In un paese, dove per ordine del sovrano tutto funziona al contrario e è proibito dire la verità, arriva Gelsomino dalla voce potentissima che con l'aiuto di simpatici amici sconfigge la prepotenza e fa trionfare la sincerità. In questo libro (uno dei primi) Rodari dà prova della sua straordinaria capacità di esplorare con occhio critico la realtà sociale e di muovere con brio e finezza di stile verso un universo fantastico costruito sull'altruismo, sulla generosità, sull'amicizia: Gelsomino con la sua voce e la sua simpatia ci invita a guardare con ottimismo al futuro. Età di lettura: da 6 anni.

GIANNI RODARI

GELSOMINO NEL PAESE DEI BUGIARDI

Un po' alla mia bambina Paola

e un po'a tutti i bambini

Gelsomino risponde all'appello, segna una rete; poi viene il bello

Questa è la storia di Gelsomino, come egli stesso me l'ha raccontata: per ascoltarla tutta sono quasi diventato sordo, nonostante mi fossi cacciato nelle orecchie un mezzo chilogrammo di bambagia. La voce di Gelsomino, infatti, è così squillante, che quando egli parla, per modo di dire, «sottovoce», lo possono sentire anche i passeggeri degli aeroplani a reazione, a diecimila metri di altezza sul livello del mare e della testa di Gelsomino.

Egli è oggi un tenore celebre da un polo all'altro, e possiede un nome d'arte altisonante e un po' pomposo, che non vale la pena di riferire qui, perché lo avrete letto cento volte sul giornale: Gelsomino è il suo nome da ragazzo, e con quel nome comparirà nella nostra storia.

C'era dunque una volta, un bambino qualunque, forse perfino un po' più piccolo degli altri, il quale però fin dai primi strilli si rivelò proprietario di una voce strepitosa.

Quando Gelsomino nacque la gente del paese si alzò nel cuor della notte, credendo di aver udito le sirene delle fabbriche che chiamavano al lavoro: era soltanto Gelsomino che piangeva per provare la voce, come fanno tutti i bambini appena nati.

Per fortuna Gelsomino imparò presto a dormire dalla sera alla mattina, come fanno le persone perbene, tranne i giornalisti e le guardie notturne. Il suo primo strillo squillava alle sette in punto: giusto l'ora in cui la gente desiderava essere svegliata per andare al lavoro. Le sirene, ormai, erano diventate inutili, e difatti furono lasciate arrugginire.

Quand'ebbe sei anni Gelsomino andò a scuola. Il maestro fece l'appello, e arrivato alla lettera «g» chiamò:

— Gelsomino.

— Presente! — rispose con entusiasmo il nuovo scolaro.

Si udì uno scoppio, ci fu una cascata di frantumi: la lavagna era andata in mille pezzi.

— Chi ha tirato un sasso alla lavagna? — domandò il maestro, allungando la mano verso la bacchetta.

Nessuno rispose.

— Ricomincerò l'appello, — disse il maestro.

Difatti ricominciò dalla lettera «a» e a ciascun nome aggiungeva la domanda:

— Sei stato tu a tirare il sasso?

— Io no. Io no, — rispondevano i ragazzi, spaventati.

Quando arrivò alla lettera «g», anche Gelsomino si alzò e rispose con franchezza:

— Io no, signor…

Ma non fece in tempo a pronunciare la parola «maestro» che i vetri della finestra fecero la fine della lavagna. Questa volta il maestro aveva tenuto gli occhi aperti, ed era ben sicuro che nessuno dei suoi quaranta scolaretti avesse messo mano alla fionda.

— Sarà stato qualcuno da fuori, — concluse, — uno di quei monellacci che invece di venire a scuola vanno a caccia di nidi. Lo pescherò, lo prenderò per un orecchio e lo porterò dai carabinieri.

Per quella mattina tutto finì lì. La mattina seguente il maestro rifece l'appello e arrivò di nuovo al nome di Gelsomino.

— Presente! — rispose il nostro eroe, guardandosi attorno tutto fiero di essere a scuola.

— Patatrac! — gli rispose la finestra.

I vetri, rimessi dal bidello proprio mezz'ora prima, erano caduti nel cortile.

— Strano, — disse il maestro, — i disastri succedono sempre quando si arriva al tuo nome. Ragazzo mio, ho capito: tu hai una voce troppo acuta, una voce che fa tremare l'aria come un ciclone. Se non vogliamo mandare in rovina la scuola e il comune, bisognerà che tu da oggi in avanti parli sottovoce. D'accordo?

Gelsomino, rosso di vergogna e di confusione, si provò a protestare:

— Ma signor maestro, non sono stato io!

— Patatrac! — gli rispose la lavagna nuova, che proprio quella mattina il bidello era andato a prendere nel magazzino.

— Ecco la prova, — concluse il maestro.

E scorgendo i lacrimoni che scivolavano a due alla volta sulle gote del povero Gelsomino, scese dalla cattedra, si avvicinò al ragazzo e gli mise paternamente una mano sulla testa:

— Figliolo, ascoltami bene: una voce come la tua può procurarti terribili guai o un grande avvenire. Per adesso, sarà bene che tu l'adoperi il meno possibile. Del resto, un bel tacer non fu mai scritto.

Da quel giorno Gelsomino patì le pene dell'inferno: a scuola, per non causare altri incidenti, si teneva un fazzoletto sempre ficcato in bocca, e anche attraverso quell'ostacolo la sua voce risonava così forte che i suoi compagni si dovevano tappare le orecchie con i pugni.

Il maestro lo interrogava il meno possibile. Del resto Gelsomino era un ottimo scolaro e il maestro era sicuro che conoscesse tutte le risposte giuste. In casa, dopo il primo incidente (a tavola, per raccontare quello ch'era successo a scuola, aveva mandato in frantumi dodici bicchieri) gli avevano proibito severamente di aprir bocca.

Per sfogarsi, doveva andare all'aperto, lontano dal paese: nei boschi in riva al lago, nei campi. Quand'era ben sicuro di essere solo e di aver messo una distanza di sicurezza tra sé e i vetri dei suoi compaesani, si sdraiava per terra, a bocca in giù, e si metteva a cantare. Dopo qualche minuto il terreno ribolliva: talpe, bruchi, formiche, tutti gli animali che vivono sotterra, scappavano per chilometri, credendo che stesse arrivando il terremoto.

Una volta sola Gelsomino dimenticò la sua solita prudenza. Era una domenica, e al campo sportivo si giocava un'importante partita di calcio. Gelsomino non era un gran tifoso, ma il gioco, pian piano, gli scaldò il sangue.

A un certo punto la squadra del paese, spinta dalle grida infuocate dei suoi sostenitori, passò all'attacco. (Io non so bene che cosa significhi «passare all'attacco», perché non conosco il gioco del calcio: sono cose che Gelsomino mi ha raccontate con queste parole, ma voi certo capirete, se siete lettori di giornali sportivi).

— Forza! Forza! — gridavano dunque i tifosi.

— Forza! — gridò anche Gelsomino, con tutta la sua voce.

Proprio in quel momento l'ala destra stava passando la palla al centrattacco: ma la palla, a mezzana, fu vista deviare, spinta da una forza invisibile, e infilarsi nella rete avversaria passando tra le gambe del portiere.

— Gol! — gridava la folla.

— Che tiro! — commentava qualcuno. — Avete visto com'era tagliato? Calcolato al millimetro. Quello ha un piede d'oro.

Ma Gelsomino, tornato in sé, capi di averla fatta grossa. «Non c'è dubbio, — pensò, — il gol l'ho fatto io, con la voce. Bisogna che me ne stia zitto, altrimenti dove va a finire lo sport? Anzi, anzi: bisogna che faccia un gol anche dall'altra parte, per fare pari».

Nella ripresa, infatti, si presentò un'occasione favorevole. Mentre i calciatori avversari erano all'offensiva, Gelsomino lanciò un grido e cacciò il pallone nella porta dei suoi compaesani. Il cuore gli piangeva, si capisce. Anche dopo tanti anni, raccontandomi quell'episodio, Gelsomino aggiungeva:

— Avrei preferito tagliarmi un dito che segnare quel gol, ma dovevo farlo.

— Un altro al tuo posto avrebbe fatto vincere sempre la squadra del suo cuore.

Un altro sì, ma Gelsomino no: era leale, lui, sincero come l'acqua limpida. E così crebbe fino a diventare un giovanotto, non tanto alto, per la verità: anzi, più piccolo che alto, più magro che grasso, un tipo adatto a portare il suo nome, un ometto che se gli avessero dato un nome meno leggero sarebbe diventato gobbo per la fatica di portarlo. Non era più uno scolaro, da un pezzo, ma un contadino, e tale sarebbe rimasto, e non ci sarebbe nessuna storia speciale da raccontare su di lui, se non gli fosse capitata la spiacevole avventura, che adesso conoscerete.

Al vicinato non far sapere che la tua voce matura le pere

La mattina Gelsomino andò nei campi e vide che le pere erano mature. Le pere fanno così: senza dirvi niente lavorano, lavorano, una mattina andate a vederle e sono mature, è ora di coglierle.

«Peccato, — disse Gelsomino fra sé, — non ho portato la scala. Andrò a casa a prenderla e porterò anche la pertica per scuotere i rami più alti».

Invece in quel momento gli venne un'idea, quasi un capriccio.

— Se provassi con la voce? — si domandò.

E un po' per ischerzo, un po' sul serio, si piantò sotto l'albero e lanciò un grido:

— Giù!

— Patapum, patapàm, patapùmfete, — gli risposero le pere, piovendogli intorno a centinaia.

Gelsomino passò a un altro albero e fece lo stesso. Ogni volta che gridava «giù», le pere si staccavano dal ramo, come se fossero state lì solo ad aspettare quell'ordine, e cadevano a terra. La cosa mise Gelsomino di buon umore.

«Fatica risparmiata, — pensava, — peccato che non ci abbia pensato prima ad usare la voce al posto della scala e della pertica».

Mentre faceva il giro del frutteto, lo vide un contadino che zappava nel podere accanto: si fregò gli occhi, si pizzicò il naso, tornò a guardare, e quando fu ben certo di non sognare, corse a chiamare la moglie.

— Guarda anche tu, — le disse tremando. — Gelsomino è sicuramente uno stregone.

La donna guardò, e cadde in ginocchio esclamando:

— È un santo.

— Ti dico che è uno stregone!

— E io ti dico che è un santo!

Marito e moglie, fino a quel giorno, erano andati abbastanza d'accordo: ma in quel momento misero mano lui alla zappa, lei alla vanga e stavano per difendere con le armi le loro opinioni, quando il contadino propose:

— Andiamo a chiamare i vicini. Che vedano anche loro, sentiamo anche il loro parere.

L'idea di correre a chiamar gente, e di aver materia per spettegolare un bel po', convinse la donna a posare la vanga. Prima di sera tutto il paese sapeva quel ch'era successo e la gente si era divisa in due partiti: uno sosteneva che Gelsomino era un santo, l'altro che Gelsomino era uno stregone. Le discussioni crebbero come le onde del mare quando comincia a soffiare il maestrale.

Scoppiarono anche delle liti, ci furono dei feriti, leggeri per fortuna: uno, per esempio, si scottò con la pipa perché, nel fervore della discussione, se l'era cacciata in bocca dalla parte del fornello. I carabinieri non sapevano che pesci pigliare, e difatti non ne prendevano: passavano da un gruppo all'altro predicando la calma ai due partiti.

I più fanatici si diressero verso il podere di Gelsomino: alcuni per strapparne un ricordo, perché era terra benedetta, altri per devastarlo, perché era terra stregata. Gelsomino, nel veder correre tutta quella gente, pensò che fosse scoppiato un incendio da qualche parte, e afferrò un secchio per aiutare a spegnere le fiamme. Ma la gente si fermò davanti alla sua porta, e Gelsomino sentì che si parlava di lui.

— Eccolo, eccolo!

— È un santo.

— Macché santo: è uno stregone. Ha anche il secchio per fare le magie, guardate.

— Stiamo lontani, per carità! Se ci butta addosso quella roba siamo perduti.

— Quale roba?

— Ma non vedete? È pece dell'inferno: roba che dove tocca passa da parte a parte e non c'è medico che possa tappare il buco.

— È un santo, è un santo!

— Ti abbiamo visto, Gelsomino: tu comandi ai frutti di maturare ed essi maturano, comandi loro di cadere e cadono.

— Siete diventati tutti matti? — domandò Gelsomino. — È solo per colpa della mia voce. Fa uno spostamento d'aria come quando soffia un ciclone.

— Sì, sì, lo sappiamo, — gridò una donna, — tu fai i miracoli con la voce.

— Macché miracoli, sono stregonerie!

Gelsomino buttò per terra il secchio, con un gesto di rabbia, entrò in casa e tirò il catenaccio.

«La mia pace è terminata, — rifletteva. — Non potrò più fare un passo senza che la gente mi corra dietro. Di sera, a veglia, non parleranno che di me, e spaventeranno i bambini raccontando loro che sono uno stregone. È meglio che me ne vada. Del resto, che cosa faccio in questo paese? I miei genitori sono morti, i miei migliori amici sono caduti in guerra. Me ne andrò per il mondo e proverò a far fortuna con la mia voce. C'è gente pagata per cantare: è strano, perché nessuno dovrebbe essere pagato per una cosa che fa piacere come cantare, ma è così. Forse riuscirò a diventare un cantante anch'io».

E presa questa decisione, mise le sue poche cose in uno zaino e uscì nella via. La folla gli fece largo, sussurrando. Gelsomino non guardò nessuno. Teneva gli occhi fissi davanti a sé e non diceva niente. Ma quando fu abbastanza lontano, si voltò a guardare un'ultima volta la sua casa.

La gente era ancora là, e se lo additava come se fosse stato un fantasma.

«Ora gli faccio io uno scherzo come si deve», — pensò Gelsomino.

Si riempì i polmoni d'aria e gridò:

— Addio! — con tutta la potenza della sua voce.

L'effetto di quel saluto fu immediato: gli uomini si sentirono portar via di testa il cappello da una ventata improvvisa, e qualche vecchia signora, purtroppo, si trovò da un attimo all'altro con la testa più calva di un uovo, a rincorrere la sua parrucca che aveva preso il volo.

— Addio, addio! — ripetè Gelsomino, ridendo di cuore per la prima monelleria della sua vita.

Cappelli e parrucche si riunirono in uno stormo, come uccelli migratori si alzarono fra le nuvole, sospinti dalla forza straordinaria della voce, e in pochi minuti disparvero. Si seppe in seguito che erano andati a ricadere a distanza di parecchi chilometri: qualcuno passò perfino il confine.

Anche Gelsomino, qualche giorno dopo, varcava il confine e scendeva nel più strano paese di questo mondo.

Qui assisterete con Gelsomino alla nascita di Zoppino

La prima cosa che Gelsomino trovò entrando in quel paese straniero fu una moneta d'argento. Brillava per terra, accanto al marciapiedi, bene in vista.

«Strano, — pensò Gelsomino, — che nessuno l'abbia raccolta. Io non me la lascerò scappare di certo. I miei pochi soldi sono finiti già da ieri sera, ed oggi non ho ancora aperto bocca per metterci un pezzo di pane. Ma prima domanderò se qualcuno l'ha persa, qua in giro».

Si avvicinò ad un gruppetto di persone che lo osservavano bisbigliando e mostrò la sua moneta:

— Qualcuno di lor signori l'ha perduta? — domandò con un fil di voce, per non spaventarli.

— Vattene, — gli fu risposto, — e mostra quella moneta il meno possibile, se non vuoi passare dei guai.

— Mi scusino tanto, — sussurrò Gelsomino, confuso,

E senz'altro si diresse verso un negozio la cui insegna prometteva: «GENERI ALIMENTARI E DIVERSI».

Nella vetrina, invece che prosciutti e scatole di marmellata, si ammucchiavano quaderni, scatole di pastelli, bottiglie d'inchiostro.

«Saranno i "generi diversi"», — disse Gelsomino fra sé. Ed entrò fiducioso nel negozio.

— Buonasera, — lo salutò cerimoniosamente il commerciante.

«A dire la verità, — riflette Gelsomino, — non ho ancora sentito

suonare mezzogiorno. Ma non è il caso di fare storie».

E col suo solito fil di voce (anche troppo rimbombante per le orecchie normali) si informò:

— Potrei avere del pane?

— Ma certo, caro signore. Quanto ne desidera? Una bottiglia o due? Rosso o nero?

— Nero no di certo, — rispose Gelsomino. — E poi, lo vendete davvero in bottiglie?

Il negoziante scoppiò a ridere:

— E come vuole che lo vendiamo? Al suo paese forse glielo tagliano a fette? Guardi, guardi che bel pane abbiamo!

E così dicendo gli mostrò uno scaffale su cui, allineate meglio d'un battaglione di soldati, stavano centinaia di bottiglie d'inchiostro dei più diversi colori. In tutto il negozio, del resto, non si vedeva nulla di commestibile: non una crosta di formaggio, non una buccia di mela.

«Non sarà diventato matto? — si domandò Gelsomino. — Farò bene ad assecondarlo».

— Un pane bellissimo, infatti, — disse poi, indicando una bottiglia d'inchiostro rosso, più che altro per sentire che cosa gli avrebbe risposto il commerciante.

— Vero? — disse quello, raggiante di soddisfazione per il complimento. — È il più bel pane verde che sia mai stato messo in commercio.

— Verde?

— Ma certo. Scusi, forse lei non ci vede bene?

Gelsomino era sicuro di vedere una bottiglia d'inchiostro rosso e stava già cercando una scusa qualunque per ritirarsi in buon ordine e andare in cerca di un negoziante meno pazzo. Ma improvvisamente gli venne un'idea.

— Senta, — disse, — il pane tornerò a comprarlo più tardi. Mi saprebbe indicare, intanto, un negozio dove comprare dell'inchiostro di buona qualità?

— Certamente, — rispose il negoziante, con il suo eterno, cerimonioso sorriso. — Lì di fronte, guardi, c'è la più rinomata cartoleria della città.

Nella vetrina di fronte erano esposte bellissime forme di pane, e torte, e paste, e spaghetti, e maccheroni, e montagne di formaggi, foreste di salami e salamini.

«Proprio come pensavo, — si disse Gelsomino, — quel commerciante è impazzito e chiama pane l'inchiostro, inchiostro il pane. Qui il paesaggio è un po' più confortante».

Entrò nel negozio e chiese mezzo chilo di pane.

— Pane? — si informò premurosamente il commesso. — Guardi che ha sbagliato. Il pane si vende là di fronte. Noi vendiamo solo cancelleria, vede?

E indicò con un largo, orgoglioso gesto della mano tutto quel ben di dio di roba da mangiare.

«Ho capito, — concluse fra sé Gelsomino, — in questo paese bisogna parlare alla rovescia. Se chiami pane il pane non ti capiscono».

— Mi dia mezzo chilo d'inchiostro, — disse al commesso. Questi gli pesò mezzo chilo di pane e glielo porse incartato con tutte le regole.

— Vorrei anche un po' di quello, — aggiunse Gelsomino, indicando una forma di cacio parmigiano, senza arrischiarsi a darle un nome.

— Un po' di gomma da cancellare? — domandò il commesso. — Subito, signore!

Tagliò una bella fetta di formaggio, la pesò, l'incartò.

Gelsomino tirò un respiro di sollievo e gettò sul banco la moneta d'argento trovata poco prima.

Il commesso la guardò, la studiò per qualche minuto, la gettò più volte sul banco per ascoltarne il suono, la scrutò con una lente, si provò perfino a morderla, e finalmente la rese a Gelsomino di malagrazia, sentenziando freddamente:

— Mi dispiace, giovanotto, la sua moneta è buona.

— Meno male, — sorrise Gelsomino, fiducioso.

— Meno male un corno. Le sto dicendo che quella moneta è buona, io non la posso accettare. Qua la mia roba e se ne vada per la sua strada. E buon per lei, giovanotto, che non ho voglia di uscire in strada per chiamare una guardia. Lo sa che cosa c'è per gli spacciatori di monete buone? La prigione!

— Ma io…

— Lei non alzi tanto la voce, che non sono sordo! Vada, vada via: torni con una moneta falsa e la merce sarà sua. Guardi, non sto nemmeno a disfare i pacchetti. Glieli tengo qui da una parte, va bene? Buonasera.

Gelsomino si cacciò in bocca un pugno per non gridare. Nei pochi metri che dividevano il banco dalla porta si svolse tra Gelsomino e la sua voce questo brevissimo dialogo:

LA VOCE — Vuoi che cacci un «ah!» e gli mandi in pezzi la vetrina?

GELSOMINO — Per carità, in questo paese sono appena arrivato e già tutto mi va storto.

LA VOCE — Però io mi debbo sfogare, se no scoppio: tu sei il mio padrone, trovalo tu il modo.

GELSOMINO — Abbi pazienza: usciamo dal negozio di questo pazzo. Non lo voglio rovinare. In questo paese c'è qualcosa che non capisco.

LA VOCE — Sbrigati che non ne posso più. Ecco, ecco, sto per gridare… sto per fare un macello…

Gelsomino si mise a correre, svoltò per una stradina solitària, poco più larga di un vicolo. Si guardò intorno rapidamente: non c'era nessuno. Allora si tolse il pugno di bocca e lasciò andare un piccolo «Ah!», per liberarsi dalla rabbia che aveva in corpo. Si udì un lampione andare in pezzi, e un vaso di fiori che stava in equilibrio su un davanzale precipitò sul selciato. Gelsomino sospirò:

— Quando avrò dei soldi manderò un vaglia al comune per pagare il lampione e regalerò un altro vaso di fiori a quel balcone. Non c'è niente altro di rotto?

— Nient'altro, — gli rispose una vocetta sottile sottile, tra due colpi di tosse.

Gelsomino cercò il padrone di quella vocetta e vide un gatto, o almeno qualcosa che da lontano poteva anche assomigliare a un gatto: era tutto rosso, per cominciare, ma rosso papavero, rosso vernice; aveva tre sole zampe; infine, cosa più straordinaria ancora, era soltanto il contorno di un gatto, come uno di quei pupazzetti che i bambini disegnano sui muri.

— Un gatto parlante? — si meravigliò Gelsomino.

— Sono un gatto un po' speciale, lo riconosco. Per esempio, so anche leggere e scrivere. Ma dopotutto sono figlio di un gessetto scolastico.

— Figlio di chi?

— Mi ha disegnato su quel muro una bambina con un pezzo di gesso rubato a scuola. Siccome stava arrivando una guardia, per la fretta di scappare la bimba mi ha fatto solo tre zampe. Perciò sono zoppo, anzi, ho deciso che il mio nome sarà Zoppino. Ho anche un po' di tosse, perché il muro era piuttosto umido, e io ci ho passato proprio i mesi dell'inverno.

Gelsomino osservò il muro. Vi era rimasta l'impronta vuota di Zoppino, come se il disegno si fosse staccato dall'intonaco.

— Ma come sei saltato giù? — domandò Gelsomino.

— Devo ringraziare la tua voce, — rispose Zoppino. — Se tu avessi gridato un po' più forte, forse avresti sfondato il muro, e sarebbe stato un guaio. Così invece, per me è stata una fortuna. Ah, che bellezza andare per il mondo, sia pure con tre sole zampe. Tu del resto ne hai soltanto due e ti bastano, vero?

— Già, — ammise Gelsomino, — sono anche troppe: se ne avessi avuta una sola non mi sarei mosso da casa.

— Non sei molto allegro, — osservò Zoppino. — Che cosa ti è successo?

Mentre Gelsomino stava per cominciare il racconto delle sue peripezie, passò per la stradina un gatto vero, con quattro vere zampe: ma doveva avere dei pensieri perché non si voltò nemmeno a guardare i nostri amici.

— Miao, — gli gridò Zoppino. Nella lingua dei gatti questa parola vuol dire «ciao».

Il gatto si fermò. Pareva meravigliato, o piuttosto scandalizzato.

— Mi chiamo Zoppino. E tu? — si informò il gatto-scarabocchio. Il gatto vero parve in dubbio se rispondere o no, poi borbottò di malavoglia:

— Il mio nome è Fido.

— Che cosa dice? — domandò Gelsomino, che naturalmente non capiva nulla.

— Dice che si chiama Fido.

— Ma non è un nome da cani?

— Appunto.

— Non ci arrivo, — disse Gelsomino. — Prima un cartolaio che pretende di darmi inchiostro per pane, adesso un gatto con un nome da cani.

— Caro mio, — spiegò Zoppino, — lui crede di essere un cane. Vuoi sentire?

E rivolto al gatto, lo salutò cordialmente:

— Miao, Fido.

— Bau, bau, — rispose il gatto, arrabbiatissimo. — Vergognati: un gatto che miagola.

— Ma io sono un gatto, — disse Zoppino, — anche se ho soltanto tre zampe disegnate col gesso rosso.

— Tu sei piuttosto il disonore della nostra razza. Sei un bel bugiardo, va là. Non voglio fermarmi un minuto di più a parlare con te. Del resto comincia a piovere: è meglio che corra a casa a prendere l'ombrello.

E se ne andò, voltandosi di tanto in tanto ad abbaiare.

— Che cos'ha detto? — domandò Gelsomino.

— Ha detto che piove.

Gelsomino guardò in cielo: fra i tetti, il sole splendeva più bello che mai, e non si sarebbe potuta vedere una nuvola nemmeno con un cannocchiale da marina.

— Speriamo che i temporali di questo paese somiglino tutti a questo. Mi sembra di essere capitato in un mondo alla rovescia.

— Caro Gelsomino, tu sei più semplicemente capitato nel paese dei bugiardi. Qui tutti, per legge, dicono bugie. E guai se dicono la verità: pagano certe multe da levare la pelle, compresa quella della coda.

E a questo punto Zoppino, che dal suo posto di osservazione sul muro aveva potuto imparare tante cose, fece a Gelsomino una completa descrizione del paese dei bugiardi.

Storia breve ma senza riguardi del paese dei bugiardi

— Devi sapere, — cominciò Zoppino…

Ma io abbrevierò il suo racconto, per non farvi perdere troppo tempo, come segue.

Molto tempo prima che Gelsomino arrivasse in quel paese straniero, vi era giunto dal mare un abile ed audace pirata, chiamato Giacomone: un uomo abbastanza grande e grosso da portare un nome simile senza piegarsi, e abbastanza avanti negli anni da desiderare una sistemazione.

«Ormai, — egli si era detto, — la gioventù se n'è andata. Di correre il mare sono stufo. È meglio che io occupi qualche isoletta e mi ritiri dalla professione. Non dimenticherò i miei pirati, certo: li nominerò maggiordomi, camerieri, stallieri, fattori, e non avranno da lamentarsi del loro capo».

Fatto questo progetto, cominciò a cercare la sua isoletta, ma erano tutte troppo piccole per i suoi gusti. E se andavano bene per i suoi gusti non piacevano alla ciurma. Uno ci voleva il fiume per pescare le trote, e il fiume non c'era. Un altro ci voleva il cinematografo, un altro la banca per far fruttare i suoi risparmi di pirateria.

— Perché non occupiamo qualcosa di meglio di un'isoletta?

Andò a finire, insomma, che occuparono un'intera nazione, con una grande città piena di banche e di teatri, con molti fiumi per pescare le trote e andarci in barca la domenica, e fin qui niente di straordinario: succede abbastanza spesso che una banda di pirati si impadronisca di questo o di quel paese in qualche parte del mondo.

Occupato il paese, Giacomone pensò bene di cambiare il proprio nome in quello di rè Giacomone Primo e di nominare i suoi uomini ammiragli, ciambellani, cortigiani e capi dei pompieri.

Naturalmente Giacomone fece anche una legge che obbligava tutti a chiamarlo Sua Maestà, pena il taglio della lingua. Ma per essere sicuro che a nessuno saltasse mai in testa di dire la verità sul suo conto ordinò ai suoi ministri di riformare il vocabolario.

— Bisogna cambiare tutte le parole, — spiegò. — Per esempio, la parola pirata significherà gentiluomo. Così quando la gente dirà che io sono un pirata, che cosa dirà, nella nuova lingua? Che io sono un gentiluomo.

— Per tutte le balene che ci hanno visto andare all'arrembaggio! — gridarono i ministri entusiasti. — Questa sì che è un'idea di lusso, da mettere in cornice.

— Chiaro? — proseguì Giacomone. — Allora avanti: cambiate tutti i nomi delle cose, degli animali e delle persone. Per cominciare, alla mattina invece che «buongiorno» bisognerà dire «buonanotte»: così i miei fedeli sudditi cominceranno la loro giornata con una bugia. Naturalmente, al momento di andare a letto bisognerà dire «buongiorno».

— Magnifico, — gridò uno dei ministri. — E per dire a uno «che bella cera, avete», si dovrà dire «guarda che bella faccia da schiaffi!».

Fatta la riforma del vocabolario, promulgata la legge che rendeva obbligatoria la bugia, ne venne fuori una confusione incredibile.

Nei primi tempi la gente si sbagliava facilmente. Per esempio, andava a comprare il pane dal fornaio, dimenticandosi che ormai il fornaio vendeva quaderni e matite e che il pane si comperava dal cartolaio. Oppure andava ai giardini pubblici, guardava i fiori e sospirava:

— Che belle rose!

Subito saltava fuori da un cespuglio una guardia di rè Giacomone con le manette pronte.

— Ma bravo, bravo davvero. Siete in contravvenzione, lo sapete? Come vi salta in testa di chiamare «rose» le «carote»?

— Chiedo scusa, — balbettava il malcapitato. E in gran fretta si metteva a lodare gli altri fiori del giardino.

— Che splendide ortiche! — diceva indicando le viole del pensiero.

— No, no, non me la fate. Ormai il delitto lo avete commesso. Passerete un po' di tempo in prigione ad allenarvi a dire le bugie.

Nelle scuole, quello che successe non si può descrivere. Giacomone aveva fatto cambiare tutti i numeri della tavola pitagorica. Per fare una somma bisognava fare una sottrazione. Per fare una divisione una moltiplicazione.

Gli stessi maestri non riuscivano più a correggere i problemi. Per i somari una vera bazza: più facevano errori, e più erano sicuri che avrebbero avuto un bel voto.

E i temi?

Con le parole a rovescio, potete figurarvi che roba. Ecco per esempio come uno scolaro che poi fu premiato con una medaglia d'oro falso svolse il tema «Descrivete una bella giornata»:

«Ieri pioveva: ah, che delizia andare sotto la pioggia che cadeva a goccioloni. La gente, finalmente, aveva potuto lasciare a casa ombrelli e soprabiti e andava in maniche di camicia. A me non piace quando: c'è il sole: bisogna stare chiusi in casa per non bagnarsi, e si passa la notte a guardare i suoi raggi che scivolano tristemente sulle tegole della porta».

Tenete presente, per apprezzare pienamente la composizione, che le tegole della porta in quel linguaggio erano i vetri della finestra.

Ma basta così: ormai sapete di che si tratta. Nel paese dei bugiardi perfino gli animali avevano dovuto imparare a dire le bugie: i cani miagolavano, i gatti abbaiavano, i cavalli muggivano e il leone, nella sua gabbia al giardino zoologico, era costretto a squittire, perché il suo ruggito era stato assegnato al topo.

Solo i pesci nell'acqua e gli uccelli nell'aria potevano infischiarsene i; delle leggi di rè Giacomone: i pesci perché stanno sempre zitti, e perciò nessuno può obbligarli a dir bugie; gli uccelli, perché gli acchiappacani non potevano arrestarli. Gli uccelli continuavano come sempre a cantare ciascuno nel suo verso, e qualche volta la gente li guardava con malinconia.

— Beati loro, — sospirava la gente, — nessuno gli può dare la multa.

Ascoltando il racconto di Zoppino, Gelsomino era diventato sempre più triste.

«Come farò a vivere in questo paese? — pensava. — Con questa mia voce troppo forte, se mi scapperà detta la verità mi sentiranno tutte le guardie di Giacomone. Inoltre, è una voce così ribelle: chissà che fatica tenerla cheta».

— Ecco, — concluse Zoppino, — ora sai tutto. E vuoi sapere un'altra cosa? Ho fame.

— Anch'io. Me n'ero quasi dimenticato.

— La fame è la sola cosa che non può essere dimenticata. Il tempo non le fa paura: anzi, più passa il tempo e più senti fame. Qualcosa troveremo, vedrai. Ma prima voglio lasciare un salutino a questo muro del quale sono stato prigioniero per tanto tempo.

E con la sua zampa di gesso rosso scrisse, nel bel mezzo dell'impronta che aveva lasciato:

— Miao! Viva la libertà!

Trovare qualcosa da mangiare non fu facile. Gelsomino, per tutto il tempo che andarono peregrinando per la città, tenne sempre gli occhi al suolo, nella speranza di trovare una moneta falsa da spendere. Zoppino, invece, guardava tra la folla come se cercasse qualcuno di sua conoscenza.

— Eccola, — disse finalmente, indicando una vecchia signora che camminava frettolosamente lungo il marciapiedi, reggendo un pacchettino.

— Chi è?

— È zia Pannocchia, la protettrice dei gatti. Tutte le sere porta un pacchettino di avanzi ai gatti randagi che si radunano vicino al parco della reggia di Giacomone.

Zia Pannocchia era una vecchia diritta, secca, alta quasi due metri, dall'aspetto severo. A guardarla, si sarebbe detto quel tipo di signora che caccia i gatti con la scopa. Invece, stando alle parole di Zoppino, era tutto il contrario.

Essa guidò Gelsomino e il suo compagno in una piazzetta, in fondo alla quale il muro del parco metteva in mostra i suoi merli sormontati da cocci aguzzi di bottiglia. Una decina di gatti piuttosto malandati e spelacchiati l'accolsero abbaiando disordinatamente.

— Stupidi, — disse Zoppino. — Ora vedrai come li sistemo.

Nell'istante in cui zia Pannocchia svolgeva il suo cartoccio e ne posava il contenuto accanto al marciapiedi Zoppino balzò nella mischia e lanciò un acutissimo: «MIAO!»

Un gatto che miagolava invece di abbaiare era più di quanto i gatti di quei paese fossero abituati a vedere. La sorpresa fu così forte che essi rimasero lì, immobili come statue di gatti con la bocca spalancata.

Zoppino addentò due teste di merluzzo e la spina di una sogliola e in quattro salti fu sul muro del parco, lo scavalcò, si lasciò cadere in un cespuglio.

Gelsomino si guardò attorno: avrebbe voluto scavalcare il muro a sua volta, ma zia Pannocchia lo stava osservando con sospetto.

«Non voglio che dia l'allarme», pensò. E fingendosi un passante qualunque, diretto in un qualsiasi posto, se ne andò per un'altra strada.

I gatti, passato il primo istante di sorpresa, abbaiavano aggrappandosi alle gonne di zia Pannocchia che, per la verità, era rimasta più meravigliata di loro. Infine sospirò, distribuì ai gatti il resto delle provviste, diede un'ultima occhiata al muro dietro il quale era scomparso Zoppino e tornò a casa.

Gelsomino, appena girato l'angolo, trovò finalmente la moneta falsa che cercava e potè comprarsi pane e formaggio (ossia, come si diceva laggiù, «un tramezzino di inchiostro e gomma da cancellare»).

La notte scendeva rapidamente, era stanco, aveva sonno. Trovò un portoncino aperto, si infilò in una cantina e si addormentò su un mucchio di carbone.

Zoppino scopre per combinazione le cento parrucche di rè Giacomone

Mentre Gelsomino dorme (senza sospettare che proprio nel sonno gli capiterà una nuova avventura, della quale vi dirò in seguito) seguiremo le orme delle tre rosse zampe di Zoppino. Le teste di merluzzo e la spina di sogliola gli parvero deliziose. Era la prima volta che metteva qualcosa sotto i denti: fin ch'era rimasto sul muro infatti, non gli era mai capitato di aver fame. Era anche la prima volta che un gatto si trovava a passare la notte ne! parco reale.

«Peccato non ci sia anche Gelsomino, — egli si disse. — Avrebbe potuto fare una serenata a rè Giacomone e mandargli in pezzi le vetrate».

Levando gli occhi sul palazzo, vide appunto, all'ultimo piano, una fila di finestre illuminate.

«Rè Giacomone sta andando a letto, — pensò. — Non voglio perdermi lo spettacolo».

Svelto come quel gatto che era, si arrampicò da un piano all'altro e si affacciò su un immenso salone, che era poi l'anticamera della stanza da letto di Sua Maestà.

Due file interminabili di camerieri, servitori, cortigiani, ciambellani, ammiragli, ministri ed altre autorità si inchinavano al passaggio di Giacomone, grande, grosso e brutto da spaventare. Aveva però due cose bellissime: i capelli folti, lunghi, ondulati, di un fiammante colore d'arancio, e una camicia da notte viola, col nome ricamato sul petto.

Al suo passaggio tutti si inchinavano e mormoravano rispettosamente:

— Buongiorno, Maestà. Felice giornata, Sire.

Giacomone si fermava di quando in quando a sbadigliare, e subito un cortigiano gli metteva educatamente la mano davanti alla bocca. Poi Giacomone riprendeva il cammino borbottando:

— Questa mattina non ho proprio voglia di dormire. Mi sento fresco come un cocomero.

Naturalmente voleva dire tutto il contrario, ma si era tanto abituato a far dire le bugie agli altri che le diceva grosse anche lui, ed era il primo a crederci.

— Vostra Maestà ha una magnifica faccia da schiaffi, — osservò, inchinandosi, uno dei ministri.

Giacomone gli diede un'occhiataccia, ma si ricordò in tempo che quelle parole significavano che aveva una bellissima cera: sorrise, sbadigliò, si voltò a salutare la folla con un gesto della mano, raccolse la coda della sua camicia viola e si ritirò nella sua stanza.

Zoppino cambiò finestra per poter continuare le sue osservazioni.

Sua Maestà Giacomone, appena rimasto solo, corse davanti allo specchio e si pettinò a lungo la bellissima chioma arancione con un pettine d'oro.

«Ci tiene proprio ai suoi capelli, — riflette Zoppino, — e del resto ha ragione: sono belli davvero. Chissà come avrà fatto un uomo con quei capelli a diventare pirata. Doveva fare il pittore o il musicista».

In quel momento Giacomone posò il pettine, afferrò delicatamente due ciocche della capigliatura sulle tempie e uno, due, tre, con un solo movimento della mano, là, rimase calvo come un ciotole. Un indiano d'una volta non avrebbe fatto più in fretta a fare lo scalpo ai suoi ospiti.

— Una parrucca! — mormorò Zoppino, sbalordito.

La bella chioma arancione non era altro che una parrucca: sotto di essa la testa di sua maestà era di un brutto color rosa, e qua e là mostrava dei bozzi e bitorzoli che Giacomone si tastava sospirando tristemente. Poi spalancò un armadio e mostrò a Zoppino, che spalancò ancor di più gli occhi, una raccolta di parrucche di tutti i colori: bionde, blu, nere, pettinate in cento modi diversi.

Giacomone, che compariva in pubblico sempre con la parrucca arancione, in privato, e cioè a letto, amava cambiare parrucca, per consolarsi della sua calvizie. Non c'era nessuna ragione di vergognarsi perché i capelli gli erano caduti: a quasi tutte le persone perbene cadono i capelli, a una certa età. Ma Giacomone era fatto così: la propria testa senza criniera non la poteva soffrire.

Sotto gli occhi di Zoppino, Sua Maestà provò una dopo l'altra decine di parrucche, passeggiando davanti allo specchio per ammirarne l'effetto: si guardava di fronte, di profilo, con uno specchietto si scrutava la nuca, come una primadonna prima di andare in scena.

Finalmente trovò di suo gusto un parrucchino viola, della stessa tinta della sua camicia da notte: se lo calzò stretto sulla pelata, andò a letto e spense la luce.

Zoppino passò ancora una mezz'oretta curiosando qua e là, sui davanzali delle finestre del palazzo reale. Non era un'occupazione da persona educata: se non sta bene origliare alle porte, figurarsi se sta bene curiosare alle finestre; a parte il fatto che voi non ci riuscireste mai, perché non siete né gatti né equilibristi.

Gli piacque particolarmente uno dei ciambellani, che prima di andare a letto si spogliò della sua divisa di corte, lanciando in tutte le direzioni pizzi, decorazioni, spadini. E sapete che cosa indossò? I suoi vecchi abiti da pirata: un paio di calzonacci arrotolati al ginocchio, una blusa a scacchettoni e una benda nera che gli copriva l'occhio destro. In quel costume il vecchio pirata si arrampicò non già sul letto, ma in cima al baldacchino che sovrastava le coperte: doveva aver nostalgia della coffa dell'albero maestro. Infine accese una pipa da quattro soldi, aspirandone golosamente un fumo di cui Zoppino potè a malapena sentire il puzzo senza tossire.

«Guarda, guarda, — si disse il nostro osservatore, — potenza della verità: perfino un vecchio pirata vuol bene ai suoi veri vestiti».

Zoppino decise che dormire nel parco, a rischio di essere sorpreso da qualche sentinella, sarebbe stata un'imprudenza. Tornò dunque a scavalcare il muro di cinta, e ricadde nella piazza principale della città, certamente quella su cui il popolo si radunava ad ascoltare i discorsi di rè Giacomone.

Zoppino si guardava attorno, in cerca di un qualsiasi riparo per trascorrervi la notte, quando avvertì un certo prurito alla zampa destra.

«Strano, — borbottò fra sé, — che sua maestà mi abbia attaccato le pulci? O sarà stato quel vecchio pirata?»

Ma il prurito non era di quel genere: la zampa, voglio dire, gli prudeva di dentro, non di fuori. Zoppino se la esaminò attentamente ma non vide l'ombra di una pulce.

«Ho capito, — concluse, — dev'essere la voglia di scrivere sui muri. Mi ricordo di aver provato un simile prurito ieri sera, quando grazie a Gelsomino riuscii a sbarcare su questa terra. Lascerò un messaggio a questo rè dei bugiardi».

Si avvicinò cautamente alla facciata della reggia e si accertò che le sentinelle non potessero scoprirlo. Ma le sentinelle, come del resto era giusto in quel mondo alla rovescia, dormivano e russavano. Ogni tanto un caporale d'ispezione passava per accertarsi che non ci fossero sentinelle sveglie.

«Meglio così», si rallegrò Zoppino. E con la sua zampina di gesso rosso, la destra, si capisce, scrisse sul muro della reggia, proprio di fianco al portone principale:

RÈ GIACOMONE HA LA PARRUCCA!

«Questa scritta ci sta bene, — disse dopo averla osservata. — Ora ce ne vorrebbe una anche dall'altra parte del portone».

In un quarto d'ora ripetè la scritta un centinaio di volte, e alla fine era stanco come uno scolaro quando ha terminato di scrivere il suo castigo.

— E adesso, a nanna.

Proprio in mezzo alla piazza si innalzava una colonna di marmo, istoriata con le imprese di rè Giacomone: tutte inventate, naturalmente. Si vedeva Giacomone che distribuiva le sue ricchezze ai poveri. Giacomone che sconfiggeva i nemici, Giacomone che inventava l'ombrello per proteggere i suoi sudditi dalla pioggia.

In cima alla colonna c'era abbastanza spazio perché un gatto con tre sole zampe ci si potesse sdraiare al sicuro da tutti i pericoli, per schiacciarvi un sonnellino. Zoppino vi s'arrampicò, aggrappandosi alle sculture, si accomodò nel bel mezzo del capitello, arrotolò la coda attorno al parafulmine per non cadere e si addormentò ancora prima di chiudere gli occhi.

Prima un discorso sfortunato, poi Zoppino è catturato

All'alba fu svegliato da un fragore di cascata.

«Che ci sia stata un'inondazione mentre dormivo?» si domandò

Zoppino preoccupato. Si sporse dalla colonna e vide la piazza piena di gente che rumoreggiava. Non gli ci volle molto tempo per capire che tutta quella folla si era radunata per leggere il messaggio scritto da lui stesso sulla facciata della reggia:

RÈ GIACOMONE HA LA PARRUCCA!

Nel paese dei bugiardi, la più piccola verità fa più rumore di una bomba atomica. Da tutte le strade giungeva altra gente, richiamata dal chiasso e dalle risate. I nuovi venuti, sulle prime, pensavano che ci fosse una festa:

— Che succede?

— Abbiamo vinto qualche guerra?

— Di più, di più!

— È nato un figlio maschio a Sua Maestà?

— Di più, di più!

— Allora sono state certamente abolite le tasse!

Finalmente anche i nuovi venuti leggevano il messaggio di Zoppino e scoppiavano a ridere. Le grida e le risate svegliarono rè Giacomone nel suo letto e nella sua camicia da notte viola. Il sovrano corse alla finestra, si fregò le mani e si rallegrò:

— Che bellezza! Guardate come mi ama il mio popolo. Sono venuti In massa a darmi la buonanotte. Presto, presto, cortigiani, ciambellani, ammiragli, accorrete, portatemi il manto e lo scettro: voglio andare sul balcone a pronunciare un discorso.

I cortigiani, veramente, erano piuttosto sospettosi.

— Mandiamo prima qualcuno a vedere che cosa è successo.

— Maestà, e se fosse una rivoluzione?

— Macché, non vedete come sono allegri?

— Già, ma perché sono tanto allegri?

— È chiaro: perché tra poco farò un discorso. Dov'è il mio segretario?

— Eccomi, Sire.

Il segretario di rè Giacomone portava sempre sotto il braccio una pesante borsa piena di discorsi pronti per essere pronunciati. Ne aveva di tutte le qualità: istruttivi, commoventi, divertenti, dal primo all'ultimo tutti pieni di bugie. Aprì la borsa e cavò uno scartafaccio di cui lesse il titolo:

— Discorso sulla coltivazione del risotto.

— No, no, niente roba alimentare. A qualcuno può venire in mente di aver fame e mi ascolterà di malavoglia.

— Discorso sull'invenzione del cavallo a dondolo, — lesse ancora il segretario.

— Questo potrebbe anche andare. Tutti sanno che i cavalli a dondolo li ho inventati io. Prima che io diventassi rè i cavalli a dondolo non dondolavano affatto.

— Maestà, ho anche un discorso sul colore dei capelli.

— Magnifico, è quello che ci vuole! — esclamò Giacomone, accarezzandosi la parrucca. Afferrò lo scartafaccio e corse sul balcone.

All'apparizione di Sua Maestà scoppiò qualcosa che poteva essere un grande applauso o una grande risata. Più d'un cortigiano sospettoso giudicò che si trattava di una risata e divenne ancora più sospettoso. Giacomone, invece, prese quel frastuono per un applauso, ringraziò i suoi sudditi con un bel sorriso, e cominciò a leggere il suo discorso.

Non aspettatevi, qui, di poterlo leggere anche voi proprio come fu pronunciato: non ci capireste niente, perché tutte le cose vi erano dette alla rovescia. Io vi tradurrò e riassumerò il significato, fidandomi della memoria di Gelsomino.

Disse dunque all'incirca rè Giacomone:

— Che cos'è una testa senza capelli? Un giardino senza fiori.

— Bravo! — gridò la folla. — È vero! È vero! Quella parola «vero» mise in sospetto anche i cortigiani meno sospettosi. Ma Giacomone continuò tranquillamente il suo discorso:

— Prima che io diventassi rè di questo paese la gente si strappava i capelli per la disperazione. I cittadini diventavano calvi l'uno dopo l'altro, e i parrucchieri restavano disoccupati.

— Bravo! — gridò un cittadino. — Viva i parrucchieri e viva le parrucche!

Giacomone restò un attimo interdetto. Quell'accenno alle parrucche lo turbava nel più profondo del cuore. Tuttavia, cacciando i sospetti, riprese a parlare:

— Cittadini, ora vi dirò perché i capelli colore arancione sono più belli di quelli color verde.

In quel momento un cortigiano, ansante, tirò Giacomone per la manica e gli sussurrò qualcosa all'orecchio.

— Maestà, è successa una cosa terribile.

— Avanti, parla.

— Promettetemi prima che non mi farete tagliare la lingua se vi dirò la verità.

— Promesso.

— Qualcuno ha scritto sui muri che voi portate la parrucca, ed è di questo che la gente ride.

Giacomone, per la sorpresa, si lasciò scappare di mano i fogli del discorso, che scesero ondeggiando sulla folla e finirono in mano ai ragazzini. Se gli avessero detto che la reggia andava a fuoco, egli non si sarebbe infuriato peggio di così. Ordinò di far sgomberare la piazza dai gendarmi.

Poi fece tagliare la lingua al cortigiano che era sceso ad informarsi ed aveva portato la notizia. Il poveretto, nella fretta, aveva chiesto di aver salva la lingua: si era dimenticato che, per aver salva la lingua, doveva chiedere di aver salvo il naso. Così, al massimo, gli avrebbero tagliato il naso, e la lingua gli sarebbe rimasta.

Ma l'ira di Giacomone non era ancora sbollita. In tutto il regno fu subito diffuso un proclama che prometteva centomila talleri falsi a chi avrebbe indicato l'autore dell'offesa recata a Sua Maestà. Nella piazza della reggia, proprio ai piedi della colonna, fu innalzata la ghigliottina, pronta a mozzare la testa all'incauto scrittore.

— Mamma mia! — esclamò Zoppino, ritirandosi sul capitello e tastandosi il collo, — non so come si dice paura nella lingua dei bugiardi, ma se si dice coraggio mi sento molto coraggioso.

Per prudenza, rimase tutto il giorno appollaiato sul suo rifugio. Verso sera, quando fu abbastanza sicuro di non fare cattivi incontri, scivolò giù dalla colonna, guardandosi attorno cento volte prima di fare un passo. Quando fu a terra, le sue zampe posteriori avrebbero subito voluto mettersi a correre, ma ecco di nuovo, nella zampa destra davanti, quel fastidioso prurito.

— Ci risiamo, — borbottò Zoppino, — per liberarmi da questo prurito mi toccherà scrivere da qualche parte qualcosa di spiacevole per rè Giacomone. Si vede che a nascere sui muri non si può fare a meno di passar la vita scarabocchiando a destra e a sinistra. Qui d'altra parte non vedo muri. Toh, scriverò lassù.

E proprio sulla lama della ghigliottina, col gesso rosso della sua zampina, scrisse un nuovo messaggio a rè Giacomone, così formulato:

È LA PURA VERITÀ LA PELATA DI SUA MAESTA!

Il prurito era passato, ma Zoppino osservò con preoccupazione che la sua zampa si era accorciata di qualche millimetro.

— Mi manca già una zampa, — borbottò, — se ne consumerò un'altra a fare lo scrittore, con che cosa camminerò?

— Per intanto, — disse una voce alle sue spalle, — ti aiuterò io. Fosse stato solo per la voce, Zoppino avrebbe anche potuto darsi alla fuga. Ma la voce aveva due buone braccia e solide mani, che lo fecero prigioniero senza scampo. Le braccia, le mani e la voce appartenevano a una signora piuttosto avanti negli anni, alta quasi due metri, secca e severa.

— Zia Pannocchia!

— Proprio io, — sussurrò la vecchia signora, — e tu verrai con me. Ti insegnerò a portar via la cena ai miei gatti, e a scarabocchiare col gesso sui muri.

Zoppino si lasciò avvolgere senza protestare nel mantello di zia Pannocchia: tanto più che, sul portone della reggia, erano apparsi alcuni gendarmi.

«Meno male che zia Pannocchia è arrivata per prima, — pensò, — meglio nelle sue mani che in quelle di Giacomone».

Qui Zoppino senza esitare insegna ai gatti a miagolare

Zia Pannocchia si portò a casa Zoppino e lo cucì a una poltrona. Proprio, lo cucì con ago e filo, come se fosse stato un disegno da fissare su una tovaglia per ricamarla, e prima di spezzare il filo ci fece un doppio nodo perché la cucitura non si sciogliesse.

— Zia Pannocchia, — disse Zoppino, prendendosela allegramente, — avrebbe potuto almeno scegliere un filo blu che si sarebbe intonato

meglio col mio colore. Questo filo arancione è un orrore: mi ricorda la parrucca di Giacomone.

— Non è di parrucche che dobbiamo parlare, — rispose zia Pannocchia, — e l'importante è che tu stia fermo e non mi scappi come l'altra sera. Tu sei una bestia rara, e da te mi aspetto grandi cose.

— Non sono che un gatto, — disse modestamente Zoppino.

— Sei un gatto che miagola: di questi tempi se ne vedono pochi, anzi non se ne vedono affatto. I gatti si sono messi ad abbaiare come cani, e naturalmente ci riescono male, perché non sono nati per quello.

Io amo i gatti, non i cani. Ne ho sette in casa. Dormono in cucina, sotto il lavandino. Ogni volta che aprono bocca mi viene voglia di cacciarli via. Ho provato cento volte a insegnar loro a miagolare, ma non mi danno retta. Non si fidano di me.

Zoppino cominciava a provare simpatia per quella vecchia signora, che senza parere lo aveva salvato dalle guardie, e che aveva in uggia i gatti che abbaiano.

— Comunque, — prosegui zia Pannocchia, — ai gatti ci penseremo domani. Questa sera abbiamo altro da fare.

Si avvicinò ad un piccolo scaffale e ne tolse un libro, di cui mostrò il titolo a Zoppino: «Trattato sulla pulizia».

— E ora, — annunciò zia Pannocchia accomodandosi su una poltrona in faccia a Zoppino, — te ne darò lettura dal primo all'ultimo capitolo.

— Quante pagine sono, zietta?

— Non molte: appena ottocentoventiquattro, compreso l'indice, del quale ti farò grazia. Capitolo primo: perché non bisogna scrivere il proprio nome sui muri. Il nome è una cosa preziosa, non è da buttar via. Fate un bel quadro, e potrete apparvi la vostra firma. Scolpite una bella statua, e il vostro nome starà bene sul piedistallo. Fabbricate una bella macchina, e avrete diritto a chiamarla col vostro nome. Solo le persone che non fanno nulla di buono e non hanno un posto migliore per metterci il loro nome lo vanno a mettere sui muri…

— Sono d'accordo, — proclamò Zoppino. — Difatti io non ho scritto il mio nome sui muri, ma quello di rè Giacomone.

— Silenzio e ascolta. Capitolo secondo: perché non bisogna scrivere sui muri il nome dei propri amici…

— Ho un solo amico, — disse Zoppino. — Anzi, l'avevo e l'ho perduto.

Questo capitolo non lo voglio ascoltare perché mi mette la malinconia…

— Dovrai ascoltarlo per forza, perché di lì non ti puoi muovere.

In quel momento trillò il campanello e zia Pannocchia si alzò per andare ad aprire.

Entrò una bimba sui dieci anni: che era una bimba lo si poteva capire dal ciurlo di capelli «a coda di cavallo» che portava sulla nuca; per il resto, poteva anche essere un maschietto, perché indossava un paio di pantaloni da cowboy e una camicia a scacchi.

— Romoletta! — esclamò Zoppino, al colmo della sorpresa. La bimba lo guardò pensierosa.

— Dove ci siamo conosciuti?

— Ma come, — continuò Zoppino. — Si potrebbe quasi dire che sei la mia mamma. Il mio colore non ti ricorda niente?

— Mi ricorda, — rispose Romoletta, — un pezzetto di gesso che una volta presi in prestito dal cassetto della lavagna, a scuola.

— In prestito? — domandò zia Pannocchia. — E la maestra lo sapeva?

— Non ho fatto in tempo a dirglielo, — spiegò Romoletta. — È suonato subito il campanello di mezzogiorno.

— Benissimo, — disse Zoppino, — si potrebbe quasi dire che io sia figlio di quel gessetto. Per questo, anzi, sono un gatto istruito: parlo, leggo, scrivo e faccio di conto. Certo, ti sarei riconoscente se tu mi avessi disegnato con tutte e quattro le zampe. Ma anche così sono contento.

— Sono contenta anch'io di rivederti, — sorrise Romoletta. — Chissà quante cose avrai da raccontarmi.

— Qui tutti sono contenti, — intervenne zia Pannocchia, — meno io. A quanto pare avete bisogno tutti e due di imparare quello che c'è scritto nel mio libro. Romoletta, siediti lì.

La bimba avvicinò una poltrona alle altre e ci si accovacciò, tirandoci su anche i piedi dopo aver lanciato lontano le scarpe. Zia Pannocchia riprese la lettura al capitolo terzo, che spiegava perché non bisogna scrivere sui muri insulti ai passanti.

Zoppino e Romoletta l'ascoltavano con grande attenzione: Zoppino perché era legato, e non poteva fare altrimenti; Romoletta, invece, con una cert'aria furba della quale comprenderete ben presto il significato.

Giunta al decimo capitolo zia Pannocchia cominciò a sbadigliare. Dapprincipio sbadigliava un paio di volte per pagina, poi gli sbadigli si fecero via via più frequenti: tre per pagina, quattro, poi uno ogni due righe… uno ogni riga… uno ogni parola… Infine ci fu uno sbadiglio più lungo degli altri, e quando la bocca si richiuse, si chiusero contemporaneamente anche gli occhi della buona signora.

— Fa sempre così, — spiegò Romoletta, — a metà del libro si addormenta.

— E adesso dovremo aspettare che si svegli? — domandò Zoppino. — Mi ha cucito tanto stretto che se mi venisse da sbadigliare non potrei allargare la bocca. Inoltre, ho fretta di mettermi in cerca di un amico che non vedo da ieri sera.

— Ci penso io, — disse Romoletta.

Con un paio di forbicine, delicatamente e senza far rumore, recise i fili. Zoppino si stirò, saltò a terra per sgranchirsi le zampe e respirò di soddisfazione.

— Presto, — sussurrò Romoletta, — andiamocene per la cucina.

In cucina il buio era più denso della pece, ma in un angolo, pressappoco dove avrebbe potuto trovarsi l'acquaio, brillavano quattordici fiammelle verdi.

— Sento odor di gatto, — disse Zoppino, — anzi, sento odore di sette gatti.

— Sono quelli della zia.

Dalla parte dell'acquaio vennero sette allegre risatelle.

— Fratello, — disse una voce, — sei cieco oltre che zoppo? Non vedi che siamo cani come te?

— E dagli coi gatti bugiardi! — esclamò Zoppino, arrabbiandosi sul serio. — Siete fortunati che non ho tempo di fermarmi, altrimenti vi insegnerei io a miagolare a forza di graffi. E zia Pannocchia mi direbbe anche grazie.

— Bum! — fecero in coro i sette gatti.

Zoppino attraversò la cucina, zoppicando, ed andò ad accucciarsi davanti ai suoi sette colleghi.

— Miao, — disse con fare provocante.

I sette mici ci rimasero malissimo.

— Avete sentito? — disse il più piccolo di loro. — Sa miagolare davvero.

— Già, e mica male, per un cane.

— Miao, — ripete Zoppino, — miao, miao, miao!

— Sarà uno che fa le imitazioni alla radio, — disse il più vecchio dei sette, — non dategli retta. Vuole un applauso.

— Miao, — fece ancora Zoppino.

— Se devo dire la verità, — borbottò un altro dei sette, — piacerebbe anche a me miagolare così bene. Se volete saperlo, mi sono stancato di abbaiare. Ogni volta che abbaio mi prende uno spavento che mi fa rizzare il pelo.

— Zucconcello mio, — disse Zoppino, — e perché ti spaventi? Perché sei un gatto e non un cane?

— Adesso non offendermi. È già tanto se ti stiamo ad ascoltare. Chissà chi sei.

— Sono un gatto, come voi.

— Cane o gatto, miagolare mi piacerebbe.

— E tu provaci, — disse Zoppino. — Sentirai che roba. Ti verrà in bocca un sapore dolce più del…

— Più del latte di zia Pannocchia? — domandò il più piccolo dei sette.

— Cento volte più dolce.

— Io quasi quasi vorrei provare, — fece il piccolo.

— Miao, miao, — miagolò Zoppino, insinuante. — Coraggio, fratelli gatti, imparate a miagolare!

E mentre Romoletta si teneva la pancia dal ridere, il più piccolo dei sette mici cominciò a emettere un timido miagolio. Il secondo gli fece eco un poco più forte, il terzo si aggiunse al coro: un istante dopo i sette gatti miagolavano come sette violini, incitati a gran voce da Zoppino.

— Cosa ve ne pare?

— È dolce davvero!

— Più del latte zuccherato!

— A proposito, — esclamò allarmata Romoletta, — sveglierete zia Pannocchia. Vieni Zoppino!

Troppo tardi per prendere delle precauzioni. Zia Pannocchia si era svegliata ed era apparsa sulla porta della cucina. Si sentì lo scatto dell'interruttore e si vide la faccia della vecchia signora rigata di lacrime di felicità.

— Micini miei! Finalmente, finalmente!

Zoppino e Romoletta erano già scappati in cortile. I setti mici rimasero un momento indecisi: guardarono la loro padrona, miagolando a perdifiato, senza sapere cosa pensare di quei ruscelletti che le spuntavano dagli occhi; guardarono la porta, e si decisero per quella. Uno dietro la coda dell'altro, si precipitarono in cortile senza cessare un attimo di miagolare.

Zia Pannocchia si affacciò, asciugandosi le lacrime.

— Bravi! Bravi! — continuava a dire. — Bravi!

E i gatti le rispondevano:

— Miao! Miao!

Ma qualcuno, non visto, assisteva al singolare spettacolo: il signor Calimero, ovvero il padron di casa, che si era ridotto ad abitare in un abbaino per affittare fin l'ultima stanza dell'ultimo piano; un uomo antipatico, brutto come una spia. Più volte il signor Calimero aveva proibito a zia Pannocchia di tener bestie in casa, ma la vecchia signora, naturalmente, non gli aveva dato retta.

— Io pago l'affitto, — diceva, — e caro per giunta. In casa mia ricevo chi mi pare.

Calimero occupava buona parte del suo tempo a osservare quel che facevano gli altri dal finestrino della sua soffitta. Fu cosi che quella sera vide i gatti, li udì miagolare e udì anche zia Pannocchia che li approvava ad alta voce, ripetendo: «Bravi! Bravi!»

— Ci siamo, — disse Calimero fregandosi le mani. — Ecco perché quella vecchia strega va in giro a raccogliere cani randagi: niente meno per insegnar loro a miagolare! Questa volta la metto a posto. Scrivo subito una lettera al ministro.

E, chiusa la finestrina, prese penna, carta e calamaio e scrisse:

«Signor ministro, accadono cose incredibili, che mettono a dura prova la pazienza dei cittadini. La signora zia Pannocchia ha fatto questo e questo, eccetera eccetera. Firmato: un amico delia bugia».

Mise la lettera in una busta e corse a impostarla. Per colmo di disgrazia, proprio mentre Calimero rincasava, Romoletta e Zoppino si erano fermati nella via per fare qualcosa che avrebbe meritato loro la lettura di un'altra decina di capitoli di zia Pannocchia. Zoppino, ormai lo sapete, provava di tanto in tanto un prurito speciale, e quando lo provava non poteva fare a meno di scrivere sui muri. Egli stava appunto ubbidendo al suo prurito, e Romoletta lo osservava con invidia perché non aveva in tasca nemmeno il più piccolo pezzo di gesso: né l'uno né l'altra si accorsero di Calimero.

Lo spione, al solo vederli, sospettò subito qualcosa di losco. Si appiattò in un portoncino e potè leggere a tutto suo agio il nuovo messaggio di Zoppino, che diceva:

A GIACOMONE PRENDERÀ UN MALANNO

IL DÌ CHE I GATTI MIAGOLERANNO

Non appena Zoppino e Romoletta si furono allontanati, Calimero corse a casa fregandosi le mani e scrisse al ministro una nuova lettera, così concepita:

«Eccellenza, sono in grado di rivelare che gli autori delle scritte murali offensive per il nostro sovrano vivono in casa della signora zia Pannochia. Si tratta di sua nipote Romoletta e di uno dei cani che essa raccoglie per insegnare loro, contro tutte le leggi, a miagolare. Certo che vorrete assegnarmi la promessa ricompensa di centomila talleri falsi, mi firmo: Calimero la Cambiale».

Intanto, nella via Zoppino notava con preoccupazione che la sua zampa destra si era accorciata di qualche altro millimetro.

— Bisogna che io trovi un sistema per scrivere senza consumare la zampa, — disse sospirando.

— Aspetta, — esclamò Romoletta, — che stupida a non pensarci prima. Conosco un pittore che abita da queste parti. La sua soffitta è sempre aperta, perché il pittore è povero in canna e quindi non ha paura dei ladri. Potrai entrare e prendere in prestito qualche pastello, o magari una scatola intera. Vieni, ti mostrerò la strada e poi tornerò a casa: non voglio che zia Pannocchia stia in pensiero per me.

Bananito pittor di cartello, lascia il pennello e prende il coltello

Il pittore Bananito, tutto solo nella sua soffitta, quella sera non riusciva a prendere sonno. Accoccolato su uno sgabello, contemplava i suoi quadri e rifletteva malinconicamente:

— È inutile, ci manca qualcosa. Se questa cosa non ci mancasse, sarebbero dei capolavori. Ma cos'è che ci manca? Ecco il problema!

In quel momento Zoppino, che si era arrampicato su per i tetti pensando di entrare dalla finestra senza disturbare il padrone di casa, saltò sul davanzale.

«Oh, oh, siamo ancora svegli, — miagolò mentalmente. — Aspetterò qui. Non voglio parere indiscreto. Quando Bananito dormirà gli chiederò in prestito i colori senza che se ne accorga. Intanto darò un'occhiata ai quadri».

Quello che vide lo lasciò senza fiato.

«Secondo me, — pensò, — c'è qualcosa di troppo. Se non ci fosse, sarebbero dei quadri passabili. Ma cosa c'è di troppo? Ci sono troppe zampe. Quel cavallo, per esempio, ne ha addirittura tredici. Pensare che io ne ho tre sole… E ci sono anche troppi nasi: quel ritratto ne ha tre in mezzo a una sola faccia. Non invidio quel signore: se gli capita un raffreddore consuma tre fazzoletti per volta. Ma ora che fa?».

Bananito si era alzato dal suo sgabello, pensando: «Forse ci manca un po' di verde… Sì, si, è proprio quello che ci vuole».

Diede mano ad un tubetto, lo spremette sulla tavolozza e cominciò a distribuire pennellate verdi su tutti i quadri: sulle zampe del cavallo, sui nasi del ritratto, negli occhi di una signora che ne aveva sei, tre per parte.

Poi si ritrasse di qualche passo e socchiuse gli occhi per giudicare l'effetto del suo lavoro.

— No, no, — borbottò, — dev'essere un'altra cosa. I quadri sono brutti come prima.

Zoppino, dal suo osservatorio, non potè udire queste parole, ma vide Bananito crollare il capo tristemente.

«Sfido che non è contento, — pensò Zoppino. — Non vorrei essere nei panni di quella signora con sei occhi se le capitasse un abbassamento di vista: occhiali con sei lenti debbono costare molto cari».

Bananito prese un altro tubetto, lo schiacciò sulla tavolozza e tornò a spennellare un po' dappertutto sui suoi quadri, saltando qua e là per la stanza come una cavalletta.

«Del giallo… — pensava, — sono sicuro che manca un po' di giallo».

«Aiuto, — pensava Zoppino dal canto suo, — adesso fa una frittata generale».

Ma Bananito aveva già gettato a terra tavolozza e pennello, c'era salito coi piedi e li calpestava rabbiosamente, strappandosi i capelli.

«Se continua così, — pensò Zoppino, — si ridurrà la testa pelata come quella di rè Giacomone. Quasi quasi lo vado a consolare. Ma se si offendesse? Ai consigli dei gatti nessuno ha mai dato retta, e del resto sarebbe una cosa difficile, perché la lingua dei gatti non la capisce quasi nessuno».

Bananito ebbe compassione dei propri capelli:

— Basta così, decise, — prenderò un coltello in cucina e farò a pezzi tutti i quadri. Il pezzo più grosso deve essere più piccolo di un coriandolo. Si vede che non sono nato per fare il pittore.

La «cucina» di Bananito era un tavolino in un angolo della soffitta, su cui erano posati un fornello a spirito, un pentolino, una scodella e delle posate. Il tavolino si trovava proprio sotto la finestra e Zoppino dovette nascondersi dietro un vaso di fiori per non essere veduto.

Anche se non si fosse nascosto, però, Bananito, non avrebbe potuto; vederlo perché i suoi occhi erano pieni di lacrime grosse come noci.

«E ora che fa? — si domandava Zoppino. — Prende un cucchiaio? Avrà fame… Ma no, posa il cucchiaio e prende la forchetta. Posa anche quella e afferra il coltello. Comincia a preoccuparmi. Non avrà; mica intenzione di ammazzare qualcuno? Chissà, forse i suoi critici. I In fondo, se i suoi quadri restano tanto brutti, dovrebbe rallegrarsi. I Infatti, quando li esporrà, la gente non potrà dire la verità, tutti dovranno dire che sono capolavori: e lui guadagnerà un pozzo di quattrini».

Mentre Zoppino faceva queste riflessioni, Bananito aveva preso dal cassetto una cote e si era messo ad affilare la lama del coltello.

— Voglio che tagli come un rasoio. Della mia opera non resterà traccia.

«Se ha intenzione di uccidere qualcuno, — pensò Zoppino, — vuol essere ben sicuro che il colpo riesca. Un momento: e se volesse uccidere se stesso? Sarebbe un delitto anche peggiore. Qui bisogna fare qualcosa, assolutamente. Non c'è tempo da perdere. Se le oche romane hanno salvato il Campidoglio, un gatto zoppo può ben salvare un pittore disperato».

E il nostro piccolo eroe si gettò nella stanza con le sue tre zampe miagolando a perdifiato. Nello stesso momento si spalancava la porta e irrompeva nella soffitta, sudato, ansante, coperto di polvere e di calcinacci… indovinate chi?

— Gelsomino!

— Zoppino!

— Che gioia rivederti!

— Ma sei proprio tu, Zoppino mio?

— Per piacere, contami le zampe!

E sotto gli occhi del pittore che era rimasto lì col coltello per aria e con la bocca aperta, Gelsomino e Zoppino si abbracciavano e ballavano per la contentezza.

Per quale combinazione il nostro tenore fosse giunto in cima a quella scala, a spingere proprio quella porta, proprio in quel momento, vi sarà ora spiegato per filo e per segno.

Gelsomino in cantina, con Domisol, maestro in rovina

Gelsomino, forse lo ricorderete, si era addormentato in una cantina su un mucchio di carbone. Come letto, non era davvero comodo, ma quando si è giovani alle comodità non ci si fa caso: i pezzi di carbone che gli pungevano le costole con i loro spigoli non impedirono a Gelsomino di sognare.

Nel bel mezzo del sogno egli cominciò a canticchiare. Tanti hanno l'abitudine di parlare nel sonno: Gelsomino aveva appunto quella di canticchiare. Al risveglio, poi, egli non ricordava nulla. La voce gli giocava quel tiro forse per vendicarsi dei lunghi silenzi a cui Gelsomino la costringeva durante il giorno: per prendersi la rivincita di tutte le volte che il suo padrone l'aveva ricacciata in gola.

Il «sottovoce» di Gelsomino fu però abbastanza forte da svegliare mezza città. I cittadini si affacciavano alle finestre, indignati:

— Ma dove sono le guardie notturne? Possibile che non ce ne sia una per far tacere quell'ubriacone?

Le guardie notturne correvano a destra e a sinistra, ma non vedevano che strade deserte.

Si svegliò anche il direttore del Teatro Comunale, che abitava alla altra estremità della città, una buona decina di chilometri lontano dalla cantina di Gelsomino.

— Che voce straordinaria! — egli esclamò. — Questo sì che è un tenore. Ma chi sarà mai? Ah, se potessi mettergli le mani addosso, come farei presto a riempire il teatro. Quest'uomo potrebbe essere la mia salvezza.

Bisogna sapere, infatti, che da tempo il Teatro Comunale di quella città era in crisi, anzi, sull'orlo del fallimento: nel paese dei bugiardi i cantanti erano rarissimi, e quei pochi credevano fosse loro dovere di stonare. Ed ecco perché. Se cantavano bene, il pubblico gridava: «Cane! Smettila di abbaiare!». Se cantavano male, il pubblico gridava: «Bravo! Bravissimo! Bis!». I cantanti, in generale, preferivano sentirsi dir «bravo» piuttosto che cantar bene.

Il direttore del Teatro si vestì in fretta, scese in istrada e si diresse verso il centro della città, da dove gli sembrava provenisse la voce.

Non sto a raccontarvi quante volte credette di essere arrivato.

— Dev'essere in questa casa, — diceva, — la voce esce da quella finestra lassù, non c'è dubbio.

Dopo un paio d'ore di quella ricerca, morto di stanchezza e sul punto di rinunciare, trovò finalmente la cantina di Gelsomino e potete figurarvi la sua meraviglia quando, alla fioca luce del suo accendisigari, constatò che la voce straordinaria usciva dal petto di un giovanottino addormentato sul carbone.

— Se canta così bene nel sonno, figuriamoci quando sarà sveglio, — concluse il direttore del Teatro, fregandosi le mani. — Quest'uomo è una miniera d'oro e, secondo ogni evidenza, non lo sa. Io sarò il solo minatore, e mi farò una fortuna alle sue spalle.

Svegliò Gelsomino e si presentò:

— Sono il maestro Domisol e ho fatto dieci chilometri a piedi per scovarti. Tu devi assolutamente cantare nel mio teatro, domani sera stessa. Avanti, alzati, andiamo a casa mia a fare una prova.

Gelsomino si provò a rifiutare. Diceva che aveva sonno: il maestro Domisol gli prometteva un letto a due piazze per farlo dormir comodo.

Diceva che non aveva mai studiato musica: il maestro giurava che con la sua voce non c'era bisogno di conoscere le note. La voce, del resto, dentro di lui, si stava già aggrappando a quell'occasione:

— Coraggio. Non volevi diventare un cantante? Accetta: forse sarà il principio della tua fortuna.

Il maestro Domisol pose fine alla discussione afferrando Gelsomino per un braccio e tirandoselo dietro a viva forza. Se lo portò a casa, si mise al piano, cavò un accordo dalla tastiera e ordinò:

— Canta!

— Non sarebbe meglio aprire le finestre? — domandò timidamente Gelsomino.

— No, no, non voglio disturbare il vicinato.

— Che cosa devo cantare?

— Quel che vuoi: una canzoncina del tuo paese.

Gelsomino cominciò una canzoncina del suo paese. Si sforzava prudentemente di cantare con un fil di voce, e teneva gli occhi fissi sui vetri delle finestre che vibravano pericolosamente e parevano sul punto di scoppiare.

I vetri non si ruppero, ma all'inizio della seconda strofa andò in pezzi il lampadario e la sala rimase al buio.

— Benissimo! — gridò il maestro Domisol, accendendo una candela. — Magnifico! Meraviglioso! Sono trent'anni che in questa stanza cantano dei tenori, e nessuno è mai riuscito a rompere una tazzina da caffè.

All'inizio della terza strofa i vetri delle finestre fecero la fine che Gelsomino temeva. Il maestro Domisol abbandonò il pianoforte per correre ad abbracciarlo.

— Ragazzo mio! — gridava, piangendo d'entusiasmo. — Questa è la prova che non mi sbagliavo. Tu sarai il più grande cantante di tutti i tempi! La folla staccherà le ruote della tua automobile per portarti in trionfo!

— Ma io non ho automobile, — disse Gelsomino.

— Ne avrai dieci, ne avrai una nuova per ogni giorno dell'anno! Ringrazia il cielo di aver incontrato il maestro Domisol! Avanti, canta un'altra canzone!

Gelsomino cominciava a provare una certa commozione. Era la prima volta che qualcuno lo lodava per il suo canto: egli non era superbo, ma le lodi fanno piacere a tutti. Cantò dunque un'altra canzone, e questa volta lasciò un poco più libera la voce. Soltanto un pochino, per un acuto o due. Ma tanto bastò per far succedere un finimondo.

I vetri del vicinato andavano in pezzi l'uno dopo l'altro. La gente si affacciava spaventata alle finestre.

— Il terremoto! Aiuto, aiuto! Si salvi chi può!

Correvano, con sibili laceranti, le auto dei pompieri a sirena aperta. Le strade furono rapidamente invase da gente che si dirigeva verso i campi, portando in braccio i bambini addormentati e spingendo carretti carichi di masserizie.

II maestro Domisol non stava più nel vestito per l'entusiasmo.

— Formidabile! Portentoso! Mai visto!

Baciava e ribaciava Gelsomino, corse a prendere una sciarpa per proteggergli la gola dalle correnti d'aria, poi lo fece accomodare in sala da pranzo e gli servì un pasto che sarebbe bastato a sfamare dieci disoccupati.

— Mangia, figliolo, mangia, — gli raccomandava. — Guarda questo pollo: è speciale per rinforzare le note alte. Questo cosciotto di montone è particolarmente indicato per vellutare le note basse. Mangia! Da oggi sei mio ospite. Avrai la camera più bella della casa e ti farò imbottire le pareti, in maniera che tu possa esercitarti a tuo piacere senza farti sentire da nessuno.

Gelsomino, veramente, avrebbe voluto correre a rassicurare il cittadini spaventati o almeno telefonare ai pompieri per evitare loro tante corse inutili. Ma il maestro Domisol non gli diede retta:

— Lascia perdere, figliolo. Dovresti pagare tutti quei vetri rotti e, per adesso, non hai un soldo. Senza contare che potrebbero anche, denunciarti, e se tu finisci in prigione addio carriera musicale.

— E se dovessi provocare dei danni anche a teatro?

Domisol scoppiò a ridere.

— I teatri sono fatti apposta perché i cantanti ci possano cantare. Sono a prova di voce, anzi, a prova di bomba. Tu ora vai a letto, ed io preparerò il manifesto e lo farò subito stampare.

Gelsomino canta in scena, con Domisol, maestro in pena

I cittadini, svegliandosi, trovarono affisso a tutte le cantonate il seguente manifesto:

Questa mattina

(ma non alle ore 48 precise) il pessimo tenore

Gelsomino cane tra i cani

reduce dai fiaschi e dai fischi ottenuti

nei principali teatri

d'Europa e d'America non canterà affatto

al Teatro Comunale.

La cittadinanza è pregata di non venire.

I biglietti d'ingresso

non costano nulla.

Il manifesto, naturalmente, andava letto alla rovescia e tutti i cittadini compresero che significava esattamente il contrario di quel che c'era scritto. Al posto di «fiaschi» bisognava intendere «trionfi», e quel «non canterà affatto» significava invece che Gelsomino avrebbe cantato proprio alle ore 48, cioè alle ventuno precise.

L'accenno all'America, per la verità, Gelsomino non ce lo avrebbe voluto:

— In America io non ci sono mai stato, — protestava.

— Appunto, — aveva ribattuto il maestro Domisol, — è una bugia, dunque ci sta benissimo. Se tu fossi stato in America ci sarebbe toccato scrivere che eri stato in Asia. La legge è fatta così. Ma tu non pensare alle leggi, pensa a cantare.

La mattinata, come i nostri lettori sanno già, fu piuttosto movimentata (si era scoperta la famosa frase di Zoppino sulla facciata della reggia). Nel pomeriggio tornò la calma e molto prima delle ventuno il teatro, come scrissero poi i giornali, «era vuoto come H deserto», il che voleva dire che era zeppo da scoppiare.

Il pubblico era accorso in massa, nella speranza di sentire un vero cantante. Il maestro Domisol, infatti, aveva provveduto personalmente, ni fine di riempire il teatro, a far correre voci strepitose sul conto di Gelsomino.

— Portatevi del cotone da mettere nelle orecchie, — dicevano in giro per la città gli agenti di Domisol, — quel tenore è uno strazio e vi farà soffrire le pene dell'inferno.

— Immaginate dieci cani col cimurro che abbaino tutti insieme; ingiungeteci il coro di un centinaio di gatti a cui qualcuno abbia Incendiato la coda; mescolate il tutto con una sirena dei pompieri ed agitate: ecco qualcosa che somiglia alla voce di Gelsomino.

— Insomma, è un mostro?

— Un vero mostro. Dovrebbe cantare negli stagni come i ranocchi, non nei teatri. Anzi, dovrebbe cantare sott'acqua, con qualcuno che gli impedisse di rialzare la testa per respirare e che lo facesse affogare come un gatto arrabbiato.

Questi discorsi andavano interpretati alla rovescia, come tutti i discorsi nel paese dei bugiardi: e ciò vi farà capire perché il teatro, come stavamo dicendo, molto prima delle nove era più pieno di un uovo.

Alle nove in punto fece il suo ingresso nel palco reale Sua Maestà Giacomone Primo, con la parrucca arancione fieramente piantata sulla testa. I presenti si alzarono, gli fecero l'inchino e tornarono a sedere, sforzandosi di non guardare più dalla parte della parrucca.

Nessuno si permise la più lontana allusione all'incidente del mattino: tutti, infatti, sapevano che il teatro era disseminato di spioni pronti a trascrivere sui loro taccuini i discorsi della gente.

Domisol, che aspettava con ansia l'arrivo del sovrano, guardando in platea da un buco del sipario, fece cenno a Gelsomino di tenersi pronto e raggiunse l'orchestra. A un segnale della sua bacchetta scoppiarono le prime note dell'inno nazionale, che cominciava così: "Viva, viva, Giacomone e i capelli color arancione…"

Nessuno si permise di ridere, s'intende. Qualcuno giura che Giacomone, in quel momento, sia lievemente arrossito; ma è difficile credergli, perché Giacomone, per parere più giovane, portava quella sera sul volto uno spesso strato di cipria.

Quando Gelsomino comparve sul palco, gli agenti di Domisol diedero il segnale dei fischi e delle grida:

— Abbasso Gelsomino!

— Ritirati, cane!

— Torna nello stagno, ranocchio!

Gelsomino accolse queste ed altre simili grida con molta pazienza, si schiarì la gola e attese che tornasse il silenzio. Poi attaccò la prima canzone del programma, con la voce più dolce che riuscì a emettere dalla bocca, stringendo le labbra al punto che da lontano pareva perfino che cantasse a bocca chiusa.

Era una canzoncina del suo paese, dalle parole abbastanza comuni e un tantino bislacche (leggete in fondo al volume una scelta delle sue canzoni), ma Gelsomino la cantava con tanto sentimento che ben presto in tutto il teatro ci fu un grande sventolio di fazzoletti: il pubblico non faceva in tempo ad asciugarsi le lacrime. La canzoncina finiva con un acuto, e Gelsomino non forzò la voce, anzi, cercò di assottigliarla ancor di più.

Tuttavia non riuscì a impedire che si udisse una dozzina di «tac pum»: le lampadine del loggione, che erano di vetro leggerissimo, erano scoppiate. Gli scoppi furono del resto soffocati da una formidabile bordata di fischi. Tutto il teatro, in piedi, urlava a perdifiato:

— Vattene! Buffone! Non farti sentire più! Vai a fare le serenate alle balene!

Insomma, come avrebbero potuto scrivere i giornali, se avessero potuto dire la verità: «l'entusiasmo era incontenibile!».

Gelsomino si inchinò e intonò la seconda canzone. Questa volta si lasciò andare un tantino, bisogna riconoscerlo. La canzone gli piaceva, cantare era la sola sua passione, il pubblico lo ascoltava in estasi: Gelsomino dimenticò la sua solita prudenza e fece un acuto che mandò in visibilio, a chilometri di distanza, la folla che non aveva potuto trovare posto in teatro.

Egli sì aspettava un applauso, o per meglio dire una nuova bordata di fischi e di insulti. Invece scoppiò una risata che lo lasciò di stucco. Il pubblico pareva essersi dimenticato di lui, gli voltava le spalle e guardava ridendo in un'unica direzione.

Anche Gelsomino guardò da quella parte, e quel che vide gli fece gelare il sangue nelle vene e la voce in gola. L'acuto non aveva spezzato i robusti lampadari sospesi sulla platea, ma aveva fatto di peggio: la famosa parrucca arancione era volata via dalla testa di rè Giacomone!

Il sovrano, tamburellando nervosamente sulla balaustra del suo palco, cercava di capire il perché di tanta allegria. Poveretto, non si era accorto di nulla, e nessuno osava rivelargli la verità, ricordandosi troppo bene la fine che aveva fatto, quella mattina stessa, la lingua di un cortigiano troppo zelante.

Domisol, che volgeva le spalle alla sala, e non poteva veder nulla, fece cenno a Gelsomino di attaccare la terza canzone.

«Se Giacomone fa una brutta figura, — pensò Gelsomino, — non c'è bisogno che la faccia anch'io. Questa volta voglio cantar bene davvero».

E cantò così bene, trascinato dall'ispirazione, cantò con voce così potente che fin dalle prime note il teatro cominciò ad andare in pezzi. Prima si ruppero i lampadari e crollarono travolgendo una parte degli spettatori che non avevano fatto in tempo a mettersi in salvo. Poi crollò una fila di palchi, proprio quella al cui centro si trovava il palco reale: ma Giacomone, per fortuna, aveva già abbandonato il teatro. Si era guardato allo specchio, per controllare se non fosse il caso di ridarsi la cipria alle guance, ed aveva scoperto con terrore che la parrucca gli era volata via. Quella sera, si dice, fece tagliare la lingua a tutti i cortigiani che stavano con lui a teatro, perché non lo avevano avvertito del disastroso incidente.

Mentre Gelsomino cantava, il pubblico si affollava verso le uscite: quando crollarono le ultime file di palchi e il loggione, in sala erano rimasti solo Gelsomino e Domisol. Il primo, ad occhi chiusi, continuava a cantare: si era ormai dimenticato di essere a teatro, si era dimenticato di essere Gelsomino, pensava soltanto al piacere di cantare. Domisol, ad occhi bene aperti, purtroppo, si metteva le mani nei capelli:

— Il mio teatro! Sono rovinato! Sono rovinato!

Sulla piazza dei teatro la folla gridava stavolta:

— Bravo! Bravo!

E lo diceva in un certo modo che le guardie di Giacomone, guardandosi negli occhi, mormoravano:

— Vuoi vedere che gli stanno dicendo bravo perché canta bene, e non perché canta male?

Gelsomino terminò con un acuto che rimosse le macerie del teatro e sollevò un immenso polverone. Soltanto allora egli si accorse del disastro che aveva provocato. Vide Domisol che, agitando minacciosamente la sua bacchetta direttoriale, si sforzava di raggiungerlo scavalcando montagne di rovine.

«La mia carriera di cantante è finita, — pensò disperato. — Mettiamo almeno in salvo la pelle».

Attraverso una breccia nelle pareti del teatro uscì sulla piazza, nascondendosi il volto, si mescolò alla folla, raggiunse una strada solitaria, e cominciò a correre, a correre da rompersi le gambe per lo sforzo.

Ma Domisol, che non l'aveva perso di vista, lo inseguiva gridando:

— Fermati, disgraziato! Pagami il mio teatro!

Gelsomino scantonò in un vicolo, si infilò nel primo portoncino, salì.ilfannosamente le scale fino alla soffitta, spinse la porta: ed eccolo nello «studio» di Bananito, nello stesso istante in cui Zoppino vi faceva Il suo ingresso dalla finestra.

Se un pittore sa il suo mestiere le cose belle diventano vere

Bananito era rimasto a bocca aperta ad ascoltare Gelsomino e Zoppino che si raccontavano le loro peripezie. In mano teneva sempre Il coltello, ma ormai non ricordava nemmeno più perché lo avesse Impugnato.

— Che cosa voleva farne? — gli chiese Zoppino, sospettoso.

— È quello che mi sto domandando anch'io, — rispose Bananito. Ma un'occhiata in giro bastò a farlo ripiombare nella più nera disperazione: i suoi quadri erano sempre là, brutti come nel capitolo nono di questo racconto.

— Vedo che lei è un pittore, — disse rispettosamente Gelsomino, che non aveva ancora avuto il tempo di fare questa scoperta.

— Credevo, — mormorò tristemente Bananito, — credevo di essere un pittore. Ma sarà meglio che cambi mestiere. E sceglierò un mestiere col quale i colori c'entrino il meno possibile. Per esempio, farò il becchino, e avrò a che fare solo con il nero.

— Anche nei cimiteri ci sono i fiori, — osservò Gelsomino. — Su questa terra, di nero proprio nero e soltanto nero non c'è niente.

— Il carbone, — disse Zoppino.

— Ma a dargli fuoco diventa rosso, bianco, azzurro.

— L'inchiostro nero è nero e basta.

— Ma con l'inchiostro nero si possono scrivere storie colorate e allegre.

— Mi arrendo, — disse Zoppino, — e meno male che non ci ho scommesso sopra una zampa. Adesso me ne resterebbero soltanto due.

— Qualcosa farò, — sospirò Bananito.

Gelsomino, aggirandosi per la soffitta, si fermò davanti al ritratto di un uomo con tre nasi, che già aveva destato la sorpresa di Zoppino.

— Chi è? — domandò.

— È un grande ciambellano di corte.

— È fortunato ad avere tre nasi: sentirà i profumi motiplicati per tre.

— Oh, è tutta una storia. Quando mi ha incaricato di fargli il ritratto ha preteso che gli facessi quei tre nasi. Abbiamo tanto discusso: io avrei voluto fargliene uno solo, poi suggerii che si accontentasse di due. Ma non c'è stato niente da fare. O tre o niente ritratto. E vedete cos'è venuto fuori? Uno spaventabambini, una cosa da mostrare per castigo a quelli che fanno i capricci.

— E anche questo cavallo, — domandò Gelsomino, — è un cavallo di corte?

— Cavallo? Ma non vede che è una mucca?

Gelsomino si grattò un orecchio.

— Sarà una mucca, ma a me pare un cavallo. O meglio, sarebbe un cavallo se avesse quattro zampe: invece ne ha tredici. Con tredici zampe si potevano fare tre cavalli con l'avanzo di una zampa.

— Ma le mucche hanno tredici zampe, — protestò Bananito, — lo imparano i bambini a scuola.

Gelsomino e Zoppino si guardarono sospirando e lessero negli occhi l'uno dell'altro lo stesso pensiero: «Se fosse un gatto bugiardo, gli Insegneremmo a miagolare. Ma che cosa possiamo insegnare a questo poveretto?».

— Secondo me, — disse Gelsomino, — il quadro diventerebbe più bello se si togliesse qualche zampa.

— Già, e tutti mi rideranno dietro, e i critici proporranno di mettermi al manicomio. Ma ora mi ricordo cosa volevo fare con il coltello: volevo fare a pezzi le mie pitture. Ed è quello che farò subito!

Tornò ad impugnare il coltello e si avvicinò con aria minacciosa alla tela sulla quale si ammucchiavano, in una confusione indescrivibile, le tredici zampe del cavallo che egli chiamava mucca. Alzò la mano per lasciar cadere il primo fendente, poi sembrò cambiar parere.

— La fatica di tanti mesi, — sospirò. — È doloroso distruggerla con le proprie mani.

— Ecco una bella frase, — disse Zoppino, — quando terrò un taccuino, ce la scriverò per ricordarmela. Ma prima di fare a pezzi il quadro, perché non prova a dar retta a Gelsomino?

— Ma sì! — esclamò Bananito. — Che cosa ci perdo? A tagliare il quadro sono sempre in tempo.

E col coltello, abilmente, grattò il colore fino a far scomparire cinque delle tredici zampe.

— Mi sembra che vada già meglio, — lo incoraggiò Gelsomino.

— Tredici meno cinque otto, — disse Zoppino. — Se il quadro rappresentasse due cavalli andrebbe bene. Scusi, volevo dire due mucche.

— Ne tolgo qualche altra, eh? — domandò Bananito.

E senza attendere risposta grattò un altro paio di zampe.

— Fuoco… fuoco… — commentò Zoppino, — quasi ci siamo.

— Che effetto fa?

— Ne lasci quattro sole, vediamo cosa succede.

Quando le zampe furono ridotte a quattro, successe che dalla tela uscì un nitrito di gioia e subito dopo il cavallo saltò sul pavimento e fece il giro della soffitta al piccolo trotto.

— O perbacco, o perbacco, comincio a sentirmi meglio. Là dentro ci si stava proprio stretti.

Passando davanti a un piccolo specchio appeso alla parete, si osservò pezzetto per pezzetto con aria critica, poi nitrì soddisfatto:

— Che bel cavallo! Sono proprio un bel cavallo! Signori, non so come ringraziarvi. Se capiterete dalle mie parti vi farò fare una bella galoppata.

— Quali parti? Ehi, ferma, ferma! — gridava Bananito.

Ma il cavallo aveva già infilato la porta delle scale: si sentirono i suoi quattro zoccoli saltare di pianerottolo in pianerottolo, e poco dopo, dalla finestra, i nostri amici poterono vedere il superbo animale attraversare il vicolo e dirigersi verso la campagna. Bananito, per l'emozione, era tutto in sudore.

— In definitiva, — disse quando potè riprendere fiato, — era proprio un cavallo. Se lo ha detto lui, gli debbo credere. E pensare che a scuola, con la sua figura, mi hanno insegnato la lettera «emme»: mmm… mucca!

— Avanti, avanti! — miagolava Zoppino al colmo dell'entusiasmo, — passiamo ad un altro quadro.

Bananito passò ad un cammello con troppe gobbe: tante che parevano le dune del deserto. Gratta gratta, finalmente ne rimasero solo due.

— Diventa bello… — mormorava lavorando febbrilmente. — Diventa proprio bello anche questo quadro. Credete che alla fine diventerà vero anche lui?

— Quando sarà bello abbastanza, sì, — disse Gelsomino.

Ma non successe nulla: il cammello restava sulla tela, impassibile, indifferente, come se niente lo riguardasse.

— Le code! — gridò ad un tratto Zoppino. — Ne ha tre, sufficienti per tutta una famiglia di cammelli.

Quando anche le code di troppo furono scomparse, il cammello scese solennemente dalla tela, respirò con soddisfazione e lanciò un'occhiata di ringraziamento a Zoppino:

— Meno male che ti sei accorto delle code. Correvo il rischio di restarmene per sempre in questa soffitta. Sapete se ci siano deserti, qua attorno?

— Ce n'è uno al centro della città, — disse Bananito, — è un deserto pubblico, ma a quest'ora è chiuso.

— Lui vuol dire un giardino pubblico, — spiegò Zoppino al cammello. — Deserti veri e propri è difficile trovarne meno lontano di due o tre mila chilometri. Ma cerca di non farti vedere dalle guardie, sennò finisci allo zoo.

Anche il cammello, prima di andarsene, si guardò allo specchio e si trovò bello. Anche lui, poco dopo, attraversava il vicolo al piccolo trotto: una guardia notturna che lo vide non credette ai propri occhi, e cominciò a darsi dei grandi pizzicotti per svegliarsi.

— Si vede che invecchio, — concluse poi, quando il cammello fu scomparso alla svolta. — Ora mi addormento anche in servizio e sogno di essere in Africa. Devo starci attento, altrimenti mi licenzieranno.

Bananito, ormai, non l'avrebbe fermato nemmeno una minaccia di morte o una lettera anonima. Saltava da un quadro all'altro, lavorando di coltello e gridando di gioia:

— Questa sì che è chirurgia: ho fatto più operazioni io in dieci minuti che i professori dell'ospedale in dieci giorni.

I quadri, a levarne le bugie di cui erano pieni, diventavano belli; e diventando belli, diventavano veri, e addirittura vivi. Cani, pecore, capre, saltavano giù dalle tele e se ne andavano per il mondo, a caccia di un posto per essere felici, o anche solo di topi, se erano gatti.

Bananito fece a pezzi un solo quadro: quello del ciambellano che voleva tre nasi. C'era pericolo, difatti, che ridotto a un solo naso anche il ciambellano saltasse giù dalla tela, a rimproverare il pittore per aver trasgredito ai suoi ordini. Gelsomino lo aiutò a farne coriandoli.

Zoppino, intanto, si era messo a girellare con l'aria di chi cerca qualcosa, e dalla sua espressione delusa si vedeva chiaramente che non trovava quel che cercava.

— Cavalli, cammelli, ciambellani, — borbottava fra sé e sé, — e neanche una crosta di formaggio. Perfino i topi si tengono lontani da questa soffitta: l'odore della miseria non piace a nessuno. La fame puzza peggio di un veleno.

Frugando in un oscuro cantuccio, trovò una piccola tela, un quadretto coperto di polvere e abitato, sul retro, da un millepiedi, che, disturbato, schizzò via con le sue mille zampe: mille davvero, che Bananito non avrebbe offeso nessuno sbagliandone il conto.

II quadretto rappresentava qualcosa che, con molta buona volontà, avrebbe potuto essere paragonato a una tavola imbandita. Su un piatto, per esempio, si indovinava un mostruoso animale che sarebbe stato un pollo arrosto se avesse avuto solo due cosce, e così invece pareva un parente del millepiedi.

«Ecco un quadro, — riflette Zoppino, — che mi piacerebbe veder diventare vero così com'è. Un pollo con un ventina di cosce: che comodità per una famiglia, per un oste, per un gatto affamato. Bisognerà toglierne la maggior parte, e pazienza: ne resterà abbastanza per uno spuntino in tre».

Portò il quadro a Bananito e lo pregò di usare opportunamente il suo coltello.

— Ma il pollo è cotto, — obiettò Bananito, — non potrà mica diventar vivo!

— A noi serve cotto, non vivo! — rispose Zoppino.

E a questa osservazione il pittore non trovò nulla da obiettare, tanto più che anche lui ricordò in quel momento di non aver mangiato dalla sera precedente, tutto preso dalla sua pittura.

Il pollo non diventò vivo, ma usci lo stesso dal quadro, fumante e profumato più che se fosse stato tolto dal forno allora allora.

— Come pittore farai certo carriera, — disse Zoppino, addentando un'ala (le due cosce le aveva lasciate a Gelsomino e a Bananito), — ma come cuoco sei addirittura un campione.

— Ci vorrebbe un po' di vino, — disse a un certo punto Gelsomino, — ma a quest'ora le osterie saranno chiuse, ed anche se fossero aperte non ci servirebbero a niente perché non abbiamo soldi.

A Zoppino venne un'idea. Disse a Bananito:

— Perché non disegni subito un quartuccio di vino, o magari un fiaschetto?

— Proverò, — rispose il pittore, che non stava nella pelle dall'entusiasmo.

Disegnò un fiasco di Chianti, e quando gli mise il colore lo fece tanto bello che se Gelsomino non fosse stato pronto ad afferrare il collo del fiasco, il vino, uscendo dalla tela con troppo slancio, si sarebbe versato sul pavimento.

I tre amici brindarono alla pittura, al bel canto e ai gatti. A quest'ultimo brindisi, però, Zoppino si fece triste. Dovettero pregarlo un bel pezzo per fargli dire quello che gli stava sul cuore.

— In fondo, — si decise a brontolare, — io sono un gatto sbagliato, come quelli che stavano sulle tele fino a mezz'ora fa. Ho tre sole zampe e non posso nemmeno dire di aver perso la quarta in guerra o andando sotto il tram, perché sarebbe una bugia. Chissà se Bananito…

Non ebbe bisogno di aggiungere altro. Il pittore aveva già dato mano ai pennelli e in pochi istanti dipinse una zampa di gatto che sarebbe piaciuta anche al Gatto con gli stivali. E il meglio è che la zampa si attaccò subito, al posto giusto, al corpo di Zoppino, il quale, dapprima con passo incerto, poi sempre più sicuramente, provò a camminarci passeggiando per la soffitta:

— Ah, che bellezza, — miagolava, — mi sento un altro! Ma un altro così diverso che vorrei addirittura cambiar nome.

— Che stupido! — esclamò invece Bananito, battendosi una mano sulla fronte. — Ti ho fatto una zampa coi colori a olio, mentre le altre sono state fatte col gesso.

— Niente di male, — disse Zoppino, — me la tengo com'è; e guai a chi me la tocca. E mi tengo anche il mio vecchio nome, che a pensarci bene mi sta a pennello: la zampa destra davanti, a scrivere sui muri mi si è accorciata di almeno mezzo centimetro.

Quella notte, Bananito volle a tutti i costi cedere la sua branda a Gelsomino: lui dormì per terra, su un mucchio di vecchie tele. Zoppino si accomodò in una tasca del cappotto di Bananito, che stava appeso alla porta, e fece un sogno più bello dell'altro.

Qui Zoppino legge il giornale e all'ultima pagina resta male

Bananito uscì di buon'ora, armato di pennelli, di tele e di entusiasmo, ansioso di mostrare la sua bravura a tutti. Gelsomino dormiva ancora, ma Zoppino accompagnò per un pezzo ii pittore dandogli dei buoni consigli:

— Dipingi dei fiori, e vendili: sono certo che tornerai a casa con un mucchio di quattrini falsi, che in questo strano paese sono indispensabili. Dipingi fiori fuori stagione perché gli altri la gente li trova dal fioraio. E un'altra cosa: non dipingere topolini, perché spaventeresti le signore. Te lo dico per il bene tuo: a me, anzi, farebbero comodo.

Separandosi da Bananito, Zoppino comprò un giornale, pensando che a Gelsomino avrebbe fatto piacere sapere che cosa diceva la stampa del suo concerto. Il giornale si intitolava: «IL PERFETTO BUGIARDO», e naturalmente era fatto tutto di notizie false o di fatti veri raccontati a rovescio.

C'era per esempio un articolo intitolato: «UNA GRANDE VITTORIA DEL CORRIDORE PERSICHETTI». Ecco il testo della notizia:

«Il noto campione di corsa nei sacchi Flavio Persichetti ha vinto ieri la decima tappa dei giro del Regno, distaccando di venti minuti Remolo Baroni, giunto secondo, e di trenta minuti e quindici secondi Piero Clementi ni giunto terzo. li gruppo, arrivato un'ora dopo H vincitore, è stato battuto in volata da Pasqualino Balsimelli».

Che c'è di strano, dirà il lettore. La corsa nei sacchi è una corsa come un'altra, anzi, più divertente da guardare delle corse in bicicletta o in automobile. Sicuro, ma i lettori del «Perfetto bugiardo» sapevano che la corsa non era mai avvenuta, che Flavio Persichetti, Romolo Baroni, Piero Clementini, Pasqualino Balsimelli e il «gruppo» non avevano mai infilato le gambe in un sacco e non si erano mai sognati di distaccarsi o di battersi in volata.

Le cose andavano di solito così. Ogni anno il giornale organizzava una corsa nei sacchi a tappe, che non veniva disputata per nulla.

Certi ambiziosi, per avere il loro nome sul giornale, pagavano per iscriversi e offrivano ogni giorno una certa somma per vincere la tappa. Chi offriva di più veniva proclamato vincitore, e le sue gesta venivano narrate nel giornale con cascate di paroloni che lo definivano «un eroe», «un superasse» eccetera. L'ordine di arrivo era soltanto l'ordine delle offerte.

Nei giorni in cui le offerte erano fiacche, il giornale si vendicava scrivendo che il gruppo aveva sonnecchiato per tutta la strada, che assi e gregari si erano dati bel tempo, che era uno scandalo, e che campioni come Persichetti o Baroni avrebbero fatto bene a correre di più nella tappa successiva se ci tenevano al favore del pubblico.

Il signor Persichetti era un fabbricante di dolci, e il nome sul giornale gli serviva per fare rèclame ai suoi pasticcini: siccome era molto ricco, arrivava quasi sempre primo con distacco, sul traguardo «veniva baciato e portato in trionfo» e di notte i tifosi facevano serenate sotto le finestre del suo albergo. Così almeno diceva il giornale, perché i tifosi, inutile dirlo, non sapevano suonare neanche il tamburo, e russavano pacificamente nei loro letti.

Nella stessa pagina Zoppino lesse anche quest'altro titolo: «MANCATA TRAGEDIA SULLA VIA CORNELIA — CINQUE PERSONE NON MUOIONO E DIECI ALTRE NON RIPORTANO LA MINIMA FERITA».

La notizia diceva:

«Ieri, al decimo chilometro della via Cornelia, due automobili che viaggiavano in senso contrario a forte velocità non si sono affatto scontrate. Nel mancato scontro non hanno perso la vita cinque persone (seguivano i nomi). Altre dieci persone non sono state ferite e quindi non c'è stato bisogno di trasportarle all'ospedale (seguivano i loro nomi)».

Questa, purtroppo, non era una notizia falsa, ma una notizia rovesciata: raccontava esattamente il contrario di quello che era successo.

Anche il concerto di Gelsomino era raccontato a quel modo. Nello articolo si leggeva, per esempio, che «il celebre tenore era stato zitto dal primo all'ultimo minuto dello spettacolo». Il giornale pubblicava anche una fotografìa delle macerie del teatro, scrivendoci sotto: «Come il lettore può vedere con le sue orecchie, non è successo assolutamente nulla».

Gelsomino e Zoppino si divertirono per un pezzo a leggere «IL PERFETTO BUGIARDO». C'era anche una pagina letteraria, nella quale era stampata la seguente poesia:

Un cuoco di Pistoia

diceva ad un ramarro:

"Sapessi tu che gioia

mangiare un paracarro!

E dopo aver mangiato

sapessi com'è bello

pulirsi i denti col martello",

— Non c'è la risposta del ramarro, — commentò Zoppino. — Ma me l'immagino: lo debbono aver sentito sghignazzare dagli Appennini alle Ande.

Nell'ultima pagina, in fondo all'ultima colonna, c'era una breve notizia intitolata semplicemente «SMENTITA». Gelsomino lesse:

«Si smentisce nel modo più categorico che questa notte alle tre, in vicolo del Pozzo, la polizia abbia arrestato la signora zia Pannocchia e la nipote di costei, Romoletta. Naturalmente queste due persone non sono state rinchiuse al manicomio verso le cinque, come qualcuno pretende. Firmato: Il capo della polizia».

— Il capo dei bugiardi! — esclamò Zoppino. — Questo significa che le due poverette sono proprio nella gabbia dei matti. Qualcosa mi dice che tutto è stato per colpa mia.

Guarda, — lo interruppe in quel momento Gelsomino, — leggi qui. C'è un'altra smentita.

Questa riguardava direttamente Gelsomino, e diceva:

«Non è assolutamente vero che la polizia stia ricercando il noto tenore Gelsomino. Non ce ne sarebbe nessuna ragione, perché Gelsomino non deve affatto rispondere dei danni che non ha causato al Teatro Comunale. Perciò, chiunque sappia dove Gelsomino si nasconde, non lo vada a dire alla polizia, perché sarebbe rimproverato severamente».

— L'affare si complica, — commentò Zoppino. — Sarà bene che tu non ti muova da casa. Uscirò io in cerca di notizie.

Gelsomino non avrebbe voluto rassegnarsi ad aspettare senza far niente, ma dovette riconoscere che Zoppino aveva ragione. Perciò lo lasciò andare, e dal canto suo si distese sulla branda, preparandosi pazientemente a passare in ozio la giornata.

Nei paese della bugìa la verità è una malattia

Abbiamo lasciato zia Pannocchia sulla porta di casa, ad ascoltare i primi miagolii dei suoi gatti, felice come un musicista a cui capitasse la fortuna di scoprire una sinfonia inedita di Beethoven, rimasta per cento anni in un cassetto.

Abbiamo lasciato Romoletta mentre, indicata a Zoppino la via della soffitta di Bananito, tornava a casa di corsa. Poco dopo zia e nipote dormivano tranquille nei loro letti, senza sospettare che le lettere di Calimero avevano già messo in movimento la macchina della polizia.

Alle tre di notte alcuni pezzi di questa macchina, rappresentati da un plotone di gendarmi, invasero la casa senza tanti complimenti6, costrinsero la vecchia signora e la bimba a vestirsi in tutta fretta e le trasportarono alla prigione.

Il comandante dei gendarmi, dopo aver consegnato le due prigioniere al comandante della prigione, avrebbe voluto tornarsene a dormire, ma aveva fatto i conti senza la pignoleria del suo collega.

— Cos'hanno fatto queste due persone?

— La vecchia insegnava ai cani a miagolare, la bambina è quella che scriveva sui muri. Due delinquenti pericolose, Nei tuoi panni io le ficcherei nei sotterranei e rafforzerei la guardia.

— Quello che devo fare lo so io, — ribatte il comandante della prigione. — Adesso sentiremo cosa dicono.

Zia Pannocchia fu interrogata per prima. L'arresto non l'aveva spaventata. Niente avrebbe potuto turbare la sua felicità, dopo che i suoi sette gatti, finalmente, avevano ritrovato la loro vera voce. Perciò con molta calma rispose a tutte le domande.

— No, non erano cani. Erano gatti.

— Il rapporto dice che erano cani.

— Erano gatti, di quelli che prendono i topi.

— Sono appunto i cani che prendono i topi.

— No, signore, sono i gatti. E sono i gatti che miagolano. I miei abbaiavano, come tutti i gatti della città. Ma stanotte, per fortuna, per la prima volta hanno miagolato.

Questa donna è pazza, — disse il comandante della prigione, — il suo posto sarebbe il manicomio. Insomma, signora, che cosa ci andate dicendo?

— La verità, soltanto la verità.

— Ah, ma allora la cosa è chiara! — esclamò il comandante della prigione. — È matta da legare. Non posso accettarla: questo è un carcere per sani di mente. I matti vanno al manicomio.

E nonostante le proteste del comandante dei gendarmi, che vedeva sfumare la prospettiva di un buon sonno, gli riconsegnò zia Pannocchia e tutto l'incartamento che la riguardava. Quindi interrogò Romoletta.

— Sei tu che hai scritto sui muri?

— È la pura verità.

— Sentito? — esclamò il comandante della prigione. — Pazza anche questa. Al manicomio! Prenditi anche la ragazzina e lasciami in pace. Non ho tempo da perdere con i matti.

Nero di rabbia, il comandante delle guardie ricaricò sul furgone le due prigioniere e le portò al manicomio, dove furono subito accettate e rinchiuse in un grande camerone, insieme agli altri pazzi che si erano lasciati sorprendere a dire la verità.

Ma gli avvenimenti di quella notte non debbono considerarsi finiti. Il comandante delle guardie, infatti, tornato nel suo ufficio, chi trovò ad aspettarlo? Calimero La Cambiale, col cappello in mano e il suo più brutto sorriso sulla bocca.

— E voi cosa volete?

— Eccellenza, — bisbigliò Calimero inchinandosi e raddoppiando i sorrisi. — Sono qui per i centomila talleri falsi. La ricompensa mi spetta, perché per merito mio11 i nemici del sovrano sono stati arrestati.

— Già, voi siete quello che ha scritto le lettere, — disse pensieroso il comandante. — Ma saranno poi vere tutte le cose che avete scritto?

— Eccellenza! — gridò Calimero, — È la pura verità, lo giuro!

— Ah, ah, — esclamò a sua volta il capo delle guardie, illuminandosi di un malvagio sorriso. — Ecco uno che sostiene di dire la verità. Amico mio, avevo già capito che dovevate essere un po' pazzo, ma voi stesso me ne avete dato la prova. Avanti, al manicomio!'

— Eccellenza, per carità! — gridava Calimero, gettando il cappello per terra e calpestandolo in un accesso di disperazione. — Non vorrete farmi questo torto! Sono un amico della bugia, l'ho scritto anche nella lettera!

— Ma sarà vero che siete un amico della bugia?

— È vero! È verissimo! Lo giuro!

— Ci siete cascato di nuovo! — trionfò il capo delle guardie. — Per due volte mi avete giurato che dite la verità. Via, via, poche storie. Al manicomio avrete tempo di calmarvi. Per ora, siete proprio un pazzo furioso, e lasciarvi in circolazione costituirebbe un attentato all'ordine pubblico.

— Voi volete intascare al mio posto la ricompensa! — gridava Calimero, dibattendosi tra le braccia dei gendarmi.

— Lo sentite? È proprio in preda a un accesso. Mettetegli la camicia di forza e il bavaglio. Quanto alla ricompensa, parola mia che non gliene toccherà un centesimo, fin che nei miei vestiti ci saranno tasche abbastanza per metterla al sicuro.

Così anche Calimero finì al manicomio, dove fu rinchiuso da solo in una cella imbottita.

A questo punto il comandante delle guardie avrebbe voluto andare a letto, ma da più parti della città cominciarono a giungere segnalazioni allarmate:

— Pronto, polizia? C'è un cane che miagola nei dintorni. Potrebbe essere arrabbiato. Mandate qualcuno.

— Pronto, polizia? Bene, che fanno gli accalappiacani? Sotto il mio portone c'è un cane che miagola da mezz'ora. Se sarà lì ancora domattina, nessuno uscirà di casa per paura di essere morso.

Il capo dei gendarmi mandò subito a chiamare tutti gli accalappiacani, li divise in tante pattuglie, rinforzate da gendarmi scelti, e li sguinzagliò per la città alla ricerca dei «cani che miagolavano», ossia, come il lettore ha ben compreso, dei sette mici di zia Pannocchia.

Il più piccolo di essi fu catturato dopo appena mezz'ora. Era tanto infervorato a miagolare che non si accorse di essere circondato. Quando poi si vide tutta quella gente attorno, pensò che lo stessero festeggiando e miagolò con più entusiasmo.

Un accalappiacani gli si accostò con viso amichevole, lo accarezzò un paio di volte sulla schiena, poi lo afferrò decisamente per la pelle del collo e lo ficcò nel suo sacco.

Il secondo dei sette fu preso mentre, arrampicato in sella al cavallo di un monumento, arringava a miagolii una piccola folla di gatti, ironici e sornioni, che poi salutarono la sua cattura abbaiando orrendamente.

Un terzo fu scoperto perché se l'era presa con un cane.

— Sciocco, che vai miagolando? — gli diceva.

— E cosa dovrei fare, scusa? Sono un gatto, miagolo, — rispondeva il cane.

— Sciocco due volte, ti sei mai guardato allo specchio? Sei un cane e devi abbaiare. Io sono un gatto, a me tocca miagolare. Senti: miao, miao, miaaaao!!!

Insonnma, finirono col litigare, e gli accalappiacani, senza tante storie, li acchiapparono tutti e due, ma poi rilasciarono il cane, perché aveva il diritto di miagolare.

Furono catturati il quarto, il quinto, il sesto.

— Ormai ne manca uno solo, — si dicevano l'un l'altro gli accalappiacani e le guardie, per vincere la stanchezza. E quale fu la loro sorpresa, dopo ore di ricerche, quando si trovarono davanti non uno, ma due gatti miagolanti!

— Si sono moltiplicati, — osservò una guardia.

— Dev'essere contagioso, — aggiunse un accalappiacani.

Dei due gatti, uno era il settimo della famiglia di zia Pannocchia, l'altro era più semplicemente quel Fido che abbiamo incontrato in uno dei passati capitoli e che, a furia di riflessioni, era giunto alla conclusione che forse Zoppino non aveva tutti i torti a consigliargli di miagolare: una volta fatta la prova, non gli sarebbe riuscito più di abbaiare nemmeno se avesse voluto.

Fido si lasciò catturare senza resistenza. Il settimo, che era il più vecchio della compagnia, fu abbastanza svelto da arrampicarsi su un albero e di lassù si diverti per un pezzo a far ammattire i suoi cacciatori, miagolando le più belle arie del repertorio gattesco.

Una gran folla si radunò all'insolito spettacolo e, come succede, si divise in due partiti. C'erano i benpensanti, che incoraggiavano le guardie a mettere fine allo scandalo. E c'erano i burloni o forse non soltanto burloni, che facevano il tifo per il gatto e lo incoraggiavano rifacendogli il verso:

— Miao! Miao!

C'era anche una gran folla di gatti che abbaiavano contro il loro collega, un po' per invidia un po' per rabbia. Ogni tanto qualcuno di loro veniva colpito dal contagio e cominciava a miagolare: gli accalappiacani gli piombavano subito addosso e lo ficcavano nel loro sacco.

Si dovettero chiamare i pompieri e dar fuoco all'albero, per farne discendere quell'ostinato miagolatore. Così la folla si godette anche un piccolo incendio, e tornò a casa soddisfatta.

I gatti che miagolavano risultarono, a conti fatti, una ventina: furono portati tutti al manicomio, perché a modo loro dicevano la verità, dunque dovevano essere gatti matti.

II direttore del manicomio non sapeva dove metterli. Pensa e ripensa, li fece portare tutti nella cella di Calimero La Cambiale. Figuratevi se lo spione fu contento di quella compagnia, che gli ricordava l'origine della sua sventura! Nello spazio di due ore diventò pazzo sul serio, e cominciò a miagolare e a fare le fusa. Credeva di essere un gatto anche lui e quando un topo imprudente attraversò la cella fu il primo a saltargli addosso: il topo gli lasciò in bocca la coda e si salvò nel suo pertugio.

Zoppino, raccolte tutte queste informazioni, stava tornando a casa per riferirle a Gelsomino quando udì la voce del tenore attaccare una di quelle famose canzoncine del suo paese che gli avevano procurato tanti grattacapi.

«Questa volta, — pensò Zoppino, — posso scommettere tutte e quattro le mie zampe, compresa quella nuova, che Gelsomino si è addormentato e sta sognando. Se non mi affretto, le guardie arriveranno prima di me».

Sotto casa trovò raccolta una gran folla ad ascoltare. Nessuno si muoveva, nessuno parlava. E se di quando in quando un vetro del vicinato andava in pezzi, nessuno si affacciava a protestare.

Il canto meraviglioso sembrava aver operato un incantesimo. Zoppino notò due giovani guardie confuse fra la gente, con la stessa espressione rapita in volto. Le guardie, come sapete, avevano l'ordine di arrestare Gelsomino: ma quelle due lì non ne avevano proprio l'intenzione.

Purtroppo altre guardie stavano sopraggiungendo e il loro capo si faceva largo tra la folla con la frusta: doveva essere duro d'orecchi, e la musica di Gelsomino non lo incantava.

Zoppino fece le scale di corsa e piombò nella soffitta come un fulmine.

— Sveglia! Sveglia! — gridò, facendo con la coda a Gelsomino il solletico sotto il naso. — Il concerto è finito! Arriva la polizia!

Gelsomino aprì gli occhi, se li stropicciò vigorosamente e domandò:

— Dove sono?

— Ti dirò dove sarai tra poco, se non ci muoviamo, — rispose Zoppino, — sarai in gattabuia!

— Ho cantato ancora?

— Vieni, scappiamo per i tetti.

— Tu parli da gatto, ma io non sono abituato a ballare sulle tegole.

— Ti reggerai alla mia coda.

— E dove andremo?

— Via di qua, questo è sicuro. E in qualche posto arriveremo.

Zoppino saltò per primo dalla finestra della soffitta sul tetto

sottostante e a Gelsomino non rimase che seguirlo, chiudendo gli occhi per non essere colto dalle vertigini.

Udrete la storia e l'accaduto di Benvenuto — Mai seduto

Per fortuna in quella parte della città le case crescevano più vicine delle alici in una scatola e Gelsomino non trovò difficoltà a saltare da un tetto all'altro, incoraggiato da Zoppino che avrebbe preferito tetti un pochino più distanti, per poter spiccare qualche balzo di suo gusto. A un tratto, però, a Gelsomino scappò un piede, ed egli cadde su un terrazzino dove un vecchietto stava bagnando i fiori.

— Lei mi scuserà, — esclamò Gelsomino, carezzandosi il ginocchio che aveva battuto, — non avevo nessuna intenzione di cascarle in casa a questo modo.

Non stia a scusarsi, — rispose il vecchietto, gentilmente. — Sono felice che lei mi abbia fatto visita. Piuttosto, si è fatto male? Spero che non ci sia niente di rotto.

Zoppino si sporse dal tetto e miagolò:

— È permesso?

— Oh, un'altra visita, — disse il vecchietto, rallegrandosi, — venga, venga, mi farà tanto piacere.

Il ginocchio di Gelsomino si gonfiava di minuto in minuto.

— Mi dispiace soltanto, — continuò il vecchietto, — di non avere nemmeno una sedia per farvi accomodare.

— Mettiamolo sul letto, — suggerì Zoppino, — sempre se non le dispiace.

— Il guaio è, — disse il vecchietto, rammaricato, — che non possiedo nemmeno un letto. Andrò da un vicino a farmi prestare una poltrona.

— No, no, — disse in fretta Gelsomino, — sto benissimo anche seduto per terra.

— Venite dentro, — propose il vecchietto, — dovrete sedervi sul pavimento, ma intanto vi preparerò un buon caffè.

La stanzetta era piccola ma pulita, con bei mobili lucidi: il tavolo, la credenza, l'armadio. Ma proprio non c'era ombra di sedie o di letti.

— Lei sta sempre in piedi? — domandò Zoppino.

— Per forza, — rispose il vecchietto.

— E non dorme mai?

— Dormo in piedi, qualche volta. Però molto di rado. Non più di un paio d'ore la settimana.

Gelsomino e Zoppino si guardarono come per dire: «Ecco un altro che ce le racconta grosse».

— Se non sono curioso, — domandò ancora Zoppino, — quanti anni ha lei?

— Con precisione non so. Sono nato dieci anni fa, ma debbo avere settantacinque o settantasei anni.

Il vecchietto dovette capire, dalle loro facce, che i suoi ospiti stentavano a credergli. Sospirò e disse:

— Non è una bugia. È una storia incredibile, ma è vera. Se volete, mentre passa il caffè ve la racconto.

— Il mio nome, — cominciò poi, — è Benvenuto. Ma mi chiamano Benvenuto-Mai seduto…

Benvenuto era figlio di un cenciaiolo. Un bambino così vispo non l'aveva veduto mai nessuno. Difatti, non avevano ancora finito di dargli un nome che già Benvenuto saltava fuori delle fasce e correva in giro per la casa. La sera lo mettevano a letto e la mattina lo trovavano con i piedi di fuori e la culla era diventata troppo corta.

— Si vede, — diceva il suo babbo, — che ha fretta di crescere e di aiutare la famiglia.

La sera lo mettevano a letto e la mattina dopo non gli andavano più bene i vestiti, le scarpe erano diventate strette, nelle carnicine non ci entrava più.

— Pazienza, — diceva la sua mamma, — per fortuna in casa di cenciaiolo gli stracci non mancano: gli cucirò un vestito nuovo.

In capo a una settimana Benvenuto era cresciuto tanto che le comari del vicinato dissero che era ora di mandarlo a scuola. La moglie del cenciaiolo lo accompagnò dal maestro, il quale si arrabbiò non poco:

— Ma perché non lo avete portato all'inizio dell'anno scolastico? Siamo quasi a Pasqua, come faccio a prenderlo?

Quando la madre gli ebbe spiegato che Benvenuto aveva soltanto sette giorni, il maestro si arrabbiò ancor di più.

— Sette giorni? Signora mia, io non faccio mica la balia. Tornate fra sei anni e ne riparleremo.

Alla fine però, levò il naso dai suoi registri e vide che Benvenuto era anche più grande degli altri suoi scolaretti. Lo fece mettere all'ultimo banco e prese a spiegare che due più due fanno quattro.

A mezzogiorno suonò la campanella, tutti gli scolari balzarono fuori dei banchi e si misero in fila per uscire. Soltanto Benvenuto non si muoveva.

— Benvenuto, — chiamò il maestro, — vieni a metterti in fila.

— Non posso, signor maestro.

Difatti dalle otto a mezzogiorno era cresciuto così in fretta che il banco gli era diventato stretto. Bisognò chiamare il bidello che lo aiutasse a liberarsi.

La mattina dopo lo misero in un banco più grande, ma quando fu mezzogiorno Benvenuto non potè uscire, perché anche quel banco gli era diventato stretto: pareva un topo in gabbia. Bisognò chiamare un falegname e fargli schiodare il banco.

— Domani prenderemo un banco di quinta, — disse il maestro grattandosi la testa.

Fece portare in classe un banco dei più grandi.

— Come ci stai?

— Ci sto largo, — rispose Benvenuto allegramente.

E per mostrare che ci stava largo davvero entrò e uscì dal banco più volte. Ma ogni volta che ci si metteva seduto faceva più fatica ad uscirne, e quando suonò la campanella di mezzodì anche quel banco era diventato piccolo, e bisognò chiamare un'altra volta il falegname.

Il direttore della scuola e il sindaco cominciarono a protestare:

— Che cosa succede, signor maestro? Forse non sapete più tenere la disciplina? Quest'anno i banchi si rompono come noccioline. Sarà il caso che teniate d'occhio quei marmocchi; il comune non può mica comperare un banco nuovo al giorno.

Il cenciaiolo dovette decidersi ad accompagnare il figliolo dal primo medico della città, al quale narrò le cose per bene.

— Vediamo, vediamo, — disse il medico mettendosi gli occhiali per vedere meglio. Misurò Benvenuto in altezza e in larghezza.

— Adesso, — disse poi, — mettiti seduto.

Benvenuto si accomodò su una sedia, il dottore lasciò passare un minuto e gli ordinò:

— Alzati.

Benvenuto si alzò e il dottore ricominciò a misurarlo quant'era lungo e quant'era largo.

— Hm, — fece pulendosi gli occhiali col fazzoletto per essere proprio sicuro di vederci bene, — rimettiti seduto.

Fece così parecchie volte e finalmente sentenziò:

— È proprio un caso interessante. Questo ragazzo ha una malattia nuovissima, che prima di lui non è mai capitata a nessuno. Questa malattia si manifesta così: che a star seduto il ragazzo invecchia rapidamente. Per lui un minuto è come un giorno. La cura è questa: bisogna che stia sempre in piedi, altrimenti in poche settimane lo vedrete diventare un vecchietto con la barba bianca.

Dopo il verdetto del medico, la vita di Benvenuto cambiò da cima a fondo. A scuola gli fecero un banco speciale, senza sedile, perché non gli venisse nemmeno la tentazione di mettersi seduto. A casa, doveva mangiare in piedi, e guai a lui se cercava di riposarsi appena un momento sulla pietra del camino.

— Attento, vuoi invecchiare prima del tempo?

— Su, su, vuoi che ti vengano i capelli bianchi?

E a letto? Niente letto se non voleva svegliarsi con la barba bianca. Benvenuto dovette imparare a dormire in piedi, come i cavalli. Fu così che le comari del vicinato lo chimarono Benvenuto-Mai seduto. E il soprannome gli restò per tutta la vita.

Un brutto giorno il cenciaiolo padre si ammalò e doveva morire.

— Benvenuto, — egli disse al figliolo, prima di chiudere gli occhi per sempre, — adesso tocca a te, aiuta tua madre che è vecchia e non può lavorare, cercati un lavoro onesto. Già a lavorare non farai fatica: il lavoro ti farà restare giovane, perché non ti lascerà mai tempo per restare seduto.

Il giorno dopo i funerali, Benvenuto andò in cerca di un lavoro, ma tutti gli ridevano in faccia:

— Un lavoro, figlio bello? Ma qui non si gioca mica alle palline o ai birilli: sei troppo piccolo, sei troppo giovane per entrare in fabbrica.

— Un lavoro? Ma ci daranno la multa se ti faremo lavorare: è proibito far lavorare i ragazzi…

Benvenuto non protestava, ma tra sé pensava alla maniera di cavarsela.

Andò a casa, si sedette davanti allo specchio e aspettò.

— Il dottore diceva che a star seduto divento vecchio: vediamo un po' se è vero…

Dopo qualche minuto si accorse che cresceva, perché le scarpe gli andavano strette: le gettò via e stette a contemplarsi i piedi che si allungavano. Quando tornò a fissare lo specchio, sulle prime rimase piuttosto sorpreso.

— Chi sarà mai quel giovanotto con i baffi neri sotto il naso che mi sta guardando? Mi sembra di conoscerlo: ha qualcosa in faccia che mi sembra di avere già visto…

Finalmente comprese e scoppiò a ridere:

— Ma sono io, sono proprio cresciuto in fretta. E adesso mi alzo in piedi perché più vecchio di così mi dispiacerebbe diventare…

Figuratevi la faccia di sua madre quando si vide davanti un giovanottone grande e grosso, con una voce da orco e due baffi da brigadiere di pubblica sicurezza.

— Benvenuto, figlio mio, come sei cambiato!

— Tutto per il meglio, mamma. Vedrete che ora potrò lavorare.

E senza andare a chiedere lavoro a nessuno, fece uscire dalla rimessa il carrettino di suo padre e se ne andò per le strade gridando:

— Cenciaiolooooo! Cencistracciiiiii!

— Ma che bel giovanotto! Di dove venite? — domandavano le comari, chiamate sulle soglie da quella bella voce.

— Benvenuto-Mai seduto! Ma sei proprio tu?

— Sono io, comare. Mi sono addormentato su una sedia e mi sono svegliato con i baffi.

Così Benvenuto cominciò a lavorare. Tutti gli volevano bene. Sempre in piedi, sempre attivo, sempre pronto ad aiutare gli altri, sempre al lavoro, per forza era simpatico. Una volta lo volevano fare anche sindaco:

— Ci vuole un tipo come te, che non si attacca troppo alla poltrona…

Ma Benvenuto non accettò la carica.

Dopo qualche anno gli morì la madre e Benvenuto pensò:

— Adesso sono solo del tutto. Visto che tanto non posso star seduto a far niente, perché sennò divento vecchio, è meglio che me ne vada per il mondo a vedere che cosa c'è di nuovo.

E così fece: prese il suo carrettino e tutti gli stracci che c'erano sopra e se ne andò per il mondo. Poteva camminare giorno e notte senza stancarsi, e vedere un monte di cose e parlare con la gente.

— Siete proprio un giovanotto simpatico, — gli dicevano, — sedetevi a fare due chiacchiere un momento.

— Due chiacchiere si possono fare anche in piedi, — rispondeva Benvenuto.

Va e va, non diventava mai vecchio. Una volta, passando davanti ad una povera casupola vide uno spettacolo che gli strinse il cuore: c'era una donna malata a letto, e attorno a lei una fila di bambini per terra, che facevano a chi strillava più forte.

— Quel giovanotto… — pregò la donna appena lo vide, — se non avete niente da fare, entrate un momento. Io non mi posso muovere per far chetare ì bambini e ogni loro lacrima è per me come una pugnalata al petto.

Benvenuto entrò nella stanza, prese in braccio uno dei bambini, e passeggiando avanti e indietro lo fece addormentare. E così fece per gli altri. Ma l'ultimo, il più piccolo, non si chetava.

— Sedetevi un momento, — disse la donna, — e tenetelo in braccio. Se vi sedete, vedrete che si addormenterà.

Benvenuto andò vicino al camino, dove c'era uno sgabello, sedette, e subito il bambino cessò di piangere. Era proprio un bel bambino, e quando sorrideva la stanza pareva più bella. Benvenuto gli fece mille smorfie per farlo ridere, gli cantò perfino una canzonetta e finalmente il bambino si addormentò.

— Vi ringrazio di tutto cuore, — disse la donna, — se non capitavate voi, ero così disperata che avevo deciso di ammazzarmi.

— Non ditelo neanche per scherzo, — fece Benvenuto.

Mentre stava per andarsene lo sguardo gli cadde su uno specchio che stava sopra la mensola del camino, e nello specchio vide che gli era spuntato un capello bianco.

«Mi ero dimenticato che a star seduto divento vecchio», — pensò Benvenuto. Ma poi scrollò le spalle, diede un'occhiata ai bambini che dormivano e se ne andò per la sua strada.

Un'altra volta, di notte, mentre passava per la stradina di un villaggio, vide dietro una finestra una lampada accesa. C'era una ragazza seduta presso una macchina da tessere la lana, e mentre lavorava sospirava e si lamentava.

— Che cosa avete? — le domandò Benvenuto.

— Ho che sono tre notti che non dormo. Debbo finire questo lavoro per domani: se non lo finisco non sarò pagata e la mia famiglia patirà la fame. Eppoi forse mi porteranno via la macchina. Chissà quanto pagherei per dormire una mezz'oretta.

«Una mezz'oretta sono trenta minuti soli, — riflette Benvenuto, — posso sedermi per trenta minuti a quella macchina».

— Sentite, — disse poi ad alta voce, — andate a dormire, lavorerò al posto vostro: ho proprio voglia di provare quella macchina, così bella e precisa; fra una mezz'oretta poi vi richiamerò.

La ragazza si sdraiò su una panchetta e si addormentò subito come un gattino. Benvenuto cominciò a lavorare al suo posto e non ebbe mai il coraggio di svegliarla, perché ogni volta che le si avvicinava gli pareva che stesse sognando chissà quali belle cose.

Venne l'alba, spuntò il sole e svegliò la ragazza.

— Mi avete lasciato dormire tutta la notte.

— Niente, niente, mi sono divertito.

— E vi siete anche impolverato la testa.

«Chissà di quanti anni sono diventato vecchio?», — si domandò Benvenuto. Ma non provò nessun dispiacere, perché aveva finito il lavoro della ragazza ed essa aveva la faccia più felice e serena di questo mondo.

Un'altra volta ancora Benvenuto trovò un povero vecchio che stava per morire.

— Mi dispiace, — diceva il vecchio sospirando, — mi dispiace di dover morire senza avere potuto fare una bella partita a carte. Tutti i miei amici sono morti prima di me.

— Se è soltanto per questo, — disse Benvenuto, — a briscola so giocare anch'io.

Cominciarono a giocare e Benvenuto stava in piedi, ma il vecchio lo sgridò:

— Tu resti in piedi e mi guardi le carte! Vuoi vincere per forza! Te ne approfitti perché sono un povero vecchio!

Benvenuto cascò a sedere su una sedia e ci stette fino alla fine della partita. Era così confuso che sbagliò le carte, e il vecchio vinse la partita, e si fregava le mani come un monello che è andato a rubare le pere e l'ha fatta franca.

— Un'altra partita! — propose allegramente.

Benvenuto avrebbe voluto alzarsi da quella sedia che gli rubava i giorni e i mesi, e forse gli anni. Ma non voleva dare un dispiacere al povero vecchio. Restò a sedere, perse una seconda partita, e poi una terza. Il vecchio dalla gioia pareva ringiovanito.

— I suoi anni me li sono presi io, — mormorò Benvenuto, | guardandosi nello specchio che stava nella stanza del vecchio: i capelli erano come se ci fosse caduta sopra la grandine. — Pazienza: chissà da quanto tempo sognava di vincere una mano46 a briscola.

Così, ogni volta che per aiutare qualcuno gli capitava di sedersi, al nostro Benvenuto crescevano i capelli bianchi, e poi la sua schiena cominciò a piegarsi come fanno gli alberi quando soffia il vento, e gli occhi non ci vedevano più come prima.

Benvenuto-Mai seduto diventava vecchio anche lui, e alla fine non ebbe più un capello scuro e quelli che conoscevano la sua storia gli dicevano:

— Bel guadagno hai avuto, a far del bene! Se pensavi solo per te, a quest'ora saresti ancora un giovanotto arzillo come un passero.

Benvenuto-Mai seduto non dava retta a questi discorsi. Ogni capello bianco gli ricordava una bella azione: perché mai avrebbe dovuto pentirsene?

— Potevi tenerti la tua vita, invece di darne un po' a tutti… — gli dicevano le comari.

Ma Benvenuto crollava il capo sorridendo e pensava che per ogni capello bianco si era fatto un amico: migliala e migliala sparsi su tutta la terra. Avete tanti amici voi? Vi piacerebbe averne tanti così?

Di viaggiare, poi, non era mai stanco, anche se adesso doveva appoggiarsi al bastone e fermarsi spesso a prendere fiato. E così viaggiando era capitato nel paese dei bugiardi, dove si guadagnava la vita facendo il cenciaiolo, come suo padre.

— Ma fra tanti paesi, — protestò Zoppino a questo punto del racconto, — non potevate sceglierne uno migliore di questo per fermarvi?

Benvenuto-Mai seduto sorrise:

— È proprio qui che la gente ha bisogno di aiuto. Questo è certamente il paese più infelice della terra, dunque è il posto che fa per me.

— Ecco! — esclamò Gelsomino, che aveva ascoltato le parole del vecchio con le lacrime agli occhi. — Ecco la strada giusta. Adesso capisco che cosa avrei dovuto fare della mia voce, invece di andarmene attorno per il mondo a far disastri. Avrei dovuto adoperarla per far del bene al mio prossimo.

— Ti sarebbe stato difficile, — osservò Zoppino. — Per esempio, se ti ci fossi messo tu a cantare la ninna-nanna ai bambini avresti impedito loro di dormire.

— Il bene si può fare anche svegliando la gente che dorme, qualche volta, — disse dolcemente Benvenuto.

— Risolverò questa questione, — concluse Gelsomino, battendo un pugno per terra.

— Per intanto, — disse Zoppino, — dovrai curarti il ginocchio.

Il ginocchio, infatti, era sempre più gonfio, e Gelsomino non poteva più camminare né star ritto. Fu deciso che sarebbe rimasto a casa di Benvenuto fino alla guarigione. Benvenuto, che non dormiva quasi mai, poteva vegliare sul suo sonno, e impedirgli di mettersi a cantare, cosa che avrebbe fatto accorrere nuovamente le guardie.

Bananito va in prigione e con la matita fa colazione

Bananito, come ricorderete con un piccolo sforzo, era uscito di buon mattino in cerca di fortuna. Non aveva nessun progetto preciso, ma solo una gran voglia di fare qualcosa per mostrare la propria bravura.

La città si svegliava allora allora. Gli spazzini lavavano le strade con le pompe, scherzando con gli operai che andavano al lavoro in bicicletta e rischiavano ad ogni minuto una doccia.

Era un'ora allegra e serena e Bananito, fermo sul marciapiedi, si sentiva fiorire in testa bellissimi pensieri. Ne sentiva quasi il profumo, come se intorno a lui fossero spuntate improvvisamente, tra le pietre della città, milioni di violette.

— Ecco una bella cosa da fare! — decise improvvisamente.

E li dove si trovava, presso il cancello di una fabbrica, si accucciò sul marciapiedi, levò dei gessetti da una scatola e cominciò a lavorare.

Un gruppetto di operai gli fu subito intorno.

— Scommetto, — disse uno, — che disegnerà il solito veliero, o qualche santo con l'aureola. Ma dov'è il cane col berretto in bocca per raccogliere le elemosine?

— Io so una storia, — disse un altro. — Una volta un pittore disegnò per terra una riga rossa, e tutti gli stavano attorno e si spremevano il cervello51 per indovinare che cosa volesse dire.

— E cosa voleva dire?

— Lo domandarono anche al pittore, e lui rispose: voglio vedere se qualcuno è capace di passare sotto la riga invece che sopra. Poi si mise il cappello e se ne andò. Doveva essere un po' matto.

— Questo però non è matto, — disse qualcuno, — guardate.

Bananito, senza alzare la testa dal suo lavoro, dipingeva così in fretta che gli occhi faticavano a tener dietro alla sua mano. E sun marciapiedi, proprio come lui aveva sognato, nasceva un bellissimo giardino di violette. Era solo un disegno, ma così bello che ad un certo punto cominciò davvero a profumare.

— Pare quasi, — mormorò uno degli operai, — di sentire un profumo di violette.

— Chiamale zucchine, se non vuoi che ti mettano dentro, — lo avvertì un suo compagno. — Però è vero: si sente il profumo.

Tutti, intorno a Bananito, fecero un gran silenzio. Si sentiva il gessetto grattare delicatamente la pietra, e ad ogni segno viola il profumo di violette aumentava.

Gli operai erano commossi. Passavano da una mano all'altra il pacchettino della colazione, fingevano di sentire se le gomme delle biciclette erano abbastanza gonfie, ma non perdevano un gesto di Bananito, e allargavano le narici per lasciarsi penetrare da quel profumo che rallegrava il cuore.

La sirena fischiò, ma nessuno si mosse per entrare in fabbrica. Si udì mormorare: «Bravo! Bravo!» Bananito alzò gli occhi e incontrò gli sguardi dei suoi spettatori: lesse in loro tanta simpatia che si sentì intimidito. Raccolse in fretta i suoi colori e si allontanò.

Uno degli operai lo rincorse:

— Ma che fai? Perché scappi? Ancora un minuto e ti avremmo dato tutti i soldi che avevamo in tasca. Nessuno ha mai visto un disegno così bello!

— Grazie, — mormorò Bananito, — grazie.

E attraversò la strada, per essere solo.

Il cuore gli batteva tanto forte che si vedeva la giacca, in quel punto, sussultare come se ci fosse stato sotto un gattino. Era proprio felice!

Camminò a lungo per la città, senza decidersi a fare un altro disegno. Cento idee gli venivano e cento ne scartava.

Finalmente la vista di un cane gli diede l'ispirazione giusta. Si accoccolò sul marciapiedi, nello stesso punto in cui la nuova idea gli era venuta in mente, e cominciò a disegnare.

Ci sono sempre dei passanti che non hanno niente da fare se non passare da una strada all'altra: passanti di professione, o forse

disoccupati. Di nuovo, dunque, intorno a Bananito, ci fu una piccola folla a commentare.

— Guardate che originalità: sta disegnando un gatto, come se non ce ne fossero anche troppi in giro per la città, se ti viene voglia di guardarne uno.

— È un gatto speciale, — disse allegramente Bananito.

— Avete sentito? Fa un gatto speciale, forse un gatto con gli occhiali?

Le chiacchiere cessarono d'incanto quando il cane di Bananito,

ricevuto l'ultimo segno di colore sulla coda, balzò sulle quattro zampe abbaiando festosamente. La folla levò grida di meraviglia, e subito accorse un poliziotto.

— Che c'è? Che succede? Ah, vedo, vedo. Anzi, sento: un gatto che abbaia. Non ne avevamo abbastanza dei cani che miagolano! Di chi è?

La folla si disperse rapidamente, per non dover rispondere alla domanda. Solo un poveretto, che stava proprio vicino alla guardia, non potè svignarsela perché era stato afferrato per un braccio.

— È suo, — sussurrò indicando Bananito, con gli occhi bassi.

La guardia lo lasciò andare e acchiappò Bananito.

— Vieni con me, tu!

Bananito non si fece pregare, si mise i colori in tasca e seguì la guardia, senza perdere la sua allegria. Il cane, però, drizzata la coda come una vela, aveva già deciso di andarsene per i fatti suoi.

In attesa che il comandante delle guardie lo interrogasse, Bananito fu rinchiuso in camera di sicurezza. Le mani, però, gli prudevano dalla voglia di lavorare. Disegnò un uccellino e gli diede il volo, ma l'uccellino non volle allontanarsi da lui: gli si andò a posare sulla spalla e gli beccava affettuosamente un orecchio.

— Ho capito, — disse Bananito. — Hai fame!

E subito gli disegnò alcuni granelli di miglio. Questo gli fece venire in mente che non aveva ancora fatto colazione.

— Due uova al burro mi basteranno. E una bella pesca gialla. Disegnò quel che gli occorreva e ben presto un profumo di uova

fritte si diffuse per la stanza, uscì dalla porta e andò a solleticare le narici della sentinella.

— Hm… che delizia! — disse il giovanotto, allargando le narici per non perdere un filo di quel profumo.

Ma poi gli venne un dubbio, aprì lo spioncino della cella e guardò dentro. La vista del prigioniero che mangiava di buon appetito lo lasciò di sasso, e in quella posizione, con un'espressione stupita sul volto, lo trovò il capo delle guardie.

— Ma bene! — gridò quest'ultimo, al colmo dell'indignazione. — Ma benone! Adesso ai prigionieri portiamo anche i pasti dal ristorante.

— Io non… io non… — balbettò la guardia.

— Tu non conosci il regolamento! Pane ed acqua, acqua e pane, e niente più!

— Io non so come ha fatto… — riuscì finalmente a dire la guardia, — Forse aveva le uova in tasca.

— Già, e il fornello? Vedo che in mia assenza fioriscono le novità: celle con uso di cucina…

A questo punto però il comandante dovette persuadersi a sua volta che nella cella non c'era alcun fornello.

Bananito, del resto, per non far passare un brutto quarto d'ora alla guardia, si decise a confessare come aveva fatto a procurarsi la colazione.

— Tu mi credi un imbecille, — disse il comandante, dopo averlo ascoltato con incredulità. — Che faresti se ti ordinassi di disegnarmi una sogliola al vino bianco?

Bananito, senza rispondere, prese un pezzo di carta e disegnò il piatto che gli era stato ordinato.

— Col prezzemolo o senza? — domandò, mentre lavorava.

— Col prezzemolo, — ordinò ridacchiando il comandante. — Mi hai proprio preso per un citrullo. Quando avrai finito, ti farò mangiare quel foglio di carta fino all'ultimo centimetro quadrato.

Ma quando Bananito ebbe finito, un appetitoso odore di sogliola al vino bianco si irradiò dal foglio, e qualche istante dopo, sotto gli occhi del comandante spalancati come portoni, il piatto fumò sul tavolo, e pareva dicesse: «Mangiami, mangiami!».

— Buon appetito, — disse Bananito, — il signore è servito!

— Non ho più fame, — borbottò il comandante, rimettendosi dalla sorpresa. — La sogliola la mangerà la sentinella. E tu vieni con me.

Bananito ministro del rè; cade in disgrazia; udrete perché

Il capo delle guardie non era uno stupido: al contrario, era un gran furbone.

«Quest'uomo, — egli rifletteva accompagnando Bananito in castello reale, — vale tant'oro quanto pesa, e forse qualche quintale di più. E siccome io ho una cassaforte abbastanza grande, non c'è ragione che qualche chilo d'oro non ci finisca dentro: ci starà al fresco e al riparo dai topi. Il rè mi darà sicuramente un bel premio!»

Le sue speranze però andarono deluse: rè Giacomone, avvertito dell'accaduto, comandò che il pittore fosse portato alla sua presenza e congedò freddamente il capo delle guardie, dicendogli:

— Avrete una medaglia al merito per la vostra scoperta.

«Cosa me ne faccio, — borbottava fra sé il capo delle guardie, — di una medaglia al merito? Ne ho già ventiquattro, tutte di cartone: se avessi dei tavolini che zoppicano, potrei farne dei tasselli per raddrizzarli».

Lasciamolo borbottare, lasciamolo andare. Assistiamo invece all'incontro fra Bananito e rè Giacomone.

Il pittore, per niente impressionato di trovarsi alla presenza del potente sovrano, rispose tranquillamente alle sue domande, senza cessare di ammirare la bellissima parrucca arancione che gli splendeva in capo come un cesto di arance al mercato.

— Cos'avete da guardare?

— Maestà, ammiro i vostri capelli.

— Sapreste dipingerne di uguali?

La segreta speranza di Giacomone era che Bananito sapesse dipingergli direttamente sulla pelata dei bel capelli veri, di quelli che non ci fosse bisogno di posarli sul comodino all'ora di andare a letto.

— Così belli certamente no, — rispose Bananito, pensando di fargli cosa gradita. In fondo, aveva compassione di un pover'uomo che si crucciava tanto per la sua calvizie. Tanta gente si taglia i capelli corti corti, per non avere il fastidio di pettinarli: e gli uomini non si giudicano da! colore dei capelli. Anche se avesse avuto dei bellissimi capelli neri, ricciuti, naturali, Giacomone sarebbe rimasto quel ladrone e pirata che tutti sapevano.

Giacomone, sospirando, mise da parte per il momento l'idea di farsi dipingere una testa nuova. Decise invece di sfruttare il talento di Bananito per passare alla storia come un grande rè.

— Ti nominerò, — disse al pittore, — ministro del giardino zoologico. Il giardino c'è, ma non ci sono le bestie: devi disegnarle tu. E mi raccomando: che non ne manchi nessuna.

«Meglio ministro che in prigione!», riflette Bananito.

E prima di sera, sotto gli occhi di migliaia di spettatori, aveva disegnato e fatto vivere centinaia di animali di ogni genere e specie: leoni, tigri, coccodrilli, elefanti, pappagalli, tartarughe, pellicani. E cani, anche cani: mastini, levrieri, pechinesi, bassotti, che abbaiavano tutti insieme con grande scandalo dei cortigiani.

— Dove andremo a finire, — essi mormoravano, — se Sua Maestà permette ai cani di abbaiare? Qui si va contro la legge. Con questi cattivi esempi davanti agli occhi il popolo si metterà in testa idee pericolose.

Ma Giacomone aveva dato ordine di non disturbare Bananito e di lasciargli fare tutto quello che voleva, così i cortigiani dovettero inghiottire le loro proteste e digerirle.

Via via che Bananito le faceva, le bestie prendevano posto nelle gabbie; nelle vasche se erano orsi bianchi, foche o pinguini; nei viali del parco se erano asinelli sardi destinati a scarrozzare i bambini.

Quella sera Bananito non potè tornare a dormire nella sua soffitta: il rè gli diede una stanza nella reggia, e gli mise dieci sentinelle davanti alla porta, per paura che scappasse.

Il giorno dopo, non essendoci più niente da fare allo zoo, Bananito fu nominato ministro dei generi alimentari (o, come loro dicevano, Primo cartolaio dello Stato). Gli prepararono un tavolino con tutto lo occorrente per dipingere davanti al portone della reggia, e la gente poteva chiedergli tutto quel che voleva da mangiare.

Dapprincipio qualcuno restò deluso. Se chiedeva a Bananito dell'inchiostro, intendendo del pane (secondo la lingua dei bugiardi) Bananito gli disegnava una bella bottiglia d'inchiostro e subito diceva:

— Avanti un altro.

— Ma che cosa me ne faccio? — borbottava lo sfortunato. — Non posso mica berlo o mangiarlo.

Ben presto la gente imparò che se si voleva qualcosa da Bananito bisognava chiamarla col suo nome vero, quello proibito.

Lo scandalo dei cortigiani era al colmo:

— Andiamo sempre peggio, — sibilavano, lividi in volto. — Di questo passo finirà proprio male. Nessuno dirà più bugie. Ma che cosa è successo a rè Giacomone?!

Rè Giacomone aspettava sempre che gli spuntasse il coraggio di chiedere a Bananito dei capelli veri, da portare in testa senza paura del vento, e intanto lasciava fare al pittore tutto quel che voleva, e non avrebbe tollerato proteste. I cortigiani masticavano amaro e mandavano giù, ma ormai avevano lo stomaco pieno di rospi.

Anche i generali masticavano rospi:

— Ecco qua, dicevano, — abbiamo finalmente sotto mano un tipo come questo pittore e che cosa gli facciamo fare? Frittate, polli alla diavola, sacchettini di patate fritte, tavolette di cioccolata. Cannoni ci vorrebbero, cannoni: potremmo allestire un esercito invincibile e ingrandire il regno!

Un generale più bellicoso degli altri andò addirittura a parlarne con Giacomone. Il vecchio pirata, a quell'idea, si sentì ribollire il sangue nelle vene.

— Cannoni! — esclamò. — Cannoni, certo! E navi, aeroplani, dirigibili. Per le corna di Belzebù, chiamatemi subito Bananito!

Erano anni che i suoi fedeli non lo sentivano invocare le corna di Belzebù, la sua bestemmia preferita dei tempi in cui, ritto sul ponte di comando della sua nave, arringava la ciurma prima di lanciarla all'arrembaggio.

La distribuzione di cibarie fu subito sospesa e Bananito portato alla presenza del rè e del suo stato maggiore. Grandi carte geografiche furono appese alle pareti, e i servitori portarono una scatola di bandierine per segnare i punti delle future vittorie.

Bananito li stette ad ascoltare con molta calma, senza interrompere i loro focosi discorsi. Ma quando gli diedero carta e matita perché cominciasse senz'altro a fabbricare cannoni alla sua maniera, scrisse in mezzo al foglio un bel NO, in stampatello, e lo portò attorno per la sala per essere ben sicuro che tutti lo leggessero.

— Signori miei, — disse poi, — se volete un buon caffè per schiarirvi le idee, sono pronto a prepararvelo in meno di un minuto; se volete un cavallo ciascuno, per andare a caccia di volpi, io vi disegnerò dei puro sangue; ma quei cannoni, bisogna che li dimentichiate. Da me non li'avrete mai.

Scoppiò il finimondo. Tutti urlavano insieme e picchiavano i pugni sul tavolo. Giacomone, invece, per non farsi male, fece avvicinare un servitore e gli picchiò un gran pugno nella schiena.

— La testa, la testa! — si sentiva gridare. — Gli sia tagliata la testa!

— Facciamo così, — disse finalmente Giacomone, — invece di tagliargli la testa, diamogli il tempo di cambiarla. Mi sembra chiaro che quest'uomo, forse perché è un genio, è un po' matto. Mettiamolo per qualche giorno al manicomio.

I cortigiani borbottarono che la decisione era troppo clemente; ma sapevano che Giacomone non voleva rinunciare ai capelli, e si chetarono.

— Intanto, — continuò Giacomone, — non gli dev'essere permesso di disegnare né di dipingere.

Così fu che anche Bananito finì chiuso nel manicomio, in una cella isolata; senza carta né matita, né colori né pennelli. Non c'era il più piccolo pezzo di mattone o di gesso: le pareti erano imbottite, e, a meno di disegnare col sangue, Bananito doveva proprio rassegnarsi a non creare per il momento, nuovi capolavori.

Sì sdraiò sul pancaccio, con le mani dietro la nuca, a guardare il soffitto, che era bianchissimo: ma lui ci vedeva passare, una dopo l'altra, visioni sempre più belle, i quadri a cui avrebbe dato vita una volta uscito di lì. Che sarebbe uscito, non ne dubitò nemmeno per un momento. Ed aveva ragione, perché già qualcuno lavorava alla sua salvezza. Il suo nome vi verrà subito sulla punta della lingua: Zoppino.

In fin del capitolo Zoppino ridiventa un disegnino

Quando a casa di Benvenuto-Mai seduto, dove Gelsomino si curava il ginocchio, si seppe che Bananito era diventato ministro, Zoppino decise di andargli a presentare una petizione per far liberare zia Pannocchia e Romoletta. Purtroppo egli giunse alla reggia quando già la fortuna di Bananito era tramontata, più rapida di una luna frettolosa.

— Se vuoi vedere Bananito, — gli dissero le sentinelle, sghignazzando, — devi andare al manicomio. Ma chissà se ti lasceranno passare: a meno che tu sia matto…

Zoppino fu a lungo in dubbio se farsi passare per matto o tentare di entrare nel manicomio per altra via.

— Zampe mie, mi affido a voi, — decise finalmente, — adesso che siete in quattro, farete anche meno fatica ad arrampicarvi sui muri.

Il manicomio era un edificio tetro, quadrato come un castello e circondato da un fossato colmo d'acqua. Zoppino dovette rassegnarsi a prendere un bagno: si tuffò, traversò il fossato, si arrampicò per i muri e infilò la prima finestrella aperta, che era quella delle cucine. Cuochi e camerieri erano andati tutti a dormire, tranne uno sguattero che stava lavando il pavimento, e che gli gridò:

— Pussa via, bestiaccia! Dovresti saperlo che qui avanzi non ce ne sono!

Il poveraccio, difatti, era sempre tanto affamato che divorava tutti i rifiuti di cucina, fino all'ultima spina di pesce. E nella fretta di cacciare il gatto, perché non gli portasse via qualcosa della sua parte, gli aprì una porta che dava su un lungo corridoio.

A destra e a sinistra, a perdita d'occhio, si allineavano le celle dei pazzi. O meglio: dei prigionieri, che pazzi non erano, ma avevano avuto il torto di dire qualche volta la verità e la sfortuna di essere stati uditi dalle guardie dì Giacomone.

Alcune celle erano divise dal corridoio soltanto per mezzo di una robusta inferriata. Altre apparivano chiuse da robuste porte di ferro, nelle quali si apriva soltanto uno spioncino per far passare i pasti.

In una di queste celle Zoppino rivide i gatti di zia Pannocchia e, con sua grande sorpresa, il buon Fido: dormivano, poggiando l'uno la testa sulia coda dell'altro, e chissà che bei sogni facevano. Zoppino non ebbe il coraggio di svegliarli, perché tanto, in quel momento, non avrebbe potuto far nulla per loro.

Nella stessa cella, come voi sapete, era rinchiuso anche Calimero La Cambiale, che non dormiva affatto, e come vide Zoppino cominciò a pregarlo:

— Fratello, portami un topo, tu che sei libero! Un topolino solo! È tanto che non ne ho uno fra gli artigli.

«Questo è matto davvero», — pensò Zoppino che non lo conosceva e richiuse lo spioncino.

In fondo al corridoio c'era una camerata in cui dormivano non meno di cento persone, tra cui zia Pannocchia e Romoletta. Se ci fosse stata una luce accesa, Zoppino avrebbe potuto forse vederle e riconoscerle. Se non fosse stata addormentata, zia Pannocchia avrebbe potuto forse afferrare Zoppino per la coda, alla sua vecchia maniera. Ma la luce non era accesa e tutti i prigionieri dormivano, compresa Romoletta.

Zoppino attraversò la camerata in punta di zampe, uscì su una scala che portava al piano superiore, e trovò finalmente, dopo molte ricerche, la cella in cui era rinchiuso Bananito.

Il pittore dormiva tranquillo, con le mani dietro la nuca, e in sogno continuava a vedere i magnifici quadri che avrebbe dipinto. In uno di questi quadri, ad un tratto, si produsse uno strappo: al centro di un magnifico mazzo di fiori apparve a Bananito la testa di un gatto che miagolava proprio con la voce di Zoppino.

Bananito si destò e un'occhiata alla porta gli fece capire che stava sempre al manicomio. Ma nella porta lo spioncino si era aperto, e nel piccolo rettangolo era apparsa la testa di Zoppino e la sua voce continuava a miagolare, anche fuori del sogno.

— Bananito! Bananito! Perbacco, che sonno duro.

— Guarda, guarda: tagliatemi la testa se quelli non sono i baffi di Zoppino.

— Sveglia, ti dico. Sono Zoppino, sì, compresa la zampa che tu mi hai regalato, e che funziona a meraviglia.

In così dire, il gatto si assottigliò per attraversare la grata, saltò nella cella e corse a leccare la mano di Bananito.

— Sono qui per aiutarti.

— Ti ringrazio, ma come?

— Ancora non lo so: potrei rubare la chiave ai guardiani.

— Si sveglierebbero.

— Potrei rosicchiare la porta e farti uscire.

— Sì, se tu avessi dieci anni di tempo forse riusciresti anche a fare un buco nella porta di ferro. Lo so io quel che ci vorrebbe.

— E che cosa?

— Una lima. Dammi una lima, e al resto penso io.

— Allora corro a cercarne una.

— Ci sarebbe un sistema più semplice, — disse Bananito. — Potrei disegnarne una, ma quei briganti non mi hanno lasciato nemmeno un mozzicone di matita.

— Se è solo per questo, — esclamò Zoppino, — ci sono le mie zampe. Non ti scordare che tre sono fatte col gesso, e una quarta coi colori a olio.

— Già, ma si consumeranno.

Zoppino non volle sentire ragioni:

— Pazienza, potrai sempre rifarmene delle altre.

— E per scendere dalla finestra?

— Disegnerai un paracadute.

— E per attraversare il fossato?

— Disegnerai un canotto.

Quando Bananito ebbe terminato di disegnare tutto quello che occorreva per la fuga, la zampa di Zoppino si era ridotta a un mozzicone inservibile, come se gliel'avessero amputata.

— Vedi, — rise Zoppino, — che ho fatto bene a non cambiare nome. Zoppo ero, e zoppo rimango.

— Ti rifaccio subito la zampa, — propose Bananito.

— Non c'è tempo. Andiamo, prima che le guardie si sveglino.

Bananito cominciò a lavorare di lima: per fortuna aveva disegnato una lima che mordeva il ferro più che se fosse stato polpa di banana. In pochi minuti una vasta breccia si aprì nella porta e i nostri amici poterono uscire nel corridoio.

— Passiamo a prendere zia Pannocchia e Romoletta, — propose Zoppino, — e inoltre non dimentichiamoci dei gatti.

Ma il rumore della lima aveva destato le guardie, che avevano cominciato un giro d'ispezione per scoprirne la provenienza. Bananito e Zoppino ne udivano i passi cadenzati che si aggiravano di corridoio in corridoio.

— Cerchiamo di raggiungere la cucina, — suggerì Zoppino, — se non possiamo scappare tutti, scappiamo almeno noi due. Liberi, saremo più utili che prigionieri.

Come li vide comparire in cucina, lo sguattero ricominciò a inveire contro Zoppino:

— Ti ho appena cacciato, ingordo. Vuoi proprio rubarmi il pane? Avanti, quella è la finestra: esci di là, e se ti anneghi, tanto meglio!

Era così infuriato che non fece caso a Bananito: vedeva solo il gatto, temeva soltanto la sua concorrenza. Bananito si allacciò il paracadute, preparò il canotto aperto e prese in braccio Zoppino.

— Via!

— Sì, sì, via, via, — brontolò lo sguattero, — e non rimettete più i piedi qua dentro.

Solo quando Bananito ebbe spiccato il salto lo sguattero ebbe il sospetto che qualcosa non andasse per il giusto verso.

— Ma quell'altro, chi era mai? — si domandò, grattandosi la testa. E, a scanso di guai, decise di stare zitto. Lui non aveva visto nulla, non aveva sentito nessuno. Scelse dal mucchio della spazzatura un torso di cavolo e lo addentò, mugolando di soddisfazione.

La fuga di Bananito era stata scoperta pochi attimi prima. Da tutte le finestre del manicomio i guardiani si affacciavano a gridare:

— Aiuto! Allarmi! È fuggito un pazzo pericoloso!

Bananito e Zoppino, accucciati nel canotto, remavano con le mani per attraversare il fossato. Ma non sarebbero andati molto lontano se a riceverli non fosse stato pronto, col suo carretto, Benvenuto-Mai seduto, che aveva indovinato le intenzioni di Zoppino.

— Presto, nascondetevi qua sotto! — bisbigliò il vecchio cenciaiolo. Li fece montare sul carro e li coperse con un mucchio di stracci. Alle guardie che sopraggiungevano, poi, indicò una direzione qualunque:

— Di là, guardate: sono scappati da quella parte!

— E tu chi sei?

— Sono un povero cenciaiolo. Mi sono fermato qui per riposare.

E per convincerli che era stanco davvero, si sedette su una delle

stanghe del carretto e accese la pipa.

Povero Benvenuto: sapeva anche troppo che a restare in quella posizione gli sarebbero spuntati altri capelli bianchi, e in pochi minuti chissà quanti anni di vita avrebbe perso. Ma era fatto così.

«Gli anni che perdo io, — pensava, — allungheranno la vita a qualche altro. Con la vita e con la morte sono in pari».

E cacciò una boccata di fumo in faccia ai guardiani.

Purtroppo, in quello stesso istante Zoppino cominciò a sentire un prurito alle narici: i cenci sotto cui stava sepolto erano piuttosto polverosi, e solo un rinoceronte avrebbe potuto dire che erano profumati. Zoppino tentò di stringersi il naso con le zampe davanti, per soffocare lo sternuto, ma si ricordò troppo tardi che ormai, davanti, aveva una zampa sola. Lo sternuto scoppiò, così violento che sollevò una nuvola di polvere.

Zoppino, per non far scoprire Bananito, preferì saltar giù dal carretto e darsela a gambe.

— Che è stato? — domandavano le guardie.

— Un cane, — rispose Benvenuto, — un cane si era nascosto fra gli stracci. Eccolo là che scappa.

— Se scappa, — dissero le guardie, — non ha la coscienza tranquilla, Inseguiamolo!

Zoppino udì i loro passi ferrati, li sentì dare l'allarme e se ne rallegrò:

— Se mi seguiranno, lasceranno in pace Benvenuto e Bananito.

Traversò la città, e le guardie dietro, con la lingua penzoloni. Eccola

piazza della reggia, ecco la colonna su cui Zoppino ha già passato una notte tranquilla.

— Ancora un salto, — raccomandò Zoppino alle proprie zampe, — e saremo in salvo!

Le zampe gli diedero retta con troppo slancio: invece di trovarsi aggrappato alla colonna pronto ad arrampicarvisi in cima, Zoppino si trovò addirittura impastato sulla colonna. Era ridiventato un disegno, lo scarabocchio di un gatto con tre zampe. Sul momento, non gli dispiacque, perché le guardie erano rimaste, come scrissero poi esse stesse nel loro rapporto, «con un palmo di naso».

— Dov'è scomparso? — si domandavano.

— Io l'ho visto saltare sulla colonna.

— Non si vede più nulla.

— Si vede soltanto uno scarabocchio, guardate: qualche monello ha disegnato un gatto col gesso rubato a scuola.

— BÈ, andiamocene: gli scarabocchi non sono affar nostro.

Benvenuto, intanto, aveva spinto il carretto fino a casa, fermandosi ogni tanto a riprendere fiato. Dovette sedersi ancora due o tre volte sulle stanghe, perché non ce la faceva più dalla fatica. Insomma, era uscito di casa che aveva sì e no81 ottant'anni, e quando rivide il suo portone ne aveva certo più di novanta: il mento gli toccava il petto, gli occhi scomparivano in un groviglio di rughe, la voce era fioca come se giungesse di sotto un mucchio di polvere.

— Bananito, sveglia, siamo arrivati!

Bananito, infatti, si era addormentato fra gli stracci, al calduccio.

Date l'ultimo saluto a Benvenuto — Mai seduto

— Che fai, parli ai tuoi stracci?

Una guardia notturna si era fermata alle spalle di Benvenuto che tentava di svegliare Bananito.

— Agli stracci? — ripete Benvenuto per guadagnare tempo.

— Ma sì, ho sentito benissimo che stavi dicendo qualcosa a quella calza scompagnata. O forse ne contavi i buchi?

— Debbo aver parlato senza accorgermene, — mormorò Benvenuto. — Sono tanto stanco, sapete. Ho girato tutto il giorno spingendo questo carretto. Alla mia età, è dura…

— Se siete stanco, riposatevi, — disse la guardia, pietosamente, a quest'ora chi volete che abbia stracci da vendere?

— Mi siedo subito, — disse Benvenuto.

E si accoccolò di nuovo su una delle stanghe.

— Se permettete, — disse la guardia, vorrei sedere anch'io un momento.

— Qui c'è un'altra stanga, accomodatevi.

— Grazie. Sapete, anche a fare la guardia notturna c'è da stancarsi. E pensare che io avrei voluto fare il pianista: si suona sempre seduti, si vive in mezzo alla buona musica. Ce l'avevo messo anche nel tema, a scuola. «Che cosa farete da grandi?», diceva il tema. E io: «Da grande farò il pianista, girerò il mondo dando concerti, riceverò molti applausi e diventerò celebre». Invece non sono diventato celebre nemmeno in mezzo ai ladri: non ne ho ancora preso uno solo. A proposito, voi non sarete mica un ladro, no?

Benvenuto lo rassicurò con un cenno del capo. Avrebbe voluto dire qualcosa alla guardia notturna per consolarla della sua cattiva sorte, ma non ne aveva più la forza. Sentiva che la vita lo abbandonava di minuto in minuto, ma non poteva far altro che rimanere lì, seduto, ad ascoltare.

La guardia continuò per un pezzo, sospirando, a parlare del suo lavoro, del pianoforte che non aveva mai posseduto, dei suoi bambini.

— Il maggiore ha dieci anni, — diceva, — e l'altro giorno anche lui a scuola ha svolto i! suo bravo tema. I maestri lo danno sempre, e dice sempre a quel modo: «Che cosa farai da grande?». «Farò l'aviatore, — ha scritto mio figlio, — e volerò nella luna con uno sputnik». Io glielo auguro proprio, ma tra un paio d'anni dovrò mandarlo a lavorare, perché la mia paga non basta alla famiglia. È difficile, vero, che possa diventare un esploratore dello spazio?

Benvenuto fece cenno di no: voleva dire che non era difficile, che niente è impossibile, che non bisogna mai perdere la speranza di realizzare i propri sogni. Ma la guardia non vide nemmeno il suo cenno. Lo guardò, e gli parve che dormisse.

— Povero vecchio, — mormorò, — era stanco davvero. Su, continuiamo il nostro giro.

La guardia si allontanò, in punta di piedi85, ma Benvenuto rimase seduto e non si muoveva. Ormai non aveva più la forza di alzarsi.

«Aspetterò così, — sospirava dentro di sé, — aspetterò seduto. Ho fatto tutto quello che potevo, Bananito è in salvo. Anche alla guardia, poveretta, ha fatto bene potersi sfogare un po' con me…»

I suoi pensieri diventavano sempre più lontani e confusi… Di lontano, lontano, lontanissimo, gli parve di sentir giungere un canto, una specie di ninna-nanna. Poi non la sentì più.

Quella ninna-nanna, amici miei, Benvenuto non se l'era sognata. Era successo che Gelsomino, nel sonno, si era rimesso a canticchiare, secondo il suo solito.

La sua voce scese per le scale, uscì nel vicolo e svegliò Bananito, che sporse il naso dalla montagna di stracci sotto cui era sepolto.

— Benvenuto! — chiamò, — Benvenuto, dove siamo? Che succede?

Ma Benvenuto non poteva più rispondergli.

Il pittore balzò dal carrettino, scosse due o tre volte il vecchio: la sua mano era fredda gelata.

La voce di Gelsomino continuava a scendere dolcemente le scale, usciva nel vicolo, faceva il giro del carrettino cantando la sua dolcissima ninna-nanna.

Bananito corse di sopra, svegliò Gelsomino, tornarono insieme sulla strada.

— È morto! — esclamò Gelsomino. — È morto per colpa nostra: ha speso le sue ultime forze per noi, mentre noi dormivamo, tranquilli, senza pensare a nulla.

In fondo alla strada si riaffacciò la guardia notturna di poco prima.

— Portiamolo in casa sua, — sussurrò Gelsomino.

Ma non ci fu bisogno che Bananito lo aiutasse: ormai Benvenuto era diventato leggero come un bimbo, e quasi Gelsomino non se lo sentiva sulle braccia.

La guardia rimase qualche istante a contemplare il carretto.

— Il vecchio cenciaiolo deve abitare da queste parti, — disse. — Dovrei fargli la multa perché ha lasciato il carretto in mezzo alla strada. Ma era tanto un bravo vecchio: fingerò di essere passato da un'altra parte.

Povero Benvenuto, in casa sua non c'era nemmeno una sedia per farlo sedere dopo morto: dovettero distenderlo sul pavimento, con un semplice cuscino sotto la testa.

Il funerale di Benvenuto fu fatto due giorni più tardi, quando erano già successe tante cose che voi non sapete ancora e che apprenderete dai prossimi capitoli. C'erano migliala e migliala di persone, e nessuno fece un discorso, ma tutte quelle persone avrebbero potuto farne uno, per raccontare una bella azione del cenciaiolo.

Fu a quel funerale che Gelsomino cantò per la prima volta senza rompere nulla: la sua voce era forte come prima, ma era diventata

più dolce, e chi l'ascoltava si sentiva diventare più buono.

Prima di quel giorno, come vi dicevo, accaddero ancora tante cose.

Innanzitutto Gelsomino e Bananito si accorsero che Zoppino mancava. Nella confusione e nella tristezza del momento non ci avevano fatto caso.

— Stava con me, sul carretto! — esclamava Bananito. — Certo, non potevo vederlo, in mezzo a tutti quei cenci; ma figurati che a un certo punto l'ho sentito perfino starnutire.

— Si sarà ricacciato in qualche guaio, — disse Gelsomino.

— Forse è tornato al manicomio per liberare zia Pannocchia e Romoletta.

— Tutti fanno qualcosa, — mormorò Gelsomino, avvilito, — io solo non faccio nulla. Io sono capace soltanto di far crollare i lampadari e di spaventare la gente.

Così disperato nessuno l'aveva mai visto. Eppure fu proprio in quel momento che gli venne un'idea formidabile, splendente come una stella di prima grandezza.

— Ah, ah! — esclamò ad un tratto. — Vedremo se non so far nulla.

— Dove vai? — domandò Bananito, vedendolo alzarsi e infilarsi la giacca.

— Questa volta tocca a me, — rispose Gelsomino. — Tu non ti muovere: le guardie ti cercano. Avrai mie notizie. E che notizie!

Gelsomino canta sul serio; segue una furia e un putiferio

Nel manicomio dopo l'agitazione per la fuga di Bananito, era tornata la calma. Nelle camerate, nelle celle, nei corridoi tutti dormivano: vegliava soltanto, in cucina, il povero sguattero. Lui non poteva quasi mai dormire perché aveva sempre fame, e passava la notte a frugare tra i rifiuti in cerca di qualcosa di commestibile. Di Bananito e di quelli che gli davano la caccia non gli importava proprio nulla. Non gli importava nulia nemmeno di quel bizzarro giovanotto, non tanto «otto» per la verità, anzi piuttosto Piccolino, che si era piantato proprio in mezzo alla piazza, davanti al manicomio, e aveva cominciato a cantare.

Lo sguattero, mordendo alcune bucce di patate, lo guardava crollando la testa:

— Quello sì che è matto. S'è mai visto uno che invece di fare la serenata alle belle ragazze la viene a fare al manicomio? Del resto è affare suo. Però che voce robusta! Scommetto che adesso le sentinelle gli salteranno addosso.

Le sentinelle invece, stanche per la vana corsa dietro a Zoppino, dormivano come sassi.

Gelsomino, che aveva cominciato a cantare quasi sottovoce, per provare le corde vocali, adesso alzava il volume. Lo sguattero rimase lì a bocca aperta, dimenticandosi delle sue bucce.

— A sentirlo, quasi quasi passa la fame.

In quel momento i vetri del finestrino al quale s'era affacciato volarono in pezzi, e mancò poco che qualche pezzo gli si infilasse nel naso.

— Ehi, ma chi è che tira sassi?

Subito dopo, in diversi punti dell'enorme, tristissimo edificio, molti vetri cominciarono a spezzarsi uno dopo l'altro, dal primo all'ultimo piano.

I guardiani accorrevano nelle camerate e nelle celle, immaginando che si trattasse di una rivolta di prigionieri, ma dovevano subito cambiare idea: i prigionieri si erano svegliati, è vero, ma sembravano calmi, contenti, e si godevano la serenata.

— Ma chi è che rompe i vetri? — gridavano i guardiani.

— Silenzio, — si rispondeva da tutte le parti, — lasciateci sentire la canzone. Che ci importa dei vetri? Non sono mica nostri.

Poi cominciarono ad andare in pezzi anche le inferriate: le sbarre si rompevano come fiammiferi, si staccavano dalle finestre e piombavano giù nel fossato, dove facevano «plof» e colavano a picco.

Il direttore del manicomio, informato di quel che stava succedendo fu preso dai brividi.

— È il freddo, — spiegò ai suoi segretari. Ma dentro di sé pensava: «È il terremoto!».

Ordinò subito la sua automobile e, dicendo agli altri che correva ad avvertire il ministro, abbandonò il manicomio alla sua sorte e si rifugiò nella sua villa in campagna.

«Il ministro! — pensavano i segretari, pieni di rabbia. — Ha tagliato la corda, altro che ministro… E noi dobbiamo fare la fine del topo in trappola? Non sia mai!».

E uno dopo l'altro, in automobile e anche a piedi, attraversarono il ponte levatoio: le sentinelle, dopo un istante, non videro più nemmeno la loro schiena.

Era quasi l'alba. Un filo di luce grigia era apparso sui tetti. Per Gelsomino fu quasi un segnale che gli dicesse: canta più forte!

Allora avreste dovuto sentirlo: la voce usciva dalla sua bocca con la potenza del fuoco della terra quando esce dalla bocca di un vulcano. Tutte le porte di legno del manicomio volarono in polvere: quelle di ferro si curvarono abbastanza per non assomigliare più a porte, e chi ci stava rinchiuso dietro corse nei corridoi, saltando di gioia.

Sentinelle, infermieri e guardiani, a questo punto, si diressero l'uno dopo l'altro verso il portone d'uscita, dal quale, attraverso il ponte levatoio, si sbucava in piazza. Tutti si erano ricordati che avevano qualcosa di importante da fare fuori del manicomio.

— Devo lavare la testa al mio cane, — diceva uno.

— Sono stato invitato a passare qualche giorno al mare, — diceva un altro.

— Non ho cambiato l'acqua ai pesci rossi, e ho paura che muoiano.

Nessuno disse semplicemente che aveva paura, perché erano

troppo abituati a dire bugie.

Insomma, di tutto il personale di servizio, in breve in tutto il manicomio non rimase che il povero sguattero con il suo torso di cavolo in mano e la bocca aperta: la fame gli era veramente passata e per la prima volta nella sua vita si sentiva attraversato da pensieri piacevoli come una fresca corrente d'aria.

Romoletta fu la prima della sua camerata ad accorgersi che i guardiani erano tutti scappati.

— Che cosa aspettiamo a scappare anche noi? — disse a zia Pannocchia.

— È contrario ai regolamenti, — rispose zia Pannocchia, — ma d'altra parte i regolamenti sono contrari a noi. Dunque, andiamocene!

Si presero a braccetto e si avviarono verso le scale, che già una gran folla scendeva a precipizio. C'era una confusione orribile, ma zia Pannocchia distinse subito, in mezzo a mille altre, la voce dei suoi micetti. E loro, del resto, i sette piccoli allievi di Zoppino, avevano già riconosciuto fra mille la testa alta e il volto severo della loro protettrice e ben presto le saltarono al collo da tutte le parti, miagolando.

— Ecco, ecco, — mormorava zia Pannocchia, con le lacrime agli occhi, — torniamo a casa nostra. Uno, due, tre quattro… ci siete tutti? Sette, otto! Ce n'è uno di più!

Era il buon Fido, naturalmente: sulle braccia di zia Pannocchia c'era posto anche per lui.

Gelsomino aveva cessato di cantare: a tutti quelli che uscivano chiedeva notizie di Zoppino, ma nessuno era in grado di dargliene. Allora sì che perse la pazienza davvero.

— È rimasto nessuno là dentro? — gridò.

— Nessuno, non un'anima, — gli risposero.

— E allora, guardate.

Si riempì i polmoni d'aria, come i palombari quando si tuffano; si mise le mani ai lati della bocca, per essere ben sicuro che la voce andasse tutta in una sola direzione, e lanciò un acuto. Se vi sono abitanti con orecchie su Marte e su Venere, debbono averlo sentito anche loro.

Vi basti sapere che il palazzo barcollò, investito da un ciclone: tegole e comignoli volarono via come angioletti. Poi, cominciando dall'ultimo piano, i muri si piegarono, ondeggiarono, vennero giù con un gran frastuono e riempirono il fossato, schizzando acqua da tutte le parti.

La scena durò un minuto: lo sa bene lo sguattero che, rimasto là dentro anche dopo la fuga dei prigionieri, fece appena in tempo a tuffarsi dalla sua finestrella, ad attraversare il fossato con due bracciate e ad arrampicarsi sulla piazza prima che alle sue spalle crollasse tutto quanto.

Un evviva si levò da tutta la piazza, e proprio in quel momento spuntò il sole, neanche fosse corso qualcuno a chiamarlo dicendogli:

— Presto, se no perdi lo spettacolo!

Gelsomino fu portato in trionfo e i giornalisti non riuscirono ad avvicinarsi a lui per fargli dire le sue impressioni. Dovettero accontentarsi di intervistare Calimero La Cambiale, che, con gli occhi torvi, se ne stava in disparte.

— Ha niente da dichiarare al «PERFETTO BUGIARDO»? — gli domandarono i giornalisti.

— Miao, — rispose Calimero voltando loro le spalle.

— Ottimamente! — dissero i giornalisti, — Lei è uno dei testimoni oculari. Può dirci come mai non è successo niente?

— Miao! — fece ancora Calimero.

— Benissimo. Smentiremo nel modo più assoluto che il manicomio sia crollato e che i pazzi si siano sparsi per la città.

— Ma la volete capire, — sbottò Calimero, — la volete capire sì o no che io sono un gatto?

— Vorrà dire un cane, dal momento che miagola.

— Un gatto, un gatto! Sono un gatto e piglio i topi! Anzi, anzi, ora che vi guardo bene: voi potete nascondervi quanto vi pare, ma a me non la fate. Siete topi, e finirete sui miei artigli! Miao! Maramao!

E in così dire Calimero spiccò un salto. I giornalisti fecero appena in tempo a infilarsi la penna stilografica nel taschino e a saltare sulla loro automobile.

Il povero Calimero ricadde per terra e rimase lì a miagolare disperatamente per tutto il resto della giornata, finché un passante pietoso lo raccolse e lo portò all'ospedale.

Un'ora più tardi uscì un'edizione straordinaria del «PERFETTO BUGIARDO». Su tutta la prima pagina campeggiava un titolone a caratteri di scatola che diceva:

«UNA NUOVA MANCATA IMPRESA DEL TENORE GELSOMINO:

CANTANDO NON RIESCE A FAR CROLLARE IL MANICOMIO!»

Il direttore del giornale si fregava le mani dalla contentezza:

— Una smentita coi fiocchi! Oggi venderò centomila copie per lo meno!

Invece poco dopo gli strilloni del «PERFETTO BUGIARDO» tornavano con pacchi di giornali invenduti sul braccio. Nessuno aveva voluto comprarne una copia.

— Ma come? — gridava il direttore. — Non una copia sola? Che cosa legge, la gente, il calendario?

— No, signor direttore, — gli rispose uno strillone più coraggioso degli altri. — Non legge più neanche quello. Cosa vuole che se ne faccia di un calendario sul quale il mese di dicembre si chiama agosto?

Forse la gente sentirà caldo solo perché il nome del mese è cambiato? Stanno succedendo cose grosse, signor direttore. La gente ci ha riso in faccia e ci ha consigliato di adoperare il nostro giornale per farci delle barchette di carta.

In quella entrò nell'ufficio il cane del direttore, che aveva fatto una scorribanda in città per conto suo.

— Micio, qua micio! — lo chiamò meccanicamente il padrone.

— Bau, bau! — rispose il cane.

— Cosa? Tu abbai?

Per tutta risposta il cagnolino scodinzolò di gioia e abbaiò con più forza.

— Ma è la fine del mondo! — esclamava il direttore, tergendosi il sudore dalla fronte, — è veramente la fine del mondo!

Era soltanto la fine delle bugie. Il crollo del manicomio aveva messo in circolazione tutte insieme centinaia di persone che dicevano la verità, cani che abbaiavano, gatti che miagolavano, cavalli che nitrivano, come vogliono le regole della zoologia e della grammatica: la verità dilagava come un'epidemia, e ormai la maggioranza della popolazione ne era contagiata. I commercianti stavano già cambiando i cartelli sulla loro merce.

Un fornaio staccò la propria insegna, sulla quale era scritto «CARTOLERIA», la rivoltò e con un pozzetto di carbone ci scrisse: «PANE». Subito una gran folla si radunò davanti al negozio ad applaudire.

Ma la folla più numerosa si era raccolta sulla grande piazza davanti alla reggia. La guidava Gelsomino, cantando, e a quel canto gente accorreva da tutti i quartieri e perfino dai paesi vicini.

Giacomone, dalle finestre della sua stanza, vide il grande corteo e batte le mani per la gioia.

— Presto, presto, — gridò per far accorrere i cortigiani, — presto, il mio popolo vuole che io pronunci un discorso. Guardate come si radunano per farmi festa.

— Ma che festa è? — si domandavano l'un l'altro i cortigiani.

Vi sembrerà strano, ma non sapevano ancora che cosa era successo.

Gli spioni invece di precipitarsi alla reggia a riferire, si erano precipitati a cercarsi un nascondiglio qualunque.

Nella reggia di rè Giacomone i gatti abbaiavano ancora: erano gli ultimi gatti infelici di tutto il regno.

Gelsomino con una canzone mette in fuga anche Giacomone

Il libro del destino, come sapete, non c'è. Non esiste nessun libro sul quale siano scritte le cose che succederanno: per scrivere un simile libro, bisognerebbe essere almeno almeno il direttore del «PERFETTO BUGIARDO». Dunque esso non esiste, e non esisteva nemmeno ai tempi di Giacomone.

È quasi un peccato. Se ci fosse stato, e se il povero sovrano in parrucca avesse potuto consultarlo, egli avrebbe letto alla data di quel giorno: «Oggi Giacomone non pronuncerà un discorso!».

Infatti, mentre egli impaziente aspettava che i servi spalancassero le vetrate per comparire sul balcone, la voce di Gelsomino cominciò a produrre i suoi effetti: le vetrate si sfasciarono, con un rumore di cascata.

— Fate più attenzione, — gridò Giacomone ai suoi servi.

Gli rispose un altro «patatrac», dalla sua stanza.

— Questo è lo specchio! — gridò Giacomone. — Chi ha rotto il mio specchio?

Sua Maestà si guardò attorno, stupito che nessuno gli rispondesse: ahi per lui! alle sue spalle era rimasto solo il vuoto. Ministri, ammiragli, ciambellani e cortigiani, al primo segnale, ossia al primo acuto di Gelsomino, si erano precipitati nelle loro stanze a cambiarsi d'abito: gettavano a terra senza complimenti gli splendidi costumi che avevano portato per tanti anni, tiravano fuori di sotto il letto la vecchia valigetta con i loro vestiti da pirati e brontolavano:

— Se faccio a meno della benda nera sull'occhio, potrò parere uno spazzino del municipio.

Oppure:

— Se non mi metto l'uncino in fondo alla manica della giacca, nessuno mi riconoscerà.

In compagnia di Giacomone erano rimasti solo i due servitori che avevano la mansione di aprire e chiudere le vetrate del balcone, e anche adesso che i vetri erano crollati tenevano in mano rispettosamente le maniglie e ogni tanto, con i pizzi delle maniche, le lucidavano.

— Andate anche voi, — sospirò Giacomone, — ormai tutto crolla intorno a me.

Difatti in quei momento stavano scoppiando le mille lampadine del lampadario. Gelsomino, quel giorno, faceva sul serio.

I servitori non si fecero pregare: camminando all'indietro e inchinandosi ogni tre passi raggiunsero la porta delle scale, fecero dietrofront, e per arrivare in basso più presto scivolarono sulla ringhiera.

Giacomone rientrò nella sua stanza, si tolse il costume da rè e si infilò un vestito da cittadino qualunque che aveva comperato per girare in incognito tra la folla (ma poi non se l'era messo, e tra la folla aveva preferito mandarci gli spioni). Era un vestito marrone, adatto per un cassiere di banca o per un professore di filosofia. Come stava bene con la parrucca arancione! Purtroppo bisognava levarsi anche quella, che era conosciuta più della corona reale.

— La mia bella parrucca! — sospirò Giacomone. — Anzi le mie belle parrucche!

Aprì il famoso armadio e le vide tutte in fila, pronte come teste di marionette prima dello spettacolo. A quella tentazione Giacomone non seppe proprio resistere: ne afferrò una dozzina e le cacciò nella valigia.

— Le porterò con rne in esilio, mi aiuteranno a ricordare questi tempi felici.

Scese le scale, ma mentre i suoi cortigiani le avevano scese fino in cantina, e qui si erano infilati nelle fogne come topi, Giacomone preferì uscire nel suo bel parco. Anzi, suo un bel niente: ma bello, verde, profumato.

Giacomone respirò ancora una volta quell'aria reale, poi aprì una porticina che dava su un vicolo, si accertò che nessuno lo vedesse, fece un centinaio di passi e si trovò in piazza, in mezzo alla folla che applaudiva Gelsomino.

Così pelato e vestito di marrone nessuno poteva riconoscerlo: con la valigia, poi, sembrava un viaggiatore di commercio.

— Forestiero, eh? — gli domandò subito un tale, battendogli allegramente una mano sulla spalla. — Venga, venga anche lei a godersi il concerto del tenore Gelsomino! È quello là, vede? Quel giovanottino che ha l'aria di un corridore ciclista, insomma, che non gli si darebbero due soldi. Sente che voce?

— Sento, sento, — borbottò Giacomone. E fra sé aggiunse: «E vedo…»

Vide il suo amato balcone precipitare in pezzi, vide quello che voi immaginate già: la reggia che crollava su se stessa come un castello di carte stanco di stare in piedi, sollevando un nuvolone di polvere.

Gelsomino fece un altro acuto per far volare via la polvere, e si videro soltanto le macerie.

— A proposito, — disse ancora a Giacomone il suo vicino, — sa che lei ha una magnifica pelata? Non si offenderà mica se glielo dico, vero? Guardi la mia.

Giacomone si passò una mano in testa e guardò, com'era stato invitato a fare, la testa del suo vicino, calva e rotonda e liscia più di una pallina da ping pong.

— È proprio una bella pelata, — disse Giacomone.

— Macché, è delle più comuni. La sua sì che è splendida! Adesso che ci batte il sole, poi, solleva dei riflessi meravigliosi, ci si fanno male gli occhi a guardarla!

— Via, via, lei è troppo buono, — mormorò Giacomone.

— Ma no, non esagero. Sa cosa le dico? Che se lei facesse parte del nostro Club dei calvi, sarebbe subito eletto presidente.

— Presidente?

— A pieni voti.

— Avete un Club dei calvi?

— Certo. Fino, a ieri era un club segreto, ma adesso diventerà pubblico: ne fanno parte i migliori cittadini. E non è mica facile essere ammessi, sa? Bisogna provare di non avere più nemmeno un pelo in testa. C'è chi se li strappa, per entrare nel nostro club.

— E lei dice che io?…

— Lei potrebbe diventare il nostro presidente. Sarei pronto a scommetterci!

Giacomone sentì che stava per commuoversi.

«Dunque, — pensava, — dunque ho proprio sbagliato tutto! Ho sbagliato carriera. E adesso è troppo tardi per ricominciare…»

Approfittando di un movimento della folla, si allontanò dal suo interlocutore, uscì dalla piazza e se ne andò per le strade deserte, mentre nella valigia le sue dodici parrucche frusciavano tristemente.

Qua e là vide spuntare dai tombini certe teste che gli parve di riconoscere. Non erano i suoi pirati, quelli? Ma le teste sparivano subito alla vista di un cittadino come lui, calvo e vestito di marrone, dignitoso e calmo.

Giacomone si diresse verso il fiume, deciso a por fine ai suoi giorni. Ma quando fu sulla sponda cambiò decisione. Aperse la valigia, ne tolse le parrucche e, una alla volta, le gettò nell'acqua.

— Addio, — mormorava Giacomone, — addio, piccole bugiarde.

Le parrucche non andarono mica perdute: le pescarono, quel giorno

stesso, i ragazzini che infestavano le rive del fiume peggio dei coccodrilli. Le fecero asciugare al sole, se le misero in testa, e fecero un bellissimo corteo. Erano allegri e cantavano, eppure quello era il funerale del regno di Giacomone.

Mentre Giacomone se ne va per sempre, ed è ben fortunato di potersene andare, forse in qualche posto dove diventerà presidente, o almeno segretario, di un dignitosissimo Club dei calvi, noi torniamo a dare un'occhiata in piazza.

Gelsomino, finita la sua terribile canzone, si asciugò il sudore mormorando:

— E anche questa è fatta.

Al cuore, però, provava sempre la puntura di una spina: Zoppino non si era fatto vivo.

— Ma dove sarà finito? — si domandava il nostro eroe. — Non vorrei che fosse rimasto sotto le macerie del manicomio. Sono tanto bravo a fare disastri, io.

La folla, però, non gli diede il tempo di crucciarsi troppo.

— La colonna! — gridavano da tutte le parti. — Bisogna abbattere la colonna!

— Ma perché?

— Perché vi sono narrate le imprese di rè Giacomone: tutte bugie, anche quelle, perché Giacomone non si è mai mosso dal suo palazzo.

— Va bene, — disse Gelsomino, — farò una serenata come si deve anche alla colonna. Sgombrate tutt'attorno, che non vi caschi addosso.

La gente che si trovava presso la colonna si ritirò precipitosamente, la folla in tutta la piazza ondeggiò come l'acqua in una bagnarola. E finalmente Gelsomino potè vedere là, sulla colonna, a un paio di metri da terra un ben noto scarabocchio con tre zampe…

— Zoppino! — chiamò, mentre la spina gli cadeva dal cuore.

Il disegno tremò, le sue linee si curvarono per un attimo, poi tornarono immobili.

— Zoppino! — chiamò più forte Gelsomino.

Questa volta la voce penetrò nel marmo, vincendone la resistenza: Zoppino si staccò dalla colonna e saltò a terra, zoppicando.

— Meno male, meno male, — miagolava, baciando Gelsomino su una guancia, — se non c'eri tu sarei rimasto appiccicato a quella colonna e gli acquazzoni avrebbero finito col lavarmi via. Io amo la pulizia, tutti lo sanno: ma morire lavato, non mi sarebbe piaciuto affatto.

— Ci sono sempre io, — si udì esclamare Bananito, che a forza di gomitate e spintoni era riuscito a farsi strada per raggiungere i suoi e nostri amici. — Se mai ti succederà qualcosa di simile, io ti ridisegnerò tale e quale, più bello e più vero di prima!

Tre amici che si ritrovano hanno tante cose da dirsi: lasciamoli soli e tranquilli.

E la colonna?

Ma che noia volete che dia una colonna: le sue bugie serviranno a ricordare alla gente che un giorno su quel paese regnò un gran bugiardo, e che una canzone ben cantata bastò a far crollare il suo regno.

Per non fare torto a nessuno Gelsomino fa «uno a uno»

La storia sarà del tutto finita quando avrete appreso le poche notizie che qui vi darò, e che nella fretta di chiudere il ventesimo capitolo mi ero scordate in tasca. Sono gli ultimi foglietti degli appunti da me presi il giorno in cui Gelsomino mi narrò le sue avventure nel paese dei bugiardi.

Leggo in questi foglietti che di Giacomone non si seppe più nulla: così non posso nemmeno dirvi se è diventato una persona per bene

O se le sue gambe di pirata lo hanno portato di nuovo sulla cattiva strada.

Leggo pure che Gelsomino, per quanto in generale abbastanza contento di quel che aveva fatto, non poteva passare per la piazza della città senza sentirsi un po' a disagio, come uno che ha un sassolino in una scarpa.

— C'era proprio bisogno, — egli si rimproverava, — di distruggere completamente la reggia, di farne un mucchio di rovine? Giacomone sarebbe scappato lo stesso anche se mi fossi accontentato di rompere i vetri: poi si chiamava un vetraio e tutto si aggiustava.

A togliergli questo sassolino dalla scarpa ci pensò Bananito, che ricostruì il castello alla sua maniera, con pochi pezzi di carta e una scatola di colori. Ci mise mezza giornata, e non trascurò il balcone all'ultimo piano. Anzi, quando il balcone spuntò al posto giusto, la gente voleva che Bananito ci montasse a pronunciare un discorso.

— Date retta a me, — rispose Bananito, — fate una legge per proibire a chiunque di pronunciare discorsi da quel balcone. Io, poi, faccio il pittore e basta. Se proprio volete un discorso, rivolgetevi a Gelsomino.

In quel momento apparve su! balcone Zoppino, e miagolò:

— Maramao!

La gente applaudì e non chiese altri discorsi.

Su un altro foglietto leggo che zia Pannocchia era diventata!a direttrice di un Istituto per gatti abbandonati. Giustissimo: con lei si poteva stare sicuri che nessuno avrebbe costretto i gatti ad abbaiare. Romoletta era tornata a scuola, e forse a quest'ora non siede più nei banchi, ma alla cattedra: ha avuto tutto il tempo di diventare maestra.

Infine, su un fogliolìno più piccolo degli altri, leggo soltanto: «La guerra finisce uno a uno».

Figuratevi un po': stavo dimenticando una guerra!

La cosa successe pochi giorni dopo la fuga di Giacomone. DI nascosto dai suoi sudditi, contando sui cannoni che Bananito gli avrebbe fabbricato con la sua matita, Giacomone aveva dichiarato guerra a uno stato confinante, e quelli non scherzavano mica: i loro eserciti si erano messi in marcia per difendere la patria.

— Ma noi non la vogliamo fare più, questa guerra! — dicevano I nuovi ministri. — Noi non siamo come Giacomone!

Un giornalista andò a intervistare Gelsomino, che studiava musica per prepararsi a dare finalmente un vero concerto.

— La guerra? — disse Gelsomino. — Proponete al nemico di sospenderla e di fare al suo posto una partita di calcio. Ci sarà qualche stinco ammaccato, ma scorrerà in ogni caso pochissimo sangue.

Per fortuna l'idea piacque anche ai nemici, che di fare la guerra, in fondo, non avevano nessuna voglia.

La partita di calcio ebbe luogo la domenica successiva. Gelsomino, naturalmente, faceva il tifo contro i nemici. E si lasciò tanto trascinare dall'entusiasmo che ad un certo punto, gridando «Forza!», spedì un pallone nella rete avversaria, come aveva già fatto, se ben ricordate, una volta al suo paese.

«Non sia mai, — si disse subito Gelsomino, — che questa guerra finisca con una vittoria rubata. Qui siamo su un campo di calcio: le bugie non sono ammesse dal regolamento».

E fece subito un gol anche dall'altra parte! Al suo posto, anche voi avreste fatto lo stesso.

LE CANZONI DI GELSOMINO

Ho trascritto alcune delle canzoni di Gelsomino: ce n'è di buffe, di bislacche e di serie. Voi potete scegliere quelle piacevoli e di3menticare le altre.

LE BUGIE

A re Giacomone

A me piacciono le bugie…

Non le tue, non le mie:

quelle che il muto può dire al sordo

e il sordo narrare a un topo morto,

se il topo morto quando le ascolta

fa un inchino e una giravolta.

QUANTI PESCI CI SONO NEL MARE?

A Zoppino, ghiotto di pesce

Tre pescatori di Livorno

disputarono un anno e un giorno

per stabilire e sentenziare

quanti pesci ci sono nel mare.

Disse il primo: «Ce n'è più di sette,

senza contare le acciughette!».

Disse il secondo: «Ce n'è più di mille,

senza contare scampi ed anguille!».

Il terzo disse: «Più di un milione!»

E tutti e tre avevano ragione.

CENA E PRANZO

A Bananito, quando fu ministro dei generi alimentari

Pulcinella ed Arlecchino

cenavano insieme in un piattino:

e se nel piatto c'era qualcosa,

chissà che cena appetitosa.

Arlecchino e Pulcinella

pranzavano insieme in una scodella:

e se la scodella vuota non era,

chissà che pranzo, quella sera.

IL NOME

A zia Pannocchia

Vorrei chiamarmi Dante

e scrivere un bel poema,

vorrei chiamarmi Euclide

e inventare un teorema,

vorrei chiamarmi Giotto

e far belle pitture,

vorrei essere il più bravo

in tutte le bravure.

Vorrei chiamarmi… (Mettete il vostro nome al posto dei puntini!)

come mi chiamo e sono,

per diventare ogni giorno

almeno un po' più buono.

AN — GHIN — GO'

A Romoletta, per fare la conta

An — ghin — go'

tre galline e tre cappo'

dove andavano non so:

forse andavano al mercato

a comprare il pan pepato;

forse andavano nell'orto

a beccare un porro storto;

forse andavano in città

a studiare che cento bugie

non fanno una verità.

STORIA DI UN SOMARO

A un somaro del paese dei bugiardi che ruggiva per parere un leone

Una volta c'era un somaro

che non sapeva di essere un somaro.

«Forse, — pensava una sera, —

sono un elefante:

difatti, non ho la criniera.

Non sono una pecora

perché non belo,

non sono un passero

perché non volo in cielo,

non sono un avvocato

perché non vado in tribunale.

Ma che sarò: un ministro? un generale?

Tu, specchio, che ne dici?

Un ciuco? Ah, questo no:

ti insegnerò ad offendere gli amici!»

E tosto castigò

l'insolente specchietto

mandandolo con un calcio

in cento pezzi più un pozzetto.

IL GIORNALE DEI GATTI

A Zoppino, per consolario della lettura del «Perfetto bugiardo»

I gatti hanno un giornale

con tutte le novità

e sull'ultima pagina

la «Piccola pubblicità».

«Cercasi casa comoda

con poltrone fuori moda:

non si accettano bambini

perché tirano la coda».

«Cerco vecchia signora

a scopo compagnia.

Precisare referenze

e conto in macelleria».

«Premiato cacciatore

cerca impiego in granaio».

«Vegetariano, scapolo,

cerca ricco lattaio».

I gatti senza casa

la domenica dopopranzo

leggono questi avvisi

più belli d'un romanzo:

per un'oretta o due

sognano ad occhi aperti,

poi vanno a prepararsi

ai notturni concerti.

L'ARCOBALENO

Per un quadro di Bananito

Va per la strada una bambina

con un ombrello di sette colori,

sotto la pioggia grigia cammina

con quel piccolo arcobaleno:

e nel suo cuore c'è sempre il sereno.

SCHERZO

A Bananito

Ho pensato un quadro giallo

che rappresenta un gallo,

un timballo

e un caciocavallo.

Ho pensato un quadro blu

che rappresenta un bambù,

uno zulù

e la coda di belzebù.

Ho pensato un quadro verde,

di un bel verde veronese:

rappresenta le mie tasche

verso la fine del mese.

CAPELLI BIANCHI

Dedicata a Benvenuto-Mai seduto

Quanti capelli bianchi

ha il vecchio muratore?

Uno per ogni casa

bagnata dal suo sudore.

Ed il vecchio maestro,

quanti capelli ha bianchi?

Uno per ogni scolaro

cresciuto nei suoi banchi.

Quanti capelli bianchi

stanno in testa al nonnino?

Uno per ogni fiaba

che incanta il nipotino.

IL PANE

Dedicata a Benvenuto-Mai seduto

S'io facessi il fornaio

vorrei cuocere un pane

così grande da sfamare

tutta, tutta la gente

che non ha da mangiare.

Un pane più grande del sole,

dorato, profumato

come le viole.

Un pane così

verrebbero a mangiarlo

dall'India e dal Chilì

poveri, i bambini,

i vecchietti e gli uccellini.

Sarà una data

da studiare a memoria:

un giorno senza fame!

Il più bel giorno di tutta la storia.

PROVERBI DI GELSOMINO

Chi non ama le querce

al bosco non deve andare.

A pascolar le bisce

un pazzo non mandare.

Non ha due cervelli

chi non ha due teste.

Non accendere i lampi

se non vuoi le tempeste.

Chi ride tutti i mesi

sta allegro tutto l'anno.

Non rifiutare la luna

se te la danno.

LE TASCHE DI GELSOMINO

Prima tasca il fazzoletto,

seconda tasca il portafortuna,

terza tasca il portamonete,

ma di monete non ce n'è una.

STORIA DEL PESCE-MARTELLO

Il pesce-martello è disperato:

un pesce incudine non ha trovato;

non ha trovato in alcun modo

ne un pesce-muro ne un pesce-chiodo;

non una volta gli succede

di schiacciare un pesce-piede

e nemmeno si è mai sentito

che abbia ammaccato un pesce-dito.

Perciò si lamenta: «Che ci sto a fare

se non ho niente da martellare?

Avevo una scarpa, proprio una sola

mi divertivo a batter la suola.

Uri pescatore me la pescò.

Che dovrei dirgli? Buon pranzo, buon prò».

CANZONCINA INGLESE

— Dove sei stata, micia micina?

— A Londra a vedere la regina.

— Cos'hai trovato a Londra di buono?

— Un topo che stava sotto il trono!

UN'ALTRA CANZONCINA INGLESE

Tre dottori di Salamanca

si misero in mare su una panca,

e se non andavano subito a fondo

facevano certo il giro del mondo.

Tre dottori di Saragozza

si misero in mare in una tinozza,

e se la tinozza a galla restava

qui la storiella non terminava.

TERZA CANZONCINA INGLESE

Una volta c'era un vecchietto

che andava nel Canadà.

E questa è la metà.

Portava un cartoccetto

di pane col prosciutto.

E questo è tutto.

IL GIOCO DEI «SE»

Se comandasse Arlecchino

il cielo sai come lo vuole?

A toppe di cento colori

cucite con un raggio di sole.

Se Gianduia diventasse

ministro dello Stato,

farebbe le case di zucchero

con le porte di cioccolato.

Se comandasse Pulcinella

la legge sarebbe questa:

a chi ha brutti pensieri

sia data una nuova testa.

CANZONETTA DI NATALE

Se comandasse lo zampognaro

che scende per il viale,

sai che cosa direbbe

il giorno di Natale?

«Voglio che in ogni casa

spunti dal pavimento

un albero fiorito

di stelle d'oro e d'argento!»

Se comandasse il passero

che sulla neve zampetta,

sai che cosa direbbe

con la voce che cinguetta?

«Voglio che i bimbi trovino,

quando il lume sarà acceso,

tutti i doni sognati

più uno, per buon peso!»

Se comandasse il pastore

del presepe di cartone

sai che legge farebbe

firmandola col lungo bastone?

«Voglio che oggi non pianga

nel mondo un solo bambino,

che abbiano lo stesso sorriso

il bianco, il moro, il giallino!»

Sapete che cosa vi dico

io che non comando niente?

Tutte queste belle cose

accadranno facilmente:

se ci diamo la mano

i miracoli si faranno

e il giorno di Natale

durerà tutto l'anno!

I VIAGGI DI GIOVANNINO PERDIGIORNO

GLI UOMINI DI ZUCCHERO

Giovannino Perdigiorno,

viaggiando in elicottero,

arrivò nel paese

degli uomini di zucchero.

Dolcissimo paese!

E che uomini carini!

Sono bianchi, sono dolci,

si misurano a cucchiaini.

Portano nomi soavi:

Zolletta, Dolcecuore,

e il loro rè si chiama

Glucosio il Dolcificatore.

Anche la geografia

laggiù è una dolce cosa:

c'è il monte San Dolcino,

la città di Vanigliosa.

Ci si mangia pan di miele,

si beve acqua caramellata,

si mette la saccarina

perfino nell'insalata.

— Ma almeno ce l'avete

un po' di sale in zucca?

No? Allora me la batto:

questo paese mi stucca.

IL PIANETA DI CIOCCOLATO

Giovannino Perdigiorno,

viaggiando in accelerato,

capitò senza sospetto

sul pianeta di cioccolato.

Di cioccolato le strade,

le case, le vetture,

le piante, foglia per foglia,

e i fiori, invece, pure.

Di cioccolato i monti:

gli alpinisti li scalavano,

ma non fin sulla cima,

perché se la mangiavano.

Di cioccolato i banchi

della scuola e s'intende

che i ragazzi ci studiavano

magnifiche merende.

Insomma, per farla corta,

in quel paese raro

era dolce perfino

il cioccolato amaro.

Giovannino, dopo un mese

di fondente sopraffino,

pensò: «Se resto ancora

divento un cioccolatino…

Magari divento un uovo

con dentro la sorpresa…

Signori, me ne vado,

vi saluto, senza offesa».

GLI UOMINI DI SAPONE

Giovannino Perdigiorno,

viaggiando in carrozzone,

capitò nel paese

degli uomini di sapone.

Gli uomini di sapone

e le loro signore

sono sempre puliti

e mandano buon odore.

Sono bolle di sapone

le loro parole,

escono dalla bocca

e danzano al sole.

Fa le bolle il papà

quando sgrida il bambino,

fa le bolle il professore

mentre spiega il latino.

Nelle case, per le strade,

dappertutto, in ogni momento,

milioni di bolle

volano via col vento.

Il vento le fa scoppiare

silenziosamente…

e di tante belle parole

non rimane più niente.

GLI UOMINI DI GHIACCIO

Giovannino Perdigiorno,

viaggiando a casaccio,

capitò nel paese

degli uomini di ghiaccio.

Vivevano in frigorifero

con l'acqua minerale,

con il latte, la carne

e il brodo vegetale.

Se qualcuno per sbaglio

apriva lo sportello

gridavano: — Chiudete!

Ci si disfa il cervello!

Mangiavano soltanto

gelati e cremini,

coi cubetti di ghiaccio

si facevano i cuscini.

— Al sole ci state mai? —

Giovannino domandò.

— Al sole? Tu sei matto…

Ci scioglierebbe. Ohibò!

— E il cuore ce l'avete

in quel petto ghiacciato?

— Il cuore? Scaldava troppo,

lo abbiamo eliminato.

«Che popolo sottozero, —

si disse Giovannino,

— mi si gelano le orecchie

solo a stargli vicino».

GLI UOMINI DI GOMMA

Giovannino Perdigiorno,

viaggiando in cavallo a dondolo,

capitò nel paese

più elastico del mondo.

Era un paese instabile,

acrobatico, insomma

era giusto il paese

degli uomini di gomma.

Per le strade vedevi

simpatiche persone

che saltavano e rotolavano

anche meglio di un pallone.

Se cadevano si rialzavano

senza una sbucciatura:

di picchiare il capo nel muro

non avevano paura.

Avevano di gomma

le mani, i piedi, il naso,

ma il nostro Giovannino

era poco persuaso…

— In testa, che ci avete?

— Aria, naturalmente.

— E come fate a pensare?

— Non pensiamo per niente.

— Ecco, volevo ben dire…

Il paese pareva bello,

ma la testa qui serve solo

per tenerci il cappello.

IL PIANETA NUVOLOSO

Giovannino Perdigiorno,

con tempo piovoso,

sbarcò da un'astronave

sul Pianeta Nuvoloso.

Su quel mondo tutto grigio

non ci sono che nuvole:

sono nuvole i monti,

sono nuvole gli alberi.

Ci sono città di nuvole

e uomini-nuvoloni,

che fanno la faccia scura

e mandano lampi e tuoni.

Corrono per le strade

nuvolette nere che mai:

sono nuvole-automobili

e nuvole-tramvai.

Ci sono nuvole-gatti

sui tetti di nuvolaglia

e cacciano topi-nuvole

schizzando tra la fanghiglia.

Giovannino non resiste

a tanta nuvolosità

e fugge in cerca di sole

tre Galassie più in là.

IL PIANETA MALINCONICO

Giovannino Perdigiorno,

viaggiando in supersonico,

capitò nella capitale

del Pianeta Malinconico.

Era un giorno di sole,

l'aria calda e turchina,

ma la gente per la strada

camminava a testa china

e diceva: — Che peccato,

questo tempo non durerà,

chi sa che nubifragio

domani scoppierà!

Al ristorante il cibo

era buono, a buon mercato,

ma i clienti borbottavano:

— Che peccato, che peccato,

dopo il bello viene il brutto,

dunque purtroppo è chiaro

che domani si mangerà male

e si pagherà caro…

Chi prendeva dieci a scuola

diventava d'umor nero

e piangeva: — Sarà triste,

domani, prendere zero!

Cielo, che pessimisti, —

Giovannino rifletté,

— questo mondo senza speranza

proprio non fa per me.

IL PIANETA FANCIULLO

Giovannino Perdigiorno,

viaggiando per trastullo

capitò con sorpresa

sul Pianeta Fanciullo.

Ma chiamarlo pianeta

è quasi un'esagerazione:

si tratta di un minimondo,

in una minicostellazione.

Tutto è mini, lassù:

minimonti, mari mini…

nelle città in miniatura

ci stanno mini-cittadini…

Ma guardali un po' meglio

e il mistero scoprirai:

sono tutti bambini

che non crescono mai.

Di diventare grandi

non ne vogliono sapere:

così sono felici,

così vogliono rimanere…

I grandi non hanno giocattoli,

ai giardini non ci vanno,

hanno solo brutti pensieri

tutti i giorni dell'anno…

Noi stiamo bene così,

senza preoccupazioni… —

E Giovannino disse:

Arrivederci, fifoni!

GLI UOMINI PIÙ

Giovannino Perdigiorno,

viaggiando in su e in giù,

capitò nel paese

degli uomini Più.

Ciascuno degli abitanti

di quella strana città

è campione del mondo

in qualche specialità.

Il sindaco, per esempio,

è il più magro del mondo:

poi c'è l'uomo più forte,

il più debole, il più rotondo.

C'è il più ricco, naturalmente,

ed ha come vicino

il più povero, con suo figlio,

che è il più poverino.

C'è l'uomo più duro,

fatto tutto di sasso,

e poi c'è il più veloce,

il più alto, il più basso.

Ma il più buono non c'era.

E chi mai lo troverà?

È tanto buono che

di esserlo non sa.

GLI UOMINI DI CARTA

Giovannino Perdigiorno,

viaggiando sempre in quarta,

capitò nel paese

degli uomini di carta.

C'erano gli uomini a righe

e gli uomini a quadretti,

perché li avevano fatti

con la carta dei quadernetti.

Il più forte del paese

era un uomo di cartone

e portava una medaglia

con su scritto: Campione.

Poi c'era una ragazza

di carta velina,

leggera come una piuma:

faceva la ballerina.

Le case erano piccole,

di carta colorata

e avevano per tetto

una cartolina illustrata.

Sospirò Giovannino:

— La carta costa poco…

Dare una casa a tutti,

da queste parti, è un gioco…

GLI UOMINI DI TABACCO

Giovannino Perdigiorno,

viaggiando col suo sacco,

capitò nel paese

degli uomini di tabacco.

Questi uomini in generale

sono fatti cosi:

per naso hanno una pipa

e fumano di lì.

Al posto dei capelli

hanno tante sigarette

che mandano tutto il giorno

azzurre nuvolette.

Mangiano fumo a pranzo,

mangiano fumo a cena:

l'aria di quel paese

di fumo è sempre piena.

Fumano le montagne

senza essere vulcani:

nei giardini niente fiori,

solo sigari toscani.

Giovannino tossiva:

— Diavolo d'un posto!

Qui c'è soltanto fumo

e nemmeno un po' d'arrosto.

GLI UOMINI A VENTO

Giovannino Perdigiorno,

viaggiando in bastimento,

capitò nel paese

degli uomini a vento.

La gente, a prima vista,

pareva tanto normale:

chi col cappello, chi senza,

e niente di speciale.

Ad un tratto però

il vento si levò:

quel che vide Giovannino

adesso vi dirò.

Vide la gente voltarsi

come per un comando

e correre con il vento,

correre, fino a quando

il vento cambiò verso,

soffiò in un'altra direzione

e con lui si voltarono

migliala di persone.

Soltanto Giovannino

controvento camminava:

ma si accorse che un passante

con sospetto lo guardava.

«Presto, — pensò tra sé, —

fuggi col vento in poppa:

di gente fatta così

ne ho già veduta anche troppa…»

IL PAESE DEL «NI»

Giovannino Perdigiorno,

viaggiando da qui a lì,

capitò per combinazione

nel paese del «ni».

In quel paese la gente

era timida un bel po'

e non diceva mai chiaro

né di sì né di no.

Volete il pesce? — Ni.

Volete la carne? — Ni.

A tutte le domande

rispondevano così.

Ma che razza di indecisi,

Giovannino si stupì.

Volete la pace? — Ni.

Volete la guerra? — Ni.

Ditemi per lo meno

se vi piace vivere qui… —

E quelli abbassano gli occhi

e sospirano: — Ni.

Giovannino Perdigiorno

ben presto si stancò:

A questo insulso paese

io dico tre volte no.

IL PAESE SENZA SONNO

Giovannino Perdigiorno,

tra Salamanca e Saranno,

capitò dormicchiando

nel paese senza sonno.

In quello strano paese

che sia il letto non sanno:

non gli serve, perché

a dormire non ci vanno.

Di giorno come di notte

sempre in piedi, sempre in moto,

in tutta la loro vita

non c'è un minuto vuoto.

Lavorano, si divertono,

parlano, vanno a spasso,

piuttosto che far niente

suonano il contrabbasso.

Le mamme ai loro bambini

non cantano la ninna-nanna,

ma cantano: — Sveglia! Sveglia,

tesoro della mamma!

D'accordo, bravi, benissimo,

— commentò Giovannino, —

ora però scusatemi,

debbo fare un pisolino…

GIOVANNINO PERDIGIORNO

Giovannino Perdigiorno

ha perso il tram di mezzogiorno,

ha perso la voce, l'appetito,

ha perso la voglia di alzare un dito,

ha perso il turno, ha perso la quota,

ha perso la testa (ma era vuota),

ha perso le staffe, ha perso l'ombrello,

ha perso la chiave del cancello,

ha perso la foglia, ha perso la via:

tutto è perduto fuorché l'allegria.

IL PAESE SENZA ERRORE

Giovannino Perdigiorno,

viaggiando in micromotore,

una volta capitò

nel paese senza errore.

Là tutto era perfetto,

tutto bello, tutto rosa:

ogni cosa al suo posto,

un posto per ogni cosa…

Gli scolari, tutti bravi,

i maestri, tutti pazienti,

perfino i cani da guardia

eran sempre sorridenti.

Non c'era una casa brutta,

non un giornale bugiardo:

mai una sedia scomoda

o un orologio in ritardo.

Giovannino era felice

in quei mondo senza difetto.

Ma a un tratto, con sorpresa,

si ritrovò nel suo letto.

Aveva dunque sognato?

Forse… però… chi sa…

I sogni, quando si vuole,

diventano realtà.