Verrà un giorno in cui i mondi che circondano il nostro pianeta saranno facilmente raggiungibili e gli uomini si moveranno nell’universo con astronavi? I viaggi interplanetari diventeranno in futuro una cosa all’ordine del giorno? Come sarà organizzato l’universo quando non esisteranno più difficoltà di spostamento? Sarà un bene o un male per l’umanità? Correnti dello spazio, un romanzo ardito, organicamente costruito, verosimile e nello stesso tempo assurdo, risponde a tutte queste domande tratteggiando il fantastico quadro di un mondo futuro, un mondo in cui il progresso della scienza e della tecnica abbia del tutto mutata la struttura e le abitudini della nostra società e completamente rivoluzionato i concetti di spazio e di tempo.

Isaac Asimov

Le correnti dello spacio

Prologo

Il Terrestre giunse a una decisione. C’era arrivato lentamente, ma ora ormai irrevocabile. In origine era stata sua intenzione presentare un rapido rapporto alla sezione locale dell’Ufficio Spazio-Analitico Interstellare, e poi subito ritirarsi nello spazio. Viceversa lo avevano trattenuto. Quel posto era per lui ormai quasi come una prigione. Finì in fretta di bere il tè, guardò l’uomo che gli sedeva di fronte, e disse: «Io qui non ci rimango più.»

L’altro uomo giunse a una decisione. C’era arrivato lentamente, ma era ormai irrevocabile. Aveva bisogno di tempo, di assai più tempo. La risposta alle prime lettere era stata completamente negativa. Del resto se lo era aspettato. Era stata soltanto la prima mossa.

Comunque era certo che in attesa degli sviluppi futuri non poteva consentire che il Terrestre gli sfuggisse di mano. Accarezzò con le dita la verga nera nascosta nella tasca. Disse: «Lei non capisce la delicatezza del problema.»

Il Terrestre disse: «Che c’è di delicato nella distruzione di un pianeta? Io voglio che vengano diffusi via radio i particolari a tutto Sark, perché tutti sul pianeta li conoscano.»

«Non possiamo farlo. Sa bene che questo provocherebbe un panico spaventoso.»

Il Terrestre oppose una seconda obiezione. «Il rappresentante dell’U.S.I. non è ancora arrivato.»

«Lo so. Si stanno occupando delle necessarie procedure organizzative inerenti a questa crisi. Ancora un paio di giorni al massimo.»

«Ancora un paio di giorni? Mi risponde sempre la stessa cosa! Hanno dunque proprio tanto da fare da non riuscire a trovare neppure un momento libero? Se non hanno nemmeno visto i miei calcoli!»

«Io mi ero offerto di portar loro i suoi calcoli ma lei si è rifiutato di consegnarmeli.»

«E continuo a rifiutarmi. O loro vengono da me o io vado da loro.» Aggiunse con violenza: «Non penso che lei mi creda. Lei non crede che Florina sarà distrutta.»

«Io lo credo, invece.»

«No. Lo so che non mi crede. Lo capisco dalla sua faccia. Lei sta semplicemente cercando di temporeggiare. Lei non può capire la portata della mia scoperta. Lei non è uno Spazio-Analista. Non credo nemmeno che lei sia chi dice di essere. Chi è veramente?»

«Si sta scalciando per niente.»

«E si sorprende! Lei pensa semplicemente: poveraccio! Lo spazio lo ha reso pazzo. Perché mi crede pazzo, vero?»

«Sciocchezze!»

«Purtroppo è così. Per questo voglio parlare con quelli dell’U.S.I. Loro capiranno se sono pazzo o no.»

L’altro uomo ricordò la propria decisione. Disse: «Lei non sta bene. Voglio aiutarla.»

«Non mi aiuterà affatto» gridò il Terrestre al colmo dell’eccitazione «perché adesso io me ne vado. Può ammazzarmi se vuole, ma non oserà farlo, perché sa che altrimenti il sangue della popolazione di un intero pianeta ricadrebbe su di lei.»

Anche l’altro uomo cominciò a gridare per farsi sentire.

«Io non ho nessuna intenzione di ucciderla. Mi ascolti, non voglio ucciderla. Non è affatto necessario che la uccida.»

Il Terrestre disse: «Ma mi imprigionerà, mi sequestrerà qui dentro. È questo che sta pensando di fare, vero? E come si comporterà quando l’U.S.I. comincerà a cercarmi? Perché sa che quella gente attende da me relazioni sistematiche.»

«L’Ufficio sa che con me lei è al sicuro.»

«Davvero? Scommetto che ignorano persino che io abbia raggiunto il pianeta e credo che non abbiano nemmeno ricevuto il mio primo messaggio!» Il Terrestre si sentì a un tratto cogliere da vertigini, il corpo irrigidito.

L’altro uomo si alzò. Sentiva di non poter più tornare sulla propria decisione. Fece lentamente il giro del lungo tavolo, si avvicinò al Terrestre e gli disse con voce suadente, cavando di tasca la verga nera: «Agisco unicamente per il suo bene.»

Il Terrestre balbettò: «Quella è una sonda psichica» ma le parole gli uscirono dalla gola smozzicate, e quando tentò di alzarsi non riuscì quasi a muovere braccia e gambe.

Con i denti stretti da un irrigidimento simile al “rigor mortis”: «Mi ha drogato!» disse.

«Sì, è vero» convenne l’altro uomo. «Ora però mi ascolti bene; non intendo farle del male, ma è impossibile che possa comprendere tutta la delicatezza della questione finché sarà così eccitato e ansioso. Io voglio unicamente liberarla da questa angoscia che la opprime.»

Il Terrestre non era più in grado di parlare, immobilizzato sulla sedia riusciva soltanto a pensare confusamente: “Spazio Onnipotente, mi hanno drogato”. Voleva gridare, urlare, fuggire, ma sembrava che una mano misteriosa lo avesse inchiodato dov’era.

Frattanto l’altro uomo aveva raggiunto il Terrestre. Gli si fermò davanti e lo guardò. Il Terrestre alzò gli occhi verso di lui. Riusciva ancora a muovere le pupille.

La sonda psichica era un complesso automatico indipendente. Bastava introdurre l’ago leggermente alla base della fronte, tra i due occhi. Il Terrestre fissava affascinato e inorridito i movimenti dell’altro finché anche i suoi nervi ottici s’irrigidirono. Avvertì la puntura sottile mentre i minuscoli aguzzi scandagli sondavano attraverso la cute e la carne per stabilire il contatto con le suture delle ossa craniali.

Urlò sino a perdere la voce nel silenzio della propria mente. Gridò con disperazione: «Non capisce? È un pianeta abitato. Non si rende conto che non può assumersi la responsabilità di far perire centinaia di milioni di esseri viventi?»

Il Terrestre senti la sottile vibrazione contro il proprio cranio, poi anche questa scomparve L’oscurità s’infittì, cadde su di lui. Una parte di essa non si diradò mai più. Ci volle un anno perché alcuni isolati frammenti di tenebra si squarciassero.

1

Rik posò l’alimentatore e balzò in piedi. Si mise a urlare: «Ricordo!»

Gli altri lo guardarono e per un attimo il mormorio degli uomini seduti a colazione cessò. Numerosi occhi conversero su di lui; i volti erano tutti ugualmente puliti e sbarbati; ma quegli occhi non mostravano alcun vero interesse, solo l’attenzione riflessa che provoca ogni grido improvviso e inatteso.

Rik tornò a gridare: «Ricordo quello che facevo! Ricordo la mia occupazione!»

Qualcuno urlò: «Zitto!» E qualcun altro intimò: «Siedi!»

Rik tornò lentamente a sedere e prese tra le mani l’alimentatore, un congegno a forma di cucchiaio, dai bordi aguzzi, con minuscoli denti sporgenti dalla curva anteriore della ciotola, che riuniva pertanto in sé le funzioni di coltello, cucchiaio e forchetta. Per un operaio dell’opificio era abbastanza. Lo rigirò più volte, fissando, senza vederlo, il proprio numero impresso sul dorso del manico. Non aveva bisogno di vederlo. Lo conosceva a memoria. Anche gli altri avevano come lui numeri di matricola, ma gli altri avevano anche dei nomi. Lui no. Lo chiamavano Rik perché questo nel gergo degli opifici dove si lavorava il kyrt significava pressappoco “deficiente”. E spesso anche lo chiamavano “Rik il Matto”.

Forse adesso avrebbe seguitato a ricordare sempre di più. Era la prima volta dacché era giunto all’opificio che ricordava qualcosa di prima. Se fosse riuscito a pensare intensamente! Se si fosse sforzato di pensare tendendo tutta la sua volontà!

A un tratto non ebbe assolutamente più fame. Con gesto improvviso gettò l’alimentatore nel blocco gelatinoso di carne e di verdura che gli stava dinanzi, respinse il cibo lontano da sé e nascose gli occhi nel palmo delle mani, mentre con le dita si tormentava i capelli nel disperato tentativo di seguire la propria mente nell’abisso dal quale essa aveva estratto un’unica cosa… un oggetto fangoso, indecifrabile.

Infine scoppiò in lacrime, proprio mentre la campana annunciava la fine dell’intervallo di colazione.

Quella sera, quando lui lasciò l’opificio, Valona March gli si mise accanto. Dapprima lui non se ne accorse neppure. Poi si fermò e la guardò. Aveva i capelli biondo-castano, e li portava raccolti in due grosse trecce strette da due minuscole spille calamitate e ornate di pietre verdi. Erano spille da poco prezzo e avevano un aspetto usato. Indossava un semplice vestito di cotone più che sufficiente in quel clima mite.

«Ho saputo che all’ora di colazione è successo qualcosa» disse Valona.

Parlava con l’accento spiccato, pesante dei contadini. Il linguaggio di Rik invece era ricco di vocali aperte e aveva un’intonazione nasale.

«Non è successo niente, Lona» mormorò Rik.

Lei insistette: «Ho saputo che hai detto di ricordare qualcosa. È vero, Rik?»

Anche lei lo chiamava Rik. Non vi era altro modo come chiamarlo. Non ricordava il suo vero nome, anche se aveva cercato disperatamente di ricordarselo e Valona lo aveva aiutato. Un giorno era riuscita a ottenere chissà come una vecchia guida cittadina e gli aveva letto tutti i nomi di nascita, ma tutti gli erano sembrati sconosciuti.

Rik la fissò e disse: «Dovrò lasciare l’opificio.»

Valona aggrottò la fronte. «Non credo che tu possa andartene. Non sarebbe giusto.»

«Bisogna che sappia di più su me stesso.»

Valona si morsicò le labbra. «Forse non ti conviene.»

Rik distolse lo sguardo da lei. Sapeva che la sua preoccupazione era sincera. Prima di tutto era stata lei a ottenergli l’impiego all’opificio perché lui non aveva alcuna esperienza di macchine e di meccanismi, o forse sì, ma non se ne ricordava. In ogni caso Lona aveva insistito dicendo che lui era troppo mingherlino per essere adibito alle fatiche manuali e avevano acconsentito a impartirgli un addestramento tecnico gratuito. Prima di questo, nei giorni spaventosi durante i quali non riusciva quasi ad articolare parola e quando non sapeva neppure che cosa fosse il cibo essa lo aveva curato e nutrito.

Era stata Valona a tenerlo in vita.

Disse: «Devo andare.»

«Ti è tornato il mal di testa, Rik?»

«No. Effettivamente ricordo qualcosa. Ricordo qual era il mio lavoro prima… prima!»

Non sapeva se doveva parlargliene. Abbassò gli occhi. Il sole caldo e gradevole era da almeno due ore al di sopra dell’orizzonte. Le monotone file di cubicoli per operai che si stendevano tutt’intorno agli opifici erano brutte, ma Rik sapeva che non appena avessero raggiunto l’erta, il campo sarebbe apparso ai loro sguardi in tutto il suo splendore d’oro e di porpora.

Gli piaceva contemplare i campi. Sin dal principio la loro presenza lo aveva placato e riconfortato. In quei giorni, durante i turni di riposo, Valona si faceva dare in prestito una motoretta diamagnetica e lo portava fuori del villaggio. Circolavano veloci, a pochi centimetri dalla superficie stradale, scivolando sull’imbottita levigatezza del campo antigravitazionale, finché venivano a trovarsi lontani miglia e miglia da ogni abitazione umana e intorno a loro non vi era che il kyrt in fiore. Si mettevano allora a sedere sul ciglio della strada, attorniati di colori e di profumi, finché non giungeva l’ora di rientrare.

Quel ricordo commosse Rik. Disse: «Andiamo nei campi, Lona.»

«È tardi.»

«Per favore! Solo qui vicino! Appena fuori di città.»

Valona toccò il sottile borsellino che teneva sotto la cintura di morbida pelle turchina, il solo lusso che si concedeva nel vestire.

Rik la prese per un braccio: «Andiamo a piedi.»

Mezz’ora dopo lasciavano la strada maestra e imboccavano i sentieri senza polvere di sabbia compressa. Un pesante silenzio li circondava e Valona si sentì attanagliare da una ben nota paura. Che cosa succederebbe se lui la lasciasse? Era piccolo, non più alto di lei. In un certo senso era ancora come un bambino in fasce, ma prima che gli avessero spento la mente doveva essere stato un uomo colto e importante.

Valona non sapeva che leggere e scrivere e quel tanto di tecnologia industriale che le consentiva di manovrare le macchine dell’opificio, ma sapeva pure che non tutti erano così limitati. C’era il Borgomastro, naturalmente, il cui grande sapere era così prezioso per tutti loro. Di quando in quando poi giungevano in visita di ispezione i Signori. Da vicino non li aveva mai visti ma una volta, durante un giorno di festa, aveva visitato la città e in lontananza aveva veduto un gruppo di persone incredibilmente meravigliose. Ogni tanto era concesso ai lavoratori di ascoltare quel che diceva la gente istruita. Parlavano in modo diverso, più scorrevole, con parole più lunghe e intonazioni più dolci. Così aveva incominciato a parlare anche Rik a mano a mano che la memoria migliorava.

Le sue prime parole l’avevano spaventata. Le erano giunte improvvise, dopo che aveva a lungo pianto per un mal di testa. Sin da allora aveva temuto che potesse ricordare troppe cose e che la lasciasse. Lei non era che Valona March. La chiamavano la Grossa Lona. Non si era mai sposata, né mai si sarebbe sposata. Una ragazzona grande e grossa come lei, dalle mani arrossate dal lavoro, non poteva sposarsi. Doveva accontentarsi di guardare scontrosa e risentita i giovani che la ignoravano alle feste, durante i giorni di riposo. Ma quando era venuto Rik le era parso di aver trovato un bambino. Doveva essere nutrito e curato, bisognava portarlo fuori al sole e curarlo quando quegli atroci mali di testa lo torturavano.

I ragazzi solevano correrle dietro ridendo e urlando: «Lona ha trovato un amico! La Grossa Lona ha trovato un amico matto. L’amico di Lona è un Rik.»

Più tardi, quando Rik fu in grado di camminare da solo ed era uscito solo per le strade del villaggio, si erano messi a girargli intorno, strepitando e schernendolo per il piacere meschino di vedere un uomo adulto coprirsi gli occhi impaurito e ritrarsi, incapace di rispondere ai loro insulti se non con piagnucolii. Quante volte Lona era uscita di casa come una furia, minacciandoli coi pugni.

Persino gli uomini temevano quei pugni. Aveva abbattuto con un sol colpo il suo caporeparto, il primo giorno in cui aveva portato Rik a lavorare all’opificio, per via di una osservazione scurrile sul loro conto che l’altro aveva fatta. Il consiglio di fabbrica l’aveva multata per quell’incidente, togliendole una settimana di paga, e l’avrebbero probabilmente mandata in Città, davanti al tribunale dei Signori per essere nuovamente processata, se il Borgomastro non si fosse interposto adducendo l’attenuante della provocazione.

Per questo Valona desiderava che Rik non continuasse a ricordare. Sapeva di non avere niente da offrirgli; certo, era egoista a desiderare che lui restasse per sempre con la mente vuota, incapace di pensare, ma il ritorno alla sua squallida solitudine l’atterriva.

Disse: «Sei sicuro di ricordare, Rik?»

«Sì.»

Si fermarono in mezzo ai campi ancora più ardenti e luminosi sotto la vampa del sole che tramontava. Presto si sarebbe levata la mite, profumata brezza della sera.

Rik disse: «Posso fidarmi dei miei ricordi a mano a mano che mi tornano alla memoria. Tu lo sai che lo posso, Lona. Per esempio non mi hai insegnato tu a parlare. Le parole me le sono ricordate da solo. Non è vero, forse?»

Valona rispose a malincuore: «Sì.»

«E adesso ricordo qualcosa di me di prima. Perché deve esserci stato un prima, Lona.»

Si, doveva esserci stato un prima. Quando ci pensava, sentiva una fitta al cuore. Era un prima diverso, che non assomigliava in niente all’ora in cui vivevano adesso. Era stato su un mondo diverso, anche Valona lo sapeva perché la sola parola che Rik non fosse mai riuscito a ricordare era “kyrt”. Aveva dovuto insegnargliela come la rappresentazione della cosa più importante esistente nell’universo di Florina.

«Che cosa ricordi?» domandò.

A quelle sue parole l’animazione di Rik parve improvvisamente spegnersi. «Ben poco, Lona» rispose, titubante. «Ricordo soltanto che una volta avevo un’occupazione, e ricordo anche quale occupazione fosse, in un certo senso, almeno.»

«Che cosa facevi?»

«Analizzavo il Nulla.»

La donna si voltò bruscamente, fissandolo negli occhi, e per un attimo gli posò sulla fronte il palmo della mano, ma subito lui si scostò, indispettito. Valona domandò: «Non hai mal di testa, per caso, Rik? Sono molte settimane che non ti lamenti più…»

«Sto benissimo. Non mi seccare.»

La donna abbassò gli occhi e Rik si affrettò ad aggiungere: «Intendevo dire soltanto che sto bene e non voglio che ti preoccupi per me.»

Il volto di Valona s’illuminò. «Che cosa significa “analizzavo”?» chiese. Rik sapeva parole che lei ignorava. Si sentiva molto umile, al pensiero di quanto lui doveva essere stato istruito un tempo.

Rik rifletté per un istante: «Significa… significa “separare”. Sai, come quando noi mettiamo da parte un selezionatore per scoprire come mai il cilindro esploratore sia uscito di allineamento.»

«Oh, ma, Rik, che mestiere può essere quello di non analizzare niente? Non è un mestiere.»

«Io non ho detto che non analizzavo niente. Ho detto che analizzavo il Nulla.»

«E non è la stessa cosa?»

«No, non è la stessa cosa.» Respirò profondamente. «Temo di non riuscire a spiegarti la differenza, però. Purtroppo è la sola cosa che ricordo, ma dev’essere stato un lavoro importante; ne ho la netta sensazione. È impossibile che io fossi un criminale.»

Valona ebbe una smorfia di dolore. Questo lei non avrebbe mai dovuto dirglielo. Verso se stessa si era giustificata pensando che lo aveva avvertito unicamente per proteggerlo, ma ora capiva che lo aveva fatto, invece, per tenerlo legato più strettamente a sé.

Era successo quando Rik aveva cominciato a parlare. Era stata colta talmente alla sprovvista da restarne spaventata. Non aveva neppure osato confidarsi col Borgomastro. Il primo giorno di riposo aveva ritirato cinque buoni di credito dal proprio vitalizio — non vi sarebbe mai stato nessun uomo a reclamare in dote quella modesta cifra, perciò la cosa non aveva importanza — e aveva portato Rik da un medico della Città. Si era segnata il nome e l’indirizzo su un pezzetto di carta, ciononostante aveva trascorso due ore spaventose a trovar la direzione giusta tra gli enormi pilastri che tenevano sospesa verso il sole la Città Alta.

Aveva insistito per essere presente: il medico aveva eseguito ogni sorta di paurose esperienze con i suoi strani strumenti. Quando aveva messo la testa di Rik tra due oggetti di metallo e l’aveva fatta luccicare come luccica nella notte una farfalla del kyrt, era balzata in piedi e aveva tentato di frenarlo. Il medico allora aveva chiamato due uomini che l’avevano trascinata fuori, nonostante ella si dibattesse disperatamente.

Mezz’ora più tardi il medico era uscito a sua volta per parlare, alto, severo.

Le aveva chiesto: «Quando hai conosciuto quest’uomo?»

Gli aveva spiegato con cautela le circostanze essenziali, riducendole al minimo necessario e tralasciando ogni accenno al Borgomastro e ai pattugliatori.

«Allora non sai niente di lui?»

Valona aveva scosso la testa.

Il medico le aveva spiegato: «Quest’uomo è stato sottoposto a un sondaggio psichico. Sai che cos’è?»

«È quello che fanno ai matti, Dottore?»

«E ai criminali. Lo si fa per trasformare le loro menti per il loro bene. Le rende sane, o muta quelle parti di esse che li inducono a rubare e uccidere. Capisci?»

Valona aveva capito. Era arrossita e aveva detto: «Rik non ha mai rubato niente né ferito nessuno.»

«Lo chiami Rik?» Il medico pareva divertito. «Ora, ascoltami bene, come puoi sapere quello che ha fatto prima che tu lo conoscessi? È difficile capirlo dalle condizioni attuali della sua mente. Il sondaggio è stato compiuto in modo totale e brutale. Io non posso dire quanta parte della sua mente sia stata permanentemente asportata e quanta parte si sia invece temporaneamente perduta sotto l’effetto del trauma. Ciò che intendo dire è che una parte di essa ritornerà, col passare del tempo, come gli è tornata la favella, ma non in modo completo. Dovrebbe essere tenuto sotto osservazione.»

«No, no. Deve restare con me. Io lo curo bene, sa?»

Il medico aveva corrugato la fronte, ma subito la sua voce si era raddolcita. «Io mi preoccupo per te, figliola. Può darsi che non tutto il male sia uscito dalla sua mente e non vorrei che un giorno ti nuocesse.»

In quel momento un’infermiera aveva condotto Rik. Lo vezzeggiava per calmarlo come si fa coi bambini. Rik si era portato una mano alla testa e guardava fisso nel vuoto finché i suoi occhi avevano riconosciuto Valona; allora le aveva teso le mani chiamando debolmente: «Lona…»

Lei era scattata in piedi e gli aveva stretto la testa contro la propria spalla, accarezzandolo dolcemente, poi si era rivolta al dottore: «Non potrà mai farmi del male, qualunque cosa accada.»

Il medico aveva detto con aria pensosa: «Naturalmente dovrò stendere un rapporto sul suo caso. Non capisco come sia sfuggito sinora alle autorità, date le condizioni nelle quali dev’essere stato trovato.»

«Questo significa che lo porteranno via, Dottore?»

«Ho paura di sì.»

«Oh, la prego, non dica niente.» Si era messa a torcere il fazzoletto in cui luccicavano le cinque monete di lega di credito implorando: «Le prenda tutte, Dottore. Io lo curerò bene. Le assicuro che non farà del male a nessuno.»

Il medico aveva soppesato nella mano le monete: «Lavori all’opificio, vero?»

Valona aveva annuito.

«Quanto ti pagano la settimana?»

«Due ottavi di credito.»

Il medico aveva agitato le monete nel cavo della mano facendole tintinnare, quindi gliele aveva restituite: «Tienle pure, figliola. Questa visita è gratuita.»

Valona le aveva accettate stupita: «Allora non dirà niente a nessuno, Dottore?»

Ma il medico aveva risposto: «Purtroppo non è possibile: è la legge.»

Era tornata al villaggio guidando alla cieca, e stringendo disperatamente a sé Rik.

La settimana successiva il notiziario ipervisivo aveva trasmesso che un medico era morto in uno scontro durante una breve interruzione di corrente lungo il transito locale. Il nome del medico le era parso familiare, e nella sua stanza, quella sera, lo aveva confrontato con quello scritto sul pezzetto di carta. Era lo stesso.

Ne fu rattristata perché, nonostante che fosse un Signore, era stato un brav’uomo. Ma il suo rammarico fu presto sopraffatto da una gioia immensa: il medico non poteva aver avuto il tempo di deferire alle autorità il caso di Rik. Comunque nessuno mai era venuto a fare ricerche.

Più tardi, quando la cerchia delle cognizioni di Rik si era allargata, lei gli aveva spiegato ciò che il medico le aveva detto per indurlo a starsene tranquillo al villaggio.

Rik la scosse, destandola dalle sue fantasticherie.

Le stava dicendo: «Non potevo essere un criminale, dal momento che avevo un lavoro importante.»

«Non può darsi che tu abbia commesso un errore?» disse Valona, esitante.

«Sono certo che è impossibile. Ma non capisci che io debbo saperlo in modo che gli altri possano sentirsi sicuri? Non c’è altro mezzo. Bisogna che lasci l’opificio e il villaggio, e scopra di più sul mio vero essere.»

Valona si sentì invadere dal panico. «Rik! Questo sarebbe pericoloso. E perché vorresti farlo? Anche se tu analizzavi il Nulla, perché è tanto importante che tu ne sappia di più sul tuo conto?»

«Per via dell’altra cosa che ricordo.»

«Quale altra cosa?»

Rik mormorò: «Non te la posso dire.»

«Eppure a qualcuno dovresti dirla. Potresti dimenticartela di nuovo.»

Lui l’afferrò per un braccio. «Hai ragione. Però non ne parlerai con nessuno, vero, Lona?»

«Te lo prometto, Rik.»

Rik si guardò intorno. Il mondo era bellissimo. Valona gli aveva spiegato una volta che vi era nella Città Alta, miglia e miglia al di sopra di essa, una immensa insegna luminosa che diceva: “Di tutti i Pianeti della Galassia, Florina è il più bello.” E mentre si guardava intorno capiva che non era difficile crederlo.

Disse: «È terribile ricordare, ma, quando ricordo, ricordo sempre con esattezza. Mi è venuto in mente questo pomeriggio.»

«Sì?»

Lui la guardò con orrore: «Tutti nel mondo dovranno morire; tutti gli abitanti di Florina.»

2

Myrlyn Terens stava togliendo dal suo posto sullo scaffale un libro-film quando suonò il segnale della porta d’ingresso. La sua faccia gonfia era assorta in meditazione, ma immediatamente ogni traccia di concentrazione sparì. Il Borgomastro si passò una mano sui capelli radi, rossicci, e gridò: «Un momento.»

Ripose il film e premette il contatto che faceva tornare automaticamente a posto il pannello di copertura rendendolo indistinguibile dal resto della parete. Per gli umili contadini e operai dell’opificio con i quali aveva a che fare era oggetto di vago orgoglio che uno di loro, per nascita almeno, possedesse dei film.

Ma la loro vista avrebbe guastato le cose, avrebbe raggelato le loro lingue già non troppo articolate. Potevano vantarsi dei libri del loro Borgomastro, ma l’effettiva presenza di essi sotto i loro occhi avrebbe fatto troppo assomigliare Terens a un Signore.

Vi erano naturalmente anche i Signori. Era molto improbabile che qualcuno di loro lo venisse a trovare socialmente in casa sua, ma se uno di costoro fosse entrato per una ragione o per l’altra sarebbe stato poco prudente lasciare esposta una serie di film. Egli era un Borgomastro e la consuetudine gli consentiva alcuni privilegi, ma non era opportuno ostentarli.

Infine Terens spalancò la porta. «Entra, Valona. Siedi. Dev’essere certamente passata l’ora del coprifuoco. Spero che i pattugliatori non ti abbiano vista.»

«Non credo, Borgomastro.»

«Be’, speriamo. Purtroppo, come sai, hai dei pessimi precedenti.»

«Sì, Borgomastro, e le sono molto grata per quanto ha fatto per me in passato.»

«Lascia perdere. Su, siedi. Vuoi qualcosa?»

Valona sedette, impettita, sull’orlo di una seggiola e scosse la testa. «No, grazie, Borgomastro» disse. «Ho già mangiato.»

Terens le domandò: «Che cosa c’è, Valona? Si tratta un’altra volta di Rik?»

Valona annuì ma sembrava ammutolita e incapace di fornire ulteriori spiegazioni.

«Ha avuto dei guai all’opificio?» domandò Terens.

«No, Borgomastro.»

Terens attese, mentre i suoi occhi chiari si rimpicciolivano e assumevano un’espressione severa. «Insomma, Valona, parla, altrimenti non potrò aiutarti. Perché vuoi che io ti aiuti, immagino.»

Valona disse: «Sì, Borgomastro» quindi proruppe «ma come posso dirlo, Borgomastro? Mi sembra così assurdo.»

«Qualunque cosa sia, ti ascolto.»

«Ricorda, quando sono venuta a riferire della mia visita al dottore della Città e le ho ripetuto quel che lui mi aveva detto?»

«Sì, ricordo, Valona. E ricordo soprattutto di averti raccomandato di non fare mai più una cosa simile senza prima consultarmi. Questo lo ricordi?»

«Non oserei mai più fare una cosa del genere, Borgomastro. Solo voglio ricordarle che allora mi aveva detto che avrebbe fatto di tutto per aiutarmi a conservare Rik.»

«Ed è quello che farò. Dunque, i pattugliatori hanno chiesto di lui?»

«No. Oh, Borgomastro! Potrebbero farlo?»

«Sono convinto di no.» Terens cominciava a perdere la pazienza: «Su, andiamo, Valona, raccontami che cosa è successo.»

Gli occhi di lei si velarono. «Borgomastro, Rik dice che mi deve lasciare. Io voglio che glielo impedisca.»

«Perché ti vuole lasciare?»

«Perché, dice, comincia a ricordare molte cose.»

Un vivo interesse si dipinse sul volto di Terens. Si protese in avanti, e si trattenne a stento dal prenderle la mano. «Comincia a ricordare molte cose? Quali cose?»

Terens rammentò il giorno in cui Rik era stato trovato. Aveva veduto alcuni ragazzini stretti intorno a uno dei canali d’irrigazione che scorrevano appena fuori del paese. Essi lo avevano scorto e avevano alzato le loro voci stridule per chiamarlo.

«Borgomastro! Borgomastro!»

Si era messo a correre. «Che cosa c’è, Rasie?» Si era prefisso, appena era giunto al villaggio, d’imparare a memoria i nomi di tutti i ragazzini. Questo era piaciuto alle madri e aveva facilitato il suo compito, durante quei primi mesi.

Rasie era pallido come se stesse per dare di stomaco. Disse: «Guardi laggiù, Borgomastro.»

Rasie, un ragazzino dodicenne, nerissimo di capelli, aveva sentito i lamenti e si era avvicinato cautamente, aspettandosi di avere a che fare con un animale, magari un topo campagnolo che avrebbe fornito loro il pretesto per una allegra caccia, e così aveva scoperto Rik.

Uno dei ragazzi era scoppiato a ridere. «Guardi, Borgomastro! Si succhia le dita.»

L’improvvisa risata aveva disturbato la figura prona la cui faccia si era arrossata contorcendosi. A quella vista Terens si era scosso dallo stupore. Aveva detto: «Va bene, sentite, ragazzi, non dovreste essere qui a correre in un campo di kyrt. Filate via subito, e non dite niente di quello che avete visto. Tu però, Rasie, corri dal signor Jencus e digli di venire qui al più presto.»

Ull Jencus era quel che di più prossimo a un medico poteva offrire il villaggio. Aveva seguito un certo apprendistato negli ambulatori di un dottore vero e in base a questo era stato dispensato dal lavorare nelle fattorie e negli opifici. Sapeva misurare la febbre, somministrare pillole, fare iniezioni e quel che più importava sapeva capire quando una malattia era abbastanza grave per autorizzare il trasporto dell’infermo all’ospedale cittadino.

Jencus aiutò Terens a sollevare l’infelice, a montarlo su una motoretta e a trasportarlo in città nel modo più discreto possibile. Insieme lo lavarono e lo ripulirono del sudiciume che gli si era accumulato addosso. Jencus lo rapò a zero e fece quanto era in suo potere per visitarlo dal punto di vista clinico. Infine concluse: «Per conto mio non è contagiato da nessuna malattia infettiva, Borgomastro. Per nutrito è nutrito. Le costole non gli escono poi tanto in fuori. Proprio non so che diavolo abbia. Come crede che sia capitato qui, Borgomastro?»

Terens rispose: «Francamente non lo so.»

«Non può camminare, non può muovere un passo. Qualcuno deve averlo messo qui. Per quel che ne capisco io potrebbe essere un bambino appena nato. Sembra che non ricordi proprio niente di niente.»

«C’è una malattia che produce questo effetto?»

«No, che io sappia. Però potrebbe essere un’alterazione mentale, ma di queste cose io non m’intendo. Quando si tratta di casi di alterazione mentale io li mando subito alla Città. Lei quest’uomo non lo conosce proprio, Borgomastro?»

Terens sorrise e rispose con dolcezza: «Io sono arrivato da un mese soltanto.»

Jencus sospirò e si tastò in cerca del proprio fazzoletto. «Già. Il vecchio Borgomastro, che brav’uomo! Come si occupava di noi! Io sono qui da quasi sessanta anni, invece, ma questo tipo non l’ho mai visto prima. Dev’essere di un’altra città. Non so proprio che cosa raccontare ai pattugliatori.»

I quali vennero, naturalmente. Era impossibile evitarli. I ragazzi avevano parlato coi loro genitori; i genitori si erano consultati tra loro. La vita della cittadina era sempre così tranquilla. Si trattava di un avvenimento troppo insolito perché restasse segreto e perciò era impossibile che non giungesse all’orecchio dei pattugliatori.

I pattugliatori, così erano chiamati, appartenevano alla Squadra di Sorveglianza floriniana. Non erano nativi di Florina e d’altra parte non erano neppure compatrioti dei Signori abitatori del pianeta Sark. Erano semplici mercenari sui quali si poteva contare per mantenere l’ordine, lautamente pagati com’erano, senza che venissero spronati a mal fare per simpatia nei riguardi degli abitanti di Florina attraverso legami di sangue o di nascita.

Erano in due e li accompagnava un caposquadra dell’opificio.

I pattugliatori si mostrarono seccati e indifferenti. Uno di loro disse al caposquadra: «Be’, quanto ti ci vuole per eseguire una identificazione? Chi è quest’uomo?»

Il caposquadra scosse energicamente il capo: «Io non l’ho mai visto, Ufficiale. Non è uno di qui!»

Il pattugliatore si era rivolto a Jencus : «Non aveva qualche documento addosso?»

«Nossignore. Indosso non aveva che uno straccio che ho bruciato per impedire un possibile contagio.»

«Ma che cos’ha?»

«È senza cervello, a quel che ho capito.»

A questo punto Terens aveva preso in disparte i pattugliatori, che in quella circostanza imbarazzante si mostrarono condiscendenti. Il pattugliatore che aveva rivolto le domande ripose il proprio taccuino e disse: «Va bene, non vale la pena di stendere un rapporto per così poco. È una storia che non ci riguarda. Se ne sbarazzi come meglio crede.»

Quindi se ne erano andati.

Ma il caposquadra era rimasto. Era un uomo tutto efelidi, rosso di capelli, con due gran baffi a punta. Era un caposquadra di rigidi principi e teneva il proprio posto da cinque anni, il che significava che la responsabilità del raggiungimento della quota, per quanto riguardava l’opificio, poggiava in gran parte sulle sue spalle.

«Senta un po’» disse brusco «che cosa facciamo? La gente non fa che parlare e non lavora più.»

«Lo mandi all’ospedale della Città» disse Jencus manovrando affannosamente il proprio fazzoletto.

«Mandarlo alla Città?» Il caposquadra lo aveva guardato inorridito. «E chi pagherà le spese? Mica è uno di noi, vero?»

A questo punto era intervenuto Terens. «Stammi un po’ a sentire. Che cosa intendi fare, di preciso?»

Il caposquadra aveva risposto: «È come se fosse morto. Sarebbe un’opera di misericordia.»

«Ma non si può ammazzare una creatura che è ancora in vita.»

«Consigli lei allora quel che conviene fare.»

«Qualcuno del paese non se ne può occupare?»

«E chi si prende una briga simile? Lei, per caso?» Terens ignorò l’atteggiamento apertamente insolente. «Io ho altro da fare.»

«E nelle stesse condizioni sono tutti quanti. Non posso permettere che la gente trascuri il proprio lavoro all’opificio per occuparsi di questo disgraziato privo di cervello.»

Terens sospirò e disse senza rancore: «Stammi a sentire, Caposquadra, cerchiamo di essere ragionevoli. Se non raggiungi la quota durante il trimestre in corso posso imputare la cosa al fatto che uno dei tuoi operai si occupa di questo povero diavolo, e in tal caso parlerò io ai Signori in tua difesa. In caso contrario dirò semplicemente che non so per quale motivo tu non abbia raggiunto la quota, ammesso che questo effettivamente si verifichi.»

Il caposquadra era furibondo. Quel Borgomastro era al villaggio da un mese soltanto e già si intrometteva negli affari di chi ci abitava da tutta una vita; ma purtroppo possedeva una tessera recante il timbro dei Signori, e sarebbe stato poco prudente osteggiarlo apertamente.

Si limitò a chiedere: «Ma chi vuole che se lo prenda?» Improvvisamente un orribile sospetto lo colpì. «Io no, eh? Io non posso! Ho tre figli a carico e la moglie ammalata.»

«Non ho detto affatto che te lo debba prendere tu.»

Terens si era affacciato alla finestra. Ora che i pattugliatori se n’erano andati la folla inquieta e sussurrante si era assiepata intorno alla sua casa. Erano quasi tutti ragazzi, troppo giovani ancora per lavorare, altri invece erano contadini delle vicine fattorie. Pochi altri ancora erano operai, appena smontati dal turno.

Terens notò, ai margini della folla, quella ragazza alta. L’aveva osservata spesso nel mese che era trascorso. Era forte, capace, instancabile sul lavoro, e sotto la sua espressione malinconica si nascondeva una discreta intelligenza naturale.

Chiese: «Se lo affidassimo a quella?»

Il caposquadra si affacciò a guardare, e subito tuonò: «Maledizione! Dovrebbe essere al lavoro.»

«D’accordo» lo placò Terens «ma come si chiama?»

«Valona March.»

«È vero; adesso mi ricordo. Falla entrare.»

Da quel momento Terens si era autonominato tutore ufficioso dei due. Aveva fatto tutto il possibile per procurar loro razioni supplementari di cibo, tagliandi di vestiario extra e tutto ciò che era necessario per consentire a due adulti (di cui uno non immatricolato) di vivere delle entrate di uno solo. Si era adoperato per aiutarla a fare accettare Rik alla scuola di addestramento presso la manifattura di kyrt. Era intervenuto per impedire una punizione più grave quando Valona aveva litigato con un caporeparto. La morte del medico aveva reso inutile ogni suo eventuale tentativo di impedire che il rapporto di quest’ultimo giungesse in alto loco, però si era tenuto pronto a entrare in azione.

Era perciò naturale che Valona venisse da lui per consiglio e aiuto, e lui aspettava ora che la ragazza rispondesse alla sua domanda.

Valona esitava ancora. Infine mormorò: «Rik dice che tutti nel mondo dovranno morire.»

Terens la guardò sbalordito: «E non dice come?».

«Non lo sa. Ricorda soltanto di sapere questo da prima; da prima cioè di adesso. E dice anche di ricordare che aveva un’occupazione importante, ma io non riesco a capire di che si tratti.»

«Come te l’ha descritta?»

«Dice che an… analizzava il Nulla.» Valona lo guardò ansiosamente: «Lei sa cosa vuoi dire, Borgomastro?».

«Forse, Valona.»

«Ma, Borgomastro, come si può fare qualcosa col Nulla?»

Terens si alzò sorridendo. «Ma come, Valona, non lo sai che tutto ciò che si trova nella Galassia è pressoché Nulla?»

Nessuna luce di comprensione illuminò la faccia di Valona, ma la ragazza accettò supinamente la spiegazione: il Borgomastro era un uomo molto istruito. Con una inattesa punta d’orgoglio la ragazza ebbe la subitanea certezza che il suo Rik lo fosse ancora di più.

«Andiamo.» Terens le tese una mano. «Dov’è Rik?»

«A casa. Dorme.»

«Ti ci riconduco, dunque. Vuoi che i pattugliatori ti trovino per strada, sola?»

A quell’ora tarda il villaggio sembrava completamente svuotato di vita. Le luci lungo l’unica strada che divideva in due la zona delle baracche degli operai splendevano senza diffondere chiarore.

Valona non si era mai trattenuta fuori così tardi durante una sera feriale e aveva paura. Cercava di attutire il più possibile il suono dei propri passi, mentre tendeva l’orecchio nel terrore di udire l’approssimarsi dei pattugliatori.

Terens le disse: «Smettila di camminare in punta di piedi, Valona. Ci sono io con te.»

Nel grande silenzio la sua voce rimbombò come un colpo di tuono e Valona trasalì, quindi, obbedendo alle sue esortazioni, affrettò il passo. La capanna di Valona era al buio come le altre, quando essi vi entrarono. Terens era nato e cresciuto in una capanna identica a quella e benché in seguito fosse vissuto su Sark e occupasse attualmente una casa di tre stanze dotata di impianti sanitari, provava tuttora davanti allo squallore di quella misera abitazione un senso di vaga nostalgia. Era formata di un’unica stanza comprendente un letto, un cassettone, due seggiole, un pavimento di cemento e un gabinetto situato in un angolo.

Le installazioni di cucina erano inutili, giacché tutti pasti venivano consumati all’opificio, né serviva un bagno, poiché nello spazio dietro le capanne era sistemato tutto un complesso di bagni e docce comuni. Dato il clima mite e costante non esistevano finestre a protezione del freddo e della pioggia. Le quattro pareti erano forate da aperture schermate e le gronde sul tetto costituivano un riparo sufficiente contro le leggere pioggerelle notturne. Rik dormiva dietro un paravento.

Accennò con la testa nella sua direzione: «Sveglialo, Valona.»

Valona batté con le nocche contro il paravento: «Rik! Rik, ehi!»

Si sentì un grido soffocato.

«Sono io, Lona» disse subito la ragazza. Passarono al di là del paravento e Terens diresse il fascio della lampadina sulla faccia di Rik.

Rik alzò un braccio per proteggersi gli occhi. «Che c’è?»

«Rik» disse Terens. «Valona dice che tu cominci a ricordare molte cose.»

«Sì, Borgomastro.» Rik era sempre molto umile nei confronti del Borgomastro, il quale era la persona più importante che lui ricordasse di aver mai conosciuta.

Terens domandò: «Hai più ricordato altro dopo quanto hai detto a Valona?»

«No, Borgomastro.»

Terens congiunse le dita e disse: «Va bene, Rik. Rimettiti a dormire.»

Valona lo seguì sulla soglia della casa. Cercava disperatamente di non mostrare la propria ansietà ma non seppe trattenersi dal chiedere: «Dovrà lasciarmi, Borgomastro?»

Terens le prese le mani e disse con voce grave: «Tu sei ormai una donna adulta, Valona. Dovrà venire con me per un po’ di tempo, ma te lo riporterò, sta’ sicura.»

«E dopo?»

«Dopo, non so. Cerca di capire, Valona. Per il momento la cosa più importante è riuscire a sapere di più sui ricordi di Rik.»

Valona chiese all’improvviso: «Crede davvero, dunque, che tutti gli abitanti di Florina dovranno morire, come sostiene Rik?»

La stretta delle mani di Terens si fece quasi violenta: «Non rivelare quello che sai a nessuno, Valona, altrimenti i pattugliatori potrebbero portarti via Rik per sempre.»

Se ne andò e tornò lentamente verso la propria casa senza neppure accorgersi che gli tremavano le mani. Tentò invano di addormentarsi, e dopo un’ora d’insonnia decise di ricorrere al narcocampo. Era una delle poche cose di S?rk che aveva portato con sé quando era tornato su Florina per diventare il Borgomastro. Era un congegno che si adattava al cranio come una leggera calotta di feltro nero. Regolò i controlli su cinque ore e chiuse il contatto.

Ebbe appena il tempo di adagiarsi comodamente nel proprio letto che il contro-impulso ritardato trasmise il cortocircuito ai centri coscienti del suo cerebro avvolgendolo in un sonno senza sogni.

3

Lasciarono la motoretta diamagnetica in un’apposita rimessa alla periferia della Città. Le motorette erano rare nella Città, e Terens non aveva alcun desiderio di attirare su di sé inutili attenzioni.

Rik attese che Terens sprangasse il cubicolo-rimessa e lo sigillasse con le sue impronte digitali. Indossava un vestito nuovo tutto d’un pezzo e si sentiva un po’ a disagio. Seguì con una certa riluttanza il Borgomastro sotto la prima delle altre strutture a forma di ponte che sostenevano la Città Alta.

Su Florina tutte le altre città avevano un loro determinato nome, ma questa era la Città per antonomasia. Gli operai e i contadini che vi abitavano, o che abitavano nelle vicinanze, erano ritenuti, dal resto del pianeta, dei fortunati. Nella Città vi erano medici e ospedali migliori, più fabbriche, più spacci di liquori, persino una lieve parvenza di lusso.

La Città Alta era esattamente ciò che il suo nome indicava, poiché la città era doppia, perfettamente divisa da uno strato orizzontale di cinquanta miglia quadrate di legacemento poggiante su circa ventimila pilastri rinforzati di acciaio. Sotto, nell’ombra, stavano gli indigeni. Sopra, nel sole, dimoravano i Signori. Era difficile credere, nella Città Alta, di essere sul pianeta Florina, poiché la sua popolazione era quasi esclusivamente sarkita, eccettuate poche squadre di pattugliatori. Nella Città Alta vivevano i Signori, i dominatori.

Terens disse: «Adesso, Rik, stai su diritto. Saliamo.»

Si era fermato davanti a una struttura che riempiva lo spazio tra quattro pilastri in quadrato e che portavano dal suolo alla Città Alta.

Rik disse: «Ho paura.»

Intuiva che cosa dovesse essere quella struttura: era un ascensore che trasportava al livello superiore.

Erano congegni necessari, naturalmente. La produzione si trovava in basso, ma il consumo si svolgeva in alto. Le sostanze chimiche basilari e le materie prime alimentari venivano convogliate nella Città Bassa, ma i prodotti finiti in plastica e i cibi prelibati erano riservati alla Città Alta. La popolazione in eccesso si moltiplicava in basso; cameriere, giardinieri, autisti, addetti ai lavori di costruzione venivano adibiti in alto.

Terens ignorò l’espressione di terrore di Rik, però era stupito che anche il suo cuore battesse con tanta violenza: non di paura certo, ma piuttosto di una maligna gioia al pensiero che si accingeva a salire.

Oh, come li odiava, quelli della Galassia!

Si fermò, respirò profondamente e chiamò l’ascensore. Era inutile rimuginare odio. Era rimasto su Sark per tanti anni; su Sark, centro e cuore dell’universo dei Signori. Aveva appreso a sopportare in silenzio. Non doveva ora dimenticare quel che aveva appreso.

L’indigeno addetto al funzionamento dell’ascensore li guardò disgustato: «Siete soltanto in due!»

«Già! Soltanto in due» ripeté Terens entrando, seguito da Rik.

L’addetto alla manovra disse: «A me sembra che avreste ben potuto aspettare il carico delle due per salire. Mica sono obbligato a far muovere su e giù questo aggeggio per due persone soltanto. Dove sono le vostre tessere di riconoscimento?»

Terens gli presentò l’incartamento completo che tutti gli indigeni dovevano portare sempre con sé e che comprendeva: il numero di matricola, il certificato d’impiego, le ricevute delle tasse. L’incartamento era aperto alla pagina rossa che rappresentava la sua licenza di Borgomastro. Il manovratore diede una breve occhiata. «E l’altro?»

«Ne rispondo io» disse Terens. «Può venire con me, oppure devo chiamare un pattugliatore per far rispettare le regole?»

Era l’ultima cosa che Terens desiderasse, ma seppe esprimersi con la giusta dose di arroganza.

«E va bene! Non è il caso di arrabbiarsi.»

Terens ebbe un lieve sorriso. Succedeva quasi sempre così. Coloro che lavoravano al servizio diretto dei Signori erano anche troppo felici di identificarsi con i padroni e di rifarsi del loro effettivo stato d’inferiorità con una ancor più stretta aderenza alle regole di segregazione, di altezzosità e di disprezzo verso i propri simili praticate dai Signori.

La distanza percorsa verticalmente era di una quindicina di metri soltanto, ma la porta si riaprì su un mondo nuovo. Al pari delle città di Sark, la Città Alta era stata disegnata con una particolare ricerca dell’effetto coloristico. Strutture individuali, fossero luoghi di abitazione o pubblici edifici, erano inserite in un complesso mosaico multicolore che, da vicino, non era che una tavolozza priva di significato, ma che alla distanza di cento metri si fondeva in morbide tonalità cromatiche le quali trascoloravano e mutavano a seconda dell’angolo di visuale.

«Andiamo, Rik» disse Terens.

Rik era rimasto a bocca aperta a guardarsi intorno. Una vettura aero-terrestre passò come un barbaglio.

«Sono Signori, quelli?» mormorò Rik.

Aveva appena avuto il tempo di dare un’occhiata, e in quel breve attimo aveva intravveduto dei capelli tagliati corti, ampie maniche a sbuffo dai colori lucenti e sfumati dal turchino al violetto, pantaloni che parevano di velluto e lunghe calze lucide che scintillavano come se fossero intessute di sottili fili di rame.

«Sì, sono dei giovani» disse Terens. Da quando aveva lasciato Sark non ne aveva più veduti da vicino. Su Sark erano già insopportabili ma almeno si trovavano al loro giusto posto. Qui invece non s’inquadravano. Lottò di nuovo con se stesso per soffocare un vano tremore d’odio.

Una vettura piatta a due posti di pattugliatori sibilò alle loro spalle. Un pattugliatore era ai comandi. L’altro balzò leggero oltre il breve cerchio della vettura.

Disse: «Incartamento!» Diede un’occhiata meccanica e restituì il tutto a Terens aggiungendo: «Cosa fa qui?»

«Desidero consultare la bibliotecaria, Ufficiale. È mio privilegio.»

Il pattugliatore si volse a Rik. «E quello?»

«Io…» cominciò Rik.

«È il mio assistente» intervenne Terens.

«Non gode dei privilegi di Borgomastro» disse il pattugliatore.

«Ne rispondo io»

Il pattugliatore si strinse nelle spalle. «Affar suo. I Borgomastri godono di certi privilegi, ma non sono Signori: se lo ricordi, amico.»

«Sì, Ufficiale. A proposito, sa indicarmi la biblioteca?»

Il pattugliatore gliela indicò servendosi della sottile canna mortale di un disintegratore. La biblioteca era assai più grande di tutti gli altri monumenti noti, eccezion fatta per pochissimi edifici dello stesso Sark, e di gran lunga superiore alle necessità della Città Alta, il che dimostrava quanto sia vantaggioso disporre di mano d’opera a poco prezzo.

La sala centrale era grande, fredda, e praticamente vuota. La bibliotecaria era seminascosta dietro l’unica scrivania della sala. Sollevò la testa e si alzò a metà.

«Sono un Borgomastro» disse prontamente Terens. «Godo di privilegi speciali. Rispondo io di questo indigeno.» Aveva già i documenti pronti e si affrettò a metterglieli davanti.

La bibliotecaria si rimise a sedere e assunse un’espressione severa; quindi disse: «Stanza 242.»

«Grazie.»

I camerieri al secondo piano avevano la tipica gelida mancanza di personalità degli anelli di una catena senza fine.

La porta di vetro chiaro di una cabina si spalancò, e non appena loro furono entrati si richiuse silenziosamente e divenne opaca, come se vi fosse stata tirata sopra una tenda.

La stanza era di due metri quadrati, senza finestre e senza ornamenti. Era illuminata da una luce diffusa proveniente dal soffitto e ventilata da una condotta d’aria forzata. L’arredamento era rappresentato da una scrivania che si stendeva da una parete all’altra e da un banco imbottito ma senza schienale posto tra questa e la porta. Sulla scrivania c’erano tre “lettori”. Le loro superfici anteriori di vetro smerigliato erano inclinate a un angolo di trenta gradi. Davanti a ciascun “lettore” erano disposti vari quadri di comando.

Terens e Rik sedettero. «Guarda!» disse il Borgomastro. «Prima di tutto, vedi, c’è questa manopola, etichettata “catalogo” con l’alfabeto stampato intorno. Dal momento che per prima cosa ci serve una enciclopedia, gireremo la manopola sulla E, e premeremo in basso.»

Così fece, e subito apparvero vari oggetti. Il vetro smerigliato si illuminò e sopra vi si formarono dei segni scritti che risaltarono neri su un fondo giallo, mentre la luce del soffitto si affievoliva. Tre pannelli lisci si spostarono in fuori come altrettante lingue, ciascuno davanti a un “lettore”, e ognuno illuminato al centro da un compatto fascio di luce.

Terens girò un commutatore, e i pannelli rientrarono nei loculi. «Ora possiamo scorrere l’elenco delle E girando questa manopola» disse.

Subito comparve tutta una lunga serie di materiale disposto per ordine alfabetico, con titoli, autori, numeri di catalogo, e infine si fermò davanti a una fitta colonna elencante i numerosi volumi dell’enciclopedia.

Rik disse a un tratto: «Si premono i numeri e le lettere del libro che si vuole consultare con l’aiuto di questi piccoli bottoni e il libro appare sullo schermo.»

Terens lo guardò: «Come lo sai? Te lo sei ricordato?»

«Può darsi, ma non ne sono sicuro. Però mi sembra che debba essere così.»

«Be’, comunque hai indovinato.»

Premette una combinazione di lettere e di numeri. Sul leggìo apparve scritto: “Enciclopedia di Sark, Volume 54, Sol-Spec.”

Terens disse: «Ora ascoltami bene, Rik: non voglio metterti nessuna idea in testa, perciò non ti dirò quello che penso. Desidero soltanto che tu scorra questo volume e ti fermi se troverai qualcosa che ti sembra familiare. Hai capito?»

«Sì.»

«Bene. E adesso fa’ pure con calma.»

I minuti passarono. A un tratto Rik emise un’esclamazione soffocata e si affrettò a girare i quadranti a ritroso.

Quando si fermò, Terens lesse l’intestazione e parve compiaciuto. «Ricordi, adesso?»

Rik annuì con energia. «Mi è venuto all’improvviso, Borgomastro. Di colpo.»

Era la voce: Spazio-Analisi.

«So che cosa dice» proseguì Rik. «Vede…» Respirava a fatica. Terens era emozionato quasi quanto lui.

«Guardi» disse Rik «questa parte c’è sempre.» E si mise a leggere: «“Non deve sorprendere che lo Spazio-Analista sia per temperamento un introverso e per solito un individuo malcondizionato. Il dedicare la maggior parte della propria esistenza allo studio solitario dello spaventoso spazio vuoto tra le stelle è più di quanto si possa pretendere da un esere completamente normale. Per questo forse l’Istituto Spazio-Analitico ha adottato come suo motto ufficiale questa frase alquanto scarna: Noi Analizziamo Il Nulla”.»

«Hai capito quel che hai letto?» domandò Terens.

Rik lo guardò raggiante: «C’era scritto: Noi Analizziamo Il Nulla. È questo che ricordavo, perché io ero uno di loro.»

«Eri uno Spazio-Analista?»

«Sì» gridò Rik. Poi, con voce più sommessa: «Mi duole la testa.»

«Per lo sforzo di ricordare?»

«Penso di sì.» Alzò la testa e corrugò la fronte. «Eppure devo ricordare di più. Siamo in pericolo. Un pericolo spaventoso! Non so quel che devo fare.»

«La biblioteca è a nostra disposizione, Rik.» Terens lo osservava attentamente, pesando ogni parola. «Serviti tu stesso del catalogo e cerca qualche testo sulla Spazio-Analisi.»

Rik si buttò sul “lettore”. Era visibilmente scosso. Terens si fece da parte per lasciargli più spazio.

«Se chièdessimo il “Trattato della Strumentazione Spazio-Analisi” di Wrijt?» disse Rik. «Le sembra che possa andar bene?»

«Fa’ come ti pare, Rik»

Rik premette il numero di catalogo, e lo schermo si illuminò violentemente mentre appariva la scritta: Per il Volume in Questione Favorite Rivolgervi Alla Bibliotecaria.

Terens allungò prontamente una mano a neutralizzare lo schermo. «Conviene chiedere un altro libro, Rik.»

«Ma…» esitò, poi obbedì all’ordine. Dopo una breve consultazione del catalogo scelse la “Composizione dello Spazio” di Enning.

Sullo schermo apparve nuovamente la richiesta di rivolgersi per consultazione alla bibliotecaria. Terens borbottò tra i denti un’imprecazione sommessa e spense nuovamente l’apparecchio. Rik domandò: «Che cosa sta succedendo?»

«Niente. Non ti spaventare, per carità, Rik. Solo non vedo perché…»

Dietro la graticciata, accanto al meccanismo di lettura, era sistemato un piccolo altoparlante. Da questo uscì la voce secca, sottile della bibliotecaria che li raggelò.

«Stanza 242! Non c’è nessuno nella Stanza 242?»

Terens rispose con voce rauca: «Che cosa vuole?»

La voce disse: «Quale libro desiderate?»

«Non desideriamo niente. Grazie. Stiamo soltanto provando il “lettore”.»

Seguì una pausa, come se fosse in atto una invisibile consultazione. Quindi la voce disse in tono anche più imperioso: «Il registro indica una richiesta di lettura del “Trattato della Strumentazione Spazio-Analisi” di Wrijt e la “Composizione dello Spazio” di Enning. È esatto?»

«Premevamo dei numeri di catalogo a casaccio» disse Terens.

«Si può sapere per quale motivo desideravate quei volumi?» La voce era inesorabile.

«Le ho già detto che non ci servono…»

Una nuova pausa, quindi la voce disse: «Se volete scendere vi daremo accesso ai volumi. Si trovano su un elenco riservato e dovrete riempire un modulo.»

«Sciocchezze. Muoviti.»

Terens tese la mano a Rik. «Andiamo.»

«Dobbiamo avere infranto qualche regola» balbettò Rik.

Terens si era messo a camminare in fretta, costringendo Rik a seguirlo. Attraversò a passi veloci la sala centrale. La bibliotecaria si alzò gridando:

«Ehi, voi! Un momento! Un momento!»

Ma né Rik né Terens si fermarono, almeno sino al momento in cui un pattugliatore non si parò loro davanti. «Ehi, quanta fretta, amici!»

La bibliotecaria poté così raggiungerli. Ansava: «Eravate voi nel 242, vero?» Aveva gli zigomi rossi. Si girò e si avviò a passi frettolosi verso una porticina che si aprì al suo avvicinarsi.

Terens disse: «Ufficiale, se non le dispiace…»

Ma per tutta risposta il pattugliatore mise in mostra la sua frusta neuronica.

Il pattugliatore non era più né giovane, né snello. Sembrava prossimo a entrare in pensione e probabilmente gli avevano dato quell’impiego tranquillo di custode della biblioteca prima di congedarlo definitivamente, ma era armato, e la giovialità della sua faccia bruna non sembrava genuina.

Terens aveva la fronte madida e si sentiva il corpo percorso da rivoli di sudore. Evidentemente aveva sottovalutato la situazione. Si era sentito così sicuro del fatto suo, e invece aveva commesso una imprudenza imperdonabile, tutto per quel suo assurdo orgoglioso desiderio di intrufolarsi nella Città Alta…

In un attimo di disperazione pensò di gettarsi sul pattugliatore, poi, inaspettatamente, non ce ne fu più bisogno.

A tutta prima fu soltanto un movimento rapidissimo. Il pattugliatore si volse un attimo troppo tardi, tradito dalle reazioni più lente dell’età. La frusta neuronica gli venne strappata di mano e prima ancora che lui potesse gridare questa gli si abbatté su una tempia facendolo crollare.

Rik lanciò un urlo di gioia, e Terens esclamò: «Valona! Per tutti i diavoli di Sark, che cosa fai qui?»

4

Terens si riebbe quasi subito. Disse: «Usciamo! Presto!» E prese a camminare.

Uscirono sulla rampa. Il sole pomeridiano rendeva l’universo caldo e luminoso.

Valona disse con voce ansiosa: «Sbrighiamoci!» Ma Terens l’afferrò per un gomito.

Sorrideva, ma il tono della voce era duro, imperioso. Disse: «Non correre. Cammina con naturalezza, e seguimi.»

Mossero pochi passi, ma avevano la sensazione di avanzare in un mare di colla. Quei rumori alle loro spalle provenivano dalla biblioteca o erano uno scherzo della loro fantasia? Terens tuttavia non osava voltarsi a guardare.

«Entriamo qui» disse. L’insegna sul viale non riusciva a competere col sole di Florina. C’era scritto: “Ingresso all’Ambulatorio.”

Percorsero il viale, infilarono un’entrata laterale, vennero a trovarsi tra pareti di un candore inverosimile che parevano blocchi di un materiale ignoto contro la vetrosità asettica del corridoio.

Una donna in uniforme li stava osservando da lontano. Esitò, corrugò la fronte, incominciò ad avvicinarsi. Terens non stette ad aspettarla. Si volse bruscamente, seguì una ramificazione del corridoio, poi un’altra. Passarono davanti ad altre infermiere in camice e Terens intuiva quale incertezza la loro presenza dovesse suscitare in loro. Era un caso senza precedenti infatti che degli indigeni si aggirassero soli ai livelli superiori di un ospedale. Come ci si doveva comportare in una circostanza simile?

Certo da un momento all’altro sarebbero stati fermati.

Perciò Terens si sentì rincuorare quando notò una porticina sulla quale era scritto: “Ai Livelli Indigeni.” L’ascensore era alla loro portata. Spinse dentro Rik e Valona.

Nella Città esistevano tre tipi di edifici. La maggior parte erano Edifici Inferiori, costruiti esclusivamente al livello inferiore; case operaie, alte tre piani al massimo, fabbriche, panetterie, impianti di distribuzione. Altri ancora erano Edifici Superiori: abitazioni sarkite, teatri, la biblioteca, le arene sportive. Ma pochi altri erano Duplici, con livelli ed entrale tanto inferiori quanto superiori ove erano alloggiate le caserme pattugliatori, per esempio, e gli ospedali.

Ci si poteva pertanto servire di un ospedale per passare dalla Città Alta alla Città Bassa evitando in tal modo l’uso dei grandi ascensori da carico, lentissimi e dove gli addetti alla manovra avevano occhi e orecchi per venti. Per un indigeno questo naturalmente era un metodo del tutto illegale, ma era niente in confronto al gravissimo crimine che avevano compiuto assalendo un pattugliatore.

Uscirono al livello inferiore. Ovunque si levava l’inquieto chiacchiericcio di una sala di aspetto piena di uomini preoccupati e di donne spaventate. Un’unica infermiera tentava, senza troppo riuscirvi, di metter un po’ d’ordine tra tanta confusione.

Terens, Valona e Rik si facevano cautamente strada tra la folla. Valona, come se la presenza di altri floriniani le avesse improvvisamente sciolto la lingua, stava mormorando:

«Ho dovuto venire, Borgomastro. Ero talmente preoccupata per Rik! Temevo che non me lo riportasse più indietro, e…»

«Come hai fatto per salire alla Città Alta?» domandò Terens seguitando a farsi largo tra la folla passiva degli indigeni.

«Vi ho seguiti e vi ho visti prendere l’ascensore da carico. Quando è ridisceso ho detto all’uomo che ero con voi, e lui mi ha condotta su.»

«Così? Semplicemente?»

«Ho dovuto scuoterlo un pochino.»

«Numi di Sark!» gemette Terens.

«Non ho potuto farne a meno» spiegò Valona con l’aria di una bambina colta in fallo. «Poi ho visto che i pattugliatori vi indicavano un edificio. Ho aspettato che se ne fossero andati e vi sono venuta dietro. Solo che non ho osato entrare. Non sapevo che cosa fare, perciò mi sono nascosta finché non vi ho visto uscire insieme al pattugliatore che cercava di fermarvi…»

I tre fuggiaschi già erano usciti nella penombra della Città Bassa ove li accolsero gli odori e il baccano di quello che i sarkiti chiamavano il Quartiere Indigeno, mentre il livello superiore era tornato a essere nuovamente un tetto sulle loro teste. Ma per quanto Valona e Rik si sentissero sollevati nel non vedersi più intorno l’opprimente ricchezza dell’ambiente sarkita, Terens seguitava a essere profondamente preoccupato. Avevano troppo osato e d’ora innanzi per loro non vi sarebbe più stata sicurezza in alcun luogo.

Questo pensiero gli torturava la mente in tumulto, quando Rik gridò: «Guardate!»

Quello era per gli indigeni della Città Bassa lo spettacolo forse più spaventoso che potessero vedere. Pareva che un gigantesco uccello scendesse volteggiando da una feritoia della Città Alta, oscurando il sole e rendendo ancora più cupa la già tetra oscurità di quel tratto della Città. Ma non era un uccello; era un carro armato aero-terrestre dei pattugliatori.

Gli indigeni si diedero a gridare e incominciarono a correre. Non avevano alcuna ragione specifica per temere, ma presero ugualmente a fuggire. Un uomo che si trovava quasi esattamente sul sentiero della macchina si trasse in disparte a malincuore. Stava proseguendo per la propria strada quando l’ombra si era distesa su di lui. Si guardò intorno, simile a una roccia imperturbata in un mare in tempesta. Era di media statura, ma aveva due spalle quasi innaturalmente larghe.

Terens esitò, e senza il suo aiuto Rik e Valona erano completamente paralizzati.

L’uomo dalle enormi spalle si stava avvicinando a loro; sostò per un attimo, come incerto, e disse con voce normalissima: «La panetteria di Khorov è la seconda a sinistra, dopo la lavanderia.»

Quindi girò bruscamente sui tacchi.

Terens disse: «Andiamo.»

Si mise a correre, mentre il sudore gli usciva abbondantemente da tutti i pori. Nel tumulto echeggiavano gli ordini secchi che uscivano dalle gole dei pattugliatori. Due pattugliatori si erano messi a correre nella direzione giusta. Terens non sapeva se lo avessero veduto o meno, ma questo non aveva importanza. Entrambi si scontrarono con l’uomo dalle spalle enormi che aveva appena rivolto la parola a Terens. Terens spinse Valona e Rik oltre l’angolo.

La panetteria di Khorov era riconoscibile da un’insegna semicancellata di plastica luminosa, spezzata in più punti, ma ciò che la rendeva inconfondibile era il meraviglioso odore che filtrava dall’uscio aperto. Non restava che entrarvi e così fecero.

Un vecchio alzò la testa dalla stanza interna entro la quale i tre sopraggiunti notarono la vampa, oscurata da una nuvola di farina, dei forni al radar, ma il vecchio non ebbe la possibilità di domandare loro che cosa volessero.

Terens cominciò: «Un uomo dalle spalle larghe…» Aveva aperto le braccia per meglio illustrare il concetto, quando dall’esterno presero a echeggiare grida concitate di «I pattugliatori! I pattugliatori!».

Il vecchio disse con voce rauca: «Da questa parte! Presto!»

Terens esitò: «Lì dentro?»

Il vecchio disse: «È finto.»

Prima Rik, poi Valona, e infine Terens s’infilarono nella bocca del forno. S’intese uno scatto sommesso, e la parete posteriore del forno si spostò senza rumore rimanendo liberamente sospesa a due cardini sovrastanti. I tre passarono oltre e si trovarono in una minuscola stanza, malamente illuminata.

Attesero. La ventilazione era cattiva, e l’odore di pane infornato aumentava la loro fame senza soddisfarla.

Valona cominciò: «Borgomastro…»

Lui la interruppe con un ordine sommesso ma imperioso: «Non ora, Lona, ti prego!»

S’intese un clicchettio, centuplicato dalla ristrettezza del loro nascondiglio. Terens s’irrigidì, e quasi senza rendersene conto alzò i pugni chiusi. Era lo sconosciuto che cercava di far passare nell’angusta apertura le proprie immense spalle. Guardò Terens e parve divertito.

«Andiamo, amico! Non ci metteremo certamente a fare a pugni, immagino.»

Terens si guardò le mani serrate in una stretta convulsa, e le lasciò ricadere.

Lo sconosciuto era in condizioni anche peggiori di prima. Aveva la camicia strappata e una ecchimosi fresca, rosso-violacea, che gli sfregiava uno zigomo.

L’uomo disse: «Hanno smesso di cercare. Se avete fame, qui non c’è molto, se però vi accontentate… che ne dite?»

Dopo che ebbe mangiato, Rik cominciò a sentirsi meglio. Domandò timidamente: «Le hanno fatto male, signore?»

«Un po’» rispose l’uomo dalle spalle larghe «ma non importa. Nel mio mestiere è roba di tutti i giorni.» Rise, mettendo in mostra i denti fortissimi. «Hanno dovuto ammettere che ero innocente come un agnello, ma siccome gli avevo intralciato la strada mentre stavano dando la caccia ad altri, il modo più semplice per sbarazzarsi di un indigeno che dà fastidio…» La sua mano si alzò e ricadde come se reggesse per il calcio un’arma invisibile.

Rik si ritrasse e Valona tese su di lui un braccio protettore, con gesto ansioso.

Lo sconosciuto disse: «Io sono Matt Khorov, ma tutti mi chiamano il Fornaio. E voi chi siete?»

Terens si strinse nelle spalle: «Ecco…»

Il Fornaio disse: «Capisco. Meno so meglio è. Può darsi. Potreste però fidarvi di me. Non vi ho salvato dai pattugliatori, forse?»

«Sì, e ve ne siamo grati.» Terens non riusciva tuttavia a dare alla sua voce un tono cordiale. Chiese: «Come sapevate, che cercavano proprio noi? Eravamo in tanti a scappare!»

L’altro sorrise. «Nessuno aveva la faccia che avevate voi tre.»

Terens tentò di sorridere a sua volta, ma senza riuscirvi. «Non capisco perché abbiate rischiato la vita per noi. Comunque ve ne ringraziamo.»

Il Fornaio si appoggiò alla parete. «Faccio questo tutte le volte che posso e senza alcun profitto personale. Quando i pattugliatori corrono dietro a qualcuno, io cerco sempre di aiutarlo. Odio i pattugliatori.»

Valona gemette: «E non si caccia mai nei guai?»

«Certo. Ma non crederete che mi fermi per così poco! Ho costruito il forno finto, proprio per non farmi acchiappare dai pattugliatori e per non cacciarmi in guai troppo grossi.»

Valona aveva spalancato gli occhi e nel suo sguardo c’era un’espressione mista di terrore e di meraviglia.

«E perché no?» disse il Fornaio. «Sapete quanti Signori ci sono su Florina? Diecimila. E sapete quanti pattugliatori? Ventimila al massimo. Mentre noi indigeni siamo cinquecento milioni. Se ci schierassimo tutti contro di loro…» Fece schioccare le dita.

Terens disse: «Ci metteremmo contro un muro di fucili disintegratori e di cannoni atomici, Fornaio.»

Il Fornaio replicò: «Già! Il fatto è che voi Borgomastri siete sempre vissuti troppo vicini ai Signori, e ne avete paura. E poi non volete esporvi. È una bella cosa starsene tranquilli, ma non è una bella cosa essere troppo cauti, Borgomastro. Ho l’impressione però che questa volta l’abbia fatta grossa, e ora avrà bisogno di aiuto perché sanno chi è.»

«No, non lo sanno» disse Terens.

«Avranno pure esaminato le sue carte, su nella Città Alta.»

«Chi ha detto ch’io sono stato nella Città Alta?»

«Così! Una mia deduzione, ma scommetto che è giusta.»

«Sì, le hanno guardate, ma non tanto attentamente da ricordare il mio nome.»

«Però sanno che lei è un Borgomastro. Probabilmente a quest’ora tutti i segnali di allarme di Florina saranno in agitazione. Sono convinto che la sua situazione è grave.»

«Può darsi.»

«Sa benissimo che è così. Allora, le serve aiuto?»

Avevano seguitato a parlare a voce bassissima. Rik si era accoccolato in un angolo e si era addormentato. Gli sguardi di Valona si spostavano continuamente dall’uno all’altro dei due interlocutori.

Terens scosse la testa. «No, grazie. Mi… me la caverò da solo.»

Il Fornaio scoppiò a ridere. «Mi piacerebbe sapere come. Senta, stanotte ci pensi su e chissà che alla fine non si decida a chiedermi aiuto.»

Gli occhi di Valona erano spalancati nelle tenebre. Il suo letto era una semplice coperta gettata sul pavimento, ma non vi si trovava molto peggio che negli altri letti ai quali era sempre stata abituata. Rik dormiva profondamente su un’altra coperta, nell’angolo dirimpetto. Nelle giornate di grande emozione, quando i dolori di testa di cui soffriva scomparivano, si addormentava ogni volta di un sonno profondo. Valona non riusciva a prender sonno. Sarebbe riuscita a dormire? Aveva assalito un pattugliatore!

Misteriosamente il suo ricordo tornò a suo padre e a sua madre.

Erano molto confusi nella sua mente. I pattugliatori l’avevano svegliata una notte rivolgendole delle domande che ella non riusciva ad afferrare ma alle quali aveva tentato di rispondere. Dopo di allora non aveva più riveduto i suoi genitori. Erano partiti, così le dissero, e il giorno seguente l’avevano mandata a lavorare quando i ragazzi della sua età avevano ancora due anni di tempo libero da dedicare esclusivamente ai giochi.

Perché la conversazione di quella notte le ricordava i suoi genitori?

«Valona.»

La voce le era così vicina che l’alito le mosse i capelli, e al tempo stesso così soffocata che a stento poté udirla.

Era il Borgomastro. «Non parlare» le disse. «Ascolta soltanto. Io me ne vado. La porta non è chiusa a chiave. Però ritornerò. Hai capito?»

Valona allungò una mano nelle tenebre, prese quella di lui e gliela strinse.

«E bada a Rik. Tienilo sempre vicino a te. E, Valona» seguì una lunga pausa, infine il Borgomastro riprese: «Non ti fidare troppo di quel Fornaio. Non so niente di lui.»

Valona intese un movimento lievissimo, uno scricchiolio lontano ancora più leggero, e si rese conto che il Borgomastro se n’era andato. Strizzò gli occhi nelle tenebre, sforzandosi di pensare. Come mai il Borgomastro l’aveva messa in guardia contro il Fornaio che odiava i pattugliatori e li aveva salvati? Come mai?

Scosse la testa. Tutto ciò le sembrava tanto strano! Se non fosse stato per quello che le aveva detto il Borgomastro non le sarebbe mai venuta in mente una idea simile.

Il silenzio irreale della stanza fu rotto da una domanda fatta a voce alta e in tono insolente: «Ehi? Siete ancora qui?»

Valona s’irrigidì mentre un fascio di luce la colpiva in pieno.

Aveva immediatamente riconosciuto l’interlocutore. La sagoma atticciata, massiccia torreggiò nella mezza luce che traspariva dalla torcia abbassata.

Il Fornaio disse: «Sai, credevo che saresti andata via con lui.»

Valona chiese con un fil di voce: «Con chi, signore?»

«Col Borgomastro. Lo sai bene che se ne è andato. Non sprecare il tempo a fingere.»

«Ma ha detto che tornerà.»

«Davvero? Se ha detto veramente così ha avuto torto perché i pattugliatori lo acciufferanno. Non è troppo furbo il tuo Borgomastro, altrimenti avrebbe capito che quando un uscio rimane aperto lo si lascia aperto per uno scopo ben preciso. Hai intenzione di andartene anche tu?»

Valona disse: «Io aspetto il Borgomastro.»

«Fa’ come ti pare. Ma dovrai aspettare un pezzo. Però puoi anche andartene quando vorrai.»

Improvvisamente il fascio della sua lampadina tascabile si spostò e prese a viaggiare lungo il pavimento, fissandosi poi sulla faccia pallida di Rik. Le palpebre di Rik sbatterono automaticamente sotto l’urto della luce, ma lui seguitò a dormire.

Il Fornaio si fece più pensieroso: «Ti consiglio però di andartene sola. Spero che tu mi capisca. Se decidi di tagliare la corda, la porta è aperta, ma bada che non è aperta per lui.»

«Ma non è che un povero diavolo ammalato…» cominciò Valona.

«Davvero? Be’, io faccio collezione di poveri diavoli ammalati. Che lui non si muova di qui. Intesi?»

5

Il dottor Selim Junz era impaziente. Quell’anno gli aveva insegnato che la Burocrazia sarkita non aveva fretta, tanto più che i burocrati erano quasi tutti floriniani trapiantati e pertanto estremamente consapevoli della loro dignità.

Aveva chiesto una volta al vecchio Abel, l’Ambasciatore di Trantor, il quale viveva da tanto tempo su Sark che le suole delle sue scarpe vi avevano messo radici, come mai i sarkiti consentissero a che le varie branche del loro governo fossero amministrate proprio dai floriniani tanto disprezzati.

«Tutta politica, Junz» aveva risposto Abel «tutta politica. Si tratta di una questione di genetica pratica, condotta con logica sarkita. Presi di per sé questi sarkiti non sono niente, non rappresentano che un piccolo mondo senza importanza, e valgono solo in quanto controllano quella inesauribile miniera di oro che è Florina. Per questo ogni anno vanno nei campi e nei villaggi di Florina, raccogliendo il meglio della gioventù per addestrarla su Sark.»

Il dottor Junz era prima di tutto uno Spazio-Analista e pertanto queste cose non le capiva, né esitò a dirlo. Abel puntò su di lui un indice accusatore.

«Lei non diventerà mai un buon amministratore, perciò non mi chieda raccomandazioni» disse. «Gli elementi più intelligenti di Florina vengono guadagnati alla causa sarkita spontaneamente, poiché sino a quando servono Sark sono amorosamente curati e protetti, mentre se voltano la schiena a Sark la miglior cosa in cui possono sperare è il ritorno a un’esistenza floriniana che non è simpatica, amico mio, non è simpatica affatto.»

Bevve il vino d’un fiato e prosegui: «Inoltre, né i Borgomastri né gli impiegati statali di Sark possono generare senza perdere le loro rispettive posizioni. Anche con donne floriniane, beninteso, poiché la mescolanza con elementi sarkiti è naturalmente fuori questione. In tal modo il meglio del genere floriniano viene continuamente tolto dalla circolazione, cosicché a poco a poco la popolazione di Florina sarà composta unicamente di spaccalegna e di acquaioli.»

«In ogni caso resteranno senza impiegati, con questo sistema, non le pare?»

«Chi può prevedere ciò che riserva il futuro?»

Ora il dottor Junz sedeva in un’anticamera del Ministero degli Affari Floriniani e attendeva con impazienza di essere ricevuto. Finalmente gli si parò davanti un impiegato anziano, invecchiato nel servizio.

«Il dottor Junz?»

«Sono io.»

«Venga con me.»

Gli venne imposto con un gesto di sedere davanti alla scrivania dell’Assistente del Sottosegretario. Naturalmente nessun floriniano poteva andare oltre il grado di assistente, per quante fossero le sue mansioni effettive e nonostante la loro importanza. Il Sottosegretario e il Segretario degli Affari Floriniani erano naturalmente sarkiti, ma benché il dottor Junz li potesse frequentare in società, sapeva che non li avrebbe mai incontrati al Ministero.

L’Assistente scorreva con grande attenzione un incartamento, rigirandone minuziosamente ogni pagina cifrata. Era giovanissimo, un neo-laureato, probabilmente, e come tutti gli abitanti di Florina chiarissimo di pelle e biondo di capelli.

Il dottor Junz si sentì percorrere da un brivido di emozione atavica. Lui proveniva dal mondo di Libair, e come tutti i libairiani era fortemente pigmentato e la sua pelle era di un colore bruno scuro. In pochi mondi della Galassia il colore della pelle era così opposto come su Libair e Florina. In genere predominavano le sfumature intermedie.

Alcuni tra i giovani antropologi radicali avevano lanciato la tesi che gli abitanti di mondi come Libair, per esempio, fossero sorti da una evoluzione indipendente se pur convergente. Invece i più anziani ripudiavano sdegnosamente il concetto di una evoluzione che facesse convergere specie diverse nel punto in cui fosse possibile una intergenerazione, come era certamente il caso per gli infiniti mondi della Galassia. Insistevano sul fatto che sul pianeta originario, quale che esso fosse, già l’umanità si fosse trovata divisa in sottogruppi di pigmentazione varia.

Ogni tanto il dottor Junz si sorprendeva a rimuginare entro di sé quell’insolubile quesito. Nei millenni oscuri erano state tramandate, per chissà quali misteriose ragioni, le leggende di un passato di lotta. I miti libairiani, per esempio, parlavano di lunghe guerre tra uomini di pigmentazione diversa e si sosteneva che la stessa scoperta di Libair fosse dovuta a un gruppo di uomini bruni in fuga dopo una battaglia perduta.

Quando il dottor Junz aveva lasciato Libair per entrare all’Istituto Arturiano di Tecnologia Spaziale e aveva in seguito iniziato la sua professione, le antiche favole primitive erano ormai da molto dimenticate. Una sola volta, da allora, era rimasto sinceramente impressionato. Era capitato per caso, per motivi di lavoro, su uno degli antichi mondi del Settore Centauriano; uno di quei mondi la cui storia si perdeva nella notte dei tempi e il cui linguaggio era talmente arcaico che il suo dialetto poteva quasi essere paragonato a quella lingua mitica e morta da secoli che era stata l’inglese. Eppure avevano conservato un vocabolo speciale per definire un individuo dalla pelle scura.

La voce precisa dell’Assistente interruppe le sue fantasticherie. «Secondo l’incartamento, lei è già stato in questo ufficio.»

«Infatti.»

«Ma non recentemente.»

«No, non recentemente.»

«È ancora alla ricerca di uno Spazio-Analista scomparso…» l’Assistente scorse rapidamente alcune pagine «… circa undici mesi e tredici giorni fa.»

«Esatto.»

«Durante tutto questo tempo» proseguì l’Assistente «dell’uomo in questione non si è trovata traccia, né esiste alcuna prova della sua presenza in territorio sarkita.»

«L’ultima volta che se ne ebbe notizia» spiegò lo scienziato «era stato avvistato nello spazio in prossimità di Sark.»

«Può essere, ma non abbiamo prove della sua presenza su Sark.»

Non abbiamo prove! Il dottor Junz strinse nervosamente le labbra. Era la frase che da mesi gli andava ripetendo l’ufficio Spazio-Analitico Interstellare. «Non abbiamo prove, dottor Junz. Abbiamo la sensazione che il suo tempo potrebbe essere speso meglio, dottor Junz.»

La cosa era cominciata, come aveva detto l’Assistente con burocratica pignoleria, undici mesi e tredici giorni innanzi secondo il Tempo Medio Insterstellare. Due giorni prima di quell’avvenimento era sceso su Sark per quella che avrebbe dovuto essere una semplice visita normale d’ispezione alla Sezione dell’Istituto di quel pianeta, ma che si era tramutata… ecco, che si era tramutata in quello che era.

Era stato accolto dal rappresentante locale dell’U.S.I., un giovanotto molto sveglio che il dottor Junz ricordava quasi esclusivamente per la sua abitudine di masticare senza un attimo di sosta un prodotto elastico dell’industria chimica di Sark.

Solo al termine dell’ispezione l’agente locale si era ricordato di un particolare, e aveva detto: «Ho qui un messaggio spedito da uno spazialista, dottor Junz. Non dev’essere importante. Sa come sono quelli.»

Il dottor Junz aveva alzato gli occhi, in preda a un momentaneo impeto di sdegno. Aveva avuto la tentazione subito soffocata di rispondergli che quindici anni prima anche lui era stato uno spazialista, sia pure per soli tre mesi. Comunque era stato proprio quel lampo di collera a spingerlo a leggere il messaggio con particolare attenzione.

Diceva: “Vogliate mantenere linea cifrata diretta aperta con Quartier Generale Centrale U.S.I. per messaggio dettagliato concernente questione di massima importanza inerente a tutta Galassia. Atterro secondo traiettoria minima.”

L’agente sembrava divertito. Le sue mascelle si erano rimesse a ruminare con moto ritmico, uniforme. Disse: «Pensi un po’! “Inerente a tutta Galassia”. Non c’è male, anche per uno spazialista. L’ho chiamato dopo aver ricevuto questo messaggio per vedere se riuscivo a cavarne qualcosa di sensato, ma non c’è stato niente da fare. Ha continuato a ripetermi che la vita di tutti gli esseri umani di Florina era in pericolo. Capisce? Mezzo miliardo di esistenze in pericolo. Mi è parso psicopatico. Perciò, francamente, non ho nessuna voglia di trovarmi a tu per tu con lui quando atterrerà. Che cosa mi consiglia di fare?»

Il dottor Junz aveva chiesto: «Ha una registrazione del colloquio con lui?»

«Sissignore.» Erano seguiti alcuni minuti di ricerche, ed era stato finalmente ritrovato un frammento di pellicola.

Il dottor Junz lo aveva inserito nel “lettore”, e si era immediatamente accigliato: «Questa è una copia, vero?»

«L’originale l’ho mandato all’Ufficio Trasporti Extra-Planetari perché ho ritenuto più prudente che gli andassero incontro sul campo di atterraggio con un’ambulanza. Come le ripeto, ho l’impressione che non stia troppo bene di salute.»

«Un momento. Crede che sia già atterrato?»

L’agente lo aveva guardato sorpreso. «Credo di sì, però nessuno mi ha informato ancora.»

«Chiami l’Ufficio Trasporti e cerchi di avere dei particolari. Psicopatico o no, dobbiamo pure registrare i particolari del suo viaggio sui nostri moduli.»

Lo Spazio-Analista era ritornato il giorno successivo per un ultimo controllo, prima di lasciare il pianeta. Aveva altre cose di cui occuparsi su altri mondi, e aveva una certa fretta. Ma giunto sulla soglia aveva chiesto: «Come va il nostro spazialista?»

L’agente aveva risposto: «Ah, già… L’Ufficio Trasporti non ne sa niente. Si vede che deve aver cambiato idea all’ultimo momento e non è più atterrato.»

Il dottor Junz aveva deciso di ritardare la propria partenza di altre ventiquattr’ore. Il giorno seguente entrava nell’Ufficio Trasporti Extra-Planetari della Città di Sark, capitale del pianeta, scontrandosi così per la prima volta con la burocrazia floriniana, ma tutti si erano limitati a scuotere il capo. Avevano ricevuto effettivamente un messaggio relativo al progettato atterraggio di un analista dell’U.S.I., oh, sì, però nessuna nave era atterrata.

Ma si trattava di una cosa molto importante, aveva insistito il dottor Junz, il povero uomo stava male. Non avevano ricevuto una copia della trascrizione del suo colloquio con l’agente locale dell’U.S.I.? Tutti lo avevano guardato con tanto d’occhi. Quale trascrizione? Nessuno si ricordava di averla letta. Erano spiacenti che il poveretto fosse ammalato, ma nessuna nave U.S.I. era atterrata, e nessuna nave U.S.I. si trovava nel vicino spazio.

Il dottor Junz era ritornato a meditare nella sua camera d’albergo, quindi aveva chiamato il portiere e aveva chiesto di essere trasferito in un appartamento più adatto a un soggiorno prolungato. Aveva quindi fissato un appuntamento con Ludigan Abel, l’Ambasciatore trantoriano.

Aveva speso il giorno dopo consultando alcuni volumi di storia sarkita e quando era venuta l’ora dell’appuntamento con Abel, il cuore aveva incominciato a battergli di sorda collera. Non si sarebbe dichiarato vinto tanto presto.

Il vecchio Ambasciatore lo aveva trattato come si tratta un ospite di riguardo, gli aveva stretto cordialmente la mano, aveva fatto venire il suo barista automatico e non aveva permesso che s’iniziasse tra loro alcuna discussione di affari se non dopo un paio di bicchieri.

Junz ricordava ancora come aveva veduto Abel quel primo giorno, con gli occhi profondamente incassati sotto le sopracciglia di un bianco abbagliante, il naso a becco sempre sospeso sul calice di vino, le guance incavate che accentuavano la magrezza della faccia e del corpo. Finalmente Junz aveva incominciato il proprio racconto, esponendo i fatti con la massima economia di parole.

Quando l’altro ebbe finito Abel si era asciugato delicatamente le labbra col fazzoletto e aveva chiesto: «Adesso, mi dica, lei conosce quest’uomo che è scomparso?»

«No.»

«Non l’ha mai incontrato?»

«I nostri analisti spaziali sono persone difficili da incontrare.»

L’Ambasciatore lo aveva guardato interrogativamente, quindi aveva chiesto: «E perché è venuto da me?»

«Per avere un aiuto.»

«D’accordo, ma in che modo? Che cosa posso fare, io?»

«Permetta che mi spieghi. L’Ufficio Sarkita dei Trasporti Extra-Planetari ha sondato il vicino spazio in cerca del tracciato energetico dei motori della nave del nostro uomo, ma senza riuscire a individuarlo. Non mi mentirebbero a questo proposito. Non dico che i sarkiti siano incapaci di menzogna, ma non mentirebbero inutilmente, e sanno benissimo che posso controllare le loro dichiarazioni in un paio d’ore.»

«È esatto. Ebbene?»

«Quando fallisce la ricerca di un tracciato energetico, i casi sono due. Nel primo, se la nave non si trova nello spazio vicino vuol dire che è saltata attraverso l’iperspazio e si trova in un’altra regione della Galassia; nel secondo, se non si trova affatto nello spazio vuol dire che è atterrata su un pianeta. Ora io mi rifiuto di credere che il nostro uomo sia saltato. Se le sue dichiarazioni circa i pericoli che minacciano Florina e l’importanza della Galassia erano dettate da megalomania aberrante, niente gli avrebbe impedito di scendere su Sark per venircene a parlare. E non avrebbe cambiato idea volontariamente. Ho quindici anni di esperienza di queste cose. A maggior ragione, se per un caso ipotetico, le sue dichiarazioni fossero state serie e fondate, mai più avrebbe cambiato parere e abbandonato lo spazio vicino.»

Il vecchio Ambasciatore aveva alzato un dito. «Perciò, lei è convinto che il suo uomo si trovi su Sark.»

«Esattamente. Ma qui ci troviamo ancora di fronte a due alternative. Prima di tutto, se si trova effettivamente sotto l’effetto di una psicosi può aver atterrato in un punto qualsiasi del pianeta, anziché su un astroporto ufficiale. Può darsi che stia vagando senza meta, ammalato e in stato di semiamnesia. Ciò è molto insolito persino tra gli spazialisti, ma fatti analoghi si sono già verificati. Normalmente in un caso del genere gli accessi sono temporanei, e passata la crisi, il paziente ricorda per prima cosa, prima ancora di ciò che personalmente lo riguarda, i particolari del suo lavoro, poiché in definitiva il lavoro dello Spazio-Analista è la sua vita stessa. Assai spesso accade che lo smemorato venga rintracciato, perché per prima cosa entra in una biblioteca pubblica a consultare libri di riferimento sulla Spazio-Analisi.»

«Capisco. Quindi lei vuole che intervenga presso il Dicastero dei Bibliotecari perché le sia subito riferita tale situazione, nel caso che si verifichi.»

«No, poiché su questo punto non prevedo alcun intoppo. Chiederò che vengano messe da parte alcune opere di carattere generale sulla Spazio-Analisi, e che chiunque le richieda, a meno che non possa provare di essere nativo di Sark, venga trattenuto per essere interrogato. È una semplice precauzione. In realtà non servirà a niente, perché io sono convinto che il nostro uomo sia atterrato all’astroporto della Città di Sark esattamente come aveva progettato, e che sano o malato di mente sia stato imprigionato o ucciso dalle autorità sarkite.»

Abel posò il bicchiere, ormai quasi vuoto. «Sta scherzando!»

«Le sembra che ne abbia voglia? Cosa mi ha detto di Sark non più tardi di mezz’ora fa? Che la vita, la prosperità e la potenza di tutta questa gente dipendono dal controllo di Florina. Che cosa mi hanno insegnato le mie letture di queste ultime ventiquattro ore? Che i campi di kyrt di Florina rappresentano la ricchezza di Sark. Ed ecco che un uomo, sano di mente o psicopatico, non importa, afferma che un fatto d’importanza galattica mette in pericolo la vita di tutti gli uomini e di tutte le donne di Florina. Osservi la trascrizione dell’ultimo suo colloquio pervenutoci.»

Abel raccolse il frammento di pellicola che Junz gli aveva quasi buttato sulle ginocchia e lo inserì nel “lettore”.

«Non dice gran che.»

«Naturale. Parla di un pericolo gravissimo, e s’intuisce che ha molta fretta, ma un messaggio simile non avrebbe mai dovuto essere trasmesso ai sarkiti, anche ammesso che il nostro uomo si sbagliasse. Come poteva il governo sarkita permettergli di diffondere le pazzie che aveva in testa, sempre che si tratti di pazzie? Lasciando da parte il panico che simili notizie avrebbero potuto provocare su Florina, danneggiando l’andamento della produzione del kyrt, rimane sempre il fatto che l’intera Galassia sarebbe stata informata degli sporchi rapporti politici intercorrenti tra Sark e Florina. Esiterebbe Sark a uccidere, in un caso simile?»

«E che cosa vorrebbe da me? Debbo dire che sono tuttora assai poco convinto.»

«Si informi se l’hanno ucciso» aveva detto Junz con voce tetra. «Ci sarà pure un’organizzazione spionistica, in questo maledetto posto! E quando li avrà rivelati per quegli assassini che sono, voglio che Trantor faccia sapere ben chiaro a tutti che nessun governo della Galassia ha il diritto di uccidere un dipendente dell’U.S.I., o farne quel che gli pare.»

Così era terminato il suo primo colloquio con Abel.

Per quel che riguardava le disposizioni librarie, i funzionari sarkiti si erano mostrati assai comprensivi e dispostissimi a collaborare.

Comunque, i mesi erano trascorsi, e gli agenti di Abel non erano riusciti a trovare traccia, su Sark, dello spazialista scomparso.

Le cose si erano protratte così per undici mesi, e già Junz cominciava a rassegnarsi. Aveva solo deciso di aspettare ancora un mese. Poi era venuto il primo barlume di speranza, del tutto inaspettato: un rapporto pervenuto dalla Biblioteca Pubblica di Sark. Junz si trovava adesso seduto davanti a un funzionario floriniano nell’Ufficio Affari Floriniani.

L’Assistente completò la propria classificazione mentale del caso. Aveva terminato di girare l’ultima pagina.

Alzò gli occhi e chiese: «Dunque, che posso fare per lei?»

Junz cominciò con estrema precisione: «Ieri, alle 16,22, sono stato informato che la sezione floriniana della Biblioteca Pubblica di Sark teneva a mia disposizione un uomo, non nativo di Sark, il quale aveva cercato di consultare due volumi di divulgazione sulla Spazio-Analisi. Dopo di che la Biblioteca non mi ha più fatto sapere niente.» Alzando la voce per soffocare un’interruzione dell’Assistente, lo scienziato continuò: «Un tele-bollettino ricevuto dall’apparecchio pubblico dell’albergo dove risiedo, e datato dalle ore 17,05 di ieri, annunciava che un appartenente alla Pattuglia Floriniana era stato ritrovato esanime nella sezione floriniana della Biblioteca Pubblica di Sark, e che tre indigeni floriniani, ritenuti responsabili del crimine, erano stati inseguiti e ricercati; ma quel bollettino non venne poi ripetuto nei notiziari successivi. Non ho dubbi che le due notizie siano collegate. Ho avvertito Florina per radio-etere di mandare l’uomo in questione su Sark ma non ho ricevuto risposta. Ora sono qui per chiedere all’Ufficio degli Affari Floriniani di agire. O mi lascia salire lassù oppure mi manda qui quell’uomo.»

La voce spersonalizzata dell’Assistente disse: «Il governo di Sark non può accettare ultimatum dai funzionari dell’U.S.I. L’uomo che ha chiesto di consultare i testi riservati, unitamente ad altri due compagni, un Borgomastro e una donna di Florinia, ha effettivamente commesso il crimine che lei dice, e i tre sono stati inseguiti dalla Pattuglia ma non sono stati catturati.»

Una profonda delusione si dipinse sulla faccia di Junz. «Sono fuggiti?»

«Non esattamente. Sono stati rintracciati nella panetteria di un certo Matt Khorov.»

Junz fissò sbalordito il funzionario: «E ce li hanno lasciati?»

«Lei ha avuto rapporti, recentemente, con Sua Eccellenza Ludigan Abel?»

«Che c’entra questo con…»

«Siamo informati che è stato visto spesso all’Ambasciata di Trantor.»

«È una settimana che non vedo l’Ambasciatore.»

«In tal caso le consiglio di andare subito da lui. Abbiamo permesso che i criminali restassero impuniti nel negozio di Khorov per riguardo alle nostre delicate relazioni interstellari con Trantor. Ho anche avuto ordine di dirle, nel caso si rendesse necessario, che Khorov, come probabilmente saprà…» e la faccia pallida del funzionario parve trasformarsi in una beffarda maschera ghignante «è ben noto al nostro Ministero degli Interni come un agente di Trantor.»

6

Terens aveva lasciato la panetteria di Khorov dieci ore prima che tra Junz e l’Assistente si svolgesse il colloquio sopra riferito. Appena sentì un rumore lontano di passi pesanti, si rincantucciò in un vicolo polveroso (nemmeno le piogge notturne di Florina riuscivano a penetrare entro le fosche regioni nascoste sotto la legacemento). Alcune luci guizzarono, passarono e scomparvero a cento metri di distanza.

I pattugliatori seguitarono a marciare innanzi e indietro tutta la notte. Bastava che marciassero. Il terrore della loro presenza era sufficiente a mantenere l’ordine, senza ulteriori spiegamenti di forze.

Terens avanzava speditamente, lieve come un fantasma, e ogni volta che la sua faccia s’illuminava nel passare sotto una feritoia della legacemento sovrastante, non sapeva trattenersi dall’alzare la testa. Attraverso quanti cambiamenti era giunto nel corso della sua vita all’attuale considerazione dei Signori di Sark! Quando era bambino, i Signori erano per lui super-uomini aureolati di una vaga luce mistica, straordinariamente buoni, i quali dimoravano in un paradiso che si chiamava Sark e badavano con paziente e amorosa cura al benessere degli stupidi uomini e delle sciocche donne di Florina.

A dieci anni aveva scritto un saggio scolastico su quella ch’egli immaginava dovesse essere la vita su Sark. Era stato un componimento di pura fantasia, concepito al solo scopo di fare sfoggio delle proprie capacità stilistiche e letterarie. Il maestro ne era rimasto molto soddisfatto e alla fine dell’anno, mentre gli altri ragazzi continuavano nei loro corsi normali di lettura, scrittura e morale, egli era stato promosso a una classe speciale in cui gli avevano insegnato aritmetica, galattografia e storia sarkita. All’età di sedici anni lo avevano mandato su Sark.

Era atterrato su quel paradiso ed era stato affidato a un vecchio floriniano il quale aveva provveduto per prima cosa a farlo lavare e vestire decentemente. Era stato poi condotto in un grande edificio, e, strada facendo, il suo anziano mentore si era inchinato fino a terra davanti a una figura che passava.

«Mettiti in ginocchio!» aveva borbottato, irosamente, il vecchio al giovane Terens.

Terens aveva ubbidito, poi aveva chiesto confuso: «Chi era?»

«Un Signore, zoticone ignorante che non sei altro.»

«Un Signore, quello?»

Si era fermato istupidito, e il vecchio aveva dovuto trascinarlo via quasi di peso. Era la prima volta che Terens vedeva un Signore. Non era alto sei metri come lui si era immaginato, era un uomo come tutti gli altri. Qualcosa in lui era cambiato, e per sempre.

Aveva studiato per dieci anni, e quando non studiava, non mangiava e non dormiva, gli insegnavano a rendersi utile in mille piccoli modi. Gli insegnarono a recapitare messaggi e a vuotare i cesti della carta straccia, a inchinarsi sino a terra quando passava un Signore e a voltare rispettosamente la faccia contro il muro quando passava la Dama di un Signore.

Per altri cinque anni aveva lavorato nella Burocrazia Statale, con continui spostamenti da un impiego all’altro allo scopo di sottoporre le sue capacità alle prove più svariate.

Terens aveva meditato a lungo. Era uomo di poche parole, di modi corretti, ma i suoi pensieri non avevano freno. Odiava i Signori, in parte perché non erano alti sei metri, in parte perché non aveva il diritto di guardare le loro donne, e in parte infine perché ne aveva serviti diversi, a capo chino, e aveva scoperto che nonostante tutta la loro arroganza erano esseri sciocchi.

Ma quale alternativa trovare a un simile stato di schiavitù? Sarebbe stato sciocco e inutile favorire Trantor per liberarsi da Sark. Un padrone vale l’altro. E allora? Non c’era dunque speranza?

Ed ecco che a un tratto si era presentato tutto un complesso di circostanze che gli aveva posto nelle mani una insospettata risposta nella persona del povero essere insignificante che era stato un tempo uno Spazio-Analista e che era a conoscenza di un’oscura minaccia che metteva a repentaglio la vita di tutti gli uomini e di tutte le donne di Florina.

Mentre rimuginava questi pensieri, Terens era giunto nei campi, dove la pioggia notturna stava cessando e su cui le stelle già scintillavano umide tra le nuvole. Aspirò profondamente l’odore del kyrt, tesoro e al tempo stesso maledizione di Florina.

Non si faceva illusioni. Non era più un Borgomastro, non era nemmeno un contadino floriniano libero: era un criminale, un fuggiasco costretto a nascondersi.

Ciononostante si sentiva pieno d’orgoglio, e di disprezzo per i Signori. Nelle ultime ventiquattr’ore aveva tenuto in pugno un’arma incredibilmente pericolosa per Sark.

Ne era sicuro.

Ed ecco che adesso Rik era caduto nelle mani di un individuo il quale si spacciava per patriota floriniano ma era in effetti un agente di Trantor.

Terens si sentì invadere da una collera amara, sconfinata. Certamente quel Fornaio era una spia trantoriana. Lo aveva capito sin dal primo momento. Chi altri tra gli abitanti della Città Bassa poteva disporre del capitale per costruire finti forni a radar?

Ai limiti dell’orizzonte apparve un tenue chiarore. Avrebbe atteso l’alba. Certo a quell’ora i vari posti di pattuglia dovevano già avere ricevuto i suoi dati segnaletici, ma sarebbero trascorsi vari minuti prima che la sua immagine venisse registrata.

E durante quei pochi minuti egli sarebbe stato ancora un Borgomastro. Ciò gli avrebbe dato il tempo di mettere in atto un piano che persino in quell’istante non osava formulare a se stesso.

Dieci ore dopo il suo colloquio con l’Assistente, Junz tornò da Ludigan Abel.

L’Ambasciatore accolse lo scienziato con la consueta apparente cordialità e tuttavia con una ben definita e sconcertante sensazione di imbarazzo. Al loro primo incontro (verificatosi tanto tempo prima: era trascorso quasi un Anno Unitario) non aveva prestato ascolto al racconto fattogli dal suo interlocutore come a cosa personale. Il suo solo pensiero era stato: “Potrà questo aiutare Trantor?”.

Trantor! Era sempre il suo primo pensiero, ma al tempo stesso egli non era un imbecille che adorava supinamente un gruppo di stelle o il giallo emblema dell’Astronave e del Sole, distintivo delle forze armate trantoriane.

Però era un fanatico assertore della pace, soprattutto adesso che incominciava a invecchiare e gli piaceva godersi il suo buon bicchiere di vino, l’atmosfera che lo circondava, satura di dolci misure di profumi, il sonno pomeridiano, la tranquilla attesa della morte. Così immaginava che tutti gli uomini dovessero sentire; eppure tutti gli uomini indistintamente erano soggetti a guerre e distruzioni continue.

Per porre termine al malgoverno della forza non restava che un’unica soluzione, la forza stessa.

Abel aveva appeso nel proprio studio una carta di Trantor. Era un ovoide cristallino chiaro in cui la lente galattica era stata tracciata tridimensionalmente. Le sue stelle erano puntolini di bianca polvere diamantifera, le sue nebulae erano chiazze di luce o di cupa nebbia, e nelle sue profondità centrali vi era stata la Repubblica Trantoriana.

Non “era” ma “era stata”. Cinquecento anni prima infatti la Repubblica Trantoriana era stata composta di cinque mondi soltanto.

Ma si trattava di una carta storica, e mostrava la Repubblica a quello stadio, soltanto quando il quadrante era messo sullo zero. Bastava farlo avanzare di una tacca e la Galassia vi sarebbe apparsa com’era diventata cinquant’anni più tardi, mentre un fascio di stelle si sarebbe arrossato intorno al cerchio di Trantor.

Movendo il quadrante per dieci volte successive mezzo millennio sarebbe trascorso e il rosso si sarebbe allargato come una gran macchia di sangue finché più di metà della Galassia sarebbe stata assorbita da quella pozza vermiglia.

Adesso Trantor si trovava sull’orlo di una nuova trasformazione; da Impero Trantoriano stava per divenire Impero Galattico e allora quell’immensa macchia rossa avrebbe inghiottito tutte le stelle e sarebbe finalmente regnata la pace universale… la “Pax Trantorica”.

Questo voleva Abel.

Abel non era favorevole a Trantor, ma alla conclusione totale che Trantor rappresentava. Perciò la domanda: Come potrà questo aiutare la pace galattica? si trasformava naturalmente nell’altra: Come potrà questo aiutare Trantor?

Il guaio era che in tale circostanza egli si trovava a brancolare nel buio più assoluto. Per Junz la soluzione era evidentemente semplicissima: Trantor doveva difendere l’U.S.I. e punire Sark.

Certo questa sarebbe stata una gran bella cosa, purché si potesse dimostrare che Sark aveva torto. Ma in ogni caso Trantor non poteva compiere mosse avventate. Tutta la Galassia capiva che Trantor aspettava solo il momento opportuno per trasformarsi in un dominio galattico e vi era ancora la possibilità che quel poco che restava di pianeti non trantoriani si unisse per impedirlo. Perciò Trantor non doveva assolutamente arrischiare una sola mossa incauta in quello stadio finale del gioco.

Abel era stupito dalla collera ostinata del libairiano. Gli aveva domandato una volta: «Ma perché le interessa tanto la sorte di quell’individuo?»

Junz aveva aggrottato la fronte e gli aveva risposto: «Perché in fondo a tutta questa faccenda si nascondono i rapporti che legano Sark a Florina. Io intendo denunciare tali rapporti e spezzarli.»

E pensare che Junz non era neppure di Florina!

Abel gli aveva chiesto: «Che cos’è Florina per lei?»

Dopo una lunga esitazione, Junz aveva risposto: «Sento, con i suoi abitanti, un’affinità di razza.»

«Ma lei è libairiano; o perlomeno, questa è la mia impressione.»

«Infatti, ma in questo consiste appunto l’affinità. Noi siamo i due estremi in una Galassia di medi.»

«I due estremi? Non capisco.»

Junz aveva detto: «Sì, i due estremi rispetto alla pigmentazione della pelle. I floriniani sono eccezionalmente pallidi, noi siamo eccezionalmente bruni. Ciò ha un significato, ci lega gli uni agli altri, ci offre un elemento comune. Io ho la sensazione che i nostri antenati debbano avere subito vicissitudini analoghe, a causa di questa loro diversità, e suppongo persino che siano stati esclusi dalla maggioranza sociale.»

Sotto lo sguardo stupefatto di Abel, Junz si era inceppato e aveva taciuto: poi quell’argomento non era più stato toccato.

E adesso, dopo un anno, senza preavviso, proprio nel momento in cui si sarebbe aspettato che quel maledetto affare “dovesse finire in niente, e quando già Junz manifestava dei segni d’indebolito zelo, ecco che la bomba era scoppiata. Si trovava a dover affrontare, ora, un Junz ben diverso la cui collera non era riservata a Sark soltanto, ma si riversava ugualmente sul capo di Abel.

«Non è già che io mi risenta del fatto che mi abbia messo i suoi agenti alle calcagna» gli stava dicendo lo scienziato. «Ammetto che lei debba essere cauto e che non possa fidarsi di niente e di nessuno. Sin qui tutto bene. Ma perché non sono stato informato, non appena il nostro uomo è stato individuato?»

Abel lisciò con la mano la stoffa delicata della poltrona in cui era seduto. «Le cose sono sempre talmente complicate! Avevo disposto in modo che qualsiasi rapporto su un ricercatore non autorizzato di dati spazio-analitici fosse consegnato oltre che a lei anche a un mio determinato agente. Avevo persino creduto che lei avesse bisogno di protezione. Ma su Florina…»

Junz lo interruppe in tono ironico: «Già! Come siamo stati sciocchi a non considerare questa ipotesi. Abbiamo speso quasi un anno a dimostrare che era impossibile rintracciarlo su Sark. Perciò doveva essere su Florina, e noi invece tale possibilità non la abbiamo neppure presa in considerazione. Adesso però l’abbiamo in pugno, o meglio, l’ha in pugno lei, e spero che avrà sistemato le cose in maniera che io possa vederlo…»

Abel evitò una risposta diretta. Chiese, invece: «Dunque le hanno detto che quel Khorov sarebbe un agente di Trantor?»

«E non lo è forse? Perché mi avrebbero mentito? O sono male informati?»

«Non le hanno mentito né sono male informati. Quell’uomo è effettivamente nostro agente da circa un decennio, e mi secca molto di apprendere che gli altri lo sapessero. Ma non si stupisce che le abbiano detto così chiaro e tondo che quell’uomo è uno dei nostri? Io dico che l’hanno informata sulla vera identità di Khorov per beffarsi di me e di lei. Sapevano che questa loro consapevolezza non poteva più né aiutarli né danneggiarli, dal momento che da dodici ore io so che loro erano ormai a conoscenza del fatto che Khorov era uno dei nostri uomini.»

«Ma in che modo?»

«Nel modo più inequivocabile possibile. Dodici ore fa Matt Khorov, agente di Trantor, è stato ucciso da un appartenente alla Pattuglia Floriniana. I due floriniani che sino a quel momento erano rimasti in suo potere, una donna, e l’uomo che, con tutta probabilità, è lo spazialista che lei cerca, sono scomparsi, si sono volatilizzati. Molto probabilmente a quest’ora sono nelle mani dei Signori.»

Junz scattò in piedi.

«Ufficialmente io non posso far niente» disse Abel, calmissimo. «Il morto era floriniano, e gli scomparsi, sino a quando noi non saremo in grado di dimostrare il contrario, sono floriniani. Perciò, come vede, siamo stati giocati bellamente.»

Rik vide uccidere il Fornaio, lo vide afflosciarsi senza un grido, vide il suo petto infossarsi e trasformarsi in un ammasso fumante sotto la carica silenziosa dell’inceneratore. Per un attimo quell’avvenimento annullò i progressi compiuti dalla sua mente in quelle ultime ore di sonno. Il pattugliatore si era buttato su di lui, scavalcando uomini e donne urlanti, come se fossero stati un viscido mare di fango attraverso il quale fosse costretto a sguazzare e a dibattersi per non affondare. Rik e Lona vennero trascinati via dalla corrente tra mulinelli e risucchi, tremando di paura, mentre incominciavano ad aleggiare sulle loro teste le macchine dei pattugliatori volanti. Valona si trascinava Rik quasi di peso, cercando di sospingerlo verso la periferia della Città.

Quel mattino Rik si era svegliato nel grigiore di un’alba che non poteva vedere, dalla stanza priva di finestre in cui aveva dormito. Giacque così per lunghi minuti, analizzando la propria mente. Durante la notte qualcosa in lui si era cicatrizzato, si era saldato insieme ricostituendosi. Quel momento era incominciato due giorni prima quando si era messo a “ricordare”. Il processo era continuato durante tutta la giornata precedente. Il viaggio alla Città Alta, la visita alla biblioteca, l’assalto al pattugliatore, la fuga che ne era seguita, l’incontro con il Fornaio, tutto questo aveva agito su di lui come un fermento.

Finalmente si voltò e disse: «Lona…»

La ragazza si svegliò di colpo, rizzandosi su un gomito, e volse lo sguardo verso di lui.

«Rik?»

«Sono qui, Lona.»

«Ti senti bene?»

«Certamente.» Non riusciva a contenere la propria emozione. «Mi sento benissimo, Lona. Ascolta! Comincio a ricordare sempre di più. Ero su una nave, e so esattamente…»

Una luce penetrò nella stanza e con essa la massiccia figura del Fornaio. Rik lo squadrò ammiccando e per un attimo ne fu impressionato.

Le grosse labbra del Fornaio si allargarono in un ampio sorriso.

«Vi siete svegliati presto.»

Nessuno dei due rispose.

Il Fornaio disse: «Tanto meglio, perché oggi dovete far fagotto.»

Valona si sentiva la gola arsa. Mormorò: «Non ci consegnerà ai pattugliatori, vero?»

«Non ai pattugliatori» disse. «Ho informato le persone competenti, e sarete più che al sicuro.»

Uscì, e quando rientrò poco dopo aveva con sé viveri, vestiti, e due bacinelle d’acqua. I vestiti erano nuovi e di foggia totalmente sconosciuta.

Stette a osservarli mentre mangiavano, quindi disse: «Vi darò nomi nuovi e una personalità diversa. Mi dovete ascoltare attentamente, perché bisogna che non dimentichiate nulla. Voi non siete floriniani, mi capite? Siete fratello e sorella, e provenite dal pianeta Wotex. Siete stati in visita su Florina…»

Proseguì per un pezzo così, fornendo particolari, rivolgendo domande, ascoltando le loro risposte.

Rik era felice di poter dimostrare l’elasticità della sua memoria, la sua facilità di apprendere, ma gli occhi di Valona erano carichi di preoccupazione.

La sua inquietudine non sfuggì al Fornaio. Disse, rivolto alla ragazza: «Se mi darai anche la più piccola noia manderò via solo lui, e tu resterai qui.»

Le forti mani di Valona si contrassero spasmodicamente: «Non le darò nessuna noia.»

La mattina era già inoltrata quando il Fornaio si alzò in piedi e disse: «Andiamo!»

Il suo ultimo gesto fu quello di riporre nelle tasche delle loro giacche piccoli fogli neri di pergamoide morbida.

Intorno a loro si raccolsero alcuni passanti che presero a fissarli a bocca aperta gesticolando e chiamandosi l’un l’altro. Erano per la maggior parte bambini, donne dirette al mercato, vagabondi stracciati e sornioni. Il Fornaio sembrava ignorarli.

Ed ecco che, mentre si trovavano a soli cento metri dalla panetteria, la folla che li circondava cominciò a scomporsi agitatamente, e Rik riconobbe la divisa nero-argentea di un pattugliatore.

Poi era accaduta la cosa terribile. L’arma si era puntata vomitando la sua energia mortale, ed era cominciata una fuga forsennata.

Vennero a trovarsi nello squallore di un quartiere periferico della Città.

Rik gemette: «Non ce la faccio più a correre.»

«Ma dobbiamo correre.»

«No. Ascoltami.» La paura stava scomparendo. Disse: «Perché non proseguiamo e non facciamo quel che il Fornaio ci ha detto di fare?»

Valona replicò: «Come fai a sapere che cosa voleva che facessimo?»

«Dovevamo fingere di essere di un altro mondo e ci ha dato questi» disse Rik, in preda a una viva emozione, e aggiunse: «È un passaporto.»

«Che cosa vuol dire?»

«Una cosa che serve per andarcene di qui.» Ne era certo. La parola “passaporto” gli era venuta in mente all’improvviso, così. «Non capisci? Voleva che noi lasciassimo Florina su una nave. Obbediamogli.»

«No. Non possiamo, Rik, non possiamo. L’hanno ucciso!»

Ma Rik sentiva l’urgenza del momento. Prosegui quasi balbettando: «Ma è la cosa migliore che ci resti da fare. Non se lo aspettano, da noi. Ma noi non andremo sulla nave dove lui avrebbe voluto farci salire, perché quella sarà certamente sorvegliata. Però potremmo salire su un’altra, su una nave qualsiasi.»

Una nave. Una nave qualsiasi. Quelle parole gli rintronavano nelle orecchie come altrettanti colpi di maglio.

«Ti prego, Lona!»

«E va bene! Se proprio lo vuoi. So dove si trova l’astroporto. Da ragazza ci sono andata diverse volte nei giorni di riposo a osservare da lontano le navi che partivano.»

Si rimisero a camminare e ai limiti della coscienza di Rik batteva ora soltanto una lieve, vaga inquietudine, un ricordo non del passato lontano bensì di quello immediato, qualcosa che avrebbe dovuto ricordare e che non riusciva, non riusciva in alcun modo ad afferrare.

Il floriniano addetto alla custodia del cancello d’ingresso era molto emozionato, quel giorno. Gli erano giunte le voci più assurde di assalti contro pattugliatori e di fughe audacissime, verificatisi la sera innanzi, ma quella mattina le voci si erano ancora ingrandite e si parlava addirittura di pattugliatori uccisi.

Non si occupò quasi neppure della coppia che gli stava davanti, evidentemente a disagio e tutta sudata negli abiti di foggia esotica che li distingueva immediatamente come forestieri. La donna gli stava mostrando un passaporto.

«Qual è la nostra nave?» domandò la donna con voce sommessa.

«La troverete al posto di ancoraggio N. 17, signora» dise. «Vi auguro una piacevole traversata per Wotex.»

Solo molte ore più tardi si sarebbe reso conto di aver commesso un errore madornale.

Rik disse: «Lona!» Quindi, l’afferrò per un braccio e le sussurrò: «Quella! La stanno aerando. Si aerano sempre le navi passeggeri, prima di una traversata, per toglierne l’odore che vi si è accumulato di ossigeno in scatola, usato e riusato più volte.»

Valona lo guardò sorpresa. «Come lo sai?» chiese.

Rik si sentì a un tratto molto fiero di sé. «Lo so, ecco tutto. Vedi, in questo momento non ci deve essere nessuno a bordo perché non ci si sta comodi, con la corrente che tira.»

Non videro neppure un solo pattugliatore, mentre si avviavano lungo la rampa, con passi tremanti.

L’aria in movimento li investì mentre entravano nella stiva e il vestito di Valona si gonfiò tanto che lei dovette tenerlo stretto con le mani per impedire che la gonna volasse via.

«È sempre così?» domandò. Non era mai stata su una astronave, prima di allora, né mai aveva sognato di salirvi.

«No. Solo durante l’aerazione» disse Rik.

Avanzò gioiosamente lungo i corridoi di metallite dura, ispezionando con vivace impazienza le stanze vuote.

«Entra qui» disse. Era la cambusa. «Il cibo non ha molta importanza» aggiunse in fretta. «Possiamo anche stare senza mangiare per un po’ di tempo. È l’acqua che conta.»

Frugò tra vari oggetti ordinatamente allineati e ne trasse fuori un grosso recipiente accuratamente tappato. Si guardò intorno in cerca del rubinetto dell’acqua, mormorò tra i denti che sperava non si fossero dimenticati di riempire i serbatoi, quindi emise un sospiro di sollievo non appena intese il rumore delle pompe e l’uniforme gorgogliare del liquido.

«Prendi qualche altro recipiente, non troppi però. Bisogna che non si accorgano della nostra presenza.»

Trovò uno stanzino in cui erano riposti attrezzi antincendio, medicinali, apparati chirurgici da adoperarsi in caso di emergenza, e apparecchi di saldatura.

Disse, titubante: «Qui verranno soltanto in caso di pericolo. Hai paura, Lona?»

«Con te non avrò mai paura, Rik» rispose umilmente la ragazza. Due giorni prima, anzi, ancora dodici ore prima, era stato tutto il contrario. Ma a bordo di quella nave, per una trasformazione di personalità che Valona non osava neppure discutere, l’adulto era divenuto Rik, e lei la bambina.

La corrente cessò all’improvviso. Rik disse: «Tra poco saliranno a bordo, e poi saremo fuori, nello spazio.»

Se svegliandosi quel mattino all’alba Rik si era sentito un uomo, adesso gli pareva di essere un gigante. Era su una nave! Nuovi ricordi gli affioravano alla mente in un fluire ininterrotto.

La Nave! Se lo avessero messo a bordo di una nave subito, non avrebbe dovuto attendere tanto prima che le cellule bruciate del suo cervello potessero guarire e cicatrizzarsi.

Nell’oscurità dello stanzino, disse sottovoce a Valona: «Adesso non ti spaventare. Avvertirai una vibrazione e sentirai un rumore molto forte, ma saranno soltanto i motori, poi proverai un grande peso su di te. È l’accelerazione.»

Valona chiese: «Farà male?»

Rik disse: «Sarà molto scomodo, perché non abbiamo un dispositivo antiaccelerazione per controbattere la pressione, però durerà poco. Mettiti contro quella parete, e quando ti ci sentirai sospingere contro rilassati. Ecco, sta cominciando.»

Aveva scelto la parete giusta, e mentre il rombo dei motori, sotto la spinta iperatomica, si gonfiava, la gravità apparente si spostò, e quello che era stato un muro verticale parve divenire sempre più diagonale.

Valona diede un gemito, quindi si chiuse in un silenzio ansante. Avevano la gola arsa poiché le pareti del loro torace, non protette da cinghie e da ammortizzatori idraulici, lavoravano faticosamente per liberare i polmoni almeno di quel tanto necessario per inspirare un poco d’aria.

Rik riuscì a proferire a stento qualche parola, erano parole a caso, dette unicamente per far comprendere a Valona che lui le era vicino, e calmare la spaventosa paura dell’ignoto che certamente doveva averla invasa.

Disse: «C’è il salto, naturalmente, quando attraverseremo l’iperspazio tagliando via d’un colpo la maggior parte della distanza tra le stelle. Ma questo non ci darà alcun fastidio. Non te ne accorgerai neppure. Non è nulla in paragone a questo. Avvertirai solo un lieve tremito nelle viscere e poi tutto sarà finito.» Le parole gli uscivano smozzicate, una sillaba alla volta. Era una fatica sovrumana.

A poco a poco il peso che gravava i loro petti si sollevò e la catena invisibile che li teneva legati alla parete si allentò e cadde mandandoli a stramazzare anelanti contro il pavimento.

Finalmente Valona domandò: «Ti sei fatto male, Rik?»

«Fatto male io?» Scoppiò a ridere. «Prima restavo su una nave per anni e anni, senza mai atterrare su un pianeta per mesi di fila.»

«Perché?» domandò Valona.

Lui le posò un braccio sulla spalla e Valona si appoggiò a lui silenziosamente, accettando senza discuterlo quel capovolgimento totale dei loro rapporti.

«Perché?» tornò a chiedere.

Rik non riusciva a ricordare perché, ma sapeva che era stato così: l’idea di atterrare su un pianeta gli ripugnava.

Disse: «Avevo un lavoro.»

«Sì» replicò Valona, «analizzavi il Nulla.»

«Proprio così.» Rik si sentì compiaciuto. «Proprio così. Sai che cosa significa?»

«No.»

«Vedi, tutta la materia dell’universo è costituita di cento sostanze diverse che noi chiamiamo elementi. Per esempio: elementi sono il ferro e il rame.»

«Io credevo che fossero metalli.»

«Lo sono, ma sono anche elementi, come elementi sono pure l’ossigeno, l’azoto, il carbonio e il palladio. Ma i più importanti di tutti sono l’idrogeno e l’elio, che sono anche i più semplici e i più comuni.»

«Io non ne ho mai sentito parlare» disse Valona con voce triste.

«Il novantacinque per cento dell’universo è idrogeno e quasi tutto il resto è elio. Persino lo spazio.»

«Mi fu spiegato una volta che lo spazio era un vuoto» disse Valona. «Mi dissero che questo significava che non c’era nulla. Era sbagliato?»

«Non completamente. Nello spazio non vi è quasi nulla. Però, capisci, io ero uno Spazio-Analista, il che significa che me ne andavo per lo spazio raccogliendovi le quantità estremamente piccole di elementi che vi si trovano e analizzandole. Vale a dire, studiavo quanto vi era d’idrogeno, quanto di elio e quanto di altri elementi diversi.»

«Perché?»

«Questo è alquanto complicato da spiegare. Vediamo un po’: devi sapere che la disposizione degli elementi nello spazio non è dappertutto la stessa. In alcune regioni vi è un po’ più d’elio del normale; in altre, più sodio del normale, e così via. Queste regioni di struttura analitica speciale serpeggiano nello spazio come correnti. Per questo le chiamano correnti spaziali. Ora è molto importante sapere la disposizione di queste correnti perché ciò potrebbe servire a spiegare come l’universo si sia creato e sviluppato.»

«E come si potrebbe spiegare questo?»

Rik esitò. «Nessuno lo sa con esattezza.» Tacque di colpo.

Valona s’irrigidì, e attese inquieta che lui continuasse, ma nella piccola stanza seguitò a regnare il più profondo silenzio.

«Rik! Che cos’hai, Rik?»

Sempre silenzio. Lei lo afferrò per le spalle e lo scosse. «Rik! Rik!»

Quella che rispose era la voce dell’antico Rik; una voce flebile, spaventata, vuota di ogni gioia e di ogni sicurezza.

«Lona. Abbiamo commesso uno sbaglio.»

«Quale sbaglio? Parla, Rik!»

Il ricordo della scena in cui il pattugliatore aveva fulminato il Fornaio gli era riapparso alla mente, straordinariamente nitido e chiaro, come se l’affluire di tante altre immagini avesse spinto di nuovo nel suo cervello anche quell’ultima memoria.

Disse: «Non dovevamo fuggire. Non dovremmo essere qui, su questa nave.»

Era stato assalito da un tremito incontrollabile, e Valona tentava inutilmente di asciugargli col dorso della mano il sudore che gli imperlava la fronte.

«Perché?» insistette Valona. «Perché?»

«Perché dovevamo sapere che se il Fornaio era disposto a condurci fuori in pieno giorno era certo di non aspettarsi alcuna interferenza da parte dei pattugliatori. Ricordi il pattugliatore che ha ucciso il Fornaio?»

«Sì.»

«Ricordi la sua faccia?»

«Non ho osato guardarlo.»

«Io sì, e l’ho trovata strana, ma sul momento non ho riflettuto. Lona, quello non era un pattugliatore, era il Borgomastro, Lona. Il Borgomastro vestito da pattugliatore!»

8

Samia di Fife era piccolissima di statura, ma tutta la sua minuta persona era in uno stato di esasperazione vibrante. Passeggiava nervosamente per la stanza. Disse: «Oh, no! Non può farmi questo. Capitano!»

La sua voce era imperiosa e piena di autorità. Il Comandante Racety si piegò alla tempesta. «Mia Signora!»

Samia disse: «Non mi si può comandare così a bacchetta. Voglio restare qui.»

Il Comandante rispose cautamente: «Cerchi di capire, Mia Signora, che io eseguo solo gli ordini che mi sono stati impartiti. Nessuno ha chiesto il mio parere.»

La donna ripeté per la terza volta esattamente le stesse parole: «I suoi ordini non m’interessano.»

Si allontanò quindi risolutamente da lui facendo risuonare i tacchi.

Il Comandante le tenne dietro, e disse con voce umile: «Gli ordini che ho ricevuto mi ingiungono, nel caso che lei si rifiutasse di seguirmi, di… trasportarla di peso sulla nave.»

Samia si voltò di scatto. «Non oserà mai farlo!»

Il Comandante rispose: «Se penso a chi m’ha dato quest’ordine, oserei ogni cosa.»

Samia allora mutò tattica; tentò con le arti sottili della civetteria femminile: «Ma, Comandante, non può esserci un pericolo vero. È assurdo il solo pensarlo. La Città è tranquillissima. Tanto chiasso per un pattugliatore assalito ieri pomeriggio nella biblioteca. Francamente!»

«Un altro pattugliatore è stato ucciso oggi all’alba.»

Quella notizia la scosse, ma la sua pelle color oliva s’incupì ancor più, e i suoi occhi neri fiammeggiarono: «Che cosa c’entra tutto questo con me? Io non solo un pattugliatore.»

«Mia Signora, la nave è già quasi pronta e partirà tra poco, ma non senza di lei».

«E il mio lavoro? Le mie ricerche? Non capisce… no, non può capire.»

Il Comandante tacque. La Dama si era scostata da lui. La sua veste scintillante di kyrt color del rame, striata di filamenti di argento lattiginoso, metteva in risalto la straordinaria perfezione delle sue spalle e delle sue braccia. Il capitano Racety la guardò con qualcosa di più della semplice cortesia e dell’umile obiettività che un modesto sarkita doveva a una così gran Dama, e si chiese come mai una creaturina così squisita si ostinasse a sprecare il proprio tempo scimmiottando le ricerche erudite dei vecchi barbogi universitari.

Samia sapeva perfettamente che il suo amore del sapere la rendeva oggetto di bonaria derisione da parte di quelli che erano abituati a giudicare le aristocratiche Dame di Sark come unicamente dedite alle frivolezze della società elegante. Ma a lei la cosa non importava affatto.

Quella sua passione era cominciata sin da quando era una ragazzina, perché era sempre stata innamorata del kyrt, mentre la maggior parte della gente lo accettava come una cosa acquisita e sottintesa. Il kyrt! Il re, l’imperatore, il dio dei tessuti. Non esisteva metafora abbastanza efficace per descriverlo.

Chimicamente non era altro che una varietà di cellulosa. Così giuravano i chimici. Tuttavia, nonostante tutti i loro strumenti e le loro teorie, non erano mai ancora riusciti a spiegare perché su Florina soltanto, in tutta la Galassia, la cellulosa si trasformasse in kyrt. Era una questione di stato fisico, rispondevano. Ma se si chiedeva loro di spiegare in modo esatto in quale modo lo stato fisico variasse da quello della cellulosa normale ammutolivano.

Naturalmente il kyrt non brillava di per sé ma, filato nel giusto modo, scintillava metallicamente nel sole con una grande varietà di colori o meglio assommando in sé tutti i colori. Trattato in modo diverso il suo filato acquistava un luccichio di diamante. Con poco costo lo si poteva rendere resistente al calore di 600 gradi centigradi, e completamente inattaccabile da quasi tutte le sostanze chimiche. Le sue fibre potevano essere filate ancora più finemente delle più delicate fibre sintetiche e quelle stesse fibre avevano una resistenza alla sollecitazione di trazione che nessuna lega d’acciaio riusciva a uguagliare.

Poteva essere destinato a usi diversi, era più versatile di qualsiasi altra sostanza nota all’uomo. Se non fosse stato tanto costoso lo si sarebbe potuto usare per sostituire il vetro, il metallo o la plastica in una infinità di applicazioni industriali. Per il momento era il solo materiale usato nella costruzione delle lenti prismatiche, serviva a fabbricare gli stampi destinati alla fusione degli idrocarburi usati nei motori iperatomici, e costituiva la base di impalcature eterne, leggerissime là dove il metallo era troppo friabile o troppo pesante o l’uno e l’altro insieme.

Attualmente il raccolto del kyrt di Florina entrava nella fabbricazione dei tessuti destinati ai più favolosi capi di abbigliamento di tutta la storia galattica. Florina vestiva l’aristocrazia di un milione di mondi, e il raccolto del kyrt di un unico pianeta, di Florina, per l’appunto, doveva essere filato così fine e sottile proprio per questo. Venti donne su un mondo potevano essere completamente vestite di kyrt, duemila forse potevano vantarne un capo, o al massimo un paio di guanti. Altri venti milioni di donne stavano a guardare da lontano e inghiottivano saliva.

Quando Samia era divenuta più grande si era recata da suo padre.

«Che cos’è il kyrt, papà?»

«È il tuo pane e companatico, Mia.»

«Il mio?»

«Non proprio il tuo soltanto, Mia. È il pane e il companatico di Sark.»

Naturalmente! Non aveva tardato a impararne il motivo. Non c’era un solo mondo della Galassia che non avesse tentato di coltivare il kyrt sul proprio suolo. A tutta prima Sark aveva applicato la pena di morte a chiunque, indigeno o forestiero, fosse stato sorpreso a contrabbandare fuori del pianeta sementi di kyrt. Ciò non aveva impedito molte riuscite evasioni, ma col passare dei secoli, quando la verità era finalmente trapelata su Sark, quella legge era stata abrogata. Gli uomini di ogni parte della Galassia potevano comprarsi tranquillamente sementi di kyrt perché era stato appurato che il kyrt coltivato in qualsiasi altro mondo della Galassia che non fosse Florina era semplicemente cellulosa, bianca, flaccida, fragile e inutile.

Tutto era stato tentato. Erano stati prelevati campioni dell’“humus” floriniano. Erano state costruite lampade ad arco artificiali che riproducevano lo spettro noto del sole di Florina. Ma invano.

Quante cose ancora vi erano da dire sul kyrt che non erano mai state dette! Si trattava di materiale che non era contenuto né nelle relazioni tecniche, né nelle monografie degli studiosi, e neppure nei libri di viaggi. Da cinque anni Samia sognava di scrivere un libro vero sulla storia del kyrt, sulla terra dove cresceva e sul popolo che lo coltivava. Aveva insistito per recarsi su Florina. Aveva deciso di trascorrere una stagione nei campi e vari mesi negli opifici. Aveva deciso di…

Ma che importavano le sue decisioni ormai? Le era stato ordinato di tornare indietro.

Con l’impulsività improvvisa che contrassegnava ogni suo gesto mutò a un tratto parere. Avrebbe proseguito la sua lotta su Sark e promise solennemente a se stessa che sarebbe ritornata su Florina entro una settimana al massimo.

Si volse al Comandante, e chiese con voce impersonale, distante: «A che ora si parte, capitano?»

Samia rimase al portello di osservazione sino a quando Florina fu un globo visibile. Era un mondo verde, primaverile, assai più piacevole di Sark in quanto al clima. Era stata così impaziente di studiarne gli indigeni. I floriniani di Sark non le piacevano, erano uomini senza linfa che non osavano guardarla ma distoglievano il capo al suo passaggio, in conformità alla legge. A detta di tutti però nel loro mondo gli indigeni erano felici e senza pensieri.

Il Comandante Racety interruppe il corso delle sue meditazioni chiedendole: «Mia Signora, le spiacerebbe ritirarsi nella sua cabina?»

Samia lo fissò bruscamente, mentre una sottile ruga verticale le si disegnava tra le ciglia. «Quali nuovi ordini ha ricevuto, Comandante? Sono forse prigioniera?»

«Non lo pensi nemmeno, per carità! Si tratta di una semplice precauzione. L’aeroporto spaziale era stranamente vuoto, prima del decollo. Sembra che sia stato commesso un altro crimine, ancora una volta a opera di un floriniano, e che il contingente dell’aeroporto si sia unito ai pattugliatori in una caccia all’uomo attraverso la Città.»

«E quale rapporto avrebbe, questo, con la mia persona?»

«Date le circostanze, alle quali io avrei dovuto reagire pensando a disporre una mia guardia personale (non intendo affatto di minimizzare il mio errore), può darsi che persone non autorizzate siano salite a bordo della nave.»

«Per quale ragione?»

«Questo non saprei dirglielo, ma certamente non per farci cosa gradita.»

«Lei sta fantasticando, Comandante.»

«Temo di no, Mia Signora. Ho l’impressione che ci sia una radiazione di calore in eccesso ben definita, proveniente dal Magazzino di Emergenza.»

«Dice sul serio?»

La faccia magra, inespressiva del Comandante parve animarsi per un attimo, ma subito tornò impassibile, e l’ufficiale disse: «La radiazione equivale a quella che verrebbe trasmessa da due persone normali. Noi comunque siamo pronti a eseguire le dovute ricerche. Perciò le chiedo soltanto di avere la compiacenza di ritirarsi in camera sua.»

Samia chinò la testa in silenzio e uscì. Due minuti dopo la voce calma del Comandante ordinava attraverso il portavoce: «Irrompere nel Magazzino di Emergenza.»

Se Myrlyn Terens si fosse anche di poco lasciato andare, sarebbe caduto in una crisi isterica. Ci aveva messo un po’ troppo tempo a ritornare nella panetteria. Gli altri già ne erano usciti e solo per un puro caso fortunato li aveva incontrati nella strada. Le sue azioni successive gli erano state imposte; non aveva affatto operato di sua libera scelta, e il Fornaio giaceva morto davanti a lui, orribile a vedersi.

In seguito, con la folla che mulinava, con Rik e Valona che ne erano stati risucchiati, con le aerovetture dei pattugliatori, dei pattugliatori veri, che incominciavano a planare come altrettanti avvoltoi, che cosa poteva fare?

La sua sola speranza di salvezza consisteva nell’organizzazione stessa dei pattugliatori. Per generazioni costoro avevano trascorso un’esistenza invidiabile. Comunque su Florina almeno non si verificavano rivolte vere e proprie da oltre due secoli. I pattugliatori mancavano perciò di quell’esercizio del mestiere che si sarebbe altrimenti affinato in condizioni più difficili.

Gli era stato così possibile entrare all’alba in un posto di pattuglia, dove certamente già doveva essere giunta la descrizione dei suoi dati segnaletici, descrizione che evidentemente non era stata presa in grande considerazione. Il pattugliatore di guardia aveva chiesto a Terens che cosa volesse e Terens l’aveva stordito e si era impadronito delle sue armi e dei suoi abiti.

Per il momento era ancora libero e la rugginosa macchina della giustizia dei pattugliatori sino a quel momento lo inseguiva invano. Ritornò alla panetteria. L’aiuto anziano del Fornaio, il quale si era affacciato sulla soglia nell’inutile tentativo di capire le origini del tumulto, si fece piccolo alla vista dell’uniforme nero-argentea, simbolo della pattuglia, e si ritrasse nel negozio.

Ma il Borgomastro gli fu sopra, afferrò il disgraziato per il collo flaccido, e sibilò: «Dov’era diretto il Fornaio?»

«La prego, la prego, io non so niente, Signore!»

«Se non mi dici dove stava andando, ti ammazzo come un cane.»

«Ma non me l’ha detto, Signore! Aveva prenotato dei posti.»

«Ah, sì? Se sai questo saprai anche il resto. Parla!»

«Mi pare che avesse nominato Wotex. Credo che avesse prenotato dei posti su un’astronave.»

Terens diede una spinta al disgraziato che cadde a terra come un sacco vuoto.

Poteva immaginare quel che avrebbero fatto i suoi compagni. Naturalmente di Rik non si poteva fidare, ma Valona era una ragazza intelligente. Dal modo come li aveva veduti fuggire dovevano averlo scambiato per un pattugliatore vero, e Valona doveva sicuramente pensare che la loro sola salvezza consisteva nel proseguire la fuga che il Fornaio aveva iniziata per conto loro.

Doveva precederli.

Così disperata era la sua situazione che nient’altro importava. Se Terens perdeva Rik, se perdeva quell’arma potenziale contro i tiranni di Sark, la sua vita diventava una cosa trascurabile, senza valore.

Perciò quando se ne andò lo fece senza esitazioni, benché fosse di pieno giorno, benché i pattugliatori dovessero ormai sapere che l’uomo che cercavano vestiva la loro uniforme, e sebbene fossero già visibili a poca distanza due aerovetture. Terens sapeva a quale astroporto dirigersi. Sul pianeta ve n’era uno solo di quel tipo. Nella Città Alta ve n’erano almeno una dozzina, assai più piccoli, destinati agli astro-panfili di uso privato e ce n’erano parecchie centinaia disseminati un po’ ovunque sul pianeta e adibiti esclusivamente al movimento degli sgraziati mezzi da carico che trasportavano su Sark enormi balle di tessuto di kyrt e ne riportavano macchinari e semplici merci di consumo. Ma tra tutti questi vi era un solo astroporto a uso dei viaggiatori normali, dei sarkiti meno abbienti, dei funzionari amministrativi floriniani e dei pochi forestieri che riuscivano a ottenere il permesso di visitare Florina.

Il floriniano addetto al cancello d’ingresso dell’astroporto osservò l’avvicinarsi di Terens col più vivo interesse.

Terens chiese con voce brusca, imperiosa: «Due persone, un uomo e una donna, sono venute qui poco fa, dirette a Wotex?»

Il guardiano lo guardò sbalordito. Rimase per un attimo senza fiato, quindi in tono assai dimesso disse: «Sì, Ufficiale. Circa mezz’ora fa. Forse meno.»

«Che nomi hanno dato?»

«Gareth e Hansa Barne.»

«La loro nave è già partita? Su, parla!»

«N…no, Signore.»

«Dov’è ancorata?»

«Al numero diciassette.»

Un trasvolatore spaziale in uniforme da ufficiale era fermo davanti alla camera di decompressione centrale della nave.

Terens chiese ansante: «Sono saliti a bordo di questa nave due passeggeri rispondenti al nome di Gareth e Hansa Barne?»

«No» rispose, flemmatico, lo spaziale. Era sarkita e per lui un pattugliatore non era che un altro uomo in uniforme.

Terens si allontanò senza altre parole.

Tornato dal guardiano, domandò: «Sono usciti?»

«No, Signore, che io sappia.»

«Quali altre uscite ci sono?»

«Non ce ne sono altre, Signore. Questa è la sola.»

«Cercameli immediatamente, imbecille!»

Il guardiano prese in mano il portavoce di comunicazione in preda a un panico indescrivibile. Poco dopo tornava a posare il tubo, mormorando: «Nessuno è uscito, Signore.»

Terens chese: «Ma nessuna nave ha lasciato l’astroporto da quando quei due sono entrati?»

Dopo aver consultato l’orario, il guardiano rispose: «Oh, sì! Il transplanetario “Coraggio” che è in viaggio speciale per Sark per riportarvi la Dama Samia di Fife.»

Terens ritornò lentamente sui suoi passi. Una volta eliminato l’impossibile, ciò che rimane, per improbabile che sia, non può che essere la verità. Rik e Valona erano entrati nell’astroporto. Non erano stati arrestati perché in caso contrario il guardiano l’avrebbe certamente saputo. Non stavano aggirandosi per l’astroporto, altrimenti a quell’ora già sarebbero stati acciuffati. Non si trovavano sulla nave per la quale erano stati provvisti di biglietto. Non avevano lasciato il campo, il solo oggetto che avesse lasciato il campo era il “Coraggio”. Pertanto Rik e Valona si trovavano a bordo di quest’ultimo, forse come prigionieri, forse come clandestini.

Ma d’altronde i due termini si equivalevano. Se si erano imbarcati come clandestini non avrebbero tardato a divenire prigionieri. E tra tutte avevano scelto proprio la nave che trasportava la figlia del Signore di Fife.

Il signore di Fife!

9

Il Signore di Fife era il personaggio più importante di Sark e per questo motivo non gli piaceva di farsi vedere in piedi. Al pari di sua figlia era basso di statura, ma diversamente da lei non era così perfettamente proporzionato: infatti aveva le gambe molto corte. Il torso era persino troppo massiccio, e la sua testa era indubbiamente maestosa, ma tutta la sua persona poggiava su due esili gambette che per trasportare tutto quel peso erano costrette ad ancheggiare con difficoltà.

Perciò sedeva sempre dietro a una scrivania e all’infuori di sua figlia e dei suoi domestici personali e, finché era stata viva, di sua moglie, nessuno lo aveva mai visto in altra posizione.

Il Signore stava parlando col proprio segretario che era pallido, con una faccia da pesce lesso, col particolare tono impersonale degli automi meccanici e dei funzionari amministrativi floriniani. «Immagino che tutti abbiano accettato?»

«Sì, Signore.»

Fife sorrise. Non gli restava ora che attendere. La stanza era vasta, i posti per gli altri già erano pronti. Il grande cronometro, la cui minuscola scintilla energetica radioattiva non era mai venuta meno in mille anni, segnava le due e ventuno.

Quali capovolgimenti in quegli ultimi due giorni! Il vecchio cronometro ne avrebbe probabilmente segnati altri che nulla avevano a che vedere con quelli passati.

Eppure quel cronometro aveva veduto molte cose, in mille anni. Quando aveva segnato i suoi primi minuti Sark non era stato che un mondo nuovo di città squadrate manualmente, con contatti malsicuri tra gli altri mondi più antichi. Aveva scoccato le proprie ore durante tre brevi “imperi” sarkiti, in cui gli indisciplinati soldati di Sark erano riusciti a governare, per intervalli di tempo più o meno lunghi, una mezza dozzina di mondi circostanti.

Cinquecento anni innanzi aveva scoccato le ore memorabili in cui Sark aveva scoperto che il mondo più vicino, Florina, possedeva nel proprio suolo un tesoro incalcolabile. Aveva sempre funzionato senza un attimo di arresto durante due guerre vittoriose segnando solennemente l’instaurazione di una dura pace da conquistatori. Sark aveva abbandonato i propri imperi, aveva assorbito completamente Florina e aveva affermato la propria potenza in una maniera che nemmeno Trantor era riuscito a uguagliare.

Trantor voleva Florina e altre potenze l’avevano voluta. Ma chi la teneva in pugno era Sark e Sark, piuttosto che cedere Florina, era pronto a scatenare la guerra galattica. E Trantor lo sapeva! Lo sapeva perfettamente!

Il silenzioso ritmo del cronometro parve scandire quelle parole nel cervello del Signore.

Erano le due e ventitré.

Circa un anno prima i Cinque Grandi Signori di Sark si erano nuovamente incontrati. Allora, come adesso, l’incontro era avvenuto nel suo studio. Allora, come ora, i Signori, sparsi sulla faccia del pianeta, ognuno nel proprio continente, si erano incontrati in personificazione trimensica.

Grosso modo questo si risolveva in una televisione tridimensionale a grandezza naturale, sonora e a colori. La replica di questo congegno si poteva facilmente trovare in ogni benestante casa privata di Sark. Ciò che superava la norma ordinaria era la mancanza di un ricevitore visibile. A eccezione di Fife i Signori erano presenti in ogni possibile aspetto fuorché nella realtà.

Raccolto in un’unica stanza, in corpo o in immagine, c’era tutto Sark. Era una bizzarra e tutt’altro che eroica personificazione del pianeta. Rune era calvo, grasso e roseo, mentre Bolle era grigio e tutto raggrinzito. Steen era tutto incipriato e imbellettato, mentre Bort spingeva l’indifferenza verso i rapporti umani fino alla scortesia di presentarsi con una barba di due giori e le unghie orlate di sudiciume.

Eppure quelli erano i Cinque Grandi Signori.

Rappresentavano il gradino massimo della scala gerarchica di Sark. Il gradino più basso era costituito naturalmente dalla Amministrazione Civile Floriniana, che restava immutata nonostante tutte le vicissitudini che avevano segnato il sorgere e il declinare delle singole nobili casate di Sark. Erano i burocrati infatti coloro che effettivamente ungevano gli assali e facevano girare le ruote del governo. Sopra di loro stavano gli amministratori designati dal Capo dello Stato — personaggio puramente rappresentativo — per diritto ereditario.

Il gradino massimo era occupato da quei cinque. Erano i capi delle famiglie che controllavano il maggior volume del commercio del kyrt, e che naturalmente ne ricavavano i massimi profitti.

Il Signore di Fife li aveva convocati circa un anno prima e aveva annunciato loro: «Ho ricevuto un messaggio curioso.»

Fife aveva consegnato un frammento di pellicola di metallite al proprio segretario, il quale era passato da una figura seduta all’altra, mostrando a turno il frammento a ciascuno di loro.

Fife aveva detto: «Bene, adesso che lo avete osservato tutti, se non vi dispiace ve lo rileggerò forte in modo che possiate comprenderne tutta la portata.»

E aveva cominciato: «“Tu sei un Grande Signore di Sark, e non c’è nessuno che possa competere con te in quanto a potere e a ricchezza. Tuttavia il tuo potere e la tua ricchezza poggiano su fragili basi. Tu credi forse che la fornitura planetaria di kyrt che Florina ti offre non sia affatto una fragile base, ma prova a chiederti: per quanto tempo ancora esisterà Florina? Per sempre?

«“No! Florina può essere distrutta domani. Può anche durare ancora per mille anni. Delle due ipotesi la più probabile è tuttavia ch’essa venga distrutta domani. Non da me, naturalmente, ma in un modo che tu non puoi né prevedere né prevenire. Rifletti sulla portata di una tale distruzione. Rifletti anche sul fatto che il tuo potere e la tua ricchezza sono già scomparsi perché io ne esigo la più gran parte. Avrai tempo per riflettere ma non troppo.

«“Provati a tardare eccessivamente, e io rivelerò a tutta la Galassia e a Florina in particolare la verità circa la distruzione imminente che incombe su di essa. Dopo di ciò non vi sarà più kyrt, non più ricchezza, non più potere. Non ve ne sarà per me, ma non ve ne sarà neppure per te. E questo sarebbe estremamente grave, poiché tu sei nato per essere immensamente ricco.

«“Cedi a me la maggior parte dei tuoi beni nella misura e nel modo che io ti dirò nel prossimo futuro e resterai sicuro padrone di quel che rimane. Certo non ti resterà molto in paragone al tuo tenore di vita attuale, ma sarà sempre meglio del nulla che altrimenti ti sarà lasciato. Non sprezzare tuttavia il poco che conserverai. Florina può anche durare finché tu vivrai e tu finirai i tuoi giorni se non nel lusso per lo meno negli agi.”»

Fife aveva proseguito con voce ridivenuta naturale: «È una lettera divertente. Non è firmata, e come avrete notato tutto il suo tono è ricercato e ampolloso. Voi che ne pensate, Signori?»

Rune aveva detto con disprezzo: «Si tratta evidentemente dello scritto di un uomo sull’orlo della psicosi.»

«Dunque!» Fife aveva congiunto le tozze dita. «Io non vi ho riuniti qui per leggervi una lettera anonima. Spero che questo lo abbiate capito. Ho l’impressione che ci troviamo di fronte a un problema molto grave. Prima di tutto, dico io, perché la lettera è indirizzata a me soltanto? Certo io sono il più ricco tra i Signori, ma da solo controllo appena un terzo del commercio del kyrt, mentre noi cinque insieme lo controlliamo tutto. È altrettanto facile trascrivere cinquecento copie di una lettera, quanto trascriverne una sola. Ne avete ricevuta una anche voi?»

Rune aveva risposto: «Io non saprei, Fife. Comunque posso chiederlo ai miei segretari. Dopotutto, anche ammesso che una simile lettera sia pervenuta nei miei uffici, sarebbe certamente stata considerata… come dire… una lettera apocrifa. Non me l’avrebbero mai mostrata. Questo è certo. È soltanto il tuo caratteristico sistema di lavoro che ti ha impedito di risparmiarti una simile seccatura.»

Bolle si era stretto nelle spalle. «Penso che quel che Rune ha detto adesso possa valere per tutti noi.»

Steen aveva ridacchiato. «Io la posta non la leggo mai. È una tale scocciatura, e ne arriva sempre talmente tanta che proprio non ne ho il tempo.» Si guardò intorno, quasi volesse con le sue occhiate meglio convincere i compagni di questo fatto importantissimo.

«Quante storie» era sbottato Bort. «Ma che cosa vi piglia? Avete paura di Fife, per caso? Stammi a sentire, Fife, io non ho bisogno di segretari perché tra me e il mio lavoro non ammetto interferenze di sorta. Ho ricevuto anch’io una copia di quella lettera e sono convinto che anche quei tre ne abbiano ricevuta una per ciascuno. Vuoi sapere che ho fatto della mia? L’ho buttata nel cestino della carta straccia. Vi consiglio di fare altrettanto. Piantiamola. Sono stanco.»

«Davvero?» aveva detto Fife in tono ironico. «Allora voi non avete afferrato la portata degli avvenimenti di queste due ultime settimane?»

«Quali avvenimenti?»

«Pare che sia scomparso uno Spazio-Analista. Questo certamente l’avrete saputo.»

Bort si era mostrato estremamente seccato. «Mi ha parlato della cosa Abel di Trantor. Ebbene? Che interesse possono avere per noi gli Spazio-Analisti?»

«Avrete letto per lo meno la copia dell’ultimo messaggio da lui inviato alla sua base di Sark prima di scomparire.»

«Me l’ha mostrata Abel. Ma non vi ho fatto caso.»

«Quello Spazio-Analista accennava a una possibile distruzione di Florina, ed ecco che contemporaneamente alla sua scomparsa noi riceviamo dei messaggi nei quali pure si minaccia la distruzione di Florina. Vi sembra una semplice coincidenza, questa?»

«Secondo te dunque è stato lo Spazio-Analista a spedirci quelle lettere minatorie?» aveva domandato il vecchio Bolle.

«Non credo. Prima di tutto perché si sarebbe nascosto sotto il velo dell’anonimo?»

«Perché la prima volta che ha accennato alla cosa comunicava col suo ufficio di zona, non con noi.»

«Anche ammesso questo, un ricattatore, se appena lo può, tratta sempre soltanto ed esclusivamente con la propria vittima.»

«E allora?»

Fife si era appoggiato allo schienale della propria seggiola e aveva detto con aria fosca: «Si tratta di un ricatto di Trantor.»

Steen aveva ripetuto con voce rotta: «Trantor…»

«E perché no? Quale mezzo migliore per ottenere il controllo di Florina? È uno degli scopi principali della loro politica estera. E se possono ottenerlo senza guerra tanto di guadagnato per loro. Statemi a sentire. Se aderiamo a questo impossibile ultimatum Florina cadrà nelle loro mani. Essi ci offrono ben poco… ma per quanto tempo potremo conservare anche questo poco?

«D’altro canto fingiamo di ignorare la cosa e sinceramente non abbiamo altra scelta. Che cosa farebbero quelli di Trantor in tal caso? Potrebbero appunto spargere la voce, tra i contadini di Florina, di una imminente fine del mondo. Con l’allargarsi delle dicerie quella massa d’ignoranti si lascerebbe sopraffare dal panico, e che cosa può derivarne per noi se non conseguenze catastrofiche? Quale forza può indurre un uomo a lavorare, se è convinto che la fine del mondo lo sovrasta? Il raccolto marcirà. I magazzini si vuoteranno. È una logica per Trantor, di tentare di impadronirsi di Florina. Se ricorresse alla semplice forza la Galassia libera, estranea alla sfera d’influenza trantoriana, si unirebbe a noi, non foss’altro per essere protetta.»

Rune aveva chiesto: «Che c’entra in tutta questa storia lo Spazio-Analista? È proprio necessario? Se le vostre teorie sono esatte l’importanza della sua ipotesi scompare.»

«Non lo so. Di solito questi Spazio-Analisti sono esseri squilibrati, e il nostro uomo in particolare ha architettato una teoria assurda. Quale, non importa. Ebbene, Trantor non può permettere che sia risaputa, altrimenti l’Ufficio Spazio-Analista lo sconfesserebbe. Se però si fossero impadroniti di quest’uomo e lo avessero costretto a parlare potrebbero avere in mano qualcosa che probabilmente offrirebbe ai non specialisti una validità di superficie di cui si potrebbero servire facendola passare per vera.»

«Dunque» aveva detto Rune «ammesso che tu abbia ragione, noi come ci dobbiamo comportare?»

«Sappiamo almeno che un pericolo ci sovrasta, e questo è già un punto importante. Dobbiamo a tutti i costi trovare lo Spazio-Analista e tenere sotto stretta sorveglianza gli agenti di Trantor, quelli almeno che ci sono noti, senza parere. Dai loro movimenti potremo capire lo sviluppo degli avvenimenti futuri. Ma soprattutto dobbiamo restare uniti. Questo a mio avviso è lo scopo principale della nostra conferenza odierna: dobbiamo formare un fronte comune. Ci siamo intesi?

«Dunque» aveva concluso Fife «attenderemo ora la seconda mossa.»

Questo era accaduto un anno innanzi. Si erano separati, e dopo quella riunione il Signore di Fife era rimasto in attesa. Ma non c’era stata nessuna seconda mossa. Nessuno di loro aveva più ricevuto altre lettere. Lo Spazio-Analista seguitava a restare introvabile, mentre le ricerche di Trantor proseguivano stancamente. Su Florina non si era levata una sola voce ad annunciare apocalittici terrori, e il raccolto e la lavorazione del kyrt erano proseguiti nella pace più incontrastata.

Poi la bomba scoppiò all’improvviso, e Fife ebbe la risposta che cercava. Era sicuro che l’avrebbe avuta, ma non era quella che si era aspettata. Per questo aveva indetto una nuova riunione. Il cronometro segnava adesso le due e ventinove. A uno a uno i Signori incominciarono ad apparire.

Fife cominciò: «Signori! L’anno scorso io pensavo a un pericolo lontano e complesso e nel far questo sono caduto in una trappola. Il pericolo esiste, ma non è lontano. Ci è vicino, vicinissimo. Uno di voi sa già a che cosa intendo alludere. Gli altri lo sapranno tra poco.»

«Ma che cosa vuoi dire?» domandò Bort brusco.

«Che uno di voi è colpevole di alto tradimento!» replicò prontamente Fife.

10

Myrlyn Terens non era un uomo d’azione. Si andava ripetendo questo come una scusa verso se stesso perché dal momento in cui aveva lasciato l’astroporto si sentiva la mente paralizzata.

Non aveva quasi più la forza di proseguire. Forse non era un uomo d’azione, però aveva pure agito e con prontezza per un giorno e una notte e parte di un altro giorno, dando così fondo alla propria riserva nervosa. Purché potesse pensare. Questo era l’importante.

Si addentrò nella grata penombra della Città Bassa. Camminava con passo rigido, come aveva veduto camminare i pattugliatori, facendo dondolare con sicurezza la frusta neuronica. Le strade erano vuote. Gli indigeni si acquattavano nei loro tuguri. Tanto meglio.

Il Borgomastro scelse con cura la casa che gli serviva. Era prudente che fosse una delle migliori, di quelle fabbricate con mattonelle di plastica colorata e che avevano alle finestre riquadri di vetro polarizzato. Gli ordini inferiori erano solitamente più ostili. Avevano meno da perdere. Un “arrivato” si sarebbe fatto in quattro per aiutarlo.

Si avviò per un breve sentiero. La casa sorgeva isolata dalla strada, il che indicava ancora un altro segno di benessere. Sapeva che non avrebbe dovuto né picchiare all’uscio né abbatterlo. Aveva osservato, mentre saliva la rampa, un notevole movimento accanto a una finestra. L’uscio si sarebbe certamente aperto.

E si aprì, infatti.

Si trovò di fronte a una ragazza che lo guardava con occhi spalancati.

Il Borgomastro le fece cenno di chiudere la porta. «C’è tuo padre?» chiese.

La ragazza urlò: «Papà!» Poi con voce più sommessa, balbettando: «Sì, Signore!»

Il padre stava arrivando da un’altra stanza, a piccoli passi lenti.

«Come ti chiami?» domandò il Borgomastro.

«Jacof, per servirla, Signore.»

L’uniforme che il Borgomastro indossava recava in tasca un minuscolo taccuino. Il Borgomastro lo aprì, vi diede una breve occhiata, fece un rapido segno con la matita e disse: «Jacof! Infatti! Raduna subito tutti i membri della famiglia. Svelto!»

Entrarono in fila indiana: una donna magra, dal viso angosciato, la quale stringeva tra le braccia un bambino di circa due anni, la ragazza che lo aveva fatto entrare e un fratello minore.

«Non c’è nessun altro?»

«No, Signore» rispose Jacof umilmente.

«E adesso a te, Jacof!»

«Sì, Signore.»

«Tu sei un uomo responsabile, vero?»

«Sissignore.» Gli occhi di Jacof si illuminarono, e lui s’impettì leggermente. «Sono impiegato al centro alimentari. Ho studiato matematica, e so usare i logaritmi.»

Sì, pensò il Borgomastro, ti hanno mostrato come si usa una tavola di logaritmi e ti hanno insegnato a pronunciare la parola. Conosceva il tipo. Quell’uomo era più orgoglioso dei suoi logaritmi di quanto avrebbe potuto esserlo un figlio di un Signore del suo primo panfilo.

«Tu credi nella legge, vero, e nella bontà dei Signori?» chiese il Borgomastro, seguitando a fingere di consultare il taccuino che aveva in mano. «Adesso stammi a sentire, amico, voglio che ti sieda qui e faccia quello che ti dico. Mi serve un elenco di tutte le persone che conosci in questo quartiere, coi nomi, gli indirizzi, quello che fanno, che tipi sono. Insisto su quest’ultimo punto. Ho bisogno di sapere se sono degli attaccabrighe perché stiamo per fare un repulisti totale. Ci siamo intesi?»

«Sì, Signore. Sì, Signore. Prima di tutti c’è Husting…»

«Non così. Prendi un pezzo di carta… Ecco, adesso scrivi tutto per benino, e adagio, perché le vostre orribili calligrafie io non riesco mai a decifrarle.»

«Non so scrivere molto bene, Signore…»

«Prova un po’.»

Jacof si applicò al proprio compito con mano lenta, impacciata.

Terens si rivolse alla ragazza che lo aveva fatto entrare: «Tu va’ alla finestra e fammi sapere se arrivano da questa parte altri miei colleghi. Ho bisogno di conferire con loro; ma non chiamarli. Avvertimi soltanto.»

Finalmente poteva pensare.

Prima di tutto il suo travestimento da pattugliatore non andava più. Certo dovevano aver messo blocchi stradali a tutte le uscite della città, e sapevano perfettamente che il solo mezzo di trasporto di cui egli potesse servirsi non andava più in là di una motoretta diamagnetica.

Avrebbero indubbiamente iniziato il rastrellamento dalla periferia procedendo via via verso l’interno. In tal caso quella abitazione sarebbe stata tra le prime a essere perquisita, perciò il tempo a sua disposizione era assai limitato.

Doveva cessare di essere un pattugliatore.

E questo era un punto. Inoltre si rendeva conto che d’ora innanzi Florina non gli avrebbe più offerto alcun rifugio sicuro. Doveva dunque abbandonarla. Come?

Si alzò.

Jacof sollevò la testa dal foglio. «Non ho ancora finito, Signore. Cerco di scrivere meglio che posso.»

«Fammi un po’ vedere.»

Diede un’occhiata al pezzo di carta che l’altro gli tendeva, e disse: «Basta così. Se dovessero arrivare degli altri pattugliatori non stare a far perder loro del tempo spiegando che hai già compilato una lista. Avranno fretta, e può darsi che ti affidino altri incarichi. Fa’ come ti diranno loro. Non vedi nessuno in questo momento?»

La ragazza di fazione alla finestra rispose: «No, Signore. Vuole che esca in strada a guardare?»

«È inutile. Vediamo un po’. Dove si trova l’ascensore più vicino?»

«A circa un quarto di miglio di qui, a sinistra. Può…»

«Sì, sì. Fammi uscire.»

Una squadra di pattugliatori sbucava nella strada proprio nel momento in cui la porta dell’ascensore si chiudeva alle spalle del Borgomastro. Terens sentì un tuffo al cuore. Probabilmente il rastrellamento sistematico si stava iniziando in quell’istante e quelli gli erano già alle calcagna.

Un minuto più tardi, col cuore più che mai in tumulto, uscì dall’ascensore, nella Città Alta. Qui non vi erano ripari, né pilastri o legacemento che lo nascondessero dall’alto.

Si sentì come un mobile puntino nero tra lo splendore chiassoso degli edifici multicolori. Non si vedevano però pattugliatori all’orizzonte. I Signori che lo incrociarono non lo degnarono di un’occhiata. Se un pattugliatore era oggetto di paura per un floriniano, per un Signore non rappresentava proprio nulla, meno di uno zero.

Le sue nozioni sulla topografia della Città Alta erano molto vaghe. Sapeva però che in quel settore doveva trovarsi il Parco Cittadino. Il passo più logico sarebbe stato di chiedere informazioni, ma la cosa era inattuabile perché nessun pattugliatore aveva mai bisogno di informazioni.

Si limitò ad avviarsi nella direzione che gli indicava la sua memoria, basata sulle piante della Città Alta che aveva avuto qualche volta occasione di consultare. Fu fortunato. Quello infatti era senza possibilità di dubbio il Parco Cittadino.

Il Parco Cittadino era un appezzamento di verde artificiale che copriva un’area di cento acri circa. Persino su Sark godeva di una fama esagerata che andava da una pace bucolica a misteriose orge notturne. Su Florina coloro che ne avevano inteso vagamente parlare lo immaginavano cento volte più vasto del reale e mille volte più splendido.

Era tuttavia pur sempre un luogo gradevole. Grazie al clima mite di Florina si conservava verde per tutto l’anno. Era diviso in prati, zone boscose e grotte di pietra.

Si diresse a una scalinata incassata tra due pareti di roccia e prese a scendere nella conca circondata di piccole caverne, appositamente create per poter accogliere le coppie sorprese dalla pioggia notturna.

E a un tratto vide quel che andava cercando. Un uomo! O meglio, un Signore.

Non c’era nessun altro nella conca. Era un luogo fatto per l’attesa e per la notte. Evidentemente il Signore aspettava qualcuno. Terens si guardò intorno. Nessuno l’aveva seguito lungo le scale.

Si avvicinò al Signore il quale non lo notò, naturalmente, finché Terens non gli ebbe chiesto: «Voglia perdonarmi?»

La frase era rispettosa, ma un Signore non era abituato a farsi prendere in giro da un pattugliatore, sia pure con tutte le scuse possibili e immaginabili.

«Che diavolo ti viene in mente?» protestò.

Terens seguitò con voce più che mai rispettosa, ma non per ciò meno incalzante: «Da questa parte, Signore. Si tratta del rastrellamento che stiamo facendo nella Città per cercare quell’assassino indigeno.»

«Ma di che cosa vai cianciando?»

«Sarà questione di un momento.»

Senza farsi accorgere Terens aveva estratto la frusta neuronica. Il Signore non la vide neppure. Lo strumento emise un lieve ronzìo, e il Signore si irrigidì e cadde riverso.

Il luogo era sempre deserto. Trascinò il corpo inanimato, dallo sguardo fisso, vitreo, sino in fondo alla più vicina grotta.

Quindi lo svestì, non senza difficoltà poiché le gambe e le braccia erano già irrigidite dal “rigor mortis”. Si tolse quindi l’uniforme di pattugliatore ormai tutta sudicia di sudore e di polvere, e indossò le vesti del Signore. Per la prima volta sentì contro la propria pelle il delicato contatto di una stoffa kyrt.

Si pose infine in capo lo zucchetto. Quest’ultimo indumento era particolarmente necessario. I giovani non ne portavano più molto spesso, ma quello, fortunatamente, sì. Per Terens quello zucchetto era indispensabile, altrimenti i suoi capelli chiari lo avrebbero subito tradito. Se lo calcò giù fino alle orecchie.

Poi regolò l’inceneratore al massimo della dispersione e lo puntò sul cadavere. In capo a dieci secondi rimase solo un mucchietto di cenere.

Sempre servendosi dell’inceneratore ridusse l’uniforme del pattugliatore a un mucchio di polvere bianca. Ebbe però cura di toglierne i bottoni e la fibbia d’argento che la vampa distruggitrice aveva soltanto anneriti.

E ora doveva andarsene al più presto. Stava discendendo la gradinata quando fu incrociato da una giovane donna. Per un attimo, vinto dalla forza dell’abitudine, abbassò gli occhi. Era una Dama. Li alzò in tempo per notare che era giovane e molto bella, e che aveva fretta.

Serrò la mascella. Non lo avrebbe trovato, naturalmente. Però era in ritardo, altrimenti l’uomo non avrebbe seguitato a consultare con tanta impazienza il proprio orologio. Avrebbe forse pensato che il compagno si era stancato di aspettare e se n’era andato. Affrettò il passo.

Uscì dal Parco, e prese a camminare senza meta. Trascorse un’altra mezz’ora.

Adesso non era più un pattugliatore ma un Signore.

Si fermò a una piccola piazza al centro della quale sorgeva, in mezzo a un’aiuola, una fontana nella cui acqua era stata aggiunta una certa dose di detergente perché spumeggiasse e ribollisse con variopinta iridescenza.

Si appoggiò alla balaustra, voltando la schiena al sole calante e lentamente, a uno a uno, lasciò cadere nella fontana gli ornamenti di argento annerito. Con movimenti metodici, e sforzandosi di apparire indifferente, incominciò a frugarsi nelle tasche.

Il loro contenuto non presentava nulla di particolarmente insolito. Un mazzo di chiavi, poche monete, un documento d’identità.

Constatò che il suo nuovo nome era Alstare Deamone. Si augurò di non dovere mai usarlo. Nella Città Alta, tra uomini, donne e bambini, vi erano in tutto diecimila abitanti, perciò era più che probabile che egli incontrasse qualcuno che conosceva Deamone personalmente.

Aveva ventinove anni. Di nuovo si sentì assalire da un rigurgito di nausea al pensiero di quel che aveva lasciato nella grotta, e dovette lottare per soffocarlo. Un Signore era un Signore. Quanti floriniani ventinovenni erano stati uccisi per le loro mani o dietro loro istruzioni? E quanti floriniani ancora più giovani?

Possedeva pure un indirizzo, che però non aveva per lui alcun significato, date le sue rudimentali nozioni della topografia della Città Alta.

Proseguì nell’inventario del contenuto delle tasche. Vi era tra l’altro una licenza di pilota di panfilo. Non vi fece caso. Tutti i ricchi sarkiti possedevano dei panfili che pilotavano personalmente. Era la moda del secolo. Trovò finalmente alcune strisce di ricevute di credito sarkita. Queste sì che almeno temporaneamente avrebbero potuto essergli utili.

Si ricordò a un tratto che non aveva più mangiato dalla notte prima e si sentì affamato.

Ma subito si diede a meglio osservare la licenza di pilotaggio. Ma certo, nessuno doveva usarlo in quel momento, e quello era il suo panfilo, Portava il numero di rimessa 26, ed era ancorato al Porto 9. Ebbene…

Ma dov’era il Porto 9? Lui non ne aveva la più pallida idea.

Appoggiò la fronte contro la fresca liscia balaustra che attorniava la fontana. Che doveva fare?

Una voce lo riscosse.

«Salve! Non si sente male, vero?»

Terens alzò la testa. Era un Signore anziano.

Il Borgomastro disse: «Mi stavo riposando. Avevo deciso di fare una passeggiata, e ho perduto la nozione del tempo. Temo di essere ormai in ritardo per un certo appuntamento che avevo.»

L’altro chiese: «Ci sentiamo perduti senza una zanzara, eh?»

«Infatti» ammise Terens.

«Usi pure la mia» fu l’offerta immediata. «È parcheggiata proprio qui fuori. Può regolare i controlli e rimandarmela indietro quando non le servirà più. Posso farne benissimo a meno per un altro paio d’ore.»

Per Terens quella proposta sarebbe stata pressoché ideale. Le zanzare erano velocissime e potevano superare in velocità e in manovra qualsiasi vettura aeroterrestre della pattuglia. Purtroppo però si presentava per lui una difficoltà insormontabile: Terens infatti non era capace di guidare una zanzara.

«Di qui a Sark» disse. Conosceva quell’espressione idiomatica che tra i signori significa “grazie”, e si affrettò a usarla. «Preferisco camminare. Tanto il Porto 9 non è lontano.»

«No, non è lontano» ammise l’altro.

Questo non aiutava certo Terens. Ritentò: «Certo, preferirei trovarmici più vicino. La passeggiata sino alla via Kyrt è già di per sé piuttosto faticosa.»

«La via Kyrt? E che c’entra?»

Terens ebbe l’impressione che l’altro lo stesse guardando in modo strano. Si affrettò ad aggiungere: «Un momento! Devo essermi confuso camminando. Mi faccia un po’ pensare.» Si guardò intorno con aria vaga.

«Guardi, questa è la via Recket. Basterà andare giù fino a Triffis e girare a sinistra: troverà subito il porto.» Automaticamente il suo interlocutore gli aveva indicato la direzione.

Terens sorrise. «Ma sì! Ha ragione. Bisognerà che la smetta di sognare e cominci a pensare. Di qui a Sark, Signore.»

Terens si allontanò un po’ troppo in fretta, agitando la mano in segno di saluto. Il Signore gli tenne dietro con lo sguardo, perplesso.

Forse l’indomani, quando i resti del cadavere fossero stati trovati tra le rocce, e la ricerca si fosse iniziata, avrebbe ripensato a quel colloquio e avrebbe detto: «Aveva qualcosa di strano, quell’uomo. Si esprimeva in maniera curiosa e mi ha dato la sensazione di non sapere dove si trovasse. Scommetto che era la prima volta che sentiva nominare il viale Triffis.»

Ma questo sarebbe successo soltanto l’indomani.

Il Porto 9 brulicava di giovani in costume da crocieristi, le cui caratteristiche principali erano rappresentate da berretti a visiera pronunciatissima e brache rigonfie. Terens si sentì terribilmente appariscente, nel contrasto, ma nessuno si curò di lui.

Trovò la Cabina 26 ma attese vari minuti prima di avvicinarsi. Non voleva nessun Signore attorno a sé, nessun Signore che possedesse un panfilo attraccato in una cabina attigua, il quale potesse conoscere di vista il vero Alstare Deamone e chiedersi che cosa stesse a fare intorno alla sua nave uno sconosciuto.

Quando finalmente gli parve di essere al sicuro si avvicinò. Il muso del panfilo affiorava fuor della rimessa, sporgendo entro il campo aperto intorno al quale erano sistemate la cabine. Allungò il collo per meglio osservarlo.

Ebbene?

Aveva ucciso tre uomini, in quelle ultime dodici ore. Da Borgomastro floriniano era salito al rango di pattugliatore, e da pattugliatore a Signore.

Dalla Città Bassa si era spinto nella Città Alta e da questa a un astroporto. Era possessore di un panfilo, cioè di un mezzo spaziale sufficientemente dotato per trasportarlo con le più assolute garanzie di sicurezza su uno qualsiasi dei mondi abitati di quel settore della Galassia.

Purtroppo però c’era un solo piccolo inconveniente.

Egli non sapeva pilotare un panfilo.

Si sentiva stanco morto, e affamato come un cane. Era giunto ormai allo stremo delle proprie forze, e non era più capace di andare oltre. Era arrivato ai limiti dello spazio ma non disponeva dei mezzi per poter varcare quei limiti.

Trentasei ore innanzi aveva avuto tra le mani la più straordinaria occasione che gli fosse mai capitata in vita sua. Ora questa occasione si era dileguata e i suoi minuti erano contati.

11

Per la prima volta il capitano Racety non era riuscito a imporre la propria volontà a un passeggero. Se almeno quel passeggero fosse stato un grande Signore, avrebbe potuto contare sulla sua collaborazione. Un grande Signore era onnipotente nel proprio continente, ma su una nave avrebbe facilmente ammesso che esisteva un solo padrone: il Comandante.

Con una donna invece era un’altra cosa, con qualsiasi donna. Se poi questa donna era la figlia di un grande Signore, la situazione diveniva del tutto insostenibile.

Disse: «Mia Signora, come posso permetterle di parlare con loro in privato?»

Samia di Fife replicò mentre i suoi occhi neri lanciavano fiamme: «E perché no? Sono forse armati, capitano?»

«No, certo. Ma non è questo che conta.»

«Basta vederli per capire che sono due povere creature spaventate; spaventate da morire.»

«Un essere spaventato può rivelarsi assai pericoloso, Mia Signora. Non ci si può fidare che quei due agiscano sensatamente.»

«Ma allora perché permette che seguitino a essere spaventati?»

«Signora, vuole dirmi per cortesia che cosa desidera, esattamente?»

«Ma è molto semplice. L’ho già detto. Voglio parlare con quei due clandestini. Se sono floriniani, come lei sostiene, posso cavarne notizie di estrema importanza per il mio libro. Ma naturalmente ciò diverrà impossibile se la paura li ammutolirà. Se invece potessi restare sola con loro sono convinta che la situazione cambierebbe completamente. Sola, Comandante, ho detto! Riesce a capire una parola, almeno? Sola!»

«E che cosa dirò a suo padre, Mia Signora, se verrà a sapere che le ho permesso di restare senza protezione alla presenza di due criminali capaci di tutto?»

«Due criminali capaci di tutto! Oh, Spazio Incommensurabile! E li chiama cosi, due poveri esseri che hanno tentato di fuggire dal loro pianeta, e sono stati capaci soltanto d’imbarcarsi a bordo di una nave diretta a Sark? Lo esigo, Comandante.»

Il capitano Racety disse: «Ascolti la mia proposta, Signora! Resterò presente soltanto io. Farò allontanare i marinai armati d’inceneratori, e la mia arma la terrò nascosta. In caso contrario…» Fu la sua volta di esprimersi con estrema risolutezza «… sono dolente, ma mi vedrò costretto a rifiutarle quello che mi chiede.»

«E va bene.» Samia era fuori di sé per l’ira: «E va bene. Ma se non riuscirò a indurii a parlare per colpa sua, mi occuperò io personalmente perché le sia tolto il comando di tutte le navi di Sark!»

Non appena vide entrare Samia, Valona si affrettò a coprire con una mano gli occhi di Rik.

«Che cosa fai, ragazza?» domandò Samia.

Valona rispose stentatamente: «È poco intelligente, Signora. Non capirebbe che lei è una Signora e potrebbe guardarla, naturalmente senza intenzione di offenderla, Signora.»

«Oh, Santo Spazio» ribatté Samia, «e lascia pure che guardi.»

Il Comandante aprì la seggiola pieghevole di alluminio leggero, che aveva portato con sé e vi fece sedere Samia che si girò verso i due prigionieri: «Dunque tu sei di Florina, figliola?»

Valona scosse la testa. «Siamo di Wotex.»

«Non avere paura. Non importa che tu sia di Florina. Nessuno ti farà del male.»

«Ma noi siamo di Wotex.»

«Non capisci che hai già praticamente ammesso di essere di Florina, ragazza mia? Perché hai coperto gli occhi del tuo compagno?»

«Perché non gli è permesso di guardare una Dama.»

«Anche se è di Wotex?»

Dopo averla lasciata riflettere su questo punto, Samia cercò di sorridere amichevolmente, e proseguì: «Soltanto i floriniani non hanno il permesso di guardare le Signore. Perciò, come vedi, hai ammesso con quel tuo gesto di essere floriniana.»

Valona proruppe: «Ma lui non lo è.»

«E tu?»

«Sì, io sì. Ma lui no. Non gli fate del male. Lo abbiamo trovato un giorno per caso. Nessuno sa di dove venga, ma non è di Florina.»

Samia la guardò con sorpresa: «Bene, gli parlerò io. Come ti chiami, ragazzo?»

Rik la fissava strabiliato. Così dunque erano le donne dei Signori! Così piccole, e così gentili di aspetto! E così profumate! Era felice che lei gli avesse permesso di guardarla.

Samia ripeté: «Come ti chiami, ragazzo?»

Rik si riscosse, ma durò fatica a spiccicare quanto avrebbe voluto dire. Si limitò a mormorare: «Rik.» Quindi pensò: “Ma questo non è il mio nome” e a voce alta aggiunse: «Credo di chiamarmi Rik.»

«Non ne sei sicuro?»

Valona, che appariva disperata, tentò d’intervenire, ma Samia glielo vietò con un gesto imperioso della mano.

Rik scosse la testa. «Non lo so.»

«Non sei di Florina?»

Su questo punto Rik non nutriva dubbi. «Sono venuto a Florina su una nave, e prima abitavo su un pianeta.»

Parve che lo sforzo per ricordare si facesse strada a fatica in lui attraverso meandri mentali troppo angusti. Poi, improvvisamente, Rik si ricordò il suono stesso prodotto dalla sua voce, un suono da tanto tempo dimenticato, lo entusiasmò.

«La Terra! Vengo dalla Terra!»

«La Terra?»

Rik annuì.

Samia si volse al Comandante: «Dove si trova questo pianeta Terra?»

Il capitano Racety ebbe un sorrisetto di superiorità: «Non ne ho mai inteso parlare. Non lo prenda sul serio, Signora. Gli indigeni mentono con la stessa facilità con cui respirano. La menzogna è il loro elemento naturale. Dicono la prima cosa che passa loro per la testa.»

«Ma non parla come un indigeno.» Si volse nuovamente a Rik. «Dov’è la Terra, Rik?»

«Io…» Si portò alla fronte una mano che tremava, quindi disse: «È nel Settore di Sirio.»

Samia chiese al Comandante: «Esiste un Settore di Sirio, vero?»

«Sì. E mi stupisce che abbia azzeccato. Con tutto ciò la Terra non diventa per questo più reale.»

Rik esclamò con veemenza: «Ma è reale! Esiste veramente, ve lo assicuro. Non mi posso sbagliare, non è possibile.»

Afferrò Valona per la manica, e quasi strappandogliela disse: «Lona, spiega loro ch’io vengo dalla Terra. Diglielo tu.»

Valona aveva gli occhi pieni di angoscia. «Lo abbiamo trovato un giorno, Signora, completamente scimunito. Non era capace né di vestirsi, né di parlare, né di camminare. Non era niente, era meno di un bambino. Poi ha cominciato a ricordare qualcosa, poco per volta, e ogni volta sempre di più.» Lanciò una rapida occhiata spaurita alla faccia seccata del Comandante. «Può darsi veramente che provenga dalla Terra, Signora. Però non intendo contraddirla.»

Il capitano Racety borbottò: «Per quel che ne sappiamo, può anche venire dal centro di Sark, Signora.»

«Può darsi, tuttavia in questa faccenda c’è qualcosa di strano» insistette Samia, subito afferrando con la sua mente femminile l’aspetto romantico della vicenda. «Ne sono sicura… Come mai era in quelle condizioni quando l’hai trovato, figliola? Si era fatto male?»

A tutta prima Valona non rispose.

«Parla, ragazza» intimò Samia.

Valona prese la propria decisione a fatica, ma capiva che in quel momento nessuna menzogna poteva sostituire la verità. Disse: «Lo feci visitare una volta da un dottore il quale mi disse che il… che il mio Rik era stato sottoposto a sondaggio psichico.»

«Cosa?» Samia si sentì invadere da un senso invincibile di repulsione. «Era forse psicotico?»

«Non so che cosa questo significhi, Signora» disse Valona umilmente.

«Gli indigeni non possono essere psicotici» intervenne il Comandante. «I loro bisogni e i loro desideri sono troppo semplici. Non ho mai saputo che esistesse un indigeno psicotico.»

«Ma allora…»

«È molto semplice, Signora. Se accettiamo il fantastico racconto di questa ragazza possiamo solo concludere che quest’uomo è stato un criminale, che è poi un modo come un altro di essere psicotici, immagino. In tal caso sarà stato curato da uno di quei ciarlatani che si trovano tra gli indigeni, il quale dopo averlo quasi ammazzato lo avrà piantato in un luogo deserto per evitare di essere scoperto e punito.»

«Ma è difficile che un indigeno possa disporre di una sonda psichica, e soprattutto che sappia usarla» protestò Samia.

«Può darsi. Ma certo un medico autorizzato non l’avrebbe adoperata tanto incautamente, e il fatto che con ciò giungiamo a una contraddizione dimostra che questa ragazza mente. Se vuole accettare il mio consiglio, Signora, lasci a me questi due. Come vede non è possibile cavarne niente di concreto.»

Samia esitò. «Forse ha ragione.»

Si alzò e guardò Rik, incerta. Il capitano prese la seggiolina e la piegò di scatto.

Rik balzò in piedi. «Aspettate!»

«Se non le dispiace, Signora» disse il Comandante tenendole l’uscio aperto «penseranno i miei uomini a calmarlo.»

Samia si fermò sulla soglia. «Non gli faranno del male, vero?»

«Non credo che ci costringerà a ricorrere a rimedi estremi. Dev’essere facile da sistemare.»

«Signora! Signora!» gridò Rik. «Posso dimostrarlo. Posso dimostrare che provengo dalla Terra.»

Samia stette per un attimo indecisa. «Sentiamo un po’ quel che ha da dire.»

«Come desidera» replicò freddamente il capitano.

Rik era tutto rosso in faccia, e nello sforzo del ricordo le sue labbra si erano contratte, abbozzando la caricatura di un sorriso. Disse: «Ricordo la Terra. Era radioattiva. Ricordo le Zone Proibite e l’orizzonte azzurro, la notte. Il suolo splendeva e niente poteva crescervi. Solo in pochissime aree gli uomini potevano vivere. Per questo ero diventato uno Spazio-Analista; per questo non m’importava di restare nello spazio, perché il mio mondo era un mondo morto.»

Samia crollò le spalle. «Andiamo, capitano. Quest’uomo vaneggia.»

Ma era venuta la volta del capitano Racety di restare impietrito, a bocca aperta. Mormorò: «Un mondo radioattivo!»

Samia chiese: «Può esistere veramente un mondo simile?»

«Sì.» Il Comandante puntò sulla Dama uno sguardo assorto. «Vorrei sapere dove può avere inteso una notizia del genere!»

«Ma come può un mondo essere radioattivo e abitato al tempo stesso?»

«Eppure ne esiste uno, e si trova proprio nel Settore di Sirio. Però non ne ricordo il nome…»

«È la Terra!» replicò Rik con orgoglio, pieno di sicurezza. «È il più antico pianeta della Galassia. È il pianeta sul quale ha avuto origine l’intera razza umana.»

Il Comandante mormorò quasi a se stesso: «È proprio così!»

Samia disse con la mente in tumulto: «Crede dunque che la razza umana sia veramente oriunda di questo pianeta Terra?»

«No, no» rispose il Comandante assorto. «Si tratta di una superstizione, ed è unicamente così che sono venuto a sapere dell’esistenza di questo pianeta radioattivo, che sostiene di essere il pianeta di origine dell’uomo.» Con improvvisa decisione si avvicinò a Rik: «Che altro ricordi?»

«La mia nave, soprattutto» disse Rik «e la Spazio-Analisi.»

Samia si avvicinò al Comandante, ripresa a un tratto da un’intensa emozione. «Ma allora tutto quello che hanno raccontato questi due è vero! Come mai ha potuto essere sottoposto a sondaggio psichico?»

«Chi lo sa?» mormorò il capitano Racety con aria assorta. «Proviamo a chiederlo a lui. Senti un po’, tu, indigeno o forestiero di un altro mondo, o quel diavolo che tu sia: come mai sei stato sottoposto a sondaggio psichico?»

Rik lo guardò incerto. «Siete tutti voi a dirlo. Persino Lona. Ma io non so che cosa significhi questa parola.»

«Quando hai smesso di ricordare, allora?

«Non lo so.» Ricominciò, con un’intonazione disperata nella voce: «Mi trovavo su una nave.»

«Questo lo abbiamo capito. Prosegui.»

Samia intervenne: «È inutile strepitare, capitano. Finirà col fargli perdere quel poco senno che ancora gli rimane.»

Rik era tutto assorto nel tentativo di dissipare le tenebre che gli oscuravano il cervello, e quello sforzo intensissimo non lasciava adito in lui ad alcun’altra emozione. Fu stupito lui stesso quando s’intese dire: «Non ho paura di lui, Signora. Cerco soltanto di ricordare. So che c’era pericolo. Di questo sono certo. Ricordo che un grave pericolo sovrastava Florina, ma non rammento i particolari.»

«Un pericolo che potrebbe minacciare l’intero pianeta?» Samia gettò una rapida occhiata al Comandante.

«Sì. Si trovava nelle correnti.»

«Quali correnti?» domandò Racety.

«Le correnti dello spazio.»

Il Comandante ebbe un gesto rassegnato. «Questa è pazzia furiosa.»

«No, no. Lo lasci parlare.» La certezza della sincerità di Rik si faceva sempre più strada in Samia. «Che cosa sono le correnti dello spazio?»

«Sono i diversi elementi» rispose Rik, vagamente, poi proseguì in fretta, quasi con incoerenza, parlando così come gli venivano i ricordi, sospinto, spronato da essi. «Avevo mandato un messaggio all’ufficio locale di Sark. Questo particolare lo ricordo benissimo. Dovevo stare attento. Era un pericolo che andava oltre Florina. Sì, oltre Florina. Era vasto quanto la Via Lattea. Bisognava circoscriverlo con molta attenzione…» Sembrava avesse perduto ogni contatto con quelli che gli stavano intorno, che vivesse in un mondo del passato dinanzi al quale si strappasse” a tratti una pesante cortina. Proseguì, ansante: «Non so come il mio messaggio sia stato intercettato da un funzionario di Sark. Fu un errore. Non so come accadde.» Corrugò la fronte. «Sono certo di averlo mandato alla sezione locale, sulla lunghezza d’onda diretta dell’Ufficio. Crede che possano avere alterato il sub-etere?» Non si stupì nemmeno che la parola “sub-etere” gli fosse venuta spontanea alle labbra. «Comunque, quando atterrai su Sark, mi accorsi che mi stavano aspettando.»

Samia chiese: «Chi ti aspettava? Chi?»

«Non… non lo so. Non riesco a ricordare. Ma non era un funzionario dell’ufficio. Ricordo di avergli parlato. Era al corrente del pericolo. Me ne accennò. Sono certo che me ne accennò. Eravamo seduti insieme a un tavolo. Ricordo il tavolo. Sedeva di fronte a me. Parlammo per un po’. Mi pare di ricordare, anzi ne sono sicuro, che non ero affatto impaziente di fornirgli dei particolari. Volevo parlare con l’ufficio, prima. Poi…»

«Sì?» incitò Samia.

«L’altro fece qualcosa… non ricordo. Non ricordo più niente!»

Urlò questa ultima frase, quindi tacque, finché il silenzio fu spezzato dal ronzio dell’apparecchio di comunicazione che il Comandante recava al polso.

Racety chiese: «Che c’è?»

La voce che rispose aveva un suono secco, preciso, ma rispettoso: «Un messaggio da Sark per il Comandante. Un messaggio personale.»

«Benissimo. Vengo subito al sub-eterico.»

Si volse a Samia: «Mia Signora, mi permetto di ricordarle che in ogni caso è ora di cena.»

Samia disse: «Badi che li voglio rivedere, capitano.»

Racety s’inchinò silenziosamente. Poteva essere un segno di acquiescenza, come poteva non esserlo.

Samia di Fife era profondamente emozionata. I suoi studi su Florina soddisfacevano una certa sua vaga intima aspirazione intellettuale, ma il Mistero del Terrestre sottoposto a Sondaggio Psichico (già pensava al caso con lettere maiuscole) risvegliava in lei qualcosa di assai più oscuro e primitivo, l’istintiva curiosità animale.

Decise di giungere al fondo della questione per conto suo e per propria soddisfazione personale. Anche i più modesti si ritengono dei poliziotti dilettanti assai capaci, e Samia era lungi dall’essere modesta.

Non appena poté farlo senza apparire ineducata, terminata la cena corse dai prigionieri e ordinò alla guardia davanti alla cella improvvisata di aprirle la porta.

Ma il marinaio, senza scomporsi, lo sguardo fisso nel vuoto, replicò rispettosamente: «Sua Signoria mi scusi, ma quell’uscio non può essere aperto.»

Samia rimase talmente di stucco a una tale risposta che quasi le parole le si strozzarono in gola. «Come osi? Se non apri immediatamente quella porta ti denuncio al Comandante.»

«Sua Signoria mi scusi, ma quella porta deve restare chiusa. Ordine espresso del capitano.»

Samia ritornò in fretta sul ponte e si precipitò nella cabina del Comandante.

«È stato lei a dare ordine che non potessi comunicare con i due passeggeri clandestini?»

«Mi sembra, Mia Signora, che fosse stato convenuto tra noi che lei parlasse con loro soltanto in mia presenza.»

«Prima di cena, sì. Ma ha visto anche lei che sono innocui!»

«Ho visto che sembravano innocui.»

Samia bolliva. «In tal caso le ordino di venire subito con me.»

«Non posso, Mia Signora. La situazione è cambiata.»

«In che senso?»

«Devono essere interrogati dalle autorità competenti di Sark e sino a quel momento nessuno può comunicare con loro.»

«Spero che non vorrà consegnarli al Ministero degli Affari Floriniani.»

«Ecco» cominciò il capitano cercando di guadagnare tempo «questa era in verità la mia intenzione originale. Avevano lasciato il loro villaggio senza permesso, anzi, per essere più esatti avevano lasciato senza permesso addirittura il loro pianeta. Per giunta si erano imbarcati clandestinamente su un vascello sarkita.»

«Ma quest’ultimo punto è stato un errore da parte loro.»

«Davvero?»

«In ogni caso, prima del nostro ultimo colloquio eravate perfettamente al corrente dei loro misfatti.»

«Però ho saputo soltanto durante il colloquio quel che aveva da dire il cosiddetto Terrestre.»

«Il cosiddetto! Ma se ha affermato lei stesso che esiste un pianeta di nome Terra!»

«Ho detto che può darsi che esista. Comunque, Signota, posso avere l’audacia di chiederle che cosa vorrebbe fare di quei due individui?»

«Secondo me il racconto del Terrestre dovrebbe essere approfondito. Parla di un pericolo che minaccia Florina, e di un funzionario di Sark che ha deliberatamente cercato di tenere nascosto questo pericolo alle autorità competenti. Secondo me si tratta di un caso da sottoporre direttamente a mio padre, ed è quello che farò al momento opportuno.»

Il Comandante mormorò: «Che manovra diabolica!»

«Sta diventando sarcastico, capitano?»

Racety arrossì. «Perdoni, Signora. Intendevo riferirmi ai prigionieri. Posso parlare un po’ distesamente?»

«Io non so quel che intende per “un po’ distesamente”» replicò Samia indispettita «ma parli pure.»

«Grazie. Prima di tutto, Signora, spero non vorrà minimizzare l’importanza degli avvenimenti verificatisi su Florina.»

«Quali avvenimenti?»

«Non avrà dimenticato l’incidente accaduto nella biblioteca.»

«Quante storie per un pattugliatore ucciso!»

«Un secondo pattugliatore è stato ucciso stamane, Mia Signora, nonché un indigeno. Non accade spesso che degli indigeni uccidano dei pattugliatori, e noi ci troviamo di fronte a un individuo che ha perpetrato questo crimine non una ma due volte consecutive, e che ciononostante riesce a non farsi acciuffare. Si tratta di un’azione isolata? Si tratta di una coincidenza? O tutto ciò non fa parte piuttosto di un piano accuratamente studiato?»

«A quanto pare, lei propende per quest’ultima ipotesi.»

«Sì, infatti. L’omicida aveva due compiici, e i loro dati segnaletici corrispondono a quelli dei nostri clandestini.»

«Possibile?»

«Non volevo allarmarla, ma ricorderà, Signora, che le dissi sin dal principio che potevano essere pericolosi.»

«Va bene. E poi?»

«Ora io mi domando: e se i delitti perpetrati su Florina fossero stati compiuti unicamente per distrarre l’attenzione dei pattugliatori mentre questi due s’infilavano di soppiatto a bordo della nostra nave?»

«Sciocchezze!»

«Veramente? Perché sono scappati da Florina, allora? Questo non glielo abbiamo chiesto. Supponiamo che cercassero di sottrarsi ai pattugliatori, il che d’altronde deve essere l’ipotesi più plausibile. Come mai cercano di rifugiarsi proprio su Sark e su una nave per giunta che trasporta Sua Signoria? L’uomo poi sostiene di essere uno Spazio-Analista.»

Samia aggrottò la fronte. «E con questo?»

«Un anno fa uno Spazio-Analista scomparve. Non fu mai data pubblicità alla cosa. Io ne ero informato, naturalmente, poiché la mia nave è stata tra quelle che hanno perlustrato lo spazio vicino in cerca del suo mezzo. Colui, o coloro, che soffiano nel fuoco degli attuali disordini floriniani sono indubbiamente a conoscenza del fatto, e che essi sappiano di questo Spazio-Analista scomparso dimostra sino a che punto sia complessa ed efficiente la loro organizzazione.»

«Potrebbe non esistere alcun nesso tra il Terrestre e lo Spazio-Analista scomparso.»

«Un nesso vero e proprio non credo, Signora, ma affermare che non esista alcun rapporto tra i due fatti significa affidarsi eccessivamente al caso. Io sono convinto che abbiamo a che fare con un impostore. Per questo sostiene di essere stato sottoposto a sondaggio psichico.»

Samia chiese: «Ma per quale scopo agirebbe così?»

«Affinché lei faccia esattamente quel che poco fa ha detto di voler fare.»

«Approfondire il mistero?»

«No, Mia Signora. Portare quell’uomo da suo padre.»

«Continuo a non capire.»

«Le alternative sono diverse. Nella migliore delle ipotesi potrebbe essere una spia ai danni di suo padre, sia a favore di Florina o magari anche di Trantor. Nella peggiore delle ipotesi diverrà l’assassino di suo padre.»

«Capitano! Questo è semplicemente ridicolo.»

«Può darsi, Signora. Ma in tal caso, altrettanto ridicolo è il Ministero degli Interni. Se ricorda, poco prima di cena mi sono allontanato per ricevere un messaggio proveniente da Sark.»

«Infatti.»

«Eccolo.»

Samia prese dalle mani del Comandante un sottile foglio di metallo traslucido impresso a lettere rosse, e vi lesse: «Siamo informati che due floriniani si sono imbarcati clandestinamente a bordo della sua nave. Devono essere immediatamente messi in stato di arresto. Può darsi che uno di loro sostenga di essere uno Spazio-Analista anziché un indigeno floriniano. Lei sarà ritenuto strettamente responsabile dell’incolumità di questi individui, i quali dovranno essere consegnati direttamente al Ministero degli Interni. Si esigono la massima segretezza e la massima urgenza.»

Samia chiese: «Che cosa gli faranno?»

«Su questo punto, non posso rispondere con sicurezza» disse il Comandante. «Certo che un individuo sospettato di assassinio e di spionaggio, non può pretendere di essere trattato molto gentilmente. Può darsi che le sue affermazioni si traducano, almeno parzialmente, in realtà e che egli impari a proprie spese che cosa sia effettivamente un vero sondaggio psichico.»

12

I Quattro Grandi Signori guardarono il Signore di Fife ciascuno a proprio modo: Bort irritato, Rune divertito, Bolle seccato, e Steen spaventato.

Il primo a rompere il silenzio fu Rune. Disse: «Alto tradimento? Cerchi forse di spaventarci con una frase? Che cosa significa? Tradimento contro di te? Contro Bort? Contro di me? Da parte di chi e in che modo? E poi, santo Sark, Fife, queste conferenze disturbano le mie ore normali di sonno.»

Fife rispose: «Potrebbe darsi che i risultati finali finiscano col disturbare molte tue ore di sonno. Io non mi riferisco a un tradimento contro uno qualsiasi di noi. Mi riferiscono a un tradimento contro Sark.

Bort interloquì: «Sark? E che cosa è Sark, di grazia, se non noi?»

«Non capisco» piagnucolò Steen. «Voi due sembrate aver sempre voglia di accapigliarvi a parole. Francamente! Sarebbe una gran bella cosa se la smetteste.»

Bolle disse: «Sono perfettamente d’accordo con Steen.»

Fife disse: «Non starò a menare il can per l’aia. Avrete saputo, immagino, dei disordini verificatisi su Florina?»

Rune disse: «I dispacci del Ministero degli Interni parlano di vari pattugliatori uccisi. È a questo che vuoi alludere?»

Bort scattò irato: «Per Sark, giacché ci siamo, parliamo un poco anche di questo. Dei pattugliatori uccisi! Ma se lo meritano! Com’è possibile che un indigeno si metta a prendere un pattugliatore a randellate in testa? Come mai un pattugliatore si lascia avvicinare da un indigeno armato di randello senza incenerirlo prima che l’altro gli arrivi a venti passi di distanza?»

«Hai finito?» domandò Fife. «E ora permettete che vi riassuma la situazione. Potrà essere utile.»

Pareva impossibile che gli avvenimenti di quelle ultime quarantott’ore potessero essere condensati in poche, aride parole. Innanzi tutto, vi era stata una richiesta inattesa di volumi sulla Spazio-Analisi. Poi un colpo in testa a un vecchio pattugliatore che era morto due ore dopo per frattura della base cranica. Quindi un inseguimento, che si era concluso nella tana di un agente trantoriano. Infine un secondo pattugliatore era stato ucciso all’alba da un individuo travestito da pattugliatore mentre poche ore dopo moriva anche l’agente di Trantor.

«Se volete conoscere le ultime notizie» concluse Fife «potete aggiungere questa all’elenco delle bazzecole che ho testé menzionate. Alcune ora fa è stato ritrovato nel Parco Cittadino di Florina un cadavere, o meglio i residui ossei di un cadavere.»

«Del cadavere di chi?» domandò Rune.

«Un momento di pazienza, per favore. Accanto ai resti in questione vi era un mucchietto di cenere che appariva essere il residuato combusto di pezzi di stoffa dai quali erano stati accuratamente asportati tutti gli ornamenti metallici, ma l’analisi della cenere ha dimostrato che si trattava dei resti dell’uniforme di un pattugliatore.»

«Si tratta dell’assassino, vero?» domandò Bolle.

«È poco probabile» replicò Fife. «Chi si sarebbe curato di ucciderlo in segreto?»

«Si sarà ammazzato» intervenne Bort con gioia sadica.

«Anche questo è alquanto improbabile» disse Fife. «Del resto ho il reperto medico dei periti settori che hanno analizzato la struttura ossea. Lo scheletro non è né quello di un pattugliatore né quello di un floriniano. È lo scheletro di un sarkita.»

Steen gridò: «Possibile?»

«Mi seguite?» domandò Fife. «Adesso potete capire perché dall’uniforme sono stati tolti gli elementi metallici. Chi ha ucciso il sarkita sperava che la cenere fosse scambiata per la cenere del vestito del sarkita, tolto e incenerito prima dell’assassinio, che in tal caso noi potevamo scambiare per suicidio o per il risultato di una contesa privata senza alcun rapporto col nostro finto pattugliatore. Ciò che però costui non sapeva è che l’analisi delle ceneri sarebbe riuscita a distinguere tra il kyrt della stoffa sarkita e la cellulosa di un’uniforme da pattugliatore anche priva di fibbie e di galloni. Ora sulla base del sarkita morto e della cenere di uniforme di pattugliatore non possiamo che supporre che nella Città Alta si nasconda un Borgomastro vivo camuffato da sarkita.»

«È stato catturato?» domandò Bort con la voce grossa.

«No.»

«E perché no? Perché no, in nome di Sark?»

«Lo cattureranno» disse Fife, in tono indifferente. «Per il momento abbiamo cose molto più importanti a cui pensare. Quest’ultima atrocità è uno quisquilia, al paragone.»

«Vieni al dunque!» esclamò Rune spazientito.

«Calma! Prima di tutto desidero chiedervi se ricordate il caso dello Spazio-Analista scomparso l’anno scorso.»

Bort disse con infinito disprezzo: «Ancora quello?»

Steen chiese: «Esiste qualche rapporto tra i due fatti? O dobbiamo ricominciare daccapo con quella stupidissima storia?»

Ma Fife rimase imperturbabile. Disse: «La bomba di ieri e dell’altro ieri è cominciata con una richiesta di volumi di riferimento sulla Spazio-Analisi presso la biblioteca di Florina. Per me un rapporto tra i due fatti esiste e vorrei far comprendere questo punto anche a voialtri. Comincerò col descrivervi le tre persone implicate nell’incidente della biblioteca, e vi sarei grato se per qualche momento non m’interrompeste… Prima di tutto abbiamo un Borgomastro. Dei tre è il più pericoloso. Su Sark le sue note caratteristiche erano eccellenti ma sfortunatamente egli ha ora rivolto le sue capacità contro di noi. Indubbiamente è il solo responsabile dei quattro omicidi! La seconda persona implicata è una indigena, una creatura incolta e assolutamente insignificante. Comunque in questi ultimi due giorni la questione è stata sondata in tutti i più minuti particolari e siamo venuti così a conoscere la storia di questa donna. I suoi genitori appartenevano all’“Anima del Kyrt”, non so se ricordiate quella ridicola setta segreta contadina che venne scoperta e annientata senza difficoltà circa una ventina d’anni or sono. E veniamo all’ultimo individuo del terzetto, indubbiamente il più strano dei tre. Questo terzo individuo era un operaio dell’opificio, completamente idiota.»

Bort respirò rumorosamente, Steen emise una risatina stridula, Bolle seguitò a tenere gli occhi chiusi e Rune rimase immobile nell’ombra.

Fife proseguì: «Non ho usato il termine idiota in senso metaforico. Nonostante tutti i sondaggi compiuti dal Ministero degli Interni di lui non si è riusciti a sapere assolutamente nulla di nulla. Si è potuto appurare soltanto che circa vindici mesi fa fu trovato in un villaggio, alla periferia della metropoli principale di Florina, in stato di idiozia totale. Non era neppure in grado di camminare o di nutrirsi da sé. Vi prego ora di notare che questo idiota ha fatto la sua prima apparizione poche settimane dopo la scomparsa dello Spazio-Analista. Notate pure che in pochi mesi imparò a parlare mettendosi persino in condizioni di ottenere un impiego in un opificio di kyrt. Ora che razza d’idiota è mai questo che è riuscito a imparare tante cose con tanta facilità e in così breve tempo?»

Steen cominciò tutto giulivo: «Oh, be’, se lo avevano sondato psichicamente e nei dovuti modi, può darsi che avessero predisposto le cose in modo da…» La sua voce si perse in un mormorio indistinto.

Fife osservò in tono sarcastico: «Non credo che possa esservi, in materia, autorità maggiore della tua, ma anche senza la competente opinione di Steen lo stesso pensiero è venuto anche a me perché è la sola spiegazione possibile. Ora, il sondaggio psichico può essere stato praticato soltanto su Sark o nella Città Alta di Florina. Per amor di scrupolo abbiamo controllato tutti i registri degli ambulatori medici della Città Alta, ma senza ritrovarvi alcuna annotazione a proposito di un sondaggio psichico non autorizzato. Uno dei nostri agenti ebbe allora l’idea di controllare i registri dei medici morti dopo la comparsa dell’idiota. Ebbene, proprio in uno di questi ambulatori abbiamo trovato un’annotazione relativa al nostro uomo. Era stato condotto dal medico in questione, per un controllo psichico, circa sei mesi fa dalla contadina che è il secondo personaggio del nostro trio. Evidentemente deve aver agito di nascosto perché nel corso di quella giornata si è assentata dal lavoro con tutt’altro pretesto. E il medico ha esaminato l’idiota riscontrando su di lui le prove inconfondibili di un sondaggio psichico mal condotto. E adesso viene il punto interessante. Il medico era di quelli che hanno un ambulatorio duplice, sito per metà nella Città Alta e per metà nella Città Bassa. Era un uomo metodico e conservava annotazioni doppie complete in entrambi i propri ambulatori per evitare inutili andirivieni con l’ascensore. Tuttavia la registrazione del nostro idiota non era stata duplicata, ed è la sola che non sia stata duplicata. Perché? Se, per un motivo qualsiasi, aveva deciso in cuor suo di non duplicare quella particolare registrazione, perché l’ha segnata soltanto nei registri della Città Alta, dove è stata ritrovata? O perché non soltanto nei registri della Città Bassa, dove viceversa non compare? Dopotutto il paziente era floriniano e gli era stato condotto da una donna floriniana. Lo aveva visitato nell’ambulatorio della Città Bassa. Tutto questo è attentamente annotato nella copia che abbiamo trovata. Non può esservi, a tale enigma, che un’unica risposta. La registrazione dev’essere stata debitamente inscritta in entrambi gli archivi, ma è stata distrutta negli archivi della Città Bassa da qualcuno che ignorava che nell’ambulatorio della Città Alta esistesse una seconda registrazione. Proseguiamo. Unitamente alla amnesia del paziente vi era la nota precisa, di pugno del medico, di includere i dati inerenti a questo caso nel successivo rapporto settimanale obbligatorio da presentare al Ministero degli Interni, come prescrive la legge, poiché ogni caso di sondaggio psichico presuppone l’esistenza di un criminale o di un sovversivo. Ma questo rapporto non è mai stato inoltrato, e meno di una settimana dopo il medico moriva in un incidente di traffico. Le coincidenze si stanno facendo un po’ troppo numerose, non vi pare?»

Bolle aprì gli occhi e disse: «Ma tu non stai facendo un esposto; ci stai raccontando un romanzo.»

Fife continuò: «Affrontiamo adesso la questione dall’altro capo. Dimentichiamo per un attimo l’idiota e ritorniamo allo Spazio-Analista. La prima notizia che abbiamo di lui è la notifica all’Ufficio Trasporti dell’imminente atterraggio della sua nave, notifica alla quale si accompagna un suo messaggio ricevuto in precedenza. Però lo Spazio-Analista non spunta, né è possibile individuarlo nello spazio vicino. Per giunta il messaggio inviato dallo Spazio-Analista, e inoltrato all’Ufficio Trasporti, scompare. L’U.S.I. protesta, sostenendo che siamo stati noi a sottrarre a bella posta il messaggio. Il Ministero degli Interni si convince che abbiamo inventato un messaggio fittizio a scopo di propaganda. Ora invece io penso che avessero entrambi torto. Il messaggio era stato effettivamente consegnato ma non era stato nascosto dal governo di Sark. Inventiamo un personaggio immaginario che chiameremo, per il momento, X. X ha accesso ai registri dell’Ufficio Trasporti; viene a sapere dell’imminente arrivo di questo Spazio-Analista e del suo messaggio e possiede cervello e abilità per agire con prontezza. Fa in modo che venga mandato allo Spazio-Analista, ancora a bordo della sua nave, un sub-eterogramma segreto col quale il nostro uomo riceve istruzione di atterrare su un piccolo campo privato. Lo Spazio-Analista obbedisce e X gli va incontro nel luogo da lui stesso designato.

«X ha portato con sé il catastrofico messaggio spedito dallo Spazio-Analista. A spiegazione di ciò possono esservi due ragioni: la prima, di evitare la possibilità di essere scoperto subito come impostore eliminando una prova palmare; la seconda, probabilmente, di cattivarsi la fiducia dello Spazio-Analista. Se costui si sentiva convinto di poter parlare con i suoi superiori diretti, soltanto X poteva persuaderlo a prestargli la sua fiducia dandogli la dimostrazione di essere già in possesso degli elementi essenziali della questione. Evidentemente lo Spazio-Analista deve aver parlato e per quanto incoerente, sconnesso e irragionevole possa essere stato il suo dire, X deve averlo riconosciuto come un ottimo mezzo di propaganda. Su questa base spedì ai Grandi Signori, cioè a noi, le sue lettere ricattatorie. Se non scendevamo a patti con lui era sua intenzione mandare all’aria la produzione di Florina con il propagandare voci catastrofiche sino a costringerci alla resa.

«Ma poi ha commesso il suo primo errore di calcolo. Qualcosa deve averlo spaventato. Vedremo più tardi che cosa può essere stato. In ogni caso dovette decidere che era meglio attendere, prima di proseguire. L’attesa tuttavia comportava una complicazione, X non credeva nel racconto dello Spazio-Analista ma non vi è dubbio che personalmente lo Spazio-Analista fosse assolutamente sincero. X doveva sistemare le cose in modo che lo Spazio-Analista fosse disposto a far sì che la sua “catastrofe” aspettasse. Ora questo lo Spazio-Analista non poteva permetterlo, a meno che la sua mente malata non fosse messa nella impossibilità di agire. X avrebbe potuto ucciderlo, ma io ho l’impressione che lo Spazio-Analista doveva essergli necessario come eventuale fonte di ulteriori informazioni (dopotutto X non sapeva nulla dello Spazio-Analista e non poteva condurre una vittoriosa campagna ricattatoria sulla base di un “bluff” completo) e forse lo avrà tenuto da parte come un’arma di soccorso in caso di definitivo insuccesso. Comunque si è servito di una sonda psichica e dopo la cura si è trovato tra le mani, non già uno Spazio-Analista, ma un idiota mentecatto che per un certo tempo almeno non gli avrebbe dato noie, sino a quando cioè non avesse riacquistato l’uso della ragione.

«Quale fu poi la sua mossa successiva? Evidentemente quella di accertarsi che in quell’anno di attesa lo Spazio-Analista non venisse individuato, e che nessun personaggio di qualche importanza potesse vederlo, sia pure nel suo ruolo di deficiente. Perciò agì con estrema semplicità, ma al tempo stesso da maestro. Si portò il suo uomo su Florina dove per circa un anno lo Spazio-Analista rimase in veste di indigeno mezzo scemo a lavorare negli opifici di kyrt. Suppongo che nel corso di quell’anno costui, o un suo subalterno fidato, avrà visitato il villaggio dove egli aveva “trapiantato” il disgraziato, per assicurarsi che fosse al sicuro e in discrete condizioni di salute. Durante una di queste visite deve avere appreso che il suo uomo era stato condotto da un medico capace di accertare su una semplice diagnosi gli effetti di un sondaggio psichico. Il medico morì e il suo rapporto scomparve, perlomeno dagli archivi della Città Bassa. Questo fu il primo errore di calcolo di X, il quale non pensò evidentemente che negli archivi sovrastanti potesse sussistere un duplicato del documento.

«Poi commise il suo secondo errore. L’idiota cominciò a riacquistare la ragione un po’ troppo in fretta, e il Borgomastro del villaggio era abbastanza intelligente per capire che quello non era un semplice maniaco come possono esservene tanti. Può darsi anche che la ragazza che aveva cura dell’idiota abbia riferito al Borgomastro la faccenda del sondaggio psichico. Questa naturalmente è un’ipotesi e con ciò ho concluso il mio racconto.»

Rune fu il primo a parlare. Disse: «Mi dispiace di comunicarti, caro Fife, che il tuo racconto mi ha alquanto annoiato.»

«Da quel che mi è parso di capire» disse Bolle lentamente «tu hai inventato una storia irreale quasi quanto quella dell’anno passato. Il tuo esposto si compone per nove decimi di ipotesi e di supposizioni.»

«Ci hai raccontato un sacco di frottole!» disse Bort.

«E poi, in definitiva, chi è questo X?» disse Steen. «Se non sai chi è X, tutto il castello crolla.»

Fife disse: «C’è perlomeno uno di voi che ha saputo afferrare il punto essenziale. L’identità di X costituisce il nocciolo della questione. Prima di tutto, X è un uomo che ha rapporti con l’Amministrazione Civile. È un uomo che può ordinare un sondaggio psichico. È un uomo che ritiene di poter predisporre una potente campagna ricattatoria. È un uomo che può trasportare senza inconvenienti, da Sark a Florina, uno Spazio-Analista. È un uomo che può provocare la morte di un medico di Florina. Certo non può essere un illustre sconosciuto. Anzi, io direi che è decisamente un personaggio importante, un grande Signore. Voi che ne pensate?»

Bort tuonò: «In nome dello Spazio Onnipotente, chi intendi accusare, Fife?»

«Per il momento ancora nessuno, o perlomeno nessuno specificatamente» disse Fife imperturbabile. «Statemi un po’ a sentire. Siamo in cinque, noi. Nessun altro uomo di Sark avrebbe potuto fare quello che X ha fatto. Ora chi di questi cinque è il colpevole? Per cominciare, non io di sicuro.»

«A questo proposito dobbiamo accettare la tua parola, immagino?» esclamò Rune in tono beffardo.

«Non siete affatto obbligati ad accettare la mia parola» replicò Fife. «Ma la realtà è che io sono il solo tra voi a non avere un movente. Il movente di X è di impadronirsi del controllo dell’industria del kyrt. Ora io questo controllo ce l’ho già. Possiedo un terzo del territorio di Florina. Non avrei certo bisogno di ricorrere a un complicato sistema di ricatto.» Alzò la voce per dominare il tumulto degli altri. «Statemi a sentire! Voi, invece, avete tutti i motivi possibili e immaginabili. Rune possiede il continente più piccolo e il minor numero di azioni, io so perfettamente che questo non gli piace affatto. Bolle appartiene alla casa più antica. Vi fu un tempo in cui la sua famiglia dominava tutto Sark, e probabilmente ricorda ancora gli antichi splendori della sua casa. Bort è seccato per essere stato estromesso dal voto di consiglio, non potendo così, di conseguenza dirigere gli affari nei territori che gli competono col sistema della frusta e dell’inceneratore come gli piacerebbe. Steen ha gusti dispendiosi e si trova finanziariamente in cattive acque. Ecco dunque tutti i motivi possibili che possono spingere a qualsiasi estremo: l’invidia, la sete di potere, la sete di denaro, l’ambizione del prestigio personale. Dunque, chi è di voi?»

Negli stanchi occhi di Bolle brillò un’improvvisa luce di malizia: «Come? Non lo sai?»

«Non ha importanza. Adesso sentite questo. Ho detto che dopo averci inviato quelle prime lettere qualcosa ha spaventato X (seguitiamo pure a chiamarlo X). Sapete che cosa è stato? La nostra prima conferenza, quando io ho predicato la necessità di un’azione concorde: X era presente, X era, ed è, uno di noi. Comprese che un’azione concorde avrebbe segnato la sua rovina. Si accorse di essersi sbagliato e decise di attendere, per incominciare ad agire, che il senso di urgenza si fosse dileguato. Ma si sbaglia ancora. Seguiteremo ad agire di comune accordo e il solo mezzo per riuscire è di considerare che X è uno di noi. L’autonomia continentale è finita. Rappresenta un lusso che noi non ci possiamo più permettere, poiché i raggiri di X si concluderanno soltanto con la disfatta economica di noi cinque o con l’intervento di Trantor. Personalmente il solo qua dentro di cui mi fido sono io, perciò da questo momento in avanti sarò io a capeggiare un Sark unito. Chi è con me?»

Si erano levati tutti in piedi, urlando e sbraitando. Fife sorrise. Disse: «Non avete scelta. In quest’anno che è seguito alla nostra prima conferenza anch’io mi sono preparato. Mentre voi quattro ve ne siete stati qui seduti tranquillamente in conferenza ad ascoltarmi, un gruppo di funzionari a me devoti si è impadronito della Marina.»

«Traditore!» urlarono tutti e quattro.

«Sarò un traditore nei confronti dell’autonomia continentale» ribatté Fife «ma sono leale verso Sark. Voi vi state chiedendo chi di voi sia X. Uno di voi lo sa, naturalmente; ma tra ventiquattr’ore lo sapremo tutti. E adesso tenete ben presente, Signori, che non potete fare proprio niente, perché le navi da guerra sono in mano mia. Buonasera!»

Ebbe un breve gesto di congedo.

Ad uno ad uno gli altri quattro scomparvero. L’ultimo ad andarsene fu Steen.

«Fife…» disse con voce tremula.

Fife alzò la testa: «Sì? Vuoi confessarti adesso che siamo rimasti soli? Sei tu X?»

La faccia di Steen si torse, subitamente allarmata. «No, no. Te lo giuro. Volevo solo chiederti, hai parlato proprio sul serio, per quel che riguarda l’autonomia continentale, intendo, e il resto?»

Fife fissò il vecchio cronometro appeso alla parete. «Buonasera» disse.

Steen si mise a piagnucolare, la sua mano salì all’interruttore, e anch’egli scomparve.

Rimasto solo, Fife non si mosse dal suo, posto. Pareva tramutato in pietra: ora che il calore della discussione si era spento una profonda depressione lo aveva invaso. Nella grossa faccia la bocca esangue, senza labbra, pareva uno squarcio.

Tutti i calcoli cominciavano con questo fatto: che lo Spazio-Analista era pazzo, e che nessuna catastrofe sovrastasse il pianeta. Ma a causa di un pazzo quante cose erano accadute. Junz dell’U.S.I. avrebbe trascorso un anno alla ricerca di un pazzo? Sarebbe stato così irremovibile nella sua caccia, se veramente fossero state tutte favole?

Su questo punto Fife non si era confidato con nessuno, e quasi quasi non osava parlarne neppure con se stesso. E se lo Spazio-Analista, invece, non fosse mai stato pazzo?

Il segretario floriniano comparve come un’ombra dinanzi al grande Signore, e disse con la sua voce secca, smorta: «Signore, la nave che reca a bordo sua figlia è atterrata.»

«Lo Spazio-Analista e la donna indigena sono al sicuro?»

«Sì, Signore.»

«Che nessuno li interroghi in mia assenza, e che non comunichino con nessuno finché non arriverò io… Ci sono notizie da Florina?

«Sì, Signore. Il Borgomastro è stato catturato, e lo stanno portando su Sark.»

13

Le luci del porto presero a brillare uniformemente a mano a mano che il crepuscolo s’inoltrava.

Markis Genro si fermò appena varcata l’entrata principale e non parve affatto impressionato dal gigantesco ferro di cavallo con le sue trentasei rimesse e le sue cinque fosse di decollo. Tutto ciò faceva parte di lui, come faceva parte del resto di qualsiasi crocierista provetto.

Mormorò: «Tutto normale come al solito!» Un socio del comitato nautico, in costume da crociera, con un unico simbolo discreto sull’unico bottone della tunica a indicare la sua appartenenza al comitato, si era mosso rapidamente innanzi per andare incontro a Genro, evitando studiatamente di apparire frettoloso.

«E perché non dovrebbe essere tutto normale come al solito?»

«Salve, Doty. Temevo soltanto che col chiasso che stanno facendo qualcuno avesse avuto la brillante idea di ordinare la chiusura dei porti. Ma grazie a Sark, fortunatamente, non ci hanno pensato.»

Il socio del comitato si fece improvvisamente serio. «Può darsi che si arrivi anche a questo.»

«Può darsi.» Genro lanciò un’occhiata distratta alle navi nascoste sotto il riparo delle tettoie. «Saranno due mesi che non vengo al 9, credo. Ci sono delle barche nuove, per caso?»

«No. Veramente sì: c’è la “Freccia di Fuoco”, di Hjordesse.»

Genro scosse il capo. «La conosco. Una porcheria tutta cromo e nient’altro. Mi sento venir meno al pensiero che dovrò finire per progettarne una io, se vorrò avere una barca che mi piaccia sul serio.»

«Hai intenzione di vendere il “Cometa V”?»

«Già. Ti spiace se vado a dare un’occhiata in giro?»

«Ma ti pare? Fa’ pure.»

Genro si diede a curiosare lentamente, con la sigaretta semispenta pendente da un angolo della bocca.

Alla rimessa 26 il suo interesse si ravvivò di colpo. Si sporse al di là della bassa barriera e disse: «Signore?»

Il Signore che gli comparve davanti non era gran che di aspetto. Prima di tutto non si trovava in costume da crociera, secondariamente aveva la barba lunga e portava in testa una mozzetta di pessimo gusto e calcata sulla fronte in modo estremamente inelegante.

Genro disse: «Mi chiamo Markis Genro. È sua quella barca, Signore?»

«Sì.» Il monosillabo fu pronunciato con voce bassa, tesa.

Genro disse: «Le dispiace lasciarmi entrare?» L’altro esitò, quindi si trasse in disparte, cedendo il passo a Genro.

Questi chiese. «Che motori ha, Signore?»

«Perché me lo chiede?»

Genro rispose: «Per essere schietto ha l’intenzione di acquistare una nuova nave.»

«E questa le interesserebbe?»

«Non lo so. Certo, se il prezzo non è troppo alto, mi sembra che possa andare. Comunque, le seccherebbe lasciarmi dare un’occhiata ai comandi e ai motori?»

«No, certo. Ecco qui il mio brevetto di pilota.»

Genro vi diede un’occhiata esperta e gli riconsegnò il documento dicendo: «Lei è Deamone?»

Il Signore annuì. «Entri pure, se le fa piacere.»

«Grazie. Vuole farmi strada?»

Il Signore tornò a frugarsi in tasca, e ne trasse un mazzo di chiavi. «Dopo di lei, prego.»

Genro prese il mazzo e fece scorrere le varie chiavi in cerca di quella che recava impresso in codice l’indicazione “stampo nave.” L’altro non fece alcun tentativo per aiutarlo.

Infine disse: «È questa, vero?»

Si diresse lungo la breve rampa che portava al balcone della camera di decompressione e studiò attentamente la nervatura sottile che correva sulla destra della camera. «Non vedo… oh, eccola» e si spostò sull’altro lato.

Lentamente, silenziosamente, la camera si spalancò, e Genro avanzò nelle tenebre. Non appena l’uscio si chiuse alle loro spalle la luce rossa della camera di decompressione si illuminò automaticamente. L’uscio interno si aprì e mentre entravano nella nave propriamente detta una successione di luci bianche si accese lungo lo scafo.

Dopo qualche istante che erano nell’interno della nave Terens disse: «È quasi ora di cena. Non vuole prendere qualcosa?»

L’altro lo degnò appena di un’occhiata: «Forse più tardi. Grazie.»

Terens non insistette”. Lasciò che si aggirasse per la nave, e personalmente si dedicò pieno di riconoscenza alla carne in scatola e alla frutta avvolta in cellite che trovò nella

dispensa.

Quando tornò da Genro, si sentiva assai più padrone di se stesso.

Genro disse: «Le dispiacerebbe se provassi un po’ come funziona questo panfilo?»

«Niente affatto. Lo sa manovrare?» domandò Terens.

«Credo di sì» replicò l’altro con un lieve sorriso. «Credo di saper manovrare qualsiasi modello normale. Comunque, mi sono preso la libertà di chiamare la torre di controllo e mi hanno messo a disposizione una fossa di decollo. Ecco la mia licenza di pilotaggio, nel caso volesse darci un’occhiata prima che si parta.»

Terens scosse appena il documento che Genro gli tendeva, e disse: «I comandi sono suoi.»

La nave rotolò fuori della rimessa come una balena aerotrasportata, con movimenti lenti, maestosi, mentre il suo scafo diamagnetizzato sfiorava da una distanza di 6 centimetri l’argilla liscia e fortemente compressa del campo.

Terens seguiva con grande attenzione le manovre di Genro, che maneggiava i comandi con precisione impeccabile. Sotto il suo tocco la nave stava diventando una cosa viva.

La copertura in duralite della fossa di decollo scivolò entro il proprio loculo, rivelando la rivestitura neutrizzata, profonda cento metri, destinata a ricevere le prime spinte di energia dei motori iperatomici.

Genro scambiò misteriosi segnali con la torre di controllo, infine disse: «Fra dieci secondi si parte.»

Poi Terens si sentì diventare più pesante, come se una forza spaventosa lo premesse contro il sedile. La paura s’impadronì di lui.

Riuscì tuttavia a mormorare: «Come funziona?»

Genro sembrava insensibile all’accelerazione. Rispose con voce quasi normale: «Abbastanza bene.»

Terens si arrovesciò sullo schienale della poltrona; il tessuto di kyrt che lo ricopriva era tutto bagnato di freddo sudore.

«Non c’è male» disse Genro. «La tiene bene questa barchetta, Deamone. È piccola ma ha i suoi pregi.»

Terens rispose cautamente: «Vuole provarne la velocità e la capacità di salto? Io non ho niente in contrario.»

Genro annuì: «Benissimo. Dove andiamo? Se provassimo…» s’interruppe, quindi riprese: «Perché non andiamo a Sark?»

Il respiro di Terens si fece un poco più affannoso. Se lo era quasi aspettato. Cominciava a credere di trovarsi in un mondo fatato. Il destino forzava le sue mosse, anche senza che egli vi ponesse minimamente mano! Su Sark si trovava Rik con i suoi rinascenti ricordi. La partita non era ancora completamente perduta.

Disse, quasi senza riflettere: «Perché no, Genro?»

«Qual è il suo tempo migliore nel tratto Sark-Florina?» domandò Genro.

«Niente di speciale» disse Terens. «La solita media.»

«Più di sei ore, immagino?»

«Normalmente si.»

«Le dispiace se provo a coprirlo in cinque ore?»

«Tutt’altro» disse Terens.

Occorrevano ore per raggiungere un punto sufficientemente lontano dalla distorsione di massa stellare del tessuto spaziale che rendesse possibile il salto attraverso l’iperspazio.

Terens non riusciva a tenere gli occhi aperti. Quella era praticamente la terza notte che passava in bianco e la tensione che aveva subito durante tutte quelle lunghe ore rendeva il suo stato di sonnolenza peggiore di una tortura.

Genro gli lanciò un’occhiata di sfuggita: «Perché non va a riposare un po’?»

Terens costrinse i muscoli facciali a una disperata mimica di attività, e disse: «Oh, non ho sonno.»

Tuttavia sbadigliò, e sorrise per scusarsi. Il crocierista tornò ai propri strumenti, e gli occhi di Terens s’imbambolarono di nuovo.

I sedili di un astropanfilo erano confortevoli per necessità, dovendo difendere il passeggero contro le varie accelerazioni. Anche un uomo non particolarmente stanco finiva con l’addormentarvisi facilmente. Terens, che in quel momento avrebbe dormito anche su un letto di chiodi, non si accorse neppure di aver varcato completamente la linea di confine tra la coscienza e l’oblio.

Dormì per ore intiere, di un sonno profondo e senza sogni, come mai gli era capitato in vita sua.

Non si mosse, non diede alcun segno di vita se non per un respirare leggero e uniforme, anche quando lo zucchetto gli venne tolto dal capo.

Si svegliò lentamente, pesantemente. Per lunghi minuti non si rese neppure conto di dove si trovasse. Gli pareva di essere nella sua casetta di Borgomastro. La realtà che lo circondava tornò entro la sua coscienza solo per stadi successivi. Infine sorrise a Genro, tuttora seduto ai comandi, e mormorò: «Ho l’impressione di aver dormito.»

«Ha dormito e come! Ecco Sark.» Cosi dicendo Genro indicò nel visischermo una grossa fetta bianca.

«Quando atterreremo?»

«Tra un’ora circa.»

Terens frattanto si era sufficientemente ridestato per avvertire un sottile mutamento nell’atteggiamento dell’altro, e fu con un senso di orrore che si accorse che l’oggetto grigio-acciaio che Genro stringeva in una mano era la canna sottile di un fucile atomico.

«Che cosa le viene in mente…» cominciò Terens balzando in piedi.

«Siedi» replicò Genro calmo. Nell’altra mano teneva lo zucchetto. «Tu sei un indigeno.»

Terens tacque, allibito.

L’altro proseguì: «Avevo capito che eri un indigeno ancora prima di salire a bordo della nave del povero Deamone.»

Terens si sentiva la bocca arida e gli occhi brucianti. Fissava inebetito la sottile canna mortale e ne attendeva la vampata improvvisa, silenziosa.

Genro sembrava non aver fretta. Impugnava saldamente il fucile e le sue parole erano lente e precise.

«Il tuo errore principale, Borgomastro, è stato di credere che ti sarebbe riuscito di tenere in scacco indefinitamente una forza di polizia organizzata. Comunque ti sarebbe sempre andata molto meglio se non avessi avuto la malaugurata idea di scegliere come vittima il disgraziato Deamone.»

«Io non l’ho scelto affatto» mormorò Terens.

«E allora chiamala scalogna. Alstare Deamone, circa dodici ore fa, si trovava nel Parco Cittadino in attesa di sua moglie. L’aspettava in quel luogo per una ragione puramente sentimentale. Era lì che si erano incontrati la prima volta, e li tornavano a incontrarsi a ogni anniversario di quel primo incontro. Naturalmente Deamone non si era reso conto che il relativo isolamento del luogo poteva renderlo facile vittima di un eventuale assassino. Ma chi avrebbe mai pensato a una tale possibilità nella Città Alta? Se le cose si fossero svolte normalmente il delitto avrebbe potuto restare celato per molti giorni. Viceversa la moglie di Deamone giunse sul teatro del crimine mezz’ora dopo che questo era stato commesso. Il fatto di non aver trovato ad attenderla il marito la stupì poiché egli non era tipo, spiegò, da andarsene seccato per un suo lieve ritardo. Per questo le venne in mente che potesse essere entrato ad attenderla nella “loro” grotta. Che impressione fa, Borgomastro, uccidere un uomo a sangue freddo, lasciandolo ritrovare dalla propria moglie proprio nel luogo che era stato per entrambi il più ricco di felici memorie?»

Terens si sentiva soffocare. Riuscì a balbettare, dilaniato tra la collera e l’abbattimento: «Voialtri sarkiti avete ammazzato milioni di floriniani. Donne. Bambini. Vi siete impinguati del nostro sangue. Questo panfilo…»

«Deamone non era responsabile dello stato di cose che ha trovato già instaurato al momento della propria nascita» disse Genro. «Se tu fossi nato sarkita che cosa avresti fatto? Avresti rinunciato ai tuoi beni e ti saresti messo a lavorare nei campi di kyrt?»

«Ebbene, spara, dunque» gridò Terens fuori di sé. «Che cosa aspetti?»

«Non c’è fretta. Voglio prima finire il mio racconto. La situazione era alquanto complessa. Eri un uomo disperato, eri armato, e se ti fossi visto in trappola ti saresti indubbiamente ucciso. Ora il suicidio tuo era una cosa che noi non volevamo. Hanno bisogno di te, su Sark, e ti vogliono in perfetta efficienza. Ho dovuto lottare parecchio per convincere il Ministero degli Interni che sarei riuscito a tenerti a bada da solo, trasportandoti su Sark senza chiasso e senza difficoltà. E devi ammettere che è precisamente quanto sto facendo. Per dire il vero mi sono chiesto a tutta prima se eri proprio tu il nostro uomo. Ho esitato e ti ho messo alla prova in vari modi. Ho finto di usare le chiavi della nave nel punto sbagliato. Nessun mezzo spaziale si è mai aperto sul lato destro della camera di decompressione. Si apre sempre invariabilmente sul lato sinistro. Ma tu non ti sei mostrato per nulla sorpreso del mio errore. Poi ti ho chiesto se la tua nave avesse mai compiuto il tragitto Sark-Florina in circa sei ore. Mi hai risposto di sì… che ciò ti era accaduto qualche volta, il che è davvero straordinario, poiché il tempo di primato sinora raggiunto supera le nove ore. Ho deciso allora in cuor mio che dovevi essere l’uomo che cercavamo.»

Terens non aveva mai distolto gli occhi dal fucile.

Genro disse: «Naturalmente io non devo ucciderti, anche se tu cercherai di assalirmi. Non posso ucciderti neppure per legittima difesa. Non credere però che questo ti metta in posizione di vantaggio. Se tenti anche soltanto una mossa ti faccio schizzar via una gamba.» Proseguì con dolcezza: «Lo sai perché ti dico tutto questo?»

Terens non rispose.

«Prima di tutto» disse Genro «mi piace vederti soffrire. Gli assassini mi fanno ribrezzo e detesto soprattutto gli indigeni che ammazzano i sarkiti. Mi è stato dato l’ordine di consegnarti vivo, ma nelle istruzioni che ho ricevuto non è contemplato che io debba renderti la traversata piacevole. Secondariamente è necessario che tu sia pienamente al corrente della situazione perché non appena saremo su Sark le prime mosse spetteranno a te.»

Terens lo guardò stupito. «Come?»

«Il Ministero degli Interni sa che tu sei in viaggio. L’ufficio regionale floriniano lo ha informato non appena questo mezzo si è staccato dall’atmosfera di Florina. Di ciò puoi essere sicuro. Ma ho detto che era per me di somma importanza convincere gli Interni che sarei riuscito a tenerti a bada da solo e il fatto che li abbia convinti cambia tutta quanta la situazione.»

«Non capisco» disse Terens al colmo dell’esaperazione.

Senza scomporsi Genro replicò: «Quando ho detto che ti volevano su Sark in perfetta efficienza non intendevo alludere agli Interni, ma a Trantor!»

14

Selim Junz non era mai stato di temperamento flemmatico e un anno di attesa non era certo servito a migliorare quell’aspetto del suo carattere.

Quando Junz ebbe finito di sbraitare che per nessuna ragione al mondo Sark poteva permettersi la libertà di rapire e imprigionare un membro dell’U.S.I., indipendentemente dalle condizioni della rete spionistica di Trantor, Abel si limitò a dire: «Io penso che le converrebbe trascorrere la notte qui, dottore.»

«Ho di meglio da fare, grazie» disse Junz, gelido.

Abel riprese: «Certo, amico, certo. Con tutto ciò Sark dev’essere diventato molto audace per osare di uccidere i miei uomini, e temo fortemente che prima di domani possa capitare anche a lei qualche disgrazia. Lasci dunque che passi stanotte, e vediamo che cosa ci porta il nuovo giorno.»

Le proteste di Junz contro l’inazione dell’Ambasciatore caddero nel vuoto. Senza perdere il suo tono distratto e indifferente Abel si mostrò all’improvviso duro d’orecchio e Junz venne scortato con cortese fermezza in una camera destinata agli ospiti dell’Ambasciata.

Una volta a letto cominciò a fissare il soffitto affrescato, vagamente luminescente e comprese che non sarebbe riuscito ad addormentarsi. A un tratto però si senti investire da una deboia zaffata di gas somnium e prima che gli giungesse la seconda già era caduto in un sonno di piombo.

Fu risvegliato nella fredda mezza luce dell’alba. Sbatté le palpebre e vide Abel.

«Che ora è?» chiese.

«Le sei.»

«Spazio Onnipotente! Come è mattiniero.»

«Non mi sono neppure coricato.»

«Che cosa?»

«Già. E le assicuro che sono stanco. Non rispondo all’anti-somnium con la stessa prontezza di quando ero giovane.»

«Scusi un momento» disse Junz.

Per una volta la sua toletta mattutina prese effettivamente poco più di un attimo.

«Ebbene?» domandò rientrando nella camera. «Non mi avrà svegliato alle sei del mattino solo per fare quattro chiacchiere, immagino.»

«D’accordo» Abel sedette sul letto e scoppiò in una risata stridula. «Mi scusi» disse poi «non sono completamente me stesso. Questo dover star sveglio per forza mi rende un po’ euforico. Quasi quasi finirò col chiedere a Trantor di sostituirmi con un elemento più giovane.»

Junz disse con una punta di sarcasmo e con un’improvvisa speranza: «Ha forse saputo che non hanno acciuffato lo Spazio-Analista?»

«No. Purtroppo l’hanno preso. Temo che la mia ilarità sia dovuta unicamente alla constatazione che le nostre reti sono intatte. Senza dubbio sapevano che Khorov era uno dei nostri agenti, e può darsi che ne conoscano altri, sparsi su Florina, ma si tratta di agenti secondari. I sarkiti lo sapevano, e si sono sempre limitati a tenerli d’occhio.»

«Però adesso ne hanno ucciso uno» obiettò Junz.

«Niente affatto» ribatté Abel. «È stato un compagno dello Spazio-Analista travestito da pattugliatore, a ucciderlo.»

Tunz lo guardò sbalordito. «Non capisco» dichiarò.

«È una storia alquanto complicata. Vuole seguirmi in sala da pranzo? Ho una fame che non ci vedo.»

Arrivati al caffè, Abel si decise finalmente a raccontare le vicende delle ultime trentasei ore.

Junz lo fissava sbalordito. Posò la tazza, ancora mezzo piena, dimenticandosi di vuotarla. «Anche ammesso che si siano imbarcati clandestinamente, proprio su quel mezzo» disse «rimane pur sempre il fatto che potrebbero non averli scoperti. Se manderà qualcuno a incontrarli nel momento in cui la nave atterrerà…»

«Sa benissimo che a bordo di una nave moderna è impossibile che passi inosservata la presenza di un eccesso di irradiazione emanato da un corpo umano.»

«Può darsi che non l’abbiano notata. Gli strumenti possono essere infallibili, ma gli uomini no.»

«Poco probabile. Comunque, ascolti. Nel momento esatto in cui la nave con lo Spazio-Analista a bordo si starà avvicinando a Sark ci sono ottime probabilità che il Signore di Fife si trovi in conferenza con gli altri Grandi Signori. Queste conferenze intercontinentali sono distanziate l’una dall’altra, quanto le stelle della Galassia. Crede che si tratti di coincidenza?»

«E tengono una conferenza intercontinentale per uno Spazio-Analista?»

«Di per sé si tratta di un argomento senza importanza, infatti. Noi però lo abbiamo reso importante. Da un anno l’U.S.I. sta cercando quell’uomo con notevole tenacia.»

«Non l’U.S.I.» disse Junz. «Io. Io ho sempre lavorato in veste ufficiosa.»

«I Signori però ignorano questo particolare, e anche se glielo dicessimo non ci crederebbero. Del resto, anche Trantor si è interessato alla cosa.»

Junz chiese: «Come fa a sapere tutto questo?»

«Tutto che cosa?»

«Tutto, in nome della Galassia! Come e quando lo Spazio-Analista si è imbarcato clandestinamente, come e in che modo il Borgomastro è riuscito a sfuggire alla cattura. Sta cercando d’ingannarmi?»

«Mio caro dottor Junz!»

«Lei stesso ha ammesso che, indipendentemente da me, i suoi uomini sorvegliavano lo Spazio-Analista, e la notte scorsa ha provveduto a togliermi dalla circolazione.»

«Dottor Junz, ho passato la notte in costante comunicazione con alcuni miei agenti. Bisognava che lei fosse fuori di circolazione, per usare le sue parole, e che al tempo stesso fosse al sicuro. Quanto le ho riferito, l’ho appreso dai miei agenti soltanto stanotte.»

«Per sapere quel che ha saputo bisognerebbe che avesse delle spie nello stesso governo sarkita.»

«Ma si capisce!»

Junz ebbe uno scatto. «Oh, andiamo.»

«Si stupisce? Certo, Sark è proverbiale per la stabilità del suo governo e per la fedeltà del suo popolo. La ragione di ciò è abbastanza semplice, se si pensa che anche il sarkita più povero è un aristocratico in paragone ai floriniani, e può pertanto considerarsi, anche se sbaglia, un membro della classe dirigente. Rifletta, tuttavia, che Sark non è poi quel mondo di miliardari che la maggior parte degli altri abitanti della Galassia ritiene. Esiste dunque sempre un certo numero di sarkiti i quali, nella loro insofferenza, si sentono urtati da quella piccola frazione della popolazione sfacciatamente annegata nel lusso, e pertanto si prestano di buon grado ai miei scopi.»

«Questi sarkiti minori, ammesso che esistano» disse Junz «non possono recarle gran beneficio.»

«Ci sono persino membri della classe dominante vera e propria che hanno imparato a memoria le lezioni di questi ùltimi due secoli e sono convinti che alla fine sarà Trantor a stabilire il proprio potere su tutta la Galassia, e secondo me non hanno torto.»

Junz ebbe una smorfia di disprezzo. «A sentire parlare lei la politica interstellare diventa un gioco molto sudicio.»

«Sì, ma non basta criticare il sudiciume per toglierlo di mezzo. Né d’altronde tutte le sfaccettature di questa politica sono irrimediabilmente sporche. Pensi agli idealisti. Pensi ai pochi funzionari del governo sarkita, i quali servono Trantor non già per denaro o sete di potere ma unicamente perché ritengono che un governo galattico unificato sia per l’umanità la via migliore e sono certi che soltanto Trantor è in grado di costituire un tale governo. Uno di questi uomini, il mio elemento migliore, si trova al Ministero degli Interni di Sark, e in questo momento mi sta portando il Borgomastro.»

«Ma se mi aveva detto adesso che è stato catturato?»

«Dal Ministero degli Interni, sì. Ma l’uomo, oltre che dipendere dal Ministero degli Interni, dipende anche da me. Certo, dopo questo fatto, la sua utilità sarà molto diminuita.»

«E adesso che cosa ha in mente di fare?»

«Ancora non lo so. Prima di tutto dobbiamo impadronirci del Borgomastro. Sono sicuro di lui solo sino al momento in cui giungerà all’astroporto. Quel che accadrà in seguito…» Abel si strinse nelle spalle, quindi aggiunse: «Anche i Signori saranno in attesa del Borgomastro. Hanno l’impressione di averlo già in pugno, e sino a quando non sarà in mano loro, o nostra, nient’altro potrà accadere.»

Ma questa affermazione doveva rivelarsi errata.

Teoricamente parlando, le varie ambasciate estere conservavano in tutta la Galassia diritti extraterritoriali sulle zone immediatamente adiacenti alla loro ubicazione. In pratica, però, Trantor soltanto riusciva a tutelare efficacemente l’indipendenza dei suoi inviati.

L’area dell’Ambasciata trantoriana copriva circa un miglio quadrato e nei suoi limiti montavano costantemente la guardia uomini armati in uniforme trantoriana. Nessun sarkita poteva accedervi se non invitato, e in ogni caso nessun sarkita armato. Certo, l’efficienza degli uomini e delle armi di Trantor non avrebbe potuto resistere all’attacco deciso, sia pure di un semplice reparto corazzato sarkita, per più di due o tre ore, ma dietro a quell’esile nucleo si nascondeva il potere di rappresaglia del complesso organizzato di un milione di mondi.

Tuttavia la giro-nave apparsa in quel momento sul porticciolo privato non era né attesa né trantoriana. Il piccolo nerbo dell’Ambasciata fu prontamente e bellicosamente raccolto e un cannone atomico puntò nell’aria il suo tozzo muso mentre si alzavano gli schermi di protezione.

Il tenente Camrum distolse lo sguardo dal mirino e disse: «Non capisco. Grida che lo faranno saltare per aria tra due minuti se non lo facciamo scendere, e reclama diritto di asilo.»

In quel momento entrò il capitano Elyut, il quale gli rispose: «Figurati! Se gli diamo retta, Sark protesterà dicendo che c’intromettiamo nella sua politica, e se Trantor decide di dargli ragione, tu e io saremo spazzati via come due ramazze. Chi è?»

«Non vuol dirlo» rispose il tenente. «Sostiene che deve parlare con l’Ambasciatore personalmente. Dimmi un po’ tu quel che devo fare.»

L’apparecchio ricevente a onde corte si mise a sputacchiare, e una voce incollerita urlò: «Ma non c’è nessuno, laggiù? Badate che scendo e basta. Vi giuro che non posso aspettare neppure un secondo di più.»

Il capitano disse: «Spazio Onnipotente, conosco quella voce. Fallo scendere! Sulla mia responsabilità!»

Gli ordini scattarono. La giro-nave si abbassò verticalmente, un po’ più in fretta del necessario, segno evidente che la mano che ne regolava i comandi era quella di un pilota inesperto e spaventato. Il cannone atomico mantenne la mira.

Il capitano stabilì una linea diretta con Abel e tutta l’Ambasciata piombò nel più indescrivibile trambusto. La formazione di navi sarkite, apparsa sulla zona meno di dieci minuti dopo che il primo vascello era atterrato, restò librata per due ore in minacciosa attesa, quindi si allontanò.

Sedettero a pranzo, Abel, Junz, e il nuovo venuto. Con straordinario sangue freddo, soprattutto considerate le circostanze, Abel si era comportato sino a quel momento come il più perfetto degli anfitrioni, astenendosi per ore intiere dal chiedere al Grande Signore come mai avesse invocato diritto di asilo.

Junz era assai meno paziente. Di tanto in tanto sibilava ad Abel in un orecchio: «Santo Spazio! Che cosa ne farete di quello lì?»

Per tutta risposta Abel si limitava a sorridere: «Niente. Almeno sino a quando non saprò se il Borgomastro è in mano mia o no. Voglio conoscere con esattezza quali sono le mie carte, prima di gettarle in tavola; e dal momento che è stato lui a venire da me, l’attesa roderà più i suoi nervi che i nostri.»

E non s’ingannava. Per ben due volte il Signore si lanciò in un rapido monologo, e per due volte Abel disse: «Mio caro amico! Io ritengo che le conversazioni serie siano sempre sgradevoli a stomaco vuoto.»

Poco dopo sedevano a tavola.

Non appena servito il vino, il Signore riattaccò dicendo: «Vorrete certamente sapere per quale motivo io abbia lasciato il Continente di Steen.»

«Francamente non riesco a concepire quale possa essere la ragione che ha indotto il Signore di Steen a sottrarsi ai vascelli sarkiti» ammise Abel.

Steen lo squadrò sospettosamente. La sua faccia pallida, magra, era tesa, contratta.

Disse: «C’è stata una conferenza intercontinentale, oggi.»

«Davvero?» disse Abel.

Ascoltò quindi il resoconto della conferenza senza batter ciglio.

«E noi non abbiamo che ventiquattr’ore» scoppiò Steen con indignazione.

«E lei è X» gridò Junz, che durante il racconto dell’altro era divenuto sempre più inquieto. «È X. È venuto qui perché l’hanno scoperto. Bene, questa è una gran bella cosa. Abel, abbiamo finalmente la prova che cercavamo per stabilire l’identità dello Spazio-Analista. Ci potrà servire per costringerli a consegnarci il nostro uomo.»

La voce esile di Steen durava fatica a farsi udire sopra il forte timbro baritonale di Junz.

«Ma insomma… la smetta! Mi lasci parlare, le dico… Eccellenza, non riesco a ricordare il nome di quest’uomo.»

«Il dottor Selim Junz, Signore.»

«Ebbene, dottor Selim Junz, io le assicuro che in vita mia non ho mai veduto questo idiota, o Spazio-Analista, o quel diavolo insomma che lei dice. Francamente! E la prego di credere che non sono X. Ma come si può credere alla ridicola pantomima impiantata da Fife? Francamente!»

Ma Junz si era attaccato a quell’idea come un cane all’osso. «Perché è scappato, allora?»

«Santo Sark, ma non lo capisce? Oh, mi sento soffocare! Ma andiamo, non capisce quello che sta facendo Fife?»

Abel intervenne con la sua voce calma. «Se vorrà avere la compiacenza di spiegarsi, Signore, non ci saranno interruzioni, lo garantisco.»

«Bene, meno male che lei almeno mi capisce» disse Steen, in tono di dignità offesa. «Gli altri non mi giudicano un gran che perché io non capisco per quale motivo ci si debba annoiare a leggere documenti e dati statistici e altre seccature del genere. A che serve allora l’Amministrazione Civile, io vorrei sapere, se un Grande Signore non può essere un Grande Signore? Questo però non significa che io sia uno scemo, sa, solo perché mi piacciono i miei comodi. Può darsi che gli altri siano ciechi, ma io ho perfettamente capito che a Fife non importa niente dello Spazio-Analista. Non credo neppure che esista. Fife ha inventato questa storia un anno fa, e da allora è andato manipolandola. È stato lui ad architettare questa inverosimile frottola di deficienti e di Spazio-Analisti. Non mi stupirebbe se l’indigeno che va in giro ad ammazzare pattugliatori a dozzine fosse una spia di Fife. O se effettivamente è un indigeno, scommetto che Fife lo ha assoldato per suo uso e consumo. Comunque, è evidente che lui approfitta della situazione confusa per proclamarsi dittatore di Sark. Non sembra evidente anche a lei? Questo X non esiste, ma domani, se nessuno lo fermerà, Fife farà diffondere per sub-etere messaggi su messaggi in cui si seguiterà a parlare di congiure, e si leggeranno dichiarazioni di emergenza che gli permetteranno di autoproclamarsi Capo. Che gliene importa a lui della costituzione? Solo che io intendo fermarlo, invece. Per questo ho dovuto andarmene. Se fossi rimasto a Steen, a quest’ora sarei già in stato di arresto. Non appena la conferenza ebbe termine feci chiamare il mio porto personale e seppi che i suoi uomini l’avevano già occupato. Ha agito in completo disprezzo dell’autonomia continentale. È stato un gesto da farabutto. Francamente! Ma non è poi così furbo come crede. Ritenendo che qualcuno di noi volesse tentare di abbandonare il pianeta, ha fatto sorvegliare gli astroporti ma… non ha pensato ai giroporti. Credeva forse che non ci sarebbe stato sul pianeta un solo posto sicuro per noi. Ma si è evidentemente dimenticato dell’Ambasciata trantoriana.»

Abel disse: «Lei ha lasciato una famiglia dietro di sé. Non ha pensato che così facendo consegnava nelle mani di Fife un’arma pericolosa?»

«Non potevo certo ammucchiare nel mio piccolo giroplano tutte le mie graziose donnine.» Arrossì. «Ma Fife non oserà toccarle! Del resto domani sarò di ritorno a Steen.»

«In che modo?» domandò Abel.

Steen lo guardò stupito, le labbra sottili socchiuse. «Io sono venuto a offrirle un’alleanza, Eccellenza. Non vorrà farmi credere che Trantor non s’interessi a Sark. Dirà a Fife che quasiasi suo tentativo di abrogare la costituzione provocherebbe un immediato intervento trantoriano.»

«E come potremmo impedire che un nostro intervento non si sviluppi in un conflitto galattico?»

«Oh, ma francamente, non capisco come non si renda conto che la cosa è chiara quanto la luce del sole. Voi non sareste degli aggressori. Vi limitereste a impedire una guerra civile e a mantenere fermo il traffico del kyrt. Io annuncerei a tutti che ho dovuto rivolgermi a voi per aiuto. Chi mai penserebbe a una aggressione? Tutta la Galassia si schiererebbe al vostro fianco. Naturalmente, se poi Trantor ne traesse qualche beneficio in seguito, questo è un affare che non riguarda nessuno.»

Abel disse: «Non posso credere che abbia sinceramente l’intenzione di unirsi a Trantor.»

Un’espressione di odio passò per un attimo sulla faccia di Steen, quindi il Signore mormorò: «Meglio Trantor che Fife.»

«A me non piace la minaccia della forza. Non possiamo aspettare e vedere lo sviluppo degli avvenimenti…»

«No, no» interruppe Steen. «Non possiamo aspettare neppure un giorno. Francamente! Se non ci mostriamo decisi ora, subito, sarà troppo tardi. Se lei mi aiuterà adesso, il popolo di Steen mi appoggerà e gli altri Grandi Signori si uniranno a me. Ma se rimandiamo anche di un giorno solo, la propaganda di Fife comincerà a macinare menzogne su menzogne, e io sarò tacciato di tradimento, sarò segnato a dito come un rinnegato. Francamente! Un rinnegato io! Io!»

«Se provassimo a chiedergli di concederci un colloquio con lo Spazio-Analista?»

«A che servirebbe? Semplicemente a favorire il suo doppio gioco. A noi dirà che l’idiota floriniano è uno Spazio-Analista, ma a voi dirà che lo Spazio-Analista è un idiota floriniano. Non conosce quell’uomo. È semplicemente spaventoso!»

Abel non rispose subito. Si mise a canticchiare a voce bassa, battendo dolcemente il tempo con l’indice. Infine disse: «Abbiamo acciuffato il Borgomastro, sa?»

«Quale Borgomastro?»

«Quello che ha ucciso i pattugliatori e il sarkita.»

«Oh! Be’, francamente! E lei crede che Fife si curi di una simile piccolezza, se ha deciso di papparsi tutto Sark?»

«Credo di sì. Vede, non è soltanto per il fatto che abbiamo acciuffato il Borgomastro quanto per le circostanze della sua cattura. Io ritengo, Signore, che Fife mi ascolterà, e con molta attenzione, per giunta.»

15

Non capitava spesso alla Dama Samia di Fife di sentirsi umiliata, ed era senza precedenti, e addirittura inconcepibile, che lei si sentisse umiliata da molte ore, ormai.

Il Comandante dell’astroporto si stava comportando tale e quale come il capitano Racety. Alla fine lei si vide costretta più che a impartire degli ordini a reclamare dei diritti come una sarkita qualsiasi. Disse: «Immagino che come cittadina avrò il diritto di attendere una qualsiasi nave in arrivo se questo mi va.»

Il Comandante si schiarì la voce, e l’espressione di rincrescimento che gli alterava la faccia rugosa divenne ancora più intensa. Infine disse: «Per essere esatti, Signora, non abbiamo alcun desiderio di tenerla lontana. Solo che abbiamo ricevuto ordini specifici dal Signore suo padre d’impedirle di accostarsi alla nave.»

Samia chiese con voce gelida: «In poche parole mi sta ordinando di lasciare il porto?»

«No, Signora.» Il Comandante era felice di poter giungere a un compromesso. «Non abbiamo ricevuto l’ordine di allontanarla dal porto. Se desidera rimanere può farlo. Ma, con tutto il dovuto rispetto, dovremo impedirle di avvicinarsi alle rampe.»

Dopodiché scomparve, e Samia restò chiusa nel futile lusso della sua vettura aeroterrestre privata, a trenta metri dall’ingresso più periferico del porto. L’avevano aspettata e ora la stavano sorvegliando, e probabilmente avrebbero continuato a sorvegliarla. Se avesse fatto tanto da mandare avanti una sola ruota, pensò con sdegno, quasi certamente le avrebbero bloccato la macchina.

Strinse i denti. Non era giusto che suo padre la trattasse a quel modo. Era sempre la stessa storia. Tutti la trattavano come se lei non capisse nulla. Eppure aveva avuto l’impressione che suo padre almeno l’avesse compresa.

Si era alzato dal suo scanno per venirle incontro. L’aveva baciata e abbracciata, aveva per lei interrotto il suo lavoro.

Le aveva detto: «Mia piccola, ho contato le ore. Non avrei mai immaginato che il viaggio da Florina a qui fosse così lungo. Quando ho saputo che quegli indigeni si erano nascosti sulla tua nave non so come non sono impazzito per l’angoscia.»

«Ma papà! Non era il caso che tu ti preoccupassi.» Aveva chiesto poi con tono di finta indifferenza: «Che cosa farai di quei due clandestini, papà?»

«Perché vuoi saperlo, Mia?»

«Non credi che abbiano in mente di assassinarti, vero?»

Fife sorrise: «Ma certamente no.»

«Bene! Perché io ho parlato con loro, papà, e non credo nel modo più assoluto che possano essere delle creature pericolose come vorrebbe far credere il capitano Racety.»

«E come vorresti che li trattassi?»

«Prima di tutto, l’uomo non è un indigeno; proviene da un pianeta che si chiama Terra, è stato sottoposto a sondaggio psichico e non è responsabile.»

«Be’, di questo si occuperà il Ministero degli Interni. Lascia fare a loro.»

«No, è cosa troppo importante perché altri se ne occupino. Non capirebbero. Nessuno ne capisce niente, tranne me!»

«Davvero, Mia?» aveva domandato Fife in tono indulgente.

Samia aveva ripetuto con energia: «Sì, sì, è così! Chiunque altro crederà che quell’uomo è pazzo, ma io sono sicura che non lo è. Lui sostiene che un pericolo gravissimo incombe su Florina e su tutta la Galassia. È uno Spazio Analista, e tu sai che quella gente è specializzata in cosmogonia. Perciò non può sbagliarsi.»

«Come sai che è uno Spazio-Analista, Mia?»

«Lo dice lui.»

«E in che cosa consisterebbe, esattamente, questo pericolo?»

«Non lo sa. È stato sondato psichicamente. Non capisci che questa è la prova più evidente? Sapeva troppe cose. Qualcuno aveva interesse a impedirgli di parlare. Non capisci che se le sue teorie fossero state false non vi sarebbe stato alcun bisogno di psicosondarlo?»

«Perché non l’hanno ammazzato, allora?»

Samia aveva pensato per un attimo, senza esito, quindi aveva risposto: «Se tu darai ordine al Ministero degli Interni di lasciare che gli parli, riuscirò a saperlo. Quell’uomo ha fiducia in me. Ne sono sicura. Riuscirò certamente a ottenere più io da lui che non tutti gli Interni riuniti. Ti prego, papà, di’ agli Interni che me lo lascino vedere. È molto importante.»

Fife aveva sorriso. «Abbi pazienza, Mia. Non è ancora venuto il momento. Tra poche ore avremo in mano nostra anche il terzo personaggio. Dopo, forse.»

«Il terzo personaggio? Sarebbe per caso l’indigeno che ha ammazzato tutta quella gente?»

«Appunto. La nave che lo trasporta atterrerà tra un’ora circa.»

«E mi prometti che sino a quel momento non prenderai nessuna misura contro la ragazza indigena e lo Spazio-Analista?»

«Te lo prometto.»

«Molto bene! Vado subito incontro alla nave.» Così dicendo si era alzata.

«Dove vai, Mia?»

«Al porto, papà. Ho molte cose da chiedere a quell’indigeno.»

Ma Fife aveva detto con voce grave: «Preferirei che tu non ci andassi.»

«E perché no?»

«È importantissimo che l’arrivo di quest’uomo si svolga nel modo più discreto, mentre la tua presenza al porto farebbe troppo spicco.»

«Ma perché?»

«Non posso spiegare a te la ragion di Stato, Mia.»

«Quante storie!» Si piegò verso di lui, gli diede un rapido bacio in mezzo alla fronte e scomparve.

Ed ecco che adesso era costretta a sedere quasi prigioniera nella propria macchina, in prossimità del porto, mentre in lontananza un puntolino nel cielo, scuro contro la luminosità del pomeriggio inoltrato, si andava rapidamente ingrossando.

Premette il pulsante che apriva lo scomparto-armadio e ne tolse un paio di lenti polarizzate.

Perlomeno ne avrebbe veduti i passeggeri quando fossero sbarcati, li avrebbe studiati in lontananza, avrebbe fatto in modo di fissare un colloquio con loro in seguito.

Sark riempiva il visischermo. Un continente e un mezzo oceano, parzialmente oscurati da una fitta coltre di nubi, si stendevano in basso.

Genro disse: «L’astroporto non sarà molto sorvegliato. Sono stato io stesso a chiederlo. Ho suggerito che un insolito spiegamento di forze all’arrivo della nave avrebbe potuto mettere Trantor sul chi va là. Mi servirò della fossa di atterraggio che si trova in prossimità della Porta Orientale. Tu uscirai dall’uscita di sicurezza di poppa non appena io atterrerò. Dirigiti in fretta, ma senza correre, verso quella porta. Ho dei documenti che possono permetterti di passare senza noie, ma lascio a te di agire se incontrassi degli ostacoli. Appena fuori del cancello troverai una macchina pronta che ti starà aspettando per portarti all’Ambasciata. Questo è tutto.»

«E tu?»

Genro rispose con un sorriso freddo, senza gioia: «Tu preoccupati di te stesso e basta. Quando si accorgeranno che sei scomparso può darsi che mi fucilino come traditore. Se tuttavia mi ritroveranno in stato di incapacità fisica a impedirti la fuga, posso sperare che si limitino a radiarmi come imbecille. Penso che quest’ultima soluzione sia preferibile, e perciò ti prego, prima di andartene, di usare su di me una frusta neuronica.»

Il Borgomastro disse: «Lo sai cosa significa?»

«Certo.» Lievi gocce di sudore gli bagnavano le tempie.

«Come puoi essere sicuro che io non ti faccia fuori, dopotutto? Lo sai che sono un ammazza-Signori.»

«Lo so» disse Genro. «Ma ammazzandomi non faresti nulla di positivo. Ti servirebbe solo a sprecare del tempo prezioso. Ho corso rischi anche peggiori. Voglio sperare che tu non ti metta in testa di agire per conto tuo. Sark non è il posto adatto per iniziative individuali. Si tratta di scegliere tra Trantor o i Signori. Ricordatelo. Se Trantor non ti avrà in capo a un’ora, cadrai nelle mani dei Signori prima di sera. Non ti posso garantire quel che ti farà Trantor, ma posso garantirti quel che ti farà Sark.»

Il porto appariva ora visibilissimo sul visischermo, ma Genro non lo guardava più. Si occupava unicamente degli strumenti, preparandosi alla manovra di atterraggio. La nave si volse lentamente nell’aria, a un miglio di altezza, e si librò a coda in giù.

Genro disse: «Prendi la frusta. Svelto. Ogni secondo è essenziale. La camera di emergenza si chiuderà alle tue spalle. Passeranno cinque minuti prima che si chiedano come mai non apro la camera centrale, altri cinque perché facciano irruzione qui dentro, e ancora altri cinque perché ti trovino. Hai quindici minuti in tutto per uscire dal porto e salire sulla macchina»

Il panfilo s’inclinò maestosamente e piano piano si coricò su un fianco.

Genro disse: «Muoviti!» Aveva l’uniforme bagnata di sudore.

Terens avvertì immediatamente l’aria frizzante dell’autunno sarkita. I giorni che aveva spesi nell’Amministrazione Civile gli tornarono bruscamente alla memoria come se non si fosse mai allontanato da quel mondo di Signori.

Solo che adesso era un fuggiasco, marcato a fuoco dal più nero dei delitti, l’omicidio di un Signore.

Cercava di soffocare nel rumore dei propri passi il battito greve del suo cuore. Si era lasciato alle spalle la nave e in essa Genro irrigidito nell’agonia della frusta.

Lo avevano veduto uscire dalla nave?

Certamente no, altrimenti a quest’ora l’inseguimento avrebbe già avuto inizio.

Si portò rapidamente una mano al berretto che aveva tuttora calcato sino alle orecchie, e il medaglioncino che vi era ora attaccato gli parve stranamente liscio, sotto il contatto delle sue dita. Genro aveva detto che gli sarebbe servito come documento di identificazione. Gli uomini di Trantor ne avrebbero veduto il luccichio nel sole. Odiava e temeva Trantor, ma sapeva che in ogni caso non poteva e non doveva assolutamente cadere in mano a Sark.

«Ehi! Laggiù!»

Terens s’irrigidì. Alzò la testa spaventato. L’uscita era ancora parecchio lontana. Se si fosse messo a correre… ma non avrebbero mai lasciato uscire un uomo di corsa.

La giovane donna era sporta dal finestrino di una macchina quale Terens non aveva mai veduta, neppure in tutti i quindici anni in cui era rimasto su Sark. Scintillava metallica in un barbaglio di gemmite translucida.

La donna disse: «Venga qui.»

Terens si avvicinò lentamente alla vettura. Genro gli aveva detto che all’uscita dal porto avrebbe trovato ad aspettarlo una macchina di Trantor. Ma come mai avevano mandato una donna per un simile incarico? Una ragazza, anzi, per essere più esatti. Una ragazza bruna, bellissima.

La sconosciuta disse: «È arrivato con la nave che ha atterrato poco fa, vero?»

Terens non rispose.

La sconosciuta si spazientì. «Andiamo, l’ho vista mentre lasciava la nave!»

Terens mormorò: «Sì, sì».

«Salga, dunque.»

Gli aveva aperto lo sportello.

«Fa parte dell’equipaggio?» gli domandò.

Lo stava mettendo alla prova, evidentemente. Terens rispose: «Sa benissimo chi sono» e alzò meccanicamente una mano a indicare il medaglione.

Silenziosamente la macchina fece marcia indietro e girò.

Al cancello Terens si ritrasse, rannicchiandosi sul morbido sedile ricoperto di kyrt, ma fu una precauzione inutile. La ragazza disse con voce imperiosa, perentoria: «Quest’uomo è con me. Io sono Samia di Fife.»

Ci vollero parecchi secondi perché quelle parole filtrassero nello stanco cervello di Terens. Quando si riebbe la macchina era già lanciata a centinaia di chilometri all’ora lungo l’autostrada speciale.

Fuori del porto uno dei due uomini che si trovavano seduti in una vettura aeroterrestre chiese seccato: «È salito su una macchina con una ragazza? Quale macchina? Quale ragazza?» Nonostante il costume sarkita il suo accento era spiccatamente quello dei mondi arturiani dell’Impero di Trantor.

Il suo compagno era sarkita, e assai competente in fatto di notiziari visitrasmessi. Non appena la macchina in questione uscì maestosamente dal cancello e andò acquistando rapidamente velocità, si alzò a metà sul sedile ed esclamò: «Ma quella è la macchina della Dama Samia. Non c’è n’è un’altra uguale in tutto Sark. Santa Galassia, che cosa facciamo?»

«Seguiamola» disse l’altro seccamente.

«Ma la Dama Samia…»

«Per me non è niente, e non dovrebbe esserlo neppure per te. Altrimenti, che cosa ci stai a fare qui?»

Il sarkita gemette: «Non riusciremo mai a raggiungere quella macchina. Non appena si accorgerà di essere seguita mollerà tutta la resistenza.»

«Per il momento va ancora abbastanza adagio» disse l’arturiano.

Dopo qualche minuto aggiunse: «Comunque una cosa è certa: non è diretta agli Interni.»

E dopo qualche altro minuto riprese: «Non è diretta nemmeno al Palazzo di Fife.»

Il sarkita osservò: «Come possiamo sapere se è l’assassino che cerchiamo, quello? Potrebbe anche essere un trucco per portarci fuori strada. Non sta affatto tentando di squagliarsela e se non volesse essere seguita non si servirebbe di una macchina come quella che chiunque riconoscerebbe a due miglia di distanza.»

«Lo so, ma Fife non avrebbe mai mandato sua figlia a trarci in inganno.»

«Può anche darsi che non sia la Dama Samia, dopotutto.»

«È quello che dovremo scoprire, amico. Sta rallentando. Accelera e fermati vicino a una curva!»

«Ho bisogno di parlarle» disse la ragazza.

Terens comprese di non essere caduto nella trappola che a tutta prima aveva immaginata. Quella doveva essere effettivamente la Signora di Fife. Doveva esserlo per forza, poiché sembrava che non le passasse nemmeno lontanamente per il cervello che qualcuno potesse intromettersi nei suoi movimenti.

Non si era mai neppure una sola volta girata indietro per vedere se la seguivano. Tre volte, invece, a Terens non era sfuggita la macchina che teneva loro dietro.

Disse: «Sono a sua disposizione.»

Samia chiese: «Era sulla nave che trasportava l’indigeno di Florina ricercato per tutti quegli omicidii?»

«L’ho già detto: sì.»

«Benissimo. Adesso, io l’ho condotta qui in modo che nessuno ci disturbi. L’indigeno è stato interrogato, durante il viaggio a Sark?»

Tanta ingenuità non poteva essere finta, rifletté Terens. La ragazza doveva effettivamente ignorare la sua identità. Rispose cautamente: «Sì.»

«Lei è stato presente all’interrogatorio?»

«Sì.»

«Bene. Me l’ero immaginato. Perché ha lasciato la nave, a proposito?»

Disse: «Dovevo portare un messaggio speciale a…» esitò.

La ragazza fu pronta a colmare quella sua esitazione: «A mio padre, vero? Non si preoccupi. Penserò io a proteggerla nel modo più completo. Dirò che è venuto con me per mio ordine.»

Terens mormorò: «Come crede, Signora.»

La parola «Signora», affondò profondamente nella sua coscienza. Era una Dama, la prima Signora del pianeta, mentre lui non era che un floriniano. Un uomo capace di uccidere dei pattugliatori imparava facilmente a uccidere dei Signori, e per la stessa ragione un uccisore di Signori poteva benissimo guardare una Dama in faccia.

E poiché era la prima Signora del Pianeta, lei non avvertì neppure il suo sguardo. Disse: «Voglio che mi riferisca tutto quello che ha sentito durante l’interrogatorio.»

«Posso chiederle perché quell’uomo le interessa tanto, Signora?»

«No» rispose Samia seccamente.

«Come vuole, Signora.»

Terens non sapeva che cosa dire. Metà della sua coscienza aspettava che la macchina inseguitrice li raggiungesse; l’altra metà era sempre più consapevole del volto e del corpo della bellissima donna che gli sedeva accanto.

I floriniani dell’Amministrazione Civile e i Borgomastri erano teoricamente costretti al celibato. In pratica però la maggior parte di costoro si sottraeva, ogni qualvolta lo poteva, a tale restrizione. Anche Terens aveva fatto del suo meglio in questo senso, ma le sue esperienze non lo avevano mai soddisfatto.

Lei attendeva la sua risposta: i nerissimi occhi luminosi, fiammeggianti di curiosità, le rosse labbra semiaperte, la splendida figura ammantata di kyrt, e soprattutto era assolutamente ignara che un uomo, qualsiasi uomo, potesse osare d’innalzare pensieri poco riguardosi nei confronti della signora di Fife.

Quella metà della coscienza di Terens che attendeva gli inseguitori si assopì.

A un tratto lui comprese che neppure l’uccisione di un Signore rappresentava il delitto supremo, in definitiva.

Non avrebbe mai saputo dire lui stesso come avesse osato. Si accorse soltanto che il piccolo corpo di lei era tra le sue braccia, rigido, contratto, che per un attimo lei gridò, e che quel grido fu soffocato dalle sue labbra…

Si sentì afferrare per le spalle mentre una corrente di aria fredda lo investiva di schiena attraverso lo sportello aperto della vettura. Tentò d’impugnare la propria arma ma troppo tardi; già gli era stata strappata di mano.

Il sarkita mormorò con orrore: «Hai visto che cosa ha fatto?»

L’arturiano rispose: «Non sono affari nostri!» Si cacciò in tasca un piccolo oggetto nero e disse: «Portalo via.»

Il sarkita trascinò Terens fuori della macchina con l’energia che può dare solo la furia, mentre borbottava: «E Lei glielo ha permesso!»

«Ma chi siete, voi due?» gridò Samia, la quale si era ripresa.

L’arturiano disse: «Niente domande, per favore.»

«Lei è forestiero» ribatté Samia irata.

Il sarkita disse: «Per Sark, dovrei schiacciargli la testa.» E fece l’atto di mollare un pugno al prigioniero.

«Fermo» urlò l’arturiano, afferrando il polso del sarkita.

Il sarkita borbottò furibondo: «C’è un limite a tutto. Posso capire che si ammazzi un Signore. Ne ammazzerei anch’io volentieri qualcuno, ma dover assistere da lontano allo spettacolo di un indigeno che fa quel che ha fatto questo disgraziato proprio adesso, è un po’ troppo persino per me.»

Samia ripeté con voce innaturale, stridula: «Un indigeno?»

Il sarkita, con gesto maligno, strappò il berretto dalla testa di Terens. Il Borgomastro impallidì ma non si mosse. Tenne lo sguardo orgogliosamente fisso sulla ragazza.

Samia si ritrasse nel fondo della vettura, poi con un rapido movimento delle mani si coprì la faccia.

Il sarkita disse: «Che cosa facciamo della ragazza?»

«Niente.»

«Ma ci ha visti! Ci scatenerà addosso tutto il pianeta prima ancora che noi si sia a un miglio da qui.»

«Hai intenzione di far fuori la Signora di Fife?» domandò l’arturiano in tono sarcastico.

«No, certo. Però possiamo sfasciarle la macchina, e quando riuscirà a trovare un radiotelefono noi saremo al sicuro.»

«Non sarà necessario.» L’arturiano si affacciò all’interno della vettura. «Mia Signora, voglia scusare solo un attimo. Mi ascolta?»

Samia non si mosse.

L’arturiano proseguì: «Le consiglio di starmi a sentire. Mi rincresce di averla interrotta in un momento romantico, ma per buona sorte sono riuscito a sfruttare questo momento a mio uso e consumo. Ho potuto agire con prontezza registrando la scena in trifotografia. Trasmetterò la negativa in luogo sicuro appena via di qui, dopodiché ogni interferenza da parte sua mi costringerà a comportarmi in modo poco simpatico. Sono sicuro che mi capisce.»

Così detto, si allontanò. «E adesso stai certo che non parlerà. E tu vieni con me, Borgomastro.»

Terens lo seguì passivamente, senza più osar di guardare la faccia pallida e tesa della donna rimasta nella vettura.

Qualunque cosa fosse accaduta da quel momento in poi, lui aveva compiuto un miracolo. Per un breve attimo aveva baciato la più orgogliosa Dama di Sark, aveva sentito sulla sua bocca il contatto fuggevole delle sue dolci labbra fragranti.

16

Chi avesse sentito parlare Abel sul raggio personale diretto che lo collegava con Fife avrebbe creduto di ascoltare gli ameni discorsi di un uomo anziano intento a sorseggiare pacificamente un buon bicchiere di vino.

Disse: «Non è stato facile trovarla, Fife.»

Fife rise. Sembrava calmissimo, imperturbato. «Ho avuto molto da fare oggi, Abel.»

«Già, me l’hanno detto.»

«Chi? Steen?» domandò Fife con aria indifferente.

«In parte. Steen è con noi da circa sette ore.»

«Ha intenzione di riconsegnarcelo?»

«Temo di no.»

«Ma è un criminale.»

Abel rise e rigirò il calice che aveva tra le mani, osservando le pigre bollicine che ne uscivano. «Credo che dovremo riconoscerlo come rifugiato politico, e la legge interstellare lo proteggerà finché sarà in territorio trantoriano.»

«Crede che il suo governo la appoggerà?»

«Credo di sì, Fife. Non sarei in diplomazia da trentasette anni se non sapessi quello che Trantor farà e quello che non farà.»

«Potrei disporre le cose in modo che Sark esiga il vostro richiamo.»

«A che servirebbe? Io sono un uomo pacifico che lei conosce da un pezzo. Il mio successore invece potrebbe essere un uomo qualsiasi, magari antipaticissimo.»

Segui una pausa. Fife contrasse la faccia leonina. «Penso che abbia una proposta da farmi.»

«È esatto. Lei ha un nostro uomo.»

«Quale uomo?»

«Uno Spazio-Analista, un oriundo del pianeta Terra che, sia detto tra parentesi, fa parte dei possedimenti trantoriani.»

«È stato Steen a dirglielo?»

«Insieme ad altre cose.»

«Steen ha veduto questo Terrestre?»

«Non mi ha detto di averlo visto.»

«Era precisamente quanto desideravo sapere e, date le circostanze, non credo che lei possa prestare fede alle sue parole.»

Abel posò il bicchiere, incrociò le mani sulle ginocchia e disse: «Ciononostante, sono sicuro che questo Terrestre esiste. Io le ripeto, Fife, che noi ci dovremmo mettere d’accordo proprio su questo punto. Io ho Steen, e lei ha il Terrestre. In un certo senso siamo pari. Prima di dare il via ai suoi piani, prima di inviare l’ultimatum e di mettere in atto il colpo di Stato, perché non teniamo una conferenza sulla situazione del kyrt in genere?»

«Non ne vedo la necessità. Quanto sta accadendo attualmente su Sark è una semplice questione interna. Io sono disposto a garantire personalmente che non ci saranno interferenze nel commercio del kyrt, comunque si svolgano gli avvenimenti politici sarkiti. Ritengo che ciò dovrebbe porre termine alle pretese di Trantor nei confronti dell’individuo in questione.»

Abel riprese a sorseggiare il suo vino, e parve riflettere a lungo; infine disse: «Mi risulta che abbiamo un secondo rifugiato politico. Un caso curioso. È uno dei suoi sudditi floriniani, a proposito. Un Borgomastro che dice di chiamarsi Myrlyn Terens.»

Gli occhi di Fife si accesero di una fiamma improvvisa. «Ce l’eravamo più o meno aspettato. L’uomo che ha prelevato è un assassino. Non si può farne un rifugiato politico.»

«Bene. Vuole che glielo ceda?»

«Ha intenzione di contrattare, vero? Di che si tratta?» «Della conferenza di cui le ho parlato.» «Per un omicida floriniano? Neanche da pensarci.» «Eppure il modo col quale questo Borgomastro per poco non è riuscito a sfuggirci, è alquanto curioso. Le interesserà forse di sapere…»

Junz passeggiava per la stanza scuotendo la testa. Era già notte inoltrata. Avrebbe tanto voluto dormire, ma sapeva che avrebbe dovuto ricorrere un’altra volta al somnium, per riuscirci.

Abel disse: «Avrei potuto minacciare un intervento di forza, come suggeriva Steen, ma sarebbe stato pericoloso. Avrebbe comportato rischi enormi, per risultati incerti. Tuttavia sino a quando non abbiamo avuto in mano il Borgomastro non vedevo altra alternativa, fuorché, naturalmente, una politica assenteista.»

Junz scosse energicamente la testa. «No. Bisognava pure tentare qualcosa, anche se si tratta di un ricatto.»

«Tecnicamente parlando, penso che lo sia. Ma che cos’altro avrei potuto fare?»

«Esattamente quello che ha fatto. Non sono un ipocrita, Abel. O perlomeno cerco di non esserlo. Non sarò io a condannare i suoi metodi dal momento che intendo servirmi appieno dei loro risultati. Tuttavia, che cosa si fa della ragazza?»

«Nessuno le darà fastidio sino a quando Fife si atterrà ai patti.»

«Mi dispiace per lei. Ho imparato a concepire una profonda antipatia verso gli aristocratici sarkiti per il male che hanno fatto a Florina, ma non posso non provare pena per quella povera ragazza.»

«Da un punto di vista personale la capisco, ma la responsabilità vera della cosa ricade unicamente su Sark. Stia un po’ a sentire, amico mio, ha mai baciato una ragazza in una vettura aeroterrestre?»

Un breve sorriso passò sulle labbra di Junz. «Sì.»

«E anch’io ho fatto la stessa esperienza, anche se il ricordo risale a molti anni fa. Che cos’è un bacio rubato in una vettura aeroterrestre, se non l’espressione della più naturale emozione della Galassia? La prego di seguire il mio ragionamento. Ci troviamo di fronte a una ragazza di alto rango sociale la quale, per un errore, si trova nella stessa vettura assieme a… diciamo pure un criminale. Costui coglie l’occasione, e la bacia. Agisce d’impulso e senza il suo consenso. Quale dovrebbe essere la reazione della ragazza? Quale quella di suo padre? Di dolore? Forse. Di dispetto? Certamente. Ammetto anche che si possano sentire irritati, offesi, insultati. Ma disonorati? Disonorati al punto da essere disposti a mettere in pericolo gravi affari di Stato pur di evitare lo scandalo? Quale esagerazione! Eppure questa è esattamente la situazione e potrebbe verificarsi solo su Sark. La Dama Samia è colpevole unicamente di impetuosità, e di una certa dose di ingenuità. Non ha importanza che lei ignorasse che l’altro fosse floriniano. Non ha importanza che l’uomo l’abbia baciata di prepotenza. Se rendessimo di pubblico dominio la fotografia della Dama Samia tra le braccia di un floriniano, renderemmo la vita intollerabile a suo padre e a lei. Fife sa che la voce sarebbe volentieri accolta da molti ai quali uno scandalo sensazionale interessa sempre, e sa che la fotografia in questione verrebbe considerata una prova incontrovertibile. Sa inoltre che i suoi nemici politici ne trarrebbero il maggior vantaggio possibile. Chiamatelo pure un ricatto, Junz, probabilmente lo è, ma si tratta di un ricatto che su qualsiasi altro pianeta della Galassia non avrebbe alcun effetto. È stato il loro stesso sistema sociale, marcio sino al midollo, a darci in mano quest’arma, e io non ho rimorsi a usarla.»

Junz sospirò. «Qual è la decisione finale?»

«C’incontreremo domani a mezzogiorno.»

«Potrò esserci anch’io?» domandò Junz ansiosamente.

«Certo. E ci sarà anche il Borgomastro. Avremo bisogno di lui per identificare lo Spazio-Analista. Ci sarà anche Steen, naturalmente. Sarete tutti presenti in personificazione trimensica.»

«Grazie.»

«E adesso, se non le dispiace, sono due giorni e una notte che non dormo, e temo di essere ormai troppo vecchio per ingerire una dose ulteriore di somnium. Ho bisogno di riposo.»

Ora che la personificazione trimensica era giunta a uno stadio perfetto, accadeva di rado che le conferenze importanti venissero tenute a faccia a faccia. Fife era fortemente risentito della presenza materiale del vecchio Ambasciatore. Ma doveva tacere. Non poteva dire niente. Non poteva che fissare imbronciato gli uomini che gli stavano di fronte.

Abel: un vecchio rimbambito, dagli abiti trasandati, che però aveva dietro di sé un milione di mondi. Junz: un ficcanaso crespo e nero come uno scarafaggio la cui ostinazione aveva precipitato la crisi. Steen: un traditore! Il Borgomastro… Guardare quell’uomo era per lui la cosa più difficile di tutte. Era l’indigeno che col proprio contatto immondo aveva disonorato sua figlia, e che tuttavia poteva starsene al sicuro, irraggiungibile, dietro le mura dell’Ambasciata trantoriana.

Se Samia non avesse… Si costrinse a non pensarci. Era stato sempre troppo debole con lei, favorendone ogni capriccio, e non poteva biasimarla adesso.

Il Signore di Fife disse: «Questa conferenza mi è stata imposta. Non ho quindi niente da dire. Sono qui unicamente per ascoltare.»

Abel disse: «Ritengo che il primo a voler parlare sia Steen.»

Gli occhi di Fife si empirono di disprezzo infinito, che punse sul vivo Steen il quale si mise a urlare, in preda a collera violenta.

«Tu mi hai costretto a rivolgermi a Trantor, Fife. Sei stato tu a violare il principio di autonomia! Non potevi pretendere che io mi sottomettessi alla tua prepotenza.»

Fife non parlò e Abel disse, non senza una punta di disprezzo a sua volta: «Venga al dunque, Steen. Ha affermato di avere qualcosa da dire: la dica.»

«È quello che farò, e subito. Certo non pretendo di essere il poliziotto che il Signore di Fife si autoproclama di essere, però posso pensare. Francamente! E ho pensato. Fife ha raccontato ieri di un misterioso traditore che lui chiama X. Io ho capito che si trattava di un mucchio di chiacchiere dietro le quali si nascondeva per dichiarare lo stato di emergenza. Ma io non mi sono lasciato mettere nel sacco neppure per un minuto.»

«Dunque, X non esiste?» domandò Fife, calmo. «Allora perché sei scappato? Un uomo che scappa ha sempre torto.»

«Ah, davvero?» gridò Steen. «Perciò, secondo te, non si dovrebbe scappare da un edificio in fiamme anche se non siamo stati noi ad appiccare il fuoco?»

«Prosegua, Steen» disse Abel.

«Ma poi ho pensato: perché inventare una storia così complicata? Non è nel suo stile. Francamente! Non è affatto nello stile di Fife. Io lo conosco. Lo conosciamo tutti. Un uomo senza immaginazione, Eccellenza! Un bruto!»

Fife aggrottò la fronte. «Quest’uomo ha veramente qualcosa da dire, Abel, o si limita soltanto a blaterare?» chiese.

«Prosegua, Steen» disse Abel.

«È quello che farò, purché mi lasciate parlare! Oh, dunque… Mi sono detto: perché un uomo come Fife inventerebbe una storia simile? A questo interrogativo ho trovato una sola risposta: quella storia non poteva averla inventata lui, perciò era vera. Doveva essere vera. E dei pattugliatori erano stati effettivamente uccisi, anche se Fife sarebbe stato capacissimo di averli fatti uccidere lui.»

Per tutta risposta Fife si strinse nelle spalle.

Steen riprese, incalzante: «Solo, chi è X? Io no. Francamente! Lo so di non essere io! E riconosco che può trattarsi soltanto di un Grande Signore. Ma chi è il Grande Signore che ha cercato per un anno intero di sfruttare l’episodio dello Spazio-Analista per spaventare gli altri e costringerli a ciò che lui chiama uno “sforzo riunito” e che io chiamo “resa” a una dittatura di Fife? Vi dirò io chi è X.» Steen balzò in piedi e puntò un indice tremante. «È lui X. È il Signore di Fife. È stato lui a sequestrare lo Spazio-Analista, e a metterlo nell’impossibilità di nuocere quando ha capito che noi non ci eravamo lasciati impressionare dalle sue sciocche affermazioni, all’epoca della prima conferenza. Poi, quando si è sentito pronto per un colpo militare, lo ha risfoderato.»

Fife si volse ad Abel con aria stanca. «Ha finito? In caso affermativo toglietemelo dalla vista perché la sua presenza è un insulto intollerabile a qualsiasi persona per bene.»

Abel chiese: «Ha qualche commento da fare a quanto ha affermato Steen?»

«Naturalmente no! Che commento vuole che faccia? È un povero disgraziato.»

«Non credere di cavartela così a buon mercato, Fife!» gridò Steen. Rimase in piedi. «Statemi a sentire. Lui dice che i suoi agenti hanno trovato delle annotazioni nell’ambulatorio di un medico. Dice che questo medico è morto in un incidente dopo aver diagnosticato il caso dello Spazio-Analista, definendolo la vittima di un sondaggio psichico. Dice che è stato un crimine da parte di X tenere segreta l’identità dello Spazio-Analista. Questo dice. Domandatelo a lui. Chiedetegli se non è così che ha detto.»

«E con questo?» domandò Fife.

«Chiedetegli allora com’è riuscito a ottenere le annotazioni di un medico morto e sepolto da mesi, se già non le aveva in mano in precedenza. Francamente!»

Fife obiettò: «Quello che dici è semplicemente idiota. Non possiamo stare qui a perdere il nostro tempo. Un altro medico rilevò la cilentela del medico defunto unitamente alle sue registrazioni. Che cosa credete? Che le note mediche di un dottore si distruggano con la distruzione fisica dell’individuo?»

Abel disse: «No, certo.»

Steen balbettò ancora qualche parole smozzicata, quindi sedette.

Fife proseguì: «E poi? Avete altre accuse da muovere? Altro da dire?»

«Questo è stato il discorso di Steen, e per il momento lo metteremo da parte» rispose Abel. «Adesso, invece, Junz e io siamo qui per tutt’altra questione. Vorremmo vedere lo Spazio-Analista.»

«Abbiamo in custodia un uomo di mente sub-normale che afferma di essere uno Spazio-Analista. Darò ordine che sia condotto qui» disse Fife.

Valona March non avrebbe mai e poi mai immaginato che potessero esistere al mondo cose tanto straordinarie. Dal momento in cui aveva messo piede su Sark, tutto la stupiva e la meravigliava. Persino le celle della prigione nella quale lei e Rik erano stati separatamente rinchiusi erano incredibilmente lussuose.

Si era trovata in stanze dove c’erano cose che mai aveva visto. Quella in cui si trovava adesso era più grande delle altre ma pressoché spoglia. Tuttavia, conteneva più gente. Dietro alla scrivania sedeva un uomo dell’aspetto severo, poi un altro molto più anziano, tutto grinze, e infine altri tre…

E uno di questi era il Borgomastro!

Valona balzò in piedi e gli corse incontro. «Borgomastro! Borgomastro!»

Ma era soltanto un’illusione!

Il Borgomastro si era alzato e le aveva fatto un cenno. «Resta dove sei, Lona. Resta dove sei!»

La ragazza aveva toccato soltanto l’aria vuota. Si era sporta ad afferrarlo per la manica, e aveva incontrato il nulla. Restò per un attimo senza respiro.

Valona puntò un dito: «Ma non è il Borgomastro, quello?»

Rik disse a un tratto: «È una personificazione trimensica, Lona. Non è qui, ma possiamo vederlo ugualmente nel punto ove si trova.»

Valona scosse la testa. Se Rik diceva così doveva essere vero; però abbassò gli occhi: non osava guardare la gente che c’era e al tempo stesso non c’era.

Abel domandò a Rik: «Dunque lei sa che cos’è la personificazione trimensica?»

«Sì, Signore.»

«E dove l’ha imparato?»

«Non lo so. Lo sapevo prima… prima di dimenticare.»

Fife disse in tono acido: «Mi duole di aver dovuto disturbare quest’incontro con la presenza di una donna indigena isterica, ma il cosiddetto Spazio-Analista ha voluto che ci fosse anche lei.»

«Non si preoccupi» disse Abel. «Però noto con stupore che il suo floriniano di intelligenza sub-normale sembra essere a conoscenza di quel che significa personificazione trimensica.»

«Sarà stato bene ammaestrato, immagino» disse Fife.

Abel domandò: «Lo ha interrogato, dal suo arrivo su Sark?»

«Certo.»

«Con quale risultato?»

«Non ne abbiamo cavato niente di nuovo.»

Abel si rivolse a Rik: «Qual è il suo nome?»

«Rik è il solo nome che io ricordi» rispose Rik calmo.

«Riconosce nessuno dei presenti?»

Rik guardò gli astanti in faccia, a uno a uno, senza timore, infine disse: «Conosco soltanto il Borgomastro, e Lona, naturalmente.»

«Quest’uomo» disse Abel indicando Fife «è il più Grande Signore che sia mai esistito. Possiede l’intero universo. Che cosa pensa di lui?»

Rik rispose con orgoglio: «Io provengo dalla Terra, perciò non può certo possedere me.»

Abel osservò sottovoce a Fife: «Non credo che un floriniano indigeno adulto possa venire ammaestrato a dimostrare tanta baldanza.»

«E questo lo conosce?» domandò Abel, rivolgendosi nuovamente a Rik, e indicando Junz.

«No.»

«È il dottor Selim Junz. È un funzionario importante dell’Ufficio Spazio-Analitico Interstellare.»

Rik studiò attentamente lo scienziato. «Dunque, dovrebbe essere uno dei miei capi. Tuttavia» aggiunse con disappunto «non lo conosco. O può darsi che non me ne ricordi, semplicemente.»

Junz scosse malinconicamente la testa. «Io non l’ho mai visto, Abel!»

«Molto interessante» borbottò Fife tra i denti.

«Adesso mi stia a sentire, Rik» disse Abel. «Io le dirò qualcosa, e lei mi ascolterà concentrando tutta la sua attenzione e sforzandosi di pensare. Mi capisce?»

Rik annuì.

Abel cominciò a parlare lentamente, ricostruendo gli eventi come già erano stati precedentemente presentati dal Signore di Fife. Ripeté il testo originale del messaggio annunciante un gravissimo pericolo, riferì la sua intercettazione, l’incontro tra Rik e X, il sondaggio psichico, descrisse come Rik era stato trovato e rieducato su Florina, parlò del medico che lo aveva visitato ed era morto poco dopo, e del suo rapido ritorno alla memoria. Infine disse: «Ecco, Rik. Le ho ripetuto tutto quello che so. Non c’è niente che le sembri familiare?»

Lentamente, faticosamente Rik rispose: «Ricordo le ultime parti, proprio quelle che si riferiscono a questi ultimissimi giorni.»

Abel disse: «Ricorda la minaccia che incombeva su Florina?»

«Sì! Questa è stata la prima cosa che ho ricordato.»

«E dopo questo, non rammenta altro? È atterrato su Sark e ha incontrato un uomo…»

Rik gemetce: «No, non posso. Non riesco a ricordare…»

«Provi!»

Rik alzò la testa. La sua faccia pallida grondava sudore. «Ricordo una parola.»

«Quale parola, Rik?»

«È una parola priva di senso.»

«La dica lo stesso.»

«È connessa a un tavolo… Ricordo molto confusamente che ero seduto a quel tavolo, e che accanto a me c’era seduto qualcun altro. Poi questa persona si alzò e mi guardò. Ed ecco che adesso mi ritorna quella parola.»

Abel insistette pazientemente: «Quale parola?»

Rik strinse i pugni e mormorò: «Fife!»

Tutti fuorché Fife scattarono in piedi. Steen strillò: «Ve l’avevo detto!» E proruppe in una risata stridula, acuta.

17

Controllando a stento la collera, Fife disse: «Finiamola con questa farsa.»

«Che cosa le fa pensare che si tratti di una farsa?» domandò Abel, turbato.

Fife disse: «E non lo è, forse? Ho acconsentito a questo incontro unicamente per la minaccia che avevate fatto pendere su di me. Ma lo avrei negato se avessi saputo che era inteso come un confronto tra me e queste losche figure di rinnegati e di assassini che fungono a un tempo da pubblico ministero e da giuria, e che intendono farmi un processo in piena regola.»

Abel corrugò la fronte e rispose con gelido formalismo: «Non si tratta né di un confronto né di un processo, Signore. Il dottor Junz è qui unicamente per riscattare un membro dell’U.S.I., com’è suo diritto e dovere. Io sono qui per proteggere gli interessi di Trantor in un momento difficile. Sono intimamente convinto che quest’uomo sia lo Spazio-Analista scomparso. Le saremo grati se collaborerà con noi a individuare la persona che lo ha illegalmente sottoposto a sondaggio psichico, e se ci offrirà delle garanzie affinché tali azioni non si ripetano in futuro contro rappresentanti di una attività interstellare che non si è mai occupata di questioni politiche e si è sempre tenuta al di sopra di qualsiasi interesse regionalistico.»

«Bellissimo discorso, Abel» disse Fife «ma quel che è ovvio resta ovvio, e i suoi piani sono anche troppo trasparenti. Che cosa accadrebbe se io le consegnassi quest’uomo? Sono persuaso che l’U.S.I. riuscirebbe a trovare esattamente ciò che vuole trovare. Questo istituto sostiene di essere un ente interstellare senza legami regionalistici, ma non è forse un fatto che Trantor contribuisce per due terzi al suo sovvenzionamento? Non credo che un osservatore obiettivo potrebbe considerarlo veramente neutrale nella Galassia di oggi, e quanto potrà accertare nei confronti di quest’uomo sarà certamente volto a favorire gli interessi imperialistici di Trantor. E che cosa ritroverà sul suo conto? Anche questo è sin troppo ovvio. La sua memoria si risveglia a poco a poco. L’U.S.I. diramerà bollettini quotidiani. Pezzo per pezzo, quest’uomo seguiterà a ricordare sempre di più, fornendo tutti i ragguagli necessari. Prima il mio nome. Poi il mio aspetto. Infine le mie esatte parole. Io sarò dichiarato solennemente colpevole. Verranno chieste delle riparazioni, e Trantor si troverà costretto a occupare temporaneamente Sark, occupazione che non sarà difficile trasformare da temporanea in permanente. Ci sono limiti innanzi ai quali qualsiasi ricatto perde di valore, e il suo, signor Ambasciatore, termina qui. Se vuole quest’uomo, mandi la flotta di Trantor a prenderlo.»

«Non è assolutamente il caso di ricorrere alla forza» disse Abel. «Tuttavia non posso fare a meno di constatare che ha accuratamente evitato di negare l’implicita accusa nascosta in quanto ha appena detto lo Spazio-Analista.»

«Non l’ho negata perché è semplicemente assurda, e ritengo sconveniente per la mia dignità darle peso. Ricorda una sola parola, o meglio afferma di ricordarla. E con questo?»

«Le sembra privo di significato ch’egli ricordi proprio questa parola?»

«Del tutto trascurabile. Il mio nome corre sulle bocche di tutti, qui a Sark. Anche ammesso che il cosiddetto Spazio-Analista sia sincero, ha avuto un anno di tempo per apprenderlo su Florina. Questo naturalmente ammesso che sia sincero, perché ho l’impressione che ci troviamo piuttosto di fronte a una commedia ben recitata.»

Abel non sapeva che cosa rispondere. Guardò gli altri. Junz era scuro in faccia, e si tormentava il mento con una mano. Steen borbottava e piagnucolava scioccamente per conto proprio. Il Borgomastro teneva gli occhi ostinatamente fissi a terra.

Fu Rik a rompere il silenzio, strappandosi dalla stretta di Valona e alzandosi.

«Ascoltate» disse.

Fife disse: «Un’altra rivelazione, immagino.»

Rik proseguì: «Ascoltate! Eravamo seduti a un tavolo. Il tè era drogato. Avevamo litigato. Non ricordo il perché. Riuscivo soltanto a pensare: Spazio Onnipotente, mi hanno drogato. Poi è venuto l’altro: Fife. Aveva urlato sino a quel momento; ma ora non urlava più. Non ce n’era più bisogno. Fece il giro del tavolo e si fermò accanto a me, dominandomi con tutta la persona. Io non potevo dire niente, non potevo fare niente. Potevo solo alzare verso di lui gli occhi.»

Selim Junz chiese: «Quest’altro uomo era Fife?»

«Ricordo che si chiamava Fife.»

«Ebbene, era quello che vede laggiù?»

Rik rispose: «Non ricordo che fisionomia avesse.»

«Ne è sicuro?»

«Ho cercato di rammentarmene, ma non ci sono riuscito.» Proruppe: «Nessuno sa quanto faccia male. Sembra di avere un coltello infuocato infisso qui!» Si portò le mani alla fronte.

Junz disse con voce suadente, comprensiva: «Lo so che fa male. Ma bisogna che si sforzi. Guardi quell’uomo! Riesce a ricordare, adesso?»

«No! No…»

Fife sorrise beffardo: «Il suo uomo si è dimenticato la lezione, oppure la storiella sembrerà più credibile se si rammenterà la mia faccia la prossima volta?»

Junz replicò con veemenza: «Io non ho mai veduto quest’uomo in vita mia, né gli ho mai parlato. Io cerco soltanto la verità.»

«Posso in tal caso rivolgergli alcune domande io?»

«Certo.»

«Grazie. Le sono molto grato della cortesia. Senti un po’, tu… Rik, o come altro ti chiami…»

Rik alzò la testa. «Sì, Signore.»

«Dici di ricordare un uomo che ti si era avvicinato dall’altro capo del tavolo dove tu te ne stavi seduto, drogato e incapace di muoverti.»

«Sì, Signore.»

«L’ultima cosa che ricordi è che quest’uomo ti guardava dall’alto, dici.»

«Sì, Signore.»

«Siediti.»

Rik obbedì. Per un attimo Fife non si mosse. La bocca esangue dalle labbra sottili si strinse, i muscoli delle mascelle si contrassero, infine il Grande Signore di Fife si alzò dalla sua poltrona.

O meglio… ne scivolò giù! Fu come se si fosse messo in ginocchio dietro la scrivania. Poi si mosse e si mise in mostra: in piedi.

Junz trattenne il respiro. Quell’uomo, così formidabile e scultoreo, seduto, si era tramutato, in un attimo, in un nano deforme.

Fife mosse con difficoltà le gambe atrofizzate, trascinando a fatica la massa sproporzionata del torso e della testa.

Rik, affascinato, lo guardò avvicinarsi.

Fife disse: «Sono io l’uomo che ti è venuto accanto facendo il giro di quel tavolo?»

«Non posso ricordarmene la faccia, Signore.»

«Tu però eri seduto, e lui in piedi, e tu lo guardavi.»

«Sì, Signore.»

«Lui invece ti fissava, per ripetere le tue stesse parole, dominandoti con tutta la persona.»

«Sì, Signore.»

«Questo almeno lo ricordi? Ne sei sicuro?»

«Sì, Signore.»

«Ti sto dominando con tutta la persona?»

Rik disse: «No, Signore.»

«E tu sei costretto ad alzare gli occhi per guardarmi?»

Rik seduto e Fife in piedi erano esattamente allo stesso livello.

«No, Signore.»

«Credi che sia stato io quell’uomo?»

«No, Signore.»

«Ne sei convinto?»

«Sì, Signore.»

«E insisti a dire che il nome che ricordi è Fife?»

«Io ricordo quel nome» ripeté Rik, ostinato.

«Perciò, chiunque sia stato, si è servito del mio nome falsamente?»

«Dev’essere stato così.»

Fife si volse, e lentamente, dignitosamente, ritornò alla propria scrivania, si issò a fatica sulla seggiola, quindi disse: «Non ho mai consentito a nessuno di vedermi in piedi dacché sono adulto e padrone di me stesso. C’è qualche motivo perché questa conferenza continui?»

Abel era a un tempo imbarazzato e seccato. La conferenza si era sino a quel momento rivolta tutta a suo danno. Fife era riuscito a mettere se stesso dalla parte della ragione, e gli altri da quella del torto, presentandosi come un martire costretto a subire i ricatti di Trantor e le false accuse di Steen che si erano subito sfasciate come un castello di carta.

Abel avrebbe voluto almeno ridurre le proprie perdite. Lo Spazio-Analista sondato psichicamente non sarebbe più stato di alcuna utilità a Trantor, ormai. Qualsiasi “ricordo” che gli potesse tornare in seguito sarebbe stato deriso e ridicolizzato, anche se autentico. Sarebbe stato accettato come un mero strumento dell’imperialismo trantoriano, e uno strumento inservibile, per giunta.

Tuttavia esitava, ma fu Junz a rompere il silenzio.

Disse: «A me sembra che ci siano ottime ragioni, invece, per non mettere fine alla conferenza proprio adesso. Non abbiamo ancora accertato chi è il responsabile del sondaggio psichico. Lei ha accusato il Signore di Steen, e Steen ha accusato lei. Anche ammesso che entrambi vi siate ingannati, e che entrambi siate innocenti, resta pur sempre il fatto che vicendevolmente vi ritenete colpevoli. Chi è dunque il responsabile?»

«Ha forse importanza?» ribatté Fife. «Per quanto riguarda lei, sono convinto di no. La questione sarebbe già stata risolta da un pezzo se Trantor e l’U.S.I. non si fossero intromessi. Sono sicuro di riuscire a scoprire io il traditore.»

«Che accadrà del colpevole?»

«Si tratta di una questione di politica interna che non la riguarda affatto.

«Mi riguarda e come, invece!» protestò Junz con veemenza. «Non si tratta dello Spazio-Analista soltanto, ma di qualcosa di assai più importante, e mi stupisce anzi che non sia stata ancora menzionata. Quest’uomo non è stato sondato psichicamente per il solo fatto che era uno Spazio-Analista.»

Abel non sapeva con esattezza quali fossero le intenzioni di Junz, ma si affrettò a gettare il proprio peso sulla bilancia. Disse in tono blando: «Naturalmente il dottor Junz si riferisce al messaggio originale lanciato dallo Spazio-Analista in cui si parlava di un pericolo grave.»

Fife ebbe un’alzata di spalle. «Per quanto io sappia, nessuno sinora ha dato importanza a questo punto, compreso il dottor Junz. Comunque ecco il suo uomo. Gli chieda quello che le interessa sapere.»

«Ma come può ricordare?» replicò Junz spazientito. «La sonda psichica agisce in modo particolarmente efficace sulle attività intellettive.»

«E allora, a cosa serve insistere?» disse Fife.

«Ma bisogna insistere, perché un altro, colui che lo ha sondato, sa di quale natura sia questo pencolo sconosciuto. Può darsi che non sia uno Spazio-Analista, e che ignori i dati precisi. Tuttavia ha potuto parlare con quest’uomo quando la sua mente era ancora integra, e ne avrà appreso abbastanza per metterci sulla via giusta. Inoltre, malcerto delle proprie cognizioni, non avrà osato distruggere le prove scritte che certamente questo uomo doveva avere con sé, i dati, gli appunti. Sai almeno dirci che cosa ricordi a questo proposito, Rik?»

«Solo che c’era un grande pericolo e che questo coinvolgeva le correnti dello spazio» mormorò Rik.

Fife disse: «Anche ammesso che lei riesca a scoprire la verità, che cosa ne ricaverebbe? Quali basi hanno mai le stupefacenti teorie inventate a ogni piè sospinto da Spazio-Analisti ammattiti?»

«Può darsi che lei abbia ragione, ma si direbbe che abbia paura di lasciarmi scoprire la verità.»

«Sono contro tutte le voci tendenziose che, vere o false, possano influenzare il commercio del kyrt. Non è anche lei del mio parere, Abel?»

«No. Le consiglio di ascoltare il dottor Junz.»

«Grazie» disse Junz.

«Lei dunque ha affermato, Signore, che chiunque sia il colpevole questi deve aver ucciso il medico che ha esaminato il cosiddetto Rik. Ciò farebbe supporre che il colpevole deve aver seguito quest’uomo in un modo o nell’altro, durante il suo soggiorno su Florina.»

«Ebbene?»

«Si devono pure ritrovare tracce di questa sorveglianza.»

«Secondo lei, dunque, gli indigeni si accorgerebbero se qualcuno li sorveglia?»

«E perché no?»

Fife disse: «Lei non è sarkita e questo spiega il suo errore. Le garantisco io che gli indigeni sanno stare al loro posto. Non avvicinano i Signori, e se i Signori si avvicinano a loro si guardano bene dall’alzare gli occhi da terra. Perciò, come potrebbero accorgersi di essere sorvegliati?»

«Trattandosi di indigeni normali può darsi che abbia ragione lei» disse Junz. «Ma qui non ci troviamo di fronte a un indigeno normale. Mi pare che la persona di cui sto parlando abbia dimostrato in modo inequivocabile di non essere un floriniano rispettoso come esige la tradizione più ortodossa. Intanto non ha ancora contribuito alla discussione, e mi sembra che sia venuto il momento di rivolgergli alcune domande.»

Terens, che era rimasto impassibile sino a quel momento, lo sguardo fisso sulle mani intrecciate, alzò la testa.

Junz si rivolse a lui: «Rik è sempre rimasto nel suo villaggio sin da giorno in cui venne ritrovato su Florina, nevvero?»

«Sì.»

«E lei non si è mai mosso dal villaggio? Intendo dire, non si è mai allontanato per motivi di affari?»

«I Borgomastri non si allontanano mai per motivi di affari.»

«Ho capito. Adesso la prego di ascoltarmi obiettivamente. Presumo che rientri nelle sue competenze sapere quando un Signore si reca nel vostro villaggio.»

«Certo. Ammesso che ci venga.»

«E ne è mai venuto nessuno?»

Terens si strinse nelle spalle. «Un paio di volte, per pura formalità. I Signori non si insudiciano le mani col kyrt: col kyrt grezzo, intendo.»

«Un po’ più di rispetto!» tuonò Fife.

Abel intervenne diplomaticamente: «Lasci che il dottor Junz e quest’uomo se la sbrighino tra loro. Fife. Lei e io, per il momento, siamo semplici spettatori.»

Junz provò un senso di intima soddisfazione di fronte all’insolenza di Terens, ma disse: «Risponda alle mie domande senza commenti supplementari, la prego, Borgomastro. Sa dirmi esattamente chi furono i Signori che visitarono il vostro villaggio nel corso di quest’anno?»

Terens rispose quasi con ferocia. «Come posso saperlo? Non sono in grado di rispondere a questa domanda. I Signori sono Signori, e gli indigeni sono indigeni. Mi mandano un comunicato e basta, indirizzato “Borgomastro”. In questo comunicato è detto che ci sarà un’ispezione da parte di un Signore in questo o quel giorno, e che devo perciò predisporre tutti i preparativi necessari. Devo quindi provvedere a che gli operai indossino i loro vestiti migliori, a far pulire l’opificio da cima a fondo, a badare a che la fornitura di kyrt sia abbondante, a che tutti appaiano contenti e soddisfatti, che le case siano lustre e le strade sorvegliate…»

«Non c’è stata nessuna ispezione, la settimana antecedente alla morte del medico? Ixnmagino che sappia in quale settimana quel medico è morto.»

«Mi pare di averne inteso parlare nei notiziari televisivi. Non credo che ci sia stata nessuna ispezione di Signori in quel periodo. Però non posso giurarlo.»

«A chi appartiene il suo territorio?»

Terens abbassò gli angoli della bocca. «Al Signore di Fife.»

Steen balzò su come un giocattolo meccanico, togliendo a tutti la parola con sorprendente prontezza: «Oh, ma andiamo! Con questo interrogatorio sta facendo il gioco di Fife, dottor Junz. Non capisce che così non approderà a niente? Crede che se Fife avesse avuto interesse a tenersi in contatto con questo individuo, si sarebbe dato la briga di spingersi sino a Florina per sorvegliarlo? A che cosa servirebbero i pattugliatori, allora? Francamente!»

Junz replicò seccato: «In un caso simile, con l’economia mondiale, e probabilmente la salvezza di un intiero pianeta, poggiati sul contenuto del cervello di un uomo solo, è naturale che chi ha compiuto il sondaggio psichico di cui ci stiamo occupando non si fidasse a lasciare alla tutela di semplici pattugliatori la cura del proprio paziente.»

Fife intervenne: «Anche dopo avere completamente svuotato quel cervello?»

Abel si morse il labbro inferiore. Si accorgeva che anche quella sua ultima mossa si stava volgendo a favore di Fife.

Junz ritentò, esitante: «C’è un particolare pattugliatore o un gruppo di pattugliatori che si trova sempre pronto a intervenire?»

«Non saprei. Per me sono tutti uguali e vestono tutti la medesima uniforme.»

Junz si volse a Valona con scatto improvviso. Un attimo prima la ragazza era sbiancata in faccia, e aveva sbarrato gli occhi, e questo particolare non era sfuggito allo scienziato.

Le domandò a bruciapelo:

«Che hai da dire, figliola?»

Valona si alzò in piedi, tremante, e mormorò in un soffio: «Vorrei dire una cosa.»

Junz la incoraggiò: «Su, forza. Parla. Di che si tratta?»

Valona cominciò, ansante e chiaramente spaventata: «Io non sono che una povera ragazza di campagna. Non si arrabbi con me, la prego. Solo che mi sembra che le cose non possano stare che in un modo solo… Il mio Rik era tanto importante?»

«Io credo che fosse molto, molto importante» disse Junz con dolcezza.

«Allora dev’essere come dice lei. Chiunque sia stata la persona che lo ha messo su Florina, non avrebbe osato togliergli gli occhi di dosso neppure per un momento. Pensi! Se Rik fosse stato picchiato dal sovrintendente dell’opificio, o se i ragazzi lo avessero preso a sassate, oppure se si fosse ammalato e fosse morto! Non lo avrebbe abbandonato solo nei campi, dove sarebbe potuto morire prima che qualcuno lo scoprisse! Non poteva sperare che solo il caso l’avrebbe salvato.» Parlava ora con una strana, improvvisa sicurezza.

«Prosegui» disse Junz guardandola attento.

«Ma c’era una persona che ha sempre tenuto d’occhio Rik sin dal principio. È stata questa persona a trovarlo nei campi, a manovrare in modo che io mi occupassi di lui, a tenerlo lontano dai guai, e a informarsi tutti i giorni della sua salute. Questa persona sapeva tutto, persino del dottore, perché sono stata io a dirglielo. Era lui! Era lui!»

Si era messa a urlare, ora, e il suo indice si puntò accusatore contro Myrlyn Terens.

18

Sembrava che una paralisi vocale avesse colpito tutti gli astanti. Persino Rik si era messo a fissare incredulo, impietrito, prima Valona, poi Terens.

Infine Steen disse: «Io ci credo. Francamente! L’avevo detto sin dal principio che quell’indigeno era al soldo di Fife. Questo vi dimostra che razza d’uomo sia Fife. Ha avuto il coraggio di pagare un indigeno per…»

«È una menzogna infernale.»

Chi aveva parlato non era Fife, ma il Borgomastro, il quale era scattato in piedi, gli occhi luccicanti di passione.

Abel, che di tutti i presenti sembrava il meno scosso, disse: «Che cosa?»

Terens lo fissò per un attimo senza comprendere, quindi rispose con voce soffocata: «Ciò che ha detto il Signore. Io non sono al soldo di nessun sarkita.»

«E ciò che ha detto la ragazza? Anche quello è una menzogna?»

Terens si passò la punta della lingua sulle labbra aride. «No, è la verità. Sono stato io a compiere il sondaggio psichico.» Proseguì in fretta: «Non mi guardare a quel modo, Lona. Non volevo fargli del male, non immaginavo quello che sarebbe successo.»

Tornò a sedere.

Fife disse: «Questo è un altro trucco. È pacifico che soltanto un Grande Signore può avere le cognizioni e i mezzi necessari per compiere un sondaggio psichico. Oppure quell’uomo si preoccupa di metter fuori causa il suo caro Steen, inventando una falsa confessione?»

Terens si protese in avanti, e disse: «Io non accetto neanche il denaro di Trantor, se vuole saperlo.»

Junz fu l’ultimo a riaversi. Infine disse: «È inutile discutere prima di avere ascoltato quest’uomo. Lasciamolo parlare. Se il responsabile della sonda psichica è veramente lui, bisogna assolutamente che parli, e se non lo è, quanto dirà ce ne darà la dimostrazione.»

«Se volete sapere quello che è successo» gridò Terens «ve lo dirò. Tanto, anche se tacessi non mi servirebbe più a niente.» Indicò Fife con disprezzo. «Ecco un Grande Signore. Soltanto un Grande Signore, dice questo Grande Signore, può disporre delle cognizioni e dei mezzi per effettuare una sonda psichica. E ci crede, per giunta. Ma che cosa ne sa lui? Che cosa ne sanno i sarkiti? Non sono loro a reggere il governo, sono i floriniani! O meglio l’Amministrazione Civile Floriniana. Sono dei floriniani che raccolgono i documenti, che li compilano, che li archiviano. E sono i documenti che governano Sark! Un anno fa venni addetto temporaneamente alla direzione del traffico spaziale. Ciò faceva parte del mio addestramento. È segnato nei registri. Dovreste scavare un po’ per ritrovare l’incartamento, perché il direttore ufficiale del traffico era un sarkita. Lui ne portava il titolo, ma il lavoro effettivo lo facevo io. Quando l’U.S.I. locale inoltrò al porto il messaggio dello Spazio-Analista, consigliando che andassimo a incontrare la sua nave con un’ambulanza, quel messaggio l’ho ricevuto io. Non mi sfuggì l’importanza del punto riguardante l’ipotetica distruzione di Florina. Feci in modo d’incontrare lo Spazio-Analista a un piccolo astroporto suburbano. Non mi fu difficile. Andai dunque incontro allo Spazio-Analista, gli impedii di comunicare sia con Sark sia con l’U.S.I.; gli cavai tutte le notizie che mi fu possibile cavargli e mi disposi a servirmi di quelle notizie a vantaggio di Florina e contro Sark.»

Fife chiese: «Sei stato tu a scrivere quelle prime lettere?»

«Sono stato io, Grande Signore» rispose Terens calmo. «Ritenevo di poter ottenere un controllo abbastanza vasto dei campi di kyrt per scendere a patti con Trantor a modo mio, e cacciarla dal pianeta.»

«Eri pazzo!»

«Può darsi. Comunque la cosa non è andata. Avevo detto allo Spazio-Analista di essere il Signore di Fife. Sfortunatamente il mio uomo si mostrò più impaziente di me. Mi accorsi che mi era difficile tenerlo a bada, tanto che decisi di ricorrere a una sonda psichica. Me n’ero procurata una; le avevo vedute spesso usare negli ospedali. Mi pareva d’intendermene, ma sfortunatamente non me ne intendevo in modo sufficiente. Usai la sonda per dissipare lo stato di angoscia contenuto negli strati superficiali della sua mente. In fondo si tratta di un’operazione semplice. Oggi ancora non so come sia accaduto. Probabilmente l’angoscia aveva scavato in lui un solco profondo che la sonda seguì automaticamente, togliendogli ogni coscienza. Così rimasi con un essere completamente senza cervello tra le mani… Perdonami, Rik.»

Rik, che aveva seguito attentamente ogni parola del Borgomastro, disse con tristezza: «Non avresti dovuto metterti contro di me, ma comprendo il tuo stato d’animo.»

«Sì» disse Terens «tu sei vissuto sul pianeta e sai che cosa siano i pattugliatori e i Signori, e quale differenza passi tra la Città Alta e la Città Bassa…» Riprese quindi il racconto: «Mi trovai dunque ad avere a che fare con uno Spazio-Analista totalmente inebetito. Non potevo permettere che fosse ritrovato da qualcuno in grado di stabilirne l’identità. Ero convinto che la sua memoria sarebbe tornata, e che avrei avuto ancora bisogno della sua collaborazione, senza contare che se lo avessi ucciso mi sarei alienato per sempre le simpatie di Trantor e dell’U.S.I., dei quali avrei potuto avere bisogno. Feci in modo di farmi trasferire su Florina come Borgomastro, e portai con me lo Spazio-Analista, con documenti falsi. Ebbi cura che venisse ritrovato per caso, e scelsi Valona perché se ne occupasse. Da quel momento non corsi più alcun pericolo, fuorché quell’unica volta che la ragazza si recò dal medico. Mi toccò allora entrare negli impianti di energia della Città Alta. Tuttavia non fu un’impresa impossibile. Gli ingegneri sono sarkiti, ma i guardiani sono floriniani. Da quel momento il delitto mi venne facile. Non sapevo però che il medico tenesse annotazioni in entrambi i suoi uffici.»

Dal punto in cui era seduto, Terens poteva vedere il cronometro di Fife. «Poi Rik cominciò a ricordare. E adesso sapete tutto.»

«No» ribatté Junz «non sappiamo tutto. Perché lo Spazio-Analista parlava di distruzione planetaria?»

«Creda che io abbia capito i particolari di quanto mi disse? Era in preda a una specie… come dire… perdonami, Rik, di pazzia.»

«Non è vero» replicò Rik con veemenza. «Non è possibile.»

«Lo Spazio-Analista aveva una nave» disse Junz. «Dove si trova?»

«Al parco rottami, e già da molto tempo» rispose Terens. «Stesi un ordine di smantellamento, che il mio superiore si affrettò a firmare senza leggere, perché un sarkita non legge mai niente.»

«E i documenti di Rik? Ha detto che quest’uomo le ha mostrato dei documenti…»

«Ci consegni questo individuo» intervenne Fife «e penseremo noi a farlo parlare.»

«No» ribatté Junz. «Il suo primo crimine l’ha commesso contro l’U.S.I., sequestrando uno Spazio-Analista e rovinandone la mente. Appartiene a noi.»

«Junz ha ragione» disse Abel.

«Ora statemi a sentire tutti quanti» riprese Terens. «Io non dico una sola parola se prima non mi date delle garanzie. So dove si trovano le carte di Rik. Sono in un posto che nessun sarkita e nessun trantoriano scoprirà mai. Se volete venirne in possesso dovrete riconoscermi come rifugiato politico. Ciò che ho fatto l’ho fatto per amore verso il mio pianeta. Un sarkita, o un trantoriano, può permettersi il lusso di essere patriottico; perché non anche un floriniano?»

«L’ambasciatore ha garantito che lei sarà consegnato all’U.S.I.» disse Junz. «Posso assicurarle che noi non la consegneremo a Sark. Per il male che ha fatto allo Spazio-Analista verrà processato: non posso prevedere i risultati di questo processo, ma se collaborerà con noi adesso, ciò deporrà a suo favore.»

Terens fissò su Junz uno sguardo scrutatore, infine disse: «Non so perché, ma di lei mi fido. Dottore… secondo i dati dello Spazio-Analista il sole di Florina si trova nello stadio “pre-nova”».

«Cosa?» Questa esclamazione proruppe dalle bocche di tutti i presenti esclusa Valona.

«Sta per esplodere» incalzò Terens sarcastico.

Abel disse: «Io non sono uno Spazio-Analista, ma ho inteso dire che non è possibile prevedere quando può esplodere una stella.»

«Questo è vero, o perlomeno lo era, sino a oggi. Rik ha spiegato che cosa l’ha indotto a crederlo?» domandò Junz.

«Immagino che lo si potrà capire consultando le sue carte. La sola cosa che ricordo è che parlava di una corrente di carbonio.»

«Cosa?»

«Continuava a ripetere: “La corrente spaziale di carbonio. La corrente spaziale di carbonio”. Questo, diceva, e diceva anche “effetto catalitico”. Proprio così.»

Steen rise. Fife si accigliò. Junz sbarrò gli occhi, quindi mormorò: «Scusatemi, torno subito.» Uscì dai limiti del cubo di ricezione e scomparve, per tornare in capo a un quarto d’ora.

Ma quale fu il suo stupore nel vedere che solo Abel e Fife erano presenti!

Cominciò: «Dove…»

Ma Abel si affrettò a interromperlo: «Noi siamo rimasti ad aspettarla, dottor Junz. Lo Spazio-Analista e la ragazza sono diretti all’Ambasciata. La conferenza è terminata.»

«Terminata? Ma, in nome della Galassia, se è soltanto cominciata! Devo pure spiegare quali sono le possibilità di una “nova formatio”.»

Abel si agitò inquieto sulla seggiola. «Non è necessario, dottore.»

«Ma è più che necessario, invece! È essenziale. Concedetemi cinque minuti.»

«Lo lasci parlare» disse Fife. Sorrideva.

Junz disse: «Risaliamo al principio. Sin dai primi scritti scientifici registrati della civiltà galattica, già si sapeva che le stelle attingevano la loro energia da trasformazioni nucleari producentesi nelle loro viscere. Si sapeva pure che, in base a ciò che conosciamo delle condizioni degli interni stellari, due tipi, e due tipi soltanto, di trasformazioni nucleari possono fornire l’energia necessaria. Entrambe comportano la conversione dell’idrogeno in elio. La prima trasformazione è diretta: due atomi di idrogeno e due neutroni si combinano a formare un unico nucleo di elio. La seconda è indiretta, e passa per vari stadi, concludendosi allorché l’idrogeno diventa elio, ma agli stadi intermedi partecipano anche nuclei di carbonio. Questi nuclei di carbonio non vengono usati, ma sono riformati a mano a mano che le reazioni procedono, cosicché una quantità infinitesima di carbonio può essere usata indefinitamente, servendo a convertire una grande quantità di idrogeno in elio. In altre parole il carbonio funge da catalizzatore. Tutto ciò lo si sapeva sin dalla preistoria, sin da quando la razza umana era limitata a un solo pianeta, ammesso che questa epoca mitica sia mai esistita.»

«Se questo lo sappiamo tutti» disse Fife, «mi permetto di farle osservare che le sue spiegazioni ci fanno soltanto perdere tempo.»

«Ma questo è anche tutto ciò che sappiamo. Non si è mai accertato se le stelle sfruttino l’uno o l’altro o entrambi i processi nucleari. Ci sono sempre state scuole di pensiero favorevoli ora all’una ora all’altra ipotesi. Di solito l’opinione prevalente propendeva per conversione diretta idrogeno-elio come la più semplice delle due. Ora la teoria di Rik dev’essere la seguente. La conversione diretta idrogeno-elio è la fonte normale di energia stellare, ma in determinate condizioni subentra la catalisi carbonica ad affrettare il processo, riscaldando la stella. Nello spazio esistono delle correnti. Questo voi lo sapete tutti perfettamente. Alcune di queste sono correnti di carbonio. Le stelle attraversando tali correnti raccolgono innumerevoli atomi. Tuttavia la massa totale degli atomi attratti è incredibilmente microscopica in paragone al peso della stella e non la influenza in alcun modo. Eccezione fatta per il carbonio! Una stella che passi per una corrente contenente concentrazioni anormali di carbonio diviene instabile. In ogni caso, non appena la quantità di carbonio filtrante entro le viscere della stella supera un certo ammontare critico, la radiazione della stella ne è subito terribilmente aumentata. Gli strati esterni cedono sotto una esplosione inimmaginabile ed ecco che abbiamo una “nova”. Mi ha capito?»

Fife disse: «Si è immaginato tutto questo in due minuti in base a una vaga frase ricordata dal Borgomastro e che lo Spazio-Analista avrebbe detta un anno fa?»

«Sì. E non si deve stupire. La Spazio-Analisi è pronta ad accogliere questa teoria. Se non fosse stato Rik a formularla, un altro al suo posto non avrebbe tardato a farlo. Effettivamente già sono state avanzate in precedenza teorie analoghe, ma non erano mai state prese sul serio. Ora però noi sappiamo che correnti di carbonio esistono effettivamente: possiamo determinarne il percorso, scoprire quali stelle ne abbiano intersecato la rotta negli ultimi diecimila anni, controllando questi dati su quanto sappiamo relativamente alla teoria della “nova formatio” e alle variazioni di radiazione. Questo è quanto deve aver fatto Rik. Questi devono essere stati i calcoli e le osservazioni ch’egli deve aver cercato di spiegare al Borgomastro. Ma per il momento ciò non è il punto principale. Ciò che soprattutto importa in questo momento è una evacuazione immediata di Florina.»

«Se Florina fosse un pianeta normale sarei d’accordo con lei» disse Abel. «Ma da Florina dipende la fornitura galattica del kyrt. La cosa non è possibile.»

Junz chiese con voce irata: «È questo l’accordo al quale è giunto con Fife mentre io ero assente?»

Fife intervenne: «Mi permetta di spiegarle come stanno le cose, dottor Junz. Il governo di Sark non consentirebbe mai a evacuare Florina, anche se l’U.S.I. affermasse di avere le prove dell’esattezza di questa nuova teoria. Trantor non ci può forzare, perché mentre la Galassia appoggerebbe una guerra contro Sark pur di conservare il commercio del kyrt, non l’appoggerebbe mai per lo scopo opposto.»

«È esatto» disse Abel. «Temo che i nostri rispettivi sudditi non ci aiuterebbero mai in una guerra simile.»

Junz si sentì invadere dallo sdegno. Cinquecento milioni circa di esseri umani non avevano alcun significato di fronte agli imperativi categorici della necessità economica!

Disse: «Mi stia bene a sentire. Qui non si tratta di un pianeta soltanto, ma di una intera Galassia. Attualmente si stanno originando entro la Galassia, ogni anno, venti “novae” complete. Inoltre, circa duemila stelle tra i cento miliardi della Galassia mutano le loro caratteristiche di radiazione in modo sufficiente da rendere inabitabile ogni loro eventuale pianeta abitabile. Un milione di sistemi stellari della Galassia sono occupati da esseri umani: il che significa che in una media di una volta ogni cinquant’anni un pianeta abitato diventa troppo ardente perché la vita vi possa continuare. Questi sono casi storici, e ogni cinquemila anni un pianeta abitato ha il cinquanta per cento di probabilità di essere ridotto in gas da una “nova”. Se Trantor non fa niente per Florina, se permette che si dissolva in vapore con tutti i suoi abitanti, questo servirà di monito a tutti i popoli della Galassia che quando giungerà il loro turno non si aspettino il suo aiuto, se questo aiuto contrasta gli interessi economici di pochi uomini potenti. Si sente di rischiare questo, Abel? D’altro canto, se aiuterà Florina darà la dimostrazione che Trantor pone la responsabilità dei popoli della Galassia al di sopra del semplice mantenimento di meri diritti di proprietà. Trantor otterrà col buon volere Ciò che mai potrà ottenere con la forza.»

Abel scosse stancamente la testa. «No, Junz. Quanto lei dice mi commuove, ma non è pratico. Io, anzi, le consiglio di non approfondire tale teoria. L’ipotesi che essa possa essere vera causerebbe troppo danno.»

«E se fosse vera?»

«Bisogna agire nell’assunto che non lo sia. Immagino che quando si è allontanato sarà andato a mettersi in contatto con l’U.S.I.»

«Sì.»

«Non importa. Credo che Trantor avrà influenza sufficiente per fermare qualsiasi ricerca.»

«Io credo il contrario, almeno per quanto riguarda queste particolari ricerche. Signore, noi conosceremo presto il segreto del kyrt a buon mercato. Tra un anno non si parlerà più di monopolio di kyrt, esista o non esista una “nova”.»

«Che intende dire?»

«La nostra conferenza sta raggiungendo il suo apice proprio adesso, Fife. Di tutti i pianeti abitati, il kyrt cresce su Florina soltanto. In ogni altro luogo le sue sementi producono unicamente la cellulosa normale. Florina è probabilmente il solo pianeta abitato che sia “pre-nova”, in base alle correnti, e forse è divenuto “pre-nova”, da quando è entrato nella corrente di carbonio, magari migliaia di anni fa, se l’angolo di intersezione era piccolo. Sembra perciò assai probabile che il kyrt e lo stadio “pre-nova” vadano di pari passo.»

«Sciocchezze» disse Fife.

«Davvero? Eppure deve esserci una ragione che spieghi perché il kyrt è kyrt su Florina e cotone altrove. Gli scienziati hanno tentato in molti modi di produrre artificialmente il kyrt in altri luoghi, ma hanno tentato alla cieca, cosicché hanno sempre fallito. Adesso sapranno che ciò è dovuto a fattori creatisi in un sistema stellare “pre-nova”.»

Fife disse in tono sprezzante: «Hanno cercato di riprodurre le qualità di radiazione del sole di Florina.»

«Con lampade ad arco appropriate, si, che riproducevano lo spettro visibile e ultravioletto soltanto. Ma, e la radiazione nell’infrarosso e oltre? E i campi magnetici? E l’emissione di elettroni? E gli effetti dei raggi cosmici? L’economia si è adesso schierata dalla parte dell’umanità. La Galassia vuole del kyrt a poco prezzo, e quando sapranno che lo si avrà tra poco o spereranno di averlo tra poco, tutti i popoli galattici vorranno che Florina sia evacuata, e non per umanità soltanto, ma per il naturale desiderio di vedere finalmente capovolta la situazione nei confronti degli ingordi sarkiti.»

«Storie!» ringhiò Fife.

«Anche lei, Abel, crede che siano storie?» domandò Junz. «Se aiuterà i Signori, Trantor sarà considerato non già il salvatore del commercio del kyrt ma del monopolio del kyrt.»

«Può Trantor rischiare una guerra?» domandò Fife.

«Ma che guerra! Mio caro Fife, tra un anno le vostre azioni su Florina non avranno più valore, “nova” o non “nova”. Svenda. Svenda tutta Florina. Trantor è in grado di pagarla.»

«Dovrei comprare un pianeta?» esclamò Abel sgomento.

«E perché no? A Trantor i fondi per farlo non mancano di certo, e il suo prestigio di fronte ai popoli dell’universo, accresciuto a dismisura da questo gesto generoso, la ripagherà mille volte.»

«Ci penserò» disse Abel.

Quindi guardò il Signore. Fife abbassò gli occhi, e dopo una lunga pausa disse: «Ci penserò anch’io.»

Junz rise aspro. «Non ci pensi troppo. La verità sul kyrt trapelerà in fretta. Niente può arrestarla; dopodiché più nessuno di voi due avrà libertà di azione. Se vi muoverete subito potrete fare tutti e due un affare migliore.»

Il Borgomastro sembrava inebetito. «Ma è proprio vero?» continuava a ripetere. «È proprio vero? Florina sarà distrutta?»

«È vero» disse Junz.

Terens allargò le braccia, poi le lasciò ricadere lungo i fianchi. «Se le servono le carte che ho prese a Rik, le troverà nascoste in casa mia, al villaggio, tra gli incartamenti relativi ai dati statistici delle nascite. Sapevo che nessuno sarebbe andato a consultarli.»

«Senta» disse Junz «sono sicuro che noi possiamo giungere a un accordo con l’U.S.I. Ci servirà un uomo, su Florina, un uomo che ne conosca la popolazione, che ci sappia dire come dobbiamo spiegare loro come stanno le cose, che ci assista nell’organizzare l’evacuazione e nella scelta dei pianeti meglio adatti per la trasmigrazione. Vuole aiutarci?»

«E cavarmela così a buon mercato? Senza essere processato per omicidio? Perché no?» Gli occhi del Borgomastro si empirono subitamente di lacrime. «Comunque io sono ugualmente perdente. Non avrò più mondo, non più patria. Perdiamo tutti. I floriniani perdono il loro pianeta, i sarkiti la loro ricchezza, i trantoriani la possibilità di impadronirsi di questa ricchezza. Non ci sono né vinti né vincitori.»

«A meno che» disse Junz con dolcezza «non vi accorgiate che nella nuova Galassia, una Galassia al sicuro dalla minaccia della instabilità stellare, una Galassia ove il kyrt sarà accessibile a tutti, una Galassia infine in cui l’unificazione politica sarà tanto più facile, esisteranno dei vincitori, nonostante tutto. Un quadrilione di vincitori. Poiché i veri vincitori sono i popoli della Galassia.»

Epilogo

«Rik! Rik!» Selim Junz attraversò il campo di decollo a mani tese. «Lona! Non vi avrei mai riconosciuti né l’uno né l’altra. Come state?»

«Benissimo. Vedo che avete ricevuto la nostra lettera» disse Rik.

«Si capisce! Ditemi, che cosa pensate della situazione?»

Valona rispose con tristezza: «Abbiamo visitato il nostro vecchio villaggio, stamane. I campi sono così vuoti». Il suo modo di vestire, ora, era quello di una donna dell’Impero, non più di una contadina floriniana.

«Sì, dev’essere uno spettacolo assai malinconico per chi vi è vissuto. Comincia a deprimere anche me, ma io ci resisterò il più possibile. Lo studio della radiazione del sole di Florina è di immenso interesse scientifico.»

«Tante evacuazioni in meno di un anno! Si vede che l’organizzazione era ottima.»

«Stiamo facendo del nostro meglio, Rik. Oh, ma penso che dovrei chiamarla col suo vero nome.»

«No, la prego, non mi ci potrò abituare più. Sono Rik, ormai, è questo è ancora il solo nome che ricordo.»

Junz chiese: «Ha deciso se ritornare alla Spazio-Analisi o no?»

Rik scosse la testa. «Ci ho pensato, ma ho deciso di no. Non sarò mai in grado di ricordare abbastanza. Quella sezione della mia memoria è stata annullata per sempre. Però non me ne importa molto. Ritornerò sulla Terra… a proposito, avevo sperato di vedere il Borgomastro.»

«Ho l’impressione che lui invece preferisca non incontrarsi con lei. Ha deciso di partire oggi. Si sente colpevole, nei vostri confronti, e lo è. Lei non gli serba rancore?»

Rik disse: «No. Ha agito con buone intenzioni, e sotto molti aspetti ha mutato la mia esistenza in meglio. Per cominciare, grazie a lui ho conosciuto Valona.»

Valona lo guardò e sorrise mentre lui le circondava le spalle con un braccio.

«Inoltre» proseguì Rik, «mi ha guarito di un mio male segreto. Ho capito perché mi piaceva fare lo Spazio-Analista, e adesso so perché un terzo di noi viene reclutato su un unico pianeta, la Terra. Chi vive su un mondo radioattivo finisce col crescere nella paura e nell’incertezza. Un passo incauto può significare la morte, e la superficie stessa del nostro pianeta è la nostra più grande nemica. Questo stato di cose crea in noi un senso di ansietà che io chiamerei paura dei pianeti. Noi ci sentiamo felici nello spazio soltanto, poiché è l’unico luogo in cui sappiamo di essere sicuri.»

«E questa paura non la prova più, Rik?»

«Assolutamente no. Non mi ricordo neppure di averla mai provata. Il Borgomastro aveva regolato la sonda psichica per eliminare dal mio cervello la sensazione di angoscia, ma non si era preoccupato di regolare i comandi dell’intensità. Credeva di avere a che fare con un disturbo recente, superficiale, viceversa si trattava di un’angoscia lontana, profondamente insita in me. Così mi ha sbarazzato di tutto. In un certo senso ne è valsa la pena, anche se tante altre cose se ne sono andate con l’angoscia. Intanto, adesso non sarò più costretto a restare nello spazio. Potrò tornare sulla Terra, e potrò lavorare laggiù. La Terra ha bisogno di uomini e ne avrà sempre bisogno.»

«Senta» disse Junz «perché non facciamo per la Terra quello che stiamo facendo per Florina? Perché dobbiamo lasciar vivere i Terrestri in tanto timore e tanta insicurezza, quando la Galassia è così grande?»

«No» rispose Rik con veemenza. «Il caso è diverso. La Terra ha un grande passato, dottor Junz. Molta gente può non crederlo, ma noi della Terra sappiamo che essa è stata il pianeta di origine della razza umana.»

«Può darsi. Io non mi pronuncio né pro né contro.»

«Ma io so che è vero. Si tratta di un pianeta che non può essere abbandonato, che non deve essere abbandonato. Un giorno la trasformeremo, faremo in modo che la sua superficie torni a essere quella che è stata un tempo. Frattanto… noi ci vivremo.»

Valona disse con voce sommessa: «Così, ora, sono una abitatrice della Terra anch’io.»

Rik fissò l’orizzonte. La Città Alta era più che mai sfarzosa e multicolore, ma la sua popolazione era scomparsa.

Chiese: «Quanti abitanti rimangono su Florina?»

«Circa venti milioni» rispose Junz. «A mano a mano che procediamo, rallentiamo le evacuazioni poiché le persone che restano devono pur sempre mantenersi come unità economica durante i pochi mesi che rimangono. Naturalmente il reinsediamento è ancora ai primi stadi. La maggior parte degli evacuati si trova tuttora in campi temporanei sui mondi vicini. Ma purtroppo, sono inconvenienti inevitabili.»

«Quando se ne andrà l’ultimo abitante?»

«Mai, in realtà.»

«Non capisco…»

«Il Borgomastro ha chiesto in via privata il permesso di restare, permesso che gli è stato concesso, sempre in via privata.»

«Ma perché?» domandò Rik, colpito. «Perché, in nome di tutta la Galassia?»

Tunz rispose: «Non lo avevo capito sino al momento in cui lei mi ha parlato della Terra. Il Borgomastro prova per il proprio pianeta gli stessi sentimenti che prova lei per il suo. Dice che non può lasciare Florina a morire da solo.»

FINE