a parlarvi di persona.»
DIECI
«Bevete vino?» domandò.
Richard annuì.
«Ho bevuto del vino solo poche volte» disse Porta. «Mio padre. Lui a cena ci permetteva di assaggiarlo.»
L’Angelo Islington sollevò la bottiglia. Pareva una sorta di caraffa da decantazione. Richard si chiese se fosse di vetro, poiché rifrangeva e rifletteva la luce delle candele in modo molto insolito. Forse si trattava di un cristallo, o di un unico gigantesco diamante. Dava addirittura l’impressione che il vino all’interno brillasse, come fosse fatto di luce.
L’angelo tolse la parte superiore del cristallo e versò due dita del liquido in esso contenuto in un bicchiere da vino. Era vino bianco, ma di un tipo che Richard non aveva mai visto. Spargeva luce all’intorno, come i raggi del sole su una piscina.
Porta e Richard si sedettero a un tavolo di legno annerito dal tempo, su enormi sedie di legno, senza proferire parola.
«Si tratta» spiegò Islington «dell’ultima bottiglia di questo vino. Uno dei tuoi antenati me ne aveva donate una dozzina.»
Porse il bicchiere a Porta, e cominciò a versare altre due dita di quel vino luminoso dalla caraffa in un secondo bicchiere. Agiva con reverenza, quasi con amore, come un sacerdote che esegue un rituale.
«Si trattava di un regalo di benvenuto. Erano, oh, trenta, quarantamila anni fa. Parecchio tempo, comunque.»
Passò il vino a Richard.
«Immagino mi accuserete di sperperare qualcosa che dovrei invece tenere in gran conto» disse l’angelo. «Ma ricevo ospiti cosi di rado. E la via per giungere fin qui è molto difficile.»
«L’Angelus…» mormorò Porta.
«Voi siete arrivati qui adoperando l’Angelus, certo. Ma è una strada che ogni viaggiatore può percorrere una sola volta.» L’angelo sollevò in alto il suo bicchiere, fissando la luce. «Bevete piano» li ammonì. «È incredibilmente forte.» Si sedette al tavolo, tra Richard e Porta. «Quando lo si assaggia» disse pensoso «è come immaginare di gustare realmente il sole dei tempi che furono.» Alzò il bicchiere. «Un brindisi: alle glorie passate.»
«Alle glorie passate» ripeterono in coro Richard e Porta. Poi, con un po’ di cautela, assaggiarono il vino, sorseggiando, non bevendo.
«È stupefacente» disse Porta.
«Davvero» concordò Richard. «Pensavo che il vino vecchio diventasse aceto se esposto all’aria.»
L’angelo scosse il capo. «Non questo. È per il tipo di vite e per il luogo in cui è cresciuta. Purtroppo tutto il vitigno è stato distrutto quando la vigna è scomparsa tra le onde.»
«È magico» disse Porta, sorseggiando la luce liquida. «Non avevo mai assaggiato niente di simile.»
«E non l’assaggerai mai più» disse Islington. «Non è rimasto altro vino di Atlantide.»
Richard apri la bocca per dire al padrone di casa che Atlantide non è mai esistita, ma si rese conto che neppure gli angeli esistevano, e comunque la maggior parte delle cose che gli erano accadute negli ultimi giorni era impossibile, quindi richiuse la bocca e gustò un altro sorso di vino.
Lo faceva sentire felice. Lo faceva pensare a cieli più vasti e più azzurri di quanto avesse mai visto, con un sole dorato appeso proprio nel mezzo; tutto era più semplice, tutto più giovane rispetto al mondo che conosceva.
Alla loro sinistra c’era una cascata; limpide acque che scendevano veloci dai sassi per raccogliersi nello stagno scavato nella roccia. Sulla destra, tra due piloni di ferro, c’era una porta, costruita con silice liscia posta in una cornice di metallo ormai quasi nera.
«Pretendi davvero di essere un angelo?» chiese Richard. «Voglio dire, hai veramente incontrato Dio e tutto il resto?»
Islington sorrise, tollerante. «Io non pretendo nulla, Richard. Però sono un angelo.»
«E ci fai un grande onore» disse Porta.
«No. Siete stati voi a farmi un onore ben più grande venendo qui. Tuo padre era un brav’uomo, Porta, e per me un vero amico. La sua morte mi ha profondamente rattristato.»
«Ha detto… nel suo diario… ha detto che dovevo venire da te. Ha detto che potevo fidarmi di te.»
«Spero soltanto di essere degno di tale fiducia.» L’angelo sorseggiò il suo vino. «Londra Sotto è la seconda città di cui mi sono preso cura. La prima è affondata tra le onde, e non c’era nulla che potessi fare per evitarlo. So cosa significa il dolore, e la perdita. Ti faccio le mie condoglianze. Cosa vorresti sapere?»
Porta esitò un istante. «La mia famiglia… sono stati uccisi da mister Croup e mister Vandemar. Ma — chi l’ha ordinato? Voglio… voglio sapere perché.»
L’angelo annui. «Molti segreti trovano il modo di arrivare fino a me» disse. Poi si rivolse a Richard. «E tu? Tu cosa vuoi, Richard Mayew?»
Richard si strinse nelle spalle. «Rivoglio la mia vita. E il mio appartamento. E il mio lavoro.»
«Questo può accadere» disse l’angelo.
«Già. Bene» commentò Richard con tono piatto.
«Dubiti di me, Richard Mayhew?» chiese l’Angelo Islington. Richard lo guardò negli occhi. Si trovò a fissare occhi antichi come l’universo: occhi che avevano visto la polvere di stelle condensarsi in galassie.
Scosse il capo.
Islington gli sorrise, con dolcezza. «Non sarà semplice, e tu e i tuoi compagni affronterete alcune difficoltà. Ma c’è una via possibile. La chiave per risolvere entrambi i vostri problemi.» Si alzò, raggiunse un piccolo scaffale di roccia e prese una statuina, una tra le tante sui ripiani. Era una statuetta nera raffigurante un animale, fatta di vetro vulcanico. L’angelo la offri a Porta.
«Questa vi farà superare sani e salvi l’ultima parte del viaggio che vi ricondurrà qui da me» disse. «Il resto spetta a voi.»
«Cosa vuole che facciamo?» domandò Richard.
«I Frati Neri custodiscono una chiave, portatemela.»
«E la puoi usare per scoprire chi ha fatto uccidere la mia famiglia?» chiese Porta.
«Lo spero» rispose l’angelo.
Richard fini il suo bicchiere di vino. Sentiva che lo riscaldava, mentre gli scendeva in tutto il corpo. Aveva la strana sensazione che se avesse abbassato gli occhi a guardarsi le dita avrebbe potuto vedere il vino brillare attraverso di esse, come fossero fatte di luce…
«Buona fortuna» sussurrò l’Angelo Islington.
Si udì un rumore impetuoso, come di vento che geme attraversando una foresta distrutta, o come il battito di ali possenti.
Richard e Porta erano seduti sul pavimento in una sala del British Museum a fissare il dipinto intagliato di un angelo sul portale di una cattedrale.
La stanza era buia e vuota.
La festa era finita da molto tempo. Fuori, il cielo cominciava a rischiarare.
Richard si alzò, poi si chinò per aiutare Porta ad alzarsi. «I Frati Neri, Blackfriars?» chiese.
Porta annui.
«Persone o posto?» chiese ancora.
«Persone.»
Richard si diresse verso l’Angelus e con un dito ne sfiorò l’abito dipinto. «Pensi possa farlo davvero? Ridarmi la mia vita?»
«Non ho mai sentito che sia capitata una cosa del genere, ma non credo che ci avrebbe mentito. È un angelo.»
Porta apri la mano e osservò la statua della Bestia.
«Mio padre ne aveva una uguale» disse.
La ficcò bene in fondo a una delle tasche della giacca di pelle marrone.
«Be’,» fece Richard «di certo non riporteremo indietro la chiave se ce ne stiamo qui a cincischiare, giusto?»
Si avviarono per i lunghi corridoi.
«Allora, cosa sai di questa chiave?» chiese Richard.
«Nulla» rispose Porta. Avevano raggiunto l’ingresso principale del museo. «Ho sentito parlare dei Frati Neri, ma in realtà non ho mai avuto niente a che fare con loro.»
Toccò una porta a vetri, che si apri immediatamente.
«Un gruppo di monaci…» disse Richard, soprappensiero. «Scommetto che basta dire che è per un angelo, per un angelo vero, perché ci diano la sacra chiave, oltre ad aggiungere l’apriscatole magico e lo stupefacente cavatappi che fischia come regalo extra.» Cominciò a ridere.
«Sei di buon umore» commentò Porta.
Richard annui convinto. «Sto per andare a casa. Tutto tornerà di nuovo normale. Di nuovo noioso. Di nuovo meraviglioso.»
Dopo un’occhiata ai gradini di pietra del British Museum, Richard decise che erano stati creati apposta per essere discesi danzando da Fred Astaire e Ginger Rogers. E visto che nessuno dei due si trovava nei paraggi, cominciò a ballare scendendo la scalinata, in quella che ingenuamente immaginava essere una superlativa interpretazione di Fred Astaire, mentre canticchiava qualcosa a metà tra Puttin’ on the Ritz e Wombling White Tie and Tails.
Porta rimase ferma in cima alle scale, fissandolo inorridita. Poi fu preda di un’inarrestabile ridarella.
Lui alzò lo sguardo verso di lei e sollevò un immaginario cilindro di seta bianca nella sua direzione.
«Sciocco» disse Porta sorridendo.
Per tutta risposta, Richard le afferrò la mano e continuò a danzare su e giù per gli scalini. Porta esitò un attimo, quindi anche lei si mise a ballare. E ballava decisamente molto meglio di Richard.
In fondo alla scalinata ruzzolarono, senza fiato, esausti e ridacchianti, uno nelle braccia dell’altra.
Il mondo di Richard girava vorticosamente.
«Andiamo a cercare la nostra guardia del corpo» disse Porta.
E si allontanarono insieme, sul marciapiede, incespicando di quando in quando.
«Cosa vuoi?» domandò mister Croup.
«Cosa vogliamo tutti?» domandò il Marchese de Carabas.
«Cose morte» rispose mister Vandemar. «Altri denti.»
«Pensavo che forse avremmo potuto trovare un accordo» disse il Marchese.
Mister Croup cominciò a ridere. Il suono era quello di una lavagna fatta strisciare contro un muro di unghie spezzate. «Oh, messer Marchese. Penso di poter baldanzosamente affermare, senza tema di smentita da parte di alcuno dei presenti, che hai perso il bene di quell’intelletto che avevi la reputazione di avere. Se mi scusi la volgarità, direi che sei completamente fuori di testa.»
«Una parola,» disse mister Vandemar, che ora stava in piedi accanto alla sedia del Marchese, «e il collo sarà fuori dalla testa prima che possiate dire Jack Ketch.»
Il Marchese si soffiò con forza sulle unghie e se le lucido sul risvolto del trench. «Ho sempre ritenuto» disse in confidenza «che la violenza fosse l’ultimo rifugio degli incompetenti, e le vuote minacce il santuario finale degli inetti senza speranza.»
Mister Croup lo guardava, furioso. «Che ci sei venuto a fare, qui?» sibilò.
Il Marchese de Carabas si allungò come un grosso felino: una lince, forse, o una gigantesca pantera nera. Al termine dell’allungamento era in piedi, le mani affondate nelle tasche.
«Mi è dato di capire» disse con tono colloquiale «che tu, mister Croup, sei un collezionista di statuine della dinastia Tang.»
«Come fai a saperlo?»
«La gente mi racconta delle cose. Sono un tipo affabile.» Il sorriso del Marchese era puro, sereno, schietto: il sorriso di un uomo che ti sta vendendo per nuova un’auto usata.
«Anche se lo fossi…» cominciò mister Croup.
«Se tu lo fossi,» interloquì il Marchese de Carabas «potresti essere interessato a questa.»
Estrasse di tasca una mano e ne mostrò il contenuto a mister Croup.
Fino a poco prima, quella sera, si trovava in un contenitore di vetro nella cassaforte di una delle principali banche d’affari di Londra. Era nota come ’Lo spirito d’autunno (figurina tombale)’. Era alta circa venti centimetri: un pezzo di porcellana vetriata. Era stata modellata, dipinta e cotta mentre l’Europa viveva i secoli bui dell’alto Medioevo.
Mister Croup emise involontariamente un sibilo e allungò la mano verso la statuina. Il Marchese la mise fuori portata, stringendosela al petto.
«Cosa ci impedisce di prenderla? E di spargere pezzetti di te in tutto il Mondo di Sotto?» chiese mister Croup. «Non abbiamo mai avuto occasione di smembrare un marchese.»
«L’abbiamo avuta» intervenne mister Vandemar. «A York. Nel quattordicesimo secolo. Pioveva.»
«Non era un marchese» disse mister Croup. «Era il conte di Exeter.»
«E marchese di Westmorland.» Mister Vandemar pareva alquanto soddisfatto di sé.
Mister Croup tirò su col naso. «Cosa ci impedisce di ridurre anche te in tanti pezzi come il marchese di Westmorland?» chiese.
De Carabas tolse di tasca anche l’altra mano. Teneva stretto un piccolo martello. Lanciò il martello in aria, come un barista in un video sulla preparazione dei cocktail, e lo afferrò per il manico, con la parte in ferro appoggiata sulla figurina di porcellana. «Oh, per favore» disse. «Basta con i trucchetti cretini. Penso che mi sentirei meglio se rimaneste tutti e due laggiù.»
Mister Vandemar lanciò un’occhiata a mister Croup, che fece un cenno di assenso quasi impercettibile. L’aria tremò, e mister Vandemar era accanto a mister Croup.
Mister Croup sorrise come un teschio. «In effetti è vero che sono noto per avere occasionalmente acquistato qualche pezzo Tang. Quello è in vendita?»
«Nel Mondo di Sotto non siamo molto portati per la compravendita, mister Croup. Baratto. Scambio. Ecco quello che cerchiamo. Comunque si, certo, questo desiderabile oggettino è sicuramente qui per essere arraffato.»
«Di’ il tuo prezzo» disse mister Croup.
Il Marchese fece un sospiro di sollievo. «Primo, tre risposte a tre domande» disse.
Croup annui. «Reciproco. Anche noi otteniamo tre risposte.»
«D’accordo» disse il Marchese. «Secondo, un salvacondotto per andarmene da qui. E accettate di darmi almeno un’ora di vantaggio.»
Croup annuì con foga. «Concesso. Fai la tua prima domanda.» Il suo sguardo era fisso sulla statuina.
«Prima domanda: per chi lavorate?»
«Oh, questa è facile» disse mister Croup. «È una risposta semplice. Lavoriamo per il nostro principale, che desidera restare anonimo.»
«Hmm. Perché avete ucciso la famiglia di Porta?»
«Ordini del principale» rispose mister Croup, il cui sorriso diventava più volpino di minuto in minuto.
«Perché non avete ucciso Porta quando ne avete avuto l’occasione?»
Prima che mister Croup potesse rispondere, mister Vandemar disse, «Dobbiamo tenerla in vita. È l’unica che può aprire la porta.»
Mister Croup lanciò un’occhiata furiosa al suo socio. «Bravo!» disse. «Perché non gli racconta tutto?»
«Volevo partecipare anch’io» mormorò mister Vandemar.
«Bene» disse mister Croup. «Hai avuto le tue tre risposte, per quello che ti possono servire. La mia prima domanda è: perché la stai proteggendo?»
«Suo padre mi ha salvato la vita» rispose il Marchese. «Non gli ho mai ripagato il debito. E io preferisco avere crediti, piuttosto.»
«Ho una domanda» intervenne mister Vandemar.
«Anch’io, mister Vandemar. Quello del Mondo di Sopra, Richard Mayhew, perché viaggia con la ragazza? Perché glielo permette?»
«È solo sentimentalismo, da parte sua» spiegò il Marchese de Carabas.
«Adesso io» disse mister Vandemar. «A che numero sto pensando?»
«Come, scusa?»
«A che numero sto pensando?» ripeté mister Vandemar. E, per aiutare ulteriormente, aggiunse, «È tra uno e un sacco.»
«Sette» rispose il Marchese.
Mister Vandemar annui, molto colpito.
Mister Croup cominciò, «Dov’è la…» ma il Marchese scosse il capo. «Ah-ah» disse. «Stiamo diventando ingordi!»
Nello scantinato umido ci fu un momento di assoluto silenzio. Poi l’acqua prese a colare e i vermi a strisciare, e il Marchese disse, «Un’ora di vantaggio, ricordatevelo.»
«Naturalmente» disse mister Croup.
Il Marchese de Carabas lanciò la figurina a mister Croup, che l’afferrò con impazienza, come un tossicodipendente che afferri una bustina di plastica piena di una polverina bianca di dubbia legalità.
Poi, senza voltarsi indietro, il Marchese lasciò il sotterraneo.
Mister Croup esaminò minuziosamente la statuetta, girandola e rigirandola tra le mani, come un prete dickensiano appartenente alla chiesa della Mostra itinerante dell’antiquariato. Di quando in quando la lingua gli sporgeva tra le labbra, simile a quella di un serpente.
«Oh, bella, bella» sussurrava. «È davvero della dinastia Tang. Vecchia di milleduecento anni, le più raffinate figurine di porcellana mai realizzate su questa terra. Questa è stata creata da Kai Lung, il migliore dei ceramisti: non ne esiste un’altra uguale. Esamini il colore della vetrina; il senso delle proporzioni; la vita…» Sorrideva, ora, come un bambino; il sorriso innocente sembrava perso e confuso sull’ambiguo terreno della faccia di mister Croup. «Regala al mondo un tocco in più di meraviglia e di bellezza.»
Quindi la bocca gli si allargò in un ghigno eccessivo, abbassò la faccia verso la figurina e ne frantumò la testa tra i denti, mordendo e masticando selvaggiamente, inghiottendo pezzo dopo pezzo. I denti avevano ridotto la porcellana a una polvere sottile che gli ricopriva la parte inferiore del viso.
Si compiaceva di quella distruzione, e le dedicava la strana follia e l’incontrollabile brama sanguinaria di una volpe in un pollaio.
Poi, quando non rimase altro che polvere, si rivolse a mister Vandemar. Sembrava insolitamente mite, quasi languido. «Quanto tempo abbiamo detto che gli concedevamo?»
«Un’ora.»
«Hmm. E quanto è trascorso?»
«Sei minuti.»
Mister Croup abbassò la testa e si passò un dito sul mento, che leccò per non sprecare neppure una piccola parte della polvere di porcellana.
«Lo segua, mister Vandemar» disse mister Croup. «Io ho bisogno di qualche altro minuto per assaporare il momento.»
Hunter senti il rumore dei loro passi mentre scendevano le scale. Era in piedi nell’ombra, a braccia incrociate, nella stessa posizione in cui si trovava quando l’avevano lasciata.
Richard canterellava a bocca chiusa, in modo enfatico.
Porta non riusciva a smettere di ridacchiare. Si fermava e diceva a Richard di stare zitto. Per ricominciare subito a ridacchiare.
Passarono davanti a Hunter senza accorgersene.
Lei usci dall’ombra e disse, «Siete stati via otto ore.» Era un’affermazione del tutto priva di biasimo o di curiosità.
Porta la guardò di sottecchi. «Non mi è sembrato cosi tanto.»
Hunter non commentò.
Richard le fece un largo sorriso un po’ offuscato. «Non vuoi saper cos’è successo? Be’, mister Croup e mister Vandemar ci hanno teso un’imboscata. Purtroppo non avevamo una guardia del corpo a portata di mano, ma gliel’ho fatta vedere io.»
Hunter inarcò un sopracciglio perfetto. «Mi sento in soggezione davanti al tuo talento pugilistico» disse con freddezza.
Porta sogghignò. «Sta scherzando. In realtà — ci hanno uccisi.»
«In quanto esperta nella terminazione delle funzioni organiche vitali» disse Hunter «mi permetto di non essere d’accordo. Nessuno di voi è morto. A occhio e croce direi che siete entrambi molto ubriachi.»
Porta fece la linguaccia alla sua guardia del corpo. «Stupidaggini. Ne ho toccata appena una goccia. Tanto così.»
Allungò due dita per mostrare che quantità infinitesimale fosse «tanto cosi.»
«Siamo solo andati a una festa» spiegò Richard «e abbiamo visto Jessica e abbiamo visto un vero angelo e ci hanno dato un porcello pazzerello tutto nero e cicciottello e siamo tornati qui.»
«Abbiamo bevuto pochissimo» continuò Porta, tutta seria. «Un vino vecchio vecchio. Pochiiino pochiiino. Proprio poco. Quasi niente.»
Cominciò ad avere il singhiozzo. Poi si mise di nuovo a ridacchiare. Fu interrotta da un singhiozzo e si sedette di colpo sulla banchina.
«Penso che forse siamo un po’ sbronzi» ammise Porta, già più sobria. .
Quindi chiuse gli occhi e iniziò solennemente a russare.
Il Marchese de Carabas correva lungo le strade sotterranee come se avesse alle calcagna tutti i diavoli dell’inferno. Avanzava sguazzando nei quindici grigi centimetri del fiume Tyburn, il fiume dell’impiccato, al sicuro nell’oscurità di una fognatura di mattoni sotto Park Lane, alla volta di Buckingham Palace. Aveva corso per diciassette minuti.
Circa un metro al di sotto di Marble Arch si fermò. La fognatura si divideva in due diramazioni.
Il Marchese de Carabas scelse quella a sinistra.
Parecchi minuti più tardi, mister Vandemar si incamminava nella fognatura. Raggiunto il punto di confluenza, si fermò per qualche istante, annusando l’aria. Poi, anche lui prese la diramazione di sinistra.
Con un grugnito, Hunter lasciò cadere il corpo inanimato di Richard Mayhew su un cumulo di paglia. Lui si rotolò nella paglia, disse qualcosa che suonava come «Forsta griugli brufluf paf» e si rimise a dormire.
Accanto a lui adagiò anche Porta, ma più gentilmente. Poi si accovacciò vicino alla ragazza, nella buia scuderia sotterranea, sempre all’erta.
Il Marchese de Carabas era esausto. Si appoggiò contro il muro del tunnel a fissare i gradini che gli si paravano davanti. Quindi estrasse l’orologio da taschino d’oro e controllò l’ora. Erano passati trentacinque minuti dal momento in cui aveva lasciato lo scantinato dell’ospedale.
«È già un’ora?» chiese mister Vandemar.
Era seduto sui gradini di fronte al Marchese, e si esplorava le narici con un coltello.
«Neanche per sogno» disse il Marchese con il fiato corto.
«Sembrava un’ora» disse mister Vandemar.
Il mondo tremò, ed ecco mister Croup accanto al Marchese de Carabas. Gli era rimasta ancora qualche traccia di polvere sul mento.
De Carabas fissò mister Croup. Si voltò a guardare mister Vandemar. Poi, involontariamente, scoppiò a ridere.
Mister Croup sorrise. «Ci trovi buffi, vero messer Marchese? Una fonte di divertimento. Non è cosi? Con i nostri bei vestiti e le nostre involute circumlocuzioni…»
Mister Vandemar mormorò «Io non ce l’ho una circumlo…»
«… E le nostre sciocchezzuole nelle maniere e nei modi. E forse siamo buffi.» In quel momento mister Croup sollevò un dito e lo agitò verso de Carabas. «Ma, messer Marchese, non devi mai credere che solo perché una cosa è buffa non possa anche essere pericolosa.»
E mister Vandemar lanciò con forza e accuratezza il coltello contro il Marchese, che fu colpito alla tempia con il manico. Gli si rivoltarono gli occhi, e le ginocchia cedettero.
«Circumlocuzione» spiegò mister Croup «è un modo di parlare intorno a qualcosa. Una digressione. Verbosità.»
Mister Vandemar sollevò il Marchese de Carabas afferrandolo per la cintura e lo trascinò su per le scale, la testa che sbatacchiava rumorosamente contro ogni scalino.
Mister Vandemar fece un cenno di assenso. «Ero curioso» disse.
Sapeva che li stava aspettando. Ogni tunnel che percorreva, ogni svolta, ogni diramazione, la percezione cresceva, sempre più pressante e più pesante. La sensazione di catastrofe imminente aumentava a ogni passo.
Avrebbe dovuto sentirsi sollevato quando aveva svoltato l’ultimo angolo e l’aveva vista là, in piedi, incorniciata dal tunnel, ad attenderlo. Invece, provò soltanto paura.
Nel sogno era grande come il mondo. Non c’era altro che la Bestia, dai fianchi fumanti. Dalla sua pelle spuntavano lance spezzate e frammenti di vecchie armi. Sulle corna e sulle zanne c’era del sangue rappreso. Era grassa, enorme e cattiva.
E la Bestia caricò.
Sollevò la mano (ma non era la sua mano) e scagliò la lancia contro la creatura.
Vide i suoi occhi, rossi, maligni e gongolanti, che fluttuavano verso di lui, il tutto in una frazione di secondo che divenne una minuscola eternità. E poi fu su di lui…
L’acqua era fredda, e colpi il viso di Richard come uno schiaffo. Spalancò gli occhi e trattenne il respiro.
Hunter lo guardava dall’alto in basso. Teneva in mano un grosso secchiello di legno. Vuoto.
Allungò una mano e constatò di avere i capelli zuppi. Si tolse l’acqua dagli occhi e rabbrividì.
«Non c’era bisogno che lo facessi» disse Richard. Dal sapore che aveva in bocca pareva che numerosi animaletti l’avessero usata come gabinetto, prima di liquefarsi in qualcosa di vagamente verdognolo. Cercò di mettersi in piedi, ma si risedette di colpo. «Ooh!» spiegò.
«Come va la testa?» chiese Hunter con tono professionale.
«È stata meglio» rispose Richard.
Hunter prese un altro secchiello di legno, questa volta pieno d’acqua, e lo trascinò sul pavimento della scuderia. «Non so cosa avete bevuto,» disse «ma doveva essere molto potente.»
Hunter tuffò la mano nel secchiello e la agitò davanti al viso di Porta, spruzzandolo d’acqua. Gli occhi della ragazza sbatterono leggermente.
«Non c’è da meravigliarsi che Atlantide sia affondata» borbottò Richard. «Se la mattina si sentivano tutti cosi, con ogni probabilità è stato un sollievo. Dove siamo?»
Hunter spruzzò dell’altra acqua sul viso di Porta. «Nelle scuderie di un’amica» rispose.
Richard si guardò attorno. In effetti il luogo poteva avere l’aspetto di una scuderia. Si chiese dove fossero i cavalli — che tipo di cavalli potrebbe vivere sottoterra? Sul muro era dipinto uno stemma: la lettera S (o si trattava forse di un serpente? Richard non era in grado di stabilirlo) circondata da un cerchio formato da sette stelle.
Porta allungò una mano incerta verso la propria testa e la toccò con circospezione, quasi non fosse sicura di cosa avrebbe trovato. «Ooh» disse in un sussurro o poco più. «Per Temple e Arch! Sono morta?»
«No» rispose Hunter.
«Peccato.»
Hunter la aiutò ad assumere una posizione eretta. «Be’,» commentò Porta insonnolita «ci aveva avvertiti che era forte.»
Poi Porta si svegliò completamente, di colpo, in fretta. Afferrò la spalla di Richard e puntò il dito verso lo stemma sul muro, la S sinuosa come un serpente circondata di stelle. Rimase senza fiato, e sembrava in tutto e per tutto un topo che si è appena accorto di essersi svegliato in un allevamento di gatti.
«Serpentine!» disse a Richard, a Hunter. «È il cimiero di Serpentine. Richard, alzati! Dobbiamo scappare — prima che scopra che siamo qui…»
«E tu pensi» disse una voce asciutta dalla soglia «di poter entrare nella casa di Serpentine senza che Serpentine lo sappia, bambina?»
Porta indietreggiò contro il legno che copriva i muri della scuderia. Tremava. Nonostante il martellamento che aveva in testa, Richard si rese conto di non aver mai visto Porta spaventata, finora.
Serpentine era rimasta sulla soglia. Indossava un corsetto di pelle bianca, alti stivali di pelle dello stesso colore e i resti di quello che sembrava essere stato, tanto tempo prima, un vestito da sposa in seta e pizzo decisamente fru fru, e che ora era ridotto a brandelli, strappato e macchiato di fango. Torreggiava su tutti loro: la folta e arruffata massa di capelli che cominciavano a ingrigire sfiorava l’architrave della porta. Aveva occhi penetranti, e la bocca era uno squarcio crudele su un volto autoritario.
Guardò Porta come se pensasse che il terrore le fosse dovuto, come se non fosse solo avvezza alla paura, ma se l’aspettasse, addirittura la desiderasse.
«Calmati» disse Hunter.
«Ma è Serpentine» piagnucolò Porta. «Delle Sette Sorelle.»
Serpentine inclinò cortesemente il capo. Poi si allontanò dalla soglia. Dietro di lei c’era una donna magra dal viso severo e dai lunghi capelli scuri, che indossava un vestito nero stretto alla vita sottile. La donna non disse nulla.
Serpentine raggiunse Hunter.
«Hunter ha lavorato per me, tanto tempo fa» disse Serpentine. Allungò un dito bianco e accarezzò dolcemente la guancia bruna di Hunter, un gesto di possesso e di affetto. Poi, «Hai badato al tuo aspetto meglio di me, Hunter.»
Hunter abbassò lo sguardo.
«I suoi amici sono miei amici, bambina» disse Serpentine. «Sei Porta?»
«Si» rispose Porta, la bocca arida.
Serpentine si rivolse a Richard. «E tu cosa sei?» chiese, per niente impressionata.
«Richard» rispose lui.
«Io sono Serpentine» gli disse con cortesia.
«Cosi ho arguito» commentò Richard.
«C’è del cibo che vi aspetta» disse Serpentine «se desiderate interrompere il vostro digiuno.»
«Oddio, no» gemette educatamente Richard.
Porta non apri bocca. Era ancora con le spalle contro il muro, e ancora tremava dolcemente, come una foglia nella brezza estiva.
«Che c’è da mangiare?» chiese Hunter.
Serpentine guardò la donna dal vitino di vespa rimasta sulla soglia. «Be’?» fece.
La donna ammiccò con il sorriso più freddo che Richard avesse mai visto solcare un volto umano. Quindi disse «Uova fritte uova in camicia uova in salamoia cervo al curry cipolle in salamoia aringhe in salamoia aringhe affumicate aringhe sotto sale funghi in umido bacon salato cavolo ripieno stufato di montone gelatina di stinco di vitello…»
Richard apri la bocca per implorarla di smettere, ma era troppo tardi. Improvvisamente, violentemente, disperatamente, diede di stomaco.
Voleva qualcuno che lo sostenesse e gli dicesse che sarebbe andato tutto bene, che presto si sarebbe sentito meglio; qualcuno che gli desse un’aspirina e un bicchiere d’acqua, e lo riportasse nel suo letto. Ma nessuno lo fece; e il suo letto distava un’altra vita da li. Si lavò il vomito dal viso e dalle mani con l’acqua del secchiello. Poi si sciacquò la bocca con cura. Quindi, oscillando lievemente, segui le quattro donne per la prima colazione.
«Passami la gelatina di stinco di vitello» disse Hunter con la bocca piena.
La sala da pranzo di Serpentine era posta su quella che a Richard parve la più piccola banchina di metropolitana mai vista. Era lunga circa quattro metri, la maggior parte dei quali era occupata da un tavolo da pranzo su cui era stata stesa una tovaglia di damasco bianco, apparecchiato in modo molto formale e ricco di argenti. Il tavolo era sommerso di cibarie maleodoranti. Secondo Richard, la puzza peggiore proveniva dalle uova di quaglia in salamoia.
La pelle di Richard sembrava appiccicaticcia, gli occhi parevano essere stati inseriti male, mentre il cranio dava la vaga impressione di essere stato scambiato con uno di due o tre misure più piccolo.
Un treno della metropolitana passò a qualche centimetro da loro, e il vento causato dal suo passaggio sferzò la tavola imbandita. Il rumore del treno attraversò la testa di Richard come un coltello rovente che sezioni un cervello. Emise un lamento.
«Il tuo eroe non regge il vino, a quanto pare» osservò imperturbabile Serpentine.
«Non è il mio eroe» disse Porta.
«Invece ho paura che lo sia. Si impara a riconoscere il genere. Qualcosa negli occhi, forse.» Si rivolse alla donna in nero, che a quanto pareva fungeva da una sorta di maggiordomo. «Un tonico per il signore.»
La donna fece un sorriso secco e scivolò via.
Porta si servi dal piatto di funghi. «Ti siamo molto grati per tutto questo, Lady Serpentine» disse.
Serpentine arricciò il naso con disprezzo. «Solo Serpentine, bambina. Non ho tempo per stupidi titoli onorifici. Dunque, tu sei la figlia maggiore di Portico.»
«Si.»
Serpentine tuffò un dito nella salsa salmastra che conteneva quelle che sembravano numerose piccole anguille. Si leccò il dito e fece un cenno di approvazione. «Non ho mai avuto molto in comune con tuo padre. Tutte quelle ridicolaggini sul fatto di riunire il Mondo di Sotto. Stupidaggini, balle! Che uomo sciocco. Andava solo in cerca di guai. L’ultima volta che l’ho visto gli ho detto che se avesse rimesso piede qui l’avrei trasformato in un orbettino.» Si rivolse a Porta. «A proposito, come sta tuo padre?»
«È morto» rispose Porta.
Serpentine sembrava molto soddisfatta. «Visto?» commentò. «Proprio come dicevo io.»
Porta, invece, non disse nulla.
Serpentine afferrò qualcosa che aveva tra i capelli e lo esaminò con attenzione, per poi schiacciarlo tra pollice e indice e lasciarlo cadere sulla banchina. Quindi si rivolse a Hunter, che stava divorando una montagnola di aringhe in salamoia. «Sei a caccia della Bestia, allora?» disse.
Hunter fece cenno di si, con la bocca piena.
«Di sicuro ti servirà una lancia» continuò Serpentine.
La donna dal vitino di vespa si trovava ora accanto a Richard, con in mano un piccolo vassoio. Sul vassoio c’era un bicchierino contenente un liquido dall’aggressivo color smeraldo. Richard lo fissò, poi guardò Porta.
«Cosa gli dai?» chiese Porta.
«Niente che possa fargli male» disse Serpentine con un sorriso glaciale. «Siete ospiti.»
Richard tracannò il liquido verde, che sapeva di timo, menta piperita e mattine d’inverno.
Lo senti scendere, e si preparò a cercare di evitare che risalisse. Fece un respiro profondo e si accorse con un po’ di stupore che invece la testa non gli doleva più.
E che aveva una gran fame.
Old Bailey non era, intrinsecamente, una di quelle persone messe al mondo per raccontare barzellette. Nonostante questo handicap, continuava imperterrito a raccontarle. Le barzellette che si ostinava a riferire tendevano a essere storielle eccessivamente lunghe dal finale paradossale, di norma un infelice gioco di parole che, peraltro, spesso e volentieri Old Bailey non riusciva a ricordare al momento giusto.
Gli unici ascoltatori delle barzellette di Old Bailey erano i suoi uccelli in gabbia e, in particolare i corvi comuni, vedevano le storielle come parabole profonde e filosofiche recanti profondi e penetranti indicazioni di ciò che significa essere umani, e in realtà ogni tanto gli chiedevano di raccontarne qualcuna.
«Va bene, va bene, va bene» stava dicendo Old Bailey. «Se l’avete già sentita, fermatemi. C’è un uomo che entra in un bar. No, non era un uomo. È per questo che fa ridere. Scusate. Era un cavallo. Un cavallo… no… un filo. Tre fili. D’accordo. Tre fili entrano in un bar.»
Un gigantesco vecchio corvo gracchiò una domanda.
Old Bailey si sfregò il mento, poi si strinse nelle spalle. «Lo fanno e basta. È una barzelletta. Nelle barzellette possono camminare. Chiede un drink per sé e per i suoi amici. E il barista dice, qui non serviamo i fili. A un filo. Questo torna dagli amici e riferisce che in quel bar non servono i fili. Vedete, è una storiella, perciò anche il secondo filo va dal barista, e gli altri restano al tavolo, perché sono in tre, giusto? Finché l’ultimo, invece di andare al bancone, ordina il drink ad alta voce da lontano…»
Il corvo gracchiò di nuovo, con espressione saggia.
«I drink. Va bene, sono tre. E il barista, arrivato al tavolo con i bicchieri, gli fa, ehi, ma non sei un pezzo di filo anche tu? E il filo gli risponde, no di certo, non ti sei accorto che sono solo un gran filone? Capito? Filo, filone. È una battuta. Molto, molto divertente.»
Gli storni rumoreggiarono educatamente. I corvi annuirono e chinarono la testa da un lato. Poi il corvo più anziano gracchiò di nuovo qualcosa a Old Bailey.
«Un’altra? Non sono mica fatto di ilarità, io. Lasciatemi pensare…»
Dalla tenda si udì un rumore. Un suono profondo e pulsante, come il battito di un cuore lontano. Old Bailey si precipitò dentro. Il rumore proveniva da una cassapanca di legno in cui teneva le cose di maggior valore. Apri la cassapanca.
Il battito divenne molto, molto più forte.
La scatolina d’argento era posta in cima ai tesori di Old Bailey. Allungò una mano nodosa e la prese. Dentro, una luce rossa pulsava e brillava ritmicamente, come un cuore che batte, e risplendeva all’esterno attraverso la filigrana, le incrinature e le cerniere.
«È nei guai» disse Old Bailey.
Il corvo più vecchio gracchiò una domanda.
«Il Marchese» rispose Old Bailey. «È in grossi guai.»
Quando Serpentine allontanò la sedia dal tavolo, Richard era a metà del secondo piatto di cibo.
«Penso di avere adempiuto ai miei doveri di ospite» disse. «Bambina, giovanotto, buon giorno. Hunter…» fece una pausa. Quindi passò un dito simile a un artiglio lungo la linea della mascella di Hunter. «Hunter, sei sempre la benvenuta.»
Rivolse loro un imperioso cenno del capo e si alzò, per andarsene seguita dal suo maggiordomo dal vitino di vespa.
«E meglio incamminarci, adesso» disse Hunter. Si alzò da tavola, quindi Porta e, con maggiore riluttanza, Richard, la seguirono.
Percorsero un lungo corridoio, cosi stretto che potevano passare soltanto uno alla volta. Salirono dei gradini di pietra. Nel buio, attraversarono un ponte di ferro, mentre i treni del metrò echeggiavano sotto di loro. Poi entrarono in quella che pareva una rete infinita di volte sotterranee, che avevano l’odore dell’umido e del marcio, dei mattoni, della pietra e del tempo.
«Allora quella era il tuo vecchio capo, eh? Sembrava abbastanza simpatica» disse Richard a Hunter.
Hunter non commentò.
Porta, che si era sentita come soggiogata, disse: «Nel Mondo di Sotto, quando si vuole che un bambino si comporti come si deve gli si dice: ’Fai il bravo, altrimenti Serpentine ti porta via’.»
«Oh» fece Richard. «E tu hai lavorato per lei, Hunter?»
«Ho lavorato per tutte le Sette Sorelle.»
«Pensavo che non si parlassero da, be’, da almeno trent’anni» disse Porta.
«Più che possibile. Ma allora si parlavano ancora.»
«Ma quanti anni hai?» domandò Porta. Richard era contento che l’avesse chiesto, perché lui non avrebbe mai osato.
«Sono vecchia quanto la mia lingua,» rispose Hunter «ma un pochino più vecchia dei miei denti.»
«Comunque,» disse Richard, con il tono di voce di uno che si è ripreso dai postumi di una sbronza e sa che, da qualche parte sopra di lui, qualcun altro sta passando una splendida giornata, «è andato tutto bene. Ottimo cibo. E nessuno ha cercato di ucciderci.»
«Sono certa che a questo rimedieremo presto» ribatté Hunter, sempre precisa. «Da quale parte per i Black Friars, mia signora?»
Porta si fermò per concentrarsi.
«Seguiremo la via del fiume» disse. «Per di qua.»
«Non è ancora rinvenuto?» chiese mister Croup.
Mister Vandemar pungolò il corpo prostrato del Marchese con un dito lunghissimo. Il respiro era debole. «Non ancora, mister Croup. Credo di averlo rotto.»
«Dovrebbe stare più attento con i suoi giocattoli, mister Vandemar» disse mister Croup.
UNDICI
«Allora, a cosa stai dietro?» Richard chiese a Hunter.
I tre stavano camminando lungo l’argine di un fiume sotterraneo. Richard fissava con rispetto l’acqua grigia che scorreva e precipitava poco distante. Non era il tipo di fiume da cui, se cadi, puoi risalire. Era dell’altro genere.
«Dietro?»
«Be’,» continuò «io sto cercando di ritornare nella Londra vera e alla mia vecchia vita. Porta vuole scoprire chi ha ucciso la sua famiglia. Tu, cosa vuoi ottenere?»
Si arrampicarono a fatica lungo l’argine, un passo per volta, Hunter in testa.
Non diceva nulla.
Il fiume rallentava per alimentare un laghetto sotterraneo. Camminavano a lato dello stagno, con le lampade che si riflettevano sull’acqua nera, l’effetto smorzato dalla nebbiolina sul fiume.
«Allora, di che si tratta?» domandò Richard, che in realtà non si aspettava di ricevere risposta.
La voce di Hunter era pacata e intensa. Non cambiò passo. «Nelle fogne sotto New York ho lottato con il grande re alligatore bianco e cieco. Era lungo dieci metri, grasso per i residui di fogna e feroce in battaglia. Ho avuto la meglio su di lui e l’ho ucciso. Nel buio, i suoi occhi parevano enormi perle.»
La voce dallo strano accento echeggiava nel sottosuolo, avvolta nella bruma.
«Ho combattuto l’orso che stava appostato nella città sotto Berlino. Aveva ucciso migliaia di uomini e i suoi artigli erano macchiati di nero e marrone per il sangue secco di centinaia di anni, ma io l’ho abbattuto. Mentre moriva ha bisbigliato delle parole in una lingua umana.»
La nebbiolina continuava a fluttuare bassa sul fiume. Richard immaginò di poter vedere le creature di cui Hunter parlava, bianche figure che si contorcevano nel vapore.
«C’era una tigre nera, nella sottocittà di Calcutta. Una mangiatrice di uomini, intelligente e implacabile, grande quanto un piccolo elefante. Una tigre è un degno avversario. L’ho catturata a mani nude.»
Richard diede un’occhiata a Porta. Stava ascoltando Hunter con grande attenzione: allora erano informazioni nuove anche per lei.
«E annienterò la Bestia di Londra. Dicono che la sua pelle sia irta di spade, lance e pugnali conficcati da quanti hanno tentato e fallito. Le sue zanne sono rasoi, i suoi zoccoli sono fulmini.
«L’ucciderò, o morirò nel tentativo.»
Le brillavano gli occhi, come stesse contemplando la preda. La bruma sul fiume cominciava a trasformarsi in densa nebbia gialla.
Una campana, poco distante, batté tre rintocchi e il suono si propagò sull’acqua.
Cominciava a rischiarare. Richard credette di poter vedere intorno a loro la sagoma di alcuni edifici. La nebbia giallo-verde diventò più fitta: sapeva di cenere e del sudiciume di un migliaio di anni urbani. Aderiva alle lampade, smorzando la luce.
«Che cos’è?» chiese Richard.
«Nebbia di Londra» rispose Hunter.
«Ma non doveva essere scomparsa anni fa? La legge per l’aria pulita e roba simile?» Richard provò a ricordare i libri di Sherlock Holmes della sua infanzia. «Com’è che la chiamavano anche?»
«Zuppa di piselli» disse Porta. «Caratteristica distintiva di Londra. Nel Mondo di Sopra non ce n’è più una cosi da, oh, quarant’anni. Quaggiù ce ne arrivano i fantasmi. Hmm. No, non sono fantasmi. Echi, piuttosto.»
Richard respirò in un filamento di nebbia giallo-verde e cominciò a tossire.
«Questo non è un buon segno» disse Porta.
«Ho solo della nebbia in gola» spiegò Richard.
Il terreno diventava più appiccicoso, più fangoso: mentre Richard camminava, gli si era avvinghiato ai piedi.
«Comunque,» disse per farsi coraggio «un po’ di nebbia non ha mai fatto male a nessuno.»
Porta lo guardò con i grandi occhi da folletto. «Ce n’è stata una nel 1952 che si calcola abbia ucciso quattromila persone.»
«Gente di qui?» chiese. «Di Londra Sotto?»
«La tua gente» disse Hunter.
Richard era propenso a crederci. Pensò di trattenere il respiro, ma la nebbia diventava sempre più fitta. Il terreno sempre più molle. «Non capisco. Perché qui avete le nebbie se da noi non ci sono più?»
Porta si grattò il naso. «A Londra esistono delle piccole bolle dei tempi passati, dove i luoghi e le cose rimangono come una volta, simili alle bolle nell’ambra» spiegò. «A Londra c’è molto tempo, e deve andare da qualche parte — non viene usato tutto in una volta.»
«Sarebbe più semplice se soffrissi ancora dei postumi del vino» sospirò Richard. «Almeno quello aveva senso.»
L’Abate sapeva che quel giorno avrebbe portato dei pellegrini. La conoscenza era parte dei suoi sogni; lo circondava, come l’oscurità. Quindi il giorno divenne giorno d’attesa, cosa che era, lo sapeva bene, un peccato: i momenti devono essere sperimentati; aspettare è un peccato contro il tempo che deve ancora venire e contro gli istanti presenti che vengono trascurati.
Tuttavia, aspettava.
Durante ognuno dei servizi quotidiani, durante i magri pasti, l’Abate era in vigile ascolto, in attesa che la campana suonasse, in attesa di sapere chi e quanti.
Si trovò a sperare in una morte rapida e pulita. L’ultimo pellegrino aveva resistito per quasi un anno, un essere urlante e farfugliante. L’Abate non considerava la propria cecità come una benedizione né come una maledizione: semplicemente esisteva; ma anche stando cosi le cose, era grato di non aver potuto vedere il volto di quella povera creatura. Fratello Ebano, che se ne era occupato, si svegliava ancora la notte, urlando, con quel viso contorto davanti agli occhi.
La campana suonò nel tardo pomeriggio, tre volte. L’Abate era nel santuario, in ginocchio, a contemplare quanto loro affidato. Si alzò in piedi e si diresse verso il corridoio, dove rimase ad aspettare.
«Padre?» La voce era quella di fratello Caliginoso.
«Chi è a guardia del ponte?» gli domandò l’Abate. Aveva un timbro sorprendentemente profondo e melodioso per un uomo di quell’età.
«Fratello Fosco» fu la risposta che gli arrivò dal buio.
L’Abate allungò una mano, afferrò il gomito del giovane e gli camminò accanto, lentamente, lungo i corridoi dell’abbazia.
Non c’era un terreno solido; non c’era un lago. Stavano sguazzando in una sorta di palude, immersi nella nebbia gialla.
«Questo» disse Richard «è disgustoso.» Gli filtrava attraverso le scarpe, invadendo le calze e facendo una conoscenza delle dita dei piedi più ravvicinata di quanto Richard avrebbe desiderato.
Di fronte a loro c’era un ponte che si elevava sulla palude, e una figura, vestita di nero, che aspettava all’inizio del ponte. Indossava l’abito nero dei frati Domenicani. La sua pelle aveva il colore del mogano antico. Era un uomo alto, che reggeva un bastone altrettanto alto.
«Restate dove siete!» gridò. «Ditemi il vostro nome e la vostra qualifica.»
«Sono Lady Porta» disse Porta. «Sono la figlia di Portico, della casata degli Arch.»
«Sono Hunter, la sua guardia del corpo.»
«Richard Mayhew» disse Richard. «Bagnato.»
«E vorreste passare?»
Richard fece un passo avanti. «Si, è proprio quello che vogliamo. Siamo qui per una chiave.»
Il monaco non disse nulla. Sollevò il bastone e con esso diede una spintarella al petto di Richard. I suoi piedi scivolarono incontrollabili, e atterrò nell’acqua fangosa (o, per essere un tantino più accurati, nel fango acquoso).
Il monaco attese qualche istante per vedere se Richard si sarebbe alzato pronto a combattere. Non lo fece.
Hunter invece si.
Richard si sollevò a fatica dal fango e rimase a osservare a bocca aperta il suo primo combattimento con aste di legno dalla punta ferrata.
Il monaco era bravo. Era più grosso di Hunter e, Richard sospettava, più forte. D’altra parte, Hunter era più veloce.
I randelli schioccavano e battevano nella bruma.
Il bastone del monaco entrò subito in contatto con il diaframma di Hunter, che barcollò nel fango. Lui le andò vicino — troppo vicino, tanto da accorgersi che era stata una finta quando il bastone di lei si abbatté, forte e preciso, dietro le sue ginocchia, e le gambe non lo ressero più.
«Basta!» gridò una voce dal ponte.
Hunter fece un passo indietro. Si mise accanto a Richard e Porta.
Il grosso monaco si alzò dal fango. Gli sanguinava il labbro. Fece un inchino profondo a Hunter, poi tornò a guardia del ponte.
«Chi sono, fratello Fosco?» gridò la voce.
«Lady Porta, figlia di Lord Portico, della casata degli Arch; Hunter, sua guardia del corpo, e Richard Mayhew Bagnato, loro compagno» rispose fratello Fosco nonostante le labbra ammaccate. «Mi ha battuto in un combattimento leale, fratello Caliginoso.»
«Lascia che vengano» disse la voce.
Hunter guidava il gruppetto sul ponte. Alla sommità li aspettava un altro monaco: fratello Caliginoso. Era più giovane e più minuto del primo monaco che avevano incontrato, ma vestiva nello stesso modo. La sua pelle era di un bruno ricco e intenso.
C’erano altre figure vestite di nero, al limite dell’invisibile, maggiormente immerse nella nebbia gialla. Altri Frati Neri, suppose Richard.
Il secondo monaco fissò i tre per un attimo, quindi disse:
«Giro la testa e potete andare dove volete.
La giro di nuovo e fino a marcire qui resterete.
Non ho faccia, ma se il mio comportamento è cattivo o buono
dipende dai miei denti irregolari — chi sono?»
Porta fece un passo avanti. Si inumidì le labbra e socchiuse gli occhi. «Giro la testa…» disse, dubbiosa, tra sé. «Denti irregolari… andare dove…» Poi sul suo volto si stampò un sorriso. Alzò gli occhi verso fratello Caliginoso e disse, «Una chiave. La risposta è, una chiave.»
«Risposta saggia» commentò fratello Caliginoso. «Il secondo passo è fatto. Ne resta ancora uno.»
Un uomo molto vecchio usci dalla nebbia gialla e si diresse verso di loro con circospezione, tenendosi stretto al parapetto di pietra del ponte con la mano nodosa. Giunto accanto a fratello Caliginoso, si fermò. Aveva gli occhi color bianco latte, spessi di cataratta. A Richard piacque a prima vista.
«Quanti sono?» chiese all’uomo più giovane con voce profonda e rassicurante.
«Tre, padre Abate.»
«E uno di loro ha sconfitto il primo custode?»
«Si, padre Abate.»
«E un altro ha risposto correttamente al secondo custode?»
«Si, padre Abate.»
«Allora ne resta uno per affrontare la Prova della Chiave. Fa’ che lui o lei avanzi.»
«Oh, no!» disse Porta.
«Lasciate che io prenda il suo posto. L’affronterò io la prova» intervenne Hunter.
Fratello Caliginoso scosse il capo. «Non possiamo permetterlo.»
Da bambino Richard era stato portato in gita scolastica a visitare un castello vicino a casa. Con tutta la classe aveva salito i numerosi scalini che portavano al punto più alto, una torre parzialmente in rovina. Si erano ammassati tutti insieme sulla cima, mentre l’insegnante mostrava loro la bellezza del paesaggio che si estendeva all’intorno.
Anche a quell’età Richard non era molto portato per l’altezza. Aveva afferrato il corrimano di sicurezza e strizzato gli occhi, cercando di non guardare.
L’insegnante aveva detto che il salto dalla cima della torre ai piedi della collina che dominava era di oltre novanta metri. E aveva aggiunto che una monetina lasciata cadere dalla cima della torre avrebbe avuto la forza di penetrare il cranio di una persona ai piedi della collina.
Quella notte Richard, sdraiato nel suo letto, aveva immaginato la monetina che cadeva con la potenza di una pallottola o di un fulmine. Sempre con l’aspetto di monetina, ma di una monetina cosi pericolosamente omicida, quando veniva lasciata cadere…
Una prova.
La monetina cadde per Richard. Era proprio una monetina di quel genere.
«Aspettate un secondo» disse. «Ricapitoliamo. Hmmm: prova. Qualcuno ha una prova che l’aspetta. Qualcuno che non ha avuto un piccolo scontro nel fango e non si è messo a giocare a ’Indovinala grillo!’…»
Stava farfugliando. Poteva sentire la sua voce farfugliare, ma proprio non gli importava.
«Questa vostra prova,» domandò all’Abate «quanto è provante? Cioè, si tratta di un tipo di prova come la prova di andare a trovare una vecchia parente con un gran brutto carattere o di una prova più simile alla prova di infilare la mano nell’acqua bollente per vedere in quanto tempo si stacca la pelle?»
«Da questa parte, adesso» disse l’Abate.
«Lui non vi serve» disse Porta. «Prendete una di noi.»
«In tre siete venuti e tre sono gli esami da superare. Ognuno di voi affronta un esame: è giusto cosi» rispose l’Abate. «Se passerà la prova, tornerà da voi.»
Una brezza leggera attenuò la nebbia. Come Richard aveva intuito, le figure scure erano altri Frati Neri. Ogni frate reggeva una balestra. E ogni balestra era puntata contro Richard, Hunter o Porta. Serrarono i ranghi e Richard si ritrovò separato da Hunter e da Porta.
«Cerchiamo una chiave…» cominciò Richard.
«Si» disse l’Abate.
«È per un angelo» spiegò Richard.
«Si» disse l’Abate. Tese una mano e trovò fratello Caliginoso pronto a dargli il braccio.
Richard abbassò la voce. «Vede, non si può dire di no a un angelo, soprattutto un religioso come lei… Perché non saltiamo la parte della prova? Se lei potesse consegnarmela, io poi agli altri direi che la prova l’abbiamo fatta.»
L’Abate si incamminò lungo la parte in discesa del ponte. C’era una porta, aperta in fondo. Richard lo segui. A volte non hai alternative.
«Quando fu fondato il nostro ordine ci venne affidata la chiave. Si tratta di una delle più sante e più potenti sacre reliquie. Il nostro compito è di tramandarla, ma solo a chi supera la prova e si dimostra degno.»
Percorsero lunghi corridoi stretti e tortuosi, con Richard che lasciava dietro di sé tracce di fanghiglia.
«Se fallisco la prova, non possiamo avere la chiave, vero?»
«Vero, figliolo.»
Richard ci pensò un momento. «E potrei tornare un’altra volta per fare un secondo tentativo?»
Fratello Caliginoso tossi.
«No davvero, figliolo» rispose l’Abate. «Se ciò dovesse accadere, con ogni probabilità non saresti più molto…» esitò, poi disse «… interessato. Ma non ti crucciare, magari sei tu quello che conquista la chiave, eh?»
Il tono rassicurante nella sua voce aveva un che di agghiacciante, e riusciva a spaventarlo molto più di qualunque tentativo diretto.
«Mi ucciderete?»
L’Abate guardava avanti, con occhi di un azzurro lattiginoso, e rispose con un lieve accenno di biasimo. «Siamo uomini santi» disse. «No, è la prova a ucciderti.»
Scesero una rampa di scale e entrarono in una stanza dal soffitto basso, simile a una cripta, con le pareti decorate in maniera bizzarra.
«Adesso» disse l’Abate «sorridi!»
Si udì il sibilo elettronico del flash di una macchina fotografica che per un attimo accecò Richard. Quando riacquistò l’uso della vista, fratello Caliginoso aveva già abbassato una Polaroid vecchia e malconcia e stava estraendo la fotografia.
Il frate attese che fosse sviluppata, poi la fissò al muro con una puntina.
«Questo è il muro di coloro che hanno fallito» sospirò l’Abate. «Vogliamo essere certi che nessuno venga dimenticato. Portiamo anche questo peso: la memoria.»
Richard fissò i volti. Alcune Polaroid; venti o trenta altre fotografie, alcune stampe seppiate e dagherrotipi; quindi seguivano disegni a matita, acquarelli e miniature. Correvano lungo tutto un muro. I frati ci si dedicavano da molto, molto tempo.
Porta rabbrividì. «Sono cosi stupida» borbottò. «Avrei dovuto pensarci. Siamo in tre. Non sarei mai dovuta venire subito qui.» La testa di Hunter si muoveva da una parte all’altra. Aveva preso nota della posizione di ogni frate, di ogni balestra; aveva calcolato le probabilità di far arrivare Porta dall’altra parte del ponte, prima incolume, poi con qualche lesione di poco conto, e infine con una ferita grave a lei stessa ma solo una piccola a Porta. Ora stava ricalcolando. «E cosa avresti fatto di diverso se avessi saputo?» chiese.
«Tanto per cominciare, non l’avrei portato qui» rispose Porta. «Avrei cercato il Marchese.»
Hunter piegò la testa da un lato. «Ti fidi di lui?» domandò, diretta, e Porta sapeva che si riferiva a de Carabas, non a Richard.
«Si» disse Porta. «Più o meno mi fido.»
Porta aveva compiuto cinque anni solo due giorni prima. Quella volta il mercato si teneva nei giardini di Kew, e suo padre l’aveva portata con sé come regalo di compleanno. Era il suo primo mercato.
Erano nella casa delle farfalle, circondati da ali dai colori sgargianti, cose iridescenti e impalpabili che l’avevano incantata e affascinata, quando suo padre si era accovacciato accanto a lei.
«Porta?» disse. «Voltati piano e guarda laggiù, vicino alla porta.
Si era voltata e aveva guardato. Un uomo di pelle scura che indossava un ampio soprabito, i lunghi capelli neri legati a coda di cavallo, era in piedi nei pressi della porta e parlava con due gemelli dalla pelle dorata, un ragazzo e una ragazza. La giovane donna stava piangendo, nella maniera in cui piangono i grandi, trattenendo le lacrime il più possibile e odiando il momento in cui, non riuscendo a frenarsi, diventano allo stesso tempo brutti e buffi a vedere.
Porta tornò a occuparsi delle farfalle.
«L’hai visto?» le chiese il padre.
Annui.
«Quello è il Marchese de Carabas» disse. «È un impostore e un imbroglione e probabilmente in parte anche un mostro. Se mai dovessi trovarti nei guai, va’ da lui. Ti proteggerà, ragazza mia. Deve farlo.»
E Porta lo guardò di nuovo. Teneva una mano sulla spalla di ognuno dei gemelli e li conduceva fuori dalla stanza; tuttavia, mentre se ne stava andando lanciò un ’occhiata al di sopra della propria spalla e le fece l’occhiolino.
I frati che le circondavano erano fantasmi scuri nella nebbia. Porta alzò la voce. «Scusa, fratello» gridò a fratello Fosco. «Il nostro amico, quello che è andato a prendere la chiave… se fallisce, a noi cosa succede?»
Il frate avanzò verso di loro.
«Vi scortiamo lontano da qui e vi lasciamo andare.»
«E Richard?» domandò.
Sotto il cappuccio poteva scorgerlo scuotere il capo con aria triste e definitiva.
«Avrei dovuto portare il Marchese» disse Porta, domandandosi dove fosse e cosa stesse facendo.
Il Marchese de Carabas stava per essere crocifisso su un’imponente struttura in legno a forma di X che mister Vandemar aveva messo insieme alla svelta utilizzando numerosi vecchi pallet, pezzi di sedia, un cancello di legno e quella che sembrava una ruota di carro. Aveva usato anche una grossa scatola di chiodi arrugginiti. Mister Vandemar, da una scala a pioli, si trascinava in giro l’intera costruzione.
«Un po’ più su» strillò mister Croup, che era rimasto a terra. «Più a sinistra. Si. Cosi. Incantevole.»
Era da molto tempo che non crocifiggevano qualcuno.
Braccia e gambe del Marchese de Carabas erano aperte a formare una grande X. Dei chiodi gli attraversavano le mani e i piedi, ed era anche legato con una fune intorno alla vita. Era, a tutti gli effetti, privo di conoscenza.
L’intera struttura ondeggiava nell’aria, appesa a grosse funi, in quella che un tempo era stata la caffetteria del personale ospedaliere.
Sul pavimento, mister Croup aveva raccolto una gran quantità di oggetti taglienti, che spaziavano da rasoi e coltelli da cucina a lancette e bisturi abbandonati, oltre a numerosissime cosette interessanti che mister Vandemar aveva trovato nell’ex reparto odontoiatrico. C’era persino un attizzatoio, proveniente dalla stanza della caldaia.
«Perché non vede come sta, mister Vandemar?» chiese.
Mister Vandemar allungò il martello che teneva in mano e ne piazzò la testa sotto al mento del Marchese, quindi glielo sollevò.
Gli occhi del Marchese tremolarono e si aprirono. Fece un bel respiro profondo e sputò un purpureo grumo di sangue in faccia a mister Vandemar.
«Cattivaccio» disse severamente mister Croup. In realtà, era piuttosto compiaciuto.
Il tiro a segno è molto più divertente quando il bersaglio è sveglio.
Il bollitore fumava con grande ardimento. Richard guardava l’acqua bollente e si domandava cosa avessero intenzione di farne. La sua immaginazione era in grado di fornire un numero infinito di risposte.
Nessuna delle quali risultò esatta.
L’acqua bollente venne riversata in una teiera, in cui fratello Caliginoso aggiunse tre cucchiai di foglie di tè. Attraverso un colino, il liquido che ne risultò fu versato dalla teiera in tre tazze di porcellana.
L’Abate sollevò la testa cieca, annusò l’aria, sorrise. «La prima parte della Prova della Chiave» disse «è una buona tazza di tè. Metti lo zucchero?»
«No, grazie» rispose Richard, circospetto.
Fratello Caliginoso aggiunse al té un po’ di latte e passò a Richard tazza e piattino.
«È avvelenato?» chiese.
L’Abate pareva quasi offeso. «Buon Dio, no.»
Richard sorseggiò il té, che sapeva più o meno esattamente di té. «Ma questo fa davvero parte della prova?»
Fratello Caliginoso prese le mani dell’Abate e vi depose una tazza colma.
«Per modo di dire. Ci piace offrire ai cercatori una tazza di té, prima che comincino. Per noi, fa parte della prova. Non per te.» L’Abate sorseggiò il liquido caldo e sul suo viso antico si allargò un sorriso beato. «Proprio un buon té, tutto considerato.»
Richard appoggiò la sua tazza. «Allora,» chiese «vi dispiacerebbe se procedessimo con la prova?»
«No di certo» disse l’Abate. «No di certo.»
Si alzò. Si diressero tutti e tre verso una porta, all’estremità opposta della stanza.
«C’è…» Richard indugiava, cercando di decidere cosa stava cercando di chiedere. Poi disse, «C’è qualcosa che potete dirmi riguardo alla prova?»
L’Abate scosse il capo.
Non c’era proprio niente da dire: accompagnava i cercatori alla porta, quindi aspettava, per un’ora o due. Poi rientrava e rimuoveva i resti del cercatore dal santuario e li interrava nelle cripte. A volte non erano morti, anche se ciò che rimaneva di loro non poteva essere definito vivo. E di quegli sfortunati, i Frati Neri si occupavano meglio che potevano.
«Bene» disse Richard, e sorrise. «Allora, forza, Macduff!.»
Fratello Caliginoso tirò i chiavistelli, che si aprirono con uno schianto, come colpi di fucile in contemporanea. Apri la porta e Richard la oltrepassò.
Fratello Caliginoso chiuse la porta dietro di lui e rimise a posto i chiavistelli.
Ricondusse l’Abate alla sua sedia e gli sistemò di nuovo la tazza in mano. L’Abate sorseggiò il tè in silenzio. Poi disse, «Veramente è ’vivi, Macduff’. Ma non ho avuto il cuore di correggerlo. Sembrava un cosi bravo giovane.»
DODICI
Richard Mayhew camminava lungo la banchina della metropolitana.
Non aveva riconosciuto la stazione. Era una stazione della District Line: il cartello diceva blackfriars.
La banchina era vuota. Da qualche parte un treno passò rombando e mandò un vento spettrale a sparpagliare le pagine di una copia del Sun, che dalla banchina disseminarono seni e invettive fin sulle rotaie.
Richard guardò da una parte e dall’altra.
Quindi si sedette su una panchina in attesa che accadesse qualcosa.
Non accadde nulla.
Si massaggiò la testa e provò un po’ di nausea.
Sulla banchina si udirono dei passi. Alzò lo sguardo: gli stava passando accanto una bambina dall’aria molto linda e inamidata che teneva per mano una donna che pareva una versione più grande e più vecchia della bimba stessa. Lo videro, quindi, ovviamente, guardarono da un’altra parte.
«Non avvicinarti troppo, Melanie» raccomandò la donna in un sussurro anche troppo udibile.
Melanie guardò Richard, fissandolo come fissano i bambini, senza imbarazzo né disagio. Poi tornò a guardare la madre. «Perché persone cosi continuano a vivere?» chiese, curiosa.
«Non hanno il fegato di farla finita» spiegò la mamma.
Melanie arrischiò un’altra occhiata a Richard. «Patetico» disse.
Lo scalpiccio dei loro piedi si allontanò lungo la banchina, e ben presto erano scomparse.
Si chiese se fosse stato frutto della sua immaginazione. Cercò di ricordare il motivo per cui si trovava su quella banchina. Aspettava un treno della metropolitana? E dove stava andando?
Non lo sapeva.
Rimase seduto dov’era. Stava forse sognando? Provò a toccare il duro sedile di plastica sotto di lui, battè i piedi sul pavimento con le scarpe incrostate di fango (da dove proveniva quel fango?), si toccò il viso… No. Non era un sogno. Qualunque cosa fosse, era reale.
Si sentiva strano: indifferente e depresso, e orribilmente, stranamente triste.
Qualcuno si sedette accanto a lui. Richard non sollevò lo sguardo, non voltò la testa.
«Ciao» disse una voce familiare. «Come stai, Dick? Va tutto bene?»
Richard alzò gli occhi. Senti che il volto gli si increspava in un sorriso, e la speranza lo colpiva come un colpo al petto. «Garry?» domandò, impaurito. Poi, «Puoi vedermi?»
Garry sorrise. «Sei sempre stato un gran burlone» disse. «Divertente, ragazzo, divertente.»
Garry era in giacca e cravatta. Era ben rasato e non aveva un capello fuori posto. Di colpo Richard si rese conto di quale doveva essere il suo aspetto: infangato, non sbarbato, arruffato…
«Garry? Io… senti, so cosa devo sembrare. Posso spiegarti.» Ci pensò sopra un istante. «No… in realtà non posso.»
«Va tutto bene» disse Garry. La sua voce era consolante, equilibrata. «Non so come dirtelo. È un po’ imbarazzante.» Esitò. «Guarda,» spiegò «io non sono davvero qui.»
«Oh, si che ci sei» disse Richard.
Garry scosse il capo, con aria comprensiva. «No» disse. «Non ci sono. Io sono te. Stai parlando a te stesso.»
Richard si chiese vagamente se fosse uno degli scherzi di Garry.
«Forse questo ti…» disse Garry. Si portò le mani sul viso, premette, plasmò, modellò. La sua faccia pareva di pongo.
«Va meglio cosi?» disse la persona che era stata Garry, con una voce che gli era sgradevolmente familiare. Richard conosceva quel viso. L’aveva rasato quasi tutte le mattine dei giorni feriali da quando aveva finito la scuola. Gli aveva lavato i denti, strizzato i brufoli e, qualche volta, aveva desiderato somigliasse a quello di Tom Cruise o di John Lennon o…
Era la sua faccia.
«Sei seduto alla stazione di Blackfriars all’ora di punta» disse l’altro Richard. «Stai parlano da solo. E sai cosa dicono di chi parla da solo. Il fatto è che in questo momento stai semplicemente cominciando a riaccostarti alla sanità mentale.»
E il bagnato e inzaccherato Richard fissò il volto del Richard pulito e ben vestito e disse: «Non so chi tu sia o cosa stai cercando di fare. Ma non sei neppure molto convincente: neanche mi somigli.»
Sapeva di mentire.
L’altro se stesso fece un sorriso triste e scosse il capo.
«Sono te, Richard. Sono quel poco che rimane della tua sanità mentale…» L’altro Richard lo fissò intensamente. «Concentrati! Guarda questo posto, cerca di vedere le persone, cerca di vedere la verità… sei già più vicino alla realtà di quanto tu sia mai stato in quest’ultima settimana…»
«Tutte balle» replicò Richard in tono spento e disperato.
Scosse il capo, ma guardò la banchina. Al limite estremo della sua visione periferica c’era qualcosa che tremolava.
Provò a seguire l’immagine voltando la testa, ma era scomparsa.
«Guarda» bisbigliò il suo doppio, con una voce che conosceva anche troppo bene.
Si trovava in piedi su una banchina di stazione di metropolitana vuota e scarsamente illuminata, il solitario mausoleo di un luogo.
Poi…
Il rumore e la luce lo colpirono come un fulmine.
Era alla stazione di Blackfriars, nel bel mezzo dell’ora di punta. Intorno a lui un gran via vai di gente: un’orgia di luce e di rumore, di umanità in movimento.
In attesa alla stazione c’era un treno, e Richard si vide riflesso nel finestrino.
Ecco come appariva:
Sembrava pazzo. Aveva la barba di una settimana. Intorno alla bocca e sulla barba c’erano sedimenti di cibo. Aveva un livido recente intorno all’occhio, diventato nero, e su un lato del naso stava spuntando un foruncolo, una pustola scarlatta e rabbiosa. Era sudicio, ricoperto di uno sporco nero e incrostato che gli riempiva i pori e abitava sotto le unghie. Gli occhi erano rossi e velati, i capelli opachi e aggrovigliati.
Era un pazzo senza fissa dimora, che se ne stava in piedi sulla banchina di un’affollata stazione del metrò all’ora di punta.
Affondò il volto nelle mani.
Quando rialzò il viso, la gente se ne era andata. La banchina era di nuovo buia ed era solo.
Una mano trovò la sua, l’afferrò e la strinse. Una mano femminile. Sentiva un profumo familiare.
L’altro Richard era seduto alla sua sinistra, mentre Jessica stava alla sua destra e gli teneva la mano, guardandolo negli occhi. Non le aveva mai visto quell’espressione.
«Jess?» disse.
Jessica scosse il capo. Gli lasciò la mano. «Mi dispiace, ma non è cosi» disse. «Sono ancora te. Però mi devi ascoltare, caro. Sei più vicino alla realtà di quanto tu sia mai stato…»
«Voi due continuate a dire più vicino alla realtà, più vicino alla sanità mentale, non so proprio cosa…» Esitò. In quel momento ricordò qualcosa. Guardò l’altra versione di se stesso e la donna che aveva amato e chiese, «Fa parte della prova?»
«Prova?» domandò Jessica. Scambiò un’occhiata inquieta con 1’altro-Richard-che-non-era-lui.
«Si. La prova. Con i Frati Neri che vivono sotto Londra» spiegò Richard. E mentre lo diceva, diventava più reale. «C’è una chiave che devo trovare per un angelo che si chiama Islington. Se gli porto la chiave, lui mi rimanda a casa…» gli si era inaridita la bocca, quindi si fermò.
«Ascolta ciò che dici!» lo apostrofò l’altro Richard. «Non ti accorgi di quanto suona ridicolo?»
Jessica sembrava una che si sforza di non piangere. Aveva gli occhi lucidi. «Non stai affrontando nessuna prova, Richard. Tu — tu hai avuto una specie di esaurimento nervoso. Un paio di settimane fa. Probabilmente sei crollato perché ho rotto il fidanzamento. Il fatto è che ti comportavi in modo tanto strano, sembravi un’altra persona e io — io non riuscivo a sopportarlo… Poi sei sparito…» Le lacrime cominciavano a solcarle le guance, e smise di parlare per soffiarsi il naso con un fazzolettino di carta.
Prese a parlare l’altro Richard. «Mi aggiravo per le vie di Londra, impazzito e solo, dormivo sotto i ponti e mangiavo cibo trovato nei bidoni e nei contenitori della spazzatura. Perso, tremante e solo. Borbottavo tra me e parlavo con persone inesistenti…»
«Mi dispiace cosi tanto, Richard» disse Jessica. Stava piangendo, il viso contorto privo di attrattiva. Il mascara iniziava a colare e aveva il naso rosso.
Non l’aveva mai vista ferita, e si accorse di quanto desiderava fare in modo che non soffrisse.
Richard allungò la mano verso di lei, per cercare di abbracciarla, confortarla, rassicurarla, ma il mondo scivolò, si distorse e mutò…
Qualcuno inciampò su di lui.
Era sdraiato sulla banchina nella vivida luce dell’ora di punta. Un lato del suo viso era freddo e appiccicoso. Sollevò la testa da terra. Si era straiato in una pozzanghera di vomito, che sperava almeno fosse suo.
I passanti lo fissavano disgustati o, dopo un’occhiata di sfuggita, cercavano di non guardarlo affatto.
Si ripulì il viso e cercò di alzarsi, ma non si ricordava come si fa. Richard cominciò a piagnucolare. Chiuse gli occhi stretti stretti, e continuò a tenerli chiusi.
Quando li riapri, trenta secondi, un’ora o un giorno più tardi, la banchina era nella semi oscurità.
Si alzò in piedi. Non c’era nessuno.
«Ehi!» gridò. «Per favore, aiutatemi.»
Garry era seduto sulla panchina e lo osservava.
«Ma come, c’è ancora bisogno che qualcuno ti dica cosa devi fare?» Garry si alzò e si diresse verso il punto in cui si trovava Richard. «Richard» disse in tono pressante. «Sono te. L’unico consiglio che posso darti è quello che ti stai dando da solo. Anche se forse sei troppo impaurito per ascoltare.»
«Tu non sei me» disse Richard, anche se ormai non ci credeva più.
«Toccami» disse Garry.
Richard allungò la mano, che entrò nel viso di Garry, schiacciando e distorcendo, come stesse facendo pressione su una gomma da masticare tiepida. Richard non senti nulla nell’aria che gli circondava la mano, quindi la tolse dal viso di Garry.
«Visto?» disse Garry. «Non sono qui. Tutto quello che c’è sei tu, che cammini avanti e indietro lungo la banchina, parlando da solo e cercando di trovare il coraggio per…»
Richard non aveva intenzione di commentare, ma la bocca si mosse e udi la propria voce che diceva: «Cercando di trovare il coraggio per fare cosa?»
Con tono profondo, l’altoparlante annunciò: «L’Azienda londinese per il trasporto pubblico si scusa per il ritardo, dovuto a un incidente verificatosi alla stazione di Blackfriars.»
«Per fare questo» disse Garry. «Diventare un incidente verificatosi alla stazione di Blackfriars. Farla finita con tutto. La tua vita è una vuota messinscena, priva di gioia e di amore. Non hai amici…»
«Ho te» sussurrò Richard.
Garry lo esaminò con occhi sinceri. «Sei proprio un illuso» disse.
«Ho Porta, e Hunter, e Anestesia.»
Garry sorrise. C’era un compatimento, in quel sorriso, che ferì Richard più di qualunque altra cosa. «Altri amici immaginari? In ufficio ridevamo tutti per quei troll. Te li ricordi? Sulla tua scrivania.» Scoppiò a ridere.
Anche Richard si mise a ridere. Era tutto troppo orribile: non si poteva fare altro che mettersi a ridere.
Dopo un po’ smise.
Garry si infilò la mano in tasca e ne estrasse un troll. Aveva i capelli viola, e un tempo trovava posto sul monitor del computer di Richard. «Ecco» disse Garry. E gli tirò il troll.
Richard cercò di afferrarlo. Allungò le mani ma l’oggetto le attraversò come non fossero li.
Allora si mise carponi, alla ricerca del troll. In quel momento gli sembrava fosse l’unico frammento rimasto della sua vera vita, e che se solo avesse potuto riaverlo, forse avrebbe potuto riavere anche tutto il resto…
Flash.
Era di nuovo l’ora di punta. Un treno scaricò centinaia di persone, mentre altre centinaia cercavano di salire, e Richard era ancora carponi, preso a calci e a botte dai pendolari. Qualcuno gli calpestò le dita della mano, con forza. Lanciò uno strillo acuto e si ficcò le dita in bocca, come un bambino che si fosse scottato. Avevano un sapore davvero pessimo.
Non se ne curò. Poteva vedere il troll sul bordo della banchina, a circa tre metri.
Strisciò, lentamente, sulle mani e sulle ginocchia, attraverso la folla, fino alla fine della banchina. La gente lo insultò, gli intralciò la strada e lo spinse malamente. Non aveva mai immaginato che ci si potesse impiegare tanto a percorrere tre metri. Udì una voce penetrante sogghignare, e si chiese a chi potesse appartenere. Era una risatina fastidiosa, strana e sgradevole. Si chiese che tipo di persona potesse sogghignare a quel modo. Degluti, e il sogghigno si arrestò. Ora lo sapeva.
Una donna anziana sali sul treno, e nel farlo colpi con un piede il troll dai capelli viola spedendolo nel buio, giù nello spazio vuoto tra treno e banchina.
«No» disse Richard. Stava ancora ridendo, una risata sgraziata e ansimante, ma negli occhi gli spuntarono delle lacrime che si sparsero sulle guance. Si strofinò gli occhi con le mani, facendoli bruciare ancora di più.
Flash.
La banchina era di nuovo deserta e buia.
Si alzò in piedi e percorse barcollando gli ultimi centimetri che lo separavano dal bordo.
Poteva vederlo, laggiù sulle rotaie, accanto al terzo binario, quello sotto tensione: una piccola chiazza viola. Il suo troll.
Guardò davanti a sé: attaccati al muro dall’altra parte dei binari c’erano dei manifesti di grandi dimensioni. Pubblicizzavano carte di credito e scarpe sportive e vacanze a Cipro. Mentre guardava, il mondo si distorse e mutò.
Nuovi messaggi:
FALLA FINITA era uno di essi.
METTI FINE ALLE TUE SOFFERENZE.
SII UOMO — UCCIDITI.
PROCURATI UN INCIDENTE FATALE, OGGI.
Annuì. Stava parlando da solo. In realtà sui manifesti non c’erano quelle scritte. Si. Parlava con se stesso; ed era tempo che si ascoltasse.
Poteva sentire un treno, non molto distante, che si avvicinava alla stazione.
Strinse i denti e cominciò a dondolare avanti e indietro come stesse ancora ricevendo gli spintoni dei pendolari, anche se sulla banchina era solo.
Il treno si stava dirigendo verso di lui. In quel momento comprese che bastava davvero uno sforzo piccolissimo per mettere fine al dolore, per far si che il dolore sparisse per sempre.
Si ficcò le mani in tasca e fece un respiro profondo. Era cosi facile. Un momento di sofferenza, e tutto si sarebbe concluso e compiuto…
In una delle tasche c’era qualcosa. Lo sentiva con le dita: qualcosa di liscio e solido, approssimativamente sferico.
Lo estrasse: era una perlina di quarzo.
Allora si ricordò di averla raccolta da terra. Era stato dall’altra parte del Ponte della Notte. Si trattava di un pezzo della collana di Anestesia.
E da chissà dove, nella sua testa o fuori di essa, gli parve di sentire la ragazza-ratto che diceva, «Tieni duro, Richard!»
Annui e si rimise in tasca la perlina. Restò in piedi sulla banchina e aspettò che arrivasse il treno. Quello arrivò, rallentò e si fermò completamente.
Le porte del treno si aprirono con un sibilo.
Il vagone era pieno di morti; morti di tutti i tipi. C’erano cadaveri ancora caldi, con tagli grossolani alla gola e buchi di pallottola alla tempia. C’erano cadaveri vecchi e rinsecchiti. C’erano corpi coperti di ragnatele che si reggevano alle maniglie del treno, e esseri sciatti e cancerosi mollemente abbandonati nei relativi posti a sedere. Per quanto si poteva desumere, tutti i cadaveri sembravano essere defunti per mano propria.
C’erano corpi di uomini e corpi di donne.
A Richard pareva di avere già visto alcuni di quei visi, appesi a un lungo muro, ma non riusciva più a ricordare dove, né quando.
Il vagone puzzava come potrebbe puzzare un obitorio al termine di una lunga estate calda durante la quale il sistema di refrigerazione si fosse rotto definitivamente.
Richard non sapeva più chi era, non aveva idea di cosa fosse vero e cosa no, e nemmeno se era coraggioso o vigliacco, pazzo o sano di mente.
Però sapeva qual’era la successiva cosa da fare. Salire sul treno.
E a quel punto tutte le luci si spensero.
I chiavistelli vennero tirati di nuovo. Due sonori schiocchi echeggiarono nella stanza. La porta del minuscolo santuario si apri, lasciando entrare la luce delle lampade nel corridoio.
Era una piccola stanza con un alto soffitto a volta. Da un filo appeso nel punto più elevato del soffitto pendeva una chiave d’argento. Il soffio d’aria provocato dall’apertura della porta la fece oscillare avanti e indietro, quindi ruotare lentamente, prima da una parte, poi dall’altra.
L’Abate si appoggiava al braccio di fratello Caliginoso e i due uomini entrarono nel santuario fianco a fianco. Poi l’Abate lasciò il braccio del fratello e disse: «Prendi il cadavere, fratello Caliginoso.»
«Ma, ma padre…»
«Cosa c’è?»
Fratello Caliginoso appoggiò un ginocchio a terra. L’Abate poteva udire le dita che sfioravano abiti e pelle. «Non è morto.»
L’Abate sospirò. Era un pensiero immorale, lo sapeva, ma sinceramente riteneva fosse molto più clemente farli morire subito. In questo modo era molto peggio. «Uno di quelli, eh?» disse. «Be’, ci occuperemo della povera creatura finché giungerà a ottenere la sua ricompensa finale. Portiamolo in infermeria.»
A quel punto una flebile voce disse, con grande calma, «Non sono… una povera creatura…»
L’Abate senti qualcuno alzarsi in piedi; senti il brusco respiro di fratello Caliginoso.
«Penso… penso di averla superata» disse, esitante, la voce di Richard Mayhew. «A meno che anche questo faccia parte della prova.»
«No, figliolo» lo rassicurò l’Abate.
Calò il silenzio. Poi Richard disse, «Io… io credo che adesso la gradirei quella tazza di tè, se per voi non è un problema.»
«Certo» disse l’Abate. «Da questa parte.»
Richard fissò il vecchio. Stava tremando. Gli occhi glauchi guardavano il nulla. Sembrava contento che Richard fosse vivo, ma…
«Scusi, signore» disse pieno di rispetto fratello Caliginoso, rivolto a Richard. «Non dimentichi la chiave.»
«Oh, si. Grazie.»
Si era dimenticato della chiave. Allungò la mano e la richiuse sulla chiave d’argento, che ruotava lentamente appesa alla corda. Tirò, e il filo si spezzò senza opporre resistenza.
Richard apri la mano e osservò la chiave che lo fissava dal suo palmo.
«Dipende dai miei denti irregolari» disse Richard, che ora ricordava. «Chi sono?»
La mise in tasca, accanto alla perlina di quarzo, e insieme lasciarono quel luogo.
La nebbia aveva cominciato a diradare. Hunter ne era lieta. Adesso era certa che, se fosse stato necessario, avrebbe potuto portar via Lady Porta ai frati senza che le succedesse nulla, cavandosela lei stessa solo con qualche ferita superficiale.
All’altro lato del ponte ci fu un movimento, carico di eccitazione.
«Succede qualcosa» disse Hunter a bassa voce. «Preparati a scappare.»
I frati si scostarono.
Richard, l’uomo del Mondo di Sopra, camminava nella nebbia, a fianco dell’Abate. Richard sembrava… Hunter lo esaminò attentamente per cercare di capire in cosa fosse cambiato. Il suo punto di equilibrio si era abbassato, era più centrato. No… non si trattava solo di quello. Sembrava…
Sembrava che fosse cresciuto.
«Ancora vivo?» chiese Hunter.
Richard annui, mise la mano in tasca e ne tolse una chiave d’argento. La lanciò a Porta, che la prese al volo, per poi correre verso di lui e mettergli le braccia al collo, stringendolo più forte che poteva.
Quindi Porta si staccò da Richard e andò dall’Abate. «Non so dirle quanto ciò significhi per noi» gli disse.
Lui sorrise, debolmente ma con dolcezza. «Possano Temple e Arch essere con tutti voi, nel vostro viaggio attraverso il Mondo di Sotto.»
Porta fece un inchino poi, tenendo la chiave stretta in mano, tornò da Richard e da Hunter.
I viaggiatori superarono il ponte.
I frati rimasero sul ponte finché i tre uscirono dal loro campo visivo, persi nella vecchia nebbia del mondo sotto il mondo.
«Abbiamo perduto la chiave» disse l’Abate. «Che Dio ci aiuti.»
TREDICI
L’Angelo Islington stava sognando un sogno oscuro e frenetico.
Onde immense si innalzavano e si infrangevano sulla città; il cielo era squarciato da orizzonte a orizzonte da lampi biforcuti; cadde la pioggia e la città tremò; accanto al grande anfiteatro scoppiarono i primi incendi. Islington li osservava dall’alto, librandosi nell’aria, come ci si libra nei sogni, come si era librato in quei giorni tanto lontani. In quella città c’erano edifici alti oltre trenta metri, ma a confronto delle verdi onde atlantiche parevano minuscoli.
Poi udì la gente gridare.
C’erano quattro milioni di persone ad Atlantide, e, nel sogno, Islington udiva ogni singola voce, chiara e distinta, mentre urlavano, soffocavano, bruciavano e morivano.
Le onde inghiottirono la città, e la tempesta si placò.
Al sorgere dell’alba, nulla indicava che là ci fosse mai stata una metropoli. Nulla tranne i corpi gonfi d’acqua di bambini, di donne e di uomini che galleggiavano sulle gelide onde del mattino; corpi su cui i gabbiani bianchi e grigi avevano già cominciato a infierire con i loro becchi crudeli.
E Islington si svegliò.
Era in piedi accanto alla grande porta nera, fatta di silice e argento annerito. Sfiorò la liscia freddezza della silice, il gelo del metallo.
Toccò il tavolo. Con leggerezza, fece scorrere le dita lungo i muri.
Poi si incamminò attraversando tutte le stanze dei suoi saloni, una dopo l’altra, toccando gli oggetti.
Camminando, seguiva un percorso ben preciso, delle levigate scanalature che i suoi piedi nudi avevano scavato nella roccia nel corso dei secoli. Raggiunto lo stagno, si fermò. Si chinò e toccò l’acqua con le dita.
Sulla superficie dello stagno si formò un’increspatura, e il riflesso dell’angelo e delle candele che lo circondavano scintillò e si trasformò.
Ora vedeva uno scantinato.
L’angelo si concentrò un momento.
Poteva udire un telefono che squillava, da qualche parte, lontano.
Mister Croup si diresse verso il telefono e sollevò il ricevitore. Pareva alquanto soddisfatto di sé. «Croup e Vandemar,» latrò «occhi cavati, nasi deformati, lingue forate, menti tagliati, gole squarciate.»
«Mister Croup,» disse l’angelo «adesso hanno la chiave. Voglio che la ragazza di nome Porta non corra pericoli durante il viaggio che la ricondurrà da me.»
«Niente pericoli» ripeté mister Croup, impassibile. «D’accordo. Faremo in modo che non corra pericoli. Che idea meravigliosa — quale originalità. Assolutamente sbalorditiva. La maggior parte delle persone si accontenterebbe di assoldare degli assassini per esecuzioni, ingegnosi delitti, persino per ignobili omicidi. Solo voi, signore, potete assoldare i due migliori tagliagole di tutto lo spazio e il tempo e chiedere loro di assicurare che la salute di una ragazzina non venga messa a rischio.»
«Fate in modo che le cose vadano cosi, mister Croup. Nulla deve nuocerle. Fatele del male in qualche modo e ne sarò profondamente dispiaciuto. Chiaro?»
«Si.»
«C’è altro?» chiese Islington.
«Si, signore.» Croup si tossicchiò nella mano. «Ricordate il Marchese de Carabas?»
«Certamente.»
«Suppongo che non ci sia una proibizione simile riguardo all’estirpazione del Marchese…?»
«No,» disse l’angelo «basta che proteggiate la ragazza.»
Allontanò la mano dall’acqua. Ora il riflesso era solo di fiammelle di candela, e di un angelo.
Quindi, l’Angelo Islington si alzò e ritornò alle stanze interne, in attesa dei suoi risolutivi visitatori.
«Cosa ha detto?» domandò mister Vandemar.
«Ha detto, mister Vandemar, che dobbiamo sentirci liberi di fare al Marchese tutto ciò che desideriamo.»
Vandemar annui. «Questo prevedeva anche la possibilità di ucciderlo facendolo soffrire?» chiese.
«Si, mister Vandemar, riflettendoci bene direi proprio di si.»
«Ottimo, mister Croup. Non mi sarebbe piaciuto un altro rimprovero.» Alzò lo sguardo verso la cosa sanguinolenta che penzolava sopra le loro teste. «Meglio sbarazzarci del corpo, allora.»
Una delle rotelle anteriori del carrello del supermercato cigolava e aveva la pronunciata tendenza a tirare verso sinistra. Mister Vandemar l’aveva trovato su un’erbosa isola spartitraffico vicino all’ospedale. Vedendolo, si era reso conto che era proprio della misura giusta per trasportare un cadavere. Naturalmente avrebbe potuto portarlo a braccia, ma era probabile che il corpo sanguinasse o perdesse altri fluidi, e lui aveva soltanto quei vestiti.
Quindi stava spingendo il carrello con il corpo del Marchese de Carabas lungo il canale di scolo delle acque piovane, e quello continuava a fare squiik squiik e a tirare verso sinistra.
Avrebbe voluto che fosse mister Croup a spingere il carrello, tanto per cambiare.
Ma mister Croup stava parlando. «Sa, mister Vandemar,» stava dicendo «attualmente sono troppo pieno di gioia, troppo deliziato, per non dire troppo completamente e illimitatamente in estasi per brontolare, bofonchiare o borbottare — dato che finalmente ci è stato permesso di fare ciò che sappiamo fare meglio…»
Mister Vandemar superò un angolo particolarmente disagevole. «Intende dire uccidere qualcuno?»
Mister Croup fece un sorrisone. «Uccidere qualcuno, è proprio quello che intendevo, mister Vandemar, anima coraggiosa, brillante e nobile compagno. Tuttavia, a questo punto avrà certo percepito un latente ’ma’ celato sotto la mia apparenza felice, vivace e gioiosa. Una minuscola contrarietà, come il più infinitesimale pezzetto di fegato crudo appiccicato all’interno di uno stivale. Non ho dubbi che ora si starà dicendo, ’Mister Croup ha un peso sul cuore. Devo convincerlo a liberarsi di quel fardello parlandone con me’.»
Mister Vandemar meditava su quelle parole mentre apriva a forza la tonda botola di ferro che divideva il canale di scolo dalla fognatura e ci si arrampicava a fatica. Poi sollevò il carrello con il corpo del Marchese de Carabas per farlo passare attraverso l’apertura. Quindi, quasi certo di non aver pensato a nulla di simile, disse, «No.»
Mister Croup ignorò l’esternazione e continuò. «… E se, in risposta alla sua implorazione decidessi di rivelarle ciò che mi disturba, le confesserei che il mio animo è infastidito dalla necessità di mettere la fiaccola sotto il moggio. Dovremmo esporre i tristi resti del fu Marchese de Carabas sulla forca più alta di Londra Sotto, non gettarli via come un vecchio…»
Esitò, alla ricerca dell’analogia più esatta.
«Ratto?» suggerì mister Vandemar. «Parrocchetto canoro? Rene?»
A mister Croup non piaceva nessuna delle tre alternative. «Si, va be’» disse.
Davanti a loro c’era un profondo canale di acqua marrone. Sulla superficie dell’acqua venivano trascinate masse schiumose biancastre, preservativi usati e occasionali frammenti di carta igienica.
Mister Vandemar fermò il carrello.
Mister Croup si chinò, sollevò la testa del Marchese prendendola per i capelli e gli sibilò nell’orecchio morto, «Prima questa faccenda sarà finita e risolta e più sarò contento. Ci sono altri tempi e altri luoghi in grado di apprezzare adeguatamente due paia di mani abili con il filo della garrota e il coltello per disossare.»
Quindi si raddrizzò. «Buonanotte, buon Marchese. Non dimenticarti di scrivere.»
Mister Vandemar capovolse il carrello e il cadavere del Marchese ruzzolò fuori e cadde schizzando nell’acqua marrone sotto di loro.
E dato che era arrivato a detestarlo profondamente, mister Vandemar spinse nella fogna anche il carrello del supermercato, rimanendo a guardare la corrente che se lo portava via.
Allora mister Croup alzò il più possibile la sua lampada e si mise a osservare il luogo in cui si trovavano.
«Fa tristezza pensare» disse mister Croup «che ci sono persone che percorrono le strade là sopra che non conosceranno mai la bellezza di queste fognature, mister Vandemar. Queste cattedrali di mattoni rossi che si ergono sotto i loro piedi.»
«Alto artigianato» convenne mister Vandemar.
Voltarono le spalle alle acque marroni e ripercorsero la strada lungo i tunnel.
«Per le città, come per le persone, mister Vandemar,» disse compassato mister Croup «le condizioni dell’intestino sono della massima importanza.»
Porta si legò la chiave intorno al collo con un pezzo di corda che aveva trovato in una delle tasche del suo giaccone di pelle.
«Non è molto sicuro» disse Richard.
La ragazza gli fece una smorfia.
«Be’,» ribatté lui «non lo è.»
Lei si strinse nelle spalle. «D’accordo» disse. «Prenderò una catena adatta quando andremo al mercato.»
Stavano attraversando un dedalo di caverne, profondi tunnel intagliati nel calcare che facevano sentire Richard quasi preistorico.
Ridacchiò sotto i baffi.
«Cosa c’è di tanto divertente?» chiese Porta.
Lui sorrise. «Stavo pensando all’espressione che farà il Marchese quando gli diremo che abbiamo avuto la chiave dai frati senza il suo aiuto.»
«Sono sicura che saprà dire qualcosa di beffardo» commentò Porta. «E poi, si torna dall’angelo. Per la ’via lunga e pericolosa’. Qualunque essa sia.»
Richard stava per dire «Non ho dubbi che sarà davvero lunga e pericolosa» ma riusci a non farlo. Invece, ammirò i dipinti sui muri della grotta. Ruggini, ocre, terre di siena tratteggiavano il contorno di cinghiali che caricano e gazzelle che fuggono, pelosi mammut e bradipi giganti: immaginò che quei disegni dovessero essere vecchi di migliaia di anni, ma quando svoltarono un angolo si accorse che, nello stesso stile, c’erano camion, gatti domestici, automobili e — nettamente inferiori rispetto alle altre immagini, come fossero stati osservati di rado e da molto lontano — aeroplani.
Nessun dipinto era molto alto dal suolo, e si chiese se i pittori fossero una razza di pigmei di Neanderthal sotterranei. Era una possibilità come un’altra, in quello strano mondo.
«Allora, dov’è il prossimo mercato?» chiese.
«Non ne ho idea» rispose Porta. «Hunter?»
Hunter scivolò fuori dall’ombra. «Non lo so.»
Una sagoma di piccole dimensioni passò loro accanto, risalendo la via che avevano appena percorso. Alcuni istanti dopo, un’altra coppia di minuscoli esseri umani arrivò verso di loro in minaccioso inseguimento.
Mentre passavano, Hunter allungò una mano a gran velocità, afferrando un bambino per l’orecchio.
«Au!» disse, come dicono i bambini piccoli. «Lasciami! Mi ha rubato il pennello!»
«È vero» disse una vocina stridula un po’ più lontana. «È stata lei.»
«Non sono stata io» giunse da ancor più lontano, in fondo al corridoio, una voce addirittura più acuta e stridula.
Hunter indicò i dipinti sul muro della grotta. «Li hai fatti tu?» chiese.
Il bambino aveva tutta la smodata arroganza che si trova soltanto negli artisti più eccelsi e in tutti i ragazzini di nove anni. «Già!» rispose con ferocia. «Qualcuno.»
«Non male» disse Hunter.
Il bambino la fulminò con lo sguardo.
«Dov’è il prossimo Mercato Fluttuante?» chiese Porta.
«Belfast» rispose. «Stasera.»
«Grazie» disse Porta. «Spero che riavrai il tuo pennello. Lascialo andare, Hunter.»
Hunter lasciò l’orecchio del bambino.
Lui non si muoveva. La squadrava, in alto e in basso, poi fece una smorfia, per dimostrare di non essere per nulla colpito. «Tu sei Hunter?» chiese.
Lei gli sorrise, con modestia. Lui tirò su col naso. «Tu sei la migliore guardia del corpo del Mondo di Sotto?»
«Cosi mi dicono.»
Il ragazzino tirò indietro una mano per allungarla in avanti di nuovo, in un unico movimento fluido. Si fermò, perplesso, e apri la mano, esaminandosi il palmo. Poi alzò lo sguardo verso Hunter, sempre più confuso.
Hunter apri la mano a sua volta e mostrò un piccolo coltello a serramanico dalla lama cattiva. Lo tenne in alto, fuori dalla portata del bambino.
Lui arricciò il naso. «Come hai fatto a farlo?»
«Fila via» disse Hunter.
Richiuse il coltello e lo lanciò al ragazzino, che decollò verso il corridoio senza voltarsi, all’inseguimento del suo pennello.
Il corpo del Marchese de Carabas veniva trascinato verso est dalla corrente, attraverso le profonde fognature, a faccia in giù.
Le fogne di Londra avevano iniziato la propria esistenza come fiumi e torrenti, che scorrevano da nord a sud per riversarsi nel Tamigi. Questo sistema aveva più o meno funzionato per molti anni finché, nel 1858, la quantità di effluenti prodotti dagli abitanti e dalle industrie di Londra, combinata a un’estate piuttosto calda, causò un fenomeno a quei tempi noto come la Grande Puzza. Chi poteva andarsene da Londra, se ne andava; quelli che erano rimasti si avvolgevano intorno al viso pezzi di stoffa immersi nell’acido fenico e cercavano di non respirare con il naso.
Il Parlamento fu costretto a sospendere le sedute molto presto nel 1858, e l’anno successivo ordinò che venisse istituito un programma di costruzione delle fognature. Le migliaia di chilometri di fogne vennero create con una lieve pendenza da ovest verso est e, da qualche parte sotto a Greenwich, vennero fatte entrare a forza nell’estuario del Tamigi, in modo che le acque di scolo si liberassero nel mare.
Era questo il viaggio intrapreso dal corpo del defunto Marchese de Carabas, da ovest a est, verso l’aurora e i depuratori.
Dei ratti su un’alta sporgenza di mattoni, impegnati a fare quello che fanno i ratti quando non ci sono esseri umani a osservarli, videro passare il corpo.
Il più grande, un grosso maschio nero, squittì.
Una femmina marrone di dimensioni meno imponenti gli rispose squittendo, quindi balzò giù dal muretto per atterrare sulla schiena del Marchese, dove restò a farsi trasportare per un po’, annusando i capelli e il soprabito, assaggiando il sangue e poi, con un certo rischio, sporgendosi per esaminare quanto era visibile del volto.
Si tuffò dalla testa del Marchese nell’acqua lurida e nuotò abilmente fino alla riva, dove risali a fatica lungo la scivolosa costruzione di mattoni.
Percorse velocemente una trave e tornò a raggiungere i suoi compagni.
«Belfast?» domandò Richard.
Porta sorrise in modo sbarazzino, e quando insistette non disse altro che «Vedrai.»
Cambiò tattica. «Come fai a sapere che quel bambino ha detto la verità riguardo al mercato?» chiese.
«È una cosa su cui nessuno di noi quaggiù mente mai. Io… non credo che potremmo mentire su quello.» Fece una pausa. «Il mercato è speciale.»
«E come faceva quel bambino a sapere dove si tiene?»
«Qualcuno gliel’ha detto» rispose Hunter.
Richard ci rimuginò sopra per un attimo. «E quello come faceva a saperlo?»
«Gliel’ha detto qualcun altro» spiegò Porta.
«Ma…» Per prima cosa si chiedeva chi fosse a stabilire il luogo, e come facevano a spargere la notizia…
Dal buio, una calda voce femminile domandò, «Pss. Avete idea di dove sia il prossimo mercato?»
Usci alla luce. Portava gioielli d’argento, i capelli neri acconciati alla perfezione. Era molto pallida e il suo lungo abito di velluto era nero ebano.
Richard la riconobbe immediatamente, sapeva di averla già vista anche se gli ci volle qualche istante per ricordare dove: il primo Mercato Fluttuante, ecco dove: da Harrods. Gli aveva sorriso.
«Stasera» disse Hunter. «Belfast.»
«Grazie» disse la donna. Aveva degli occhi davvero incredibili, pensò Richard. Del colore della digitale.
«Ci vediamo là» disse, e mentre lo diceva guardava Richard. Poi distolse timidamente lo sguardo.
Rientrò nell’ombra e scomparve.
«Chi era?» chiese Richard.
«E una Velluto, si fanno chiamare cosi» rispose Porta. «Durante il giorno dormono qua sotto, e la notte salgono nel Mondo di Sopra.»
«Sono pericolose?»
«Tutti sono pericolosi» disse Hunter.
«Sentite,» disse Richard «per tornare al mercato. Chi decide dove farlo svolgere e quando? E come fanno le prime persone a saperlo?»
Hunter si strinse nelle spalle.
«Porta?»
«Non ci avevo mai pensato.»
Svoltarono un angolo.
Porta sollevò la lampada. «Proprio niente male» commentò.
«E veloce, anche» aggiunse Hunter. Con la punta delle dita sfiorò il dipinto sul muro di roccia. La pittura era ancora fresca.
Si trattava di un ritratto di Hunter, Porta e Richard. E non era affatto lusinghiero.
Il ratto nero entrò nella tana dei Dorati con la testa bassa e le orecchie all’indietro in segno di deferenza. Strisciò in avanti, squittendo e schiattendo.
I Dorati si erano costruiti la tana in un cumulo di ossa. Tali ossa un tempo erano appartenute a un mammut peloso, e risalivano alle epoche glaciali quando le grandi bestie lanuginose percorrevano in lungo e in largo la tundra innevata dell’Inghilterra del sud come se, a detta dei Dorati, ne fossero i proprietari.
Quel mammut in particolare, quantomeno, era stato disilluso al riguardo in maniera piuttosto esauriente e decisamente definitiva da parte dei Dorati.
Alla base del cumulo di ossa, il ratto nero fece l’inchino, poi si sdraiò sulla schiena esponendo la gola, chiuse gli occhi e attese.
Dopo un po’ uno squittio dall’alto gli disse che poteva girarsi.
Uno dei Dorati strisciò fuori dal cranio del mammut, in cima alla catasta di ossa. Strisciò lungo la vecchia zanna d’avorio, un ratto dalla pelliccia dorata e gli occhi color rame, delle dimensioni di un grosso gatto domestico.
Il ratto nero parlò. Il Dorato ci pensò un attimo e sbraitò un ordine. Il ratto nero si rotolò sulla schiena, esponendo nuovamente la gola per un momento. Quindi una torsione e un dimenamento e aveva ripreso la sua strada.
Naturalmente, il Popolo delle Fogne esisteva già prima della Grande Puzza, e aveva vissuto nelle fognature del periodo elisabettiano, della Restaurazione e della Reggenza, quando un numero sempre maggiore di vie d’acqua londinesi veniva imbrigliato in tubazioni e passaggi coperti, quando la popolazione produceva quantità sempre maggiori di immondizia, di rifiuti, di effluenti. Fu dopo la Grande Puzza, però, dopo il grande progetto vittoriano di costruzione di fognature, che entrò in possesso di ciò a cui aveva diritto.
Se ne trovavano membri in ogni zona delle fogne, ma per le loro abitazioni permanenti avevano scelto alcuni degli ambienti a volta di mattoni rossi, simili a chiese, dell’area est, alla confluenza di molte delle ribollenti acque schiumose. Era là che si mettevano a sedere, tenendo accanto canne, reti e ami improvvisati, a osservare la superficie torbida dell’acqua.
Indossavano abiti — abiti verdi e marrone, coperti da uno spesso strato di quella che poteva essere muffa o una fanghiglia derivata da prodotti petroliferi, e poteva anche tranquillamente essere qualcosa di molto peggio. Portavano i capelli lunghi e aggrovigliati. Puzzavano più o meno come si può facilmente immaginare.
Lungo il tunnel erano appese vecchie lanterne a vento. Nessuno sapeva cosa il Popolo delle Fogne utilizzasse come combustibile, ma nelle loro lanterne ardeva una fiamma blu e verde piuttosto ripugnante.
Si ignorava in che modo quelle persone comunicassero tra loro. Nei pochi contatti con il mondo esterno usavano una sorta di linguaggio dei segni. Vivevano in un mondo di gorgoglii e sgocciolii, gli uomini, le donne e i silenziosi bambini delle fogne.
Dunnikin individuò qualcosa nell’acqua. Era il capo del Popolo delle Fogne, il più saggio e il più anziano. Conosceva le fogne meglio dei costruttori originali. Dunnikin prese una lunga rete per la pesca ai gamberetti; un abile movimento della mano, e aveva pescato un telefonino alquanto sporco. Camminò fino a un mucchietto di robaccia messo in un angolo, e aggiunse il telefono portatile al resto del bottino. Fino a quel momento il frutto di una giornata di lavoro consisteva in: due guanti spaiati, una scarpa, un cranio di gatto, una copia di Fiesta, un pacchetto di sigarette fradicio, una gamba artificiale, un cocker spaniel morto, un paio di corna di cervo (montate) e la metà inferiore di una carrozzina.
Non avevano fatto una buona pesca. E quella sera era sera di mercato.
Dunnikin continuava a tenere gli occhi sull’acqua. Non si sa mai cosa può saltar fuori.
Old Bailey stava stendendo il bucato ad asciugare. Sventolava e si gonfiava nel vento, sulla cima del Centre Point. A Old Bailey non importava molto del Centre Point in sé, ma, come spesso aveva spiegato agli uccelli, la vista dal tetto era incomparabile.
Il vento strappò alcune penne dal cappotto di Old Bailey e le soffiò via, lontano, sopra Londra. Non se ne curava. Come aveva spesso detto agli uccelli, nel posto da cui provenivano ce n’erano molte altre.
Un grosso ratto nero attraversò strisciando la copertura strappata di un cunicolo di ventilazione, si guardò intorno, quindi andò fino alla tenda chiazzata dagli uccelli. Risali il lato della tenda, poi percorse la fune da bucato di Old Bailey e gli squittì qualcosa con tono pressante.
«Piano, piano» disse Old Bailey. Il ratto ripeté quanto aveva detto con voce meno acuta e più lentamente. «Santo cielo!» disse Old Bailey.
Si precipitò nella tenda e tornò con le sue armi — il forchettone da barbecue e una pala per il carbone. Poi corse di nuovo nella tenda e ne usci con alcuni arnesi da barattare. Quindi rientrò nella tenda camminando, apri la cassapanca di legno e si mise in tasca la scatola d’argento.
«Proprio non ho tempo per queste scempiaggini» disse al ratto, una volta fatta l’ultima uscita dalla tenda. «Sono un uomo molto impegnato. Gli uccelli non si prendono da soli, sai?»
Il ratto squitti ancora.
Old Bailey stava slegando il rotolo di corda che portava alla cintola. «Be’,» disse al ratto «non sono l’unico che può prendere il corpo. Non sono più giovane come una volta. Non mi piacciono i luoghi sotterranei. Sono un uomo dei tetti, io, nato e cresciuto.»
Il ratto fece un rumore aspro.
«La gatta frettolosa fece i gattini ciechi!» replicò Old Bailey. «Sto andando. Giovane presuntuosello. Conoscevo il tuo bis-bisnonno, giovane amico-ratto, perciò non provare a darti tante arie… Allora, dov’è il mercato?»
Il ratto glielo disse. Poi Old Bailey si mise il ratto in tasca e scavalcò la facciata dell’edificio.
Seduto sulla sporgenza a lato della fognatura, nella sua poltroncina da giardino di plastica, Dunnikin era sopraffatto da un presentimento di ricchezza e prosperità. Sentiva che stava arrivando da ovest a est, proprio verso di loro.
Batté forte le mani. Altri uomini corsero da lui, e le donne e i bambini, e allo stesso tempo afferravano ami e reti. Si misero in fila lungo la sudicia sporgenza, nella crepitante luce verde della fognatura.
Dunnikin puntò il dito e aspettarono, in silenzio, perché è cosi che il Popolo delle Fogne aspetta.
Il corpo del Marchese de Carabas giunse galleggiando a faccia in giù lungo la fognatura, la corrente che lo portava con la lentezza e la solennità di un vascello funebre.
Lo trascinarono con gli ami e le reti, in silenzio, e ben presto lo adagiarono sulla sporgenza. Gli tolsero il soprabito, gli stivali e il contenuto delle tasche del soprabito, ma il resto degli indumenti venne lasciato sul cadavere.
«Sei sicura che il Marchese verrà al mercato?» Richard domandò a Porta, mentre il sentiero cominciava, lentamente, a salire.
«Non ci pianterebbe mai in asso» rispose, con tutta la baldanza che riusciva a mostrare. «Sono certa che verrà.»
QUATTORDICI
La nave di Sua Maestà battezzata Belfast è un incrociatore di 11.000 tonnellate, commissionato nel 1939 e in servizio attivo durante la seconda guerra mondiale. Terminato il conflitto, è stato ormeggiato alla sponda sud del Tamigi, in zona cartoline, tra Tower Bridge e London Bridge, di fronte alla Torre di Londra. Da li si possono vedere la cattedrale di St Paul e il monumento al grande incendio eretto da Cristopher Wren. Viene utilizzato come museo galleggiante, come monumento alla memoria e come campo di addestramento.
Una passerella collegava la nave alla riva, e su quella passerella c’era un grande andirivieni di persone che salivano e scendevano a due e a tre per volta, poi a decine. Tutte le tribù di Londra Sotto posizionavano le bancarelle il prima possibile, unite dall’Armistizio del Mercato e dal desiderio comune di sistemare le loro cose quanto più lontano si riesce dal banco del Popolo delle Fogne.
Oltre un secolo prima era stato concordato che il Popolo delle Fogne aveva il diritto di montare un chiosco solo durante i mercati all’aria aperta.
Dunnikin e i suoi rovesciarono il loro bottino su un telo di gomma sotto una gigantesca arma da fuoco, creando un gran mucchio. Nessuno si dirigeva subito al banco del Popolo delle Fogne, ma verso la fine del mercato arrivavano i cercatori di buone occasioni, i curiosi e quei pochi fortunati individui benedetti dalla mancanza del senso dell’olfatto.
Richard, Hunter e Porta si fecero strada in mezzo alla folla sul ponte della nave.
Richard si accorse di non sentire più la necessità di fermarsi a fissare il prossimo. La gente non era meno strana che al precedente Mercato Fluttuante, ma, pensava, con ogni probabilità lui era strano allo stesso modo.
Si guardò intorno, esaminando con attenzione i volti tra la folla, alla ricerca del sorriso ironico del Marchese.
«Non lo vedo» disse.
Si stavano avvicinando al banco del fabbro. Un uomo, che se non fosse stato per l’ispida barba marrone sarebbe stato scambiato per una piccola montagna, stava gettando un rosso pezzo di metallo arroventato su un’incudine. Richard non aveva mai visto una vera incudine. Poteva sentire il calore del metallo rovente a qualche metro di distanza.
«Continua a cercare. De Carabas salterà fuori» disse Porta, guardandosi alle spalle. «Lui è come il prezzemolo.» Meditò un istante. «Cos’è il prezzemolo?»
Poi, prima che Richard potesse risponderle, strillò, «Fabbroferraio!»
La montagna barbuta alzò gli occhi, smise di colpire il metallo incandescente e ruggì, «Per Temple e Arch! Lady Porta!» Poi la sollevò, come se pesasse quanto un topolino.
«Salve, Fabbroferraio» disse Porta. «Speravo fossi qui.»
«Non perdo mai un mercato, signora» tuonò allegramente. Poi si confidò, quasi fosse un segreto esplosivo, «Vedi, è qui che si fanno gli affari. Ora,» disse ricordandosi del blocco di metallo che si stava raffreddando sull’incudine, «aspetta soltanto un momento.» Abbassò Porta a livello degli occhi, in cima ai suoi stivali, a due metri di distanza dal ponte della nave.
Picchiava il pezzo di metallo con il martello, e contemporaneamente lo torceva utilizzando attrezzi che a ragione Richard pensò fossero tenaglie. Sotto i colpi di martello la materia mutava, trasformandosi da massa informe a splendida rosa nera. Era un lavoro di una delicatezza stupefacente, ogni petalo perfetto e separato.
Fabbroferraio tuffò la rosa in un secchio di acqua fredda posto accanto all’incudine. Sfrigolò e fumò. Poi la estrasse e la porse a un uomo grasso in corazza a maglia che attendeva pazientemente in un angolo; il ciccione si disse soddisfatto e in cambio diede a Fabbroferraio un sacchetto di plastica verde di Mark Spencer pieno di formaggi di vario tipo.
«Fabbroferraio?» disse Porta, appollaiata sul suo posatoio. «Questi sono miei amici.»
Fabbroferraio avvilupò la mano di Richard con una di parecchie misure più grande. La sua stretta era entusiasta ma molto delicata, come se in passato, dando la mano, avesse avuto parecchi incidenti e avesse quindi fatto pratica fino a trovare la giusta pressione. «Incantato» rombò.
«Richard» disse Richard.
Fabbroferraio sembrava lietissimo. «Richard! Che bel nome! Avevo un cavallo che si chiamava Richard.» Liberò la mano di Richard, si rivolse a Hunter e disse, «E tu sei… Hunter? Hunter! Come è vero che vivo, respiro e defeco! Sei proprio tu!»
Fabbroferraio arrossi come uno scolaretto. Si sputò sulla mano e tentò, maldestramente, di impomatarsi i capelli all’indietro. Poi allungò la mano, si ricordò di averci appena sputato sopra, e la pulì sul grembiulone di pelle, spostando il peso da un piede all’altro.
«Fabbroferraio» disse Hunter con un perfetto sorriso al caramello.
«Fabbroferraio?» chiese Porta. «Potresti mettermi giù?»
Pareva imbarazzato. «Chiedo scusa, signora» disse, e la rimise a terra. A Richard venne il sospetto che Fabbroferraio avesse conosciuto Porta quando era bambina, e si scopri incredibilmente geloso dell’ornone.
«Ora,» stava dicendo Fabbroferraio a Porta «cosa posso fare per te?»
«Un paio di cose» rispose. «Prima di tutto, però…» si voltò verso Richard. «Richard? Ho un incarico per te.»
Hunter inarcò un sopracciglio. «Per lui?»
Porta annui. «Per entrambi. Potreste andare a cercare del cibo, per favore?»
Richard si sentiva stranamente orgoglioso. Aveva dimostrato il proprio valore nella Prova. Era Uno di Loro. Sarebbe Andato, e avrebbe Portato del Cibo. Gonfiò il petto.
«Sono la tua guardia del corpo. Rimango al tuo fianco» disse Hunter.
Porta sorrise. Gli occhi dallo strano colore lampeggiarono. «Al mercato? Non c’è problema, Hunter. L’Armistizio del Mercato vincola tutti. Nessuno mi toccherà mentre sono qui. E Richard ha più bisogno di me di protezione.»
Richard sgonfiò il petto, ma non lo stava guardando nessuno.
«E se qualcuno violasse l’Armistizio?» chiese Hunter.
Fabbroferraio rabbrividì, nonostante il calore. «Violare l’Armistizio del Mercato? Brrr.»
«Non succederà. Andate. Tutti e due. Curry, per favore. E portatemi anche dei poppadoms, per piacere. Quelli speziati.»
Hunter si passò la mano tra i capelli. Poi si girò e si incamminò tra la folla, e Richard andò con lei.
«Cosa accadrebbe se qualcuno violasse l’Armistizio del Mercato?» chiese Richard mentre procedevano in mezzo alla gente.
Ci pensò sopra un istante. «L’ultima volta che è capitato è stato circa trecento anni fa. Una coppia di amici ha cominciato a discutere per una donna, al mercato. È spuntato un coltello e uno dei due è morto. L’altro è fuggito.»
«E cosa gli è successo? È stato ucciso?»
Hunter scosse il capo. «Proprio il contrario. Continua a desiderare di essere stato lui a morire.»
«È ancora vivo?»
Hunter increspò le labbra. «Più o meno» disse, dopo un po’. «È più o meno vivo.»
«Puah!» Richard pensò di essere sul punto di sentirsi male. «Cos’è questa… questa puzza?»
«Il Popolo delle Fogne.»
Richard girò la testa e decise di non respirare con il naso finché non fossero stati ben lontani dalla bancarella del Popolo delle Fogne.
«Ancora nessun segno del Marchese?» domandò.
Hunter scosse il capo. Se avesse allungato la mano, avrebbe potuto toccarlo.
Salirono una passerella di legno che portava ai banchi del cibo, e a profumi decisamente più invitanti.
Old Bailey non ebbe molte difficoltà a trovare il Popolo delle Fogne, gli bastò seguire il suo naso.
Imbastì anche una piccola rappresentazione, esaminando ostentatamente il cocker spaniel morto, la gamba artificiale e il telefonino umido e sporco in modo disgustoso, e scuotendo tristemente il capo davanti a ognuno di essi.
Poi si preoccupò di notare il corpo del Marchese. Si grattò il naso, inforcò gli occhiali e lo scrutò con estrema attenzione. Quindi chiamò Dunnikin con un cenno e gli indicò il cadavere.
Dunnikin spalancò le braccia, sorrise beato e alzò gli occhi verso il cielo, per comunicare che l’ingresso dei resti del Marchese nella loro vita era stato causa di grande felicità. Poi si portò una mano alla fronte, l’abbassò e si mostrò affranto, per far comprendere quale tragedia sarebbe stata la perdita di un cadavere tanto straordinario.
Old Bailey si mise una mano in tasca, da cui emerse un deodorante in stick mezzo consumato. Lo porse a Dunnikin, che lo guardò socchiudendo gli occhi, lo leccò e lo restituì. Old Bailey lo rimise in tasca. Diede un’altra occhiata ai cadavere del Marchese de Carabas, poco vestito, i piedi nudi, ancora umido per il viaggio attraverso le fogne. Il corpo era cinereo, dissanguato da molti tagli, grandi e piccoli, e la pelle era rugosa e avvizzita come una prugna secca a causa del tempo trascorso in acqua.
Poi tirò fuori una bottiglia, piena per tre quarti, di un liquido giallo, e la lanciò a Dunnikin. Dunnikin la guardò con sospetto. Il Popolo delle Fogne sa riconoscere una bottiglia di Chanel n°5, e si radunò intorno a Dunnikin al gran completo. Con attenzione, con importanza, tolse il tappo alla bottiglia e con esso si sfiorò il polso, per applicare una quantità infinitesimale di liquido. Quindi, con una serietà che il miglior parfumier parigino gli avrebbe invidiato, Dunnikin annusò.
Dopo di che fece entusiastici cenni di approvazione e si avvicinò a Old Bailey per abbracciarlo e concludere l’affare. Old Bailey scostò il viso.
Poi sollevò un dito e fece del suo meglio per mostrare di non essere più giovane come una volta e che il Marchese de Carabas, da morto o da vivo, era piuttosto pesantino.
Dunnikin si infilò le dita nel naso con aria pensosa, poi, con un gesto che indicava non solo magnanimità ma anche una generosità insensata e mal riposta che, ovviamente, avrebbe fatto finire lui, Dunnikin, e il resto del Popolo delle Fogne all’ospizio dei poveri, ordinò a uno dei giovani del suo popolo di legare il cadavere del Marchese al telaio di carrozzina che faceva parte della merce esposta. Il vecchio uomo dei tetti copri il corpo con un telo e lo spinse via, in mezzo all’affollato ponte della nave.
«Una porzione di verdure al curry, per favore» disse Richard alla donna del banco del curry. «E, hmm, mi chiedevo… La carne, che tipo di carne è?»
La donna glielo disse.
«Oh» fece Richard. «Bene. Hmm. Credo sia meglio prendere verdure per tutti.»
«Salve di nuovo» disse una voce intensa accanto a lui. Era la donna pallida che avevano incontrato nelle grotte, con il vestito nero e gli occhi color digitale.
«Salve» rispose Richard con un sorriso. «… Oh, e dei poppadoms, per favore. — Sei, hmm, sei qui per il curry?»
Lo fissò con gli occhi viola e disse, scimmiottando Bela Lugosi, «Io non mangio… curry.» Poi rise, una risata aperta, incantevole, e Richard si rese conto che era davvero passato tantissimo tempo da quando aveva condiviso una battuta scherzosa con una donna.
«Oh. Hmm. Richard. Richard Mayhew.» Allungò la mano, e lei la toccò con la sua. Era molto fredda, ma dopotutto a tarda notte, alla fine dell’autunno, su una nave ancorata nel Tamigi, fa molto freddo.
«Lamia» disse. «Sono una Velluto.»
«Ah» fece Richard. «Bene. E siete molte?»
«Un po’» rispose.
Richard radunò i contenitori con il cibo al curry. «E cosa fai?» domandò.
«Quando non sono alla ricerca di cibo» rispose, con un sorriso, «faccio la guida. Conosco ogni centimetro del Mondo di Sotto.»
Hunter, che Richard avrebbe giurato fosse all’altro lato del banco, era in piedi accanto a Lamia. «Non è tuo» disse.
Lei sorrise dolcemente. «Questo lo deciderò io» rispose.
Richard si intromise. «Hunter, questa è Lamia. È una Velcro.»
«Vel-luto» lo corresse con dolcezza Lamia.
«Fa la guida.»
«Ti porterò ovunque vorrai andare.»
Hunter tolse di mano a Richard la busta con il cibo. «È ora di tornare» disse.
«Be’.» disse Richard «dato che dobbiamo cercare tu-sai-cosa, forse potrebbe esserci d’aiuto.»
Hunter lo guardò. Se l’avesse guardato cosi il giorno prima, avrebbe lasciato cadere l’argomento. Ma allora era allora. «Vediamo cosa ne pensa Porta» disse Richard. «Nessuna traccia del Marchese?»
«Non ancora» rispose Hunter.
Old Bailey aveva trascinato giù dalla passerella di legno il cadavere legato al telaio di carrozzina per bambini, simile a uno spettrale fantoccio da ardere. Lo tirò sul Tower Bridge e oltre la torre di Londra. Procedette verso la stazione di Tower Hill e si fermò appena prima, accanto a un’ampia sporgenza grigia in muratura. Non è un tetto, pensò Old Bailey, ma andrà bene lo stesso.
Si trattava di uno degli ultimi resti delle mura di Londra che, secondo la tradizione, erano state costruite per ordine dell’imperatore romano Costantino nel terzo secolo dopo Cristo, su richiesta della madre (che si chiamava Elena), che in realtà era originaria di Londra ed era stufa del fatto che potentati e capi cittadini di tutta Europa le menzionassero, in maniera del tutto disinvolta, la grandezza delle mura delle città da cui provenivano e le chiedessero com’era la cinta muraria nella sua parte del mondo.
Una volta terminate, racchiudevano completamente la città; erano alte dieci metri e larghe due e mezzo, ed erano, senza alcuna possibilità di discussione, delle mura. Adesso non misuravano più dieci metri di altezza, dato che il livello del terreno era notevolmente salito dai tempi della madre di Costantino, né circoscrivevano la città, ma si trattava pur sempre di un imponente scampolo di muro.
Old Bailey annui vigorosamente tra sé. Assicurò un pezzo di fune al telaio della carrozzina e si arrampicò sul muro; poi, brontolando e imprecando al cielo, sollevò il Marchese fino in cima.
Slegò il corpo dal telaio della carrozzina e lo sdraiò gentilmente sulla schiena, le braccia lungo i fianchi. Alcune delle ferite grondavano ancora. Era proprio molto morto.
«Stupido briccone» sussurrò Old Bailey. «Perché diavolo hai voluto farti ammazzare, eh?»
Nella fredda notte la luna era luminosa, piccola e alta, e le costellazioni autunnali punteggiavano il ciclo nero e blu come polvere di diamanti frantumati.
Un usignolo svolazzò sul muro, esaminò il cadavere del Marchese de Carabas e cinguettò dolcemente.
«Fatti i becchi tuoi» disse in modo sgarbato Old Bailey. «E comunque nemmeno voi uccelli profumate come dannate rose.»
Gli cinguettò melodiose oscenità da usignolo e se ne volò via nella notte.
Old Bailey mise la mano in tasca e estrasse il ratto nero, che ne aveva approfittato per farsi una dormita. Si guardò intorno insonnolito, poi sbadigliò, mostrando una vasta distesa di lingua di ratto. «Personalmente» confessò Old Bailey al ratto nero «sarei felicissimo di non annusare mai più niente.»
Lo posò sulle pietre delle mura di Londra e il ratto gli squitti qualcosa. Old Bailey sospirò. Con molta attenzione si tolse di tasca la scatola d’argento e, da una tasca interna, recuperò il forchettone da barbecue.
Piazzò la scatola d’argento sul petto di de Carabas.
Poi, nervosamente, allungò il forchettone e con esso ne sollevò il coperchio. Dentro c’era un uovo di anatra, che alla luce della luna appariva di un pallido verde-azzurro. Old Bailey alzò il forchettone, strizzò gli occhi e fracassò l’uovo.
Ci fu un «pop» e un’implosione.
Per un attimo l’immobilità fu totale, poi iniziò il vento. Non aveva direzione, ma sembrava provenire da ogni dove, un’improvvisa e vorticosa burrasca. Foglie secche, pagine di giornale, tutti i detriti della città vennero sollevati da terra e trasportati nell’aria.
Il vento lambiva la superficie del Tamigi e portava in aria l’acqua gelida, creando uno spruzzo sottile e dinamico.
Era un vento pazzo, un vento pericoloso e folle. I proprietari dei banchi sul ponte della Belfast lo maledirono e afferrarono le loro cose per impedire che volassero via.
Poi, quando pareva che il vento dovesse diventare cosi forte da soffiare via il mondo e le stelle e da mandare le persone a ruzzolare nell’aria come tante foglie secche autunnali…
Proprio allora…
… Si fermò. E le foglie, la carta, le buste di plastica della spesa precipitarono sulla terra, sulla strada e sull’acqua.
In alto, sui resti delle mura di Londra, il silenzio che aveva fatto seguito al vento era, a suo modo, fragoroso quanto il vento stesso.
Fu rotto da un colpo di tosse; una tosse orribile e bagnata.
A ciò segui il rumore di qualcuno che si gira in modo goffo, poi quello di qualcuno che dà terribilmente e oscenamente di stomaco.
Il Marchese de Carabas vomitava acqua di fogna su una parete delle mura di Londra, macchiando le pietre grige di schifezza marrone. Ci volle parecchio tempo per liberare il suo corpo dall’acqua.
Quindi disse, con una voce che era poco più di uno stridulo sussurro, «Credo mi abbiano tagliato la gola. Hai niente con cui bendarla?»
Old Bailey si frugò nelle tasche e tirò fuori un sudicio pezzo di stoffa. Lo diede al Marchese, che se lo avvolse intorno alla gola, girandolo diverse volte per poi legarlo stretto. Old Bailey si trovò a ricordare, in modo incongruo, gli avvolgenti colli alti alla Beau Brummel dei dandy della Reggenza.
«Niente da bere?» gracchiò il Marchese.
Old Bailey fece apparire la fiaschetta, svitò il tappo e gliela passò, e lui ne tracannò una sorsata, poi trasalì per il dolore e tossì debolmente.
Il ratto nero, che aveva osservato il tutto con interesse, cominciò a scendere dal frammento di muro. L’avrebbe riferito ai Dorati: ogni favore era stato contraccambiato, ogni debito ripagato.
Il Marchese restituì la fiaschetta a Old Bailey, che la rimise via. «Come ti senti?» chiese.
«Mi sono sentito meglio.»
Il Marchese si mise a sedere, tremando. Gli colava il naso, e gli occhi sbattevano in continuazione. Fissava il mondo come se lo vedesse per la prima volta.
«Perché sei dovuto andare a farti ammazzare, ecco, è questo che vorrei sapere» chiese Old Bailey.
«Informazioni» bisbigliò il Marchese. «La gente ti racconta molto di più sapendo che dopo poco sarai morto. E continua a parlare in tua presenza, quando lo sei.»
«Allora hai scoperto quello che volevi sapere?»
Il Marchese si tastò le ferite sulle braccia e sulle gambe. «Oh, si. Quasi tutto. Adesso ho ben più che una vaga idea riguardo a ciò di cui veramente si tratta.» Quindi chiuse di nuovo gli occhi e si avvolse le braccia intorno al corpo, oscillando, lentamente, avanti e indietro.
«Allora, com’è?» domandò Old Bailey. «Essere morto…»
Il Marchese sospirò. Poi sorrise, debolmente, e con un lampo del suo vecchio io replicò, «Vivi abbastanza a lungo, Old Bailey, e lo scoprirai da solo!»
Old Bailey pareva deluso. «Bastardo. Dopo tutto quello che ho fatto per farti tornare da quella spaventosa meta da cui non c’è ritorno. Be’, da cui di solito non c’è ritorno.»
Il Marchese de Carabas alzò lo sguardo verso di lui. Alla luce della luna, i suoi occhi erano bianchi. E sussurrò, «Com’è essere morto? È molto freddo, amico mio. Molto buio e molto freddo.»
Porta teneva in mano una catena. Vi era appesa la chiave, rossa e arancione alla luce del braciere di Fabbroferraio. Sorrise.
«Ottimo lavoro, Fabbroferraio.»
«Grazie, signora.»
Si mise la catena al collo e nascose la chiave sotto i molti strati di abiti. «Cosa vorresti in cambio?»
Il fabbro pareva in imbarazzo. «Non voglio certo approfittare della tua natura cortese…» bofonchiò.
Porta fece la faccia che significa «coraggio, continua.» Lui si chinò e da sotto una pila di attrezzi trasse una scatola nera. Era fatta di legno, con intarsi di vetro e rame, e aveva le dimensioni di un buon dizionario. La girò e rigirò tra le mani. «È una scatola-rompicapo» spiegò. «L’ho avuta in cambio di alcuni lavoretti che ho eseguito una manciata di anni fa. Non riesco ad aprirla, anche se ci ho provato tantissime volte.»
«Passamela.»
Porta prese la scatola e fece scorrere le dita sulla superficie. «Non mi sorprende che tu non sia riuscito ad aprirla. Il meccanismo è inceppato. Si è fuso, bloccandosi.»
Fabbroferraio sembrava triste. «Allora non scoprirò mai cosa c’è dentro.»
Porta assunse un’espressione divertita. Con le dita esplorò la superficie della scatola. Da un lato usci una bacchetta, che lei spinse di nuovo in dentro per metà, poi girò. Dall’interno si udi un clunk e sul lato si apri uno sportellino.
«Ecco» disse Porta.
«Mia signora» disse Fabbroferraio. Le prese la scatola e spalancò lo sportellino. All’interno c’era un cassetto, e lo apri.
Il piccolo rospo nel cassetto gracidò e si guardò intorno senza alcuna curiosità. Fabbroferraio fece la faccia lunga. «Speravo ci fossero perle e diamanti» disse.
Porta allungò la mano e accarezzò la testa del rospo.
«Ha dei begli occhi» disse. «Tienilo, Fabbroferraio. Ti porterà fortuna. E grazie ancora. So di poter contare sulla tua discrezione.»
«Puoi contare su di me, signora» disse in tutta sincerità Fabbroferraio.
Sedevano insieme in cima alle mura di Londra, senza parlare. Lentamente Old Bailey fece scendere le ruote della carrozzina sul terreno sottostante.
«Dov’è il mercato?» domandò il Marchese.
Old Bailey indicò la nave da guerra. «Là.»
«Porta e gli altri. Mi staranno aspettando.»
«Non sei in condizione di andare da nessuna parte.»
Il Marchese tossì con uno spasmo. Old Bailey aveva l’impressione che avesse i polmoni ancora pieni di fogna.
«Ho fatto un lungo viaggio, oggi» sussurrò. «Proseguire ancora un po’ non mi farà male.» Si esaminò le mani, piegò le dita, piano piano, come per controllare se avrebbero fatto ciò che desiderava, oppure no. Poi ruotò il corpo da una parte e dall’altra e con movimenti impacciati cominciò a scendere dal muro. Prima di farlo, però, con voce rauca e forse velata di tristezza, aveva detto, «Sembra proprio, Old Bailey, che ti debba un favore.»
Quando Richard ritornò con le pietanze al curry, Porta gli corse incontro e gli mise le braccia al collo. Lo abbracciò forte, gli diede persino una pacca sul sedere, prima di strappargli la busta di carta con il cibo e aprirla con grande entusiasmo.
Prese un contenitore con le verdure e iniziò a mangiare tutta contenta. «Grazie» disse, con la bocca piena. «Ancora nessun segno del Marchese?»
«Nessuno» rispose Hunter.
«Croup e Vandemar?»
«No.»
«Che delizia il curry! Questo è davvero buono.»
«Hai avuto la catena?» chiese Richard.
Porta allontanò la catena dal collo quel tanto che bastava per far vedere che c’era, poi la lasciò ricadere, trascinata dal peso della chiave.
«Porta,» disse Richard «questa è Lamia. È una guida. Dice che può portarci ovunque nel Mondo di Sotto.»
«Ovunque?» Porta stava sgranocchiando un poppadom.
«Ovunque» rispose Lamia.
Porta piegò la testa da un lato. «Sai dov’è l’Angelo Islington?»
Lamia sbatté le palpebre, le lunghe ciglia a svelare e coprire gli occhi color digitale. «Islington?» disse. «Non ci potete andare…»
«Lo sai?»
«Down Street» rispose Lamia. «In fondo a Down Street. Ma non è sicuro.»
Hunter osservava la conversazione a braccia incrociate, per nulla impressionata. Poi disse, «Non ci serve una guida.»
«Be’,» disse Richard «io penso di si. Il Marchese non è nei paraggi. Sappiamo che sarà un viaggio pericoloso. Dobbiamo portare la… la cosa che ho preso… all’Angelo. Cosi lui racconterà a Porta della sua famiglia e dirà a me come tornare a casa.»
Lamia alzò lo sguardo su Hunter con aria deliziata. «E a te darà un po’ di cervello» disse «e a me un cuore.»
Porta ripulì anche l’ultima briciola di curry dal contenitore usando le dita, poi se le leccò. «Staremo benissimo noi tre, Richard. Non ci possiamo permettere una guida.»
Lamia si risenti. «Sarà lui a pagarmi, non tu.»
«E che tipo di pagamento pretende una come te?» chiese Hunter.
«Questo» disse Lamia con un dolce sorriso «sta a me saperlo e a lui scoprirlo.»
Porta scosse il capo. «Non penso proprio.»
Richard sbuffò. «È solo che non vi piace l’idea che per una volta sia io a risolvere le cose invece di seguirvi ciecamente e andare sempre dove mi viene detto.»
«Non è cosi. Per niente.»
Richard si rivolse a Hunter. «Be’, Hunter, tu la conosci la strada per andare da Islington?»
Hunter scosse il capo.
Porta sospirò. «Dovremmo proprio muoverci. Down Street, hai detto?»
Lamia sorrise con le labbra color prugna. «Si, signora.»
Quando il Marchese arrivò al mercato, se ne erano andati.
QUINDICI
Lasciarono la nave e raggiunsero la riva, dove scesero alcuni scalini, attraversarono un lungo sottopassaggio e risalirono di nuovo.
Lamia procedeva sicura a grandi passi in testa al gruppo. Li condusse in un vicoletto acciottolato, con i muri illuminati dagli scoppiettanti lampioni a gas.
«Terza porta» disse.
Si fermarono davanti alla porta in questione, su cui campeggiava una targa di ottone che diceva:
ACCADEMIA REALE DELLE SCIENZE
PER LA PREVENZIONE DELLA CRUDELTÀ
CONTRO LE CASE
E sotto, a caratteri più piccoli:
DOWN STREET. SI PREGA DI BUSSARE.
«Si arriva alla strada attraversando la casa?» chiese Richard.
«No,» rispose Lamia «la strada è nella casa.»
Richard bussò alla porta. Non accadde nulla. Aspettarono e rabbrividirono. Bussò di nuovo. Infine, suonò il campanello.
La porta venne aperta da un domestico dall’aria assonnata che indossava una parrucca incipriata e una livrea scarlatta. Guardò l’eterogeneo e disordinato gruppo con un’espressione che indicava chiaramente che non era gente per cui valesse la pena di alzarsi dal letto.
«Si?» disse il servitore. Richard era stato mandato a farsi fottere e a morire ammazzato con maggior calore e buona grazia.
«Down Street» disse Lamia con tono imperioso.
«Da questa parte,» sospirò il domestico «se vi pulite i piedi.»
Attraversarono un ingresso davvero imponente. Poi attesero che il domestico accendesse tutte le candele di un candelabro, del tipo che di solito si vede solo sulle copertine dei libri, dove viene tradizionalmente tenuto ben saldo da giovani signorine in camicia da notte svolazzante, in fuga da un maniero dove è accesa un’unica luce, proveniente, guarda caso, da una finestra della soffitta.
Poi scesero un’imponente scalinata con sfarzosa passatoia. Quindi una rampa di scale meno imponente e meno sfarzosamente coperta dalla passatoia.
Scesero una rampa per nulla imponente con passatoia in lisa tela di sacco marrone.
Poi una rampa di scale di legno grezzo priva della benché minima traccia di passatoia.
Ai piedi di quest’ultima scala c’era un antico ascensore di servizio con sopra un cartello. Su cui era scritto:
FUORI SERVIZIO
Il domestico ignorò il cartello e apri la porta esterna a rete con un rumore metallico. Lamia lo ringraziò educatamente ed entrò nell’ascensore. Gli altri la seguirono.
Il servitore voltò loro le spalle. Attraverso la grata Richard lo vide afferrare il candelabro e tornare alla scala di legno.
Sulla parete dell’ascensore c’era una breve serie di pulsanti. Lamia premette quello più in basso. La grata metallica si richiuse automaticamente con un bang. Si ingranò un motore e l’ascensore cominciò, lentamente e cigolando, a scendere.
Nell’ascensore i quattro stavano piuttosto stipati. Richard notò di poter sentire il profumo di ognuna delle donne insieme a lui. Porta odorava principalmente di curry; Hunter odorava, in modo assolutamente non sgradevole, di sudore, in una maniera che lo fece pensare ai grandi felini nelle gabbie degli zoo; Lamia, invece, odorava in modo inebriante di caprifoglio, mughetto e muschio.
L’ascensore continuava a scendere. Richard si accorse che stava sudando, un sudore viscido e freddo, e si era conficcato le unghie nel palmo delle mani. Con il tono più disinvolto che riusci a ottenere, disse «Questo non sarebbe il momento migliore per scoprire che si soffre di claustrofobia, vero?»
«Già» rispose Porta.
«Allora non lo faccio» disse Richard.
E continuarono a scendere.
Ci fu un sobbalzo, un clunk, e il rumore del motorino di arresto, quindi l’ascensore si fermò. Hunter apri la porta, esitò un istante, poi usci su una sorta di stretta piattaforma.
Richard guardò fuori dalla porta dell’ascensore. Erano sospesi nell’aria, in cima a qualcosa che gli ricordò un dipinto della torre di Babele, o meglio l’aspetto che avrebbe avuto la torre di Babele del quadro vista dall’interno. Si trattava di un enorme e decoratissimo sentiero a spirale, intagliato nella roccia, che si sviluppava intorno a un pozzo centrale. Ed era in cima a quel pozzo centrale, a qualche centinaio di metri da terra, che era sospeso l’ascensore. Ondeggiava un po’.
Richard fece un respiro profondo e mise il piede sulla sporgenza di legno. Poi, pur sapendo che era una pessima idea, guardò giù. Non c’era nient’altro che un asse a dividerlo dal piano roccioso, centinaia di metri più sotto.
Tra la sporgenza su cui si trovavano e la cima della strada di pietra, a una distanza di circa tre metri, c’era una lunga passerella di legno.
«E immagino» disse, con molta meno noncuranza di quanto credeva, «che non sarebbe un buon momento per far presente che sono una vera nullità quando si tratta di altezze.»
«È sicuro» disse Lamia. «O almeno lo era l’ultima volta che sono stata qui. Guarda.»
Attraversò la passerella, un fruscio di velluto nero. Avrebbe potuto portare in equilibrio sulla testa una decina di libri senza farne cadere neppure uno. Arrivata al sentiero di pietra si fermò, si voltò e sorrise con aria incoraggiante.
Hunter la segui al di là della passerella, si girò e rimase sul ciglio accanto a lei, in attesa.
«Visto?» disse Porta. Allungò una mano e strinse il braccio di Richard. «È a posto.»
Richard annui, e deglutì. A posto.
Porta attraversò. Non sembrava divertirsi, ma attraversò comunque.
Le tre donne stavano aspettando Richard, che era rimasto indietro. Si accorse che non sembrava avere fatto neppure un passo sulla passerella di legno, nonostante avesse ripetutamente ordinato alle proprie gambe di camminare.
Molto sopra di loro venne premuto un pulsante.
Richard udi il tunk e la lontana messa in moto di un vecchio motore elettrico. La porta dell’ascensore si chiuse di botto, lasciandolo in precario equilibrio sulla stretta piattaforma di legno, non più ampia della passerella stessa.
«Richard!» gridò Porta. «Muoviti!»
L’ascensore cominciò a salire. Richard passò dalla piattaforma tremolante alla passerella di legno, senti le gambe diventargli di gelatina e si mise carponi, cercando di tenere duro per salvarsi la pelle.
C’era una minuscola parte razionale del suo cervello che si interessava all’ascensore: chi l’aveva chiamato, e perché? Il resto della mente, tuttavia, era impegnato a dire a tutti e quattro i suoi arti di tenersi rigorosamente aggrappati alla passerella, e a gridare, con quanta voce mentale aveva, «Non voglio morire!» Richard chiuse gli occhi stretti stretti, certo che se li avesse aperti e avesse visto il muro di roccia sotto di lui avrebbe sicuramente lasciato la presa per precipitare, precipitare, precipitare…
«Non ho paura di cadere» si disse. «Quello di cui ho paura è il momento in cui smetti di cadere e cominci a essere morto.» Ma sapeva di mentire a se stesso. Era la caduta che temeva — il pensiero di agitarsi e ruzzolare impotente nell’aria, sapendo di non poter fare nulla, che nessun miracolo ti può salvare…
Lentamente si rese conto che qualcuno gli stava parlando.
«Arrampicati semplicemente lungo la passerella, Richard.»
«Io… non ce la faccio» sussurrò.
«Hai passato di molto peggio per ottenere la chiave, Richard» disse una voce. Era Porta che parlava.
«Non sono per niente bravo con l’altezza» disse ostinatamente, il viso premuto con forza contro le assi di legno. Quindi, «Voglio andare a casa.»
Sentiva il legno contro il viso.
Poi la passerella cominciò a vibrare.
La voce di Hunter disse, «In realtà non so che peso possa reggere quell’asse. Voi due fate da contrappeso qui.»
La passerella vibrava come se qualcuno la stesse percorrendo, muovendosi verso di lui. L’afferrò ancora più saldamente, sempre a occhi chiusi. Quindi Hunter, suadente, calma, gli disse all’orecchio, «Richard?»
«Mmm.»
«Avanza lentamente, Richard. Un pezzetto alla volta. Vieni…» Le dita di zucchero caramellato gli accarezzarono la mano dalle nocche bianche che stringeva l’asse di legno. «Vieni.»
Fece un respiro profondo e avanzò di qualche centimetro. E si bloccò di nuovo.
«Stai andando ottimamente» disse Hunter. «Va bene cosi. Vieni.»
E centimetro dopo centimetro, strisciando e trascinando, con la sua voce portò Richard lungo la passerella, quindi, alla fine della passerella, lo sollevò semplicemente di peso prendendolo sotto le ascelle e lo posò sulla terra ferma.
«Grazie» le disse. Non riusciva a pensare a nient’altro da dire a Hunter che avesse un valore tale da compensare quanto aveva appena fatto per lui. Lo ripeté. «Grazie.» Poi, rivolto a tutte e tre, aggiunse, «Mi dispiace.»
Porta lo guardò. «Va tutto bene» disse. «Sei in salvo adesso.»
Richard guardò la sinuosa strada a spirale sotto il mondo, che scendeva, scendeva; poi guardò Hunter, Porta e Lamia, e scoppiò a ridere fino alle lacrime.
Alla fine Porta gli domandò, «Cosa c’è di tanto divertente?»
«’In salvo’!» disse lui.
Porta lo fissò, poi anche lei sorrise.
«Allora, adesso dove andiamo?» chiese Richard.
«Giù» rispose Lamia.
Cominciarono a discendere Down Street. Hunter era alla testa del gruppo, con accanto Porta. Richard, che camminava vicino a Lamia, ne respirava il profumo di mughetto e caprifoglio e ne apprezzava la compagnia.
«Sono davvero contento che tu sia venuta con noi» le disse. «Dato che sei una guida. Spero che non ti porti sfortuna.»
Lei lo fissò con gli occhi color digitale. «Perché dovrebbe portarmi sfortuna?»
«Sai chi sono i parla-coi-ratti?»
«Certo.»
«C’era una ragazza parla-coi-ratti di nome Anestesia. Lei… be’, siamo diventati un po’ amici e lei mi stava guidando in un posto. Ma poi è stata portata via. Sul Ponte della Notte. Continuo a chiedermi cosa può esserle successo.»
Gli sorrise con aria comprensiva. «Anche tra la mia gente circolano storie simili. Alcune potrebbero pure essere vere.»
«Me le devi raccontare» disse. Faceva freddo. Nell’aria gelida il suo respiro diventava fumo.
«Un giorno o l’altro» disse Lamia, il cui respiro non si trasformava in vapore. «È molto gentile da parte vostra farmi venire con voi.»
«È il minimo che possiamo fare.»
Davanti a loro Porta e Hunter svoltarono seguendo una curva e le persero di vista.
«Guarda,» disse Richard «ci stando distanziando. È meglio che ci affrettiamo.»
«Lasciamole andare» disse dolcemente Lamia. «Poi le raggiungiamo.»
Richard provava la strana sensazione di quando, da adolescenti, si va al cinema con una ragazza. O meglio, era come quando si torna a casa dopo, e si indugia dietro a un cartellone pubblicitario o accanto a un muro per carpire un bacio, un frettoloso annaspare di pelle e un groviglio di lingue, per poi mettersi a correre per raggiungere i tuoi compagni e le sue amiche.
Lamia gli fece scorrere un dito gelido lungo la guancia.
«Sei cosi caldo» gli disse con ammirazione. «Deve essere meraviglioso avere tanto calore.»
Richard tentò di apparire modesto. «In realtà, non è una cosa a cui penso molto» ammise.
Sopra di loro, lontano, udi il suono metallico della porta dell’ascensore che sbatteva.
Lamia lo guardava, con aria dolce e supplichevole. «Mi daresti un po’ del tuo calore, Richard?» chiese. «Sono cosi fredda.»
Richard era in dubbio se baciarla oppure no. «Cosa? Io…»
Lei pareva delusa. «Non ti piaccio?» domandò. Lui sperava follemente di non avere urtato i suoi sentimenti.
«Certo che mi piaci» si senti dire. «Sei molto carina.»
«E tu non lo stai usando tutto, il tuo calore, vero?» sottolineò, in modo assolutamente ragionevole.
«Suppongo di no…»
«E hai detto che mi avresti pagata per farvi da guida. E questo è quello che voglio come compenso. Calore. Posso averne un po’?»
Tutto quello che voleva. Tutto. Il caprifoglio e il mughetto lo avvolsero, e i suoi occhi non videro altro che una pelle pallida e scure labbra color prugna, e capelli color dell’ebano. Annuì.
Da qualche parte dentro di lui qualcosa stava gridando, ma qualunque cosa fosse, poteva aspettare.
Lamia gli mise le mani intorno al viso e lo attirò dolcemente a sé. Poi lo baciò, un bacio lungo e languido. Inizialmente Richard rimase un po’ scioccato per il gelo delle labbra e il freddo della lingua, quindi si lasciò andare.
Dopo qualche tempo, lei si ritrasse.
Richard sentiva di avere del ghiaccio sulle labbra. Barcollò all’indietro contro il muro. Cercò di sbattere le palpebre, ma i suoi occhi erano come congelati e restarono aperti.
Lei lo guardò e sorrise deliziata. Ora aveva la pelle rosea e rossa, e le labbra scarlatte. Nell’aria gelida, il suo respiro produceva vapore. Si passò la lingua sulle labbra, una calda lingua rosa su labbra vermiglie. Il mondo di Richard cominciò a oscurarsi. Gli parve di scorgere un’ombra scura al limite estremo della sua visione periferica.
«Ancora» disse Lamia. E si allungò verso di lui.
Aveva visto la Velluto tirare a sé Richard per il primo bacio, visto la brina e il ghiaccio ricoprirgli la pelle. L’aveva vista allontanarlo con aria felice.
Quindi le era arrivato accanto e, mentre si muoveva per finire quello che aveva cominciato, allungò una mano e l’afferrò, con forza, per il collo, sollevandola da terra.
«Ridagliela» le disse all’orecchio con voce stridula. «Ridagli la sua vita.» La Velluto reagì come un gattino caduto nella vasca da bagno, dimenandosi, soffiando, sputando e graffiando, ma era inutile. La teneva saldamente per la gola.
«Non puoi costringermi» disse, con un tono davvero poco musicale.
Lui aumentò la pressione. «Restituiscigli la vita» spiegò brusco, «o ti spezzo il collo.»
Trasalì, e lui la spinse verso Richard.
Lamia prese la mano di Richard e gli respirò nel naso e nella bocca. Dalla bocca di lei usci del vapore che rotolò lentamente in quella di lui. Il ghiaccio sulla pelle cominciava a sciogliersi, la brina sui capelli a sparire.
Le strinse ancora il collo. «Tutta, Lamia.»
Lei sibilò, molto a malincuore, e apri di nuovo la bocca. Un ultimo sbuffo di vapore si spostò dalla sua bocca a quella di Richard e scomparve.
Richard sbatté le palpebre.
«Cosa mi hai fatto?» chiese.
«Ti stava bevendo la vita» rispose il Marchese de Carabas, in un rauco sospiro. «Ti prendeva il calore, trasformandoti in una cosa gelida come lei…»
Il volto di Lamia si contorse, come quello di un bambino piccolo a cui è stato tolto il giocattolo preferito. Gli occhi viola lampeggiavano. «Ne ho più bisogno io di lui!» piagnucolò.
«Pensavo di piacerti» disse stupidamente Richard.
Il Marchese sollevò Lamia con una sola mano e ne portò il viso accanto al suo. «Prova ad avvicinarti ancora a lui, tu o qualunque altra Bambina Velluto, e verrò alla vostra caverna di giorno, mentre dormite, a bruciare tutto. Capito?»
Annuì.
La lasciò andare e lei cadde sul pavimento. Poi si rimise in piedi, in tutta la sua altezza, che in realtà non era esagerata, piegò la testa all’indietro e sputò con forza in faccia al Marchese.
Lamia sollevò sul davanti il lungo abito di velluto e corse via, verso l’alto.
Uno sputo nero, freddo come il ghiaccio, scivolava sulla guancia del Marchese, che se lo tolse.
«Stava per uccidermi» disse Richard.
«Non subito» spiegò il Marchese. «Alla fine saresti morto, certo, ma solo quando avesse finito di mangiarti la vita.»
Richard fissò il Marchese. Sembrava si sentisse poco bene. Non aveva il solito trench, al suo posto indossava una vecchia coperta con cui si era avvolto le spalle a mo’ di poncho, con qualcosa -Richard non capiva di cosa si trattasse — legato sotto. Era a piedi nudi. Per quella che Richard interpretò come bizzarra affettazione modaiola, avvolto intorno alla gola portava un alto pezzo di stoffa scolorita.
«La stavamo cercando» disse Richard.
«E adesso mi avete trovato» gracidò seccamente il Marchese.
«Ci aspettavamo di vederla al mercato.»
«Si, be’… Qualcuno pensava che fossi morto e sono stato costretto a non farmi notare.»
«Perché… perché qualcuno pensava che fosse morto?»
Il Marchese guardò Richard con occhi che avevano visto troppo ed erano andati troppo oltre. «Perché mi avevano ucciso» disse. «Andiamo, non possono essere tanto lontane.»
Richard guardò al di là del ciglio del sentiero, al di là del pozzo centrale. Dall’altra parte poteva vedere Porta e Hunter, a un livello inferiore rispetto a lui. Si guardavano intorno — probabilmente lo cercavano. Le chiamò, urlando e agitando le braccia, ma il suono non veniva trasmesso.
Il Marchese appoggiò la mano sul braccio di Richard. «Guarda» disse. Indicava il livello al di sotto di Porta e Hunter. Qualcosa si muoveva. Richard socchiuse gli occhi: riusciva a scorgere due figure, appostate nell’ombra.
«Croup e Vandemar» disse il Marchese. «È una trappola.»
«Cosa facciamo?»
«Corri!» disse il Marchese. «Avvertile. Io non posso correre… Vai, dannazione!»
E Richard corse. Corse più forte che poteva, più in fretta che poteva, lungo la strada di pietra che scendeva sotto il mondo. Sentì un improvviso dolore lancinante al petto: una fitta. Ma proseguì, e continuò a correre.
Svoltò un angolo e le vide.
«Hunter! Porta!» rantolò, affannato. «Fermatevi! Attente!»
Porta si girò.
Mister Croup e mister Vandemar uscirono da dietro una colonna. Mister Vandemar strattonò con violenza le braccia di Porta e con un’unica mossa gliele legò dietro la schiena con una striscia di nylon.
Mister Croup teneva in mano qualcosa di lungo e sottile in una sacca di tela marrone, simile a quella che il padre di Richard usava per trasportare le canne da pesca.
Hunter era rimasta ferma, a bocca aperta.
«Hunter! Presto.»
Lei ruotò su se stessa, sollevando un piede verso l’esterno, con un movimento fluido, quasi da ballerina.
Il piede colpì Richard in pieno stomaco. Lui cadde a terra, piegato in due, senza fiato e dolorante.
«Hunter?» boccheggiò.
«Mi dispiace ma è cosi» disse Hunter.
Mister Croup e mister Vandemar non degnavano né Richard né Hunter della benché minima attenzione. Mister Vandemar era impegnato a legare i polsi di Porta, mentre mister Croup se ne stava in piedi a guardare.
«Non devi pensare a noi come ad assassini e tagliagole, signorina» stava dicendo amabilmente mister Croup. «Pensa a noi come a un servizio di accompagnatori.»
«Senza prestazioni extra, però» aggiunse mister Vandemar.
Mister Croup si rivolse a mister Vandemar. «Accompagnatori nel senso di scorta. Per assicurare che la nostra bella lady arrivi sana e salva dove deve arrivare. Non la stavo paragonando né a un gigolò d’alto bordo né a una comune lucciola di strada, mister Vandemar.»
Mister Vandemar non si era ancora rabbonito. «Ha detto che eravamo un servizio di accompagnatori» brontolò. «So cos’è.»
«Lo cancelli dal verbale, mister Vandemar. Non mi sono espresso bene. D’ora in poi consideriamoci chaperon. Guardie. Cavalieri.»
Mister Vandemar si grattò il naso con un anello di teschio di corvo. «D’accordo» disse.
Mister Croup si voltò verso Porta e le sorrise, mostrando molti denti. «Vedi, Lady Porta. Dobbiamo assicurarci che arrivi sana e salva a destinazione.»
Porta lo ignorò. «Hunter» gridò. «Cosa succede?»
Mister Croup fece un ampio sorriso di orgoglio. «Prima di accettare di lavorare per te, Hunter aveva accettato di lavorare per il nostro principale. Prendendosi cura di te.»
«Te l’avevamo detto» si vantò mister Vandemar. «Te l’avevamo detto che uno di voi era un traditore.» Piegò la testa all’indietro e ululò come un lupo.
«Credevo parlaste del Marchese» disse Porta.
Mister Croup si grattò la testa, con mossa teatrale. «Parlando del Marchese, mi chiedo dove sia. Sembra scomparso, vero, mister Vandemar?»
«Già, proprio scomparso, mister Croup. Davvero scomparso.»
«Al punto che d’ora in avanti dovremo chiamarlo lo scomparso Marchese de Carabas. Purtroppo è giusto un pochino…»
«Morto stecchito» concluse mister Vandemar.
Richard, che respirava affannosamente e si contorceva a terra, riuscì a inspirare abbastanza aria nei polmoni da rantolare, «Tu, puttana traditrice.»
Hunter abbassò lo sguardo. «Niente di personale» mormorò.
«La chiave che avete preso dai Frati Neri,» chiese mister Croup a Porta «chi ce l’ha?»
«Ce l’ho io» ansimò Richard. «Potete perquisirmi, se volete.» Si frugò nelle tasche — accorgendosi di qualcosa di duro e per niente familiare nella tasca posteriore, ma in quel momento non c’era il tempo di investigare — e ne tirò fuori la chiave della porta d’ingresso del suo vecchio appartamento. Si trascinò in piedi e barcollò fino a mister Croup e mister Vandemar. «Ecco.»
Mister Croup allungò una mano e gli prese la chiave di ottone. «Accidentaccio, mister Vandemar» disse, senza quasi degnarla di uno sguardo. «Mi sono lasciato completamente abbindolare da questa astuta manovra.» Passò la chiave a mister Vandemar, che la tenne tra pollice e indice e la accartocciò come fosse carta stagnola. «Imbrogliati ancora, mister Croup» disse.
«Gli faccia male, mister Vandemar» disse mister Croup.
«Con piacere, mister Croup» disse mister Vandemar, assestando a Richard un calcio sulla rotula. Richard cadde a terra in agonia, tenendosi la gamba.
Come proveniente da un luogo lontanissimo, poteva udire la voce di mister Vandemar. Sembrava stesse tenendo una conferenza. «La gente pensa che sia la forza a fare male» diceva la voce di mister Vandemar. «Ma non è come sferri il calcio che conta. È dove. Voglio dire, questo è davvero un calcetto gentile…»
Qualcosa sbatté contro la spalla sinistra di Richard. Il braccio era completamente intorpidito, e un fiore di dolore gli sbocciò sulla spalla. Gli sembrava che tutta la parte sinistra andasse a fuoco, e congelasse, come se qualcuno gli avesse infilato uno stimolatore elettrico nella carne e avesse dato il massimo di corrente. Si mise a piagnucolare. E mister Vandemar diceva:
«… Ma fa male quanto questo — che è molto più forte…»
Lo stivale si conficcò nel fianco di Richard come una palla di cannone. Riusciva a sentirsi urlare e singhiozzare, e avrebbe tanto desiderato sapere come fare a smettere.
«Ce l’ho io la chiave» senti dire Porta.
«Se tu avessi un coltellino svizzero» continuava mister Vandemar rivolto a Richard con tono servizievole, «potrei farti vedere come si usano tutti i pezzi. Anche l’apribottiglie, e gli attrezzi per togliere i sassi dagli zoccoli dei cavalli.»
«Lo lasci, mister Vandemar. Ci sarà tutto il tempo per i coltellini svizzeri. Allora, vediamo se ha il lasciapassare.»
Mister Croup frugò nelle tasche di Porta e prese la statuetta scolpita nell’ossidiana: la piccola Bestia.
La voce di Hunter era bassa e sonora. «E io? Dov’è il mio compenso?»
Mister Croup tirò su col naso e le lanciò la sacca per le canne da pesca. Lei l’afferrò con una mano.
«Buona caccia» disse mister Croup. Poi lui e mister Vandemar si voltarono e si incamminarono lungo la tortuosa discesa di Dawn Street, con Porta nel mezzo.
Hunter si inginocchiò e cominciò a sciogliere i lacci della borsa. Aveva gli occhi grandi e luminosi.
Richard giaceva a terra e la osservava.
«Cos’è?» chiese. «Trenta denari?»
Lei la estrasse, lentamente, dalla guaina di stoffa, accarezzandola e lisciandola con le dita. Amandola.
«Una lancia» disse.
Era fatta di un metallo color bronzo; la lama era lunga e ricurva come un kris, tagliente da un lato, seghettata dall’altro; dei volti erano stati scolpiti sull’impugnatura, che appariva verde di verderame, e decorata con strani disegni e insolite volute. Era lunga circa un metro e mezzo, dalla punta della lama alla fine dell’impugnatura. Hunter la toccava quasi con timore, come fosse la cosa più bella che avesse mai visto.
«Hai venduto Porta per una lancia» disse Richard.
Lei non rispose. Si inumidì le dita con la lingua rosea e con dolcezza le passò lungo la lama, controllando l’affilatura; sembrò soddisfatta.
«Hai intenzione di uccidermi?» chiese Richard.
Allora lei voltò la testa e lo guardò. Sembrava più viva che mai, più bella e più pericolosa. «E che razza di sfida sarebbe cacciare te, Richard Mayhew? Ho un avversario ben più grande da uccidere.»
«Quella è la tua lancia per la caccia alla Grande Bestia di Londra, vero?»
Lei guardava la lancia come mai nessuna donna aveva guardato Richard. «Dicono che nulla le possa tenere testa.»
«Ma Porta si fidava di te. Io mi fidavo di te.»
«Basta.»
Lentamente, il dolore cominciava a scemare, riducendosi a un sordo indolenzimento alla spalla, al fianco e al ginocchio. «Allora, per chi lavori? Dove la stanno portando? Chi c’è dietro tutto questo?»
«Diglielo, Hunter» stridette il Marchese de Carabas.
Teneva una balestra puntata contro Hunter, i piedi nudi ben piantati per terra, e aveva sul viso un’aria implacabile.
«Mi chiedevo se eri davvero morto come dicevano Croup e Vandemar» disse Hunter. «Mi avevi dato l’impressione di uno duro da uccidere.»
Lui piegò il capo, in un ironico inchino. «Anche tu mi dai la stessa impressione, cara signora. Ma una freccia di balestra nella gola e una caduta di un centinaio di metri potrebbero smentirmi, ti pare? Posa la lancia e fai un passo indietro.»
Appoggiò la lancia a terra, con gentilezza, con amore. Poi si alzò e si allontanò.
«Puoi anche dirglielo, Hunter» disse il Marchese. «Io lo so. Ho trovato la strada difficile. Digli chi sta dietro a tutto questo.»
«Islington» rispose lei.
Richard scosse il capo, come se stesse cercando di scacciare una mosca. «Non può essere» disse. «Cioè, ho incontrato Islington. È un angelo.» Poi, in tono quasi disperato, «Perché?»
Il Marchese non aveva staccato gli occhi da Hunter e la punta della balestra non aveva vacillato. «Vorrei saperlo. Ma Islington è in fondo a Down Street e in fondo a questa storia. E tra noi e Islington ci sono il labirinto e la Bestia. Richard, prendi la lancia. Hunter, davanti a me, per favore.»
Richard sollevò la lancia poi, goffamente, utilizzandola come punto di appoggio, si rimise in piedi. «Vuole che venga con noi anche lei?» chiese, stupito.
«Preferiresti averla alle spalle?» domandò secco il Marchese.
Richard scosse il capo.
E ricominciarono a scendere.
SEDICI
Camminarono in silenzio per ore, seguendo la sinuosa strada di pietra che portava in basso. Richard era ancora dolorante e zoppicava. Inoltre provava una strana agitazione fisica e mentale: dentro di lui si rincorrevano sensazioni di sconfitta e tradimento che, associate al rischio di perdere la vita a causa di Lamia, al danno inflittogli da mister Vandemar e all’esperienza sulla passerella là in alto, lo facevano sentire un vero rottame. E, tanto per peggiorare ulteriormente le cose, era assolutamente certo che tutte le sue esperienze dell’ultimo giorno sarebbero impallidite fino a diventare qualcosa di assolutamente insignificante se paragonate a quello che doveva avere passato il Marchese. Perciò, non diceva nulla.
Il Marchese stava in silenzio, dato che ogni parola che pronunciava gli faceva dolere la gola. Si accontentava di lasciarla guarire e di concentrarsi su Hunter. Sapeva che se avesse distolto l’attenzione anche per un solo istante, lei se ne sarebbe accorta e sarebbe scappata, o li avrebbe attaccati. Perciò, non diceva nulla.
Hunter camminava davanti a loro, a qualche passo di distanza. Anche lei non diceva nulla.
Dopo un po’ raggiunsero la fine di Down Street. La strada terminava con un cancello, un ampio passaggio ciclopico — costruito con enormi blocchi di pietra grezza.
Quel cancello l’hanno costruito i giganti, pensò Richard, senza però saper dire come avesse avuto quell’intuizione.
Da molto tempo il cancello vero e proprio si era arrugginito e sgretolato. Ne potevano ancora vedere dei frammenti nel fango sotto i loro piedi o inutilmente penzolanti dal cardine arrugginito a lato dell’ingresso. Il cardine era più alto di Richard.
Il Marchese fece cenno a Hunter di fermarsi. Si inumidì le labbra e disse, «Questo cancello segna la fine di Down Street e l’inizio del labirinto. Oltre il labirinto attende l’Angelo Islington. Nel labirinto c’è la Bestia.»
«Io ancora non capisco» disse Richard. «Islington. L’ho incontrato sul serio. Esso… Egli… Lui è un angelo. Voglio dire… un vero angelo.»
Il Marchese sorrise, senza ironia. «Quando gli angeli vanno a male, Richard, marciscono più di chiunque altro. Ricordati che anche Lucifero era un angelo.»
Hunter fissò Richard con occhi color marron glacé. «Il luogo che hai visitato tu è la cittadella di Islington, e la sua prigione. Non può lasciarla.»
Il Marchese la guardò. «Presumo che il labirinto e la Bestia siano qui per scoraggiare i visitatori.»
Lei chinò il capo. «Così presumo anch’io.»
Richard si rivolse al Marchese, eruttando tutta la rabbia, l’impotenza e la frustrazione in un’unica iraconda esplosione. «Perché diamine le rivolge la parola? Perché quella sta ancora con noi? È una traditrice — ha cercato di farci credere che il traditore era lei.»
«E ti ho salvato la vita, Richard Mayhew» disse Hunter, pacata. «Molte volte. Sul ponte. Allo Spazio Vuoto. Sulla passerella là sopra.»
Lo guardò negli occhi, e fu Richard a distogliere lo sguardo.
Qualcosa echeggiò attraverso i tunnel: un muggito, o un ruggito. I peli sulla nuca di Richard si drizzarono. Era molto lontano, ma quello era l’unico aspetto della cosa che poteva dargli un minimo di conforto. Conosceva quel suono. L’aveva già udito nei suoi sogni. Non pareva né un toro né un cinghiale. Sembrava un leone. Sembrava un drago.
«Il labirinto è uno dei luoghi più antichi di Londra Sotto» spiegò il Marchese. «Prima che re Lud fondasse il villaggio sulle paludi del Tamigi, qui c’era un labirinto.»
«Nessuna Bestia, però» disse Richard.
«Non a quel tempo.»
Richard esitò. Il ruggito lontano si fece udire di nuovo. «Io… io credo di avere sognato della Bestia» disse.
Il Marchese inarcò un sopracciglio. «In che tipo di sogni?»
«Brutti» rispose Richard.
Il Marchese ci pensò sopra, gli occhi che guizzavano. Poi disse, «Senti, Richard, io porto Hunter. Se tu vuoi aspettare, be’, nessuno ti accuserà di codardia.»
Richard scosse il capo. A volte non hai alternative. «Non torno sui miei passi. Non ora. Hanno preso Porta.»
«D’accordo» disse il Marchese. «Bene, allora. Andiamo?»
Le perfette labbra di zucchero caramellato di Hunter si contorsero in un ghigno. «Dovete essere pazzi per andare là dentro» disse. «Senza il pegno dell’angelo non riuscirete mai a trovare la strada. Non supererete mai il cinghiale.»
Il Marchese infilò la mano sotto la coperta poncho e ne estrasse la statuina di ossidiana presa nello studio del padre di Porta. «Intendi uno di questi?» domandò.
In quel momento il Marchese pensò che molto di quello che aveva passato la settimana precedente era compensato dall’espressione sul viso di Hunter. Superarono il cancello, entrando nel labirinto.
Porta aveva le mani legate dietro la schiena e mister Vandemar la spingeva avanti appoggiandole una manona sulla spalla. Mister Croup li precedeva a passi rapidi, tenendo ben alto e visibile il talismano di ossidiana preso alla ragazza, e scrutava nervosamente da una parte e dall’altra, come una donnola sul punto di razziare un pollaio.
Il labirinto in sé era follia pura. Era costruito di frammenti dispersi di Londra Sopra: vicoli, strade, corridoi e fognature caduti nelle fenditure nel corso dei millenni e entrati a far parte del mondo del perduto e del dimenticato.
Camminavano sui ciottoli e nel fango, nello sterco (sterco di cavallo e non solo) e su assi di legno marcio. Era un luogo in perenne trasformazione, e ogni sentiero si divideva, girava e si ripiegava su se stesso.
Mister Croup senti lo strattone del talismano e lasciò che lo portasse dove voleva.
Stavano percorrendo un minuscolo passaggio che un tempo aveva fatto parte di una «rookery» vittoriana (dei bassifondi composti in parti uguali di furto e gin, squallore da due soldi e sesso da tre), quando la udirono tirar su col naso e sbuffare da qualche parte, vicino. Poi ruggì.
Mister Croup esitò. In fondo al vicolo si fermò e si guardò intorno di sottecchi, prima di fare strada agli altri scendendo qualche gradino che portava a un lungo tunnel di pietra che una volta, all’epoca dei Templari, correva attraverso delle paludi, le Fleet Marshes.
«Hai paura, vero?» gli disse Porta.
Lui la guardò in cagnesco. «Tieni la lingua a posto.»
Lei sorrise, anche se di sorridere proprio non aveva voglia. «Hai il terrore che il tuo talismano salvacondotto non ti permetta di superare la Bestia. Cosa stai progettando? Di rapire Islington? Di venderci entrambi al migliore offerente?»
«Zitta» disse mister Vandemar.
Ma mister Croup si limitò a ridacchiare sotto i baffi, e in quel momento Porta seppe che l’Angelo Islington non era suo amico.
Allora cominciò a gridare. «Ehi! Bestia! Siamo qui! Iuu-huu! Signora Bestia!»
Mister Vandemar le diede uno schiaffo sulla testa e la sbatté contro il muro.
«Ti avevo detto di stare zitta» disse, dolcemente.
Sentiva in bocca il sapore del sangue e sputò rosso sul fango. Quindi apri la bocca per mettersi di nuovo a strillare. Mister Vandemar, anticipando la mossa, si era tolto di tasca un fazzoletto e glielo ficcò tra i denti. Lei cercò di mordergli un dito, ma la cosa non lo impressionò per niente.
«Adesso starai zitta» le disse.
Mister Vandemar era molto orgoglioso del suo fazzoletto, che era macchiato di verde, nero e marrone, e in origine, negli anni Venti, era appartenuto a un venditore di tabacco da fiuto alquanto sovrappeso morto di infarto e sepolto con il fazzoletto nel taschino. Ogni tanto mister Vandemar ci trovava ancora sopra qualche frammento di mercante di tabacco, ma ciò nonostante secondo mister Vandemar era comunque un bel fazzoletto.
Continuarono in silenzio.
Nel suo salone alla fine del labirinto, che era la sua cittadella e la sua prigione, l’Angelo Islington stava facendo una cosa che non faceva da molte migliaia di anni.
Ecco cosa stava facendo.
Cantava.
Aveva una voce bellissima, melodiosa e dolce. Come tutti gli angeli era perfettamente intonato.
Islington stava cantando una canzone di Irving Berlin. E mentre cantava, ballava, con movimenti e passi lenti e impeccabili, nel suo Gran Salone pieno di candele.
Heaven, cantava l’angelo, I’m in Heaven
son felice al punto che non lo so dir
perché ciò che voglio riuscirò ad aver
se ballando manterrò il mio savoir-faire.
Heaven, I’m in Heaven,
e i problemi spariranno tutti in fretta
quando avrò ottenuto il posto che mi spetta…
Smise di danzare quando raggiunse la porta nera nella sua stanza, la porta fatta di silice e argento annerito. Con infinita lentezza fece scorrere le dita lungo la porta, appoggiando la guancia sulla superficie gelida.
Poi continuò, più pacatamente, a cantare.
Heaven…
I’m in Heaven…
I’m in Heaven…
I’m in Heaven…
Quindi sorrise, dolcemente e teneramente, e il sorriso dell’Angelo Islington era una cosa terribile a vedersi.
Pronunciò le parole, ripetendole tra sé e sé, le sillabe sospese nell’aria dell’oscurità della sua stanza illuminata dalle candele.
«I’m in Heaven, sono in Paradiso» disse.
Richard stava aggiungendo un’altra annotazione al suo diario mentale. Caro Diario, pensava. Oggi sono sopravvissuto alla passeggiata sulla passerella, al bacio della morte e a una lezione sui calci.
Proprio in questo momento sto attraversando un labirinto con un pazzo bastardo che è risuscitato dalla morte e una guardia del corpo che si è rivelata essere una… qualunque cosa sia l’opposto di una guardia del corpo. Sono in acque talmente profonde per le mie possibilità che…
Gli sfuggi la metafora.
Stavano procedendo a fatica per uno stretto passaggio di terra bagnata e paludosa in mezzo a scuri muri di pietra.
Il Marchese portava sia il lasciapassare sia la balestra, e camminava tre metri dietro a Hunter.
Richard teneva la lancia e una torcia gialla che illuminava i muri e il fango. Camminava davanti a Hunter, ma a debita distanza. La palude puzzava, e grosse zanzare avevano cominciato a mordere Richard sulle braccia, sulle gambe e sul viso. Fino a quel momento né Hunter né il Marchese avevano minimamente menzionato le zanzare. Richard cominciava a sospettare che si fossero persi.
E il suo umore non veniva per nulla risollevato dal fatto che qui e là nella palude ci fossero dei morti: corpi coriacei ben conservati, ossa di scheletri e pallidi cadaveri. Si chiedeva da quanto fossero li, e se fossero stati uccisi dalla Bestia o dalle zanzare.
Lasciò passare altri cinque minuti e nove punture di zanzara, poi gridò, «Credo che ci siamo persi. Da qui siamo già passati.»
Il Marchese alzò il talismano. «No. Va tutto bene» disse. «Il pegno ci sta portando dritti alla meta. Cosetta intelligente.»
«Già» disse Richard ben poco impressionato. «Molto intelligente.»
Fu allora che il Marchese mise il piede nudo sulla gabbia toracica frantumata di un cadavere semi sepolto, che gli perforò il calcagno e lo fece inciampare. La statuina nera volò in aria e con un gran tonfo cadde nella palude. Il Marchese si rialzò e puntò la balestra alla schiena di Hunter. Al tallone destro provava una dolorosa sensazione di calore: si augurava di non essersi procurato un taglio profondo. Aveva già troppo poco sangue per potersi permettere di perderne altro.
«Richard!» gridò. «Mi è caduta. Puoi tornare qui?»
Richard tornò sui suoi passi, tenendo alta la torcia, sperando di scorgere il luccichio della fiamma sull’ossidiana ma non vedendo altro che fango bagnato.
«Scendi a vedere» disse il Marchese.
Richard emise un gemito.
«Hai sognato la Bestia, Richard» disse il Marchese. «Vuoi davvero incontrarla?»
Richard non dovette pensarci a lungo, quindi appoggiò la lancia di bronzo, infilò la torcia nel fango in modo che potesse rimanere dritta e illuminare la superficie della palude di una discontinua luce ambrata, poi si mise carponi nel pantano a cercare la statuetta.
Faceva scorrere le mani in superficie, sperando di non incontrare facce o mani morte.
«E impossibile. Potrebbe essere ovunque.»
«Continua a cercare» disse il Marchese.
«L’ho vista!» urlò Richard.
Si dibatté nel fango in direzione della statuina. La piccola bestia lucida si trovava in una pozza di acqua scura. Forse il fango era stato disturbato dall’approssimarsi di Richard; più probabilmente, secondo i suoi forti sospetti, si trattava solo della semplice predisposizione sanguinaria del mondo fisico. In ogni modo, era a poco più di un metro di distanza dalla statuetta quando la palude fece un rumore che pareva un gigantesco brontolio di stomaco, e un’enorme bolla di gas sali in superficie, scoppiando maleficamente e oscenamente accanto al talismano, che scomparve sottacqua.
Richard raggiunse il punto dove era affondato il pegno e infilò le braccia nel fango cercando di ritrovarlo. Tutto inutile. Era sparito.
«E adesso cosa facciamo?» domandò Richard.
Il Marchese sospirò. «Torna qui, e vedremo di inventarci qualcosa.»
Con tono pacato Richard disse, «Troppo tardi.»
Arrivava verso di loro cosi lentamente, cosi pesantemente. Questo fu il suo primo pensiero. Poi si accorse di quanto terreno riusciva a coprire, e comprese l’entità del suo errore nel considerarla lenta. A una decina di metri da loro la Bestia rallentò e si fermò. I suoi fianchi fumavano. Muggi, in segno di trionfo e di sfida.
Sui fianchi e sulla schiena erano conficcate lance spezzate, spade in frantumi e coltelli arrugginiti.
La gialla luce della torcia faceva scintillare gli occhi rossi, le zanne e le corna.
Abbassò la testa massiccia. Una specie di cinghiale? pensò Richard, poi si rese conto che era una sciocchezza: nessun cinghiale potrebbe essere cosi enorme. Aveva le dimensioni di un toro, di un elefante, di un sogno. Li fissava, fermandosi per un centinaio di anni, che si manifestarono in una decina di battiti del cuore.
Hunter si inginocchiò e sollevò la lancia dalla palude, dalla Fleet Marsh. Con una voce che era gioia allo stato puro, disse, «Si! Finalmente!»
Aveva dimenticato tutto e tutti; dimenticato Richard in mezzo al fango, e il Marchese con la sua stupida balestra, e il mondo. Era estasiata e rapita, in un luogo perfetto, il mondo per cui viveva. Il suo mondo conteneva due cose: Hunter e la Bestia.
Anche la Bestia lo sapeva. Era l’incontro perfetto, il cacciatore e il cacciato. E chi fosse chi, cosa fosse cosa, solo il tempo avrebbe potuto dirlo; il tempo e la danza.
La Bestia caricò.
Hunter attese di poter vedere la saliva uscirle dalla bocca, e mentre andava verso di lei la colpi, dal basso verso l’alto, con la lancia; ma sentendo come entrava la lancia, capì di avere tardato una frazione di secondo di troppo, e la lancia le scivolò dalle mani intorpidite. Una zanna più affilata della più affilata lama di rasoio le penetrò il fianco.
Cadendo sotto la bestia, ne senti gli zoccoli che le frantumavano il braccio, l’anca e le costole. Ed ecco, se ne era andata, svanita di nuovo nell’oscurità, e la danza si era conclusa.
Mister Croup si sentiva più sollevato di quanto avrebbe mai ammesso mentre si trovavano nel labirinto. Ma lui e mister Vandemar l’avevano attraversato indenni, e lo stesso sì poteva dire della loro preda.
Di fronte avevano una parete di roccia, con una porta di quercia e uno specchio ovale incastonato nella porta.
Mister Croup toccò lo specchio con una mano lurida.
Al tocco la superficie dello specchio si appannò. L’Angelo Islington guardò fuori.
Mister Croup si schiari la voce. «Buon giorno, signore. Siamo noi, e abbiamo la giovane signora che ci avete mandato a prendere.»
«E la chiave?» La dolce voce dell’angelo sembrava provenire da tutto intorno a loro.
«Pende dal suo collo di cigno» disse mister Croup, soddisfatto.
«Entrate» disse l’angelo.
Allora la porta si spalancò e entrarono.
Era successo tutto cosi in fretta. La Bestia era uscita dall’oscurità, Hunter aveva afferrato la lancia, poi la Bestia l’aveva caricata ed era tornata a scomparire nel buio.
Richard si sforzò di sentire la Bestia. Non riusciva a sentire nulla tranne, chissà dove, il lento plip, plip dell’acqua e l’acuto gemito delle zanzare.
Hunter giaceva sulla schiena. Un braccio era piegato a formare un angolo improbabile. Strisciò verso di lei attraverso il pantano.
«Hunter?» bisbigliò. «Mi senti?»
Un momento di esitazione, poi un sussurro tanto flebile che per un attimo pensò di esserselo immaginato. «Si.»
Il Marchese era ancora a qualche passo di distanza, in piedi accanto al muro. Gridò, «Richard — resta dove sei. Il mostro sta solo aspettando il momento buono. Tornerà.»
Richard lo ignorò e parlò a Hunter.
«Ti…» esitò. Gli sembrava una cosa tanto stupida da dire, ma la disse lo stesso. «Ti rimetterai presto?»
Lei rise, poi, le labbra chiazzate di sangue, scosse il capo.
«Non ci sono dei medici quaggiù?» domandò al Marchese.
«Hmm. Non nel senso che intendi tu. Abbiamo dei guaritori, una manciata di flebotomi e cerusici…»
In quel mentre Hunter tossì e sussultò. Una striscia di sangue rosso acceso le colava dall’angolo della bocca.
Il Marchese si avvicinò. «Tieni la tua vita nascosta da qualche parte, Hunter?» domandò.
«Sono un cacciatore» bisbigliò lei, sprezzante. «Non ci preoccupiamo di queste cose…» Con molto sforzo fece entrare aria nei polmoni, poi espirò, come se il semplice atto di respirare stesse diventando troppo faticoso. «Richard, hai mai usato una lancia?»
«No.»
«Prendila» bisbigliò.
«Ma…»
«Fallo!» La sua voce era bassa e pressante. «Sollevala. Tienila in mano dalla parte che non taglia.»
Richard sollevò la lancia caduta, reggendola all’estremità non affilata. «Fino a li ci arrivavo» le disse.
Il barlume di un sorriso le si diffuse sul volto. «Lo so.»
«Ascolta,» disse Richard sentendosi, non per la prima volta, come l’unica persona sensata in una gabbia di matti, «proviamo a starcene molto tranquilli. Forse se ne andrà. Poi potremo cercare qualcuno che ti aiuti.»
E, non per la prima volta, la persona a cui si rivolgeva lo ignorò completamente. «Ho fatto una brutta cosa, Richard Mayhew» sussurrò tristemente Hunter. «Ho fatto proprio una brutta cosa. Perché volevo essere io a uccidere la Bestia. Perché mi serviva la lancia.»
Poi, incredibilmente, cominciò a tirarsi su. Richard non si era accorto della gravità delle ferite, e ora non riusciva neppure a immaginare il dolore che doveva provare. Il braccio destro penzolava inerte, con un bianco frammento di osso che sporgeva orribilmente dalla pelle. Dal taglio nel fianco perdeva molto sangue. La gabbia toracica sembrava storta.
«Fermati!» sibilò inutilmente Richard. «Rimettiti giù!»
Con la mano sinistra aveva estratto un pugnale dalla cinta, se lo era messo nella mano destra, serrando le dita intorno al manico.
«Ho fatto una brutta cosa» ripeteva. «E ora faccio ammenda.»
Cominciò a cantichiare a bocca chiusa. Canticchiava acuto e canticchiava basso, finché trovò la nota che faceva risuonare i muri, i condotti e le stanze, e la tenne finché sembrò che l’intero labirinto riecheggiasse della sua voce. Poi, succhiando l’aria nella gabbia toracica in frantumi, urlò, «Ehi, ragazzona! Dove sei?»
Non accadde nulla. Nessun rumore tranne lo sgocciolio dell’acqua. Persino le zanzare facevano silenzio.
«Forse… se ne è andata…» disse Richard, che teneva la lancia tanto stretta da farsi male alle mani.
«Ne dubito» disse il Marchese.
«Vieni qui, bastarda» gridò Hunter. «Hai paura?»
Proprio davanti a loro si udì un ruggito sommesso, e la Bestia caricò di nuovo.
Questa volta non erano ammessi errori. La danza, pensò Hunter. La danza non è ancora finita.
E mentre la Bestia arrivava verso di lei, le corna abbassate, urlò, «Ora — Richard! Colpisci! Da sotto in su! Ora!» mentre la Bestia si abbatteva su di lei e le sue parole si tramutavano in un grido inesprimibile.
Richard vedeva la Bestia uscire dall’oscurità per entrare nella luce della torcia. Tutto accadeva con estrema lentezza.
Era come in un sogno.
Era come in tutti i suoi sogni.
La Bestia era cosi vicina che poteva sentirne la puzza animalesca di merda-e-sangue, cosi vicina che poteva percepirne il calore.
E allora colpi con la lancia, con tutta la forza che aveva, spingendo in su e spingendo in dentro.
Quindi un muggito, o un ruggito, di angoscia, di odio e di dolore. Poi, il silenzio.
Poteva sentire il cuore che gli batteva nelle orecchie. Poteva sentire l’acqua sgocciolare. Le zanzare ripresero a gemere.
Si rese conto di stare ancora tenendo stretta l’impugnatura della lancia, anche se la lama era profondamente sepolta nel corpo della Bestia. Lasciò la presa.
Cercò Hunter. Era rimasta intrappolata sotto la Bestia. Si mise a spingere più forte che poteva, per allontanare il caldo peso morto del mostro. Era come cercare di far partire a spinta un carro armato di cinquanta tonnellate, ma alla fine riuscì goffamente a toglierglielo di dosso, almeno in parte.
Hunter era sdraiata sulla schiena. Guardava in alto, il buio. Aveva gli occhi aperti ma in qualche modo Richard sapeva che non vedevano più.
«Hunter?» disse.
«Sono ancora qui, Richard Mayhew.» La sua voce pareva quasi distaccata. Non provò neanche a cercarlo con gli occhi, a mettere a fuoco. «È morta?»
«Credo di si. Non si muove.»
E allora Hunter scoppiò a ridere; era una risata strana — come se le avessero appena raccontato la barzelletta più divertente mai raccontata a un cacciatore. E tra una risata e un colpo di tosse, condivise la facezia anche con gli altri due. «Tu hai ucciso la Bestia» disse. «Quindi adesso sei il più grande cacciatore di Londra Sotto. Il Guerriero…» Poi smise di ridere. «Non mi sento le mani. Prendimi la mano destra.»
Richard frugò sotto il corpo della Bestia e mise la sua mano intorno a quella di Hunter.
«Ho ancora un pugnale tra le dita?» sussurrò.
«Si.» Lo toccava, era freddo e appiccicoso.
«Prendi il pugnale. È tuo.»
«Non voglio il tuo…»
«Prendilo.»
Le tolse di mano il pugnale.
«Ora è tuo» bisbigliò Hunter. Riusciva a muovere solo le labbra, mentre le si annebbiavano gli occhi. «Mi ha sempre protetta. Ripuliscilo dal mio sangue, però… La lama non deve arrugginire… Un cacciatore si prende cura delle sue armi.» Inghiottì un po’ d’aria. «Adesso… tocca il sangue della Bestia… mettitelo sugli occhi e sulla lingua…»
Richard non era certo di avere capito bene. «Cosa?»
Il Marchese gli parlò all’orecchio. Non si era accorto che fosse sceso fino a li anche lui. «Fallo, Richard. Ha ragione. Ti permetterà di attraversare il labirinto. Fallo.»
Richard abbassò la mano sulla lancia, la fece scorrere lungo l’impugnatura finché incontrò la calda vischiosità del sangue della Bestia. Sentendosi un po’ sciocco, si portò la mano sulla lingua e sugli occhi.
«L’ho fatto» disse a Hunter.
«Bene» sussurrò lei.
Poi non disse più nulla.
Il Marchese de Carabas allungò la mano e le chiuse gli occhi. Richard pulì il pugnale di Hunter sulla camicia. Era quello che gli aveva detto di fare. Gli evitava di pensare.
«Andiamo» disse il Marchese, alzandosi.
«Ma non possiamo lasciarla qui.»
«Possiamo. Potremo tornare dopo a prendere il corpo.»
Richard lucido al meglio la lama sulla camicia. «E se non c’è un dopo?»
«Allora potremo soltanto sperare che qualcuno trovi una degna sistemazione per tutte le nostre salme. Inclusa quella di Lady Porta. Che a quest’ora si sarà anche stancata di aspettarci.»
Richard abbassò lo sguardo. Tolse l’ultima traccia del sangue di Hunter dal pugnale, e se lo infilò nella cintura. Quindi fece un cenno di assenso.
«Tu vai» disse de Carabas. «Io ti seguo più in fretta che posso.» Richard esitò, poi, come meglio poteva, si mise a correre.
Forse era per il sangue della Bestia. Non riusciva a dare un’altra spiegazione. Quale che fosse il motivo, andò dritto e sicuro attraverso il labirinto, che per lui non aveva più segreti. Sentiva di conoscerne ogni svolta, ogni sentiero, ogni vicolo, strettoia o tunnel.
Corse, esausto, lungo il labirinto, il sangue che gli pulsava nelle tempie. Mentre correva aveva in testa una rima, che seguiva il ritmo dei passi. Era qualcosa che aveva sentito da bambino.
Notte, notte, sempre questa notte
Ogni notte per tutta la notte
Fuoco, fiamma e luce di candela
Cristo accolga la tua anima che anela.
Le parole continuavano a volteggiargli nella mente come un inno funebre. Fuoco, fiamma e luce di candela…
Alla fine del labirinto si elevava a picco una scogliera di granito, e nella rupe era inserita una porta di legno a due battenti. Su uno dei battenti era appeso uno specchio ovale.
La porta era chiusa. Toccò il legno, e al suo tocco la porta si apri silenziosamente.
Richard entrò.
DICIASSETTE
Richard segui un sentiero segnato da candele accese che attraverso un corridoio a vòlte lo portò al Gran Salone. Lo riconobbe. Era li che aveva bevuto il vino dell’angelo: un ottagono di piloni di ferro, l’enorme porta nera, il tavolo, le candele.
Porta era incatenata con braccia e gambe divaricate a due pilastri vicini alla porta di silice e argento. Mentre entrava lo fissò, gli occhi da folletto dallo strano colore enormi e spaventati.
L’Angelo Islington, che era in piedi accanto a lei, si voltò e gli sorrise. Era in assoluto la cosa più raggelante: la gentile compassione, la dolcezza di quel sorriso.
«Vieni, Richard Mayhew. Entra» disse l’Angelo Islington. «Povero me! Hai un aspetto davvero terribile.» La sua voce mostrava preoccupazione. Richard era riluttante.
«Ti prego.» L’angelo fece un gesto, piegando le dita, che lo invitava ad affrettarsi a entrare. «Penso ci conosciamo tutti. Naturalmente conosci Lady Porta, e i miei soci, mister Croup e mister Vandemar.»
Richard si girò. Croup e Vandemar erano al suo fianco, uno da una parte e uno dall’altra. Mister Vandemar gli sorrise. Mister Croup, no.
«Speravo proprio che saresti arrivato» disse l’angelo. Si toccò lievemente la fronte, quindi chiese, «A proposito, dov’è Hunter?»
«È morta» rispose Richard.
Sentì Porta sospirare.
«Oh, povera cara» commentò Islington. Scosse il capo, chiaramente rammaricato per l’insensata perdita di una vita umana, per la fragilità di tutti i mortali.
«Tuttavia» disse mister Croup «non si può fare una frittata senza uccidere un po’ di gente.»
Richard si sforzò di non fare caso a loro. «Porta? Stai bene?»
«Più o meno, grazie. Per ora.» Aveva il labbro inferiore gonfio e un livido sulla guancia.
«Purtroppo» disse Islington «la signorina Porta si è dimostrata un tantino intransigente. Stavo giusto decidendo se chiedere a mister Croup e a mister Vandemar di…» Esitò. Ovviamente c’erano termini che trovava sgradevole pronunciare.
«Torturarla» suggerì il servizievole mister Vandemar.
«Dopo tutto» aggiunse mister Croup «siamo famosi in ogni angolo del creato per la nostra abilità nell’arte della tortura.»
«Siamo bravi a far male alla gente» spiegò mister Vandemar.
L’angelo continuò come se non avesse udito nessuno dei due. «Comunque la signorina Porta non mi sembra una persona che cambia facilmente idea.»
«Dateci abbastanza tempo» disse mister Croup «e la spezziamo noi.»
«In tanti piccoli pezzettini umidicci» disse mister Vandemar.
Islington scosse il capo e sorrise con indulgenza a tale dimostrazione di entusiasmo. «Non c’è tempo,» disse rivolto a Richard «non c’è tempo. Tuttavia, mi sembra invece una persona che agisce per porre fine al dolore e alle sofferenze di un amico, di un mortale suo pari come te, Richard…»
Allora mister Croup colpi Richard allo stomaco, poi sferrò un violento colpo di taglio alla nuca.
Richard si piegò in due. Senti le dita di mister Vandemar sul collo che lo riportavano in posizione eretta.
«Ma è ingiusto!» esclamò Porta.
Islington sembrava pensoso. «Ingiusto?» disse, come se cercasse di ricordare il concetto.
Mister Croup si rivolse a Richard. «È andato cosi oltre ciò che è giusto e ciò che è ingiusto che non li saprebbe distingure neppure con un telescopio in una bella notte limpida» disse. «Ora, mister Vandemar, vuole fare lei gli onori di casa?» Mister Vandemar prese la mano sinistra di Richard nella sua. Trovò il mignolo e, con un unico rapido movimento, lo piegò all’indietro fino a spezzarlo.
Richard gridò.
L’angelo si voltò lentamente. Sembrava confuso. Socchiuse gli occhi scuri. «C’è qualcun altro là fuori, mister Croup?»
Nel punto in cui si trovava mister Croup si vide un oscuro scintillio, e lui non era più li.
Il Marchese de Carabas si era appiattito contro la parete di granito, fissando le porte di quercia che conducevano al rifugio di Islington.
Per la testa gli frullavano piani e macchinazioni. Aveva sempre pensato che una volta arrivato a quel punto avrebbe saputo cosa fare, e con grande disgusto stava scoprendo che invece non ne aveva la più pallida idea. Non c’erano altri favori da riscuotere, niente leve da spingere né pulsanti da premere.
Perciò fissava le porte. Forse sarebbe accaduto qualcosa. Dopo tutto aveva dalla sua l’effetto sorpresa.
Poi senti la lama di un coltello contro la gola e all’orecchio udi l’untuosa voce di mister Croup.
«Ti ho già ucciso una volta, oggi» diceva. «Certa gente non impara proprio mai.»
Quando mister Croup fece ritorno pungolando il Marchese de Carabas con il coltello, Richard era stato ammanettato e incatenato a due piloni di ferro.
L’angelo guardò il Marchese, poi, dolcemente, scosse la bella testa. «Mi avevate detto che era morto» disse.
«Lo è» disse mister Vandemar.
«Lo era» corresse mister Croup.
La voce dell’angelo era di una sfumatura meno dolce e meno gentile. «A me non si può mentire» disse.
«Noi non mentiamo» disse mister Croup, offeso.
«Si che lo facciamo» disse mister Vandemar.
Esasperato, mister Croup si passò una mano sudicia tra i capelli lerci. «Certo che lo facciamo, ma non questa volta.»
Il dolore alla mano di Richard non sembrava intenzionato a diminuire. «Come puoi comportarti cosi?» chiese rabbioso. «Sei un angelo.»
«Cosa ti ho detto prima, Richard?» domandò seccamente il Marchese.
Richard ci pensò un attimo. «Ha detto che anche Lucifero era un angelo.»
Islington scoppiò a ridere. «Lucifero? Lucifero era un idiota. Ha finito per diventare signore e padrone del nulla più assoluto.»
Il Marchese sogghignò. «E tu, invece, che hai finito per essere il signore e padrone di due farabutti e di una stanza piena di candele?»
L’angelo si inumidì le labbra. «Mi hanno detto che era la mia punizione per Atlantide. Io ho spiegato che non c’era nient’altro che potessi fare. Tutta quella faccenda è stata…» esitò, alla ricerca della parola giusta. «Uno sfortunato incidente.»
«Ma sono morte milioni di persone» disse Porta.
Islington unì le mani davanti al petto come stesse posando per un biglietto di auguri di Natale. «Queste cose accadono» spiegò con tono equilibrato. «Di città che sprofondano si ha notizia ogni giorno.»
«E tu non c’entravi per niente?» chiese garbatamente il Marchese.
In un periodo di fatti impressionanti e spaventosi, questo fu il più terribile a cui a Richard era capitato di assistere. La serena bellezza dell’angelo si incrinò, e con gli occhi fiammeggianti si mise a urlare contro di loro, spaventosamente pazzo e del tutto privo di autocontrollo, «Se lo sono meritato!»
Era come se fosse stato scoperchiato qualcosa di oscuro e fremente: un pozzo di sconvolgimento, di furia e di estrema malvagità.
Ci fu un istante di silenzio, poi l’angelo abbassò la testa, la sollevò di nuovo e disse, con voce pacata e sfiorata dal rammarico, «Proprio una di quelle cose.» Quindi puntò il dito verso il Marchese e disse, «Incatenatelo.»
Croup e Vandemar chiusero le manette intorno ai polsi del Marchese e lo incatenarono saldamente ai piloni accanto a Richard. L’angelo aveva rivolto la sua attenzione su Porta. Le si era avvicinato, aveva allungato una mano e, mettendogliela sotto il mento, le aveva alzato il viso, per guardarla negli occhi. «La tua famiglia» disse, dolcemente. «Tu provieni da una famiglia davvero notevole. Davvero notevole.»
«E allora perché hai voluto ucciderci?»
«Non tutti» disse. Richard pensava stesse parlando di Porta, ma poi aggiunse, «C’era sempre la possibilità che tu potessi non… operare bene come invece hai fatto.»
Le lasciò il mento e le accarezzò il viso con un lungo dito bianco, quindi disse, «Quelli della tua stirpe possono aprire porte. Possono creare porte dove non ce ne sono. Possono aprire porte sprangate. Aprire porte che non erano state fatte per essere aperte.» Le fece scorrere le dita sulla nuca, dolcemente, come in una lunga carezza, poi strinse le dita attorno alla catena che portava al collo.
«Quando sono stato condannato a rimanere qui, mi hanno dato la porta della mia prigione. Quindi hanno preso la chiave della porta e hanno messo quaggiù anche lei. Una raffinata forma di tortura.»
Con gentilezza tirò la catena, estraendola da sotto gli strati di seta, pizzo e cotone di Porta, rivelando la chiave d’argento; poi fece scorrere le dita sulla chiave, come stesse esplorando luoghi segreti.
Allora Richard comprese. «Quindi i Frati Neri la tenevano al sicuro da te» disse.
Islington lasciò la chiave. Accanto a Porta c’era la porta di silice e argento. L’angelo la raggiunse e ci appoggiò sopra una mano, bianca contro il nero della pietra.
«Da me» convenne Islington. «Una chiave. Una porta. Un apritore della porta. Dovevano esserci tutti e tre, vedete — un tipo di scherzo di gran classe. L’idea era che quando avessero stabilito che mi ero guadagnato il perdono e la libertà, mi avrebbero mandato un apritore e consegnato la chiave. Solo che io ho deciso di prendere in mano la faccenda e di andarmene un po’ prima.»
Tornò da Porta. Di nuovo accarezzò la chiave. Poi serrò la mano sul piccolo oggetto d’argento e tirò con forza. La catena si spezzò di colpo e Porta trasalì.
«Ho parlato con tuo padre, Porta» continuò l’angelo. «Si preoccupava per il Mondo di Sotto. Voleva unire Londra Sotto, unire baronie e feudi — forse addirittura creare qualche tipo di legame con Londra Sopra. Gli ho detto che l’avrei aiutato se lui avesse aiutato me. Quando gli ho spiegato la natura dell’aiuto di cui avevo bisogno, mi ha riso in faccia.» Ripeté le parole come se ancora non riuscisse a crederci. «Ha riso. In faccia a me.»
Porta scosse il capo. «E l’hai ucciso perché si è rifiutato di aiutarti?»
«Non l’ho ucciso» disse Islington, con infinita dolcezza. «L’ho fatto uccidere.»
«Ma mi ha detto che potevo fidarmi di te. Mi ha detto di venire qui. Nel suo diario.»
Mister Croup cominciò a ridere scioccamente. «Non l’ha fatto» disse. «Non l’ha mai fatto. Siamo stati noi. Cosa diceva in realtà, mister Vandemar?»
«Non fidarti di Islington» disse mister Vandemar con la voce di Portico. Era un’imitazione perfetta. «C’è Islington dietro a tutto questo. È pericoloso, Porta — tieniti lontana da lui…»
Islington le accarezzò la guancia con la chiave. «Pensavo che la mia versione ti avrebbe fatta arrivare qui un po’ più in fretta.»
«Abbiamo preso il diario,» disse mister Croup «l’abbiamo sistemato, poi l’abbiamo riportato al suo posto.»
«Dove si va superando quella porta?» gridò Richard.
«A casa» disse l’angelo.
«In Paradiso?»
E Islington non rispose, però sorrise, come sorride un gatto che non ha divorato solo la panna e il canarino, ma anche il pollo pronto per la cena e la crème brûlée prevista per dessert.
«Quindi pensi che non si accorgeranno che sei tornato?» sogghignò il Marchese. «Giusto un ’Oh, guarda, c’è un altro angelo, tieni, prendi un’arpa e diamoci dentro con gli osanna’?»
Gli occhi di Islinton erano splendenti. «Non fa per me la tranquilla agonia dell’adulazione, degli inni, delle aureole e delle preghiere egoiste» disse. «Io ho… il mio programma.»
«Be’, adesso hai la chiave» disse Porta.
«E ho te» disse l’angelo. «Tu sei l’apritore. Senza di te la chiave è inutile. Apri per me quella porta.»
«Le hai ucciso la famiglia,» intervenne Richard «l’hai fatta inseguire per tutta Londra Sotto. Adesso vorresti che ti aprisse la porta per permetterti di invadere da solo il Paradiso? Non sei molto bravo a giudicare il carattere delle persone, vero? Non lo farà mai.»
Allora l’angelo lo guardò con occhi molto più antichi della Via Lattea. Poi disse, «Ah, povero me» quindi gli voltò le spalle quasi fosse impreparato a vedere il fatto spiacevole che stava per verificarsi.
«Gli faccia ancora male, mister Vandemar» disse mister Croup. «Gli tagli un’orecchio.»
Mister Vandemar sollevò una mano. Era vuota. Contrasse impercettibilmente il braccio ed ecco, reggeva un coltello.
«Te l’avevo detto che un giorno avresti scoperto che sapore ha il tuo stesso fegato» disse. «Sembra proprio che la tua giornata fortunata sia oggi.»
Fece scivolare dolcemente la lama del coltello sotto il lobo dell’orecchio di Richard, che non senti dolore — forse, pensò, ne aveva già provato anche troppo quel giorno, forse la lama era troppo affilata per far male. Però sentiva gocciolare il sangue, bagnato, che dall’orecchio scendeva sul collo.
Porta lo osservava, e il visino da elfo con gli enormi occhi dallo strano colore occupavano completamente il campo visivo di lui. Provò a inviarle un messaggio mentale. Tieni duro. Non permettere che te lo facciano fare. Starò bene.
Poi mister Vandemar diede una lieve pressione al coltello, e Richard cominciò a gridare.
«Fermali!» disse Porta. «Aprirò la tua porta.»
Islington fece un rapido gesto, e mister Vandemar, sospirando pietosamente, mise via il coltello. Il sangue caldo gocciolava lungo il collo di Richard e gli formava una pozza nell’incavo dell’osso della spalla.
Mister Croup si avvicinò a Porta e apri le manette che le bloccavano la mano destra. Lei, incorniciata dai piloni, rimase in piedi massaggiandosi il polso. La mano sinistra era ancora incatenata, ma ora godeva di una certa libertà di movimento. Tese la mano per farsi dare la chiave.
«Ricorda» disse Islington «che ho i tuoi amici.»
Lei lo guardò con profondo disprezzo, in tutto e per tutto figlia maggiore di Lord Portico. «Dammi la chiave» disse.
L’angelo le consegnò la chiave d’argento.
«Porta!» gridò Richard. «Non farlo. Non liberarlo. Noi non contiamo!»
«In verità,» disse il Marchese de Carabas «io conto eccome. Ma devo comunque dirmi d’accordo. Non lo fare.»
Lo sguardo della ragazza passò da Richard al Marchese, i suoi occhi indugiarono sulle loro mani legate, sulle pesanti catene che li inchiodavano ai neri piloni di ferro. Pareva molto vulnerabile; poi distolse lo sguardo e camminò fino a dove le permetteva la catena, fino a trovarsi davanti alla porta nera costruita con silice e argento.
Non c’era buco della serratura. Appoggiò il palmo della mano destra sulla porta e chiuse gli occhi. Quando tolse la mano, nel punto dove l’aveva posata si trovava un buco di serratura, attraverso cui filtrava una luce bianca che contrastava con il buio del salone.
La ragazza infilò la chiave d’argento nella toppa. Ci fu un momento di pausa, poi fece scattare la serratura. Qualcosa fece click e si udì un suono armonioso, e all’improvviso la porta fu incorniciata di luce.
«Quando me ne sarò andato,» disse l’angelo a mister Croup e a mister Vandemar, con voce fascinosa, dolce e compassionevole, «uccideteli tutti nel modo che preferite.»
Tornò a guardare la porta, che Porta stava aprendo a fatica. Si apriva molto lentamente, come se la ragazza incontrasse resistenza. Sudava copiosamente.
«Quindi il vostro principale se ne va» disse il Marchese a mister Croup. «Spero che abbia pagato entrambi quanto pattuito.»
Croup guardò il Marchese con attenzione e disse, «Cosa?»
«Be’,» disse Richard cogliendo la palla al balzo, «non penserete certo di rivederlo, giusto?»
Mister Vandemar socchiuse lentamente gli occhi e disse, «Cosa?»
Mister Croup si grattò il mento. «I futuri cadaveri hanno fatto un’osservazione opportuna» disse a mister Vandemar. Andò verso l’angelo, che stava a braccia incrociate davanti alla porta. «Signore? Sarebbe saggio se poteste regolare i conti, prima di intraprendere la prossima tappa del vostro viaggio.»
L’angelo si voltò, e lo guardò dall’alto in basso come se fosse meno importante del più minuscolo granellino di polvere. Poi allontanò lo sguardo. Richard si chiedeva cosa stesse contemplando.
«Non ha alcuna rilevanza, ora» disse l’angelo. «Presto, tutte le ricompense che le vostre piccole e rivoltanti menti possono concepire vi saranno date. Quando avrò il mio trono.»
«Per la marmellata, ripassate domani, eh?» commentò Richard.
«Non mi piace la marmellata» disse mister Vandemar. «Mi fa ruttare.»
Mister Croup agitò un dito verso mister Vandemar. «Vuole truffarci» disse. «Non si viene meno a un impegno con mister Croup e mister Vandemar, caro il mio millantatore. Noi i nostri crediti li recuperiamo.»
Mister Vandemar si avvicinò a mister Croup. «Completamente» disse.
«Con gli interessi» abbaiò mister Croup.
«E con ganci da macellaio» aggiunse mister Vandemar.
«Dal Paradiso?» gridò Richard alle loro spalle.
Mister Croup e mister Vandemar si diressero verso l’angelo in contemplazione. «Ehi!» disse mister Croup.
La porta si era socchiusa, solo uno spiraglio, ma era socchiusa. Dalla fessura irrompeva una forte luce. L’angelo fece un passo avanti. Era come se stesse sognando a occhi aperti. La luce proveniente da dietro la porta gli bagnava il viso e lui la beveva quasi fosse vino.
«Non temete» disse. «Perché quando la vastità della creazione sarà mia, e tutti si raduneranno intorno al mio trono per cantare osanna al mio nome, ricompenserò i meritevoli e abbatterò quanti mi sono odiosi alla vista.»
Poi, sottovoce, mormorò qualcos’altro. Richard non avrebbe mai saputo per certo cosa avesse detto, anche se in seguito affermò che sembrava proprio qualcosa come, «Quel dannato Gabriele, tanto per cominciare.»
Con uno sforzo, Porta spalancò la porta nera.
Ciò che si vedeva attraverso di essa era di un’intensità accecante: un turbinante vortice di luce e di colore. Richard socchiuse gli occhi e voltò la testa per non fissare quel bagliore. Allora è cosi il Paradiso? Sembra piuttosto l’Inferno.
Quindi senti il vento.
Una candela quasi gli sfiorò la testa e scomparve oltre la porta. Poi un’altra. Poi l’aria fu piena di candele, che ruotavano e rotolavano nel vento in direzione della luce. Era come se l’intera stanza stesse per essere risucchiata attraverso la porta. Non si trattava solo di vento, Richard lo sapeva. Era molto di più. Nel punto in cui era ammanettato cominciarono a dolergli i polsi — come se all’improvviso il suo peso fosse raddoppiato. Poi la sua prospettiva cambiò. La vista che si godeva guardando oltre la porta — si guardava verso il basso: non era soltanto il vento a trascinare tutto in quella direzione. Era la forza di gravità. Il vento si era creato semplicemente perché l’aria nel salone veniva risucchiata in un altro luogo oltre la porta. Si chiese cosa ci fosse da quel lato — la superficie di una stella, il liscio orizzonte di un buco nero o qualcosa che non era neppure in grado di immaginare.
Islington afferrò il pilone a lato della porta e ci si aggrappò disperatamente.
«Questo non è il Paradiso» urlò l’angelo. «Tu, piccola pazza strega! Cos’hai fatto?»
Porta stringeva forte le sue catene, facendosi diventare bianche le nocche. Non disse nulla, ma aveva il trionfo negli occhi.
Mister Vandemar aveva afferrato una gamba del tavolo, mentre mister Croup aveva a sua volta afferrato mister Vandemar.
«Non era la chiave vera» spiegò Porta trionfante, superando il ruggito del vento. «Si trattava di una copia che ho fatto fare a Fabbroferraio la sera del mercato.»
«Ma ha aperto la porta» gridò l’angelo.
«No» disse la ragazza con gli occhi dallo strano colore. «Ho aperto una porta. Ce l’ho messa davvero tutta, e ho aperto una porta.»
Sul volto dell’angelo era scomparsa ogni traccia di dolcezza o di compassione; era rimasto solo odio, puro, semplice e freddo. «Ti ucciderò» disse.
«Come hai ucciso la mia famiglia? Penso proprio che non ucciderai mai più nessuno.»
L’angelo si teneva attaccato al pilone con le dita pallide, ma il suo corpo formava un angolo di novanta gradi con la stanza ed era in buona parte già oltre la porta. Appariva allo stesso tempo comico e orribile. Si inumidi le labbra. «Ferma tutto questo!» supplicò. «Chiudi la porta! Ti dirò dov’è tua sorella… È ancora viva…»
Porta trasalì.
E Islington fu risucchiato fuori dal Salone, una minuscola figura che precipita e rimpicciolisce man mano che cade a capofitto nell’accecante abisso sottostante.
La forza d’attrazione diventava sempre più intensa. Richard pregava che manette e catene reggessero: si sentiva risucchiare verso il varco e, con la coda dell’occhio, poteva vedere il Marchese che penzolava appeso alle catene come un burattino risucchiato da un aspirapolvere.
Il tavolo, alla cui gamba era strettamente avvinghiato mister Vandemar, volò nell’aria e andò a incastrarsi nel vano della porta. Mister Croup e mister Vandemar oscillavano all’esterno. Mister Croup, che si aggrappava letteralmente alle code dell’abito di mister Vandemar, fece un respiro profondo e cominciò lentamente ad arrampicarsi con mani e piedi sulla schiena di mister Vandemar.
Il tavolo scricchiolò.
Mister Croup guardò Porta e le dedicò un acido sorriso volpino. «Io ho ucciso la tua famiglia, non lui. E ora — finalmente — sto per finire il…»
Fu in quel momento che la stoffa del completo scuro di mister Vandemar cedette. Urlando, mister Croup rotolò nel vuoto, con ben stretta in mano una lunga striscia di stoffa nera.
Mister Vandemar guardò in basso verso la sagoma di mister Croup che agitava disperatamente le braccia mentre precipitava lontano da loro. Anche lui rivolse uno sguardo a Porta, ma in quello sguardo non c’era niente di minaccioso. Si strinse nelle spalle, per quanto possa stringersi nelle spalle uno che cerca di salvarsi la pelle tenendosi avvinghiato a una gamba di tavolo, poi, con dolcezza, disse, «Ciao» e lasciò la presa.
Silenziosamente precipitò oltre la porta, nella luce, rimpicciolendo nella caduta, in direzione della minuscola sagoma di mister Croup. Presto non furono che un unico puntino nero in un mare di luce ribollente. Poi, anche il puntino scomparve.
In qualche modo aveva senso, pensò Richard: dopo tutto erano una squadra.
Respirare stava diventando sempre più faticoso. Richard si sentiva stordito e in preda alle vertigini.
Il tavolo nel vano della porta si spaccò e fu risucchiato dall’altra parte.
Una delle manette di Richard si era aperta, e il suo braccio destro ondeggiava libero. Con tutta la forza che riusci a trovare afferrò la catena che legava la mano sinistra, grato del fatto che il dito rotto appartenesse alla mano ancora stretta dalle manette. Anche cosi, lampi di dolore blu e rossi gli percorrevano il braccio sinistro. Poteva sentirsi urlare.
Non riusciva a respirare. Macchie di luce bianca gli esplosero dietro gli occhi.
Sentiva che la catena cominciava a cedere…
Il rumore della porta nera che si richiudeva violentemente riempi tutto il suo mondo.
Richard ricadde di peso contro il pilone e crollò a terra. Nel salone regnava il silenzio; silenzio e totale oscurità, nel Gran Salone sotto la terra.
«Allora, dove li hai mandati?» Era la voce del Marchese.
Quindi Richard udì la voce di una ragazza. Sapeva che doveva essere quella di Porta, ma sembrava cosi giovane, quella di un bambino piccolo all’ora di andare a dormire. «Non lo so. Molto lontano. Sono… sono tanto stanca adesso. Io…»
«Porta,» disse il Marchese «cerca di scuoterti.» Era giusto che lo dicesse, pensò Richard. Qualcuno doveva farlo. E Richard non ricordava più come si fa a parlare.
Si udì un click, nel buio: il rumore di manette che si aprono, seguito dal rumore di catene che cadono contro un pilone di metallo. Poi il rumore di un fiammifero che viene strofinato su una superficie ruvida. Una candela si accese: faceva una luce molto debole e ondeggiava nell’aria leggera.
Fuoco, fiamma e luce di candela, pensò Richard, senza però riuscire a ricordare perché.
Con passo malfermo, Porta si diresse verso il Marchese, tenendo in mano la candela. Allungò l’altra mano, toccò le catene, e le manette si aprirono con un click. Lui si massaggiò i polsi.
Poi la ragazza andò da Richard e sfiorò le manette ancora chiuse. Si aprirono. Porta sospirò e si mise a sedere accanto a lui. Richard allungò un braccio e prese a cullarla, tenendola stretta a sé. La cullava lentamente avanti e indietro, canticchiando a mezza voce un ninna nanna senza parole.
Faceva freddo, molto freddo, là nel vuoto salone dell’angelo; presto, però, il calore della perdita di coscienza si impadroni di entrambi, avvolgendoli.
Il Marchese de Carabas guardava i bambini dormire. L’idea del sonno — di tornare, anche per un breve periodo, a uno stato tanto orribilmente vicino alla morte — lo spaventava più di quanto avrebbe mai creduto possibile. Alla fine, però, anche lui appoggiò la testa su un braccio e chiuse gli occhi.
E allora non ci fu più nessuno.
DICIOTTO
Lady Serpentine che, escludendo Olympia, era la maggiore delle Sette Sorelle, camminava lungo il labirinto, gli stivali bianchi che sguazzavano nel fango. Da oltre un centinaio di anni non si allontanava tanto da casa. Il suo maggiordomo dal vitino di vespa, vestita dalla testa ai piedi di pelle nera, procedeva davanti a lei reggendo una grossa lanterna da carrozza. Altre due donne vestite in modo simile la seguivano a rispettosa distanza.
Lo strascico di pizzo strappato dell’abito di Serpentine strisciava nel pantano, ma lei non ci badava. Alla luce della lanterna scorse qualcosa di scintillante e, accanto a quel qualcosa, una sagoma voluminosa.
«Eccola» disse.
Le due donne che la seguivano si affrettarono a correre avanti, nella palude, e all’avvicinarsi della donna con la lampada le ombre si trasformarono in oggetti. Il baluginio proveniva da una lunga lancia di bronzo. Il corpo di Hunter, freddo e in condizioni pietose, giaceva sulla schiena, semi sepolto sotto il cadavere di un enorme animale. Aveva gli occhi chiusi.
Le donne di Serpentine estrassero il corpo da sotto la Bestia e lo adagiarono nel fango.
Serpentine si inginocchiò nel pantano e fece scorrere un dito lungo la guancia gelida di Hunter, fino a sfiorare le labbra nere di sangue. Li indugiò qualche istante, poi si alzò.
«Prendete la lancia» disse.
Una delle donne sollevò il corpo di Hunter, l’altra strappò la lancia dalla carcassa della Bestia e se la mise in spalla.
Quindi le quattro figure si voltarono e ripercorsero la strada da cui erano venute; una processione silenziosa nelle profondità sotto il mondo.
Mentre camminavano, la luce della lanterna tremolava sul viso devastato di Serpentine, che però non rivelava alcuna emozione, né felicità né tristezza.
DICIANNOVE
Per un momento non avrebbe proprio saputo dire chi era. Si trattava di una sensazione estremamente liberatoria, quasi avesse la possibilità di essere qualunque cosa desiderasse: chiunque in assoluto — provare nuove identità. Poteva essere un uomo o una donna, un ratto o un uccello, un mostro o un dio.
Poi qualcuno produsse un fruscio, e si svegliò senza avere terminato l’elenco. Era Richard Mayhew, chiunque egli fosse, qualunque cosa ciò significasse.
Era Richard Mayhew e non sapeva dove si trovava. Il suo viso premeva contro del ruvido lino, e aveva male dappertutto. In alcuni punti — il mignolo della mano sinistra, per esempio — più che in altri.
Vicino a lui c’era qualcuno. Sentiva respirare.
Sollevò la testa, e nel farlo scopri altri punti dolenti. Alcuni dolevano molto, molto forte.
Lontano — a camere e camere di distanza — delle persone cantavano. Il suono era cosi sfocato e sommesso che sapeva che l’avrebbe perduto se avesse aperto gli occhi: un salmodiare profondo e melodioso…
Aprì gli occhi. La stanza era piccola e scarsamente illuminata. Si trovava su un letto basso e il fruscio che aveva udito era prodotto da una figura incappucciata vestita di nero che gli dava le spalle. L’individuo stava spolverando la stanza con un piumino dai colori accesi e bizarri.
«Dove sono?» chiese Richard.
La figura in nero si voltò, rivelando un volto magro, molto nervoso e di un color bruno intenso. «Vuole dell’acqua?» domandò, come uno a cui è stato spiegato che se il paziente dovesse svegliarsi bisogna chiedergli se vuole dell’acqua e che negli ultimi venti minuti si è ripetuto in continuazione la frase, per essere certo di non dimenticarsene.
«Io…» e Richard si rese conto di avere una sete terribile. Si mise a sedere sul letto. «Si, per favore. Grazie mille.»
Da una caraffa di metallo il frate versò un po’ d’acqua in una malconcia tazza, sempre di metallo, che passò a Richard. Lui sorseggiò con lentezza, resistendo all’impulso di inghiottirla tutta in una volta. Era fresca e cristallina, come di sorgente.
Richard abbassò lo sguardo. I suoi abiti erano spariti. Era stato vestito con qualcosa di lungo, simile al saio dei Frati Neri ma grigio. Il dito rotto era stato steccato e bendato con cura.
Si portò un dito all’orecchio, su cui c’era un cerotto appiccicoso. Sotto il cerotto, quelli che al tatto sembravano punti.
«Sei uno dei Frati Neri?» disse Richard.
«Si, signore.»
«Come sono arrivato qui? Dove sono i miei amici?»
Il frate indicò il corridoio, senza pronunciare parola e con aria nervosa.
Richard scese dal letto. Controllò sotto la veste grigia: era nudo. Petto e gambe erano coperti da innumerevoli lividi violacei, che sembravano essere stati trattati con un unguento non meglio identificato: odorava di sciroppo per la tosse e toast imburrato. Aveva un ginocchio bendato. Si chiedeva dove fossero andati a finire i suoi abiti. Accanto al letto c’erano dei sandali, e se li infilò. Quindi usci dalla stanza.
Nel corridoio vide l’Abate che si stava dirigendo verso di lui, gli occhi ciechi di un bianco perlaceo nell’oscurità al di sotto del cappuccio. Si appoggiava al braccio di fratello Caliginoso.
«Allora sei sveglio, Richard Mayhew» disse l’Abate. «Come ti senti?»
Richard fece una smorfia. «La mano…»
«Ti abbiamo sistemato il dito. Era rotto. Ti abbiamo curato tagli e lividi. Poi avevi bisogno di riposo, che ti abbiamo procurato.»
«Dov’è Porta? E il Marchese? Come siamo arrivati qui?»
«Vi ho portato qui io» disse l’Abate. I due frati iniziarono a camminare lungo il corridoio, e Richard camminava con loro.
«Hunter» disse Richard. «Avete recuperato il suo corpo?»
L’Abate scosse il capo. «Non c’era alcun corpo. Solo la Bestia.»
«Ah, hmm. I miei vestiti…»
Giunsero alla porta di una cella, molto simile a quella in cui Richard si era svegliato. Porta se ne stava seduta sul bordo del letto, leggendo una copia di Mansfìeld Park che Richard era certo i frati non avessero mai saputo di possedere. Anche la ragazza indossava un saio grigio dei monaci. Era infinitamente troppo grande per lei, in modo quasi comico. Quando entrarono alzò la testa. «Ciao» disse. «Hai dormito per secoli! Come ti senti?»
«Bene, credo. E tu?»
Lei sorrise, ma non era un sorriso molto convincente. «Un po’ debole» disse.
Nel corridoio si udì uno sferragliare. Richard si voltò e vide il Marchese de Carabas che arrivava verso di loro a bordo di una vecchia e traballante poltrona a rotelle spinta da un Frate Nero grande e grosso. Si chiese come il Marchese riuscisse a far sembrare una romantica smargiassata anche il fatto di essere spinto su una sedia a rotelle.
Il Marchese li onorò di un immenso sorriso.
«Buona sera a lor signori… e signora» disse.
«Bene» commentò l’Abate. «Ci siete tutti. Dobbiamo parlare.»
Li condusse in una stanza molto ampia, riscaldata da un crepitante fuoco di eterogenei frammenti di legno. Si disposero intorno a un tavolo. Con un gesto, l’Abate li invitò a mettersi a sedere, e lui stesso cercò la sua sedia con la mano e si accomodò. Poi mandò fuori dalla stanza fratello Caliginoso e fratello Tenebre (che era colui che spingeva la poltrona a rotelle del Marchese).
«Dunque» disse l’Abate «al lavoro. Dov’è Islington?»
Porta si strinse nelle spalle. «Nel luogo più lontano in cui sono riuscita a mandarlo. A metà strada nello spazio-tempo.»
«Capisco» disse l’Abate. Quindi aggiunse, «Bene.»
«Perché non ci avete messi in guardia contro di lui?» chiese Richard.
«Non era compito nostro.»
«Allora,» disse Richard «adesso cosa succede?»
L’Abate non rispose.
«In che senso?» domandò Porta.
«Be’, tu volevi vendicare la tua famiglia. E l’hai fatto. E hai spedito tutti quelli che erano coinvolti in un qualche angolo remoto del nulla. Voglio dire, nessuno cercherà più di ucciderti, giusto?»
«Non per il momento» disse Porta, tutta seria.
«E lei?» Richard domandò al Marchese. «Ha avuto ciò che voleva?»
Il Marchese annui. «Ritengo di si. Il mio debito nei confronti di Lord Portico è stato pagato, e Lady Porta mi deve un favore di una certa importanza.»
Richard guardò Porta, che fece un cenno di assenso.
«Bene, e io?» chiese.
«Be’,» disse Porta «non ce l’avremmo fatta senza di te.»
«Non è questo che intendevo. Che ne è della mia possibilità di tornare a casa?»
Il Marchese inarcò un sopracciglio. «Chi pensi che sia lei — il Mago di Oz? Non possiamo rimandarti a casa. La tua casa è questa.»
Porta disse, «Ho già cercato di spiegartelo, Richard.»
«Ci deve essere un modo!» e picchiò con forza la mano sinistra sul tavolo, per dare maggiore enfasi alle parole. Poi aggiunse, «Ahi! » perché picchiare la mano sul tavolo per dare maggiore enfasi non è la cosa più saggia da fare quando si ha un dito rotto.
«Prova a crescere!» disse il Marchese.
Richard si massaggiò la mano. Lo spirito combattivo l’aveva abbandonato.
«Dov’è la chiave?» chiese l’Abate.
Richard inclinò la testa. «Porta» disse.
Lei scosse il capo. «Non ce l’ho io» spiegò. «Te l’ho fatta scivolare in tasca dopo l’ultimo mercato.»
Richard apri la bocca, poi la richiuse di nuovo. Quindi la riapri e disse, «Vuoi dire che quando ho detto a Croup e Vandemar che l’avevo io e che potevano anche perquisirmi… ce l’avevo davvero?»
Porta annui. Adesso Richard ricordava l’oggetto duro nella tasca posteriore, in Down Street; ricordava come la ragazza l’aveva abbracciato quando era tornato con le pietanze al curry, sulla nave.
«Capperi!» esclamò Richard.
L’Abate allungò una mano. Le rugose dita marrone trovarono un piccolo campanello sul tavolo, che agitarono per chiamare fratello Caliginoso.
«Portami i calzoni del Guerriero» disse.
Caliginoso fece un cenno di assenso e usci.
«Io non sono un guerriero» affermò Richard.
L’abate sorrise dolcemente. «Hai ucciso la Bestia. Sei il Guerriero.»
Esasperato, Richard si mise a braccia conserte. «Quindi, dopo tutto questo, continuo a non poter tornare a casa, ma come premio di consolazione sono stato inserito in una qualche arcaica lista delle onorificenze sotterranee?»
Il Marchese sembrava del tutto indifferente. «Non puoi tornare a Londra Sopra. Sono pochi gli individui che riescono a condurre una sorta di vita a metà — hai incontrato Iliaster e Lear — ma questo è il massimo a cui puoi aspirare.»
Porta allungò la mano e accarezzò il braccio di Richard. «Mi dispiace» gli disse. «Ma guarda quanto bene hai fatto. Sei tu che hai preso la chiave.»
«Già» ribatté lui. «Ma a cosa è servito? Ti è bastato forgiarne una nuova…»
Era riapparso fratello Caliginoso, e portava i calzoni di Richard; erano coperti di fango e sangue secco, e puzzavano. Il frate diede i pantaloni all’Abate, che iniziò a cercare nelle tasche.
Porta sorrideva. «Fabbroferraio non avrebbe potuto fare una copia, senza l’originale.»
L’Abate si schiari la voce. «Siete tutti molto sciocchi» disse loro, con condiscendenza. «E non sapete proprio un bel niente.»
Teneva in mano la chiave d’argento, che brillava ai bagliori del fuoco. «Richard ha superato la Prova della Chiave. Ne è lui il padrone, fino a quando la porrà di nuovo sotto la nostra custodia. La chiave ha un grande potere.»
«È la chiave per il Paradiso…» disse Richard, incerto su quello a cui voleva alludere l’Abate.
La voce del vecchio era profonda e melodiosa. «E la chiave per ogni realtà. Se Richard vuole tornare a Londra Sopra, allora la chiave ce lo riporterà.»
«È cosi semplice?» chiese Richard.
Il vecchio frate fece un cenno di assenso con gli occhi ciechi, nell’ombra del suo cappuccio.
«E quando possiamo farlo?» domandò Richard.
«Appena sei pronto» rispose l’Abate.
Prima di restituirglieli, i frati gli avevano lavato e rattoppato i vestiti. Fratello Caliginoso lo condusse attraverso l’abbazia, per una vertiginosa serie di scale e scalini, per salire fino alla torre campanaria. In cima alla torre c’era una botola. La attraversarono e si ritrovarono in uno stretto tunnel, con una serie di gradini di metallo inseriti nel muro su un lato della galleria. Salirono lungo quel muro e giunsero su una banchina della metropolitana piuttosto buia.
NIGHTINGALE LANE
dicevano i vecchi cartelli sulle pareti. Fratello Caliginoso augurò buona fortuna a Richard e gli disse di attendere, che sarebbero passati a prenderlo. Lui rimase seduto sulla banchina per venti minuti, chiedendosi perché il Marchese non gli aveva detto addio.
Quando l’aveva domandato a Porta, lei aveva risposto di non saperlo, ma che forse gli addii, come il confortare le persone, erano cose in cui il Marchese non era molto bravo.
Quindi aveva detto di avere un bruscolino nell’occhio, gli aveva dato un foglio con delle istruzioni, e se ne era andata.
Nell’oscurità, qualcosa stava ondeggiando. Qualcosa di bianco.
Era un fazzoletto in cima a un bastone.
«C’è qualcuno?» gridò Richard.
La piumosa rotondità di Old Bailey usci dal buio, evidentemente impacciato e a disagio. Stava sventolando il fazzoletto di Richard.
«È la mia bandierina» disse.
«Sono contento che sia stato utile.»
Old Bailey sorrise con un po’ di apprensione. «Già. Volevo solo dire… Ho qualcosa per te. Tieni.»
Ficcò la mano in una tasca del cappotto e ne estrasse una lunga penna nera che risplendeva di riflessi blu-porpora-verde. Intorno al calamo aveva legato un filo rosso.
«Hmm. Be’, grazie» disse Richard, incerto sull’uso che avrebbe dovuto farne.
«È una penna» spiegò Old Bailey. «E bella, anche. Memento. Souvenir. Ricordo. Ed è gratis. Un regalo. Da me a te. Un piccolo ringraziamento.»
«Si, be’, davvero molto gentile da parte tua.»
Se la mise in tasca.
Un vento caldo prese a soffiare lungo il tunnel. Stava arrivando un treno.
«Quello è il tuo treno» disse Old Bailey. «Io i treni mica li prendo. Datemi un buon tetto al giorno…»
Strinse la mano a Richard e scomparve.
Il treno arrivò in stazione. I vagoni erano tutti bui e le porte non si aprivano. Richard bussò a quella che aveva di fronte, sperando fosse la scelta giusta.
La porta si apri, inondando la stazione abbandonata di una calda luce gialla, e ne uscirono due anziani signori con in mano delle chiarine. Richard li riconobbe: Dagvard e Halvard, della Corte del Conte, anche se non ricordava chi fosse l’uno e chi l’altro. Si portarono la tromba alle labbra e si esibirono in una grossolana ma sentita fanfara.
Richard sali sul treno, e i due lo seguirono.
Il Conte era seduto in fondo alla carrozza, intento ad accarezzare il suo levriero. Il giullare — Tooley, pensò Richard, ecco come si chiama — era in piedi al suo fianco. A parte loro e i due armigeri, il vagone era deserto.
«Chi è?» chiese il Conte.
«È lui, signore,» rispose il giullare «Richard Mayhew. Colui che ha ucciso la Bestia.»
«Il Guerriero?» Il Conte si grattò la barba grigio rossastra. «Portatelo qui.»
Richard si avvicinò allo scranno del Conte. Questi lo squadrò dall’alto e dal basso con aria pensosa, senza mostrare in alcun modo di ricordare di averlo già incontrato.
«Pensavo fossi più alto» disse, alla fine, il Conte.
«Mi dispiace.»
«Be’, è meglio andare avanti con la cerimonia.» Si alzò e si rivolse al vagone vuoto. «Buona sera. Siamo qui per rendere onore al giovane Maybury. Quali erano le parole del bardo?» Al che iniziò a declamare, con un ritmico rimbombo, «Cremisi le ferite nella carcassa, Presto cade il nemico, Impavido devoto difensore, Coraggioso tra i ragazzi di coraggio… Anche se in realtà non è proprio un ragazzo, vero Tooley?»
«Non esattamente, vostra grazia.»
Il Conte allungò la mano. «Dammi la tua spada, ragazzo.»
Richard si portò la mano alla cintura e estrasse il pugnale che gli aveva dato Hunter. «Può andare bene, questo?» chiese.
«Si-si» disse il vecchio, prendendogli il pugnale.
«Inginocchiati!» disse Tooley, in un sussurro perfettamente udibile, indicando il pavimento del treno. Richard mise un ginocchio a terra.
Il Conte lo colpi gentilmente su entrambe le spalle con il pugnale. «Alzati,» urlò a squarciagola «Sir Richard di Maybury. Con questo pugnale ti dono la libertà del Mondo di Sotto. Che tu possa camminare liberamente senza ostacoli o impedimenti… e cosi via e cosi discorrendo… eccetera… bla bla bla.» Il discorso andava scemando.
«Grazie» disse Richard. «Comunque, è Mayhew.»
Ma il treno si stava fermando.
«Tu scendi qui» disse il Conte. Restituì il pugnale a Richard e gli diede una pacca sulle spalle.
Il luogo in cui Richard era sceso non era una stazione della metropolitana. Era sopraterra. Gli ricordava un po’ la stazione di St Pancras — c’era qualcosa di troppo grande e di finto gotico nell’architettura. Ma c’era anche qualcosa di sbagliato, che la etichettava come una zona di Londra Sotto.
La luce era quella stranamente grigia che si vede per qualche attimo prima dell’alba e dopo il tramonto, quando il mondo si ripulisce e si colora, e le distanze diventano impossibili da valutare.
Seduto su una panchina c’era un uomo che lo fissava, perciò Richard si avvicinò, con cautela, incapace di riconoscerlo in quella grigia luminescenza. Teneva ancora in mano il pugnale di Hunter — il suo pugnale, ora — e afferrò ancora più saldamente l’impugnatura per darsi coraggio.
Mentre Richard si avvicinava, l’uomo alzò lo sguardo e schizzò in piedi. Era Lord Parla-coi-Ratti. Si inchinò facendo il gesto di chi si toglie il cappello in segno di rispetto, una cosa che Richard aveva visto solo negli adattamenti di romanzi classici trasmessi dalla BBC2. «Bene-bene. Si-si» disse il parla-coi-ratti, molto agitato. «Tanto per chiarire, la ragazza Anestesia… Nessun rancore. I ratti sono ancora tuoi amici. E anche i parla-coi-ratti. Tu vieni da noi, e noi ti trattiamo bene.»
«Grazie» disse Richard. Lo accompagnerà Anestesia, pensò. Lei è sacrificabile.
Lord Parla-coi-Ratti cercò a tentoni qualcosa sulla panchina, poi offri a Richard una borsa sportiva nera con cerniera che gli era estremamente familiare.
«C’è tutto. Ogni cosa. Controlla.»
Richard apri la borsa. Dentro c’erano tutti i suoi possedimenti, incluso, in cima a un paio di jeans ben piegati, il portafogli. Richiuse la borsa, se la mise in spalla, e se ne andò senza voltarsi indietro.
Uscì dalla stazione e scese alcuni scalini.
Tutto era silenzio. Tutto era vuoto. Secche foglie autunnali si rincorrevano per il piazzale, un turbinio di giallo, ocra e marrone.
Attraversò il piazzale e scese dei gradini che portavano a un sottopassaggio. Nella semi-oscurità qualcosa fluttuava.
Richard si voltò circospetto. Ce ne erano almeno una decina, nel corridoio alle sue spalle, e scivolavano verso di lui quasi senza far rumore, solo un fruscio di velluto scuro e, qui e là, il luccicare di gioielli d’argento a segnalare la loro presenza.
Lo guardavano con occhi avidi.
Era davvero impaurito. Certo, aveva il pugnale, ma in quel momento era in grado di combattere quanto di saltare da una sponda all’altra del Tamigi. Sperava solo che il pugnale mettesse loro paura.
Poteva sentire il profumo di caprifoglio, di mughetto e di muschio.
Lamia si fece largo fino alla prima linea delle Velluto, e fece un passo avanti. Ricordando il gelo del suo abbraccio, Richard alzò il pugnale.
Lei gli sorrise, e inclinò dolcemente il capo. Poi ammiccò, si baciò la punta delle dita e, con un soffio, mandò il bacio a Richard.
Lui rabbrividi.
Qualcosa fluttuò nel buio del sottopassaggio, e quando guardò di nuovo non c’era altro che ombra.
Attraversò il sottopassaggio, sali altri gradini, e si ritrovò in cima a una collinetta erbosa, appena prima dell’alba. La luce era strana e innaturale, ma riusciva a individuare i dettagli della campagna circostante: querce, frassini e faggi. Un grande fiume serpeggiava dolcemente tra il verde. Guardandosi intorno, si rese conto di trovarsi su una sorta di isola — due fiumi più piccoli si riversavano in quello grande, separando Richard dalla terraferma.
E allora seppe, senza sapere come, ma con assoluta certezza, di trovarsi a Londra — ma una Londra di forse tremila anni fa, prima che la prima pietra della prima abitazione umana fosse posata sopra un’altra pietra.
Apri la borsa e ci infilò il coltello, accanto al portafogli. Poi la richiuse.
Il cielo cominciava a rischiarare, ma la luce era insolita. In qualche modo era più giovane della luce solare a cui era abituato. Un sole rosso-arancio sali da est: dove un giorno sarebbe stato creato il quartiere di Docklands, e più oltre ancora, verso Greenwich, Kent e il mare.
«Salve» disse Porta. Non l’aveva sentita arrivare. Sotto alla malridotta giacca di pelle marrone indossava dei vestiti diversi: sempre a strati, laceri e rattoppati, però di taffettà, pizzo, seta e broccato.
«Salve» disse Richard.
Gli rimase accanto in piedi, e intrecciò le sue dita sottili con quelle della mano destra di lui, la mano che reggeva la borsa sportiva.
«Dove siamo?» chiese Richard.
«Sulla spaventosa e terribile isola di Westminster.» Sembrava quasi stesse citando una frase famosa, ma non gli pareva di averla mai sentita prima.
Cominciarono a camminare sui lunghi fili d’erba, bagnati di brina. I loro piedi lasciavano impronte verde scuro, che indicavano il punto in cui erano passati.
«Senti,» disse Porta «adesso che l’angelo non c’è più, a Londra Sotto bisogna mettere a posto tante cose. E ci sono solo io a farlo. Mio padre voleva unire Londra Sotto… Suppongo che dovrei almeno provare a finire quanto ha cominciato.»
Si stavano dirigendo verso nord, allontanandosi dal Tamigi. Nel cielo sopra di loro, gabbiani bianchi giravano e gridavano.
«E hai sentito quello che Islington ha detto a proposito di mia sorella. Forse potrebbe essere ancora viva. Chissà, potrei non essere l’unica rimasta. E tu mi hai salvato la vita.» Fece una pausa, poi, tutto d’un fiato, «Per me sei stato davvero un grande amico, Richard. E averti intorno ha cominciato a piacermi. Ti prego, non andare.»
Con la mano sinistra, quella ferita, le diede qualche goffo colpetto sulla mano.
«Be’,» disse «anche a me ha cominciato a piacere averti intorno. Ma non appartengo a questo mondo. Nella mia Londra… be’, la cosa più pericolosa a cui devi fare attenzione è un taxi che va di fretta. Anche tu mi piaci. Mi piaci davvero tanto. Però voglio tornare a casa.»
Lei alzò verso di lui gli occhi dallo strano colore.
«Allora non ci rivedremo più» disse.
«Immagino di no.»
«Grazie per tutto quello che hai fatto» disse Porta. Poi gli mise le braccia al collo e si abbracciarono stretti stretti, al punto che i lividi sulle costole di Richard si fecero sentire, ma anche lui ricambiò l’abbraccio, altrettanto forte, e non gliene importava.
«Bene,» disse alla fine «è stato molto bello conoscerti.»
Lei continuava a battere le palpebre. Si chiese se anche questa volta avrebbe detto di avere un bruscolino nell’occhio. Invece, Porta domandò, «Sei pronto?»
Lui annui.
«Hai la chiave?»
Appoggiò la borsa a terra e si frugò nella tasca posteriore con la mano buona. Prese la chiave e gliela diede. Lei la tenne sollevata come la stesse inserendo in una porta immaginaria.
«Tutto a posto» disse la ragazza. «Basta che cammini. Senza voltarti.»
Lui cominciò a scendere la collinetta. Un gabbiano lo sfiorò passandogli accanto.
Ai piedi della collina, si voltò. Era là, in cima, che si stagliava nella luce del sole nascente. Le sue guance luccicavano.
Dalla chiave brillò un raggio di luce arancione.
Porta la girò, con un unico movimento deciso.
Il mondo si oscurò, e un sordo ruggito riempi la testa di Richard, simile al folle ringhiare di migliaia di bestie rabbiose.
VENTI
Il mondo si oscurò, e un sordo ruggito riempi la testa di Richard, simile al folle ringhiare di migliaia di bestie rabbiose.
Guardò l’oscurità a occhi socchiusi, tenendo stretta la borsa e domandandosi se fosse stato stupido mettere via il pugnale.
Delle persone lo superarono spingendo. Richard se ne allontanò.
Davanti a lui c’erano dei gradini. Cominciò a salire, e mentre lo faceva il mondo si trasformava, prendeva forma e si riformava. Il ringhio era il ruggito del traffico, e stava uscendo da un sottopassaggio in Trafalgar Square.
Era metà mattina di un tiepido giorno di ottobre, e si trovava in piedi nella piazza con la borsa in mano e gli occhi che cercavano di adattarsi alla luce. Taxi, autobus rossi e automobili rombavano e sfrecciavano, mentre i turisti gettavano granaglie alle legioni di piccioni cicciottelli e facevano fotografie alla colonna di Nelson e ai giganteschi leoni di Landseer che la fiancheggiano.
Il cielo era del perfetto e imperturbato blu dello schermo di un televisore sintonizzato su un canale su cui non è memorizzata alcuna emittente.
Attraversò la piazza chiedendosi se fosse reale oppure no. I turisti giapponesi lo ignoravano. Provò a rivolgere la parola a una bella ragazza che rise e disse qualcosa in una lingua che Richard pensò fosse italiano mentre in realtà era finlandese.
C’era un bambino — o forse era una bambina — intento a fissare i piccioni e allo stesso tempo a demolire per via orale una barretta di cioccolato. Gli si accovacciò accanto.
«Hmm. Ciao, piccolino.»
Il bambino succhiava la sua barretta di cioccolato con molta attenzione e non mostrò di riconoscere in Richard un altro essere umano.
«Ciao» ripeté Richard, con una nota di disperazione nella voce. «Puoi vedermi? Piccolino? Eh?»
Due occhiettini ostili lo fissarono da un visetto ricoperto di cioccolato. Quindi il bambino scappò ad abbracciare le gambe del più vicino adulto di sesso femminile, dicendo, «Ma-mi? Quell’uomo mi dà noia. Mi dà noia, ma’.»
La madre del bambino si rivolse a Richard con durezza. «Cosa sta facendo?» chiese. «Sta dando noia alla nostra Leslie? Esistono dei posti speciali per gente come lei, sa?»
Richard cominciò a sorridere. Era un sorriso largo e felice. Non sarebbe stato possibile cancellarglielo neppure colpendolo alla nuca con un mattone.
«Sono davvero terribilmente dispiaciuto» disse, con un ghigno da Stregatto.
Quindi, afferrata la borsa, si mise a correre per Trafalgar Square accompagnato da un volo improvviso degli stupiti piccioni.
Prese dal portafogli la carta del bancomat e la inserì nell’apposito sportello automatico.
La macchina riconobbe il codice di identificazione a quattro cifre, gli consigliò di tenerlo segreto e non rivelarlo a nessuno, e gli chiese a quale servizio desiderava accedere.
Chiese di prelevare dei contanti, che gli vennero dati in abbondanza. Per la gioia assestò un pugno al vento, poi, imbarazzato, finse di aver cercato di chiamare un taxi.
Il taxi si fermò per lui — si fermò! — per lui! — ci salì, sedette sul sedile posteriore e sorrise beato. Chiese all’autista di portarlo in ufficio. Poi, quando questi sottolineò il fatto che sarebbe arrivato prima andando a piedi, il ghigno di Richard divenne ancora più ampio e chiese al taxista — praticamente implorò — di rallegrarlo, proprio lui, Richard, con la sua opinione riguardo ai problemi del traffico nel centro città, a come affrontare la criminalità dilagante e alle spinose questioni politiche del momento.
Il taxista accusò Richard di volersi prendere gioco di lui, e tenne il broncio per tutto il tragitto di cinque minuti lungo lo Strand. A Richard non importava e gli diede comunque una mancia assurda.
Quindi si diresse verso il suo ufficio.
Mentre entrava nel palazzo, senti che il sorriso gli si dileguava dalla faccia. A ogni passo era più ansioso e a disagio. E se fosse stato ancora senza lavoro? E se bambini ricoperti di cioccolato e taxisti avessero potuto vederlo ma fosse rimasto invisibile ai colleghi? E se…
Il signor Figgis, la guardia di sicurezza, alzò lo sguardo da una copia di Capricciose ninfette adolescenti, nascosta all’interno di una copia del Sun, e tirò su col naso.
«’Giorno signor Mayhew» disse. Non era un «buongiorno» di benvenuto. Era il tipo di «buongiorno» che implica che a chi lo pronuncia non importa un fico secco se la persona a cui è rivolto vive o muore — né, peraltro, se è giorno o sera.
«Figgis!» esclamò Richard pieno di gioia. «Salve anche a lei, signor Figgis, la nostra eccezionale guardia di sicurezza!»
Nessuno aveva mai detto una cosa simile al signor Figgis, nemmeno le signorine nude che popolavano la sua immaginazione. Fissò Richard con sospetto finché non fu entrato nell’ascensore, sparendo alla vista. Quindi tornò a rivolgere la propria attenzione alle capricciose ninfette adolescenti, nessuna delle quali, cominciava seriamente a sospettare, aspettava ancora ventinove candeline, lecca-lecca o non lecca-lecca.
Richard usci dall’ascensore e si diresse, un po’ esitante, verso il corridoio.
Sarà tutto a posto, continuava a ripetersi. Basta che la mia scrivania sia ancora li. Se c’è la scrivania, andrà tutto bene.
Camminava nel grande ufficio open-space in cui aveva lavorato per tre anni. C’era gente che lavorava alla scrivania, parlava al telefono, scartabellava negli schedari, beveva del cattivo tè e un caffè anche peggiore. Era il suo ufficio.
E c’era uno spazio accanto alla finestra dove un tempo stava la sua scrivania, e che ora era occupato da un grigio insieme di mobili da archivio e da una yucca.
Stava per voltarsi e scappare quando qualcuno gli allungò del tè in una tazza di plastica.
«Il ritorno del figliol prodigo, eh?» disse Garry. «Eccoti qui.»
«Ciao, Garry» disse Richard. «Dov’è la mia scrivania?»
«Da questa parte» rispose Garry. «Com’era Maiorca?»
«Maiorca?»
«Non vai sempre a Maiorca?» domandò Garry. Stavano salendo le scale che portano al quarto piano.
«Non questa volta» disse Richard.
«Stavo proprio per dirti che non sei granché abbronzato.»
«No» convenne Richard. «Be’, sai, avevo voglia di cambiare.»
Garry annui. Indicò una porta che, nel periodo in cui Richard aveva lavorato li, era sempre stata quella della stanza delle pratiche dei dirigenti e del magazzino.
«Volevi cambiare, eh? Be’, questo mi sembra davvero un bel cambiamento. Posso essere il primo a congratularmi?»
La targa sulla porta diceva
R.O. MAYHEW
SOCIO GIOVANE
«Congratulazioni» ripeté Garry.
Si allontanò, e Richard entrò nel nuovo ufficio.
C’era la sua scrivania. I troll erano stati accuratamente riposti in un cassetto, quindi li prese e li posizionò in giro per la stanza. Aveva una finestra tutta sua, con una bella vista sul fiume e la sponda sud. C’era persino una grande pianta verde, con lunghe foglie lucide, del tipo che sembra finta ma non lo è. Il monitor del computer color crema era stato sostituito da uno nero molto più sottile che occupava meno spazio sulla scrivania.
Guardò fuori dalla finestra sorseggiando il tè.
«Hai trovato tutto a posto, allora?»
Alzò gli occhi. Vivace ed efficente, Sylvia, la PR dell’AD, stava sulla soglia e gli sorrideva.
«Hmm. Si. Senti, ci sono delle cose di cui mi devo occupare a casa… pensi che andrebbe bene se mi prendessi il resto della giornata e…»
«Fai pure. Non era previsto che tornassi prima di domani, comunque.»
«A no?» chiese. «Bene.»
Sylvia aggrottò le sopracciglia. «Cosa ti è successo al dito?»
«L’ho rotto» le rispose Richard.
Lei gli osservò le mani con aria preoccupata. «Non sei stato coinvolto in una rissa, vero?»
«Io?»
La donna sorrise. «Ti stavo solo prendendo in giro. Immagino te lo sia chiuso in una porta. Mia sorella ha fatto cosi.»
«No» sbottò Richard. «È stato in una ri…» Sylvia inarcò un sopracciglio. «Una porta» concluse, in modo poco convincente.
Al vecchio appartamento andò in taxi. Non era sicuro di potersi fidare a prendere la metropolitana. Non ancora.
Non avendo la chiave, bussò alla porta di casa sua e fu molto deluso quando venne aperta dalla donna che ricordava di avere incontrato, o meglio di non essere riuscito a incontrare, nel bagno.
Si presentò come l’inquilino precedente e stabili che a) lui, Richard, non abitava più li, e b) la signora non aveva la minima idea di quale fosse stata la sorte degli oggetti di sua proprietà. Richard prese degli appunti, quindi salutò gentilmente e chiamò un altro taxi per andare a trovare l’uomo con il cappotto di pelo di cammello.
L’uomo con il cappotto di pelo di cammello non indossava il cappotto, e in realtà aveva un tono molto meno suadente dell’ultima volta che l’aveva visto.
Erano seduti nel suo ufficio, e l’uomo aveva ascoltato i rimproveri di Richard con l’espressione di chi abbia accidentalmente inghiottito un ragno vivo e cominci a sentirlo muoversi.
«Be’, si» ammise, dopo avere consultato l’archivio. «Sembra essersi verificato qualche piccolo problema, ora che me lo fa notare. Non capisco proprio come possa essere accaduto.»
«A questo punto non credo sia importante come è successo» disse molto ragionevolmente Richard. «Quello che conta è che mentre io mi sono allontanato per qualche settimana voi avete affittato il mio appartamento a…» consultò gli appunti «George e Adele Buchanan. Che non hanno nessuna intenzione di andarsene.»
L’uomo richiuse la cartellina della pratica. «Be’,» disse «capita a tutti di sbagliare. Errore umano. Purtroppo non possiamo farci nulla.»
Richard era perfettamente consapevole che il vecchio Richard, quello che abitava nell’appartamento che ora era dei signori Buchanan, a questo punto sarebbe andato in pezzi, si sarebbe scusato del disturbo e avrebbe lasciato l’ufficio. Invece, disse, «Davvero? Non potete farci nulla? Voi affittate ad altri una proprietà che io avevo legalmente preso in affitto dalla vostra società, nell’operazione perdo tutti i miei effetti personali, e lei dice che non potete farci nulla? Vede, penso proprio, e sono certo che anche il mio avvocato sarà della stessa opinione, che ci sia invece molto che potete fare.»
Sembrava che il ragno ingoiato dall’uomo senza il cappotto di pelo di cammello stesse cominciando a risalirgli la gola. «Ma non abbiamo altri appartamenti liberi come il suo nel palazzo» disse. «C’è solo la suite all’attico.»
«Quella» disse con freddezza Richard «andrà benissimo…»
L’uomo si rilassò.
«… Per quanto riguarda l’alloggio. Ora» continuò «parliamo del risarcimento per la perdita dei beni.»
Il nuovo appartamento era molto più gradevole di quello che aveva lasciato. Aveva più finestre, un balcone, un salotto spazioso e una camera per gli ospiti vera e propria. Ma Richard si aggirava scontento tra le stanze.
Estremamente a malincuore, l’uomo-senza-il-cappotto-di-pelo-di-cammello aveva fatto portare nell’appartamento un letto, un divano, svariate sedie e un televisore.
Richard appoggiò il pugnale di Hunter sulla mensola del camino.
Aveva comprato del cibo al curry nel ristorante indiano take-away sull’altro lato della strada e si sedette a mangiarlo sul pavimento moquettato del suo nuovo appartamento, chiedendosi se aveva davvero mangiato curry la sera tardi a un mercato tenuto sul ponte di un incrociatore ormeggiato accanto al Tower Bridge. Non sembrava molto probabile, a pensarci bene.
Il campanello suonò e si alzò per aprire la porta.
«Abbiamo trovato buona parte della sua roba, signor Mayhew» disse l’uomo che indossava di nuovo il cappotto di pelo di cammello. «Si è scoperto che era stata messa in un deposito. Bene, portate tutto dentro, ragazzi.»
Un paio di uomini corpulenti trascinarono all’interno parecchie casse di tè piene degli oggetti di Richard.
«Grazie» disse Richard.
Allungò la mano nella prima cassa e tolse la carta che avvolgeva il primo oggetto, che risultò essere una fotografia incorniciata di Jessica. La fissò per qualche istante, poi la rimise nella cassa da imballaggio.
Infine trovò quella che conteneva i vestiti e la vuotò, ma le altre rimasero in mezzo alla stanza cosi com’erano arrivate. Con il passare dei giorni si sentiva sempre più in colpa per non avere sistemato il contenuto delle casse, ma continuò a non farlo.
Quando squillò il cicalino dell’interfono, era nel suo ufficio, seduto alla sua scrivania, a guardare fuori dalla sua finestra. «Richard?» disse Sylvia. «L’amministratore delegato richiede una riunione nel suo ufficio tra venti minuti per discutere il rapporto Wandsworth.»
«Ci sarò» rispose.
Poi, dato che non aveva altro da fare per i successivi dieci minuti, prese in mano un troll arancione e con esso minacciò un troll dai capelli verdi, leggermente più piccolo.
«Sono il più forte guerriero di Londra Sotto. Preparati a morire!» disse, con una temibile voce da troll, agitando il troll arancione. Quindi prese quello dai capelli verdi e disse, «Aha! Ma prima devi bere una buona tazza di tè…»
Qualcuno bussò alla porta e, sentendosi colto in fallo, rimise a posto i troll.
«Avanti!»
La porta si apri e apparve Jessica, che si fermò sulla soglia. Sembrava nervosa.
Aveva dimenticato quanto fosse bella.
«Ciao Richard» disse.
«Ciao Jess» rispose Richard, poi si corresse. «Scusa — Jessica.»
Lei sorrise, scuotendo i capelli. «Oh, Jess va benissimo.» Pareva quasi che dicesse sul serio. «Jessica — Jess. Nessuno mi chiama Jess da cosi tanto tempo. Ne sento la mancanza.»
«Dunque,» disse Richard «cosa ti porta, sono onorato… tu, hmm…»
«In realtà volevo solo vederti.»
Non sapeva bene cosa dire. Decise per «È una cosa carina.»
Lei chiuse la porta dell’ufficio e fece qualche passo verso di lui.
«Richard. Vuoi sapere una cosa strana? Ricordo di avere rotto il fidanzamento, ma non riesco a ricordare perché abbiamo litigato.»
«No?»
«Non è una cosa importante, comunque. Vero?» Si guardò intorno. «Hai avuto una promozione.»
«Si.»
«Sono felice per te.» Si infilo una mano nella tasca del cappotto e ne tolse una scatolina marrone. La appoggiò sulla scrivania di Richard.
Lui la apri, anche se sapeva benissimo cosa conteneva.
«È l’anello di fidanzamento. Pensavo che, be’, forse potrei restituirtelo e poi, be’, se le cose funzionassero, be’, forse un giorno potresti regalarmelo di nuovo.»
Brillava al sole: la più grande quantità di denaro che avesse mai speso in assoluto.
Chiuse la scatola e gliela restituì.
«Tienilo, Jessica» disse. Poi aggiunse, «Mi dispiace.»
Lei si morse il labbro inferiore. «Hai incontrato un’altra?»
Lui esitò. Pensò a Lamia, a Hunter, a Anestesia, e persino a Porta, ma nessuna di loro era l’altra che intendeva lei.
«No. Nessuna» rispose. Poi, rendendosi conto mentre lo diceva che era la verità, «Semplicemente sono cambiato. Tutto qui.»
L’interfono squillò. «Richard? Ti stiamo aspettando.»
Premette un pulsante. «Arrivo subito, Sylvia.» Guardò Jessica.
Lei non diceva nulla. Forse non si fidava delle parole che avrebbe potuto dire. Se ne andò, chiudendosi lentamente la porta alle spalle.
Con una mano Richard prese le carte e i documenti che gli servivano, mentre si passava l’altra sul viso, cancellando qualcosa: dispiacere, forse, oppure lacrime, oppure Jessica.
Aveva ricominciato a prendere la metropolitana per andare e tornare dall’ufficio. Acquistava i giornali da leggere al mattino e alla sera, ma invece di farlo preferiva scrutare i volti degli altri passeggeri, chiedendosi se erano tutti di Londra Sopra, chiedendosi cosa passava dietro i loro occhi.
Durante l’ora di punta serale, qualche giorno dopo l’incontro con Jessica, gli parve di scorgere Lamia dall’altra parte del vagone, che gli dava le spalle, i capelli raccolti in alto sulla nuca e il vestito lungo e nero. Il cuore cominciò a battergli forte nel petto.
Si fece largo tra la gente stipata nel vagone. Mentre si avvicinava, arrivarono a una stazione dove la ragazza scese. Ma non si trattava di Lamia: era semplicemente un’altra giovane barbara londinese pronta per una lunga serata. Se ne accorse con disappunto.
Un mercoledì vide un grosso ratto marrone seduto sui bidoni della spazzatura sul retro di Newton Mansions, il palazzo dove abitava, con l’aria di essere il padrone del mondo.
All’arrivo di Richard scivolò sul marciapiede e attese all’ombra del bidone, fissandolo con i piccoli occhi neri.
Richard si accovacciò li vicino.
«Salve» disse con cortesia. «Ci conosciamo?»
Il ratto non disse nulla ma non fuggì.
«Io mi chiamo Richard» continuò a bassa voce. «In realtà non sono un parla-coi-ratti, ma, hmm, conosco qualche ratto e mi chiedevo se sei amico di Lady Porta…»
Senti un rumore di scarpe alle sue spalle, e si voltò per vedere i Buchanan che lo osservavano incuriositi.
«Ha… perso qualcosa?» chiese la signora Buchanan.
Richard udì, ma ignorò, lo sgarbato sussurro del marito. «Solo qualche rotella.»
«No,» rispose Richard in tutta sincerità «stavo, hmm, salutando un…»
Il ratto si affrettò ad allontanarsi.
«Era un ratto?» abbaiò George Buchanan. «Protesterò in comune. È una vergogna. Ma questa è la Londra che fa per lei, vero?»
Si, convenne Richard. Era proprio vero.
La sua roba continuava a rimanere nelle casse in mezzo al salotto.
Non accendeva neppure il televisore. Alla sera tornava a casa a mangiare. Poi si metteva alla finestra e guardava Londra, le auto, i tetti, le luci, mentre il crepuscolo diventava notte e le luci si propagavano in tutta la città. E alla fine, riluttante, si spogliava, andava a letto e provava a dormire.
Sylvia entrò nel suo ufficio un venerdì pomeriggio.
Lui stava aprendo delle lettere usando un pugnale — il pugnale di Hunter — come tagliacarte.
«Richard?» disse. «Mi chiedevo. Stai uscendo molto in questo periodo?»
Lui scosse il capo.
«Be’, stasera facciamo un’uscita di gruppo. Ti andrebbe di unirti a noi?»
«Hmm, si, certo» rispose Richard. «Mi divertirò di sicuro.»
Si annoiava a morte.
Erano in otto: Sylvia e il suo ragazzo, che aveva a che fare con le auto d’epoca, Garry della sezione conti aziendali, che aveva rotto da poco con la fidanzata a causa di un malinteso (lui aveva creduto che sarebbe stata molto più comprensiva riguardo al fatto che andava a letto con la sua migliore amica di quanto in realtà si era rivelata una volta scoperta la cosa), diverse persone carine e amici di persone carine, e la nuova ragazza dell’assistenza computer.
Per prima cosa andarono a vedere un film all’Odeon, in Leicester Square. Alla fine vinceva il buono, e nelle fasi intermedie c’erano esplosioni e oggetti volanti in grande quantità.
Mangiarono a La Reache, in Old Compton Street, dove si rimpinzarono di couscous e piccoli bocconcini esotici, poi si spostarono in un pub che piaceva a Sylvia, in Berwick Street, dove bevvero alcuni drink e si misero a chiacchierare.
Con il trascorrere della serata, la nuova ragazza dell’assistenza computer sorrideva molto in direzione di Richard, e a lui non veniva in mente niente da dirle. Pagò un giro di drink e la ragazza dell’assistenza computer lo aiutò a portare i bicchieri al tavolo.
Garry andò in bagno, e la ragazza dell’assistenza computer si mise a sedere accanto a Richard, al posto che fino a quel momento era stato di Garry. La testa di Richard era piena del tintinnio dei bicchieri e del chiasso assordante del juke box, dell’odore di birra e Bacardi rovesciato, e di fumo di sigaretta. Cercava di seguire la conversazione che si svolgeva al tavolo e si accorse di non riuscire più a concentrarsi su quello che veniva detto, e che comunque non era minimamente interessato a nessuno dei brani di frase che riusciva a cogliere.
E allora gli fu tutto chiaro, come se stesse vedendo l’azione sul grande schermo dell’Odeon di Leicester Square: quella sera sarebbe tornato a casa con la ragazza dell’assistenza computer e avrebbero fatto l’amore, e dato che il giorno dopo era sabato, avrebbero passato la mattinata a letto. Poi si sarebbe alzato, e insieme avrebbero disfatto tutta la roba impacchettata nelle casse, e nell’arco di un anno avrebbe sposato la ragazza dell’assistenza computer e ottenuto un’altra promozione, avrebbero avuto due bambini, un maschio e una femmina, e si sarebbero spostati in periferia, a Harrow, a Croydon o a Hampstead, o forse addirittura a Reading.
E non sarebbe stata una brutta vita. Sapeva anche quello. A volte non ha alternative.
Quando Garry tornò dalla toilette si guardò intorno con stupore. C’erano tutti tranne…
«Richard?» chiese.
La ragazza dell’assistenza computer si strinse nelle spalle.
Garry usci in Berwick Street. Il freddo della notte ebbe sul suo viso l’effetto di una secchiata d’acqua. Poteva sentire l’inverno nell’aria. Gridò, «Dick? Ehi? Richard?»
«Sono qui.»
Richard se ne stava appoggiato contro al muro, nell’ombra. «Volevo solo prendere un po’ d’aria fresca.»
«Stai bene?» chiese Garry.
«Si» rispose Richard. «No. Non lo so.»
«Be’, questo copre tutte le possibilità. Ne vuoi parlare?»
Richard lo guardò con aria seria. «Riderai di me.»
«Tanto lo farò comunque.»
Richard lo fissò, poi Garry si senti sollevato vedendo che sorrideva, e seppe che erano ancora amici. Garry lanciò un’occhiata verso il pub. Poi si ficcò le mani nelle tasche del cappotto.
«Andiamo» disse. «Facciamo due passi. Liberati di questo peso. Poi riderò di te.»
«Bastardo» disse Richard, e per la prima volta in parecchie settimane aveva detto qualcosa da Richard.
«È a questo che servono gli amici.»
Cominciarono a camminare piano piano, alla luce dei lampioni.
«Senti Garry,» iniziò Richard «ti sei mai chiesto se questo è tutto quello che c’è?»
«Cosa?»
Richard fece un gesto vago, che comprendeva ogni cosa. «Lavoro. Casa. Il pub. Incontrare ragazze. Vivere in città. La vita. È tutto qui? Non c’è altro?»
«Credo che questo riassuma tutto, sì» disse Garry.
Richard sospirò. «Be’,» disse «tanto per cominciare, non sono andato a Maiorca. Voglio dire che davvero non sono andato a Maiorca.»
Mentre andavano su e giù per il dedalo di stradine tra Regent Street e Charing Cross Road, Richard continuava a parlare. E raccontava, raccontava, iniziando con il ritrovamento di una ragazza ferita sul marciapiede, che aveva cercato di aiutare perché non poteva certo lasciarla li, e quanto era accaduto dopo. Quando ebbero troppo freddo per seguitare a camminare, entrarono in un bar di quelli da poco, aperti tutta la notte. Era molto tipico, del tipo in cui tutto viene cotto nello strutto e si serve del té serio in grandi tazze alte e sbeccate, lucide di grasso di pancetta.
Richard e Garry si misero a sedere, e Richard parlava mentre Garry ascoltava. Ordinarono uova fritte, fagioli e pane tostato e mangiarono il tutto, mentre Richard continuava a parlare e Garry continuava ad ascoltare. Trangugiarono anche l’ultimo pezzo di tuorlo e pane tostato. Bevvero altro té, finché Richard disse «… E poi Porta ha fatto qualcosa con la chiave, e io ero di nuovo qui. A Londra Sopra. Be’, la Londra vera. E, be’, il resto lo sai.»
Cadde il silenzio.
«Questo è quanto» disse Richard. Fini il té.
Garry si grattò la testa. «Senti» disse dopo un bel po’. «È tutto vero? Non c’è un qualche orribile finale? Cioè, non c’è nessuno con la telecamera pronto a saltare fuori per dirmi che sono su Candid Camera!»
«Spero sinceramente di no» disse Richard. «Tu… tu mi credi?»
Garry diede un occhiata al conto sul tavolino, contò banconote e monete e le appoggiò sul piano di formica. «Credo che, be’, qualcosa deve esserti successo, è ovvio… ma per andare al punto, tu ci credi?»
Richard lo guardava fisso. Sotto agli occhi aveva dei semicerchi neri. «Se ci credo? Non lo so più. Ci credevo. Ero là. C’è stato un momento in cui c’eri anche tu, sai.»
«Questo non me l’avevi detto.»
«È stato un momento davvero terribile. Mi dicevi che ero diventato pazzo e che me ne andavo in giro per Londra in preda alle allucinazioni.»
Uscirono dal bar e si diressero a sud, verso Piccadilly.
«Be’,» disse Garry «devi ammettere che sembra più plausibile della tua magica Londra sotterranea, dove va a finire la gente che cade nelle fenditure. Ne ho viste di persone cadute nelle fenditure, Richard: dormono nei vani delle vetrine dei negozi lungo tutto lo Strand. Non finiscono in una Londra speciale. Muoiono congelate dal freddo dell’inverno.»
Richard non disse nulla.
Garry continuò. «Penso che forse hai preso un colpo in testa. Oppure è stato una specie di shock, quando Jessica ti ha piantato. Per qualche tempo sei diventato un po’ matto, poi sei rinsavito.»
Richard rabbrividì. «Sai cosa mi fa davvero paura? Il pensiero che probabilmente hai ragione.»
«Allora la vita non è eccitante?» continuò Garry. «Benissimo. A me la noia. Almeno so dove vado a mangiare e a dormire stasera. E lunedì avrò ancora un lavoro. Giusto?» Si voltò a fissare Richard.
Lui annuì, esitante. «Giusto.»
Garry guardò l’orologio. «Per la miseria!» esclamò. «Sono le due passate. Speriamo che in giro ci sia ancora qualche taxi.» Si diressero in Brewer Street. Garry stava dissertando sui taxi. Non diceva niente di originale o di interessante. Stava semplicemente adempiendo al suo dovere di londinese di brontolare riguardo ai taxi. «… Aveva la luce accesa e tutto quanto,» stava dicendo «gli ho detto dove volevo andare e mi ha risposto, mi dispiace, sto tornando a casa, e io gli ho detto, si può sapere dove abitate tutti voi taxisti? E perché neppure uno vive dalle mie parti? Il trucco consiste nel salire prima di dire che abiti a sud del fiume, cioè, cosa stava cercando di dirmi? Quando ho nominato Battersea ha reagito come se avessi detto Katmandu…»
Richard aveva tolto l’audio. Fissava l’interno della vetrina di un negozio di periodici d’epoca, osservando i ritratti di star del cinema ormai dimenticate, i manifesti, i fumetti e i periodici in esposizione. Era come dare una sbirciatina a un mondo di avventura e immaginazione.
Che non era reale. Continuava a ripeterselo.
«Allora, tu cosa ne pensi?» domandò Garry.
Richard tornò di colpo al presente. «Di cosa?»
Garry si rese conto che Richard non aveva ascoltato una parola di quello che aveva detto. «Se non ci sono taxi possiamo prendere un autobus notturno.»
«Giusto» disse Richard. «Benissimo. Perfetto.»
Garry fece una smorfia. «Mi preoccupi.»
«Scusa.»
Procedettero per Windmill Street, verso Piccadilly.
Richard affondò le mani nelle tasche. Per un attimo sembrò stupito, poi estrasse una penna di corvo alquanto malconcia, con un filo rosso legato al calamo.
«Cos’è?» chiese Garry.
«È un…» esitò. «È solo una penna. Hai ragione. È solo spazzatura.»
Lasciò cadere la penna nel bidone più vicino e non si voltò indietro. Garry indugiava, poi, scegliendo con cura le parole, disse, «Hai pensato di farti vedere da qualcuno?»
«Farmi vedere? Guarda Garry che non sono pazzo.»
«Ne sei certo?»
Verso di loro stava arrivando un taxi, con la luce gialla accesa.
«No» rispose Richard in tutta sincerità. «Ecco un taxi. Prendilo tu. Io prenderò il prossimo.»
«Grazie.» Garry fece segno al taxista e sali nell’auto prima di dire che voleva andare a Battersea. Abbassò il finestrino e, mentre il taxi partiva, disse, «Richard — la realtà è questa. Cerca di abituarti. Non c’è altro. Ci vediamo lunedì.»
Richard lo salutò con la mano e guardò il taxi che si allontanava. Quindi girò sui tacchi e invece di andare verso le luci di Piccadilly ripercorse la strada in direzione di Brewer Street.
Si fermò accanto a una vecchia signora che dormiva nel vano di entrata di un negozio. Si riparava dal freddo con una vecchia coperta strappata, e teneva accanto a sé le poche cose che possedeva — due piccole scatole di cartone piene di cianfrusaglie e un ombrello sporco che una volta doveva essere stato bianco — legate insieme con uno spago, a sua volta legato intorno al polso, per evitare che qualcuno gliele rubasse mentre dormiva. Indossava un cappello di lana con pompon di colore indefinibile.
Si tolse di tasca il portafogli, trovò una banconota da dieci sterline, e si chinò per farla scivolare nella mano della donna.
Lei apri gli occhi, subito sul chi va là. Guardò la banconota socchiudendo i vecchi occhi. «Cos’è?» disse, assonnata e dispiaciuta di essere stata svegliata.
«La tenga» disse Richard.
Srotolò la banconota e se la infilò nella manica. «Che cosa vuoi?» chiese con sospetto.
«Niente» rispose Richard. «Non voglio proprio niente. Assolutamente niente.» Si rese conto di quanto era vero, e di come tutto fosse diventato orribile. «Ha mai avuto tutto quello che desiderava? Per poi accorgersi che in realtà non era per niente quello che voleva?»
«Non credo di poterlo dire» rispose la donna, togliendosi un bruscolino dall’occhio.
«Pensavo fosse questo che volevo» disse Richard. «Pensavo di volere una bella vita normale. Insomma, forse sono pazzo. Voglio dire, forse. Ma se questo è tutto quello che c’è, allora non voglio essere savio. Capisce?» Lei scosse il capo.
Cercò nella tasca interna.
«Vede questo?» disse. Teneva in mano il pugnale. «Me l’ha dato Hunter prima di morire» spiegò.
«Non farmi del male» disse la vecchia signora. «Non ho fatto niente.»
Nella voce di Richard c’era una strana intensità. «Ho ripulito la lama dal suo sangue. Un cacciatore si prende cura delle sue armi. È con questo che il Conte mi ha nominato cavaliere. Mi ha dato la libertà del Mondo di Sotto.»
«Io di queste cose non ne so niente» disse la donna. «Ti prego, mettilo via. Fa’ il bravo ragazzo.»
Richard soppesò il pugnale. Poi fece un affondo verso il muro di mattoni accanto al vano in cui la vecchia signora si era messa a dormire. Assestò tre fendenti, uno in orizzontale e due in verticale.
«Cosa stai facendo?» chiese con circospezione la donna.
«Sto facendo una porta» rispose.
Lei tirò su col naso. «Dovresti metterlo via quell’affare. Ti manderanno dentro per possesso di armi.»
Richard guardava il contorno di porta che aveva inciso sui mattoni. Si rimise in tasca il pugnale e cominciò a tempestare il muro di pugni. «Ehi! C’è nessuno li? Mi sentite? Sono io — Richard! Porta? Ma non c’è proprio nessuno?»
Si era ferito le mani, ma continuava a colpire e a battere contro il muro.
Poi la pazzia lo abbandonò, e smise.
«Mi scusi» disse alla vecchia signora.
Lei non rispose. O si era riaddormentata oppure, con ogni probabilità, fingeva di averlo fatto. Dal vano dell’ingresso del negozio proveniva un anziano russare, vero o simulato che fosse.
Richard si mise a sedere sul marciapiede, chiedendosi come fosse possibile riuscire a incasinarsi la vita come aveva fatto lui.
Poi si voltò di nuovo a guardare la porta disegnata sul muro.
Dove aveva inciso la sagoma, adesso c’era un’apertura a forma di porta. Sulla soglia c’era un uomo, le braccia incrociate in posa teatrale. Rimase in quella posizione finché fu certo che Richard l’avesse visto. Quindi si produsse in un grandioso sbadiglio, coprendosi educatamente la bocca con una mano scura.
Il Marchese de Carabas inarcò un sopracciglio. «Allora?» disse, con tono impaziente. «Vieni o no?»
Richard lo fissò giusto il tempo di un battito del cuore.
Poi annui, non fidandosi a proferire parola, e si alzò. Insieme, i due si allontanarono attraverso il buco nel muro, verso l’oscurità, senza lasciarsi nulla alle spalle. Neppure una porta.
RINGRAZIAMENTI
Questo libro, come la maggior parte dei libri, è stato scritto da una persona che ha messo una parola dietro l’altra fino alla parola fine.
Tuttavia, dato che questo libro è stato scritto alla rovescia e per ultimo, le persone che devo ringraziare sono davvero moltissime.
Per primo e soprattutto, Lenny Henry, intrattenitore, attore e appassionato di fumetti, per avermi chiesto se volevo scrivere una serie televisiva di fantasy contemporaneo, oltre cinque anni fa. La storia è nata passeggiando nel suo giardino e mentre tenevo in braccio la sua cagnolina Delilah a cui Lenny doveva cambiare la fasciatura. Il suo entusiasmo mi ha spinto a scrivere, ha fatto accettare l’idea e ha portato avanti il progetto anche nei giorni più foschi.
Janet Street-Porter è stata di una forza più unica che rara durante la prima metà del processo di stesura. Clive Brill ha curato la storia e prodotto la serie televisiva. Nessun dove non sarebbe ciò che è, senza Clive Brill. Abbiamo avuto un sacco di discussioni negli ultimi quattro anni, e quando non ci trovavamo d’accordo, ero ovviamente sempre io ad avere ragione, mentre Clive aveva altrettanto ovviamente sempre torto. Ma è stato stupefacente notare quanti suoi suggerimenti hanno finito per diventare parte integrante dello schema, e quanti suoi cambiamenti hanno migliorato le cose.
Dewi Humphreys ha diretto la serie. In qualità di regista ha portato la sua visione personale. In ogni parte del libro gli ho rubato delle idee senza alcuna vergogna, e lo stesso ho fatto con James Dillon, art director e curatore del set. Il mio grazie a entrambi.
Ho un debito di riconoscenza con l’altro me stesso che, negli ultimi cinque anni, si è preoccupato e angosciato riguardo alla domanda più terribile per uno scrittore: «E adesso, cosa succede?» Dato che è riuscito a trovare una risposta ogni volta, a me è spettato solo raccontare la storia.
Ho avuto il grande privilegio di poter gironzolare nei luoghi scelti per le scene della serie Tv mentre venivano girate, riuscendo a stare tra i piedi a tutti. L’ho apprezzato molto: non capita spesso di vagabondare nei propri paesaggi interiori.
I miei ringraziamenti agli attori, che hanno impersonificato le parole. Ho preso spunto dalle loro interpretazioni per migliorare il libro, quindi grazie a tutti.
Grazie all’intera troupe (MaiCaldo, MaiPulito, MaiDetto, MaiLoStessoPostoDueGiorniDiFila), che mi ha sopportato, rispondendo volonterosamente alle mie domande senza smettere di lavorare. (MaiPiù).
Kelli Bickman ha battuto a macchina i primi capitoli copiando gli appunti che avevo preso a mano sul set, impresa molto più ardua di quanto possa sembrare detto cosi. («Che parola è questa?» «Boh, non saprei.»)
Le due persone senza cui: Polly McDonald, stupefacente amministratore delegato, e Beverly Gibson, che fa si che le cose accadano. Hanno dovuto sopportare di tutto.
Sheila Ableman, della sezione libri della BBC, è stata una sostenitrice di Nessun dove fin dall’inizio. Con il suo entusiasmo e i finanziamenti che ha procurato ha permesso che tutto andasse per il verso giusto. Questo libro esiste perché lei lo ha voluto.
Merrilee Heifetz, Carole Blake e Conrad Williams hanno praticato le stregonerie in cui sono davvero bravissimi.
Tori Amos mi ha prestato la sua casa per scrivere la parte relativa ai Frati Neri, mentre Steve Jones mi ha ospitato da Earl’s Court al British Museum.
Infine, la mia famiglia — moglie, bambini, assistente e gatti — è stata incredibilmente comprensiva riguardo alle mie fughe a Londra Sotto per lunghi periodi. A eccezione dei gatti, due dei quali se ne sono andati pieni di disgusto durante il penultimo viaggio, e non si sono più visti.
Neil Gaiman
30 maggio 1996
POSTFAZIONE
Diventato famoso con la serie a fumetti Sandman e le avventure del Signore dei Sogni, Neil Gaiman ha sorpreso tutti decidendo di porre fine alle sue avventure. Non dev’essere stato facile. Con quel personaggio è diventato famoso, ha vinto un’infinità di premi e ha affascinato molta gente che dei fumetti sapeva ben poco. Forse si è reso conto che non avrebbe potuto continuare a scrivere in eterno storie come quelle, rischiando prima o poi di rovinare tutto, oppure semplicemente ha deciso di cambiare aria in cerca di nuovi stimoli. In ogni modo è stata una decisione coraggiosa. In quanti, al suo posto, avrebbero rinunciato alla gallina dalle uova d’oro?
Grazie al successo di Sandman, Karen Berger della DC Comics ebbe la possibilità nel 1993 di dar vita a una splendida collana, la Vertigo. Gaiman aveva incontrato per la prima volta Berger in un bar di Londra nel 1987, dopo averla subissata di proposte più o meno valide per almeno due anni. All’epoca Gaiman lavorava come giornalista scrivendo articoli per Time Out, il Sunday Times, Punch e The Observer.
L’anno prima Frank Miller e Bill Sienkiewicz avevano realizzato Elektra: Assassin, uno dei fumetti più belli di quel periodo. La fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta è stata una delle stagioni migliori per i supereroi, trasformati in personaggi a tre dimensioni pieni di dubbi e di ombre. Eroi per coloro che erano cresciuti leggendo le avventure di Batman, Daredevil e L’Uomo Ragno, ma che se ne erano allontanati una volta diventati adulti.
Una lezione che Gaiman dimostra di aver appreso è proprio quella di Frank Miller, che a partire da Batman, stava rivoluzionando in quegli anni il mondo dei fumetti riuscendo a superare la cerchia degli appassionati. Il risultato fu qualcosa di completamente nuovo, che aveva poco in comune con le vecchie storie della Marvel e della DC Comics. Basti pensare ai classici fumetti di Thor che si aprivano con il Dio del Tuono in posa plastica sul tetto di un palazzo: osserva New York immersa nella notte, i lunghi capelli che si agitavano al vento, la posa da statua greca e il martello poggiato sulla coscia. È il momento di quiete che precede la battaglia, terreno per considerazioni retoriche sul bene e sul male, o ancora sul suo ruolo di difensore dei deboli e degli oppressi. La puntata si sarebbe inevitabilmente conclusa con la cattura dei malviventi, raramente con una momentanea quanto apparente sconfitta di Thor, che nell’episodio successivo avrebbe sbaragliato gli avversari.
I fumetti di Miller erano tutt’altra cosa, animati da persone più che da eroi. Memorabile il Batman vecchio e stanco di The Dark Knight Returns che si aggira per una Gotham City in preda alla follia e ai tumulti. E altrettanto memorabili sono i personaggi di Daredevil in Love War, come lo schizofrenico Victor, il mastodontico Kingpin e la bellissima moglie malata Vanessa. Quelle atmosfere cinematografiche, profonde, oscure e metropolitane, hanno lasciato un segno indelebile.
Della generazione di supereroi senza macchia e senza paura rimase ben poco. Troppo vecchi, troppo da guerra fredda, troppo irreali. La Marvel però, quella di L’Uomo Ragno, degli X-Man, di Capitan America e anche di Elektra, è tornata sui suoi passi e oggi è una casa editrice per ragazzini. Pubblica vicende che assomigliano sempre più a una telenovela, prive di inventiva e di forza, eccezion fatta per alcune storie parallele o marginali, sul genere di L’Era di Apocalisse, uscita in Italia nel 1996, ancora capaci di stupire.
I primi anni Novanta sono stati contrassegnati anche da una nuova generazione di personaggi come Spawn, Cyberforce, Witchblade, The Tenth e Arcanum, di due case editrici fondate nel 1992, la Image Comics e la Top Cow. Spawn, creatura di Todd McFarlane (oltre un milione e settecentomila copie vendute), è un ex agente della governo di nome Al Simmons tornato dall’Inferno dopo aver concluso un patto con il diavolo. Il suo corpo, completamente ustionato, è ricoperto da un’armatura vivente (il costume) e da un mantello. Avrebbe dovuto combattere per il male, ma decide di passare dall’altra parte anche se non è chiaro chi tragga più vantaggi dalle sue azioni. Tutt’intorno troviamo servizi segreti deviati, multinazionali senza scrupoli, magia pseudo medioevale e atmosfere piovose e gotiche. Appartiene allo stesso genere The Tenth, anche lui ex agente del governo poi trasformato in un colosso di muscoli e rabbia da un esperimento genetico della Darkklon Corporation, apparentemente una multinazionale filantropica, in realtà il male assoluto in versione capitalista guidata dal terribile Rhazes Darkk. Tenth è costretto a nutrirsi di sangue per rimanere in vita e il suo unico desiderio è uccidere Darkk per vendicarsi di quanto gli ha fatto. Alla base di queste storie c’è sempre un conflitto ulteriore e sofferenza in quantità industriali: Tenth è un mostro a tutti gli effetti, è la parte bestiale dell’Uomo che cerca disperatamente di agire a fin di bene malgrado faccia a pezzi i cattivi e ne beva il sangue per sopravvivere. Ancora una volta il bene e il male si affrontano in una battaglia eterna. Concetti come morte, paradiso, inferno, vengono adoperati con grande disinvoltura e inseriti in un universo tecnologico e fantasy allo stesso tempo, estremamente cupo, dove i capovolgimenti di fronte e i colpi di scena sono all’ordine del giorno. Benché meno monolitici di Thor, i protagonisti di queste storie adolescenziali rimangono eroi nel vero senso della parola, capaci di imprese epiche, gesti disinteressati ed enormi sacrifici.
Completamente diverso lo stile della Vertigo. Le sceneggiature di Gaiman, per esempio, sembrano avere più a che fare con la letteratura che con i fumetti. Certo, i supereroi della DC Comics compaiono più volte al fianco del Signore dei Sogni, ma inseriti in un contesto completamente nuovo. Per non parlare poi di Preacher, di Garth Ennis e Steve Dillon, vicenda bella e delirante che con gli eroi in costume non ha praticamente nulla a che spartire. Il protagonista di Preacher, Jessie, è un giovane predicatore di Angelville, Texas. Nel primo episodio viene investito da una meteora caduta dal cielo che gli dona il Verbo divino. Già, il Verbo. Con il suo aiuto Jessie può ordinare a chiunque di fare qualsiasi cosa, ma deve vedersela con il Santo degli Assassini che gli da la caccia per ordine degli angeli, minacciati da tanto potere. L’unica possibilità che Jessie ha di sopravvivere è ritrovare Dio, scappato di nascosto dal Paradiso, per capire cosa sta succedendo. E questo è solo l’inizio. In seguito la vicenda si complica ed entrano in ballo un vampiro alcolizzato, una setta religiosa, l’esercito e via discorrendo. «Preacher è in parte un noir, in parte un horror, e in parte solo maledettamente strano. Be’, parecchio strano» ha scritto il romanziere Joe R. Lansdale nell’introduzione al primo volume, mentre Kevin Smith, il regista di Clerks, ha aggiunto in quello successivo: «Se Preacher dovesse offendere la delicata sensibilità di certa gente a causa delle loro convinzioni religiose, questo mi rattrista. Perché da uomo che ha una devota fede in Dio (…), io so che il Signore è potente, giusto e amorevole… ed è un grandissimo fan di Preacher». Lansdale, scrittore texano (La notte del Drive-in, Mucho Mojo, Freddo a Luglio), uno degli ultimi progressisti rimasti nel Sud degli Stati Uniti, è autore di un altro fumetto pubblicato dalla stessa casa, Jonah Hex, che ricorda i film di Sergio Leone con l’aggiunta di molto sangue e parecchi zombie. Jonah è un pistolero sfigurato, una specie di vendicatore maledetto con un suo senso dell’onore, che affronta gentaglia di diversa specie in un Far West rude, animalesco e sporco.
Questo stile influenza, trasformato e assorbito, la scrittura di Gaiman, e anche Nessun dove. Come nel caso di Sandman, gli stessi Preacher e Jonah Hex sembrano guardare alla letteratura e al cinema piuttosto che ai fumetti. James Ellroy, Flannery O’Connor, Lewis Carroll e perfino la mitologia classica, più Shakespeare nel caso di Gaiman. Un modo nuovo di scrivere e disegnare comics. Un bel modo.
L’immaginario di Gaiman è però ben diverso da quello di Lansdale, di Ennis e anche di Miller, tutti e tre profondamente americani. I suoi scenari, fatti di case inglesi ottocentesche, di vetrate liberty e chiese gotiche, alla fine sono più simili a quelli di Witchblade che di Preacher. In Sandman c’è infatti una matrice fantasy che manca negli altri titoli della Vertigo. Una matrice mischiata a elementi della cultura dark tipica degli anni Ottanta. Il Signore dei Sogni e sua sorella, con la pelle diafana e i capelli neri come la notte, sono una versione riveduta e corretta di Robert Smith dei The Cure, o di Siouxsie. E in fondo anche l’occultismo che pervade tutto il fumetto proviene da quella stessa cultura.
Nessun dove, nato come serial televisivo per la BBC, ha lo stesso stile eclettico ma privo delle influenze dark. Appartiene a un genere, la fantasy, ma se ne discosta notevolmente per un’infinità di elementi eterogenei che a volte ricordano le opere di Dickens e di Stevenson. A Londra Sotto, piena di vestigia del passato, sembra quasi di rivedere le strade immerse nella nebbia della versione cinematografica di Oliver Twist firmata nel 1948 da David Lean. In Nessun dove, però, gli abitanti di questo mondo in bianco e nero sono si tribù invisibili che vivono in una terra distante benché vicina, ma hanno allo stesso tempo una loro ricchezza. Disprezzano la gente normale quasi come le popolazioni nomadi disprezzano gli stanziali, e conducono una vita che alla fine per Richard è di gran lunga preferibile rispetto alla quella di Londra Sopra. Fin qui nulla di nuovo o di particolarmente originale. Quando però Gaiman scende nei dettagli la cosa si fa molto interessante. I parla-coi-ratti, il mercato ambulante che appare e svanisce senza lasciare tracce, i frati neri custodi della chiave, la famiglia di Lady Door con la sua innata abilità di aprire porte di ogni tipo, il Marchese de Carabas, il Conte nel suo vagone fantasma, Old Bailey e soprattutto mister Croup e mister Vandemar, il Gatto e la Volpe collodiani riproposti in versione horror, arricchiscono la storia rendendola ancora più avvincente. Del genere fantasy rimane la struttura di fondo che molto deve a Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien. In entrambi i libri c’è una compagnia in cerca di qualcosa (una chiave nel primo caso, un anello nel secondo), in una landa desolata e piena di pericoli. E c’è un signore oscuro e malvagio da sconfiggere, che sta tramando contro i nostri eroi e il mondo intero. Di conseguenza Nessun dove potrebbe anche essere il canovaccio per un'avventura o un'intera campagna del gioco di ruolo Advanced Dungeons Dragons, inventato nella sua prima versione da Gary Gygax nel 1973. Londra Sotto è un posto ideale per un gioco del genere e perfetti sono anche i personaggi. Hunter è visibilmente un ranger di livello elevato, il Marchese a tratti assomiglia a un ladro, Lady Porta a una maga con incantesimi di teletrasporto, mister Croup e mister Vandemar sono due assassini potentissimi, Islington un negromante e Richard… be', Richard potrebbe essere un guerriero di primo livello con dei punteggi bassi e pochi punti vita. Alla fine però, grazie a un tiro di dadi fortunato, riesce a dare il colpo di grazia al mostro che si aggira per il labirinto.
Quel che colpisce è il risultato finale di questa combinazione di elementi già noti, dettagli originali e suggestioni perse da Tolkien, Dickens, Stevenson e Carroll, dal mondo dei fumetti, dall'immaginario collettivo. Perfino la vicenda di Richard, che lascia una vita normale per essere catapultato in un'altra realtà, è stata sfruttata ampiamente nel cinema e nella letteratura. Eppure il libro scorre rapidamente come un bel film, anzi riesce perfino a ricreare magia, tensione e atmosfere di quelle stesse opere che evidentemente sono alla base della creatività di Gaiman. Cosi, leggendo Nessun dove, sembra di tornare indietro nel tempo fino a ritrovare la passione fanciullesca per i mondi nascosti, per i personaggi misteriosi e per gli eroi. E dato che il pubblico al quale Gaiman si rivolge non è fatto di ragazzini, i dettagli nel suo romanzo svolgono un ruolo fondamentale, perché servono a ridare vita a una favola che in fondo abbiamo già ascoltato, anni addietro. Immaginare un mondo come Londra Sotto o una metropoli del futuro come la Los Angeles di Biade Runner, vuol dire creare un'infinità di dettagli credibili e allo stesso tempo evocativi. Cosa sarebbe stato di Blade Runner senza la pioggia, senza mercati orientaleggianti iperaffollati, senza palazzi stile Frank Lloyd Wright? Londra Sotto è popolata di personaggi altrettanto particolari, di atmosfere altrettanto dense e luoghi altrettanto affascinanti, a partire dalle stazioni della metropolitana che si trasformano secondo il significato letterale dei loro nomi.
Al di là degli scenari ottocenteschi comuni a Sandman come a Nessun dove, la similitudine maggiore fra il Gaiman scrittore di romanzi e il Gaiman sceneggiatore è questa capacità di riportare in vita le emozioni del passato. Emozioni provate davanti alle avventure di Frodo e dei suoi compagni, e impossibili da resuscitare riprendendo in mano Il Signore degli Anelli, dato che i romanzi di Tolkien, come l'opera di Hermann Hesse, del resto, rientrano in quella speciale categoria di libri che sembrano invecchiare precocemente all'occhio dei lettori, libri che piacciono in un'età ben precisa e che in un dato momento della nostra vita, e solo in quello, brillano di luce intensa.
Per funzionare, Nessun dove non ha bisogno di uno stile ricercato. Leggendo il romanzo la scrittura sembra scomparire, permettendo al lettore di immergersi completamente nella storia senza filtri né mediazioni. Ed è un peccato che le pagine via via si assottiglino fino a terminare. In questo, Nessun dove assomiglia a La notte del drive-in, il libro più bello di Lansdale. Una vicenda assurda dove centinaia di persone rimangono intrappolate in un drive-in per giorni e giorni, fino a impazzire. Un altro mondo parallelo in cui, grazie a una capacità immaginativa capace di grandi dettagli e suggestioni, il lettore viene coinvolto dalla prima all'ultima pagina, come succede ai bambini quando gli si racconta una bella favola. E lo stesso accade leggendo Nessun dove, che a differenza de La notte del drive-in è una favola in tutto e per tutto. Una favola per adulti, in parte fantasy e in parte solo maledettamente strana, come avrebbe detto Lansdale.
Jaime D'Alessandro