Ogni 76 anni ritorna uno dei più affascinanti e misteriosi visitatori che l’umanità ricordi: la Cometa di Halley. Il suo passaggio più recente è ancora fresco nella memoria, ma questo straordinario romanzo ci parla del prossimo appuntamento, e della spedizione di un gruppo di scienziati su Halley, non solo per scoprirne i misteri, ma per trasformarla in un luogo adatto alla vita. Tra meraviglie tecnologiche e sforzi sovrumani di adattamento, i segreti sepolti nel cuore della cometa (tutt’altro che priva di forme di vita) trasformano un immane progetto di colonizzazione in una spietata lotta per la sopravvivenza. Tuttavia, le minacce non vengono solo da un ambiente irriducibile, ma anche dagli stessi membri della spedizione, un complesso microcosmo che riproduce tensioni, conflitti e pregiudizi che hanno portato la Terra sull’orlo della catastrofe; ma soprattutto c’è il drammatico confronto tra due “forme” umane, quella naturale degli Orthos, e quella manipolata geneticamente dei Perceli. Uno sfondo da cui emergono tre grandi protagonisti, dai quali dipende il futuro della missione: Carl Osborn, Saul Lintz e, soprattutto, Virginia Kaninamanu Herbert, impegnata ad esplorare le frontiere fra l’intelligenza umana e quella artificiale. E il lungo viaggio della cometa nelle profondità dello spazio procede fra eventi memorabili e tremende avversità, in un alternarsi di trionfi e delusioni. Esperienze però che ogni volta lasciano appena intuire le incredibili prospettive che ancora attendono la colonia di Halley. Un grandioso affresco, che ha pochi eguali per ricchezza d’idee ed efficacia narrativa, dove si ritrovano tutti i più grandi temi della fantascienza.

Gregory Benford e David Brin

Nel cuore della cometa

PARTE PRIMA

VESSILLI DEGLI ANGELI

ottobre 2061

Colui che non lascia niente al caso farà male poche cose, ma farà pochissime cose.

Halifax

POSIZIONE DEI PIANETI INTERNI E DELLA COMETA DI HALLEY

OTTOBRE 2061

CARL

Kato morì per primo.

Si stava occupando dei mech da costruzione — robot che installavano le travi sul ghiaccio polveroso e grigio-nero della cometa.

Dal punto in cui si trovava Carl, su un'altura a un chilometro di distanza, la tuta di Kato appariva come una macchia arancione fra grandi e goffi e grigi fuchi operai. Non c'era nessun suono, malgrado le nubi di polvere e di gas soffiate verso l'esterno là, vicino all'uomo e alle sue macchine. Soltanto un po' di elettricità statica interferiva con un concerto di Vivaldi che aiutava Carl a concentrarsi nel suo lavoro.

Fu soltanto un caso che Carl sollevasse lo sguardo proprio un attimo prima che accadesse. Non lontano da Kato, ancorate vicino al polo Nord del nucleo solido della cometa, otto cuspidi fusiformi svettavano verso l'alto formando una torre piramidale. Al vertice si annidava l'antenna trivellatrice a microonde, una sorta di tazza rovesciata. Kato lavorava a un centinaio di metri di distanza, dimentico della furibonda energia che veniva scagliata dentro il ghiaccio proprio lì, accanto a lui.

Spesso, Carl aveva pensato che la trivella assomigliava a un grottesco ragno accovacciato. Dal foro sotto di esso uscivano fiotti regolari di vapore surriscaldato.

Come se stesse pazientemente scavando una galleria per inseguire la sua preda, il ragno sputava invisibili microonde giù nel pozzo, a raffiche di cinque secondi l'una. In risposta, qualche istante dopo ogni raffica, un getto giallo-azzurro di gas surriscaldato schizzava fuori dal foro sottostante, balzando su dalla galleria appena scavata. L'ondeggiante getto colpiva le lastre deflettrici e si divideva in sei pennacchi, che si disperdevano a ventaglio verso l'esterno senza danneggiare la cupola dell'antenna a microonde.

La trivella era intenta a quell'operazione da parecchi giorni, martellando pazientemente il nucleo della cometa per aprirvi delle gallerie, usando scariche di onde elettromagnetiche centimetriche, sintonizzate sulla frequenza che disgregava le molecole di anidride carbonica.

Carl avvertiva un debole tremore sotto i piedi tutte le volte che partiva una scarica. L'orizzonte di antico ghiaccio grigio s'incurvava in tutte le direzioni. Affioramenti di neve pura clatrata sorgevano in mezzo alla tenebra, polvere spugnosa, d'un bianco sbiadito contro i bruni chiazzati di rosso-ruggine.

Kato e i suoi mech lavoravano vicini alla trivella a microonde, spostandosi su pastoie subito sopra il ghiaccio grigio sporco. La debole gravità del nucleo cometario non era sufficiente a tenerli giù mentre si muovevano. Sopra di loro sottili getti di gas ionizzato ondeggiavano, animati da una debole fluorescenza, contro il nero totale della notte, dando l'impressione di accarezzare lo spaziale giapponese.

Kato supervisionava i suoi robot meccanici di acciaio e ceramica mentre svolgevano il lavoro pericoloso. Voltava la schiena al ragno.

Carl stava per tornare a occuparsi del proprio lavoro. La trivella scoppiettava metodicamente, trasformando il ghiaccio in vapore. Poi, una delle enormi zampe del ragno si liberò, schizzando fuori come un tappo, accompagnata da un silenzioso sbuffo di neve.

Carl sbatté gli occhi. Il generatore di microonde continuò a lanciare le sue scariche, quando la gamba si staccò dal suo ancoraggio, sollevandosi verso l'alto e facendo inclinare il complesso. Non ebbe il tempo di provare orrore.

Il raggio investì Kato solo per un secondo. Fu sufficiente.

Carl vide Kato girarsi con un sussulto, come per scappare. Più tardi si rese conto che quel movimento doveva essere stato un'ultima contrazione d'agonia.

Il raggio colpì il ghiaccio sotto l'uomo, riversando nella tenebra circostante fiotti di gas giallo e arancio. Vivaldi scomparve sotto un ruggito di statica.

Quello sferzante raggio invisibile stava tracciando un sentiero ardente. Traballò, ondeggiò, poi s'inclinò ancora di più. Si stava allontanando dall'orizzonte. Verso di lui.

Annaspando, Carl cercò il quadro di comando. Fece scattare il coperchio di sicurezza, e schiacciò ripetutamente il pulsante di contrordine. Le orecchie gli schioccarono quando la tempesta di statica s'interruppe. Ogni mech e ogni congegno ad alta energia su quel lato del nucleo della Halley fu disattivato. Quel sottile dito a microonde smise di scrivere sul ghiaccio a poche dozzine soltanto di metri da Carl.

Il ragno cominciò a crollare. Il decimillesimo di gravità della Halley era troppo debole per tener giù un generatore a microonde mentre «sparava», ma senza la spinta ascensionale del gas in espansione e della pressione delle radiazioni, la debole attrazione di quel mondo di ghiaccio tornava a imporsi. La struttura barcollò e cominciò la sua lenta e dolorosa caduta.

— Cosa diavolo stai facendo? Non ho più energia.

Quello doveva essere Jeffers. Altre voci farfugliavano attraverso la linea di comunicazione.

— Mayday! Kato è ferito. — Carl schizzò lungo il ghiaccio grigio-sporco. I suoi jet a impulsi fiammeggiarono con fulminea agilità, volando istintivamente col minimo spreco d'energia, come risultato di molti anni di addestramento. Attraversare la superficie corrugata di Halley era come salpare con consumata destrezza su un grigio mare ghiacciato sotto il cielo nero.

Contro ogni speranza, cercò di chiamare la figura avvolta dalla tuta spaziale arancione, distesa bocconi sul campo di neve sventrato. — Kato…

Quando si avvicinò di più, Carl trovò qualcosa che assomigliava, più che a un uomo, a un pollo annerito, contorto e male arrostito.

Poi toccò a Umolanda.

Il programma di lavoro non lasciò molto tempo per piangere Kato. Una squadra medica discese dall'ammiraglia, la Edmund Halley, per recuperare il corpo di Kato, ma poi tutti tornarono al lavoro.

Già da parecchi anni Carl aveva imparato a lavorare anche quando era afflitto da notizie sconvolgenti, incidenti, intoppi. Scordarsi della morte di un compagno di lavoro non era facile. Gli era piaciuta l'energia di Kato, e ancor più il suo vivido senso dell'umorismo e la sua sfacciata fiducia. Carl promise al suo amico almeno una festa in suo ricordo all'insegna d'una sbronza il più solenne possibile.

Lui e Jefferson fissarono il ragno, riancorando il piede e riassestando la gamba. Carl tagliò via la porzione danneggiata. Jeffers sorresse l'alimentatore dell'ossigeno mentre lui metteva in posizione un nuovo, affusolato segmento di trave. Ad un segnale di Carl, l'altro spaziale diresse un getto di gas sopra le giunture, e il metallo si animò, autosaldandosi in un abbagliante arco arancione. Completarono la riparazione ancora prima che il corpo di Kato venisse riportato sulla Edmund.

Umolanda giunse da oltre il bordo del nucleo della Halley, con i pallidi getti azzurri che la spingevano lungo il cavo che correva da un polo all'altro. Il modo più facile di spostarsi intorno a quell'irregolare palla di ghiaccio era di agganciarsi al cavo e attivare i getti della tuta, sorvolando la superficie a pochi metri d'altezza. Le ancore magnetiche venivano mollate automaticamente, durante il tragitto, per minimizzare la frizione. Umolanda era incaricata del lavoro interno, di rimodellare, cioè, gli scavi irregolari per ottenere stanze e gallerie. Incontrò Carl accanto all'ingresso del Pozzo 3, a un chilometro dal luogo dell'incidente. All'orizzonte, il ragno scavatore aveva ripreso a sgobbare.

— Brutta faccenda, quella di Kato — trasmise Umolanda.

— Già. — Carl fece una smorfia a quel macabro ricordo. — Un tipo simpatico, anche se era sempre appiccicato a quelle anticaglie di film a 3D tutto il tempo.

— Per lo meno è stato rapido — commentò Umolanda.

A ciò, lui non aveva da aggiungere nessuna osservazione, e comunque non gli piaceva parlare troppo, là fuori. Interferiva col suo lavoro, e basta.

Gli occhi liquidi di Umolanda lo studiarono attraverso il casco a bolla macchiato qua e là di sporco. L'anello del collo nascondeva il suo mento fesso. Fu sorpreso nel constatare come quella omissione la facesse apparire una donna per ogni altro verso straordinariamente attraente, la pelle color ebano tesa sugli alti zigomi in un artistico profilo ironico. Strano, come non se ne fosse mai accorto prima.

— Avete indagato sulla causa?

— Ho controllato il punto dove la gamba del ragno si è mollata — rispose Carl. — Pare che una faglia, là sotto, abbia ceduto.

Lei annuì. — Niente di sorprendente. Ho trovato delle cavità, sotto, formatesi quando il decadimento radioattivo ha riscaldato il ghiaccio, molto tempo fa, quando Halley si è formata. Se alcuni gas caldi liberati dalla trivellazione del ragno si sono aperti la strada verso la superficie attraverso una di quelle cavità, potrebbero aver minato l'ancoraggio del ragno.

Carl fissò l'orizzonte, strizzando gli occhi, sforzandosi d'immaginare l'intera testa della cometa crivellata di gallerie serpeggianti. — Sì, credo che tu ci abbia azzeccato.

— Ma il ragno non avrebbe dovuto interrompere la propria erogazione, non appena persa la messa a fuoco?

— Appunto.

— L'interruttore?

Carl scrollò le spalle. — Quel maledetto interruttore di sicurezza era difettoso. Semplicemente, non è scattato — dichiarò in tono amaro.

Le sopracciglia di Umolanda s'intrecciarono per la collera. — Ancora attrezzature difettose!

— Già. Qualche bastardo sul lato Terra si è fatto un piccolo extra sulle spese generali.

— Hai fatto rapporto?

— Certamente. Comunque, per andare a prendere dei pezzi di ricambio la passeggiata è piuttosto lunga. — Ebbe un sorriso sardonico. Vi fu un breve silenzio, prima che Umolanda parlasse di nuovo.

— Ci saranno sempre incidenti. Abbiamo perso gente anche su Encke.

— Questo non facilita affatto le cose.

— No… immagino di no.

— Comunque, Encke era un bel vecchio torsolo di cometa. Antica. Prosciugata. Un bel po' di bella roccia sicura. — Raschiò leggermente il suolo con la punta dello stivale. Neve e polvere si levavano a nuvolette al minimo tocco.

Umolanda si costrinse a sorridere. — Forse tutto questo ghiaccio avrà anche lo scopo di tenerci in vita sui tempi lunghi, ma su quelli brevi ci sta ammazzando.

Carl indicò con un gesto tre mech lì accanto, in attesa di ordini. Le macchine erano già tutte butterate e insudiciate dalla poltiglia di neve primordiale e dalla polvere sferzante di Halley. — È la tua squadra. Kato le stava regolando. Ma forse preferisci dargli lo stesso un'ultima revisione.

— Mi sembrano a posto. — Umolanda fischiò il codice colorato che compariva sul piccolo schermo dietro a quella più vicina, e annuì. — Almeno, con queste macchine un po' di fortuna l'abbiamo avuta. Il raggio a microonde non le ha colpite. Le porto giù con me ad allargare il Pozzo 3.

Impastoiò i robot multibraccia simili a scatoloni e li rimorchiò con grazia fino all'ingresso della galleria. Carl osservò mentre li metteva in fila, al sicuro, per poi scomparire dentro il pozzo, guidando i mech come un pastore, anche se in realtà i mech erano scaltri come un bambino di dieci anni per certe cose, e assai più coordinati.

Carl andò a controllare il resto dell'attrezzatura che gli altri membri dell'equipaggio stavano traghettando giù dalla Edmund. Era un lavoro monotono, ma erano giorni che lavorava dentro i pozzi, e aveva bisogno di un'interruzione, fuori da quelle interminabili pareti di ghiaccio venate di pietrisco.

In alto, sopra di lui, dei nastri trasparenti intessevano una danza lenta e solenne. Le scintillanti code gemelle di Halley erano come seta azzurro-verde. Adesso stavano sbiadendo, erano già passati molti mesi dalla breve vivacità estiva di cui la cometa godeva ogni settantasei anni. Ma gli immensi vessilli di polvere e di ioni si dispiegavano ancora, tracce impalpabili che ondeggiavano come davanti ad una pigra brezza, bandiere agitate da enormi angeli.

La spedizione aveva scelto l'appuntamento con la cometa di Halley dopo il suo passaggio al perielio del 2061, quando lo sfrecciante planetoide era ormai ben avanti nella sua traiettoria verso l'esterno. Qui, al di là dell'orbita di Marte, il violento surriscaldamento del Sole non faceva più ribollire selvaggiamente quei giganteschi getti di molecole d'acqua, polvere e anidride carbonica che rendevano Halley così spettacolare durante la sua breve estate.

Ma il calore dura. Per mesi, mentre Halley sfrecciava vicino al feroce Sole erosivo, ondate ad alta temperatura si erano diffuse verso il basso attraverso il ghiaccio e la roccia, concentrandosi in cavità volatilizzate e in agglomerati di roccia sparpagliati qua e là. Adesso, perfino quando la cometa stava risalendo nella gelida oscurità del sistema solare esterno, c'erano ancora riserve di calore dentro di essa.

Quella palla granuolosa, grigio-scura, era un frappé congelato d'acqua, anidride carbonica, idrocarburi, e acido cianidrico, dove ogni diverso tipo di neve sublimava in vapore a una differente temperatura. Inevitabilmente, in alcuni punti, il calore che vi filtrava, fondeva o vaporizzava il ghiaccio. Queste sacche erano in agguato.

Carl stava assemblando le componenti d'un filtro a centrifugazione quando un grido improvviso, lacerante, gli uscì dal comunicatore della tuta.

Poi, un silenzio sinistro.

Il suo minischermo da polso ammiccò giallo-azzurro, giallo-azzurro: il codice di Umolanda.

Dannazione. Due volte in un solo turno?

— Umolanda?

Nessuna risposta. Carl afferrò il cavo polare e, una bracciata dopo l'altra, raggiunse l'imboccatura del Pozzo 3.

I mech giravano intorno ad una frana, scavando il ghiaccio che si andava lentamente adagiando in mezzo a turbini di nebbia sfavillante. Nessun segnale da parte di Umolanda. Carl lasciò che i mech continuassero a lavorare ma tolse le pasticche della memoria dai loro ricettacoli per esaminarle mentre aspettava. Fu ben presto chiaro cos'era successo.

Immersi nel ghiaccio, i mech avevano obbedientemente scalpellato le pareti della prima cavità. Umolanda li controllava con un comando a distanza, rimanendo nella galleria principale per non correre rischi. Il relé TV le diceva quando far cambiare routine ai robot, quando ritoccare i dettagli, quando scavare e quando minare. Umolanda si teneva impastoiata e controllava le operazioni sullo schermo del quadro di controllo portatile, passando occasionalmente al completo servocontrollo di un mech per eseguire un lavoro di levigazione che richiedesse una particolare abilità.

Stava lavorando all'estremità opposta di quello che ben presto sarebbe stato un magazzino, quando un mech aveva colpito un vero e proprio macigno di due metri di diametro, costituito di scuro ferro nativo. Il capitano Cruz aveva loro chiesto di tenere gli occhi aperti nel caso in cui fossero saltate fuori risorse utilizzabili. Umolanda aveva messo all'opera tutti e tre i mech per recuperare il macigno. Sotto la sua guida, i mech avevano infilato delle leve sotto il blocco metallico cercando di liberarlo. Il cupo grumo nerastro aveva rifiutato di muoversi.

Umolanda aveva dovuto intervenire di persona per controllare. Carl poteva immaginarsi il problema: i mech erano bravi, ma spesso era difficile vedere se utilizzavano l'angolo migliore.

Carl ebbe una cupa premonizione. Il macigno aveva accumulato calore per settimane, lasciando che si diffondesse nella poltiglia subito dietro ad esso, una sacca di anidride carbonica e metano imprigionati. Questa zuppa spumeggiante sarebbe stata perforata nel suo punto critico, gli sarebbe bastata soltanto una temperatura un po' più alta o una frazione di pressione in meno per esplodere nella fase di vapore.

Oh, per l'amor di Cristo, Umolanda, non…

Un mech fece scivolare la sbarra che usava come leva intorno al macigno, penetrando nella riserva di poltiglia. Umolanda vide il robot che barcollava, si riprendeva. Gli disse di provare di nuovo e si avvicinò un po' di più per osservare.

Il mech era lento, cauto. La sua «giacca» d'alluminio era chiazzata e scolorita dopo parecchi giorni nel ghiaccio, ma il suo piccolo schermo con i dati mostrava che stava funzionando alla perfezione. Usando come punto di appoggio la propria pastoia alla parete, fece leva intorno al macigno, spinse… e il grumo di ferro si disincagliò.

No!

L'energia dei gas supercompressi si liberò di colpo con la violenza d'un maglio. L'esplosione scagliò via la sbarra utilizzata come leva, strappata al mech, come un missile sparato da un cannone.

Umolanda era a due metri di distanza. La leva le si piantò nel ventre. Il microschermo della pasticca mnemonica si spense. Carl sbatté gli occhi per scacciare le lacrime. Aspettò fino a quando i mech non ebbero riaperto la galleria. Non c'era proprio nessuna necessità di affrettarsi.

Il comandante della missione, Miguel Cruz, sospese le operazioni per due interi turni. La squadra d'insediamento aveva lavorato a tutto spiano per una settimana filata. Due morti in un giorno indicavano che stavano commettendo errori dovuti alla pura e semplice stanchezza.

Carl risalì con l'ultimo traghetto. La superficie chiazzata pareva oscurarsi con la distanza: il nucleo cometario rimpicciolì fino a diventare un punto nerastro che galleggiava in una nube giallo-arancione. Malgrado l'alone confuso della chioma fosse ancora visibile con un piccolo telescopio dalla Terra, lì, a poca distanza dalla testa quei sipari tremolanti di ioni risplendevano appena, come un delicato merletto. Gas e grani di polvere continuavano ancora a staccarsi dalla superficie di Halley, rendendo rischioso il lavoro dei piloti dei cargo. La maggior parte dei gas proiettati verso l'esterno non erano generati dalle stimolo ormai morente del Sole, bensì dal calore residuo degli umani.

L'incidente che aveva ucciso Umolanda aveva vomitato fuori una nebbia perlacea per un'ora, fino a quando il lago interno di poltiglia non era completamente evaporato all'esterno. Se qualcuno sulla Terra avesse guardato attraverso un potente telescopio, avrebbe captato un lieve rischiararsi sulla testa della cometa. Era un fugace monumento alla memoria. Quell'accecante tempesta aveva spinto i suoi mech dentro il pozzo, smuovendo abbastanza ghiaccio da seppellirla. Carl e gli altri avevano dovuto rimaner fuori fino a quando era stato troppo tardi per recuperarla e scongelarla a poco a poco per un possibile intervento medico. Umolanda era perduta.

Mentre il traghetto navigava verso l'esterno, le code gemelle, una di polvere e l'altra di ioni fluorescenti, si allungavano nello spazio, pallidi e scorciati resti della gloria che aveva affascinato la Terra soltanto due mesi prima. Nastri sbrindellati si biforcavano verso il puntolino ardente di Giove. Inconsapevole, Carl se ne stava lungo disteso, sonnecchiando, mentre il traghetto si sollevava sempre più per incontrare la Edmund.

Quando entrarono sferragliando nella camera di equilibrio, Carl si sfilò la tuta e scivolò in direzione della mormorante ruota gravitazionale di prua. Scese lungo una delle scale fisse a pioli e, barcollando, uscì in mezzo all'inusuale attrazione d'un ottavo di gravità, avvertendo la stanchezza scendergli fin nel profondo delle ossa con l'arrivo del peso.

Sì, il sonno pensò. Che venga pure a ricucirmi tutti gli strappi e le sfrangiature…

Virginia veniva per prima, però. Non la vedeva da secoli.

Era nel suo modulo di lavoro, naturalmente, a metà strada lungo la ruota. In quei giorni, era difficile che ne uscisse fuori. La porta si scostò con un sibilo. Quando Carl scivolò dentro quel mondo sferico di gusci di memoria incapsulati, c'era quasi un silenzio da cattedrale, una sensazione di presenza e di ronzante attività appena al di fuori della gamma uditiva. Carl prese posto con calma accanto al suo seggiolino su braccio snodabile, aspettando fino a quando lei non avesse potuto tirarsi fuori dallo stato interattivo. Collegata ai canali attraverso un'unione neurale diretta, e dei servomeccanismi applicati ai polsi, la donna si muoveva appena. Doveva senz'altro sapere che lui si trovava là, ma non ne dava nessun segno.

Di tanto in tanto, il suo magro corpo si agitava e sussultava. Come un cane che stia sognando pensò Carl, il quale cerca d'inseguire immaginari conigli.

I suoi lunghi lineamenti, mezzo polinesiani, erano rivolti verso i banchi d'immagini olografiche sospese sopra di lei, e i suoi occhi non guizzarono lateralmente neppure una volta per guardarlo. Fissava rapita scene multiple in movimento, masse slittanti di dati in continuo guizzare, diagrammi geometrici che mutavano e si evolvevano raccontando nuove storie.

Carl attese, mentre lei risolveva qualche indecifrabile problema. Il suo lungo volto si tese per un attimo, poi si rilassò, come se avesse saltato qualche ostacolo. Era delicata, anche lei con gli zigomi alti, come Umolanda. Come un terzo dell'equipaggio della spedizione, era una percell, un prodotto del programma genetico per la correzione delle malattie ereditarie di Simon Percell. Carl si chiese oziosamente se le ossa sottili, i lineamenti aristocratici, non fossero caratteristiche che lo stregone del DNA aveva introdotto alla chetichella. Era possibile. Quell'uomo era stato un genio. Però il volto di Carl era largo, e comune, e lui era stato «sviluppato» — come si diceva con quel gergo antisettico — a meno di un anno di distanza da Virginia. Così, era allora possibile che Simon avesse curato quei particolari soltanto con le donne. Viste le storie d'ogni genere che correvano su quell'uomo, non si poteva escludere la possibilità.

Secondo un'opinione da tutti condivisa, Virginia Kaninamanu Herbert era chiaramente un esperimento riuscito. Una mescolanza di razze del Pacifico su una base hawaiana, aveva un'intelligenza pronta e acuta, deliziosamente imprevedibile. C'era un'energia irrequieta nei suoi occhi mentre si muovevano lanciando rapidi sguardi sfreccianti verso la tumultuante miriade d'immagini impalpabili davanti a lei. Poco più in basso, la sua bocca mostrava una tranquilla tensione, leggermente contratta, pensierosa e assorta. Carl pensava che non fosse particolarmente attraente nel senso usuale della parola: il suo lungo volto finiva per darle un aspetto allampanato, anche se la serena levigatezza della sua pelle color mandorla compensava questo effetto, ma la fronte era ampia, la bocca troppo larga, il mento tronco e squadrato, non stucchevolmente arrotondato come la moda esigeva oggi.

A Carl non importava un bel niente. In lei c'era una verve compressa, una donna nascosta che lui bramava raggiungere. Eppure, da quando la conosceva, lei era sempre rimasta dentro il suo bozzolo di cortesia. Era amichevole, ma niente di più. Lui era deciso a cambiare quello stato di cose.

Sullo schermo principale, delle travi ruotate obliquamente combaciarono le une con le altre in un preciso incastro. L'intelaiatura s'immobilizzò. Fatto.

D'un tratto Virginia si animò, come se una qualche fluida intelligenza fosse tornata dai labirinti della macchina che le faceva da controparte. Si tolse gli imput dal polso. La bianca presa del suo connettore neurale lampeggiò brevemente quando la spina venne via. Scosse i capelli per rimetterli in ordine.

— Carl! Speravo proprio che aspettassi che io finissi.

— Sembra importante.

— Oh, questo? — Liquidò con un gesto della mano quelle strutture tridimensionali di dati. — Soltanto un lavoro di riordino. Controllavo la simulazione dell'attracco e del trasferimento, quando trasporteremo tutti sotto. Ci saranno irregolarità a causa dell'orientamento casuale dei getti di gas diretti verso l'esterno, e sarà necessaria una continua compensazione. Stavo programmando i mech più perspicaci per quel lavoro. Adesso siamo pronti.

— Non del tutto.

— Sì, qualche giorno ancora… Oh, già. — La sua espressione si fece contrita. — Ho sentito.

— Dannata sfortuna. — La sua bocca si torse per l'amarezza.

— La stanchezza, ho sentito.

— Anche quella.

Lei allungò la mano e gli toccò, titubante, il braccio. — Non c'era niente che potevi fare.

— Probabilmente. O… forse non avrei dovuto lasciarla scendere in quel buco subito dopo che Kato c'era rimasto. Cose del genere ti scuotono, alterano la tua capacità di giudizio. Rendono più probabili gli incidenti.

— Non eri suo superiore.

— Sì, ma…

— Non è colpa tua. Semmai sono le costrizioni alle quali lavoriamo. Questo orario di lavoro…

— Già, lo so.

— Su, vieni. Ti offro un caffè.

— Una buona dormita, ecco quello che mi serve.

— No, tu hai bisogno di parlare. Di avere contatti con la gente.

— Per scambiare battute arcane con quei tuoi specialisti di computer? — Fece una smorfia. — Ci faccio sempre la figura dell'allocco.

Con un movimento flessuoso lei lasciò il sedile della consolle, approfittando della bassa gravità per arricciarsi e sgomitolarsi a mezz'aria. — No davvero! — Qualcosa nella sua improvvisa, vivace allegria, sollevò il morale. — Spirito gioioso, quando mai un allocco tu fosti?

— Che orribile modo di esprimersi!

— Comunque, è vero. Su, vieni, il primo giro lo offro io.

SAUL

Alla maggior parte della gente la creatura sarebbe parsa orrenda. Vagamente globulare, chiazzata di macchie gialle e ocra, con sporgenze aguzze tutt'intorno, aveva quel tipo di aspetto che soltanto una madre particolarmente indulgente avrebbe potuto amare.

Oppure un patrigno pensò Saul Lintz.

Milioni di minuscole, brutte creature sfrecciavano in ogni direzione dentro gli affollati confini di una singola, luccicante goccia d'acqua salata, incurvata a bolla dalla tensione superficiale fino a formare un alto e arcuato menisco sul vetrino del microscopio.

Saul regolò i comandi del sistema a fibre ottiche fino a quando il suo ingranditore non zumò su un singolo cianuto. — Eccoci — bisbigliò. — Tu andrai benissimo per la prova, ragazzo mio.

Premette un grilletto e lo strumento citologico lo sostituì, seguendo il piccolo microbo, rintracciandolo automaticamente dovunque nuotasse all'interno del suo minuscolo universo.

La creatura era una massa pulsante di microscopiche ciglia che s'increspavano più rapidamente di quanto l'occhio riuscisse a seguirle, generando iridescenze. Ma Saul conosceva comunque quella piccola creatura fin nelle sue parti più piccole. Riusciva a raffigurarsene ogni singolo, microscopico, variegato componente, ben oltre i limiti dello strumento; fino ai livelli degli acidi, delle basi, degli zuccheri e delle barriere lipidiche, il tutto finemente equilibrato.

Sfrecciava su e giù fra le altre migliaia di cellule ruvide e increspate, alla ricerca di ciò che le serviva per sopravvivere.

Non dissimile da noi. Soltanto che la nostra ricerca ha condotto noi umani a mezzo miliardo di miglia da casa.

Si sfregò gli occhi e si sporse in avanti, secondo un'abitudine acquisita molto tempo addietro, quando occasionalmente gli capitava di sbirciare attraverso le lenti di freddo vetro invece di lasciare che fossero le macchine a fare tutto il lavoro difficile. Rilassati si disse Saul. Non hai bisogno di allungare il collo sopra lo schermo.

Perfino qui, nella ruota gravitazionale della Edmund, che girava lentamente, non c'era un'attrazione sufficiente contro la quale lottare. Bisognava lasciarsi andare, oppure sprecare enormi energie soltanto per rimanere immobili.

Solo metà degli schermi e delle immagini olografiche nell'unità biologica traboccavano di luce. Su un'altra dozzina di superfici scure la pallida immagine di Saul veniva riflessa… folte sopracciglia sopra un naso generoso, e rughe che la maggior parte della gente, nell'incontrarlo, supponeva derivassero da una vita trascorsa sorridendo.

Soltanto quelli che conoscevano bene Saul, ed erano pochi, oggi, capivano la vera origine di quei solchi scoscesi: uno stoicismo che respingeva il dolore di molte, moltissime perdite.

Adesso, mentre Saul socchiudeva gli occhi per la concentrazione, quelle pieghe risaltarono. Azionando delicatamente un comando manuale, fece scendere una sottilissima scheggia di metallo cavo dentro quella piccola sfera di acqua salata appoggiata sul vetrino del microscopio. Sul principale schermo olografico, l'immagine del sottilissimo ago parve profilarsi come un giavellotto, mentre i computer lo guidavano verso il soggetto scelto per l'esperimento.

— Suvvia, meshugga, stupido animale — borbottò Saul quando il microbo cercò di schizzar via. — Rimani fermo per papà.

Il cianuto aveva un diametro inferiore ai cinquanta micron, così piccolo e innocuo che i suoi antenati erano vissuti pacificamente nei corpi umani per milioni di anni in tranquilla simbiosi, fino a quando non erano stati scoperti, più o meno una generazione prima. Per Saul quella minuscola creatura conteneva altrettante meraviglie della gigantesca cometa che richiamava tanta attenzione là fuori.

La videoparete principale del laboratorio era stata lasciata sintonizzata su una panoramica di Halley, non come appariva adesso — una nube che stava esaurendo la sua riserva di fluorescenza accumulata, la quale circondava un grumo di sei miglia di neve nerastra, ma com'era stata soltanto pochi mesi prima, in tutta la sua breve gloria, sfrecciando via davanti al Sole a metà della distanza orbitale della Terra, con la sua coda di ioni che danzava alla brezza protonica.

Erano ben appaiati in bellezza, il titanico messaggero cosmico che sarebbe stato la loro casa per più di un secolo e quella meraviglia microscopica che aveva reso possibile il soggiorno. Comunque non era sorprendente che, dei due, Saul si concentrasse su quella minuscola creatura vivente che si muoveva all'interno di quel piccolo globo acqueo.

Dopotutto, era stato lui a crearla.

Sh'ma Yisrael… ricordò a se stesso. Esiste un solo Dio, anche se dovesse porre i suoi strumenti nelle nostre mani, gli strumenti per plasmare la vita e forgiare mondi. Si tira indietro soltanto per vedere che uso ne faremo.

Nella sua attività, Saul giudicava saggio ricordarsene di tanto in tanto.

Quando l'ago si fu avvicinato al soggetto alla distanza di una cellula, Saul pronunciò una parola e attivò la sequenza del test. Una piccola nuvoletta indistinta disturbò l'acqua vicino alla punta dell'ago, dove minuscole tracce di una soluzione di acido cianidrico erano schizzate fuori.

Soltanto una manciata di molecole era coinvolta, eppure il minuscolo organismo reagì quasi all'istante. Le sue ciglia esplosero in un improvviso spasmo di attività, e la creatura balzò in avanti…

In avanti, verso l'ago. Inghiottì la punta, pulsando con evidente avidità.

Finora tutto bene. Saul sarebbe rimasto sorpreso se si fosse comportata in maniera diversa. I cianuti erano stati sottoposti ad un test completo sulla Terra, prima che la missione della cometa di Halley venisse approvata. Nessun fattore era più importante per il successo e la salute dei 410 fra uomini e donne, di quelle piccole creature.

Saul era fiducioso. Ma la vita, specialmente la vita i cui geni erano stati tagliati su misura, aveva un suo modo di cambiare quando meno lo si aspettava. La sopravvivenza di tutta quella gente dipendeva dal funzionamento di quei «nuti», dal fatto che si comportassero secondo le previsioni. Era stato lui a guidare la squadra che li aveva progettati, e non intendeva permettere che ci fossero insuccessi di nessun tipo. C'erano già abbastanza fantasmi della sua vita. Miriam, i bambini, la terra e il popolo della sua giovinezza… e, naturalmente, Simon Percell.

Povero Simon. Ricordava fin troppo bene come un solo errore avesse rovinato la vita del suo amico e quasi ogni cosa per la quale aveva lavorato. Continua a ricordarmi, Simon, continua a ricordarmi quali sono i pericoli che si corrono a voler fare la parte di Dio.

Adesso, tutto l'acido cianidrico era scomparso, stando agli schermi, succhiato da quell'avido organismo, e Saul annuì soddisfatto. Ogni essere umano che faceva parte di quella missione aveva milioni di cianuti che vivevano nel suo — di lui o di lei — flusso sanguigno e in quelle piccole sacche d'aria, spugne crivellate di alveoli, che erano i suoi polmoni. Quel campione prelevato a caso da uno dei membri dell'equipaggio, aveva appena dimostrato che sarebbe stato in grado di fare il suo principale lavoro: assorbire qualunque traccia del micidiale gas cianidrico disciolto prima che questo potesse entrare in contatto con i globuli rossi del suo ospite. Un'altra nuvoletta di anidride carbonica mostrò la sua capacità d'inghiottire il monossido di carbonio prima che questa sostanza chimica potesse legarsi stabilmente all'emoglobina umana.

Saul inizò la fase successiva del test. Minuscole tracce di un nuovo composto entrarono vorticando dentro la bolla salina. Questa volta il piccolo microbo sullo schermo si ritrasse rapidamente dall'ago, arricciandosi quasi come se fosse stato punto. L'acido cianidrico e il CO erano pascoli freschi per quella creatura, ma i componenti basilari dei tessuti umani sembravano rappresentare un deciso no-no.

Ancora una volta, buone notizie. Il secondo test dimostrava che il cianuto era del tutto avverso a considerare commestibili le cellule umane.

Questo per i punti fondamentali. C'erano innumerevoli altre cose da controllare. Saul fece scorrere mentalmente una lista, mentre attivava il sequenziometro per iniziare la fase automatica del test in programma.

riproduzione autolimitante, benevola accettazione da parte del sistema immunitario umano, sensibilità al pH, un vorace appetito per altre potenziali tossine cometarie…

Non era tanto un catalogo di attributi quanto una litania di sfide affrontate e vinte. Saul non poteva fare a meno di sentirsi orgoglioso per la sua piccola compagine, là sulla Terra, che aveva dovuto superare pregiudizi, burocrazia, e aperte superstizioni, per riuscire a svolgere il proprio lavoro. Alla fine, però, avevano creato una meraviglia: un nuovo simbionte umano.

I cianuti sarebbero stati una parte permanente e benigna di ogni uomo e donna dell'equipaggio per il resto della loro vita… e forse, osava immaginare, parte dell'animale umano, d'ora in avanti, come la flora intestinale che l'aveva sempre aiutato a digerire il cibo, e i mitocondri all'interno delle sue cellule che bruciavano lo zucchero per lui, convertendolo in energia utilizzabile.

— Chi può paragonarsi a te, o Signore… — bisbigliò amaramente, stuzzicando se stesso per il suo inestirpabile angolino di orgoglio. Saul aveva concluso molto tempo addietro che lui e Dio avrebbero dovuto essere pazienti l'uno verso l'altro. Forse l'universo non era costruito in maniera conveniente per nessuno di loro due. Saul osservò i risultati del test scorrere sullo schermo: tutti in chiaro, quasi perfetti, fino a quando un sommesso squittio gli annunciò l'apertura del bio-lab dietro di lui.

— Allora? Stiamo ficcando di nuovo il naso fra i nostri animaletti, Saul? Non riesci a lasciarli tranquilli?

Non aveva bisogno di alzare lo sguardo per riconoscere la voce di Akio Matsudo. — Ciao, 'kio. — Agitò la mano in segno di saluto senza neppure voltarsi. — Stavo soltanto controllando. E tutto sembra andare per il meglio, grazie. Non sono delle creature adorabili?

Sorrise mentre l'alto e arzillo medico giapponese arrivava al suo fianco e assumeva un'espressione acida. Il capo della Missione delle Scienze della Vita non aveva mai nascosto la sua opinione sulle «creature» di Saul. Erano necessarie, assolutamente indispensabili per il successo del loro viaggio di settantotto anni. Ma il povero Akio non era mai arrivato a vedere il loro lato più estetico.

— Ugh — fu il commento di Matsudo. — Per favore, non ricordarmi l'infestazione che in questo momento sta sciamando nei miei fluidi corporei. La prossima volta che desideri iniettarmi dei parassiti alieni…

— Simbionti — si affrettò a correggerlo Saul.

— … contro i quali il mio corpo non ha nessuna capacità immunitaria… la prossima volta eseguirò io stesso l'incisione… dall'inguine allo sterno!

Saul riuscì soltanto a sorridere quando l'espressione imbronciata di Matsudo si spezzò e l'uomo si mise a ridacchiare. Era un «ki-ki-ki» che gli spaziali avevano già mimato, facendone una specie di squillo di tromba nel sottoponte. Akio faceva spesso quelle lievi battute sulle tradizioni dell'antico Giappone.

Forse era simile al modo in cui Saul lasciava cadere degli yddishismi nei suoi discorsi, di tanto in tanto, anche se aveva imparato la lingua soltanto dieci anni prima. È il dialetto perfetto per gli esiliati pensò.

— Cos'hai là, 'kio? — Indicò un foglio sottile nella mano dell'altro.

— Ah. S-sì. — Matsudo aveva la tendenza a pronunciare male le sibilanti. — Già che stiamo parlando di sistemi immunitari, sono venuto a chiederti di esaminare con me l'inventario degli stimolanti, Saul. Credo sia il momento di rilanciare una malattia attenuata nel sistema di sopravvivenza.

Saul trasalì. Non aveva mai aspettato con ansia quel momento.

— Così presto? Ne sei sicuro? I quattro quinti della spedizione sono ancora ibernati a bordo della Sekanina e delle altre chiatte da carico. Tutti quelli che abbiamo svegli, al momento, sono l'equipaggio della Edmund e il personale di supporto.

— Una ragione in più — rispose Matsudo. — Trenta spaziali sono vissuti insieme in questa nave angusta per più di un anno. Un'altra quarantina sono stati fuori dai portelli per più di due mesi, quando ci siamo avvicinati alla cometa. A quest'ora tutti i virus minori che si sono portati dietro quando sono partiti dalla Terra hanno fatto il loro corso.

«Ho fatto un censimento dei parassiti, ed ho scoperto che più di tre quarti degli organismi patogeni ambientali si sono già estinti! È ora di liberare una nuova sfida».

Saul sospirò. — Sei tu il capo. — In realtà, sarebbe stato compito di tutto il biocomitato decidere le sfide da lanciare al sistema immunitario. Ma ricordarlo ad Akio avrebbe significato offenderlo. E comunque, la procedura faceva parte della routine.

Però, il naso già prudeva a Saul al pensiero di quell'infelice prospettiva.

Allungò la mano verso la consolle della bio-biblioteca e batté rapidamente un codice. Una pagina di dati comparve nel vuoto davanti a un fondale nero.

Saul annuì, rivolto a quelle brillanti lettere verdi. — Ecco un affascinante spiegamento di nefasti batteri a tua disposizione, dottore. Con quale pestilenza desideri infettare i tuoi pazienti? Abbiamo vaiolo, varicella, rosolia.

— Niente di così drastico. — Matsudo agitò una mano. — Per lo meno non così presto.

— No? Bene, abbiamo l'impetigine, il piede dell'atleta…

— Amaterasu! Il cielo ce ne guardi, Saul! Con questa umidità? Prima che l'habitat nelle gallerie scavate nella cometa e i grandi deumidificatori siano entrati, in funzione? Tu sai come la pensa la Marina sulla presenza dei funghi a bordo di un nave spaziale. Cruz ci scuoierebbe…

Si arrestò di colpo e sorrise con la bocca storta. — Ah, ah. Molto divertente, Saul. Ti stai prendendo gioco di me, naturalmente.

Saul aveva conosciuto Matsudo superficialmente per molti anni, nel corso di conferenze scientifiche, e anche per la reputazione che si era fatto. Ma quell'uomo rappresentava ancora per lui, almeno in parte, un enigma. Per esempio, per quale ragione si era offerto volontario per quella missione? Fra tutti i tipi disposti ad arruolarsi per lasciare la Terra, passando settantatré anni su settantotto di missione in ibernazione nelle capsule, per poi far ritorno su un mondo divenuto del tutto estraneo, alieno, a quale categoria apparteneva Akio? Era un idealista, seguiva il sogno del capitano Miguel Cruz per ciò che la missione avrebbe potuto significare per l'umanità? Oppure era un esiliato, come molti membri di quella spedizione?

Forse è un po' di entrambe le cose.

Matsudo si passò una mano fra i lucidi capelli neri, folti come quelli d'un giovane. — Vuoi essere così gentile da scegliermi un virus del raffreddore, Saul? Qualcosa che sfidi abbastanza l'equipaggio così da mantenere attiva la loro produzione di anticorpi e il conteggio delle cellule T? Per quello che m'importa, non ci sarà neppure bisogno che se ne accorgano.

Saul pronunciò ad alta voce una successione di lettere, e comparve una nuova pagina. — Il cliente ha sempre ragione — ruminò ad alta voce. — E sei fortunato! Abbiamo otto varietà di raffreddore in vendita.

— Sono stupito — commentò Matsudo. Ma poi corrugò la fronte e sollevò entrambe le mani. — A ben ripensarci, lascia che sia io a scegliere! Non voglio che qualcuno dei tuoi mostri sperimentali si scateni proprio adesso, non importa quello che puoi dire sulle meraviglie della simbiosi!

Saul si tirò da parte, mentre Akio si chinava in avanti per sbirciare la lista delle malattie disponibili, borbottando sommessamente fra sé. Era ovvio che Matsudo aveva tralasciato ancora una volta di mettersi le lenti a contatto.

È più alto di suo nonno di tre buoni decimetri pensò Saul. E guarda con sospetto i cambiamenti. Uno scienziato, eppure è troppo conservatore per farsi fare un trapianto della cornea che gli permetterebbe di vedere di nuovo senza aiuto.

Cos'è successo ai giapponesi innovativi, affamati di futuro, di tanti anni fa?

Se era per questo, cos'era successo a Israele, la tua terra natale? Come avevano potuto i discendenti dei pionieri del Negev, i più possenti guerrieri di due secoli, declinare lentamente nell'occultismo e nella superstizione? Cosa aveva trasformato i sabra dall'occhio limpido in pecore spaventate, così da permettere ai fanatici leviti e ai salawiti d'impadronirsi, con tutta facilità, del controllo?

I misteri facevano parte di un mistero ancora più grande che sorprendeva tuttora Saul, il modo in cui l'umanità pareva perdere sempre di più il coraggio, perfino adesso che il Secolo dell'Inferno stava giungendo alla fine e tempi migliori si profilavano finalmente all'orizzonte.

Non era un pensiero che lo tranquillizzasse. La scienza biologica era in condizioni altrettanto brutte. Le luminose speranze offerte da Simon Percell e dagli ingegneri genetici nella prima parte del secolo erano quasi completamente crollate in una serie di scandali più di un decennio prima, lasciando dietro di sé soltanto una stolida industria farmaceutica e qualche operatore indipendente come lui, Saul, a portare avanti la battaglia.

La Terra stava diventando sgradevole per i dissidenti come lui, uno dei motivi che l'avevano spinto a partecipare a quella missione. L'esilio nel tempo e nello spazio non era certo la peggiore fra le prospettive che gli si erano presentate.

— Useremo il rinovirus TR-3-APZ-471 — annunciò Matsudo, in apparenza soddisfatto da quella selezione. — Sei d'accordo, Saul?

Saul già sentiva arrivare uno sternuto. — Una piccola, ingenua varietà, ma sono sicuro che la sua presunzione ti divertirà.

— Scusa?

— Oh, lascia perdere — grugnì Saul. — Come custode ufficiale dei piccoli animali, ti farò trovare una fiala incubata di quei cattivoni nel tuo box entro domattina. — Toccò un tasto, e quell'inventario luminoso scomparve.

Matsudo si rialzò con facilità all'ottavo di G presente nella ruota-laboratorio della Edmund, e si sedette sul banco. Sospirò, e Saul seppe che il suo amico stava per mettersi a filosofare. Durante il lungo viaggio dalla Terra avevano fatto innumerevoli partite a scacchi e si erano scambiati altrettanto innumerevoli opinioni sul mondo, e mai una volta si erano scostati di un solo millimetro dalle loro reciproche idee.

— Non è come quando eravamo alla scuola di medicina, non è vero, Saul? Tu ad Haifa ed io a Tokyo? Siamo stati educati a odiare i germi patogeni, i virus, i batteri e i protozoi infettivi, a volerli spazzar via dalla faccia della Terra. Adesso, li coltiviamo e li usiamo. Sono i nostri strumenti.

Saul annuì. Di quei tempi, metà del lavoro di un medico comportava proprio l'uso attento di quegli stessi orrori, che andavano elargiti con giudizio per creare delle sfide.

— Tieni in esercizio il sistema immunitario del paziente e lascia che sia lui a fare il resto — disse Saul, annuendo. — È il sistema migliore, Akio. Vorrei soltanto che tu capissi che i miei cianuti fanno parte della stessa progressione.

Matsudo roteò gli occhi. Lui e Saul avevano discusso di questo moltissime volte.

— Ancora una volta mi rincresce di non poter essere d'accordo con te. Nell'un caso noi insegnamo al corpo a rafforzarsi e a respingere ciò che è estraneo. Ma tu lo persuadi ad accettare un intruso, per sempre!

— Forse una buona metà delle cellule del corpo umano sono forme di vita ospiti, Akio… batteri dello stomaco, pulitori dei follicoli, loro aiutano noi; noi aiutiamo loro.

Matsudo agitò la mano. — Sì, sì. La maggior parte di ciò che definisci te stesso, non lo è! L'ho sentito altre volte. So che non ci vedi come individui, Saul, ma come grandi alveari sinergici di specie cooperanti. — C'era una nota tagliente nella voce di Matsudo che Saul non ricordava di aver mai sentito prima. L'esagerazione non faceva parte dello stile abituale di Matsudo.

— Akio…

Matsudo si affrettò a proseguire: — E se anche tu avessi ragione, Saul? Tutti questi organismi che condividono i nostri corpi con noi sono cresciuti in simbiosi con noi nell'arco di milioni di anni. Ciò è completamente diverso dall'iniettare di proposito dei mostri con i geni tagliati su misura in un tale delicato equilibrio!

Il suo volto si era leggermente arrossato. Saul considerò la possibilità di sforzarsi di spiegarglielo una volta ancora… di spiegargli che i cianuti discendevano da creature che erano vissute pacificamente nell'uomo per molti eoni. Ma naturalmente lui sapeva come avrebbe risposto Aiko. Dopo tutti i cambiamenti che erano stati operati, i cianuti erano una nuova specie, diversi dai loro cugini naturali allo stesso modo in cui gli uomini lo erano dalle scimmie.

— Saul, il Movimento Restaurare e Riflettere c'insegna che dobbiamo pensare con la massima attenzione prima d'interferire con la natura. Il Secolo dell'Inferno ci ha dimostrato quanto può essere pericoloso intromettersi là dove non siamo in grado di capire.

Sollevando lo sguardo allo schermo del microscopio, dove il suo minuscolo soggetto stava ancora subendo il suo test, Saul vide che la minuscola creatura pulsava ancora vicina all'ago: vessata ma in salute.

— Io… — Scosse la testa e tacque. Saul non aveva nessuna idea di cosa preoccupasse il suo amico.

— Non c'è ancora nessun segno della Newburn, vero?

Matsudo scosse la testa, lo sguardo rivolto al pavimento. — Il capitano Cruz e i suoi ufficiali stanno ancora cercando. Forse quando la cometa si sarà calmata un po' di più, quando gli ioni della chioma e della coda saranno meno rumorosi… Per fortuna c'erano soltanto quaranta persone a bordo di quella nave. Se fosse stato un altro di quei rimorchiatori, la Selenia, o la Whipple, oppure la Delsemme… — Scrollò le spalle.

Saul annuì. Non c'era da stupirsi che Matsudo fosse irritabile. Più di trecento fra uomini e donne erano stati spediti dalla Terra con cinque anni di anticipo rispetto alla Edmund, insieme alla maggior parte dell'enorme quantità di equipaggiamento della spedizione, raffreddati quasi al punto di congelamento a bordo di quattro sottili trasporti robotizzati, cavalcando la luce del sole dietro a vele sottili come garze, larghe mille chilometri.

Soltanto la squadra dei «fondatori» aveva scelto la corsia veloce, energeticamente dispendiosa, a bordo della vecchia Edmund Halley. Avevano esaurito il loro carburante fin quasi all'ultima goccia per tener testa all'orbita furiosamente retrograda della cometa. Quando fossero arrivati, il compito prioritario che aspettava l'equipaggio della nave-torcia era appunto quello di recuperare i giganteschi cilindri che contenevano la maggior parte del personale della missione, immerso nel sonno profondo.

Ogni sistema di viaggio presentava degli svantaggi, nave-torcia o chiatta che fosse. La maggior parte del personale della Edmund doveva fare lunghi turni, sopportando la noia e una vita in condizioni anguste per più di un anno nello spazio. Allo stesso modo condividevano i pericoli — recentemente manifestatisi nel modo più brutale — collegati alla costruzione della base.

Sull'altro versante, avevano un certo controllo sul proprio destino. Non dovevano salpare attraverso lo spazio per anni addormentati e quasi prossimi al congelamento, confidando che qualcun altro li raggiungesse, agganciasse le loro esili chiatte, e alla fine li svegliasse…

Gli uomini e le donne a bordo della Newburn sarebbero forse andati alla deriva per sempre? Se Cruz e il suo equipaggio non avessero mai localizzato la chiatta, ci sarebbe stata la probabilità che qualcun altro, in qualche lontana epoca, li raccogliesse? Cosa avrebbero trovato al loro risveglio, dopo un viaggio talmente interminabile lungo il fiume del tempo?

— Saranno ottanta lunghissimi anni, Saul. — Matsudo scosse pensosamente la testa, guardando la videoparete, sfavillante con la cometa di Halley al suo massimo splendore su un sontuoso fondale di stelle. Le code, l'una di plasma e l'altra di polvere, rilucevano come vessilli sbattenti, come plankton in un mare fosforescente. — Ci vorrà molto tempo prima che rivediamo casa nostra.

Saul sorrise, nascondendo i propri timori a beneficio dell'amico. — Per la maggior parte, trascorreremo il tempo addormentati, 'kio. E quando torneremo a casa saremo ricchi e famosi.

Matsudo sbuffò a quel pensiero, ma riconobbe l'intenzione di Saul gratificandolo d'un sorriso. L'ironia era il tratto comune che li rendeva amici malgrado tutte le loro divergenze.

Un campanello squillò, e Saul sollevò lo sguardo mentre l'ago della microsonda si ritraeva dall'acquosa goccia salina. Adesso il cianuto soggetto all'esperimento galleggiava grigio e flaccido. L'ultimo test doveva dimostrare come la piccola creatura potesse pur sempre venire uccisa con facilità, nel caso in cui fosse sorta la necessità di farlo.

La prerogativa del creatore? si chiese. Oppure le mie spalle si sono incurvate impercettibilmente sotto un minuscolo senso di colpa in più?

I predatori stavano già annusando il microscopico cadavere. Saul allungò la mano e spense il microscopio.

VIRGINIA

Il posto puzzava di uomo rancido, sporco.

Virginia arricciò il naso quando entrò nella palestra per il suo periodo di ginnastica obbligatoria.

Siamo strane creature. I mammiferi esalano degli odori che rendono i maschi aggressivi, e tutti noi nervosi quando siamo insieme, e poi impacchettiamo insieme tutta una folla di gente per un anno e più in una minuscola scatola, e gli chiediamo di essere simpatici.

In effetti, non è che a Virginia importasse poi tanto di quell'odore. Non le importava neppure degli uomini.

Non sono loro la ragione per cui ho accettato l'esilio nel ventiduesimo secolo, cavalcando un frammento di ghiaccio e polvere di stelle, diretto fuori verso la Grande Notte.

Virginia aveva le proprie motivazioni. Per lei, offrirsi volontaria per il Progetto Halley aveva poco a che fare con l'intruppare comete per il raccolto.

Si spogliò, rimanendo in calzoncini, e salì su una bicicletta ergonometrica attaccando le cinghie per il biomonitoraggio. Virginia spinse sui pedali accelerando fino a quando il piccolo schermo non le mostrò che stava soddisfacendo gli ordini del dottor van Zoon.

La palestra per gli allenamenti si trovava nella ruota gravitazionale della Edmund Halley, dove la maggior parte dell'equipaggio sonnecchiava durante i periodi di sonno in condizioni di peso. Virginia capiva la necessità di consentire al sangue e alle ossa di avvertire l'Antica Attrazione di tanto in tanto per mantenersi in forma. Ma quelle sedute trisettimanali con le cinghie, le pulegge e gli ergonometri le davano l'impressione di qualcosa davvero ai confini della logica.

Aveva considerato la possibilità di manipolare il flusso dei dati diretti al centro medico, inserendo un feedback simulato da parte di tutte quelle macchine per la ginnastica. E avrebbe anche potuto farlo. Virginia non aveva nessuna modestia circa la sua competenza nel campo dell'Intelligenza Dati. Lefty d'Amaria poteva anche essere il capo della sezione, ma là lei era la migliore.

Oh, be', immagino di averne bisogno pensò, mentre pigiava vigorosamente sui pedali. Il sudore cominciò a schizzarle dai pori, luccicando sulla sua pelle olivastra.

Di solito era orgogliosa del suo fisico sempre in forma e ci teneva a conservarlo. A casa, alle Hawaii, aveva avuto l'abitudine di fare il surf ogni secondo giorno. Ma adesso pareva che dovesse scrollarsi di dosso un'apatia che la sovrastava ancora dopo un anno di sonno ibernato. Ancora tre settimane prima era stata in animazione sospesa, con le funzioni vitali che ticchettavano appena al di sopra del punto di congelamento. Forse era la perdurante pigrizia dovuta ai farmaci assunti per la «bara» criogenica che la rendevano così riluttante a scendere in palestra.

Be', dal momento che sono qui, cerchiamo di fare le cose alla maniera giusta.

Ci dette dentro, fingendo di pedalare lungo il ponte di Linai-Maui. Il rombo onnipresente della ruota gravitazionale si dissolse in un sottofondo immaginario di acque e venti ruggenti. Virginia immaginò che la porta davanti a lei potesse farla uscire, spalancandosi di colpo sulla gialla luce del sole e il ricco profumo dell'ananas.

Dopo l'esercizio, i suoi muscoli erano caldi e tesi. Ed era bello dopo la doccia passare un po' di tempo a pettinarsi i lunghi capelli neri. Comunque, reinfilarsi il suo scialbo pullover fu un promemoria più che sufficiente. Maui si trovava a cento milioni di miglia da lì.

Ha fatto la tua scelta, ragazza. Ci sono cose da compiere, qua fuori… cose perfino più importanti, per te, che rimanere nella Terra del Popolo Dorato.

Decise di compiere una rapida passeggiata intorno alla ruota della gravità prima di tornare in quella porzione della nave in cui vigeva la caduta libera. Virginia s'incamminò con le sue lunghe gambe nella direzione contraria al senso di rotazione della ruota. Pareva che non ci fosse nessuno in giro. Il dottor Marguerite von Zoon non stimolava gli spaziali a visitare la palestra in quel periodo. In quel momento, i poveracci sudavano fin troppo ed erano esentati dall'ossessione del medico di Walloon per la ginnastica.

Il giro di Virginia lungo il corridoio periferico la fece passare davanti a una delle scale a pioli fissi e oltre, fino alla porzione della ruota occupata dai laboratori. Le porte erano tutte chiuse, così non avrebbe saputo dire se in quel momento la sezione delle Scienze Biologiche veniva usata. Si fermò accanto alla porta, la mano esitante, mezzo sollevata verso il campanello.

Oh, suvvia, Ginnie, Saul Lintz non ti morderà di certo. Perché tutti questi palpiti al cuore come se tu fossi ancora una ragazzina?

Tutto quello che lei sapeva era che quell'uomo l'affascinava, più di quanto avesse sperimentato nei confronti di qualcuno, da molti anni a questa parte. Era forse dovuto alla sua esperienza con la vita? Oppure l'espressione dei suoi occhi: perseveranza e una tranquilla energia?

Da quando era stata disibernata, aveva sperato che le dicesse qualcosa, che facesse una qualche prima mossa. Era stato frustrante, alla fine, rendersi conto che lui, semplicemente, supponeva che lei lo vedesse come una figura paterna. Ciò aveva ridotto Virginia a chiedersi se non avesse dovuto tentare lei stessa un primo approccio.

La sua esitazione, con la mano a mezz'aria davanti al campanello, durò fino a quando non si sentì ridicola.

Sembrerebbe così artificioso se adesso piombassi dentro. Cosa potrei dire?

Più tardi avrebbe avuto l'opportunità di organizzare qualcosa di più usuale. Dopotutto, se c'è una cosa che non ci manca, è il tempo.

Per lo meno, quella sarebbe andata bene come scusa. Oh, se soltanto fosse stata in grado di capire la gente anche solo la metà di come capiva le macchine! Girò su se stessa e se ne andò, senza disturbare il campanello.

Mentre percorreva il corridoio periferico, ebbe modo di osservare in quanti modi la Edmund Halley era invecchiata durante l'anno trascorso. I corridoi non risplendevano più. I pannelli alle pareti, un tempo lucidi e dai colori armonizzati, si erano incurvati, e in alcuni punti formavano vistose pieghe. La vecchia ragazza non aveva cominciato quella missione proprio nel fiore della sua giovinezza, e a nessun vascello delle sue dimensioni era mai stato chiesto prima d'ora di accelerare fino a una meta così lontana, e per tanto tempo. Lo sforzo era visibile.

Virginia era convinta che niente l'avrebbe più sorpresa, ma quando di avvicinò a un'altra di quelle scale a pioli, si fermò e la fissò.

Oh, non può essere così brutta!

Uno degli sfiatatoi dell'aria gocciolava sul corridoio curvo. Chiazze di muffa verde-scura scolorivano il pavimento dove l'effetto Coriolis aveva spinto una piccola pozzanghera contro la parete.

Le generose labbra di Virginia si contrassero per il disgusto mentre scavalcava con cautela quella muffosa infestazione e si arrampicava su per l'umida scala verso l'asse di rotazione, facendosi un appunto mentale di riferire la cosa al servizio manutenzione. Era difficile credere che fosse stata lei a scoprirlo.

I pioli premettero contro il suo corpo quando cedette velocità angolare alla rotazione della ruota. Il condotto lungo cui correva la scala a pioli fissi era malamente illuminato, umido e fin troppo puzzolente. Soltanto la metà dei pannelli fosforescenti di quel pozzo funzionavano, facendo assomigliare un po' quella salita ad un'escursione attraverso la fogna di una città.

È una buona cosa che gli habitat della Halley siano quasi pronti pensò. Questa chiatta scricchiolante ha bisogno di una lunga revisione.

I quattrocento membri della spedizione avrebbero avuto ben poco da fare durante tre quarti di secolo… soltanto indagare sui misteri di uno dei maggiori nuclei cometari… controllare la velocità di sublimazione e gli sbalzi direzionali provocati dalle influenze gravitazionali… un altro periodo impegnativo fra trent'anni o giù di lì, quando Halley fosse arrivata al punto più lontano dal Sole, e lei, Virginia, avrebbe dato una mano a calcolare i parametri per la Grande Manovra, la più importante… poi la lunga caduta verso Giove, e infine a casa.

Per la maggior parte del tempo intermedio, quasi tutti sarebbero rimasti addormentati, in animazione sospesa, quasi senza sognare, accumulando la paga sulla Terra. Sarebbe stato allora che le piccole squadre addette, a rotazione, ai turni di guardia, avrebbero lentamente rimesso in sesto la povera Edmund.

Sette decenni avrebbero dovuto essere un periodo più che sufficiente. Avrebbero fatto meglio ad esserlo. Una volta che Halley avesse eseguito il suo prossimo fiammeggiante tuffo dentro la parte interna del sistema solare, quella vecchia tinozza avrebbe dovuto essere in condizioni abbastanza buone da riportarli a casa.

Salendo, una mano dopo l'altra, Virginia sentì il suo peso filtrar via dentro la scala, nell'avvicinarsi ai borbottanti cuscinetti a sfera, dove la gravità nulla dello spazio ritornava. Le quattro gallerie con le scale a pioli si congiungevano in una piccola stanza rotante di forma ottagonale.

Poco prima di raggiungere il fulcro, tuttavia, Virginia sbatté gli occhi stordita per la sorpresa nel vedere una piccola perdita di lubrificante, che spruzzava un sottile vapore untuoso dentro il corridoio.

So che la maggior parte degli spaziali della Edmund sono stati chiamati a lavorare nel nucleo di Halley, comunque non c'è nessuna scusante per una cosa del genere! Avremo bisogno della ruota ancora per parecchio tempo!

— Disgustoso — mormorò a bassa voce. — Semplicemente disgustoso.

Fu allora che una voce parlò da un punto oltre il sottile spruzzo oleoso.

— Sono d'accordo, Virginia.

Virginia sollevò lo sguardo di scatto. Un uomo leggermente obeso, con la divisa grigia della nave, fluttuava accanto a una delle due uscite. La sua ampia bocca slava era atteggiata a un'espressione amareggiata. Un berretto di lana era calcato sopra i radi capelli castani chiazzati di grigio. Le sue braccia erano lunghe e possenti, ancora di più dal momento che non aveva gambe.

Lo spaziale di seconda classe Otis Sergeov non era mai parso particolarmente impacciato dal suo handicap. Al contrario, pareva che questo lo rendesse più veloce in condizioni di microgravità. Virginia aveva sentito dire che adesso Sergeov era stato assegnato come aiuto a Joao Quiverian e agli altri astronomi che studiavano la cometa di Halley.

Era il percell più vecchio che Virginia avesse mai incontrato.

Essere uno dei primi aveva i suoi svantaggi. I famosi primissimi lavori di Simon Percell nel campo della chirurgia genetica avevano permesso ai genitori di Sergeov di avere dei bambini. Ma un difetto cromosomico gli aveva dato soltanto dei moncherini sotto i calzoni.

— Oh, ciao, Otis — lo salutò Virginia. — Bisognerà far qualcosa. Qualcuno ha già fatto rapporto?

Lo spaziale russo scrollò le spalle. — Cosa diavolo serve riferire cosa del genere? Nessuno fa niente, di sicuro — brontolò amareggiato, in un misto di russo e d'inglese. — Quei stchahai… cretini!

Virginia ammiccò più volte a quell'apparente non sequitur. Naturalmente il capitano Cruz avrebbe subito ordinato che venissero fatte le riparazioni, quando gliel'avesse detto…

Poi notò che Sergeov neppure guardava la perdita di lubrificante. Virginia si lasciò trasportare dalla lenta rotazione dell'asse fino a trovarsi alla stessa altezza dell'uomo, poi passò di fianco allo spruzzo intermittente e si spinse via con forza.

La stanza ottagonale parve roteare intorno a lei. Dovette afferrare due volte un appiglio gommato per riuscire a stringerlo saldamente, e anche così il suo corpo andò a sbattere contro la parete imbottita. Non mi riuscirà mai di farlo alla maniera giusta! pensò mentre cercava di riorientarsi.

Sergeov le indicò qualcosa. — Pensi che i burocrati ortho faranno qualcosa per questo, eh? — sbottò. Questo?

Virginia ammiccò di nuovo. Sergeov stava fissando, furioso, un graffito tracciato sulla paratia vicino ai borbottanti cuscinetti a sfere dell'asse.

— Arco del sole. — Sergeov identificò il simbolo in tono caustico. — Quei kakashkiia bastardi ci hanno seguito, perfino qua fuori!

— L'ho visto altre volte — disse Virginia, con voce sommessa. Si sentiva un po' col fiato corto davanti a quella vista inaspettata. — Perfino alle Hawaii…

— E allora? — l'interruppe Sergeov, sprezzante. — Perfino nella Terra del Popolo Dorato? Perfino nel vostro paradiso tecno-umanistico?

Virginia corrugò la fronte. Sulla Terra, durante il periodo di addestramento per la missione, aveva sviluppato una viva antipatia nei confronti di Sergeov, percelliano o no che fosse. Lui aveva passato quasi tutta la sua vita nello spazio, trasformando i suoi inconvenienti fisici in vantaggi in caduta libera, eppure tutte le volte che lo incontrava si sentiva a disagio, come se quell'uomo irradiasse un'amarezza da troppo tempo repressa.

Promise a se stessa che avrebbe usato il proprio computer per insinuarsi tra le file del personale. Avrebbe fatto in modo di non condividere mai lo stesso turno fuori dalle capsule ibernanti durante i settant'anni che li aspettavano.

— Arrivederci, Otis. Ho del lavoro da fare. — Ma lui la fermò, afferrandole il braccio.

— Tu sai che questo non è il primo incidente — disse. — È soltanto quello più appariscente. Alcuni archisti — aggiunse, in tono beffardo, — si rifiutano anche soltanto di parlare ai percell che si trovano a bordo. Ci evitano come se fossimo xherobiy… impuri!

Virginia scrollò le spalle. — Tutti si sono trovati in condizione di forte stress, di recente. Ciò cambierà non appena gli habitat saranno stati completati, e una volta che la gente avrà trovato di nuovo lo spazio per muoversi. Quando avremo sgelato un po' di gente dai trasporti e avremo modo di vedere qualche faccia nuova, tanto per cambiare…

La stretta di Sergeov era ferrea, dopo aver trasportato per anni apparecchiature spaziali. — Potrà alleggerire i sintomi — insisté, — ma la malattia continuerà. Hai visto com'era la Terra quando siamo partiti. Uno dopo l'altro, quei shlyoocha dei paesi della Cintura Calda hanno approvato leggi che restringono i nostri diritti… i diritti di tutta la gente geneticamente migliorata!

Virginia voleva soltanto che quell'uomo le lasciasse libero il braccio. Si sforzò di ragionare con lui.

— Le nazioni dell'America e dell'Africa equatoriale hanno vissuto un secolo infernale, Otis. Neppure a me piace la svolta speciosa assunta dalla loro ideologia negli anni più recenti, ma per lo meno oggi sono ambientalisti. Se sono diventati un po' fanatici in quella direzione, be', chiunque ammetterà che è un miglioramento rispetto al modo in cui si comportavano i loro nonni. Il pendolo tornerà indietro un'altra volta.

A Virginia non piaceva l'espressione della faccia di Sergeov. La guardava come se lei fosse penosamente, perfino criminalmente ingenua.

— Tu lo pensi davvero? Ma no, mia cara, giovane percell. Questo è soltanto l'inizio. Sono già in guerra con noi!

Il suo volto non rasato si fece più vicino. — E chi può biasimarli? Quando l'Homo Sapiens si sveglierà accorgendosi di ciò che sta succedendo, una repressione sempre più violenta si scatenerà contro di noi, la Razza dei Successori. Qui sono in gioco nientedimeno che le generazioni future!

— Oh, suvvia, Otis. — Virginia scoppiò in una risatina secca, cercando di alleggerire il tono. — Non è che pochi percell rappresentino il passo successivo dell'evol…

— No, ascolta tu, ragazza! — Gli occhi di Sergeov si strinsero. — È questa la ragione principale di tutta questa paranoia, di questa persecuzione! È difficile biasimare i neanderthal per aver cercato di proteggere la loro forma obsoleta, dopotutto. Le specie proteggono se stesse.

«Ma ciò non significa neppure che possiamo permettere che dei bastardi ci schiaccino. Sta a noi agire per primi, o perire!

Anche se erano chiaramente soli, Virginia si guardò rapidamente intorno. Non voleva trovarsi in giro se quei discorsi sediziosi potevano venir ascoltati da qualcuno. Senza sprecare nessun movimento, usò una mossa di judo per liberarsi da quella stretta, districando il braccio con forza e mandando l'uomo a roteare all'indietro. Sereov batté la testa contro la paratia nuda.

— Auh! — protestò, stupito e offeso. — Yayatamiy! Govenka! Perché l'hai fatto?

— Voi estremisti uber non avete la risposta — sibilò Virginia. — Voi finite soltanto per procurare ai percell una cattiva fama parlando così. Noi non siamo i superuomini di Nietzsche. Siamo soltanto esseri umani fraintesi. È tutto!

Sergeov fece una smorfia, sfregandosi la testa. — Chiedi agli esseri umani regolari, gli ortho, se ci considerano fratelli — borbottò.

Spingendosi lungo le pareti con le mani, Virginia arretrò come un pesce davanti a uno squalo, anche se Sergeov non mostrava nessuna inclinazione a seguirla. Una volta in fondo al pozzo, a pochi metri da lì, si girò di scatto a prendendo lo slancio con un calcio infilò il corridoio fiocamente illuminato diretta al suo rifugio.

Ogni cosa, nalla capsula privata da lavoro di Virginia, era ordinata, pulita, efficiente. Gli schermi e le immagini olografiche opalescenti che circondavano il suo letto a rete, tutto funzionava alla perfezione. Lontano da casa e da tutto ciò che aveva conosciuto, perfino sfrecciando fuori dal sistema solare a trenta chilometri al secondo, quello era il centro del suo universo. Si accertò una volta di più che tutto funzionasse a dovere.

Ufficialmente il suo ruolo era quello di fornire un aiuto specialistico alla Sezione di Calcolo. Ma in realtà aveva intrigato per riuscire a partecipare a quella missione con la speranza di riuscire a portare avanti parte della propria ricerca. Nel tipo di ambiente scientifico che si stava sviluppando sulla Terra, il genere di cose che le interessavano venivano guardate con sospetto.

Computer bio-organici, macchine in grado di pensare sul serio… Quelli erano campi che erano stati diagnosticati come improbabili, perfino pericolosi, da una scienza del ventunesimo secolo sempre più conservatrice. Perfino nelle sue natie Hawaii i suoi superiori si erano mostrati sempre più a disagio a causa dell'attenzione che il suo lavoro attirava dal mondo esterno.

Ma io so che i bio-organici potranno alla fine battere il silicio e l'arseniuro di gallio! E le macchine possono fare di meglio che limitarsi meccanicamente a pompare l'acqua o a tagliare il legno come tanti idioti. I processori stocastici possono essere indotti a pensare.

A destra, ficcata sotto il ripiano d'una scrivania, c'era una tozza scatola che conteneva la sua speciale unità di simulazione; l'organo Keimar computerizzato le era costato quasi tutta la piccola dotazione di effetti personali concessa a ciascuno di loro, ma ne era valsa la pena.

Le luci sul pannello s'incresparono quando il portello sibilò e si richiuse dietro di lei, e lei si lasciò scivolare sul letto a rete. Quindi si affibbiò la cintura e parlò, con voce sommessa:

— Ciao, JonVon.

Lo schermo dell'olo principale brillò:

CIAO, VIRGINIA.

OGGI SI LAVORA O SI GIOCA?

Virginia sorrise. Senza dubbio, negli ottant'anni che l'aspettavano, sarebbero stati compiuti molti progressi. Doveva succedere — perfino in mezzo al più ostinato conservatorismo scientifico.

Ma in quel momento il suo protetto era il migliore che ci fosse, non convenzionale: usava una tecnologia assolutamente bandita a casa, ma a suo giudizio la migliore di tutte come efficienza.

Aveva chiamato l'unità col nome di John von Neumann, l'inventore della teoria dei giochi. Il programma-mainframe poteva mimare dieci modelli di reazione umana tanto bene da superare un test di Turing del terzo stadio… ingannando una persona che non fosse al corrente nel corso d'una normale conversazione di cinque minuti al videotelefono, inducendola a pensare che il volto e la voce all'altra estremità fossero quelli d'una persona reale, e non di un computer.

JonVon poteva perfino raccontare barzellette sporche, ridacchiando maliziosamente al momento giusto.

Senza precedenti, sì. Ma esibizioni come quella non rappresentavano una vera «intelligenza della macchina», non alla maniera che Virginia riteneva possibile.

L'hardware molecolare di quella scatola da cinque litri avrebbe dovuto essere sufficiente a modulare un'onda complessa dello stesso tipo di quella presente in permanenza in un cervello umano. Ne era sicura. Naturalmente, là sulla Terra non erano d'accordo, e così non gli era mai stata data una vera possibilità.

Durante le prossime settimane avrebbe avuto poco tempo per impegnarsi nei propri esperimenti privati. Avrebbe dovuto usare tutta la sua attrezzatura, JonVon compreso, per integrare il mainframe della nave. Quasi tutte le sue energie erano dedicate a preparare quei modelli matematici che gli spaziali del capitano Cruz continuavano a esigere.

Più tardi, però, durante i suoi anni del turno di guardia, avrebbe avuto il tempo di farlo. Il tempo per lavorare e per pensare senza dover diluire i propri pensieri.

Nel ventesimo secolo sapevano come osare, realizzando i sogni più audaci pensò. Non credevano che vi fossero limiti.

Era una delle ragioni per cui le piacevano i vecchi film su schermo piatto… le piaceva simulare le stelle cinematografiche dei vecchi tempi e i poeti di tanto tempo fa.

Quella gente ha quasi distrutto il mondo a causa della sua avidità, ma loro credevano nell'ambizione. Non si sarebbero fermati fino a quando non avessero avuto delle macchine in grado di pensare.

Lanciò un'occhiata all'orologio inciso in maniera indelebile sotto l'unghia del pollice sinistro. — Che ne diresti di venti minuti di distrazione, Johnny? — Virginia sollevò un cavo dalla consolle e mise allo scoperto un bozzolo biancastro sulla sua nuca. Una volta stabilito il collegamento, con un «clic!», i simboli sullo schermo furono accompagnati da una ricca voce dentro la sua testa:

POESIA, VIRGINIA?

Lei si affrettò a rispondere, d'impulso, con una sfilza di versi:

Ka Honua
— La Terra, mia patria,
E hoomanao no au ia oee
— Mi ricorderò di te.
Mi chiedo cosa
gli piaccia fare.
E se può concedermi
il tempo del giorno?

La linea del suo nervo acustico ronzò:

STILE MISTO, VIRGINIA?

LA SECONDA PARTE SI APPLICA ALL'AMORE?

Virginia arrossì. — Oh, zitto, sciocco. Suvvia, adesso, diamo un'occhiata alle sottoroutine della tua conversazione.

CARL

Le lastre di ghiaccio polveroso erano chiazzate e venate di marezzature e iridescenze, butterate e graffiate.

Carl Osborn fece ruotare la sua navetta da lavoro e si propulse verso il nucleo di Halley. Volò via dalla linea dell'alba nitida come un rasoio, dirigendosi verso il polo Nord, dove la loro base stava finalmente prendendo forma.

Adesso la superficie granulosa grigia e bruna stava cambiando rapidamente. Come minuscole, grasse formiche i mech si muovevano su di essa, prepara'ndo le aree dei moli e delle torri di attracco. I ragni trivellavano i fori dentro il ghiaccio, l'interminabile zzzzzttts delle microonde tracimava debolmente su alcuni canali dei dati. Carl borbottò un rapido comando correttivo al filtro del comunicatore della sua tuta, e l'interferenza cessò.

Il Pozzo 3 era quasi terminato, un foro simile a un'occhiaia morta. Il primo gruppo delle capsule ibernanti sarebbe stato portato là sotto tra non molto. Un chilometro di ghiaccio avrebbe fatto da scudo ai dormienti, proteggendoli dal pungolo fatale dei raggi cosmici e dal grandinare delle tempeste solari.

Qua e là incisioni casuali circondavano il pozzo. Le scariche delle celle di combustibile dei mech avevano butterato la crosta ghiacciata. Apparecchiature rotte giacevano là dove le squadre le avevano abbandonate. Le perdite chimiche si erano condensate in polverulente chiazze verdi e gialle. Travi, cartucce soniche, giacche antiurto scartate giacevano dovunque. Ciò che l'umanità ha intenzione di studiare pensò Carl con amarezza, per prima cosa lo insudicia.

Appena visibili al di sopra dell'orizzonte curvo, cominciavano ad apparire lentamente, adesso, al di sopra della linea dell'alba, i neri pannelli per la soppressione del gas. Rappresentavano un esperimento in corso, corazzati contro gli sciami di polvere ad alta velocità, e concepiti per generare elettricità dalla luce solare. La loro ombra riduceva la dispersione dei gas verso l'esterno da un ottavo della superficie del nucleo di Halley, introducendo un'asimmetria nell'evaporazione. I pannelli potevano venir ruotati, così da imprigionare anche il calore, aumentando la dispersione verso l'esterno sul lato notturno del nucleo. L'effetto netto era una debole spinta persistente che, col tempo, avrebbe potuto alterare in maniera sensibile l'orbita della cometa.

O per lo meno, era quello che si diceva. Per Carl, quei grandi pannelli neri avevano costituito una settimana di lavoro noioso e impegnativo: erano troppo delicati per consentire che i mech facessero qualcosa di più che tenerli fermi, mentre lui e Lani Nguyen e Jeffers li avevano montati sulle robo-braccia che li avrebbero fatti ruotare. Gli astroingegneri si stavano ancora arrabattando con i congegni che accumulavano dati da analizzare durante il lungo viaggio verso l'esterno.

Era difficile distinguere fra le attrezzature d'un esperimento tuttora in corso e la spazzatura lasciata dal giorno prima. Carl si chiese fino a qual punto il nucleo di Halley avrebbe finito per insozzarsi. In quasi ottant'anni avrebbero potuto benissimo ridurre a un'immensa pattumiera perfino tutta quella vasta distesa di ghiaccio.

Carl riusciva a intravedere una sottile striscia nera che sbucava dall'ombra lungo la linea dell'alba: il cavo polare. Avvolgeva il nucleo di Halley da un polo all'altro, e incrociava il cavo equatoriale formando un esatto angolo retto, ma separato da esso di parecchi metri per motivi di sicurezza. Quei binari fornivano un modo veloce per sfrecciare intorno alla superficie. Comunque, Carl li usava assai raramente. Gli piaceva liberarsi del tutto dal tetro giogo del ghiaccio, nuotando nella serena oscurità che sovrastava il tutto.

Fra lui e quel mondo di ghiaccio, a forma di patata, che ruotava lentamente, c'era uno sciame di mech sotto la sua supervisione. Digitò alcune istruzioni sulla consolle che teneva sulle ginocchia, borbottando automaticamente frasi in codice, inducendo quei punti lontani a girare il loro fardello: un gigantesco cilindro arancione. La sua superficie levigata rifletteva il lontano bagliore del Sole.

— Canale D a Osborn. Davvero grazioso, no? — trasmise Jeffers da sotto.

—  Be'…

Colore orrendo pensò. Ed è il rivestimento interno del corridoio. Dovremo guardarcelo per settant'anni. I mech scesero più in basso, inclinando il cilindro verso il Pozzo 3, seguendo le sue istruzioni. Il nucleo di Halley compiva una rotazione completa ogni cinquantadue ore, abbastanza velocemente per rendere necessarie delle regolazioni mentre si avvicinavano. A quella distanza, 8,3 chilometri diceva il suo quadro di controllo, c'era anche una sottile nebbia dovuta alla chioma cometaria in dissolvimento che offuscava le immagini e rendeva difficoltoso l'impiego del suo programma di allineamento automatico.

In caso di cattivo funzionamento, aveva un sistema di appoggio a bordo della Edmund. Ottimo, in teoria, ma nel tempo che avrebbe impiegato per avere qualcuno in linea, i mech potevano benissimo, in perfetta obbedienza, cercare di ficcare il cilindro dentro una collina di ghiaccio. Malgrado la fervida fede di Virginia, i computer non potevano fare più di tanto. Da lì in avanti bisognava navigare a vista.

— Lo porto dentro piano — trasmise.

— Pare si sia orientato verticalmente giusto di un pelo. Ma due clic troppo in alto lungo l'asse y locale — rispose Jeffers.

Carl abbassò lo sguardo, ricalibrò, vide che Jeffers aveva ragione. — Maledizione.

— Sei okay?

— Sì. Continua a tenere accesi quei fari.

I quattro allineatori laser inquadrarono chiaramente il Pozzo 3, e Carl fece assumere ai mech la configurazione usando quei segnalatori luminosi. Una lieve variazione di velocità, una torsione compensatrice. Il quadro di comando approvò lo spostamento. Bene. Ma adesso il ghiaccio frastagliato si stava avvicinando in fretta, e…

La gravità. Si era dimenticato della dannata forza di gravità. Il nucleo di Halley esercitava un'attrazione che era soltanto un decimillesimo di quella della Terra… ma durante la sua mezz'ora di discesa dal trasporto a vela solare la velocità era aumentata… di poco, ma costantemente… Digitò una correzione, osservando l'equazione numerica scorrere via, increspandosi, sul suo quadro di comando.

Le luci lampeggiarono rosse. — Sto frenando — trasmise, e accese i retrorazzi dei mech.

Maledizione alla gravità, comunque. Carl era stato su Encke, aveva lavorato intorno al nucleo roccioso della cometa per settimane, un sacco di brontolamenti e di sudate nei momenti cruciali. Comunque, era sostanzialmente facile, se si faceva attenzione a far coincidere i propri vettori, se non si spingeva nessun altro punto salvo il centro della massa, e si lavorava con calma sempre con la testa sulle spalle.

Ma Encke era un nanerottolo… una antica cometa sfrondata, abbrustolita dal sole a causa del suo lungo soggiornare nel sistema solare interno. Halley aveva molta più massa, per la maggior parte di ghiaccio. Sulla sua superficie non ci si accorgeva mai della leggera attrazione, ma avvicinandosi così dall'esterno, prendendo il tempo necessario a mirare con cura, gli effetti di quel decimillesimo di gravità potevano sommarsi.

I getti azzurri dei mech si aprirono a ventaglio contro il fondale di ghiaccio, rallentando il carico. D'un tratto Carl vide che non era sufficiente. Quel poderoso cilindro lungo cento metri si stava avvicinando troppo in fretta.

Ordinò al mech che si trovava più in basso a babordo di girarsi e attivare i getti alla massima potenza. L'unità ruotò e accese la propria riserva.

— Cosa diavolo fai… — cominciò Jeffers.

— Sgombra il pozzo!

— Cosa…

— Sgombralo!

La procedura standard consisteva nel far adagiare il carico a una cinquantina di metri di distanza, per poi spingerlo dentro. Il suo pannello gli diceva che una manovra del genere era impossibile. L'istinto gli suggeriva di tentare qualcos'altro.

Azionò i propri getti, scattando in avanti e quasi raggiungendo il cilindro. Un tocco da parte del mech di tribordo situato più in basso, due rapide torsioni, una scossa laterale per allinearlo…

Una freccia che cadeva dall'alto, puntata contro un cerchio nero raggrinzito.

Il cilindro arancione colpì il labbro del Pozzo 3, rallentò, frantumò un bordo di ghiaccio, e proseguì dentro, seminando fiocchi dello spazio.

Come un pesce in un barile! gioì, mentre il cilindro scompariva dentro il foro.

Jeffers urlò: — Ehi! Cosa ti viene in mente?

— Mi è scappato.

— Col cavolo! Ti stai soltanto esibendo.

Carl fece pulsare i propri getti e atterrò agilmente sui piedi. — Vorrei proprio! Niente da fare, l'ho corretto all'ultimo momento. Ho pensato che fosse meglio tentare di far centro piuttosto che bruciare del carburante per decelerare. Specialmente considerando che in ogni caso non avrei potuto fermarlo.

Jeffers scosse la testa esasperato. — Esibizionista — insistette. E andò a controllare che non fossero rimasti in giro brandelli del materiale.

Non ce n'era nessuno. Liscio e a prova di spuntoni, l'intreccio di filofibra poteva flettersi intorno agli orli aguzzi, il che lo rendeva eccellente per rivestire le gallerie serpeggianti all'interno del nucleo di Halley.

I quindici membri del Gruppo per l'Installazione dei Sistemi di Sopravvivenza avevano dieci giorni per traforare una frazione della regione del polo Nord, rivestire i pozzi e le gallerie con isolante ad alta pressione, e poi riempirli d'aria. Non sufficientemente lungo. E durante tutto quel tempo gli scienziati da poco risvegliati a bordo della Edmund avrebbero morso il freno.

Anche con 112 mech sarebbe stato un programma molto impegnativo. Non c'erano più di tante mani a guidarli. Al momento, l'intera spedizione disponeva soltanto di 67 membri «vivi». Quasi 300 aspettavano nelle capsule del sonno, le loro temperature corporee erano all'incirca di un grado al di sopra del punto di congelamento.

In alto, le lunghe e sottile chiatte spaziali aspettavano con il loro carico umano. Le loro immense vele solari, sottili come garze, adesso erano ammainate, non più necessarie per altri settant'anni. Accanto alla Edmund, simile ad una balena, le argentee Sekanina, Delsemme, e la Whipple, parevano pazienti barracuda.

Ancora nessuna notizia della Newburn, pensò Carl. Com'era possìbile che si fosse persa?

— Voi ragazzi state bene? — arrivò da qualche parte la voce leggera e tintinnante di Lani Nguyen.

Carl si guardò intorno e scoprì un puntolino che diventava rapidamente più grande a mano a mano che si avvicinava sfrecciando lungo il cavo polare. Aveva un braccio serrato sul cursore del cavo, mentre agitava l'altro, assomigliando straordinariamente a un uccello a volo radente che sbattesse un'ala soltanto.

— Sì, bene — trasmise Jeffers.

— Mi era parso di sentire che c'era un guaio…

La donna si staccò dal cavo balzando verso di loro, girandosi con destrezza per spostare il proprio baricentro ed evitare di mettersi a ruotare su se stessa a causa della spinta dei propri getti. È in gamba pensò Carl. Maledettamente in gamba. La delicatezza eterea di Lani mascherava un fisico saldo e muscoloso. Ma perché venire a controllare di persona un malfunzionamento di poco conto?

— Niente di speciale — rispose.

— Be', io avevo già finito, stavo giusto per tornare dentro. — Atterrò con l'agilità di un gatto a dieci metri di distanza, sollevando soltanto una nuvoletta di polvere. — Volete fare una sosta?

— Non possiamo — replicò Jeffers. — Dobbiamo controllare il tubo, assicurarci che si fissi bene.

Lani guardò Carl. — È un lavoro di routine, non dovrebbero volerci due persone.

Carl disse: — Se non stiamo attenti alla sicurezza, Cruz ci farà una testa così.

La donna lo studiò attraverso il suo casco sporco di polvere. — Sei sicuro? Non è già passata l'ora in cui dovevi smontare?

— Ehi, non ho intenzione di lavorare solo, ragazzina — dichiarò Jeffers, bonario ma fermo.

Lei scrollò le spalle. — D'accordo. Volevo soltanto un po' di riposo e relax. Sono in anticipo di una frazione sul programma.

— Ci vediamo stasera, allora. — Jeffers le lanciò un'occhiata di apprezzamento, ma lei parve non accorgersene.

— D'accordo — lei disse, rivolta a Carl. — Stasera. Decollò con altrettanta grazia e puntò verso il pozzo principale.

— Non me ne dispiacerebbe affatto — commentò Jeffers con aria sognante, su un canale chiuso. Carl l'ignorò.

— Presto dovremo pensare ad accoppiarci.

— Fra un mese sarai un ghiacciolo.

— Bisogna pensarci in anticipo.

— Pensi di riuscire a convincerla a fare un turno con te? — gli chiese Carl.

— Potrei. Poi sarò solo e gelato.

Carl scoppiò a ridere. — La tua idea dei preliminari sono sei birre e una partita a biliardo. Lei non è il tuo tipo.

— La necessità può creare degli strani compagni di letto. Non è stato Shakespeare a dirlo?

— Limitati al lavoro mugugnoso: è la tua forza. — Diede a Jeffers un'amichevole spinta verso l'ingresso del pozzo.

— Non puoi biasimare qualcuno soltanto perché vuol provarci.

— Su, vieni. Sei con la lingua penzoloni.

Si fecero precedere dai loro mech, in volo, giù attraverso l'asse cavo del cilindro arancione, liberando i ganci di arresto a mano a mano che passavano. Il tubo di filofibra s'irrigidiva, articolandosi in singole guaine lungo l'asse originario. Ogni due minuti, estrudeva da se stesso un nuovo segmento di cento metri, automaticamente pressurizzato e sigillato alle estremità, per poi cominciare a spingerne fuori un altro, ogni tratto successivo più stretto del precedente. Per Carl, tutto il complesso assomigliava a un anellide che si rigenerasse in continuazione, scavando una galleria dentro una mela.

Le gallerie laterali richiedevano maggiori cure. I mech tagliavano dei fori per le intersezioni, le saldavano garantendo una chiusura ermetica, e vi installavano gli estrusori dei tubi più piccoli. Carl e Jeffers dovevano manovrarli fino al punto stabilito, accoppiandoli e disaccoppiandoli, controllando giunture e saldature ermetiche, assicurandosi che niente s'impigliasse negli affioramenti di roccia o negli spuntoni di ghiaccio. Nelle gallerie, a volte si staccavano frammenti di agglomerato di ghiaccio, talvolta i mech erano maldestri, e fluttuavano liberi negli spazi bui, generando aloni multicolori intorno alle torce elettriche impiegate dagli uomini. Era un lavoro metodico, meticoloso, faticoso, perfino in condizioni di gravità quasi nulla.

L'intervallo per il pasto lo fecero in un segmento di galleria recentemente riempito d'aria. Aprirono il casco e si ormeggiarono a una parete, godendosi quella libertà, anche se l'aria fredda e pungente pareva colpire le loro narici come tante stilettate.

— Credi che ti abituerai mai — chiese Jeffers, masticando metodicamente una sbarretta di razioni autoriscaldate, — a vivere qua dentro?

Carl scrollò le spalle. — Ma sicuro. La ruota della ginnastica e la stimolazione elettrica si prenderanno cura della bassa gravità, così dicono i medici.

— Fidarsi di lor per ottant'anni? — Il volto magro di Jeffers pareva fatto apposta per esibire un'espressione scettica. La sua bocca si inclinava verso un mento appuntito, gli occhi si stringevano a punto interrogativo. — Comunque intendevo parlare del ghiaccio tutt'intorno. Senti come fa freddo? E questo con tutto l'isolante e il riscaldamento delle nostre tute che funziona a tutto spiano.

— Sarà un inverno mooolto lungo — Jeffers sogghignò. Ben presto avrebbe galleggiato beatamente nella sua capsula ad animazione sospesa, ed era chiaro che accarezzava quel pensiero. Jeffers era rimasto sveglio durante il volo verso l'esterno. Era stato noioso, e adesso il lavoro era duro e pericoloso. Era pronto perché altri prendessero il suo posto. Il primo turno.

Anche così, Carl non riusciva a capire l'atteggiamento di quell'uomo.

— Ci sono dei rischi in quelle capsule, sai. Malfunzionamenti del sistema, o anche…

— Lo so, lo so. La mia biochimica potrebbe incasinarsi in qualche maniera che gli esperti non hanno previsto. Oppure voi di guardia potreste toccare l'interruttore sbagliato, togliermi la corrente, e verrebbero a mancarmi le salvaguardie. Oppure un asteroide potrebbe colpirci tutti. — sogghignò un'altra volta. — Comunque, fra un paio di decenni sarà un altro viaggetto a senso unico.

Carl corrugò la fronte. — E allora?

— Preferisco dormire durante la parte monotona, accumulando la paga sulla Terra. — Il volto sottile di Jeffers si torse in un sorriso sardonico. — La colonizzazione delle comete nel sistema esterno… quello sì che sarà divertente. Ma posso saltare la politica del baciaculo.

— Cosa vuoi dire?

— Suvvia, anche tu sei percell. Sai com'è stata impostata tutta questa spedizione.

— Uh… come?

— Gli ortho! Sono loro che dirigono tutto. — Jeffers spuntò i nomi con le dita. — Cruz, poi Oakes, Matsudo, d'Amaria, Ould-Harrad, Quiverian. Ogni caposezione è un ortho.

— E allora?

— Loro pensano che noi siamo dei mostri… degli scherzi di natura.

— Oh, suvvia.

— Ma è così! Pensa a come gli ortho trattano i nostri sulla Terra. Credi che questi siano diversi?

— Non sono come quella masnada che ha incendiato il centro del Cile la settimana scorsa, se è questo che vuoi dire. Certo, ho letto di quella faccenda, e di quello che è successo negli altri posti. È una delle ragioni per cui lavoro nello spazio. Proprio come te.

— Lo spazio non è diverso.

— Certo che lo è. Questi ortho, questa gente, sanno che in realtà sono uguali a noi.

Jeffers ribatté in tono trionfante: — Ma non lo sono.

Carl sorrise senza umorismo. — Adesso, chi è che ha pregiudizi?

— Diavolo, sai benissimo che non siamo affatto come loro. — Jeffers si sporse in avanti, parlando con fervore. — Il nostro corpo è migliore, questo sicuro. E siamo più intelligenti. I test lo dimostrano.

— Col cavolo.

— Non puoi mettere in discussione le statistiche!

Carl grugnì irritato. — Ascolta, eravamo dei ragazzi-meraviglia là sulla Terra quando stavamo crescendo, prima che la gente cominciasse a mettersi contro noi tutti. Tutti i percell lo erano. Non ricordi le borse di studio? Tutte le attenzioni speciali?

— Ce le siamo meritate. Eravamo intelligenti.

Carl scosse la testa. — Ne siamo venuti fuori intelligenti grazie al trattamento da VIP che ci hanno riservato.

— Nooo. Io sono sempre stato più veloce dell'ortho tipico, anche se non mi preoccupo di parlare come si deve.

— E lo sei. Ma non sei meglio di gente come il capitano Cruz o il dottor Oakes. — Carl si alzò in piedi troppo in fretta e la sua presa velcro si strappò dal filofibra. Schizzò attraverso la galleria e sbatté la testa contro il soffitto.

— Dannazione!

Jeffers ridacchiò ma non disse niente. Carl si sfregò la fronte mentre ritornava veleggiando, ma rifiutò di lasciar trasparire la sua irritazione ulteriormente. Jeffers era come troppi percell, invischiato nella sua mania di persecuzione, cogliendo ogni immaginario affronto come se fosse una piaga purulenta. Discutere con loro serviva soltanto a incoraggiarli.

— Apri gli occhi — insistette il suo amico. — Chi hanno messo a fare dei lavori pericolosi come il nostro? I percell!

— Perché molti di noi sono addestrati ad operare a gravità zero. Abbiamo ricevuto delle borse di studio per poterlo fare.

— Allora, perché non affidare a un percell la direzione delle nostre operazioni manuali?

— Be'… non siamo ancora abbastanza vecchi. Nessun percell ha l'esperienza di Cruz o di Ould-Harrad, o di…

— Suvvia! Guarda chi sta facendo gli esperimenti sulla fuga dei gas verso l'esterno! E chi si fa i periodi più lunghi di sonno nelle capsule: tutti ortho.

— E allora?

— È là che ci saranno i quattrini, quelli veri! Impara come si fa a guidare le comete con la loro evaporazione, dimostra che puoi dormire e lavorare in turni di dieci anni… e potrai vendere il tuo talento dovunque nel sistema.

Carl non poté fare a meno di scoppiare a ridere. Non c'era dubbio che Jeffers stesse adottando la prospettiva lunga. — Suvvia, è…

— E la Sezione Chimica? Se qui dovessimo scoprire qualcosa che valga anche soltanto la metà dell'Enkon, sai chi ci guadagnerà? E anche lì sono tutti ortho, salvo Peters.

— Abbiamo firmato tutti un accordo sui brevetti. Qualunque tecnica venga scoperta, a tutti noi spetta una fetta, dopo aver recuperato le spese.

Il volto di Jeffers si contorse in un'acida maschera sardonica. — Gli ortho troveranno il modo di aggirare anche questo.

Carl sentì vacillare la propria convinzione. E se avesse ragione? Ma cancellò subito quel pensiero. — Senti, abbandona quel binario. Non possiamo continuare anche qua fuori nello spazio le stupide lotte della Terra.

— Non siamo noi a farlo, sono loro.

Esasperato, Carl fissò i resti del suo pranzo nella borsa. — Andiamo, preferisco lavorare piuttosto che litigare.

Comunque, quella sera si avvicinò preoccupato al bar del salone ricreativo, cercando Virginia. Lei era una percell ragionevole e poteva capire ciò che quel pomeriggio aveva con riluttanza ammesso a se stesso: che era in parte d'accordo con alcune delle accuse di Jeffers. Era il tono usato da Jeffers, quel suo modo di mettere ogni cosa in bianco e nero, che lo aveva irritato.

Prese un drink, si voltò per allontanarsi, e vide la scritta, sulla porta del bar, CHINATEVI O LAMENTATEVI, giusto in tempo per ricordarsene. Si chinò ed entrò nel salone. La prima settimana che erano a bordo, lui e gli altri percell avevano sbattuto la fronte contro l'architrave della porta una dozzina di volte; a quanto pareva i progettisti della Edmund avevano ritenuto che soltanto gli ortho socializzassero.

Lani Nguyen lo intercettò vicino al busto sorridente in tungsteno di Edmund Halley. — Ah, finalmente sei comparso.

Lani dava l'immediata impressione d'una efficiente progettazione aerodinamica, spaziale dai piedi alla radice dei capelli. I magri muscoli guizzavano sulle sue braccia nude color mandorla, ma il resto del suo corpo era avvolto in un abitino azzurro-ghiaccio che si muoveva nella lieve pseudogravità con graziosa e modesta indipendenza. A Carl piaceva l'effetto di quel tessuto rilucente che si attardava dietro i suoi precisi e delicati movimenti.

— Uhm, già, abbiamo avuto dei problemi con l'articolazione della galleria. — Esibì un sorriso cordiale, ma cercò di dare un'occhiata generale al salone senza farlo vedere.

Il dottor Akio Matsudo stava parlando animatamente con il tenente colonnello Ould-Harrad, il capo delle Attività Manuali. Attraverso l'oblò il nucleo di Halley risplendeva e fluttuava in sincronismo con le ruote-G della nave. Il capitano Cruz si teneva dritto come una bacchetta contro lo sfondo stellato, dominando facilmente la sala, circondato dal solito branco di signore ipnotizzate.

Dov'era Virginia?

— Oh? — chiese Lani con un sorriso lontano, in tutto simile a quello della statua del Buddha dietro di lei. — Ma non dovrebbe essere automatico?

Carl sbatté gli occhi. — Ehm… ci siamo imbattuti in un affioramento di macigni.

— Di solito, io mando un mech in avanscoperta a tagliarli via con una lancia termica. Poi…

Jeffers comparve dal nulla e Carl lo intrappolò. — Farai meglio a dirlo a questo tizio. È lui l'uomo di punta della nostra squadra. Ho una cosina da sistemare… — E fu libero, prima che la sorpresa stizzita di Lani si estrinsecasse in una protesta. Che anche Jeffers abbia una possibilità pensò Carl. Se la merita. Un po' ingiusto nei confronti di Lani, forse, ma c'erano pur sempre delle priorità, no? Vediamo, a quest'ora il suo turno dovrebbe essere finito…

Passò accanto al gruppo che circondava il capitano Cruz e d'impulso rallentò il passo. S'insinuò nel grappolo. Cruz parlava sempre a tutto il gruppo, senza mai consentire che qualcuno fosse escluso, e sorrise a Carl. — Come va laggiù, Osborn?

Carl rimase sorpreso nel sentirsi rivolgere la parola di persona. Aveva avuto soltanto l'intenzione di starsene lì ad ascoltare. — Uh, piuttosto dura, signore, ma possiamo farcela.

— Ho visto quel giochetto al Pozzo 3. — Cruz sollevò leggermente le sopracciglia e il suo sguardo spazzò il cerchio degli astanti. Malgrado fosse un ortho, un essere umano naturale, era alto come la maggior parte dei percell.

Carl sentì che il volto gli si surriscaldava. Doveva dire qualcosa, ma cosa? — Be', immagino di aver…

— Meraviglioso! Un centro perfetto! Mi è venuta voglia di applaudire. — Il comandante ridacchiò.

Carl era confuso. — Oh, io…

— È bello vedere un po' di audacia — dichiarò Cruz con calore.

Carl sorrise imbarazzato. Sa che era un errore? — Be', abbiamo un programma da rispettare.

— È vero. Vorrei soltanto che altre sottosezioni si muovessero altrettanto rapidamente.

Carl si chiese se fosse una critica velata. Ma Cruz sollevò la sua bolla di bourbon per brindare e, con viva sorpresa di Carl, la folla fece altrettanto. Carl nascose la sua confusione mandando giù una sorsata, scrutando la folla per vedere se vi fossero segni d'ilarità. No, facevano sul serio. Provò un improvviso piacere. Aveva sbagliato la manovra, certo, ma si era ripreso nel migliore dei modi. Era quello che importava al capitano.

Cruz colse lo sguardo di Carl, e fra loro passò un fugacissimo istante di reciproca comprensione. Lui sa che ho preso un granchio. Ma premia l'iniziativa rispetto all'indecisione. Perché? Carl aveva cercato di lavorare bene durante il volo della Edmund fuori dal sistema, ma fino a quel momento Cruz non gli aveva prestato niente di più che una remota, seppure cortese, attenzione.

Ecco: Kato e Umolanda. Non vuole che la gente si spaventi. Sa che sono state delle apparecchiature difettose e la pura sfortuna a ucciderli, molto più che la negligenza.

— Rispetteremo le nostre scadenze, signore — dichiarò Carl con fermezza.

Cruz annuì. — Bene. — Con consumata disinvoltura, il capitano rivolse adesso la sua attenzione a una donna, un ufficiale addetto alle comunicazioni, lì accanto. — Le nuove antenne a microonde sono state erette entro i tempi previsti, vero? Avete problemi a ricevere i segnali attraverso la coda di plasma? — chiese Cruz.

— Sì, un po'.

— Quanto tempo ancora prima che possiamo installare un radar a microonde per cercare la Newburn?

— Le farò avere una stima entro domani, signore.

Carl ascoltò il modo amichevole e aperto con cui Cruz estraeva informazioni dalla donna, le commentava, faceva una piccola battuta che suscitò le risate della folla. Ora, questo sì che è il modo di comandare pensò. È in contatto con tutto e tutti e non appare mai preoccupato. Chissà se imparerò mai il trucco.

Gli sarebbe piaciuto rimanere più a lungo, ma voleva trovare Virginia. La scoprì in un gruppo di hawaiani dalle varie carnagioni, intenti a ridere. Il suo abito era di un azzurro luccicante che suggeriva senza rivelare. Lo stato semiautonomo delle Hawaii aveva finanziato il venti per cento del costo della spedizione. Vera capitale del complesso economico pan-Pacifico, le Hawaii investivano moltissimo nello spazio. I loro rappresentanti davano un'atmosfera di allegria alla maggior parte delle cerimonie.

Carl aspettò che ci fosse una pausa nella conversazione, attirò lo sguardo di Virginia e la condusse con sé in una nicchia. Le descrisse rapidamente le lamentele di Jeffers. — Pensi che possa aver ragione? — le chiese.

— Vuoi dire, se gli ortho cercheranno di rastrellare tutto quello che possono? — Ebbe un sorriso d'intesa. — Ma certo. Questa non è un'opera di carità.

— Io non sono venuto solo per fare soldi. — Carl si tirò indietro incrociando le braccia. Sapeva che probabilmente si sarebbe mostrato più scaltro se fosse apparso più urbano, perfino un po' cinico, o per lo meno riteneva che fosse questo ad attirare la maggior parte delle donne sulla Terra. Ma in qualche modo il suo vero io finiva sempre per emergere.

— Offeso? — Virginia sorrise, le sue labbra piene si chiusero rivelando dei denti d'uno stupefacente splendore. — Non essere così austero. Perfino gli idealisti devono mangiare.

— Non hai firmato qualche piccolo accordo riservato sulla Terra?

Virginia corrugò la fronte. — Certo che no. Ascolta, ci saranno sempre delle voci secondo cui il tale o il tal altro hanno un contrattino extra per far filtrare fuori qualche scoperta. Chi lo sa, forse qualcuno trasmetterà qualcosa sulla Terra su raggio ristretto prima che noi torniamo, e troverà una bella mazzetta ad aspettarlo su un conto svedese.

— Non mi sorprenderebbe. Con quattrocento persone che faranno i turni di guardia nell'arco di settant'anni, ci saranno possibilità in abbondanza per imbrogliare.

Virginia agitò imbronciata il suo calice a bolla pieno di pina colada, con una cannuccia rosa. A Carl i festosi colori del salone parevano fuori posto dal momento che il nudo acciaio e il vuoto si trovavano soltanto a pochi metri da là. Era probabile che gli psicologi avessero pensato che chiazze tropicali di ambra, verde e oro potessero strappare la gente dalla cruda realtà, ma con lui non funzionava.

Virginia disse lentamente: — C'è un vecchio detto: Le persone normali scelgono i propri amici, ma un genio sceglie i propri nemici.

Carl fece una smorfia: — Cosa vuoi dire con questo?

— Sono gli ortho a dirigere questa spedizione, concesso. Se noi creiamo un attrito, essi potranno fare molto di più per renderci difficile la vita.

Carl ci rifletté un momento: — D'accordo. Concesso. Questo, comunque, non cambia i miei scopi.

Virginia annuì. — Ah, sì. La Terza Fase.

Carl si rendeva conto del fatto che, per lei, le sue opinioni erano troppo semplicistiche, un'approvazione troppo pedissequa della dottrina delle colonie della Terra Vicina. Tuttavia, onestamente, non riusciva a vedere come lei non potesse essere d'accordo.

Un secolo di lotte aveva finalmente dato all'umanità la tecnologia per sfruttare il sistema solare: mezzi di trasporto efficienti, apparecchiature meccanizzate per l'assemblaggio e l'estrazione mineraria, biosfere artificiali integrate di qualunque dimensione necessaria.

Adesso, argomentavano i coloni, era il momento di spostarsi fuori.

I satelliti senza equipaggio erano stati il primo livello dello sfruttamento dello spazio: Altopiano Uno. Molto indietro nel tempo, negli anni intorno al 1980, la gente aveva fatto miliardi con i satelliti per le comunicazioni. Avevano salvato molte vite umane con i satelliti metereologici.

Le fabbriche spaziali automatiche che utilizzavano i materiali luaari erano state il successivo gradino: Altopiano Due.

Ognuno degli altopiani era stato scalato dai pochi che ne avevano capito i vantaggi molto in anticipo e avevano corso enormi rischi a causa di quella visione. Altopiano Due era quasi fallito, prima di trasformarsi in un rampante miracolo economico, contribuendo a districare il mondo dal Secolo dell'Inferno.

Ogni ascesa pareva provocare un'apprensione terrocentrica: prima, che l'investimento potesse fallire; poi, che la culla dell'umanità venisse relegata a un ruolo di pura periferia. Ciò era aggravato dagli interminabili problemi sociali della Terra: malesseri che le colonie spaziali, com'erano progettate, non condividevano. Le Norme sulla Nascita e l'Infanzia, le quali imponevano che ogni bambino nato nello spazio dovesse passare almeno cinque anni a terra, erano un'espressione legale delle paure latenti.

Altopiano Tre era un sogno, un problema politico, un punctum dolens economico, un atto di fede: tutto contemporaneamente. Ma adesso le grandi colonie rotanti erano possibili. Adesso i coloni consideravano le Norme sulla Nascita e sull'Infanzia come simboli dei lacci di un grembiule che ormai, da tempo, stava loro piccolo. Volevano sfruttare gli asteroidi rocciosi e la Luna, ma avevano anche bisogno delle sostanze volatili per i propellenti e la biosfera. Avevano perfino finanziato una minuscola miniera di ghiaccio su Ganimede, ma non aveva funzionato molto bene.

Alcuni vedevano nelle comete la chiave, e credevano ferventemente che gli esseri umani potessero sparpagliarsi per il sistema solare come i semi d'un soffione, se soltanto avessero imparato a intruppare quelle antichissime palle di neve entro orbite dove potessero venir utilizzate.

Virginia si abbandonò languidamente sulla sua sedia a rete. — Non puoi aspettarti che Mamma Terra molli l'osso facilmente.

— Hanno tutto da guadagnare. Gli porteremo asteroidi a iosa, materiali grezzi, gli forniremo nuovi mercati…

Virgina lo fermò sollevando una mano. — Per favore, conosco a memoria la litania. — Un'espressione divertita di finta pazienza a lungo sopportata le passò fugacemente sul volto, disarmandolo all'istante. Forse non era intesa in quel modo, ma con un singolo gesto lei riusciva a farlo apparire, agli occhi di se stesso, goffo, lento di comprendonio, troppo ovvio nei suoi discorsi. E, forse, lo sono davvero. Ho vissuto nello spazio più della metà della mia vita da adulto.

— Soltanto perché ti è familiare, non significa che sia sbagliata.

— Carl, pensi davvero che estrarre sostanze volatili dalle comete possa portare il millennio?

— Dove altrimenti, possiamo trovare fluidi a basso costo? — Per lui, quello era l'asso nella manica, un freddo fatto economico. Proprio agli inizi del sistema solare, quel giovane sole caldo aveva soffiato via la maggior parte degli elementi leggeri verso l'esterno, lontano dalle zone interne. Soltanto la Terra aveva conservato abbastanza elementi volatili da rivestire il suo mantello roccioso di una sottile pellicola d'aria e d'acqua. Quando gli esseri umani si erano avventurati nello spazio per sfruttare le risorse che vi si trovavano, gli asteroidi, la Luna, Marte, avevano dovuto trasportare i propri fluidi dalla Terra.

— Sicuro — disse Virginia. — Prendi il ghiaccio dalle comete! Fra ottant'anni saremo di ritorno, gloria agli eroi, ai conquistatori! Ma per allora qualcuno potrebbe aver scoperto dei laghi ghiacciati nelle viscere della nostra Luna. Oppure aver trovato un sistema economico per intaccare i crio-asteroidi fuori dalle lune gioviane… chissà?

Carl la fissò stupefatto. — È pazzesco! Non c'è nessun modo di affrontare il costo per calarsi nel pozzo gravitazionale di Giove, soltanto per recuperare acqua e ghiaccio. Il progetto Giove lo sta dimostrando.

Lo sguardo di lei ebbe un guizzo. — E allora? È forse più facile dare la caccia alle comete?

I suoi occhi scuri lo stuzzicavano, Carl lo sapeva, ma non poteva desistere.

— Vale la pena di provare, Virginia. Nessuno ha ancora trovato il modo di guidare le comete, a meno che noi non riusciamo a far funzionare il sistema della dispersione dei gas verso l'esterno. Nessuno troverà i volatili sulla Luna o su Venere perché sono stati prosciugati. Non è possibile esplorare gli asteroidi ed estrarre i minerali soltanto con l'aiuto dei mech, perché trovare i metalli è ancora un'arte, non una scienza. Comete inaridite come Encke non possono venire intruppate proprio perché non c'è alcun modo di usare con esse, per guidarle, la dispersione dei gas verso l'esterno. Così…

— Mi arrendo, mi arrendo! — Virginia sollevò in alto entrambe le mani.

Carl sbatté le palpebre. Oh, per l'inferno! pensò. Perché mi lascio sempre trascinare?

Una profonda voce maschile disse, da dietro le spalle di Carl: — Non accettare così in fretta la sconfitta, Virginia. Prima chiedi i rinforzi.

Carl si girò di scatto mentre Saul Lintz prendeva posto su una morbida poltrona verde, a rete, lì accanto, e infilò il suo bicchiere dentro un incavo a pressione sul loro tavolo. Era magro e stagionato. I suoi movimenti della bassa gravità misurati e decisi.

— Sei arrivato troppo tardi — replicò Carl, cercando qualcosa di sagace da dire, per redimersi. — Ho già ammesso che sono noioso.

— Allora il mio aiuto è inutile. — Saul ridacchiò mentre lo diceva, ma Carl avvertì un fugace sussulto d'irritazione.

— Stavo dicendo che diverremo tutti ricchi dopo questa spedizione, se avremo pazienza — riprese Carl, misurando le parole. — E dovremmo lasciarci la politica alle spalle.

Saul annuì. Bevette una lunga sorsata. — Ammirevoli sentimenti.

— Ma noi dobbiamo farlo. Il nucleo di Halley è troppo piccolo per quel genere di…

— Infila la moneta per la Conferenza numero Dodici — esclamò Virginia in tono allegro.

— Be', è vero. — Carl non sapeva come prenderla, non gli piaceva il modo in cui la sua attenzione si era spostata su Saul Lintz nel momento in cui si era unito a loro. Si era mezza girata sulla sua sedia, quasi di faccia a Saul, e accennò appena a guardare Carl quando lui ebbe finito. — E qualunque accenno che qualcuno ne trarrà un profitto maggiore rispetto al resto di noi… be', finirà per causare guai.

Saul sollevò un sopracciglio, interrogativo. Pareva molto esperto nel fare un commento su quello che la gente diceva con un gesto minimo o una scrollata di spalle, un'economia di espressione che Carl gli invidiava.

— Si riferisce ai pettegolezzi del sottoponte — gli spiegò Virginia. — Il fatto che… sì… i non-percell occupino tutti i posti importanti.

— Non-percell come me?

— Adesso che lo dici — annuì Carl.

— Anzianità. Dopotutto, nessuno di voi geneticamente preselezionati ha più di quarant'anni.

— Sei sicuro che non ci sia altro? — Carl si protese in avanti, le mani intrecciate, i gomiti sulle ginocchia.

L'uomo più anziano corrugò la fronte percependo qualcosa nella voce di Carl. — Naturalmente. Che altro pensi che ci possa essere?

— Non potrebbe darsi che la Terra non abbia voluto nessuno di noi là dove potevamo creare problemi?

Saul rimise giù con cura il suo bicchiere e si rilassò sullo schienale. — Gli esiliati sono troppo malconci per causare affanno al faraone — disse, come se stesse parlando fra sé.

A Carl quell'osservazione parve in qualche modo irritante. — Perché non ti limiti a rispondere alla mia domanda?

— Era una domanda? Mi pareva un'accusa.

La voce di Carl era stata più aspra di quanto fosse sua intenzione, ma che fosse dannato se adesso si sarebbe tirato indietro. — Considera l'Installazione del Sistema di Sopravvivenza, il mio gruppo. Il capo della nostra selezione è Suleiman Ould-Harrad, un…

— Ortho? — lo imbeccò Saul con calma.

— Be', sì, è quello in gergo.

— Lo è. Geneticamente ortodosso. — Saul si rilassò ancora di più contro lo schienale, accostando una mano all'altra a V. — Intendendo una mescolanza zigotica non manipolata uscita dal mare dei geni umani, niente di più. I geni non hanno opinioni.

Carl scosse la testa. Non gli piacevano i modi pedanti che gli scienziati adottavano sempre, come se tutto quel gergo li rendesse migliori, più intelligenti, più saggi. — Ascolta, il tuo lavoro con i gas, le direzioni di tutti i laboratori, tutto in mani… vostre.

— Tu supponi che terranno questi frutti per sé? Per vendere le loro competenze una volta tornati sulla Terra?

Virginia interloquì con voce pacata: — Non è un'ipotesi impossibile, Saul.

Saul parve sorpreso a sentirselo dire da lei. — Temo che per me lo sia. L'implicazione diretta è che ci possa essere una cospirazione da parte del contingente «normale»…

— Visto? — scattò Carl. — Chiama i suoi «normali», allora noi non lo siamo.

Saul replicò, rigido: — Non intendevo dirlo in quel senso.

— È così che è saltato fuori.

Virginia s'intromise: — Carl, non puoi saltare addosso ad ogni…

— Non lo sto facendo. Sto soltanto cercando di vedere se dove c'è fumo, c'è arrosto. — Si sentiva caldo. Buttò giù il suo drink.

Saul fece una pausa, passandosi pensosamente la lingua sul labbro inferiore. — Lascia che cominci daccapo. Carl, se tu sapessi qualcosa su di me, capiresti che non vi sono ostile. Esattamente il contrario, in realtà. — Fissò Carl con sguardo fermo. — Suppongo che finiresti per scoprirlo comunque, presto o tardi… Io ho lavorato per anni insieme a Simon Percell.

Carl lo guardò stordito. Virginia rimase a bocca aperta, e poi disse: — Lo hai fatto? Avevo sentito delle voci, ma… non ci credevo.

— Soltanto come specializzazione postlaurea. — Saul scrollò le spalle. — Il nostro ultimo progetto comune studiava le deviazioni nei livelli di attivazione del lupus erythematosus. Ricorderete che quella è stata una della malattie principali dalla quale Percell vi ha liberato. Quell'orrenda affezione inguaribile che attaccava la pelle, i tessuti connettivi, la milza e i reni.

Virginia annuì. — Mia madre è morta per causa sua.

— Sì — annuì Saul. — E anche tua nonna.

Virginia contrasse la labbra per la sorpresa. Saul scrollò le spalle. — Mi ricordo il tuo caso. Simon effettuò le indispensabili alterazioni del DNA di tua madre, mentre io imparavo le tecniche per la prima volta.

Virginia si sporse in avanti. — Hai…

— … fatto il lavoro vero e proprio? Onestamente non riesco a ricordarmelo. Ho svolto i compiti di assistente per molte tecniche di sartoria genetica, alcune sperimentali, altre abbastanza dirette.

— Allora tu… potresti… essere…

Saul sbatté gli occhi, rilassandosi sullo schienale, evitando il suo sguardo estatico. — A quell'epoca era ormai un compito puramente meccanico. Assai poca ricerca, al di fuori della mai parte. Ho compiuto studi su come le cellule risultanti reagivano alle incursioni chimiche che, per il lupus normale, causavano un insorgere spontaneo della malattia.

Virginia disse lentamente: — E la mia… no?

— È ovvio che tu sei stata uno dei nostri successi. Credo proprio che tu non abbia nessuna traccia di lupus.

Virginia scosse la testa. — Per merito tuo.

— No. Di Simon Percell. Io ero andato da lui soltanto per imparare le sue tecniche. Fu durante quei pochi anni, quando godette dell'appoggio più completo, quando tutte le cose erano possibili. O così pensavamo.

Carl disse: — Comunque… non sapevo che tu avessi lavorato con Percell. — Si sentiva addolorato. Era probabile che Saul fosse stato presente quando i geni di sua madre erano stati delicatamente risistemati, liberati da quella microscopica costellazione molecolare che trasmetteva la leucemia. Poi, gli stregoni della genetica avevano aggiunto preziosi frammenti di DNA per dargli quel bagaglio di miglioramenti fisici che adesso contrassegnavano ogni percell. Per lui, Carl, quella piccola, coraggiosa banda d'ingegneri genetici era leggendaria. Non ne aveva mai incontrato uno prima di allora.

Saul incrociò le gambe, si lisciò i calzoni, visibilmente a disagio. Carl si rese conto che quell'uomo doveva aver avuto spesso incontri come questo, ed era attento alle emozioni represse che potevano esplodere da qualsiasi percell.

— Mi… mi dispiace per quello che ho detto — mormorò.

Saul annuì in silenzio. Anche lui tratteneva i suoi sentimenti dietro la diga delle sue labbra serrate.

Gli occhi di Virginia traboccavano. — Tu… potresti essere…

Carl vide che avrebbe voluto dire Anche tu sei mio padre, ma non riusciva a trovare nessun modo per esprimere la complessa combinazione di emozioni che provava. Saul aveva contribuito a dare la vita a migliaia di bambini che sarebbero stati menomati, uccisi, storpiati. Quegli anni non potevano venir dimenticati, salvo che dalla ragliante, sospettosa maggioranza della Terra colma di odio.

Quella stessa gente che aveva ucciso Percell, come se avessero personalmente premuto la canna del revolver calibro 32 contro la sua tempia. Era stato lo stesso Simon Percell a schiacciare il grilletto spinto a una crisi depressiva a causa di quello che adesso risultava, con tutta ovvietà, un errore inevitabile.

Un errore nella modificazione renale ereditaria aveva ucciso un intero stock di bambini programmati. Cosa ancora peggiore, essi non erano morti fino all'età di tre anni, dopo che il male li aveva colpiti all'improvviso.

La vista di tanti bambini che si torcevano nell'agonia, la pelle ingiallita e raggrinzita, le funzioni dei reni e del fegato improvvisamente cessate, era stata una tortura. I bigotti dei mezzi di comunicazione avevano diffuso quelle immagini in tutto il globo. Il crescente coro del pubblico contro di lui, la minaccia di venir legalmente perseguito, e gli improvvisi tagli dei finanziamenti destinati alla sua ricerca, tutto questo era stato troppo per un uomo che imponeva a se stesso gli standard più alti. Carl si riscosse. Era ancora così facile ridestare i ricordi. Sua madre che moriva miserevolmente. Gli anni di attesa per vedere se anche lui avrebbe mostrato i sintomi. La liberazione finale, quando aveva saputo di essere a posto e che gli sarebbe stato possibile andare nello spazio con una fedina genetica pulita. Quei ricordi lasciavano ancora in lui un segno profondo.

— Io… senti, lascia che ti offra un altro drink — disse Carl, con voce esitante.

— Ma sicuro — annuì Saul con un sorriso incerto.

— Forse una partitina a scacchi più tardi?

— Certamente! — esclamò Saul con entusiasmo. — Questa volta, lotta senza quartiere. Difenderò l'onore della gente normale. — Tutti scoppiarono a ridere. Poi Saul sternuti.

Sia Carl che Virginia sussultarono leggermente. Sorrisero tutti. La tensione era sfumata.

— Oh, adesso — disse Saul, in tono cordiale, mettendo via il fazzoletto, — questa è una delle modifiche di Percell della quale accetto il merito. L'aver inserito a bella posta una soppressione della reazione istaminica. A me non serve a niente, ma voi gente non soffrite come me di fastidiosi raffreddori. Vi invidierò tutte le volte che Akio Matsudo libererà uno dei suoi dannati virus sfida!

Ma molti anni più tardi Carl si sarebbe ricordato molto bene di quella convulsa e sorprendente eruzione, la prima, ma certamente non l'ultima volta che aveva sentito l'esplosivo sternuto di Saul.

SAUL

Flash; WorldNet4: il Comitato Olimpico Internazionale, durante l'odierno incontro a Tokyo, ha ceduto alla pressione della Lega dell'Arco del Sole e ha votato l'esclusione delle persone geneticamente mutate, i cosiddetti 'percell', dalla partecipazione ai Giochi del 2064 a Lagos.

I membri del Blocco Progressista sono state le uniche nazioni a opporsi col loro voto alla proposta. I capi del Blocco, Danimarca, Hawaii, Indonesia, Texas e l'Unione del Vicino Oriente hanno dato gran rilievo alle loro obiezioni ritirandosi dalla competizione, che adesso promette di essere la più controversa dai discussi Giochi del 2036.

Il presidente del CIO, Asoka Barawayandre, ha dichiarato: — La decisione di questi particolari territori non rappresenta una grossa sorpresa. Hanno accolto un maggior numero di 'percell' come immigrati da paesi che non danno più il benvenuto a quella razza. Le loro squadre nazionali erano già compromesse da questi discutibili elementi.

I membri astenuti comprendevano la Grande Russia, gli Stati Uniti d'America, il Regno del Galles, la Georgia Sovietica e la Federazione della Diaspora.

Gli osservatori ritengono che sarà presentato ricorso alla Corte Mondiale.

Saul finì di leggere il tabulato e sollevò lo sguardo sull'uomo che gliel'aveva cacciato sotto il naso.

— Sprechi carta per stampare questa roba, Joao? Avresti potuto trasmetterlo via fax-veloce con altrettanta facilità sulla mia consolle.

Joao Quiverian era un uomo magro dal volto olivastro, con un indomabile ciuffo di capelli neri e un naso romano, aquilino, che pareva quasi una decorazione. L'uomo non si lasciò sviare dall'ironia bonaria di Saul. Insistette per avere una risposta.

— Tu avresti ignorato un fax-veloce. Voglio sapere subito cosa ne pensi di questo voto, Saul.

— Che importanza ha la mia opinione? — Saul scrollò le spalle. — Mi delude che la Diaspora si sia soltanto astenuta. Una federazione mondiale di popoli profughi dovrebbe prendere posizione su una cosa del genere. Ma stanno cercando con tanta foga di farsi accettare, che la cosa in realtà non mi sorprende. — Gli restituì il foglio. — Per il resto, direi che il mondo non si smentisce.

Era ovvio che la risposta non soddisfaceva Joao, il quale era stato nominato capo planetologo soltanto tre settimane prima, quando un incidente anomalo aveva ucciso il professor Lehman. Saul sapeva che quello doveva comunque essere un periodo di frustrazione per il brasiliano. Si trovava là, a poche dozzine di chilometri da una cometa davvero splendida, e gli ordini stabilivano che la scienza doveva lasciare il passo agli ingegneri e ai tecnici ancora per parecchie settimane.

Quiverian doveva affidarsi ad un aiuto part-time da parte di Saul e di pochi altri “cometologi dilettanti” che erano stati addestrati in quel campo come seconda specializzazione. Senza alcun dubbio aspettava con ansia il risveglio di alcuni dei dormienti delle chiatte per poter discutere di arcane questioni cometarie con suoi pari completamente accreditati.

Di solito Saul andava d'accordo con quell'uomo, fintanto che discutevano di questioni basilari concernenti l'antico sistema solare. Questa volta, però, Quiverian era di umore politico.

— Suvvia, Saul. Questa notizia dalla Terra è importante, una pietra miliare! Mi aspettavo di più da te. Una protesta indignata. Forse la dichiarazione che i percell sono esseri umani veri e propri.

Saul si trovava là, nel laboratorio di planetologia, per aiutare ad analizzare i delicati nuclei di ghiaccio che gli spaziali stavano riportando a bordo della Halley: gli era stato affidato quell'importante incarico di rincalzo per la sua esperienza di laboratorio. Non era venuto là per farsi punzecchiare da Quiverian. Arcuò il piede sinistro sotto il supporto della sedia. — Suvvia, Joao, tu volevi che esaminassi con te alcune inclusioni organiche. Diamo un'occhiata al campione.

Tese la mano per farsi passare il sottile tubo sigillato lungo due metri che il brasiliano aveva appoggiato su banco alle proprie spalle.

Ma Quiverian insisteva. — Nessuno dice che questi poveri mutanti siano inumani. Soltanto che sono stati un orribile errore. Non puoi biasimare i popoli della Terra, con le nazioni dell'Arco del Sole alla loro testa, perché esigono dei controlli.

— Capisco — annuì Saul. — Controlli come quello di bandire i percell dalle Olimpiadi. Quale sarà la prossima mossa, Joao? Gabinetti separati? Abbeveratoi speciali? Ghetti?

Quiveran sorrise. — Oh, Saul. Non è questione soltanto di quei pochi record di atletica che i percell hanno infranto, esibizioni innaturali che hanno destato l'ira di milioni di persone. Quella era soltanto l'ultima goccia. Le tue creazioni…

— Non le mie creazioni. — Saul scosse insistentemente la testa.

Quiveran sollevò una mano. — D'accordo, le creazioni di Simon Percell, i suoi mostri, questa gente sono il ricordo vivente dell'arroganza della scienza settentrionale del ventesimo secolo, che ha quasi distrutto il mondo!

Saul sospirò. — Suvvia, Joao. Non puoi incolpare la scienza e il vecchio Nord di ogni cosa. È vero, hanno usato più della loro porzione di risorse, ma tu parli come se le nazioni dell'Arco non avessero nessuna colpa per il Secolo dell'Inferno. Dopo tutto, chi è stato ad abbattere le foreste tropicali malgrado tutti gli ammonimenti? Chi ha fatto aumentare il livello di anidride carbonica…

Quiveran lo interruppe, rosso in viso: — Credi davvero che io non lo sappia, questo, Saul? Guarda la mia terra, il Brasile. Soltanto adesso, dopo una lotta impari, cominciamo a riprenderci da un olocausto ambientale che ha spazzato via un terzo delle specie della Terra… tutte sacrificate sull'altare della cupidigia più incosciente.

— Molto bene. Allora la colpa è ripartita…

— Sì, certo. Ma la teconologia stessa era in parte in errore! Noi siamo semplicemente andati avanti quasi alla cieca con le migliori intenzioni. — Quiverian inarcò sardonicamente le sopracciglia. — Facendo il bene a detrimento della stessa natura!

Era ovvio che quell'uomo ci credeva, appassionatamente. Saul trovava ironica la cosa. Prima della fine del secolo, le nazioni del vecchio Nord avevano predicato la difesa dell'ambiente a un Terzo Mondo che non prestava nessun orecchio — dopo aver già trebbiato la maggior parte della ricchezza accesibile del pianeta. Adesso il pendolo aveva girato dall'altra parte. I popoli equatoriali dell'Arco del Sole parevano ossessionati da una mistica passione per la natura che avrebbe stupefatto i loro nonni avidi di terra.

Perché le conversioni devono arrivare sempre così in ritardo? Perché mai la gente si scusa con i cadaveri?

Gli venne risparmiata una risposta quando una voce dal marcatissimo accento si levò da dietro il banco sul quale erano ammucchiati ì campioni del nucleo.

— Ehi? Mi sono perso qualcosa? Esattamente… di quali crimini è stata responsabile la scienza dei bene intenzionati? Vi dirò quale! Forse il nostro amico brasiliano si riferisce a quei medici stranieri che vennero per ridurre la mortalità infantile in paesi come il suo. Boom! Sovrappopolazione. Per i nostri moderni archisti quello dev'essere stato l'orrore peggiore di tutti!

Il volto di Quiverian s'imporporò ancora di più. — Malenkov, russo grassone e ipocrita che non sei altro! Esci fuori di lì e vieni a discutere faccia a faccia, da uomo. Non devi nasconderti: non sono un cecchino ucraino!

— Siano ringraziati i santi almeno per questo. — Nicholas Malenkov girò intorno al banco impugnando un blocco di appunti, sorridendo, un gigante che si muoveva con la grazia di un lottatore, perfino nelle scomode maree di Coriolis della ruota di gravità.

Salvato pensò Saul con viva gratitudine e colse l'occasione per cambiare argomento. — Nicholas, ho sentito dire che Cruz e il gruppo dei tecnici hanno i risultati preliminari degli esperimenti con i pannelli a gas. C'eri anche tu?

Il massiccio slavo sogghignò. — Volevano avere intorno almeno uno di noi amanti delle palle di neve, quando li hanno provati. Tu, Joao e Otis eravate occupati. Così ci sono andato io.

Insieme a Saul e allo spaziale senza gambe, Otis Sergeov, il dottor Malenkov possedeva una seconda qualifica come cometologo… malgrado le frequenti proteste costernate da parte di Joao Quiverian. Il grosso russo allargò le braccia. — Amici miei, i risultati sono incoraggianti. Già con pochissimi pannelli installati abbiamo alterato l'orbita della cometa di Halley! L'effetto è piccolo, ma abbiamo dimostrato che il controllo della dispersione dei gas ci può permettere di compiere dei mutamenti d'orbita!

Saul annuì. — Naturalmente il metodo funziona soltanto in prossimità del perielio, nelle vicinanze del Sole.

— È vero. Questa serie di test ha mostrato soltanto un piccolo effetto, in diminuzione. Ben presto la sublimazione superficiale cesserà del tutto. Il progetto dei pannelli verrà sospeso per settant'anni. Ma la prossima volta — Malenkov sorrise, — quando ci tufferemo di nuovo verso l'interno, verso il Caldo…

Il Caldo. Era la prima volta che Saul sentiva qualcuno riferirsi al Sole il quel modo.

— … allora questo lavoro dimostrerà la sua utilità. Con i grossi propulsori a razzo a sgomitare all'afelio, e i pannelli di controllo dell'evaporazione che funzionano al perielio, avremo i mezzi per guidare questa antica palla di ghiaccio quasi su tutte le orbite che più ci piaceranno!

Quiverian corrugò la fronte, cupo, e scosse la testa. — Supponiamo che tutte queste interferenze funzionino. Esattamente, cosa faresti, dottore, cosa faresti tu, con… con una cometa intrappolata?

Oh, no. Saul aveva capito a che cosa stava mirando quella conversazione.

— Ma chi se ne frega? — esclamò Malenkov, in tono entusiasta. — Le idee sono rimbalzate qua e là per più di un secolo, su ciò che la gente avrebbe potuto fare con le comete.

— Idee eccentriche, vuoi dire.

Malenkov scrollò le spalle. — Il nostro attuale progetto consiste nel realizzare una grande svolta non appena superato Giove, fra settant'anni, usando al gravità del grande pianeta per intrappolare Halley in un'orbita assai più accessibile. Alla fine, questa palla di ghiaccio potrà fornire delle sostanze volatili a basso prezzo e aiutare il popolo della TerraVicina a creare il suo Terzo Altopiano nello spazio.

Quiveran scosse al testa. — Propaganda. L'ho sentita fin troppe volte.

Malenkov continuò imperturbato: — Le possibilità sono infinite. Una volta che avremo dimostrato la possibilità delle capsule del sonno a lunga durata, le comete potranno costituire degli splendidi transatlantici spaziali, per percorrere il sistema solare in assoluta sicurezza.

Saul vide che un piccolo pubblico aveva cominciato a radunarsi accanto alla porta aperta del laboratorio, attirata dai vicini uffici. Malenkov si accorse di loro e il suo entusiasmo crebbe ancora di più.

— Forse potremmo trovare delle sostanze chimiche ancora più utili, come quelle che Joao e il capitano Cruz hanno trovato su Encke. Diamine, potrebbe perfino esserci qualcosa che vale la pena prendere in considerazione nell'idea di utilizzare le comete per terraformare Venere o Marte! Alla fine, potrebbero essere resi adatti alla colonizzazione.

— Ah! — sbuffò Quiverian.

— Signori — si affrettò a intervenire Saul. — Suggerisco di…

Ma Quiverian lo ignorò, scuotendo un sottile tubo per campioni rivestito di plastica in direzione di Malenkov. — Questo è un atteggiamento che mi riesce insopportabile. L'idea originaria era di studiare le comete, le più antiche fra le opere di Dio. Ma adesso, la conoscenza soltanto per la conoscenza non sembra importare più. Adesso, non volete soltanto scremare a fondo questa cometa, ma anche modificare avventatamente interi pianeti, ancora prima che si riesca a capirli!

Malenkov ammiccò più volte, colto di sorpresa dalla collera di Quiverian. Saul sapeva che Nicholas aveva poche opinioni politiche. Era una delle persone più brillanti che Saul avesse mai incontrato, ma quell'uomo non pareva mai voler capire che per certa gente un disaccordo non era una partita a scacchi, né uno sport per gentiluomini; sotto questo aspetto era un russo assai poco russo.

Saul tentò ancora una volta di farli smettere. — Joao! Nick stava soltanto parlando di possibiltà. Fra trent'anni la Terra avrà avuto il tempo per decidere…

Ma l'infuriato brasiliano non l'ascoltava più. La mano sinistra di Quiverian stringeva la lunga carota col suo contenitore, e la sua mano destra si strinse formando un pugno. — Siamo appena emersi dal più terribile secolo della storia umana… il peggiore del nostro mondo sin dall'olocausto del pleistocene… e adesso ci sono degli idioti che vogliono mandare delle gigantesche palle di ghiaccio ad abbattersi sui pianeti?

— Non ho mai detto…

Quiveran avanzò minaccioso verso Malenkov. — Mi dica, dottore, quanto tempo ci vorrà prima che il bersaglio non sia Marte, o Venere, ma la Terra?

Le sue braccia tagliarono l'aria per dare enfasi alla frase, cosa assai poco saggia da farsi alla debole pseudogravità. Quiverian agitò le braccia per recuperare l'equilibrio e il lungo tubo andò a infrangersi sul ripiano del bancone, spezzandosi con uno schiocco assordante. Ghiaccio scuro, bruno, solcato da vene bianche e nere, si riversò sulla superficie.

— Idiota! Goyishe kopf! — Saul agguantò il brasiliano prima che la sua testa colpisse la grossa struttura del microscopio. Si girò in fretta e indicò la gente che si accalcava alla porta.

— Tutti voi, fuori! Chiudete quel boccaporto e attivate il sigillo dell'aria. Nick, Joao, andate a prendere le maschere!

Poi spinse Quiverian verso l'armadio con le attrezzature di emergenza, alla parete. Muovendosi rapidamente, afferrò un contenitore di plastica per il riciclaggio e lasciò cadere il suo fascio di tabulati arrotolati sul pavimento. Quando Malenkov tornò, allacciandosi una piccola maschera sul viso e porgendone un'altra, Saul stava spazzando via dal pavimento i frammenti di ghiaccio che stavano rapidamente fondendo, versandoli dentro la vasca.

La voce del russo suonava ovattata: — La tua maschera, Saul! Mettitela.

Saul scosse la testa e continuò a lavorare. Aveva una fiducia totale nei piccoli simbionti presenti nel suo sangue, nella loro abilità per proteggerlo dai cianuri e da altri veleni cometari. Sarebbe stato meglio, sì, che lo facessero, altrimenti la colonia non avrebbe durato a lungo all'interno di Halley. In quel momento lo preoccupava di più impedire la contaminazione degli altri campioni che il pericolo che lui stesso stava correndo.

I frammenti sparpagliati intorno parevano esalare un aroma gradevole… qualcosa che vagamente rievocava in lui i boschi di mandorli sul lago Kinneret, in Galilea, durante la primavera.

— La mia carota! — urlò Quiverian, quando fu di ritorno, armeggiando con la propria maschera. — Cosa stai facendo, ebreo impiccione? Quello era il campione più profondo che avevamo raccolto!

Saul spazzò via gli ultimi frammenti, buttò anche la spugna nella vasca, e ne chiuse ermeticamente il coperchio. C'erano quasi un trilione di tonnellate di ghiaccio là fuori, dentro Halley, pronte a venir studiate. Quella perdita non era una tragedia scientifica.

— Oh, ma non è vero, Joao — disse Malenkov, rassicurante. Il massiccio russo esaminò i tubi autoraffreddanti sul bancone. — Diamine, soltanto un'ora fa il mio compatriota, Otis Sergeov, è tornato con una nuova carota, presa a un chilometro di profondità dentro Halley. Vediamo se mi riesce di trovarla qui in mezzo.

— Sergeov! — imprecò Quiverian. — Quel mutante percell fanatico? Oh, numi! C'erano tanti bravi planetologi che avrebbero potuto venire con noi! Perché, oh, perché mi hanno accollato simili assistenti: un colossale russo sciocco, un percell senza gambe, e uno stregone genetico!

Malenkov scrollò le spalle e rispose amabilmente come se fosse la più ragionevole domanda del mondo: — Immagino che tu debba sopportarci perché quegli altri tizi non sono venuti, Joao.

Saul chiuse gli occhi, e se li coprì con le mani.

— Già! — Quiverian si lanciò verso la porta ignorando il segnale giallo di allarme per l'aria, e si aprì la strada tra la folla lì fuori.

— Ma cos'è mai che lo rode? — chiese Malenkov a Saul, dopo che la porta si fu nuovamente chiusa con un sibilo. Corrugò la fronte. — Saul? Cosa ti succede? Stai male?

Saul finalmente si scoprì gli occhi. Erano pieni di lacrime.

— Saul? Amico mio, io…

Saul picchiò sulla consolle, lì al suo fianco, e scoppiò in una fragorosa risata, incapace di contenersi ancora.

— Joao ha ragione — dichiarò, asciugandosi gli occhi. — Decisamente, la cometa di Halley merita di meglio. Ma dovrà sopportarci.

Saul non rimase sorpreso, un po' più tardi, quando arrivò un ufficiale a indagare sul ghiaccio versato. Ma neppure sbatté gli occhi quando fece il suo ingresso il tenente colonnello Suleiman Ould-Harrad, con un blocco d'appunti in una mano e un rilevatore di tracce di gas nell'aria nell'altra. Il mauritano dalla pelle scura era l'ultima persona che Saul si sarebbe aspettato.

La specialità di Ould-Harrad erano i grandi, enormi sistemi di sopravvivenza, del tipo che stavano installando su Halley proprio adesso. Ma doveva essere stato l'unico ufficiale disponibile al momento per indagare sull'incidente.

Tutti erano a conoscenza del motivo per cui Ould-Harrad partecipava a quella missione. Il giovane ufficiale aveva avuto degli amici nella Congiura del Temple Mount, e soltanto i legami che aveva avuto con la famiglia reale centroafricana gli avevano consentito di cavarsela con l'esilio invece che con la prigionia per il crimine di associazione sovversiva.

Durante gli ultimi tre anni il mauritano non aveva detto più di dieci parole a Saul. Quella cortesia era stata ricambiata.

La Terra è molto lontana alle tue spalle ricordò Saul a se stesso. E niente può cambiare il passato. Si fece da parte. — Entri, colonnello. Ho già dettato un rapporto sull'incidente. Proceda pure e dia un'occhiata intorno, mentre io le preparo una fotocopia.

Ould-Harrad pareva a disagio mentre seguiva Saul dentro il laboratorio, le sue ampie narici si allargarono nel percepire il debole odore dei gas cometari liberati. I suoi occhi continuavano a guizzare sugli indicatori dello strumento. La sua cupa espressione pareva ben poco rallegrata dall'ovvia buona salute di Saul.

— Dottor Lintz, non avrebbe dovuto rimanere qui dopo che era stato dato l'allarme.

Saul batte la mano sullo schermo d'un estensore. — Sì, sì, lo so. Ma qualcuno doveva pur rimanere a pulire. Comunque, tanto valeva che io fossi la prima cavia. È giusto che sia io ad offrire ai cianuti che abbiamo nel sangue la loro prima prova sul campo, no?

La consolle sputò fuori una scheda di dati. Saul la contrassegnò col proprio nome in codice. Sorrise a Ould-Harrad. — Se dovessi morire, tanto vale che tutti si arrampichino dentro le capsule ibernanti ad aspettare qualche secolo che ci raccolgano, perché questa spedizione sarebbe finita.

L'ufficiale annuì seccamente, accettando la logica. — Comunque ci sono norme… procedure concepite per la sicurezza e l'ordine collettivi.

Saul buttò all'ufficiale la scheda con i dati, ed ebbe una risata alquanto agra.

— Sicurezza e ordine, certo. Come le ricordo bene, queste parole. Il generale Lynchon non ha forse usato quest'identica frase quando le truppe dell'ONU sono penetrate fra le colline della Giudea?

Ould-Harrad scosse la testa. — È stata un'operazione basata sul consenso, dottar Lintz. Il governo di coalizione d'Israele-Inshallah le aveva invitate a intervenire.

Saul annuì. — Dopo che i leviti e i salawiti avevano assassinato abbastanza rappresentanti dell'opposizione per ottenere la maggioranza.

La voce dell'africano era bassa, come se temesse quell'argomento ma ne venisse attratto allo stesso modo di una falena verso la fiamma. — Il mondo era stanco di secoli di lotta in una regione che non aveva mai conosciuto la pace.

— E adesso è forse migliore? L'Alto Sacerdote di Gerusalemme governa un regno balcanizzato, con le sette che tendono agguati alle altre sette come mai vi era stato prima.

«E ha aiutato il pianeta? Dal Nilo all'Eufrate, Israele-Inshallah aveva piantato più alberi di quanti ne erano mai esistiti prima in tutta l'Africa a nord dell'equatore. L'ultima volta che ne ho avuto notizie, un terzo delle foreste erano scomparse… abbattute per erigere barricate.

La pelle di Ould-Harrad divenne ancora più scura della sua già abbondante sfumatura. Saul pensò di ritirarsi. È già stato punito.

Sì, ma abbastanza?

— Dottor Lintz, io…

— Sì?

Ould-Harrad scosse la testa. — Io non ho avuto nulla a che fare con il tentativo di far saltare in aria il Grande Tempio. È vero, avevo amici che facevano parte della Congiura, e come penitenza per quella mia associazione mi ritrovo a partecipare a questo viaggio nato sotto una cattiva stella, ma non ho mai voluto recar danno al sacro santuario di tre religioni. Le assicuro che avrei preferito strapparmi il…

— Oh, povero bastardo — lo interruppe Saul, provando una mezza pietà per quell'individuo e ridendo per soffocare i propri dolorosi ricordi. — Per dieci anni lei ha sentito ma non ascoltato, è stato punito, ma non ha capito. Quando, oh, quando gente come lei riuscirà mai a capire che i veri ebrei non volevano che quel dannato tempio venisse costruito, in primo luogo?

Il sensore dei gas penzolava da una mano di Ould-Harrad, come dimenticato. Il tenente colonnello lo fissava. — Qualche kibbutzim, qualche umanista laico si è opposto combattendo, lo so. Ma…

— Ma niente! — Saul si sporse in avanti. — La grande maggioranza degli ebrei in Isralele e dell'estero avevano votato contro, si erano dichiarati contrari, si erano opposti ad ogni passo. Ci è stato imposto da fanatici assassini e da un mondo ignorante fin troppo avido di pace.

Saul quasi sputò quella parola. — Pace! Non è stato sufficiente distruggere la mia nazione e la mia famiglia, colonnello Ould-Harrad. Hanno insediato dei preti che hanno addirittura la sfrontatezza di venirmi a dire come dovevo essere ebreo! Perfino Hitler non era arrivato a questo!

Nella debole spinta centrifuga della ruota gravitazionale, Ould-Harrad parve perdere la forza di reggersi in piedi. Affondò in un sedia a rete.

— Ma il capo del Nuovo Sinedrio fa parte de vostro clan sacerdotale dei Cohen. E l'Attendente Capo del Tempio è un levita… Il legato del Papa, gli altri cristiani e i musulmani devono rimanere in seconda posizione e dare la precedenza alla fede più antica!

Ould-Harrad scosse la testa: — I miei camerati obbiettarono a quella umiliazione, e alla rimozione della bellissima moschea che si ergeva dove avrebbe dovuto sorgere il tempio, ma non capisco di cosa avevano da lamentarsi gli ebrei. Due millenni di profezie non venivano forse esauditi?

Saul non rispose subito. Guardò sul lato opposto della stanza, dove la videoparete mostrava le cupole a forma di cipolla dell'antica Kiev. La luce del tramonto avvampava in tinte vivide attraverso le steppe, al di là delle mura della città. Nuove croci dorate sormontavano ancora una volta le punte dei campanili, indicando il ritorno della Grande Russia al suo mitico passato.

Dieci anni pensò. E sembra ancora impossibile riuscire a fare in modo che qualcuno capisca.

Forse, per spirito di carità, avrebbe dovuto fare un tentativo con quell'uomo. Ma come poteva qualcuno spiegare che il giudaismo era cambiato dopo duemila anni di esilio, da quando i romani avevano bruciato il tempio dei Maccabei, radendolo al suolo, trucidando i sacerdoti, e spargendo ai quattro venti quel popolo?

I sopravvissuti avevano vagato verso strani climi, adottando ideologie aliene. Gradualmente i contadini ebrei che avevano colonizzato le pianure polacche e russe erano stati spinti dai popoli giunti più tardi entro le anguste città, trasformandosi in una popolazione urbana. Le stirpi delle famiglie sacerdotali, i Cohen e i Levi, avevano perduto la loro influenza. Giacché, come potevano celebrare i loro riti senza un luogo centrale in cui compiere i sacrifici per quietare una terribile divinità?

La guida spirituale ricadeva sul rabbino, l'insegnante, un ruolo che non si ereditava, ma si imparava attraverso l'apprendimento e la saggezza.

Un ruolo descritto nei particolari da Gesù, se si deve dire la verità. Soltanto che lui aveva anche coloro che profetizzavano in suo nome. Anche lui era seguito dai sacerdoti.

Dopo cento anni di lotte e di successi, l'alleanza guidata da Israele aveva cominciato a sfilacciarsi durante la giovinezza di Saul. Il Secolo dell'Inferno aveva preteso il suo tributo perfino nella cintura che la gente chiamava «la Terra Verde». I profeti avevano cominciato a comparire agli angoli delle strade e i culti a proliferare.

Anche l'Islam aveva sofferto di cento scismi, e il cristianesimo era tartassato, diviso.

Poi, qualcuno aveva avuto un'idea brillante… una soluzione ovvia. E come tante soluzioni ovvie, era disastrosamente sbagliata.

La Diaspora ci ha cambiato pensò Saul. In esilio siamo diventati individualisti, un popolo di liberi, e non di sacrifici sui dorati altari. Piangevamo il tempio di Salomone. ma la sua distruzione ad opera del fuoco non era forse un segno che era giunto il momento di conoscere Dio in altre maniere?

Come avrebbe potuto capire Ould-Harrad che nessun ebreo moderno voleva che qualcuno interferisse con lui? Ognuno doveva arrivare a un proprio patto con Dio.

Ould-Harrad abbassò lo sguardo sulle proprie mani. — Quando i cospiratori hanno fatto saltare in aria la moschea di Al Aqsa per protestare, era nelle intenzioni che la colpa ricadesse sui Leviti, non i kibbutzim. Il piano… non avevano mai voluto che ci fosse un bagno di sangue…

Pareva incapace di continuare. Saul si rese conto che quell'uomo era ossessionato da un senso di colpa e anche, forse, dalla paura di non riuscire mai anche soltanto a capire il ruolo che aveva giocato.

Saul allontanò con un battito di palpebre un ricordo di fumo sopra le colline della Giudea. Scosse la testa, sapendo che non esisteva nessun modo in cui avrebbe potuto aiutare quell'uomo.

— Mi dispiace — cominciò a dire con voce sommessa. Poi si schiari la gola. — È tutto, colonnello? Se ha finito, ho alcuni esperimenti importanti in corso.

Il nero spaziale sollevò lo sguardo e annuì brevemente. — Riferirò che la situazione è sotto controllo.

Saul si era già avviato verso il suo microscopio quando sentì la porta sibilare alle sue spalle. Cercò di ritornare al lavoro che era stato interrotto, prima dalle insistenti domande di Joao Quiverian, e poi dall'addolorato Ould-Harrad, ma le sue mani parevano inchiodate sopra i comandi.

— Condizione ambientale, luci semi fioche — ordinò ad alta voce, e in risposta il laboratorio di oscurò.

Il lavoro, lo sapeva, era un modo per tener lontani i ricordi. — Campione AR 71B trattino 78s, sullo schermo dodici — disse rivolto al computer semisenziente e perennemente in ascolto del laboratorio. — Vediamo se quelle inclusioni sono davvero sospette, adesso, come stavo pensando prima che Joao appestasse questo posto.

L'ultima parte non era per il computer. E mentre si curvava sopra la oloproiezione per immergersi nei misteri, Saul scoprì che non gli dava affatto fastidio tutto quel lieve odore di ghiaccio e mandorle nell'aria.

VIRGINIA

Bussò titubante. Poi, quando non ricevette nessuna risposta ovattata, bussò con più forza. Questo causò un breve, querulo grugnito. Quando finalmente il pannello si aprì con un sibilo, Virginia entrò e si fermò appena oltre la soglia, mentre la porta tornava a chiudersi con un risucchio alle sue spalle.

Chiese, timidamente: — Ti si sono rotti dei campioni?

Pareva un buon inizio. Il pericolo, sempre che ci fosse stato, era passato da tempo prima che lei fosse venuta a saperlo. Saul aveva già lasciato il reparto di planetologia, dove il campione si era rotto, ed era sceso là nel suo laboratorio biologico. Ma l'ondata di preoccupazione che aveva percorso l'equipaggio l'aveva indotta infine a raccogliere il coraggio necessario per aggrapparsi a un pretesto.

— Uhmmm? — Saul era intento a studiare i suoi schermi, prendendo appunti con una calligrafia minuscola in un libretto con una matita di vecchio modello. Si meravigliò della sua eccentricità: la spedizione utilizzava marchiatori elettronici standardizzati e schede di registrazione. Saul doveva aver portato con sé un pacco di quaderni per appunti come parte del piccolo bagaglio personale concesso ad ognuno di loro e che non poteva superare il peso stabilito. Aveva sentito di gente che si era portata bottiglie di vino di annata, e caviale, ma non matite, per l'amor del cielo!

E guardate me pensò con tristezza. Ho usato la maggior parte del mio bagaglio per trascinarmi dietro hardware di computer che tutti sulla Terra hanno giudicato senza speranza, un vicolo cieco.

Non disse niente. Era meglio lasciarlo lavorare ancora per qualche istante, farlo riemergere dagli abissi. Camminò in mezzo a quell'intrico di trasparenze contorte, luccicanti provette, alambicchi, cavi aggrovigliati, un gorgogliare e uno scorrere di fluidi negli analizzatori microbiologici. Sono lieta di non essere un chimico. Gli elettroni raffreddati sono più facili da maneggiare.

— Pochi minuti ancora, Virginia, e sarò da te.

Saul neppure sollevò lo sguardo mentre scribacchiava, manovrava il suo analizzatore, corrugava le sopracciglia. Virginia s'incamminò lungo una solitaria corsia cercando di leggere gli indici sui banchi e di seguire la logica compatta e involuta del laboratorio. Qui Saul poteva smontare i geni come se fossero modellini di Lego, mescolare le molecole come carte da gioco. Trovava sempre bizzarro il modo in cui delle provette e delle soluzioni dall'aspetto innocente come quelle potessero estendersi, trasporre la vita umana lungo nuovi sentieri, e chiuderne altri. Come se quei macchinari addormentati nascondessero una forza mostruosa, inplacabile.

Continuiamo a farlo. Gli esseri umani impregnavano i loro congegni di una presenza e di un potere separati, proiettando incessantemente le loro emozioni su dei profili inanimati. Illogico, e i peggiori peccatori in questo campo erano quegli scienzati spassionati che si presumevano votati all'oggettività.

Pensa soltanto a come plasmo il mio software per farlo assomigliare ai miei processi mentali rifletté. Stampando me stessa nella griglia organica raffreddata da JonVon.

Quel pomeriggio, nel percorrere la strada fin là, era stata colpita dal modo in cui la spedizione fosse proprio così: stanze separate, idee immensamente potenti staccate le une dalle altre, tutte che davano il proprio contributo, eppure isolate. Uomini e donne insaccati in cilindri, cubi e sfere. Si muovevano attraverso la silenziosa, angusta geometria della Edmund, ansiosi di scendere e rintanarsi nelle nicchie, in un altro mondo scavato.

Si chiese se l'equipaggio avrebbe comunicalo meglio, una volta giù dentro il nucleo di Halìey. Molti di loro avevano lavorato durante l'intero anno impiegato dal viaggio verso l'esterno, ma lei era stata messa a dormire in una capsula per dieci mesi. Prima del lancio i problemi relativi al finanziamento avevano ridotto all'osso il programma preparatorio della spedizione; non c'era stato il tempo di conoscere o anche soltanto d'incontrare la maggior parte dell'equipaggio.

Aveva studiato i progetti dell'insedamento nel nucleo di Halley. Parevano splendidi come uno schema, un diagramma, una cianografia realizzati sulla Terra, ma adesso ognuno di loro sarebbe vissuto in un labirinto euclideo, in gabbia. Il lieve borbottio della ruota gravitazionale non faceva altro che sottolineare l'artificialità nella quale si trovavano incassati. Lei sentiva profondamente l'esistenza degli interni e degli esterni, delle sezioni e delle barricate.

Cosi, per opporsi a tutto questo, era venuta li. Aveva raccolto tutto il proprio coraggio. Era uscita dal suo guscio.

Passò irrequieta da una corsia all'altra. Ogni istante successivo era una separazione, che divideva un tormentato passato da un futuro che si spalancava vuoto: entrambe quelle immense distese di tempo premevano sul nervoso e traballante presente così trascurabile, ma non solo per ora.

Piantala con questa ispezione senza senso. Guarda in faccia il motivo per cui sei venuta qui. Ma era difficile saltare l'ostacolo e affrontare alla cieca il precipizio più oltre.

— Saul.

Lui risalì da imprecisate profondità. — Uh, cosa, sì? — Sbatté gli occhi, le rughe spiccavano ancora intorno ai suoi occhi assorti.

— Mi spiace…

— Cosa… hai scoperto?

Nel momento stesso in cui lo disse, Virginia sussultò. Esatto. Eludi. Chiedigli del suo lavoro, per l'amor di Cristo.

— Qualcosa di maledettamente strano. — Saul scosse la testa come se quasi sospettasse un errore. La sua matita rotolò sulle callosità granulose e macchiate della sua mano.

— Cosa?

— Contaminanti, credo. Carabattole della Terra dentro i campioni. Quel dannato Quiverian… — Si arrestò, il suo sguardo venne attirato da qualcosa sullo schermo. — Un secondo, forse questo…

Virginia guardò l'ingranditore mentre lui guidava le microsonde per separare ed estrarre minuscoli campioni da parecchie masse oblunghe e chiazzate. Come riuscisse a distinguere una macchia marrone da un'altra era un mistero. A quel livello gli esperimenti diventavano un'arte insondabile. I micromanipolatori traducevano i suoi minuscoli movimenti in grazia chirurgica, il suo tocco seguiva quel folle guazzabuglio di antichi cristalli, l'attorcigliarsi e il serrarsi repentino dei viscidi e sgargianti idrocarburi. Dita agili e una mente indagatrice. Mozart e Picasso erano stati ugualmente incomprensibili.

Lavorava metodicamente in silenzio, risucchiato dai suoi torbidi misteri. Va bene, prenditela con calma pensò Virginia. Non accelerare le cose. Non che tu abbia avuto tutto quel coraggio, eh? Comunque, i maschi sono lenti quando devono cambiare emisfero.

Si rilassò e osservò la sua «parete climatica». Il contratto dava ad ogni uomo dell'equipaggio il diritto di coreografare il proprio ambiente. Saul aveva scelto bene: un fiume azzurro scendeva divagando fino a una palude color smeraldo sotto uno stormo di bianchi uccelli dalle ali sbattenti che sfioravano la sua scintillante superficie. Le immagini erano ferme, precise; spruzzi luccicanti s'innalzavano là dove un uccello affondava un'ala nell'acqua e roteava su se stesso per atterrare. Più oltre, frammenti d'isole sparsi qua e là punteggiavano un pallido mare. Sulla sinistra candide distese di spiaggia costellavano quell'abbacinante giornata estiva. Il New England, forse il Massachussetts.

Sì, aveva letto che un tempo era stato ad Harvard. E d'estate, naturalmente. Aveva scelto un periodo dell'anno che portava con sé un confortante calore, qualcosa per tenere a bada il gelo dell'antico ghiaccio che ben presto li avrebbe circondati. Era il tardo pomeriggio, sulle pareti del laboratorio, e lentamente i raggi del sole stavano diventando sempre più obliqui col procedere delle ore. Il fronte di una tempesta sfregava il proprio muso sull'orizzonte, i venti sferzavano le ombre vellutate che si raccoglievano sotto gli alberi nodosi. Virginia sentì un calore rassicurante che s'irradiava da quella scena, anche se sapeva che era in realtà la lana che lei indossava a fare quell'effetto. Saul indossava un due pezzi di cotone, azzurro con strisce bianche, con un ampio colletto rinascimentale come unico strappo alla regola. Poteva vedere che Saul non era un uomo che badasse molto al vestire… sarebbe andato in giro nudo, se la natura e la società l'avessero consentito.

Mentre lei lo guardava pensosa, lui scosse la testa irritato, produsse un umpf! e spense di scatto lo schermo.

— Fatto?

— Sì, senza nessun risultato. — Tambureggiò con le dita la superficie della scrivania.

— Che cosa stavi cercando?

— Qualche contaminante che mi era parso di vedere. Era… be', no, niente più del solito.

— Faremo il primo turno insieme — azzardò lei. — Allora avremo tempo in abbondanza per lavorare alle nostre ricerche.

Lui annuì. — Non vedo l'ora. Sedici mesi di pace e di tranquillità, a scavare il ghiaccio e a badare ai nostri simili sotto ghiaccio.

— Ancora qualche settimana e cominceremo a ibernare la gente.

Lui annuì distrattamente. Poi disse a un tratto: — Sono un ospite ben scadente… Qualcosa dal bar?

— Ti rimangono ancora delle razioni alcooliche?

— In questo laboratorio? Posso fare tutto quello che voglio. Ho la mia birra, se te la senti di rischiare.

— Certo. — Sentiva il bisogno di rompere il ghiaccio, di raggiungerlo. Il suo volto era complesso, una lavagna sulla quale il tempo aveva scritto dappertutto, la bocca e gli occhi in conflitto fra loro. I suoi occhi parevano scrutare qualcosa di remoto, forse un problema che stava lentamente venendo a fuoco, un intelletto implacabile. Però le sue labbra tradivano quella concentrazione. Si torsero in una curva ironica, eppure erano piene e sensuali con un accenno di passione e d'energia. La mente gelida che governava quegli occhi non sapeva di quella soggiacente forza sommersa. Le contrazioni gareggiavano fra loro su quel viso, reso ancora più complesso dalla barba ispida, qui pallida, là chiazzata, una fronte luminosa la cui curva intercettava, riflettendo, un raggio dorato di quel tramonto nel New England. Con palese pregustazione fece schioccare i tappi di due bottiglie brune dal lungo collo, assomigliando d'uri tratto ad un robusto mercante un po' incanuito.

Virginia si morse il labbro mentre entrambi sedevano. Adesso che aveva superato i primi momenti e intrapreso i passi che aveva riconsiderato cento volte, scoprì che non riusciva a toglierli gli occhi di dosso.

— Sei qui a causa della nostra conversazione dell'altro giorno, non è vero? — lui disse. D'un tratto la sua espressione era più gentile, si stava aprendo verso l'esterno dopo essere uscito dalla sua autoimmersione. I suoi occhi incontrarono quelli di lei.

— Ah… sì, sì. — Tanto valeva che l'attribuisse a quello.

— Cos'è che aveva tua madre?

— Il… lupus.

— Ah, già. — Una fugace espressione di dolore guizzò nei suoi occhi. Si abbandonò sulla sedia a rete, si passò le mani dietro la nuca, si stiracchiò nella bassa gravità della ruota. — Mi ricordo quegli anni… In quel caso abbiamo trovato una soluzione pulita. Nessun effetto collaterale, come tu tanto chiaramente dimostri. Uhm. Hai mai visto un caso veramente grave?

— No, ho letto…

— Non è la stessa cosa. Sotto il microscopio le cellule non sono uno schieramento compatto di cilindri quasi regolari, sai, sono deformi, meshugenuh, piccole cose torturate. I tessuti connettivi del paziente s'intasano, le giunture si gonfiano, le infezioni si ripetono. Danni al fegato, morte prematura. C'erano dei buoni rilevatori per avvertire i genitori se un bambino ce l'aveva, certo, ma nessuno aveva toccato il vero aspetto: l'assetto genetico… fino a quando non l'abbiamo fatto noi. Scusa, fino a quando non l'ha fatto Simon Percell.

— Ma grande parte del merito può andare anche a te.

Lui rise. — Mia cara, la mia carriera negli ultimi decenni è dipesa dal non attribuirmi certo meriti.

— Con noi percell… è diverso.

Lui esibì uno stanco sorriso. Stanco e circospetto. — Tu, Virginia, sei la chiara espressione di come una mappa sia diversa dal vero territorio.

La donna corrugò la fronte.

— Scusa, non sono chiaro. È una mia abitudine. Abbiamo tracciato una mappa di tutti i nucleotidi del DNA già molto tempo fa. Sapevamo dove si trovava ogni cosa: una grande mappa. Soltanto, non sapevamo qual era il suo significato.

— I miei geni non portano il lupus, voi sapevate come farlo. E i miglioramenti percell sono efficaci.

— Ovviamente. — Un sorriso.

Si sentì arrossire a quel complimento. Frugò dentro la propria mente alla ricerca di qualcosa di adeguato da replicare. — Abbiamo ogni genere di vantaggio…

— È vero… — Era ancora pensoso, intento a riflettere su anni e periodi che lei non poteva conoscere. Eppure quei giorni non sarebbero morti, fintanto che ci fossero stati dei percell. E il retaggio viveva in ogni corridoio di quella spedizione.

Saul sospirò. — Ma non è abbastanza vero. Sicuro, abbiamo messo sotto controllo i disordini dell'emoglobina, la malattia di Huntington, tutti i bersagli facili. Stacca via qualche molecola. Spunta, pota. Cambia il criptogramma e… presto fatto.

— Ho letto che ci sono più di due milioni di persone che vi devono questo.

— Hai messo le mani sul giornale clandestino proibito dei percell? — chiese lui, con finta serietà. — Sì, giusto. Tu sei delle Hawaii. Là abbondano ancora i sentimenti pro percell, no? Chi ha indotto i servizi di sicurezza ad approvare il tuo arruolamento?

— Sono così in gamba che hanno dovuto accettarmi — replicò lei con un sorriso di orgoglio.

— Brava! — applaudì lui. — Brava, davvero. E sei in gamba… Ho dato un'occhiata al tuo dossier là, quando il capitano Cruz mi ha voluto nel comitato addetto al reclutamento.

— Davvero? — D'un tratto si era fatta seria. — Cosa… cosa c'è là dentro? Hanno…

Saul agitò la mano. — Niente sulle tue idee sovversive. Non una virgola.

I suoi occhi si spalancarono, la sua bocca formò un O sbalordito… e poi vide che Saul stava scherzando. — Ah… oh… eh.

— Non gli importa se tu pensi che i percell sono in gamba quanto gli… com'è il gergo?… sì, gli ortho, sai. — Abbassò la voce. — Dal momento che sono tutti maledettamente sicuri che non lo siete.

D'un tratto, Virginia si accorse di aver avuto ragione, il suo atteggiamento davanti agli altri era una maschera. — Loro… pensano questo, vero?

— Temo di sì. Molti di loro, comunque.

— Anche se hanno lasciato che alcuni di noi partecipassero a questa spedizione?

— Lasciato… — Saul cominciò, poi scosse la testa. — Avevano le loro ragioni.

— Ma…

— Virginia, ti è mai passato per la testa che togliersi dai piedi dei percell intelligenti, accaniti lavoratori, potenziali piantagrane, poteva essere un'idea molto attraente?

— Naturalmente. — Corrugò la fronte.

— E qualcuno di voi non è contento di essersi sbarazzato di tutto quel krenk, di quelle fesserie della Terra?

Lei dovette ammettere che Saul aveva ragione. Quando la Edmund si era sollevata fuori dall'orbita della Terra, lei si era sentita sollevata. — Oh… per certi aspetti.

— Quali, per esempio?

Saul si sporse in avanti dalla sedia, dando l'impressione di essere sinceramente interessato. Gli obliqui raggi arancione del tramonto sul Massachussetts colpirono la sua chiazza di calvizie, eppure non sembrava molto vecchio, soltanto saggio e gentile, e serenamente potente.

— Be'… mio padre pensava che fossi speciale. Che la nostra famiglia fosse unica, una specie di storico esperimento.

— Ah. Un comportamento comune.

— Io… io lo odiavo.

— Ti sentivi speciale?

— Mi sentivo… diversa.

— In realtà non lo sei.

— Prova a dirlo a loro.

— I tuoi genitori avrebbero dovuto proteggerti da questo.

— Loro… ascoltavano. Quand'ebbi undici anni, ero la sola ragazza nella mia classe senza le calze di nylon. Così andai ai grandi magazzini e ne comperai un paio. Non avevo nessuna idea su come infilarmele. Per sbaglio, non avevo preso un collant…

— Tua madre…

— È morta quando avevo dieci anni.

— Lupus.

Virginia annuì.

— Così, eri un monellaccio. Facevi il surf, ti crogiolavi nello splendore hawaiano.

— Sì. Era bellissimo, ma… Fu mio padre ad allevarmi. Ricordo un giorno, quando stavo giocando a catch in T-shirt con i ragazzi, di aver sentito delle risatine a proposito dei miei seni che rimbalzavano su e giù… Questo accadeva su Maui, dove nessuno è particolarmente riluttante a parlare di queste cose. Così, tornai ai grandi magazzini. Una commessa dovette spiegarmi cos'erano i reggiseni… non sapevo neppure cosa significassero i numeri. Poi, in seconda media, cominciai a indossare gonne invece di jeans, perché lo facevano le altre ragazze. Un ragazzo diede un'occhiata alle mie gambe pelose, e mi disse: «Per Natale ti regalerò un rasoio». Avrei voluto morire! Il giorno dopo presi a prestito il rasoio di mio padre e mi tagliai l'osso dello stinco così malamente che ancora oggi ne conservo la cicatrice.

— Capisco.

D'un tratto Virginia si sentì imbarazzata. Tutto quello che aveva detto, per qualche motivo le era saltato fuori senza che questa fosse la sua intenzione. — Non ero molto in gamba in queste cose. Avevo l'abitudine di dirmi che era dovuto al fatto che mia madre era morta e non c'era nessuno in grado di spiegarmi. Così mi concentrai sulla matematica, sui computer.

— E se tu non l'avessi fatto, oggi potresti essere una casalinga perfettamente felice, chissà dove, con i bambini che ti tirano i lacci del grembiule.

Virginia esibì un sorriso furbesco, soffocando un improvviso, intimo dolore, spinta da un vecchio riflesso. — Quello può anche andare al diavolo.

— Precisamente.

Inoltre non avevo nessuna scelta pensò. — C'era un quid per ogni quo. — Ecco, enigmatica e ironica. Mostragli che non sei una semplice scolaretta diventata maga del computer soltanto a causa d'una angoscia adolescenziale.

Ma il volto di Saul era diventato pensoso, i suoi occhi riflettevano qualche rimescolio interiore. — Vi amo tutti, sai.

— Tu…

La sua voce era molto bassa. — Tutti i percell. Voi… pagate per i nostri…

— I vostri cosa?

— I nostri peccati.

— Ma tu no! Voglio dire, noi non paghiamo! Io… Tu non hai fatto niente di sbagliato! Sono gli altri che…

Agitò una mano, azzittendola. — Mi spiace. Io… talvolta mi ricordo com'era un tempo. Quali erano le nostre speranze, quello per cui lavoravamo. Adesso è tutto finito. È una delle ragioni principali per cui mi sono arruolato. Per sfuggire a un'intera coorte d'insuccessi.

— Ma tu non…

— No, smettiamola… Quei giorni sono impossibili da dimenticare, ma è inutile ricordarli. Meglio lasciarli andare.

— Saul, io… io ti rispetto così…

Ma lui agitò energicamente le mani davanti al proprio viso, bandendo ogni discorso. — Sai che ti dico, ti riempio di nuovo il bicchiere e… e…

D'un tratto si girò di lato e sternuti.

— Dannazione! Non riesco a sbarazzarmi di questo affare.

— Prendi un anti.

— L'ho fatto.

Un'altra croce che dovrà sopportare lei pensò. Vivere in una palla di neve con il naso che gli gocciola senza sosta.

I percell non dovevano soffrire raffreddori. I «sarti» dei geni, mentre stavano fagliando via l'anemia e il lupus, e le altre malattie stabilite, avevano spuntato il complesso di molecole codificate che avevano offerto ai virus la libertà di scorrazzare, e all'umanità un milione di anni di raffreddore e influenzi,.

— Bene, allora… lascia che prepari un po' di tè.

Sorrise ancora, ma i suoi occhi azzurro acciaio erano remoti, pensavano a qualcosa di lontano nel passato che lei non riusciva a immaginare. — Sì, benissimo. Mia madre… faceva questo. Poi arrivava la zuppa di pollo. — Rise, ma non con gli occhi.

CARL

Represse una fragorosa risata. Il passo cruciale, l'inserzione dei moduli per l'animazione sospesa nella testa della cometa non pareva affatto il culmine di un pericoloso viaggio di cinque anni d'una nave a vela, una prodigiosa impresa d'ingegneria, una moderna meraviglia… Pareva invece l'accoppiarsi di mostruosi genitali.

L'esile chiatta, la Whipple, planò in avanti, con il muso all'ingiù. Spogliata delle sue vele solari e delie antenne, aveva l'uniforme colore rossastro scelto per massimizzare l'equilibrio termico durante gli anni di volo dall'orbita della Terra. Il carico utile della nave dei dormienti avanzò, la sua schermatura extra contro i raggi cosmici riempiva una protuberanza rigonfia, leggermente più spessa del corpo principale.

Sotto, si spalancava il Pozzo 4. Il ghiaccio circostante era stato esposto di fresco dalle abrasioni e dai graffi dei mech: un ghiaccio cremoso, vergine, che non aveva più visto l'aspro baglio della luce del Sole da quando i pianeti e le comete si erano formati per la prima volta.

Carl cominciò a ridacchiare, e tossì per nasconderlo. Con il sibilo del comunicatore della tuta, nessuno avrebbe saputo distinguere la differenza, probabilmente. Sbatté gli occhi, ma quell'illusione pornografica non voleva scomparire. Devo essere un po' più stanco di quanto pensavo.

— Ci vuole un piccolo riallineamento di tre gradi ai sessanta azimuth — trasmise Jeffers.

— Bene. Fatto — rispose Carl. I dati di Jeffers vennero integrati nello stesso istante in cui parlava, e poi cominciò a ruotare nello schermo, linee verdi contro lo sfondo, che mostravano come la Whipple appariva lungo tutti e tre gli assi. Poi comparve l'immagine desiderata, una copertura arancione drizzata ad angolo lungo i due assi. Carl digitò le correzioni.

Sapeva che un branco di alti papaveri stavano guardando attraverso la TV, e Ould-Harrad si trovava sulla superficie sottostante, con gli occhi gelidi e critici. Certamente avrebbero trasmesso alla Terra una versione manipolata, in forma di segnale supercompresso. Occhi in abbondanza per sorprendere un eventuale errore. Osservate Carl Osborn che incastra novanta o più anime a metà pozzo, magari.

Carl scosse la testa. Al diavolo questi pensieri. Stai attento ai vettori e fai il tuo lavoro. Non puoi permettere che i nervi ti confondano le sinapsi, come direbbe Virginia.

Accese quattro jet dietro l'alloggiamento del motore centrale della Whipple. Pulsarono rosso-rubino contro il nero dello spazio. Ognuno di essi s'interruppe in sequenza quando l'immagine arancione sullo schermo del suo casco si fuse con quella verde.

— Fatto.

— Ecco che andiamo — trasmise Andy Carrol. Andy sedeva a prua nella piccola cabina a bolla della nave, e ne aveva il controllo nominale. I getti avvamparono di un azzurro pallido a poppa.

La Whipple s'infilò senza sforzo nel pozzo, evitando con facilità i gialli rivestimenti protettivi.

— Perfetto! — Urlò Andy. — Prendo io la guida.

La protuberanza della chiatta s'inserì con precisione, serrandosi ai binari che le avrebbero impedito di andare alla deriva una volta all'interno. Al comunicatore della tuta, Carl sentì delle grida di giubilo e perfino degli applausi che filtravano da un canale aperto collegato al salone della Edmund.

Il modulo della chiatta si separò, discese. Quelle chiatte a vela erano esili e leggere come un classico veliero del diciannovesimo secolo. La loro struttura snella e argentea trasportava capsule di animazione sospesa, provviste e un equipaggio-robot. Il tutto in moduli cilindrici ben sistemati lungo il telaio tubolare, la colonna vertebrale delle grandi ali che raccoglievano il vento solare. Adesso quei fogli sottilissimi erano ammainati, in attesa di svolgere il monotono servizio di specchi per le serre della superficie. Rimaneva il telaio nudo, una grande bestia adesso spogliata secondo la logica riduzionista, diventata uno scheletro.

E da qualche parte là fuori la Newburn continua a viaggiare. Carl pensò alla quarta chiatta mancante. Perduti. Vittime delle gelide percentuali.

—  Sto invertendo la direzione! — Andy fece arretrare la sua nave con cautela. Sarebbe scivolata giù lungo una pista diversa, dentro la propria cavità. Adesso Jeffers aveva preso il comando dei mech all'interno del pozzo per trainare in basso il modulo con i dormienti lungo quasi un chilometro di pozzo, dentro la camera che era stata preparata per accoglierlo.

Carl accese il suo trasmettitore a conduzione ossea: la quinta sonata per violino di Beethoven, l'ultimo movimento, il liquido frusciare dell note del pianoforte. Un premio. Trascinare in giro grandi masse era roba standard, ma dava una sensazione diversa quando c'erano novanta vite umane in gioco. Aveva bisogno di calmarsi, di rilassarsi. Lo spettacolo principale era finito, ma aveva ancora molte ore di lavoro davanti a sé.

Quel fluido e grazioso ondeggiare della musica da camera pareva a Carl una cosa naturale per lavorare a zero gravità. Non sarebbe mai riuscito a capire Jeffers o Sergeov, che ascoltavano quella roba rauca e pesante dei Clash Ceramic mentre lavoravano. Si lanciò verso il basso, facendo segno a quel punto lontano che era il colonnello Ould-Harrad.

Rallentò sopra il Pozzo 6 per accompagnare l'ufficiale africano, il quale era capace di muoversi nello spazio, ma assai meno abituato a farlo in velocità attraverso le gallerie. Un errore, qui, poteva spiaccicarti contro una parete con un impatto da fratturarti le ossa. Ci volevano anni perché i terragnoli si convincessero, finalmente, che la mancanza di peso non significava assenza d'inerzia.

Schizzarono verso il basso. Le pareti di filofibra sfrecciavano via accanto a loro, illuminate a intervalli regolari da pennellate di fosfori gialli elettrificati. Carl osservava il volto scuro di Ould-Harrad per cercarvi una qualche reazione, ma l'uomo teneva gli occhi fissi e attenti davanti a sé, senza dire niente. Carl avvertì una punta di delusione. Aveva rivestito lui stesso ì! pozzo, senza mech, impiegandoci quattordici ore al giorno per rispettare la scadenza. Ed era un bel lavoro. Ma che lui fosse dannato, se qualcuno aveva fatto anche un solo commento in proposito.

Naturalmente Ould-Harrad era un ortho, e piuttosto intransigente, stando a pettegolezzi di corridoio. Durante il viaggio verso l'esterno quell'uomo si era mostrato remoto, formale, il suo volto impassibile non rivelava nulla. Era chiaro che si aspettava che i giovani arrivati si ricordassero del proprio posto. Era improbabile che desse il benvenuto a un percell addetto ai lavori più umili.

Carl scrollò le spalle e alzò il volume della Quinta Sonata. Soltanto dopo un po' gli venne in mente che, dopotutto, stavano precipitando a testa in giù dentro un pozzo in cui le chiazze dell'illummazione fosforescente rimpicciolivano in distanza, convergendo… Perfino in quelle condizioni di microgravità era probabile che i campanelli d'allarme mentale di Ould-Harrad stessero squillando.

— Attivi i freni. La cavità è soltanto a poche centinaia di metri davanti a noi.

— Vedo. Bene — fu la sola risposta.

Rallentarono mentre la galleria si allargava in una camera spaziosa, già in parte rivestita di un brillantte isolante verde tiglio. Il modulo della chiatta dei dormienti stava già discendendo dall'intersezione con il Pozzo 4, un'intrusione dal profilo tronco che quasi riempiva la metà non ancora isolata della cavità. Dunque, quel ghiaccio primordiale produceva luccicanti riflessi neri e grigio-azzurri per effetto delle sciabolate di luce delle lampade degli uomini e dei mech. Carl aveva aiutato a scavare quelle pareti rozzamente intagliate usando grossi laser industriali. Vene di polvere carbonacea e rugginosi conglomerati tracciavano misteriosi disegni arabescati su quelle ampie distese di ghiaccio nero, come se fossero stati scritti da qualche mano biblica.

— Ahhh. — il suono sfuggì a Ould-Harrad quando si arrestò con una brusca frenata. Carl notò che l'uomo pareva sollevato. Forse avrebbero dovuto procedere più lentamente.

— Su — gridò Jeffers sul canale aperto. — Dobbiamo seppellire queste bare.

La voce autoritaria, dalla pronuncia difettosa, di Ould-Harrad, suonò inequivocabile. — Apprezzerei molto se voi uomini non vi riferiste in questo modo alle capsule.

— Sissignore — rispose Jeffers, secco. — Stia sicuro.

Carl trasmise: — Prendo i mech con la codifica azzurra. — E regolò il suo quadro dei comandi su una dozzina di forme che fluttuavano intorno. L'attrezzattura della chiatta delle capsule era quasi del tutto nascosta dai roboidi che le sciamavano intorno, un esercito di moscerini che montavano le varie sezioni.

I dormienti sarebbero stati immagazzinati in tre cavità ben distanti le une dalle altre per ridurre al minimo la probabilità che un unico incidente potesse paralizzare la missione. Le squadre tecniche — computer, scienze della vita, operazioni meccaniche — vennero suddivise in maniera uguale. Quelle capsule a forma di scatola vennero disposte verso l'esterno come le braccia d'una stella marina che si dipartivano dalla vertebra centrale degli apparati di sopravvivenza e controllo. Le apparecchiature del sistema di sopravvivenza si estendevano, perifericamente, formando una specie di zaino bitorzoluto su ciascuna bara. Carl non poteva fare a meno di vederle in quel modo, sia per l'aspetto, sia considerando il fatto che i dormienti, nel loro interno, erano quanto di più vicino alla morte avrebbero potuto essere… pur potendo ancora tornare indietro.

Ogni capsula doveva venir sistemata in nicchie di duroplastica che le proteggevano ma allo stesso tempo permettevano all'interno di scambiar calore con il ghiaccio vicino. L'idea originaria era stata quella di lasciare che il ghiaccio raffreddasse direttamente i dormienti, ma su Encke Carl aveva visto i risultati di quel sistema: c'era un sacco di anidride carbonica e di neve amorfa che potevano vaporizzare in maniera esplosiva, facendo saltare le valvole e i sigilli delle «bare». Non era una buona idea utilizzare sostanze volatili nel vuoto spinto. Così, i tecnici avevano dovuto predisporre dei paracolpi per proteggere i dormienti dai fremiti, dagli urti e dalla morte improvvisa per congelamento.

— Impacca quegli ortho come sardine — trasmise Jeffers sul comunicatore a corto raggio. — Non voglio che si sentano soli.

Jeffers stava sistemando dei tubi in un punto lì accanto, la sua trasmissione era schermata da quella degli altri. Carl attivò una morsa autoserrante, terminando il proprio lavoro. Poi si allontanò con un calcio.

— Riposati un momento. Qui ci sono anche dei percell.

— Non dannatamente molti. — Era stato Sergeov a parlare, il quale comparve alla vista sbucando da dietro l'argentea sfera d'uno scambiatore di calore. Lo spaziale russo era veloce, abile; mentre Carl guardava, si spostò di colpo, afferrò un cavo da un groviglio che assomigliava a un piatto di spaghetti e lo inserì in un armadietto di controllo.

Quell'agilità rendeva quasi invidioso Carl. Quasi. Il trattamento percell aveva eliminato le malattie del sangue che Sergeov avrebbe erditato dai suoi genitori… ma lo aveva anche privato delle gambe.

Effetti collaterali imprevisti.

Carl si chiese quante volte quella gelida frase analitica l'avesse fatto infuriare, diventare rosso in faccia, indotto a stringere la mano a pugno.

Sergeov era stato uno dei primi, fortunati, insuccessi… ancora vivi. Quei sopravvissuti avevano suscitato i primi timori. La plebaglia poteva vedere le gambe mancanti di Sergeov. Una piccola, sudicia domanda si era intrufolata come un verme nelle loro menti: cos'era che non si poteva vedere? Che ne era stato della sua mente? Era normale? Era ancora umano?

Se era normale riuscire a trangugiare una mezza bottiglia di vodka e anche così riuscire senza difficoltà a far stare in equilibrio i bicchieri vuoti gli uni sopra gli altri, fino a cinque, sì, allora Sergeov era normale.

Meglio che normale. Era andato direttamente nello spazio, dove le gambe, in effetti, erano un intralcio. Tutti quei muscoli e quelle ossa massicce erano inutili in caduta libera, esigendo cibo, ossigeno e tempo per tenerli in esercizio. Rimasugli della lotta contro la gravità. Sergeov era vissuto in orbita dall'età di dieci anni, guadagnando le paghe più alte come assemblatore. Le sue braccia parevano tronchi d'albero; una volta, quand'erano in orbita intorno alla Terra, Carl l'aveva visto trattare un impotente ispettore ortho come se fosse stato una bambola di stracci. L'uomo aveva borbottato un insulto, ma l'aveva prontamente pagato con cinque minuti di umiliazione totale. Eppure, Sergeov non era un sostenitore dell'Altopiano Tre; sprecava le sue energie a raffica, scaricando la sua avversione su tutti i terragnoli.

— Piantala di blaterare — disse Carl. — Vieni ad aiutarmi con questi paracolpi termici.

— Comunque, è vero — insisté Sergeov. — E tutto per delle buone ragioni, sicuro. I percell lavorano bene, così vanno nello spazio. Ciccia! Gli ortho pensano che noi siamo spazzatura, così noi restiamo nello spazio.

Jeffers intervenne: — e finiamo per fare gli autisti agli ortho al di là di Nettuno.

Sergeov sogghignò. Le sue mani, che apparivano eccezionalmente larghe anche attraverso i guanti da vuoto, lavoravano rapidamente in mezzo ai cavi, agili, efficienti, libere dal contrappeso a effetto-leva delle gambe penzolanti. — Da, non preferisco servire da fattorino per gli ortho.

Jefferson ribadì: — Hai dannatamente ragione. Quando potremmo, invece, fare il nostro lavoro.

Carl chiese: — Cosa, per esempio?

Jeffers si girò su se stesso con un braccio, afferrando con l'altro un laser a corto raggio che fluttuava libero. Lo attivò. Una scarica azzurro-bianca schizzò dentro il ghiaccio a molti metri di distanza.

— Ehi! — gridò Sergeov.

Una nebbia bianca esplose davanti a loro. Ribollì via dentro la cavità, diradandosi, ma Ould-Harrad aveva visto. — Ehi, non ho ordinato nessun lavoro di saldatura rapida qua dentro!

— Mi spiace. — Sergeov strizzò l'occhio a Jeffers e gridò: — Era un piccolo ritocco, c'era bisogno di rifondere la giuntura di un loculo.

— Quelle sono persone.

— Mi spiace.

Sergeov sorrise mentre lo diceva. Ould-Harrad era a centinaia di metri di distanza e non poteva vedere il disegno che Jeffers aveva tracciato nel ghiaccio con l'istantanea facilità dovuta alla pratica:

— Non sapevo che tu fossi un figlio di Marte, Jeff — trasmise Carl.

Un fiore-femmina racchiuso dal simbolo di Marte: la rappresentazione grafica di un sogno. Una volta che fosse stato possibile guidare le comete fin dentro il sistema solare interno, sarebbe stato possibile sfruttarle. Ancora più facilmente, una gomitata affibbiata ad arte a una cometa molto al di fuori di Nettuno, uno sbuffo di gas accuratamente calcolalo, avrebbe potuto mandare quelle palle di ghiaccio a schiacciarsi sulle pianure marziane.

Martellare Marte con i nuclei cometari sarebbe servito a creare un'atmosfera. Forse, questo avrebbe perfino indotto i vulcani marziani a eruttare di nuovo. La lenta erosione naturale si sarebbe fermata. L'inaridente marcia degli eoni sarebbe stata messa in fuga: il sogno di Prometeo. Facendo il cielo d'un azzurro aspro, ammantando le montagne di ghiaccio e fiamme, si sarebbero graffiate profondamente le terre, lacerando il permafrost, e liberando altro ghiaccio più antico, sottostante. Nubi, nebbie, e poi la pioggia: un clima sconosciuto da quando il debole calore del Sole aveva fatto evaporare gli ultimi pantani alimentati dai fiumi semiasciutti sul fondo delle intristite valli marziane, miliardi di anni prima, durante quella falsa primavera.

Fra un secolo o giù di lì, un essere umano adeguatamente adattato avrebbe potuto essere in grado di respirare su quella superficie. L'idea era vecchia, ma alcuni percell l'avevano fatta propria. Vedevano in Marte il solo luogo plausibile dove degli esseri umani geneticamente alterati potevano realmente trovare un posto dove vivere. Anche se era ancora arido e freddo e tormentato da strane tempeste, Marte poteva diventare un mondo in cui i loro discendenti, ancora più manipolati geneticamente, sarebbero stati la norma, mentre gli ortho avrebbero sputato fuori i propri polmoni nel giro di pochi minuti.

— Per chi pensi che stia lavorando? — rispose Jeffers.

— È folle — trasmise Carl. — La terraformazione impiegherà secoli. Non è la soluzione dei nostri problemi.

— Un percell può aspettarsi di vivere nello spazio, quanto?, cento anni? Duecento? — Il volto largo, sudato, di Sergeov, irradiò di nuovo il suo inevitabile sorriso.

Jeffers trasmise: — Buttiamoci dentro a un paio di bare. Potremo vederlo tutti.

— Non siamo qui per far questo — disse Carl.

— Jeffers sta soltanto guardando avanti — ribatté semplicemente Sergeov.

— Troppo dannatamente avanti.

— Non esserne troppo sicuro — disse Jeffers, con voce misurata.

Sergeov diede di gomito a Jeffers. — Anche tu sarai un Uber? Due idee non in contraddizione, penso.

Jeffers sbirciò Sergeov con attenzione. — Forse. O forse no.

Carl corrugò la fronte. Tutto questo si stava svolgendo nei comunicatori a corta portata, e ne fu lieto. Uber stava per Ubermenschen, i superuomini di Nietzsche, il passo successivo stabilito dall'evoluzione. Sì, stabilito, concepito. Progettato. Adesso non ci sarebbe stato più una lenta ascesa alla cieca, inciampando ad ogni passo, giudata dalle leggi casuali della natura. Molti percell ritenevano di esser loro il primo passo su una strada lunga e inevitabile.

Carl aveva saputo quali erano le opinioni di Sergeov, ma rimase scioccato nel vedere che anche Jeffers amoreggiava con esse.

Sergeov insistette: — Se gli ortho dicono no alla terraformazione di Marte, io dico sì, semplice.

— È proprio là, nella simulazione della chimica e della fisica, chiaro come qualsiasi cosa — aggiunse Jeffers. — Metti dei mech a spinger giù comete là fuori, oltre Nettuno… ci vorrà un secolo, sì. Noi possiamo farcelo tutto dormendo.

Carl trasmise: — Talvolta un uomo riesce a vedere con maggior chiarezza se tiene la bocca chiusa. — Indicò con un gesto Ould-Harrad che stava sfrecciando nella loro direzione.

— D'accordo, interrompiamo — trasmise Jeffers.

— Comunque, le cose stanno proprio così. Pensaci: il primo passo verso molto di più, forse — concluse Sergeov, scagliandosi lontano con un scrollata muscolare.

Ould-Harrad ispezionò i piani di lavoro per i mech, poi se ne andò. Carl approfittò dell'occasione per allontanarsi e mettersi a lavorare da solo. Non gli era mai piaciuta la politica, e i loro discorsi fuori misura lo avevano inquietato.

S'immerse nella dolce grazia planetare di Beethoven. Spostandosi attraverso le ombre color inchiostro e la gialla luce abbagliante dei fari, spingendo e rimorchiando, annusando l'odore acido della tuta, sentendo il rrrrtttttt delle controversioni vibrargli lungo il braccio, il pizzicare della tuta sulle sue spalle e alle ginocchia a causa del sudore… A Carl venne fatto di pensare alla California.

I suoi genitori lo stavano conducendo in macchina lungo la costa, quando lui gliel'aveva detto.

I quattro anni passati al Caltech erano trascorsi in un lampo di luce dorata e di notti di studio, scherzi di fine settimana e interminabili serie di problemi, laboratori, lezioni, e assai poco amore. Non ne aveva avuto il tempo. Sergeov era così sicuro che i percell erano speciali… be' d'accordo, sì, era magari anche logico che Sergeov dovesse pensarlo, per compensare ciò che non aveva mai avuto. Ma Carl sapeva che le cose stavano diversamente.

Lui se l'era cavata bene perché aveva lavorato, dannazione, non perché fosse più intelligente. Al Caltech aveva sentito una crescente fratellanza con tutti gli uomini e le donne che passavano lunghe ore in stanze solitarie. A differenza degli sgobboni inaciditi o dei ragazzi inesperti, non aveva mai creduto neppure per un momento che gli individui creativi sprecassero il proprio tempo oziando e poi, quand'erano mossi dallo spirito mistico, snocciolassero brillanti idee in preda ad attacchi di furiose e febbricitanti raffiche di travolgente ispirazione.

Per far bene qualcosa ci volevano sopportazione, costanza e uno stimolo continuo.

Questi li aveva. L'intelligenza brillante, no.

Così, mentre i suoi genitori lo conducevano lungo la costa, aveva lottato con quella verità interiore. Aveva presentato domanda a Berkeley per iscriversi all'istituto di astroingegneria e, contro tutte le aspettative, era stato accettato. Non gli avevano offerto nessuna borsa di studio, neppure un posto di assistente insegnante. Ciò significava che, comunque, non lo giudicavano un allievo eccezionale. Suo padre, in tutta onestà, aveva erroneamente scambiato questo per un altro sintomo del crescente pregiudizio contro i bambini creati da Percell. Carl sapeva che non era così. Le università sono bestie lente che non si lasciano smuovere dalla marea del pubblico pregiudizio. Il comitato di ammissione aveva indubbiamente considerato la sua media del 3,3 e avevano visto che era stato ottenuta soprattutto grazie ai buoni voti nei corsi di laboratorio e di disegno. La matematica e la fisica l'avevano messo alle corde più di una volta, stordendolo a colpi di integrazioni complesse a più variabili e di elettronica quantistica.

A nord di Ventura, l'allegro chiacchierio della sua matrigna traboccava di un entusiasmo che lui aveva sempre trovato un po' eccessivo. Non era mai stao capace di dimenticare la lenta morte di sua madre e di abituarsi a questa nuova donna nella vita di suo padre. Così, era rimasto lì, sul sedile posteriore, ad ammirare il paesaggio, cercando di pensare. Le fulve colline di agosto erano scomparse alle loro spalle, rivelando l'azzurro violaceo del mare. La Route 1 scivolava via mentre cercava di spiegare loro i propri dubbi. Le sue storie di remoti campi di battaglia intellettuali risuonavano vuote in contrasto con il solido mondo duraturo esterno. Granai consumati dalle intemperie, il loro legno reso argenteo dall'intensa luce del sole; file di eucalipti, lussureggianti frutteti sui fianchi delle colline, ponti ferroviari lunghi e sottili che scavalcavano su alti trespoli gole impervie, generatori a microfusione scolpiti dentro i pendii delle montagne, mucche che si tenevano immobili come statue all'ombra color inchiostro delle querce frondose. Tutta la spensierata, prodiga ricchezza della Terra.

La Morro Bay pareva una distesa di vetro quando si fermarono lì per la notte. La sua matrigna tutta una serie di «ohòoo» e «ahàaa» nel vedere un agile yacht di alabastro che stava passando via, veloce, al largo, oltre la lingua di sabbia che avvolgeva la baia. Grazioso, sì. Ma a Carl piacevano di più i pescherecci agli ormeggi, sporchi di olio, arrugginiti, scagliosi e ingombri di attrezzature. Si misero a discutere davanti a una zuppa di pesce in un ristorante sul molo. Suo padre era talmente agitato che aveva bevuto lo chardonnay come se fosse acqua, e ne aveva ordinato un'altra bottiglia, tutto rosso in viso.

La mattina dopo si era svegliato sapendo quello che doveva fare. Mentre passavano in mezzo ai pendii erbosi delle colline, girando verso l'interno in direzione di San Luis Obispo fra le basse montagne rocciose, lo disse: tutt'a un tratto e con chiarezza.

E adesso, nel ricordarlo, si avvide di essere stato anche brutale.

Suo padre aveva urlato. Hai intenzione di rinunciare a tutto questo? con un gesto drammatico della mano. E intendeva dire Berkeley, l'università, dove Carl sapeva che sarebbe affondato nei libri senza più emergerne vivo.

Oppure sarebbe anche riuscito a ottenere una laurea, e un ragionevole lavoro dietro una scrivania. E con incredibile fortuna, un dottorato.

Ma sarebbe rimasto perpetuamente di seconda categoria. E avrebbe sprecato molti anni.

Ricordava la mano di suo padre che fendeva l'aria, quel gesto offeso che abbracciava le colline più oltre. Hai intenzione di rinunciare a tutto questo?… e quel tutto era stato, in ultima analisi, la Terra.

Carl lo ricordava nei particolari, come la grana d'una fotografia, malgrado i sette anni affollati che erano passati da allora. Anni di apprendimento su come lo spazio funzionava veramente, non la geometrica certezza delle lezioni di fisica e di matematica, dove ogni problema aveva una soluzione pura e semplice in un universo ordinato. Non il mondo sereno di quel lontano e irraggiungibile yacht. Aveva imparato quello che era veramente lo spazio: sudicio, duro, con un mucchio di problemi che non avevano nessuna soluzione.

Era, per i percell, un luogo naturale in cui riunirsi, pattinando alti sopra le masse brulicanti e suppuranti che li temevano e li disprezzavano. C'era anche la bellezza nello spazio, certo, ma le nicchie che l'uomo si era scavato erano più simili alle chiatte arrugginite, ormeggiate alla Morro Bay, logore e puzzolenti, ammaccate e riparate alla meglio, in grado di funzionare bene ma dall'aspetto disastroso.

Attorno a lui planavano masse voluminose, i fari trafiggevano la gelida penombra. Le bare venivano spinte dentro i loculi scavati nel ghiaccio nero. Il violino di Beethoven cantava accompagnato dalle increspature d'un pianoforte attraverso lo sbadigliante silenzio dei secoli. Carl continuò a faticare ripensando ai lunghi anni che aveva passato nello spazio, lontano dalle verdi confusioni della Terra.

SAUL

Era difficile ricordarsi che la sala era in realtà una grande camera di cristallo, scavata nel cuore d'una antica montagna di ghiaccio. Da nessuna parte era visibile il cupo scintillio dell'idrato di carbonio, venato da luccicanti filoni di gas ghiacciato. Dovunque il filofibra rosa e il vivido sigillante a spruzzo giallo nascondevano la materia primordiale del nucleo di Halley.

Per Saul Lintz assomigliava assai più a una vasta cattedrale kitsch.

La Grande Sala era il cuore del Complesso Centrale, il formicaio di stanze scavate là dentro molto in profondità sotto la superficie di Halley. Le gallerie si dipartivano da qui nelle sei direzioni cardinali, codificate secondo i colori stabiliti, ambra, tiglio, fragola, pesca, acquamarina… e un ampio viale verticale arancione: il Pozzo 1, quindici metri di diametro, che s'innalzava dritto per mezzo miglio fino all'intasato polo Nord della cometa.

I macchinari avevano odore di mandorle, per accogliere la gente mentre affluiva nella sala per l'inaugurazione.

Di tanto in tanto, quando mi si schiarisce la testa, perfino io riesco a sentirne l'odore.

Saul si soffiò il naso e mise via rapidamente il fazzoletto prima che qualcuno se ne accorgesse. Era per questo che sedeva appollaiato su una cassa da imballo vuota in fondo alla sala invece che nei pressi del podio dell'oratore. Era imbottito di antistaminici, ma il naso continuava sempre a gocciolargli e si sentiva perpetuamente sul punto di sternutire.

Drat Akio e i suoi dannati virus addomesticati!

Sollevò lo sguardo sul soffitto a volta. Durante i due giorni che aveva trascorso là sotto, a supervisionare il trasporto del laboratorio di biologia in un alloggio nuovo, più grande, non si era ancora abituato alle strane prospettive che vi regnavano.

Dall'altra parte della sala giaceva lo scheletro della Sekanina, simile alla fragile struttura interna d'un animale sezionato. Il suo incarico di macchinari e di rifornimenti e di ottanta uomini e donne addormentati era stato portato altrove. Ad una estremità penzolavano gli «alberi da pesca» che avevano contribuito a controllare le gigantesche e sottilissime vele a luce solare del vascello, a quanto pareva l'unica macchina che non era stata cannibalizzata o immaganizzata sotto le tende sulla pianura polare.

La sala si riempì lentamente a mano a mano che gli uomini e le donne entravano fluttuando da tutte le direzioni. Qui, quasi a un chilometro dentro il nucleo, la gravità sensibile era così bassa che chiunque cadeva nella galleria arancione là in alto impiegava parecchi minuti ad arrivare fin sul pavimento.

Agli spaziali esperti non piacevano i lunghi transiti. I veterani dello spazio schizzavano fuori dall'imboccatura della galleria sfrecciando attraverso i metri rimanenti nel giro di pochi secondi, ruotando su se stessi all'ultimo istante e toccando terra con le gambe piegate a metà.

Un giovane irruento, tentando un'esibizione spericolata (pensò Saul) aveva però sbagliato i calcoli. Lo stavano curando per un polso spezzato nella camera laterale in fondo alla galleria F, dove Akio Matsudo e i suoi medici avevano sistemato l'infermeria principale.

La gente stava arrivando a coppie e a terzetti. Si raccoglievano in piccoli gruppi per chiacchierare o semplicemente per sedersi sulle casse da imballaggio, prendendosi un momento di riposo.

Vicino alla Sekanina si era formato il gruppo dei capi della spedizione.

Miguel Cruz-Mendoza era di almeno una testa più alto di tutti gli altri: capitano, e forza-guida dietro a dieci anni di preparativi che avevano condotto a quel giorno. Lo spaziale cileno dalla voce affabile aveva delle ben visibili striature di grigio alle tempie le quali non facevano altro che accrescere il suo carisma. Correva voce — per la maggior parte sotto forma di battute — che avesse fatto ogni tipo di pressioni e manovre di corridoio, insistendo talmente perché venisse effettuata quella missione «perché venisse compiuto un grande balzo avanti nel tempo»… ma soprattutto per sfuggire all'accumulo delle amanti e di ogni tipo di donna che lo perseguitavano.

L'idea non era così assurda, in fin dei conti. Saul non aveva mai conosciuto un uomo più abile con le signore. Alcuni dei suoi nemici accreditavano i successi di Cruz alla sua amicizia con certe senatrici.

Non aveva importanza. Il capitano era anche il tipo di condottiero che la gente era disposta a seguire. Molti avevano contribuito a preparare la Missione Halley; ma nessuno, salvo Miguel Cruz, avrebbe potuto far diventare quel giorno realtà.

Il capitano colse per un breve istante l'occhiata di Saul e sorrise. Avevano imparato a conoscersi bene durante lo sviluppo dei cianuti e di altri simbionti ambientali. Saul gli sorrise in risposta e annuì. Quella era una grande giornata per il suo amico.

Cruz si voltò dall'altra parte quando la dottoressa Bethany Oakes gli disse qualcosa. La sua risata era profonda e ricca mentre partecipava alla battuta del suo secondo.

Saul non conosceva la Oakes altrettanto bene, ma ciò che aveva visto di quella donna dalla mascella volitiva e dai capelli castani l'aveva impressionato favorevolmente. Oltre ad assistere il capitano nell'amministrare quel vasto e complesso progetto, Bethany Oakes era anche il capo della Divisione Scientifica.

Accanto ai maggiori capi, c'erano i capi sezione: tutti salvo Matsudo il quale, presumibilmente, stava ancora curando il suo paziente. Nick Malenkov o la dottoressa Marguerite van Zoon avrebbero potuto occuparsi altrettanto bene di quella piccola emergenza. Perfino Saul, per quanto arrugginita fosse la sua esperienza clinica, avrebbe certo saputo cavarsela con una semplice ingessatura.

Ma il rango aveva i suoi privilegi. Di recente Akio si era annoiato. Gli incidenti che non fossero fatali all'istante erano stati rari. Con quell'equipaggio che scoppiava infernalmente di salute, non c'era molto che un medico potesse fare, se non supervisionare i colombari, e liberare di tanto in tanto dei parassiti-sfida per tenere in forma in sistema immunitario di tutti…

Dottore, guarisci te stesso pensò Saul. Aveva preparato una speciale provvista di maleato di dexbromfenilamina, un antistaminico da lungo tempo in disuso ma facile da sintetizzare, che non avrebbe dovuto prescrivere per se stesso attingendo alla farmacia della spedizione: così, non avrebbe lasciato nessuna registrazione nell'inventario.

Sapeva di essere un po' amorale, nascondendo questo a Matsudo. Ma Saul non aveva alcuna intenzione di farsi mettere nel colombario mentre soffriva di un altro maledetto raffreddore. No, in uno dei più eccitanti momenti della storia della scienza.

Più di cento persone si erano raccolte sul pavimento leggermente ricurvo della cavità. Salvo per una ventina o giù di lì che facevano il turno di guardia da qualche parte, tutto l'equipaggio della Edmund era presente, insieme ad una trentina di dormienti svegliati temporaneamente, identificabili dalla loro carnagione pallida e dai movimenti ancora sussultanti.

Qualcuno si era seduto per abitudine, ma la maggior parte era appoggiata sulle dita dei piedi, le ginocchia piegate e le braccia penzolanti davanti a sé nella posizione rannicchiata e quasi fetale degli spaziali.

Il capitano Cruz e Bethany Oakes salirono sulla piattaforma eretta sopra le travi della chiatta spogliata. Cruz sollevò le mani e il sommesso mormorio della conversazione si spense.

— Bene! — L'alto astronauta si sfregò le mani. — Qualcuno vuole un cono gelato?

Gli spaziali e gli scienzati raccolti lì attorno ridacchiarono. Malgrado tutte le diverse culture e le fedi rappresentate in quel luogo, era chiaro che quasi tutti amavano e ammiravano il loro comandante.

Cruz li riscaldò ancora un po'.

— Vorrei ringraziarvi tutti per aver fatto questi milioni di miglia per partecipare a questo incontro. Vi ho convocati quassù dalla Terra per dirvi che, ahimè, la missione è stata annullata. Dobbiamo fare le valige e tornare a casa stanotte stessa.

Questo ebbe l'effetto voluto: proruppero tutti in risate e applausi. Saul sorrise e batté anche lui le mani. Cruz era un genio nell'arte sottile di tenere alto il morale, di far emergere la parte migliore da un gruppo.

Naturalmente non c'era nessun modo perché qualcuno di loro potesse tornare sulla Terra… non prima che fossero trascorsi i settanta e più anni previsti. In questo momento stavano cavalcando Halley diretta fuori dal sistema planetario a più di trenta chilometri al secondo, sfrecciando via dal profondo pozzo gravitazionale del Sole. Quella velocità fulminea doveva attenuarsi e spegnersi, e la grande cometa avrebbe ricominciato a cadere, prima che anche uno solo di loro potesse riprendere il viaggio di casa.

Immerso nei propri pensieri, Saul perse la battuta successiva. Ma la reazione fu la stessa. Ridendo in coro parevano un equipaggio felice. Cruz era deliberatamente socievole, ammorbidiva la folla mantenendo nello stesso tempo la sua aura di completo e rilassato controllo.

Eppure, perfino in quel momento Saul poteva vedere le divisioni. Gli spaziali veramente esperti, ad esempio, si erano raccolti per la maggior parte sulla sinistra. Gli scienzati specialisti della divisione di Bethany Oakes tendevano a rimanere sul davanti del gruppo. Dietro di loro c'era la distesa dei tecnici e degli ingegneri di più di due dozzine di nazioni.

C'erano molti piccoli grappoli a seconda della geografia o della lingua nativa. E quasi ovunque c'era la sottile ma chiara separazione fra la maggioranza degli «ortho», e gli altri, i giovani e aitanti percell.

Naturalmente c'era una certa mescolanza, specialmente fra gli spaziali professionisti. Saul vide Carl Osborn sporgersi in avanti e bisbigliare qualcosa alla ragazza ortho Lani Nguyen. La giovane donna di mise a ridere con un singolo, acuto gorgheggio, e si affrettò a coprirsi la bocca arrossendo. Lani sollevò lo sguardo su Carl con occhi luccicanti, ma Carl era tornato a voltarsi, riportando l'attenzione sul suo capitano.

— Perché siamo venuti qui? — chiese Cruz, con i pugni sui fianchi, le gambe divaricate. Adesso che li aveva scaldati, stava passando a un tono più alto. — Molte sono le ragioni offerte. I filosofi parlano di ricerca scientifica pura, delle grandi domande relative alle origini del sistema solare che potrebbero essere risolte con la comprensione delle più fondamentali questioni dello spazio.

«Altri credono che noi ora siamo sulla cometa di Halley perché si trovava là… o meglio, qui!» Sorrise. «E perché non andarci soltanto perché è affascinante farlo? Questo iceberg volante è sfrecciato sopra le teste di noi terrestri per migliaia di anni, incantando tanti dei nostri antenati…» Cruz sollevò un sopracciglio, «e spaventando a morte non pochi di loro.

Ancora una volta quella deliziata ilarità. Saul osservò il contingente hawaiano, otto fra uomini e donne sui trenta inviati dalla loro terra vigorosa e affamata di futuro. Avevano indossato camicie floreali a colori vivaci sopra i loro mutandoni. Parimenti divisi fra percell e ortho, il gruppo era una sgargiante mistura di tipi e di colori. Mentre si univano anch'essi alle risate generali, una testa si girò. Virginia Kaninamanu Herbert sollevò gli occhi e, voltandosi, guardò nella sua direzione. Vide Saul e s'illuminò d'un brillante sorriso. Saul le strizzò l'occhio in risposta.

— … cercare nuovi composti chimici, o forse per venir usati nella terraformazione di mondi, donando la vita ai pianeti nostri fratelli che sono stati meno abbondatemente dotati rispetto alla nostra amata Terra.

«Forse qualcuno di voi si è offerto volontario per tutta la paga promessa in cambio del servizio richiesto, per la maggior parte settantacinque anni passati a dormire sul lavoro.

Applausi ed evviva, stavolta. Fischi di approvazione.

Cruz allargò le mani.

— Ma ci sono due ragioni speciali, per cui dovevamo venire qua, così lontani da casa, per una missione che separerà la maggior parte di noi in maniera permanente dalle nostre famiglie e dai nostri conoscenti tutti.

«Per prima cosa, e sarò franco con voi, molti sulla Terra guardano a questa missione, con i suoi molti membri di estrazione genetica alterata, come una prova della capacità dell'umanità di elevarsi al di sopra della superstizione e dei pregiudizi. Per cento anni la gente di buona volontà ha combattuto per svezzare la nostra specie dalle reazioni tribali più radicate, da quella paura dell'altro, del diverso, che ha causato un tale odio e orrore da tempi immemorabili…

Da tempi immemorabili… Saul chiuse gli occhi, ricordando Gerusalemme.

— … otterremo un grande risultato se dimostreremo alla gente della Terra che i cosiddetti ortho e i cosiddetti percell, vivendo e lavorando assieme in una lunga e pericolosa missione, possono fidarsi gli uni degli altri, semplicemente come esseri umani, e portare a casa grandi scoperte a beneficio dell'umanità intera.

«Lo stesso vale per i molti gruppi etnici e nazionali qui rappresentati. Noi siamo emissari del ventunesimo secolo inviati nel futuro. Per settanta e più anni, la gente laggiù a casa saprà che siamo qui, intenti a cooperare per il bene più grande.

Cruz lasciò che le parole si depositassero su di loro. Saul vide che molti fra i presenti si stavano guardando le punte dei piedi, d'un tratto a disagio come se non fossero sicuri di essere degni della sua fiducia.

— E, naturalmente, c'è la parte divertente. — Cruz si sfregò sogghignando le mani. — Siamo venuti qua fuori per provare un sacco di giocattoli tecnologici! Raccogliere le comete in orbite accessibili potrebbe spalancarci le porte dello spazio. Il nuovo appiglio alla prosperità che l'umanità ha riguadagnato, dopo il Secolo dell'Inferno, ce lo saremo assicurato per sempre.

«E se dimostreremo in maniera sensazionale che i colombari funzionano bene per più di settant'anni, come tutti i dati indicano che faranno, avremo stabilito che non c'è bisogno che l'umanità rimanga ingabbiata nel sistema solare. Le stelle, anche le stelle, saranno nostre!

Le parole rimasero sospese nell'aria gelida sopra il ronzio dei ventilatori.

E Saul vide ardere la convinzione su molti tra i visi dei presenti. La mascella eroica di Carl Osborn si protese in fuori in omaggio all'obiettivo del suo capitano.

Be', forse in parte è anche cocciutaggine pensò sardonicamente Saul. Quando Carl giocava a scacchi la sua metodica tenacia non voleva mai ammettere la sconfitta fino all'amara conclusione. Ma no pensò Saul, guardando la luce negli occhi del giovane. Lui crede nel sogno di Miguel. E ci credo anch'io, immagino.

Era ovvio che quella sensazione era condivisa da molti spaziali, sia percell che ortho. Quella era la passione di coloro che agognavano il Terzo Livello, il Terzo Altopiano… la gradinata che portava al cielo.

Però ce n'erano altri. Stavano zitti, ma si potevano leggere i segni. Dopotutto, quell'equipaggio non era stato reclutato interamente dai ranghi degli idealisti.

Perché mai un uomo o una donna si offriva volontario per andare in un pericoloso esilio, lontano da qualunque cosa gli fosse familiare? Per molti, compreso lui, Saul, la scelta non era stata del tutto volontaria.

Vide Marguerite van Zoon in piedi accanto ad Akio Matsudo all'ingresso della Galleria F e della nuova infermeria. L'Impero Francese le aveva dato la scelta di offrirsi «volontaria» per quella missione, oppure veder imprigionata tutta la sua famiglia per lesa maestà.

Come ultima cosa Saul aveva sentito dire che suo marito era andato in Indonesia e si era messo in animazione sospesa per aspettare il suo ritorno. Supponeva che fosse un ben piccolo conforto.

E poi c'era il tenente-colonello Suleiman Ould-Harrad. Potenti legami familiari gli avevano permesso di partecipare a quella missione invece di finire in una segreta della Mauritania. Ma lo spaziale nero non pareva per niente felice di trovarsi là. Si teneva sulla destra, insieme a Joao Quiverian e ad alcuni altri provenienti dalle terre equatoriali dell'Arco del Sole Vivente.

Percell e ortho, settentrionali e archisti, estremisti e moderati, e perfino qualche fanatico: Saul era certo che la situazione fosse all'incirca la stessa tra coloro che di trovavano ancora ibernati.

Cruz e Bethany Oakes erano condottieri capaci d'ispirare, e avrebbero ottenuto il meglio dai coloni, ma Saul non si aspettava affatto che quel lungo viaggio fosse privo di guai.

Mai niente lo è, Saul. L'esilio non equivale alla fuga.

Il capitano Cruz proseguì, con un tono cordiale:

— E adesso ho una sopresa per voi tutti. Parecchi di noi avevano molte speranze di grandi progressi scientifici durante questo viaggio, ma scommetto che nessuno di voi si aspettava che dopo poche settimane dall'arrivo avremmo già scritto un nuovo capitolo negli annali delle scoperte umane. — Saul vide agitarsi gli astanti. La gente si guardava a vicenda, un'ondata di scrollate di spalle e di occhiate confuse mostravano che il segreto aveva tenuto, pur con gli ultimi tre giorni di prove frenetiche, esperimenti e controlli raddoppiati.

Saul tirò fuori il fazzoletto e si soffiò quanto più silenziosamente possibile il naso che i suoi genitori gli avevano dato. Sapeva che quella avrebbe potuto essere la sua ultima possibilità per un bel po'.

Cruz sorrise al suo pubblico, spremendo al massimo la suspence per quello che valeva. Sollevò le mani e la folla si quietò un'altra volta.

— Certo non voglio appropriarmi dello spettacolo o rubare le luci della ribalta a qualcuno…

Oh, no si disse Saul. Aveva chiesto a Cruz di non farlo.

— … così, lasciate che chiami qui l'uomo che ha compiuto questa storica scoperta, il cui nome diverrà, nel giro di una settimana, oggetto di brindisi in tutto il sistema solare. Sali quassù, Saul Lintz, e descrivi quello che hai scoperto!

Sospiro.

Saul si spinse lontano dalla cassa da imballo mentre sparsi applausi si levavano da diversi punti della sala. Dopo che, incespicando una prima volta, si sollevò dal pavimento per qualche secondo, dovette sopportare di venir fatto passare di mano in mano da parte dei più esperti di microgravità.

Lungo il percorso, vide che la maggior parte degli applausi venivano da gruppi specifici: Matsudo e Malenkov, che l'avevano aiutato nelle analisi, gli hawaiani in prima fila, alcuni percell…

Altri invece, nei contingenti africani e latini, avevano distolto lo sguardo da lui, e avevano abbassato le braccia, incapaci, come lui, di dimenticare Gerusalemme.

Una donna gli passò le mani sotto il corpo, e lo spinse con forza: partì in volo, senza un minino accenno di rotazione, descrivendo un arco preciso che lo fece atterrare accanto a Bethany Oakes. Bel lancio pensò, quando la piccola donna lo girò in direzione del pubblico.

— Non preoccuparti, Saul — gli bisbigliò Cruz. — Verranno le gambe dello spaziale anche a te. Il tuo problema è che hai passato troppo tempo in quella dannata ruota.

Saul scrollò le spalle. — Alcuni di noi sono troppo vecchi per cambiare, Mike.

Cruz rise e con un gesto indicò che la parola era sua. Saul mise un piede avanti con cautela. Guardò l'assemblea.

— Uhm, sono sicuro che voi ricorderete…

— Più forte, Saul! — Una voce fortemente accentata gridò dal fondo della sala. — Non devi bisbigliare per dimostrarci che non sei un 'levita linguacciuto!

Dei rantoli si levarono dalla folla e parecchi volti scurì parvero d'un tratto impallidire. Saul riconobbe il grido di Malenkov e l'agitarsi della sua mano in fondo alla sala. Il sorridente orso russo aveva il tatto di un tornado. Ma Saul sorrise.

— Mi spiace. Cercherò di parlare più forte.

«Stavo per dirvi che sono certo che tutti ricorderete il fantastico spiegamento di composti organici trovato dalla spedizione sulla cometa di Encke mentre stavano sperimentando le tecniche necessarie a questa missione. Molti di quei composti erano sconosciuti fino a quel momento, e hanno condotto a cambiamenti rivoluzionari nel campo della chimica industriale.

«In effetti, qui, uno dei nostri obiettivi minori è di appurare se la natura non abbia cucinato per noi qualche altro meraviglioso polimero, o aggregato, destinati a diventare preziosi quanto e più dell'enkon e dei clatrati dello stagno.

Joao Quiverian, proprio sotto al podio, corrugò la fronte. Era stato lui a scoprire quei composti, durante la precedente missione, così, in un certo qual modo, era responsabile di alcune delle motivazioni ad esplorare ed a «sfruttare» le comete.

— Ma una delle più eccitanti scoperte su Encke fu che il nucleo di quell'invecchiata e quasi morta cometa conteneva una grande quantità di sostanze chimiche meglio definite come «prebiotiche»… un accumulo di purine, pirimidine, fosfati e amminoacidi quasi identici al tipo di miscuglio che i moderni biologi ritengono formasse la 'zuppa' primordiale che ha condotto alla vita sulla Terra. La speranza era, quando siamo partiti per questo viaggio, che studiando una cometa più grande e più giovane, avremmo potuto, sì, gettare un po' di luce su come erano le cose sul nostro mondo quattro miliardi di anni fa, quando tutto è cominciato.

Saul si schiarì la gola e sperò che il raschiare della sua voce venisse attribuito ad una raucedine ed eccitazione generali. Dieci file più in là, più o meno, fra i variopinti hawaiani, vide Virginia Herbert che gli sorrideva. L'ammirazione nei suoi occhi era piacevole, anche se un po' sconcertante.

Calma, ragazzo. Non immaginare più di quanto non ci sia. Non c'è dubbio che ti consideri una specie di surrogato del padre.

— Bene — riattaccò, — il dottor Malenkov, il dottor Quiverian ed io abbiamo studiato una delle ultime carote raccolte dal dottor Otis Sergeov…

— Non essere modesto, Saul — tornò a interromperlo Malenkov. — Sei stato tu a farlo: la colpa ricadrà su di te!

Stavolta, almeno, la gente rise e applaudì. Saul sorrise. Grazie, Nicholas. Dentro di sé si chiese se il russo non avesse ragione per davvero… se colpa avrebbe potuto, un giorno, essere la parola giusta. Guarda cos'è successo a Simon Percell, il cui nome avrebbe dovuto accompagnarsi a quelli di Galeno e Schweitzer. La fama era una signora volubile.

— … uh, bene, con l'aiuto di quei signori sono stato in grado di isolare…

Oh, suvvia, Saul rimproverò se stesso. Cosa penserebbe Miriam se fosse vissuta per vederti adesso, qui, in piedi, a balbettare, quando hai la possibilità di fare un annuncio del genere!

Saul drizzò la schiena, perdendo quasi l'equilibrio nel farlo. Guardò il suo pubblico e prese a prestito uno dei gesti di Miguel Cruz, allargando le mani.

— I segni sono netti. I campioni non si prestano ad ambiguità. Nessuna contaminazione può spiegare ciò che abbiamo trovato. Abbiamo lavorato per una settimana, per essere certi che non si trattasse di qualcosa portato dalla Terra.

«Come abbia fatto ad arrivare qui, nessuno riesce ad immaginarlo. Come abbia fatto a sopravvivere o ad evolversi… non abbiamo la più pallida idea. Ma quello che adesso sappiamo è che, a quanto pare, siamo inciampati su quello che l'umanità ha cercato fin da quando i nostri esploratori hanno messo piede su un altro mondo, quasi un secolo fa.

Sorrise. Che pensino quello che vogliono.

— Per la prima volta, signore e signori, per la prima volta abbiamo trovato i segni inequivocabili di vita al di fuori della Terra.

PARTE SECONDA

NEL CALDO ALITO DI QUEI GIORNI

Quando muoiono i mendicanti, non si vedono comete —
Il firmamento stesso avvampa per la morte dei principi.

William Shakespeare

Fig. 11 — Colonia di Halley 2062

Edmund Hallay ormeggiata alla torra dal Polo Nord

VIRGINIA

La grande, ruzzolante montagna di ghiaccio sfrecciava verso l'esterno nel vuoto. Dietro di essa, sempre più piccolo e più debole col passare di ogni turno di guardia, il Caldo precipitava via nell'eterna oscurità.

Per un breve momento l'avvampante fornace del Sole aveva raschiato e scalfito e cotto quel minuscolo mondo innevato, aveva caricato e fatto crepitare la sua temporanea atmosfera, inviando ondeggianti bandiere di gas ionizzato a sbattere alla brezza interplanetaria. Ma poi quella fugace estate era passata. Le fiamme erano rimaste un'altra volta indietro, ancora luminose ma sempre più innocue, ora dopo ora. La selvaggia esuberanza del passaggio al perielio stava rapidamente svanendo nel ricordo. L'autunno fu contrassegnato da una leggera caduta di polvere. I minuscoli frammenti, trascinati via dalla superficie dal soffio sempre più debole del gas in perdita, non avevano mai raggiunto del tutto la velocità di fuga, neanche con una forza di attrazione così debole della cometa. Gradualmente erano ritornati indietro, coprendo d'una scura patina simile al talco i campi di ghiaccio e gli affioramenti rocciosi. Il guizzante serpente della coda di plasma era già scomparso e adesso l'accorciata coda di polvere, così simile a scintillanti vessilli angelici non molto tempo addietro, si stava dissipando a mano a mano che l'antica cometa superava sfrecciando Marte e proseguiva oltre, verso l'orbita di Giove.

Virginia lo trovava magnifico. Adesso qua e là la scura regolarità appariva spoglia, esponendo al vuoto un sonnacchioso substrato di ghiaccio. Malgrado una sottile chioma di scintillanti ioni rimanesse ancora tenacemente sospesa sopra di loro, la volta celeste mostrava già adesso più stelle di quante erano visibili durante le buie notti tropicali sulla Terra.

Scommetto che la vista è ancora più spettacolare di persona, pensò. Un giorno, io stessa devo salire davvero in superficie.

Sentiva la morbida ragnatela che la tratteneva al suo scheletro replicante, in una caverna-laboratorio situata in profondità sotto milioni di tonnellate di materia primeva. Ma per il resto, era come si trovasse di persona sulla superficie della cometa. Le immagini olografiche le comunicavano una sensazione quasi perfetta, di trovarsi fuori sul ghiaccio.

Indossava, e teleoperava, un mech da superficie di terza classe, muovendo le lunghe e affusolate zampe da ragno come avrebbe fatto con le proprie, guardando con i suoi occhi rotanti, percependo il lieve tocco delle molecole alla deriva come un vento sul proprio viso. La punta delle sue dita manovrava con delicatezza nelle tenaglie waldo del mech, mentre inviava una serie di comandi mentali all'ospite meccanico facendogli compiere evoluzioni sul ghiaccio.

La tecnica era stata tentata per la prima volta verso la fine del ventesimo secolo, e a quell'epoca era parsa molto promettente… fino a quando parecchi disastri, tristemente famosi, non avevano portato al quasi abbandono delle interfacce dirette mente-macchina. Era risultato che ci voleva un tipo tutto speciale di personalità per controllare un mech in quella maniera, senza permettere che pensieri casuali e un centinaio di riflessi umani interferissero, talvolta nel modo più catastrofico. Questo era stato scoperto nella maniera dura, durante quelle prime, ingenue applicazioni agli aerei e ai robot delle fabbriche. Anche oggi spaziali come Carl Osborn tendevano a non fidarsi di quella tecnica, preferendo i comandi a voce e al tatto.

Questo accadeva allora, comunque. Adesso è adesso.

Una delle ragioni della sua presenza in quella missione era il fatto che, per la prima volta dopo decenni, era stato fatto un uso così ampio di robot controllati mentalmente.

Vasha Rubenchik è un vero genio pensò Virginia, mentre guidava destramente il mech oltre una piccola altura. I russi sono stati degli idioti ad esiliarlo qua fuori, qualunque fossero le sue opinioni politiche. Mai prima d'oggi avevo sperimentato un collegamento così buono.

Peccato che Vasha fosse già in animazione sospesa, altrimenti Virginia l'avrebbe lodato per la bravura che aveva dimostrato mettendo a punto secondo le sue specifiche i contatti neuroelettrici e olografici. Era quasi certo che questo, da solo, avrebbe potuto assicurare ad entrambi le royalty sul brevetto, una volta che i dati fossero stati trasmessi a casa. Il gruzzolo si sarebbe accumulato nei loro conti in banca mentre dormivano per la maggior parte dei sette decenni e mezzo che li attendevano.

Malgrado i soldi non fossero la cosa più importante per lei, Virginia aveva visto quanto potevano esser utili, specialmente quando qualcuno voleva lavorare in settori disapprovati dalle autorità costituite.

Non vedeva l'ora che le cose si fossero un po' calmate, e ci fosse un po' di tempo libero per tentare alcune di quelle nuove tecniche, insieme a JonVon.

Quasi fosse stato chiamato, una voce ronzò lungo il suo nervo acustico:

SONO PRONTO A IMPEGNARMI IN NUOVI PROBLEMI TUTTE LE VOLTE CHE VUOI, VIRGINIA, IL MAINFRAME DELLA MISSIONE USA SOLTANTO IL 15% DELLA MIA CAPACITÀ, IN QUESTO MOMENTO… VUOI CHE ASSUMA UNA PERSONALITÀ SIMULATA?

Oh, magnifico pensò Virginia. Tutto quello che mi serve mentre controllo un mech, fuori in superficie, sarebbe proprio di lasciarti costruire Olivier, o O'Toole, o qualcuno di quegli altri rubacuori dei vecchi film… per poi farmeli caracollare intorno, a sbuffarmi nelle orecchie.

Aveva scelto di utilizzare attori pre-vid negli esperimenti di simulazione della personalità, in parte per atavismo romantico, e in parte perché al giorno d'oggi erano meno familiari al pubblico. Erano i migliori, per essere usati su soggetti che nulla sospettavano, per effettuare test di Turing alla cieca. Sulla Terra le simulazioni avevano ingannato quasi tutti anche se non erano ancora niente di simile a quello che — ne era più che convinta — avrebbe potuto essere.

OPPURE POTREI FAR RIVIVERE SHELLEY. LA SUA POESIA TI PIACE.

Virginia subvocalizzò con chiarezza e rapidità:

Non adesso, JonVon. Mamma ha da fare. Se tu non hai abbastanza da fare, aiutando il mainframe della colonia, occupati di alcuni di quei problemi secondari che ti ho assegnato.

MOLTO BENE. CONTINUERÒ A INFILTRARMI FRA GLI ARCHIVI DELLA COLONIA E FICCANASERÒ PER VEDERE COSA HA PORTATO LA GENTE COME BAGAGLIO PERSONALE. HAI ESPRESSO CURIOSITÀ IN PROPOSITO.

Virginia esitò, poi fu d'accordo: D'accordo. Fallo. Soltanto, non lasciare nessuna traccia.

Naturalmente, era un po' amorale servirsi dei suoi strumenti e delle sue speciali capacità per ficcare il naso nelle faccende private degli altri. Ma d'altronde Virginia aveva sempre creduto che la gente tendesse a conservare troppi segreti.

Comunque, serviva ad aumentare il numero di persone a cui fare attenzione. Quella dozzina di membri dell'equipaggio ancora caldi che si trovavano in giro non erano neanche sufficienti per un minimo di pettegolezzi durante i sedici mesi del Primo Turno di guardia. Vista la necessità di ridurre al minimo il consumo dei generi di prima necessità non rinnovabili, tutti gli altri erano già stati messi a sonno freddo, lasciando che quelli del Primo Turno dessero il tocco finale agli habitat e alle altre attrezzature.

Bene, Ginnie, ti sei offerta volontaria per il Primo Turno. Sapevi che sarebbe stato uno dei più impegnativi.

Sì, ma ci sono anche occasioni. Più tardi pensò, più tardi, una volta che le cose si saranno calmate, avrò la mia possibilità. Lunghi deliziosi periodi per poter lavorare.

Il suo mech terminò la lenta ispezione della superficie mentre l'imboccatura del Pozzo 2 compariva alla vista.

Piena di cicatrici, graffiata e cosparsa di spazzatura, la regione polare settentrionale non assomigliava per nulla ai resti originari della creazione. Casse di materiali di scorta giacevano ancorate al ghiaccio oppure legate sotto «tende» di fibratessuto, in attesa di venir utilizzate più avanti. I rottami erano sparpagliati dappertutto.

Più lontano, svettavano alte sei piramidi scure fatte dei residui estrattivi dagli scavi dei pozzi, sommariamente separati in mucchi di minerali grezzi di antichissima origine ricchi di ferro-nikel, platino e iridio, e di fanghiglie carbonacee… molto simili alle sabbie bituminose della provincia canadese di Alberta. A una certa epoca, molto più avanti, quando lei sarebbe già stata in animazione sospesa, l'equipaggio di turno avrebbe cominciato a trattare quei mucchi traendone delle cose utili, ad esempio gli alloggiamenti dei propulsori a gas cometario.

Per riportarci di nuovo a casa. Non per la prima o l'ultima volta si chiese come sarebbe stata la Terra al loro ritorno. Se tutti i loro grandiosi progetti sarebbero risultati validi. Le Hawaii, la Terra, sarebbero state riconoscibili? Più amichevoli? Oppure sarebbe stato un mondo alieno, alterato al punto da essere irriconoscibile?

Halley sfreccia
nei secoli,
a intervalli…

Ad una spanna umana di distanza

Halley raccatta
i tempi che cambiano
la vita delle nazioni…

in un battito del suo cuore.

Uhm. Grazie al cielo in questo momento aveva fin troppo da fare, altrimenti sarebbe stata tentata di registrare quei pochi versi scadenti. Comunque, forse, avrebbe potuto tirarne ugualmente fuori qualcosa.

DEVO IMMAGAZZINARLI O CANCELLARLI, VIRGINIA?

Trasalì, poi subvocalizzò in fretta, JonVon, pensavo che te ne fossi andato. Quelle erano riflessioni private.

RIFLESSIONI PRIVATE — MEDITAZIONI — FANTASIE…

Basta! E JonVon si azzitti subito.

Irritata, Virginia riprese il controllo dei propri pensieri e si concentrò per manovrare il mech e riportarlo verso il suo ambiente di lavoro. Le zampe da ragno ruotarono una per volta. Le vibrazioni superficiali si traducevano in suoni, cosicché lei «sentiva» i piedi del mech che calpestavano la polvere scura facendola scricchiolare.

Qui, durante le prime fasi del lavoro, era stato prodotto tanto di quel vapore che una consistente porzione si era nuovamente condensata, invece che sfuggire nello spazio. Una neve sfavillante si era ricongelata in pochi istanti intorno ai condotti di sfogo del calore e dei gas che uscivano dalla Centrale. Ampie colate iridescenti si erano riversate intorno all'imboccatura del Pozzo 2.

La stessa camera di equilibrio era qualcosa di più di una struttura tetra e funzionale. Ben lungi da questo, Virginia la vedeva come un'opera d'arte. Supporti strutturali erano stati modellati in pressofusione formando alti archi fatati. Gli ancoraggi alla base parevano pugni nodosi che rinserravano l'antichissima materia di cui era fatta Halley.

Soltanto poche parti essenziali erano costituite da prezioso metallo raffinato, recuperato dalle navi automatiche di trasporto. I supporti e il corpo dell'edificio erano stati abilmente scolpiti dalla cristallina acqua ricongelata.

Era uno dei motivi per cui a Virginia piaceva lavorar fuori, al Quadrante 2, dove Jim Vidor aveva avuto il comando della squadra da costruzione. Quell'uomo era un artista.

— Costruiamo meglio quando siamo costretti a improvvisare — disse sommessamente tra sé Virginia.

Un'onda portante si inserì, subito seguita dalla voce di una donna:

— Cos'era, Virginia? Hai detto qualcosa?

Virginia girò la testa un po' troppo in fretta, inducendo il mech a ruotare goffamente mentre si sforzava di seguire i suoi movimenti. Finalmente una figura magra, in tuta spaziale, comparve nel campo visivo di Virginia, in piedi sopra una fila di figure scure legate al ghiaccio.

— Oh, mi spiace, Lani: stavo soltanto ammirando quello che Jim e i suoi ragazzi hanno fatto, fondendo e scolpendo questa camera di equilibrio.

La tuta spaziale di Lani Nguyen era stata alleggerita dalla pesante armatura, adesso che l'estate era passata e non c'era più pericolo che improvvisi getti di gas scagliassero fuori con violenza schegge di roccia. Una sorta di cotta in panno bianco copriva la tuta all'altezza del petto riproducendo la testa d'un unicorno sorridente, un simbolo che avrebbe consentito a quelli che lavoravano troppo lontani e non potevano guardarla in viso d'identificare Lani. In quel momento, comunque, il sole a picco si rifletteva sul suo visore opaco nascondendo i suoi morbidi lineamenti afro-asiatici.

— Sì, è grazioso. Ma non del tutto sicuro, a mio avviso. Al prossimo turno, Jeffers dovrebbe tirar fuori i macchinari della fabbrica e cominciare a lavorare un po' di quel ferro e carbonio ammucchiati là. Dormirò assai più tranquilla nel mio loculo sapendo che c'è un'autentica fibra-antitensione quassù, che tiene dentro l'aria.

Virginia sospirò sommessamente. — Sì, suppongo che tu abbia ragione. Ma spero ugualmente che lascino qualcuna di queste strutture di cristallo al loro posto. Sarebbe un peccato se lasciassimo soltanto cicatrici su ogni centimetro di questo piccolo mondo.

Sentì Lani sbuffare, ma con cortesia, senza nessun altro commento.

Virginia sapeva che per uno spaziale i discorsi sulla «conservazione della natura» non erano altro che una forma di luddismo. Andava benissimo cercare di salvare quello che rimaneva sulla povera e svuotata Terra, ma applicare quelle idee alle vaste risorse che si trovavano là fuori per gli spaziali era segno di ottusità.

Stupidi o no che fossero, comunque, una grande maggioranza di terrestri la pensavano così. E Virginia non era ancora sicura se essere o no in disaccordo.

Riportò il suo mech accanto al mucchio di apparecchiature e aiutò la ragazza ameroasiatica a scaricare una nuova cassa di rivestimento per gallerie in fibratessuto. Carl Osborn sarebb; salito fin lassù tra non molto per lavorare insieme a Lani su un nuovo collegamento fra il Pozzo 2 e il Pozzo 1. Lani aveva chiesto a Virginia di salire, per mech interposto, naturalmente, per aiutarla a montare un voluminoso mech autonomo in vista dell'imminente operazione.

Questo mio mech funziona davvero benissimo pensò Virginia. Il modello era certamente in gamba quel che bastava ad eseguire gli ordini di Lani senza il mio controllo diretto. Mi chiedo quale sia stata la sua vera ragione per chiedermi di essere presente quassù.

Insieme spinsero la cassa verso il portello spalancato della camera di equilibrio, fornendo il sostegno della punta delle dita per quel voluminoso carico soggetto soltanto alla debole attrazione del nucleo di Halley. Fu allora che Lani parlò di nuovo, con voce volutamente disinvolta.

— Fintanto che sei quassù, Virginia, voglio ringraziarti per avermi aiutato a fare il Primo Turno.

Virginia trasalì, e fece quasi cadere la sua estremità della cassa mentre la stavano calando fino al pavimento della camera di equilibrio.

— Uhm… sei la benvenuta, Lani. Non… non credo di aver cambiato troppo le cose, comunque.

Questo era certamente vero. Tre settimane prima, mentre cento fra uomini e donne, temporaneamente risvegliati, si aggiravano intorno come formiche che si preparassero al lungo inverno, Lani aveva accennato qualcosa a Virginia circa la possibilità d'influenzare gli elenchi degli addetti ai vari turni. Lei avrebbe voluto rimanere sveglia per il primo periodo di un anno e mezzo, dopo che quasi tutti gli altri fossero stati raffreddati.

Un certo numero di membri dell'equipaggio parevano condividere la convinzione che Virginia avesse una specie di ingresso segreto ai circuiti principali della missione a bordo della Edmund. Qualcuno le aveva perfino fatto delle richieste molto più esplicite. Cortesemente, lei non si era impegnata con nessuno di loro. La gente accettava quel genere di risposta assai meglio che un immediato rifiuto.

Ad essere onesta, con tutto quello che aveva dovuto fare, Virginia si era del tutto dimenticata, fino a quel momento, di quella timida preghiera di Lani.

Dovettero premere sulla cassa per sistemarla a ridosso dell'altro equipaggiamento. Adesso l'attrazione di Halley era come la melassa.

— Ti sono davvero grata. Non me la sentivo proprio di andare là sotto a dormire… a passare tutto quel tempo… con la mente che mi gira come una trottola. Ci sono cose… cose che devo risolvere con me stessa.

Malgrado avesse girato a metà la testa dall'altra parte mentre parlava, adesso il volto di Lani era visibile sotto il visore del suo casco. La giovane donna avrebbe facilmente potuto essere hawaiana, con i suoi lineamenti lievemente eurasiatici e la pelle sana e soda. In questo momento, però, la spaziale di seconda classe Lani Nguyen pareva turbata, la sua bocca si muoveva come se stesse cercando delle parole per esprimersi.

Oh, c'era da aspettarselo pensò Virginia. Sulla Terra ci avevano detto che a turno tutti avremmo dovuto fare da terapisti, sacerdoti, confidenti l'uno dell'altro. E poi hanno caricato la spedizione di esiliati, menomati e profughi.

Come me. Sospirò. Sii onesta con te stessa, Ginnie. Ti senti meno confusa di questa povera ragazza?

Aspettò, e alla fine Lani parlò di nuovo.

— Virginia, mi stavo chiedendo… uhm, cosa pensi delle leggi sulla Nascita e l'Infanzia?

Virginia fu lieta che il mech non potesse mostrare la sua viva sorpresa.

— Be', uhm, non mi sembra del tutto giusta… anche se immagino ci siano argomentazioni da entrambe le parti. Immagino che non ti piacciano molto, Lani. Dopotutto, tu sei una…

— Una spaziale, sì. — Lani annuì. — I miei genitori erano tecnoliberali della California. Mi hanno raccontato storie sin da quando ero bambina, su come il futuro dell'umanità sarebbe stato fuori, nello spazio. Come un giorno l'umanità avrebbe riacquistato nerbo e iniziativa qui fuori, ridiventando ricca, felice e generosa. Soltanto gli individui grigi e monotoni del tipo rimango-a-casa, avrebbero continuato a vivere sulla Terra.

A disagio, Virginia cambiò posizione. Il mech rispose con una nuova inclinazione del pelvi.

— I tuoi genitori avevano ragione, Lani. Lo spazio sta salvando l'umanità. Perfino i reazionari e gli archisti lo sanno. Perché pensi che le Hawai abbiamo investito così tanto in questa spedizione? Quei sogni diverranno realtà, un giorno.

«Immagino sia dovuto al fatto che il Secolo dell'Inferno è ancora fresco nei ricordi di tutti. È per questo che tanti paesi sono così sospettosi. Per prima cosa lo spazio dovrà servire la Terra fino a quando la ripresa non sarà stata completata. Non preoccuparti, comunque. Sono sicura che vivrai fino a vedere il Terzo Altopiano.

La vista del mech si adattò alle ombre. Attraverso la visiera dell'altra donna, Virginia la vide scuotere la testa.

— Sarà troppo tardi per me, probabilmente. Dovrò andare a vivere sulla Terra per avere i miei bambini, e nessuno spaziale maschio vorrà lasciare il Buio per restare al mio fianco, ridiventando un latoterra.

Eccolo, esposto come una ferita aperta. Virginia sentì il palmo delle sue mani diventare sudaticcio sui suoi comandi waldo. Se c'era un argomento del quale avrebbe preferito non discutere, era proprio questo.

Replicò, con finta leggerezza: — Non è una esagerazione?

Lani sollevò lo sguardo. I suoi occhi scuri erano tristi.

— Guarda le cifre, Virginia. Tutti gli spaziali hanno immagazzinato lo sperma e gli ovuli nelle banche sulla Terra. La maggior parte genera per interposta persona, salvo quelli che sono percell, che non riescono a trovare genitori surrogati per la loro prole. Stanno ancora peggio di noi ortho.

Virginia si sentì investire da una sferzata di selvaggia ironia. Per lo meno, quella ragazza aveva qualcosa da immagazzinare. Aveva un biglietto per il futuro.

Io che cos'ho, se non le mie macchine? pensò Virginia.

— I livelli radioattivi in cui vivete lo rendono necessario, non è vero, Lani? — Una verità lapalissiana, naturalmente.

Lani scrollò le spalle.

— Se ci avessero lasciato costruire delle vere colonie spaziali, invece di semplici fabbriche e capanne per la sopravvivenza in orbita, noi spaziali potremmo sposarci e metter su famiglia insieme. Così, invece, quelle spaziali che tornano a casa e chiedono di riavere il loro plasma, sono costrette a rimanere laggiù con i loro figli. La maggior parte di noi è costretta a sposare dei terricoli, dal momento che nessun uomo come Car… dal momento che nessun uomo dello spazio rinuncerebbe mai al Buio senza lottare.

Virginia cercò di riportare la conversazione sull'astratto, dove si trovava assai più a suo agio. — È una situazione dura, Lani, ma le stesse leggi…

— Le leggi sulla Nascita e sull'Infanzia sono un imbroglio! Tu sai che sono soltanto misure reazionarie contro qualunque cosa appaia nuova e faccia paura alle masse! Non vogliono perdere il controllo su di noi qua fuori! Hanno terrore dei cambiamenti!

Virginia soffocò la sua reazione impulsiva: si bloccò mentre era sul punto di dire alla ragazza di non insegnare a sua nonna come succhiare le uova. Cosa mai aveva da insegnare a lei una sana ragazza ortho sulla vita? Sull'amarezza e l'ombra cupa delle persecuzioni? C'era soltanto un uomo, là fuori, al quale Virginia era pronta a prestare ascolto, o che aveva il diritto di dire qualcosa su quelle faccende.

Qualcosa di tutto questo doveva essere stato trasmesso dalla posizione del mech ospite sulle sue sei gambe. La donna in tuta spaziale si raddrizzò e scosse la testa.

— Mi spiace di aver gridato, Virginia.

— Non è niente, Lani. Su, andiamo a prendere l'ultima cassa. Sai bene che l'inferno non è niente, paragonato al furore di un sottufficiale davanti ad un lavoro incompleto. Vogliamo finire prima che arrivi Sua Grazia, lo spaziale di prima classe Carl Osborn.

Lani scoppiò a ridere, ma terminò tirando su col naso e scuotendo la testa. Virginia allungò delicatamente un braccio manipolatore e toccò la manica isolata della tuta spaziale. L'altra donna annuì e uscirono di nuovo sotto le stelle a prendere l'ultima cassa.

Avevano trascinato il voluminoso contenitore fino a metà strada dalla struttura della camera di equilibrio, quando una sventagliata di luce uscì dalla porta dell'ascensore, subito dopo lo spruzzo color avorio del gas liberato.

Ne emerse una figura alta, voluminosa, in tuta spaziale. Virginia riconobbe Carl Osborn dai suoi languidi e fluidi movimenti lungo il cavo-guida ancora prima di riuscire a distinguere il disegno che codificava il suo nome sulla cotta.

— Ciao, Carl — trasmise Lani.

— In perfetto orario, a quanto vedo — aggiunse Virginia. Carl si fermò di colpo.

— Virginia! Sei qua sopra? Bene, bene, non riuscivi a star lontana da me, vero?

Rivolse un inchino al suo mech. — È una bella giornata per una passeggiata in superficie. Dovresti avvertirmi la prossima volta che hai intenzione di salire.

Finalmente Carl si girò e salutò la sua compagna di squadra con un cenno del capo.

— Ciao, Lani. Fai attenzione con quella estremità. Sta scivolando.

— Oh, scusa, Carl. La prendo…

In effetti Carl avrebbe dovuto rivolgersi alla persona in carne e ossa prima di parlare con quella presente soltanto in waldo. Il casco di Lani Nguyen si era opacizzato sotto il vivido bagliore del sole, così Virginia non era riuscita a cogliere la reazione della ragazza. Ma aveva i propri sospetti.

— Ti lascio qui con il Dono del Cielo per le spaziali alla deriva, Lani — trasmise Virginia. — Sono sicura che è capace di fare un ottimo lavoro se lo si sorveglia con cura.

Carl volgeva la schiena al sole, così la visiera del suo casco era trasparente. Virginia lo vide sbattere le palpebre mentre si affrettava a interloquire:

— Perché non vieni anche tu, Virginia? Siamo incappati in alcune interessanti formazioni sintetizzate e ricristallizzate, scavando sempre più in profondità dentro il nucleo. Sono diverse da qualunque altra cosa abbiamo incontrato fino ad ora.

Virginia dovette ammettere che, malgrado le trovasse eccessive e imbarazzanti, le attenzioni di Carl le facevano tuttavia piacere. Quell'uomo era così maledettamente attraente… alla maniera di un eroe cinematografico, in un certo qual modo.

Se fosse stato quello il tipo di eroe che cercava… ma no, non lo era. Non in questa vita. Non adesso.

Fece eseguire al mech l'imitazione di un inchino. — Sembra una prospettiva eccitante, Carl. Informerò Saul Lintz. Lui e Joao Quiverian sono i cometologi di servizio durante questo turno. Sono sicuro che saranno entusiasti di vedere le tue fotografie e di ricevere i tuoi campioni.

Sulla fronte di Carl si disegnò una piega amara. Ovviamente non era questo che aveva in mente.

— Ci vediamo, Carl. Buona fortuna, Lani.

Attivò la procedura di disimpegno, lasciando che il sistema a bordo del mech prendesse il controllo mentre la sua presenza teleportata rifluiva nel laboratorio sepolto nel sottosuolo, là dove giaceva il suo corpo. Le immagini svanirono, ma prima che sparissero del tutto, e le luci si accendessero, vide che Carl «la» stava osservando ancora… e Lani Nguyen stava osservando Carl.

CARL

Le loro torce erano lame di luce azzurra che tagliavano la nebbia ribollente.

— Tienti salda. Si schiarirà fra un minuto — trasmise Carl.

Leni Nguyen affondò un bastone appuntito dentro una crosta di acqua ghiacciata per mantenere l'equilibrio. — Che eruzione! Doveva essere imbottigliato là dentro da un miliardo d'anni.

Avevano appena terminato una nuova galleria. I mech avevano fatto il lavoro iniziale una settimana prima, con uno scavo grezzo; ma era opportuno che fossero gli umani a occuparsi delle rifiniture, i mech avevano una loro strana maniera di lasciare dei pericolosi solchi dai bordi affilati come coltelli.

Entrambi avevano usato il proprio laser a ventaglio e a potenza ridotta, spuntando e raschiando via ogni sporgenza del ghiaccio. Ogni occasionale macigno doveva venire scalpellato tutt'intorno, oppure il ghiaccio in cui era incastonato doveva venir vaporizzato dal laser sul raggio ristretto, perché poi fosse possibile rimuoverlo dalla sua sede. Infine, veniva spinto fino al più vicino incrocio, dove un mech lo aggiungeva al mucchio dei detriti.

Leni stava cercando di far leva sotto una roccia grossa quanto una sedia quando Carl commentò, sbrigativo: — Ricordati di Umolanda. — Lani annuì, muovendosi con cautela, tirando, e d'un tratto il blocco roccioso mollò l'incastro, spinto dalla pressione che agiva da dietro. Schizzò fuori una nebbia perlacea.

Lani cercò di sbattere via il vapore agitando le braccia, senza risultato. — Pensi che sia un'altra cavità con alluminio fuso?

Finora la spedizione aveva trovato quattordici sacche, ognuna contenente vapore e perfino un po' di liquido. Carl sbirciò attraverso il foro.

Una pozza gorgogliante bolliva lentamente in fondo ad un'ampia camera naturale sferica. Una nebbia si alzava da essa a raffiche e a spruzzi. Un vapore multicolore ne sgorgava spumeggiando. — Dannazione, pare che ci sia della minestra sul fuoco!

Lani corrugò graziosamente la fronte: — La zuppa primordiale, già. Lintz e Malenkov vanno in solluchero al solo pensarci.

— Così non li abbiamo tra i piedi.

— Scommetto che Quiverian soffre di incubi con quei due che scoprono ogni genere di roba succosa sulla sua cometa.

Mentre guardava, Lani si pulì una chiazza appiccicosa e purpurea dalla manica. — Ecco. Dio soltanto sa che razza di roba sia questa.

Carl sogghignò. Lani preferiva l'austera semplicità del lavoro nello spazio, la meccanica newtoniana delle linee diritte e dei vettori conosciuti; dell'acciaio lisciato dal sole e delle superficie spoglie e pulite. Non il buio e gli schizzi provocati dal lavoro nelle gallerie.

— Non è meraviglioso, quello che può fare la creazione con poche, semplici molecole soltanto? — Mantenne un volto impassibile. Si era sentito un po' strano da quando aveva incontrato il mech di Virginia sulla superficie soltanto poche ore prima. Il mech e Lani erano parsi impegnati in un colloquio molto intimo, azzittendosi immediatamente al suo arrivo. Forse avrebbe potuto indurre Lani a dirgli cosa tormentava Virginia.

— Non è divertente, Carl. Questa poltiglia potrebbe entrare in un'articolazione, irrigidirla.

— Evaporerà.

— Ma davvero? E allora, come mai non è bollita via quattro miliardi di anni fa?

— È rimasta sotto pressione.

— Ma ogni cosa dev'essersi congelata subito dopo i primi giorni.

— Probabilmente. Questo è stato soltanto un iceberg volante per miliardi di anni, fuori, al di là di Nettuno. Ma all'inizio, quando il sistema solare si è condensato, c'era parecchio alluminio 26 su Halley: la Sezione Chimica ha riferito di aver trovato i prodotti del decadimento, ricordi?

— Oh, già. I residui della stessa supernova che hanno attivato i residui del sistema solare.

— Così dicono. Comunque, il decadimento dell'isotopo 26 dell'alluminio ha fuso queste cavità. Potrebbero aver continuato a far distillare la brodaglia abbastanza a lungo da cucinare quelle sostanze chimiche esotiche e quelle forme di pre-vita che Lintz ha scoperto. Non so.

Lani allargò l'apertura con un piccone. — Allora, quando Halley è stata sbattuta nella sua orbita attuale, il Sole ha riscaldato di nuovo queste sacche calde? Ondate di calore ad ogni estate al perielio?

Carl scrollò le spalle. — Dev'essere stato così. — Non riusciva a pensare a un modo per manovrare quella conversazione così che Lani fosse indotta a parlare dei segreti di Virginia.

— Il calore del Sole dell'anno scorso, quello deve ancora filtrare giù attraverso il ghiaccio, raggiungendone quel tanto che basta per mantenere liquidi questi punti caldi locali.

— Esatto. Malenkov e Vidor hanno misurato l'onda termica.

La fontana si sbriciolò in gocce separate, cessò. Nubi colorate turbinarono, si assottigliarono, fuggirono via lungo il corridoio alle loro spalle, sparendo nell'oblìo dello spazio.

— Andiamo a dare un'occhiata. — Carl abbatté l'ultimo ostacolo di roccia e contorcendosi s'infilò nella cavità più oltre. Sventagliò tutt'intorno la luce della torcia… e rimase a bocca aperta.

Sfaccettature cristalline germogliavano dappertutto. Le punte luccicavano rosso rubino, smeraldo, arancio bruciato. Dovunque rivolgesse la lampada del suo casco, la luce veniva riflessa e rifratta in schegge brillanti.

— Un palazzo di cristallo — disse Lani con voce sommessa, quando lo ebbe raggiunto. — È magnifico.

— I colori!

— Concentrazione di metalli? Magnesio? Noduli di platino? Cobalto? I rosa, i porpora!

— Ecco, fai delle fotografie. Il solo calore delle nostre torce potrebbe scioglierlo.

— Lo credi? — Lani gli porse la sua torcia e si allontanò sganciando la sua macchina fotografica. — Guarda, posso vedere le immagini di me stessa in quei grossi cristalli. È facile… devono avere un metro di diametro.

Carl si fece strada con cautela, camminando sulla punta dei piedi. Le svettanti piramidi d'un delicato azzurro-arsenico avevano un aspetto particolarmente pericoloso. Loro lavoravano in pelle-tuta, guaine sottili e sufficientemente flessibili per i lavori difficili: derivavano dallo stesso tessuto di catene molecolari dei rivestimenti dei corridoi. Ma un orlo davvero aguzzo avrebbe potuto benissimo tagliarle.

Carl guardò davanti a sé, strizzando gli occhi per proteggerli dagli arcobaleni di luce che come tanti nastri parevano concentrarsi su di lui. Ricordò un problema di ottica dai tempi del Caltech, più di dieci anni prima. Se vi foste trovati all'interno di una sfera riflettente, cosa avreste visto? Quante immagini? L'impulso naturale era quello di mettersi a sommare i riflessi dei riflessi dei riflessi all'infinito. La vera risposta era che avreste visto un'immagine soltanto.

Non qui, però. Ogni riflessione ne alimentava altre, producendo una miriade di sciami di minuscoli Carl in technicolor. Si muovevano come lui, insetti di ogni colore, sospesi in una nube al di là della loro portata.

Faceva venire le vertigini. Migliaia di Lani, ognuna seriamente impegnata a fare fotografie. Fra esse c'era una macchia scura. Carl si diede una piccola spinta e planò fino a quell'ombra.

— Ehi, qui c'è una specie di frattura.

— Fai attenzione agli orli aguzzi, Carl.

— Sì.

Girò lentamente e calò la testa dentro il foro. — Pare che prosegua.

— Molto lontano?

— Non lo so. C'è una specie di roba marrone semiliquida qui dentro. Qualcosa di umido, comunque.

— Già. Lasciala ai ragazzi della squadra biologica.

— D'accordo. — Carl si raddrizzò, planando pigramente alla deriva sopra un campo di luccicanti cuspidi di cristallo. — Ehi, è ora di pranzo.

— Mangiamo qui.

— Potremmo avere della buona roba calda vicino al primo gruppo di loculi.

Lani fece una smorfia — E toglierci la tuta soltanto per entrare? Il fagiano arrosto con la salsa di castagne non vale il tempo che ci toccherà perdere per ripulirci da questo pasticcio.

S'impastoiarono alla parete che nominalmente faceva da soffitto e tirarono fuori i tubetti alimentari. — Anche autoriscaldata, questa roba è proprio orrenda — brontolò Carl.

— Per me vale senz'altro la pena, non fosse altro che per restare lontana dagli altri.

— Già. So cosa vuoi dire.

Le loro razioni erano contenute negli zaini, riscaldate là dentro e disponibili attraverso un tubicino che emergeva accanto al mento. Mangiare non era un procedimento elegante. Lani aveva una curiosa ricercatezza naturale che la induceva a voltare la testa ad ogni sorsata di quella leggera brodaglia aromatizzata. Fluttuava con le braccia e le ginocchia ripiegata in una graziosa posizione seduta di tipo asiatico ad arti incrociati, d'una economicità estrema, assai più elegante del solito modo di rannicchiarsi degli spaziali. Carl sorrise. Era una lavoratrice indefessa, sottile e agile, con un'energia costante e spietata.

— Mi piace, quando ci troviamo soli.

— Uh, uhm.

— Specialmente in un posto così delizioso, così bene… ingioiellato.

— Giusto. Così dannatamente grazioso. — Carl s'interrogò vagamente su Virginia.

— Dobbiamo parlarne con qualcuno?

— Uh?

— Questo non potrebbe essere un posto… soltanto per noi?

— Ma… perché?

— Per stare soli. Potremmo venire qui e crogiolarci alla luce e… be', per avere il tempo di parlare.

Quella piega della conversazione non faceva sentire Carl a suo agio. — Ascolta, qualcuno finirà per trovarlo abbastanza presto. Voglio dire, dovremmo comunque lasciare un boccaporto di uscita, per poter tornare qua dentro.

— No, se lo mimetizzassimo in qualche modo.

Carl lottò per trovare una risposta, qualche ragione tecnica per la quale la cosa non avrebbe funzionato. — Vuoi dire, contrassegnarlo come uno sportello per la pressione? Qualcosa di simile?

— Suppongo di sì. — Lo studiò con attenzione, ma non disse altro.

Dopo un breve silenzio, Carl riprese: — Qualcuno comunque se ne accorgerebbe. Sarebbe proprio da Samuelson venire a controllare il nostro lavoro. Farebbe scattare il sigillo, e lui stesso farebbe la scoperta.

— Lo pensi?

— Sicuro. Samuelson è un tipo… sì… rigoroso. — Si era trattenuto appena in tempo dal dire, Un ortho rigoroso, di quelli pignoli attaccati al regolamento. Anche Lani era un ortho, ma di quelli buoni.

— Suppongo che dovremo riferirlo al Planetario.

— Sì. Quiverian non vedrà l'ora di buttarsi sui pulsanti.

— Comunque… mi piacerebbe molto avere, sai che cosa?, un posto tutto per me.

— C'è un sacco di volume in Halley, quasi trecento chilometri cubi. — Non poteva assolutamente immaginare se stesso a desiderare di trascorrere il tempo accovacciato dentro un buco dalle pareti di ghiaccio, anche se fosse servito a tenersi appartati dalle altre dodici persone del Primo Turno. Meglio andar fuori, se proprio si voleva qualcosa del genere, avrebbero avuto l'intero sistema solare da contemplare.

— Be', forse più tardi, allora. Potremmo fare tutto da soli senza i mech. — Lani lo fissò con lo sguardo speranzoso di una cerbiatta. Carl guardò altrove, innervosito.

— Non so. Forse dovremo isolarlo.

A meno che non riuscisse a guidare la conversazione su Virginia, voleva deviare il dialogo lontano dalle questioni personali, per mantenere il loro rapporto amichevole ma su un piano strettamente professionale. Cominciò a parlare dell'isolamento, e quanto qui la situazione fosse peggiore che su Encke.

Agli esseri umani piacevano temperature intorno ai trecento gradi assoluti, ma alcuni dei gas ghiacciati ribollivano d'una furiosa trasformazione già intorno ai cento gradi assoluti. Anche se appena sfiorati da una pelle-tuta, avrebbero prodotto uno sbuffo improvviso di gas in risposta. Mantenere quel differenziale di duecento gradi aveva significato sviluppare degli isolanti flessibili a strati. Il minimo soffio d'aria avrebbe fatto evaporare le stesse pareti in una camera non isolata.

Ci sarebbe sempre stata qualche vaporizzazione, cosicché il sistema di gallerie doveva lasciare che il vapore sfuggisse verso la superficie, dove veniva sfiatato verso lo spazio aperto. Allo stesso tempo la raccolta controllata del ghiaccio rappresentava la chiave per il successo della spedizione. La biosfera aveva bisogno d'un flusso d'acqua, di gas, perfino dei metalli e della graniglia che contaminavano la cometa. Poi, una parte dell'evaporazione veniva recuperata, filtrata per tenere basso il livello dei cianuri, per essere riciclata negli habitat.

Senza un sistema del tutto automatizzato per fornire liquidi e gas, dovevano esserci più persone sveglie e operanti. Ciò, a sua volta, avrebbe aumentato le esigenze della biomatrice, il che avrebbe alimentato la spirale dei costi. Questa era la ragione fondamentale per cui era necessario vivere all'interno del nucleo di Halley. Come al solito, i profitti e le perdite avevano l'ultima parola.

Impedire che i portelli e gli oblò disperdessero calore sul vicino ghiaccio era un lavoro delicato e tedioso che a Carl non piaceva. Si diffuse su questo per parecchi minuti, non perché fosse portato a esprimere rimostranze, ma perché non riusciva a pensare a nessun'altra maniera per mantenere il controllo della conversazione. Finalmente, arrivò alla conclusione. Vi fu un lungo e scomodo silenzio.

— Speravo che potessimo trovare un po' di tempo per rimanere soli insieme — dichiarò Lani, in tutta semplicità. Anche se sbatté le palpebre parecchie volte.

— Sì… già, l'avevo capito.

— L'hai sentito?

— Be'…

— Sono tre anni che ti conosco, ormai. Abbastanza da capire quanto tu sia speciale. — I suoi occhi erano grandi, neri e profondi come uno stagno. Era franca, chiara, ed era ovvio che le era necessario uno sforzo per non guardare altrove. Carl si rese conto che doveva aver ripassato tra sé più volte questa parte.

— Non… non c'è niente di così speciale in me. Mi piaceva lavorare nello spazio. È la mia vita. Proprio come per te.

— Abbiamo molto in comune.

— Sì, è vero.

— Durante i lunghi turni che passeremo insieme, forse… — Il suo sguardo ondeggiò.

— Senti, penso un gran bene di te, Lani.

— Ne sono felice. — Ma il suo volto aveva perso la sua espressione pensosa, concentrata. La sua certezza stava svanendo. E non c'è una sola maledetta cosa che tu possa fare in proposito pensò Carl. Non c'è niente che mi consenta di darle la risposta che vuole.

— Ma, voglio dire, io non… davvero… non penso a te in quel modo.

Lei s'irrigidì. — Oh.

Non è che riesca a parlare di questo meglio di me. Non afferra le mie allusioni, è così devo usare un'estrema franchezza, e questo le fa male, dannazione. — Sei una splendida compagna di squadra, è sicuro come l'inferno che lo sei.

Le sue lunghe ciglia sbatterono parecchie volte. L'ampia bocca sottile si torse addolorata. — Grazie.

— Oh, Dio, non intendo… non intendo respingerti, o qualcosa del genere.

— No, non devi preoccuparti. Stai dicendo la verità, come devi fare.

— Sei anche attraente, sul serio. Non intendo niente del genere.

Adesso che ci pensava, Lani era davvero bella. Con un turno di dodici mesi davanti a sé, pensa di accoppiarsi. Tutti ci avrebbero pensato. Comunque, lui aveva sempre pensato a lei come a una compagna di lavoro, e niente più. Perché?

Per qualche motivo lei, semplicemente, non era il suo tipo. Nessuna attrazione immediata, nessun lampo.

Oppure si trattava di un'abitudine che aveva preso, di respingere quasi tutte le donne, se non lo colpivano immediatamente? Carl evitò lo sguardo di Lani, tirò una succhiata dal suo tubo di alimentazione. Perfino durante le sue vacanze sulla Terra aveva sempre cercato di mantenere i suoi affari sentimentali chiaramente definiti. Ai terricoli piacevano i «cafoni» dello spazio; c'erano un sacco di farfalline pronte a precipitarsi, d'intromettitori e così via… Era facile far sapere in giro che eri interessato a un paio di settimane di sesso e di risate e di divertimento al sole. E basta. Qualche volta, sì, era stato tentato di conservare il numero di una donna, per darle un colpo di telefono la volta successiva che si fosse trovato giù… Ma una volta tornato in orbita, e riafferrato dall'ambizione, non ne aveva più fatto niente. Non aveva mai telefonato.

L'occasione favoriva la mente preparata, come diceva il vecchio cliché, ma l'occasione nello spazio favoriva anche l'anima senza impegni. Se si presentava la possibilità di una lunga missione, quelli che avevano famiglia trovavano difficile andarci. E il Consiglio per l'Analisi Psicologica prendeva questo in considerazione, abbassando il vostro punteggio. Anche se sostenevano che non era così, tutti conoscevano la verità. Tutto questo entrava nei loro calcoli. E infatti, Halley, la grande possibilità, si era presentata, confermando quella strategia.

Inoltre Lani era una ortho. Gli uguali avrebbero dovuto sposare gli uguali.

E Virginia… lei era intelligente, sexy, e una percell. Piena di vitalità, se era per questo. Meglio rimanere con quelli della propria razza. Salvo per le vacanze sulla Terra, aveva seguito questa politica da quando la sua libidine adolescenziale si era esaurita e aveva avuto effettivamente il tempo di pensare. C'erano abbastanza donne percell nello spazio da tenerlo occupato.

Per quanto avesse cercato di porsi in posizione intermedia nel conflitto ortho-percell, la sua vita personale era qualcos'altro. E pur essendo avveduto da parte di un percell sostenere che erano tutti uguali, ciò non significava che lui potesse ignorare la natura umana. Era sicuro che, anche dopo che la stupidità dei governi ortho sulla Terra avesse fatto il suo tempo, alla fine la razza umana avrebbe dovuto dividersi. Gli ortho sarebbero sempre stati con i nervi a fior di pelle nei confronti dei percell, questo era naturale. Meglio che le due razze tenessero le distanza, facendo dello spazio un dominio riservato soprattutto ai percell. Gli incroci non avrebbero risolto niente, sarebbero serviti soltanto a peggiorare le cose.

— Non c'è nessuna ragione per cui non possiamo lavorare insieme, essere amici. — Le porse una mano guantata.

Lei l'afferrò stringendola con forza. Attraverso al sua pelle-tuta azzurra avvertì in lei un intenso, struggente desiderio. Il suo corpo rivelava ciò che il suo volto aveva nascosto. Delicatamente, si liberò dalla stretta della sua mano.

— Io… avevo sperato.

— Ca… capisco…

— Non saremo in molti svegli durante ciascun turno.

Carl corrugò la fronte. — Già. Dovremo decidere la rotazione.

— Sì, sarà necessaria… una discussione pubblica. — Tirò su col naso, fece per sfregarselo con la mano, e si fermò quando il guanto toccò il casco. Dovette usare il pigliagocce dietro alla piastrina di glassite. — Io…

Carl si sentì infelice. Che lei si mettesse a piangere per causa sua, quando lui non aveva mai neppure pensato a lei in quel senso. Odiava cose del genere, quando scopriva di essere stato stupido senza neanche saperlo. Come se la gente fosse sintonizzata su frequenze che voi non ricevete.

Al di sotto di questa costernazione c'era anche una piccola corrente di orgoglio deliziato. I vecchi comportamenti erano ancora abbastanza forti da indurre un uomo a provare una piacevole sorpresa davanti a una dichiarazione inaspettata. Non l'avrebbe mai detto a nessuno, naturalmente, ma forse, fra molti anni, avrebbe potuto accennarne a Virginia…

Lani tirò su un'altra volta col naso. Chiuse gli occhi e sternuti con forza, il tciùuuu! trasmesso all'esterno gli tuonò quasi dolorosamente negli orecchi.

Si riprese, sbatté le palpebre, e fissò con sguardo ottenebrato il suo sfavillante palazzo di cristallo, indifferente adesso alla sua bellezza.

Addolorato, Carl si rese conto che non aveva affatto pianto per lui. Aveva già accantonato il suo approccio fallito e si stava concentrando su faccende più immediate.

Lani, semplicemente, era raffreddata.

SAUL

Saul si soffiò il naso e mise via rapidamente il fazzoletto.

Le frenetiche settimane dell'insediamento della base si erano smorzate in quelle lunghe, vuote e tranquille attese del Primo Turno di guardia. E mentre quel suo dannato raffreddore non accennava a volersene andare, si trovò ad evitare sempre più Nicholas Malenkov e gli scettici esami medici del grosso russo. Saul sapeva che era soltanto questione di tempo prima che Malenkov dicesse qualcosa sul suo perpetuo tirare su con il naso.

Non era certo di ciò che Nick avrebbe fatto se non fosse guarito presto, ma Saul non aveva nessuna intenzione di farsi cacciare in qualche loculo. Almeno, non per un bel pezzo ancora. C'era, semplicemente, troppo da fare.

Si pizzicò la radice del naso. In quel periodo, quelle momser di antistamine lo tenevano in uno stato di perpetuo ottundimento, ma lui, in realtà, non poteva farci proprio niente.

Saul sbatté gli occhi guardando le pareti color pastello del salone privo di gravità, concepito per accrescere le anguste attrezzature ricreative della ruota centrifuga. Era una scena vuota e spoglia. Salvo per poche sedie e armadi, l'unica area completata di trovava là, accanto all'autobar. Ci sarebbero voluti anni prima che il salone assomigliasse in qualche modo al progetto previsto dal Grande Disegno.

Dei sottilissimi readout erano sparpagliati sul tavolo grafico davanti a lui, salvo là dove una unità oloportatile proiettava uno spaccato dello sferoide allungato del diametro massimo di sei miglia che era il nucleo di Halley.

Soltanto in cima all'illustrazione, vicino al polo Nord, c'era un rado intreccio di gallerie simile a un piatto di spaghetti, dove gli esseri umani si erano aperti la strada.

Una tenuta troppo vasta per riuscire mai a conoscerla tutta. Eppure troppo piccola per riuscire a farne una casa.

L'uomo sul lato opposto al tavolo diede in un cortese colpetto di tosse.

— Scusa, Joao — disse Saul.

L'alto brasiliano, esperto di comete, riprese quello che stava dicendo prima di venire interrotto dal momento di stordimento di Saul.

— Sono queste caverne, Saul. — Inserì la mano nell'immagine generata dal computer ed eseguì un piccolo guizzo intricato con il pollice. Malgrado non ci fosse niente di solido in quello spazio, a mezz'aria, la macchina lesse le sue intenzioni come se stesse voltando pagina. Gli strati dello spaccato si sfogliarono, rivelando le tracce di nuove gallerie a nord e a est, che collegavano un certo numero di cavità oblunghe.

— Credo di aver capito come le cavità abbiano finito per trovarsi qui — annunciò Quiverian.

Saul spostò lo sguardo avanti e indietro dall'immagine ai lineamenti patrizi e olivastri di Quiverian. Il suo naso romano accentuava l'impressione di un uccello da preda. L'immagine gli andava a pennello, quell'uomo era così imprevedibile, eccitabile. Saul scelse le parole con cautela.

— Credevo che fosse già stato deciso, Joao. La cometa si è formata dalla nebulosa solare primordiale, mitragliata da una grande quantità di sostanze radioattive a vita breve piovute da una vicina supernova. Il decadimento beta ha riscaldato parte dell'interno, formando le cavità, mentre il guscio esterno, esposto allo spazio, è rimasto freddo, un manto protettivo intorno alle regioni fuse.

Quiverian agitò la mano con impazienza. — Sì, sì, quella vecchia teoria. L'alluminio 26 e quegli altri elementi a vita breve devono aver creato certamente dei canali fusi, per un certo tempo.

— Ho incominciato a sviluppare un modello di biogenesi basato su quell'idea. Ma adesso dici che non vale più?

Quiverian si spostò avanti con fervore. — Gli elementi radioattivi non possono aver fornito calore sufficiente per tutta la fusione che abbiamo osservato! E non spiegano neppure la vastità del frazionamento che abbiamo trovato!

— Frazionamento?

— Il grado secondo il quale gli elementi e i minerali sono stati separati gli uni dagli altri a causa di qualche processo dinamico, formando questi corpi che abbiamo trovato dappertutto. Saul, questo non può essere affatto spiegato dalla teoria radioattiva! Capisci? È per questo che ho cominciato a scavare nella documentazione disponibile per trovare un altro meccanismo, un altro sistema grazie al quale ciò può essere avvenuto.

Saul si avvicinò di più al tavolo. — Be', sicuro, sembra interessante, Joao. Stavo giusto dicendo a Nick Malenkov che non pareva fossero abbastanza…

— Aspetta un momento, Saul. — Quiverian sollevò una mano mentre scorreva una pila di dati. — C'è qualcosa che voglio mostrarti. Ce l'ho qui da qualche parte.

— Fai pure con calma, Joao. — Saul scrollò le spalle. Per ora era contento di godere d'una momentanea schiarita alla testa, una volta tanto l'aria aromatizzata alle mandorle appariva fresca alle sue narici. Osservò il computer che faceva ruotare lentamente la raffigurazione del nucleo della cometa.

Le analisi sismiche avevano riempito la maggior parte della mappa tridimensionale con vaghe tracce grigie e bianche, mostrando con contorni offuscati i luoghi dove si trovavano la maggior parte delle faglie e delle cavità. Comunque, escludendo soltanto una frazione minima, quasi tutto quel ruvido globo rimaneva misterioso, un regno da esplorare durante i lunghi e tranquilli turni di guardia che li attendevano. Meno del cinque per cento del volume, accentrato intorno al polo Nord, era ben conosciuto.

L'asse di rotazione all'estremità nord era trafitto da una stretta linea arancione contrassegnata POZZO 1, che scendeva giù dritta per un chilometro fino a un formicaio di camere contrassegnato COMPLESSO DEL COMANDO CENTRALE, compresa quella stessa sala e la maggior parte dei laboratori scientifici. Quel pozzo continuava verso l'interno per un altro chilometro circa, terminando infine quasi a metà strada dal centro del nucleo di Halley.

Lungo il percorso il Pozzo 1 incontrava una serie di gallerie orizzontali, a partire da quella in color rosso, «A», vicino alla superficie, passando accanto alla verde «F» in cui si trovavano adesso, e terminando con la gialla «N».

Altrove, il disegno era molto meno preciso. Parecchie gallerie sbucavano dentro grandi caverne che gli spaziali avevano scoperto alla maniera dura. Adesso tre gigantesche cavità contenevano le sezioni prodiere delle chiatte Sekanina, Whipple e Delsemme, e la maggioranza dei coloni addormentati. Un'altra, accanto alla superficie, conteneva adesso al ruota gravitazionale della Edmund Halley quasi completamente rimontata.

Il grafico generato dal computer era eccellente, mostrando perfino il campo di tende-magazzino sparpagliate fra le gibbosità del terreno su al polo Nord. Un modello finemente dettagliato d'una nave-razzo in parte smantellata era appeso in miniatura accanto alla minuscola e scintillante camera di equilibrio del Pozzo 1, legato a tre torri d'ormeggio.

Saul si spostò in avanti e vide che due minuscoli punti si muovavano vicino alla Edmund Halley, forme umane infinitesime… il capitano Cruz e il tecnico spaziale Vidor stavano facendo l'inventario redigendo un elenco d'incarichi per i turni dei prossimi dodici anni e mezzo. Il computer li mostrava intenti al loro lavoro, mentre esaminavano la nave nei dettagli.

Immaginò che se fosse salito sopra il tavolo e avesse sbirciato più da vicino, sarebbe stato in grado di distinguere il marchio col nome sulle cotte delle tute dei due spaziali, e forse li avrebbe visti gesticolare fra loro.

Saul nel suo lavoro era abituato alle raffigurazioni computerizzate. Si «tuffava» abitualmente dentro le forme di vita cellulari che studiava. Comunque, trovava ugualmente meraviglioso quel display. Dovunque si trovasse l'analizzatore principale del computer, era possibile fare una zoomata e vedere versioni animate di una dozzina di membri dell'equipaggio in attività… ridotti a stereotipi dal censore automatico. Allo stesso modo gli alloggi privati erano cubi neri disposti in fila lungo le Gallerie E, F e G, impenetrabili a quella perfetta simulazione.

Gli spaziali erano abituati a vivere fra quattro pareti. In effetti, per loro tutto quello spazio doveva sembrare meraviglioso. Ma per i civili, come Saul, la colonia assomigliava più a un formicaio.

Bel mucchio di trogloditi, siamo diventati. Coboldi fatti e finiti.

Eppure non riesco a trovare niente di sbagliato nelle disposizioni di Miguel. Ogni cosa procede secondo i piani.

Tocca ferro. Saul si batté leggermente le dita sul lato della testa, e sorrise.

Perfino il prevedibile entusiasmo suscitato dalla sua scoperta gli aveva causato meno fastidi del previsto. L'intervallo necessario per le comunicazioni dalla Terra gli aveva permesso di ammucchiare insieme le interviste dei media. Le domande più ostili o sensazionaliste potevano semplicemente venir «perse in trasmissione». Saul vedeva dei vantaggi ben definiti nel poter fare importanti scoperte molto lontano dalla pazza folla.

Adesso, se soltanto fosse riuscito a capire com'era successo che dei primitivi organismi procariotici fossero stati trovati congelati sotto la superficie d'una palla di ghiaccio! Nessuno aveva la più pallida idea di come quelle minuscole creature fossero arrivate fin là, per non parlare di come avevano fatto a vivere…

— Trovato! — annunciò Quiverian. Ghermì un foglio sottile. — Come dicevo, non riuscivo proprio a spiegarmi tutti i segni delle passate fusioni che troviamo qui… fino a quando non sono arrivato a un'intera serie di citazioni che avevamo a che fare con il calore induttivo durante la fase T Tauri del Sole!

— Scusa? — Saul si bilanciò in avanti sulla punta dei piedi, appoggiandosi leggermente al tavolo.

Quiverian contrasse la labbra. — Oh, non possono aver incluso molta fisica stellare nel tuo addestramento di secondo grado, vero? Bene, vedo se posso spiegartelo. T Tauri è il nome di una certa stella di formazione molto recente nella costellazione del Toro; un'intera classe di oggetti celesti ha preso il nome da essa. È da un secolo che gli scienzati li stanno studiando. In effetti rappresentano una fase di sviluppo di una stella giovane. Il nostro Sole dev'essere passato attraverso quello stadio ai primi tempi della formazione del sistema solare.

Quiveran intrecciò le lunghe dita e guardò nel vuoto, come se stesse recitando a memoria. — La caratteristica più interessante di una stella T Tauri è costituita dai suoi venti stellari davvero incredibili: flussi di protoni ed elettroni caldi, soffiati via da una stella da tremendi impulsi d'energia elettrica e ultra…

— So cos'è il vento solare, Joao — l'interruppe Saul in tono pacato.

Gli occhi dell'altro parvero lampeggiare. — Bene! Ma quello che probabilmente non sai è che durante il periodo T Tauri del nostro Sole i venti devono essere stati migliaia di volte più intensi di quelli più violenti che registriamo oggi. E questa corrente di particelle trasportava un campo magnetico eccezionalmente intenso.

Quiverian lo fissò speranzoso. Ma Saul poté soltanto scuotere la testa: — Mi spiace, non capisco.

Il brasiliano scosse la testa, frustrato. — Biologo ignorante! Non riesci a capire? I primi protopianeti e le comete sono tutti passati attraverso questo grande flusso magnetico mentre ruotavano intorno al Sole appena nato. Come circuiti in un grande generatore! Le correnti indotte! La resistenza!

— Ah, mazel! — Saul batté le mani. — Così ottieni del calore indotto.

Quiverian tirò su ostentamente col naso. — Allora ti hanno insegnato qualcosa ad Haifa, dopotutto. Ci sei, adesso. Capisci?

Saul annuì. La sua mente stava già correndo avanti. — La superficie della cometa appena formata, esposta allo spazio, sarebbe rimasta fredda… una specie di coperta isolante. Anche se la maggior parte dell'interno fosse stato costituito da acqua fusa, il calore non sarebbe sfuggito.

— Esatto! Naturalmente, funziona soltanto in certe condizioni. Hai bisogno di una cometa molto grande, come Halley, e parecchi sali e altri elettroliti liberi come quelli che abbiamo trovato qui.

Inconsciamente, Saul sollevò tutto il suo leggero peso dal pavimento stendendo le mani contro il tavolo. Il suo corpo era teso per il troppo lavoro di laboratorio e la troppo poca ginnastica. Forse avrebbe dovuto accettare ben presto l'offerta di Miguel Cruz, d'insegnargli a giocare a palla spaziale.

— Quanto tempo dura questa fase T Tauri?

— Qualche milione di anni. Non molto a lungo. Ma abbastanza a lungo da creare queste profonde cavità che abbiamo trovato! E con tutta quella elettricità in giro, è facile capire come mai tanti composti si siano separati in vene sottili che corrono per tutto il nucleo!

Quiverian aveva chiaramente il diritto di essere euforico. Quell'uomo aveva invidiato la scoperta fatta da Saul e l'attenzione che la stampa della Terra gli aveva riservato, ma adesso aveva riferito di un proprio successo. Avrebbe certamente fatto sensazione, soprattutto sui giornali brasiliani.

— Congratulazioni, Joao — disse Saul in tutta sincerità. — Questo è davvero formidabile. Posso avere la copia della tua lista di riferimento, a cui dare un'occhiata?

— Prendila, prendila pure. Ho già mandato una relazione preliminare.

Le idee spumeggiavano come bollicine di gas nella testa di Saul. — Credo che questo mi aiuterà nei miei studi, Joao.

— Ne sono lieto. Ma sai, ci sarà bisogno di una simulazione al computer estremamente complessa. Non voglio chiedere l'assistenza della Terra fino a quando la cosa non sarà stata sviluppata meglio.

«Puoi aiutarmi, Saul? Tu sei in gamba in questo genere di cose.

Saul scrollò le spalle. — Da dilettante, immagino. Ma uno dei più grandi esperti si trova proprio in questo stesso turno, Joao. Perché non chiederlo a Virginia Herbert?

Quiverian parve a disagio. — Non credo che questa donna, questa Herbert, sia molto disposta a collaborare. I tipi come lei… — Scosse la testa, lasciando taciuti i sottintesi.

Saul era certo di sapere cosa quell'uomo intendeva dire. L'aveva sentito altre volte:

— La loro razza ha sempre rappresentato un problema.

— La loro razza…

Quiverian si mosse, innervosito. — Questi percell sono un branco chiuso, poco propensi a collaborare, Saul. Non credo che lei sia disposta ad aiutare uno scienzato del mio paese.

Saul non poté far altro che scuotere la testa. — Le parlerò e ti farò sapere, Joao. Che ne dici d'incontrarci di nuovo qui per il pranzo domani? E comprenderemo Nicholas nella discussione.

Fu grato quando Quiverian si limitò soltanto ad annuire di cattivo umore, rispondendo con un sospiro: — Ci sarò.

Quando Saul se ne andò, il planetologo stava fissando quel chiarore olografico in lenta rotazione, i suoi lineamenti marcati erano inondati da ombre colorate. Allora Saul si rese conto che Quiverian non aveva un aspetto particolarmente sano.

Dovrebbe davvero dormire un po' di più. Potrebbe migliorare la sua visione della vita.

Un'ora più tardi Saul era al lavoro davanti al proprio display, borbottando istruzioni dentro un microfono subvocalico e armeggiando con le prese del computer, lottando per tenersi su.

Le idee gli venivano troppo in fretta, e quasi non riusciva a tener loro dietro per annotarle, per non parlare d'integrarle nel nuovo modello. Tutte le volte che esplorava un particolare aspetto, gli balzava davanti un intero panorama di diramazioni inaspettate.

Era il vero processo creativo, una specie di divino trasporto nervoso, tanto doloroso quanto esaltante.

Ma riusciva quasi a vederlo. Era là che guizzava come un fuoco fatuo, una luce intravista attraverso una palude invasa da turbini di nebbia. Una teoria. Un'ipotesi.

Un modo che aveva permesso ad un mistero di accedere alla cometa di Halley.

Saul aveva vagliato tutta la gran quantità di dati grezzi che la spedizione aveva accumulato sulla cometa, rintracciando gli ingredienti nella prima dispensa del Sole. Erano tutti là, ma quello che mancava era la cucina giusta.

I riferimenti di Joao Quiverian parevano offrire a Saul il crogiolo che aveva cercato.

La fase T Tauri… Saul rifletté. Nella sua infanzia il Sole era stato un bambino disordinato. In quei giorni l'alito della stella era stato carico e rovente.

Così, c'era stata l'elettricità… magnifico. Ma quanta, e per quanto tempo?

C'erano acido cianidrico e anidride carbonica e acqua, come quelli che dovevano aver saturato l'atmosfera primitiva della Terra, così gli amminoacidi fondamentali si sarebbero formati in fretta. Ma il passo successivo sarebbe stato più difficile.

La rete tridimensionale di relazioni correlate sul suo display centrale stava diventando sempre meno maneggevole, un torreggiante e traballante edificio costruito con supposizioni appiccicate insieme.

— Ach! Possa la tua capra masticare la cordite e poi darti latte copioso!

Maledisse la macchina in arabo, una lingua assai più soddisfacente a quello scopo dell'inglese. Aveva la sensazione che le sue dita fossero ridotte a impacciate salsicce, e la matematica arcana che aveva tirato in ballo attingendo alla documentazione astronomica danzava appena fuori dalla sua portata. Non riusciva ad integrare del tutto le equazioni nello schema globale che aveva in mente.

Per una, due, tre ore continuò a pensarci. Ma quel dannato affare non voleva assumere una consistenza definitiva.

Saul tentò con la forza bruta, tirando dentro blocco dopo blocco di memoria esterna, un numero sempre maggiore di processori paralleli per reiterare il problema. Era ben lungi dall'essere un approccio elegante… era più come cercare una casa al buio mandando un branco di elefanti a correre all'impazzata nella notte, sperando di apprendere qualcosa dal fracasso del legname che andava in pezzi.

Sto facendo tutto nella maniera sbagliata. Dovrei andare a bere una birra. Ascoltare un po' di Bach. Sintonizzare la parete su un tramonto polinesiano. Lasciare che tutto questo si decanti.

Saul tamburellò con le dita.

Forse dovrei chiedere aiuto.

Sedeva sulla sedia a rete, stanco non tanto nel corpo quanto nella mente, nel cuore.

Quella era l'unica gioia che gli rimaneva nella vita: cercare misteri. Eppure si sentiva ancora come un ragazzino frustrato e vessato, tutte le volte che la Natura pareva voler lottare con lui per indurlo a lusingarla e ad adularla, onde strapparle i suoi segreti, invece di cercarli lungo le vie più facili senza combattere.

Quanti dei piaceri della vita sono dolorosi nell'attuale processo? Miriam, perdonami, ma hai sempre saputo che amavo al Vita, la Natura, soltanto un pochino di più di te e dei bambini, non è vero'

Ed eccomi qua, che sto diventando strambo perché il mio più antico amore non vuole concedersi un'altra volta.

Saul sbatté le palpebre e si rizzò a sedere. Quell'improvviso movimento lo mandò a librarsi sopra la sedia a rete, ma se ne accorse appena.

Cosa diavolo…

Incredibilmente, qualcosa stava accadendo sul display proprio davanti ai suoi occhi. Un'increspatura che indicava un cambiamento.

Cominciò sul lato destro, in alto, del complicato grafico. Tutt'a un tratto, gli elementi avevano cominciato a diventare confusi agli orli. Indistinti, dei bit casuali si sospingevano l'un l'altro. Poi, impossibilmente, il nodo gordiano della logica cominciò a districarsi!

Dapprima pensò che tutto quel pasticcio stesse sfasciandosi a causa della propria inerzia.

Poi cambiò idea.

Minnie, madre delle perle…

Dal caos la semplicità stava prendendo forma. Dalle brutture… la bellezza!

Era come contemplare una soluzione in atto di precipitare dentro uno splendido cristallo in crescita. Meraviglioso… sì. Troppo meraviglioso. Decise che qualcosa o qualcuno stava intervenendo. E Saul si rese conto quasi subito di qualcos'altro: che questo qualcuno… o qualcosa… era chiaramente molto più intelligente di lui.

Le equazioni si spezzarono, come se venissero tagliate dalla nucleasi dell'RNA. I pezzi si divisero mentre li stava fissando. Si disposero in coacervi, fila dopo fila, ammonticchiandosi ordinatamente e formando una vibrante piramide di logica. E all'apice…

Saul esalò lentamente il respiro mentre fissava la formula culminante. Poteva sentire il battito del proprio polso.

— Mi spiace di aver interferito senza chiedere il permesso, Saul. Ma ti stavi già muovendo come un forsennato attraverso tutto il sistema di dati quando me ne sono accorta. Presto o tardi avresti finito per far scattare i segnali di allarme.

Saul ritrovò la voce.

— Tutto a posto, Virginia. Sono… sono contento del tuo aiuto.

Vi fu una breve pausa. Poi alla sua sinistra il display d'una unità olo si animò e il volto di Virginia Herbert ondeggiò e si immobilizzò, una riproduzione in ricchi colori che accennava ancora a brezze salmastre e al sole dei tropici. I lunghi capelli neri le ricadevano sopra le spalle, leggermente rigonfi, come se fossero stati pettinati in fretta soltanto qualche momento prima.

— Sono lieta che tu non sia arrabbiato con me per essermi intromessa.

— Arrabbiato! — Saul rise. — Hai salvato uno di noi due, o me, o questa macchina ostinata!

Virginia sorrise. — Be', è un sollievo sapere che ho fatto la cosa giusta. In realtà, è roba molto complicata quella con cui stai cimentandoti, Saul. Non posso pretendere di capirne qualcosa. Io sono soltanto un esperto fantino dei numeri…

— Non sono d'accordo. — Saul scosse la testa con fermezza. — Tu sei un'artista.

La pelle olivastra di Virginia si oscurò sensibilmente. Il suo «grazie» fu appena udibile. Saul condivise con lei un lungo sorriso.

Gli occhi di Virginia guizzarono. — Uhm, se vuoi, potresti venire qui a mettere JonVon a lavorare al tuo problema. È un processore stocastico, sai. E si dà il caso che io creda che questo, appunto, lo renda assai più applicabile al tipo di problema che hai, rispetto a quelle vecchie macchine di precisione a sistemi paralleli.

«Sono sicura che riusciremo a metter su una simulazione che farà apparire quel tuo grafico, là, una semplice decalcomania al confronto!

Saul annuì: — Soltanto se mi lascerai portare una bottiglia, Virginia. Ho la sensazione che ne avremo bisogno.

— Affare fatto! — esclamò lei con gioia.

Però, mentre Saul si stava alzando, un'immagine allungata del braccio di Virginia si sporse attraverso la sua scrivania, quasi fosse fatto di gomma, per battere con un dito sulla riga ardente e palpitante di lettere dorate in cima all'alta piramide di dati.

— Ma questo cos'è, Saul? È qualcosa di speciale?

Lui scrollò le spalle. — Sì, immagino che potresti dire così, Virginia. È la formula chimica di qualcosa chiamato base purinica. Una base piuttosto semplice in verità, chiamata adenina.

Virginia ritrasse la rappresentazione spettrale della sua mano. — Be', spero sia importante. Ma che lo sia o no, scommetto che la porteremo molto più avanti. Ho una sensibilità per queste cose, sai. — Esibì un radioso sorriso.

— Ti aspetto qua sotto tra qualche minuto, Saul. VKH out. — La sua immagine svanì.

Saul rimase immobile per un momento. — Sì, cara — disse alla fine, a quell'impalpabile presenza che Virginia pareva essersi lasciata alle spalle. — Credo proprio che lo porteremo avanti. E di parecchio.

VIRGINIA

FILI MOLECOLARI, COME RAMPE DI SCALE MULTICOLORI… LAMPI BALENANTI NEL BUIO…

All'ingrandimento massimo della simulazione, la molecola era poco più di una scala stilizzata messa insieme con componenti standard, fettine d'azzurro, verde e rosso brillanti e incavate: amminoacidi, fosfati, e zuccheri semplici collegati come parti male assortite di un intricato rompicapo.

La catena pareva agitarsi e contorcersi mentre scivolava via formando un torrente ribollente. Una nervatura di linee argentee spargeva correnti elettriche che crepitavano irregolarmente attraverso il liquido salino.

Lucenti radicali dorati si attaccavano qua e là in quel polimero in crescita. La maggior parte rimbalzava subito via in improvvisi sprazzi di luce. Di tanto in tanto da uno di essi si staccava un frammento, che veniva risucchiato via diminuendo la complessità della struttura, che rimaneva con una smagliatura. Un po' più spesso, il radicale che entrava in collisione trovava una nicchia della forma giusta e vi rimaneva legato per intero.

A mano a mano che il polimero cresceva, l'ingrandimento diminuiva, come se una telecamera arretrasse. Un nuovo filo si unì al primo, poi un altro, allacciandosi insieme in una massa confusa. Il groviglio cadde verso una grande distesa color ocra che si profilava di sotto, una pianura rugginosa butterata di fori frastagliati.

L'orlo di una delle aperture nere ghermì il gomitolo molecolare, un'estremità del quale entrò nell'apertura, coprendola. Il groviglio rimase in bilico per qualche istante, poi rotolò dentro.

— È un'argilla… qualcosa di simile alla montmorillonite, credo. Osserva come la catena scivola dritta dentro il reticolo aperto. Soltanto poche delle forme sintetizzate nella corrente all'esterno riusciranno ad entrare in questo modo.

«È uno dei primi passi nel lungo processo della selezione. Alcune teorie dicono che sia successo sulla Terra molto tempo fa. In tal modo le molecole vengono protette dall'incessante dare-e-prendere del torrente elettrificato. Là dentro soltanto certi radicali riescono a raggiungerle e la forma della cavità allinea le molecole proprio in questo modo. La costruzione, prima lenta e caotica, adesso prende il suo vero avvio.

«Strano che sia argilla, comunque. Mi sarei aspettato qualcosa come l'ossido di ferro. Ma vedi come gli strati di argilla sembrano catalizzare la crescita dei nuovi peptidi? Stupefacente! Me n'ero dimenticato!

Virginia lasciò che Saul continuasse con le sue divagazioni, condividendo la sua eccitazione ma troppo affaccendata per rispondere a meno che non le facesse una domanda diretta. In quel momento era un'impresa anche soltanto integrare tutti i diversi elementi nel suo complicato programma.

Comunque, lei era abituata alle immagini luminose e alle simulazioni più vivide. No, ciò che più la colpiva erano le complicazioni di quel mondo di molecole e correnti elettriche, di atomi in collisione fra loro e di equilibri chimici. Era un maelstrom di minuscoli strattoni e spinte calcolati nello spazio d'una matrice a undici dimensioni, e anche così la diversità delle forme la lasciava stupefatta.

Lo schermo mostrava soltanto la porzione più superficiale: la campionatura media della correlazione stocastica di JonVon. Era la matematica soggiacente a questa che teneva veramente occupata Virginia. Solo di tanto in tanto sollevava lo sguardo per vedere come saltavano fuori le immagini.

In questo momento la simulazione stava seguendo le molecole in sviluppo giù all'interno della loro nuova casa. Si annidavano dentro le fessure del complesso reticolo dell'argilla lasciando libero un corridoio centrale attraverso il quale materiale fresco entrava da fuori. La forma della catena ancora in crescita continuava a cambiare, qui una semplice ellisse, là ripiegandosi su se stessa e cambiando direzione prima a sinistra e poi a destra.

Saul commentò di nuovo:

— Qui sto imbrogliando un po', per accelerare le cose. Abbiamo stabilito delle condizioni iniziali e lasciamo che un numero enorme di molecole simulate si «evolvano», lasciando alla tua meravigliosa macchina il compito di scegliere la linea di maggior successo fra i molti miliardi… «blandendo» le più promettenti perché facciano quanto meglio possono in queste condizioni. …

«Vedremo se una spintarella qua e là potrà prendere questa cosa primitiva e darci…

Virginia trovò che il suo lavoro stava diventando più facile, adesso che il sistema versatile di JonVon stava imparando le regole fondamentali di quel gioco.

Oppure era dovuto al fatto che Saul, per ciò che lo concerneva, stava migliorando?

Giacevano l'uno accanto all'altra nel laboratorio di Virginia su un grande letto pensile a rete, ognuno collegato via cavo alla complessa unità di hardware/software. Per Virginia era un'esperienza familiare: si era infilata in un leggero complesso di comandi a induzione e faceva scorrere le dita con l'agilità di un pianista sui tasti. Saul, d'altro canto, era più impacciato nel manovrare i suoi comandi. Il voluminoso casco cerebrocorticale che indossava non gli consentiva, per ora, la pronta e consumata destrezza per cui era stato progettato.

Però, Saul stava superando rapidamente il suo impaccio e la sua eccitazione era contagiosa. I suoi pensieri subvocalizzati le arrivavano direttamente lungo il nervo acustico.

— Tutto questo è meraviglioso, Virginia! Molto, molto di più di un puro e semplice programma di simulazione, questo tuo costrutto esplora le diverse possibilità!

— Il processore di JonVon è bio-organico, Saul. Una matrice di pseudoproteine su una trama di conduttori. Sulla Terra hanno abbandonato questa linea di approccio molti anni fa, perché la percentuale di errore è molto alta. Infatti, oggi ti trattano da pazzo anche se soltanto ne parli. — Sperava che niente dell'amarezza da lei provata venisse comunicata dalle sue parole.

— Uhmmm. Una percentuale di errore più alta, certo. Ma puoi concentrare tanti circuiti in una piccolissima area, che il fatto non ha alcuna importanza, vero?

Virginia provò un brivido di gioia. Capisce.

— Esattamente, Saul. Un processore stocastico lavora sulle probabilità, non sulle risposte sì-o-no.

— Avviene nello stesso modo in cui Kunie descrive il modo di operare del preconscio umano! Hai letto nessuno dei lavori di Kunie?

Virginia scoppiò a ridere. Come sonoro era una specie d'intenso gracidio, nella loro testa un suono di campane…

— Certo che l'ho fatto. Non avrei potuto arrivare così lontano senza le idee di quell'uomo sul processo creativo. Ma sono sorpresa che tu abbia sentito parlare di lui, Saul. L'euristica concettuale non si trova neppure lontanamente vicina alla biologia molecolare, sugli scaffali delle biblioteche.

Vi fu una pausa quando l'attenzione di Saul tornò alla simulazione. Spinse fuori da una delle sbadiglianti gallerie di argilla un grappolo molecolare particolarmente grande prima che questo potesse intasare il flusso di materiale fresco, un'interferenza di poca importanza per il bene di quella prima prova.

— Conoscevo Kunie, Virginia. La sua famiglia mi offrì un posto dove alloggiare dopo l'Espulsione…

Le «pareti» del reticolo simulato palpitarono leggermente, e Virginia operò con delicatezza per stabilizzare il modello contro ulteriori interferenze da parte delle emozioni di Saul. Senza darlo a vedere, creò un altro canale per i suoi sentimenti, lontano dal modello, convogliandoli contro un piccolo nesso laterale, dove avrebbero potuto venire smorzati, studiati… toccati.

— È allora che hai cominciato a lavorare con Simon Percell? — gli chiese. La storia non era mai stata la sua specialità. E Virginia sapeva che c'era stata più di una «Espulsione» dalla terra chiamata Israele.

— Buon Dio, no — Questa volta toccò a Saul ridere. E la risata echeggiò nel piccolo smorzatore come le corde di una viola da gamba.

— I leviti erano ancora una piccola frangia di ebrei fanatici tra le colline della Giudea, e i loro amici sawaliti non erano altro che un branco di riottosi esiliati siriani, all'epoca in cui lavoravo con Simon a Birmingham.

Mentre JonVon continuava a mandare avanti la simulazione, Virginia tentava di seguire le appendici del dolore di Saul, più vivide di qualunque altra cosa avesse mai sperimentato prima di allora in un collegamento fra umano e umano. Ma, poi, Saul cambiò di nuovo argomento.

— Certamente ci avrebbe fatto comodo uno strumento del genere, quando Simon ed io stavamo lavorando al problema della separazione dei gameti — subvocalizzò. — Tutto quello che avevamo allora erano processori paralleli a kilobit, memorie di gigabyte, e sequenziometri inferenziali che impiegavano giorni per analizzare un singolo cromosomo.

«Ma erano bei tempi.

Virginia si sentì commuovere dall'intensità dei suoi sentimenti quando li mise a fuoco, ampliando la capacità del canale e la sensibilità del collegamento. Saul era più facile da sondare rispetto a qualunque altro soggetto lei avesse avuto prima di allora. Salvo, forse, i bambini più piccoli.

E, per qualche ragione, stavolta non era spiacevolmente disorientante. Al contrario, era piacevole, anche se faceva un po' paura. Quell'uomo era… sì, forte.

— Continua pure, Saul. La simulazione procede bene. Vorrei sapere di più su quei giorni. Avevi cominciato a raccontare a Carl e a me dei tuoi primi lavori sulla cura delle cellule malate, la sindrome di Lesch-Nyhan e il lupus.

— Cure! — Saul rise, e alla viola da gamba si aggiunse un amaro coro di cimbali. — Già, l'ho fatto. Per fortuna la maggior parte dei nostri sforzi successivi ha funzionato meglio. Alcuni dei primi «successi» erano stati soltanto parziali.

Virginia lo sapeva. Era già penetrata negli archivi della spedizione, cancellando ogni traccia della propria infermità. Naturalmente non avrebbe potuto influenzare in alcun modo il suo lavoro… in effetti era probabile che le autorità avrebbero approvato. Ma aveva grattato via lo stesso i dati. Semplicemente, era una faccenda che non riguardava maledettamente nessun altro.

Virginia spianò le proprie emozioni e si concentrò sulla soluzione dei mistero di quel canale stranamente aperto sul substrato dei sentimenti di Saul. Sto imparando più cose oggi di quanto abbia fatto in un anno sulla Terra pensò.

Sentì la presenza centrale di JonVon portarsi al suo fianco, imitando le sue azioni, imparando, «osservando» come manipolava i canali, regolando le risonanze. Scioltamente, eseguendo i suoi ordini, il suo surrogato-macchina s'intromise per prendere il controllo. Ben presto Virginia fu in grado di ritrarsi per un momento e controllare la simulazione biologica, la ragione apparente per la quale si trovavano là.

Questa continuava a crescere, accumulando complessità su complessità. Adesso l'ingrandimento aveva zumato di nuovo all'indietro comprendendo un intero campo di aperture nel reticolo, ognuna con la propria frangia di enormi molecole biancoazzurre che sporgevano ondeggiando dentro il flusso elettrico, come ciglia intorno a bocche spalancate.

Virginia cercò di portare avanti la conversazione. — Ma non eri con Percell quando…

— Quando lui fece il suo errore fatale? Quelle povere mostruosità? No. Forse avrei dovuto esserci. Avrei potuto fare qualcosa di meglio di quello che ho fatto tornando ad Haifa per unirmi alla lotta. Allora era già troppo tardi, naturalmente. I vecchi sabra e i kibbutzim si erano sollevati, e venivano schiacciati dai leviti e dalle loro forze mercenarie incaricate di «mantenere la pace». Miriam e i piccoli…

Quell'improvvisa ondata di sentimenti l'investì, quasi sopraffacendola. Gli occhi di Virginia sbatterono e si riempirono di lacrime mentre ricordava scene di macabro orrore… Le pareva quasi di vedere gli insediamenti incendiati, le foreste in fiamme… di sentire l'ondata talamica dell'angoscia e del senso di colpa.

Furiosa, ordinò a JonVon di smetterla di creare queste immagini. Non era affare della macchina interferire in quel modo!

STO SOLO ENFATIZZANDO, VIRGINIA, annunciò freddamente JonVon attraverso il loro canale privato, comunicandole asciuttamente notizie che la lasciavano stordita, ancora di più della vivida scena di un tempio che si ergeva su un'antica collina. Virginia si sentì d'un tratto la bocca asciutta. Ma…

NON STO SIMULANDO O INTERPOLANDO NULLA DI TUTTO QUESTO. AMPLIFICATE, QUESTE SONO IMMAGINI CHE STANNO ARRIVANDO DIRETTAMENTE DAL SOGGETTO. Le sue mani si serrarono e si disserrarono spasmodicamente, costringendo la macchina a disattivare automaticamente i comandi collegati con le punte delle sue dita. Il suo respiro divenne un udibile rantolo lacerante a mano a mano che la verità la colpiva con forza.

— He nalulu eha eha!

In lontananza sentì che i guanti waldo le venivano sfilati dalle mani, le spalle sollevate da forti braccia.

— Stai bene, Virginia? — Saul stava parlando ad alta voce. — Non avevo intenzione di trasmettere con tanta forza. Pensavo che tu facessi in continuazione questo genere di cose.

Lei sbatté le palpebre, sollevando lo sguardo sul suo viso preoccupato. — Tu… tu sapevi quello che facevo?

Saul scoppiò a ridere. — Chi non l'avrebbe saputo, con te e quel tuo famiglio cibernetico che vi aggiravate ai bordi della mia mente, frugando e sondando?

Scosse la testa. — Francamente, Virginia, quello che hai fatto qui è stupefacente. L'ho sentito… l'ho sentito direttamente! Il contatto pensiero a pensiero. È stato un soggetto di tante storie, e film, perfino dopo che Margan, presumibilmente, ne aveva dimostrato l'impossibilità tanti anni prima, ma…

Virginia era ancora stordita. — Lo è. Si suppone che sia… impossibile, voglio dire, io uso JonVon per mediare, per fare congetture e riprodurre schemi, per simulare. Ma non mi sarei mai aspettata…

Adesso l'espressione di Saul si era fatta seria. — Vuoi dire che questa è stata la tua prima volta?

Virginia dovette sorridere. — Sì, la mia primissima. Ma non preoccuparti, Saul. Sei stato un perfetto gentiluomo.

Questo fece scattare la molla. Saul si buttò indietro e lanciò una risata ululante, e Virginia si unì al suo ululo. Risero insieme. La tensione parve dileguarsi e per un lungo istante nessuno dei due parve accorgersi che lui la stava ancora stringendo.

È una sensazione così bella pensò lei, alla fine.

— Uhmmm? — disse lui, battendosi la mano sul casco. — Ho ricevuto soltanto un po', ma sono sicurissimo di essere d'accordo… con qualunque cosa fosse.

Lei sollevò lo sguardo su di lui. — Oh, Saul, so che hai avuto una vita molto triste. Ma percepirlo è molto diverso. È quasi come se lo ricordassi io stessa.

Ancora un'altra immagine tremolò ai margini della sua visione: una donna. Non era una grande bellezza, certo, capelli scuri color pelo di topo che incorniciavano un volto comune, ma il suo sorriso era caldo, e un intenso bagliore sembrava irradiarsi da lei. Dietro di lei, due volti più piccoli, un ragazzi no e una ragazzina.

Miriam? I tuoi bambini?

Sì. Un dolore ammorbidito dal tempo. Un amore immutato.

E nel proprio cuore, un altro dolore, ancora violento. Un amore che non poteva avere risposta.

— Non mi odii… per quello che il trattamento genetico ti ha fatto? — le chiese Saul.

Virginia sollevò vivacemente lo sguardo e incontrò i suoi occhi. Scosse la testa. — L'ho fatto, molto tempo fa. Ho odiato te e Percell. Poi ho incontrato qualcuno degli altri percell… quelli per i quali la vostra cura contro il lupus aveva funzionato completamente.

«Ho studiato. Ho appreso che senza la cura sarei nata morta o orribilmente deforme… non soltanto menomata. È stato soltanto un colpo di fortuna che io…

— Tutto a posto. — Saul l'attirò a sé e lei chiuse gli occhi.

— Abbiamo ancora il nostro lavoro, adesso. Un buon lavoro. E questo ci dà anche un pezzo di futuro, Virginia.

— Sì, il nostro lavoro… e forse un po' di più. — Si sentiva calda. Virginia sollevò il proprio viso fino al suo. Saul dovette spingere da parte i cavi del casco per baciarla.

Non ho mai fatto niente del genere prima d'oggi mentre ero collegata. Pensò all'ondata crescente di sensazioni. Mi chiedo cosa avrà da dire JonVon.

Sopra di loro, senza che vi prestassero attenzione, la simulazione era rimpiccilita ancora di più, fino a comprendere l'intera parete di argilla impregnata di sali e le ramificazioni luminescenti della corrente elettrica.

Forme luminose avevano cominciato ad emergere dalle fenditure color ruggine. Svolazzavano intorno nel torrente caldo, adesso rivestite e coronate contro quelle martellanti molecole, per avventurarsi in un mondo multicolore, consumandosi le une con le altre, crescendo, e producendo piccole repliche di se stesse.

CARL

A tutta prima pensò che non fosse niente d'importante.

Carl ripulì via la poltiglia verde e bruna dai condotti di distillazione e proseguì oltre. La zona di raccolta del gas del Pozzo 3 era una lunga galleria buia, i suoi fosfori davano ad ogni cosa una tinta verde tiglio.

L'impianto pareva a posto: i motori magnetici ronzavano, le condutture gorgogliavano, un odore di uova marce proveniva dai composti solforosi. Qui si condensavano gli eccessi di vapore provenienti dalle molte miglia di gallerie che adesso perforavano il nucleo di Halley. Bioinventario mostrava un surplus di fluidi utili e parlava della possibilità d'immagazzinarli. L'evaporazione sarebbe probabilmente diminuita a mano a mano che i ghiacci più volatili fossero stati usati, e inoltre ci sarebbe stata una minor attività generatrice di calore durante la lunga crociera verso l'esterno. Pareva che ogni cosa andasse dannatamente bene.

Ma c'era una cosa marrone e appiccicosa nei filtri. Merda. È dappertutto. Carl la pulì via cautamente con un getto d'acqua e sciacquò il suo secchio coperto dentro il condotto diretto verso l'esterno. Una vaporizzazione a senso unico che andava a scaricarsi direttamente nello spazio aperto.

Quella fanghiglia dall'aspetto così singolare non avrebbe dovuto trovarsi lì. I prefiltri avrebbero dovuto eliminare la roba grossolana e setacciarla per recuperare i solidi utili. Quei filtri avrebbero dovuto catturare le impurità e cristallizzarle.

Forse c'era qualcosa di speciale in quella particolare sostanza appiccicosa. Carl riempì un barattolo per la raccolta di campioni, i tizi del laboratorio biologico brontolavano incessantemente perché gli venissero forniti esemplari di qualcosa di strano. Con un calcio Carl si allontanò verso il colombario 1. Malenkov dovrebbe dare un'occhiata a questo.

Nel passare attraverso la grande camera di equilibrio per entrare nel Complesso Centrale, Carl si rese conto di sentire la mancanza di Jeffers. Adesso l'equipaggio dei fondatori si trovava al sicuro, al completo, addormentato nei suoi loculi, rendendo le cose un po' troppo solitarie per quelli del Primo Turno. Il capitano Cruz l'aveva nominato sottufficiale anziano, il che significava che lui doveva, semplicemente, andare in giro più degli altri a controllare… ma, insomma, questo pur piccolo onore gli faceva piacere.

Comunque, a lui piaceva lavorare da solo, planando con fluida agilità attraverso le camere di equilibrio e i pozzi in compagnia di Bach o Mozart che s'insinuavano attraverso i suoi orecchi. Forse sono un eremita per natura pensò. Mi chiedo se gli specialisti addetti alla selezione dell'equipaggio abbiano potuto accorgersene attraverso i loro test psicoinventarianti. In quegli ultimi giorni non aveva visto praticamente nessuno.

Quando entrò attraverso il portello di poppa delle Scienze della Vita, la prima cosa che sentì fu una conversazione a voce alta e alterata:

— Vai dentro adesso! Non intendo scendere a compromessi! — si fece udire la voce bassa e rauca di Nicholas Malenkov.

Carl girò l'angolo e trovò il medico russo intento a discutere con Saul Lintz nel corridoio. Virginia Herbert seguiva la scena a braccia conserte. Rivolse una rapida occhiata a Carl, ma sembrava triste e distratta.

— Voglio un campione per poterlo studiare — insisté Saul.

— Ho preso dei campioni — replicò Malenkov, piantandosi con le mani sui fianchi e sporgendosi minaccioso in avanti. — Soltanto epidermide e fluidi.

— Mi servirà molto di più per scoprire cosa…

— No! Più tardi lo faremo rivivere, forse! Quando sapremo cosa l'ha ucciso. Se prenderai dei campioni dagli organi interni, più tardi avremo più difficoltà a riportarlo in vita.

Carl corrugò la fronte: — Ehi, cosa… Saul si asciugò il naso con un fazzoletto, ignorando Carl, e ribatté: — Non puoi curarlo se non sai cosa l'ha ucciso!

— Hai strisce della gola, urine, campioni del sangue…

— Potrebbe non essere sufficiente. Io…

— Ehi! — intervenne Carl. — Qualcuno vuol dirmi cosa sta succedendo?

Malenkov soltanto adesso si accorse di Carl. D'un tratto la sua espressione cambiò, da incollerita a labbra strette a un'altra scoraggiata, gli occhi intristiti. — Il capitano Cruz.

Carl avvertì un'improvvisa sensazione di leggerezza alla testa, d'incredulità. — Cosa? Ma… se l'ho visto appena due giorni fa?

Nessuno degli altri due uomini parlò… c'era ancora il vapore surriscaldato della loro discussione. Virginia interloquì con calma: — Ieri gli è venuta febbre, ed è andato a letto. Quando Vidor è andato a cercarlo stamattina, non… non voleva svegliarsi. È morto nel giro di un'ora. E a quanto pare, non c'erano altri sintomi.

— Febbre? Tutto qui?

— Non sembra che abbia più intenzione di svegliarsi.

Lo shock di quella notizia parve farsi strada soltanto ora, dando a Carl la sensazione di precipitare. Il comandante Cruz era stato il centro, il cuore e il cervello dell'intera spedizione. Senza di lui…

— Cosa… cosa faremo?

Malenkov fraintese l'esitante domanda di Carl. — Ora lo metteremo in un loculo. Non ci sono danni neurali, o quasi.

Stordito, Carl disse: — Be'… certamente… ma voglio dire…

Saul s'intromise: — Sento che dovremmo avere più dati per studiare questi casi. Non siamo certi per quanto tempo abbia avuto una temperatura alta. Aspettare altro tempo gli fa rischiare danni al cervello. — Malenkov agitò bruscamente una mano davanti a Saul, cancellando ogni obiezione. — Venite.

Storditi, lo seguirono tutti fino al centro del complesso dei loculi. Carl era stupefatto. Cercò di pensare, rosicchiandosi il labbro. Gli esperti di sociologia avevano scritto ampiamente come piccole imprese ad alto rischio dovessero avere un leader olimpico chiaramente superiore per evitare la divisione in fazioni e superare i momenti difficili. Un Drake, un Washington. Senza quel leader…

Nella sala di preparazione, Samuelson e la Peltier stavano effettuando controlli e sistemando diagnostici intorno al corpo che era già avvolto in un grigio sudario di circuiti. Il volto di Miguel Cruz-Mendoza era tranquillo, eppure proiettava ancora la poderosa sensazione d'un fermo proposito. Filamenti di nebbia ricamarono l'aria quando la temperatura della camera cominciò a scendere. Malenkov parlò ai due tecnici al lavoro attraverso un microfono, e il gruppo osservò le ultime procedure dell'internamento.

— Così, avevi autorizzato la sua messa nel loculo ancora prima della nostra discussione — osservò Saul con calma.

— Volevo che tu capissi la mia logica. Mentre Matsudo è nel colombario, sono io il responsabile della salute dell'intera spedizione — replicò Malenkov, rigido.

— E in effetti lo sei. — La voce di Saul recava soltanto un asciutto accenno d'ironia.

— Spero che possiamo riportarlo indietro… molto presto — proseguì Malenkov. — Dannazione! Proprio all'inizio!

Virginia disse, coraggiosamente: — Collaboreremo tutti, naturalmente. Dovremo…

— … scegliere un nuovo comandante — terminò Saul per lei. — È ovvio: Bethany Oakes. Il suo nome è il successivo in lista.

Carl annuì, con riluttanza. Un altro ortho. Tutto l'equipaggio anziano lo era. E Bethany Oakes non era neppure una spaziale.

Osservarono in silenzio, mentre Samuelson e Peltier facevano scivolare il corpo del comandante dentro una cella del colombario e aprirono le valvole per far passare i liquidi di alimentazione. La cella cilindrica s'inserì perfettamente in un'ampia parete di alveoli analoghi, la certezza dell'acciaio lucido avvolta in una nebbia trasparente. Talmente simile alla morte, eppure era l'unica speranza di una vita futura. Se fossero riusciti a capire cosa l'aveva ucciso. Se.

Malenkov sospirò. — Avremmo dovuto tenere una qualche cerimonia. Ma non c'era il tempo.

Saul disse: — E forse non è tanto una buona idea riunire tutti nello stesso luogo.

Ancora stordito, Carl pensò: Miguel Cruz non vorrebbe mai un piccolo, rigido rituale. Qualcuno di noi si radunerà più tardi e ne berremo qualcuno alla sua salute. Il capitano lo capirebbe.

E forse ciò avrebbe attenuato il dolore, quando lo stordimento fosse diventato sofferenza.

— La dispersione, certo. — Malenkov annuì in silenzio, corrugando la fronte. Carl si rese conto che stavano ancora parlando di ciò che aveva ucciso Cruz, e se la cosa potesse essere infettiva. — Osborn, può sistemare gli orari di lavoro fino a quando non avremo scongelato Bethany Oakes?

— Io torno al laboratorio — disse Saul. — Voglio una revisione a tutto campo dei nostri risultati.

— Penso proprio di no — replicò Malenkov, ancora più rigido.

Carl vide che Saul era già semismarrito nei propri pensieri circa le piste di ricerca che avrebbe dovuto seguire. Per cui, non rispose subito ma fissò il vuoto, in direzione del coperchio della cella che si era chiuso su Cruz. Poi si girò lentamente verso Malenkov: — Uhmmm? Cosa?

— È il tuo turno, Saul.

— Saul?

— Questa morte mi rende ancora più deciso. — Malenkov strinse le labbra con forza, sbiancandole, serrando i muscoli delle mascelle.

— Rischiamo di esporre anche te al contagio anche soltanto stando qui a parlare. — Malenkov fece un gesto brusco. — Entra in una cella.

— È ridicolo. — Saul parve irritato, come se Malenkov stesse portando avanti uno scherzo di cattivo gusto. — Io posso essere di aiuto. Diavolo, se qualcuno dei miei sospetti risultasse vero…

— Tu non sei così importante ed essenziale — ribatté Malenkov, senza minimamente mostrare segno di distensione. — Peltier, lei conosce bene l'immunologia…

— Insisto…

— Non intendo rischiare di vederti morire sul colpo, amico mio.

— Nicholas, io non ho quello che ha ucciso Miguel Cruz, qualunque cosa sia.

— Guardati, occhi rossi, il naso che cola. — Malenkov fece un gesto. — Tu hai qualcosa. Un microbo preso nel tuo laboratorio, forse.

Virginia si portò al fianco di Saul e gli tastò la fronte. — Sei caldo — constatò.

Carl osservò imbronciato Virginia che appoggiava una mano sul volto di Saul con inconscia intimità. A me pare dannatamente malato. Malenkov potrebbe aver ragione.

Virginia chiese, con calma: — Da quanto tempo sei in queste condizioni?

— Da qualche giorno, più o meno — rispose Saul, senza dare importanza alla cosa. — Un raffreddore, nient'altro. Un po' di febbre.

Malenkov intervenne: — Non possiamo esserne sicuri.

— Credo sia soltanto un residuo di quell'ultima maledetta sfida biologica di Matsudo. Il che non significa che io sia malato, o quanto meno un portatore sano.

— Il comandante è morto nel giro di poche ore — dichiarò Malenkov, secco.

— Non a causa di qualcosa che ha preso nel mio laboratorio. Non c'è mai neppure andato vicino.

— Potrebbe esserselo preso direttamente da te — insisté Malenkov.

— Per l'appunto. E allora, perché mai sono ancora vivo? Usa la testa, Nikolai. Hai bisogno di me per riuscire a rintracciare il suo uccisore!

— È per salvare la tua sciocca vita! — Malenkov agitò il pugno in direzione di Saul, tremando tutto.

— Saul, tu devi… — lo sollecitò Virginia, la tensione rendeva vibrante la sua voce. — Non possiamo permettere che tu rischi la tua…

— Basta! — urlò Malenkov. Il volume del suo corpo massiccio rese travolgente quell'ordine. La camera, tappezzata di speciale plastica autoindurente, concentrò l'urlo in un fragore di tuono. — Basta!

Sapevo che avrebbe cominciato con le intimidazioni non appena ne avesse avuta la possibilità pensò Carl. Se lasciamo che l'abbia vinta adesso, prenderemo ordini da lui per sempre. Ho già visto altre volte tipi come lui.

In parte, però, si trattava di un puro e semplice risentimento per il fatto che qualcuno impartisse degli ordini quando il comandante era appena defunto.

— Tu non sei il comandante — intervenne Carl con voce pacata, reprimendo l'impulso iniziale ad alzare la voce. — Il sistema di sopravvivenza è secondo, nella mappa dell'equipaggio, a quanto ricordo, e questo rientra nella categoria dell'emergenza nello spazio. Sono io che adesso faccio funzione di ufficiale.

Tutti e tre lo fissarono sorpresi. Gli scienziati… non guardano mai al di là del proprio feudo.

Malenkov esitò, rivolse un'occhiata agli altri, poi annuì. — È vero… per ora. Bethany Oakes… possiamo scongelarla subito, comunque.

— Fai pure. — Carl scrollò le spalle. Allora potrà fare con te questi giochetti di potere e io mi defilerò.

Saul disse giudiziosamente: — Mi pare ragionevole. Carl non poté fare a meno di sorridere sardonico. Ci puoi scommettere che lo è. Ti ho appena salvato il culo dal colombario.

— Sono… d'accordo — aggiunse Virginia, ma Carl vide emozioni in conflitto fra loro disegnarsi sul suo viso. Erano così ovvie da leggere. Se Saul fosse finito in un loculo, lo avrebbe perso per un anno o due. Ma se fosse morto__

Virginia e Saul Lintz? Carl era stupefatto, non riuscì neppure a pensarci, in quel momento.

— Abbiamo altri problemi — balbettò brevemente, affrettandosi a proseguire. — Ero venuto a riferire la presenza di una certa sostanza che intasa i filtri nel Pozzo 3. Faremo meglio a occuparcene, e presto.

Malenkov disse: — Continuo a non capire perché Saul…

— Perché ci serve ogni individuo disponibile, ecco perché! — scoppiò a dire Saul.

Il volto di Malenkov parve schiacciarsi, le guance gli schizzarono fuori rigonfie, la sua mascella assunse un aspetto adamantino. — Non sono d'accordo.

Carl dichiarò, aspro: — Lamentati con Bethany Oakes.

D'un tratto, Malenkov aprì di scatto il portello. — C'è una cosa che ho l'autorità di fare! Saul dovrebbe tenersi lontano da tutti noi. Io non starò più nella stessa sua stanza.

Saul cominciò a replicare: — Su, vieni, Nick, tu…

— Sono ancora il capo della medicina! — ribatté Malenkov, con rabbia. — Ti metto in quarantena!

— È…

— Nessun contatto! Lavorerai nel tuo laboratorio, da solo. Fai rispettare la quarantena, Carl, altrimenti parlerò di questo con la Terra! — Malenkov passò rapidamente attraverso il portello aperto e lo sbatté dietro di sé. Gli altri si guardarono.

— Tu sai che ha ragione — esclamò Virginia, con rabbia.

— Col cavolo. Grazie per essere intervenuto a questo modo — disse Saul a Carl. — Mi ero dimenticato qual era la linea di successione. I grafici organizzativi non sono il mio genere di cose.

Carl scrollò le spalle. — Sapevo dannatamente bene che nessuno le aveva predisposte perché toccasse a Malenkov.

Saul ridacchiò, e Carl lo ricambiò con un sorriso superficiale, anche se sotto era in agitazione. Si chiedeva se in realtà avesse fatto la cosa giusta. Non ne sapeva abbastanza di medicina, era ovvio. Aveva semplicemente seguito il proprio istinto. Gli anni passati nello spazio gli avevano insegnato che quella di solito non era una buona idea.

Cosa ne penserebbe il comandante? Non era ancora abituato a questo. Non ho mai voluto essere io al comando.

Virginia afferrò il braccio a Saul, rimproverandolo perché era ancora alzato mentre avrebbe dovuto trovarsi a letto. Carl avvertì una fitta improvvisa di gelosia.

— Ehi, è in quarantena, sai?

Virginia lo fissò, accigliandosi, ma Saul annuì: — Carl ha ragione. Me ne tornerò a casa strisciando da solo.

Se non avessi aperto la bocca pensò Carl, in questo momento Saul starebbe uscendo dalla nostra vita.

Forse non aveva avuto un'idea troppo buona a parlare, dopo tutto.

D'altro canto, Saul non aveva l'aria di durare ancora a lungo, comunque. E se l'avessero infilato in un loculo prossimo alla morte, non sarebbe tornato indietro molto presto.

Ammiccò più volte, quando questo pensiero emerse nella sua coscienza. Quali sono le mie vere motivazioni, in questo caso?

Gli faceva male anche soltanto muovere gli occhi…

Dolori palpitanti, una afosa opacità che gli riempiva la testa, un arido raschiare in gola. Non mi sono più sentito così male da quando avevo vent'anni. Quell'assaggio di vini a Los Angeles…

Si rizzò a sedere nel buio totale, sentendo il frusciare delle lenzuola fresche, e tutto gli ritornò nella memoria.

La donna hawaiana, Kewani Langsthan, era venuta su con una grande bottiglia di ardente brandy di noce di cocco per aiutare Carl, Jim Vidor e Ustinov a violare la norma di Malenkov contro gli assembramenti, e bere alla memoria del capitano Cruz. Chi ha mai sentito di hawaiani che tengono una veglia irlandese intorno a una cassa da morto?

Si rese vagamente conto di essersi voluto deliberatamente, stolidamente ubriacare. E proprio mentre se ne rendeva conto, seppe di non poter cancellare quell'orribile disperazione, al più poteva darci un'intonacata.

Talvolta una cerimonia carica di eccessi demenziali, provocatoria, capace di lacerare le viscere, era l'unico modo di offrire un tributo ai morti. Press'a poco metà dell'equipaggio era giunto alla stessa conclusione.

Ma era successo qualcos'altro… Cercò di ricordare, ma non ci riuscì.

Va bene, d'accordo. Ero fuori servizio e ho usato il tempo come mi è parso opportuno, come dicono i regolamenti. È soltanto che non ho un grande talento per spassarmela alla grande. Adesso devo pagare il prezzo.

Come in risposta, un dolore lancinante gli trafisse la testa stordita. Allungò una mano per accendere la luce, e invece toccò una morbida coscia.

Oh, sì, tutt'a un tratto mi era parsa follemente attraente, arguta, comprensiva…

— Uhmm? — mormorò Lani. — Carl?

Lui cercò di parlare, dovette schiarirsi la gola. Inghiottì dolorosamente e gracidò: — Ah, già. Buon giorno.

Lani accese una fioca luce notturna, proiettando le loro ombre contro le pareti della sua accogliente stanzetta. — Hai… un aspetto orribile.

Carl cercò di sorridere. Gli parve che una fenditura gli lacerasse il viso. — Sempre meglio di come mi sento.

Il volto largo e corrugato di Lani non pareva in condizioni molto migliori. — Posso procurarti qualcosa?

— No, dovrò sudarmelo e basta.

— Ho un po' di B-complesso e antispasmodici. Possono attenuare gli effetti.

— Oh… sì, d'accordo, vediamo cosa può fare la scienza. — Sapeva che la frase suonava vuota, ma sentiva d'istinto di dover trattare la cosa con leggerezza. Riusciva a ricordare soltanto molto vagamente come aveva fatto ad arrivare fin qui, quello che era stato detto. Il mio subconscio mi ha cacciato di nuovo nei guai pensò mestamente.

Lani buttò da parte la coperta e planò nuda attraverso la stanza, snella e senza imbarazzo. Frugò in uno scomparto per i medicinali e tornò con cinque pillole e una borsa d'acqua. Carl prese il suo tempo per inghiottire, cercando d'immaginare come doveva tracciare la faccenda.

Ricordava di essersi improvvisamente incollerito con Virginia… era stato quello l'inizio. Aveva bevuto un po' del micidiale maitais che Langsthan aveva fabbricato e poi Saul Lintz era comparso su uno schermo vicino, sintonizzandosi soltanto per vedere cosa stava succedendo. Già, quello doveva aver causato tutto. Fino a quel momento avevamo ragionato sensatamente, ma il vecchio compiaciuto Saul aveva sollevato gli occhi al cielo, rivolgendoci quel suo maledetto sguardo indulgente, ed io mi sono imbestialito. Con lui, con Virginia…

— Va meglio? — chiese Lani a bassa voce.

— Uhm… quasi del tutto a posto. — Giaceva disteso sul letto vagamente conscio di essere nudo.

Lei era sospesa a mezz'aria sopra il letto, nella posizione del loto. Stava scendendo lentamente. — Dovresti dormire ancora un po'.

— Uh, io… che ore sono?

Ebbe un fugace sorriso, come se avesse indovinato la sua intenzione. — Sono quasi le dieci.

— Oh… sono di turno fra non molto.

— Prima devi tornare fra i vivi.

— Starò… bene. — In realtà si sentiva ancora peggio. Non riusciva a pensare con chiarezza. Non si era mai trovato in una situazione dove, in tutta franchezza, non sapeva se avevano fatto o no all'amore. Dannatamente improbabile. Non sono mai stato un granché dopo una scorpacciata.

— Te lo stai chiedendo — disse Lani, con quel lieve sorriso che le aleggiava sulle labbra.

— Ah, sì… già. — Lei lo precedeva sempre di una mossa.

— Diciamo che le tue motivazioni erano pure.

— Uh?

— Abbiamo parlato a lungo e tu hai detto che volevi vedere il mondo delle mie pareti.

— Il tuo…

Lei si srotolò e batté su una piastra di comando, sopra l'imbottitura del letto. Immediatamente la stanza si animò intorno a loro.

— Au!

— Scusa, abbasso le luci.

Era la caverna di cristallo. Era tornata là dentro, aveva fotografato con cura i molti angoli, imprigionando la miriade di sfaccettature. Lo splendore veniva rifratto, vivido, dovunque. Miracolosamente, era riuscita a mettere insieme delle vedute senza nessun riflesso di lei o della sua attrezzatura, così quella luccicante caverna era una visione che nessuno avrebbe mai potuto vedere di persona. Era migliore della realtà. Poi aveva sistemato la sua stanza in modo che i mobili e i vari congegni occupassero aree oscure della caverna, amplificando l'effetto.

— È magnifico. Tutti gli altri usano scene della Terra.

Lani scrollò le spalle. — Posso avere in qualunque momento quella roba da turisti del National Geographic.

Anche attraverso la sua vista annebbiata rimase colpito. E lentamente ricordò la loro conversazione, come gli era parsa arguta, calda, straripante di idee. Non se n'era mai accorto prima, non le aveva mai dato una sola occasione, a dire il vero.

— Così, sono venuto a vederlo…

Lei annuì, le sopracciglia arcuate in un'espressione divertita. — E sei svenuto.

— Oh.

— Ho pensato che non avresti apprezzato il fatto che la gente ti vedesse mentre venivi trascinato privo di sensi attraverso le gallerie, fino alla tua branda.

— Immagino di no.

Lei sbatté gli occhi, si morse il labbro, poi aggiunse con cautela: — Mi… mi è piaciuto il modo in cui abbiamo parlato la scorsa notte, Carl. Non abbiamo mai avuto davvero l'occasione di dirci molto. Non più, dopo le prime settimane.

— Già — annuì lui, a disagio. — Ero indaffarato.

Lani proseguì con fermezza: — So che non mollerai subito Virginia.

— Mollarla? Ma io non l'ho proprio.

— Mollare la speranza, allora.

Annuì amareggiato. — Esatto.

— Non immediatamente, lo so.

Carl guardò Lani come se la vedesse per la prima volta. Era diversa da quello che aveva pensato. Forse…

Ma Virginia…

— Non c'è fretta — disse Lani, dando l'impressione di sapere esattamente quello che pensava. Tutte le mie emozioni devono essere scritte sulla mia faccia… si rese conto, a disagio.

— Io… forse hai ragione. Sono così maledettamente confuso.

Lani si sporse in avanti e lo baciò delicatamente sulle labbra. — Non esserlo. Fai il tuo lavoro e lascia le piccole cose come l'amore e la vita per più tardi.

Carl dovette sorridere. — Mi rendi le cose molto più facili di quanto io meriti.

— Voglio farlo.

— Io…

Si portò un dito alle labbra per azzittirlo. — Sst. Non devi proprio esser cortese. No, dopo una sbronza come quella.

Fece la doccia. Lani aveva installato il proprio equipaggiamento facendo in modo che perfino dentro la cabina della doccia ci fosse una proiezione della caverna di cristalli… Poi si vestì. Lei lo salutò con un bacio; e prima ancora che la sua mente avesse registrato completamente la loro conversazione, stava già salendo verso lo spogliatoio, tremante ma pronto ad iniziare il suo lavoro.

Era già al lavoro prima che il doposbronza si schiarisse, e sentì l'improvviso peso della depressione calare di nuovo su di lui. Sin da quando aveva lasciato la Terra, aveva lavorato con coerente determinazione, senza mai porsi domande. Ma adesso non riusciva a tenere la sua mente lontana dalle questioni maggiori, problemi che vedeva profilarsi per i giorni a venire. Non c'era più nessuno che potesse occuparsene, e di cui potesse fidarsi.

Carl avvertì lo spalancarsi di un vuoto, una premonizione.

Il capitano Cruz se n'è andato. Non sembra possibile. Per l'inferno ghiacciato, cosa faremo?

SAUL

Non avrebbe dovuto essere possibile.

Saul fissò quella chiazza verde e marrone nella capsula Petri. Non ci voleva certo un esame di laboratorio per sapere che stava guardando qualcosa che non avrebbe dovuto esistere.

In piedi, ma un po' rannicchiato su se stesso nella posizione rilassata dovuta alla bassa gravità, il tecnico spaziale Jim Vidor sbirciò da sopra la spalla di Saul. A rigore, quell'uomo non avrebbe neppure dovuto trovarsi là. La maschera-filtro sopra la bocca e il naso erano espedienti ben miseri, nei confronti della quarantena in cui Saul era relegato.

Saul prelevò un nuovo fazzoletto dallo sterilizzatore e si asciugò il naso. Dopo due giorni, quand'era parso chiaro che il suo corpo non aveva una gran fretta di accasciarsi e morire a causa di quello tsuris d'un raffreddore, l'ordine d'isolamento aveva perso parte della sua originaria urgenza. Comunque per gli spaziali la malattia era una minaccia astratta. Assai più reali per loro erano le difficoltà che si trovano ad affrontare a causa del gunk che penetrava dentro ogni cosa, dall'impianto di aereazione ai mech, minacciando i macchinari che tenevano in vita loro tutti.

Tuttavia, Saul fece segno a Vidor di tirarsi indietro, per lo stesso motivo per cui aveva tenuto lontano Virginia, malgrado le sue ribelli implorazioni.

Nick Malenkov poteva aver ragione, dopotutto. Qualunque cosa sarebbe potuta accadere, dal momento che Halley era capace di saltar fuori con cose come quella, appunto, che si trovava sulla capsula davanti a lui.

— La roba cresceva nel deumidificatore principale, dottor Lintz, in alto, dove il Pozzo Uno interseca il livello A. L'ho mostrata al dottor Malenkov quando sono ridisceso qui dal Complesso, ma lui è impegnato a tempo pieno in infermeria, adesso che la Peltier è priva di sensi. Ha detto che era lei il grande custode della fauna nativa su questo iceberg, comunque, così l'ho portata da lei.

Senza alcun dubbio, Nick supponeva che avresti usato un mech come fattorino pensò Saul. Ogni poche ore un mech bussava alla sua porta, portandogli un thermos di minestra e un minuscolo foglietto di Virginia. Forse quei pacchettini erano la ragione per la quale quel suo dannato microbo non era peggiorato. Lavorando con le mani guantate in una scatola isolante, usò dei forcipi sterilizzati per lacerare un grumo di filamenti rossi e verdi, trasportandone alcuni sul vetrino di un microscopio. L'unità ronzò quando le sonde cominciarono a strisciare in avanti, portandosi in posizione. Era ovvio che quella cosa che non poteva esistere, esisteva. Doveva venir esaminata.

Naturalmente, Malenkov non poteva avere nessun interesse a guardare qualcosa di così macroscopico. Come medico del Turno-1, la principale preoccupazione di Nich era la strana e terrificante malattia che era comparsa dal nulla, aveva ucciso il loro capo, e adesso aveva un'altra vittima prostrata in infermeria.

Lo «scongelamento» di Bethany Oakes e di un'altra mezza dozzina di rimpiazzi era stata ritardata dalla scoperta del limo verde negli scambiatori di calore, che erano stati laboriosamente puliti a mano. La decolombarizzazione ora ripresa teneva troppo occupato il medico russo, perché potesse badare a qualcosa di così grosso, e perciò «innocuo», come dei filamenti che crescevano in una remota galleria.

Saul, esiliato nel suo laboratorio, aveva poco da fare, salvo analizzare i campioni di tessuto prelevati al povero Miguel Cruz e al nuovo paziente… e rispondere alle domande della preoccupata stazione di controllo sulla Terra. Soprattutto aveva in corso un programma d'incubazione ad ampio spettro, dal quale non poteva aspettarsi risultati almeno per altre trentasei ore.

— I test le hanno rivelato niente su cosa ha ucciso il capitano, dottore?

Saul scrollò le spalle. — Ho trovato segni d'infezione, senza dubbio, e fattori proteici estranei, ma niente di più definito di questo. — Era arrivato a rendersi conto, finalmente, che con tutta probabilità non sarebbe mai riuscito a rintracciare il fattore patogeno, o i fattori patogeni, senza parecchi altri dati. Aveva bisogno di saperne di più, in senso basilare, sulle forme di vita di Halley.

Se Nick non voleva permettergli di avvicinarsi ai pazienti, allora avrebbe dovuto cercare altrove! Ciò che Saul voleva più di ogni altra cosa, era uscire nei corridoi e vedere con i propri occhi… raccogliere campioni, costruire un database, e scoprire cosa aveva ucciso il suo amico. Ma quella dannata quarantena…

Girò la testa e sollevò un fazzoletto di carta prima di sternutire. Le orecchie gli rombarono e la sua vista vacillò per un momento.

Bene, per lo meno Jim Vidor non sembrava sentirsi molto in pericolo nel visitare un appestato. Sì, era arretrato di fronte a quell'improvvisa eruzione, ma non appena Saul aveva recuperato la propria compostezza, lo spaziale era tornato ad avvicinarsi per guardare di nuovo da sopra la sua spalla.

— Ha nessuna idea di cosa sia, dottor Lintz? Questa roba nuova era raccolta tutt'intorno agli ingressi dei tubi al livello B, e temo che possa diventare un problema grosso almeno quanto quello della poltiglia verde, se dovesse intasare il deumidificatore.

Nick ed io abbiamo paura delle cose minuscole… forme di vita microscopiche che uccidono da dentro. Ma gli spaziali hanno altre preoccupazioni… S'inquietano se le macchine s'intasano, se le valvole si rifiutano di aprirsi o di chiudersi, li preoccupano l'aria e il calore e la risucchiante vicinanza del vuoto.

— Non so, Jim. Ma credo…

Lo schermo turbinò e un minuscolo grappolo di fili balzò in primo piano, ingrandito. Saul si schiarì la gola e borbottò una rapida sequenza di ordini sotto forma di parole-chiave. D'un tratto una sciabolata di luce saettò, riducendolo a un minuscolo frammento rossastro, in una vivida esplosione fiammeggiante. Uno degli schermi laterali s'increspò, mostrando le linee d'uno spettro luminoso.

— Niente da fare. Dopotutto, credo non possa essere una forma mutata di qualcosa che ci siamo portati dietro. Dev'essere nativo.

Saul si sfregò la mascella mentre analizzava il grafico d'una distribuzione d'isomeri. — Niente, nato sulla Madre Terra, ha mai utilizzato un complesso di zuccheri come quello. — Si chiese addirittura se esistesse un nome, per ciò che vedeva, negli annali della chimica.

Vidor annuì, come se se lo fosse aspettato fin dall'inizio. Talvolta l'innocenza balza alle giuste conclusioni là dove il sapere induce — al contrario — qualcuno a resistere con tutte le sue forze.

Anche Saul l'aveva sospettato, nel vedere la roba per la prima volta, giacché non assomigliava a niente di terrestre che avesse mai visto prima. Ma aveva trovato difficile crederlo fino a quel momento. I microrganismi erano qualcosa che poteva anche razionalizzare, soprattutto dopo aver visto la meravigliosa simulazione di JonVon su come poteva verificarsi l'evoluzione cometaria. Microbi procariotici primitivi, sì. Ma com'era possibile, in quello sconcertante universo di Dio, che potesse esserci qualcosa di così complesso… di così simile a un lichene, nelle profondità di una primordiale palla di ghiaccio?

Non avevo mai creduto veramente alla storia di Carl Osborn, dell'esistenza di macrorganismi qua fuori nei corridoi confessò a se stesso. Immagino di averlo cacciato via dalla mia mente, denigrando qualunque cosa avesse da riferire, rispondendo ostilmente all'ostilità. Invece mi sono dato da fare con i soliti lavori di routine, studiando i microbi, ignorando la prova che qualcosa di molto più grande stava accadendo qui.

Naturalmente, non era che Carl avesse proprio collaborato. Non si erano più visti da quel fatidico mattino ai colombari. E Carl non aveva mai più mandato i campioni che Saul aveva richiesto. C'era poco da meravigliarsi che fosse stato così contento quando Jim Vidor aveva preso l'iniziativa.

— In mancanza di una parola migliore, Jim, dovrò chiamare questo affare un lichenoide… qualcosa di simile a un lichene della Terra. Ciò significa che è una creatura associativa, una combinazione di qualcosa di autotrofico o fotosintetizzante, come un'alga, con qualche complesso eterotrofico come un fungo. Comunque, sono pronto ad ammettere che mi ha disorientato. Niente di così complicato dovrebbe…

— Conosce qualche modo per ucciderlo? — sbottò Vidor. I suoi occhi guizzarono veloci verso lo schermo, dove le fibre si muovevano lentamente sotto il forte ingrandimento.

D'un tratto Saul comprese.

Vidor è un emissario. Carl non è riuscito a ottenere nessuna indicazione utile da Malenkov. Naturalmente non uscirebbe mai allo scoperto avvicinandomi. No, arrabbiato com'è a causa di Virginia.

Si sentì colpire da un'altra ondata di stordimento che lo costrinse ad aggrapparsi all'orlo del tavolo, lottando per nascondere i sintomi.

Forse Nicholas ha ragione. Forse questo non è un altro bacillo dell'influenza. Forse sono già alla fine. Se è così, non ha forse ragione anche Carl? Cos'ho da offrire a Virginia salvo, forse, la possibilità di rimanere contagiata se mai uscissi dalla quarantena?

Che diritto ho di frappormi fra lei e Carl, se sono comunque condannato? Stranamente, l'idea di essere davvero morente gli fece battere il cuore in petto con violenza. Aveva supposto di essere libero da qualunque paura della morte per almeno dieci anni. Ma adesso la sola idea gli faceva tendere la pelle come un tamburo e inaridire la bocca.

Incredibile. Hai fatto questo per me, Virginia? Mi hai ridato la capacità di provare paura? La paura di perderti?

Era una cosa meravigliosa. Saul divenne di nuovo consapevole della presenza di Jim Vidor, con gli occhi che lo guardavano ammiccando da sopra la maschera, e sorrise.

— Di' a Carl che sono pronto a fare un patto con lui. Mi faccia uscire da questa fershlugginner di prigione, cosicché io possa andar fuori e vedere di persona quello che sta succedendo. In cambio farò tutto quello che posso per aiutarlo a tenere la poltiglia fuori dai suoi tubi. Anche se quello che potrò fare sarà soltanto impugnare una spugna insieme al resto di voi.

Vidor ristette per un momento, poi annuì: — Glielo dirò, dottor Lintz. E grazie, grazie tante.

Lo spaziale si girò di scatto e fischiò un rapido codice, cosicché la porta era già aperta quando salpò attraverso di essa per uscire in corridoio. Saul osservò il portello che tornava a chiudersi. Poi risollevò lo sguardo sull'aggrovigliato nido d'uccello fatto di filamenti alieni che appariva sullo schermo.

Una parte di lui si chiese se fosse moralmente legittimo mettersi a cercare dei modi per combattere le forme di vita indigene che causavano agli spaziali così tanta pena. Dopotutto, qui erano i terrestri gli invasori. Erano arrivati da un mondo remoto diverso da questo quanto si supponeva lo fosse il Paradiso dall'Inferno. Nessuno aveva invitato gli umani. Erano appena arrivati, come facevano sempre.

Come ci siamo immischiati sempre anche noi, eh, Simon?

Saul scrollò le spalle. Quella piccola voce moralizzatrice era facile da reprimere, come lo era la paura di morire. Avrebbe lottato e sarebbe vissuto. Perché per la prima volta in dieci anni aveva qualcosa per cui combattere e vivere.

Esatto pensò ironicamente. Fai lo scaricabarile, dài la colpa a Virginia.

Smise di asciugarsi il naso, e lasciò cadere il fazzoletto nello sterilizzatore. Poi s'infilò in bocca un'altra pillola contro il raffreddore.

Sorridendo truce, allungò la mano e aumentò l'ingrandimento.

— D'accordo, bello. Mi hai incuriosito. Voglio scoprire tutto su di te. Se dovremo combattere, voglio sapere cosa ti fa muovere.

Inserì il Quartetto d'Archi di Tokyo sulla videoparete, registrato da telecamere e microfono soltanto a pochi metri di distanza dal famoso complesso da camera. Suonarono Bartok per lui, mentre girava le manopole, parlava dentro il registratore, sorrideva cupo e sternutiva di tanto in tanto.

VIRGINIA

Vedi danzare i mech, vedi suonare i mech pensò Virginia di cattivo umore, a metà di una riprogrammazione. Dio, vorrei che se ne andassero via.

Erano passate ore e ore, ormai, e i lavori si stavano facendo più difficili. Giaceva lungo distesa, fisicamente comoda, ma vessata e irritata dalle interminabili richieste. Provò una nuova subroutine su un mech che riempiva la metà del suo schermo centrale. Il mech si girò, si avvicinò a un pannello fosforescente. Attento, attento lei pensò, ma non interferì. Un errore di un solo centimetro avrebbe fatto schizzare il braccio del mech attraverso la vernice fosforescente, interrompendo il canale conduttivo di quella sottile pellicola, oscurando il pannello. Le virtù dei fosfori risiedevano nella facilità di applicazione: bastava applicare uno strato di quella roba, collegare dei cavi a basso voltaggio agli angoli, e si otteneva una fonte di luce fredda a basso costo. Gli svantaggi stavano nel fatto che avevano poca resistenza meccanica e tendevano a sviluppare chiazze opache nei punti in cui la corrente elettrica scorreva ineguale. Un mech poteva urtarne uno e distruggerlo anche toccandolo lievemente.

Cosa che questo mech si avviò a fare proprio mentre Virginia guardava. Cercò d'individuare la vegetante poltiglia verde e di pulirla via con una spugna aspirante. Giunto verso la metà del pannello, però, il braccio ruotò nel suo alveolo e affondò dentro il fosforo con un croccante crepitio. La luminescenza tremolò, diminuì.

Dannazione. Virginia fece arretrare il mech e lo immobilizzò. Poi si rituffò nella subroutine che aveva appena scritto, cercando di trovare il difetto che aveva portato il braccio del mech a incepparsi in quel passaggio cruciale.

— Virginia! Me ne servono altri quattro nel Pozzo 4, subito! — interloquì la voce di Carl.

Virginia fece una smorfia. — Non puoi averli! Tutti occupati. — Continuò a spostare intorno le unità logiche secondo un assetto tridimensionale, non volendo che la struttura del sottoprogramma le sfuggisse. Soltanto un tocco qui, un minuscolo aggiustamento lì, e…

— Ehi, mi servono adesso!

— Togliti di torno, Carl. Ho da fare.

— E io no? Quassù la poltiglia ci sta mangiando vivi.

— Siamo già troppo pochi.

— Devo averli. Adesso!

Non c'è niente da fare. Digitò un'ultima modifica e attivò la sequenza di «editing». Su un canale separato, trasmise: — JonVon, dài un'occhiata a questo. Qual è il problema? Sono troppo stupida per vederlo.

PERMESSO DI INTERROGARE IL MECH E AGGIUSTARE IL SOFTWARE DI BORDO?

Quello era un po' rischioso; JonVon era bravissimo nelle analisi, ma non aveva molta esperienza nel lavorare direttamente con i mech. Che diavolo, questa è una crisi. — Sicuro.

— Virginia? Non lasciarmi nella peste.

— Sono qui. Mi sento come un cuoco che deve organizzare un banchetto in un batter d'occhio, cercando di ridistribuire questi mech. Fra te e Lani e Jim, non ho il tempo per riprogrammare quei mech di superficie per il lavoro di galleria.

La voce di Carl si ammutolì per un po'. — Be', mi spiace, ma qui mi trovo in una brutta situazione. Questa roba si sta diffondendo in fretta, qui deve esserci più umidità nell'aria. Potremmo dover pulire via tutto nel vuoto. Sarebbe più dura.

— Lo so, lo so. — Carl spiegava sempre pazientemente perché aveva bisogno di aiuto, come se lei non capisse.

Cambiò canale, controllò la situazione accanto alla Camera di Equilibrio 3, e impartì tutta una raffica di ordini svincolanti (per scavalcare le precedenti istruzioni) direttamente attraverso il suo contatto a induzione neurale, per impedire che una valvola surriscaldata fondesse aprendo un foro nella parete a ridosso del vuoto. Poi richiamò Carl: — Senti, non posso farlo subito.

— Come mai? — Era forse un tono impaziente, irritato? Be', che andasse al diavolo.

— Perché ho gli alligatori che mi arrivano al sedere! — urlò, e interruppe il collegamento.

Questo la fece sentire bene.

CARL

Cominciò con un fischio alto e acuto.

Carl stava lavorando all'installazione di un tubo, maledicendo la poltiglia verde che lo rendeva viscido, quando sentì il suono, dapprima soltanto un gemito lontano, stridulo. Proveniva da un punto molto distante lungo il Pozzo 3, vicino alla camera di equilibrio in superficie, e suppose che quella singola nota insistente giungesse da qualcuno che lavorava più oltre, verso la Centrale.

Era soltanto perché si trovavano molto a corto di manodopera. Carl aveva lavorato con uno dei mech riprogrammati di Virginia, ma non appena era possibile, evitava di farlo. Interferiva con il suo lavoro tutte le volte che la macchina parlava con la cadenza che la distingueva.

I primi risvegli avrebbero dovuto «scongelarsi» martedì prossimo, e Carl sperava che ciò avrebbe contribuito ad aiutarli nei loro lavori. La poltiglia era viscida, fetida, e persistente; la odiava.

E quei dannati filamenti che s'impigliavano negli sfiatatoi. Forse Jim Vidor ha ragione, dovrei togliere Saul dalla quarantena, fargli studiare questa roba da vicino.

Se si fosse trovato insieme a un compagno, avrebbe potuto abbandonarsi meno alle riflessioni, e l'avrebbe sentito prima. Il suono continuò mentre lui stringeva la giuntura con la sua chiave inglese, il rrrrrttttt rrrrrrttttt rrrrrrttttt gli trasmetteva le vibrazioni fin dentro le spalle.

Carl sollevò la testa. Sentì soffiare una brezza.

C'era sempre una circolazione d'aria nello spazio, spinta da ventilatori sovralimentati se le differenze di temperatura non fornivano abbastanza convenzione. Ma non così lontano dalla Centrale, non come quel flusso costante, leggero come una piuma, che gli sfiorava gli orecchi.

Si fermò, ascoltò. La stessa nota costante. Arrivava da sotto, dal fondo del pozzo, verso la Centrale.

Poi gli orecchi gli schioccarono.

Tirò su i suoi arnesi e si allontanò con una spinta, con un singolo fluido movimento, senza arricciarsi. Una scarica dei suoi getti, e si tuffò verso il basso. I fosfori punteggiavano il pozzo con chiazze di luce giallo-verde ogni cento metri; automaticamente li usò per valutare la propria velocità, per impedire un'accelerazione che poi non sarebbe più stato capace di frenare. Macchie di poltiglia verde coprivano alcuni dei fosfori: crescevano alimentandosi della debole energia emessa da questi.

Passò davanti a gallerie che correvano orizzontali, 3B, 3C, e 3D, ma il suono non proveniva da esse. Nell'arrivare alla 3E rallentò, perché il sibilo si stava facendo più intenso e un costante risucchio stava cercando di trascinarlo verso il basso. Carl aveva sempre detestato i rumori acuti, e questo adesso era stridente, raschiante. Lui stava cercando una giuntura rotta nell'isolante, ma non era affatto preparato a quello che trovò.

Vermi! Sbatté gli occhi stupefatto.

Creature purpuree simili a serpenti che si dimenavano colando poltiglia. Umidi, viscidi, ondeggiavano lentamente formando un cerchio intorno all'ingresso di 3E. Era come una bocca vivente che chiamasse con un lacerante urlo di sirena, il vento gemeva, lo strattonava e lo succhiava verso quelle invitanti ciglia purpuree che si flettevano allungandosi avide e basse verso di lui…

Annaspò intorno ai comandi dei suoi getti e li fece pulsare al massimo, all'indietro. Il vento gli turbinò accanto, facendo sfrecciare via i cavi dei suoi utensili, strappandogli dalla testa il berretto di lana, arruffandogli i capelli. Si girò di scatto e si afferrò ad un appiglio sulla parete del pozzo. Adesso il rumore era assordante, e lui sapeva che tra non molto sarebbe piombato nel più completo stordimento.

Cosa diavolo…!

Con uno strappo aprì la tasca di emergenza e tirò fuori un casco in plastifoglia. Gli ci volle un lungo istante per ficcarlo dentro l'anello sigillante a O della sua pelle-tuta. È da parecchio tempo che non faccio questa esercitazione.

Fece presa. Tirò la linguetta della bomboletta INIEZIONE. La bolla si espanse con un rassicurante wuush pneumatico. Ciò gli forniva un certo isolamento acustico, ma non molto. Non abbastanza.

— È al Pozzo 3, galleria E — trasmise sul canale di emergenza. — Tre E, Tre E, Tre E. Brutta. Tutta l'area intorno al collare è lacerata.

Una debole voce lo chiamò al fonosseo: — Non puoi rattopparla con la schiuma a spruzzo? Qualcuno sta per arrivare.

— Dubito di poterlo fare. Qualcosa… qualcosa è entrato dentro. Questo non è soltanto uno strappo, di sicuro.

Carl si morse il labbro. Non sapeva come descriverlo. La squadra avrebbe impiegato soltanto pochi minuti ad arrivare, ma il pozzo stava perdendo torrenti d'aria.

Le creature… purpureee… devono avere fatto irruzione attraverso una fenditura che conduce in superficie.

Si lanciò attraverso il pozzo. Il vento gli soffiò addosso per parecchi metri prima che raggiungesse il lato opposto e riuscisse a agganciare temporaneamente un mollettone dentro l'isolante. Rimase appeso lì e osservò il più vicino dei vermi purpurei che si contorceva e pulsava, rivoli di essudato ocra scorrevano giù dalla sua estremità appuntita. Il vento soffiava via le gocce, risucchiandole dentro il buco spalancato che circondava la base del verme.

Quella creatura orribile si gonfiò, si contrasse, si gonfiò di nuovo, allargando ogni volta sempre di più l'isolante, immettendo una parte sempre maggiore del proprio corpo dentro il pozzo. La porzione più vicina a Carl era lunga quasi un metro e stava crescendo a vista d'occhio, scossa da lente convulsioni agoniche mentre si gonfiava e si contraeva, si gonfiava e si contraeva. Le sue fauci luccicavano di quelli che parevano cristalli di ferro nativo.

Stanno cercando la poltiglia verde ebbe modo di constatare mentre i vermi premevano contro gli strati di quella vegetazione muschiosa alla loro portata. Pare che la assorbano direttamente… brucano quella roba! E succhiano i filamenti dall'aria.

Intorno al collare d'acciaio e di alluminio dell'ingresso di 3E, Carl contò tredici di quei vermi. Fece scendere un po' il cavo, e quella bufera ululante lo risucchiò verso il basso, in direzione di una di quelle creature senz'occhi trasudanti melma.

Carl strinse i denti. Adesso stava respirando l'aria della bombola, ma era pronto a giurare che ne sentiva l'odore: appiccicoso, denso, umido, come foglie marce in putrefazione.

Sganciò la sua lancia-laser, la regolò al massimo col pollice, e sparò una scarica. Il raggio tracciò una sottile linea rossa attraverso la creatura… senza nessun effetto apprezzabile.

Carl fece durare un po' più a lungo la scarica seguente, e recise la creatura pochi centimetri sopra la base. Uno spruzzo rosso purpureo venne disperso dalla raffiche del vento. L'estremità del verme traballò e cadde di lato, poi prese a ruzzolare via lentamente.

Altro fluido filtrò fuori dalla ferita e poi, sulla superficie, cominciò a sviluppare una crosta sempre più spessa. La nuova materia aveva una pelle spessa, lucida e porpora scuro simile a una melanzana. Poi cominciò a premere verso l'esterno, di lato, di nuovo verso l'esterno, avanti dentro il pozzo… la ferita era stata soltanto un'interruzione momentanea.

Carl sentì rizzarglisi i capelli in testa.

— … come adesso? Ripeto, non riesco a sentirti, voglio sapere…

Il resto andò perso. Carl non riuscì a vedere nessuno nel pozzo. Dov'erano?

Estrasse la sua pistola sigillante dalla fondina al polpaccio sinistro. Era stata concepita per piccoli lavori, ma lui non riusciva a pensare a nessun'altra possibilità.

Per avvicinarsi di più, srotolò un altro metro di cavo, poi ne riarrotolò in fretta una parte quando la creatura germogliante fluttuò verso di lui. Riusciva a percepire la sua presenza? Senza occhi o altri organi visivi? Forse grazie al calore del suo corpo. Non aveva nessuna intenzione di correre rischi.

La pistola sigillante vomitò un getto di gomma gialla contro il foro. Si spiaccicò sopra l'apertura, spargendosi rapidamente, mentre le lunghe catene molecolari si abbarbicavano sulla massima superficie possibile per cementarsi con essa. Il risucchio fece incurvare la gomma verso l'interno, ma la grande macchia gialla tenne.

Per quasi un minuto. Poi il verme urtò contro l'appiccicosa pellicola gialla, si torse, si piegò… e la staccò. Il vento investì con forza i bordi staccati. La pellicola sbatté futilmente come una bandiera lacerata.

— Ci servirà la roba grossa — trasmise Carl. — Portate tutto quello che abbiamo.

— … non sento… qualunque altra misura… prendere per essere sicuri…

— Sì. Chiudete… bloccate tutte le camere di equilibrio. Dappertutto.

— non sotto… Stiamo mandando tutti…

— Se ci dovesse mancare il sigillante, le camere d'equilibrio sono l'unica nostra risorsa.

E se anche questo dovesse fallire pensò, dovremo vivere dentro le tute.

Dieci minuti più tardi la cosa non parve più così improbabile.

Soltanto Lani, Samuelson e Conti erano disponibili per dare immediatamente una mano. Il resto dell'equipaggio era disperso su un'area troppo vasta. Lani era una spaziale, veloce e scaltra, ma gli altri due si erano trovati costretti a fare dei lavori che non conoscevano.

Lavorano quanto più in fretta possibile. Tagliare le appendici era semplice, ma altri vermi premevano per entrare prima che il sigillante facesse in tempo a indurirsi. Carl e Samuelson scoprirono che, se volevano fare qualche progresso, dovevano avvicinarsi al bordo dell'isolante e liberare l'intera area, tagliando con le lance-laser fino al ghiaccio.

— Dobbiamo tagliar via tutto completamente — dichiarò Samuelson. L'uomo grande e grosso si leccò nervosamente le labbra. — È la roba più maledetta che abbia mai visto.

— Stai attento, là, con quella torcia, sei vicino al ghiaccio. — Carl doveva tenere Samuelson legato a una corda per impedirgli di venire risucchiato direttamente dentro il foro. La squadra aveva disposto una serie di martinetti a mo' di sostegno e di cavi, per impedire al vento ululante di strapparli via dalle pareti del pozzo. Adesso le urla stridule e cavernose si smorzavano lentamente a mano a mano che l'aria nel Pozzo 3 si esauriva.

Carl gridò: — Non avvicinarti troppo!

Troppo tardi. Il grosso laser industriale di Samuelson, dopo aver distrutto con grande efficacia la creatura purpurea… colpì una vena di anidride carbonica ghiacciata, vaporizzandola all'istante. Un fiotto di gas schizzò fuori dal foro e soffiò via Samuelson, facendolo turbinare.

— Lani! Spiaccicaci dentro quel sigillante adesso — trasmise Carl. Rilasciò il cavo per permettere a Samuelson di sfuggire al getto di gas. Fra un attimo lì intorno ci sarebbe stato un bel pasticcio.

Lani manovrò l'estremità della cavezza, reggendo con entrambe le mani il tubo del sigillante che si dibatteva come un serpente. — Ecco, ci siamo.

Un sigillante giallo e appiccicoso si spiaccicò sopra i fori ripuliti. Carl e Conti vi tennero puntati contro i laser regolati a ventaglio e sull'intensità minima, per asciugarlo in un batter d'occhio.

Lani avanzò intorno al collare di 3E, sparando spessi strati di giallo sopra le lacerazioni. Qua e là il sigillante cedeva a causa della pressione, ma lei si affrettava a schizzarne rapidamente dell'altro per rinforzare la barriera.

— Non dovremmo usarlo in questo modo — trasmise Conti. — È uno spessore troppo grande. Resteremo senza.

Samuelson tornò, arrampicandosi lungo le pareti con l'aiuto del velcro per raggiungerli. — Più sottile di così, e si spaccherebbe subito.

— Non ne resterà neanche un po'.

— Basta con queste stupidaggini — intervenne bruscamente Carl. Se si fossero lasciati i componenti di una squadra liberi di trovar da ridire, avrebbero perso la concentrazione e non avrebbero più dato il meglio per fare il lavoro.

Lani chiamò: — Ho finito. La corrente si è esaurita.

L'improvviso silenzio li colse di sorpresa. Carl si catapultò lontano dalla parete del pozzo, in grado di librarsi nel vuoto adesso che quella corrente risucchiante era cessata. Non c'era praticamente più traccia della pressione dell'aria. — Forse resisterà.

Samuelson trasmise: — Cosa diavolo era quella roba?

— Qualcosa che cresce nel ghiaccio — disse Conti.

— Oh, suvvia, nel ghiaccio? — chiese sarcasticamente Samuelson.

— Nessun'altra maniera possibile — replicò Conti, deciso. — Forse passano attraverso le crepe? Attraverso le vene di neve più cedevole? Questa non è una forma terrestre di nessun tipo!

— Ma così grande! — Lani. — Quelli che Saul ha trovato erano per la maggior parte microorganismi, giusto?

— Sì — confermò Conti. — E la poltiglia verde e i filamenti non ti danno la caccia, da quello che ho sentito dire l'ultima volta.

Samuelson scoppiò a ridere. — Questi sono di sicuro più grossi.

— E robusti. Sono capaci di passare attraverso l'isolante — disse Carl.

Erano sospesi nel quasi-vuoto, fissandosi l'un l'altro. Samuelson si allontanò con un calcio dalla parete e indicò con un gesto sopra di sé, dove le chiazze di fosforo si stendevano come una punteggiatura, formando una V allungatissima a causa della prospettiva. — Potrebbe succedere in qualunque punto del pozzo.

Carl scosse la testa. — Sono passati vicino al collare, e in nessun'altra parte. Cos'ha di speciale questo posto?

Conti intervenne: — Qualcosa con il collare, nel punto in cui s'innesta nel ghiaccio?

— Dovremo controllare ogni collare, ogni intersezione.

Samuelson annuì: — Dannatamente giusto. Sarà anche indispensabile raccogliere tutti i pezzetti di quella roba che sono stati soffiati dentro a questo pozzo.

— Buona idea — trasmise Carl. — Mettiamoci al lavoro.

Si sparpagliarono per il pozzo e nelle gallerie adiacenti. Carl intrappolò parecchi grumi purpurei alla deriva e li ripose in una borsa di plastica. Bioccoli di gelatina galleggiavano liberi oppure si erano appiccicati alle pareti. Erano collosi e lasciavano macchie su tutto quello che toccavano. Continuò a commentare senza interruzione le loro azioni rivolto alla Centrale, descrivendo a Malenkov quella forma di vita. Saul Lintz s'inserì, mitragliandolo di domande. Carl non aveva nessuna idea di come doveva rispondere e Saul chiedeva dei campioni immediati.

— Dovremo decontaminarci prima di tornare in una qualsiasi zona pressurizzata. Di questo sono sicuro — disse Carl.

— Be', fate del vostro meglio. Vi farò avere dei flaconi in cui mettere i campioni.

— Mi arrangerò io. Non far entrare nessuno in questa sezione.

— Credi che sia così pericoloso?

— Hai dannatamente ragione.

Interruppe la comunicazione e continuò a cercare. La sua squadra si era sparpagliata tutt'intorno controllando ogni intersezione alla ricerca di segni di cedimenti. Qualcosa lo tormentava, ma non aveva il tempo per fermarsi a pensare. Quei frammenti purpurei erano andati alla deriva in lungo e in largo e lui aveva soltanto poche persone a disposizione per riuscire a recuperarli tutti. Giunto alla galleria che conduceva orizzontalmente alla Centrale, Samuelson trovò una punta purpurea che sporgeva appena attraverso la plastica. Chiamò Conti, e tutti e due insieme prelevarono un campione.

Furono incauti.

Quando Carl arrivò là pochi minuti più tardi, stavano entrambi schiaffeggiando delle chiazze su se stessi e lamentandosi, sorpresi dal dolore che provavano. Attraverso le loro visiere, ognuno dei due pareva stupito, pallido in volto, gli occhi spalancati che roteavano intorno a sussulti.

— Cos'è successo?

— Ho cercato di prendere questo pezzo e mi è scappato — disse Samuelson. — Conti l'ha afferrato e… gli ha mangiato il guanto.

C'era una strana chiazza sulla mano destra di Conti. — Suppongo che tu abbia sfiorato il pezzo col braccio? — chiese Carl.

— Sì, e quel dannato affare mi ha punto.

Il volto di Conti era distorto in una smorfia angosciata. — Sta peggiorando.

— Samuelson, accompagnalo. Voi due andate all'ingresso della camera di equilibrio di emergenza. Chiamerò Malenkov e gli farò sapere che state arrivando.

— Cosa… cosa credi che stia… facendo? — chiese Conti.

Mangiando pensò Carl. Ma lo tenne per sé. — Andate dai medici. — Diede ad entrambi una spinta verso l'interno. — Sbrigatevi!

Durante l'ora seguente, Malenkov gli trasmise dei rapporti sulle loro condizioni. Quella creatura purpurea aveva divorato le fibre delle loro tute, attraversandole, probabilmente reagendo ad esse come se si trattasse d'un potenziale alimento. — Forse gli piaccione le catene molecolari lunghe — aveva suggerito Malenkov. Una volta dentro, aveva bruciato la pelle. Probabilmente una parte era penetrata nel flusso sanguigno. Conti e Samuelson riferivano di una sensazione di dolore attenuata che si andava diffondendo. A tutti e due era stato dato un sedativo, ed erano in osservazione.

Carl avvertì Lani, e continuò nella sua ricerca. D'un tratto, quasi un'ora più tardi, gli venne un'idea.

— Saul Lintz! Sei là?

Il collegamento incrociato ticchettò e ronzò. Poi: — Sì.

— Questa roba purpurea è leggera, si muove facilmente. La maggior parte di quella che abbiamo tagliato via è stata risucchiata dentro i fori.

Carl visualizzò gli strati alternati di materiale inerte e di vuoto che costituivano l'isolante. Al di là dell'isolante c'erano due buoni centimetri di elio, il cui scopo era quello d'isolare la parete del ghiaccio. Forniva inoltre una via alle evaporazioni, cosicché queste sciamassero verso la superficie, sfuggendo infine nello spazio. — Dove conduce lo sfiatatoio di questo pozzo?

— Il condotto a vuoto del Pozzo 3 convoglia ogni cosa dal colombario Uno alla superficie. Non è qui, però, che puoi avere le migliori informazioni. Farai meglio a chiederlo a Vidor.

— No, ascolta: noi pensiamo sempre che le evaporazioni sfuggano verso l'alto, giusto? Ma il vento che abbiamo avuto qua sotto era forte.

— Sì, abbiamo perso un sacco d'aria.

— Il punto è: quel getto d'aria era tanto intenso da soffiarne un po' all'indietro?

— Forse. Comunque, fuoriuscirà piuttosto in fretta, anche se… Oh, capisco, sei preoccupato che…

— Esatto. La roba purpurea. È stata trasportata indietro dall'aria, verso la Centrale.

— Ci sono cavità che fungono da deposito lungo quella direzione, e…

— Esatto. — Carl esitò, e poi decise. — Saul! Durante questa crisi io scavalco Malenkov in autorità. Da questo momento sei fuori dalla quarantena. Sequestra Quiverian e chiunque altro riesci a trovare. Scendo al Tre J. Voi della biologia farete meglio a pensare molto in fretta. Scommetto che questi affari sono penetrati nel colombario Uno.

SAUL

Saul sbatté gli occhi per la stanchezza attraverso una nebbia causata da un doppio antistaminico, mentre finiva di ripulire dalle ultime tracce verdognole i bordi dell'unità filtrante. Ridotto dagli altari della scienza ai più umili lavori pensò scontrosamente. La mamma è andata a lavare i piatti per mandare il suo ragazzino all'università… perché poi faccia questo?

Naturalmente la sua vera «mamma» non aveva fatto una cosa del genere. Era stata un colonnello dell'esercito israeliano, un eroe della liberazione di Bagdad del '09, e probabilmente avrebbe approvato che il suo intellettuale figliolo fosse costretto a usare un secchio e uno straccio, di tanto in tanto.

Comunque, quell'ironica fantasticheria divertiva Saul, così la coltivò. Digrignò i denti e pestò sul filtro per rimetterlo al suo posto. Trent'anni d'istruzione, e mezzo miliardo di miglia di viaggio nello spazio… il tutto per fare il bidello. Confermava la sua radicata convinzione che esisteva davvero una cosa chiamata progresso.

Per Io meno, la crisi attuale sembrava averlo tolto dalla lista dei paria. Ogni membro dell'equipaggio era necessario per combattere le infestazioni delle halleyforme, e pochi erano coloro che ogni tanto brontolavano e arricciavano il naso in sua presenza.

Finito, finalmente.

Saul chiuse la spugna dentro il secchio, e si tolse i guanti. Guardò le file dei loculi dei loculi simili a bare, annebbiati a causa del freddo e della condensazione interna, ognuno che, dentro, mostrava una forma vaga, ibernata. Per due giorni era rimasto là sotto, nella camera refrigerata, cercando di tenere le infestazioni lontane dai loculi.

Al di là delle file dei dormienti, un banco da lavoro era sparpagliato di pezzi di vetro e congegni elettronici strappati da una mezza dozzina di pannelli di strumenti. Un'alta forma era china sopra quel guazzabuglio.

— Hai quasi finito con quelle lampade, Joao? — lo chiamò Saul. — Le ho promesse a Carl al più presto.

Il brasiliano dal volto olivastro scosse la testa e borbottò amareggiato. — Ho disimballato e smontato soltanto quattro lampade da quando me l'hai chiesto l'ultima volta, Saul. Dammi tempo!

Era ovvio che a Quiverian non piaceva venir trascinato a forza a fare «lavori manuali» lì fuori, nel colombario Uno, dove il freddo era intenso e c'era pericolo. Saul era stato costretto a scendere personalmente alla Centrale e a trascinar via quell'uomo da una lunga, disordinata, conversazione a lunghi intervalli di tempo con un collega planetologo sulla Terra. Fino a quel momento Joao si era comportato come se quell'ordine di mobilitazione totale non avesse niente a che fare con lui.

Il primo lavoro era stato di esaminare ogni centimetro quadrato delle cavità dei loculi, catalogando le infestazioni. Poi erano giunte le lunghe, laboriose ore passate a raschiare, pulire e disinfettare. Le prese per la circolazione dell'aria erano rimaste ingorgate da quei lichenoidi simili a filamenti, finendo quasi per soffocare un'intera fila di loculi. Salvo per un breve periodo di sonno, i due uomini si erano dedicati a quel lavoro senza mai fermarsi per quasi quaranta ore.

Grazie al cielo misericordioso i mech di Virginia hanno riferito che ci sono pochi problemi negli altri due colombari! Finalmente, quando Quiverian era parso sul punto di volersi ribellare, Saul l'aveva messo a lavorare all'assemblaggio delle lampade a idrogeno, sollevandolo dall'incombenza di star curvo a pulire.

— Se hai tanta, maledetta fretta — si lamentò Quiverian, — perché non svegli quell'ossopigro laggiù? Mettilo a fare qualcosa di più utile che starsene lì a russare e a riscaldare tutta la caverna con la sua coperta elettrica!

Saul lanciò un'occhiata alla forma supina del tecnico spaziale Garner, disteso in un angolo buio del pavimento di foglio-fibra. Garner era rimasto in servizio per quattro giorni filati. L'uomo si stava semplicemente facendo una dormita di qualche ora prima di unirsi di nuovo alla battaglia. Al confronto, il lavoro di Joao era stato una vacanza.

— Lascialo stare, Joao. Prenderò le prime quattro lampade e le proverò. Tu, continua a lavorare sulle altre.

Fece una pausa e aggiunse: — Soltanto, per favore, Joao: stai attento, vuoi? Cerca di non rompere qualcun'altra di quelle lampade. È lunga la strada per arrivare al magazzino delle scorte.

Quiverian scrollò le spalle. — Prima dici di fare in fretta, poi di fare attenzione. Deciditi.

Saul si rese conto che quell'uomo l'avrebbe fatto uscire dai gangheri, se si fosse fermato ancora là. — Cerca di fare meglio che puoi. — Prese su un gruppo di quei fari lunghi e sottili; il cui scopo era quello di lampeggiare per fornire punti di riferimento per la navigazione agli astronauti che lavoravano sulla Luna o gli asteroidi. Era convinto che qui sarebbero stati utili per un'altra funzione.

Vedremo se servono a qualcosa contro una forma di vita che vive nello spazio.

Con una lenta planata si avviò verso l'ingresso della Galleria J, un'uscita color ambra dalla grande camera che conteneva il colombario Uno. In quel momento pareva che il posto fosse ammantato da un'atmosfera soprannaturale a causa delle luci tenute abbassate. Quei recessi nel soffitto a volta parevano più profondi e misteriosi, come le crociere in un'antica tomba. Il fibratessuto smussava gli spigoli, ma quella vasta caverna era ancora un buco irregolare sotto il ghiaccio. Non ci si soffermava a pensare a tutte le tonnellate sospese sopra la propria testa, in quel chilometro o anche più che ci voleva per arrivare in superficie.

Al centro del pavimento della cavità, proiettando ombre alla luce dei pochi pannelli luminescenti attivi, l'estremità prodiera della chiatta-colombario Whipple giaceva al centro di cinque corsie di contenitori a forma di feretro: i luoghi di riposo individuali di più di cento fra uomini e donne ibernati.

Se dovessimo perdere questa battaglia, qualcuno di questa gente vedrà mai di nuovo la luce? Respireranno, e rideranno, e ameranno? si chiese Saul. La nostra disperazione penetra almeno in parte fino a loro, disturbando i loro lenti sogni?

Là dentro faceva buio come in un sepolcro. E cominciava anche a fare maledettamente freddo.

Le luci erano state abbassate per risparmiare energia. La pila a fusione era stata attenuata due settimane prima, quando tutti, tranne quattordici umani, erano stati refrigerati, e tutti si erano aspettati un lungo, tranquillo e noioso turno di guardia. Adesso non c'era nessuna manodopera disponibile per supervisionare un reattore alimentato al massimo. Tutte le persone disponibili erano indispensabili nei corridoi, nei passaggi di servizio o in infermeria.

Comunque, la luce era una delle cose che attiravano i lichenoidi, e le creature purpuree. La luce, il calore, l'aria e il cibo…

Immagino non sia un puro caso, se ci piacciono le stesse cose. La differenza più grossa sta nel fatto che le halleyforme vivono brevemente in primavera, ogni settantacinque anni o giù di lì, quando le onde di calore migrano verso il basso dalla superficie riscaldata dal sole. Sono strutturate per agire, e agire in fretta, per approfittare dell'improvvisa buona stagione.

Saul era ancora non poco confuso dall'abbondanza di tipi, dalla complessità delle forme che si nutrivano di quella vegetazione verde simile ad alghe. Anche semplicemente esistendo, avevano violato i princìpi della moderna biologia.

Ma, dopo un po', riacquistò sufficiente spirito pratico per smetterla di borbottare fra sé: «impossibile».

Più tardi, avrebbe anche potuto tentare di scoprire una risposta. Per il momento, doveva scoprire qualche sistema per fermarle.

Cominciava ad abituarsi a manovrare in bassa gravità. Comunque, i suoi piedi interferirono l'uno con l'altro quando atterrò vicino al boccaporto della Galleria J.

Per fortuna, c'erano soltanto pochi ingressi al colombario Uno. La Galleria J era quello critico. Soltanto a poche centinaia di metri in quella direzione, e ad un livello più alto, Carl Osborn e la sua affaticata squadra stavano stancamente raschiando via la variante verde delle halleyforme che gli spaziali avevano preso l'abitudine di chiamare «poltiglia»… cercando di liberare un passaggio critico dall'accumulo di cibo brucato da quegli orripilanti vermi purpurei.

Fino a quel momento abbondanti dosi di antisettici ed erbicidi sintetici parevano essere riusciti a compiere il miracolo… per ora almeno. Ma non possiamo affidarci a questo per sempre.

Con cautela mise giù tre delle lampade e piazzò la quarta in posizione subito dopo il boccaporto aperto, dentro la galleria vera e propria. Dovette cercare la giusta presa di corrente, e finalmente la trovò, parzialmente nascosta sotto una sottile ragnatela di fili multicolori. Questi dovette spingerli da parte con lo stivale, prima di riuscire a collegare l'unità e a regolare il timer.

— Allò, prova. — Batté il dito sul piccolo microfono del casco che si allungava da sotto il suo berretto di lana.

— Lintz convoglia-parola a casco di spaziale Osborn, per favore collega per conversazione. — Sapeva che c'erano metodi più economici per chiedere al computer principale di collegarlo a Carl, aveva visto gli spaziali cinguettare istruzioni di convogliamento in minor tempo di quanto ne impiegava lui nell'esibirsi in un singhiozzo, ma aveva dimenticato il corretto protocollo. Per lo meno era sicuro che in quel modo le macchine avrebbero capito.

Un breve schiocco, poi il sibilo di un'onda portante.

— Lintz, Osborn. Cosa c'è, Saul?

La risposta al suo orecchio sinistro suonò tacitiana. Ma gli spaziali erano così. Una risposta così asciutta non significava niente di particolare.

— Carl, Joao Quiverian ed io abbiamo terminato di controllare il colombario Uno. Abbiamo distrutto ventitré infestazioni. Non possiamo essere certi di non averne saltata qualcuna di più piccola, ma i colombari non sembrano correre più nessun pericolo immediato.

Saul represse la minacciosa sensazione di prurito che anticipava uno sternuto. Parlò in fretta:

— Mi sono preso un'ora di tempo e sono salito in superficie a frugare in mezzo alle tende-deposito, per controllare se non ci fosse qualcosa che potevamo usare. C'erano un paio di dozzine di lampade idro-alogene per le segnalazioni spaziali che mi hanno dato un'idea. Ho pensato che potevamo piazzarne qualcuna nei punti critici, agli incroci dei corridoi, e regolarle perché inondassero l'intera area, a intervalli, d'intensa radiazione ultravioletta. Chi lo sa? Potrebbe far rallentare un po' quelle bestie.

Vi fu una pausa prima della risposta di Carl.

— Mi pare ragionevole. Ma non vogliamo accecare o bruciare nessuno.

Saul annuì. — Ci ho pensato. Ho portato giù occhialoni e pomate solari per le squadre nei corridoi. Inoltre ho smontato il quadro di comando di un mech inutilizzato e ne ho tirato fuori alcuni segnali d'allarme per guasti del tipo cinque… sai, quelli che fanno brrr-ap! brrr-ap!

L'onda portante ricomparve all'improvviso. Pareva tosse, fino a quando non si rese conto che era Carl, il quale stava ridendo per quella sua interpretazione sonora. Sorrise.

— Comunque, un segnale d'allarme entrerà in funzione un minuto prima che ognuna delle lampade sia attivata. Entrambi rimarranno attivi per cinque minuti ogni ora.

— D'accordo. Dove hai intenzione di piazzarli?

— All'ingresso di ogni colombario, appena fuori della Centrale e lungo il Pozzo Uno. Non sono sicuro se abbiamo abbastanza energia e lampadine per fare di più, così…

Carl lo interruppe. — Bene, Saul. Ma prima voglio provarle su qualcos'altro. Mando giù Vidor e Ustinov a prendere gli occhialoni e una mezza dozzina di lampade.

— Cosa succede?

Vi fu un'altra breve pausa. Poi Carl gli confidò;

— Stiamo per scatenare un attacco contro i purpurei che hanno circondato la centrale elettrica. Forse là la tua idea potrebbe esserci di aiuto.

— Spero proprio di sì.

— Già. Comunque, dài a Garner qualche altro minuto, poi sveglialo. Digli che deve tornare su con Vidor. Abbiamo bisogno di tutti per questa operazione. Osborn chiude.

L'onda portante si spense con un clic. Saul restò immobile per un momento, poi scosse la testa.

La centrale elettrica. Non ne sapevo niente.

Non c'era da stupirsi che Virginia fosse stata così concisa l'ultima volta che aveva chiamato. Si era sentito come un adolescente sciocco, nel chiedersi se lei lo amava sempre, perché gli aveva schioccato un bacio affrettato e l'aveva sollecitato a lasciar libera la linea.

Probabilmente in quel momento ne aveva fin sopra i capelli di preparare i mech perché potessero dare una mano a Carl. Se anche uno solo della dozzina di condotti che conducevano dentro o fuori dalla pila fosse stato intasato dalla materia organica, avrebbe potuto attivare una chiusura automatica. Questo, a sua volta, poteva significare la fine di loro tutti.

Avrebbe dovuto fare una piccola prova con le lampade pri ma di spedirne una serie a Carl. Non aveva senso appesantire quell'uomo con un ingombro di apparecchiature inutili, se quelle lampade non avessero potuto far niente di più che dare un'abbronzata alle halleyforme. Saul s'infilò un paio di occhialoni e si chinò ad attivare il timer.

L'improvviso brrr-ap! del minuscolo segnale di allarme lo fece trasalire, malgrado fosse preparato. Poi arrivò un debole pop quando la lampada riempì di colpo la galleria color ambra d'una vivida luce attinica. Perfino sotto gli occhialoni, Saul sbatté gli occhi e dovette girare la testa.

Quando tornò a guardare, si rese conto che stava accadendo qualcosa di strano. Tutt'a un tratto ogni superficie pareva rivestita di un alone luminoso. Le stesse pareti parvero incresparsi e strisciare, come la peluria sul dorso di un bruco. Dapprima pensò a una illusione ottica, un effetto della bizzarra colorazione e del bagliore. Poi capì.

La vita di Halley è dappertutto! Ha impregnato il fibratessuto e adesso sta fuggendo via dalla luce della lampada.

Quelle confuse increspature arretrarono a ondate. Lì accanto Saul vide l'aria che cominciava a riempirsi d'una nebbia di polvere sottile, organismi uccisi, suppose, che si staccavano dalle pareti galleggiando nell'aria e adagiandosi con glaciale lentezza sul pavimento. Cercando di non inspirarne neanche un po', ne sospinse dei pezzetti dentro un sacchetto per campioni e sigillò il contenitore.

Poi, con la stessa repentinità con cui era esplosa in tutto il suo splendore, la lampada si spense. Quel rumoroso segnale d'allarme cessò senza una sola eco, e d'un tratto tutto fu silenzio e quiete. Saul si sfilò gli occhialoni, sbattendo gli occhi mentre aspettava che le macchie si dissolvessero.

Il fonosseo si animò crepitando:

— Lintz, Vidor. Abbiamo visto il suo bagliore giù fino al fondo del Pozzo 3, dottore. Non c'è pericolo se veniamo adesso? Carl vuole subito Garner e quelle lampade… come ieri.

— Uh, sì. — Scosse la testa. — Lintz a spaziale Vidor. Abbiamo lampade, occhialoni e caffè fresco per voi, ragazzi. Venite pure avanti, gente.

Si girò e riproiettò se stesso dentro la cavità irregolare dal soffitto a volta. Attraverso i lati ghiacciati dei colombari, i dormienti erano ancora vaghe sagome. Le luci di controllo su ogni bara facevano luccicare il centro della sala in penombra come un albero di Natale fosforescente, oppure una gigantesca stella marina in fondo all'oceano.

Novanta pacchi che aspettano di venir aperti. Un giorno. Se ci riusciremo…

Adesso la decolombarizzazione dei rimpiazzi di emergenza, rinviata già parecchie volte, stava raggiungendo in infermeria, dove Nick Malenkov era rimasto tutto solo, uno stadio critico. Uno dei tecnici medici era morto a causa del morso ricevuto da un purpureo, e l'altra, Peltier, era perita proprio il giorno prima a causa di un'infezione diffusa e fulminante. Con quel ritmo, era bene chiedersi se l'equipaggio da scongelare avrebbe trovato qualcuno vivo pronto ad accoglierli quando si fossero svegliati.

No. Ce la faremo. Dobbiamo farcela.

Passò davanti al banco di lavoro dove Joao Quiverian stava ancora borbottando fra sé, mettendo insieme le lampade con deliberata lentezza da lumaca. Saul sapeva che dopo avrebbe dovuto controllare tutte le lampade lui stesso.

Si assicurò che la caffettiera fosse piena, poi raccolse la propria tuta spaziale.

Avranno bisogno di tutto l'aiuto disponibile, anche se Malenkov mi ha dichiarato invalido. Potrò anche non essere capace di lottare a lungo e duramente come questi giovani, ma perfino un alter kocker di mezza età come me è in grado di tenere in alto una lampada e di usare uno spruzzatore in una lotta come questa. Lì avveniva una cosa strana. Malgrado fosse affaticato e perpetuamente stordito dai farmaci che tenevano liberi i suoi seni nasali, sotto certi aspetti Saul non si era mai sentito meglio. La sua digestione, per esempio: non avvertiva più quelle deboli fitte, e le articolazioni delle ginocchia non raschiavano e vibravano più quando si muoveva.

La mancanza di peso e il decondizionamento al calcio decise… O forse è dovuto al fatto che qualcuno mi ama di nuovo. Mai, mai sottovalutare gli effetti d'un morale alto.

A quel punto aveva quasi smesso di chiamare Virginia. Ma naturalmente avrebbe avuto la sua possibilità di parlarle quando avesse raggiunto gli altri alla centrale elettrica. Lei sarebbe stata là, per lo meno in surrogato, controllando fino a una dozzina di mech, facendo il lavoro di dieci uomini.

Forse avrebbe avuto la possibilità di strizzare l'occhio a uno dei suoi pickup video e di farla sorridere.

Si era appena infilato la tuta e stava allungando la mano verso la sua cotta personale decorata con un'elica del DNA, quando delle voci che giungevano dai pressi dell'ingresso gli dissero che gli spaziali stavano arrivando.

Vidor e Ustinov entrarono sfrecciando dall'apertura, formando un grazioso tandem. Stanchi o no che fossero, l'orgoglio non avrebbe mai consentito loro di camminare rasente alle pareti o di trascinarsi lungo i cavi. I due uomini piroettarono a mezz'aria e atterrarono in perfetto sincronismo in posizione rannicchiata a non più di due metri davanti a Saul.

— Dov'è Ted? — chiese concisamente Joseph Ustinov. Il barbuto russo-canadese prese rapidamente nota della direzione che Saul gli indicava, e si avviò verso l'angolo buio dove la coperta elettrica dello spaziale Garner irradiava una sfera di calore, passando davanti ai mucchi di casse.

— Allora, ha quel caffè, dottore? — chiese Vidor sorridendo, rivolto a Saul. Quel giovanotto dell'Alabama pareva aver prosperato in mezzo alle avversità della passata settimana. I molti giorni di combattimenti nei corridoi l'avevano fatto uscire dalla depressione in cui era piombato per essere stato lui a trovare il capitano Cruz accasciato sul suo giaciglio a rete, quasi morto.

— Sicuro, Jim. — Saul gli porse una boccia di caffè nero, bollente, e cominciò a riempire un thermos per Carl e gli altri. — Ci sono panini freschi là in quel sacchetto. Vi darò una mano a trasportare le lampade e gli occhialoni, e farò vedere a Carl come…

Un acuto urlo di orrore parve coagulare l'aria.

Il caffè caldo si riversò fuori in spruzzi di palline sferiche quando Saul si girò di scatto. Dalla parte opposta della cavità fiocamente illuminata, lo spaziale Ustinov stava ruzzolando a mezz'aria, salendo verso il soffitto e singhiozzando, mentre scuoteva un oggetto simile a un randello con la mano.

Qualcosa o qualcuno l'aveva colto di sorpresa, inducendolo a balzare verso il soffitto con tutte le sue forze. Qualunque cosa fosse, l'aveva quasi spaventato a morte, giacché l'uomo continuava a farfugliare, fissando con gli occhi sbarrati la cosa che stringeva in mano.

Mentre Saul e Vidor guardavano, Ustinov urlò di nuovo e gettò via la cosa. L'oggetto descrisse un arco attraverso l'aria gelida, curvando la sua traiettoria sotto l'effetto della debole gravità di Halley, e colpì una cassa da imballaggio a pochi metri dal banco di lavoro di Joao Quiverian.

Lo scienziato brasiliano balzò indietro, dapprima esterrefatto e poi colto da un'improvvisa ripugnanza quando vide cos'era rimbalzato a poca distanza da lui. Una fragile lampada s'infranse nella sua mano sinistra, riducendosi in polvere.

Là, colante un liquido ocra sulla fibratessuto del pavimento color verde-tiglio, giaceva un braccio umano smembrato. In maniera impossibile, quel macabro resto pareva contorcersi ancora.

Saul si rese conto, afferrato dalla nausea, che delle creature stavano strisciando fuori da quel pezzo di carne e ossa. Creature purpuree.

Afferrò Vidor, che strabuzzava ancora gli occhi, e reggendolo stretto per il collare lo spinse verso la pila delle apparecchiature. — Infilati gli occhialoni e prendi una lampada! — ordinò concitato allo spaziale. — Qui sono le uniche armi che abbiamo. Joao! Porta una prolunga fino a quella spina… presto!

Questa volta il brasiliano non si fermò a discutere. Vidor armeggiò con i cordoni che tenevano legate le lampade mentre Saul dirigeva uno spruzzo di caffè bollente contro un purpureo che se la stava filando dietro una fila di loculi. Un fischio sfuggì alla creatura, mentre retrocedeva all'aperto.

— Maledizione, dottore! — imprecò Vidor. — Dovrò insegnarle come si fanno i nodi!

Saul fece per rispondere, quando lanciò un'occhiata alle proprie spalle. — Oh, dannazione — gemette. — Torno subito.

— Dove va? — urlò Vidor.

Ma ormai il dado era tratto. Saul si era rannicchiato ed era balzato via nello spazio aperto.

In effetti, sarebbe stato Vidor il più qualificato in questo genere di cose. Ma in quel momento era immerso in un groviglio di lampade e cordoni. Era stato Saul a vedere Ustinov che stava ricadendo, e a rendersi conto che l'uomo stava ancora singhiozzando, inconsapevole di dove era diretto. Neppure la gravità di Halley consentiva spiegazioni o ritardi.

La tuta di Ustinov era assai più sofisticata di quella di Saul. Ma lo spaziale, in stato confusionale, non sembrava sul punto di usare i suoi getti, o qualunque altra cosa, per evitare di cadere verso i brandelli della coperta elettrica del tecnico spaziale Garner, che adesso brulicava sopra e sotto di ondeggianti forme purpuree.

Ogni cosa stava accadendo al rallentatore, così almeno pareva a Saul, il quale parlò rapidamente nel suo comunicatore:

— Linzt a Osborn e Herbert. Allarme! Purpurei nel colombario Uno! Garner è morto. Allarme!

I due uomini fluttuanti si stavano avvicinando l'uno all'altro, uno innalzandosi e l'altro scendendo ad una lentissima ma costante accelerazione. Saul deviò lo sguardo altrove, dopo un'occhiata verso il basso in direzione di ciò che attendeva lo spaziale in caduta. Era più di quanto il suo stomaco potesse sopportare.

Oh, Dio, ti prego, fai che l'abbia fatta giusta!

Ma no. Saul si rese conto che la sua traiettoria era troppo bassa! Sarebbe passato sotto Ustinov. Pareva che non ci fosse niente al mondo che potesse impedire a quell'uomo di ricadere in mezzo alla massa polposa che si allargava.

D'un tratto, si trovò alla massima vicinanza possibile. — Ustinov, svegliati! — urlò. — Allungati!

Forse Ustinov aveva capito, o forse fu soltanto uno spasmo. Ma uno stivale scattò in avanti e colpì la mano protesa di Saul, un urto doloroso. Saul annaspò per afferrarsi a qualcosa, e quel cambio di velocità lo fece roteare su se stesso. La caverna turbinò intorno a lui, mentre per due, tre secondi si reggeva a Ustinov, per essere infine scalciato via dal successivo sussulto dell'uomo.

Basterà? Ho deviato la sua traiettoria? O forse sono io adesso che sto andando incontro a quel groviglio di purpurei?

Il pavimento veniva verso di lui. Ancora, tutto pareva avvenire al rallentatore; ma lui avrebbe dovuto toccar terra con un'energia pari a quella del suo decollo, ed era decollato in fretta. La sua spalla destra urtò con forza, facendogli mancare il fiato, con una fitta di dolore.

Si rotolò sulle mani e sulle ginocchia. Gli ci volle un attimo per allontanare quella sensazione di vertigine sbattendo le palpebre, e un altro attimo per recuperare il fiato. Poi vide Ustinov, il quale giaceva a soli due metri di distanza, gemendo, scrollando la testa, e a quanto pareva inconscio delle piccole creature striscianti che avanzavano controrcendosi verso il suo calore, ed erano ormai giunte a pochissima distanza.

Saul annaspò per respirare e impiegò ogni energia di cui disponeva per raggiungere Ustinov, aiutandosi con le braccia e le gambe per arrivare là per primo, di corsa. Si tuffò, afferrò le pieghe della tuta isolante di Ustinov, e lottò per ottenere una presa sufficiente a trascinarla indietro.

— Rimanga immobile, dottor Lintz! — Era Vidor che lo stava chiamando. — Ce ne sono altri due alle sue spalle! La coperta elettrica deve aver fatto corto circuito. Quelli che non stanno mangiando Garner si stanno sparpagliando a ventaglio sul pavimento, adesso!

Saul non aveva mai provato niente di simile nei confronti di una creatura vivente, neppure contro i fanatici della folla che aveva raso al suolo il Technion. Ma in questo momento, comunque, bramava con tutto il suo essere poter uccidere. Fissò quelle orribili creature che si stavano rinserrando su di lui da ogni lato, e seppe cos'era l'odio.

Raccolse tra le braccia il tremante Ustinov. Cosa c'è che non va in quest'uomo? Pensavo che gli spaziali fossero fatti tutti di una stoffa più forte di questa.

Mio Dio, scommetto che è stato morso!

Ustinov non era pesante, naturalmente, non nella gravità di Halley. Ma la sua massa era quasi la stessa che era stata sulla Terra, e ciò rendeva ingombranti l'inerzia e il volume del russocanadese. Ancora stordito e disorientato, Saul sapeva che non era preparato a balzar fuori da lì, sorreggendo quel fardello poco maneggevole.

Una cosa o l'altra, però. Saltare o lanciare. Si rannicchiò.

— Te lo lancio! Tienti pronto!

— No! Aspetti! Ho quasi preparato una lampada…

— Non c'è tempo! — insistette Saul. Scattò come una molla, impiegando tutte le sue forze per scagliar via Ustinov. Quel corpo massiccio quasi esanime volò fuori dalle sue braccia, sorvolando il groviglio delle creature che si contorcevano e avevano fatto irruzione attraverso il pavimento di fibratessuto cercando calore.

Fu un buon lancio, ma il rinculo lo spinse indietro. Saul allungò il collo per guardare. E fu ovvio che avrebbe finito per atterrare fra due di quei polposi e famelici eterotrofi.

Stranamente, una parte di lui era più curiosa che preoccupata. Era una delle sue prime possibilità di guardare da vicino una delle halleyforme superiori senza che fosse già stata messa in salamoia per la dissezione. Quella più vicina mostrò di essersi accorta di lui agitando una bocca polposa bordata di rossi aghi luccicanti di ferronickel primordiale. La creatura non aveva nessun vero muso, ma Saul poteva percepire il suo sguardo puntato su di lui.

Probabilmente riesce a rintracciarmi grazie all'infrarosso pensò.

Erano davvero strane creature. Anche se, forse, non erano più strane di quei vermi che vivevano in profondità, negli sfiatatoi sottomarini, sulla Terra. Anch'essi vivevano nel buio totale, sotto immani pressioni idrostatiche, cibandosi dei batteri che trasformavano i solfati. Signore, la tua opera non smette mai di stupirmi.

Meravigliosa, sì. E misteriosa. Ma il brutto era brutto, e la morte la morte.

Frugò all'altezza della propria cintura, cercando qualcosa da scagliare, per cambiare la propria traiettoria, ma i cappi della cintura erano vuoti. Tutto quello che riuscì a fare, fu ruotare goffamente su se stesso, sempre continuando ad andare alla deriva verso quelle creature.

Senza alcun dubbio avrebbe potuto schiacciarne un buon numero a mani nude, ma non aveva nessun desiderio d'ingaggiare un corpo a corpo con esse se poteva evitarlo, non dopo l'agonia sofferta da Samuelson e Conti a causa delle loro ferite avvelenate.

Saul si torse su se stesso, come un gatto, riuscendo in qualche modo a portare i piedi in avanti. Lo stivale sinistro toccò, e quello destro scalciò obliquamente per compensare il movimento, colpendo un ondulante orifizio rivestito di denti raschianti. Vi fu un nauseante urto spiaccicato mentre slittava e ricominciava a rovesciarsi.

— Salta, Saul!

Era la sua unica possibilità. Ma mentre piegava le ginocchia, il dolore gli trafisse la caviglia sinistra e quella gamba cedette. Si girò di scatto per evitare di cadere dentro il brulichio dei vermi dalle mascelle spalancate, e nel farlo incespicò.

L'illusione del movimento lento lo aiutò quando atterrò sulla punta delle dita e in qualche modo camminò lungo il pavimento sulle mani, saltellando da un braccio all'altro per evitare quei maledetti affari. Non c'era nessun'altra maniera. Se si fosse fermato per girarsi o raccogliere le forze, l'avrebbero raggiunto.

Finalmente, parve che ci fosse uno spazio sgombro davanti a lui, dove avrebbe potuto flettere gli arti e spingerti davvero lontano dal suolo…

— Saul! — gridò qualcuno. — Chiudi gli occhi!

Udì un forte rumore raschiante.

Oh, magnifico! Proprio adesso che avevo bisogno di vedere dove stavo andando.

Proprio all'ultimo istante i suoi occhi si chiusero. L'ultima cosa che vide fu una massa sporca, a segmenti, di polposo tessuto color malva, che si voltava verso il suo calore, sfoderando un cerchio scintillante di aguzze pietre primordiali.

Poi il mondo scomparve nel fulgore. Saul urlò e le sue braccia si agitarono convulse mentre si spingeva lontano dal pavimento, andando alla deriva in direzione di chissà che cosa… Si coprì gli occhi con le braccia e si arrotolò a palla, sperando che la sua tuta spaziale lo proteggesse la prossima volta che fosse atterrato in mezzo a quelle creature fameliche.

Come contrappunto, quel lamento stridente s'innalzò ancora più forte quando un'altra lampada si unì alla prima da una diversa angolazione. Avvertì quel nuovo fulgore sotto forma di calore sulla sua pelle. Saul non riuscì ad aprire gli occhi neppure per quel tanto che bastava a cercar riparo dai raggi, progettati per essere visibili attraverso migliaia di chilometri di spazio aperto, contro le stelle vivide come diamanti.

Colpì di nuovo il suolo andando a fermarsi contro qualcosa di duro. Saul cercò di rimanere immobile; di non fare la minima mossa, e immaginò di essere un ghiacciolo.

— Saul? Qui è Virginia. Puoi essere più specifico? Cosa è successo? Tutt'a un tratto quei pick-up remoti nel colombario Uno hanno cessato di trasmettere.

Un'altra voce interloquì: — Lintz, Osborn, stiamo arrivando. In quattro, con spruzzatori e torce. Tempo di arrivo previsto, duecento secondi.

Allora Saul si rese conto che non dovevano essere passati più di un paio di minuti dall'istante in cui aveva riferito di quell'irruzione dei purpurei. Il tempo si era allungato a telescopio. La cavalleria stava arrivando, ma lui sarebbe riuscito a resistere abbastanza a lungo perché quell'aiuto servisse a qualcosa?

Più in là, su un lato, sentì lo spaziale Vidor che borbottava imprecazioni di sorpresa, per poi urlare nel suo microfono:

— Carl, Jim, l'ultravioletto intenso li fa scappare! Si dissolvono, se non riescono a uscire dalla radiazione abbastanza in fretta!

Saul giaceva arrotolato a palla, ma il suo respiro si era fatto meno affannoso. Se soltanto…

Vi fu un sonoro pop e il livello di quel doloroso fulgore che penetrava le sue palpebre serrate si dimezzò d'un tratto. Risuonò un'imprecazione, poi Vidor tornò a parlare:

— Una delle lampadine è appena scoppiata, ma credo non abbia più nessuna importanza. Sono tutti morti o scappati. Resisti, Saul. Ti porto un paio di occhialoni.

Un attimo dopo, Saul sentì una mano sulla sua spalla, e un'ombra oscurò quel fulgore solare che ancora rimaneva. Grato, con gli occhi ancora chiusi, sollevò la testa e aiutò Vidor a sistemare la protezione sulla parte alta del suo viso.

— Congratulazioni, Saul. Un'arma dannatamente buona.

Saul sbatté gli occhi attraverso le lacrime e lo sfarfallio delle macchie luminose, e vide il giovane spaziale che gli offriva la mano. Alzò la sua, e accettò l'aiuto per alzarsi in piedi.

— Uh, grazie. — Ma stava riflettendo su quante poche lampadine fossero rimaste. Tre erano già andate. Dovremo escogitare degli espedienti migliori di questo. Tanto per cominciare, non possiamo lavorare tutto il tempo con gli occhialoni…

I due uomini cominciarono ad avanzare con brevi saltelli, passando sopra i gusci purpurei raggrinziti fino a un buco carbonizzato nel rivestimento giallo del pavimento, dentro il quale erano rotolati i resti dello spaziale Garner, insieme alla coperta elettrica infelicemente scelta. Il tutto era finito dentro una stretta fenditura: era una faglia nella caverna alla quale nessuno aveva dato importanza quando la cavità era stata scelta e rivestita.

— Non scavano attraverso il ghiaccio compatto! — sospirò Vidor. — Avevamo pensato che potessero farlo… che potessero colpire da qualsiasi punto. Che sollievo…

Saul era stato capace soltanto di fissare, sgomento, quel guazzabuglio di resti umani sparpagliati giù dentro quella ripida fenditura nel ghiaccio. Il giovane Vidor… sì, era fatto di una stoffa più dura.

— Si muovono lungo le vene a bassa densità, allora?

Vidor annuì. — Dovremo cercarne altre e sbarrarle, fondendole. So come fare.

Virginia mi ha fatto vedere le fotografie di alcune delle sue sculture ricordò Saul. Jim Vidor era un mago con il ghiaccio. Se c'era qualcuno che avrebbe saputo come fare a sigillare le cavità, quello era lui.

Arrivò un suono di voci dall'ingresso della Galleria J. Lo spaziale si voltò: — Sarà meglio che vada a prendere qualche occhialone per i ragazzi, o a spegnere quelle lampade.

Saul lo seguì. Comunque, non potevano far niente di più per il povero Garner. — Non dimenticarti la pomata — gli gridò. — Già così tu ed io ci prenderemo delle feroci scottature.

Malgrado il dolore alla caviglia e il tremito dovuto all'improvviso afflusso di adrenalina che adesso si stava dissolvendo, Saul si sentiva bene. Una porzione atavica del suo io pareva eccitata all'idea di aver superato gli ultimi minuti e di essere sopravvissuta. L'azione aveva i suoi vantaggi. C'erano alcune cose che non si potevano tenere in un laboratorio.

Con gli occhialoni infilati Joao Quiverian pareva una grande creatura notturna. — Farai meglio a dare un'occhiata a Ustinov — disse a Saul. — È in condizioni molto brutte.

Saul annuì. — Devo andare a prendere la mia borsa.

— Se ha dentro le stesse tossine che hanno fatto fuori Conti…

— Ci sono cose che posso tentare. Ma devo agire in fretta. Aiutami, Joao.

Anche se non potrò salvarlo, forse questa volta riusciremo a rallentare la reazione chimica quel tanto che basta per colombarizzarlo. Forse un giorno avremo un antidoto.

L'unica lampada rimasta continuava ad ardere, accompagnata dall'incessante stridore del segnale d'allarme.

Sotto quel bagliore, Saul raccolse la sua borsa nera e riprese, dopo tanti anni, la sua pratica di medico.

VIRGINIA

Fece scorrere le righe scritte il giorno prima e cercò di vederle spassionatamente. Questo era il suo intervallo di riposo e scrivere poesie le pareva il modo migliore per trascorrerlo, una fuga mentale più veloce dell'incessante, opprimente lavoro con i mech, piuttosto che starsene nel salone a sorbire caffè. Soprattutto perché con tutta probabilità là non ci sarebbe stato nessun altro; era certa che tutti quelli che non lavoravano stavano galleggiando immersi in un sonno esausto.

L'equipaggio, a norma di regolamento, avrebbe dovuto trascorrere la maggior parte del proprio tempo a letto nella ruota, dove la pseudogravità centrifuga poteva imitare in qualche modo i sottili flussi che evitavano gli squilibri della gravità zero. Ma i sopravvissuti avevano trovato dei cubicoli isolati liberi dalla poltiglia verde e avevano cercato di dormire meglio che potevano sul posto.

Adesso, la situazione della battaglia era meno dominata dal panico, ma sempre critica. Erano riusciti a ricacciare le infestazioni dai colombari e dalle centrali elettriche. Fondendo il ghiaccio dietro i punti più critici, avevano negato a quelle creature una facile via di accesso.

Lei avrebbe dovuto riposare, dormire… ma il sonno non voleva venire.

All'inferno l'esterno, la tetra realtà. Si tuffò nella sua poesia.

Capezzoli e ombelichi
il tuo pube spinge
e crea una faccia.
Confido
e confido e spingo
e ancora spingo.
Prendi tutta la mia pingue coscia,
ben ti accoglie, amico.

— Uhm — rifletté fra sé. — Artistico no. Terapia, forse.

CERTO RIVELA IL TENORE GENERALE DEI TUOI PENSIERI.

Delle lettere azzurro-verdi galleggiarono nell'olo sopra di lei.

— JonVon, questo è privato! Avrei dovuto scollegarmi.

MI SPIACE. NON SO COME DIRLO.

— Il tuo buonsenso dovrebbe… giusto, non è una caratteristica sopra la quale ho lavorato, vero?

ALCUNE DELLE MIE PERSONALITÀ SIMULATE CONOSCONO DELLE REGOLE, MA NON HO UNA COMPRENSIONE BASILARE DEL «BUONSENSO», FORSE NON SERVE AL LAVORO DI TUTTI I GIORNI?

— No, solo che non c'è stato il tempo… lascia perdere.

LE FACCENDE SESSUALI RICHIEDONO BUONSENSO?

— Sì, quando hai a che fare con gli esseri umani. In effetti sarebbe meglio che tu rimanessi zitto. Nessuno pensa che le macchine abbiano qualcosa da dire sul sesso.

CI SONO PROGRAMMI DI PSICANALISI CHE POSSO RICHIAMARE, SISTEMI ESPERTI CHE SI SONO DISTINTI NELLA DIAGNOSI…

— No, JonVon! Lasciami andare avanti con la mia poesia.

POSSO OSSERVARE?

— Non posso certo impedirti di leggere i miei versi da due soldi, non è vero? È nei Manoscritti Generali.

POSSO NASCONDERE I RISULTATI NEI MIEI PROPRI BANCHI.

— Buona idea, davvero. Non voglio che nessuno incappi neanche per caso in questo.

Fissò lo schermo. L'intrusione di JonVon l'aveva imbarazzata. Mai prima di allora era stata così apertamente sessuale nei suoi scritti, e sentiva che la sua passione era una cosa intensamente privata, per Saul soltanto. Alle Hawaii gli uomini l'avevano giudicata un po' pudibonda.

Così, sei sempre stata un po' timidina in proposito, e allora? Devi superare questo blocco!

Fissò accigliata la poesia. Una tradizione vecchia di secoli imponeva che le poesie d'amore dovessero essere scritte con inchiostro scorrevole su spessa e lussuosa carta cremosa… non certo con lettere che brillavano nel vuoto. Oh, all'inferno la tradizione. Vediamo… non è che le mie cosce siano pingui, a esser sinceri… vale la pena salvare questa espressione per il ritmo?… Salta oltre e prova qualcos'altro…

Corpi rossi e allampanati
il tuo volto tutto d'ansia inciso
sopra di me: febbricitante, sì! amplifica la vita
follia protratta
due danzano schiena a schiena…
Presto!
tagliami il seno con la tua
barba di ferro
vai al punto.
Non ho mai temuto.
Mi sottometterò
niente disonore
prenderlo da te faccia a faccia
sudato, antiigienico
liscia, umida spinta
in quarantena
se devi
io sono di quella razza
che sguazza inghiotte
nella polvere
pistone di motore amore a valanga
oh professore
possessore.

Insegnami a vivere al presente
senza il passato remoto.
Le orbite non sono le sole cose
per realizzate un appuntamento tangenziale
con coraggioso disegno.
Rantolando e sapendo che è mio!
pelle coriacea accoglie il fatto
il mio ghiaccio si scioglie
ciascuna livida goccia
Non fermarti!
regno appiccicoso di fuoco e di miele
tritami, sorridimi, trovami, peccami

Si fermò. Il cuore le batteva con violenza.

STRUTTURA SINTATTICA…

— Chiudi il becco!

Virginia si slegò dalla branda, buttò da parte il collegamento accoppiato e si lanciò verso la porta.

DEVO IMMAGAZZINARE L'ORDINE?

— Buttalo… per quello che me ne frega!

Si mosse in fretta lungo i corridoi, le lunghe planate fra una scalciata e l'altra parevano durare per sempre. Ci sarebbero voluti soltanto pochi minuti per raggiungere il laboratorio di Saul, un tragitto impossibilmente breve, considerato quanto era parso irraggiungibile, quanto aveva sentito la sua mancanza.

Subito prima di curvare dentro il Pozzo Uno, che l'avrebbe condotta da lui, s'imbatté in Carl Osborn e Jim Vidor, i quali procedevano lungo il corridoio senza i caschi in testa. Entrambe le loro tute erano graffiate e macchiate di chiazze di sostanze chimiche. Il volto di Vidor era gonfio, trascurato, e i suoi occhi parevano vagare molto lontano. Stavano rimorchiando un corpo avvolto in un sudario…

— Chi…

— Quiverian — l'informò Carl. — Si è sentito male. E dobbiamo far presto, altrimenti morirà.

— Hi ho, hi ho — fece Vidor, in un penoso tentativo di umorismo. — Ai colombari andiam…

Virginia si aggrappò al passamano. — Dovremo… dovremo scongelare qualcuno.

— Giusto — annuì Carl, preoccupato. — Ne abbiamo quasi scongelati sei. Vuoi decidere chi sarà il prossimo?

— No, io… — Sapeva che avrebbe dovuto aiutarli, ma… — Vado a trovare Saul.

— È ancora off limits, salvo per le emergenze più gravi — l'avvertì Carl, rigido. Abbandonò il suo ritmo a lente scalciate e lasciò che il corpo esanime si fermasse. Vidor, che appariva sempre più stanco, compensò con una certa goffaggine il movimento sul suo lato.

— Ma voi ragazzi lo vedete spesso… Lavora al fianco di voi tutti!

— Sicuro, ma noi non siamo intimi con lui. Tu ed io lo sappiamo tutti e due quello che farete…

— Bada ai tuoi maledetti affari, Carl! — Sentì che stava diventando rossa in viso.

Carl si voltò… Era fin troppo ovvio che cercava di controllarsi. — Malenkov ha ribadito che Saul deve rimanere almeno in semiquarantena…

— Non credo che questo abbia più nessun significato, adesso che Malenkov sta morendo. È lui il nostro medico, adesso.

— Credo che sia una cattiva idea rischiare…

— Carl, sono pronta a correre i miei rischi.

— Allora stai lontana dal resto di noi — s'intromise Vidor, in tono severo. — Lintz è un tipo a posto, ma ugualmente non lascio che mi venga troppo vicino. Se lo tocchi, lo stesso vale per te.

Virginia lo fissò stupefatta. Vidor le era sempre piaciuto, ma adesso il volto dell'uomo era una maschera rigida, ostile e circospetta. Tirò il cavo del traino del comatoso Quiverian, e ricominciò a muoverlo. Ma la sua solita destrezza e la sicurezza non c'erano più e pareva che avesse problemi a concentrare le forze cosicché agissero in un'unica direzione. Pareva impacciato come una marmotta.

— Non preoccuparti, lo farò — esclamò Virginia, con rabbia. — Forse porrò me stessa in quarantena!

Si allontanò con una scalciata, senza preoccuparsi di guardarsi indietro. Diavolo, Vidor sembra peggio di Carl. Poi lasciò perdere quell'irritazione meglio che poteva.

Quando entrò nel laboratorio, Saul sollevò lo sguardo, sorpreso. Nel chiarore smaltato del laboratorio, il suo volto scarno e grigio s'illuminò di gioia. Virginia seppe di aver preso la giusta decisione.

— Non dovresti rischiare… — lui cominciò, senza troppa decisione.

Lei gli piombò addosso.

Al diavolo la poesia! pensò Virginia. Prenderò quello vero.

CARL

Jim Vidor non era di molto aiuto.

Tossiva, coprendosi la bocca con le mani, appoggiato contro la parete della sala di preparazione per l'animazione sospesa. Vidor era pallido, con la stessa screziata pastosità e la strana, rigida lucentezza che avevano afferrato Quiverian meno di due giorni prima.

Carl terminò di sistemare la rete di cavi alimentatori intorno al corpo di Quiverian e applicò le terminazioni adesive dei sensori. Ogni cosa pareva a posto, ma esaminò ancora una volta l'intera sequenza chimica e la disposizione dei circuiti. Non si era mai troppo prudenti. Un collegamento sbagliato e vi morivano fra le mani. Il computer impiegato nel monitoraggio avrebbe dovuto accorgersi degli errori, ma nel momento stesso in cui si cominciava ad affidarsi ai sistemi di rincalzo, bene, per quanto lo riguardava quello era l'inizio della fine.

A mano a mano che la crisi proseguiva, Carl si scopriva sempre più meticoloso. Era la sua maniera di controbilanciare la fatica.

— Il pH del sangue è stabilizzato. Il Q-10 metabolico è avviato. Tanto vale archiviarlo — disse Carl.

Vidor annuì, con gli occhi che gli lacrimavano, e mosse i piedi in avanti per aiutarlo. Insieme manovrarono il corpo per infilarlo nella cella del colombario, la chiusero e collegarono le pompe esterne. I banchi pieni di contenitori nella sala di preparazione formavano una sfera intorno a loro, cosicché lavoravano sotto una cupola glaciale. Nubi cotonose andavano pigramente alla deriva nelle correnti d'aria sopra la loro testa. Quelle celle del colombario erano state sfilate della Sekanina e avevano delle pompe di collegamento difformi. Per qualche ragione c'è sempre qualcosa che non viene completamente standardizzato durante una missione pensò Carl di cattivo umore. E tu poi devi passare gli anni a smanettare e a riadattare.

— Niente cerimonie, stavolta? — chiese Carl.

— Non me la sento — fu d'accordo Vidor.

Erano tutti troppo stanchi e logorati per rispettare le regole. — Vai, adesso, e riposati un po' — disse Carl, in tono cortese. Non che fosse davvero convinto che sarebbe servito a molto.

Immise Quiverian nei programmi di monitoraggio totale, mentre Vidor se ne andava, muovendosi come se le sue articolazioni fossero doloranti. Proprio come Quiverian pensò Carl. Ma nessuno di loro ha quell'esantema marrone che copriva completamente Samuelson. Sintomi diversi… o malattie diverse?

Non che ormai avesse più molta importanza. Con quel ritmo se ne sarebbero andati tutti nel giro di una settimana.

Il che significava che avrebbe dovuto cominciare subito qualche altra decolombarizzazione. Adesso.

Erano giunti a un punto cruciale. I sei che si stavano scongelando in infermeria non sarebbero stati sufficienti a gestire il nucleo di Halley, non mentre loro si riprendevano. Se la malattia avesse colpito Virginia, Saul, lui stesso, Lani… la spedizione sarebbe fallita. Incustoditi, i colombari avrebbero cominciato a malfunzionare uno dopo l'altro. Halley sarebbe diventata un cimitero di corpi congelati in orbita perpetua.

Digitò il proprio codice di controllo prioritario e si mise al lavoro. Alcuni semplici sistemi dovevano venir riscaldati, c'erano calcoli da fare, inventari di tarmaci da stilare. Carl aveva una certa esperienza delle procedure, acquisita durante la missione Encke. Lavorava meglio che poteva, facendo riferimento ai manuali tutte le volte che avevano dei dubbi. Saul Lintz poteva consigliarlo, se era assolutamente necessario: anche con le sue capacità arrugginite, Saul era pur sempre il dottore. Ma…

Ma cosa? Sì, lo so… non voglio chiamarlo. Non m'importa se non vedrò mai più quel bastardo. E so anche che si tratta soltanto di una infantile gelosia. Ma questo non mi facilita affatto le cose. Semmai il contrario, forse.

E comunque, era una buona idea che lui facesse un po' di pratica. Era probabile che fra qualche giorno avrebbe colombarizzato Saul. Mi auguro che Virginia non si prenda… qualunque cosa abbia lui.

Lavorava lentamente, con i pensieri impantanati nella melma. Doveva scrollarsi di dosso quell'umor nero, lo sapeva, altrimenti avrebbe commesso qualche stupido errore. La musica? Era press'a poco tutto quello che gli rimaneva, in quei giorni. Aveva ascoltato Mozart e Liszt e Haydn per sedici ore al giorno, l'unico modo per distanziare se stesso da quell'interminabile lavoro di pulizia spezzaschiena. E tutto il tempo a guardarsi le spalle, per vedere se un dannato purpureo non fosse penetrato attraverso l'isolante lì vicino, in attesa che lui lo sfiorasse, pronto a perforargli la tuta, bruciandola, iniettando dentro di lui il suo micidiale veleno…

— Carl!

Si girò di scatto, sorpreso da quella voce femminile. Virginia! Non era andata da lui malgrado tutto.

La vista di Lani che entrava nella sala di preparazione frantumò la sua improvvisa speranza.

— Ho sentito di Quiverian, ho pensato di scendere e… oh, l'hai già colombarizzato?

Carl annuì.

— Niente cerimonia?

— Non ero dell'umore. Jim non si sente molto bene, e una cerimonia da solo…

Lani lo studiò con espressione comprensiva. — Capisco.

— Forse possiamo incontrarci tutti, stasera, e stappare qualche birra… — Lasciò che la frase sgocciolasse via contrita, ricordando che loro due avevano quasi cominciato un idillio, qualche arco di vita prima. Era un po' di tempo che non ci aveva più pensato. Ogni giorno modificava in meglio la sua opinione di Lani, ma il suo polso batteva ancora per Virginia. Non che abbia importanza… Siamo tutti ridotti a pezzi.

Lani annuì con enfasi. — Sì, un po' di solidarietà di gruppo ci farebbe bene. Adesso sei tu il capo, Carl. Sta a te tenerci uniti.

Era stato il capo nominale per più di una settimana, anche se non aveva avuto il tempo di pensare in quel modo di se stesso. — Tutti e sei? Con due o tre che stanno male? Bell'equipaggio. Con metà del primo turno sparito in… quanto? Dieci giorni? No, meno. — Scosse la testa. — Le cose si stanno muovendo troppo in fretta.

Cosa avrebbe fatto il capitano Cruz che io non ho fatto? Cos'è che ho omesso?

— Sei stanco. — Gli appoggiò una mano sulla spalla, gliela batté con delicatezza. Come se fossi un grosso, stupido animale lui pensò. Be', in questo momento non sono granché meglio.

— Sono… sono contento che tu sia venuta.

— Anch'io. È ovvio che hai bisogno di aiuto.

— Ho cominciato a decolombarizzarne un altro paio.

— Non ce ne serviranno almeno una dozzina?

— È qui che mi serve aiuto. Ci serve gente in gamba ma… insomma, tu chi sceglieresti per ficcarlo dentro in questa casa della morte?

Lani annuì in silenzio, il suo volto era pensoso e assorto. Si chiese come se la stesse cavando emotivamente con quella minaccia sempre presente. Avrebbe potuto prendersi qualcosa da lui, o viceversa, in quello stesso momento. Non avevano nessuna idea di quali linee di propagazione seguissero quelle malattie.

— Non i miei amici…

Carl rimase sorpreso. — Non avevo pensato alla cosa in questo modo. Stavo pensando di scegliere quelli che so che possono reggere a questa situazione.

— Capisco. Prima di ogni altra cosa, volevo proteggere i miei amici; tu invece pensi di tirar fuori quelli di cui puoi fidarti. È per questo che tu sei adatto al comando, e io no.

Carl scrollò le spalle. Sapeva di non essere un vero capo, neppure remotamente simile al capitano Cruz. Faceva soltanto quello che gli sembrava ovvio. L'altro suo punto era giusto, comunque: era assai meno penoso vedere ammalarsi e morire delle persone relativamente estranee.

— Non mi piace dover prendere queste decisioni da solo. Io sono soltanto un comune spaziale. Questa è vita e morte, Cristo.

— Lo è.

In maniera impercettibile Lani si ritrasse da lui, mettendosi in disparte, il volto privo d'espressione e gli occhi guardinghi, in attesa dei suoi ordini. Non voleva la responsabilità. Neppure io la voglio.

— D'accordo. Devo dire al sistema quali celle deve cominciare a scaldare, altrimenti non potremo fare nessun passo avanti. — Si girò verso la grande consolle e cominciò a far scorrere le mani lungo l'elenco, sullo schermo, che mostrava le specializzazioni d'ogni singolo membro dell'equipaggio. Schiacciò il dito in due piccole depressioni accanto a due nomi.

— Jeffers e Sergeov — commentò, cupo. Poi riuscì a scoppiare in una risata dura e asciutta. — Ragazzi, se resteranno sorpresi!

SAUL

Basta così. Lascia tranquillo questo povero corpo. Saul si staccò dal tavolo operatorio e mise giù i suoi strumenti.

— Stacca il codice azzurro. Arresta le procedure di rianimazione — disse agli alti e affusolati med-mech raccolti intorno alla figura pallida e cerea che era stata Nicholas Mamenkov. — Mantenete l'ossigenazione tipo sei dei tessuti, e iniziate il preraffreddamento dell'infusione gliocemica per l'immaganizzamento terminale.

Era troppo tardi per «colombarizzare per malattia» il russo. La sua morte era penetrata troppo in profondità. Preparare il corpo meglio che poteva era la sola cosa a cui Saul poteva far ricorso, congelandolo nella speranza che un giorno sarebbe stata disponibile una cura, quando fosse stato scongelato.

L'unità principale produsse due bip. Saul, che aveva fissato con tristezza il suo defunto amico, sollevò lo sguardo.

— Sì? Qual è il problema?

RICHIESTA CHIARIFICAZIONE, DOTTORE — annunciò il med-mech. — PER FAVORE SCELGA PROFILO D'INFUSIONE E DI RAFFREDDAMENTO. INOLTRE LA COLOMBARIZZAZIONE TERMINALE RICHIEDE UN CERTIFICATO DI MORTE.

Saul annuì. Con delle capacità cliniche arrugginite come le sue, c'era da meravigliarsi che riuscisse a ricordarsi anche soltanto la giusta procedura generale.

— D'accordo, allora. Ident-voce: dottor Saul Lintz, cittadino della Confederazione Diasporica, settimo medico della spedizione Halley. Numero di codice… — Si premette le dita alle tempie. — Me lo sono dimenticato. Riempilo attingendo dall'archivio.

SÌ, DOTTORE — assentì prontamente la macchina.

— Certifico che il dottor Nicholas Malenkov, cittadino della Grande Russia, secondo medico della spedizione, è deceduto al di là di ogni possibilità di richiamo con i mezzi disponibili. Causa: massiccio danno neurale periferico dovuto a imperversante infezione non diagnosticata che ha attraversato la barriera cerebrale del sangue tre ore sono. I particolari e le analisi dei tessuti seguiranno in appendice.

«Paziente colombarizzato terminalmente oggi…»

Saul sollevò lo sguardo al proprio riflesso sul fianco del lucido mech… occhi pallidi, sì, stanchi. Più stanchi di quanto sembrava all'apparenza.

Qual è la data? Era ancora il novembre del 2061? Oppure era già dicembre?

Ho perso il compleanno di Miriam? Sono passati dieci anni da quando è morta a Gan Illana. Eppure sembra un altro secolo.

Talvolta gli pareva di continuare a combattere per una ragione soltanto, perché Virginia riuscisse ad arrivare a ventinove anni. Se fossero stati ancora vivi, fra sei mesi, per mettere un'altra candelina sulla sua torta, poi avrebbe trovato un altro buon motivo. Una cosa per volta.

— Riempi lo spazio della data. E scegli la procedura più comunemente usata per la colombarizzazione relativa ai casi di danni neurali — disse al mech.

SÌ, DOTTORE. — La macchina avrebbe consultato il mainframe della missione a bordo della Edmund Halley, e si sarebbe presa cura dei particolari.

C'erano assai poche probabilità che la scienza medica imparasse a capovolgere un trauma così massiccio fra ottant'anni, oltre alla capacità di scongelare corpi ridotti a solido ghiaccio. Comunque, doveva a Nick quella possibilità.

In ogni caso la colombarizzazione terminale non richiedeva la supervisione umana. Che lo facciano pure i mech. Se, quando andremo a casa, sarebbe meglio che le procedure usate per raffreddare e immagazzinare i corpi siano state il più standardizzate possibile.

Saul si girò per lasciare la sala del trattamento, allontanandosi dal ronzio del procedimento automatico. Quando la porta si richiuse con un sibilo, appoggiò la spalla contro la parete di fibratessuto. Si sentiva le braccia pesanti, perfino in quella sottile gravità. I seni nasali gli palpitavano.

E allora? si chiese fra sé. Cos'hai in mente di fare? Diventare una vera malattia e ammazzarmi? Oppure piantarla di rompermi le scatole e andartene via?

Quel dannato raffreddore continuava già da otto settimane! Durante tutta una vita infestata da piccoli gocciolanti attacchi causati da un virus dopo l'altro, non aveva mai, ma mai sofferto di qualcosa di veramente serio. Ma adesso quel sordo dolore continuo cominciava davvero a fare effetto.

Scosse la testa per schiarirsela. Decidetevi, dannazione! disse ai batteri, non importandogli al momento se erano pestilenze cometarie o più banali importazioni della calda e feconda Terra. In quel momento Saul non trovava niente di contrario alla scienza in questa personificazione dei suoi parassiti. Li odiava.

Povero Nick Malenkov, l'uomo che era stato quasi sul punto di colombarizzare gli è sopravvissuto. Cercò di ricordare quel grosso, brillante orso di un russo, così come l'aveva conosciuto in vita, ma non gli riuscì. Tutto quello che riuscì a vedere fu la pallida mollezza delle guance non animate dalle emozioni… il vuoto di quegli occhi dietro i quali non c'era più una mente.

Oh, Signore pregò, non lasciare che niente di simile accada a Virginia.

Due giorni prima, dopo essere riuscita a scavalcare ogni divieto in codice, era riuscita a penetrare nella sua stanza e, a voler definire la cosa con precisione, aveva commesso spudoratamente un vero e proprio stupro. Le deboli proteste di Saul erano state soffocate sotto il corpo caldo di lei, la sua bocca avvampante, mentre condivideva con lui, in un solo attimo, qualunque microfauna lui avesse posseduto, mettendo in tal modo fine a qualunque altra disquisizione sulla necessità di proteggerla dal contagio.

Una donna decisa. Da allora, non aveva praticamente più lasciato il suo fianco, salvo per i turni di quattordici ore, naturalmente. E nonostante qualche preoccupazione, Saul non poteva nascondere la sua felicità.

È stata lei a scegliere, pensò. E Carl Osborn prima o poi dovrà accettarlo.

Ricevette un segnale dai Mech nella camera di recupero. Finì di vestirsi ed entrò nel compartimento. Qualcuno era stato davvero risvegliato. Si trattava di Bethany Oakes.

— Saul…? — La sua voce si udiva appena.

— Sì, Bethany. Sono io, Saul Lintz. — Si chinò su di lei.

— Abbiamo… — inghiottì e sorrise debolmente. — Abbiamo già raggiunto l'afelio?

Saul esitò. Naturale. Il comandante in seconda della spedizione avrebbe dovuto essere decolombarizzato solo fra trentatré anni, e cioè quando la cometa avesse quasi raggiunto il punto più lontano dal Sole, e sarebbero allora iniziate le manovre per il successivo avvicinamento a Giove.

Ma come trovare il modo per dirle che erano passati solo trentatré giorni!

Saul cercò di sorridere in modo rassicurante. — No, Betty, non ancora…

PARTE TERZA

QUANDO L'ESTATE ARRIVÒ L'ULTIMA VOLTA IN GEHENNA

Gennaio 2062

Nessuno ha mai fatto niente di molto stupido se non per qualche importante ragione di principio.

Melbourne

POSIZIONE DEI PIANETI INTERNI E DELLA COMETA DI HALLEY

FEBBRAIO 2062

VIRGINIA

Che differenza possono fare tre semplici settimane!

Virginia s'interrogava mentre procedeva, semifluttuando davanti a gente che lavorava a tutto spiano. Davvero, era passato così poco tempo? Soltanto venticinque giorni da quando i sopravvissuti del primo turno si erano radunati, logori e smunti, per celebrare la fine del 2061?

Non era stata una vigilia spumeggiante. Anche con gli olo alle pareti regolati sulle loro più allegre scene estive, la sensazione era stata pur sempre quella dell'inverno di Ragnarok. Si erano raccolti all'estremità più lontana della colossale sala del Complesso Centrale, quattro miserevoli sopravvissuti, e avevano brindato con la scorta di liquore Lacy Traces che Carl aveva messo da parte con tanta cura.

La bottiglia si era vuotata in fretta. Non pareva valesse molto la pena di salvare qualcosa.

Tutti i tentativi di far conversazione erano falliti. Le videoimmagini della Terra erano troppo deprimenti da guardare: scene briose di consumismo commerciale o, cosa ancora peggiore, un orribile melodramma sulla spedizione Scott al polo Sud… senza alcun dubbio la stupida idea avuta da qualcuno come gesto in loro onore.

Dietro suo suggerimento, Saul e Carl avevano cercato di fare la loro prima partita a scacchi dopo la morte del capitano Cruz, o da quando Saul e Virginia avevano cominciato a risiedere insieme. Ma non era più come prima. I due uomini non si erano scambiati una sola parola, neppure un'occhiata, e il gioco si era svolto in maniera selvaggia. Quando il computer da polso di Saul lo aveva chiamato perché accudisse di nuovo ai dormienti in via di scongelamento, Lani e Virginia si erano scambiate un'occhiata di sollievo.

Non avrebbe mai più dimenticato quella triste e deprimente serata fino all'ultimo dei suoi giorni.

Questo era successo meno di un mese fa. Adesso… be', le cose erano diverse. Per lo meno superficialmente, erano assai migliori. Se non altro si sentivano di nuovo delle voci nei freddi corridoi, e la gente cercava di trovare soluzioni. Inoltre, Virginia stava migliorando la sua capacità di muoversi nella debole gravità di Halley. Planava veloce rasentando le superfici, aderendo al pavimento di fibra con le pantofole di velcro e tirandosi lungo un cavo da parete diretta verso la Centrale di Controllo.

Era ancora un'esperienza nuova la sua, fare quella strada senza avere la mente annebbiata dalla mancanza di riposo, o un corpo reso quasi del tutto floscio dalla fatica. Sette ore di sonno filato erano un lusso sibaritico.

Ieri il suo turno aveva coinciso con quello di Saul. Avevano avuto la possibilità di fare all'amore per la prima volta, dopo una settimana, e avevano dormito fianco a fianco, collegati tramite il famiglio elettronico, toccandosi al fioco bagliore delle luci di controllo di JonVon. Saul aveva dovuto uscire presto per prepararsi al test della sua nuova invenzione che avrebbe avuto luogo quel giorno, ma Virginia si era svegliata sentendo ancora il suo calore sul giaciglio a rete accanto a lei, il suo odore di muschio, che ormai le era familiare, sul braccio.

Un giorno, quando avrò di nuovo un po' di tempo libero, devo scoprire cosa pensa JonVon dei nostri sogni. Saul ed io ci stiamo avvicinando sempre più, i nostri sensi condivisi e amplificati diventano sempre più vividi. Mi chiedo… possibile che dopotutto avessi ragione? È possibile simulare i processi mentali umani talmente bene da riuscire in una «telepatia» di qualche tipo? Se è così, riusciremo a dare alla Terra almeno un dono, prima di morire tutti?

Quella mattina si era fermata, un istante prima di lasciare il suo cubicolo, esitando accanto alla porta scorrevole, ed era tornata indietro per prendere uno stilo. Sul primo foglio di un blocco per appunti aveva scribacchiato in fretta… non una poesia, non ancora, ma un semplice abbozzo:

Hoku welo welo,
oh, implacabile Cometa…
Ua luhi au,
sono molto stanca…

Quei versi misti le avevano ricordato la sua nostalgia di casa. Sentiva la mancanza di Kewani Langsthan, l'unico altro hawvaiano del primo turno, che aveva perso un braccio a causa di un'esplosione al livello A, la vigilia di Natale, e aveva dovuto venir colombarizzato subito, quando il moncherino si era infettato.

Fra i rimpiazzi non c'era nessun hawaiano. Non sapeva se rincrescersi di questo, oppure esser contenta che ai suoi compatrioti venisse risparmiato quel terribile periodo.

Comunque, le notizie dalla repubblica-isola non erano buone. L'ultima volta che aveva avuto il tempo di ascoltare le trasmissioni della Terra, la tensione era andata crescendo. Le nazioni dell'Arco del Sole Vivente avevano accusato il governo capeggiato da Ikeda di «progetti antiecologici».

Siri da quella serata, molti mesi addietro, quando aveva brevemente condiviso i ricordi di Saul della sua perduta patria, aveva sofferto di una paura profonda e continua, per la precarietà della rinascita del suo popolo.

Haalulu kuu lima
le mani mi tremano…
E awiwi… Ka la
fai presto, o Sole…

L'abbozzo scomparve dentro il pozzo della memoria stocastica di JonVon. Forse l'avrebbe richiamato di nuovo per lavorarci sopra, se ne avesse avuto iì tempo, o se si fosse ricordata. Nel frattempo la sua macchina preferita avrebbe riecheggiato dentro di sé le sue meditazioni. A differenza dei compassati processori della Terra, e dello stolido mainframe della missione che i tecnici avevano cominciato a imballare, per trasferirlo dalla Edmund alla centrale, JonVon non si limitava semplicemente ad archiviare le cose. Lui… esso… era programmato per «ricordare» di tanto in tanto, senza venir attivato e imprevedibilmente, e a «meditare» nuove correlazioni.

Lei non aveva il tempo di dedicarsi a quel progetto con il quale aveva progettato di ammazzare il tempo in quegli anni. Ma JonVon avrebbe sempre avuto almeno un piccolo angolo di memoria dedicato ad esso, raccogliendo e organizzando dati per quando, finalmente, lei avrebbe potuto riportare la propria attenzione alla questione dell'intelligenza medesima.

Una volta o l'altra devo ricordarmi di chiedergli quello che ha appreso.

Ed ecco qua pensò, arrivando a un doppio portello sovrastato da una lampadina color ambra, accesa. L'ingresso alla Centrale di Controllo… il posto di comando delle orde d'invasori dalla Terra.

Prima di entrare, dovette sottoporsi a un'altra dannata pulizia. Un voluminoso mech torreggiava accanto al portello.

PER FAVORE PRESENTI TUTTE LE SUPERFICI ALL'ESPOSIZIONE ULTRASONICA — le intimò il mech, tenendo davanti a sé un piatto ronzante e un tubo aspirante.

Virginia sospirò e fece un passo avanti, girandosi lentamente davanti al tubo ripiegato di quella macchina improvvisata. Le armoniche delle onde sonore ad alta frequenza colpirono la sua pelle con le ottave superiori, scendendo poi fino a un basso ringhio borbottante che le fece stridere i denti.

Conosceva i codici che le avrebbero permesso di scavalcare tutto questo, naturalmente. Ma era meglio sottomettersi a quelle misure, per quanto semi-imbecilli e inutili fossero. Qualcuno avrebbe finito per accorgersene, se si fosse messa a scavalcare i regolamenti per la propria comodità.

Un basso tintinnio le disse che dei detriti venivano scossi via dai suoi indumenti, finendo dentro la bocca dell'aspiratore. Naturalmente, questo non avrebbe realmente impedito alla gente di portare in giro i germi cometari. Saul aveva detto che l'unico effetto a lungo termine della procedura sarebbe stato quello di distruggere tutti i loro indumenti, e alla fine rompere i timpani a tutti.

Il tintinnìo cessò e il tubo aspirante smise di funzionare. Virginia immaginò uno sbuffo d'aria, fibre di cotone e cellule morte della pelle: il tutto che usciva con un sospiro nello spazio.

SI PREPARI A PROTEGGERSI GLI OCCHI PER FAVORE.

Virginia fece una smorfia e sfilò gli occhialoni dalla cintura.

— Spruzza pure, MacDuff — bofonchiò, e serrò con forza gli occhi mentre il corridoio parve riempirsi d'un fulgore attinico.

Sapeva che quella era una pura idiozia. Le lampade a raggi ultravioletti erano le armi migliori che avessero contro le halleyforme, ma ne rimanevano soltanto due dozzine, e stavano esplodendo al ritmo di una o anche più al giorno! E c'erano già stati numerosi casi di bruciature solari e di ematomi della pelle.

Quello sgradevole bagliore s'interruppe, e Virginia sospirò di sollievo.

PUÒ PASSARE — annunciò il mech.

— Grazie — rispose lei, sarcasticamente, mentre la porta si apriva con un sibilo sommesso. E si trovò in mezzo a un'attività frenetica.

Voci colorate d'ansia… teste umane che scomparivano dentro i cappucci dei sintetizzatori di dati… interruttori funzionanti a mano o mech-waldo. Sì, tre settimane possono fare una bella differenza.

Ma quella corrente sotterranea di cupa paura li assillava ancora. Semmai era cresciuta.

In un angolo lontano, una mezza dozzina di sagome umane si affollavano, rannicchiata nella bassa gravità, intorno a una mappa olo. Virginia riconobbe Bethany Oakes e i suoi principali aiutanti. Un altro maledetto consulto strategico.

Olaku na alii… I capi sono loro, che il cielo ci aiuti.

Vorrei che oggi Saul non avesse dovuto scendere nelle camere interne per provare le nuove macchine. Già sento anche troppo la sua mancanza.

Virginia si fece avanti, alle spalle di Walter Schultz, l'uomo che adesso controllava il mech-1. Lei era in anticipo, ma era chiaro che quell'uomo aveva urgente bisogno di ricevere il cambio. Aveva le spalle incurvate sotto il cappuccio d'isolamento, e le mani stringevano i controlli del teleoperatore-waldo con tanta forza da essersi del tutto sbiancate.

Virginia sapeva quello che lui stava provando. Gli operatori dei mech se la vedevano quasi altrettanto brutta degli uomini nei corridoi. Non erano esposti a un diretto pericolo fisico, naturalmente, ma le ore erano peggiori, e l'intenso sforzo mentale quasi altrettanto stremante. Dai piccoli schermi, poté vedere che Walter stava manovrando quattro grandi robot tutto da solo. Aveva proprio bisogno di una pausa.

Però non sarebbe stata una buona idea strapparlo a quel lavoro tutt'a un tratto. Due giorni prima aveva battuto la spalla di Walter mentre era collegato. L'uomo si era girato verso di lei di scatto con le pupille dilatate, maledicendola bellamente e chiamandola «intrigante puttana percell».

Più tardi si era scusato, ma la frase era rimasta incisa a lettere di fuoco nella sua mente.

Gli dirò che sono qui usando una linea di comunicazione pubblica. Ma la sua mano esitò, rimanendo appesa appena sopra il pannello del microfono. Sentì Schultz che sbuffava sotto il cappuccio d'isolamento. Era difficile dire se l'uomo aveva un raffreddore o se stesse piangendo.

Oggi come oggi, avrebbe potuto trattarsi di entrambe le cose.

— Virginia! — la chiamò qualcuno a voce alta da dietro. — Ehi, Virginia, vuoi venire qui per favore, cara?

Al di fuori di Saul, c'era soltanto un'altra persona che usava rivolgersi a lei in quel modo. Si girò e annuì, rivolta alla matrona dai capelli castani che l'invitava ad avvicinarsi con un cenno della mano, all'altra estremità della sala.

— Sì, naturalmente, dottoressa Oakes. — Scivolò fluttuando rapidamente verso la grande olo-vasca dove i facenti funzione di capi-sezione fissavano cupi la grande immagine.

L'attuale capo della Sezione Scienze Cometarie, Masao Okudo, si allontanò ostentamente dall'estremità del tavolo dov'era Virginia, e così pure fece il maggiore Lopez, il militare di grado più alto che era stato svegliato. Virginia ignorò l'affronto. Faceva parte di quella universale corrente sotterranea di risentimento verso di lei, così come verso Carl, Saul e Lani, poiché quelli del primo Turno erano stati in qualche modo criminalmente incompetenti nel permettere che tutto questo avvenisse.

Virginia aveva sempre considerato gli essere umani creature irrazionali, nel profondo, lei compresa, naturalmente. Molti si risentivano per le scelte che erano state fatte su chi avrebbe dovuto essere decolombarizzato come parte della Squadra per la Direzione della Crisi. — Perché io? — era il ritornello che aveva ripetutamente sentito, borbottato con rabbia oppure espresso con alti lamenti, dopo che uno dopo l'altro i risvegliati erano rimasti feriti combattendo contro le sudice incrostazioni che infestavano i corridoi, oppure si erano ammalati a causa di qualche germe sconosciuto.

Carl ha dovuto prendere delle dure decisioni dopo la morte del capitano Cruz. I risvegliati davano ogni colpa a lui, e il fatto che fosse un percell non lo aiutava per niente.

Suppongo che l'unica cosa che impedisce a Carl, a Saul e a me di esser vittime di un totale ostracismo stia nel fatto che siamo indispensabili.

Bethany Oakes, almeno, pareva immune da simili sentimenti. Sorrise con la stessa gentilezza di sempre quando strinse la mano a Virginia.

— Grazie per essere venuta, cara. Ci troviamo qui con un piccolo disaccordo su una questione tecnica, e mi stavo chiedendo se per caso non potevi darci una mano con l'esperienza che hai acquisito durante quelle orribili settimane durante le quali tu e gli altri avete affrontato da soli questa terribile emergenza.

Virginia annuì. — Aiuterò in qualunque maniera possibile.

Bethany Oakes sorrise in risposta con le sue labbra piccole e umide. Virginia non poté fare a meno di notare che il suo volto era tumido, e che era truccato in una maniera che gli dava un aspetto sbilenco.

O sorte, tu sei davvero una perfida cagna. Dovevi prenderti il capitano Cruz, il nostro Drake, il nostro Colombo, proprio all'inizio, non è vero? Aveva realizzato una grande spedizione con una manciata di esiliati e di disadattati, e adesso non c'è più. Questa simpatica donna semplicemente non è un sostituto.

Bethany Oakes si rivolse a Lefty d'Amaria, il capo del reparto di Virginia, Calcoli e Meccanismi. Per lo meno, Lefty rivolse a Virginia un caldo sorriso che lei ricambiò con gratitudine. Ahimè, quell'uomo si teneva aggrappato al bordo del tavolo con fare incerto, e aveva la fronte chiazzata di sudore.

— Ci sono due problemi su cui noi… noi volevamo consultarti, Ginnie. Il primo ha a che fare col modo in cui combattere quella roba, là fuori nei corridoi.

Virginia aprì le mani. — Il dottor Matsudo e il dottor Lintz hanno studiato la poltiglia. Io ho avuto una minor esperienza diretta con essa rispetto agli altri sopravvissuti del Primo Turno.

D'Amaria annuì. — Sì, direttamente di persona. Ma l'hai combattuta tramite i mech, aiutando Osborn e le sue squadre. Quello che vogliamo sapere è se pensi che sia possibile riadattare i mech di superficie per farli lavorare nei pozzi.

— Be', ne abbiamo già riadattati alcuni: robot di servìzio alle navi, soprattutto.

— No. — D'Amaria scosse la testa. — Stiamo pensando a quelli grossi. Quelli davvero da superficie.

Virginia sbatté le palpebre. Le cose erano già così disperate? I mech di superficie non erano mai stati concepiti per lavorare nelle gallerie. Il pensiero di quei colossi dagli arti enormi, simili a ragni colossali, che scendevano là, sotto il ghiaccio, ingolfando i corridoi, fu sufficiente a farla inorridire.

— Non… non lo so di sicuro. Dovremmo preparare e mettere in funzione parte delle attrezzature della fabbrica…

— Un paio di membri della squadra della fabbrica ora vengono riscaldati — l'informò Lopez. — Jeffers, Yeomans Johanson sono già svegli.

Virginia annuì. — Ma anche con la fabbrica in funzione, sarà un pasticcio. Per riuscire a far passare i sollevatori o gli spingitori dentro i pozzi, dovremo fare qualcosa di più che togliergli le gambe e i rulli. Dovrò registrare nuovi schemi nelle loro memorie di routine. Con le attrezzature che abbiamo a disposizione sarà un lavoro di rattoppo, e non sono sicura che sia reversibile…

Okudo annuì. — Bene, bene. Allora dici che non si può fare.

Virginia sbatté gli occhi. — Ma è pazzesco! Non saremo mai in grado di piazzare i propulsori per la «sgomitata» all'afelio, senza i mech di superficie. E senza la «sgomitata», l'orbita di Halley non può venir modificata. Non riusciremo mai a…

— Vuoi chiudere la tua stupida bocca di percell? — sibilò all'improvviso il maggiore Lopez, scoprendo i denti. Gli occhi dell'ufficiale del Corpo Spaziale parevano ardere, e si tirò indietro, ma molto lentamente, quando Bethany Oakes si schiarì ostentatamente la gola. L'uomo fissò la facente funzione di comandante della missione, e poi tornò a rivolgersi a Virginia:

— Mi scusi. Volevo dire, le spiace tener bassa la voce? Per favore? — Il suo sarcasmo era ovvio.

Virginia l'ignorò.

Non riusciremo mai a tornare a casa pensò, concludendo dentro di sé l'accorata protesta.

Bethany Oakes parlò al militare: — Ora, Fidel. Sono sicura che la signorina Herbert si rende conto di come sia essenziale esser discreti su alcune delle implicazioni delle nostre imminenti azioni. Già così il morale è abbastanza basso.

— Direi proprio di sì — borbottò Okudo rivolto al militare.

— Ho sentito che alcuni membri dell'equipaggio giungono persino a fingersi malati, cercando in ogni modo di simulare un'infezione o qualcos'altro per farsi mettere in animazione sospesa.

Non lo sapevo Virginia avverti un'improvvisa nausea allo stomaco.

Il capitano Cruz sarebbe stato più franco con noi. E nessuno avrebbe anche soltanto considerato la possibilità di lasciarlo nella peste cercando di fuggire nel tempo.

Bethany Oakes contemplò malinconicamente l'olovasca; dando a Virginia la sua prima possibilità di guardare lei stessa la grande immagine.

La regione penetrata dalle gallerie non era più grande di quanto lo era stata un mese prima, occupando tuttora meno di un cinque per cento del volume del nucleo di Halley, formando una sorta di conigliera raccolta intorno alla regione del polo Nord. Risaltavano alcune grandi cavità, comprese le tre in cui i colombari giacevano sepolti. E anche questa stessa sala, la Centrale, in mezzo a un grappolo di stanze ad appena un chilometro in linea retta verso il basso dal punto in cui era ancorata la Edmund Halley.

Grazie al cielo la maggior parte degli idroponici sono ancora a bordo della Edmund, pensò Virginia. Al sicuro dalle forme di vita native che abbiamo inavvertitamente svegliato qui sotto. Se la poltiglia o i bacilli riuscissero mai ad arrivare negli orti principali, è molto probabile che moriremmo di fame entro breve tempo.

Così invece è probabile che soffriremo lo stesso la fame tra non molto, se dovremo tenere sveglia tutta questa gente ancora per parecchio tempo.

Quasi tutte le gallerie e i pozzi rappresentati erano macchiati, i colori risaltavano a seconda dei diversi tipi d'infestazioni. Soltanto le quattro cavità principali risplendevano ancora antisettiche, bianche, senza tracce d'invasione, insieme ad un corridoio che conduceva agli scali merci del polo. E c'erano volute tutte le lampade UV disponibili e le scorte di disinfettanti di quarant'anni per tenere sgombre soltanto quelle aree.

La maggior parte delle gallerie brillavano d'una qualche sfumatura di verde, dove l'unico invasore conosciuto era una varietà di vegetazione simile ad un lichene, il cui nome generalmente usato era poltiglia. In quei percorsi c'erano ancora aria e calore. Per quello che tutti loro ne sapevano, potevano essere del tutto sicuri da percorrere. Per lo meno, Saul pensava che lo fossero. Era uscito più di una volta, incurante del presunto pericolo, alla ricerca di altri esemplari da studiare.

Forse è questa una delle cose che mi attrae in lui. Saul non era coraggioso in maniera plateale, ma in un modo che sembrava dichiarare «vivere alla giornata è sempre stato un rischio calcolato».

Forse l'amore che gli portava era semplice da analizzare e definire, giacché Saul le ricordava suo padre. Anson Herbert aveva posseduto la stessa triste, gentile saggezza, le aveva dimostrato di più con la sua forza tranquilla di quanto altri uomini avessero fatto con i loro atteggiamenti eclatanti.

Virginia scosse la testa. Anson era morto da due anni, ma lei riusciva quasi a sentirlo, che le diceva di smetterla di sognare ad occhi aperti e la sollecitava a mettersi al lavoro. C'erano problemi da risolvere, e c'erano sempre degli idioti che cercavano di usare il martello per riparare gli orologi.

Lopez stava indicando con un gesto le gallerie che avevano le peggiori infestazioni, specialmente lungo i condotti dove il calore fluiva dalla centrale elettrica. Chiazze purpuree, gialle e rosse spiccavano là dove avevano fatto irruzione le halleyforme più attive, lacerando i sigilli delle gallerie, trascinando nel caos i macchinari d'importanza vitale, e, occasionalmente, ghermendo perfino un terrestre di passaggio.

— … qui i mech più grandi di superficie potrebbero pattugliare una galleria ampliata e rifondere il ghiaccio a intervalli, chiudendo i crepacci e rimuovendo gli strati infestati per poi trasportarli in superficie ed eliminarli…

Virginia non riusciva a credere a quello che sentiva. Quel piano era pura follia. Era un piano gravoso che ignorava i sette decenni a venire.

— Ci sono ancora altre possibilità da tentare — suggerì — Saul sta lavorando a una possibile maniera per…

Lopez tirò su rumorosamente con il naso. — Il raggio della morte di Lintz, giusto?

Bethany Oakes annuì, senza distogliere lo sguardo dalla mappa. — Possiamo sperare che qualcuno salti fuori con qualcosa di nuovo, naturalmente. Ma tutti gli approcchi convenzionali al problema sono falliti. Una cosa è certa: se le infestazioni raggiungono i colombari, siamo finiti.

La donna guardò Virginia. — È per questo che ti abbiamo chiesto di venire qui con noi, non soltanto per aiutarci a convertire i mech di superficie per questa lotta nel sottosuolo. Tu…

La donna più anziana fece una pausa, ammiccando più volte, come per cercare di mantenere la concatenazione di pensieri. Virginia si rese conto, scioccata, che doveva trovarsi sotto l'effetto d'un qualche tipo di droga.

— … tu sei il solo, vero esperto di cui disponiamo su quel vecchio argomento… l'intelligenza artificiale. Conosco le prove tradizionali, naturalmente, che l'intelligenza artificiale, quella vera, è impossibile. Ma una simulazione molto buona, flessibile, potrebbe essere sufficiente. — Sospirò. — Comunque, dobbiamo aggrapparci ad ogni fuscello. L'invenzione di Saul Lintz, e perfino dei robot capaci di agire da soli.

«Dobbiamo trovare il modo di rendere autonomi quanti più mech possibile… e presto. Vedi… perdiamo uomini e donne più velocemente di quanto li scolombarizziamo.

Virginia la fissò. Scoprì di non essere capace di dire niente del tutto.

— Questo è un segreto militare, Herbert — ringhiò il maggiore Lopez. — Dillo a qualcuno e avrò quella tua pellaccia da percell!

Virginia si limitò a scuotere la testa, lasciando che interpretasse quel gesto come meglio voleva.

Un po' più tardi, accanto al centro di ristoro, stava centellinando una boccia di tè chiedendosi come poteva anche soltanto cominciare ad affrontare i compiti quasi impossibili che le erano stati assegnati. Era ironico. Non avrei mai pensato che qualcuno mi avrebbe chiesto di lavorare all'intelligenza delle macchine.

In quelle circostanze, la cosa le appariva del tutto sbagliata.

Fu allora che l'uomo che voleva incontrare meno di ogni altro le galleggiò accanto con una lieve spinta delle sue gambe monche.

— Bene, dolce signora delle macchine — sogghignò Otis Sergeov. — Suppongo che avrai udito gli ultimissimi interessanti sviluppi sulla Terra… Li hai uditi?

— Vai via, Otis — lei gli rispose con voce priva d'inflessione. — Non voglio sentire nessun'altra brutta notizia in questo momento, specialmente da te. Cosa stai facendo qui, comunque? Tu fai parte della squadra addetta ai corridoi.

Il percell russo scrollò le spalle. Le sue palpebre avevano ancora una leggera colorazione azzurra e le sue guance parevano gesso, a causa del suo recente risveglio dal colombario.

— Mi sono soltanto fermato a dare un'occhiata mentre stavo andando al Pozzo 3. Devo aiutare i tuoi amanti a provare la loro nuova macchina per salvare il mondo.

Virginia alzò di scatto lo sguardo. — Di cosa stai parlando?

— Tu sai chi intendo. — Le strizzò l'occhio. — Osborn e Lintz.

Sergeov le porse un pezzettino di carta con il suo nome scribacchiato all'esterno. Lei lo prese su con la punta delle dita e lo dispiegò per leggere il messaggio, mentre annuiva.

— Così, vai ad aiutare Carl e Saul a provare i nuovi lanciaraggi, non è vero?

Sergeov annuì.

— Va bene, allora. Dì a Saul che farò in modo di mandargli i mech di cui ha bisogno per l'esperimento. Li tirerò fuori da qualche parte.

Sergeov annuì. — Ah, modi per aggirare i canali. Sapevo che lui aveva influenza sulla Padrona Segreta delle Macchine. Devo imparare il suo trucco.

Virginia scrollò le spalle. Sergeov aveva avuto una ragione per cercarla. Adesso lei voleva soltanto che la sua visita terminasse. — È tutto, Otis?

— Soltanto una cosa ancora. Una curiosità personale. Ti ho sottovalutata, Virginia. Potrai anche essere orthofila, ma per lo meno hai scelto il padre, o lo zio, della nostra razza per mettere su tenda. È pur sempre ortho, ma loro sono tutti sopra i cinquanta, così se sei così pervertita da preferire i vecchi, immagino che non avevi scelta migliore, eh?

Virginia lo fissò inferocita: — Piccolo schifoso…

— Aspetta che diventi anch'io così vecchio. Uhmmm. Allora avrò speranza?

Virginia sentì girarle la testa. Quell'uomo stava dicendo tante cose che la facevano infuriare, ognuna delle quali avrebbe meritato di venir rasa al suolo a colpi di logica bruciante. Oh, perché sono così impulsiva? Non sta cercando di litigare su una questione di semantica, vuole soltanto darmi sui nervi, tutto qui.

— Vai a farti fottere, Otis — disse alla fine.

Sergeov sbatté le palpebre, momentaneamente sorpreso, poi scoppiò a ridere. Buttò indietro la testa e gridò, deliziato: — Ben detto! Se soltanto avessimo avuto te sulla Terra l'altro ieri! Avresti potuto dirglielo.

— Dirlo a chi?

— A quei bastardi di Ginevra.

Virginia esitò, avvertendo tutt'a un tratto una senzazione di gelo.

— Cos'è successo sulla Terra?

— Se tu dedicassi più tempo delle tue giornate ai tuoi, a quest'ora tu sapresti — la schernì Sergeov. — Adesso non abbiamo nessuno con cui parlare, salvo fra noi… adesso che gli ortho c'incolpano della malattia.

— Non è vero… — Virginia chiuse gli occhi e decise di non lasciarsi trascinare fuori strada. — Dimmi cos'è successo sulla Terra, Otis. O questa volta di rompo davvero il braccio.

Lo spaziale russo annuì, la sua voce si smorzò a un tratto.

— C'è stato un colpo di stato, Virginia. Hawaii adesso è sotto l'Arco del Sole.

— Cosa? — Virginia lo fissò. — Ma… ma è impossibile! Come?

— Mercenari dalle Filippine. Il governatore Ikeda è morto. C'è la legge marziale.

— Ma il Trentaduesimo Emendamento… gli Stati Uniti devono difendere…

Sergeov scrollò le spalle. — La Corte Suprema degli Stati Uniti si è riunita in seduta d'emergenza, Virginia… ha decretato che le Hawaii dal 2026 sono uno stato semi-sovrano… credo sia questa l'espressione giusta. Significa che un governo archista de facto va bene, fintanto che paga in tempo le tasse federali, e mantiene puliti gli affari con l'esterno.

«Hanno già chiuso la scuola percell. Hanno chiuso l'istituto per le Ricerche Avanzate e quel grosso progetto per l'energia dalle maree. Altro certamente seguirà.

Sergeov venne avanti, con una mano sulla ringhiera, respirando rumorosamente. La sua voce era carica di sarcasmo. — Adesso capisci? Capisci perché preziosa ci sarebbe stata la sua eloquenza sulla Terra. Soltanto per sei a tre il caso è stato deciso. Certamente, se tu fossi stata laggiù, saresti riuscita a convincerli. O per lo meno avresti potuto gridare Andate tutti a farvi fottere a quelle loro brutte facce da ortho.

Ma smise di parlare, perché Virginia si era già precipitata di corsa fuori in corridoio, passando davanti al voluminoso robot addetto alla decontaminazione, ignorando la sua monotona richiesta che si sottoponesse al suo inutile trattamento a base di ultrasuoni e di luci attiniche. Si stava muovendo senza una meta precisa, accecata da un improvviso rigurgito di lacrime, fluttuando puramente a memoria.

CARL

Le cose stavano peggiorando.

Carl andava alla deriva agganciato a un cavo, aspettando che Saul Lintz si facesse vivo. Era contento di quella interruzione.

Durante gli ultimi giorni aveva imparato a riposarsi dovunque gli capitava di trovarsi, un pisolino qua o là, e intervalli per i pasti, utilizzando ogni momento di calma per lasciare che i suoi muscoli dimenticassero a che cosa li stava sottoponendo. Non c'era tempo per far arrivare i mech ai loro posti per la maggior parte dei lavori, e molti, comunque, non avrebbero potuto farli.

Il buon vecchio lavoro col grugnito pensò Carl. Soltanto, la cosa è parecchio diversa se da esso dipende la tua vita.

In un certo senso era contento a non essere lui a dirigere le cose. Il maggiore Lopez, che riusciva a malapena a nascondere la sua diffidenza nei riguardi dei percell, si prendeva tutti i mali di testa. Bene, che sudasse pure.

Non c'era abbastanza personale per controllare la poltiglia verde delle alghe, e ancora meno per le forme più grosse. Bethany Oakes era impegnata a scolombarizzare altra gente perché dessero una mano, ma ci voleva tempo. E aveva sentito dire che neppure là sotto le cose andavano bene. Alcuni dei decolombarizzati erano infuriati per essere stati svegliati prima del tempo, e per di più avevano una paura matta di prendersi quelle malattie — qualunque cosa fossero — che circolavano intorno.

Non che li biasimasse. Lui aveva un nuovo tizio nella sua squadra, un robusto norvegese chiamato Veerlan, e già i colpi di tosse e il tirar su col naso erano cominciati. L'uomo era fuori soltanto da trentacinque ore, non era certo ancora in grado di affrontare i lavori pesanti.

— La squadra è pronta? — La voce di Saul parve arrivare a Carl sbucando da una nebbia confusa. Saul atterrò rigidamente su un tratto di filofibra lì vicino e agganciò il cavo a un appiglio.

— Ah… sì. Non è una gran squadra, comunque.

— Quanti? — Saul pareva pronto e sveglio, anche se le profonde rughe della fatica gli scavavano il viso. Trasportava una macchina voluminosa legata alla schiena.

— Quattro.

— Compreso te?

— Sì.

— Uhm… non so… Sarà piuttosto impegnativo.

— Chiamerò dei mech.

— Ho già detto a Sergeov di comunicarlo a Virginia. Ne manderà qualcuno non appena possibile.

Carl avvertì un rovente impulso d'irritazione. — Sono io l'incaricato dei mech di questo quadrante.

Saul serrò le labbra. — Senti, questa è un'emergenza…

— Chiamerò Virginia. Questo non è il tuo laboratorio, Lintz. Sono io che comando quaggiù.

— D'accordo. Sei il benvenuto. Chiama pure.

— Be'… sì… provvederò mentre siamo per strada. — Carl scrollò leggermente la testa, come per schiarirsela. — Hai le frequenze dello spettro?

Saul batté la mano sulla tasca del panciotto. — Proprio qui. C'è voluta tutta la notte.

— Sarà meglio che funzioni.

— Spero di sì.

— Sperare non basta.

— Non posso garantire…

— Ascolta, siamo ridotti a una dozzina, forse quindici, ancora sani. Crollano più in fretta di quanto possiamo scolombarizzarli, a quanto mi dicono. Sto utilizzando uomini che sono intontiti dal lavoro, come me, e donne col naso sgocciolante nelle tute, che tossiscono in fazzoletti di carta che hanno piazzato come tamponi sotto il mento. Voglio dire… — risucchiò l'aria, con gli occhi serrati, ed esalò un respiro affaticato. — Sarà meglio che funzioni.

Saul annuì comprensivo. — Andiamo, allora.

Incontrarono Jeffers, Sergeov e Lani nel Pozzo 3, là dove tutto era cominciato. Il pozzo era ben illuminato, così da poter vedere mentre lavoravano, i fosfori ardevano come pubblicità al neon regolarmente spaziati lungo una buia autostrada, rimpicciolendosi nella sbadigliante distanza.

Il gruppo assomigliava a tanti punti penzolanti di colori diversi, ogni tuta rappresentava una tinta fondamentale differente sullo sfondo rosa del filofibra. Da una galleria laterale arrivò una grande massa asimmetrica, trainata dai mech, seguita da tre mech extra.

— Virginia li ha liberati — esclamò Jeffers, tutto felice. — Così ci facilita un sacco le cose.

— Già — disse Carl. Lo irritava il fatto che Saul avesse ottenuto i mech in fretta e furia, senza che Virginia chiedesse la sua approvazione. E lui non aveva avuto nessun mech di rincalzo per tutto quell'intero, dannato turno, fino a quando il brillante Saul Lintz e la sua cura miracolosa non erano arrivati sulla scena. — Era ora.

Non credo proprio che mi metterò a piangere se non dovesse funzionare pensò Carl, ma subito si rimproverò. No, è stupido da parte mia. Comincio davvero a logorarmi.

Jeffers doveva essere stato altrettanto esausto, ma sorrise e fece delle battute mentre armeggiava per portare le apparecchiature verso l'area del bersaglio. Il suo volto angoloso non dava nessuna indicazione di quello che provava per essere stato svegliato dentro quell'inferno.

Sia Jeffers che Sergeov avevano gli occhi ridotti a fessure d'ombra. Carl disse loro: — Non scoppiate, ragazzi. Fate con calma.

Controllarono i cavi di sicurezza dei mech e fecero ruotare tutto l'insieme per spostarlo al centro del pozzo. Dei telerobot avevano rimorchiato l'apparecchiatura della scavatrice a microonde, meno il treppiede di sostegno, per tutto il percorso dalla superficie. Senza le gambe, il convegno perdeva la sua precedente grazia aracnidea, diventando semplicemente un'altra macchina bitorzoluta, con i tubi e i montanti che sporgevano formando stranissimi angoli.

Più avanti la liscia superficie della galleria era interrotta da filamenti purpurei che si protendevano nel vuoto.

— Non si muovono — disse Lani. Sotto la sua voce chiara e melodiosa si percepiva una vena di fatica.

— Da quanto tempo l'aria è uscita da questa galleria? — chiese Saul.

— Giorni — rispose Jeffers.

— E la temperatura si è abbassata? Allora i purpurei potrebbero essere addormentati.

— Cosa? — chiese Jeffers con voce confusa.

Saul rivolse a Carl un'occhiata interrogativa, come per chiedere: È stordito?

Carl scosse la testa. Siamo tutti stanchi, e allora? Non siamo rimasti seduti in laboratorio a scaldare la sedia durante tutto questo tempo.

— A quanto pare le forme più grandi sono state stimolate dalle infiltrazioni di calore alle intersezioni — trasmise Saul. — Là dove il collare è in contatto con il ghiaccio. Ma una volta che hanno fatto irruzione cercando dell'altro calore, hanno trovato un bengodi. Mentre scorreva fuori, l'aria li ha scaldati, e le forme hanno continuato a crescere, per un po'. Ma adesso qua dentro fa freddo quasi quanto il ghiaccio, così dormono di nuovo. Soprattutto…

— Uh, uhu. — Jeffers fissò dritto davanti a sé, con gli occhi un po' annebbiati, masticandosi il labbro; e Carl non poté esser sicuro che quell'uomo avesse capito qualcosa.

— I purpurei fanno irruzione dovunque cresca la poltiglia — disse. — Ciò significa che in qualunque posto dove ci sia calore o luce o aria.

Rallentarono; i getti dei mech assorbirono l'inerzia del trivellatore a microonde. I bulbosi organismi di Halley sporgevano dentro il pozzo tutt'intorno alla Galleria 3E. Alla luce fosforica gialla parevano trasudare una pellicola d'un azzurro oleoso.

— Bello, eh? — trasmise Jeffers, sarcastico.

— In un certo senso — commentò Lani, cupa, prendendolo seriamente. — Sono così strani…

— La filosofia a più tardi — l'interruppe Carl. — Dobbiamo ucciderli.

— No, prima voglio un campione. — Saul avanzò verso la parete e vi sbatté contro goffamente. Carl ebbe un sorriso malizioso. Che Saul commettesse pure i suoi errori. Non avrebbe sprecato energia per fare da balia a qualcuno, specialmente Lintz.

— Non li avevo mai visti in queste condizioni. Ho ricevuto soltanto dei rapporti, dai quali trarre un giudizio.

Oh, magnifico. — Vuoi dire che non sai se li capisci?

— Oh, abbiamo imparato molto. Per esempio, adesso sappiamo che in realtà non si tratta affatto di organismi differenziati, non come i mammiferi o gli insetti o i vermi terrestri. Sono più simili alle meduse, o alle muffe del fango… dove gruppi diversi di cellule indipendenti assumono compiti specializzati per brevi periodi. Non ho mai visto una fase come questa prima d'ora, ma la loro chimica basilare non può cambiare semplicemente perché hanno una tregua nel loro ritmo di crescita.

La blanda arroganza professionale di quel discorso irritò Carl. — Chi l'ha detto? Come mai ne sei così sicuro?

Saul tirò fuori un barattolo per la raccolta dei campioni. — Sono princìpi biologici generali. La frequenza di vibrazioni delle loro macromolecole non può cambiare semplicemente perché il loro ritmo vitale rallenta.

Saul recise un frammento della più vicina escrescenza sporgente e l'intrappolò nel barattolo. Sbirciò dentro la ferita aperta dove dei tessuti che si andavano oscurando trasudavano un liquido.

— Straordinario. Essuda una pellicola per proteggersi dalla perdita di vapore nel vuoto. Eppure la pellicola stessa è un fluido che in qualche modo non sublima.

— Ehi, muoviti — lo sollecitò Carl con impazienza.

— Sospetto che si tratti di un fluido a tensione superficiale molto alta. In qualche modo si coagula in superficie, ma allo stesso tempo rimane sufficientemente liquido da coprire interamente la creatura, per compensare le ferite.

Saul tagliò una sezione da un'altra sporgenza, poi si allontanò con una spinta. — Fatto.

— Bene, ora prepariamo il forno a microonde per friggere le melanzane — ironizzò Jeffers.

Carl diresse i mech in modo che puntassero le loro antenne sulla vegetazione. C'erano dei lobi laterali che avrebbero lambito le pareti, ma non era possibile evitarlo. Il trucco, un'idea di Saul, era di regolare la trivella a microonde sull'esatta frequenza vibratoria d'una molecola tipica di quelle forme native, cosicché una breve raffica sarebbe bastata a friggerle senza riscaldare nello stesso tempo il ghiaccio lì accanto.

— Spero che tu ne sia sicuro.

— Il calcolo è semplice. Ho fiducia. — Saul sbirciò Carl. — Ascolta, se funziona sui purpurei, posso regolarlo anche sulle peggiori varietà della poltiglia verde.

— Per uccidere quella roba è probabile che tu debba scottare ogni altra cosa che sta intorno. Se il ghiaccio esposto dovesse vaporizzarsi, ci troveremmo dritti di fronte a un uragano.

Saul colse la sua occhiata. — I miei calcoli dimostrano… oh, al diavolo i calcoli. Proviamoci, comunque.

— È tutto regolato? — chiese Jeffers.

Saul annuì. Carl appoggiò il guanto sull'interruttore manuale. — Fuoco.

Da sotto la sua mano giunse un debole ronzio, mentre i capacitori si scaricavano. E poi la parete volò verso di lui. Una bianca raffica grondante colpì Carl, soffiandolo attraverso il pozzo, sbattendolo contro la parete.

Rimbalzò, girò su se stesso, riprese il suo assetto. La linea di comunicazione trasmetteva grugniti, imprecazioni, un gemito di dolore. — Attenti al ragno! Sta per schiantarsi contro la parete! — gridò Jeffers.

L'unità a microonde si stava spostando all'indietro, poderosa e minacciosa. Se fosse andata a sbattere contro il filofibra…

— Mech! Mech!

Jeffers e Carl si lanciarono verso il modulo di controllo dei mech. Fermare quella mastodontica macchina da soli sarebbe stato impossibile.

Jeffers digitò la consolle al suo fianco, imprecando. Delle figure si mossero in mezzo a quella fioca luce cercando freneticamente di afferrare quella massa goffa e pesante. I mech avanzarono su diverse direzioni, rallentando l'unità. Turbinando al rallentatore fecero leva e impiegarono la loro forza, mentre i secondi ticchettavano e le forze si congiungevano.

Funzionò… appena appena. L'unità andò a sbattere contro la parete in mezzo a un lento raschiare verdognolo.

— Qualche ferita?

— No.

— Soltanto al mio orgoglio — trasmise Saul. Pulì via una macchia verde dal fondo della sua tuta. — Ahi, credo di essermi anche slogato il polso.

Si radunarono lentamente. La raffica di vapore aveva soffiato Lani a un centinaio di metri di distanza.

— Ehi — trasmise Sergeov. — Guardate. — Indicò l'orlo della galleria E.

— Le creature… se ne sono andate — disse Carl.

— No, soltanto fritte. Le abbiamo disintegrate — trasmise Jeffers.

— Di questo ero sicuro — disse Saul. — Ma perché tanto vapore? Deve aver fatto bollire l'acqua nei loro tessuti. Dovrò regolare meglio la frequenza.

— Sintonizza tutto quello che vuoi — replicò Carl. — Su, adesso! Tappate quei buchi prima che ci cresca fuori qualcos'altro!

Ci vollero altre due ore di regolazioni prima che potessero disgregare le forme di vita native con una singola breve raffica del ragno, causando soltanto un'insignificante turbine di vapore. Lentamente Carl arrivò ad ammettere che l'idea pareva funzionare. Era difficile per lui abituarcisi.

Bethany Oakes era entusiasta. Approvò l'ordine di portar giù altri due ragni e delle squadre per manovrarli. Se avessero fatto tre turni al giorno, avrebbero potuto ripulire le gallerie e i pozzi più importanti nel giro di quarantott'ore.

Il vantaggio della tecnica a microonde era che disgregava le halleyforme riducendole al livello molecolare. Era assai più efficace che troncarle o strapparle a mano fuori dal ghiaccio sperando di essere riusciti a rimuovere ogni singola radice o filamento.

Adesso pensò Carl, adesso dobbiamo sbarazzarci di quella dannata poltiglia verde.

Cominciò a percepire una vaga sensazione di ottimismo che gli penetrava nel profondo delle ossa. Trasmise a Virginia le immagini al rallentatore dei purpurei che esplodevano a mano a mano che le microonde arrivavano alle lampade. Lei rispose con un entusiastico: — Yaaay! — poi lo fece echeggiare artificialmente, cosicché risuonò nelle cuffie come se un intero stadio stesse applaudendo. Ciò sollevò lo spirito di Carl più di ogni altra cosa.

Stavano tornando verso la Centrale, dentro una galleria presurizzata, quando il pazzo colpì.

— Lasciateli stare, lasciateli stare, lasciateli stare! Assassini! Siete voi gli alieni qui!

Si girarono di scatto e videro un uomo, con addosso una divisa della nave a brandelli, penzolante da un corridoio laterale, che li stava fissando con furore.

— Cosa…? — cominciò a dire Carl. Ma l'uomo cacciò un urlo e balzò avanti.

Si scagliò addosso a Carl, urlando frasi incoerenti, un farfugliare stridulo, costellato di oscenità, gli occhi spalancati, sprizzanti febbricitante energia. Le mani protese in avanti come artigli, le gambe pronte a scalciare.

Prima che Carl potesse reagire, le sue mani agguantarono l'anello del suo casco e schizzarono via insieme, roteando. Il suo casco gli sfuggì dalle mani quando andarono a sbattere contro una parete. Il pazzo avvolse le gambe intorno a Carl e cominciò a martellarlo con pugni duri, veloci.

Carl era lento, stordito. Cercò di colpire l'aggressore, ma lo mancò. Un gancio destro lo colse all'occhio; vividi lampi rossastri. Si girò impetuosamente per agguantarlo. Lo mancò.

È veloce. Carl bloccò un altro pugno. Colpì, mancò, colpì di nuovo. Questa volta assestò un diretto alla spalla dell'altro. Il folle replicò, con una nuova esplosione d'energia, colpendolo alla guancia, al braccio, al petto. Poi, finalmente, arrivarono i soccorsi. Qualcuno afferrò e tirò, e l'uomo roteò via, urlando, agitando una manciata di qualcosa.

Carl sentì delle mani amiche che l'afferravano, che arrestavano il suo incontrollato vorticare. Lani l'accolse fra le braccia.

— Cosa diavolo?

— Chi era?

— Non saprei dirlo.

— Ingersoll, credo. Un tizio della Sezione Chimica.

Carl sbatté le palpebre, incerto, mentre la figura si allontanava veloce, lanciandosi con calci ben sincronizzati alle pareti della galleria. Quel farfugliare continuò, spegnendosi in distanza. Nessuno lo seguì. Si raccolsero intorno a Carl che era ancora stordito dall'improvviso attacco.

— Devono essere soltanto lividi, nient'altro — disse, intontito, cercando di contenere l'improvviso afflusso di adrenalina.

— La faccenda più dannata che si possa immaginare — commentò Jeffers.

Lani sfiorò delicatamente il volto di Carl. — Si sta già gonfiando. Cosa può averlo provocato?

— Pareva fuori di senno — disse Saul. — Ho sentito che è stato colpito da qualcosa, ma Akio diceva che non pareva letale. Qualunque cosa fosse, è ovvio che ha influenzato la sua mente.

Il volto di Sergeov assunse un'impronta cupa, grigia. — Adesso sta scappando nelle gallerie più basse. Sarà molto difficile trovarlo, curarlo, là dentro, se lui non vuole essere preso.

— Per quello che mi riguarda — dichiarò Carl, sfregandosi la mascella, — può restarsene smarrito per sempre.

Saul annuì, ma la sua voce era pensosa e preoccupata quando disse: — Il suo volto era chiazzato di halleyforme. Mi chiedo quanti altri abbiano quello che ha sviluppato lui?

SAUL

Talvolta quella parola lo ossessionava ancora. Siamo noi gli alieni. Qui erano gli uomini gli invasori, gli intrusi. Di tanto in tanto Saul si chiedeva che diritto avessero, loro, di uccidere quello che non capivano.

Comunque ammetteva di provare un ferale piacere a vagare per le caverne affondate nel ghiaccio profondo, distruggendo la poltiglia: una selvaggia eccitazione nel puntare una specie di pistola a raggi lungo un corridoio, bisbigliando «zap, zap», vaporizzando le eruzioni più pericolose di quella materia cometaria.

Saul non provava sorpresa nell'avere due distinte opinioni su quella faccenda.

In questa circostanza è il soldato, il cavernicolo che è in me ad averla vinta sul filosofo. Il mio lavoro è quello di scheggiare la selce, di modellare nuove armi e di aiutare a salvare la tribù. È una priorità che si tramanda da molto, moltissimo tempo. Ed è giusta.

Toccò il quadrante del suo irraggiatore portatile. Il reostato continuava a spostarsi, ed era importante mantenere il congegno regolato sulla giusta frequenza, nel caso in cui, svoltando un angolo, si fossero trovati di colpo in mezzo ad una massa di purpurei che si contorcevano.

Durante i giorni trascorsi dal primo esperimento, le squadre dei corridoi avevano imparato molto sull'uso delle nuove armi. Non c'era né abbastanza energia né abbastanza personale per mantenere ogni corridoio sgombro in continuazione, e la produzione collaterale di calore si era rivelata assai sgradevole se usavano le armi molto a lungo. Comunque, l'effetto sul morale era stato formidabile. Per la prima volta pareva che ci fosse la possibilità di riuscire a superare quella prova: quelli che non erano malati continuavano addirittura a rifarsi del sonno perduto. C'erano meno discorsi disperati sulla possibilità di smontare i mech di superficie per portarli giù sotto il ghiaccio.

Adesso, se soltanto riuscissimo a debellare la malattia… Il motivo principale per cui Saul aveva acconsentito a venire lassù, in quelle remote gallerie vicino alla superficie, era quello di raccogliere un numero sufficiente di campioni per sviluppare il suo data base, cominciando a crearsi alcune solide ipotesi su come le halleyforme interagivano fra loro, su quali ruoli giocassero i microorganismi.

Subito dietro di lui, Lani Nguyen era in sella a un grosso mech da galleria. Il grande robot trasportava una scavatrice a microonde che era stata modificata per la ripulitura dei corridoi. A parte un'area rischiosa al livello E, non avevano dovuto usarla molto. Le aree davvero brutte erano quelle vicine alle abitazioni umane, dove il calore, la luce e l'aria alimentavano una crescita di lichenoidi complessi e attiravano le micidiali colonie di creature simili a vermi dalle mascelle di ferro.

Qui nelle gallerie periferiche, le lampade fosforiche erano ben distanziate le une dalle altre e la temperatura veniva mantenuta ben al di sotto del punto di congelamento. Soltanto una sottile pellicola di verde rivestiva le pareti. Era più facile andare in giro, perfino in tuta spaziale, che laggiù, più in basso, dove strisciavano i purpurei.

Saul sollevò una mano e Lani fece fermare il mech ad un incrocio che un tempo aveva brillato dei colori arancio e azzurro del plastifoglio. Adesso le pareti erano nerastre sotto il verdeggiante bagliore di pochi pannelli luminescenti.

Saul raschiò via i lichenoidi, riportando alla vista alcune lettere sulla parete: D-14-TAU.

Bene, non si erano smarriti.

— Faccio degli ecosondaggi per cercare le fenditure, Saul.

Saul annuì. — Va bene, Lani. Soltanto, non avventurarti troppo lontano dall'incrocio.

— Sono legata al tuo guinzaglio come un cucciolo fedele, ci puoi scommettere.

Saul sorrise. Lani era scaltra e coraggiosa, ma era anche cauta. Quella combinazione era una delle ragioni per cui era lieto che gli fosse stata assegnata come partner.

Lani si spostò con cautela lungo le pareti, battendo sul fibrafoglio e ascoltando con un audioscopio, rintracciando con competenza delle spaccature e dei punti morbidi nel ghiaccio sottostante.

Avevano scoperto per dura esperienza che i minuscoli, quasi impercettibili terremoti di Halley non erano mai cessati sin dal loro arrivo, continuando ad aprire sottili crepe nell'aggregato del ghiaccio. Il pericolo era particolarmente acuto agli incroci, dove l'isolamento era più debole. Parte del loro lavoro là fuori consisteva nel tracciare una mappa di quelle fenditure per poterle più tardi rifondere e sigillare… sempre che ci fosse stato abbastanza personale per riuscire a farlo, s'intende.

I frammenti raschiati dalle scritte che si trovavano agli incroci vennero riposti in un flacone per campioni. Saul era quasi certo che si trattasse di un tipico Hallivirens malenkovi. Ma durante questo viaggio aveva scoperto anche un gran numero di altri tipi, non ancora descritti. Era chiaro che l'ecosistema variava da luogo a luogo a mano a mano che cambiavano le condizioni ambientali.

In quello stesso momento Akio Matsudo si trovava di nuovo nel laboratorio di biologia, alla Centrale, intento a lavorare con Marguerite van Zoon e tre tecnici esausti per cercare una cura in grado di arrestare la crescita dell'elenco dei malati.

Akio era uno scienziato competente, ma era anche ideologicamente incapace di adeguarsi alle implicazioni di quell'inaspettata marea di vita cometaria.

Tutti sono eccitati per il successo del mio disgregatore a microonde. Ho la reputazione d'uomo d'azione, adesso. Ma è servito a convincere qualcuno ad accettare i miei consigli? A tirarsi indietro per cercare di avere una panoramica più ampia?

Ha!

Saul si era rassegnato a investigare da solo il problema delle halleyforme, e a modo suo. Una parte di quell'indagine consisteva nel venire qua fuori, a dare un'occhiata da solo.

Lo svantaggio più grosso è sentire tanto la mancanza di Virginia.

Saul recitava una preghiera di gratitudine ogni giorno che si svegliavano insieme, senza che nessuno dei due soffrisse ancora a causa di una di quelle orribili e micidiali creature. Era una benedizione che lei, finora, non avesse preso niente da lui.

Virginia aveva avuto delle brutte giornate quand'era arrivata la notizia del colpo di stato alle Hawaii. Le risultanti tensioni percell-ortho avevano quasi messo in ombra la gioia per il successo della tecnica dell'irraggiamento.

Tre passi avanti, quattro indietro pensò Saul.

Si asciugò il naso sul tampone antisgocciolio del casco, prese un'altra pillola di antistaminico, e la mandò giù con un sorso risucchiato da una tettarella per l'acqua per l'acqua. Quindi ruotò il suo corpo per mettersi a testa in giù, allo scopo di dare un'altra raschiatina a un'escrescenza dell'aspetto interessante.

Un basso grugnito risuonò quando Lani tornò con il suo mech. Borbottò rapidamente nell'arcano gergo degli ingegneri mentre registrava i risultati, poi sollevò lo sguardo su Saul.

— Soltanto piccole crepe fino al Pozzo Sei. Allora, lo abbrustoliamo questo tratto di galleria?

Saul scosse la testa. — No, non qui. Impiegheremmo mezza giornata per scoprire le giuste frequenze per i singoli componenti dei lichenoidi. Le cellule disgregate finirebbero per sparpagliarsi ancora di più, e rivestire comunque le pareti, fungendo da cibo per la prossima generazione. Per adesso questa roba non sembra causare nessun danno.

Voleva anche evitare, così facendo, di selezionare delle varietà capaci di resistere alla disgregazione. Adesso avevano un'arma. Sarebbe stato poco saggio sprecarla come avevano fatto gli uomini del ventesimo secolo con i migliori antibiotici e insetticidi.

— Perché non spazzi l'area intorno a ogni pannello fosforescente? — suggerì Saul. — Cosicché questo corridoio non diventi completamente buio e inutilizzabile?

— E le valvole degli sfiatatoi. — Lani annuì. — D'accordo, Saul. A quest'ora conosco alla perfezione l'esercizio.

Nell'aria sottile e gelida i motori del mech produssero un basso rombo raschiante. Mentre il trasportatore passava, Saul lanciò un'occhiata al freddo carico legato alla sua schiena… i corpi che avevano trovato ieri sul tardi e alle prime ore di oggi.

Uno dei corpi era una donna in tuta spaziale, ancora contorta, il corpo piegato ad arco, congelata, come se il freddo e il rigor mortis l'avessero sorpresa nel bel mezzo d'uno spasimo di agonia. Gli occhi fuori dalle orbite e la lingua tumida la sfiguravano rendendola quasi irriconoscibile, ma la Centrale l'aveva identificata come uno dei tecnici della sezione Energia e Propulsione, scomparsa ormai da tre giorni.

L'altro corpo era rivestito d'una semplice tuta isolante. Saul e Lani l'avevano trovato avvinto nell'abbraccio d'una forma di vita che Virginia aveva chiamato anemone di corridoio. Pezzetti di carne erano stati strappati via quando avevano cercato di districare il corpo e di rimorchiarlo via. Avevano dovuto riregolare l'irraggiatore e fare a pezzi la colonia degli organismi che continuavano ad agitarsi, per poter recuperare e insaccare i resti del poveretto.

Chi poteva spiegare perché mai un uomo fosse morto là fuori, così lontano dalla Centrale e tutto solo? Fino a quando non avessero effettuato un'analisi dei tessuti, nessuno avrebbe neppure saputo chi era stato quell'irriconoscibile guazzabuglio di carne.

Era un inquietante schema di eventi. Altri gruppi avevano trovato uomini e donne morti nelle gallerie periferiche. Pareva ne morissero di più quand'erano soli, durante le ore fuori servizio, di quanti ne perivano nel corso delle battaglie nei corridoi.

In un primo momento avevo pensato che fosse un po' come quando un animale ferito si trascina talvolta lontano dal branco, alla ricerca di un buco dove morire. Mi ero chiesto se la gente malata e febbricitante non facesse altro che strisciare via per rimanere sola.

Ma non è affatto così.

Sfoderò il coltello e cominciò a scrostare una specie di muffa vicino alla scritta in codice che dava un nome all'incrocio. La poltiglia nascondeva qualcos'altro.

Della roba verde galleggiò via dalla sua lama vibrante, ed eccolo là… un cerchio con una freccia che schizzava fuori in alto a destra: il simbolo della mascolinità, con un fiore stilizzato all'interno.

Era il terzo tipo di graffito che trovavano. In quel quadrante il più comune era stato l'Arco del Sole Vivente: il simbolo degli ortho radicali dei paesi della fascia equatoriale. Ma ce n'erano stati altri, compreso il cartiglio con la P e il simbolo dell'infinito…

… il Sigillo di Simon Percell.

— Ho finito con quella galleria — annunciò Lani. — È un bene che abbiamo controllato. Il regolatore automatico della pressione era incastrato. Avrebbe potuto causare dei problemi.

— Che ne pensi di questo? — Saul chiese a Lani, indicandole il simbolo del cerchio e della freccia che aveva messo allo scoperto.

Vi fu un lungo silenzio. Il volto di Lani appariva pallido sotto i fari del casco.

— Ogni possibile varietà di svitato è stata mandata su con questa missione, Saul. Perfino noi spaziali abbiamo i nostri, immagino. Quello è il segno della Via Marziana.

Saul annuì. Il suo sospetto stava diventando sempre più concreto.

— I segni del clan. La gente ha preso davvero l'abitudine a vivere qua fuori. Sulle prime non volevo crederci.

Lani gli spiegò: — Ha preso voga quando la gente ha cominciato ad avere un po' meno paura dei purpurei. Quei tizi che abbiamo incontrato giù al livello K… dal Madagascar e dalle Figi… fanno il loro lavoro alla Centrale, ma hanno terrore dei percell. Si rifiutano di dormire nella stessa stanza con loro.

— Terrorizzati — ripeté Saul. Trovava stupefacente che uomini e donne si comportassero in quel modo. Se n'era sempre stupito durante tutta la sua vita.

Non era colpa dei percell, se apparivano più resistenti alle malattie della cometa, rispetto agli umani non modificati… o per lo meno mostravano minori segni superficiali di malattia. Ma questo non fermava quel mito irrazionale.

Durante il Medioevo la stessa cosa era successa agli ebrei d'Europa. Poiché uccidevano i ratti al vederli e si lavavano le mani, avevano avuto la tendenza a soffrir meno degli effetti della peste. Alla fine, però, le loro abitudini igieniche avevano fatto poca differenza. Un numero più che sufficiente era morto per mano della plebaglia infuriata, riequilibrando abbondantemente la percentuale.

Mai sottovalutare il potenziale della stupidità umana. Pareva che un numero sempre crescente di membri della spedizione dormissero nelle loro tute spaziali, nelle gallerie esterne. E talvolta là fuori la malattia li sorprendeva costringendoli a morire in maniera orribile, e soli.

— Ho chiesto alla gente nei territori delle diverse fazioni di riferire se qualcuno manca all'appello. Non so a cosa servirà.

Territori delle fazioni rifletté Saul. — Tutti parlano ancora con te, non è vero, Lani?

La donna si voltò a guardare Saul, forse con una punta di nervosismo.

— Be', immagino che nessuno si senta minacciato da me. Sono un tipo piuttosto innocuo. La gente tende a raccontarmi le cose.

Saul sorrise. Quella ragazza amerasiatica era più profonda di quanto immaginava, e forse non se n'era mai resa conto.

— No. È soltanto una parte della questione. Tu sei una specie di ponte, Lani, una ortho, ma un'ortho a cui piacciono i percell. Una… come si dice?

— Una percefila, Saul.

La sua risata suonò secca e nervosa. Saul annuì. — Tu sei la sola di noi sopravvissuti al Primo Turno di cui la maggior parte dei risvegliati sembra fidarsi.

— Soprattutto perché sanno che io mi limitavo a borbottare. Non ho avuto niente a che fare nel decidere chi dovesse venir scongelato. È per questo che incolpano il povero Carl di…

Scosse la testa.

— Comunque su questo ti sbagli, Saul. In questo momento la gente è arrabbiata, ma se dovessero scegliere tre persone indispensabili fra tutti i membri della spedizione, si tratterebbe senz'altro di te, Carl e Virginia.

Saul scoppiò a ridere. Che dolce bambina! Gli ricordava ciò che avrebbe potuto essere la piccola Rachel, se fosse cresciuta. Ma con dei grandi occhi a mandorla.

Fu quasi sul punto di chiederle come stessero andando le cose con Carl. Correva voce che talvolta stessero insieme… anche se ovviamente a un livello meno impegnato di quello che Lani avrebbe preferito. Peccato. Sarebbe stato bello vedere qualcosa in marcia fra loro, non fosse altro perché avrebbe potuto alleviare la caparbia rabbia di Carl nei confronti di Virginia.

Saul decise di non tirar fuori l'argomento. Probabilmente finirei per prendere una spaventevole cantonata.

— Ehi, oh — esclamò, sollevando il suo irraggiatore portatile con cautela, per compensare l'inerzia. — Rimettiamoci al lavoro, ragazza.

Lani sorrise e rimise in moto il mech. Il mech li precedette mentre avanzavano per un lungo tratto di galleria, osservando con circospezione le vicine pareti tinte di verde.

Su, al livello A, la cavità che avrebbe dovuto essere la fabbrica dei lanciatori si spalancava come una tomba antidiluviana. L'estremità di poppa della chiatta a vela Delsemme giaceva al suo centro, in mezzo a un disordine di casse ancora intatte e a macchinari d'ogni genere. Filamenti colorati decoravano i fianchi del vascello da carico, offuscandone il profilo. La caverna dava l'impressione di essere stata abbandonata da anni. Era difficile immaginarla ronzante di luci sfavillanti e di attività, come avrebbe dovuto essere se mai volevano far ritorno a casa.

L'amico di Carl, Jeffers… ha avuto troppo da fare per venire a dare un'occhiata a questo. Mi chiedo se non sarebbe una gentilezza fare a meno di dirglielo.

— Diamo a questo posto una bella spazzata sulle frequenze tre, cinque e dieci — disse a Lani. — Poi ci affretteremo a fare quell'inventario che Betty ci ha chiesto.

— D'accordo, Saul. — Il mech di Lani si mosse sotto il suo misurato controllo. Ben presto ad una serie di minuscoli clic si accompagnò l'innalzarsi di nubi da ogni parte della cavità quando gli algoidi hallivirens esplosero a causa della disgregazione indotta dalle microonde.

Saul rifletté, se soltanto curare le malattie fosse così semplice… Tirò fuori una penna ottica e cominciò a controllare le casse, lasciando che il suo computer portatile facesse l'inventario del contenuto della caverna.

— Saul — bisbigliò Lani. Lui si girò, interrompendo la sua raccolta di campioni, e vide che Lani era all'estremità opposta della cavità. Gli indicava uno dei corridoi laterali, verso il basso. Quando arrivò dove lei si trovava, la sua prima reazione fu di un fulmineo afflusso di adrenalina, come se fosse sul punto di combattere. Giacché lì c'era un'increspatura rivelatrice che si contorceva rivelando dei purpurei intenti a pascolare sul foglio fibra ricoperto di poltiglia.

Poi vide qualcos'altro. Centro metri più sotto, o giù di lì, vicino a una delle lampade luminescenti, galleggiava una figura indistinta.

— Un altro morto?

Lani scosse la testa.

— No. Credo… credo sia Ingersoll!

Saul maledisse l'annebbiamento che gli causavano gli antistaminici. Aguzzò lo sguardo verso il fondo della galleria. Quella vaga figura si stava muovendo.

Ingersoll. A quest'ora tutti avevano fatalisticamente supposto che fosse morto. Dapprima pensò che il folle spaziale scomparso indossasse una tuta spaziale verde, tinta in quel modo per armonizzarsi con i corridoi ricoperti di vegetazione. Ma poi…

— Cosa diavolo? — Stupefatto, si rese conto che la figura non indossava vestiti.

— Si è ricoperto di poltiglia verde secca! Cos'è che sta staccando dalle pareti, Saul? Cos'è che sta facendo?

Fortunatamente i caschi delle loro tute trattenevano il suono delle loro voci. Saul cercò di planare più vicino in silenzio, con un goffo sbuffare di gas dai suoi getti. — Credo…

Ingersoll doveva aver sentito qualcosa nell'aria sottile. Si girò di scatto e Saul vide che soltanto il suo viso non era rivestito da uno spesso strato di verde vegetazione vivente. L'uomo gridò con gli occhi velati della follia. Saul riuscì a distinguere poche parole qua e là:

— … perfetto! Dolce, dolce, dolce e caldo!… Lo saprete, saprete, no, no, no…

Era difficile prestare molta attenzione alle parole vedendo ciò che penzolava fuori gocciolando dalla bocca di Ingersoll… una sanguinolenta massa purpurea.

Poi, con un'improvvisa rotazione su se stesso e una scalciata, Ingersoll si allontanò a tutta velocità. Lani e Saul riuscirono soltanto a seguirlo con lo sguardo, per parecchi istanti troppo storditi per pensare di dargli la caccia.

Finalmente Lani ruppe il silenzio.

— Uuh — fece. Saul la vide rabbrividire perfino attraverso lo spessore della tuta che indossava.

Annuì.

— Be', è una sorte che mi verrà risparmiata. Se toccasse a me, con tutta probabilità mi mostrerei allergico a quella roba.

Toccò il braccio di Lani e le strizzò l'occhio. Alla fine la donna sorrise.

Poi Saul starnutì.

— Questi dannati antistaminici stanno esaurendo di nuovo il loro effetto. Su, Lani. Mettiamo i contrassegni a questo corridoio e torniamocene a casa.

Con un'ultima occhiata alle proprie spalle verso il corridoio ricoperto dai purpurei, si voltarono e ripresero la via del ritorno, soli, con i propri separati pensieri.

Un'ora più tardi avevano descritto un'altra giravolta e si stavano avvicinando alla Centrale e all'area peggiore. Il Confine, cioè, là dove il calore, l'aria e l'umidità delle abitazioni umane eccitavano più di ogni altra cosa le forme di vita cometarie. Lani stava sintonizzando di nuovo il disgregatore sulle frequenze micidiali per i purpurei, nel caso in cui avessero dovuto aprirsi la strada combattendo. Saul, però, si sentiva di nuovo su di corda, sapeva che al di là della Terra di Nessuno c'erano calore e cibo, e una persona tutta speciale che stava aspettando proprio lui.

I suoi pensieri erano una mescolanza di forme. L'immagine francamente sessuale di uno dei capezzoli di Virginia, surriscaldato dalla sua mano e rigidamente eretto. Il morbido alito di lei sui suoi orecchi e il tocco tentacolare elettronicamente amplificato delle emozioni incanalate e collegate direttamente alle sue…

Eppure la sua mente continuava a fissarsi su quelle piccole cellule che si moltiplicavano a profusione, crescendo in orde screziate dei più vari colori, formando macroorganismi cooperanti là dove nessuno dotato anche di un briciolo di buon senso si sarebbe aspettato che esistessero, per non parlare della possibilità che potessero prosperare.

Quelle immagini avevano un tocco in comune. Una sinfonia di chimica autoreplicante… l'eccitazione sessuale di una giovane donna, le sue più intime correnti d'amore, la marea montante della vita cometaria, che si levava per incontrare le onde di calore emananti da una sorgente che si manifestava soltanto ogni settantasei anni…

Solo indirettamente, senza cattiveria, quelle forme native seminavano la rovina fra i visitatori, uccidendoli e scatenando di rimando la rappresaglia. Saul avrebbe potuto anche sentirsi colpevole per aver inventato delle armi per quella guerra. Ma qui il senso di colpa non era pertinente. Niente di ciò che facciamo qui riporterà indietro la vita della cometa. Siamo come l'estate, e anche noi passeremo.

Il diffusore sopra l'orecchio destro di Saul crepitò.

— Lintz, sono Osborn. Siete svegli là sopra?

Saul annuì. — Sì, Carl. Cosa c'è?

— C'è stato uno sviluppo, Saul. Puoi venire al Pozzo 4, livello K? Io… Potremmo aver bisogno del tuo aiuto.

— Oh? Cos'è successo?

Ci fu una pausa.

— Vorrei parlare con te privatamente, se possibile.

— Perché mai? — Saul corrugò la fronte. — È qualcosa che non puoi dire su un canale codificato?

Vi fu un'altra pausa.

— No, non esattamente. Ma… già, credo di sapere dove si trova la chiatta-colombario mancante. Sono sicurissimo di sapere quello che è successo alla Newburn.

Adesso toccò a Saul restarsene silenzioso, ammiccando più volte.

— Stiamo arrivando, Carl. Passo e chiudo.

VIRGINIA

— JonVon — disse Virginia, meditabonda, — riesco a percepire quello che stai facendo.

ALTAMENTE IMPROBABILE.

— No, sul serio. C'è un pizzicore, un prurito.

IL PROCEDIMENTO DI SCANSIONE A RISONANZA MAGNETICA NUCLEARE NON FA MUOVERE NIENTE. NON TOCCA NEPPURE LA TUA PELLE.

— Lo percepisco.

CI SONO ASSAI POCHI RECETTORI SENSORIALI ALL'INTERNO DEL CRANIO.

— Insomma, qualcosa si sta muovendo. Come dita che ballino sopra il mio cuoio capelluto, soltanto, più in profondità… — la sensazione era conturbante, come viticci che tracciassero un ricamo attraverso la sua testa. Si mosse a disagio sul giaciglio a rete. Soltanto un sottile ronzio proveniva dai banchi che la circondavano.

IL CAMPO MAGNETICO, FORSE.

— Gli esseri umani possono percepire i campi magnetici?

QUELLI INTENSI, SÌ. STO IMPIEGANDO 7,6 KILOGAUSS NELLA ZONA STUDIATA. LO SCARTO DALL'UNIFORMITÀ È MENO DI UN CENTESIMO DELL'UNO PER CENTO.

Proprio da quel programma pedante che era, e lei avrebbe dovuto saperlo, dal momento che era stata proprio lei a scriverlo… aggiungere un particolare irrilevante.

O forse non era irrilevante? L'agitarsi degli infinitesimali elettroni che roteavano dentro il suo cranio richiedeva una regolazione fine di un ordine insolito perfino nella ricerca applicata. Soffocò la tentazione di far scivolare lo sguardo di lato per vedere i poli del grande magnete a superconduttori. Perfino quel minuscolo movimento avrebbe suscitato dei tremori indesiderati nella sua testa.

STO ACCEDENDO ALL'ULTIMISSIMO DATA BASE SULLA RISONANZA MAGNETICA NUCLEARE UMANA. INDAGHERÒ SUI POSSIBILI EFFETTI NON PREVISTI.

— Fallo. Mi prude dentro la testa.

RICERCANDO E INTEGRANDO ADESSO.

— Saul ha parlato di qualche effetto?

HA FORNITO SISTEMI DI COMANDO AUTOMATICI DI SICUREZZA QUANDO HA PORTATO QUESTA UNITÀ RMN GIÙ DAL CENTRO MEDICO, MA HA DICHIARATO CHE L'USO ERA INNOCUO TENENDOSI DENTRO LA PORTATA OPERATIVA INDICATA.

— Uhmm. Forse avrei dovuto farlo sotto l'effetto di un sedativo.

SCIOCCHEZZE. NON VORREI DOVER INTRAPRENDERE QUESTO COMPITO DA SOLO.

Proprio come me pensò Virginia. L'ansia ama la compagnia.

È PROPRIO VERO.

Adesso non c'era più praticamente nessuna differenza fra il modo in cui JonVon afferrava i suoi pensieri superficiali e le sue espressioni orali, siccome JonVon li leggeva entrambi direttamente tramite i connettori neurali. Tuttavia le lo percepiva in maniera diversa. La sua mente elaborava le parole in maniera sottilmente differente. I centri di elaborazione preorali nel suo cervello davano una differente andatura alle frasi, immettendo le parole «avanti» con la cadenza inconscia che costituiva il suo stile verbale. Quando pensava, senza neppure l'inconscio desiderio di parlare, spesso non c'erano neppure le parole. Una rapida, quasi olografica percezione dell'idea le balenava nella mente. Si chiese se JonVon sapeva distinguere la differenza.

NATURALMENTE.

— Naturalmente — disse/pensò mesta.

NON INDIVIDUO QUESTO PIZZICORE DI CUI PARLI, ANCHE SE NATURALMENTE NE POSSO PERCEPIRE UN'ECO NEGLI SCHEMI D'ONDA DEL TUO ASSETTO GENERALE, ADESSO CHE SO COSA DEVO CERCARE.

Le parole di JonVon le arrivavano in due scaglioni distinti: il lampo del loro significato generico, seguito un istante più tardi da una frase disposta in bell'ordine. Quello era il suo centro verbale che funzionava alla rovescia, recependo una serie di rapidi, fugaci input da JonVon, per poi plasmarli in frasi compite e lineari.

— Che razza di opera d'arte siamo! — osservò.

SHAKESPEARE?

— Preso vagamente a prestito da lui, sì.

PREMATURAMENTE LACERATA.

Si dimenticava continuamente della rapidità con cui JonVon era in grado di trovare ed esaminare un vastissimo bagaglio letterario. — Dovrò insistere con le tue lezioni di poesia. Dimostri una certa attitudine.

TU MI HAI FATTO… Virginia notò sorpresa che c'era un'autentica esitazione in quella trasmissione. Non faceva parte della simulazione, ma era una vera incertezza… PERCEPIRE IL SIGNIFICATO AMBIGUO DI SIMILI STROFE. LA VIRTÙ DELL'INDEFINITO.

Immaginò che il programma fosse riluttante a utilizzare il termine sentire e avesse scelto percepire soltanto dopo una lunga ricerca per confronto, e una disputa interiore. Le macchine non condividevano la casualità confusa dei sensi e dei pensieri umani, dal momento che i canali dei loro input erano enormemente diversi, JonVon, però, poteva trarre in inganno i profani facendo loro credere di essere una persona vera, usando le parole nella usuale maniera evasiva degli esseri umani. Di solito la gente diceva io sento per io penso, mentre invece le macchine, di solito, mantenevano delle pareti stagne fra i due significati.

Ed era anche questa una delle ragioni per cui stava facendo tutto ciò. Gettate un sasso a una donna, e lei potrà rapidamente digerire tutte le informazioni che arrivano dai canali sensoriali, elaborarle sotto forma di vettori intuitivi, velocità e angoli, per poi precipitarsi avanti, di lato, trovando soluzioni approssimative, tutto per scoprire da quale parte dovrà lanciarsi per schivarlo.

Le macchine basate sul silicio potevano farlo ugualmente, ma in maniera molto diversa. Preferivano (intendendo che gli umani erano di gran lunga migliori nel programmarli) assumerlo come un problema di meccanica, stabilendo le condizioni iniziali in maniera del tutto chiara e pulita, per poi integrare le equazioni del movimento in avanti per vedere l'esatto risultato. Bene. Soltanto che a questo punto sei morta.

CHIARAMENTE UNO SVANTAGGIO.

— Un'altra battuta umoristica. Adesso le stai facendo più spesso.

NON HAI RISO.

— È ironia quella che hai usato, non ah, ah, ah…

OH, VEDO SOLO VAGAMENTE LA DIFFERENZA.

Virginia sospettava che JonVon usasse l'espressione vedere vagamente soltanto come consuetudine verbale. Non aveva ancora una vera capacità di metafora nel linguaggio. — Oh, ogni forma di umorismo è basata su due elementi: il ridicolo e l'incongruenza. L'ironia ha… — Si accigliò.

SÌ?

— Ci sono certe cose…

CHE L'UOMO NON DEVE CONOSCERE?

— Niente da fare, hai sbagliato cliché. Ci sono certi argomenti che vanno al di là di qualunque spiegazione.

UN INDOVINELLO AVVOLTO IN UN ENIGMA?

— Ragazzi, oggi hai l'accesso rapido. Puoi farlo e monitorare allo stesso tempo questo esperimento?

SICURISSIMAMENTE.

Virginia non riusciva a ricordare di aver inserito quella cadenza compiaciuta in quella particolare simulazione. Stava mimando Saul? Negli ultimi tempi JonVon era stato parecchio in contatto con il suo amante. E lei non avrebbe mai dovuto dimenticare che JonVon, come costrutto bio-organico, stava a metà strada fra un essere umano e i computer al silicio, nel modo in cui elaborava le informazioni. Ciò conduceva a capacità inaspettate.

— Puoi fermare il prurito?

L'input di JonVon si ruppe in due canali che lei avvertì come un pigro fiume di parole rugginose, con azzurri, sfreccianti commenti che scivolavano dentro e intorno ad essi:

MENTRE NOI «PARLAVAMO» NON LA PAROLA GIUSTA, LO SO,

HO SAGGIATO L'EFFETTO MA NON CE NE SONO ALTRE

E HO SCOPERTO CHE È DOVUTO

A CONCENTRAZIONI DI

DIPOLI MAGNETICI NUMERO MEDIO IO9

CHE SI URTANO LEGGERI

DOVE HAI ACCUMULATO

COMPLESSI SCATENANTI PROBABILMENTE

SATURI DI EMOZIONI. DALL'ADOLESCENZA

TEMO DI NON POTER

ELIMINARLI PERCHÉ IL LORO GRILLETTO PRIMARIO

SONO INTIMAMENTE ESTERNO SEMBRA SESSUALE

LEGATI ALLE TUE

REAZIONI MOTORIE L'IMMAGINE CHE EVOCHI IN

QUESTO MOMENTO È LA

CONTRAZIONE DEI MUSCOLI

DELLA COSCIA SUPERIORE

MENTRE ALLARGHI LE GAMBE

PER…

— Basta! Non voglio riascoltare da te la mia vita sessuale!

L'HAI CHIESTO TU.

— Davvero?

MI SPIACE.

La sua testa era stretta dentro compatta gommapiuma, il che si rivelò una saggia precauzione, altrimenti sarebbe trasalita per l'imbarazzo.

— Quanto hai… — Be', naturalmente, tutte le volte che sono stata con Saul.

STAI MOSTRANDO RITMI D'IMBARAZZO. MI SPIACE.

— Oh, non è colpa tua.

POSSO ABORTIRE L'ESPERIMENTO.

— No! Ne ho bisogno per i mech.

ADESSO STO RICEVENDO DELLE PREZIOSE SUB-ROUTINE.

Virginia suppose che quell'ultima frase intendesse essere rassicurante. Il programma aveva una sua misteriosa maniera di rispondere alle sue apprensioni. Comunque… — Giusto per curiosità, cosa c'entra la mia capacità motoria per la manipolazione degli utensili? È per questo, no, che stiamo frugando dentro i miei lobi mediani… Cosa c'entra questo con il mio allargare le cosce?

HAI ASSOCIATO QUESTE AZIONI NELLA TUA AUTO-PROGRAMMAZIONE.

— Auto-programmazione?

APPRESO-VIVENDO.

— Oh, vuoi dire l'esperienza.

IL MIGLIOR INSEGNANTE, SECONDO UN VECCHIO DETTO.

— Forse. Ma per alcune cose mi sento più sicura se le attingo da un libro.

SÌ.

C'era forse un accenno di riluttanza? — Puoi assegnare una data alla formazione di quei complessi?

UN ANNO, NO. L'EPOCA DELLE ASSOCIAZIONI È VAGA. COMUNQUE, SEI DISTESA SU QUALCOSA DI GRANULOSO E FREDDO. C'È UN SUONO. ONDE D'ACQUA, VALUTO. SOPRA DI TE C'È UN VISO E UN PULSARE NELLA PARTE BASSA DEL TUO ADDOME.

Sì, quella calda serata hawaiana di primavera, fragrante di promesse. Un film e un ballo e via sulla spiaggia per un'amichevole sbaciucchiata. Soltanto che quei caldi baci e quelle mani carezzevoli e gentilmente curiose non si erano fermate là. Qualcosa di potente l'aveva afferrata in una maniera che non avrebbe mai immaginato, non aveva importanza quante migliaia di volte ci aveva già pensato, cercando d'immaginarlo visivamente, e poi lo stavano davvero, incredibilmente, facendo. E piuttosto che una fiammeggiante ma esaltante sensazione, un delirio cosmico, un'unione mistica, come aveva immaginato nei suoi sogni, era stato crudo, brutale, scomodo, doloroso, e alla fine deprimente.

CALZONCINI CORTI
NELL'INCANTO ASSORTI

— Non basta una rima perché sia poesia.

È VERO.

— È, comunque, tu cosa ne sai? — E proprio mentre queste parole si formavano, pensò: Insomma, a dire il vero, Jon-Von sa esattamente quello che fai. O lo saprà, quando avrà finito di tracciare la mappa dei tuoi lobi, si sarà sprofondato dentro il tuo cervello primordiale, avrà sondato il nucleo da rettile che hai dentro. Un pensiero che la fece meditare.

JonVon scelse di non rispondere. Tatto? Oppure lei stava mostrando il solito pregiudizio compiaciuto del programmatore, che attribuiva caratteristiche umane alle reazioni della macchina?

Quel fresco e delicato prurito continuò. Virginia si rilassò, lasciando che la sua mente planasse lontana da quel rosso turbine di emozioni che il ricordo aveva evocato.

Sapeva che i ricordi alloggiavano vicini ai punti dov'erano immagazzinate le associazioni fisiche, cosicché il corpo guidava la mente nell'incameramento dei dati. L'odore di qualcosa di fresco e arido poteva evocare un lontano pomeriggio polveroso dell'infanzia. Ma ciò la indusse ad interrogarsi sull'esperimento radicale che adesso stava tentando.

I mech avevano bisogno di essere supervisionati. Speciali programmi di elaborazione controllavano le ingegnose braccia waldo, ma non erano intelligenti. JonVon era abbastanza «intelligente» ma non poteva aiutare un mech a girare un cacciavite o a bilanciare una spugna ad aspirazione. Da quella macchina stocastica che era, l'avevano progettato per trattare con l'incerto. Non s'interfacciava bene con la visione del mondo riduttiva, ristretta alla soluzione di equazioni, dei mech. E JonVon era privo delle intricate capacità motorie che l'evoluzione e l'esercizio avevano dato agli umani.

Così lei aveva deciso di tentare uno dei suoi sogni esoterici, a bassa probabilità: lasciare che JonVon leggesse le sue capacità. I suoi riflessi erano egualmente stocastici e olografici. Lui li avrebbe senz'altro capiti.

La tecnologia era disponibile, se si sapeva dove cercarla. Il cervello immagazzinava i ricordi secondo l'orientamento degli elettroni, nel profondo delle cellule e delle sinapsi. In teoria era possibile leggere le direzioni verso cui puntavano questi elettroni. Tutto quello sciame di spin immagazzinava informazioni. Le complicate rotazioni e trazioni necessarie per ruotare un polso, per puntare un dito… Virginia disponeva già di buoni programmi che traducevano i movimenti umani nei movimenti dei mech. Se JonVon avesse potuto immagazzinare le sue stesse capacità motorie, avrebbe potuto prendere, per così dire, in mano buona parte della direzione dei mech. Questo sarebbe stato un grosso aiuto. Carl e gli altri spaziali avevano brontolato interminabilmente perché dedicasse più tempo ai mech, e lei cominciava ad essere stufa.

Quella era una via di uscita. Forse.

Comunque avrebbe dovuto sviluppare lo stesso quella tecnologia, presto o tardi. Anche con la spazzatrice a microonde di Saul, la situazione rimaneva difficile. La Oakes e Lopez attribuivano ancora la massima priorità alla direzione dei mech.

Se continuavano a perdere gente, nell'arco dei settant'anni sarebbe stato necessario che i mech fossero assai più indipendenti di quanto la spedizione aveva progettato. E ad un certo punto anche lei avrebbe dovuto venir colombarizzata, così doveva almeno cominciare a mettere a punto, nel minor tempo possibile, un miglior sistema di programmazione.

LA LETTURA È PROSSIMA AL COMPLETAMENTO.

Virginia trasmise un'espressione di eccitato sollievo: lampi di luce oro brunito che saettavano attraverso un cielo di velluto.

HO REGISTRATO IL LUOGO DEL GRILLETTO. POTREI EVOCARE COME RICHIAMO VOLONTARIO L'INCIDENTE DELLA TUA INFANZIA. PER TUO DIVERTIMENTO.

— Non ero una bambina, secchio di bulloni che non sei altro.

LE ASSOCIAZIONI…

— E non penso neppure che sia «divertente». Quel ragazzo grande e grosso… — Ricordò con un improvviso sussulto l'ansimante voce raschiante di un maschio che borbottava Eli a hohonu keia lua. I suoi colpi duri come quelli di un ariete le avevano scolpito quelle parole come un maglio nella memoria: Questo buco me lo scavo in profondità. Rabbrividì.

ADESSO PUOI MUOVERTI. LETTURA COMPLETATA.

— Grazie.

NON IL MIGLIORE DEGLI INIZI.

Sapeva che JonVon non intendeva la lettura. — No, non lo è stato. Oh, è stato gentile quel che basta, immagino. Mi piaceva abbastanza da essere uscita con lui parecchie volte prima che succedesse, dopotutto. Ma mai più… dopo quella volta.

E DA ALLORA?

— Ho avuto la mia dose. Un ingegnere all'università… no, chi sto prendendo in giro? Non molti. Niente affatto molti.

UNA CONGRUENZA È DIFFICILE.

— Non è una congruenza matematica, sai, JonVon. La gente non cerca qualcuno che sia esattamente uguale a sé medesimo. Quasi il contrario, in realtà.

SEI GIOVANE. CERCHI L'ETÀ?

Il volto segnato dal deserto di Saul le balzò nella mente, sorridente in quell'adorabile maniera distratta, e per un attimo non fu sicura se era stata lei a ricordarla, oppure… sì… — JonVon, sei stato tu a mettermelo in testa.

PAREVA NECESSARIO.

— Sono io quella che deve giudicare. Per lo meno lasciami gestire le mie fantasie!

NATURALMENTE.

Ma la rapida visione di quel sorriso sbilenco sotto quegli occhi scuri, di rado gioiosi, l'aveva davvero colpita. Pareva fosse passato un secolo da quando l'aveva visto l'ultima volta, da quando si era rifugiata fra quelle forti braccia che la rinserravano, da quando aveva inspirato quel suo inebriante odore di muschio, da quando aveva parlato…

— JonVon, chiamamelo.

CREDO CHE ABBIA UN APPUNTAMENTO CON CARL OSBORN. UNO DEI MECH AI MIEI ORDINI È STATO TESTIMONE DEL SUO PASSAGGIO 1.34 MINUTI FA.

— Maledizione. Sento la sua mancanza. — Si strappò dalla testa l'imbottitura di gommapiuma e fissò con una smorfia quegli imponenti banchi di strumenti: affusolati pick-up a risonanza nucleare, invadenti poli magnetici a forma di frittella, file di digitatori.

— Questa crisi senza fine mi ha esaurita.

HAI BISOGNO DI RICREAZIONI.

— Ci puoi scommettere.

Un'immagine balzò dentro la sua mente: così plastica, così scandalosa, morbidi arti intrecciati, e di più. Virginia avrebbe voltato la testa dall'altra parte se mai l'avesse esibita in compagnia mista… eppure la trovò sensualmente allettante, capace di farle accelerare il polso, come se fosse calcolata su misura per scardinare i suoi speciali recessi privati.

— JonVon!

SOLO UN ESPERIMENTO.

Quelle scene così vivide sparirono, lasciando l'alone azzurro dell'immagine postuma.

— Come facevi a… saperlo?

HO LETTO MOLTO.

Suppose che fosse una battuta.

CARL

— Da questa parte! — urlò Carl.

La figura di Saul si girò all'estremità opposta della Galleria K e agitò una mano in segno di saluto. Quindi scalciò energicamente e planò per un centinaio di metri, passando attraverso pozze di luminosità fosforescente color avorio.

— Dannatamente freddo — fu il commento di Saul mentre agitava le braccia come un mulino a vento per ruotare su se stesso e portare avanti i piedi. Atterrò ammortizzando l'urto sulle ginocchia.

Sta migliorando rifletté Carl. Tutti dovranno imparare a sudare d'ora in avanti. — Adesso manteniamo il freddo perfino nelle gallerie centrali. Se fosse per me le svuoterei del tutto.

— Ridurrebbe enormemente le nostre capacità di manovra.

— Ma ridurrebbe anche i purpurei.

— Io uso le gallerie interne una volta all'ora o giù di lì. Se dovessi mettermi la tuta spaziale tutte le volte…

— Lo raccomanderò ugualmente.

— Bethany Oakes ha già deciso…

— Sì, lo so. — Tutte le volte che metti Lintz, a confronto con un problema, comincia a citare le decisioni prese dagli alti papaveri.

Saul parve riflettere. — Mentre tornavamo qui, Lani ed io abbiamo visto Ingersoll in fondo a uno dei passaggi laterali, vicino al livello A. Mangia le forme native, credo. Straordinario. Pare innocuo, anche se matto.

Casi avvertì una stilettata d'irritazione al solo sentir parlare di Ingersoll. Le cose vanno talmente male che non riusciamo neppure a catturare un pazzo. Ma mantenne la sua voce su un tono naturale. La diplomazia veniva per prima. — Sì, è matto. Ma matto come una volpe.

Scosse la testa, e decise di andare dritto al punto.

— lo… senti, ho intenzione di proporre a Bethany Oakes di andare a recuperare la Newburn.

— Sì? L'hai davvero localizzata?

— Proprio cosi. È stata un'idea di Lani, a dire il vero, guardando quella simulazione numerica che Virginia ha fatto qualche tempo fa.

— Quella che mostrava come la vela solare delia Newburn avrebbe potuto essere stata lacerata dalla coda di plasma di Halley?

— Già. Ho calcolalo che le altre chiatte sono state soltanto fortunate a non essere state colpite. È probabile che le correnti indotte dalla coda incrociata abbiano fatto anche saltare i fari di posizione della Newburn. Senza quella vela spiegata non c'era speranza di trovare la Newburn. Cosi Lani ha detto che forse potevamo tentare di trasmettere delle microonde su un raggio ristretto e ascoltare un'eventuale eco. Ho usato un po' delle mie ore di sonno e ho fatto proprio questo: centro! Ho ricevuto un segnale in risposta dopo aver cercato per una settimana.

— Meraviglioso… è così semplice?

La sorpresa di Saul era appagante. Per lo meno, non è stato lui a pensarci per primo. — Avremo bisogno di quei quaranta dormienti, alla velocità con cui stiamo perdendo la gente.

Saul annuì, pensoso. — Giusto. Il problema della manodopera peggiorerà.

— Dobbiamo farlo il più presto possibile. La Newburn è andata alla deriva molto lontano da noi, sono già più di due milioni di clic.

— Sono d'accordo. Ma ancora non capisco. Perché farmi venire fin qui per dirmelo?

— Voglio ottenere degli appoggi prima di annunciarlo al Comitato. Non sono bravo quando si tratta di discutere con Bethany Oakes.

— E io sì?

— Proprio così. Inoltre, voglio che tu venga con noi come medico.

Saul s'illuminò tutto. — Ben pensato. Quei colombari potrebbero aver sofferto dei danni.

— Sarebbe un buon incentivo per il morale.

— Proprio quello che ci serve. Sono sicuro che riuscirò a far capire a Betty i vantaggi della cosa, adesso che i purpurei sono sotto controllo. Ma la Edmund è in grado di volare subito?

— Jeffers dice che i suoi mech cerca-trizio ne hanno già filtrato abbastanza da riempire per un quarto i serbatoi per i tragitti brevi, e questo soltanto come sottoprodotto dello scavo delle gallerie. È in grado di arrivare alla quantità di combustibile che ci serve nel giro di una settimana.

— Bene! Hai pensato a tutto.

Dovrebbe forse essere un complimento? Caspita, grazie, dottor Lintz. Noi borbottanti cerchiamo di usare un po' di cervello di tanto in tanto, davvero. — Vediamo. — Saul si sfregò il mento. — Ci vorrà quasi un mese per arrivarci. Ciò significa che dovremo portare con noi dei moduli idroponici, e…

Carl aveva già previsto le cose fondamentali, ma aveva anche imparato che era una buona idea lasciare che gli scienziati parlassero per un po' prima di passare alla parte davvero difficile… le decisioni. Forse era questo a tenerli lontani dalle cariche ai livelli davvero alti. Se ve ne restavate seduti là mentre tenevano le loro piccole conferenze, di solito avevano la sensazione di aver detto la loro e non avrebbero sollevato un sacco di stupide obiezioni su ciò che era ovvio.

Saul si rannicchiò contro la parete con l'insicurezza innata dell'abitatore della terraferma, sempre un po' teso quando si trattava semplicemente di tenersi aggrappato a un appiglio sopra il quale i suoi sensi, non aveva importanza quanto bene li avesse addestrati per dominarli, gli dicevano che c'era una lunga caduta.

— Sicuro — disse Carl quando Saul si fu calmato un po'. — Il punto è, cosa dirà la Oakes?

— Avremo bisogno di un consenso per questo progetto, naturalmente, per il quale potrebbe benissimo essere necessario un po' di tempo.

— Consenso, col cavolo! Ogni giorno che aspettiamo la Newburn si allontanerà di più.

Saul si grattò la testa. — Be', qualcuno considererà la Newburn una questione secondaria.

Carl digrignò i denti. — Sono quaranta vite umane.

— È vero, ma perfino io potrei trovarmi costretto a farle passare in seconda linea. Il problema principale è comprendere le forme di vita di Halley. Se potessi finire in tempo gli esperimenti che ho in corso…

— Esperimenti? — Carl non riusciva a credere alle proprie orecchie. — Pensi che siano più importanti di quaranta esseri umani?

— Non ho detto questo, Carl! Ma non siamo ancora usciti dalla foresta. Ci sono tante malattie! Dobbiamo capire come funzioni l'ecologia cometaria quando aggiungiamo una nuova fonte di calore. È quello che avevamo previsto, naturalmente. Stavo parlando con la Terra al raggio ristretto, l'altro ieri, e Alexandrosov, il capo dell'Accademia Ucraina, ha una teoria. Anche con i minuti di ritardo nella conversazione, abbiamo riflettuto parecchio. Gli ho riferito le mie idee, quelle preliminari, naturalmente, e lui ha visto un'analogia…

— Ah, merda — disse Carl, aspro.

— Cosa? — Saul sbatté gli occhi.

— Stai parlando come se questo fosse il problema di qualche tesi, o qualcosa del genere.

— Tesi? — Saul sbatté di nuovo gli occhi. — Carl, ti assicuro, un evento di questa grandezza, con tante implicazioni, è ben più grande di un puro…

— Cacca, non intendo dire quanto grosso possa essere per i tuoi amici professori sulla Terra! Voglio dire che tu lo stai usando per contestare delle affermazioni!

Il volto di Saul storse, arrossì. — Ma è incredibile. Io… — Tu continui a fare test, a sfornare teorie, chiacchierando con i tuoi amici sulla Terra, e il resto di noi si sta facendo il culo per fermare quella roba.

— Non ho bisogno che tu…

— Suvvia!

— Sono sicuro di non sapere…

— La vita sulle comete! La scoperta del secolo! Saul Lintz, il Darwin interplanetario!

Saul s'irrigidì. — È ridicolo.

— Alcuni di noi hanno cominciato a chiederselo.

Saul lo guardò furioso. — Questo cosa vorrebbe dire?

— Non eri il Signor Popolare nel mondo scientifico quando ti sei arruolato per questa crociera, vero?

— Ero l'ultima persona vivente associata all'origine dei percell, se è di questo che parli.

— Esatto. — Carl provò un improvviso imbarazzo, ricordando chi e cosa rappresentava quell'uomo. Ma non riusciva a controllare il proprio risentimento. — L'Israele che conoscevi era stato spazzato via, la famiglia morta, la carriera finita… eri alle corde…

Saul parlò, scandendo le sillabe: — Allora nu?

— Così, sei partito. Perché non fare questo giro… saresti tornato indietro quando il tuo passato sarebbe stato vecchio, dimenticato, giusto?

Saul replicò, con sorprendente mansuetudine: — Non pensavo che sarei tornato, e non lo penso neanche adesso.

Carl approfittò di quella pausa, e ribatté: — Ma ecco che arriva la vita aliena, e poi la poltiglia verde, i purpurei: il filone d'oro! Sei famoso, per caso, a dire il vero. Chiunque avrebbe potuto analizzare quel ghiaccio e trovare i microbi. Ma capirlo… è questo il colpo grosso. È là che Saul Lintz lascerà il segno, mostrando che non è soltanto questione di fortuna. No, lui è uno scienziato di prima classe. E può lavorare su tutta quella roba nuova da solo. Studiarla a fondo. Sprizzarla sulla Terra quando gli pare e piace. Ogni biologo laggiù non aspetta altro che una particella di dati sulla prima forma di vita aliena, e la sola persona dalla quale può averla è, taratàaaa!, Saul Lintz!

Carl terminò sbuffando, il suo alito spruzzava nubi cotonose e nell'aria fredda. Saul lo fissò in silenzio, il suo volto era rugoso e superava abbondantemente la mezza età in quell'aspro bagliore fosforescente. Un lungo silenzio calò fra loro e Carl si calmò, cominciò a rincrescersi… ma era troppo tardi.

Saul toccò il sigillante incrostato. — Non è per questo che mi hai chiamato qua fuori. Mi hai chiesto di offrirmi volontario per il salvataggio della Newburn. Molto bene. Mi offro volontario. Non devo sorbirmi nessuna chazerei.

Si spinse via con un movimento goffo, dirigendosi di nuovo verso la Centrale. Mentre costeggiava il corridoio, sempre con lo sguardo rivolto a Carl, le sue parole risuonarono nel gelido silenzio: — In realtà si tratta di Virginia, vero?

E Carl sapeva che era così.

Entrò nel cilindro che fungeva da ricreatorio, gravato dal peso dell'amarezza e della fatica. La ruota gravitazionale era stata una delle ultime cose trasferite dalla Edmund. Era sempre deprimente passare dalla gravità quasi zero al campo gravitazionale centrifugo. E questo per parecchi ragioni. Perfino nella grande ruota c'erano le forze di Coriolis che controbilanciavano i riflessi, inducendo una leggera nausea dovuta al cambiamento di direzione. Dopo un giorno a gravità quasi zero dove la più piccola trazione era importante, non si poteva camminare senza sentire il disallineamento delle forze. La rotazione di Halley vi spingeva sempre verso sinistra.

Ma la cosa peggiore era anche la più semplice: eravate stati un'aquila, e adesso vi ritrovavate marmotta.

Così Carl non era di umore cordiale quando incontrò l'ortho. Il nome dell'uomo, Linbarger, era impresso sulla sua divisa.

— Non sederti là — disse, quando Carl prese posto su un sedile regolabile.

— Eh? Perché no?

— Ho un amico che sta per arrivare.

— C'è spazio in abbondanza.

— No, per qualcuno non ce n'è

Carl mise giù la sua bevanda. — Sei appena uscito dal loculo. Così, immagino che questo sia segno che le droghe non hanno ancora cessato il loro effetto.

Linbarger aveva tutti i sintomi del decolombarizzato recente. Era il sottile moncherino di un uomo, tutto pelle e ossa e niente carne. I loculi consumavano gradualmente tutto il grasso immagazzinato giacché il corpo funzionava sempre, anche se a un livello esponenzialmente ridotto. Ma Linbarger doveva essere stato magro già in partenza. La sua testa era lunga e stretta, appollaiata in cima a un collo da pollo con un nodoso pomo di Adamo. Il suo volto era tutto naso e zigomi. I grigi occhi acquosi erano incassati nelle viscere del cranio, la mascella era rotonda e dura.

— Il mio amico è stato appena decolombarizzato anche lui. E preferisco che nessuno di noi due si sieda vicino a un percell.

— Oh, davvero? — fece Carl, con finta preoccupazione.

— Perciò smamma.

Linbarger non è stato svegliato per il rendez-vous, perciò non si è mentalmente disabituato alle idee della Terra pensò Carl. Okay, glielo abbuonerò in parte. — Senti, qui le cose sono già abbastanza difficili senza che tu ti metta a fare il somaro.

Linbarger si alzò in piedi e strinse i pugni. — Non alitarmi addosso, percell, altrimenti io…

— Oh, è il mio alito cattivo? Scusa, non mi sono portato dietro nessun colluttorio dalla Terra.

— Sai cosa voglio dire, sono quei dannati germi che ti porti addosso.

Carl sbuffò deridendolo. — I microbi sono nel ghiaccio, non dentro di noi.

Il volto di Linbarger assunse un'espressione acida e cinica. — Sono tre giorni che sono uscito dal colombario e ho esaminato quanto è successo, e non potete ingannare me. La gente normale è morta in numero due volte maggiore di voi percell.

— E allora? — Carl aveva sentito qualcosa del genere da Virginia, ma nella confusione e durante le lunghe ore di queste due ultime settimane non aveva significato niente. Soltanto un'altra scheda di dati.

— Voi percell li state usando per impadronirvi della spedizione — Linbarger lo annunciò come se fosse un fatto noto. Le teste si girarono dagli altri tavoli. Carl osservò Lani Nguyen che si alzava in piedi, la preoccupazione le segnava profondamente il viso, e accennò a dirigersi verso di loro, ma un altro ortho la trattenne mettendole una mano sulla spalla.

— È questo che pensi?

— Tutti noi lo pensiamo, noi gente normale che siamo usciti dai colombari. Noi lo sappiamo. Non potete darci da bere che…

— Risparmiami — l'interruppe Carl, sollevando le mani. Non c'era nessun complotto del genere, chi diavolo avrebbe mai avuto il tempo di pensare ad una cosa del genere? Ma come avrebbe potuto convincere Linbarger?

Vide sull'altro lato della curva del cilindro il tenente-colonnello Ould-Harrad. Lo chiamò: — Sully!

Il nero si avvicinò, compensando la torsione di Coriolis con un passo disinvolto, drink in mano.

— Spero che tu possa appianare una situazione con questo tizio — disse Carl. — Va in giro a dire che siamo noi, i percell, che…

— Lo so — fece Ould-Harrad, brusco.

Carl annuì, sollevato. Ould-Harrad non era uscito da molto dal suo loculo. Era stato chiamato in servizio quando il maggiore Lopez si era ammalato nel giro di poche ore ed era stato colombarizzato. Ould-Harrad non lavorava tutto il giorno nelle gallerie; aveva avuto il tempo di tenere sotto controllo quella merda politica. Carl poteva affidare a lui tutta la faccenda.

Ma poi Ould-Harrad parve a disagio, il suo largo viso si concentrava su un argomento spiacevole abbassando le folte ciglia e tirando su l'ampia bocca in un'espressione di preoccupazione e disagio.

— Credo che voi dovreste prestare attenzione a quello che dice Linbarger. Mette l'accento su difficoltà concrete.

— Ma le distorce, le fa…

— La forma importa poco. Considera le implicazioni.

Carl lo fissò stupefatto: — Quali… quali implicazioni?

— Abbiamo bisogno di una maggior protezione contro le malattie.

Carl replicò: — Be', certo che ne abbiamo bisogno, ma…

— No. Non capisci. Noi ne abbiamo bisogno, noi gente normale. Specialmente.

— Oh… è così, dunque?

Ould-Harrad guardò Carl sorridendo, ignorando l'energico annuire di Linbarger. — Il cielo ce ne guardi, è già così. A meno che la gente normale non si consideri protetta contro queste malattie dall'isolamento, da una maggior cura… allora può vedere soltanto un risultato.

— Quale?

— Voi percell finirete per dirigere tutta la spedizione. Non ci sarà abbastanza gente normale in vita in grado di opporsi a voi. — L'africano parlava con tranquilla serietà, senza aggressività, e colpiva ancora di più a causa della sua poderosa corporatura. Aveva la calma solenne di coloro i cui forti convincimenti religiosi plasmavano ogni parola.

— Noi… noi non intendiamo far questo — terminò Carl in maniera poco convincente.

— Non ha importanza. — Quegli occhi castani erano carichi di tristezza. — Molti credono che accadrà questo.

— Senti, ti ho chiamato per calmare questo tizio, questo Linbarger. Io…

— Non sono quelli come te che mi possono tappare la bocca — si accalorò Linbarger. — Se pensi di poterlo fare, sarei lieto di…

— No, no — intervenne con severità Ould-Harrad, sollevando una mano verso Linbarger. — Per favore, adesso zitto.

— Ma lui…

— Per favore. — Ould-Harrad azzittì Linbarger con la sua ministeriale presenza.

Carl pensò, eccitato, Potrebbe essere divertente pestare un po' Linbarger. Brutta per lui, ma una buona terapia per me. Meglio di tutte queste chiacchiere, comunque.

Disse: — Certo non avrei pensato che avresti appoggiato Linbarger! Questi tizi usano l'ipocondria per tornarsene nei colombari. E tutte queste sciocchezze sugli ortho…

— Vedi? — l'interruppe Ould-Harrad. — Ci attribuite un vostro nomignolo.

— E con questo? Voi ci chiamate percell.

— Noi non abbiamo bisogno di nomi speciali. Noi siamo la gente normale, la razza umana.

— E noi non lo siamo?

— Non… non ho detto questo.

— Intendevi dirlo! Probabilmente pensi che non abbiamo l'anima.

Il nero scosse mestamente la testa. — Quella questione è nelle mani dell'onnipotente. Rimane il punto che siamo diversi.

— Sì, e voi avete archisti rinnegati e sionisti logori e salawiti… — Carl notò che Ould-Harrad trasaliva. — Ma intorno a noi formate un fronte unico, eh?

Ould-Harrad replicò, pacatamente: — Dobbiamo lottare per bilanciare il punto di vista di tutti.

Carl non era mai stato in gamba con le parole, non aveva la sicurezza e la melliflua abilità di un amministratore, e non aveva nessun magico sistema per convincere Linbarger o Ould-Harrad. Tutte queste interminabili chiacchiere! Digrignò i denti, irritato, si alzò in piedi, e se ne andò senza nessun'altra parola.

SAUL

Non abbiamo prestato attenzione pensò Saul. È stato questo il nostro errore fondamentale, durante questi ultimi secoli. La natura fioriva ed esplodeva di vita tutt'intorno a noi, e non le abbiamo mai prestato un'attenzione abbastanza rispettosa.

Aspettava che gli altri arrivassero nel colombario Uno, cercando di riposarsi in quei pochi momenti di libertà. Evitando di pensare all'incontro giornaliero al colombario che stava per incominciare.

Pensereste che abbiamo capito la faccenda del calcare. Ebbe un pallido sorriso. Soltanto la Terra verdeazzurra germogliava di vita. E la Terra era risultata l'unico pianeta con un'atmosfera di ossigeno, densa ma sufficientemente trasparente da permettere al calore eccedente di sfuggire. C'erano volute generazioni per rendersi conto che non era quest'ultimo fatto a causare il primo. No, era il contrario. La vita… trilioni di minuscole cellule nei primi giorni della Terra… aveva estratto il carbonio dall'atmosfera primordiale, immagazzinandolo nei propri corpi; le cellule avevano sedimentato sul fondo degli oceani, diventando letti di calcare… cambiando con questo processo l'atmosfera stessa.

La scienza si arrabattava ancora con il concetto che la vita potesse essere un motore nell'evoluzione dei mondi, piuttosto che un semplice passeggero passivo, sballottato tutto intorno dai venti violenti del destino astronomico. Dopo i panorami desolati di Venere e di Marte, gli scienziati supponevano ancora che dei minuscoli mutamenti di massa planetaria, o della distanza dal Sole, rendessero la vita impossibile. Come tutti gli altri, lui aveva ignorato la possibilità che la vita si fosse generata nelle comete. Essa aveva anche plasmato quella particella di ghiaccio, scavando caverne e spargendo semi.

Una minuscola Gaea… un'ecosfera autoregolata sigillata nel ghiaccio, che rivive quando la rapida, calda carezza del Sole giunge, esiliando per un breve periodo la lunga notte… e forse anche trilioni di altre che giungono sfrecciando dal buio lontano…

Avrebbe dovuto meditarci sopra, se mai avesse avuto un secondo libero…

— Cielo, come sei sereno. — L'affettuoso, cadenzato sarcasmo di Virginia, penetrò nelle sue riflessioni come una lama.

— Uh? No, è soltanto la mia rituale preoccupazione. — Si rizzò a sedere, avvertendo dei sordi dolori ridistribuirglisi nelle gambe e nella schiena, perfino in quella debole gravità.

Virginia si sedette accanto a lui sulla stretta panchina che era l'unico arredamento nella stanza di osservazione del colombario Uno. Alla pallida luce smaltata la studiò con meraviglia. Era in forma, e sicura di sé. Il suo pullover verde-latte copriva ma non nascondeva il suo ventre piatto, il seno sodo e svettante, una calma muscolare. L'asettico aspetto di quella stanza ottundeva i suoi sensi, ma Virginia la redimeva con la sua morbida e calda presenza, richiamando alla memoria l'umida aria delle Hawaii, gravida di aromi. Eppure lei si paragona alle sue macchine, fredda, con la certezza di un cyborg. Quanto si sbaglia!

Il quieto conforto dell'essere con lei gli ricordava altri giorni, appartamenti angusti e affollati, le fiamme del gas che lambivano il buio mentre gli amici parlavano fino a notte fonda, pasti fatti di carni pepate e cipolle croccanti, la sensazione avvolgente di un ordine naturale perenne…

Troncò il pensiero. La nostalgia lo rinserrava dolcemente con dita cave e pelose tutte le volte che lo consentiva, e quello di sicuro non era il momento.

Virginia disse con allegria: — Assomigli a qualcosa che il gatto ha appena portato dentro. — Si grattò la nuca.

— Non puoi farmi girare la testa con dei semplici complimenti —. Si sfregò gli occhi. — Inoltre, non abbiamo nessun gatto.

— È una fortuna che non abbiano scongelato subito i tesorucci. Pensi che sarebbero suscettibili?

— Naturalmente. Questi viroidi adorano i tessuti polmonari. Sospetto che alcuni si diffondano attraverso l'aria.

— Allora Macchia e Ricciolo ci rimetterebbero anche loro le penne.

— Decisamente.

Non le disse che lui e Matsudo avevano già scongelato alcuni conigli e scimmie. Avevano dovuto farlo, per provare una nuova cura. Naturalmente quelle povere bestie avevano dovuto venir sacrificate. Lui non era mai stato capace di fare quel tipo di lavoro senza provare una punta di colpevolezza. Eppure, hai ben scelto di fare il biologo…

Virginia guardò fuori attraverso la parete trasparente, là dove parecchie figure in tuta stavano lavorando sopra dei pallidi corpi che parevano di cera. — Se soltanto potessimo impedire a quella roba di diffondersi! Soprattutto la poltiglia verde, che si abbarbica alle pareti… Mi dà i brividi.

— Sospetto che gli algoidi e i lichenoidi non siano il vero pericolo.

— Si stanno diffondendo così in fretta!

— Ci sono tante varietà, che è difficile controllarle perfino con le microonde. Ma stiamo facendo progressi.

Virginia arricciò il naso. — Quella roba puzza.

Un sorriso lontano, tutto interiore, corrugò la pelle coriacea di Saul. — L'anestesia viene per ultima. Sempre che venga.

Virginia corrugò la fronte: — Pensi che stai imparando… be'… abbastanza in fretta?

— Mio padre ha sempre detto che la vita è come un concerto di violino mentre s'impara lo strumento.

Virginia sorrise. — E mentre tutti quelli che ami ti guardano.

— Proprio così —. Era conscio che Virginia stava cercando di tirarlo su di morale, ma un semplice sorriso radioso non era sufficiente. Lui conosceva i propri umori, gli incostanti scoraggiamenti che l'avevano colto con maggiore regolarità in quegli ultimi anni.

Non che adesso non ci fossero ampi motivi per averne, naturalmente. Con più autocoscienza di quanta avrebbe voluto, capiva che le sue riflessioni erano un'ulteriore forma di evasione. Sin dalla caduta di Gerusalemme aveva trovato assai più facile meditare, pontificare, che buttarsi a capofitto nel crudo mondo, per sentire tutte le sue punzecchiature e i graffi. Aveva ancora bisogno della sicurezza concessagli dai suoi calli emotivi.

Virginia si era accorta del suo umore. Infilò una mano tra le sue e disse a bassa voce: — Lo so… — Lui le strinse la mano. — Se c'è qualcosa…

— Sistema subito questa faccenda — disse un uomo magro ad alta voce mentre entrava nella stanza insieme a Suleiman Ould-Harrad. — Che io sia dannato se li lascerò fare mentre noi ce ne stiamo seduti a guardare.

Linbarger annuì nella loro direzione, il volto magro in preda a una dura decisione. — Ho pensato… è ovvio… dobbiamo tenere al vertice la gente normale, dove possano assicurarsi che ogni cosa funzioni bene. Non possiamo permettere che i percell salgano di grado! Se il tasso delle perdite continuerà così, saranno più numerosi di noi, potrebbero perfino arrivare a due contro uno. A meno che non siamo noi a tenere le posizioni di comando, saranno loro a prendere ogni decisione, passando dritti sopra i nostri interessi.

Ould-Harrad parve imbarazzato. — Dovrò confer…

— Con nessuno! Questa è una decisione esecutiva, che devi essere tu a prendere. Comincia a metterla ai voti e saremo spacciati.

Saul fece una smorfia. — È così che sembrano le cose?

Linbarger si girò con le mani sui fianchi. — Sto cercando di assicurarmi che i nostri non perdano il controllo della situazione.

— La nostra gente?

— Proprio così. Hai sentito? Bethany Oakes ha la febbre alta fino al cielo, quella che frigge il cervello in un paio d'ore. Entrerà subito nel colombario.

Saul esclamò: — Oh, dannazione. — E si sedette. Forse avrei dovuto passare più tempo in infermeria. Avrebbe potuto fare una differenza…

— Qualcuno deve fare le ricerche — bisbigliò Virginia, come se gli avesse letto nel pensiero.

Bethany Oakes era stata appena adeguata al suo compito in quegli ultimi giorni, ma per lo meno era stata l'ovvio successore di Miguel Cruz. La continuità era importante.

Dopo che il maggiore Lopez era stato colombarizzato, con la pelle mezzo erosa da un viscido fungo, Ould-Harrad era stato tirato fuori… e adesso era finito in una posizione di comando che nessuno gl'invidiava. L'alto e allampanato nero non era mai stato niente di più che il superiore anziano nominale dei cinque capi-reparto. Non aveva nessuna impronta del comando. Certo il cupo africano non era stato scelto per la sua capacità di equilibrare le forze politiche e azzittire i saputelli che facevano la voce grossa.

Linbarger annuì, leccandosi le labbra. — Bel casino, eh? O la febbre o i brividi con le macchie azzurre che ti picchiettano tutto il corpo, o altrimenti quell'affare che ti riduce ad una massa tremante di gelatina… e tutte fatali.

— Credo di aver isolato il virus che causa brividi e raffreddore — disse Saul con calma. — Per il vaccino ci vorranno soltanto pochi giorni. L'infezione della pelle, invece, mostra segni vulnerabili alle microonde…

— Ma sono già otto o dieci malattie! — urlò Linbarger. — E sono soltanto quelle che conosciamo. Quelle che possiamo individuare facilmente…

Saul fissò il volto ansioso e tirato dell'uomo e vi lesse qualcosa che parve una corrente fredda entrata all'improvviso nella stanza.

— Ci sono alcuni segni promettenti per le altre. È tutto quello che posso dirti in questo momento. — Lanciò un'occhiata a Ould-Harrad. Togli il vento alle vele di quel tizio pensò Saul, come per imporre all'africano di agire. Ma Ould-Harrad rimase impassibile, gli occhi remoti, le braccia incrociate sull'ampio petto.

Linbarger parve pensare di aver guadagnato un vantaggio, vincendo la discussione. Guardò i due uomini, ignorando Virginia. — Con Lomintze là fuori che va sotto ghiaccio — indicò la parete trasparente, — e Byrnes e Matsudo che ci finiranno tra poco… significa che i percell dirigeranno sia i Sistemi Energetici che Gallerie e Gas.

Saul chiese in tono ufficiale a Ould-Harrad: — Posso chiedere perché il dottor Linbarger partecipa a questo incontro?

Il volto dell'alto africano assunse un'espressione guardinga, diplomatica. — Mi è parso che ogni, ah, fazione dell'equipaggio dovesse essere rappresentata nel prendere le decisioni relative ai colombari.

— Già — disse Linbarger. — È per questo che lei è qua.

Saul guardò Virginia. — Oh? Sei venuta su richiesta di Ould-Harrad?

Virginia annuì. — Ero libera. La maggior parte dei percell o dormono o lavorano nelle gallerie. O sono malati — aggiunse, deliberatamente.

— Corro un rischio anche soltanto a trovarmi nella stessa stanza con iei — borbottò Linbarger.

— Nessuno ha ancora assegnato specifici vettori alla maggior parte delle malattie — dichiarò Saul, misurando le parole ma con crescente irritazione. — Non c'è nessuna ragione di credere che gli individui geneticamente accresciuti siano portatori di qualcosa.

— Soltanto perché sono immuni questo non significa che non possano essere portatori — replicò Linbarger. — Questo lo so.

— Non c'è nessuna correlazione — cominciò Saul, ma poi si rese conto che nessuna discussione scientifica avrebbe mai avuto effetto su quell'uomo. — Senti, abbiamo bisogno di apprendere dell'altro, e questo significa cooperare con ogni…

— Ben presto ci daranno degli ordini! Se…

— Chiudi il becco — gl'intimò Saul con estrema fermezza.

Linbarger corrugò la fronte, perplesso, sentendosi chiaramente tradito. — Tu sei un biologo, tu sai che tre di noi si ammalano per ognuno di loro.

— Allora scongelate altri ortho — interloquì Virginia con voce tagliente. — Gonfiate i vostri ranghi.

— E vederne morire la maggior parte? — Linbarger si girò di scatto verso di lei, i pugni stretti. — Tu sai che un uomo appena uscito dai colombari è più vulnerabile a quei germi! — Linbarger la guardò furioso, ma era chiaro che stava facendo scena a beneficio di Ould-Harrad.

— Dobbiamo utilizzare tutti coloro che sono disponibili — disse alla fine lo spaziale africano. — Specialmente se dobbiamo salvare la Newburn.

— Approvi la missione? — chiese Saul, aiutandolo in quel chiaro sforzo di cambiare argomento. Bethany Oakes aveva escluso qualsiasi sforzo per recuperare quella chiatta colombario da tempo perduta.

— Sì. Il caso presentato da Carl Osborn è convincente. Potrebbe distrarci dalle nostre… dispute. — Ould-Harrad guardò con intenzione Linbarger. — Quelli a bordo della Newburn sono nostri camerati, e se sarà volontà di Dio, Inshallah, noi li salveremo.

— Chi ci va? — chiese Virginia.

— Lo deciderò più tardi. Prima dobbiamo raffinare dell'altro trizio dal ghiaccio…

— Jeffers lo sta già facendo — intervenne Saul. — Dice che può farcene avere abbastanza fra una settimana o giù di lì.

Ould-Harrad contrasse le labbra. — Avete continuato a lavorare malgrado Bethany Oakes l'avesse vietato?

— Già… sì — ammise Saul con un sorrisetto. — Per il processo di raffinazione vengono utilizzati i grossi mech di superficie che non hanno nient'altro da fare.

— Ah, così sia. Allora bisognerà sistemare le cupole idroponiche, la maggior parte dovranno venir trasportate dentro la Halley.

— Lo farò io — dichiarò Linbarger. — Anche alcuni dei miei amici sono pronti a dare una mano.

Qualunque cosa pur di star lontano dai percell pensò Saul. Potrà contare su un gran numero di volontari ortho.

— Molto bene — esclamò Ould-Harrad con calore. — In quanto all'equipaggio per il salvataggio lo sceglierò dopo un attento…

— Ci andrò io — disse Linbarger. — Se Osborn non avrà il comando.

Virginia domandò: — Volete un equipaggio di soli ortho?

— Perché no?

— Allora avrete maggiori probabilità che vi siano malati tra voi — lei aggiunse.

Saul si accigliò. Ben presto avrebbe dovuto dirle che lui sarebbe andato come medico della nave.

Ould-Harrad interloquì con voce calma, per placare gli animi: — Corriamo tutti i nostri rischi.

— Tu non hai nessuna idea se Lintz, la van Zoon e gli altri troveranno una cura. — La bocca di Linbarger parve annodarsi formando un groviglio inacidito e disgustato d'impazienza. — Se non lo troveranno e io dovessi ammalarmi, loro non mi tireranno mai fuori di colombari.

Ould-Harrad allargò le braccia aprì le mani e le sollevò, mostrando la sua buona volontà. — Allora alla fine ti sveglierai sulla Terra.

— Nessuno ha mai inteso che dovessimo dormire settant'anni malati! Nei colombari il metabolismo è lento, ma non è zero. Tutta l'esperienza l'abbiamo avuta con gente che stava bene, giusto? Potremmo morire tutti.

Linbarger aveva ragione, ma Saul si sarebbe fatto dannare piuttosto che ammetterlo. — Ci sono ampie ragioni di aspettarsi che…

— Ah! «Ampie ragioni». Non è abbastanza per me e per i miei amici.

— Quali amici? — chiese Virginia. — Altri stupidi archisti?

Linbarger si adirò. La voce gli venne fuori sottile e stridula, come se sgorgasse da un luogo angusto e costipato dentro di lui. — Sì, alcuni di noi. Siamo stati buttati fuori a calci dall'Indonesia per essere stati contro la devastazione del suolo, i veleni e gli animali da esperimento come te.

Virginia borbottò: — E vi siete rifatti sparando alla gente in Pan-Africa.

Saul cercò d'interporsi. — Un momento…

— No, lascialo farfugliare — l'interruppe Virginia, con voce atona, le braccia pronte, c'era una concentrazione d'energia nella sua posizione. — L'ho già sentito altre volte. Quelli come lui si sono impadroniti delle Hawaii. Il governatore Ikeda è morto, lo zio di Keoki Anuenue è in prigione. Voglio vedere che genere di creatura è capace di fare cose come queste.

Linbarger non parve accorgersi del suo rigido controllo.

— Io sono un archista, certo, ma parlo a tutta la gente normale. Non prenderemo mai ordini da quei maiali dei percell.

Saul disse: — Stai attento a come parli…

— Certo, stiamo intruppando voi percell nei campi di concentramento alle Hawaii, e staremmo assai meglio se lo facessimo anche qui! — Le agitò un pugno davanti al naso.

Virginia lo colse in pieno nello stomaco con un calcio fulmineo e selvaggio. Linbarger volò all'indietro con un greve grugnito e andò a sbattere contro la parete. Ould-Harrad si mosse per bloccare Virginia, ma lei compensò con precisione la bassa gravità e lo superò sgusciandogli di fianco. Piantò con precisione il taglio della mano sul mento di Linbarger, applicando in quel colpo tutta la forza delle sue spalle. Linbarger, produsse un suono gorgogliante e roteò lontano, ancora cosciente ma inflaccidito.

— Basta! — gridò Ould-Harrad, con voce severa quanto inutile. Virginia era già tornata automaticamente su una posizione difensiva a zero G, galleggiando, con gli occhi sfavillanti come il ghiaccio.

— Mi spiace — disse. — È stato un riflesso. — Ma era chiaro che non le dispiaceva per niente.

Ould-Harrad e Saul fermarono Linbarger che, debolmente, fece loro cenno di lasciar stare.

Virginia disse: — Sono giorni che ascolto queste stronzate archiste, ormai, tenendo a freno la lingua. Adesso basta. Sta mettendo a repentaglio tutta la spedizione.

— Non ingrandisca troppo il suo caso, dottoressa Herbert. Il dottor Linbarger ha diritto alle sue opinioni — replicò giudiziosamente Ould-Harrad.

Cosa ci vuole per smuoverlo? si chiese Saul. Oppure è già stato testimone di scene altrettanto brutte? Un sospetto inquietante. Era una settimana che Saul non socializzava.

— In ogni caso — proseguì Ould-Harrad, scuotendo gravemente la testa, — niente scusa una condotta come la sua. Se non ci trovassimo in una situazione così disperata, la confinerei nel suo alloggio.

— Oh, per favore, lo faccia — esclamò Virginia, sarcastica. — Ho bisogno di dormire.

Linbarger aprì la bocca per dire qualcosa, ma in quell'istante la porta della sala preparatoria si aprì per far entrare Bethany Oakes. Piombarono tutti nel silenzio mentre il comandante ufficiale entrava con passo lento insieme alla sua porta.

Saul rimase scosso da quell'improvviso cambiamento: gli occhi cerchiati di rosso, il volto pallido come un osso slavato, e il passo strascicato. Le mani semiparalizzate le tremavano e la bocca penzolava floscia, inarticolate e assente.

— Betty, non dovresti camminare — disse Saul.

Poi vide Akio Matsudo e Marguerite van Zoon che la seguivano rispettosi. Con gli occhi lo implorarono di non interferire. Bethany Oakes stava dando una prova di grande coraggio, l'ufficiale comandante che impegnava se stessa con ardimento? Perfino Linbarger si accorse di questo, e malgrado il suo volto fosse ancora contorto per la rabbia e il risentimento, rimase zitto.

Neppure Matsudo aveva un bell'aspetto. Gli occhi erano vitrei e il volto era coperto da una pellicola di sudore che luccicava intensamente. Se dovesse andarsene anche lui, rimarremmo soltanto Marguerite ed io a gestire l'ospedale. Questo certamente m'impedirà di partecipare al salvataggio della Newburn.

Bethany Oakes incontrò per un breve istante il suo sguardo. — Saul… — Ebbe uno smorto sorriso. — … persevera.

Entrò lentamente nella gelida stanza interna dove l'aspettavano i tecnici.

Dannazione. Saul era sgradevolmente conscio che la Oakes avrebbe potuto non rivivere mai dal processo della colombarizzazione. Se la malattia poteva continuare a svolgere la sua micidiale opera mentre galleggiava in quegli anni di sogni, quello poteva benissimo essere il suo accesso definitivo alla tomba. Era probabile che il gruppo che l'accompagnava l'avesse pensato e su di loro discese un silenzio reverenziale quando Bethany Oakes insisté per arrampicarsi da sola sulla lastra, malgrado lo sforzo che ciò richiedeva. Fece uno svolazzante gesto di saluto con la mano e poi affondò dentro la rosea ragnatela nutritiva. Saul vide che era un sollievo per lei, in mezzo a quella gelida promessa di salvezza, distendersi grata dentro quell'abbraccio impaludato di nebbia e lucido d'acciaio e di vetro.

Saul sollevò lo sguardo su Ould-Harrad. Era facile leggere le labbra dell'africano che si muovevano in silenzio, formando parole in arabo. Saul sapeva che le preghiere erano soltanto in parte per Bethany Oakes, ma anche per il nuovo, riluttante comandante, Suleiman Ould-Harrad, appunto.

VIRGINIA

— Dannazione! Non mi meraviglierei affatto che l'avesse fatto di proposito!

Virginia camminava su e giù nel suo minuscolo laboratorio. Era difficile farlo con un millesimo di gravità, ma ci riusciva tenendosi aggrappata a una consolle lì accanto. Le sue suole di velcro sfrigolavano sommessamente mentre camminava da un'estremità all'altra, scuotendo i capelli e borbottando fra sé.

— È stato Carl a progettare tutto questo, lo so!

L'oloschermo principale s'increspò. Comparve un volto, ma l'«uomo» non era un membro della Spedizione Halley… in realtà non era neppure un uomo. Il volto aveva guance basse, ciuffi di capelli fulvi e riccioluti, baffi provocanti.

— Sicuro fu un'azione villana, cotesta, uguale a quella con cui la regina Maeve fu predata del suo amato — convenne la figura.

Virginia tirò su col naso. — Oh, piantala, Ossian. Non mi serve la comprensione d'un simulacro letterario. Ho bisogno di Saul! E non voglio che schizzi via su una nave spogliata, stravecchia, che avrebbe bisogno di cinquant'anni di revisioni prima di poter davvero volare di nuovo!

Lo schermo tremolò. Si formò un altro viso… un'eminenza incanutita avvolta in vesti scarlatte. La donna sulla schermo fece un segno di benevolenza. — È una missione di misericordia, mia cara bambina. Quaranta anime sono in pericolo…

— Credi che non lo sappia? — I piedi di Virginia lasciarono il pavimento quando picchiò la mano sulla superficie del banco. — Smamma, Cardinal Teresa! Non ho bisogno di logica o di appelli alla mia miglior natura. Ho bisogno di una ragione, di un perché… — Comparve un'ultima immagine ripescata dall'intimo più profondo: una delle prime simulazioni, di rado richiamata a causa del dolore che le causava. Un uomo sorridente con una piccola barba grigia e occhi che si circondavano di tante piccole rughe mentre la guardavano sorridendo con calore.

— Anuenue, piccolo arcobaleno. Le ragioni non aiutano in un momento come questo, figlia mia. I sentimenti hanno una logica che appartiene soltanto a loro.

Virginia affondò il volto nelle mani. Fluttuò contro un armadio e poi si riadagiò lentamente al suolo.

— Ero felice, papà, lo ero davvero, in tutto questo inferno. Ero felice.

Una mano esile, fatta di luce, trasparente, si protese verso di lei come per toccarla. La voce era forte, con una saggezza gentile.

— Lo so, cara. Lo so.

CARL

— E alulike! — li sollecitò il caposquadra. E l'equipaggio si mise a lavorare in armonia, riempiendo i canali di comunicazione prescelti con il canto:

— Ki au au, Ki au au
Huki au au, Huki au au!

Gli hawaiani tirarono il cavo d'acciaio mentre l'unità principale da trasporto della Edmund Halley veniva sollevata fuori dal corpo del vascello. Per quanto fosse massiccia e immensa, la sezione salì in fretta verso la cima dell'affusolata struttura a forma di A, dove una figura in tuta spaziale gesticolava ostentatamente a guisa di semaforo.

— Piano, piano. Bene così, voi indonesiani e danesi, laggiù, tirate radialmente!

Carl non aveva più visto Jeffers così felice da quando l'uomo era stato decolombarizzato. Jeffers odiava lavorare nelle gallerie, preferendo di gran lunga l'aspro bagliore dello spazio e il forte odore oleoso del metallo e delle macchine.

Carl non poteva davvero biasimarlo, se era per questo. Qualunque altra cosa, o quasi, era preferibile alla triste desolazione sottostante. Quella era una delle ragioni principali per cui aveva insistito che venisse fatto il tentativo di salvataggio della Newburn. Era convinto che i benefici che ne avrebbe tratto il morale dell'equipaggio avrebbe contribuito alla salute generale molto più che tutte le terapie tradizionali di Akio Matsudo e gli intrugli di laboratorio di Saul Lintz.

Regolò il proprio visore sull'ingrandimento quattro, e guardò in direzione dello Scorpione, dove la coda di polvere della cometa in via di dissoluzione era ormai soltanto un debole bagliore visibile all'infrarosso. Qualche puntolino rivelava la presenza di granelli ancora abbastanza grandi da riflettere la luce del Sole sempre più piccolo. Uno fra i più grandi di quei puntolini, adesso lo sapeva di certo, era la chiatta-colombario Newburn.

Se non fosse esistita avremmo dovuto inventacela. Un evviva si levò, quasi un rumore di fondo, dal comunicatore aperto, quando l'unità d'immagazzimento incontrò la superficie di Halley, sollevando un soffice sbuffo di vapore. Jeffers si strinse le mani sopra la testa, in gesto di disinvolto trionfo. Carl non poté fare a meno di sorridere.

Dei tre turni per rimettere in sesto e spogliare la Edmund, quello era il suo favorito. Sicuro, si sentiva come a casa sua con la squadra costituita unicamente dai percell di Sergeov. Ma quel gruppo misto di volontari erano il turno più allegro.

Specialmente i danesi e gli Hawaiani. Non pareva gl'importasse un fico secco se un uomo era un ortho o un percell… o un globoide gelatinoso denebiano… sempre che non fosse un purpureo o uno stramaledetto archista.

Virginia è hawaiana ricordò. Non c'era da stupirsi che fosse un'orthofila così impenitente. Amante degli ortho. Ovviamente non vedeva niente di male a vivere con uno di loro.

Il pensiero si attardò nella sua mente e lo fece sentire un po' colpevole quando Lani Nuyen gli passò accanto, trasportando un supporto di ferro-nickel che l'avrebbe schiacciata dovunque vi fosse stata un po' di gravità, perfino sulla Luna.

— Ehi, bello — gli trasmise. — Sei impegnato per i prossimi tre mesi?

— Cos'hai in mente? — lui le disse di rimando, lanciandole un'amabile occhiata maliziosa. E lei riuscì perfino a sculettare un po', quando gli passò accanto. L'unicorno della sua cotta gli sogghignò in risposta.

Oh, diavolo ricordò Carl a se stesso. Ci sono anche degli ortho buoni.

Lani si era fulmineamente offerta volontaria per la missione di salvataggio. Buona, vecchia Lani. Era così paziente con lui, non lo rimproverava mai perché si faceva vivo al suo cubicolo di tanto in tanto in cerca di compagnia, per poi scomparire e mantenere un rapporto strettamente cameratesco per settimane e settimane di fila.

Se soltanto fosse più simile a ciò che cerco. Più intellettuale, una percell.

Più come Virginia, in altre parole.

C'era un solo archista in servizio, in quel momento. Ogni fazione aveva un suo «osservatore» per tener d'occhio il turno delle altre… una designazione non ufficiale, certo, ma sempre più comune durante le funzioni importanti quali la colombarizzazione e la decolombarizzazione.

Helga Steppins seguiva la procedura con molta attenzione, usando un laser transit per controllare due volte tutto quello che era stato fatto dalla squadra di Jeffers. Quando Carl si avvicinò si scostò cautamente da un lato, come se lui potesse infettarla attaverso due tute spaziali e tre metri di vuoto.

— Sai, sarebbe assai più facile arrivare al gruppo scientifico della Edmund se ci lasciaste rimuovere i moduli idroponici — le disse. — Probabilmente ci risparmierebbe due giorni di lavoro.

L'austriaca bionda e taciturna scosse la testa.

— Stupido trucco, Osborn. Sappiamo tutti e due che la data del lancio è fissata per quando sarà pronto il combustibile. Non prima di martedì prossimo, come minimo.

Carl serrò i pugni disgustato davanti a tanta ostinazione. — Perché, in nome dello Spazio Oscuro, dovrei volervi imbrogliare? Siete voi ad insistere per avere una riserva di combustibile follemente enorme per un semplice rendez-vous di tre mesi e ritorno! Avremo una nave spogliata, e non ci servono più di sei chilometri al secondo di accelerazione!

L'archista scrollò le spalle. — È più sicuro se i serbatoi sono pieni. Soltanto un idiota salperebbe senza le giuste scorte.

— Ma…

— Non ti piace? Lamentati con quel percefilo, Ould-Harrad.

Carl sbuffò. Ould-Harrad? Amante dei percell? Ah!

— Senti, se adesso calassimo soltanto il modulo idroponico numero uno…

— No! — La donna si girò di scatto verso di lui, stringendo con forza il laser transit. — L'intera colonia dipende da quella fattoria!

— Ma la nuova cupola è quasi pronta. Tutti gli infissi…

La Steppins tornò a girarsi verso la Edmund, come se avesse paura che le intenzioni di Carl fossero soltanto quelle di distrarla mentre Jeffers e gli hawaiani facevano scomparire tutta la nave a razzo.

— Voi percell non avete paura delle malattie di Halley come noi esseri umani. Non ci addentriamo nel perché, dal momento che continuate a negare ogni responsabilità per le malattie. Ma ti basti sapere che non permetteremo che l'idroponica venga inquinata! Sia i moduli idroponici grandi come quelli piccoli rimarranno attaccati fino a quando la cupola non sarà stata completamente controllata… e da uno specialista ortho!

Carl era furente. Sapeva quali erano le sue alternative. Poteva dare lo stesso il via a Jeffers, e forse far scoppiare una miniguerra tra le fazioni.

Oppure poteva correre laggiù, in basso, e presentare le sue lamentele a quel mauritano senza spina dorsale che li comandava.

Oppure poteva andar giù a dare una mano.

— Usa un purpureo durante il tuo prossimo riposo erotico — le suggerì, e scalciò via verso gli operai prima che la donna potesse rispondergli.

— Ehi, Lani! — chiamò. — Lascia che ti dia una mano con quell'affare!

SAUL

— Sono arrivata a un punto tale che non m'importa più del pericolo di morire, Saul. È il prurito che non riesco a sopportare. Giorno e notte, senza un momento di requie, malgrado gli specifici che mi dà Akio Matsudo. Giuro che se continua così chiederò a Akio di prestarmi il coltello seppuku del suo bisnonno per darmi una vera grattata!

Marguerite van Zoon giaceva a bocconi sulla ragnatela tesa, cercando di rimanere immobile mentre i tecnici della sala-cure in camice e maschera rimuovevano con le pinzette piccoli brandelli della sua pelle, riponendoli in fiale di glassite, per analizzare i fungoidi che stavano trasformando il suo corpo in un campo di battaglia.

Un quarto della sua pelle era crepato e lacerato. Ferite rosee, semiaperte, e vesciche dalla cupoletta scura erompevano in macchie sgradevoli. Qua e là le carni si erano spalancate formando ripugnanti piaghe ulcerose, che luccicavano d'un nauseabondo umidore.

Saul cercava di accelerare il più possibile il lavoro della squadra, sapendo quanto doveva esser dura per lei. Marguerite era una persona molto riservata: una vera esiliata che aveva lasciato la Terra per salvare la sua famiglia da una punizione provocata da crimini politici. Qualunque cosa fosse scritta su un pezzo di carta, soltanto un burocrate avrebbe potuto sostenere che lei si era offerta «volontaria» per venire fin lassù e diventare cibo per le rosicchianti cellule aliene.

Eppure l'allegria di Marguerite era leggendaria. Il dolore fisico doveva essere assai grande perché si lamentasse tanto apertamente.

Saul si portò al suo fianco non appena i tecnici ebbero finito. — Marguerite, adesso userò il nuovo lanciarazzi e cercherò di effettuare quella raschiatura subcutanea. Cerca di non fare movimenti inutili.

Marguerite annuì brevemente. Soltanto un velo di umidità sulla sua fronte e le mani strette tradivano il suo nervosismo. Saul guidò un mech ospedaliero su due ruote portandolo in posizione, inclinando l'ampia piastra dell'apparecchiatura a microonde con la sua apertura sopra la forma prona della donna.

Ho avuto il privilegio di conoscere molti meravigliosi esseri umani pensò Saul. Ma nessuno più coraggioso di questa donna.

Si era offerta volontaria per tentare quella cura mai sperimentata. Quando le era stata offerta la possibilità alternativa di rifugiarsi nel colombario, aveva subito respinto l'idea. — Non intendo lasciare te e Akio gli unici medici svegli durante questa crisi — gli aveva detto con decisione.

Erano passati parecchi giorni, mentre i tecnici costruivano e ricostruivano il nuovo irraggiatore secondo le istruzioni di Saul… sempre cercando di strappar via un po' di tempo ai lavori prioritari delle squadre addette ai corridoi e a quelle che stavano rimettendo in sesto la Edmund Halley. A quel punto non c'era più molta scelta. Se quella cura non avesse funzionato, Marguerite avrebbe dovuto finire sotto ghiaccio.

In segreto, Saul temeva che fosse troppo tardi anche per questo. Non c'era nessuna garanzia che raffreddando un corpo a un grado sopra la temperatura di congelamento, si potessero arrestare quelle escrescenze maligne e multicolori simili a funghi, una volta che si erano insediate così in profondità.

Un terzo dell'equipaggio sveglio, e perfino qualcuno di quei semicadaveri colombarizzati, soffrono di questi striscianti disordini della pelle. Preoccupano Akio più degli orecchioni scagliosi e della gonorrea rossa. Sono il motivo più importante per il quale potrei non poter partire con la Edmund, malgrado tutto. Osborn e gli altri potrebbero trovarsi a correre il loro rischio senza un medico.

E c'era un altro motivo per il quale aveva fretta di rendere efficace la nuova cura.

Ieri, mentre stavano facendo l'amore, aveva trovato un sottile ricamo, simile a una ragnatela di fili verdi, che si andava allargando sotto le scapole di Virginia ramificandosi sulla schiena. Non le aveva ancora detto niente. Ma la sua motivazione a trovare una cura era più forte che mai.

Le macchine avevano smesso di muoversi per prendere posizione. — Va bene, Marguerite — disse alla sua paziente. — Adesso ricordati bene di rimaner ferma.

— Sì, Saul.

Le sue mani si strinsero sui bordi del tavolo. Saul si voltò verso il voluminoso mech medico simile a un ragno. — Accesso cinque… — cominciò a dire, ma dovette fermarsi quando un'improvvisa ondata di vertigini lo colse. Riuscì a sollevare il colletto del suo camice giusto in tempo per contenere un violento sternuto.

Saul si sentì rintronare la testa. Quei sordi dolori in varie parti del corpo che era riuscito ad allontanare dalla sua coscienza per una mezz'ora o giù di lì, adesso tornarono in forze. Passò un lungo momento prima che riuscisse a risollevare lo sguardo, sbattendo gli occhi in mezzo a uno sciame di macchie azzurre che andavano alla deriva davanti a lui, e rivolgendosi di nuovo alla macchina.

— Accesso… cinque-due-sette Jonah.

Una luce che dava il segnale di ricevuto ammiccò attraverso il pannello di plastica del mech. Saul continuò: — Applica sessanta milliwatt nella risonanza preprogrammata dello spettro dell'RNA del fungoide A linea due-nove-quattro, messa a fuoco sull'escrescenze subcutanea, coscia interna posteriore del paziente, cinquecento secondi, fattore di sicurezza beta.

Avevano adattato un'unità concepita per le indagini a risonanza magnetica e ultrasonica delle ferite interne. Quel mech sofisticato era in grado di mirare e valutare la messa a fuoco del radar assai più rapidamente di qualsiasi operatore umano.

MI PREPARO A PROIETTARE annunciò la macchina, senza inflessioni.

Il miglior assistente di Saul, Keoki Anuenue, stava osservando un banco-dati, supervisionando la procedura. Non soltanto Keoki era un abile tecnico di laboratorio, era anche uno degli individui più forti che Saul avesse mai conosciuto. Tre giorni prima aveva avuto modo di vedere in azione il grosso hawaiano quando si era verificato un crollo al livello B.

Una varietà particolarmente virulenta di vermi aveva impiantato una testa di ponte nel pozzo di servizio che conduceva alla Edmund Halley. Lo sfiatatoio principale, essenziale per impedire che il ghiaccio intorno a loro fondesse, era quasi del tutto intasato da una varietà ocracea di vermi ancora più grossi degli orrori purpurei.

Saul e Keoki erano arrivati al livello B proprio mentre nel corridoio si levavano alte grida ed echeggiavano i clacson dell'allarme. Più terrificante di tutto era il gemito e lo stridìo del ghiaccio che si sgretolava. Il cavo lungo il quale Saul si stava arrampicando si era staccato, rompendosi, e si era messo a dondolare dalla parete sferzando l'aria come un serpente torturato, facendolo schizzar via al momento in cui un blocco di cristallo scuro e schizzato perforava il fogliofibra e si schiantava contro il lato del pozzo.

Keoki Anuenue aveva afferrato Saul cacciandolo al sicuro dentro una nicchia, poi si era girato ed era balzato verso lo scintillante macigno che aveva intrappolato sette fra uomini e donne nella galleria di servizio. Nel migliore dei casi, avevano a disposizione soltanto pochi minuti. Keoki era andato a salvarli nell'unica maniera possibile.

Aveva appoggiato la schiena contro il plastifoglio a brandelli, aveva piantato i piedi contro il blocco di ghiaccio e l'aveva sollevato. Doveva aver avuto una massa di cento tonnellate, senza contare i detriti che giacevano sopra di esso. — Kei Make nei mai… — aveva grugnito Keoki, mentre il macigno, cosa incredibile, aveva cominciato a vibrare e a muoversi.

Una raffica di fetida umidità era uscita dal varco. Il volto dell'hawaiano era una cascata di stille di sudore in mezzo a quell'aria umida, i tendini del suo collo erano un mazzo di corde annodate. Saul non aveva avuto il tempo di fermarsi a pensare. Si era tuffato in quella stretta apertura.

Insieme a un'altra mezza dozzina di odori l'aria era piena dell'afrore delle mandorle. Se qualcuna delle loro tute era stata bucata, neppure i cianuti che avevano nel sangue sarebbero stati in gradi di proteggere per molto gli uomini dell'equipaggio intrappolati dalla ricca vena di cianuro che era stata spezzata dalla roccia precipitata.

Saul aveva compiuto un bel po' di contorsioni per entrare in quella nicchia malgrado fosse del tutto consapevole di non indossare nessuna tuta. Aveva cercato di non pensare all'uomo grande e grosso alle sue spalle, intento a lottare con una massa sufficiente a schiacciare un edificio, sulla Terra… prodigioso perfino a un millesimo di gravità.

Così era cominciata una corsa infernale per trascinar fuori i sopravvissuti. Nessuno aveva mai detto a Saul quant'era durato quel calvario. Tutto quello che lui sapeva era che Keoki Anuenue avrebbe potuto mollar tutto dopo che uno, o due, o tre erano stati liberati.

Ma Keoki non l'aveva fatto. Come una figura scolpita nella pietra aveva sorretto quella frastagliata montagna primeva fino a quando Saul non aveva accertato la morte degli ultimi due uomini della squadra, e si era fermato brevemente per prelevare un campione di dieci centimetri cubi d'un fluido pastoso e rossastro estratto da una creatura polposa grossa quanto un anaconda, che era rimasta schiacciata. Soltanto dopo che Saul era strisciato fuori contorcendosi dalla galleria di servizio, per vedere finalmente la squadra di salvataggio che arrivava spinta dai getti su dal pozzo, quel silenzioso gigante era finalmente arretrato lasciando andare lentemente il macigno fra i grugniti delle sue carni e il crepitio del ghiaccio.

Quando i mech di Virginia erano intervenuti per togliergli di mano il fardello, Keoki si era limitato a mormorare una frase che Saul ricordava con la stessa chiarezza del suo nome:

Ua luhi loa au…

Strane, magiche parole, una frase piena di energie segrete, dei misteri di divinità esotiche.

Più tardi, Virginia aveva informato Saul che significava semplicemente: «Sono molto stanco».

Ciò era avvenuto soltanto pochi giorni prima. Le battaglie nei corridoi erano continuate con misurata violenza, ma adesso si andavano attenuando. Le malattie avevano voluto il proprio tributo. E i preparativi per la missione di salvataggio della Newburn erano prossimi al completamento. Non ci si riposava sulle eroiche imprese del passato per trarne benefici. Che ci pensassero i molti miliardi di individui che seguivano i «notiziari di guerra» sui loro apparecchi video sulla Terra a tenere il punteggio. Qui la gente aveva semplicemente troppo da fare.

Keoki era in piedi accanto al suo monitor: fece segno a Saul. Tutto pareva pronto.

Saul arretrò e diede al mech medico simile a un ragno l'ordine di procedere. — Cinque-due-sette Jonah. Comincia.

Una chiazza ovale di luce, di circa cinque pollici per tre, comparve sulla coscia destra di Marguerite van Zoon, soltanto un raggio di laser «morbido» individuatore, che segnava dove l'apertura della macchina stava proiettando in quel momento un fascio di microonde invisibili, finemente modulate, che s'irradiavano del congegno curativo di Saul messo assieme alla bell'e meglio.

La scienza di Rube Golderberg rifletté Saul mestamente. Questo era assai più difficile cha usare quei lanciarazzi giganteschi nei corridoi per spazzar via le forme di vita cometarie più grandi.

Là bastava riversare energia dentro le cellule più grandi delle bestie attraverso le bande di risonanza delle proteine. Non dobbiamo essere troppo accurati nello scegliere l'esatta frequenza. Qualunque cosa manchi il bersaglio, si riversa fuori diventando calore. Sbattici dentro abbastanza energia e le cellule finiscono per lacerarsi da sole. Qui, però, non poteva servirsi di quel genere di strapotere distruttivo. Lui, con quella raschiatura della pelle di Marguerite a colpi di microonde, voleva distruggere soltanto l'invasione cellulare. Non soltanto la macchina doveva venir sintonizzata così da non distruggere nessuno dei tessuti della paziente, ma non ci si poteva permettere neppure troppo calore residuo.

Dovevano regolare con estrema precisione ogni raggio raschiatore su una ristrettissima banda di frequenze, e manovrare gli atomi come i grani su un filo, battendo e ribattendo fino a quando i fili molecolari super tesi non si fossero spezzati. La sintonizzazione doveva essere attuata su ordini di magnitudine assai più esatti di quelli impiegati per le armi usate dalle squadre in gallerie.

La coscia di Marguerite ebbe un tremito, certo a causa della tensione. Non avrebbe dovuto percepire più di un debole calore… per lo meno in teoria.

Saul girò la testa per vedere, dietro di sé, se Keoki non avesse letto niente di sfavorevole nei segni vitali della paziente. Ma il grosso hawaiano stava osservando placidamente il banco dati senza mostrare nessun segno di preoccupazione. Mormorava tra sé sommessamente, dondolandosi sulla sua posizione accovacciata da spaziale.

Fu allora che Saul vide il colonnello Suleiman Ould-Harrad scivolare dentro la sala-cure.

Oh, il cielo ci aiuti. Cosa c'è adesso?

L'ufficiale spaziale cercò in mezzo alla penombra fino a quando il suo sguardo non si fermò su Saul. Il risentimento iniziale di Saul si dileguò quando vide l'espressione di Ould-Harrad: il suo volto rugoso era una maschera di fatica mista chiaramente a paura.

— Torno subito, Marguerite.

— Fai con comodo, Saul. Non devo andare da nessuna parte.

Saul le toccò la spalla per farle coraggio. — Sorvegliala con cura, Keoki.

— Sicuro, dottore.

Saul passò attraverso la nebbia disinfettante nella camera di decontaminazione e si tolse il casco quando la porta esterna si aprì. Il facente capo della spedizione lo stava aspettando, sfregandosi con fare assente il dorso di una mano sull'altra.

— Colonnello Ould-Harrad? Cosa posso fare per lei?

— C'è qualcosa che io… — Ould-Harrad scosse la testa, e d'un tratto guardò altrove. — So che lei non ha nessuna ragione per volermi aiutare, Lintz. Capirei senz'altro, se mi dicesse di andare dritto all'inferno. — Saul scrollò le spalle. — Jerusalem est perdita. Gerusalemme è perduta. Il passato non conta più, adesso. Siamo tutti nello stesso pasticcio. Perché non mi dice cosa la tormenta, colonnello? Se vuole che la cosa non si risappia, possiamo organizzare una cura fuori dal…

La frase gli si spense in bocca quando Ould-Harrad scosse vigorosamente la testa.

— Lei mi fraintende, dottore. Ho bisogno del suo consiglio in un campo non medico… una faccenda di assoluta gravità e urgenza.

Saul sbatté gli occhi.

— C'è qualcosa di nuovo?

L'alto mauritano si morse il labbro. — Ormai sono rimasti in pochi quelli con la testa sulle spalle. Il mio è un popolo di collettivisti, e così non posso affrontare le emergenze come faceva il capitano Cruz. A me serve il consenso. Devo cercare consigli.

Saul scosse la testa. — Ancora non riesco a capire.

Ould-Harrad parve non sentirlo. Il suo sguardo era remoto. — La Terra è troppo lontana, le sue istruzioni sono troppo confuse. Ho bisogno di un comitato che mi aiuti a decidere come risolvere una terribile situazione d'emergenza, dottor Lintz. Le sto chiedendo se, per favore, è disposto ad esserne membro.

— Naturalmente. Aiuterò in qualsiasi maniera possibile. Ma di che si tratta?

— C'è stato un ammutinamento — gli disse seccamente Ould-Harrad. Il labbro inferiore gli tremava per l'emozione. — Una banda di fanatici si è impadronita della Edmund Halley. Hanno preso il guardamarina Kearns quando ha scoperto i loro piani e…

L'uomo nascose gli occhi. — … e lo hanno buttato fuori dalla nave nudo, sulla neve! Loro… loro esigono i colombari e il trizio, altrimenti faranno saltare in aria tutte le scorte che abbiamo nei depositi sotto le tende al polo.

Saul lo fissò. — Ma cosa credono di poter fare?

Lo spaziale africano sbatté gli occhi, si riscosse, e alla fine incontrò nuovamente lo sguardo di Saul.

— Hanno calcolato una traiettoria di rimbalzo oltre a Giove. Gli ammutinati ritengono di poter effettivamente rubare la Edmund e di poter ritornare sulla Terra, vivi.

«Naturalmente, sembra che non gliene importi proprio niente se nel far questo condannano il resto di noi ad una morte certa.

VIRGINIA

Sfrecciò attraverso la Galleria E, stringendo un maglione di lana grigia sopra la sua tuta. Faceva freddo.

Troppo maledettamente freddo, perfino per lei. Tutti i membri della missione erano dei «caldi», gente che aveva una reazione vascolare minima. I capillari di Virginia non si contraevano molto quando venivano raffreddati, il che significava che si sentiva a suo agio quando la maggior parte della gente comune, i «gelanti», si sarebbero messi a tremare per il freddo. Il maggiore svantaggio era che i «caldi» perdevano il calore più in fretta e avevano bisogno di altro cibo. Il rovescio della medaglia era la libertà dal grasso: di rado i «caldi» avevano bisogno di mettersi a dieta.

Ma Carl aveva regolato la temperatura dell'aria tenendola talmente bassa che perfino i «caldi» avevano freddo. Virginia non sapeva se questo servisse davvero per deprimere la crescita delle alghe, ma certo deprimeva lei.

Entrò con sollievo nel nucleo più caldo della Centrale. I grandi schermi di monitoraggio traboccavano di mutevoli schemi giallo-verdi. Virginia li lesse con una sola occhiata: quelli del biologico stavano tenendo testa alla poltiglia, e le forme purpuree avevano rallentato la loro attività. Non che costituissero più il problema principale, ormai.

Saul stava conferendo con Ould-Harrad. L'uomo grande e grosso torreggiava sopra la corporatura filiforme di Saul, con le mani sui fianchi, scuotendo lentamente la testa in solenne disaccordo. La bocca di Saul era piegata in un curva cupa, esangue, che non gli aveva mai visto prima. Si afferrò a un appiglio, ruotò agilmente, e bordeggiando andò a fermarsi accanto a loro.

— Ho fatto girare la simulazione che mi hai chiesto — esclamò.

— Bene, bene. — Saul parve grato per quell'occasione di distogliere l'attenzione da Ould-Harrad. — E…?

— Posso disabilitare la maggior parte dei loro comandi se riuscirò a far saltare tre mech a bordo della Edmund. Poi avrò bisogno di cinque minuti per usarli.

Saul s'illuminò. — Eccellente! Presteranno attenzione al trasferimento a bordo dei colombari che hanno chiesto, accertandosi che non gli rifiliamo scorte inadeguate, e così via. I preparativi per la missione di salvataggio della Newburn non erano ancora completati quando il guardiamarina ha scoperto le loro intenzioni. Cosi, hanno bisogno di altre apparecchiature prima di andare.

— Questi bastardi! — sputò Virginia. — Spingere il povero Kearns fuori della camera di equilibrio… assassini! Se il mainframe della spedizione non fosse già stato trasferito su Halley, potrei entrare nel loro sistema di controllo e farli fuori tutti creando il vuoto nella nave!

Saul annuì. — Feroce ma giusto. Ahimè, sono sui controlli manuali, difficili da scavalcare. Tuttavia, consideriamo che non hanno cibo e aria a bordo per l'intero viaggio di ritorno. Devono essere dannatamente sicuri che gli daremo abbastanza colombari da far ritorno sulla Terra. Sono in quattordici, hanno detto. Adesso, se riusciremo a trovare il modo per distrarli, offrendo a Virginia una breccia…

— No — dichiarò Ould-Harrad. — Ci sono poche possibilità di avvicinarsi per poco più di qualche secondo con i mech. Ha sentito quello che ha detto Linbarger?

— Dovranno acconsentire che i mech si avvicinino alla Edmund quando cosegneremo i colombari — rispose Virginia.

Ould-Harrad corrugò la fronte. — La tua simulazione numerica… era completa? Hai cercato tu stessa di guidare i mech fino ai cavi per poi distruggerli?

— Be'… no. Non conosco così bene i sistemi della Edmund. Ho lasciato che lo facesse JonVon. Ho avanzato di grado il suo controllo dei mech e…

— Allora non possiamo essere sicuri, vedi? — Le sue sopracciglia si sollevarono a semicerchio sopra gli occhi scuri, con le iridi che nuotavano in mezzo al bianco nel quale appariva un sottile ricamo di vene rosse. — JonVon non ha pratica nel controllo dei mech. Le simulazioni sono sempre più facili delle operazioni vere e proprie. Io…

— Carl potrebbe farlo — disse in fretta Virginia. — Fallo venire qui, fagli provare la mia simulazione.

La bocca di Ould-Harrad si piegò in un'espressione di cortese incredulità. Poi sospirò, annuì e cominciò a parlare alla maniera veloce degli spaziali dentro un microfono da gola.

Virginia si rivolse a Saul. — Quanto tempo ancora?

— Ci hanno dato due ore.

— Sono matti! Non possono aspettarsi che noi…

— Sanno che possiamo trasferire i colombari di riserva, se cominciamo subito.

— Ma quell'appello ai «normali come loro» che offre un passaggio gratis fino alla Terra… Se qualcuno dovesse accoglierlo, Linbarger dovrà aspettare che salgano a bordo.

Saul ebbe un pallido sorriso. I suoi occhi parevano ricordare situazioni disperate di molto tempo prima. — Una mente febbricitante pensa che tutto il mondo possa dipendere da un decino. Inoltre stanno chiamando ognuno di noi… ah… normali al comunicatore. Per esigere che andiamo con loro, abbandonando tutto, partendo immediatamente… sempre che stiamo bene in salute, naturalmente.

— Ti hanno chiamato?

— Oh, sì. Sono stato tra i primi, un medico, perciò prezioso. Non hanno alcuna vergogna. Mi ero chiesto perché volessero vedermi alla telecamera, fino a quando non hanno interrotto all'improvviso la comunicazione, e me ne sono reso conto. — Ridacchiò, e si asciugò il naso con un fazzoletto chiassoso.

— La tua… influenza, o qualunque cosa sia. — Virginia provò un'irritazione irrazionale. — Non significa che tu sia davvero malato.

Saul sogghignò, sardonico. — Per loro sì. Sai, è come le recite dell'epoca elisabettiana, Shakespeare compreso. Se un personaggio tossisce al primo atto, puoi star sicuro che ha il vaiolo e morirà entro il terzo.

— Sono matti.

— Soltanto perché non vogliono prendermi con loro? — Scoppiò a ridere. — Non posso fare a meno di lodare il loro gusto, a dire il vero. Malgrado la mia professione, non mi sono mai piaciuti veramente gli ammalati, non nella loro cruda realtà. Tutte le loro idiosincrasie, la loro irascibilità, il loro tsuris. Li preferisco come astrazioni, come problemi di arte genetica.

Virginia non poté fare a meno di rispondere al suo sorriso. Era incredibile, mettersi a scherzare in quella maniera pacata, quasi maliziosa, autorimproverandosi, in mezzo a una crisi.

Ould-Harrad terminò di controllare la situazione con le squadre addette alle gallerie e quelle di superficie. — Dubito che abbia una grande importanza, comunque Carl sta arrivando.

— Bene — replicò Virginia. Si sentiva sollevata dai modi calmi e ironici di Saul.

Bene, per lo meno significa che non rischierà il collo per dare la caccia alla Newburn, pensò. Poi provò un'immediata vergogna. Probabilmente questo significa anche che l'equipaggio della Newburn continuerà ad andare alla deriva e morirà.

Si affannò a ragionare. — Sono… sono ancora convinta che la mia simulazione dimostri che si può fare.

— Può, forse — disse Ould-Harrad. — Che si debba… è un'altra faccenda.

— Dobbiamo fare qualcosa — ribadì Saul, con forza. — Dimentichiamo la Newburn per il momento. O che avremo bisogno della Edmund fra settant'anni. Il nostro immediato problema è che quasi tutti gli idroponici…

— Sì, sì. — Ould-Harrad sollevò una mano con un gesto di stanchezza. — Ma c'è forse da chiedersi se valga la pena di dare a quattordici persone la possibilità di tornare sulla Terra.

Saul roteò gli occhi verso il soffitto. — Non possiamo supporre che le malattie vinceranno! Sentite…

Virginia l'osservò lanciarsi nella stessa spiegazione che le aveva dato la sera prima, su degli approcci promettenti per curare le pestilenze.

È un uomo meraviglioso, in verità non dovrei trovare a ridire pensò. Ma Saul può essere molto noioso quando assume un tono pedante. Sentendo il calore della grande stanza filtrare dentro i suoi muscoli, si rilassò. Qui il «clima» raffigurato dalla parete era davvero notevole, con un'area così grande a disposizione. Era una spiaggia spazzata dal vento a metà mattino. Al di là dello scorrere dei dati sugli schermi, vide una raffica di vento che soffiava dal nord strappar via di colpo le bandierine di una lontana capanna dalle loro aste. Il cielo divenne greve, purpureo. Cumuli che qualche momento prima erano soltanto batuffoli di ovatta, si addensavano ribollendo, con i bordi più sottili che facevano da aloni luminosi ai centri tenebrosi.

Per puro caso, il programma che si svolgeva in quel momento creava un patetico inganno. Una tempesta simulata nel mezzo di una vera crisi. Se quello fosse stato uno spettacolo d'intrattenimento, come quelli di cui avevano goduto giornalmente, fino all'inizio dei guai, vi sarebbe stato anche il suono, perfino l'odore e la pressione sarebbero stati programmati. L'oceano s'increspava, agitato, innalzandosi in enormi cavalloni, le ombre delle nubi correvano su di esso come impazzite. Grosse gocce gelide battevano la spiaggia, grandi come chicchi di grandine. Un cupo vortice si abbatté sulla scena, srotolandosi come un gomitolo di filo, vomitando lampi giallastri. Come se avessero aspettato quel segnale, minuscoli granchi della sabbia, macchiettati, uscirono di corsa dalle loro buche precipitandosi verso il mare spumeggiante. I lampi balenarono ancora, e ancora, come se Dio stesse scattando delle fotografie pensò, sognante, paralizzata da quella rabbia silenziosa che si arricciava, schizzava e sfrecciava sulla parete. Virginia avrebbe voluto poter udire il brontolio del tuono che si allontanava, il sibilo della pioggia sulle dune.

Un grosso cane arrivò correndo da lontano, scavando la sabbia, cercando di afferrare i granchi fra i denti. La nebbia si raccolse in sottili addensamenti, Virginia provò l'intenso desiderio di sentire l'aria purificatrice appiccicarle gli indumenti sulla pelle, inzupparla, rimodellarle i capelli in un copricapo liscio e aderente. Neppure nella mia migliore senso-simulazione con JonVon riesco a evadere completamente. In questo momento la scambierei con un biglietto di ritorno a casa. Riconosceva la nostalgia: essere lontana da qui. Respirare l'aria salmastra, sentire la sabbia granulosa sotto i piedi, odorare il vento sferzante. E una volta che l'avesse sentito, sapeva come metterlo da parte, come tornare al presente. Se non fosse stata capace di farlo, non avrebbe mai potuto far parte dell'equipaggio. Ma questi folli ortho stanno mettendo a repentaglio la missione, con queste fantasie di fuga.

Carl arrivò, con un pizzetto rosso-bruno al mento, ma senza mostrare nessuna fatica. Galleggiò fino ad una rete che fungeva da mobilia in condizioni di bassa gravità: — Ho fatto recuperare Kearns da un mech. È una statua di ghiaccio.

Virginia disse: — C'è qualche…

— Niente da fare. Le sue cellule sono scoppiate. — Carl sospirò, passandosi la mano sul viso come per dileguare tutto questo, quasi fosse un brutto sogno. Riprese visibilmente il controllo di sé e proseguì con calma deliberata, senza nessuna inflessione: — Ho intensificato le misure di sicurezza alle camere di equilibrio di superficie, nel caso in cui qualcun altro cerchi di unirsi a loro.

— Ah, bene — annuì Ould-Harrad.

Carl disse ancora: — Ho piazzato Jeffers e alcuni mech armati di laser fuori dalla visuale della Edmund.

— A quale scopo? — chiese con freddezza Ould-Harrad.

— Per garantirci nel caso in cui tentino qualcos'altro —. Carl studiò Ould-Harrad in ansiosa attesa di una reazione. — Cos'hai intenzione di fare?

— Vorrei un rapido controllo della simulazione di Virginia — rispose Ould-Harrad.

Carl annuì e si avvicinò a una consolle. Batté la sequenza e s'infilò in tempo reale dentro di essa, dimentico della loro nervosa aspettativa. Attesero ansiosamente fino a quando Carl non si staccò, rimettendo il casco al suo posto.

— Non funzionerà — disse Carl.

— Perché no? — volle sapere Virginia. — Ho passato…

— I mech non sono abbastanza veloci nei lavori ravvicinati.

— JonVon gliel'ha fatto fare!

— JonVon è formidabile per minimizzare i movimenti, certo. Ma non prevede fattori di sicurezza o errori. E c'è sempre del lavoro a distanza ravvicinata.

— Potrei fare delle correzioni, introdurre la stocastica…

— Non con l'orologio che scandisce i secondi — concordò con riluttanza Saul. — Se un mech trovasse una scatola lasciata per terra, consulterebbe JonVon e ci sarebbe una pausa. Semplicemente, non c'è abbastanza tempo.

Virginia sbatté le palpebre, sentendosi offesa per il fatto che Saul si fosse schierato così in fretta con Carl. — Io penso ancora…

— Questo sistema le cose — intervenne Ould-Harrad. — Dio e la Sorte lavorano insieme. Dobbiamo lasciarli andare.

— Non possiamo — ribatté con fermezza Saul. — Gli idroponici, la Newburn, il…

— Lo so. C'è un mucchio di attrezzature di cui sentiremo la mancanza — disse Ould-Harrad. — E, forse, questa mancanza accelererà la nostra fine. Ma non abbiamo scelta. Non sono disposto a consentire un qualunque attacco contro la Edmund.

— È… pazzesco! — sbottò Virginia.

Il volto di Ould-Harrad era impassibile, distaccato. — Quando si deve affrontare la morte, ciò che più importa è l'onore. Io non farò del male ad altri.

Saul e Carl condivisero un'espressione d'incredulità e frustrazione. Virginia pensò: Ould-Harrad non si opporrebbe ad una ribellione degli ortho, ma se ci provassero i percell…

— E se la disabilitassimo? — chiese quasi distrattamente Carl, lasciandosi andare all'indietro con le mani sulla nuca, stiracchiandosi.

Ha rinunciato alla Newburn. E deliberatamente non mostra niente di ciò che prova.

— Hai sentito quello che ha detto Linbarger — gli spiegò pazientemente Ould-Harrad. — Se daremo un qualunque segno di voler portare fuori dei congegni, qualunque cosa che possa venire usata come arma…

— Già, loro useranno contro di essa i grossi laser. Sicuro. Ma non possono spararti se sei già dentro la nave.

Ould-Harrad insisté: — Come ho detto, qualunque approccio…

Saul intervenne: — Credo di capire… Spediamogli un cavallo di Troia, giusto?

Carl sorrise. — Proprio così. Dentro i colombari che vogliono.

Gli occhi di Ould-Harrad si spalancarono, mostrando l'intero disegno di vene rosse. — Una bomba? Potrebbe danneggiare qualsiasi cosa, ferire qualcuno. Non ci sarebbe nessun controllo…

— Nessuna bomba — l'interruppe Carl con una smorfia. — Un vero cavallo di Troia… mettiamoci dentro degli uomini.

Vi fu un lungo silenzio mentre si studiavano a vicenda. Virginia poteva leggere la perplessa riluttanza di Ould-Harrad; era chiaro che quell'uomo aveva deciso di accettare le richieste di Linbarger, lasciando che la spedizione si arrangiasse in qualche modo per i prossimi settant'anni. Il suo stoicismo pan-equatoriale aveva avuto la meglio.

Carl, però, era quasi baldanzoso, sicuro che il suo piano avrebbe funzionato. Meditabondo, f.aul diede una scorsa mentale alle molte possibilità di errore e disastro, ma si leccò le labbra in inconscia anticipazione, tentato, quasi divertito da quell'improvvisa speranza.

E io cosa penso? Virginia si rese conto di essersi inalberata davanti al convincimento di Ould-Harrad che Linbarger andasse assecondato. Aveva studiato le mappe che gli ammutinati avevano trasmesso. La Edmund aveva una quantità di combustibile appena sufficiente per descrivere un arco verso l'esterno con quella che talvolta veniva chiamata manovra di Byrnes: un tuffo e una rapida rotazione nella morsa gravitazione del grande pianeta, una rapida traiettoria verso la Terra, tentando, al rendez-vous, una frenata non distruttiva con più passaggi nell'alta atmosfera… Ma la finestra per attuare una simile manovra si stava chiudendo in fretta, rimanevano ormai soltanto pochi giorni.

Ould-Harrad sta forse facendo la commedia? È possibile che abbia in mente di rifugiarsi sulla Edmund all'ultimo momento, per tornare insieme a loro sulla Terra?

— Non so… — cominciò a dire dubbioso Ould-Harrad.

— Pensaci — lo interruppe Saul. — Intravedo un grosso problema.

Carl corrugò la fronte. — Quell'attrezzatura è vitale. Ci saranno volontari in abbondanza.

— Di questo non dubito. Ma un colombario è basso e stretto. Non potresti entrare in un loculo con addosso una tuta spaziale.

— E allora? Io… — La voce di Carl si spense.

— Sì. L'ovvia difesa per loro sarà aprire i loculi nello spazio, per essere certi che non c'è nessuno dentro.

Carl si morse il labbro, pensandoci. Virginia era acutamente conscia dei secondi che scorrevano via. Le piaceva il piano di Carl, non ultimo perché offriva loro qualcosa con cui trattare. Se Linbarger avesse decollato, la spedizione avrebbe dovuto fabbricare la propria biosfera senza molte delle porzioni vitali. Un conto era far germogliare e crescere qualche seme sotto le lampade, e un altro era dare inizio dal niente ad un intero ecosistema interconnesso. Era come cominciare a fare il giocoliere subito con otto palle. Fra tutti i modi che ci sono di morire qua fuori, non avevo considerato quello di morire di fame.

Irritato, Carl sbottò seccamente: — Non ci avevo pensato.

Un lungo, fremente silenzio. Momenti che cadevano in un abisso.

Virginia aveva una tecnica tutta sua per trattare i problemi quand'era sotto pressione. Quando, sulla Terra, aveva cominciato a fare delle simulazioni dettagliate, aveva sviluppato dei problemi così vasti che aveva dovuto prenotare con giorni o settimane di anticipo giganteschi mainframe. Se il vostro programma andava storto, lo si poteva fermare a metà. Poi c'erano alcuni minuti durante i quali il sistema faceva dei calcoli più semplici e di routine per lontani usufruitori. Potevate mantenere il tempo che vi era stato sistemato, e far girare ancora la vostra simulazione, se riuscivate a scoprire dove stava la difficoltà e riuscivate a risolverla in quel breve intervallo.

Sotto una simile pressione era facile far cilecca. Così, lei aveva sviluppato un modo per permettere alla sua mente di distogliersi dal problema, di fluttuare libera, permettendo all'intuizione di far capolino attraverso quell'ansia opprimente. Mettere a fuoco la mente al di fuori di quel particolare momento, lasciare che la sua superficie si rilassasse…

Oziosamente notò che sulle pareti la tempesta si era addensata, infuriando fosca e ribollente. Il vento soffiava via cuspidi di schiuma dalle ripide onde, ed enormi gocce d'acqua martellavano gli esili fili d'erba che spuntavano sulle dune, sull'entroterra, schiacciandoli. Il cane era scomparso, i granchi si aggiravano senza una meta tutt'intorno sotto quelle gocce che picchiavano incessanti. L'aria pesante ribolliva, quasi fin troppo densa perché si potesse respirare…

— Aspettate — disse Virginia. — Ho pensato a qualcosa.

CARL

Si rese conto che, sì, i loculi dei colombari erano molto simili a bare. Era quello che l'aveva sempre preoccupato quando ci rifletteva.

Aveva con sé una piccola torcia elettrica, grazie a Dio. Poteva vedere quella granulosa lucentezza a pochi centimetri dal suo viso, sentire la morbida imbottitura intorno a sé. Quell'intrappolamento ermetico, la costrizione, il freddo… Al buio sarebbe stato peggio. Molto peggio. Non gl'importava il vuoto sbadigliante dello spazio aperto, libero e infinito. Quella bara angusta era diversa.

Un minuto prima Carl aveva percepito la lieve trazione dell'accelerazione e adesso contava i secondi, scandendo il tempo stimato che i cinque mech avrebbero impiegato per attraversare il tratto che li separava dalla Edmund.

Ecco. Una leggera spinta in avanti, che lo fece aderire alla grigia piastra che lo copriva. Il naso la sfiorò e una lieve forza torcente lo fece girare in senso orario.

Quella doveva essere la decelerazione, poi un giro per l'attracco. Quasi certamente sarebbero entrati dalla stiva di poppa.

Un sordo sferragliare. Probabilmente si stavano inserendo nell'autotrasportatore. Poi i mech si sarebbero staccati…

Cinque sonori sprang. Bene.

Adesso… se l'idea di Virginia era giusta…

Un rumore raschiante, lì accanto. Il grappino di un mech fece presa, clank, sulla maniglia dell'apertura manuale del portello. Carl poteva immaginare la maniglia interna che ruotava. Si tenne saldo, respirò profondamente…

Il portello si aprì con uno schiocco e, swuuush, l'aria all'interno del colombario si precipitò fuori, facendo sbattere le cinghie sulle sue spalle e sulla sua divisa azzurra.

Succhiò l'aria dentro, attraverso la maschera sul suo viso. La rischiosa soluzione di Virginia: una piccola bombola d'aria, niente tuta spaziale.

Gli orecchi gli schioccarono, malgrado i tappi a pressione che portava su di essi. Un paio di occhialoni gli proteggevano gli occhi per impedire al fluido di schizzar dentro, chiudendogli e congelandogli le palpebre. Le cinghie erano così strette da mordergli dolorosamente la carne. Fra lui e il vuoto non c'era altro.

Il coperchio del loculo era bloccato alla prima tacca di sicurezza, lasciando una fessura di cinque centimetri. Ai di là di quella fessura Carl intravide l'aspro bagliore bianco della luce del sole che colpiva in pieno il bordo dell'oblò di poppa. Il suo loculo era stato agganciato al trasportatore come aveva immaginato. Vide qualche stella, e un'ombra che si muoveva sulla lontana, liscia curva dello scafo della Edmund. Quello doveva essere un mech che stava per aprire il coperchio del loculo successivo, per controllare se i greci non avevano portato doni…

Aveva scommesso che Linbarger avrebbe considerato quella precauzione sufficiente. Se si era sbagliato…

E Linbarger era già ipersospettoso, dopo che avevano scoperto e bloccato il tentativo di Virginia di prendere il controllo dei mech della Edmund. Ould-Harrad aveva insistito di tentare quello per prima cosa, la cosiddetta soluzione facile, che era subito fallita.

Adesso, per quanto riguardava quella difficile…

Linbarger doveva volere che i mech si fossero molto allontanati dalla Edmund prima che qualcuno si avventurasse all'interno della stiva per assicurare i colombari. Ciò dava a Carl due, forse tre minuti.

Carl sollevò del tutto il coperchio e fluttuò fuori, avvolgendosi su se stesso a palla mentre lo faceva. Indossava una divisa, guanti e stivali, e nient'altro.

Quanto tempo ci sarebbe voluto prima che l'aria venisse ripristinata? Gettò un'occhiata all'unghia del suo pollice. Venti secondi.

Saul aveva calcolato tre minuti di esposizione al vuoto prima che cominciasse a sentire gli effetti. Poi lo squilibrio della sua pressione interna si sarebbe fatto serio e avrebbe cominciato a provare una sensazione di stordimento, e chiunque fosse entrato nella stiva avrebbe potuto trattarlo come se fosse stato il gatto di casa ubriaco.

Non che Linbarger e la sua banda avrebbero perso tempo con lui. Probabilmente, l'avrebbero spinto fuori della camera di equilibrio augurandogli buon viaggio, come avevano fatto con il povero Kearns. Fatti una bella passeggiata fino a casa…

Si raddrizzò e si guardò intorno.

La stiva era vuota. Probabilmente stavano osservando i mech che si staccavano e arretravano.

Si spinse lontano e cercò di orientarsi. Il comando manuale del portello della camera d'equilibrio, ora spalancato, era una grossa maniglia rossa, deliberatamente assai appariscente, girata a sinistra a un angolo di trenta gradi, sul lato opposto della stiva. Gli orecchi gli schioccarono di nuovo. I suoi sensi facevano squillare segnali d'allarme, ma lui li soppresse tutti e si lanciò attraverso la stiva verso la leva rossa della chiusura ermetica.

A metà percorso qualcuno lo affrontò.

La figura in tuta spaziale lo sbatté all'indietro dentro la stiva, cercando di afferrare il suo tubo dell'aria. Carl si contorse, riuscendo a liberarsi e ad allontanarsi con uno scatto.

Naturale. Ovvio. Linbarger aveva messo qualcuno fuori, per ispezionare i mech a mano a mano che arrivavano per essere certo che non ci fosse nessuno aggrappato al loro ventre. Inoltre, da quella posizione l'uomo poteva sorvegliare anche l'interno della stiva.

Idiota! si rimproverò Carl per non averlo previsto.

Mancavano novanta secondi.

Si separarono, entrambi andando alla deriva per l'asse lungo della stiva. Ci sarebbero voluti dieci secondi prima che l'uno o l'altro toccassero una parete. L'uomo in tuta spaziale agitò le braccia per regolare i suoi getti e cambiò direzione, muovendosi agilmente fra Carl e la vistosa maniglia rossa.

Carl non aveva alcun dubbio che l'individuo fosse in grado d'impedirgli di raggiungere la leva, per un buon minuto o giù di lì. L'ortho aveva i getti, l'aria e tutto il tempo di questo mondo.

Dannazione. E fa anche freddo, per giunta. Carl si contorse, cercando qualcosa, qualsiasi cosa.

Ecco. Una serie di utensili. Planò fino alla rastrelliera, vi si agganciò saldamente, si stiracchiò, e agguantò una chiave inglese automatica. Mirò con cura la figura a dieci metri da lui, e la scagliò.

Mancò l'uomo di un buon metro. Carl riuscì a vedere il volto dell'altro che si apriva in un ghigno sardonico, le labbra che si muovevano, descrivendo il tutto, con ovvio compiacimento, a quelli che si trovavano sul ponte della Edmund.

Il che era proprio quello che Carl voleva. Il lancio di quella pesante chiave inglese gli aveva dato un'altra spinta: scivolò lungo la stiva, ruotando come un mulino a vento, e cambiò assetto per assorbire l'impatto con le gambe.

Dov'era quel dannato…

Si lanciò verso di esso. L'estintore si staccò con facilità dai suoi morsetti. Carl puntò l'ugello verso i suoi piedi e l'attivò. Una nube bianca perlacea si gonfiò sotto di lui e Carl schizzò attraverso la stiva, senza ancora avvicinarsi alla leva rossa dello sblocco. Gli orecchi gli schioccarono una volta ancora. Macchie purpuree gli danzarono davanti agli occhi, trasformandosi in tante lucciole…

Colpì la parete opposta, questa volta impreparato. Una maniglia gli si piantò nelle costole.

Dov'era…? Si lanciò verso l'uomo, cavalcando un getto di schiuma. Giusto a metà strada si contorse come un gatto, puntando l'ugello dell'estintore davanti a sé, e di colpo l'aprì al massimo.

Azione e reazione. Rallentò, si fermò, e la bianca nube schiumeggiante lo avvolse. Schizzò via di nuovo, sfrecciando all'indietro, fuori dalla nube che si andava assottigliando.

Dovunque, un colore purpureo che si andava oscurando. La cruda luce delle lampade degli ormeggi non riuscì a penetrarlo…

Adesso, prima che quella nebbia ribollente si schiarisse, si girò di nuovo e schizzò una volta ancora. Volò attraverso un vuoto biancore, e colpì qualcosa di morbido, cedevole.

Afferrò l'uomo con un braccio, calando su di lui l'estintore. Delle mani cercarono di ghermirlo, artigliandogli la maschera che aveva sul viso.

Spinta, direzione…

Quale… quale mai?

Non aveva importanza. Premette l'ugello contro l'uomo e schiacciò di nuovo il pulsante.

Una nuvola di gas grigio.

Freddo, così freddo…

… una mano gigantesca che lo spingeva indietro…

Un lungo istante di planata… l'estintore gli sfuggì di mano… le mani intorpidite… rotolava via… avvertiva un freddo dolore alle gambe… era impossibile vedere… quel colore purpureo diventava sempre più scuro… chiazzato di macchie bianche simili a sciami di api che sfrecciavano dentro e fuori… dentro e fuori… roteando…

… poi una dolorosa fitta alla gamba lo fece trasalire, un crac quando il suo cranio colpì il ponte.

La botta ridestò di colpo i suoi sensi sopiti. Artigliò l'aria alla ricerca di un appiglio. Sollevò lo sguardo.

La nebbia si stava diradando. Appena fuori della camera di equilibrio Carl riuscì a vedere la figura in tuta spaziale che si dimenava, rimpiccioliva, cercando di riorientarsi per poter usare i propri getti. Un grazioso insetto argenteo…

La spinta dell'ultimo impulso aveva operato con uguale efficacia per entrambi, spingendo Carl verso l'interno e l'altro uomo verso l'esterno.

Carl si lanciò verso la maniglia rossa. L'afferrò, la tirò. Il portello si chiuse proprio un attimo prima che il suo avversario lo raggiungesse, e il forte rombo dell'aria ad alta pressione risuonò dappertutto come uno strombettante e rude grido di festa.

— Ce l'ho fatta — annunciò Carl dentro il suo comunicatore. — Le valvole sono bloccate. — Ansimava nell'aria viziata e odorante d'olio del cilindro pressurizzato.

— Bene! — gli rispose Ould-Harrad all'orecchio. Adesso non c'era nessuna indecisione, nessun fatalismo nella sua voce. — Linbarger, hai sentito?

— Cosa sta blaterando quel somaro? — giunse la risposta di scherno del capo degli ammutinati.

— Carl Osborn ha intasato i condotti di alimentazione della fusione — scandì Ould-Harrad, in tono deciso.

La voce di Helga Steppins risuonò sullo sfondo: — Porco fottuto, ti avevo detto di coprire i tubi di prua!

Ancora più lontano: — Dev'esserci strisciato attraverso la sezione 3F. Merda, non possiamo coprire ogni più piccolo…

— Chiudi il becco. — La voce di Linbarger divenne più forte quando si rivolse a Ould-Harrad: — Lo staneremo di là facendolo sudare.

— Provaci, e scarico il trizio nell'impianto di ventilazione — replicò Carl con voce tesa.

— Cosa? — Linbarger riuscì a malapena a dominare la collera. Volle sapere da un invisibile luogotenente: — Può farlo?

Una risposta in distanza: — Non so… Sì, se aprisse quei condotti pressurizzati che portano alla riserva del nucleo. Potrebbe aver avuto il tempo di farlo.

— Senza trizio da bruciare, la vostra pila a fusione non raggiungerà la temperatura d'innesco — aggiunse Carl a mo' di aiuto, sogghignando.

— Tu…! — La comunicazione con Linbarger cessò.

Carl si contorse, girandosi, e si accertò che l'ingresso alle sue spalle fosse bloccato da un robusto armadietto. Aveva piazzato due chiavi inglesi dal lungo manico nei due punti cruciali per la pressione, pronto ad aprire le valvole, spaccandole. Potevano arrivargli addosso da dietro, ma lui sarebbe riuscito a spruzzare un bel po' di fluido prezioso nello spazio esterno prima che riuscissero a bloccare di nuovo le valvole. Certamente quanto bastava a mandare a monte il loro progetto.

— Sei sicuro di poterlo fare, Osborn? — chiese con cautela Ould-Harrad.

— Sì. — Cosa vuoi che ti risponda? No? Con Linbarger che sta ascoltando?

— Be', questo ci offre senz'altro una miglior posizione per negoziare…

— Negoziare un corno! Li abbiamo per le palle.

— Se dovessero arrivarti addosso abbastanza in fretta, forse riuscirebbero a conservare abbastanza trizio da riuscire ad attuare un sorvolo multiplo di Marte. Tirare a sorte per decidere l'assegnazione dei nove loculi che hanno adesso. Poi…

— Piantala con questa merda. — Su, avanti, dagli qualche altra idea.

— Sto soltanto…

— Ho detto piantala!

— Sto cercando d'impedire…

— Non sei tu che rischi da questa parte, Ould-Harrad.

Si girò di scatto, lo sguardo sui condotti di alimentazione che si dipartivano sulla sinistra scomparendo in distanza. Se qualcuno avesse cercato di arrivare da quella parte strisciandoci dentro, avrebbe potuto cercare di sparargli. Ma sarebbe stato stupido, proprio nel mezzo del nucleo della fusione. Se avessero danneggiato quegli infissi, avrebbero impiegato settimane per sostituirli, sempre che avessero potuto farlo.

Linbarger disse con voce cupa: — Mi senti su questa linea, Osborn?

— Sono proprio qui, a soli cento amichevoli metri di distanza.

Silenzio. Poi la voce stridula e tesa di Linbarger scandì lentamente: — Attiveremo l'interruttore di emergenza se non te ne vai.

Carl trattenne il respiro, poi lo esalò lentamente. Quella era l'unica alternativa che non aveva menzionato a nessuno. Non era un'idea brillante, poiché l'impianto di emergenza poteva fare danni assai seri se fosse stato usato nella maniera sbagliata… e Linbarger non aveva nessuna esperienza in proposito. Ma aveva visto la possibilità di «friggere» Carl quando i fluidi roventi fossero schizzati attraverso quella rete di tubi. E Linbarger era abbastanza disperato da farlo.

Carl rispose, con tutta la calma di cui fu capace: — Brucerai tutto, quaggiù.

— No, se faremo attenzione. Non ci vorrà molto fuoco di fusione per cucinarti e ridurti a una bella vetrificazione azzurra. — Era chiaro che Linbarger se la stava spassando da matti, pensando di aver rovesciato la situazione.

— Scaricherei lo stesso il trizio. — Adesso vediamo quanto ne capisce.

— No, non lo farai. I sottosistemi bloccheranno quei condotti non appena cominceremo a farlo. È automatico… è specificato proprio nei piani della nave.

Maledizione. — Non è così che funzionerà. — Bluff.

— Non cercare di raccontare balle a me.

Linbarger era più abile di quanto Carl avesse pensato. Ma non avrebbe vinto.

— Non tornerete mai sulla Terra. Già così siete scarsi di trizio. Ne scaricherò quel che basta per essere sicuro che farete un lungo viaggio. Non riuscirete mai a incocciare l'accelerazione giusta per un rimbalzo con Giove. Anche con i colombari, morirete lo stesso di fame.

— Abbiamo gli idroponici.

— Sicuro, ma niente acqua extra per farli funzionare.

— C'è il ghiaccio di Halley subito fuori di qui.

— Provate a uscir fuori. — Carl lasciò intuire cosa sarebbe successo. — Ehi, Jeffers, dov'è andato a finire quell'archista che ho soffiato fuori dal portello?

— Quale archista? Vedo solo pezzettini qua e là.

Silenzio.

Questo pan per focaccia non poteva andare avanti per molto tempo ancora. La voce di Linbarger stava diventando sempre più sottile e spenta. Le parole venivano sparate fuori troppo in fretta, schizzavano sotto la pressione del momento.

Carl serrò i muscoli delle mascelle, chiedendosi se credere o no alle proprie parole. Se Linbarger avesse agito, sarebbe stata una questione di secondi, per lui. Carl avrebbe dovuto scegliere se lanciarsi verso il boccaporto di poppa e cercare di fuggire, oppure usare le chiavi inglesi. Non c'era tempo per tergiversare…

— Stai mentendo. — Adesso Linbarger non appariva più tanto sicuro.

— Vai a farti fottere.

— Non faresti…

— Comincio a scaricare il trizio, adesso.

— No! — esclamò Ould-Harrad. — Non permetterò che arriviamo a questo. Avevamo raggiunto un accordo…

— E tu hai fatto il doppio gioco! Amante dei percell! — abbaiò Linbarger.

Ould-Harrad ribatté: — Non potevo permettere che quell'attrezzatura per gli idroponici venisse portata via. Vi eravate rifiutati di capirlo.

Carl intervenne, caustico: — Non scusarti con quella feccia.

— Carl — disse Ould-Harrad, — devo chiederti di fermarti…

— La festa è finita — esclamò Carl. — Linbarger, arrenditi!

— Credo che ti farò assaggiare un piccolo impulso di robetta calda, Osborn. Potrebbe insegnarti un po' di buone maniere.

— Nell'istante stesso in cui sentirò un gorgoglio attraverso quei tubi, testa di cazzo di un archista, io…

— Basta, tutti e due! Dobbiamo trovare un accordo! — La voce dell'africano era frenetica.

Un lungo silenzio. Carl cercò d'immaginare quello che doveva passare attraverso la testa di Linbarger. A quanto pareva quell'uomo era riuscito a nascondere al Comitato Psichiatrico il suo odio frenetico nei confronti dei percell. O forse era semplicemente impazzito. Adesso era in grado di ragionare, dimenticandosi l'odio, cercando di essere almeno in parte razionale?

Dannazione! Hanno perso. Possibile che Linbarger non lo capisse? Oppure avrebbe dato la sua preferenza al momento della vendetta? E lui, Carl, l'avrebbe saputo da un sussurro nei condotti…

— D'accordo. — La voce di Linbarger era raschiante, acida.

Ould-Harrad rispose: — Cosa? Sei d'accordo?

— Scambieremo gli idroponici per il trizio e i colombari.

— No! — urlò Carl. — Li abbiamo in pugno!

— Zitto, Osborn! — gridò Ould-Harrad.

— L'alternativa — proseguì Linbarger, lentamente, — è che io faccia saltare in aria la Edmund Halley. È meglio… noi qui siamo tutti d'accordo… meglio una morte rapida piuttosto che…

Carl provò un brivido gelido nell'udire quella voce biascicata, folle e gracidante. Era del tutto convincente. Parla sul serio, pensò.

— Gesù — bofonchiò.

Prima la morte del suo capitano. Adesso la Edmund.

Finalmente, Ould-Harrad parlò: — Noi… faremo lo scambio.

Cos'è uno spaziale senza una nave spaziale? si chiese Carl, stordito. Cosa saremo noi, una volta che la Edmund se ne sarà andata? Era troppo orribile anche soltanto pensarci.

— Potete scaricar fuori la roba degli idro — disse Linbarger. — Fate uscire Osborn da lì e io regolerò i mech perché lo facciano.

— No. Io rimango qui finché non sarà stato fatto.

Un altro silenzio. — Bene… — Un'altra animata discussione fitta di sussurri. Alla fine: — Va bene. Potete usare quei mech per staccare il modulo della serra principale come unità a se stante. Fate in fretta… altrimenti friggerò quello stronzo di percell.

Carl lasciò andare un lungo, lento respiro. Il pensiero che aveva represso durante tutti quei lunghi minuti, che aveva continuato a pungolarlo, eruppe finalmente in superficie. Perché lo fai? Potresti morire, imbecille! Adesso che l'aveva lasciato emergere, non trovava una risposta.

— Spicciatevi — disse, irritato.

SAUL

aprile 2062

Agitandosi, guizzando nella soluzione salina, le minuscole creature si muovevano qua e là, cacciando, sempre cacciando.

Certe sostanze, sapori, li attiravano verso l'equivalente di ciò che era dolce. Altre le respingevano. La scelta era sempre così facile, una logica di chimica trofica. A livello cellulare non c'erano sottigliezze, nessun futuro di cui preoccuparsi. Nessun passato che potesse ossessionare i sogni di qualcuno.

Saul era pensieroso mentre osservava le minuscole creature che pulsavano sotto il microscopio a fibre ottiche. Erano l'ultimo e il più potente dei nuovi sviluppi che aveva elaborato durante i due mesi trascorsi dall'ammutinamento. Bombe biologiche intelligenti per una guerra non voluta contro la cometa di Halley.

Così, tante regole secondo le quali era abituato a vivere (codici di lenta cautela quando si effetuavano esperimenti con cose del genere) erano state accantonate per arrivare a quel punto. Invidiava quei piccoli microbi, in un certo senso, giacché essi si sarebbero comportati com'erano stati programmati a fare, ma lui, il loro «creatore», si ritrovava con il suo carico di dubbi e di mistero.

No, è naturale che voi non vi preoccupiate, piccolini. Il senso di colpa è un lavoro di squadra, una caratteristica dei metazoi eucariotici, un ampio assembramento di cellule che congiurano fra loro, raccolte insieme per formare uomini e donne, società… dèi.

Guardate me, che mi arrabatto con ciò che capisco appena, con la discutibile scusa che tutte le nostre vite umane dipendono da questo. I cianuti avevano dietro di sé tanta storia quanto lui. I loro minuscoli antenati avevano passato ben più di tre miliardi di anni ad evolversi nelle acque della Terra. Poi, pochi milioni di anni prima, si erano adattati per assumere un modo diverso di vita in un'altra zuppa salata: i fluidi corporei di creature complesse con grandi cellule nucleate.

Quante migliaia di miei antenati hanno ucciso, per stabilire quella prima testa di ponte? Quanti triliardi di loro, sull'altro lato, sono stati combattuti e respinti dai sistemi immunitari dei miei progenitori, attaccati dagli anticorpi e trasportati alla loro distruzione, oppure avviluppati e digeriti dai globuli bianchi? Quanto tempo c'è voluto perché venisse finalmente dichiarata una tregua… perché l'evoluzione elaborasse una pace negoziata, una simbiosi?

Era una domanda senza risposta. Ma a un certo punto del passato un essere umano e qualche ancestrale cianuto avevano raggiunto un accidentale accordo. In cambio d'una poco importante funzione di pulizia nella cavità polmonare, a quelle creature era stato garantito un salvacondotto dal sistema immunitario del corpo. Si erano insediati vivendo un'esistenza innocua, così innocua che in effetti non erano stati scoperti fino agli ultimi pallidi giorni del secolo precedente.

Nella nostra saggezza abbiamo voluto metterci lo zampino, trasformandoli in «cianuti». E, il cielo mi perdoni, non me ne vergogno affatto. Cento fra uomini e donne hanno consacrato mezzo decennio della loro vita per modificare i frutti di quattro giga-anni di evoluzione. Ottenuto uno speciale permesso, abbiamo usato gli strumenti di Simon Percell, e abbiamo forgiato una cosa bella e utile.

Ma questo!

Le creature sullo schermo erano state cambiate ancora di più, erano stati dati loro nuovi e frastagliati rivestimenti di proteine, erano state sforbiciate e modificate con catene molecolari progettate su misura, analizzate e rianalizzate da «enzimi lettori»… deformate dagli stimoli di un'emergenza che nessuno aveva previsto.

Per fare quel lavoro c'erano volute soltanto otto settimane dal giorno dell'ammutinamento. E, salvo per Virginia e il suo famiglio biocibernetico, e qualche incerto suggerimento da alcuni coraggiosi colleghi sulla Terra, non aveva avuto nessun aiuto.

Secondo tutte le leggi della biologia non avrei dovuto affatto riuscire, non senza una squadra di ricercatori e migliaia di ore di accurata simulazione. Milioni di test. Montagne di fortuna.

Lo sapevo anche troppo bene!

C'è da stupirsi che abbia anche soltanto tentato.

Gli occhi di Saul guizzarono sopra quei display di dati che scorrevano davanti, vedendo soltanto il successo. L'uniformità della cosa lo rendeva più nervoso di qualunque difetto. Era troppo perfetto.

Ho prelevato dal mio sangue sia i cianuti che hanno fatto da campione che le unità di lettura. I dati di quelle linee arrivano fino a cinque anni fa e oltre.

Ci sono elementi della vita di Halley nella nuova forma… Ho dovuto includerli.

Saul scosse la testa. Non riusciva a vedere come ciò avrebbe spiegato questo suo successo così opportuno.

Alla sua sinistra, una delle ultime simulazioni a colori di JonVon continuava a rigirare senza sosta una complessa catena frastagliata.

Quell'intricato composto zuccherino era sconosciuto nella casistica. La notte prima, mentre teneva Virginia stretta a sé, le aveva detto che l'Accademia della Terra voleva dargli il suo nome.

— È un grande onore, no? — gli aveva chiesto lei con voce sonnolenta. Il cavo che usciva fuori serpeggiando dal suo connettore neurale pareva una treccia di capelli e non interferiva affatto.

Lui aveva sorriso e le aveva accarezzato le ciocche lustre — Sicuro. Hanno anche ripristinato la mia associazione. Ma dare il mio nome a una sostanza chimica…

— Non vuoi che lo facciano? — gli aveva chiesto Virginia.

— Diavolo, no! — Si era messo a ridere. — Pensa al povero Thomas Fruck, con il suo nome legato per sempre al fruttosio!

Era troppo addormentata e languida a causa degli slanci amorosi per riuscire a fare qualcosa di più che allungare la mano dietro di sé e dargli un pizzicotto per l'affronto di quella battuta.

SERIAMENTE, DOVREI SUGGERIRE UN NOME, aveva subvocalizzato. A quel punto JonVon conosceva abbastanza bene le loro reti di superficie da riuscire a esprimersi con parole chiare per la maggior parte del tempo. Saul aveva sentito riecheggiare l'indulgenza di Virginia, amplificata, alla stessa maniera con cui il suo ardore sessuale e l'acme orgasmica si erano impressi nella sua mente qualche tempo addietro, come esplosioni che cercavano di scardinargli la superficie del cranio.

— Uhmmmm — borbottò. Aveva sentito che Virginia stava sprofondando nel sonno.

… COM-ETOSO… o COM-ATOSO… era arrivato il suo suggerimento.

Saul era rimasto talmente offeso da quella orribile battuta, che non gli era neppure venuto in mente fino a qualche tempo dopo che quando l'aveva sentita Virginia doveva già essersi addormentata.

Qualunque fosse il suo nome, la chiave era il composto zuccherino… la dolcezza che aveva usato per forgiare un cannone di marzapane.

Il pazzo disperso, Ingersoll, ormai una leggenda delle caverne più basse, gli aveva dato un'idea. Non molto tempo dopo che aveva intravisto quell'uomo cibarsi delle forme di vita di Halley nei corridoi esterni, aveva fatto qualcosa di dichiaratamente folle: aveva assaggiato lui stesso un po' di quella vegetazione che cresceva sulle pareti.

L'aveva trovata dolce, pungente, come gocce di limone.

Saul si era affidato a un'intuizione. Aveva cominciato alcuni esperimenti. Ed eccoli qui, i nuovi cianuti. Erano ancora capaci di svolgere i loro vecchi lavori, ma adesso erano voraci anche nei confronti di qualunque cosa avesse dei particolari zuccheri complessi… verso qualunque invasore mostrasse abiti con l'etichetta «Halley».

Sullo schermo le minuscole creature si ammassavano dove dei fattori rivestiti di agenti virali cometari scorrevano fuori dalla punta di un ago. Gli strumenti mostravano che si stavano ingozzando gioiosamente, moltiplicandosi con abbandono.

Avevamo proprio bisogno di una buona notizia.

Oh, le forme di vita di Halley si sarebbero adattate, evolute. Quella non era la conclusione: ce ne sarebbe stata di strada da percorrere. Ma pareva che quel periodo di panico acuto fosse finalmente finito.

Cosa mi sono perso? si chiese Saul con ansia, perplesso. Come mi è stato possibile far questo?

Suonò un campanello. Ogni cosa combaciava. Saul tirò fuori la provetta dei cianuti che avevano superato pienamente il test. La planata dal suo laboratorio all'infermeria era breve. Qui, lungo le opposte pareti, due file di umani erano in attesa di venir accudite dai due tecnici medici in servizio.

Una delle file era più corta dell'altra, ma Saul non vide nessun ortho spostarsi per mettersi nella fila dei percell. Ould-Harrad non avrebbe mai dovuto permettere che si sviluppasse questo sistema di segregazione.

La gente non rimaneva vicina più del necessario. Nessuno era sicuro di come si fossero trasmesse le malattie cometarie. C'erano state risse per un semplice raffreddore… o per il fatto che un uomo aveva usato il casco spaziale di un altro senza averne il permesso.

E durante i periodi di visita ai malati erano molti quelli che si presentavano fingendo sintomi inesistenti, cercando di sfuggire al massacrante lavoro ed alle malattie mortali rifugiandosi nei colombari.

Be', per lo meno le file sono più corte di quanto lo erano alcuni mesi or sono. Prima, la rabbia nei confronti degli ammutinati li aveva distratti un po'. E l'eroismo di Carl Osborn aveva soppresso le liti fra ortho e percell. Tutti i «normali» sapevano di dover la vita a un percell.

Ora, se soltanto questi nuovi cianuti funzionassero bene quanto indicano i primi test…

La porta di una cabina in fondo all'infermeria si aprì, e ne uscì una donna che sorrise, salutando Saul con un gesto della mano. Marguerite van Zoon pareva quasi una persona diversa. Erano sparite le devastazioni che avevano lacerato la sua pelle due mesi prima. Aveva ripreso il suo lavoro di medico, lasciando libero Saul di dedicarsi alla ricerca.

Il sorriso di Saul scomparve quando vide la paziente di Marguerite: una giovane donna con addosso la grigia divisa della nave, la quale passò accanto alla dottoressa e si affrettò verso l'uscita coprendosi il lato del viso con un pezzo di stoffa. Anche voltando la testa dall'altra parte, non riuscì a nascondere del tutto un luccicante esantema rosa.

— Lani! — bisbigliò Saul, sgomento.

Aveva sperato che la diagnosi di Marguerite si rivelasse sbagliata, ma non potevano esserci equivoci sui sintomi del Vaiolo Fulminante.

— Lani? — chiese. Ma lei si affrettò a proseguire senza sollevare lo sguardo. Quelli di entrambe le file si scostarono mentre passava.

Oh, Lani.

Era una di quelle malattie che, finora, si erano mostrate resistenti a qualunque rimedio uscito dal laboratorio. Perfino con la sua recente sfilza d'incredibili colpi di fortuna.

Era davvero ironico. Mentre altri lottavano per tornare dentro i colombari, Lani aveva chiesto di essere lasciata sveglia. Ma la decisione era stata presa. Il suo raffreddamento era già stato programmato per dopodomani.

Carl si è comportato da vero sorcio con lei pensò Saul. Se non sarà presente alla colombarizzazione di Lani, un pugno sul naso non glielo toglie nessuno.

— Dottor Lintz!

Keoki Anuenue, il tecnico medico che si occupava della fila più corta, quella dei percell, si alzò in piedi quando Saul attraversò la sala d'aspetto. L'hawaiano lasciò temporaneamente un uomo dagli occhi opachi i cui orecchi erano pieni zeppi di cotone, il quale si schiaffeggiava un lato della testa ogni pochi minuti come se stesse cercando invano di far cessare un violento scampanio.

Anuenue era eccezionale perfino per un hawaiano. Uno dei rari ortho che pareva del tutto dimentico sia della malattia che della disperazione. Pareva non dormisse mai. In qualunque momento Saul arrivasse, Keoki era già in servizio.

Esibì un ampio sorriso, indicando la provetta che Saul reggeva in mano, con la voce piena d'una fremente attesa quando gli chiese: — È l'ultima varietà di cianuto, dottor Lintz?

Pensa che io possa fare qualunque cosa. E lo stesso vale per Virginia. Saul scrollò le spalle. E dopo la fortuna che ho avuto, chi sono io per dissentire? Era una pensiero sardonico. Lui sapeva che stava accadendo qualcosa di misterioso che non aveva nulla a che fare con la sua abilità.

Gli porse la provetta.

— Ecco qua, Keoki. Trova dei volontari alla solita maniera. Soltanto casi disperati, all'inizio. Questi dovrebbero essere utili contro le infezioni ai gangli linfatici, come pure la sinusite uggiolante e la gonorrea rossa.

Anuenue s'impadronì impetuosamente del flacone. Fece per parlare, poi qualcuno in fila lungo la parete sinistra dette in un sonoro e improvviso sternuto.

Tutt'intorno, nella stanza, la gente alzò lo sguardo con aria accusatrice. Non stato io, stavolta ebbe voglia di discolparsi Saul. Come se fosse stata una molla, altri sternuti eruppero dal lato degli ortho, nella stanza. La fila si allungò mentre la gente metteva più spazio fra sé e gli eretici.

Saul fissò la fila dei geneticamente potenziati. I percell non sternutivano praticamente mai.

I percell prendevano le malattie come chiunque altro. Saul aveva cercato di spiegarlo più e più volte ai risentiti ortho. Se un viroide o altri microbi cometari erano l'agente di una infezione fulminante, impestavano imparzialmente gli uni e gli altri.

Ma il corpo dei percell non eccedeva nelle reazioni. I loro gangli linfatici potevano anche ingrossarsi mentre il sistema immunitario del corpo faceva la guerra agli invasori, ma il processo era autolimitante. Non si gonfiavano come palloni per poi morire a causa delle loro difese troppo smaniose di agire.

Simon pensò Saul. Questo era il dono del quale andavi più orgoglioso, anche se aveva sconcertato anche te… il fatto che ogni bambino sul quale avevi operato avesse in qualche modo beneficiato dello stesso potenziamento, qualunque fosse la malattia genetica alla quale stavi lavorando.

La cosa aveva sorpreso tutti, là a Berkeley. Avevano usato analizzatori automatici e chirurgia molecolare per eliminare i geni nocivi dallo sperma e dagli ovuli di una coppia che voleva disperatamente dei figli. Ma pochi si erano aspettati che i bambini usciti da quelle cellule microriparate ne risultassero biologicamente potenziati.

È un dono che gli abbiamo dato. Un dono che comporta il terribile prezzo di essere diversi. — Saul!

Una voce dal lato opposto dell'infermeria. Saul sollevò lo sguardo e vide Akio Matsudo che lo chiamava con un cenno della mano dalla porta del suo studio.

Saul lanciò un'occhiata a Keoki Anuenue, il quale sorrise. — Vada pure, dottore. Troverò io quei volontari, e la chiamerò prima dell'inizio dei test.

Saul annuì, nascondendo nel suo intimo più profondo la paura di ciò che, lo sapeva, sarebbe successo presto o tardi. Alla fine la sua bizzarra concatenazione di colpi di fortuna sarebbe finita. Uno dei suoi simbionti fabbricati su misura avrebbe ucciso, invece che salvarlo, il proprio ospite. E allora, non avrebbe avuto importanza quanto bene lui avesse fatto in precedenza, gli si sarebbero rivoltati contro.

Tutti.

Così come si erano rivoltati contro Simon Percell.

Come la folla scatenata che aveva incendiato un'università in cima ad una montagna tanto tempo fa e tanto lontano da lì.

— Mai kii aku i kauka hupo — disse, rivolto a Keoki.

Non andare da un dottore ignorante.

Il grosso hawaiano ammiccò più volte per la sorpresa, poi si lasciò andare all'indietro, dondolandosi e scoppiando in una fragorosa risata. Il frastuono era così abbondante, così contagioso, che parecchi di quelli che erano in fila sorrisero senza saper bene il perché.

— Vengo, 'kio — gridò Saul rivolto a Matsudo. — Sono subito da te.

I pendii coperti di neve del monte Asahi erano simmetrici almeno quanto i pini verdi che costellavano i suoi fianchi più bassi. Le nuvole, simili ad imbarcazioni di carta di riso, passavano via galleggiando su uno strato invisibile d'aria… o di magia, salpando verso un sole al tramonto e un mare occidentale azzurro cupo.

Saul era contento di poter osservare la climaparete di Akio Matsudo, forse la migliore di tutta la colonia. Invero, fino a quando Virginia non fosse smontata dal suo turno di due ore, quello era press'a poco il modo migliore con cui aveva pensato d'impiegare il suo tempo.

Meglio che lavorare pensò stancamente. Una volta tanto la sua mente non era un turbinio d'idee, il prossimo esperimento da tentare, il prossimo indizio da rintracciare. Stava seduto alla maniera dello zazen, pensando meno che poteva.

Qualcosa che noi occidentali abbiamo imparato dall'Oriente… che la bellezza può essere trovata nelle cose più piccole.

Il servizio da tè in terraglia bruno-arancio era stato portato fin lì dalle sponde del Mare Interno, le sue ruvide superfici riflettevano i colori della luce del tardo pomeriggio in una maniera che non poteva esser descritta, soltanto ammirata. I segni della plasmatura sulla tazza davanti a Saul parevano essere stati impressi dallo stesso tornio sul quale aveva ruotato la Creazione, contemporaneamente ai pianeti e al Sole.

Incantato, Saul sollevò lo sguardo quando Akio Matsudo parlò.

— L'attesa varrà la pena, Saul. Abbi pazienza.

L'attesa? pensò Saul. Era questo che stavo facendo?

I punti illuminanti fra i neri, lucidi capelli del medico giapponese risplendevano come i ghiacciai del monte Asahi, mentre si dava da fare con il tè, commentando le difficoltà di far bollire l'acqua nella maniera giusta in quella bassa gravità, con la convezione indebolita e tutto il resto. Per Saul la voce dell'amico era tutt'uno con il frusciare dei pini.

— Adesso verserò — intonò Akio, e sollevò delicatamente la tazza. Saul non aveva fretta di discutere di affari. Una volta che la cerimonia fu terminata, e il tè fu versato, chiacchierarono un po' su questioni di secondaria importanza, l'ultima novità nel campo della filosofia matematica sulla Terra, e le curiose proposte enunciate dai teologi marxisti di Kiev. I giornali specializzati ne avevano parlato in abbondanza, e si chiesero entrambi ad alta voce cosa avrebbe detto Nicholas Malenkov di tutto questo.

Pareva che adesso la salute di Akio fosse molto migliorata. Era stato un dei primi volontari di Saul, a prendere una delle prime versioni dei cianuti riprogrammati. O questo, oppure soffrire in maniera permanente a causa dell'infezione che gli stava riducendo a brandelli il fegato. Adesso il suo pallore giallognolo era scomparso. Aveva riguadagnato il peso perduto. Ben presto, avrebbe perfino smesso di usare il ribilanciatore meccanico endocrino che l'aveva tenuto in vita.

Saul era molto soddisfatto di vedere il suo amico così arzillo e di nuovo in salute.

Sono stato in grado di aiutare Virginia, e Marguerite, e Akio. Forse, più tardi, potremo fare qualcosa per Lani e Betty Oakes, e così per molti altri.

Il ricordo di Miguel Cruz era ancora un dolore acuto. Più di qualunque altro, c'era bisogno del loro comandante. Ma c'erano limiti a ciò che Saul si aspettava di riuscire a fare, indipendentemente dalla fortuna che aveva.

Akio Matsudo mise giù la tazza e si tolse con attenzione gli occhiali per pulirli. — Saul, amico mio, perdonami la mia franchezza. Ma credo che, forse, dovrei spiegarti perché ti ho chiesto di venire qui, oggi. Credo che per te sia giunto il momento di entrare nel colombario.

Saul mise giù la tazza. Akio sollevò le mani.

— Prima che tu protesti, per favore, lascia che ti spieghi. Ci sono molte, moltissime ragioni. — Sollevò un dito. — Il Primo Turno avrebbe dovuto durare soltanto poco più di un anno. Questo mese ricorre l'anniversario della colonia. E tu sei stato uno dei civili svegli per tutto il viaggio verso l'esterno, sulla Edmund. Stai perdendo parte del tuo arco di vita. È ingiusto nei tuoi confronti, anche perché ne hai meno da sprecare di quei giovani là fuori.

Saul sbuffò. — Cosa c'è, Akio? Potremmo essere passati attraverso la parte peggiore, ma l'incubo collegato con il problema del personale non è ancora finito. Con tutta la gente che abbiamo dovuto tirar fuori, colombarizzare terminalmente, e perfino immagazzinare sotto vuoto fuori in superficie, è chiaro che i turni dovranno essere più lunghi del previsto. Sai che quel tuo discorso è un sacco di cacca.

Matsudo trasalì per la schiettezza di Saul.

— Sìiii. — Il suo accordo risuonò più come un sibilo represso di disapprovazione. — Forse. Ma devo dirti che Bethany Oakes mi ha fatto promettere, prima che lei stessa venisse colombarizzata, che tu saresti stato messo via se i tuoi sintomi fossero peggiorati.

— Non sono affatto peggiorati — borbottò Saul. — È soltanto un altro brutto raffreddore. Credo sia ancora un residuo di uno dei tuoi dannati virus-sfida. Lo capisco dal modo in cui mi prude prima dello sternuto.

Sapeva bene che non era così, naturalmente. C'era roba della cometa dentro di lui, dai viroidi ai batteroidi latenti. Alcune delle varietà non utilizzavano il complesso zuccherino di Halley, e perciò erano senza alcun dubbio invulnerabili alle sue nuove pallottole d'argento.

E sono più vecchio della maggior parte di loro. Potrebbe darsi che questo mi renda più vulnerabile.

Per un attimo, quello stordimento contemplativo minacciò di tornare. Quella conversazione gli aveva ricordato una bizzarra sensazione che aveva provato, alcuni giorni prima, nell'esaminare un campione del suo stesso sangue… la sensazione che qualcosa…

Scosse la testa. No, questo è… Cercò un'espressione yddish, e non ci riuscì. Fesserie. Buone vecchie fesserie anglosassoni. È la sola definizione possibile.

— C'è una seconda ragione importante. — Matsudo spremette fuori una seconda tazza di tè giallo-bruno per ciascuno di loro e le coprì. — A causa dell'ammutinamento, lo sforzo disperato di quest'anno sarà costruire delle serre in superficie, e delle fattorie giù nella cavità Tau. Le cupole idroponiche della Edmund devono essere tenute in vita fino a quando non verranno installati dei nuovi impianti per la produzione del cibo. È per questo che Evans viene scongelato in questo momento. È il miglior ecologo di tutta la spedizione, e Svatuto esce dal colombario come suo secondo.

Saul notò l'espressione addolorata di Matsudo quando doveva nominare la Edmund. Da evitare ancora di più era qualunque citazione della Newburn. Durante tutto il tempo trascorso da quando gli ammutinati erano partiti, Saul non aveva sentito una sola volta qualcuno pronunciare il nome della perduta chiatta-colombario, la quale adesso appariva del tutto fuori dalla loro portata e sempre più distante ad ogni giorno che passava.

— Sì? Allora sarà bello consultarsi con Evans. Ci sono alcune faccende riguardanti le forme di vita di Halley dove un ecologo può essere di aiuto. Non sono certo di poter accettare ancora la vostra vecchia spiegazione.

Akio guardò verso la scena del sole al tramonto sopra il mare a occidente. Le nubi erano diventate arancione e nere, talmente belle da mozzare il fiato.

— Mi hai frainteso, Saul. Questo significa che sui tempi lunghi avremo più medici svegli di quanto sia corretto, per più di quaranta turni. Svatuto è un clinico migliore di te, comunque. Questo lo sai, Saul.

Saul scrollò le spalle. — È per questo che mi sono dato alla ricerca — disse, allungando la mano per prendere il fazzoletto. — Non posso… non posso sopportare i malati. — La stanza parve barcollare, Saul scosse vigorosamente la testa. Poi si girò di lato e sternuti.

Matsudo ebbe un leggero sussulto, poi sorrise. — Nessuno lo fa così drammaticamente. È quella semitica profondità del naso, suppongo. Seriamente, Saul: questa è un'altra ragione. Perdonami, ma tu scombussoli ogni cosa. La gente teme i tuoi sintomi rumorosi e sgocciolanti, pur rispettando il tuo genio. Il tenente-colonnello Ould-Harrad e altri pensano ce sarebbe meglio per tutti se tu ti riposassi per un po'.

Saul scosse la testa. — Soltanto adesso mi sono reso conto che stai parlando seriamente, Akio. Proprio quando il mio lavoro sta… — Si fermò, incapace di trovare delle parole per descrivere quanto bene stessero andando le cose in laboratorio.

Poi c'era anche Virginia. Il suo amore è la cosa migliore che mi sia capitata da dieci anni a questa parte.

Quella telempatia sperimentale, simulata, che condividevano grazie alla sua ardita, poco convenzionale biocibernetica, era a modo suo eccitante almeno quanto il suo lavoro nella bioingegneria. Stavano entrambi compiendo cose che avrebbero scosso le fondamenta di una mezza dozzina di discipline! Diamine, soltanto durante la scorsa settimana aveva ricevuto dei messaggi da quel vecchio irritabile di Wallin, a Oxford, e perfino dall'altero e al di sopra delle parti Tang, a Pechino…

— Questo non sminuirà i tuoi successi — aggiunse in fretta Matsudo, cercando di quietare Saul. — In effetti, hai compiuto meraviglie, meraviglie! Trovo i tuoi metodi snervanti, come ben sai, ma non posso discutere con il successo. Se qualcuno di noi sopravviverà, in misura non piccola ciò sarà grazie a te.

Saul scosse la testa. — C'è dell'altro da fare! Dobbiamo verificare se le procedure…

— Ed io insisto a dire che tu sottovaluti i tuoi successi — sibilò l'alto giapponese.

Akio doveva essere molto agitato. Quella era la prima volta, per quanto ne sapeva Saul, che interrompeva qualcuno. Deviò lo sguardo e riprese: — Scusami, per favore. Ma ho fatto delle simulazioni ed il Controllo sulla Terra concorda. I più grandi organismi delle halleyforme, specialmente i purpurei, possono essere tenuti sotto controllo usando l'ultravioletto e i tuoi nuovi lanciaraggi a microonde. Adesso i fungoidi vengono controllati usando versioni più precise di entrambe le tecniche.

— E le malattie?

— Le malattie stanno diminuendo in maniera sensazionale in tutti quelli che hanno ricevuto i tuoi nuovi cianuti. I test mostrano che ci sono pochi casi davvero curati, ma il sistema immunitario del corpo è stato restituito alla sua piena efficienza.

— E allora…

— Allora, le tue tecniche serviranno a farci resistere! La gente si ammalerà, è vero. Qualcuno perfino morirà… ma con una velocità molto, ma molto inferiore.

Poi Akio fece qualcosa di molto raro. Guardò Saul direttamente negli occhi.

— Il tuo potere mi sgomenta, Saul Lintz — confessò con voce sommessa. — Un'altra ragione per cui devi venir colombarizzato è che non possiamo permetterci, semplicemente, di perderti. Ci aspettano trent'anni prima del duro lavoro all'afelio. E poi un periodo ancora più lungo. Ci saranno altre crisi. Nuovi batteroidi e viroidi adattati. Per favore, pensa a te stesso come ad una nostra arma segreta, la nostra riserva contro tutte le contingenze.

I suoi occhi lo stavano implorando, chiedendo a Saul di accettare, di non infliggere altre dosi della sua franchezza occidentale contro qualcosa che era già stato deciso.

Mi sta nascondendo qualcosa si rese conto Saul. Politica? Ordini dalla Terra?

Virginia aveva appiccicato insieme dei ritagli di stampe per lui, nei due mesi e più trascorsi dall'ammutinamento. Lui era stato troppo occupato per dare più di una semplice occhiata ai soffietti delle notizie, ma a quanto pareva alcuni tra i media stavano facendo di due particolari membri della spedizione di Halley delle celebrità.

Carl Osborn… e il sottoscritto. Laggiù siamo noi la sensazione del momento.

DOC HALLEY E WYATT PERCELL…

COMBATTONO CONTRO GERMI STRISCIANTI

ED EQUIPAGGIO IMPAZZITO

Possibile che le autorità sulla Terra possano permettersi di far durare così a lungo questa immagine popolare? Dir di sì a un individuo potenziato e a un ex collaboratore di Simon Percell nei titoli di testa?

Oh, che risate! Ho cercato l'oscurità e la sicurezza fuori nello spazio… e non ho trovato nessuna delle due.

Matsudo guardò di nuovo altrove. Saul seppe, allora, che quella era una faccenda decisa molto in alto, e non sarebbe servito a niente infliggere le sue proteste all'amico già fin troppo a disagio.

Aveva visto delle simulazioni assai migliori di quanto aveva fatto Matsudo, preparate con la logica stocastica di JonVon secondo i modelli da lui proposti. Matsudo aveva ragione: le cose stavano davvero migliorando… o per lo meno sarebbero andate male più lentamente per il futuro prevedibile. Saul aveva sperato che ciò avrebbe significato più tempo per studiare, studiare sul serio ciò che avveniva lì.

C'era assai di più in tutto questo di una lotta per la vita o la morte fra i coloni e gli organismi nativi. Molto, molto di più, e lui voleva scoprirlo.

Ma come si poteva combattere contro le autorità cittadine?

Forse potrei convincere Virginia a disertare insieme a me, dentro le gallerie. Brucheremo la roba verde, come Ingersoll. Saccheggeremo i contenitori degli animali, e scongeleremo qualche pecora per allevarla. Forse potremmo piantare sorgo giù nella 40 Sud e dire all'universo di andare all'inferno.

Quell'immagine ridicola lo fece sorridere suo malgrado.

— Mi servono tre mesi — disse, dando il via all'inevitabile tira e molla. — Ci sono esperimenti da tentare, e devo dare tutte le istruzioni a Svatuto. Inoltre Keoki e Marguerite hanno bisogno di altro addestramento prima che possa consegnar loro il laboratorio.

Matsudo scosse la testa. — Due settimane. È tutto quello che sono disposto a… tutto quello di te che posso rischiare ancora.

Saul sorrise. — Devo scrivere un manuale di addestramento per i turni futuri, su come maneggiare i cianuti e usare il disintegratore a microonde… Otto settimane, minimo.

Dopo un lungo silenzio, Matsudo sospirò la sua accettazione. — Temo per te, Saul. Ma sono anche egoista. Ammetto che sarà bello averti ancora per tutto quel tempo.

L'immunologo dai capelli neri fissò i pendii del monte Asahi. Il tramonto si dissolse in una notte purpurea. Nubi minacciose turbinavano con accenni di tuono.

— La carne è debole — concluse Akio Matsudo con voce sommessa. Si tolse gli occhiali per pulirli ancora una volta. — E ci si sente soli senza amici, quando cade soltanto la neve.

VIRGINIA

Mentre si avvicinava alla sala di preparazione del colombario, una delle sue poesie, se in verità meritano una definizione così pretenziosa!, irruppe nella sua mente come una corrente irrefrenabile:

Voi cavità muschiose
color sabbia, pelle solcata,
ossa ben adatte, una gabbia di calcio
per ospitare un cuore nel quale entrerei
e dimorerei
se solo avessimo giorni lenti ghiacciati.
Potrei rimare
il tic del tempo,
incorniciare pasti eleganti.
Niente primavera in Gehenna.
La fredda lunga orbita fin fuori
non ha potuto recidere gli anni
che ci rimangono.
Il tempo è un giusto azzardo,
giorni non ancora fatti.
Forse diminuiranno
a niente. Ma ci vedranno
allacciati
assieme nel sole.

Va bene, hai abbastanza coraggio da dirlo a JonVon. Adesso fallo.

Scivolò dentro la sala di preparazione. Saul giaceva già nel trasportatore sotto la pallida luce fredda, circondato da cilindri e sfere di lucido acciaio. Carl Osborn stava aiutando Keoki Anuenue, il tecnico-medico stava lavorando sopra di lui. La ragnatela nutritiva rossa pareva una rete di vasi sanguigni proiettata attraverso la pelle, come una dimostrazione a scuola. Saul era ancora sveglio, seppure assopito. I suoi occhi la seguirono mentre si avvicinava al suo fianco. La nebbia si arricciò in gelide dita intorno a lei.

Carl sollevò lo sguardo. — Dove diavolo sei stata? Proprio quando stavo per cominciare, tutti i mech hanno smesso di funzionare.

— Lo so.

— Oh, hai già riparato il guasto?

— Verrà fatto, se darò l'ordine — lei rispose, scandendo le sillabe.

Carl sbatté le palpebre. — Cosa vuoi dire?

— Li ho spenti tutti. E non li rimetterò in linea a meno che tu e Ould-Harrad non onoriate la mia richiesta.

Anuenue continuava ad allacciare dei cavi a Saul, dimentico di ciò che gli accadeva intorno, ma Carl mise giù le pinze-ago per il naso. Si scostò, cosicché il tecnico non potesse sentire.

— Ci… ci stai minacciando?

— Chiamala una promessa.

— Promessa! Cosa diavolo…

— O lasciate che mi colombarizzi adesso, o non otterrete nessun lavoro utile da me o dai mech.

— È disobbedienza… ricatto!

— Chiamalo come vuoi. Ma fallo —. Virginia strinse le labbra a formare una pallida linea sottile.

— Abbiamo bisogno di te.

— Ci sono altri programmatori disponibili, decolombarizzatene uno. E JonVon può prendere il controllo di un sacco di funzioni. Ho aumentato le sue capacità.

— Nessun computer è bravo quanto te.

Bene. Fallo discutere razionalmente. — Le strutture organizzative generali di JonVon sono migliori delle mie. Inoltre, esegue autoprogrammazioni d'ordine superiore. Ciò lo rende molto adattabile.

— Ma la tua esperienza…

— Ascolta. Qui non sto negoziando. Esigo.

Carl sospirò, e Virginia vide che era logorato. Non fisicamente… la sua solida mascella e le sue guance piene avevano un bel colorito sano, uno spettacolo gradito di quei tempi… Ma era logoro mentalmente. Ould-Harrad è un comandante frustrante. Carl era la scelta naturale per il compito di ufficiale esecutivo, ma è davvero angosciante fare da numero due ad un nuovo capo come quello. E io non gli sto affatto facilitando la vita.

— Pensi davvero che JonVon sia disposto a lavorare con un altro mago del computer?

— Gli ho dato istruzioni di farlo. Gliel'ho ordinato, usando il vecchio mainframe della missione. Proprio come gli ho detto di tener disattivati i mech fino a quando non gli darò il contrordine.

Carl replicò con rabbia: — Così, è un ricatto.

— Chiamala posizione negoziativa.

— Hai detto che esigevi, non che negoziavi.

Una scrollata di spalle. — Lascia perdere. Colombarizzami o altrimenti non verrà fatto niente.

Carl si adombrò e puntò un dito contro Saul: — È stato lui a montarti.

— No. Non gli ho mai parlato di questo. L'ho… l'ho deciso da sola.

La voce di Carl parve compressa, diminuita. — Lo… lo ami così tanto?

Quello non era il momento di badare a niente, salvo ai risultati. Il volto di Carl si stava arrossando, il suo respiro si era fatto più affannoso. Se si fosse accorto di quanto lei in realtà era incerta, di quanto coraggio le ci voleva per fare questo… — Naturalmente. Lo hai sempre saputo.

Per qualche motivo, quella semplice dichiarazione smorzò la rabbia crescente di Carl. — Vuoi… vuoi passare lo stesso periodo nel colombario?

— Apparteniamo l'uno all'altro.

Carl sospirò di nuovo. — È maledettamente indecente disattivare i mech in questo modo.

— Dovevo dimostrare che faccio sul serio. Non intendo vivere senza Saul. Soprattutto per il fatto che nessuno sa veramente quanto a lungo reggeranno ancora le cose in questo posto.

— Saul dice che le malattie le abbiamo battute.

— Sì. Per ora. Ma gli effetti a lungo termine? Dobbiamo essere sicuri di avere dei corpi capaci di servire fra qualche decennio. Uomini e donne che possano uscire dai colombari in buone condizioni, pronti a lavorare. Saul ed io corrispondiamo a questa descrizione. Tu sai che possiamo sopravvivere.

Snocciolò le sue argomentazioni così come le aveva ripassate. C'erano delle falle, naturalmente; ma si accorse che adesso Carl, nello stato di disorientamento in cui versava, era vulnerabile davanti a lei, incapace di mettere insieme un'obiezione coerente. Forse, addirittura, sarebbe stato contento di sbarazzarsi sia di lei che di Saul; immaginava che il loro amore fosse una continua irritazione per lui.

Carl chiese: — Keoki, puoi andare a prendere dell'altra soluzione KleinTex dallo stock? — Il tecnico-medico annuì e uscì.

Carl pareva pensieroso, quasi stordito.

— Carl… so che questi sono tempi duri…

Carl sbatté le palpebre, ovviamente lottando con dei conflitti interiori. — Sai, non presto mai attenzione alla gente intorno a me… non so mai quello che pensano… sentono.

— No, non è vero, tu…

— Lani, non l'ho mai vista — proseguì Carl, con amarezza. — Ero così avvolto nei sogni su di te. Vederla entrare nel colombario, con quella maledetta malattia che la divorava… avrei potuto passare un po' di tempo con lei, se io…

— Se tu fossi stato un superuomo, certo — disse Virginia, paziente. — Tutti noi siamo ridotti a pezzi, Carl. Non puoi biasimare te stesso per non essere ogni cosa per tutti.

Non rispose; toccò con fare assente l'intreccio dei tubi nutritivi e dei cavi sensori che avvolgevano Saul. Virginia osservò la sua espressione stabilizzarsi, diventare triste e meditativa. Sospirò, poi fissò il volto rilassato di Saul, e chiese: — Riesci a capirmi?

Un cenno del capo.

— Lei verrà con te.

Un lento sorriso. La pelle rugosa intorno ai suoi occhi si raggrinzì in un segno inequivocabile di felicità. Virginia chiese a Carl: — I suoi centri orali?

— Se vuoi, posso ricollegarli. Oppure chiamare Matsudo se non ti fidi dei miei armeggiamenti.

Virginia coprì con tenerezza la mano di Carl, dispiaciuta per essere arrivata a questo. — No… non farlo. Credo che ci capiamo senza parlare.

Saul annuì.

Il volto di Carl era senza espressione, come intorpidito. Fece passare il suo sguardo dall'uno all'altra. Virginia provò pietà per lui, un uomo proiettato troppo in fretta nel cuore degli eventi. Le dispiaceva di essere stata costretta a forzare le cose a quel modo. Ma non c'era modo di tornare indietro.

— Ti colombarizzeremo nel giro di poche settimane — le disse Carl, con voce priva d'inflessione, chiaramente facendo appello a energie attinte a qualche segreta riserva. — Per prima cosa scongeleremo la tua sostituta, cosicché tu possa istruirla. Dovremo appianare la faccenda con il comitato dei colombari, discutere se il rimpiazzo debba essere un ortho o un percell, la solita storia. Ci dovrebbe volere meno di un mese. Cominceremo non appena avrai rimesso a posto JonVon e i mech.

Virginia non distolse gli occhi da Saul. — Assegnerò il mio mech personale, Wendy, a JonVon, perché gli fornisca funzioni manuali permanenti.

— I particolari non contano. Hai vinto tu. È questo che conta.

Virginia annuì, incapace di parlare.

Carl rimase in silenzio in mezzo al freddo e alla nebbia umida che si arricciava persistente. — Quelli che amavo di più, se ne stanno andando tutti… — Poi scrollò le spalle. — Sai… sentirò la mancanza di tutti e due.

PARTE QUARTA

LA ROCCIA NEL DESERTO

Colui che sta su un luogo scivoloso
bello fa il vile appiglio purché lo regga.

William Shakespeare

Chi cavalca una tigre non può scendere.

Proverbio cinese

POSIZIONE DEI PIANETI E DELLA COMETA DI HALLEY — 2092

SAUL

2092

Il mondo tornò indietro lentamente, e non troppo piacevolmente. Sentiva un pizzicore giù in profondità alle radici dei suoi nervi, e poi ogni cosa cominciò a prudergli.

Non poteva grattarsi.

Più tardi, quando il prurito cominciò finalmente ad attenuarsi, arrivò la prima, vera sensazione, di un freddo profondo.

Era un freddo febbricitante, quel lento ritorno alla consapevolezza. Come una malattia, una brutta malattia durante la quale la mente è disabilitata, dispersa, eppure una qualche parte del nucleo dell'uomo sa di voler pensare, di voler capire cosa c'è di sbagliato, e come ripararlo.

Era anche un incubo, per giunta, con immagini offuscate, frammenti di voci che mormoravano e sfumavano, al di là di qualunque capacità di richiamo o significato. Soltanto che il sognatore sapeva che, questa volta, non ci sarebbe stato il conforto di un rapido risveglio.

C'era soltanto un modo per uscire da quel sogno: una lunga, lenta corsa fino alla fine.

La prima volta che Saul fu sicuro che non si stava immaginando tutto, fu quando un vuoto biancore che ondeggiava sopra di lui divenne lentamente più nitido. Le sue palpebre sbatterono esitanti per riflesso, reagendo in realtà alla sua volontà.

Chiudetevi ordinò. La luce venne tagliata fuori, diventando una tenue sfumatura rosata.

Apritevi! ordinò disperato, timoroso che il mondo se ne fosse andato via di nuovo. Ma i nervi scattarono e i muscoli guizzarono all'ingiunzione. Un torrente di luce si riversò di nuovo su di lui.

Fa freddo… freddo come il cuore del Sommo Sacerdote.

E Saul ricordò un asciutto e gelido mattino fra le montagne della Giudea, il profumo dei cedri secolari e il freddo di una speranza morente.

Le fiamme lambirono il cielo in direzione di Gan Illana. C'erano altri incendi sui monte Herzl. Ma a Gerusalemme gli Eserciti del Signore avanzavano intonando canti, guidati su un lato da uno sciame di croci dorate, sull'altro dal Mahdi e dai mullah dei salawiti. E al centro, salmodiando inni ebraici e trasportando l'Arca Ricostruita, c'erano i sacerdoti kahanim del nuovo Sahedrin. I fedeli si accalcavano intorno ai relitti degli autobus fracassati, cantando di gioia e trasportando malta e mattoni.

Incapace di muovere qualunque cosa, salvo le palpebre, a Saul parve di vedere tutto un'altra volta, proiettato contro il pallido soffitto bianco. Era un ricordo di fumo, e di acre odore di superstizione.

I «custodi della pace» dell'ONU facevano la guardia mentre gli Architetti piantavano le bandiere delle tre fedi sul Colle del Tempio e proclamavano la sacralità di quella terra in tre lingue. Gli hover-tank non si erano mossi per far cessare i tumulti. La stampa mondiale aveva praticamente chiuso gli occhi davanti al massacro di coloro che avevano opposto resistenza alla nuova teocrazia.

Per il mondo era un grande giorno. La «pace» era finalmente giunta in quel riottoso ombelico del mondo. Miliardi di esseri umani vedevano come un miracolo i rappresentanti di tre grandi religioni che si univano per una causa santa.

Costruire un tempio per il Supremo…

Adempiere la profezia.

Erigere un luogo dove poter parlare con Dio.

Perfino dopo che i fuochi si erano spenti, dopo che i leviti e i salawiti e i tribolazionisti avevano sigillato quella terra, il fumo si levava ancora fino al monte Sion da dove lui aveva seguito la scena. L'odore acre e pungente degli agnelli sacrificali arrostiti.

La fragranza del Levitico saliva ancora una volta al cielo, arricciandosi sotto le narici del Signore.

Saul chiuse di nuovo gli occhi, e dormì.

Quando si svegliò la volta successiva, c'era movimento. Una figura comparve alla sua vista. Sbatté gli occhi cercando di metterli a fuoco.

Era un volto più vecchio. Più severo. Ma lo riconobbe.

Saul sentì che le sue labbra venivano inumidite. Mosse la bocca e riuscì a bisbigliare una sillaba.

— C… Carl?

Il viso sopra di lui annuì. — Sì, Saul. Sono io. Come ti senti?

Saul sollevò le sopracciglia. A quel punto una pigra scrollata di spalle comunicava più di quanto potessero le parole. Carl Osborn rispose con un sorriso, non un sorriso particolarmente amichevole, ma ironico. — Bene, la tua decolombarizzazione procede normalmente. Dovresti essere in piedi e fuori di qui tra non molto.

Saul si sentiva la voce arida, polverosa. — C'è… c'è pace, adesso?

Carl sbatté le palpebre, poi scosse la testa. — La maggior parte di quelli che si svegliano chiedono la data. O, se sono già stati fuori, se abbiamo sconfitto la poltiglia. Ma non tu, non Saul Lintz.

Non c'era nessun antagonismo in quella osservazione. Saul riuscì a rispondere ad uno dei sorrisi forzati di Carl con uno dei propri. — D'accordo, allora. Qual è la data?

Carl annuì. — Otto anni prima del nuovo secolo.

Così pensò Saul. Trent'anni. Questo sì che è stato un lungo sonnellino. — L'afelio… — bisbigliò.

— Non è lontano — assentì Carl. — Siamo a trenta unità astronomiche di distanza. Dovresti vedere il Sole. Non è più luminoso della Luna in una notte di deserto.

Dove nessuno è mai arrivato prima.

— E i propulsori per il colpo di gomito, il cambiamento d'orbita? — chiese Saul. — Sono…

Carl corrugò la fronte: — Riusciremo a costruirli.

Saul lesse molto in quell'espressione. Rispondeva alla sua prima domanda. Non c'è pace. Ma siamo ancora qui, perciò non può andare poi tanto male.

Gli pareva che il suo corpo fosse fatto di piombo, ma riuscì a girare la testa. — Così, chi comanda adesso?… Kuyamato? Trugdorff?… Johannson?

Carl scosse la testa. — Sono tutti morti, o colombarizzati-morti.

— Allora, chi?

Carl diede in un'inquieta scrollata di spalle. — Io sono l'ufficiale addetto alle operazioni. Se c'è qualcuno che comanda, quello sono io.

Saul si riadagiò, assimilando lentamente la notizia.

È più vecchio. Più duro. Chissà quanti altri anni Carl ha passato da sveglio, mentre io dormivo.

— Così, vi serve un medico? — Francamente non si sarebbe mai aspettato di essere riportato in vita, se fosse stato per Carl.

— Già, proprio così, Saul. Ci serve un dottore. E la Terra ha suggerito che potrebbe essere il momento buono per farti dare un'altra occhiata alle malattie. Alcune sembrano aver mutato.

Carl si librò sopra di lui per un altro momento. Strinse con forza le labbra. — Devo essere onesto con te, Saul. La ragione più importante per la quale ti ho fatto togliere dal ghiaccio è che ci serve Virginia.

— Virginia — sussurrò Saul, ricordando.

Carl annuì, a bocca stretta. — Riposati, Saul. Non ti verrà chiesto di fare molto. Non subito. Verrò a controllare più tardi come va con te.

Saul non disse niente quando Carl sgusciò via dalla sua visione periferica. C'erano ancora molti anni da classificare. I sogni che non aveva sperimentato completamente davano la sensazione di essere una massa d'acqua dietro alla barriera di una diga ricolma. Facce che ondeggiavano come carte mischiate.

Facce di donne: Miriam, Virginia, Lani Nguyen. Facce di camerati: Nicholas Malenkov che gli moriva tra le braccia.

E il fantasma di Simon Percell, attraverso le pareti di fibra-tessuto, attraverso la parete di ghiaccio che l'aveva circondato. A Saul parve quasi di udire una sommessa risata ironica. Lo accompagnava ancora quando piombò in un profondo sonno naturale.

Altre due volte, una breve agitazione. La prima volta quando un tecnico, che riconobbe come uno dei membri dell'equipaggio della Edmund, adesso una donna di mezza età, con una strana macchia verdastra su un lato del viso, lo salutò con voce pacata e gli offrì da bere. Dovette chiederle di parlare lentamente, poiché sembrava aver preso un accento bizzarro.

La volta seguente un uomo stranamente aitante senza ombra di capelli fu il suo infermiere. Una bruciatura su una sua guancia pareva più un marchio che qualcosa causato da un incidente. Saul ritenne saggio astenersi da qualsiasi commento.

Aspetta. Assorbi. Apprendi.

Gli addetti ai colombari non erano tanto indaffarati come un tempo. Il ritmo era casuale, ma sotto ogni cosa c'era sempre tensione. Nelle conversazioni sussurrate che udì senza volerlo, c'erano parole, frasi, che non riusciva a seguire. Gli venne permesso di rizzarsi a sedere quando cambiò il turno di guardia, la volta successiva, e vide che c'era una specie di cerimonia quando i nuovi sorveglianti assumevano l'incarico.

No. Non non c'è pace.

Vide sul pannello alla parete che due luci di recupero erano accese. Una per lui. Una per Virginia. Aveva mantenuto la promessa, seguendolo lungo il Fiume del Tempo.

Ragazza intelligente pensò Saul. Sapevo che ci saresti riuscita.

Non vedo l'ora di dirti quanto veramente ti amo… per quanto vecchia tu possa essere ormai.

Con questa piccola punta di disappunto, Saul dormì di nuovo. E seppe che sarebbe stato più forte quando si sarebbe svegliato la volta successiva.

CARL

Adesso le leggi di Keplero parevano quasi biologiche. Carl fissò il display orbitale e sospirò. Seguire una lunga ellissi allontanandosi dalla puntura del sole dava molto la sensazione dell'invecchiamento.

Si comincia con un movimento rapido, febbrile, quando il movimento è rapido, la vita sboccia. La primavera, un calore crescente, e una matura, veloce estate. Passa. Le cose si calmano. La cruda realtà s'infiltra, voi rallentate e vi raffreddate e venite a patti con la basilare ostilità dell'universo. Come diventare vecchi.

La semplice dinamica newtoniana spiegava tutto. L'eccentrico, umorale Keplero aveva dedotto le leggi fondamentali che governano il movimento ellittico in una maniera classica, rude: concentrando il suo sguardo sui dati fino a quando l'ordine ne era parso colar fuori spontaneamente, portando in primo piano una struttura là dove gli occhi di un altro avrebbero visto soltanto un guazzabuglio di numeri. Adesso, dopo aver avuto a che fare per anni con montagne di dati, fedelmente forniti dai sistemi interconnessi del nucleo di Halley, Carl rispettava molto di più quella capacità.

Fece procedere l'orbita di Halley sul grande schermo, osservando la lunga ellissi mentre avanzava: la scala s'ingrandì fino a quando il caldo regno dei pianeti interni rimpicciolì, cerchi risucchiati dal vortice del Sole. Adesso erano ben oltre Saturno, girandosi con dolorosa letargia verso l'afelio, al di là di Nettuno. L'attrazione gravitazionale sempre più debole sgomitava sempre più flebilmente su quella montagna di ghiaccio gli invisibili lacci del Sole.

Lui visitava di tanto in tanto la Centrale, ancora, per controllare, per toccare la consolle e' rinnovare la sua fede che quella lunga notte dovesse avere una fine.

Come diventare vecchi.

Quanto sono vecchio? Ho servito due anni sotto Ould-Harrad dopo che Saul e Virginia sono andati nei colombari. Poi sono stato maledettamente contento di scivolare io stesso dentro quel gelido sonno, logoro e depresso.

Poi un altro turno sotto il luogotenente Morgan, dieci anni più tardi. Meno dilacerante, certo, ma noioso. Mi sono dato massicciamente agli stimolatori sensoriali soltanto per cancellare la monotonia del ghiaccio e del buio. Devo essermi ripassato ogni nastro della biblioteca almeno una dozzina di volte. JonVon mi è stato di aiuto, risistemando e fondendo insieme sensazioni e drammi. Ci sono stati alcuni effetti strani e deliziosi. … Comunque, se avessi superato di troppo i due anni, sarei stato bell'e pronto per la camicia di forza.

Adesso sono passati… quanti? Quattro anni ancora? Mi è parso più lungo… da quando Calciano mi ha svegliato perché prendessi il suo posto. Anche quel tizio era dannatamente andato, o quasi.

Esaminò il suo riflesso su un vicino schermo vuoto, le piccole chiazze di grigio alle tempie. Be', a Virginia piacevano più vecchi… Forse adesso potrò competere. È stata un po' difficile da accettare, immagino. Sfrontato e idealistico e piuttosto abrasivo, ma sono sicuro. Adesso, però…

Scosse la testa. Qualunque cosa stesse diventando come uomo… oh, era secondario. Ciò che contava per lui era soprattutto essere un comandante, o quello che oggigiorno veniva definito tale. Lavorando sodo, facendo in modo che le diverse fazioni lavorassero insieme con il minimo attrito. Gli sarebbe piaciuto riscivolare dentro quel sonno freddo e sognante, mollare tutto, viaggiare fino a casa libero da…

Ma nei colombari non era rimasto nessuno di cui potesse fidarsi per le importanti manovre che li attendevano all'afelio. Lì, sul display, erano a meno dello spessore d'un dito dal momento della virata, un solitario puntolino azzurro.

Aveva avuto il tempo di studiare a fondo la cometa di Halley, qualcosa che aveva saltato quando aveva chiesto di partecipare a quella missione. Gli era parso irrilevante: Halley era un'altra palla di ghiaccio diretta verso l'esterno del sistema e zone di spazio che nessuno aveva mai visto. Quello era sufficiente per un giovanotto ambizioso di venticinque anni.

Si era sentito addolorato quando aveva scoperto che pronunciava sbagliato perfino il nome. Gli astronomi e i tecnici dello spazio la chiamavano Halley con la a corta; i terragnoli della sua nativa America del Nord usavano una a lunga, come se fosse «Hailey». Ma il suo scopritore l'aveva pronunciata con una w nel mezzo, per cui avrebbe dovuto essere «Hawley». Carl s'immaginò un altezzoso inglese che pronunciasse quel nome con un sopracciglio inarcato, le labbra atteggiate a un divertito sorriso di condiscendenza.

Stavano cavalcando la cometa al suo trentunesimo passaggio da quando un antico cinese aveva per la prima volta documentato di aver visto nel cielo quello spruzzo di luce sfavillante; un arco di tempo che sminuiva i lunghi anni passati da Carl, e umiliava gli imperi degli uomini. La quarta apparizione documentata, nell'11 avanti Cristo, era vicina alla data di nascita di Gesù di Nazareth, e qualcuno affermava che doveva essere stata la stella di Betlemme.

Adesso un po' di salvazione ci servirebbe pensò Carl, e spense il display. È dov'è quel dannato Jeffers?

Come se fosse stato chiamato, il portello scricchiolò e Jeffers comparve, la lunga barba rugginosa gli scendeva sopra il giogo-collare della pelletuta come un muschio dall'aspetto sinistro. Jeffers aveva sostenuto che lasciar crescere i peli del corpo era soltanto buonsenso, poiché ciò forniva un isolante naturale di cui c'era bisogno. Carl aveva ribattuto che avrebbe intralciato le apparecchiature della tuta, impedendo il posizionamento del casco, ma sapeva per quale motivo piaceva a Jeffers: l'immagine di Matusalemme, della saggezza, il vecchio eremita nella foresta.

— Com'è andata? — chiese Jeffers. Semmai, il suo strascicato accento del sud si era accentuato con gli anni. Cercavano tutti di tenere in vita qualsivoglia legame avessero con la lontana Terra che vibrava nei loro ricordi.

Carl scrollò le spalle. — Ho inviato ieri la trasmissione settimanale. Oggi ho ricevuto la solita breve risposta, tredici ore e dodici minuti più tardi.

— Qualche spettacolo?

— Ecco qui. — Carl toccò un tasto e un indice scorse sullo schermo. Si fermò su NOTIZIE e passò al tempo reale. — Satòllati gli occhi.

Una annunciatrice sorrise loro. Il suo busto era dipinto in un turbinio di curve in technicolor. Gli ornamenti dei suoi capezzoli luccicarono quando tirò un profondo respiro e disse con entusiasmo: — Arrestati oggi con l'accusa di atti osceni in luogo pubblico la stellina Angela Xeno e Compassatino Rilke, mediano di linea dei Visigoti. — L'immagine in 3D di una coppia sorridente, seminuda. — Voci raccolte in ambienti informati affermano che l'incidente era in realtà un'iniziativa pubblicitaria in vista dell'imminente incontro alla TV dei Visigoti contro i Fracassatori. Parlando di…

Carl lo spense. — Ci sono anche tre nuovi pornosport, se li vuoi.

Jeffers fece una smorfia. — No, sono arrivato al punto che non sopporto più quella roba.

— Neppure io. — Non l'aveva mai sopportata, ma era una buona politica non svalutare mai i gusti della gente con la quale si doveva lavorare: un altro piccolo fatto che aveva imparato.

— Quando arriva Malcolm?

— Da un momento all'altro.

La Centrale era uno dei terreni comuni d'incontro tra le fazioni. Dovevano incontrarsi tutti per forza nei cassoni per il raccolto, ma la Centrale era il luogo più ovvio per i veri negoziati.

Jeffers s'infilò in una rete, stiracchiandosi. — Sono appena tornato dalla superficie. Non si riesce più a muovere niente, là fuori. Un sacco di mech sono giù per le riparazioni e i restanti si trascinano in giro come se fossero drogati.

Carl annuì. Ogni mese la situazione peggiorava un po' di più. Il freddo persistente, i cattivi funzionamenti, la difficoltà di fabbricare delle nuove parti o di eseguire riparazioni… — Mi chiedo se ci siano alcuni di quei collettori cilindrici in titanio nel Pacco Riparazioni.

— Lo spero. — Jeffers corrugò la fronte. — Mi chiedo ancora come siano riusciti a far entrare tutte quelle parti di ricambio e gli altri rifornimenti in un Pacco così piccolo.

— Hanno migliorato parecchio la superpropulsione, suppongo. Dopotutto, sono passati più di trent'anni.

Senza dubbio la Terra aveva fatto grandi progressi nella propulsione di carichi di alta qualità per le basi di Marte e degli asteroidi. Comunque era stata una sorpresa sentirsi dire, tre anni prima, che il Controllo stava per inviare un carico di pezzi di ricambio e rifornimenti indispensabili, propellendoli ad altissima accelerazione. Sarebbero arrivati prima dell'afelio, e avrebbero potuto contribuire in modo decisivo alla riuscita del «colpo di gomito». Anche con trent'anni di miglioramento sulla Terra, un pacco come quello era assai costoso, ma niente, naturalmente, in confronto dell'investimento già fatto nella Missione Halley.

— Ho sottoposto quell'avvistamento ottico a JonVon, e ho ottenuto una misurazione — disse Jeffers. — Il Pacco Riparazione è spinto da un propulsore a fusione. Un grande pennacchio arancione dietro di esso.

— Sta già decelerando?

— Già, ma non molto. Immagino che schiacceranno i freni proprio all'ultimo momento.

Con il rendez-vous a due anni di distanza, il Pacco Riparazioni doveva ancora perdere quattro chilometri al secondo per arrivare al fianco di Halley. La notizia del suo arrivo era stata un'autentica spinta in alto per il morale dell'equipaggio. Carl sperava che il suo arrivo li avrebbe risollevati tutti, riportando un po' dello spirito di cui la missione aveva goduto durante i suoi primi giorni.

— Il maggiore Clay, il nostro nuovo contatto, ha detto che ha incluso una bottiglia di Malescot St. Exupery Margaux del 1986.

— Dannazione! Non so pronunciarlo, ma sono sicuro come l'inferno che darò una mano a berlo.

— Una bottiglia del migliore per l'apparizione di Halley nel ventunesimo secolo.

— Magnifico. Semplicemente splendido.

Jeffers era chiaramente contento di quel frammento di notizia. Carl aveva risparmiato i particolari sul Pacco Riparazioni, centellinandoli uno alla volta per tener vivo l'entusiasmo. Un gesto stravagante, quello di spedire del vecchio succo d'uva attraverso il sistema solare… ma la Terra, malgrado la sua pazzia, capiva qualcosa della psicologia là fuori. Era un tocco da maestri.

Un miglioramento formidabile dopo l'isteria sotto Ould-Harrad, un mese prima sono un eroe, quello dopo un anormale, un percell. E sotto Criswell non hanno neppure risposto. Se non fosse stato per la base di Phobos che ritrasmetteva i notiziari di nascosto, non avremmo avuto neppure la dimostrazione che la Terra era abitata. Adesso, però, pare che le cose si stiano sistemando.

Si sfregò il viso, massaggiandosi per alleviare un po' del dolore. Digitò delle istruzioni, e le pareti si accesero. Meglio metter su qualcosa di grazioso, tranquillo, caldo. Ah, ecco. Una giornata di sole che spunta sul Libero Stato di Hong Kong.

Quelle masse sciamanti di giunche e di velivoli gli facevano sempre piacere. Un sole arrosolante si era appena staccato dalle verdi colline artificiali ad oriente. Un arcobaleno sorrideva, rovesciato, sotto la cascata di vapore di una casa galleggiante di lusso. Il tremolio causato dal calore faceva danzare le lontane foglie di alabastro.

Il portello sferragliò di nuovo e comparve Malcolm, era magro e il suo viso era perennemente atteggiato a un cupo, perpetuo cipiglio, gli occhi neri sbirciavano diffidenti fuori dalle orbite. Senza dire una parola, Malcolm si sistemò in una rete e annuì. — Vogliamo di più dall'idro.

Carl sospirò. — Tu conosci i termini.

— Non basta. Stiamo tutti perdendo peso corporeo.

Per un brutto istante Carl fu tentato di rispondere, Provate a mangiare qualcuno dei vostri marmocchi. Quelli che avete tanto insistito a dire che avevate il «diritto» di avere. Ma mantenne il volto impassibile e disse: — Stiamo ottenendo tutto quello che possiamo dall'idroponica, lo sai. Esamina le cifre.

— Ma noi stiamo crescendo di numero, e l'accordo non lo prevede.

— Quei bambini sono una vostra scelta.

— Senti, ne abbiamo già parlato — replicò Malcolm con voce priva d'inflessione. — La gente normale si ammala più facilmente. Dobbiamo mantenere una popolazione più ampia nel caso in cui ci sia un'altra epidemia.

Jeffers, che si era masticato le labbra per tutto quel tempo, esplose: — Volete soltanto prendere il controllo, nient'altro. Fra una ventina di anni, sarete più numerosi di noi percell.

Malcolm replicò, rigido: — La gente normale rimarrà nella nostra zona.

— Abbiamo visto dei vostri in Tre C… Vi ci state trasferendo? — chiese Jeffers.

— No. — Malcolm tirò su col naso in tono di scherno. — Non possiamo sopportare l'odore.

— Piccoli bastardi delicati, vero?

Carl intervenne con voce pacata: — Piantatela di scambiarvi insulti. Abbiamo delle cose da negoziare.

— Quei bambini sono bastardi, sai. Avete una specie di programma per la procreazione di massa, vero? — fece Jeffers, brusco.

Malcolm arrossì. — Non sono affari vostri, percell.

— Trattate le donne come se fossero animali da riproduzione…

— Piantala — intervenne Carl, con fermezza. Malcolm era sensibile al fatto che i loro bambini fossero rachitici, vittime dell'intrusione delle halleyforme nell'utero e dei problemi venutisi a creare per la bassa gravità. Di rado vivevano a lungo. Riprodursi in un ambiente biologico così ostile era semplicemente una scommessa sbagliata, e gli ortho l'avevano persa.

Carl lasciò che i due uomini si fissassero acidi per un paio d'istanti, e poi proseguì: — Dobbiamo fare qualcosa per il problema dei colombari. L'inventario medico è peggiore di quanto immaginavo. Non rimane abbastanza equipaggio fresco. Non ce n'è abbastanza per svolgere il lavoro che rimane per installare l'apparato per il «colpo di gomito»…

Jeffers intervenne: — Com'è possibile? Ci sono centinaia di…

— C'erano centinaia. — Durante i primi anni avevano tirato fuori la maggior parte dell'equipaggio della missione, prima di riuscire ad avere davvero sotto controllo la poltiglia e i viroidi. Se gli scongelati si ammalavano, e molti di loro si erano ammalati, venivano rimessi nei colombari. Per sostituirli erano stati tirati fuori dei dormienti freschi.

— Uccidevate delle persone normali, ecco quello che facevate — disse Malcolm.

Carl sospirò. — Dimenticati di quelle fesserie. Abbiamo fatto quello che dovevamo fare. Gli ortho si ammalavano in fretta, tutto qui.

— Non da come l'ho sentita raccontare io. Noi…

Jeffers sbottò: — Tu sei stato scongelato vent'anni dopo il rendez-vous! Non sai niente dei momenti difficili.

— So leggere i documenti! E quelli più vecchi ce lo dicono. So che avete scongelato gente normale più spesso di quanto dovevate.

— Perché la fazione degli ortho voleva tenere alto il loro numero. Era una loro idea — gli spiegò Carl. — Senti, io c'ero, tu no. Fino a quando Calciano non mi ha affidato le cose, ogni comandante era un ortho. Non ho più intenzione di tentare d'infrangere quel pregiudizio nella tua testa di rapa. Ascolta e basta, va bene?

Malcolm annuì con riluttanza. Quell'uomo conservava una certa sbrindellata dignità, malgrado la sua uniforme unta e i capelli incrostati. Di solito faceva uno sforzo per mostrarsi pulito e ordinato. Gli ortho dovevano vedersela brutta da qualche tempo a questa parte.

C'erano anche dispute interne. Le gallerie gestite dagli ortho avevano la stessa gamma di fanatici delle zone dei percell, forse di più. Talvolta era difficile trattare con Malcolm, ma era l'unico al quale gli ortho erano disposti ad affidare il compito di parlare per loro, molto simile alla posizione che Jeffers aveva tra i percell.

Carl poteva rispettare la posizione di Malcolm, ma poteva soltanto provare pietà per la stupidità della gente che rappresentava. Adesso molti orhto non potevano più cercare un compromesso con i percell, dopo tutto quello che era successo, il sangue e la bile sprecati. Molto bene… ma la cooperazione per certi compiti era essenziale.

C'erano alcuni gruppi che si tenevano al di sopra di tutto questo, naturalmente. Il Clan della Roccia Azzurra non aveva mandato nessun rappresentante a quell'incontro. Gli hawaiani e gli spaziali sopravvissuti preferivano tenersi fuori dal perpetuo alterco fra ortho e percell.

— Ci serve dell'altro aiuto all'idro — disse Carl. — L'equipaggiamento continua a rompersi e l'unico modo per mantenerlo in funzione è più manodopera.

— Volete più lavoro da parte nostra? — chiese Malcolm, risentito.

— Esatto. Ma non può essere a scapito del programma del «colpo di gomito».

— Impossibile. Già così siamo fin troppo assottigliati.

— Le orbite non aspettano i comodi di nessuno — disse Jeffers. — Dobbiamo avere i lanciatori pronti per l'afelio, altrimenti nessuno di noi rivedrà di nuovo la Terra.

Carl annuì. — E dubito che riusciremo a sopravvivere altri dieci anni.

La bocca magra di Malcolm divenne una linea decisa. — Ho capito. Volete decolombarizzare un branco dei nostri, per farli lavorare a morte.

— Niente affatto. — Carl aveva previsto questa reazione, ma non così presto. Non lo invidio, dover trattare con Quiverian, o Ould-Harrad e gli archisti. Naturalmente, Jeffers non ha neppure lui la vita facile a trattare con Sergeov e i percell estremisti.

Disse con calma: — Credo che potremo farcela se semplicemente smetterete di aver bambini. Ciò libererà più donne che potranno lavorare a tempo pieno.

— Uh, uh. Abbiamo il diritto a riprodurci.

Carl pensò amaramente, Adesso capisci cosa abbiamo provato sulla Terra, quando ci hanno imposto la Legge sulle Nascite. Accantonò quel pensiero, una vaga disputa da un'altra vita, e si sporse in avanti con foga. — Senti, pensaci, abbiamo…

Il portello sferragliò. Carl sollevò lo sguardo e vide Saul Lintz che si faceva strada con cautela fino al centro dei banchi delle consolles. — Saul, questo è un negoziato. Non sei invitato. E, francamente, credo che tu sia troppo debole per…

— Sciocchezze. Ho saputo dov'eri e ho deciso di venire a dare un'occhiata. Tu sei, ah, il capo degli ortho? — Saul squadrò Malcolm come se cercasse di riconoscerlo dal passato.

Mentre i due si presentavano, Carl rifletté. Avrebbe potuto usare Saul per persuadere Malcolm? Il prestigio di Saul nel reprimere le pestilenze dell'Anno Nero, aveva un peso. Quanto sapeva, Saul, di ciò che era successo? Qui avrebbe dovuto muoversi con cautela.

— Oh, capisco i problemi — disse Saul a Malcolm. — Ho controllato l'inventario corrente, le proiezioni, i programmi di manutenzione. Quello che voglio sapere — aggiunse con cautela, guardando Jeffers e Carl, — è per quale motivo gli «sgomitatori» sono stati riprogrammati.

Dannazione. — È una cosa preliminare, siccome soltanto pochi dei lanciatori sono stati costruiti finora. Abbiamo affinato la nostra analisi.

— No, non è così. Sono regolati per non portarci in nessun punto vicino alla Terra, dopo la fiondata di Giove. — Saul fissò Carl con sguardo fermo.

— Senti, aveva l'intenzione di sedermi e rivedere la cosa in ogni particolare insieme a te non appena… — sospirò Carl. — E va bene. Ecco. Ti faccio girare la trasmissione a velocità compressa arrivata dalla Terra, così come l'abbiamo ricevuta anni fa. Tanto vale che tu conosca la storia completa.

Non gli fu difficile ritrovarla. L'aveva rivisionata incessantemente, e così avevano fatto molti degli ortho, immaginò.

Lo schermo principale s'illuminò. Tremolò. NOTIZIE.

Un corpulento annunciatore si mostrò, allegro. Scrollò buffamente le spalle, e disse: — Vi ricordate quella specie di tragedia capitata sulla Cometa di Halley? Come abbiano dato i numeri e abbiano cominciato a smammarsela per non convivere con i microbi che avevano trovato? Be', ecco l'aspetto che avevano quando l'Orbitale li ha rivisti.

Una risatina asciutta. Lo schermo mostrò un profilo argenteo che nuotava nella tenebra: la Edmund.

— Qualcuno dei non impestati è saltato a bordo della nave-madre ed è salpato verso casa. Soltanto che adesso nessuno là fuori è non impestato, così dicono i Federali, voi sapete quello che hanno detto i Federali, giusto?

La faccia ampia e maliziosa dell'annunciatore si gonfiò, esibì uno smisurato sorriso con degli impossibili denti bianchi, poi rimpicciolì mentre s'innalzavano degli effetti sonori bassi e rimbombanti, e sullo schermo avvampò un'accecante luce azzurra.

— Trasmissione chiarissima, sì! Tutto liberato per voi e me, per tener lontani i microbi dalla nostra atmosfera. Ed è esplosa pulita, per giunta, una grossa fusione…

Carl spense di colpo lo schermo. — Benvenuto all'imminente nuovo secolo — disse, sardonico.

— Buon… Dio… — Saul era stordito. Da grigio pallido il suo volto acquistò una sfumatura rossa. Sbatté rapidamente le palpebre. — Non… non hanno voluto correre nessun rischio.

Malcolm intervenne, pungente: — Perché mai avrebbero dovuto? Anche se la Terra avesse messo la Edmund in quarantena, come avrebbero mai potuto esserne sicuri?

Jeffers intervenne, con voce atona: — Pare che tu sia d'accordo con quello che hanno fatto.

— Lo posso capire. — Malcolm fissò Jeffers con aperta antipatia.

— L'unica cosa buona — ribatté Jeffers, tagliente, — è che se la solo presa Linbarger e quei somari di ortho.

Saul digrignò i denti, come se riemergesse da qualche ricordo personale che l'aveva sopraffatto. Carl sospettava quale: le vecchie associazioni sioniste erano ampie abbastanza da venir innescate da qualcosa del genere.

— Mi aspettavo delle misure severe, ma…

Carl replicò, reciso: — Volevi saperlo, d'accordo, ecco fatto. Non possiamo tornare sulla Terra. Mai. Non crederanno mai che non siamo portatori di malattie, e avrebbero anche dannatamente ragione.

Gli occhi di Saul parvero gonfiarsi sul suo volto dal pallore cartaceo, percependo delle possibilità. — Allora… dove possiamo…

— È quello che dobbiamo decidere. Puntiamo a un passaggio ravvicinato di Giove lungo il percorso verso l'interno, e da lì possiamo sfiondare praticamente in qualunque direzione.

Saul disse con voce remota: — Capisco.

Carl osservò Saul con attenzione durante il resto dell'incontro. L'uomo ascoltava muto, perso nelle sue buie introspezioni.

Malcolm era recalcitrante, riluttante. Cedette terreno di malavoglia, consentendo ad un leggero aumento delle ore di lavoro negli idroponici, giurando che non poteva offrire niente di più senza consultare le fazioni degli ortho. Jeffers fece analoghe promesse elusive per conto dei gruppi dei percell.

Carl invece parlava per gli ex spaziali, per la maggior parte tipi dell'Altopiano Tre, e gli hawaiani. Cosa farei senza quegli ostinati idealisti? pensò, osservando il dare e l'avere di quegli incontri. Non ce ne sono abbastanza come loro…

Entrò nel tiro incrociato delle parole, barcamenandosi così da arrivare a un praticabile compromesso. Usò quella destrezza che si era faticosamente conquistato per lusingare Malcolm e indurlo a fare ciò che a lui sembrava ragionevole e immediatamente accettabile da chiunque, ma a quest'ora c'era abituato, si era rassegnato alla pervicace testardaggine della specie umana.

E quella era soltanto una difficoltà di poco conto. Alla fine avrebbero dovuto convocare anche Quiverian e Sergeov che rappresentavano gli estremi. E per giunta tutti quei battibecchi per la semplice questione degli idroponici… i problemi più gravi relativi ai propulsori per il «colpo di gomito» sarebbero stati assai peggiori. Assomigliava alle interminabili notizie dal Medio Oriente. Anche al perduto Israele di Saul frantumato in litigiose teocrazie. La regione pullulava tuttora di fazioni ancora più microscopiche, interminabili rivalità, amarezza, stupidità. Nessuno riusciva a vedere al di là della punta del proprio naso. No, Halley era fin troppo rappresentativa dell'umanità.

Dopo l'incontro, si sedette a osservare il sole che tramontava in vividi spruzzi color rubino sopra Hong Kong. Si chiese oziosamente se quel posto esisteva ancora; c'erano stati rapporti circa una piccola guerra nucleare, in qualche posto, da quelle parti, venti anni prima. Una volta o l'altra avrebbero dovuto controllare. O forse in verità non desiderava saperlo. La città sobbollente nel suo rosso crepuscolo appariva migliore se si sapeva che, forse, esisteva ancora.

Alla fine si alzò e scese al colombario Uno. Lo scongelamento procedeva normalmente; l'aveva seguito da lontano per tutta la giornata. Racchiuso nella sua tuta entrò nel nebbioso regno del gelo eterno. Comunque, non si precipitò nella sala di preparazione. La squadra non aveva ancora terminato del tutto il proprio lavoro…

Carl si fermò al loculo di Lani Nguyen. Era rivestito da una pellicola di brina. Carl controllò automaticamente i tubi del fluido. Spesso era venuto là a contemplare quel felice, latteo, galleggiante rifugio. E ad invidiare quelli che vi venivano ospitati. Sbirciò la forma acquosa all'interno, immersa nei fluidi che si agitavano lentamente. Aveva visto un volto che lo guardava, là dentro?

Sento la tua mancanza, Lani. Ero un giovane idiota quando ti ho conosciuto. Non che un idiota più vecchio avrebbe fatto di meglio. Quella notte dopo la morte di Cruz… Non sappiamo come avrebbe dovuto andare, vero? Ebbe un pallido sorriso. Dovresti dormire al sicuro fino alla fine. Ma presto avremo bisogno di te. E voglia il cielo che la decolombarizzazione non offra a quelle pestilenze che giacciono addormentate dentro di te quel vantaggio cruciale di cui hanno bisogno…

Non riusciva più a contenere la sua impazienza. Entrò nella sala di preparazione e si mise in un angolo mentre i tecnici terminavano le loro ore di attento lavoro. I suoi occhi seguivano ogni cavo di alimentazione, ogni circuito stimolatore, tutta la miriade di particolari che scandivano le differenze.

È rimasta ancora meravigliosa. Soltanto a guardarla mi sembra che una mano mi stringa il cuore.

Si fece da parte mentre svestivano la pelle color mandorla di Virginia dalla garza nutritiva.

Quel colore voluttuoso appartiene alle spiagge, non al ghiaccio.

Aveva aspettato così a lungo quel momento… E aveva pensato mille volte di violare la sua promessa, di rianimare Virginia senza Saul. Cosa avrebbe potuto fare, se non lamentarsi? Una volta era persino sceso fin là sotto, alla fine di una serata passata da solo, semiubriaco… aveva invaso quel regno di gelo e aveva cominciato il riscaldamento, l'aveva lasciato andare avanti per due ore prima di rendersi finalmente conto che non poteva farlo. Non soltanto perché lei si sarebbe arrabbiata, avrebbe certamente intuito la verità dietro alle sue spiegazioni inventate… ma perché sapeva che lui non avrebbe potuto più vivere sapendo di averlo fatto.

Ma adesso tutto questo apparteneva al passato. I lunghi anni erano lontani, conclusi.

Avanzò per vederla di nuovo.

VIRGINIA

Molto tempo addietro Virginia si era chiesta come sarebbe stato se ci fosse davvero riuscita… se ce l'avesse fatta ad abbindolarli tutti ed a realizzare sul serio una macchina in grado di pensare.

Come sarebbe apparsa la consapevolezza in quella nuova entità? Sarebbe comparsa all'improvviso, come si supponeva che la grande Atena fosse balzata saggia e consapevole dalla fronte di Zeus?

Sarebbe stata come un bambino che cresce a poco a poco? Un lungo, lento, tedioso-eccitante processo di apprendimento ripetitivo ed estrapolativo? Prove, errori, ginocchia sbucciate?

Oppure sarebbe accaduto come aveva fatto l'umanità: evolvendosi per sussulti e casi fortuiti dai ferali riflessi dei microbi, su, su fino all'orgogliosa sfida rivolta agli dèi?

Più spesso di ogni altra ipotesi, aveva immaginato che sarebbe stato così. Un lento raccogliersi di fili sparpagliati. Un apprendere a nuovo ciò che era già conosciuto.

Un risveglio.

Tutte le immagini confuse si raccolsero in una singola forma che nuotò davanti ai suoi occhi: un completo mistero. Un grumo.

Poi, senza nessuna transizione, lo riconobbe come un volto… un volto che avrebbe dovuto esserle familiare.

— Carl? — cercò di chiedere. Ma i suoi muscoli facciali si contrassero soltanto un po', la promessa di un ritorno della volontà, ma non molto di più.

La figura sopra di lei ridivenne sfocata, confusa, e alla fine si allontanò. Virginia dormì. E per la prima volta, dopo molto tempo, sognò.

Le bianche pareti erano chiare e limpide quando riaprì gli occhi.

La sala recuperi pensò. Chissà quanto tempo è passato.

Da un quadrodati lì vicino giungeva un frusciante tap tap tap. Virginia girò faticosamente la testa, e vide un uomo con addosso un camice d'ospedale logoro e sbiadito appollaiato a gambe incrociate sopra una rete, il quale fissava assorto un display portatile sfregandosi lentamente il mento con una mano. Le sue palpebre erano azzurre come i colombari, e pareva così magro…

— Saul — bisbigliò Virginia.

L'uomo sollevò in fretta lo sguardo. Con un singolo movimento mise da parte il display e fu al suo fianco, accostandole alle labbra un flacone a spremere.

Lei lo sorseggiò fino a quando lui non lo tirò via. Poi Virginia mosse la bocca: — Qua… quanto…?

— Quanto tempo? — Saul le prese la mano. — Circa trent'anni. Ci stiamo avvicinando all'afelio. Carl mi ha detto che hai lasciato dei programmini tipo cane da guardia sparpagliati per tutto il sistema dati, promettendo l'inferno se ti avessero svegliato prima di me.

Virginia mostrò un pallido sorriso. — Te l'avevo detto… che… ci sarei… riuscita.

Saul si mise a ridere. — Ed io… io sono così orgoglioso di te.

La ricchezza della sua voce le fece sbattere le palpebre. Saul si era ripreso soltanto in parte dalla decolombarizzazione, eppure aveva qualcosa di diverso.

I suoi ricordi precolombarizzazione gli stavano tornando con chiarezza. C'era un po' di grigio in più alle sue tempie, forse, eppure era forse un'illusione quell'impressione che dava, di essere più giovane di prima?

No, io devo essere un gran pasticcio pensò Virginia. Dovrò ingozzarmi a forza per rimettermi un po' in carne, dopo tre decenni.

Ma se la colombarizzazione ti fa perdere degli anni, dovrò imparare a vincere la paura che provo! — Come… come me la cavo?

— Sei la più gran gioia di un dottore. — Saul sorrise. — Un meraviglioso pezzo d'ingegneria femminile. Che si riprende bene e ben presto verrà messo al lavoro, per ordine di Sua Grandezza Poobahdom, il comandante Osborn. Virginia scosse la testa.

— C… comandante?

Saul annuì. — Luogotenente comandante, a dire il vero. Incarico avuto dalla Terra. Hanno dovuto farlo. Soltanto due ufficiali sono rimasti in vita, e non contano proprio. Il guardiamarina Calciano è nel colombario dopo un turno di dieci anni durante i quali pare sia convinto di essere l'Olandese Volante. Ould-Harrad ha rassegnato il suo incarico ed è andato a raggiungere gli archisti-revisionisti nella Gehenna…

Nel vedere l'espressione perplessa di Virginia, Saul le strinse la mano.

— È un mondo diverso, Virginia. Tante cose sono cambiate. Sulla Terra le cose sono passate dal molto brutto al meglio, all'incomprensibile. E qui fuori… be'… — Scrollò le spalle. — Qui fuori sono semplicemente bizzarre.

— Ma Carl…? — Fece per alzarsi, ma Saul la spinse delicatamente giù di nuovo contro i cuscini. Perfino la gravità di Halley rappresentava un peso per lei.

— Basta parlare. Adesso riposati. Più tardi ti spiegherò quello che sono riuscito a scoprire. Cercheremo di trovare un posto per noi in questo strano nuovo mondo.

Virginia si rilassò.

Noi… pensò. Le piaceva il modo in cui la parola echeggiava in lei. — Sì, lo faremo.

Cominciava ad addormentarsi, quando sentì che Saul sfilava dolcemente la mano dalla sua. Virginia sollevò lo sguardo e vide che Saul stava fissando il vuoto con gli occhi storti, un'espressione semiorgasmica, armeggiando con un fazzoletto. Il tutto si concluse nelle profondità dell'ampio quadrato di tessuto con uno sternuto soffocato.

Virginia se ne uscì in una risatina singultante. Allungò le braccia che parevano pesanti come il piombo, e toccò una lacrima che stava scorrendo giù lungo una guancia graffiata.

— Oh, tesoro — sospirò. — Sei uscito dal colombario da pochi giorni e hai già un raffreddore.

Lui la guardò impacciato, poi sorrise.

— Allora nu? Che altro c'è di nuovo?

SAUL

Tutti parevano morire.

In effetti, più cose Saul apprendeva su quella colonia in invecchiamento, più gli sembrava un mistero che ci fosse ancora qualcuno in vita.

Oh, la gente si era adattata; aveva trovato dei modi per affrontare la situazione. Gli esseri umani ci riuscivano bene. Da trent'anni prima, quando Akio Matsudo aveva finalmente dato ordini ben precisi e aveva visto Saul avvoltolato nel suo loculo, gli strumenti che si era lasciato alle spalle erano stati aumentati e migliorati.

Ma i cianuti modificati, i disintegratori a microonde a sintonizzazione fine, tutti i loro congegni intelligenti, poteva soltanto rallentare la lunga erosione, la spirale declinante. Anche la vita di Halley era capace di adattarsi, e qui si trovava molto di più a casa propria. Era una guerra di attrito che gli uomini potevano soltanto perdere.

Avrei dovuto sapere che Akio non avrebbe certo accettalo il suo stesso consiglio pensò Saul, nel gelido regno del colombario Uno. Era stato un errore scendere là sotto così presto dopo aver lasciato la Sala Recuperi, per andare a trovare una vecchia amica. Uno shock brutale farle sapere con tanta schiettezza che erano passati tre decenni.

Fino a quel momento il suo ultimo ricordo del medico giapponese era stato quello d'una chioma di lucidi capelli neri, che incorniciavano un paio di occhi a mandorla dietro a occhiali cerchiati di fil di ferro. Ma quell'immagine, fresca come se fosse della settimana prima, veniva schiacciata in maniera stridente lì in mezzo a quelle bare congelate. Una aveva l'etichetta con il nome di Akio Matsudo. La figura dietro al vetro coperto di brina era quasi irriconoscibile.

Una sottile frangia di ciuffi grigi bordava una testa maculata dall'età e segnata dagli attacchi d'infezioni della pelle. Quelle guance un tempo paffute adesso erano lo svuotato retaggio di un uomo divenuto vecchio lottando contro l'inevitabile, l'implacabile. Non c'era più nessun accenno di riso nelle rughe che orlavano gli occhi chiusi dai sonno del povero Akio.

I grafici ai piedi di ogni loculo raccontavano la storia di ogni occupante in ibernazione. I simboli rossi illustravano le ragioni mediche per l'animazione sospesa, la listatura nera significava un immagazzinamento senza nessuna reale speranza di ripresa o rianimazione, un segno azzurro, un uomo o donna dell'equipaggio che erano semplicemente «fuori servizio» per quell'arco di anni.

Ad una prima occhiata, la situazione pareva seria, ma non impossibile. C'erano molte cartelline azzurre. Tuttavia un rapido esame dei colori non diceva tutta la verità della storia. Akio, per esempio, aveva una cartellina azzurra.

Un uomo stanco, vecchio e malato pensò Saul nel leggere la cartella dell'amico. Non erano soltanto le persistenti infezioni, o la malnutrizione per aver mangiato per decenni la ristretta gamma di alimenti prodotti sotto le agri-cupole della colonia. La osteoporosi aveva talmente indebolito le ossa di quell'uomo che in nessun modo avrebbe più potuto passeggiare fra le amate colline del Giappone occidentale. La stimolazione elettrica delle ossa non aveva compensato i lunghi anni passati in condizione di quasi totale mancanza di peso.

La ruota gravitazionale della Edmund Halley era appesa nella caverna Gamma, congelata e rotta. Finora nessuno aveva trovato l'energia necessaria per aggiustarla.

Saul lesse a caso un campione di cartelle azzurre e studiò gli indicatori dei loculi. A poco a poco arrivò ad una agghiacciante constatazione.

Non più del dieci per cento della colonia stava bene nel verso senso della parola.

Carl è davvero così bravo a mentire? Si chiese come Osborn riuscisse a mantenere la finzione che la missione avrebbe potuto venir condotta a termine. Oppure fingono tutti per non impazzire?

Non vedeva nessun modo perché potesse rendersi disponibile anche soltanto una frazione della manodopera necessaria per costruire e manovrare i propulsori del «colpo di gomito», i jet che avrebbero dovuto alterare l'orbita di Halley una volta arrivati all'afelio.

E senza la «sgomitata», tanto valeva che se ne andassero tutti a dormire, senza pensarci più, giacché non ci sarebbe stato nessun ritorno a casa per nessuno di loro.

I suoi pensieri erano rannuvolati quando lasciò il colombario Uno. Ancora un po' debole a causa della lunga ibernazione, Saul stiracchiò i muscoli rimasti a lungo inutilizzati, percorrendo in quasi-planata le lunghe gallerie verso il basso, in direzione sud, un'area che non aveva ancora visitato, dai tempi della sua ibernazione.

In quel settore quasi tutti i corridoi erano rivestiti da lussureggianti strati verdi di fungoidi halleyviridis. Quella roba era troppo viscida per consentire una buona presa alle sue pantofole di velcro, ma gli offrì un appiglio sicuro quando usò i piedi nudi, come aveva visto fare ad altri.

In effetti, facilitava molto i movimenti. Scoprì, per esempio, di non aver bisogno dei cavi alle pareti, ormai quasi del tutto nascosti. Afferrarsi ad un ciuffo di vegetazione mentre passava gli offriva tutta la possibilità di fare leva che gli serviva per procedere speditamente.

Saul vagò per un po', senza prestare troppa attenzione a dove stava andando, pensando allo strano ambiente in cui lui e Virginia si erano svegliati.

La Terra pareva aver completamente espunto la grandiosa odissea di Miguel Cruz. Oh, manterranno i contatti a modo loro, mandando su intrattenimenti e rivoletti di dati tecnici di tanto in tanto. Saul aveva estorto a Carl Osborn la promessa di aggiornarlo al più presto e nella maniera più completa. Quello spaziale distante, un po' remoto, era stato assi vago su quando l'avrebbe fatto. A quanto pareva, la maggior parte dei coloni svegli vivevano alla giornata, ed avevano una visione spassionata del tempo.

Comunque Saul sapeva che ben presto avrebbe dovuto riprendere i suoi doveri di medico della spedizione. E il fardello della disperazione che aveva logorato Akio Matsudo sarebbe stato suo.

Più miserandi di tutti erano quei poveri ortho giù nel Quadrante 9, con i loro pietosi bambini: figure squallide, rinsecchite, appena umane nell'aspetto, sempre affamate e fragili come foglie.

Forse le Leggi sulle Nascite della Terra erano sagge. La gravità è una dominante molto forte nei nostri geni.

Ma c'era di più. Ieri aveva esaminato cinque bambini degli ortho. Parevano soffrire tutti della stessa deficienza enzimatica. Ne aveva già tracciato una mappa fino al settimo cromosoma. Fra qualche settimana avrebbe dovuto riuscire a scoprirlo, e…

E, cosa, Linzt? Stai forse pensando d'immischiarti di nuovo? Sei appena emerso in un nuovo mondo e già salti fuori con delle idee su come cambiarlo? Il chiarore dei pannelli fosforescenti stava diventando sempre più rado. Saul cercò di orientarsi e si rese conto di non essere stato abbastanza attento. Si era perso.

Ai vecchi tempi sarebbe stato impossibile. Ma ormai tutti i vecchi «cartelli indicatori» posti agli incroci erano oscurati, completamente ricoperti dal morbido tappeto nativo. Invece, là dove il pozzo incontrava la galleria, c'erano dei «segni del clan» profondamente incisi, riempiti d'una sostanza simile alla pece che pareva respingere le halleyforme. Quei segni denotavano i confini delle varie bande umane. Saul si guardò intorno alla ricerca di uno di questi.

Adesso, a quanto pareva, soltanto la Centrale, i colombari e le cupole idroponiche erano i territori neutrali. E le profonde regioni interne di Halley, naturalmente. Ma a quanto aveva sentito dire soltanto i pazzi si avventuravano là in basso.

In una delle aree occupate da una fazione vicino alla Centrale aveva visto che fine aveva fatto il fibratessuto che un tempo aveva rivestito le gallerie e i pozzi della Colonia Halley. Quel materiale era stato trasformato in indumenti e tende, in habitat «a prova di purpurei», sospesi dai soffitti delle cavità più grandi.

Ogni dormitorio manteneva un servizio di sorveglianza ininterrotto per guardarsi dalle più micidiali forme di vita della cometa. Tuttavia, ogni anno o giù di lì, un'altra vittima veniva mietuta dai temuti foraggiatori nativi.

Gli animali sarebbero una soluzione ideale pensò Saul, mentre raschiava via quella vegetazione simile a muschio, sperando di trovare un indizio del luogo in cui era finito. Sulla Terra addomesticavamo altre creature e le usavamo per combattere contro gli animali nocivi. Qui dovremmo riuscire a fare la stessa cosa.

Naturalmente quell'idea era stata tentata. Nell'arco dei decenni altri avevano scongelato cani e gatti e scimmie attingendo alla piccola collezione di animali colombarizzati. Ma nessuna di quelle povere creature si era dimostrata capace di adattarsi altrettanto bene degli umani.

Ma se fossero stati mutati gli animali della Terra… alterandoli, così che si adattassero a quell'ambiente estraneo?

Sapeva che non era stato tentato. Nessun altro aveva la capacità, o l'arroganza, di tentarlo. Già la sua mente si stava gingillando con quelle idee, regolazione ed espressione dei geni, modi per adattare delle creature a lavorare in un ambiente alieno invece che contro di esso.

Quei poveri, patetici bambini pensò.

Saul tirò fuori il proprio fazzoletto chimicamente sterilizzato e si soffiò il naso. Mentre si stava avvicinando a un altro incrocio, vide finalmente uno dei segni dei clan riempito di pece. Frenò la planata, si fermò e studiò il simbolo: una grande «U» coronata da un'aureola.

Mentre era là fermo, una voce parlò. Parve spuntare dal nulla.

— Clape, guarda chi abbiamo qui! Perso, capo?

Saul si afferrò alla vegetazione alla parete e si girò di scatto. Vide un uomo con la faccia tinta di azzurro che lo guardava dall'apertura del pozzo sopra di lui. Saul fu costretto a sbattere le palpebre, poiché quella era senza alcun dubbio la persona dall'aspetto più strano che avesse visto sin dal suo risveglio.

L'individuo portava braccialetti di platino nativo lavorato al martello e una tunica a maniche corte di fibratessuto. E mentre scendeva verso il pavimento, Saul vide che aveva dei ganci-artiglio metallici di brutto aspetto alle dita dei piedi. Nella mano sinistra l'uomo stringeva dei cappi di corda, fatti di un tipo di vegetazione nativa intrecciata.

Saul annuì. — Immagino di essermi smarrito, se è per questo. Pensavo di essere al livello M, vicino al Pozzo Cinque, ma…

L'altro uomo rise, mostrando dei varchi spalancati fra i denti marci. Balzò avanti e atterrò vicino a Saul. Il movimento rivelò un grande tatuaggio sul suo petto. Era un simbolo che Saul riconobbe: il sigillo di Simon Percell.

— Che gusto, uhm? Lavoro gratis, barbone. — L'uomo sogghignò, tastando la corda.

Una seconda faccia azzurra emerse dal pozzo soprastante e sogghignò. — Sgobbata al verde idro, per un favore.

Saul scosse la testa e sorrise. L'espressione vitrea dei loro occhi lo rendeva nervoso. — Mi spiace, sono uscito di fresco dai colombario, così non sono ancora all'altezza del dialetto.

— Clac! — Il primo percell roteò gli occhi. — Un lana vergine! Bene, bimbo dell'azzurra Terra, mi ricordo come si fa a parlare il gergo del suolo. Sei uno dei diamanti di Simon? Oppure una di quelle merdose scimmie normali?

Saul sollevò la testa, sorridendo mestamente. — Colpevole, come da accusa. Sono quello che suppongo voi chiamate un ortho. È un problema? Sono finito dentro un territorio che è esclusivamente perc…

La mano dell'individuo si mosse fulminea, diventando una macchia confusa. D'un tratto un cappio di corda si srotolò come un serpente sopra le spalle di Saul e si strinse. — Ehi!

Un altro cappio seguì il primo. Saul si tirò indietro, ma riuscì soltanto a stringerli ancora di più. — Ho detto che sono stato appena scongelato! Basterà che mi mostriate la strada per arrivare alla Centrale e non vi darò nessun fastidio…

Stavolta entrambi gli uomini scoppiarono a ridere. — È chiaro, somaro — cominciò il primo percell. Poi il secondo interloquì:

— Oh, da' un po' di respiro alla scimmia, Stew. Gli manca il binario. — C'era una traccia di simpatia negli occhi del secondo uomo. Ma soltanto una traccia. Squadrò Saul.

— Ci sono regole, amico. Una cattura senza danni o sangue versato non è una vendetta, è un colpo onesto. Tu lavori per noi in idro per dieci megasecondi, circa quattro mesi, vecchia numerazione, forse con un po' di tempo libero se ti comporti bene.

Il primo percell rise di nuovo, questa volta con una serie di acuti vagiti interrotti da un attacco di tosse. Sputò un globulo striato di rosa sulla parete.

— Quella tosse sembra piuttosto brutta — disse Saul. — Da quanto tempo sputi catarro insanguinato?

L'uomo dalla faccia azzurra scosse la testa con rabbia. — Non sono affari tuoi. Su, muoviti, scimpanzé zoppo. — Stew tirò con forza il laccio che imprigionava Saul. Fino a quel momento Saul si era sentito quasi estraneo a quanto accadeva, come se fosse una cosa comica e non seria. Ma adesso sentì una parte di sé che s'infuriava molto, moltissimo.

Avrei dovuto stare al gioco fino a quando non avessi appreso di più pensò. Ma l'ultima volta che era stato strattonato all'estremità di una corda come quella era stato durante un'infelice giornata a Gerusalemme, quando era stato passato, ammanettato, da un burocrate all'altro della nuova teocrazia da poco installata, con la metà di loro che gli citava il Levitico in faccia in modo sbagliato, e il resto che gli leggeva dei passi in apparenza scelti a caso dalle rivelazioni e dal Corano. Era stato un benedetto sollievo quando il ferchochteh l'aveva finalmente condannato a sei mesi a tagliar legna con un gruppo di prigionieri, per poi espellerlo per sempre dalla sua terra natia.

— Credo proprio di no, yoksh — replicò con voce senza inflessione, quando l'uomo dalla faccia azzurra lo tirò di nuovo. Afferrandosi alla vegetazione della parete con le dita dei piedi e una mano, Saul tirò indietro con tutta la forza dell'altra.

Forse fu dovuto alla mossa inaspettata, dopotutto gli occhi di Saul avevano ancora l'azzurro del colombario, ma l'uomo sul soffitto cacciò un guaito e ruzzolò giù dal suo alto posatoio, oltrepassando il livello del pavimento e finendo dentro il pozzo sottostante. Il suo grido divenne più debole mentre via via rimbalzava con tonfi ovattati sulle pareti, lottando per afferrarsi ad un appiglio mentre cadeva. Saul trasferì la sua stretta all'altra corda.

«Stew» non si sarebbe fatto sorprendere altrettanto facilmente. Sogghignò e tirò con forza il proprio laccio. La maggior parte di quel dialetto stravagante e ritmato era scomparso, quando parlò.

— Povero bambino della Terra. Appena decolombarizzato e debole come un bimbetto degli ortho. Cosa sai della lotta in galleria?

— Non cercare d'insegnare a tuo nonno come si succhiano le uova — disse Saul, e scalciò via dal suo punto di ancoraggio alla parete. Atterrò accanto al sorpreso percell, mentre la corda ricadeva molle, e cominciò subito a scrollarsi di dosso i legacci allentati.

— Mi pare che tu abbia un'infezione tubercolinica — disse, in tono pacato, distraendo per un attimo il suo tormentatore con le sue più asciutte maniere da letto d'ospedale. — Inoltre, da quanto tempo hai quella parech d'infezione della pelle? La cura con le microonde non serve più?

L'espressione stupita di Stew durò soltanto pochi secondi. — Io… — Sbatté le palpebre, ululò e si lanciò contro Saul.

Le ginocchia di Saul si sollevarono giusto in tempo, riuscendo ad allontanare le dita artiglianti del percell. Un acuto dolore gli trafisse la gamba sinistra prima che riuscisse a serrare l'avversario in un abbraccio troppo ravvicinato perché quei micidiali arnesi potessero venir usati. Le loro mani s'incontrarono e si strinsero le une sulle altre, con le dita intrecciate. Stew affondò le dita artigliate dei piedi nella vegetazione della parete e cominciò a spingere indietro Saul.

Il vento sibilava fra i loro denti. La parte distaccata di Saul notò clinicamente il puzzo particolarmente fetido dell'alito dell'altro. Lo aggiunse automaticamente all'elenco degli altri suoi sintomi, per usarli più tardi, sempre che ci fosse un più tardi, per studiare la malattia.

Sei troppo vecchio per queste cose si disse, mentre grugnivano faccia a faccia. E sei uscito da troppo poco tempo dal colombario!

Nel pensarlo, rimase quasi altrettanto sorpreso del robusto percell quando quella guerra di muscoli sotto sforzo cominciò a cedere, allontanandosi da lui. Le braccia del suo avversario cominciarono a tremare, a mollare. Saul approfittò del vantaggio:

— Ci… sono… — rantolò Saul, mentre strappava all'indietro le braccia dell'altro, facendolo urlare di dolore. — Voi… dovete essere quelli che… chiamano gli Uber. — Costrinse l'uomo a girarsi, torcendogli dolorosamente le braccia dietro la schiena.

— Uush, bei superuomini… — commentò infine. Con un grugnito scagliò il suo avversario giù nel pozzo, giusto in tempo per fargli colpire il compagno che stava ritornando, nel momento in cui la sua testa sporse dal bordo. Insieme, rotolarono giù di nuovo dentro il pozzo, vorticando, urlando e dimenandosi. Saul andò alla deriva fino ad una parete e vi si tenne aggrappato con una mano fino a quando la lieve gravità non lo riportò di nuovo sul pavimento. Il cuore gli batteva e delle macchie gli ballavano davanti agli occhi. La gamba graffiata gli faceva un male d'inferno.

— Somari — bisbigliò, preferendo gli espliciti inglesismi della sua gioventù, in questo caso, al più raffinato yiddish che aveva imparato soltanto in età più matura. Raccolse il fiato e si preparò quando dei rumori lo avvertirono del loro ritorno.

Questa volta fecero maggiore attenzione. I due balzarono sui lati opposti del corridoio per affrontarlo, entrambi chiaramente imbestialiti. Nelle loro mani erano comparsi luccicanti coltelli metallici.

Così, se ne va in fumo la cattura secondo le regole pensò Saul, Forse, dopotutto, avrei dovuto accettare quei dieci megasecondi di idro.

Eppure, per qualche ragione, non si sentiva per nulla rincresciuto. — Venite avanti, cretini — disse, invitandoli a farlo con un cenno della mano. Loro fecero per assecondarlo.

— Fermi!

Saul e i due percell alzarono lo sguardo in perfetto sincronismo. Una terza testa dipinta di azzurro emerse dalla galleria sovrastante, e Saul non poté fare a meno di cacciare un gemito. Anche impregnato di adrenalina, non era tanto idiota da credere di poter affrontare tutti e tre quei bastardi.

Ma il nuovo venuto non rivolse la sua ira contro di lui, bensì contro i due Uber.

— Avete aggredito quest'uomo? — urlò, con chiaro tono di comando. A Saul la voce pareva familiare… un accento un tempo marcatissimo, ammorbidito e coperto da anni di dialetto.

I primi due Uber distolsero lo sguardo da Saul. — Clape. Il macaco ci ha combattuto. Sergie…

— Mollate la cacca! — Il capo scese giù lungo una delle pareti rivestite di verde. Delle gambe tronche che erano poco più di moncherini, sormontate da ganci, lo fecero girare rapidamente quando indicò Saul. — Sapete chi è questo?

I due si limitarono a sbattere le palpebre e fissarono senza espressione il loro capo senza gambe che si voltava per la prima volta verso Saul, facendo un inchino molto decorativo in segno di rispetto. — Ti do il benvenuto, zio della nuova razza.

Adesso quel suo ciuffo di capelli slavi era quasi del tutto scomparso, e la sua pelle abbronzata dallo spazio era diventata un unico gigantesco tatuaggio. Ma gli anni non impedivano in nessun modo il riconoscimento. Saul rise sonoramente.

— Oh, ciao, Otis. Mi fa piacere rivedere anche te. Cosa hai fatto… oltre a diventare azzurro, voglio dire?

Dentro di lui, però, il cuore batteva ancora forte, quando cominciò a rendersi conto di quanto ci fosse andato vicino. Riuscì soltanto a pensare, Oh…

Il viaggio di ritorno fino alla Centrale sotto la scorta degli Uber fu quasi snervante, scivolando rasente lungo le pareti vellutate dei corridoi rivestiti di muschio, passando accanto ai punti di controllo delle vie di accesso ai territori dei diversi clan, con rituali elaborati ma all'apparenza di routine.

Perfino Saul si rese conto che stavano ritornando lungo un percorso molto più lungo del necessario, affondando in profondità dentro la cometa e spostandosi a nord prima di ricominciare a salire. — Perché andiamo tanto fuori strada? — chiese, una volta che furono scesi fino a gallerie che non aveva mai visto prima, sentieri serpeggianti che seguivano vene di neve primordiale morbida.

Sergeov scrollò le spalle. — Quiverian.

Saul si fermò. — Joao? Ho sentito che adesso è sveglio anche lui. Ma perché lo evitate?

Il primo Uber, il percell chiamato Stew, sputò dentro un pozzo vicino. — È il più cupo degli archisti. La scimmia che odiamo di più.

Saul scosse la testa, guardando Sergeov. — Spiegamelo per favore, Otis.

Il capo degli Uber sorrise. — La vecchia razza aveva degli individui superiori, come te e Simon Percell. E anche Quiverian. Ma lui oggi è alla testa della più idrofoba banda di ortho anti-percell che si possa immaginare. Quelli che si sono resi conto di essere dei dinosauri, e vogliono eliminare noi, i nuovi mammiferi.

Saul riteneva di capire. Il termine archista, che un tempo, sulla Terra, aveva denotato gli ambientalisti equatoriali, si era evoluto, cambiando, qui su Halley. Adesso stava a indicare la fazione più estremista degli ortho, così come Uber contraddistingueva quei percell che ritenevano non potesse esserci nessun compromesso con gli esseri umani non modificati.

Era chiaro che c'erano un odio e una rivalità intensi, eppure erano, altrettanto ovviamente, sotto controllo. Era chiaro che tutte le fazioni erano troppo deboli, troppo dipendenti le une dalle altre, per condurre una guerra aperta.

— Sono perplesso, Otis — disse, mentre riprendevano il loro viaggio. Qui sotto le gallerie sembravano essere state scavate a mano, scabre e serpeggianti, seguendo piste di minima resistenza attraverso il ghiaccio roccioso. — Se la pensate così, perché non avete bambini come qualcuna delle bande degli ortho?

Uno degli uomini di Sergeov ringhiò rabbiosamente, e Saul si rese conto di aver toccato un argomento tabù. Sergeov interruppe l'uomo dalla faccia azzurra con una parola secca, e tornò a girarsi verso Saul.

— Ne abbiamo qualcuno. Sono venuti meglio di quei piccoli disgraziati pietosi degli ortho. Forse uno di loro, speriamo, un giorno potrà imparare a leggere e a scrivere. — Il suo volto si contorse per un breve istante a quel doloroso ricordo. — Non facciamo più esperimenti. A cosa servono, quando sono tutti ugualmente condannati, eh? Quegli ortho al Quadrante 9, sono immorali a far nascere bambini soltanto per farli soffrire e morire.

Così pensò Saul, conoscono la verità.

— È per questo che il livello della violenza è così basso, anche se vi odiate tanto? — azzardò Saul.

Sergeov annuì. — Tutti moriranno insieme, comunque. Ma ci servono lavoratori per mandare avanti le cose quanto più a lungo possibile. Nessuno vuol morire di freddo, di fame.

— Nessuno, salvo forse Ould-Harrad — disse uno degli altri.

— Ould-Harrad! — Saul sbatté le palpebre. — Allora è…

— È diventato un mistico dagli occhi spiritati — gli spiegò Sergeov. — Come credi che un percell come Osborn sia riuscito a diventare un ufficiale? Non certo per il suo bell'aspetto o il suo amore per gli ortho, te l'assicuro.

Gli altri due Uber scoppiarono a ridere. — No. Ould-Harrad ha cominciato a parlare con Dio. Ha dato le dimissioni dal suo incarico. È andato fuori di testa, ed è uno strumento di Quiverian, adesso. Capo spirituale degli archisti — concluse sarcasticamente.

Saul era disposto a credere quest'ultima cosa. C'era da stupirsi che il completo silenzio delle lunghe veglie non avesse spinto un numero ancora maggiore di loro verso le frange estreme dell'umana esperienza.

Sergeov scrollò le spalle. — Andiamo, adesso. Ti riporto alla Centrale. Devo comunque parlare con Osborn. Devo chiarire alcune stupide accuse di quel piagnone di Malcolm.

Ma Saul non si mosse. Sbattendo le palpebre, stava fissando una galleria trasversale più in basso, dove una luce fantasma ondeggiava in distanza.

Gli altri si voltarono, e videro anche loro la luce. Uno degli Uber sibilò. — Clape. È il vecchio in persona!

Incuriosito, Saul si spinse verso quella forma. Poi vide che erano due, no, tre, le figure spettrali che si stavano muovendo lungo le pareti, simili a grandi ragni, brucando la vegetazione che cresceva su di esse.

Una mano lo strinse per il braccio e lo tirò indietro.

— Adesso andiamo — grugnì Sergeov.

— Cosa sono? — domandò Saul. E per un momento provò un brivido di eccitazione al pensiero che potesse trattarsi di una forma finora sconosciuta di halleyvita: creature gigantesche e dalla struttura complessa.

— Adesso, Saul Lintz. Quelli possono essere pericolosi.

Saul ammiccò di nuovo più volte, e si rese conto che quelle creature che si stavano avvicinando lentamente avevano la forma di uomini, ma i loro contorni erano confusi, frastagliati, con un bordo latteo, nebuloso, di fronde luccicanti.

— Ingersoll? — chiese, ad alta voce.

— Il Vecchio Uomo delle Caverne — ammise a questo punto Sergeov. — E qualche altro pazzo che si è unito a lui. Vieni, adesso, Lintz, altrimenti ti lasciamo.

Saul annuì e cominciò ad arretrare insieme a loro. Ci sarebbe stato tutto il tempo per studiare i misteri. Alla fine la pazienza avrebbe dato risultati assai migliori d'una curiosità impetuosa.

Comunque, il palmo delle sue mani era sudato, e la sua bocca era ancora più secca mentre guardava quelle forme simili a fantasmi che brucavano in mezzo alla foresta di halleyforme, di quanto lo fosse stato durante la lotta con i combattenti Uber di Sergeov. Si affrettò comunque a proseguire insieme alla sua scorta, ripromettendosi di tornare quando avesse conosciuto meglio le regole di quello strano tempo e luogo.

I corridori vicini alla Centrale, ancora rivestiti di fibratessuto, ancora spazzati a intervalli con gli ultravioletti e le microonde e tenuti puliti dai pochi mech che erano sopravvissuti a tutti quei decenni, parevano un'oasi, sbucata fuori, più che da un altro secolo, da un mondo diverso.

— Devo parlare con Osborn — disse Sergeov a Saul. — Accetta il mio consiglio, Lintz. Fai attenzione a quale fazione ti aggreghi, dopo il recupero. Qualcuno dei gruppi di ortho non è fatto di babbuini idrofobi.

Saul si era sentito descrivere in termini ugualmente sgradevoli i percell estremisti di Sergeov. Aveva stabilito già molto tempo prima che là dove esisteva il tribalismo, non c'era alcun modo di evitare la criminalità.

— Alcuni gruppi accettano sia gli ortho che i percell — rispose a Sergeov. — Se dovessimo aggregarci a qualche fazione, dovrà essere una di queste.

— Dovessimo… — Il capo senza gambe degli Uber rifletté un momento. — Ah, tu e la Herbert.

— Un'altra amante degli ortho… — cominciò a dire uno degli altri uomini, ma un'occhiata tagliente di Sergeov gli troncò la frase in bocca.

— Un'ultima cosa — disse Saul, mentre i percell si voltavano per andarsene. Affondò la mano nella borsa che aveva alla cintura e tirò fuori un arnese argenteo.

— Voglio un po' di sangue e qualche campione di tessuto per il mio nuovo inventario medico, se a voi non dispiace. I Sopravvissuti e le bande dell'Altopiano Tre hanno già contribuito, e sono sicuro che anche voi sarete felici di collaborare.

L'Uber con i denti malconci ringhiò e portò la mano al coltello. Ma ancora una volta il russo troncò la sua reazione. Gli occhi di Sergeov parvero luccicare mentre presentava il braccio a Saul. E un silenzioso messaggio parve dire che un giorno si sarebbe aspettato un favore anche da lui.

Se un tempo non avessi lavorato per Simon Percell pensò Saul, mentre prelevava i campioni dagli altri due, Otis mi avrebbe mai salvato la vita questo pomeriggio?

Sul petto degli Uber il Sigillo risaltava nitido, rosso sull'azzurro, il tributo nei confronti di un uomo morto da lungo tempo per propria mano, che forse aveva visto quello che stava per arrivare, ma non avrebbe potuto immaginare fin dove sarebbe giunto.

Saul andò a far visita a Virginia nella sua unità di recupero e rimase qualche tempo con lei, controllando con grande attenzione i suoi progressi e assicurandole che il pallore dovuto al lungo soggiorno nel colombario stava svanendo, proprio come doveva. La baciò e le diede un leggero sedativo per l'insonnia. Poi scese nel suo laboratorio.

I campioni degli Uber subirono le stesse analisi preliminari che aveva eseguito sugli altri suoi soggetti. I primi risultati parvero essere gli stessi.

Oh, c'era un diverso accumulo di microfauna nel sangue e nella saliva. Il sistema immunitario dei percell pareva leggermente meno danneggiato, non superstressato come gli effettivi ortho rimasti nella colonia. Questa non era una sorpresa. La spedizione aveva cominciato composta per un quarto di percell. Adesso, il rapporto fra quelli abbastanza in salute da rimanere svegli era alla pari, o leggermente a favore degli individui geneticamente potenziati.

Ma la storia era sempre la stessa. Stiamo morendo tutti pensò. Alla fine trovò il coraggio d'inserire un campione appena prelevato a Virginia.

Saul deglutì. Lei era meglio conservata, ma poteva leggere i segni. Perfino nel suo caso, appena uscita dal colombario, l'inevitabile era in arrivo.

— Bene — bisbigliò. — Forse riuscirò a trovare uno schema. Forse riuscirò a dare un'ulteriore regolata ai cianuti.

Non nutriva molte speranze in quell'approccio, comunque. Quel successo aveva permesso a uomini e donne di vivere nell'ambiente di Halley. Ma le forme di vita della cometa si adattavano. Un numero sempre maggiore di tali forme evitava lo speciale rivestimento di zuccheri che aveva permesso alle piccole creature sottoposte all'ingegneria genetica di fare così bene il loro lavoro extra.

La vecchia domanda rispuntava sempre, ogni giorno, quasi ogni ora in cui era sveglio. Doveva averci dormito insieme durante i lunghi anni in cui si trovava nel colombario.

Com'è possibile che la halleyvita viva in noi? Come mai Ingersoll e gli altri abitanti delle caverne riescono a mangiare quella roba e a sopravvivere?

Perché siamo così simili?

Oh, quella simulazione che lui e Virginia avevano elaborato tanto tempo addietro aveva mostrato come poteva esistere quell'analogia fondamentale. La scienza sapeva da lungo tempo che la chimica organica avrebbe prodotto gli stessi amminoacidi, le stesse purine e pirimidine in una varietà molto ampia di circostanze. In generale la vita sarebbe cominciata allo stesso modo dovunque.

Ma le analogie andavano ben al di là. Era quasi come se l'uomo non fosse stato la prima creatura della Terra a invadere la cometa. Come se ci fossero state delle ondate precedenti, e la guerra attuale si svolgesse fra lontani cugini.

Molto tempo addietro, nel tardo ventesimo secolo, un famoso astronomo aveva addirittura proposto che le comete fossero una delle fonti delle epidemie sulla Terra. Secondo la sua teoria, i virus primordiali scendevano fluttuando dentro l'atmosfera tutte le volte che il nostro mondo passava attraverso una coda cometaria. Ciò, pensava l'astronomo, spiegava gli antichi miti che consideravano oggetti come la cometa di Halley apparizioni che annunciavano la fine del mondo. Le stelle del male.

Saul aveva riso nel leggere quelle sciocchezze barocche. Ma questo era successo molto tempo prima. Adesso… insomma, non sapeva più cosa pensare. Niente, niente di tutto questo aveva alcun senso.

Il computer prese ad ammiccare a ripetizione, per attirare la sua attenzione, facendo lampeggiare un codice.

F4-D$56.

Richiesta di altri dati.

— Ma certamente. — Saul annuì amabilmente. — Una richiesta più che degna.

Domani sarebbe uscito per tentare di convincere gli archisti di Quiverian a collaborare. Poi ricordò: non aveva ancora esaminato il suo stesso sangue.

Un altro dato per la sua linea di ricerca. Si avvicinò al tavolo dei trattamenti, estrasse e preparò i campioni, e tornò indietro per sottoporli all'analizzatore-separatore fluorescente. I numeri e i diagrammi lampeggiarono in tre dimensioni e parecchi colori. Delle raffigurazioni crebbero tutt'intorno a lui, programmate per mettere in risalto differenze grazie ai campioni raccolti ed esaminati in precedenza.

D'un tratto tutt'intorno a Saul i display avvamparono, ammiccando per mettere in risalto i punti salienti, illuminando le anomalie. Saul sbatté le palpebre. Quasi ogni cosa era diversa!

— Uhm — commentò, con estrema concisione. Saul sbatté di nuovo gli occhi nel contemplare quelle cifre.

C'era l'elencazione dettagliata del conto dei linfociti… tutti i tipi: entro limiti normali.

I campioni di nessun altro dicevano questo. Soltanto i suoi.

Equilibrio elettrolitico… nominale.

I suoi erano i soli che lo dicevano.

Processo metabolico… nominale.

— Stupida macchina — grugnì Saul. Appioppò una sberla sul fianco dell'unità, regolata su un autotest, poi un'altra. Il pannello reagì soltanto con un ammiccare di luci verdi. La macchina sosteneva di lavorare bene.

— Sono io, forse, aberrante, perché sono normale? — Saul fissò le colonne di cifre. Tutte insistevano a dire che lui era anomalo. Strano. Insolito.

E quasi tutte le differenze andavano verso la norma umana della Terra. Salvo una…

Agenti infettivi estranei…

Fissò le stime e fischiò.

Stando alla bioanalisi, avrebbe dovuto esser morto.

Morto? Saul scoppiò in una risata. Quella dannata macchina sembrava pensare che il suo sangue fosse una schiuma di pericolosi invasori. I fluidi del suo corpo erano un brulichio di orribili creature maligne, la più piccola frazione delle quali avrebbe dovuto ucciderlo già molto tempo prima.

Eppure gli altri display dicevano: Nominale…

Nominale…

  nominale…

    nominale…

— Dannata macchina pazza — borbottò.

Ma poi Saul ricordò… quando aveva lottato contro gli Uber nel corridoio… la sorpresa su entrambi i loro volti quando lui, uscito dal loculo da due settimane soltanto, aveva cominciato a torcere indietro il braccio dell'altro, sempre più indietro…

— Visualizzazione microscopica — ordinò. Era giunto il momento di andare a fondo di quella faccenda. Qui c'era qualcosa di sbagliato e il miglior modo per scoprire cosa si fosse guastato nel suo biocomputer sarebbe stato quello di fare lui stesso una ricognizione istologica all'antica. — Schermo Uno, campione di sangue del soggetto, ingrandimento novanta.

L'olovasca s'increspò, poi si schiarì, mostrando un mare color paglia affollato di globuli rosa, bianchi e gialli alla deriva. Una agitazione turbolenta di forme multicolori, che vorticavano, rimbalzavano, frullavano in quella marea salina.

Saul scosse la testa, fissò quello spettacolo, scosse di nuovo la testa.

La sua bocca cominciò ad andare su e giù, senza produrre un solo suono, con un'espressione di assoluto stupore e silenziosa preghiera.

CARL

Carl studiò con incredulità lo schermo principale. Aveva terminato un'altra inutile conversazione con il Maggiore Clay, quel meraviglioso uomo di legno che riceveva tutte le domande rivolte alla Terra con una calma blanda eppure dura come la roccia. La Terra non mandava nessun consiglio, informazione, e neppure molta solidarietà, questo era certo. Il Maggiore Clay eludeva ogni singola domanda. Ad ogni anno che passava tappezzavano le loro paure aumentando i canali d'intrattenimento che trasmettevano con la «spruzzata» settimanale. Ciò lasciava meno tempo per le vere comunicazioni.

Così, Carl aveva fatto scattare l'interruttore colto da un impeto d'impazienza, prima che il tempo destinato alla trasmissione fosse concluso.

Era doppiamente irritante, per lui, il fatto che non potesse mai sbattere veramente la «cornetta» in faccia al maggiore Clay, poiché il ritardo dovuto alla velocità della luce adesso era di cinque ore. Questo non favorisce proprio le risposte brusche aveva pensato.

Era tempo di prepararsi all'incontro. Pigiò oziosamente il READOUT CORRENTE, aspettandosi di vedere il solito rapporto sullo stato delle cose, ma non gli comparve il consueto grafico a cinque colori. Invece colse un rivoletto di flusso interno momentaneamente esposto di JonVon. Incredibilmente, si trattava di un'altra poesia. Mentre leggeva, Carl cominciò a sorridere.

Gli Altopiano Tre sono semplici, comuni,
non possono svolazzare via dal dolore dei percell.
Portaci a casa! O vicino al calore del Sole!
Vicini alla Terra e lontani dal pericolo.
Solo il vecchio JonVon ha il fascino
di nascondere un indovinello
in mezzo: oro!
Trattaci da minatori,
Maggiore.

E la Via Marziana, ah,
essi vedono il loro giorno
che arriva, per sculacciare un pianeta rosso
(Attenti alla testa!)
per farlo scorrere e sanguinare di fluidi
dal ghiaccio azzurro morto e butterato della Halley.

Vermi, come perle appiccicose,
orbite in vortici liquidi,
Uber tronfi, pallide dure mascelle sporgenti
ad affettare gli ortho!
… se potessero. Tutti
per convergere, buoni e viscidi,
fuori, vicino a Nettuno,
su qualche luna di ghiaccio-e-ferro
(o altrimenti per piantare il coltello
dei microbi e dei pidocchi sulla Terra. Lasciar
cadere un razzo
nella loro tasca. Eh?).

Tristi sicuri Archisti, vogliono
fare il cappio per sempre.
Non sono furbi?
Ragli acuti e sferragliate rugginose.
le fronti corrugate, cantano come bestiame:
Mantengo libera da noi,
dal nostro pus la perla verdazzurra.
Immondi, capite:
il suicidio è un diritto tanto quanto
l'andar lieti nella Buona Notte.

Carl rise. Quella non era la prima prova che aveva visto di JonVon, che snocciolava poesie nei momenti di stanca. Ma di recente quell'idiota biorganico era diventato arcano. O forse dimostrava solamente che la poesia, dopotutto, non era un'attività di alto livello. Quella era roba frastagliata, vacillante, amara, che procedeva barcollando da un verso all'altro, con qua e là, occasionalmente, un contatto strisciante con la ragione.

Qual era l'oro che JonVon nascondeva? Carl si chiese se JonVon l'avesse già mostrato a Virginia. Lei si stava ancora riprendendo dal colombario, ma passava qualche ora, ogni giorno, collegata al suo cyber-amico. E se alla fine la macchina si fosse rivelata un poeta migliore di lei? Carl sorrise.

E come faceva JonVon a ottenere delle informazioni così dettagliate su quelle perniciose fazioni tra le quali lui doveva destreggiarsi? Forse dovrei dirottare il suo lavoro su una subroutine.

Incontri, sempre incontri. Attraverso il portello entrò Andy Carroll, magro come qualcuno appena uscito dal colombario, e furioso.

— Quegli archisti sono di nuovo in sciopero!

— A gatto selvaggio?

— No, è stato Malcolm a indirlo. Mi ha appena chiamato.

— Come mai?

— Dice che la loro razione di idro era bassa, questa settimana. La sua squadra addetta al raccolto è appena tornata senza frutta e con pochi ortaggi.

Carl corrugò la fronte. — Non avrebbe dovuto succedere. Ho controllato la produzione.

— Sergeov si è impadronito di una parte di quello che spettava a loro, ne sono sicuro. — Andy serrò una mano a pugno e la picchiò contro il palmo dell'altra. — Rubata di nuovo?

Un cenno di assenso. — Ha un sistema per far uscire la roba di nascosto dopo che è stata contata e assegnata. Non riesco a capire quale.

Con voce pacata, Carl disse: — È il tuo reparto. — Andy era giovane, risvegliato soltanto di recente, ma aveva fatto assai presto a capire le sfumature della situazione. Le sue nere sopracciglia schizzarono all'insù. — Io controllo ogni ingresso. Non c'è nessun modo in cui un uomo o una donna potrebbero entrare là dentro.

Carl annuì comprensivo. — Ehm, già… E un mezzo uomo?

— Per… oh! Tu pensi che Sergeov possa entrare in qualche altra maniera?

— Senza gambe… Controlla.

Andy ci pensò su per qualche istante, i suoi pallidi lineamenti si contrassero in una maschera d'irritata preoccupazione. — Non vedo proprio come, ma… d'accordo.

Carl sospirò e si stiracchiò nella ragnatela. — Adesso capisci com'è tutto questo lavoro.

— Già. Sono un branco di maledetti bambini!

— Sei fuori da… da quanto? Due mesi?

— Appunto. Tuttavia…

— Ci vuole un po' per capire da dove nasca l'odio. Cerca soltanto d'ignorare il peggio, giraci intorno.

— Sono convinto che Malcolm stia cercando di prendere tempo.

— Lo fa spesso. Che altro gli rimane, per negoziare? Ma intendi dire che stavolta lo fa seriamente?

— Credo di sì. Ho controllato gli alloggiamenti degli sgomitatori, che si suppone abbiano terminato tre mesi fa, giù al polo Sud di Halley. Sembra che siano stati montati alla maniera giusta. Ma ho tolto alcune delle cappottature. All'interno mancano dei collegamenti, alcuni dei serbatoi non sono al loro posto… sì, è un casino.

— È sicuro che sia colpa di Malcolm?

— Credo che stiano sabotando gli alloggiamenti.

— Hanno spaccato niente?

— No, hanno soltanto smontato alcune cose.

— Furbi. Qualunque danno ovvio, e ci saremmo messi a ululare. In questa maniera avresti potuto benissimo accusare Malcolm in faccia, di scansare il lavoro.

Andy arrossì: — Be'… a dire il vero, è proprio quello che ho fatto.

Una pausa. — Oh?

— Io… So che prima avrei dovuto chiamarti, ma… ero così infuriato! Ho chiamato Malcolm e ho cominciato a gridargli… — Andy s'interruppe, imbarazzato.

— E…?

— Mi ha riappeso in faccia prima che fossi riuscito a dire tre frasi.

— Allora è probabile che pensi di aver qualcosa di cui lamentarsi anche con noi. — Non apparire troppo distratto, disinteressato si ricordò Carl. Non rivelare ad Andy quello che sai… che, semplicemente, non c'è proprio nessuna maniera in cui possiamo realizzare in tempo gli sgomitoacceleratori.

E proseguì: — Chi ha più da guadagnare, se tu e Malcolm vi prendete per la gola?

— Diavolo, quasi nessuno, mi pare.

— Non c'è bisogno che siano in tanti.

— Be'… oh, sì, Quiverian. È quello che continua a vomitare tutta la merda archista. Pensi che sia lui che sta cercando di rallentare il lavoro per la sgomitata?

— Quadra. Gli archisti più estremisti non vogliono nessuna possibilità che del materiale cometario arrivi in prossimità della Terra. Nessuna orbita abbastanza vicina da poter realizzare un buon rendez-vous, niente del tutto. Tutto quello che conta, per loro, è conservare la biosfera della Terra. Non gl'importa quello che può succedere a noi.

— Ma ci sono ancora delle possibilità che non presentano nessun rischio concepibile per la Terra. Con la sgomitata possiamo ottenere un periodo orbitale più breve, impacchettare tutti dentro i colombari…

— Sperando che un decennio o due in più faccia rinsavire tutti sulla Terra?

L'espressione di Andy era così aperta che leggerla era quasi doloroso. — È… Dobbiamo avere una speranza, no?

— Certamente — rispose Carl, cercando d'infondere nella voce un sincero ottimismo. — Sicuro.

Andy contrasse le labbra, assorto nei suoi sogni. Forse non è uno stupido ottimismo pensò Carl. Forse ci verrà concessa una tregua. Mi sto stancando di desiderare.

Pensò di mostrare ad Andy la poesia, ma poi decise di lasciar perdere. Andy avrebbe potuto benissimo trovare sconvolgente quella mistura di bile e di umorismo da patibolo. Che prima si marinasse per un anno o giù di lì.

E chi può saperlo? Forse qualche archeologo potrebbe trovare quella poesia e proclamarla la più grande opera della nostra triste e sfortunata spedizione. Potrebbero inciderla su una targa e affiggerla accanto al portello esterno principale, per etichettare il montagnoso museo di ghiaccio che sfrecciava nel loro cielo, contrassegnando una grande idea fallita. Con noi che nuotiamo in permanenza nei melmosi fluidi dei nostri colombari, come oggetti principali della mostra.

Non era un'idea assurda.

VIRGINIA

Doni rubati
nascosti nel tempo.
Doni in attesa
nel profondo della mia rima.

— Uh? Hai detto qualcosa, Virginia?

La voce di Jeffers crepitò nel suo comunicatore, mentre lei si concentrava per guidare i suoi due riluttanti mech sopra una montagnola di ghiaccio, allo stesso tempo. Era sempre un esercizio delicato, perché quelle grosse macchine avevano sempre abbastanza forza da rimbalzare via completamente da quella superficie cosparsa di detriti. Quei modelli da riparazione non avevano dei propulsori a bordo per riportarli indietro nel caso di un calcolo errato.

— Uhm, non badarci, Jeff. È soltanto JonVon che recita di nuovo. Non appena avremo finito con questo progetto gli darò una bella purgata alla memoria.

— Pare che abbia acquisito un po' della tua mano di scribacchina. Se ha continuato a scrivere poesie per trent'anni, potrebbe darti delle belle soddisfazioni, figliola.

Jeffries pareva divertito, e Virginia scoppiò a ridere. Ma dentro di sé cominciava ad essere preoccupata. C'era qualcosa che non andava con la sua controparte, il computer bio-organico. In alcune specializzazioni JonVon pareva più sottile, più capace, di quant'era quando lei era stata colombarizzata, decenni prima: un risultato del tutto naturale, visto che lei l'aveva programmato in modo che migliorasse in maniera lenta ma costante. Ma per altri aspetti la macchina/programma si comportava adesso in maniera erratica, incerta, spontanea, esplodendo in quelle eruzioni che parevano irrilevanti, non rintracciabili.

Campi di neve cosparsi di spazzatura si stendevano verso la fila di agrocupole intorno all'ingresso del Pozzo Uno. Giganteschi specchi erano appesi a torri di ghiaccio simili a tralicci che si ergevano lì accanto, i quali concentravano la lontana favilla del sole per trasformare quelle cupole in vampe risplendenti sullo sfondo del ghiaccio granuloso.

Sotto le cupole di vetro, delle masse verdi ondeggiavano lentamente per effetto delle brezze artificiali. Pochi lavoratori si muovevano languidamente fra le piante, accudendo a quello che era il pane della colonia. Da quando si era svegliata dal sonno del colombario aveva avuto poco tempo per apprendere le procedure idroponiche che erano state messe a punto a colpi di successi e d'insuccessi nell'arco di quei lunghi decenni. Ma vedeva già che la procedura poteva fare ampio uso di automatismi.

I suoi mech arrivarono dove la figura in tuta spaziale di Jeffers la stava aspettando in piedi accanto ad una figura di cristallo rovesciata. Le schegge del ghiaccio simile a vetro erano sparpagliate dappertutto.

Virginia dette in un rantolo. — È terribile! Chi ha distrutto la scultura di Jim Vidor?

La statua era stata dedicata al capitano Cruz e al sogno che tanti membri della spedizione avevano condiviso. Aveva raffigurato un essere umano in tuta spaziale, logoro e stanco, ma perseverante, il quale porgeva dei doni lucenti al suo ritorno su un globo azzurro, la Terra.

Virginia ricordava quanto Jim Vidor ne fosse orgoglioso, subito prima della sua colombarizzazione, tanto tempo fa. Era stata un'opera molto bella, lavorata con sei differenti sfumature di ghiaccio, disegnato nella materia nativa. Ma adesso lo spaziale scolpito giaceva sbriciolato sul fianco, e il globo azzurro era schiacciato.

In profondità, sotto la superficie, nel suo laboratorio, Virginia divenne tesa nella sua ragnatela, mentre fissava quell'atto vandalico attraverso gli occhi del mech. — Chi…?

La voce di Jeffers suonò tesa. — Non so. Immagino che siano stati alcuni degli Uber di Sergeov.

— Ma perché?

Lo spaziale scrollò le spalle. — Cruz era un ortho.

Questa a lui pareva una spiegazione più che sufficiente. Virginia sentì la pelle che le s'imporporava, vergognosa in quel momento di essere una percell.

— Jim l'ha mai visto?

— Noo. Matsudo l'ha tirato fuori nel 2079 o giù di lì, e i cianuti di Lintz hanno sistemato la sua prima malattia. Ma poi hanno dovuto di nuovo colombarizzarlo un anno più tardi per un'infezione del sangue davvero brutta. Immagino che in un certo senso sia un bene, se è per questo. Non ha mai visto quanto sono peggiorate le cose da allora. Jim era un ortho, ma mi piaceva molto.

— Già — replicò Virginia, incapace di pensare a qualcos'altro da dire. Fece girare i suoi mech intorno al monumento infranto, per raggiungere Jeffers. — Su, vieni, vediamo se riusciamo a fare uno o due miracoli.

— Giusto, graziosa signora hawaiana. — Jeffers sollevò un braccio e tirò via da una rastrelliera trasportata da uno dei mech parecchie buste sottili. — Il Cimitero degli Elefanti è da questa parte.

Aggirarono un poggio roccioso e Virginia esalò un sospiro. Nessun puro dato statistico avrebbe potuto prepararla alla scena che adesso si stendeva davanti a lei. Macchine, disposte fila dopo fila, in ranghi ordinati che si stendevano fin quasi all'orizzonte ricurvo, tutte pietrificate, immobili, bloccate in una rigidità fatta d'inutilità e disperazione.

— Da dove cominciamo? — chiese sgomenta.

Jeffers batté le mani guantate e si sollevò di un paio di metri dal ghiaccio, in preda com'era a un'intensa eccitazione nervosa.

— Chi se ne frega! Per tre anni ho smanettato con l'hardware, affannandomi nell'auto-fabbrica, provando dei prototipi di ricambio. Ma ho continuare a incappare in intoppi del software, blocchi alle ROM, clape che non riuscivo a glokkare! Frustravano ogni mio tentativo.

Atterrò rivolto ai mech di Virginia.

— Ma adesso, in sole due settimane, hai risolto cose che mi avevano fatto arenare in pieno!

Uno dei mech sollevò una mano meccanica, mimando con precisione il gesto di Virginia giù dentro il suo laboratorio in penombra. — Aspetta un momento, Jeff. Ho detto che questo era soltanto un primo assaggio. Nessuna promessa…

Ma l'uomo si era già propulso sopra un ripar-bot fusiforme, una macchina sofisticata simile ad un androide, concepita per la manutenzione di altri congegni, ma adesso bloccata in un'inutile rigidità.

Virginia osservò nervosamente lo spaziale che stava vagliando le buste, ne sceglieva una, la lacerava e ne tirava fuori una scheggia scintillante. Aprì un pannello di accesso, e infilò il cristallo riprogrammato nel retro della macchina.

— Alzati! — comandò, arretrando ed agitando teatralmente le mani. Virginia trattenne il fiato. Per un istante parve che lo strato di ghiaccio che ricopriva il rigido mech l'avrebbe costretto all'immobilità. Una parte di lei si chiese: Può una statua animarsi?

Ma poi il ghiaccio si screpolò, dissolvendosi in minuscoli sbuffi, con silenziose esplosioni a mano a mano che il ghiaccio amorfo cambiava il proprio stato trasformandosi direttamente in gas. Ondeggiando, la macchina si dispiegò. Con movimenti legati, simili a quelli delle zampe di una mantide, si rizzò e si voltò verso Jeffers. Con le cellule degli occhi che luccicavano, tese un lungo braccio, robusto abbastanza da spezzare un uomo in due. Una mano dalle molte dita si aprì come un fiore in boccio.

Jeffers mise il mucchio di buste in quella stretta efficiente e sicura.

— Questa mattina si risvegliano gli eserciti dei morti! — scoppiò a ridere Jeffers. — Su, vieni, faccia d'angelo. Abbiamo un pesante lavoro di resurrezione da fare!

Virginia perdonò all'uomo quella veniale empietà. La sua eccitazione era contagiosa, quasi quanto le micidiali malattie e la mancanza di manodopera, quel graduale declino della forza dei mech della colonia aveva contribuito alla diffusa atmosfera di disperazione, l'impossibilità di concludere qualcosa di reale.

Oh, non farà molta differenza, qualsiasi cosa riusciremo a combinare qua fuori. Niente può sostituire gli esseri umani mancanti.

Ma potremmo riuscire a rendere un po' più comoda la vita di qui.

Jeffers, lì sul ghiaccio, pareva un'ape operosa, balzando in continuità dal fuco al roboide, al waldo-mech. Virginia non si faceva nessuna illusione; tuttavia cominciò a stupirsi e a diventare più speranzosa a mano a mano che si spostavano lungo le file silenziose di quel cimitero, sostituendo le «schegge» dei programmi, lubrificando, dando energia.

Era eccitante osservare la scena. Quelle macchine morte da tempo, congelate e irrigidite da anni, fremevano e si risollevavano. Altre si spostavano su ruote uncinate, oppure si libravano in aria una volta liberate dai loro ancoraggi. I canali dei dati ticchettavano, bippavano, pigolavano, esprimendosi nel bene ordinato codice dei computer.

I loro sforzi cominciarono a moltiplicarsi, a mano a mano che i ripar-robot riprogrammati si mettevano a lavorare in proprio, occupandosi di intere file di mech disattivati. Quello che era stato un piccolo nucleo di attività, si diffuse verso l'esterno come le increspature sulla superficie di uno stagno scongelato dalla primavera.

Mentre la polvere veniva scrollata via da quelle macchine da lungo tempo quiescenti, le loro cuffie trasmettevano voci di meraviglia e di crescente meraviglia provenienti dalle agrocupole. Cominciò a raccogliersi una piccola folla che fissava quello che fino a poco tempo prima era stato un esercito silenzioso e pietrificato. I portelli si aprirono, e delle figure in tuta spaziale si riversarono sulla nave per contemplare quella turbinante moltitudine meccanica. Jeffers gridò quando un gigantesco mech da sollevamento si levò in volo sbuffando una scarica d'idrogeno ionizzato per rimanere sospeso lì accanto, con le sue luci di posizione verdi e azzurre che scintillavano. Le ombre si allargarono davanti a loro quando il grande mech si spostò per andarsi ad ancorare accanto al deposito di rifornimenti da lungo tempo inutilizzato.

Il sistema di monitoraggio del canale delle cuffie intervenne per smorzare un sovraccarico di evviva che si erano levati dagli astanti.

Un numero sempre maggiore d'individui era uscito in mezzo al ghiaccio, indossando tute spaziali che non erano più state utilizzate da molti anni, con cotte un tempo bianche ma adesso logorate dal tempo. Qualcuno si scordò la prudenza, mettendosi a saltare per l'eccitazione, e finendo per descrivere lunghi archi in aria della durata di molti minuti mentre gli altri acclamavano felici.

Virginia scoppiò a ridere. Il polo Nord di Halley era diventato un festival: gli umani che andavano a sbattere contro i mech, i quali deviavano dal loro cammino senza lamentarsi per evitare collisioni più violente. I percell piroettavano insieme agli ortho. Gli spaziali parlavano con gli archisti, tutti in preda ad una grande eccitazione. Qualcuno immise della musica nel Canale D, e quella bizzarra danza aggrovigliata a gravità quasi zero riempì il cielo.

Non ci vuole molto… soltanto una notiziola buona.

Da una agrocupola una dozzina di bambini magrissimi fissava la scena… qualcuno con la mascella spalancata e a stento capace di vedere, ma c'erano dei bambini che battevano le loro piccole mani e tiravano gli adulti lì accanto, indicando tutti eccitati quei chiassosi festeggiamenti.

Una figura comparve accanto al mech di Virginia e allungò la mano per tirare il braccio della macchina. Virginia avvertì quella sensazione al proprio gomito e abbassò lo sguardo.

— Oh, ciao, Carl! — Si sentiva come una bambina, ed era bello vederlo sorridere di nuovo, sotto la visiera lucida della sua tuta insudiciata. — Come hai fatto a sapere quale dei mech ero io?

— Osborn a Herbert, canale AF. Come facevo a saperlo, Virginia? È stato facile. Mi è stato sufficiente guardare come camminava ciascun mech, e ho scelto quello dai movimenti più sensuali.

Virginia si sentì arrossire, e fu lieta che fuori in superficie non si potesse notare niente. — Hai sempre avuto il dono di dire delle grandi scioc…

D'un tratto Virginia fu interrotta da un suono orrendo. Era l'ululo raggricciante d'una tuta lacerata, il quale, interrompendo ogni canale, si sovrappose ai festeggiamenti, mozzando a metà ogni altra voce.

— Oh, cielo, dove…? — Virginia fece girare di scatto il mech per vedere. Già alcuni dei mech più sofisticati si stavano precipitando verso un assembramento di spettatori, i quali adesso si stavano radunando vicino ad una delle agrocupole.

— Non so… — cominciò a dire a Carl, ma poi si rese conto che lui era già partito, lanciandosi con uno spruzzo di propellente verso il centro dell'agitazione.

Il segnale d'allarme interruppe di colpo il suo rauco grido, riducendosi a un basso e mesto ronzio, il quale segnalava la cessazione delle funzioni vitali.

Qualcuno era morto.

Virginia fece per dirigersi verso la folla, poi si fermò, sentendosi sciocca. Naturalmente non c'era bisogno che conducesse quel particolare mech fin sul luogo per dare un'occhiata da vicino. Con uno schiocco della lingua e l'impulso di un ordine subvocalistico, trasferì il suo punto di vista ad un alto fuco affusolato che si ergeva sopra il grappolo vociante degli umani.

Allora guardò in basso. Carl e Jeffers erano chini su una figura in tuta spaziale stesa bocconi sul terreno. La tuta era lacerata fino all'osso. Una schiuma rossa si riversava ancora fuori dallo squarcio, come una macabra nebbia.

Arrivarono Keori Anuenue e alcuni dei suoi corpulenti hawaiani. Cominciarono a spingere indietro la folla, ordinando ai mech di nessuna utilità di allontanarsi. La folla, d'un tratto silenziosa, si allontanò, tutto il loro umore festivaliero si era spento come un ruscello rumoroso trasformato in ghiaccio duro come la roccia.

— He kiai — trasmise Virginia al polinesiano dalla faccia scura che stava cercando di allontanare il mech che lei stava usando come punto d'osservazione. L'uomo sbatté gli occhi per la sorpresa. Poi scrollò le spalle.

— Ua make oia, wahine.

Virginia non aveva bisogno che le dicessero che la figura distesa sul ghiaccio era morta. Ovviamente, era anche inutile pensare a colombarizzarla.

Sentì la bocca che le si inaridiva quando vide il vibrocoltello dalla lama sottile che giaceva accanto al corpo. Chiunque l'avesse fatto, approfittando della confusione e dell'eccitazione causata da lei e da Jeffers, aveva lasciato il suo biglietto da visita accanto al proprio lavoro manuale.

Fece scorrere automaticamente lo sguardo sul comunicatore, alla ricerca del canale e del codice crittografico usato da Carl e Jeff. Alla fine trovò la combinazione giusta.

— Ci sarà un inferno da pagare per questo. È sicuro che Quiverian e Ould-Harrad lo useranno a loro vantaggio.

— Merda. Malcolm potrà anche essere stato un bastardo prepotente, e uno sciovinista ortho. Ma per lo meno non era un archista. Con lui potevo lavorare. Sai chi verrà incolpato di questo, naturalmente…

Girarono il corpo della vittima. Il povero Malcolm la fissò, il volto gonfio e gli occhi strabuzzati a causa della decompressione.

Virginia si affrettò a interrompere il collegamento e si tirò fuori dal mech. Aprì i suoi veri occhi e si ritrovò nel suo piccolo, sicuro regno, nel profondo del ghiaccio. Si tolse il connettore neurale e gemette mentre si rizzava a sedere, sfregandosi l'area escoriata sulla nuca.

Oh, sì pensò. Ci sarà un inferno da pagare per questo. Si alzò in piedi e andò al minuscolo rubinetto incappucciato per inzuppare un asciugamano e pulirsi il viso.

Il cuoio capelluto le faceva ancora male. Sollevò i propri capelli e si chinò tra le superfici a specchio delle due olovasche per esaminare l'area di contatto del connettore neurale. Una rabbiosa infiammazione rossa si stava già allargando, e questa volta il trattamento standard pareva non funzionare. Saul le aveva detto che riteneva di poter trovare un modo nuovo di affrontare il problema, ma non era stato capace di nasconderle la sua ansiosa incertezza.

Non ci voleva un genio per capire che stavano morendo tutti.

Pensò a quegli sconsiderati festeggiamenti, lassù in superficie, così brevi, interrotti così all'improvviso…

È bello provare una speranza, almeno per pochi minuti. Un colore lampeggiò sopra di lei. Sollevò lo sguardo mentre delle lettere si coagulavano nella principale vasca display del computer. Oh, no. Era un'altra delle bizzarrie di JonVon, uno dei suoi tentativi spontanei di scrivere versi… un altro segno che il deterioramento non era limitato agli uomini e alle macchine articolate.

Perduto fra le lotte,
celato in ritmi gergali.
La beneficienza alberga ancora,
esiliata da una casa dimenticata.

— Oh, JonVon — bisbigliò Virginia. — Sei malato anche tu?

Le figure si muovevano in fila per uno lungo quel passaggio butterato, legate insieme da una corda annodata. Avanzavano con cautela, lentamente, mentre spingevano o trascinavano i loro fardelli sopra i poggi e i bordi dei crateri.

Era un esodo silenzioso, forme avvolte in tute spaziali insudiciate e costellate di rattoppi, che lottavano ad ogni passo con enormi fagotti, quasi privi di peso ma ingombranti a causa dell'inerzia, forme che si aiutavano a vicenda a superare i tratti scivolosi e i pericolosi campi di ghiaccio amorfo ed esplosivo.

Dall'angolo di visuale di Virginia, da una delle alture equatoriali più elevate di Halley, l'orizzonte del loro minuscolo mondo era un arco ad un miglio, o poco più, di distanza… tanto vicino da poterlo quasi toccare. Quelli più sotto avrebbero dovuto coprire soltanto otto chilometri, all'incirca, fra la base settentrionale e le caverne che si trovavano all'altro polo della cometa. Eppure, nell'osservare la migrazione degli archisti, Virginia aveva la sensazione di assistere a qualcosa di biblico. Quei sedicenti profughi si trascinavano, si sollevavano e si voltavano per aiutarsi fra loro, mentre trasportavano i propri averi verso le nuove case che i loro capi avevano promesso.

Erano stati loro offerti dei mech, che li aiutassero nel tragitto, ma era ben noto che i sofisticati roboidi erano stati rimontati da Jeffers e resi funzionanti da lei, Virginia, tutti e due percell. La natura sospettosa degli archisti l'aveva vinta sulla convenienza, ragione per cui avevano rifiutato ogni cosa, salvo le macchine più semplici.

Tre uomini in tuta spaziale erano in piedi, immobili, sull'altura, accanto al nuovo mech di Virginia, anch'essi intenti ad osservare la partenza degli archisti. Carl e Jeffers tenevano a contatto diretto i caschi, parlando fra loro in privato, indicando con dei gesti la fila delle figure che stavano avanzando con passo strascicato. Sull'altro lato, Saul era appoggiato contro il fianco del mech, intento a canticchiare a bocca chiusa e con espressione assente un motivetto scarsamente espressivo.

Il sapore biblico di quella scena era ancor più rafforzato dalla figura che conduceva quella carovana in fila indiana. Là, davanti a tutti, usando un bastone mentre procedeva a passi lunghi e lenti, c'era Suleiman Ould-Harrad, un tempo tenente colonnello del Servizio Spaziale, adesso consigliere mistico e spirituale del clan degli archisti. Quell'alto nero aveva tinto la propria tuta d'un cupo azzurro mezzanotte, e la sua cotta era bianca con una singola stella nera.

Dietro di lui, trasportando giganteschi fardelli, o trascinando immense slitte fluttuanti, venivano dozzine e dozzine di altri esseri umani: da quelli più vecchi, da troppo tempo usciti dai colombari, ai bambini dagli occhi sbarrati, spettralmente magri, i quali fissavano la scena intorno a loro dall'interno di bolle di plastica per la sopravvivenza.

— Per lo meno altri trenta ortho si sono uniti a loro dopo l'assassinio di Malcolm — borbottò Carl, senza forse rendersi conto che Virginia poteva captare le sue parole attraverso le vibrazioni del ghiaccio. — Non abbiamo nessun modo di sapere chi l'abbia fatto, ma posso dirti chi ne ha tratto vantaggio.

Jeffers annuì.

— Vorrei proprio sapere — disse, — come Quiverian c'è riuscito.

Si azzittirono, mentre la carovana passava davanti a loro.

Sull'altro lato di Virginia, Saul stringeva i cuscinetti tattili del suo mech, dando ad essi un'ulteriore stretta di tanto in tanto. Virginia lo sentiva nelle profondità del sottosuolo, distesa nella sua ragnatela.

Un gruppo di tre forme in tuta spaziale si staccò dalla colonna degli emigranti e, fluttuando rasente il suolo, risalì il pendio in direzione di Carl. La figura in testa ostentava sulla cotta lo spruzzo dorato dell'Arco del Sole Vivente. Joao Quiverian parlò al canale e nel codice concordati.

— Ci aspettiamo di ricevere la nostra parte di vegetali dalle cupole idroponiche, e di avere la nostra quota pro capite dalla pila a fusione.

Carl scrollò le spalle. — Se lavorerete ai propulsori dello sgomitatore, come avete promesso, non abbiamo nessuna ragione di negarvi i vostri diritti. Procedete pure e andate a vivere al polo Sud, se l'essere vicini a noi vi fa sentire immondi.

Era ovvio che Carl si sentiva parecchio sollevato dall'idea di avere i fanatici di Quiverian fuori dai piedi.

— Immondi e in pericolo. — Quiverian annuì come se gli fosse completamente sfuggito il sarcasmo di Carl. — Potremo lavorare meglio agli sgomitatori dal momento che devono comunque venir situati al polo Sud. Tutto quello che esigiamo è che ci vengano forniti materiali e rifornimenti, e di essere lasciati soli.

— Le mie squadre conservano il controllo dei propulsori veri e propri — insistette Jeffers. Quiverian si limitò a scrollare le spalle.

— Basterà che non entriate a casa nostra.

Virginia ebbe modo di studiare l'umore di tutti i partecipanti. Nessuno di loro pensa che tutto questo abbia davvero importanza, altrimenti sbraiterebbero molto di più.

Jeffers scrollò le spalle. — Siamo tutti i benvenuti ad arredare le nostre tombe come megli ci aggrada. — Tutti gli altri parvero concordare con quella cupa valutazione.

Salvo Saul, il quale tutt'a un tratto esplose in una risata abbaiante. Tutti si voltarono a guardarlo.

— Scusatemi. Non fate caso a me — disse, agitando una mano. Ma tutti potevano veder attraverso la sua visiera, che stava lottando per soffocare un ulteriore eccesso d'ilarità.

Carl corrugò la fronte fino a quando l'espressione di Saul non si ridusse a un controllato sorrisetto compiaciuto. Poi si girò di nuovo verso Quiverian. — Andate pure, allora. Andate a sud, in pace.

I tre archisti fecero dietro-front e si allontanarono. A loro volta Carl e Jeffers s'incamminarono verso il vicino portello della galleria.

Saul portò la mano del mech all'altezza della sua visiera e mimo un bacio. — Anch'io devo andare, tesoro. Non aspettarmi alzata.

— Ma… ma… pensavo che saresti sceso adesso. Potremmo passare un po' di tempo insieme. Saul, sei stato via quasi una settimana.

— Oh, suvvia, Virginia. Noi parliamo parecchie volte al giorno.

— Tramite uno dei miei mech! — Il piede di un robot si sollevò dalla neve vicino alla sua gamba. — Non è la stessa cosa!

Lui annuì, sorridendo in maniera irritante.

— Lo so. Sento anch'io la tua mancanza. La sento terribilmente. È soltanto che…

Saul scosse la testa.

— È soltanto che devo verificare qualcosa. È maledettamente troppo importante perché possa aspettare. E non posso ancora parlarne con nessuno… neppure con te… non fino a quando non saprò di sicuro se…

La sua voce rimase sospesa mentre arretrava verso l'ingresso della camera di equilibrio. Virginia conosceva l'espressione sulla sua faccia, quell'espressione remota, scientifica. Saul era già lontano, altrove.

— Fino a quando non saprai cosa? — lei gli chiese. — Cos'è tutta questa storia, Saul?

Lui scrollò le spalle.

— Fino a quando non saprò di sicuro se sono matto… o se sono…

L'ultima parola fu un borbottio, qualcosa detto in una delle lingue straniere di Saul.

— Cosa?

Ma anche adesso lui si limitò a scoccarle un bacio, e subito si girò, procedendo a lunghi passi dentro l'ingresso della galleria.

La parte di lei che era sopra la superficie, collegata ad una macchina di metallo e ceramica, lo seguì con lo sguardo fino a quando il portello non si chiuse, lasciandola lì fuori, nella notte gelida.

In basso, nelle profondità del ghiaccio, il resto di lei era altrettanto al buio.

SAUL

Trovò il luogotenente comandante Osborn su alla Serra 3. Carl era in piedi, davanti ad una finestra delle cupola di quaranta metri. Indossava una tuta spaziale macchiata, rattoppata e priva di cotta. Lo spaziale stringeva un ammaccato casco nel cavo del braccio e guardava fuori in direzione del pianoro di ghiaccio sporco disseminato di spazzatura.

Che casino pensò Saul.

Le tende a brandelli dei depositi, l'albero di ancoraggio spezzato, là dove un tempo era stata legata quella sfortunata nave, la Edmund Halley… Finalmente Saul si rese conto di ciò che lo tormentava più di qualunque altra cosa. Faceva troppo buio lì nella sera.

Sollevò lo sguardo sulle torri, sottili come fili di ragnatela, che sorreggevano uno dei giganteschi specchi concentratori recuperati dalla grande vela solare della chiatta spaziale Delsemme. Due dei cavi di fissaggio si erano spezzati. Un intero quadrante del grande collettore si era afflosciato.

Fuori, in superficie, una figura solitaria frugava a casaccio fra i detriti, presumibilmente alla ricerca di materiale col quale eseguire riparazioni. Pareva non avere nessuna fretta.

All'interno le cose non erano molto migliori. I quattro uomini e le tre donne di quel turno accudivano ai nastri trasportatori che si muovevano lentamente carichi di patate americane irrigate a gocciolamento, liberando dai detriti i binari di plastica e pulendo i getti degli spruzzi nutritivi. Era un servizio d'importanza vitale, ma gli addetti si muovevano senza nessun apparente entusiasmo.

Tre dei mech riprogrammati seguivano i lavoranti, ma nessuno pareva anche lontanamente interessato ad addestrarli nelle nuove procedure idroponiche. I nastri proseguivano la loro marcia; le piante languivano in quella fioca illuminazione.

Saul provò una viva scossa quando riconobbe i sigilli sugli indumenti dei lavoranti: la scala e la stella che simboleggiavano l'Altopiano Tre.

Spaziali! Sono le ultime persone che mi sarei aspettato che gettassero la spugna!

Saul vide l'espressione sulla faccia di Carl Osborn mentre spaziava con lo sguardo su quel campo di ghiaccio. Non puoi biasimarlo se anche lui ha perso ogni speranza pensò Saul. È ostinato. Ed è di una stoffa robusta. Ma tutti hanno un limite.

Ha fatto girare le stesse simulazioni che ho fatto girare io. Sa quello che accadrà se le cose continueranno ad andare avanti in questo modo.

Perfino se tutti ci avessero dato dentro e avessero collaborato, con tutti i mech disponibili, non ci sarebbe stata manodopera neppur lontanamente sufficiente per predisporre in maniera corretta gli sgomitopropulsori, per non parlare di tutti i lavori necessari per impedire che le cose andassero a rotoli. Mi sorprende che faccia anche soltanto la commedia di crederci.

Saul sorrise. Progettava di cambiare l'idea che Carl aveva del futuro.

Giuro che stavolta non ci saranno fraintendimenti tra noi. Saul sperava che quella buona notizia avrebbe indotto Carl a perdonare perfino lo scarso gusto di Virginia in fatto di uomini.

Non ci ho mai pensato prima, ma con quel tocco di grigio alle tempie, e quello sguardo gelido, in un certo qual modo assomiglia a Simon Percell!

— Sì? — gli chiese Carl, quando gli si avvicinò. — Mi hai detto che intendevi fare un bioinventario della colonia. Hai già pronto un rapporto?

— Proprio così — annuì Saul. — Ma non credo che tu sia molto preparato a crederci.

Carl sollevò le palpebre. — Le cattive notizie non mi spaventano mai.

Saul non poté fare a meno di lasciarsi andare a una risata breve e acuta, che risuonò improvvisa e inaspettata in quel luogo solenne. Gli occhi di Carl si strinsero.

— Mi fraintendi. — Saul sogghignò. — O sono impazzito, nel qual caso la notizia va dal neutro al buono dal tuo punto di vista, oppure ho fatto una scoperta che è davvero di buon auspicio.

Carl s'immobilizzò. Il suo corpo rimase fermo nella tipica posizione rannicchiata dello spaziale, le braccia in avanti, le ginocchia piegate. Soltanto una contrazione delle guance tradiva un'ombra di emozioni, ma era sufficiente per Saul.

Allora è così dolorosa la speranza? Potrà anche odiarmi, ma sa che già altre volte ho tirato fuori conigli dal cappello.

Saul ricordò a se stesso di non esprime giudizi troppo in fretta. Per un uomo che ha visto in faccia la morte, e ha imparato la rassegnazione, spesso la speranza è la cosa che lo spaventa di più.

— Spiegati, per favore — disse Carl con voce sommessa.

— Vieni con me in laboratorio — lo sollecitò Saul. — Anche con le raffigurazioni grafiche non sono sicuro di poterlo spiegare chiaramente. Ma devo condividere questa cosa con qualcuno. Potrebbe essere lo scherzo supremo dell'Infinito fatto ad un uomo che ha avuto l'incorreggibile audacia di tentare di recitare la parte di Dio.

— Capisco — gli disse Carl, circa mezz'ora dopo. — Hai trovato infestazioni da parte della flora e della fauna cometaria in ogni singolo membro vivente dell'equipaggio, in ogni clan, perfino in quei pochi che non abbiamo ancora decolombarizzato.

Saul annuì. — Perfino il computer bio-organico di Virginia, JonVon, sembra soffrire a causa di un'infezione. Quella cosa non è realmente viva, naturalmente, ma qualcosa si è insinuato in essa. Sto cercando di trovare un modo per curarlo.

Carl scrollò le spalle. — Ho cercato con tutte le mie forze di far entrare in testa agli Uber e agli archisti che il loro modo di comportarsi non aveva più nessuna importanza. Percell, ortho, tutti stanno morendo.

Fece per alzarsi. — Se è per questo potresti averci reso un servizio, Saul. Scrivimi un conciso rapporto, cosicché io possa distribuirlo. Potrebbe aiutarci a fare la pace tra noi per il tempo che ci resta da vivere.

Saul lo fermò con un gesto. — Siediti, per favore. Non ho ancora finito.

Carl si riadagiò con riluttanza sulla ragnatela.

— Che altro c'è?

— Ricordi le bioanalisi che ho eseguito sul mio proprio corpo?

— Sicuro. — Carl annuì. — A parte il tuo sistema riproduttivo e quel colare perpetuo del tuo naso, sei abbastanza in salute. Mi spiace che tu sia sterile, Saul. E sono contento per te che i microbi della cometa sembrino ucciderti più lentamente della maggior parte di noi.

— Carl, non mi stanno uccidendo affatto.

L'altro gli scoccò un'occhiata gelida. — Non fare l'asino! Il tuo grafico mostrava un aumento asintonico…

— Un aumento nella varietà degli organismi infestanti, proprio come per chiunque altro. Secondo la logica normale, non posso continuare a combattere ancora per molto tutte queste infezioni. Presto o tardi una di queste finirà per sfondare il mio sistema immunitario, aprendo un'ampia breccia per tutte le altre. È questo lo schema a cui stai pensando?

Carl annuì. — Ho studiato un bel po' di biologia medica durante i miei ultimi cinque anni di servizio.

— Immagino che tu abbia dovuto farlo, da quando Svatuto ha smesso di farvi da dottore.

— Proprio così. E da quando la Terra ha smesso di darci consigli che valessero qualcosa di più di quelli d'un maledetto praticone di villaggio. — Carl fece una smorfia, ricordando con amarezza. — Durante i miei turni ho visto gente vivere per anni con la pelle tinta di verde e la febbre bassa, i quali hanno continuato a combattere come campioni… per poi cadere a pezzi, letteralmente, quando venivano colpiti dall'ultima goccia…

Saul scrollò le spalle. — Quelli erano loro.

— E tu sei diverso? — commentò Carl in tono di scherno. — Sei stato oggetto d'una speciale benedizione?

Saul avrebbe voluto ridere. Benedetto? Oh, Miriam, cos'ha fatto l'onnipotente al tuo semplice Saul?

Fece una pausa e tirò un sospiro. — Voglio raccontarti qualcosa. Lascia che ti parli della simbiosi.

Immaginate un virus… una semplice striscia di acidi nucleici impacchettati dentro un guscio di proteina… un assassino, una bomba intelligente con un solo compito: replicarsi.

Supponete che questo virus trovi un vettore, e penetri la pelle e le membrane esterne di un organismo multicellulare… forse un essere umano. A questo punto il suo lavoro è soltanto cominciato. Da qui, cerca la sua vera preda, non tanto l'uomo quanto una singola cellula dei molti trilioni che lo compongono.

Cercare potrebbe non essere la parola corretta, giacché un virus è soltanto una forma di pseudovita. Non si muove grazie a vibrazioni o tracce chimiche, come fanno i protozoi e i batteri. Un virus si limita soltanto ad andare alla deriva, sospeso nell'acqua o nel sangue o nella linfa o nel muco, fino a quando non colpisce la superficie d'una cellula sfortunata. Ora supponete che uno di questi pezzettini di semivita abbia fortuna. Ha evitato le difese dell'organismo della vittima. Non ci sono anticorpi capaci di agganciarlo e di trascinarlo via. Non viene inghiottito e distrutto dalle forze di pronto intervento del sistema. Il virus fortunato sopravvive andando a sbattere contro una cellula probabile proprio alla maniera giusta, innescando l'aderenza.

S'incolla alla parete della cellula, una semplice capsula di proteine, pronto ad iniettare il suo contenuto nella cellula prostrata. Una volta dentro, l'RNA virale prenderà il controllo del vasto e complesso macchinario chimico della cellula, costringendola a forgiare centinaia, migliaia di duplicati del virus originario, fino a quando, simile a un pallone troppo gonfio, la cellula devastata esplode. La nuova orda virale si riversa all'esterno, lasciandosi soltanto un relitto alle spalle.

C'è il virus incollato alla parete esterna… pronto a iniettare il suo carico tirannico nella preda prostrata…

Prostrata sì. Ma indifesa?

Per lungo tempo una disputa ha infuriato tra medici, biologi e filosofi. Una piccola minoranza continuava a porsi in continuazione la stessa domanda.

Perché mai la cellula permette che avvenga questa catastrofe?

Gli eretici della biologia hanno fatto notare quanto fosse difficile ghermire e penetrare le complesse barriere delle pareti di una cellula. C'erano talmente tante cose in gioco, e pareva così semplice per una cellula rifiutare semplicemente l'accesso.

E il fantastico numero di passi necessari per trasformare il meccanismo di una cellula in una fabbrica schiavizzata, costringendo i ribosomi e i mitocondri a eseguire compiti del tutto estranei alle loro normali funzioni?

— Tutto quello che deve fare una cellula è interrompere uno di questi passi, uno qualsiasi, e il processo sarà completamente bloccato! — dichiaravano gli increduli. — Dev'esserci una ragione. Per quale motivo la cellula acconsente ad essere una preda così facile?

I biologi classici storcevano il naso disgustati. Gli animali sviluppano in continuazione nuovi sistemi per combattere i virus, dicevano. Ma i virus evolvono metodi per aggirare qualunque ostacolo. L'equilibrio viene sempre raggiunto sul filo del rasoio della morte.

Ma i dissenzienti insistevano. — La morte è soltanto un effetto collaterale. La malattia non è una guerra fra specie. Più spesso è un caso di negoziati falliti.

— Sto perdendo il filo — confessò Carl a Saul.

Saul batté le dita sulla superficie della scrivania e cercò le parole giuste. — Uhmmm. Proviamo con un esempio. Tu sai cosa sono i mitocondri, giusto?

Carl inclinò la testa e parlò, compitando: — Sono dei granuli… parti interne della cellula vivente. Regolano l'economia dell'energia di base… provvedono al potenziale elettrochimico bruciando zuccheri e convertendo l'energia in forme utilizzabili.

— Molto bene — annuì Saul, favorevolmente colpito. Carl aveva studiato davvero durante quei lunghi anni di disperazione. Per niente il tipo dell'erudito, era probabile che avesse padroneggiato la materia grazie alla forza bruta.

— E conosci la teoria ampiamente sostenuta sul luogo d'origine dei mitocondri?

Carl chiuse gli occhi. — Ricordo di aver letto qualcosa in proposito. Assomigliano a certi tipi di batteri che vivono in libertà, vero?

— Sì, proprio così.

— Qualcuno pensa che un tempo fossero creature indipendenti. Ma molto tempo fa uno dei loro antenati è rimasto imprigionato dentro uno dei primi eucarioti.

Saul annuì. — Circa un miliardo di anni fa… quando i nostri antenati erano soltanto cellule singole, che cacciavano in mare aperto.

— Già. Pensano che uno di quei nostri antenati abbia mangiato i mitocondri ancestrali. Soltanto che per qualche ragione quella volta non li ha digeriti. Ha invece lasciato che quelle minuscole creature sopravvivessero e lavorassero per lui.

Carl sollevò lo sguardo su Saul e replicò, in tono serio: — È questo che intendi per simbiosi, non è vero? I mitocondri primevi hanno offerto alla cellula ospitante una conversione dell'energia più sufficiente. E in cambio essi non hanno più dovuto dare la caccia al cibo per proprio conto. La cellula ospitante…

— … i nostri antenati…

— … si sono occupati di questo da allora.

— E quando l'una si divideva, così facevano gli altri, distribuendosi a ciascuna cellula figlia. L'associazione divenne ereditaria, generazione dopo generazione. — Saul annuì. — Lo stesso sembra valere per i cloroplasti, i granuli verdi delle piante che fanno il lavoro vero e proprio della fotosintesi. Sono parenti delle alghe azzurro-verdi. E molti altri componenti cellulari mostrano anch'essi segni di essere stati un tempo creature indipendenti.

— Sì, ricordo di aver letto qualcosa in proposito. — Carl, per la prima volta, pareva interessato. Saul ricordava qualcuna delle conversazioni che avevano avuto ai primi tempi, prima che il contrasto si fosse spalancato fra loro come un abisso. Si chiese se Carl ne sentisse la mancanza tanto quanto lui.

Probabilmente di più. Dopotutto io ho Virginia.

— Lo stesso vale per l'intero organismo, Carl. Un normale essere umano ha un numero incalcolabile di creature che gli vivono dentro, che dipendono da lui, come lui dipende da loro. Dai batteri dello stomaco che ci aiutano a digerire il cibo ad uno speciale tipo di minuscolo insetto che vive alla base delle sopracciglia umane, ripulendole, mangiando la materia decomposta e impedendo che si accumuli.

Saul premette insieme le mani. — Nessuna di queste creature simbiotiche può vivere indipendentemente dall'uomo. Né noi possiamo cavarcela facilmente senza di esse. Fanno parte dell'organismo-colonia chiamato Homo sapiens, tanto quanto lo stesso DNA.

Carl sbatté le palpebre, come per cercare di assorbire quel nuovo balzo in avanti. — È come nella fisica quantlstica, allora. I confini di quello che io chiamo «me stesso» sono… sono…

— Sono amorfi. Nebulosi. Difficili da definire. Ci sei! Hanno scoperto, per esempio, che le coppie sposate condividono in gran parte la stessa flora intestinale. Fai l'amore con una donna, e scambi con lei dei simbionti. In un certo senso diventi parte della stessa creatura condividendo degli elementi che crescono e partecipano gli uni degli altri.

Carl corrugò le sopracciglia, e Saul si rese conto di aver sfiorato un argomento delicato. Si affrettò a proseguire.

— Ma qui sta il mio punto principale, Carl. Probabilmente pochi, sempre che ce ne siano stato qualcuno, di questi simbionti hanno occupato la loro nicchia senza una lotta iniziale. L'evoluzione non funziona in questo modo… per lo meno non di solito.

— Ma…

— Ogni simbionte, da quello che aiuta la digestione a quello che pulisce i foruncoli, hanno cominciato come invasori. Ogni sinergismo è incominciato come una malattia.

— Non… — Carl corrugò la fronte per concentrarsi. — Aspetta. Aspetta un momento. — La sua fronte era un intreccio di solchi serrati. — Hai parlato della malattia come di un negoziato fra l'ospite e la specie dell'invasore…

— … visitatore…

— Ma… se è anche questo il caso, questo negoziato ha luogo sopra il corpo d'un numero incalcolabile di cadaveri da entrambe le parti! — Carl sollevò lo sguardo con gli occhi che gli lampeggiavano. — È vero, potrebbero arrivare a un modus vivendi, un giorno, ma questo non aiuta gli individui che sono morti, spesso in maniera orribile, infranti sulla ruota dell'evoluzione.

Saul lo fissò, incapace di nascondere la sua sorpresa. Nei suoi momenti più pensierosi Carl Osborn pareva aver acquistato una nuova capacità con le parole. A forza di venir stemperata, una gioventù difficile sì era trasformata facendolo diventare una specie di poeta.

— Ben detto — annuì Saul. — Ed è esattamente quello che vediamo qui su Halley. Qualcuno muore all'improvviso. Altri combattono contro gli intrusi fino a una situazione di stallo. Qualcuno trae perfino profitto dagli effetti collaterali delle loro infestazioni.

Carl picchiò la mano sulla superficie del tavolo, causando un sonoro rimbombo, e si girò di scatto per fronteggiare completamente Saul.

— È tutto molto bello, Saul. Se… se ci fossero soltanto una o due malattie, e se avessimo a disposizione delle generazioni, con milioni d'individui sui quali attuare tutto questo.

«Ma non è così! Mettiamo che tu sia come quel tipo verde su all'Idroponico Due…

— Il vecchio McCue? Quello i cui parassiti della pelle sembrano alimentarlo con delle sostanze nutrienti prodotte dalla luce del Sole?

— Già. Magnifica cosa. Ma, per citare il tuo stesso rapporto, la mente di quell'uomo è stata contemporaneamente ridotta al livello di un idiota da un peptide, un prodotto collaterale dovuto proprio a quel fungoide parassita!

Carl ansimava affannosamente.

— Sono lieto che tu abbia letto i miei studi — commentò Saul.

Carl sbuffò. — A parte Jeffers, e il computer di Virginia, tu sei il solo, ormai, che scriva qualcosa che valga la pena di leggere. Sono sicuro che sarai ancora più famoso, una volta che avrai mandato i tuoi rapporti sulla Terra.

Questa frase fece sussultare Saul. Com'era riuscito a farsi fraintendere un'altra volta da Carl? — Non è così.

— Oh? Allora, com'è, signor Grand'Uomo della Biologia? Dimmelo! Ti ho mostrato che so un sacco di cose, per essere un dilettante. Convincimi! Dimmi come diavolo tutte queste stravaganti teorie sulla simbiosi potranno costituire anche una sola fettina di differenza per una colonia minuscola, sopraffatta, dove ogni singolo membro è un sicuro e completo defunto!

La pausa si prolungò. Saul aspettò fino a quando il respiro affannoso dell'altro non si fu calmato, fino a quando Carl non si fu reinfilato dentro la ragnatela sul suo lato della scrivania, fissandolo furioso.

— Te l'ho già detto, ma non mi sei stato ad ascoltare — rispose con voce sommessa. — C'è una persona su questo planetoide che non corre assolutamente nessun pericolo. Qualcuno con degli attributi che lo mettono al sicuro in maniera totalmente nuova.

«Quella persona sono io, Carl.

Per la prima volta, il nocciolo di quella conversazione parve colpire lo spaziale. Carl si rizzò a sedere.

— Tu?

— Io. — Saul annuì. — I miei sternuti, il naso che mi cola in continuazione, sono soltanto le caratteristiche superficiali di quel «processo negoziale» di cui abbiamo parlato. E pare che il mio sistema immunitario sia un diplomatico perfetto. Salvo per il danno subito dalle mie cellule riproduttive, il mio corpo ha accettato i nuovi venuti quasi senza nessun problema. Accetta o respinge in breve tempo ogni nuova forma di vita, e ciascuna trova ben presto la propria nicchia.

Vi fu un altro silenzio.

— Sto parlando molto seriamente, Carl.

— Ma… come?

— Come? — Saul scosse la testa. — Finora ne capisco soltanto una parte. Tanto per cominciare, ho ereditato un raro enzima che qualcuno chiama Complesso N. Su Halley, oltre a me, c'è all'incirca un'altra dozzina d'individui che l'ha.

— E sono…?

— … più resistenti alle malattie? Pare di sì. Ma c'è anche qualcos'altro, qualcosa nel mio sangue, che vi è entrato laggiù, molto tempo fa, quando lavoravo con Simon Percell.

— Sì? — Adesso la voce di Carl era priva d'inflessioni, la sua espressione si era fatta controllata.

— Viene chiamata una unità di lettura. Le abbiamo usate soltanto per un paio d'anni, fino a quando non abbiamo trovato dei modi migliori per spogliare e analizzare il DNA dal vivo. Mi ero dimenticato quasi completamente di quelle piccole cose… fino a quando non le ho viste galleggiare quaggiù, dove hanno preso possesso delle mie cellule spermatiche.

Saul scosse la testa. — Non so davvero come abbiano fatto a entrarmi dentro. Devo essermi punto un giorno mentre facevamo un'analisi del gene. Ma in qualunque modo siano arrivate là, in qualche modo il mio corpo le sta usando.

«Adesso credo di sapere perché sono stato tanto fortunato, trent'anni fa, quando ho messo a punto i miei cianuti. In realtà non sono stato io a svilupparli, è stato il mio corpo.

A queste parole seguì un pausa di silenzio più lunga di tutte.

Finalmente, Carl parlò:

— Ho letto anche psicologia, Saul. Sai, naturalmente, che sostenere di essere invulnerabili è un sintomo di paranoia?

Saul scrollò le spalle. — Sono basilarmente, sotto ogni aspetto, completamente sano. Completamente. L'unico in tutta la colonia. Non mi credi?

— Certo che no! Per cosa mi prendi?

Saul gli porse la mano. — Prendila — disse con noncuranza. Dopo un attimo di esitazione, le dita callose di Carl si strinsero intorno a quelle di Saul, ancora morbide per essere rimaste così a lungo nel colombario…

Il sorriso truce di Carl si dissipò, diventando un'espressione d'intensa concentrazione quando Saul strinse, continuando a parlare con aria indifferente.

— Le malattie, il decondizionamento dovuto alla microgravità, la stanchezza causata dal colombario… vi hanno messi tutti a terra al punto che un boy scout drogato potrebbe battervi con un braccio legato dietro la schiena.

La fronte di Carl s'imperlò di sudore. Ostinatamente, grugnendo, cercò inutilmente di svincolarsi dalla stretta di Saul.

— Tu sai che non potete completare in tempo i propulsori per la sgomitata, neppure con tutto l'aiuto che vi potranno dare i mech di Virginia. Vi serve gente, e non l'avete, Carl. Duecento colombarizzati per sempre, un altro centinaio deboli come gattini appena nati…

Liberò la presa, e Carl si accasciò all'indietro, respirando affannosamente, gli occhi sgranati.

— Non ti ho fatto vedere questo per rinfacciarti la tua debolezza, Carl. Voglio soltanto che tu mi creda quando ti dico che potrebbe esserci un modo, un modo per offrire un'immunità simile a questa a molti, forse perfino alla maggior parte dei membri di questa spedizione.

«Carl, potremmo non essere condannati, malgrado tutto.

Non disse altro. Non valeva la pena di parlare ancora. Quando Carl avesse avuto delle domande, le avrebbe fatte. Lasciagli il tempo di assimilare la notizia si disse.

In quel momento il volto di Carl era come quello di una statua. Si alzò in piedi, oscillando incerto, fissando Saul mentre arretrava, scuotendo la testa. Con una mano toccò la piastra della porta, riversando la luce fosforica nella stanza oscurata.

Dal corridoio, Carl continuò a fissarlo fino a quando la porta non si fu di nuovo chiusa, escludendo la visuale, ma non l'immagine.

Un istante dopo, Saul sollevò lo sguardo verso il soffitto.

Oh, ti conosco, Ado-shem si disse, pensando al barbuto Dio di Abramo dall'occhio feroce. Stamattina ho aperto il tuo dono, ho lacerato la carta dell'imballaggio, e ho guardato dentro. E giusto adesso ho fatto vedere la sua temibile bellezza a un uomo che un tempo mi era amico.

Dapprima sembra un bellissimo dono. Come la roccia dalla quale scorreva l'acqua per i bambini degli ebrei nel deserto. Ma tu ed io lo sappiamo che dentro la scatola c'è un'altra scatola, e un'altra ancora, all'infinito.

Ed io non sono per nulla più vicino a una risposta alla domanda fondamentale, vero? Da dove è venuta la vita di Halley? Le comete hanno seminato la Terra molto tempo fa? Oppure noi siamo soltanto i più recenti invasori di questo piccolo mondo? Come ha potuto succedere tutto questo, in primo luogo?

Non c'era nessuna risposta, naturalmente.

Saul sorrise, con lo sguardo rivolto verso l'alto, attraverso mezzo miglio di ghiaccio roccioso, in direzione delle stelle.

Oh, sì, potrai goderti il tuo scherzo.

CARL

Carl e Virginia sedevano rigidi su due sedie a rete accostate l'una accanto all'altra. La ruota-G si era guastata molti anni prima e i sottili effetti collaterali della costante permanenza a bassa gravità erano palesi. Il salone era deserto, salvo per loro due. La vivida parete «climatica» scorreva via inosservata. Un sonnacchioso cammello avanzava ballonzolando lentamente lungo il crinale d'una lontana duna.

— Quello che intendo dire — dichiarò Carl, con franchezza, — è: tu pensi che abbia tutte le rotelle a posto?

— Ma certamente. Saul è perfettamente a posto — rispose lei, indignata, la tensione era ben visibile nel suo linguaggio corporeo.

Devo ricordarmi che lei ama davvero quell'individuo pensò Carl. E va bene, sarò diplomatico. — Sono preoccupato per la sua… salute.

Virginia non era affatto disposta ad accettare niente del genere.

— Vuoi dire… che tu pensi che la sua scoperta sia un'illusione?

— Be'… è qualcosa di estremo. — Carl gettò le braccia in aria e tuonò: — Io, Saul Lintz, sono un divino immortale. Immune! Invulnerabile! Inginocchiatevi, miseri mortali!

— Non è questo il suo atteggiamento.

— Oh… diciamo allora che si presenta come una tranquilla megalomania.

— Ti ha descritto una teoria.

— Con lui stesso come prova principale.

— Be', sì. Chi altri a bordo ha la costellazione-N?

— Una buona domanda. Potresti controllare il registro del DNA per vedere se ci sono altri…

Gli occhi di Virginia guizzarono di lato soltanto per un istante, ma questo bastò a Carl, che sapeva interpretarla molto bene. — Ce ne sono altri tre.

— Bene. C'è un modo facile per controllare la sua teoria, non ti pare? Decolombarizziamoli, e vediamo se si prendono un microbo.

— Saul ha detto la stessa cosa, ieri, quando gliene ho parlato.

— Uhmmm. Mi chiedo perché non mi abbia accennato a quel piccolo fatto.

— Era indaffarato. Immagino voglia riflettere un po' di più prima di… di fare esperimenti.

— Oppure, forse, vuol fare tutto da solo. Il grande Saul salva tutti.

Virginia si adombrò. — Tu non hai il diritto di dire questo!

Carl si affrettò a sollevare le mani. — Sì, d'accordo, forse hai ragione. Diciamo pure che ho avuto a che fare con un bel po' di matti, durante tutti questi anni. Ho preso l'abitudine di dubitare di tutto.

Virginia si morse le labbra. Per contenere la rabbia? Oppure per tenersi dentro il sospetto che io possa aver ragione?

— Se le inoculazioni di Saul dovessero funzionare — disse Virginia, misurando il tono di voce, — saremo in grado di salvarci. La spedizione avrà successo. Devi riporre in lui la tua fede. Darai il tuo assenso alle sue cure sperimentali iniziali sui volontari, non è vero?

Carl scrollò le spalle. — La mia autorità è limitata. Le «tribù» contribuiscono con il loro lavoro. Io mi occupo della direzione di routine e preparo gli elenchi dei turni di servizio. Non sono il capitano Blight. Non vedo come potrei impedirgli di reclutare… volontari. — Era stato quasi sul punto di dire gonzi.

— Bene. Capisci, Carl: questa è la nostra speranza.

Speranza. Fu tentato di parlare a Virginia dell'effetto collaterale della meravigliosa simbiosi di Saul: la sterilità. Ma se Saul gliel'aveva già detto, questo sarebbe servito soltanto a farlo apparire meschino.

Carl fece una pausa. Sopra la sua spalla una carovana di arruffati cammelli fulvi marciava infaticabile attraverso una vasta distesa di sabbia, diretta verso una verde chiazza di palme a metà strada dal bordo marcatamente inciso dell'orizzonte. Mercanti abbigliati di rosso dondolavano in cima a ogni cammello, guardando direttamente in direzione di Carl con palese sospetto. Le loro immagini tremolavano per il calore, increspando quella poderosa carovana come se fosse un sogno. Psicologicamente efficace, senza alcun dubbio, ma Carl si sentiva ancora i piedi freddi.

— C'è qualcosa che ti tormenta, Virginia.

— JonVon sta… male.

— Ho sentito. Lui… esso… è malfunzionante?

— Lui è una matrice organica, ricordalo. Saul pensa che sia stato infestato da alcune delle halleyforme. Spero che possa trovare una cura.

Quindi, cominciò a delineare il problema, l'analogia fra le sostanze organiche non viventi di JonVon e i comuni esseri di sangue e carne, e di come JonVon potesse «prendere un raffreddore» in maniera più che metaforica. Carl ascoltò guardandola negli occhi molto a lungo. Sentiva ancora quella vecchia attrazione, quel lento caldo anelito che sarebbe esploso in lui se l'avesse permesso. La sua bocca pensierosa, ansiosa, l'impronta regale dei suoi alti zigomi…

— JonVon è immortale come potrebbe esserlo Saul? — chiese Carl.

— Saul potrebbe renderlo così. Se si potesse trovare una cura. Se Saul ha ragione riguardo se stesso…

— Continuo a pensare che siano tutte balle.

Virginia replicò, compassata: — Dobbiamo fare subito un test con quei tre nei colombari.

Pare così sicura… Possibile che Lintz abbia ragione?

Virginia era troppo onesta per permettere che l'amore l'accecasse del tutto. Avrebbe dato qualche segno, se dubitava di Saul…

— D'accordo, presumendo un vero miracolo, dovremo attivare nuove aree agricole. Dovremo tirar fuori quasi tutti dai colombari. Forse, chissà? Saul potrebbe curare qualcuno di quelli listati di nero.

— Perfino il comandante Cruz?

Il pensiero colpì Carl con violenza. — Potrebbe essere — disse, per coprire la sua confusione. Far rivivere gli ufficiali anziani… Non sarò più un pezzo grosso, qui intorno. Ma sarebbe magnifico lavorare di nuovo con il capitano, con qualcuno che sa davvero come fare le cose…

— Sarà una corsa infernale, con pochi anni soltanto prima dell'afelio.

Virginia s'illuminò. — Possiamo farlo. So che possiamo.

— Maledettamente giusto. — E Carl si costrinse ad un sorriso di speranza.

Perché non essere ottimisti? Non potrà far male a nessuno, dopo quello che è successo. Nella peggiore delle ipotesi Saul Lintz risulterà un folle. Nella migliore… be', nella migliore, potremo perfino completare gli sgomitopropulsori, spostare Halley, portare effettivamente avanti la missione.

Ma Carl sapeva che perfino i miracoli hanno le loro sgradevoli conseguenze. Che effetto avrà la speranza sulla tribù? si chiese.

È allora che cominceranno le vere lotte intestine, sul dove punteremo questa vecchia palla di ghiaccio per farcela cadere fra trent'anni.

VIRGINIA

Virginia si asciugò gli occhi. Senza nessuna vera gravità, le lacrime si gonfiavano verso l'alto e rimanevano attaccate in bolle tremolanti tenute insieme dalla tensione superficiale. Bisognava scuotere la testa, oppure asciugarle. O così, oppure era necessario indossare piccole lenti di acqua salata e vedere il mondo rifratto attraverso il proprio dolore.

— Andrà tutto bene? — chiese. La voce le tremava come quella di una bambina, ma Virginia non provava vergogna. Moltissima gente provava verso certi oggetti lo stesso amore che aveva verso gli esseri umani. E JonVon era assai più di una bambola di pezza.

— Credo… — la voce di Saul si alzava e si abbassava. — La sua testa era immersa in un'olovasca, un metro cubo di simulazione ben squadrata che pareva un acquario pieno di uno strano intruglio, quello che per uno chef avrebbe potuto essere un incubo di pezzetti e pezzettini luminosi. Era la rappresentazione codificata a colori dell'intricata chimica di un computer stocastico colloidale, e a quel profondo livello tutta l'esperienza di Virginia era inutile. Virginia poteva anche essere una bravissima programmatrice, ma non sapeva praticamente niente di molecole, o di ciò che rendeva malate le cose pseudoviventi.

Saul mugugnò. Non riusciva a seguire quello che stava facendo con le mani, nelle profondità dell'olo, ma qualunque cosa avesse scoperto, pareva soddisfarlo. Saul tornò a sedersi. — Display off — disse al computer diagnostico.

— Allora? — Le gambe di Virginia si tesero nervose e dovette afferrarsi al tappeto con le dita dei piedi per evitare di venir proiettata sul pavimento. — Allora? Dimmelo, sono pronta.

Saul le prese la mano e i suoi occhi azzurri parvero splendere. Virginia cacciò un rantolo quando lesse in essi la risposta. — Guarirà! — Lanciò un evviva, si girò di scatto e si buttò fra le sue braccia. — L'hai riparato!

Oh, che uomo comprensivo pensò, tenerla stretta a sé e ridere, mentre i suoi occhi lacrimosi gli lasciavano per causa di forza maggiore delle tracce sulle guance, e lei gli respirava felice sul collo… Oh, com'è caldo, forte e gentile.

Le mani di Saul le accarezzarono i capelli, vicino al cerotto là sulla nuca, dove i suoi nuovi medicinali avevano ridotto l'irritazione. Una settimana prima, chiunque l'avesse sfiorata in quel punto l'avrebbe fatta gemere per il dolore. Ma adesso non le faceva più male. L'infezione era quasi scomparsa. Era bello venir toccati di nuovo.

— Penserai certo che sono un'idiota — disse Virginia alla fine, mentre prendeva il suo fazzoletto e si rizzava a sedere sulle sue ginocchia per soffiarsi il naso.

— No, non lo penso.

— Be', questo dimostra quanto capisci. Lo sono davvero. Fare tutte queste storie per una macchina.

Saul le accarezzò una ciocca smarrita di capelli, riassestandogliela. — Allora sono un'idiota anch'io. Ero tremendamente nervoso, per questo intervento. E anche Carl lo era.

Virginia tirò su col naso. — Carl è preoccupato perché Jon-Von è di lunga il miglior computer che ci rimane. Carl non può guidare la sgomitata senza di lui.

— E allora? Questa non è una ragione più che sufficiente?

— Suppongo di sì. Ma non è che gliene importi veramente.

Virginia serrò i pugni. In realtà, c'era qualche altra ragione per la quale Carl la faceva infuriare. Stava ancora ribollendo un po' di rabbia per quello che Carl aveva detto di Saul.

Mi è sempre piaciuto Carl pensò. Ma riesce ad essere così maledettamente cocciuto… Sono passate settimane da quando Saul ha cominciato a condividere il siero prodotto dal suo stesso sangue, e soltanto adesso, dopo una terapia incredibile dopo l'altra, Carl è disposto ad ammettere, finalmente, che è davvero avvenuto un miracolo.

Naturalmente, questo era altrettanto ingiusto. Carl era vissuto talmente a lungo, logorato dalla disperazione, con la premessa che ogni cosa era perduta, che gli ci sarebbe voluto un po' di tempo per riabituarsi alla speranza.

Avrebbero tutti dovuto riadattarsi un po'.

Molte cose erano cambiate dal giorno dell'esodo degli archisti. Adesso, grazie alle cure di Saul, un numero sempre maggiore di persone veniva tirato fuori dai colombari, curato e messo al lavoro a costruire e a provare i congegni che sarebbero stati necessari quando la cometa di Halley sarebbe stata trasformata da una palla di ghiaccio alla deriva in un'astronave.

Naturalmente, le tecniche di Saul non potevano riparare danni impossibili, oppure resuscitare i morti irreversibili. Ma speravano di riuscire ad elevare la popolazione attiva della colonia a duecento anime, all'incirca, più della metà rispetto al numero originariamente previsto quando la Edmund e le quattro chiatte a vela erano state lanciate dalla Terra.

Già il moribondo sito degli sgomitatori giù a sud era tutto un ronzare di attività. Pareva che gli archisti lavorassero con i tecnici di Jeffers, perfino con gli Uber di Sergeov, in una nuova atmosfera di collaborazone.

Se soltanto potesse durare si augurò. Per gualche motivo, malgrado lo desideri con tutto il mio cuore, non posso credere che sarà così.

— Lascia che dia un'occhiata al tuo braccio — insisté Virginia. Quando Saul glielo tese, rintracciò i segni di numerose punture che si andavano rimarginando. — Qual è quella dalla quale hai estratto il sangue per il siero di JonVon?

Saul si mise a ridere. — Come faccio a saperlo, Ginnie? Te lo dirò comunque. Devo ammettere che quello è stato il mio caso più difficile, finora. Non avevo mai immaginato che i processori bio-organici fossero così complicati. — La sua espressione divenne pensierosa. — In effetti l'agente infettivo era sottile; una molecola simile ad uno ione proteico, autoreplicante, che in qualche modo è penetrata dentro la custodia fredda di JonVon negli anni durante i quali eravamo addormentati. Se fosse andata avanti ancora un po'… — Scrollò le spalle.

— Ma sei arrivato in tempo? — Virginia, ancora in preda al nervosismo, pronunciò la frase come una domanda, malgrado la sua fiducia in Saul.

Lui sorrise. — Oh, quel nostro figlio surrogato starà benissimo. Usando i metodi della simbiosi, ho trasformato la molecola in una variante che JonVon può usare nei suoi sistemi di autocorrezione. In realtà, sembra che lo renda anche più veloce. Naturalmente dovrai essere tu a valutare gli effetti.

Virginia aveva ammiccato più volte quando Saul si era riferito a JonVon come al loro «figlio surrogato». Naturalmente, adesso Saul era proprio come lei, incapace ormai di avere figli propri. Si rendeva conto, con un pizzico di senso di colpa, che ciò la faceva sentire ancora più vicina a lui. Adesso avrebbero potuto confortarsi a vicenda.

Oh, avremo i nostri problemi. A mano a mano che il tempo passa, il nostro rapporto non potrà mai essere perfetto… Questo accade soltanto nei romanzi.

Ma le venne alla mente la strofa d'una poesia, del tutto all'improvviso, com'era capitato con altre poesie, di recente, e con sempre maggior frequenza. Era un haiku:

Sotto la tenda dell'inverno.
I nostri figli, semi sotto la neve,
io afferro il tuo caldo profumo…

Lo sguardo di Saul era lontano. — In effetti, alcune delle tecniche per lavorare con gli organici colloidali sembrano applicabili alla clonazione biologica. Lavorando su JonVon, mi sono venute alcune idee…

Virginia scoppiò a ridere e gli scompigliò i capelli, i quali, sorprendentemente, adesso stavano diventando bruni alle radici, anche se Saul aveva detto che in realtà non stava diventando «più giovane», ma soltanto «un perfetto esemplare di uomo di mezza età».

— Ti vengono sempre idee nuove. Suvvia, Saul. Voglio parlare a JonVon.

Si spinse verso la ragnatela accanto alla sua stazione di controllo e tirò su i propri capelli con una mano. Staccò il cerotto, mettendo a nudo il connettore neurale.

— Uhm, forse faresti meglio ad aspettare…

Gli occhi di Virginia lampeggiarono minacciosi. — È un ordine, dottore?

Saul scrollò le spalle, sorridendo. — Immagino che lo faresti comunque, nel momento stesso in cui ti volterò le spalle.

Virginia sorrise. — Sono passate settimane. Troppo tempo per un'impenitente data-line come me.

Si sdraiò completamente sulla ragnatela. Il suo piccolo assistente mech, Wendy, si avvicinò ronzando e le presentò la fin troppo logora presa, che si fissò al proprio posto con un piccolo e sommesso suono soffocato.

Virginia sentì Saul che scivolava accanto a lei, mentre si adagiava all'indietro e chiudeva gli occhi, abbandonandosi alla familiare pulsazione che le arrivava direttamente al cervello.

Come stai, Johnny? chiese, articolando con molta attenzione le parole subvocaliche, come avrebbe parlato a un bambino convalescente.

EHI, VIRGINIA. HO QUALCHE POESIA PER TE.

Le parole tremolarono nello spazio sopra la loro testa, oltre ad echeggiare lungo il suo nervo acustico. Poteva dire, anche soltanto dalla chiarezza del tono, che le cose stava andando meglio, molto meglio.

Non ancora, Johnny. Per prima cosa voglio farti una diagnostica completa.

VA BENE, VIRGINIA. DO INIZIO ALLA SUBPERSONA DEL «SIGNOR RIPARATUTTO».

Saul non aveva mai visto prima di allora la simulazione di quella personalità. Scoppiò a ridere, mentre si formava l'immagine, limpida come il cristallo, di un uomo che indossava una tuta sudicia, il quale si stava pulendo le mani su uno straccio. Dietro a quel lavorante si affannavano degli aiutanti, i quali correvano su e giù, portando stetoscopi e voltametri ed enormi chiavi inglesi, verso una gigantesca impalcatura. All'interno di questa, vibrava e sferragliava una macchina colossale, ingombrante. Il vapore sibilava e un basso ronzio permeava ogni cosa.

Una tavoletta per appunti comparve dal nulla. Il mastro meccanico sorrise mentre s'infilava un paio di bifocali ed esaminava la lista.

STIAMO CONTROLLANDO, SIGNORINA.

I RISULTATI PRELIMINARI SEMBRANO MOLTO BUONI.

LA CONDIZIONE DELL'INSIEME DEI SISTEMI È TORNATA NORMALE.

LE ROUTINES DI AUTOCORRELAZIONE ADESSO FUNZIONANO SULLA BASE DEL «DIMMELO TRE VOLTE» RILASCIATO DAL CONTROLLO QUINTUPLO RICHIESTO DURANTE L'EMERGENZA.

IL SERVIZIO MANUTENZIONE SOFTWARE RIFERISCE CHE I PROGRAMMI GIRANO SECONDO L'EFFICIENZA NORMALE O MIGLIORE.

ADESSO SEMBRA CHE CI SIANO PROBLEMI SERI IN UNA SOLA AREA.

Be'? Di che si tratta? chiese.

Il signor Riparatutto la fissò da sopra il bordo degli occhiali.

HO QUALCHE POESIA PER TE, VIRGINIA.

Per la sorpresa, la sua testa ebbe uno scatto. Le stesse esatte parole…

Qui stava succedendo qualcosa.

— Cosa c'è, Ginnie? — chiese Saul, percependo parte della sua preoccupazione attraverso il collegamento.

— Niente, probabilmente… — borbottò Virginia. Si concentrò, per inviare delle sonde lungo parecchi percorsi contemporaneamente, per scoprire da sola cosa c'era dietro a tutta quella storia.

Pareva così facile! Era forse un confronto che stava facendo con il precedente stato lesionato di JonVon? Oppure adesso le sembrava più facile che mai incrociare per quei canali, in mezzo a quei fiumi di dati? Era quasi come se potesse entrarvi con il pensiero vero e proprio, invece di usare le simulazioni che il computer forniva per mimare l'esperienza. I blocchi di memoria erano rappresentati da metafore: schede di catalogo, classificatori, scaffali di libri lunghi molti chilometri, e file di vecchi e rugosi narratori di storie…

Ecco. S'imbatté in una barriera. Qualcosa di custodito dietro un alto muro ed una porta sbarrata. Un blocco. Un grande accumulo di dati, nascosti, inaccessibili.

— Credo sia soltanto un pochino costipato — disse. Saul esplose in un'improvvisa risata abbaiante, ma s'interruppe con altrettanta prontezza quando avvertì la serietà della sua voce.

È grosso… Cos'è mai, che JonVon ha ammucchiato qui dentro?

Cercò d'introdursi in quell'ingorgo con leve metaforiche che in realtà erano subroutine matematiche abilmente elaborate.

Prova con una Trasformazione Kleinfeld… una mappatura ruotante… sì.

Una routine ricorrente si manifestò come una chiave che continuava a cambiare forma fino a quando non scivolò dentro la serratura, e girò. Un fiotto di luce sgorgò fuori.

Oh, che io sia una mangusta dal naso azzurro!

— Cinquecento terabyte di poesia — rantolò Virginia ad alta voce. — E la metà è contrassegnata con dati di priorità tripla-A!

— Poesia? Dati prioritari? — domandò Saul. — Non capisco.

— Neppure io. — Virginia tacque, poi: — Oh!

Stupita, si girò verso Saul e aprì gli occhi. Lui la guardò a sua volta.

— JonVon sapeva di star male! E così ha isolato parte di se stesso per mettere in salvo delle informazioni importanti per me. Ha usato una submemoria-cache che io già avevo doppiamente salvaguardato… le mie poesie!

Virginia risollevò lo sguardo mettendosi a fissare il soffitto. — Cinquecento terabyte… l'eccedenza si è riversata dentro qualunque cosa JonVon facesse. Non c'è da stupirsi che Carl continuasse a incappare in quelle che parevano poesie aleatorie, mentre faceva calcoli di routine.

La voce di Saul suonò confusa: — Ma… poesie!

Virginia annuì. — Vediamo cosa sono tutti questi urgenti scarabocchi.

Presentarci un campionario di poesie con priorità triplo-A, per favore chiese al signor Riparatutto.

La figura in tuta scrollò le spalle.

GRAZIE, SIGNORINA. COMINCIAVA AD ESSERE AFFOLLATO QUA DENTRO.

La figura svanì, e d'un tratto cominciarono a scorrere le parole:

Ufficio Brevetti Stati Uniti d'America

Serie Tr — 87239345-56241

Dov'è la primavera,
qui ai confini di Sol?
Dove…

Energia Elettrica Robotica Miniaturizzata

Dove le stelle, senza batter ciglio,
dominano un buio…

Assegnato 8 maggio 2089

dominano un buio regno…

Per Virginia era una delle più bizzarre versificazioni che avesse mai visto. Era come se la macchina avesse intrecciato la poesia con una specie di documento. Stava cominciando a preoccuparsi, pensando che questo potesse essere il segno di un'altra malattia ancora, rimasta fino a quel momento nascosta, ma poi sentì Saul che scoppiava sonoramente a ridere, battendo le mani.

— Ma certo! — esclamò Saul. — I dati urgenti sono stati mescolati alla poesia per proteggerli.

— Sìììì — annuì lei, afferrando subito quello che lui voleva dire. — Ma… ma cosa sono i dati? Cosa c'era di così importante da doverlo nascondere nella mia speciale memoria, per tenerlo al sicuro?

— Guarda i dati, cara. Soltanto sette anni fa. Questa roba è stata spedita da casa! E così, a occhio, pare siano molti volumi, biblioteche intere di questa roba!

Virginia si sentì confusa. — Carl non ha mai detto niente di tutto questo.

— Non lo sapeva. Era Ould-Harrad al comando, allora, e Carl era ancora nel colombario. Ould-Harrad deve averlo semplicemente ignorato. Già allora cominciava a voltarsi al mistico.

— Ma il Controllo Terrestre è stato così avaro di aiuti…

— Chi ha mai parlato del Controllo Terrestre? — Saul scoppiò in un'altra risata. — Ecco qua, scommetto che posso darci una scorsa e trovare la lettera di copertura.

— La lettera di copertura?

Ma Saul era già al lavoro. Trasmetteva gli ordini così in fretta, con tanta destrezza, che Virginia avvertì una strana contraddizione, una punta di gelosia per il fatto che qualcun altro fosse familiarizzato con il suo regno tanto quanto lei… ma questo si combinava con l'orgoglio che Saul avesse appreso così bene a farlo. Pagine singole, fascicoli, interi volumi guizzarono via davanti a loro in un vaglio automatico che tirava fuori i dati da risme e risme di poesie.

Alcune guizzanti strofe poetiche attirarono il suo sguardo. Non sono male pensò. JonVon ha migliorato, perfino quand'era malato. Se le trasmettessimo sulla Terra, qualcosa potrebbe anche venir pubblicato… ancora un altro test di Türing fallito.

— Ecco, ecco qui! — annunciò Saul. — È una lettera in forma video.

Vi fu una confusa macchia multicolore, e poi una nuova immagine tremolò davanti a loro. Virginia seppe subito che quella non era un'altra simulazione di JonVon. Quella era reale, una trasmissione registrata.

Una donna con i capelli tagliati corti sedeva a una consolle: indossava una pelletuta attillatissima. Il suo viso aveva quel gonfiore agli alti zigomi dovuto ad un lungo soggiorno a bassa gravità. Era abbigliata in modo strano, pennellate di colore simili a lampi le segnavano la fronte partendo dalle tempie secondo una moda che doveva essere stata corrente quand'era stato spedito il messaggio.

Dietro alla donna spiccava un'ampia parete-finestra che mostrava una scena di vasti deserti rossastri, visti da alta quota. Nubi rigonfie di sabbia soffiavano tempestose attraverso immense distese desolate. Per qualche motivo, Virginia sapeva che quella non era la rappresentazione d'una climaparete, ma la realtà.

— Colonia di Halley — intonò la donna. Virginia non riuscì a collocare esattamente il suo accento, ma la tensione della sua voce era inequivocabile. — Halley, qui è la base di Phobos. Abbiamo ascoltato la vostra storia, sentito l'angoscia delle vostre perdute speranze, che sono anche le nostre. Abbiamo constatato il trattamento improntato a un'assoluta insensibilità che avete ricevuto, e ne proviamo vergogna.

«Per alcuni di noi, questo crimine ha superato ogni sopportazione. Stiamo correndo il rischio di trasmettervi questo segno della nostra buona volontà, giacché non farlo significherebbe unirsi ad una generazione senz'anima, troppo compiaciuta e comoda per badare alle passate promesse, troppo perduta nei suoi piaceri per ricordarsele.

La donna fece una pausa. La sua ansia si coglieva chiaramente nel pallore delle sue nocche mentre stringeva con le mani i bordi della consolle.

— Se ci amate, non rispondete né preoccupatevi di ringraziarci in alcun modo. Non parlate di questo al Controllo della Terra. Questi doni sono il segno che qualcuno, sulla Terra e nello spazio, non si è dimenticato dei nostri simili, quelli che viaggiano attraverso le gelide distese lungo il fiume della disperazione.

«Possa l'Onnipotente guidarvi fino al vostro destino, popolo della Cometa, popolo dello spazio profondo.

L'immagine tremolò e scomparve. Seguì un flusso costante di indici, testi, disegni, brevetti, musica. Saul esaminò la lista tutto eccitato, ma per qualche istante Virginia, da parte sua, riuscì soltanto a sbattere e risbattere le palpebre, occhieggiando in qualche modo all'esterno delle proprie occhiaie, attraverso il velo di lacrime. Le pareva ancora di sentire la voce della donna di Phobos echeggiare nella sua mente.

— JonVon aveva proprio ragione — bisbigliò, anche se in quel momento Saul era troppo impegnato, lanciando urla di gioia alla vista di ogni titolo che zampillava fuori dall'ingorgo infranto della memoria del computer, per prestarle attenzione.

— JonVon aveva ragione. Questo andava classificato sotto «poesia». Non c'era nessun altro posto dove metterlo.

PARTE QUINTA

CON IL TOCCO DI UNA PIUMA

2094

Vivi solo due volte:

una volta quando nasci,

l'altra quando guardi la morte in faccia.

Bassho, poeta giapponese 1643–94

OPZIONI PER L'AFELIO

MANOVRE DELLA SGOMITATA

(Dal Nord dell'eclittica) 2098

OPZIONI

1. Giove sulla tappa verso l'interno (preperlello — 284 m/sec)

2. Marte sulla tappa verso l'interno (preperlello — 59 m/sec)

3. Venere sulla tappa verso l'esterno (postperlello 44 m/sec)

4. Terra sulla tappa verso l'esterno (postperlello 63 m/sec)

5. Giove sulla tappa verso l'esterno (poitperlello 536 m/sec)

SAUL

Esistenza. Vita. Coscienza.

Quelle parole venivano spesso usate come sinonimi, ma lui sapeva che in realtà erano tre cose molto diverse. Tre stadi della creazione.

Il proverbiale albero che cadde in una foresta deserta, produsse un suono?

Era possibile che quella domanda fosse stata fatta addirittura prima che tutti e tre gli stadi si verificassero.

Si supponeva che l'esistenza fosse cominciata quasi ventimila milioni di anni prima, in un flusso caldo di quark e di leptoni, quando il tempo stesso turbinava, come se fosse stato bendato, cercando d'infilzare qualcosa che lì al momento battezzò il futuro. L'universo, per un caso fortuito, avrebbe potuto assumere una miriade di altre forme, grazie a piccole variazioni nel caso e nelle dimensioni. Se anche una soltanto delle costanti fisiche fondamentali fosse stata alterata d'una piccola frazione del suo valore, la vita non avrebbe mai fatto eruzione dalla chimica catalizzata dell'argilla, a molto miliardi di arbitrari intervalli più tardi.

Ma la Vita era spuntata… autoorganizzandosi, autoreplicandosi, organizzandosi con se stessa e altro. La Vita aveva avuto una tendenza sin dall'inizio di alterare il suo ambiente e i suoi dintorni.

Ma quella non era stata la fine. Era arrivata, poi, la terza creazione. Era arrivata la consapevolezza…

I gibboni nani volavano lungo la galleria davanti a Saul, strillando fra loro e dondolandosi agilmente dai cavi fissati al ghiaccio coperto di muschio. Giunti a un incrocio, girarono su se stessi e guardarono Saul, con i grandi occhi castani che ammiccavano interrogativi.

— Pazienza, bambini — disse loro Saul. — Lasciate che papà legga i cartelli delle gallerie. Dovremmo incontrare Ginnie alla Caverna della Pietra Azzurra.

Le due piccole scimmie rimasero appese lì accanto mentre Saul nuotava fino al punto d'incontro di due corridoi. Una densa lanugine verde ricopriva il vecchio pozzo e di codici d'identificazione della galleria, ma sotto quei segni obliterati c'erano delle profonde incisioni, che esponevano un conglomerato scuro, scintillante, gelato, dipinto con una sostanza velenosa per le halleyforme.

Una freccia puntava a destra, trafiggendo una grande S.

La S stava per «Sopravvissuti».

— Sì, la strada è questa. — Si risistemò lo zaino sulle spalle. — Su, Max. Su, Sylvia.

I due minigibboni atterrarono sulle sue spalle. Saul si spinse via, seguendo il bagliore fosforescente di lichenoidi.

Due anni pensò. Sono passati due anni da quando, tutt'a un tratto, l'universo è parso smetterla di prendersela con noi. Da quando si è invertita la litania delle cattive notizie.

Mi chiedo quanto ancora possa durare questo buon mercato.

Tutti parevano dar credito al suo siero e ai miracolosi mech di Virginia, per il ribaltarsi delle fortuna della colonia. Ma Saul sapeva che prima di allora quella parte del problema era imputabile alla pura e semplice solitudine.

Le cose non erano state più le stesse da quel pomeriggio nel laboratorio di Virginia, quando i blocchi mnemonici causati dalla malattia di JonVon erano crollati, e avevano scoperto che, malgrado tutto, non erano stati dimenticati.

Non c'erano più stati messaggi dai loro segreti benefattori. Ma questo non aveva importanza. Cosa ancora più importante delle informazioni tecniche che avevano ricevuto, era il modo in cui il loro morale era uscito galvanizzato dalla consapevolezza che qualcuno, a casa, si preoccupava ancora per loro.

Perfino i funzionari sulla Terra parevano essersi inteneriti. Nella colonia era tutto un parlare del «Pacco Assistenziale» che si stava avvicinando all'appuntamento con Halley, seguito ad alta velocità da un Controllo Terrestre in apparenza tormentato da sensi di colpa per le passate negligenze.

Non c'è da stupirsi che le squadre di Jeffers riescano a realizzare tante cose, giù al polo Sud. Virginia ha calcolato che saranno effettivamente pronti per la sgomitata questo stesso mese.

Sempre che questa pace fra clan duri, s'intende…

Davanti a loro, il corridoio si stava illuminando. Max e Sylvie schizzarono via dalla sua schiena balzando lungo un cavo alla parete, precipitandosi verso una vociferante accoglienza.

— Chi è, Hokulele? Chi sta arrivando? — chiese una voce profonda da dietro un arco di pietra. — Oh, sta zitta, sciocca di una scimmia, non vedi che sono Max e Sylvie? Entri pure, dottor Lintz!

Il sorriso di Keoki Anuenue era ampio e la sua stretta robusta quando tirò su Saul dentro un'ampia cavità che pareva per metà un palazzo di ghiaccio, e per l'altra metà il laboratorio d'uno scienziato pazzo. Delle fenditure dall'apparenza imboccature di caverne si dipartivano in tutte le direzioni, bordate da scintillanti strutture di cristallo indurito. In alcune di queste cavità si poteva scorgere della gente in movimento, individui intenti a diverse attività. Qualcuno si fermò un attimo a salutare Saul con un cenno della mano.

Al centro della cavità maggiore, sporgeva un grande macigno fatto di un qualche tipo di agglomerato metallico bluastro, una strana formazione che aveva dato il nome al gruppo che viveva là.

Dovunque si stendeva il morbido verdeggiare della lussureggiante vita vegetale. Qui, la distesa simile a un prato di qualcosa che ricordava il trifoglio, per l'appunto denominato Trifolium halleyense; là un ciuffo di calendule mutate, che crescevano da quella terra notturna con forme affusolate che non sarebbero mai state possibili sul mondo natio.

— È splendido rivederla, dottore — dichiarò Anuenue. — La mia gente è sempre contenta quando lei ci fa visita.

Saul aveva rinunciato a convincere Keoki a chiamarlo Saul, come faceva chiunque altro. Il fatto che l'hawaiano grande e grosso fosse adesso più vecchio di lui (i suoi capelli un tempo neri come il giaietto erano diventati color d'argento e i suoi occhi erano circondati dalle rughe del sorriso profondamente incise) non pareva aver nessun peso per lui.

— Ciao, Keoki. Hai un ottimo aspetto.

— Come non potrei non averlo? Non sono mai stato davvero malato, come molti altri, ma quelle sue cure mi fanno sentire capace di cavalcare un'ondo su fino a Molokai!

La sua risata era contagiosa. Saul sollevò una mano e accarezzò la piccola scimmia cappuccina appollaiata sulla spalla del suo amico. L'animale si nascose dietro la testa di Anuenue e fissò sospettosamente i gibboni. — E come sta Hokulele? Ha ancora molto appetito?

Keoki rise. — Sono settimane che non si vede un solo purpureo da nessuna parte vicino alla Caverna della Roccia Azzurra. Oggi come oggi deve vivere dei resti dei pasti, ed è qualcosa che odia!

— Già — sorrise Saul. — Sono sicuro che la maternità la terrà parecchio occupata.

— È riuscito a capirlo? — Anuenue sollevò la piccola scimmia. — Ua huna au ia mea… non ero sicuro di doverglielo dire, dottore, poiché lei voleva che facessimo attenzione prima di permettere che una qualunque specie della Terra diventasse indipendente dalle sue camere di clonazione. Ma Virgil Simms è venuto a trovarci dalla Centrale e ha portato con sé il suo maschio…

Saul agitò una mano. — Non ha importanza. È ovvio che le cappuccine modificate sono un successo. Dovremmo vedere se possono davvero generare.

I dati arrivati dalla Terra erano stati la chiave, giacché malgrado la scienza fosse ancora una cosa piatta e monotona laggiù a casa, alcuni progressi non si erano potuti evitare. Saul non sarebbe mai stato in grado di sviluppare lui stesso le macchine per la clonazione, anche utilizzando porzioni cannibalizzate da una dozzina di colombari. Ma attuando dei progetti liberati dalla memoria disintasata di JonVon, era stato in grado di costruire congegni stupefacenti.

Servendosi di campioni prelevati dal loro «zoo» ancora congelato, di animali da esperimento, oggi era in grado di far crescere a forza una scimmietta o uno scimpanzè da una singola cellula «esplosa» fino a un feto e a un adulto nel giro di un mese. Un mese.

Francamente, tutto questo andava al di là della sua comprensione come biologo. Saul era lieto che metà della procedura potesse venir diretta da JonVon, senza che lui fosse costretto a capirla. Poteva rivolgere la maggior parte della sua attenzione alla modifica dei geni originari, un'arte per la quale la sua specializzazione non era obsoleta, dando ad essi un'eredità artificiale perché potessero prosperare nel suo ecosistema, che si stava creando lì su Halley.

Anuenue stava scambiando smorfie scimmiesche con Max e Sylvie, e questo rendeva Hokulele follemente gelosa.

— Non riesco ancora a capire come mai lei abbia scelto dei gibboni come cani da guardia, dottore. Senza coda prensile sono impacciati quasi quanto gli uomini.

— Ho la debolezza innata nei confronti delle scimmie senza coda — cominciò la sua spiegazione Saul. — Hanno le loro…

— Saul! — gridarono all'unìsono due voci femminili. Saul si girò di scatto di lato e vide una giovane donna che indossava una tuta di fibratessuto rozzamente cucita che si lasciava cader giù da un pozzo per atterrare giusto sulla grande roccia azzurra. Una macchina affusolata cadde dietro di lei, e la giovane donna l'afferrò con destrezza, deponendola delicatamente sul pavimento. Il mech ronzante, simile ad un ragno, precedette Lani Nguyen con un rumore frullante, arrivando per primo a Saul.

— Ciao, Saulie! — esclamò la macchina con la voce di Virginia, ma con un registro leggermente più acuto, e una modulazione semplificata. Era facile capire che Virginia non era «presente», che non stava operando di persona quel particolare mech, e Saul rimase un pochino deluso.

— Ciao, piccola Ginnie — rispose, rivolto a quella macchina costruita nella colonia, e che di macchina aveva assai poco, mentre essa allungava un braccio e gli accarezzava la gamba. Quel congegno era un altro ibrido fra la ricerca svolta sulla Terra e quella più casalinga: una mescolanza di nuovi progetti trasmessi dai loro segreti benefattori, l'eccellenza meccanica di Jeffers e D'Amerie, e l'ipermoderno approccio di Virginia alla programmazione basata sulla personalità.

— Ti amo, Saul — disse quella morbida voce simile a quella di una fanciullina. Quella piccola personalità artificiale era una replica riveduta di quella di Virginia. Talvolta, come in quel momento, era fonte d'imbarazzo. Keoki tossì, sorridendo dietro la mano che aveva alzato per coprirsi la bocca.

Saul si sentì particolarmente scoraggiato, giacché, al momento, Virginia era furiosa con lui. E non posso neanche veramente biasimarla pensò.

— Ciao, Lani — disse alla giovane donna che seguiva il piccolo robot. Lei si affrettò a stringerlo in un caldo abbraccio.

— Hai un aspetto splendido — lui le rispose, tenendola staccata da sé alla distanza di un braccio.

Lani arrossì, voltandosi leggermente di fianco per nascondere le cicatrici che le aveva lasciato il vaiolo fulminante sulla guancia un tempo liscia come il velluto.

— Sei un splendido bugiardo, Saul. Quasi quanto lo sei come medico.

Ma per lui, Lani aveva davvero un aspetto splendido, giacché ricordava fin troppo bene quando Lani Nguyen era stata colombarizzata. A quell'epoca, gli era parso inutile, come colombarizzare un cadavere. Adesso, il pallore del sonno profondo aveva quasi lasciato del tutto il suo viso, e le palpebre azzurre non facevano che accentuare ancora di più i suoi lineamenti per metà orientali, rendendoli ancora più passionali e misteriosi.

Virginia non avrebbe mai dovuto parlarmi del nascondiglio segreto di Lani Nguyen, di sperma e ovuli umani. Sono stato quasi sul punto d'interrogarla in proposito parecchie volte da quando è stata decolombarizzata… per scoprire dov'è nascosto.

Ah, ma se avessi quel plasma fra le mani, potrei essere troppo tentato…

— Quando potrò tornare in servizio, Saul? Voglio unirmi alle squadre che stanno montando gli sgomitopropulsori, prima che tutto il lavoro importante sia concluso.

Spaziale fino all'ultimo si disse Saul. — Anche se la sgomitata dovesse cominciare tra un mese o giù di lì, Lani, dovrà procedere per anni, con un gran numero di propulsori ancora da costruire. Farai il tuo turno, non preoccuparti. Adesso, però, il tuo lavoro consiste nel riposare, aggiornarti.

Lani annuì, la piccola scimmia cappuccina si trasferì dalla spalla di Keoki alla sua, e lei la grattò.

— Cercherò di aver pazienza, Saul. Comunque devo ringraziarti per avermi assegnato al Clan della Roccia Azzurra per il mio recupero. Sono stata in qualcuno degli altri gruppi per visitare alcune persone… — Sbatté le palpebre al ricordo. — Saul, com'è possibile che della gente, dei professionisti, con lauree, si comportino in maniera così… così… — annaspò per trovare la parola giusta.

— Così meshuggenuh? — lui le suggerì.

Lani scoppiò a ridere, con la limpidezza d'una campana. — Già. Così meshuggenuh?

Anuenue le mise un braccio intorno alle spalle. — Siamo stati molto contenti di avere Lani con noi. Qualunque clan della fazione dei Sopravvissuti l'accoglierebbe con gioia come membro permanente.

Lani ammiccò più volte. — Io… immagino che dovrò sceglierne uno, non è vero? Non sono ancora abituata a pensare in questo modo.

Neanche a Saul la cosa piaceva. Aveva sperato che il fazionalismo degli ultimi trent'anni finisse per sbriciolarsi, a mano a mano che un numero sempre maggiore dei colombarizzati dei primissimi anni venivano curati con il suo siero e tirati fuori. A mano a mano che la popolazione della cometa cresceva, una maggioranza sarebbe stata costituita da coloro che ricordava la Terra da una minor distanza di tempo, con i ricordi ancora freschi del commovente discorso del capitano Cruz tenuto dall'impalcatura della Sekanina, e delle speranze che tutti avevano condiviso.

Ma non aveva affatto funzionato così. I nuovi rianimati, disorientati, deboli e spaventati, si trovavano in un mondo molto diverso dalla colonia di Halley che ricordavano… così simile a quel tranquillo insediamento alla Base Lunare 1. Finivano molto presto per gravitare intorno a quei gruppi in cui si sentivano maggiormente a proprio agio, ne adottavano l'ideologia, e diventavano membri del clan.

Saul non disse a Lani che pareva ci fossero tre persone immuni da quel modello, per differenti ragioni, lui, Virginia e Carl Osborn erano tutti e tre isolati, rispettati, forse, ma in nessun luogo a proprio agio.

Lani scrollò le spalle: — Be', io non andrò certamente a unirmi a Quiverian e ai suoi ortho estremisti…

— Archisti — la corresse Keoki, come un paziente insegnante di lingue che la stesse istruendo sul corretto uso d'un lessico.

— Già, archisti — ripeté lei. — E quando ho ottenuto un lasciapassare per muovermi nei corridoi e ho cercato di far visita ad alcuni dei miei amici percell nel territorio degli Uber, Sergeov mi ha detto di togliere di lì il mio piccolo culo di ortho! E i ragazzi di Marte non sono molto più simpatici, anche se un tempo Andy Carol ed io eravamo amici.

«Così, che razza di scelta mi rimane? Quelli dell'Altopiano Tre al livello B sono un misto di ortho e di percell, gli API, hanno quel luccichio negli occhi, tu sai cosa voglio dire, Saul? Non sono più spaziali ormai, ma missionari! Pare che non gliene importi più di vivere o morire, fintanto che il trilione o giù di lì di tonnellate di ghiaccio di Halley verrà consegnato al destinatario, secondo il progetto del capitano Cruz.

Saul sorrise. — Mi pare che tu abbia trovato una casa proprio qui, Lani.

— Proprio così — dichiarò Keoki. — Basterà che tu ce lo faccia sapere. Dipingeremo una nuova cotta per te, e terremo una cerimonia.

Lani annuì, ma si morse brevemente le labbra. — Io ve… ve lo farò sapere, non appena avrò avuto la possibilità di parlare con Carl.

Abbassò gli occhi, sapendo quanto doveva sembrare trasparente, ma per nulla vergognosa davanti ai suoi due amici. C'era ben poco d'altro da dire.

— Vedrò di farti avere presto un lavoro leggero su in cima — le assicurò Saul. Lani annuì, gli occhi pieni di gratitudine.

La scimmietta cappuccina pigolò, i gibboni neri, Max e Sylvie, si voltarono di scatto e guardarono dietro di sé lungo il corridoio, col pelo irto.

Keoki sbirciò nella stessa direzione, portando la mano al coltello che aveva alla cintura. — Sta arrivando qualcuno.

Uomini e donne cominciarono ad emergere dai laboratori e dalle caverne-dormitorio, stringendo nervosamente delle sbarre fatte di ferro meteorico. Un paio di loro afferrarono la pesante porta stagna e cominciarono a chiuderla. Poi si udì un fischio acuto: due sibili crescenti e un trillo, ripetuti due volte.

Keoki si rilassò, ma solo un po'. — Il richiamo, secondo il trattato — spiegò. — E wehe i ka puka — disse rivolto agli uomini, e questi smisero di spingere. La porta rimase semiaperta. Una luce comparve in fondo al corridoio, e due piccole figure brune si fermarono con una ruzzolata a soli sei metri dall'ingresso, con le lingue penzolanti da bocche sottili orlate di denti aguzzi come aghi.

Non avrei mai dovuto permettere a Quiverian di convincermi a concedergli delle lontre pensò Saul, guardando quelle agili creature. Sono, semplicemente, troppo pericolose.

Ma se avesse respinto la richiesta del capo degli archisti, Saul avrebbe potuto perdere la condizione di neutralità che aveva cercato di conservare con tanta cura. Era stato difficile fare aa intermediario, negoziare un trattato in modo da far sì che gli emigranti andati al polo Sud collaborassero ancora con le squadre di Carl Osborn. Le lontre erano state soltanto un altro prezzo da pagare.

Con sua viva sorpresa, però, la figura che emerse dietro i sogghignanti animali non era quella di Joao Quiverian, e neppure quella di uno dei principali assistenti del capo degli archisti. I capelli bianchi scarmigliati e la barba fluttuavano come un'aureola intorno ad un volto bruno scuro come le ricche vene carbonacee che rivestivano le pareti di ghiaccio.

— … Kela ao — alitò Anuenue, pieno di stupore. — È Ould-Harrad.

Quegli occhi intensi, castani, adesso erano circondati da profonde increspature. L'ex ufficiale degli spaziali indossava una veste marrone sbattente fatta di fibratessuto recuperato, che lo faceva sembrare ancora di più un antico patriarca. Fece un gesto con una mano.

— Saul Lintz.

Lani strinse il braccio di Saul, e Keoki Anuenue si mosse per fermarlo, ma Saul fece loro cenno di farsi da parte. — Tenete indietro Max e Sylvie — disse, e si spinse fuori nel corridoio.

Le lontre si erano aggrappate alla veste di Ould-Harrad, gratificando Saul di sguardi ferali. Saul non si sentiva particolarmente al sicuro, anche se era stato il loro «creatore», in un certo senso. In condizioni di quasi totale mancanza di gravità, quelle creature erano bestie temibili.

Se Joao Quiverian era il capo degli archisti estremisti, Ould-Harrad era la loro guida spirituale, il loro sacerdote. La fiamma del suo complesso di colpa pareva pungolarlo più di chiunque altro qui, su quell'antica particella di stella.

Mentre si avvicinava, Saul non si sentì molto garantito nella sua sicurezza, giacché, malgrado la fazione degli archisti sembrasse accettare la sua neutralità, quell'uomo rappresentava una forza a sé.

— Colonnello Ould-Harrad. — Saul annuì, fermandosi a tre metri da lui, lasciando che i suoi piedi si adagiassero lentamente sul pavimento, con le dita dei piedi che stringevano il morbido e ibrido rivestimento verde.

— Non chiamarmi così — intonò l'africano, sollevando una mano. — Non sono un ufficiale, né uno spaziale, né un terrestre, non più.

Saul sbatté le palpebre. L'ultima volta che aveva visto Ould-Harrad era stato durante il Grande Esodo, con la bianca cotta della sua tuta spaziale che recava al centro un'esplosione stellare, mentre guidava gli esuli archisti durante il loro viaggio, e Quiverian e la sua banda coprivano la retroguardia. Durante la breve visita che Saul aveva fatto successivamente agli antipodi, le loro strade non si erano mai incrociate. Comunque, ricordava ciò che Ould-Harrad aveva detto, tanto tempo addietro, nel suo laboratorio a bordo della Edmund:

— Colui che Allah sceglie di toccare, reca i solchi delle impronte di quelle dita, per sempre…

— Molto bene, Suleiman — annuì Saul. — Vedo che le lontre se la cavano bene.

Ould-Harrad abbassò lo sguardo sulle due creature. La sua mano accarezzò delicatamente la loro lucida pelliccia, geneticamente adattata per vivere in quei corridoi ghiacciati invece che nella schiuma salata del mare.

— Ancora una volta hai dimostrato come mi sbagliassi su di te, Saul Lintz, giacché il ruolo che hai avuto nel generare queste creature non può essere stato malvagio.

Saul non poté farne a meno: sentì un'ondata di sollievo alle parole di Ould-Harrad, come se fosse proprio quella la cosa che l'aveva preoccupato, e quell'uomo avesse realmente il potere di assolverlo. È molto in gamba con questo shtick della profezia commentò dentro di sé.

— Joao te le ha prestate per questo tuo viaggio a nord?

Gli occhi di Ould-Harrad parvero lampeggiare.

— Non sono più sue, da prestare. Questa è una delle ragione per le quali ti ho cercato. Per dirti che ci sono soltanto tre scimmie, giù agli antipodi del sud, per stanare i purpurei e proteggere la gente mentre dorme. Devi sostituire queste lontre.

— Oh? Dove le stai portando?

— Meriti di saperlo. — Ould-Harrad fece una pausa, con un'espressione remota nello sguardo. — Per anni sono uscito in superficie a meditare sotto le stelle, come hanno fatto i mistici da tempo immemorabile, pregando e sperando in un segno. Ho scoperto che hanno un effetto ipnotico, quelle luci sfavillanti nelle tenebre. Dopo lungo tempo mi è parso… in verità ho cominciato a sentire la voce di Dio.

«Ma non poteva essere.

— Perché no? — chiese Saul, incuriosito.

La voce di Ould-Harrad era colma di dolore. — Perché tutto quello che giungeva a me erano risate.

Saul seppe che questa era qualcosa di più d'una pura pazzia. Poteva quasi sentire l'intensità del tormento nell'anima di quell'uomo. — Credo di capire — replicò con calma. Non aggiunse che non vedeva niente di assurdo in quell'esperienza. Chi ha detto che il Creatore debba essere sobrio? L'universo è stato creato per ridere, altrimenti dobbiamo piangere. Ould-Harrad annuì. Per un lungo istante non ci furono parole. Poi l'africano sollevò di nuovo gli occhi.

— E c'è un'altra cosa.

— Quale?

— Io… io non posso più essere complice delle macchinazioni di Quiverian e del suo equipaggio di banditi, loro…

— Gli archisti?

— Sì. — La barba fluttuò quando Ould-Harrad scosse la testa. La sua voce era appena udibile. — Le guerre che ci siamo portati dietro dalla Terra sono come la nebbia in estate, che si dissiperà e verrà dimenticata con l'imminente inverno. Ho finito per rendermi conto che le discussioni sul dove puntare questa grande lacrima ghiacciata sono completamente fuori centro…

— Dove andrai, allora?

Lo sguardo di Ould-Harrad si abbassò per un attimo sul pavimento. — Devo scendere giù… nel ghiaccio. Più in basso ancora di dove sia arrivato chiunque altro, salvo Ingersoll, il quale adesso viene chiamato il Vecchio Uomo delle Caverne, e quelle povere creature che l'hanno seguito. Vivrò di ciò che cresce lungo lo stesso cammino che essi percorrono. Provvederò ai loro bisogni spirituali, se li troverò ancora in vita. E rifletterò.

Saul annuì. Era ovvio che nell'ambito della visione del mondo di Ould-Harrad un eremitaggio aveva senso. Non fece nessuno sforzo per dissuaderlo. — Ti auguro fortuna. E saggezza.

Ould-Harrad annui. Abbassò lo sguardo sui suoi animali. — Comincio a comprendere un aspetto, almeno… questa cosa che predichi, questa simbiosi. A tutta prima non l'avevo capito, ma adesso…

Fece una pausa. — La tua opera non è uno strumento del male, Saul Lintz. E per questa ragione ti avverto: guardati da Quiverian. Sta macchinando qualcosa. Io lo so. Desidera in particolare far del male a te. E a Carl Osborn.

Saul non seppe cosa rispondere. — Sarò cauto.

— Cautela o non cautela… — Ould-Harrad scrollò le spalle. — Fare o non fare. Alla fine tutto avverrà secondo la volontà di Dio. Siamo impotenti a resistere.

Le lontre parvero percepire qualcosa, prima che Ould-Harrad si muovesse. Balzarono avanti e guizzarono via lungo il corridoio in penombra. Il mauritano si girò rigidamente e si allontanò.

Dà l'impressione di camminare, come sulla Luna o sulla Terra pensò Saul, guardando l'uomo che si allontanava. Mi chiedo quale sia la sua tecnica.

Girò su se stesso e tornò indietro, planando, verso la Caverna della Roccia Azzurra, riflettendo sugli effetti della sua gravità personale.

CARL

La tenebra pareva un peso solido, una mano enorme stretta intorno al ghiaccio grigio, crivellato. Erano mesi che Carl non saliva in alto, sopra la superficie, e l'arida desolazione del paesaggio lo colpì in pieno, riportando di colpo alla sua memoria i ricordi dei suoi anni trascorsi quando il vuoto silenzioso significava libertà, e agili movimenti, d'una grazia spontanea.

Le stelle luccicavano: i loro minuscoli fari traboccanti di rosa, azzurro mare e giallo incandescente brillavano come costanti promesse di un'altra vita, un regno colmo di vibranti sfumature, un luogo posto al di là di quella squallida pianura che il lento planare ellittico dell'orbita aveva svuotato d'ogni colore.

Adesso l'invadente oscurità significava che non c'era nulla fra quella distesa gelata e le stelle ammiccanti, nessun pianeta turbinante di nubi e di lampi, non era visibile neppure un asteroide vagabondo.

Adesso stavano viaggiando molto al di sotto del piano dell'eclittica, dieci volte più lontani dal disco dei pianeti di quanto lo fosse la Terra stessa dal Sole. Il sistema solare esterno era vasto al di là di ogni immaginazione. Carl guardò verso sud: virtualmente tutto il sistema solare era alle sue spalle. La debole radiosità del Sole, un millesimo di quella che riscaldava la Terra, non riusciva a suscitare i colori pieni che contrassegnavano il ghiaccio. Dovunque le pozze d'ombra inghiottivano i particolari; la maggior parte di Halley era un regno d'inchiostro.

— Cauto, adesso — gli trasmise Jeffers.

— Bene — rispose Carl automaticamente, la sua fantasticheria s'interruppe. Propulso dai getti verso il basso, atterrò vicino al suo amico. Insieme, avanzarono planando in direzione sud. Di solito, avrebbero cercato il cavo polare e avrebbero usato i jet, arrivando al polo Sud nel giro di pochi minuti. Ma quelli non erano tempi normali.

Aggirarono la collinetta di ghiaccio spruzzato d'arancione. Dei fusti vuoti erano ormeggiati con cavi sottili come ragnatele al coacervo dei rifiuti congelati, spazzatura rimasta a causa di qualche processo ormai vecchio di decenni e dimenticato. Jeffers sgusciò da un fusto all'altro, facendo attenzione a non esporsi sul lato rivolto a sud. Carl lo seguì. Ci voleva uno sforzo per rimanere sul ghiaccio, affondando con cautela le dita-tenaglia ad ogni lungo passo. Soffocò l'impulso a saltare, volare sopra quel paesaggio screziato.

Spirito spensierato pensò. Ecco cos'ero un tempo. Sfrecciavo qua e là tutto brio e vivacità. Carl Osborn, lo scavezzacollo dello spazio. Ma adesso… non ha più lo stesso sapore.

Jeffers gli fece segno, e si lanciarono attraverso una distesa di materiale di scarto sparpagliato, correndo quasi orizzontalmente con lunghi passi plananti, gli stivali che trovavano modo di far leva sulle sporgenze e i bitorzoli di ghiaccio. Arrivarono al riparo d'un modulo chimico, un cilindro macchiato da lungo tempo prosciugato e arido.

— A quest'ora dovrebbero essere in grado di vederci. Io…

— Sst! Così vicino, possono captare perfino le comunicazioni a circuito chiuso.

Carl si chinò per mettersi al riparo, sentendosi leggermente ridicolo. Guardò oltre il bordo curvo del cilindro, cercando di vedere quello che poteva. Sì, decisamente c'erano nuove strutture vicino all'orlo dei pozzi dello sgomitatore. Parevano qualcosa d'improvvisato, messe insieme con vecchi bidoni e montanti. Riusciva quasi a vedere lo stesso polo Sud. Nettuno era sospeso appena sopra l'orizzonte, un debole puntino verde.

Ad alto ingrandimento, le fasce equatoriali di Nettuno formavano cerchi concentrici bruni, assomigliando nel complesso a un bersaglio.

Alcuni Uber volevano ancora attivare lo sgomitatore per fare di Halley un satellite di Nettuno. Avrebbero potuto raccogliere dei gas dalla sua alta atmosfera, e insediarsi sulla luna più grande. Carl si chiese oziosamente che effetto gli avrebbe fatto trascorrere i suoi giorni con un sonnacchioso gigante verde che riempiva il cielo. Non molto simile alla California, no. Forse avrei dovuto lavorare nelle assicurazioni. Ma sperava ancora di rivedere gli azzurri della Terra, i rossi e i porpora autunnali…

— Vi vediamo. — Una voce giovane, sul chi vive. Carl sbirciò oltre l'orlo, ma non riuscì a vedere nessuno davanti a lui.

— Sono Carl Osborn. Sono venuto a parlare.

— Non abbiamo niente di cui parlare. Jeffers ti ha detto qual è la nostra politica —. La voce era tesa ma decisa.

— Chi è che sta parlando? — chiese a bassa voce Carl, mettendo il proprio casco in contatto con quello di Jeffers.

— Si chiama Rostok. Saul lo ha rianimato dieci, undici mesi fa. Adesso è il numero due di Quiverian quaggiù.

— Su cosa lavora?

Jeffers fece una smorfia. — Al montaggio degli assemblaggi elettromagnetici.

— Oh, splendido. — Un ingegnere della sgomitatura. Proprio uno di quelli doveva mettersi a dare i numeri.

— Se vi avvicinate ancora non saremo più responsabili di quello che accadrà.

— Non responsabili? Che razza di merda dici?

— Ci dichiariamo indipendenti dal comando di Halley —. La voce era più tesa, secca.

— Col cavolo! — sbottò Jeffers, prima che Carl gli facesse cenno di star zitto.

— L'abbiamo già fatto. E nessun percell ci dirà quello che dobbiamo fare!

Carl respirò profondamente. Non serviva a niente scoppiare in escandescenze davanti a dei discorsi stupidi: l'aveva imparato alla maniera dura, durante tutti quegli anni. Jeffers stava visibilmente digrignando i denti; Carl gli fece cenno di star zitto. — Cosa… cosa volete?

— Non cibo — rispose Rostok, compiaciuto. — Abbiamo già montato abbastanza idroponici qui da noi, da riuscire a nutrirci da soli. Abbiamo anche trovato una bella, robusta vena di halleyforme commestibili. Davvero deliziose. Le alimentiamo col calore, e quelle non smettono mai di crescere.

Così non possiamo prenderli per fame pensò Carl automaticamente.

— Vogliamo… no, per l'inferno, l'abbiamo già, il controllo del bersaglio della sgomitata.

Jeffers balzò in piedi. — Bastardi! È la nostra apparecchiatura, il nostro lavoro che ha permesso di costruire gli sgomitatori. Rostok, tu ci hai lavorato sì e no due mesi. Il resto di noi ha costruito quei cannoni EM per anni! Che io sia dannato due volte se lascerò che qualcuno… uh!…

Jeffers cacciò un grugnito quando Carl lo tirò giù. — Parlo io.

— Possiamo farlo, Jeffers. Noi abbiamo gli sgomitatori, così saremo noi a decidere la musica.

— Non avete nessun diritto di decidere voi la sgomitata — disse Carl, con tutta la calma che poteva.

— Noi abbiamo gli sgomitatori, e noi rappresentiamo la Terra.

— Col cavolo, voi non rappresentate nessuno.

— Noi parliamo per la Terra. Non permetteremo che voi percell riportiate questa barca di pestilenze nei pressi dell'orbita della Terra.

Carl aveva sperato che, con le malattie sotto controllo, la gente sarebbe diventata più ragionevole. Pare sia servito a dare a qualcuno di loro l'energia necessaria ad essere di nuovo figli di puttana.

Aprì il discorso con un tono ragionevole. — Questo va deciso nell'ambito del consiglio. Senti, Rostok, sto per uscire. Voglio parlare faccia a faccia.

Carl si alzò e aggirò l'orlo del cilindro. C'era qualche movimento intorno a un guazzabuglio di casse all'orizzonte? Socchiuse gli occhi, poi aumentò i telescopici. Sì… delle figure stavano lavorando intorno a qualcosa, guardando dalla sua parte.

Sentì dei borbottii su un canale laterale, poi la voce chiara di Joao Quiverian: — Ti avevamo avvertito, Osborn.

Un'improvvisa folgore oscurò la fioca luce del sole. Era invisibile nel vuoto, ma proiettò delle ombre nette là dove penetrò una collinetta, lì vicino. Vi fu un'esplosione di vapore, delle pietre scrosciarono sul casco di Carl. Un geyser esplose lì vicino, quando una seconda scarica laser si spiaccicò sul ghiaccio. Carl si rituffò dietro il cilindro.

— Vi basta?

Carl sbatté le palpebre, accecato dal bagliore.

Jeffers trasmise: — Adoperano quei grossi laser industriali, le saldatrici a punti. Si tagliano le più grosse travi di acciaio, con quelle. Non si può prendere facilmente la mira, ma Gesù, se bruciano!

— Merda!

— Non fatevi più vedere qui intorno.

Un'altra vampata esplose, striando il ghiaccio lì vicino. Un gas biancoazzurro si levò, formando una sfera sempre più grande.

— Dannazione — disse Carl, cupo. — Contro quelli non possiamo neppure usare i mech… Ne perderemmo troppi. Tutti quelli che abbiamo ci servono per la sgomitata.

Jeffers fece una smorfia, poi diede la stura a una serie ininterrotta di bestemmie. — Probabilmente hanno rotto gli sgomitatori che noi abbiamo provato.

— Cosa diavolo possiamo fare?

— Pensavo che tu lo sapessi — disse Jeffers.

— Merda!

Incontri. Carl giocherellò con la sua penna, cambiando continuamente posizione sulla sua ragnatela. Puoi giudicare l'importanza di un problema dal numero interminabile d'incontri che genera.

Teneva lo sguardo puntato più che poteva sulla climaparete: lussureggianti colline che si levavano dal Lago di Como nell'Italia settentrionale, con gli sciatori d'acqua che tagliavano delle grandi V sulla superficie azzurra dell'acqua, ma doveva ugualmente apparire attento, dando ad ogni fazione la dovuta attenzione. Erano raccolti in gruppi dai confini mal definiti nella sala delle riunioni alla Centrale. L'insurrezione archista aveva riaperto la questione del bersaglio della sgomitata.

Un vaso di Pandora pensò ancora Carl, di cattivo umore. E tutto questo doveva accadere proprio adesso, prima che potessi parlare in privato alla gente importante, prima che potessi raccogliere abbastanza appoggi per quello che devo annunciare. Morse l'estremità della sua penna, un gesto nervoso che aveva preso l'abitudine di fare l'anno precedente. Con più di duecento membri dell'equipaggio rianimati, c'è un bel po' di appartenenti a ciascuna fazione. E devo permettere che tutti possano dire la loro, che esauriscano l'energia smossa da Quiverian. Il peggior momento possibile… come al solito. Andavano avanti da due ore, ormai, e i gruppi si erano schierati esattamente come aveva potuto prevedere lui.

L'idea più popolare era rappresentata dal piano originario della missione; un sorvolo ravvicinato di Giove durante il ritorno alla parte interna del sistema solare, ma prima che la cometa si avvicinasse troppo al Sole. Potevano sfiorare in profondità il gigantesco pozzo gravitazionale del pianeta come una macchina da corsa per una sterzata violenta, appropriandosi d'una velocità essenziale.

Utilizzando gli sgomitatori del polo Sud, potevano mirare il sorvolo di Giove così da trasformare Halley in una cometa a periodo breve. Ciò avrebbe potuto rendere più facile il salvataggio dallo spazio della Terra e la «mietitura» del nucleo della cometa. Quelli dell'Altopiano Tre favorivano il progetto originario, così come la robusta maggioranza dell'equipaggio dei non-allineati.

Gli Uber, i percell estremisti guidati da Sergeov, volevano una diversa variante del sorvolo di Giove. Il loro obiettivo finale, però, era effettivamente bizzarro, poiché volevano abbandonare del tutto il sistema solare interno e tornare negli spazi qua fuori. Proponevano di attivare una sgomitata a basso impulso, e durante il sorvolo passare sopra Giove, piuttosto che davanti ad esso. Ciò li avrebbe portati a descrivere un cappio verso l'esterno per un nuovo appuntamento con Nettuno. Poi avrebbero usato di nuovo lo sgomitatore per rallentare Halley e venir catturati. Diventando una luna. E di qui diffondersi su Tritone, colonizzando le rocce e il ghiaccio. Una colonia di superuomini, i quali si sarebbero sempre più perfezionati sotto un cielo quasi completamente riempito da una pallida palla verde striata da nubi di metano.

Due progetti radicalmente diversi, ma che esigevano entrambi un appuntamento con Giove nel 2135. L'astronomia consentiva parecchie destinazioni diverse partendo da quel mondo gargantuesco.

Gli spaziali dell'Altopiano Tre e gli Uber di Sergeov erano uniti nella loro necessità di un sorvolo di Giove, ma si trattava di un'alleanza assai traballante. Essi differivano su un gran numero di altre cose, e si scambiavano occhiate guardinghe.

Carl aveva controllato di persona i fabbisogni della missione, non fidandosi dei calcoli di nessuno. Ci sarebbe voluta una variazione di velocità, un cambiamento nell'attuale velocità di Halley, di 284 metri al secondo durante la sgomitata, diretta secondo una angolazione di 72 gradi nord dal piano dell'eclittica. Non tanto facile. Ma comunque possibile, utilizzando i propulsori situati al polo Sud.

Le società medioevali baruffavano su astruse questioni teologiche… e noi adesso stiamo litigando per la linea di mira dei vettori. Ugualmente inutile, forse…

L'ironia dell'alleanza Uber-Altopiano Tre era che adesso gli archisti avevano distrutto entrambe le scelte.

Per riuscire a compiere un buon sorvolo di Giove al punto giusto della ricaduta verso l'interno, avrebbero dovuto assolutamente usare gli sgomitatori del polo Sud. E gli archisti volevano ad ogni costo mantenere la Terra nelle condizioni originarie, al sicuro da ogni contaminazione dovuta ad Halley. Se il sorpasso di Giove fosse riuscito male nelle ore del massimo avvicinamento, Halley avrebbe potuto venir scagliata nelle profondità del sistema solare interno. Gli archisti non avrebbero mai accettato una manovra che avrebbe portato Halley vicina al mondo nativo. Per evitare quella possibilità, avrebbero rifiutato l'uso del polo Sud, a meno che non fossero stati loro ad avere il controllo della manovra. Quiverian e i suoi fanatici avrebbero preferito morire nello spazio profondo piuttosto che lasciarlo fare a qualcun altro.

Carl interpretava i segnali, e sapeva che la situazione era prossima alla guerra. Se qualcosa non fosse stato escogitato al più presto, ci sarebbero stati dei morti. Così, Carl aveva trasmesso una spruzzata di notizie supercompresse alla Terra non appena era tornato… e aveva ricevuto una conferma. Doveva offrire una buona occasione di scelta al consiglio, adesso, prima che le lotte intestine rendessero impossibile qualunque compromesso.

Anche se potessi indorargli la pillola… Aspettò la prima, spontanea interruzione dei discorsi. Adesso la climaparete mostrava uno «sloop» che bordeggiava in mare aperto, la sua solenne virata non era per niente ostacolata dalle luccicante onde azzurro-acciaio che martellavano senza pietà o effetto. Le sue vele si gonfiavano trionfanti, d'un bianco vivido sotto un aspro cielo gelido. Sta virando a babordo pensò. Dal modo in cui si muove…

Lasciò che le discussioni continuassero per un po'. E quando sopraggiunse il silenzio della confusione e del dubbio, come sapeva che sarebbe accaduto, si alzò in piedi e cominciò a parlare. Colse e trattenne a turno lo sguardo di ogni capofazione: Otis Sergeov senza gambe, sospeso in aria, con le braccia inflessibilmente incrociate sul petto; Joao Quiverian, lì presente grazie ad una tregua temporanea, più tetragono che mai, con gli occhi ardenti; Jeffers, che rappresentava il gruppo della Via Marziana, magro e sardonico. E gli altri, che non avevano nessuna particolare politica, ma volevano una possibilità di vita.

Carl parlò lentamente, comunicando più con i gesti e l'espressione che con le parole le speranze che aveva, la richiesta di fiducia, di solidarietà, davanti a quella nuova minaccia.

— Questa missione era stata progettata avendo come punto centrale un rimbalzo al di là di Giove. È per questo che abbiamo piazzato al polo Sud dei propulsori che adesso sono inutilizzabili.

Ciò metteva Quiverian in una posizione difficile. Gli altri fissarono furiosi l'olivastro brasiliano. Naturalmente, Carl non aveva fatto esplicitamente il suo nome. Proseguì in fretta, prima che Quiverian potesse interromperlo.

— Ma la sgomitata del polo Sud non è la nostra unica scelta. — Azionò una linguetta sulla sua manica, e una mappa comparve sullo schermo principale della Centrale. — Basterebbe una sgomitata relativamente semplice a raggiungere la Terra medesima. Un cambio di velocità di soli sessantatré metri al secondo, puntato a circa quaranta gradi sud e a quasi novanta gradi dal Sole ci porterebbe a casa.

Gli uomini e le donne si agitarono, un'ampia gamma di differenti emozioni guizzò sui loro volti. A casa.

— Ma per farlo con l'indispensabile precisione è necessario che prima rendiamo più dritta l'orbita di Halley. Ci arcueremo di nuovo nei pressi della Terra, una manovra ideale per balzare via in fretta e salvarci… ma soltanto dopo il passaggio al perielio. Dovremmo superare quella terribile tempesta. Potete tirare tutti a indovinare quanti di noi riuscirebbero a sopravvivere alla piena estate su una cometa.

Aveva lasciato che le espressioni corrucciate e gli sguardi torvi s'intensificassero. Adesso li disinnescò. Quiverian, rosso come una barbabietola, stava aprendo la bocca.

— Naturalmente il Controllo sulla Terra potrebbe offendersi un pochino…

Si guardarono fra loro, sbatterono gli occhi tutt'insieme, ed esplosero in una fragorosa risata. Il loro riso rilasciò un po' della tensione che si era andata accumulando. Naturalmente, la Terra non avrebbe mai acconsentito a un piano che avrebbe portato le spore delle halleyforme vicino all'atmosfera. Perfino Quiverian si era leggermente rilassato, quando fu chiaro che Carl non aveva parlato sul serio.

— Ci sono altre alternative a Giove — continuò Carl. — Potremmo tentare Venere, balzare via nelle aerolance, decelerare nell'alta atmosfera. Ma ancora una volta dopo il perielio, e potremmo non sopravvivere andando a sbattere in quell'atmosfera a ottanta chilometri al secondo, o giù di lì.

Gratificò l'intera adunanza d'una lunga e penetrante occhiata. Il capitano Cruz l'avrebbe fatto nella maniera giusta pensò. O forse lui avrebbe messo fine a tutta questa suddivisione in fazioni già da molto tempo. Non sarò mai il leader che era lui.

— D'altro canto, esiste un rendez-vous che ci potrà permettere di arrivare a un pianeta prima del perielio, e ad una velocità inferiore… un incontro con Marte.

Un movimento d'incredulità. — Marte?

— Vuoi dire, mirare…?

— Non sapevo che si potesse anche soltanto…

Carl si affrettò a proseguire, senza dare a nessuno la possibilità d'interromperlo:

— Sentite, non possiamo permettere che una singola fazione controlli il nostro destino…

— E noi non consentiremo l'uso del polo Sud, a meno che non siamo noi ad avere il controllo! — urlò Quiverian.

Carl protese le mani con i palmi rivolti all'insù, aperte. — D'accordo. Ciò significa che dovremo abbandonare del tutto il sorvolo di Giove. A questo punto la miglior manovra possibile richiede un passaggio dentro il sistema solare interno, ma senza avvicinarsi alla Terra. Possiamo invece dirigere la sgomitata verso Marte. L'incontro vero e proprio non farà deviare molto Halley, ma ci darà la possibilità di balzar via.

Alcuni fra gli specialisti scossero la testa. Carl proseguì, prima che le obiezioni cominciassero a fioccare.

— Costruiremo degli aerofreni e ci tufferemo nell'atmosfera marziana. È sottile ma assai estesa, un buon bersaglio per noi, specialmente poiché un incontro con una qualunque atmosfera planetaria sarà dannatamente veloce.

Uno spaziale chiese: — Perderemo abbastanza velocità con un solo passaggio?

Domanda sagace. — No. Dovremo fare parecchie manovre. — Le enumerò sulle dita: — Aerofreneremo a Marte, devieremo verso l'esterno in direzione di Giove. Lassù aerofreneremo di nuovo, con l'aiuto della gravità. Torneremo all'interno fino a Venere, gli gireremo intorno, punteremo di nuovo verso Marte. A questo punto avremo perso abbastanza velocità da realizzare con successo, frenando, un vero rendez-vous nell'atmosfera di Marte. Potremo uscire con le aerolance quando saremo al fianco di Phobos.

Un lungo silenzio. Tutti lo fissavano.

— Ma… — bofonchiò Keoki Anuenue. — Quanto ci vorrà?

— Vent'anni.

Rantoli.

Carl alzò la voce, sovrastando il brusio: — Saranno venti in aggiunta ai quasi ottanta che a quel punto saranno già trascorsi. Ma varrà la pena di arrivare alla base di Phobos, alla salvezza e forse, col tempo, potremmo anche tornare a casa. Devo aggiungere che questo progetto ha l'approvazione del Comando Terrestre.

Una donna dell'Altopiano Tre esclamò con rabbia: — Cosa ne sarà, poi, di Halley?

Carl scrollò le spalle: — JonVon ci mostra che rotea via verso il sistema esterno, tornando infine alla sua dimora originaria nella nube di Oort, scomparendo laggiù per sempre.

Jeffers disse, soprappensiero: — Potremmo far puntare Halley dritta su Marte, dandogli un'atmosfera!

— Ma certo — ribatté Sergeov, — e tentare l'aerofrenaggio allo stesso tempo… Impossibile!

Jeffers cominciò: — Ma… — Smise di parlare quando notò Carl che gl'indicava di star zitto.

— È una possibilità per vivere — dichiarò Carl, con enfasi. — Se tenteremo l'aerofrenaggio e guideremo Halley per ottenere la condizione ottimale. Qualunque altra cosa è un suicidio.

— Cosa possiamo aspettarci su Marte? — domandò Quiverian, sospettoso.

— La quarantena. Forse la Terra ordinerà che si venga isolati su Deimos. Lasceranno che i medici ci studino fino a quando la Terra non sarà sicura che queste malattie sono controllabili.

Un altro lungo silenzio. Stavano valutando tutti quell'idea, cercando di assimilarla.

— È possibile? — chiese Sergeov, corrugando la fronte.

Carl scrollò le spalle. — Potrebbero non permetterci mai di entrare nello spazio della Terra, non che questo possa infastidire gli Uber, eh? Ricordate, comunque, che esistono luoghi accettabili in cui vivere, nelle piccole colonie scientifiche degli asteroidi. Forse potremo svolgere qualche utile lavoro pionieristico sullo stesso Marte.

Jeffers replicò, radioso: — Giusto, dannazione.

Carl sollevò una mano. — Ancora una cosa. Il Comando Terra è molto favorevole a questo piano. Ha fatto della sua accettazione una condizione perché noi possiamo ottenere il Pacco Assistenziale.

Questo colpì nel segno. Il razzo ad alta velocità che portava i rifornimenti era il tassello centrale della loro nuova speranza. Dovevano averlo.

Carl spiegò ulteriormente la cosa con un po' di grafici che JonVon aveva messo insieme con soltanto pochi minuti di preavviso. Il Consiglio ascoltò con glaciale, ma crescente accettatone. Quanto meno, pareva che l'idea fosse possibile.

Complicata, sì. Difficile e rischiosa, sì. Ma possibile.

E forse la sola possibilità.

Carl restò in piedi. Mantenne il suo umore grave ma comprensivo, deciso ma flessibile. E ad una ad una le fazioni espressero i propri ristretti punti di vista.

Quelli dell'Altopiano Tre trovavano sgradevole l'idea di buttar via Halley, dopo averla conquistata con tanta fatica… ma erano abituati a seguire il suo esempio.

Gli Uber brontolarono alquanto, ma ammisero di non avere nessun'altra scelta.

Jeffers e i pochi spaziali che erano rimasti aggrappati al proprio sogno di terraformare Marte, erano travolti dalla gioia. Avrebbero potuto lavorare vicino a Marte, forse dando inizio alla crescita della prima vegetazione su quel mondo arido e rugginoso.

Gli archisti non erano del tutto felici. Diffidavano di Carl. Ma questa sua scelta teneva Halley abbastanza lontana dalla Terra. E l'approvazione del Controllo della Terra gli dava un certo peso.

Durante tutto quell'incontro Carl sentì scorrere le tenebrose correnti sotterranee dei percell e degli ortho, ma adesso ammutolite dal futuro angusto e squallido che si parava loro davanti. La maggioranza dell'equipaggio apparteneva a un gruppo che lui aveva definito dei sopravvissuti, giacché alla fine era questo che importava a tutti più di ogni altra cosa.

Molto sensato pensò, alquanto mesto. E io sono il loro naturale alleato… anche se in realtà non credo che usciremo mai vivi da qui…

Guardò lo sloop che correva davanti al vento, le sue vele rigonfie e d'un bianco impossibile, la sua prua che fendeva le acque, tagliente e sicura.

E gradualmente, con riluttanza, le fazioni accettarono.

Finalmente il Consiglio si sciolse, con riluttanti assensi. Avrebbero cercato di raggiungere Marte.

Finalmente Carl si sedette, sentendosi cogliere da una stanchezza improvvisa.

Gli archisti hanno ragione. Non possono fidarsi di me. So che questa faccenda di Marte non andrà per il verso giusto, ma in questo momento è politicamente necessaria. Necessaria per impedire una guerra civile. Per ottenere il Pacco Assistenziale. Le dure verità possono arrivare più tardi. Scosse la testa. Sto diventando un dannato diplomatico. Non ragiono più come uno spaziale, neppure come un ingegnere. Cristo! La prossima volta indosserò la cravatta nera e lo smoking. E quando mi guarderò allo specchio, la lingua che vedrò sarà biforcuta.

VIRGINIA

Il macchinario cominciava ad apparire vecchio. L'originaria rifinitura di vernice lucida era sbiadita già da molto tempo, al punto che era difficile leggere ancora i nomi dei costruttori. Erano stati sfregati fino a diventare del tutto illeggibili dopo trent'anni di pulizie.

Ozymandias, il mio nascondiglio segreto. Virginia lanciò un'occhiata all'angolo del laboratorio alle sue spalle, dove la piccola Wendy sedeva paziente, assorbendo un rivoletto di corrente da una presa alla parete. Il minuscolo mech addetto alla manutenzione pigolò una volta e fece per alzarsi, ma quando Virginia non disse niente, tornò a sedersi.

È strano come per un po' non ci si accorga delle cose, e poi d'un tratto queste ci colpiscono con forza. Erano passati quasi due anni, da quando Virginia era stata scongelata e riportata in servizio, eppure durante tutto quel tempo non aveva prestato la minima attenzione a Wendy. Aveva avuto troppo da fare.

Adesso contemplava il piccolo mech, confusa.

Trent'anni. Ha pulito, ha accudito al mio personale rifugio, sorvegliandolo, tenendo le cose proprio come le avevo lasciate io.

Forse Saul ha ragione. Forse faccio un buon lavoro.

Sorrise.

Attenta, ragazza. Continua così e comincerai davvero a immaginare te stessa come una dea, come quelle povere creature, ormai quasi del tutto non più umane, che hanno seguito Ingersoll dentro le più profonde caverne, che s'inchinano davanti ai miei mech e li chiamano per nome. Gli ultimi due anni avevano significato tanto di quel lavoro per lei, per Saul e per Carl. Rimase colpita dal fatto che non aveva dedicato nessun tempo per soffermarsi a pensare a ciò che era capitato a tutti loro.

Bel terzetto che siamo. Nessuno di noi era importante ai tempi in cui viveva il capitano Cruz, e si trattava di un'unica, grande e felice spedizione di ricerca. Carl era soltanto un sottufficiale, io ero un tecnico cadetto specializzato in intelligenza artificiale e Saul era un dottore con una strana passione per i microbi.

Adesso il povero Carl è qualsiasi cosa passi per comandante, oggi. Io sono la donna-ragno che manda fuori la ragnatela dei fuchi per rattoppare le gallerie e tenere sotto controllo la poltiglia. E Saul…

Fece una pausa di riflessione. Di tutti noi è quello che maggiormente è cambiato. Signore, spero di non perdere un bravo uomo per ritrovarmi con una divinità.

Si era mostrato così preoccupato di recente. Quasi ossessionato. Riluttante a collegarsi con lei nell'intimo tocco dell'amplificazione neurale. Come se mi nascondesse qualcosa… e volesse proteggermi da qualcosa che sente non capirei mai.

Alla fine erano arrivati ai ferri corti. La settimana precedente si era sfogata, gli aveva gridato addosso in preda alla frustrazione. Da allora, lui le aveva lasciato pochi, concisi messaggi, i suoi mech l'avevano visto nei coridoi, ma a tutti gli effetti avrebbero potuto benissimo essere su due diversi pianeti.

Tutt'intorno a lei le immagini olografiche brillavano debolmente. Perfino alcune unità che si erano guastate durante il suo lungo sonno erano state sostituite, adesso che lei e Jeffers erano riusciti a far funzionare a dovere la fabbrica automatica al Livello A. Forse per la prima volta dal suo risveglio non brillava nessuna luce rossa di allarme.

Sostò a lungo con lo sguardo sulla macchina bio-organica Kelmar, per portare a bordo la quale avevano utilizzato una buona metà della sua quota-peso… tanto tempo fa. Il cuore del suo computer bio-cibernetico.

— JonVon — bisbigliò, — ho bisogno di distrarmi un po' dai miei guai.

C'erano cose che aveva avuto l'abitudine di fare, per divertirsi, e da anni non aveva più avuto il tempo di dedicarsi ad esse. Ma adesso…

— Vediamo un po' quanto sono arruginita nella simulazione visiva — disse a bassa voce, e schiacciò il pulsante sulla placca identificatrice del Kelmar. Uno schermo si accese.

Allora, Virginia, qualcosa di più della solita routine, oggi?

Lei scosse la testa. — Spassiamocela un po' come ai vecchi tempi.

Passò quindi alcuni momenti ad attivare interruttori e a calibrare il sistema, prima di applicarsi il logoro disco del suo connettore neurale. Si era talmente abituata al flusso diretto dei dati, a controllare o a programmare mech remoti come se fossero parte del proprio corpo, che le ci vollero alcuni minuti per tornare al modo sperimentale, «sintetico», che un tempo era stata la sua tecnica speciale per interagire con JonVon.

Ma JonVon lo ricordava, Virginia dovette soltanto desiderarlo, ed esplose un arcobaleno di luce… la risplendente tavolozza di un artista.

Mi sono dimenticata i colori! Come ho potuto rimanere lontana da tutto questo per tanto tempo?

Virginia costruì nuvole rosa sopra un placido mare azzurro-verde. Creò sette palle multicolori e le fece lanciare da mani immaginarie con la destrezza di un giocoliere, qualcosa che non sarebbe mai riuscita a fare sul piano «reale».

Siamo in gran forma oggi, Virginia.

Lei sorrise. — Già, siamo proprio in gran forma, JonVon. Dovrò scendere dentro di te per vedere cos'hai combinato con il tuo software di simulazione.

Mi sono dato molto da fare. Durante la mia malattia ho avuto troppe distrazioni per parlartene. Comunque, ci sono stati alcuni risultati interessanti. Sono un libro aperto per te. In qualunque momento tu sia pronta.

— Più tardi. In questo momento voglio soltanto giocare un po'.

Non era soltanto nella simulazione visiva che JonVon aveva fatto progressi. Soltanto i suoi orecchi addestrati sapevano cogliere i piccoli segni nelle sue parole, nel giro delle frasi e nella loro cadenza, che indicavano come fosse ancora lontano da un essere intelligente. Altrimenti, la sua voce avrebbe potuto facilmente essere quella d'una creatura vivente.

Virginia si gingillò con le immagini, facendo spalancare davanti a sé il vasto mare illuminato dalla luna. Un banco di pesci volanti. Delle noctiluche sfavillavano sulla scia ribollente di un'ombra misteriosa, appena sotto la superficie.

Ne provò una sensazione piacevole. Qui, all'interno della macchina, non c'era nessuna di quelle crisi torbide e confuse che assillavano tutti loro all'esterno. Qui, niente poteva spaventarla. Era troppo simile a casa sua.

Signore, come mi mancano le Hawaii.

Virginia creò una focena nell'acqua la quale, giocosa, ciangottò e la spruzzò. La simulazione era così vivida che le parve quasi di sentire le goccioline.

Quanto tempo è passato da quando Saul ed io abbiamo fatto all'amore collegati in questo modo?

Soffocò il pensiero.

Tenteremo di modellare una personalità, oggi, Virginia?

Lei scosse la testa. — No, JonVon. Dopo tanto tempo non sono ancora pronta a tentar di nuovo una cosa del genere. Ti dico una cosa, però. Facciamo passare una simulazione della sgomitata gravitazione trasmessaci dal Controllo Terrestre. Quella per la quale Carl ha fatto votare il Consiglio la settimana scorsa. Hai esaminato la copia che ho inserito ieri?

Sì, Virginia. Vuoi un grafico? Le cifre? Oppure una simulazione onnisensoriale con estrapolazione?

— Onnisensoriale, JonVon. Voglio cavalcare la cometa… vedere come sarà fra quarant'anni, quando apriremo i colombari e ci troveremo vicini a casa.

Casa pensò. Ottant'anni di cambiamenti. Chissà se anche soltanto si ricorderanno di noi?

A Virginia parve quasi di percepire la corsa frenetica degli elettroni superraffreddati mentre la sua controparte faceva i propri preparativi.

Pronto a iniziare la simulazione, Virginia. Per favore, dammi le condizioni iniziali.

— Comincia con la sgomitata. Con gli sgomitatori equatoriali in funzione secondo il programma del Controllo Terrestre.

Si abbandonò lunga distesa, mentre le nubi e il mare scomparivano. Anche la focena svanì, con un ultimo ciangottio di sfida all'ultimissimo istante.

La tenebra s'insediò tutt'intorno, comunicandole una sensazione di profondità che si estendeva verso l'esterno, fin là dove le stelle sfavillavano a miriadi. E sotto quel panorama di stelle si formò un'immagine… un grigio striato di bianco contro lo sfondo nero. Era la scena ormai familiare del ghiaccio polveroso sulla superficie della cometa.

JonVon mostrò i nuovi lanciatori, ottimisticamente raffigurati come ormai condotti a completamento all'equatore di Halley. Non sarà un lavoro da poco costruire dei nuovi acceleratori per sostituire quelli di cui si sono impadroniti gli archisti. Non ci saremmo mai riusciti senza la tecnologia di Phobos.

Disposti ad anello intorno all'equatore dello sferoide allungato, quei cannoni dalla canna stretta cominciarono a sparare, scagliando proiettili di ferro-nickel nativo nello spazio a consistenti frazioni della velocità della luce, cambiando lentamente, in maniera impercettibile, la direzione dell'antica palla di ghiaccio alla quale erano ancorati.

Non c'era nessuna sensazione di movimento, ma Virginia s'identificò con le minuscole figure simulate che saltavano, agitando le braccia, sulla superficie. L'averle inserite era stato un tocco simpatico di JonVon, giacché sarebbe stata appunto quella la scena: giubilanti lavoratori in tuta spaziale che facevano salti di gioia quando finalmente s'iniziava la sgomitata che avrebbe lanciato la cometa sulla nuova orbita. Servendosi di segnali naturali lievi quanto il movimento d'un braccio, Virginia lasciò che la sensazione della sua presenza fluttuasse verso l'alto per osservare meglio la simulazione. A mano a mano che la sgomitata procedeva, seguì il blocco di ghiaccio che cambiava traiettoria.

Qui, con l'afelio ancora a quattro anni di distanza, a poco a poco l'antica orbita di Halley cambiava. I propulsori la derubavano un po' per volta del suo impulso angolare, inducendola ad iniziare la sua lunga caduta verso il Sole con qualche anticipo rispetto a quando l'avrebbe fatto normalmente. Dapprima la velocità della cometa verso l'interno era piccola, ma crebbe.

Virginia sapeva che intrinsecamente quella simulazione non era più accurata di quella che Carl aveva usato, soltanto più vivida. Lei voleva che ogni cosa fosse rappresentata con le immagini. Grafici e numeri, semplicemente, non erano la stessa cosa.

Cavalcava la cometa, le stelle ruotavano lentamente a mano a mano che la scala del tempo si ampliava e gli anni scorrevano via veloci. Lei e Halley stavano cadendo insieme verso la cuspide al centro del sistema solare.

Sulle prime, si registrarono pochissimi cambiamenti sulla superficie del nucleo della cometa. Quel mantello butterato e polveroso luccicava con le sue vene sottili, come la Via Lattea che scintillava più sopra.

Ma il calore crebbe. Halley precipitava verso di esso e il fuoco del Sole si levò a incontrarla.

Gli antichi ghiacci sublimavano sotto quel crescente calore. Prima l'ossido di carbonio, quando il nucleo superò sfrecciando l'orbita di Giove, e più tardi l'anidride carbonica. I vapori che sfuggivano sollevavano una polvere nera, impalpabile, che andava incontro al fulgore crescente del Sole. Cominciò a formarsi una nebbia sottile.

La resa delle immagini era vivida. Virginia osservò il formarsi delle code di polvere e di atomi ionizzati che risplendevano debolmente, come spettrali stendardi che si dispiegassero alla luce crescente.

Duecento e più volte quella roteante palla di ghiaccio era caduta in quella direzione, sin da quella prima volta quando, essendo passata troppo vicina a Giove, era stata intrappolata nel sistema solare mediano. Da allora era rimasta legata al Sole da un guinzaglio più corto della maggior parte delle comete.

Lo spazio era vasto, e da quel quasi-sfioramento con la gravità del pianeta gigante, la cometa non aveva mai più incontrato un altro oggetto fisico che non potesse assorbire: granelli di polvere, pezzetti di roccia alla deriva nello spazio, tutti erano andati a finire dentro la scia sfrecciante di Halley, pagandone il prezzo.

Ma la sgomitata aveva fatto in modo che ci fosse un altro incontro. Qualcosa di più piccolo di Giove, ma troppo grande per poterlo assorbire: questa volta sarebbe passata incredibilmente vicino, mentre il nucleo di Halley saettava verso l'interno.

Ed eccolo là! Un puntolino di luce rossa, subito davanti a loro.

Marte pensò Virginia. Giusto in tempo. Pronto per una piccola operazione di rimbalzo?

JonVon riconobbe la domanda retorica. Comunque, la macchina era troppo impegnata per rispondere, adesso che l'incontro ravvicinato era ormai prossimo. Quello era il compromesso del Controllo Terrestre, il loro piano per salvarli senza rischiare contagi per il mondo nativo.

Devo ammettere che non mi aspettavo neppure questo, da loro.

Sicuro, la pressione dell'opinione pubblica, sulla Terra, era una delle ragioni principali per l'invio del Pacco Assistenziale, che adesso era soltanto a pochi mesi di distanza dal rendez-vous con il loro piccolo, isolato avamposto di umanità. Tuttavia, dopo tutti quegli anni, Virginia era diventata cinica per quanto concerneva le intenzioni del Controllo Terrestre… ciò che il Controllo progettava davvero nei loro confronti.

Mi sarei aspettata che ci ordinassero di suicidarci in maniera «onorevole» e senza chiasso, come dovrebbero fare dei piccoli e diligenti portatori di pestilenze.

Il pianeta rosso si profilò davanti a loro. Virginia chiese a JonVon di fare una zoomata dei dettagli, rallentando l'azione a mano a mano che lei e la cometa si avvicinavano all'appuntamento.

Virginia sfrecciò avanti, precedendo Halley, per dare un'occhiata al pianeta. Il polo ghiacciato del pianeta morto comparve per primo alla sua vista.

Le sabbie rosse stavano soffiando sopra Cydonia. I vulcani dello Scudo erano foruncoli da lungo tempo assopiti, che giungevano quasi a spuntar fuori dalla sottile atmosfera, ricoperti lungo i fianchi da sottili ciuffi di aride nubi.

Phobos si levò da dietro il bordo di quel piccolo mondo. La minuscola luna era una pietra butterata, sfavillante di luci, che passò roteando accanto a Virginia per poi balzare sopra l'orizzonte color ocra.

Brava gente. Il suo pensiero andò alla popolazione della stazione di Phobos. Peccato che non gli sia mai stato permesso di diventare una vera e propria colonia. Forse noi potremmo aiutarli su questo punto.

Guardò dietro di sé e vide la cometa che si avvicinava, come gli uomini e le donne di Phobos l'avrebbero vista fra trentotto anni.

Dovrebbe essere uno spettacolo non da poco per quella gente… Halley che passa loro accanto, così vicina da poterla quasi toccare. Marte deve passare attraverso la parte densa della coda perché la sua debole gravità possa ghermire le nostre aeroscialuppe di salvataggio. Eppure non si può permettere che il pianeta e la cometa si avvicinino talmente l'uno all'altro da sbatter fuori rotta le nostre navicelle a causa della turbolenza.

Nella simulazione, Halley stava dando un grande spettacolo di sé. Niente di simile al fantasmagorico scenario che avrebbe sfoggiato in prossimità del Sole, naturalmente; ma le code gemelle avevano cominciato a dispiegarsi, e la chioma brillava come una nube sfocata di lucciole.

La simulazione era eccellente. JonVon raffigurava perfino le luci di Phobos che si spegnevano a mano a mano che i lavoratori coprivano gli accessi, chiudendo ermeticamente i boccaporti. Per qualche giorno ci sarebbero stati troppi meteoriti per rischiare di avventurarsi all'aperto. Un piccolo prezzo da pagare, comunque, davanti alla possibilità di salvare trecento anime. Per lo meno Virginia sperava che sarebbero stati animati da un simile modo di sentire.

Trecento persone in quarantena su Marte… quello avrebbe potuto essere sufficiente per dare inizio a una colonia. Non era mai stato uno dei suoi sogni quello d'insediarsi in un deserto color rosso-ruggine, ma quel piano batteva ogni altra alternativa. E sarà piacevole percepire di nuovo la gravità, camminare e, forse, perfino nuotare in una piscina protetta da una cupola.

Non sarà Maui, ma potrei abituarmi all'idea di essere una marziana.

Lo spazio che li separava diminuì. La superficie di Halley parve spumeggiare quando dei punti caldi vomitarono fontane di gas e di polvere nello spazio, accrescendo il fulgore della chioma.

È uno scherzo della prospettiva? Oppure passeremo davvero così vicini come sembra?

Scintille scoccarono quando minuscoli oggetti si separarono dalla testa della cometa con silenziose esplosioni.

Le zattere di salvataggio. Corazzati contro la polvere e il dolore, i colombari, avvolti negli scafi delle aerolance, si sarebbero staccati da Halley. Minuscoli razzi controllati dai mech aumentavano rapidamente la distanza, guidando i coloni in ibernazione verso il loro primo, fiammeggiante incontro con l'atmosfera del pianeta rosso.

Virginia arretrò ancora, dando spazio alla simulazione.

Tutta la Terra assisterà a questo spettacolo. Gli abitanti di Phobos non saranno i soli a goderselo.

La chioma nebbiosa di Halley pareva toccare il pianeta. Virginia sbatté le palpebre.

Qualcosa non va. Come può…

La chioma cominciò a distorcersi, a perdere la sua forma, compressa dall'urto delle onde soniche quando il globo gassoso incontrò la sottile atmosfera del pianeta. Il gas ionizzato piegò verso l'esterno, lontano dal debole campo magnetico di Marte.

Il punto scintillante del nucleo stesso, un trilione di tonnellate di ghiaccio, si spinse in avanti, senza trovare nessun ostacolo in qualcosa di così tenue come un involucro di gas o un campo magnetico. Cadde davanti alla propria nube, cominciando ad ardere ancora più luminoso.

NO…

Le onde d'urto di prua si moltiplicarono attraverso i gas espandendosi in diversi coni. Percependo che Virginia voleva seguire l'azione, JonVon rallentò l'incontro mentre il nucleo di Halley sparpagliava le minuscole scialuppe di salvataggio come granelli di polline e proseguiva a tutta velocità verso il più ravvicinato punto di passaggio.

Il più ravvicinato punto di passaggio…

Il nucleo si spezzò. E continuò a spezzarsi. Quattro frammenti saettarono obliqui verso l'interno, adesso la loro scia attraverso l'atmosfera marziana era incandescente. Poi colpirono il piccolo mondo.

Un pezzo parve rimbalzare all'estremità del pianeta, come un martello che destasse faville scagliandole nello spazio. Pennacchi di polvere turbinavano dove quel frammento ampio un miglio aveva toccato per un attimo il suolo.

Un grosso frammento centrò in pieno il monte Olympus, troncando il lato sinistro del grande vulcano con una titanica, accecante esplosione.

Simulazione o no che fosse, Virginia sbatté di nuovo le palpebre per escludere l'immagine postuma di quel lampo. Quando riuscì a guardare di nuovo, quella serie di avvampanti esplosioni si era trasformata in tante nubi arancione che si andavano allargando. La sottile atmosfera s'increspava e turbinava come una pozza poco profonda dentro la quale fossero stati sparati dei proiettili.

Dei terremoti scuotevano le antiche sabbie. Sotto la superficie di Marte il permafrost si deformava e fondeva. Virginia immaginò di poter sentire l'agitarsi del magma.

Era troppo stupefatta per riuscire a fare qualcos'altro se non guardare, incredula. Cercò le piccole aerolance, e ne trovò una, due, che ruzzolavano via verso il Sole. Altre lampeggiarono per brevi attimi quando colpirono le turbinanti nubi di polvere, avvamparono e si spensero.

Alcune erano semplicemente scomparse.

Avrebbe dovuto essere un rimbalzo gravitazionale! Un passaggio ravvicinato! Il Controllo Terrestre non ha mai detto niente di tutto questo!

Carl non ha mai detto niente di tutto questo!

Inconsciamente, impose al proprio io simulato di sfuggire alla luce, di sfuggire alla faccia ardente illuminata dal Sole di quel crogiolo di roccia.

Marte precipitò lontano mentre lei fuggiva verso l'esterno lungo la sua ombra. Visto dalla sua faccia oscurata, il pianeta era una sottile mezzaluna di vento rosso, tinto di fiamme. Su un lato della mezzaluna spuntò una pira rosata. Il dio della guerra rispondeva alla violenza del firmamento con la violenza dei propri vulcani.

Non richiesta, per niente benvenuta, una strofa di Shelley le venne alla mente:

Guardate le mie Opere, o Potenti, e disperate!

Virginia si disinnescò, con le mani che le tremavano mentre si staccava di dosso il contatto. Nella sua mente, tuttavia, la scena continuava. L'immaginazione proseguiva, simulando ciò che era previsto fra trentotto anni nel futuro, visualizzando il Sole come si sarebbe levato il mattino dopo quell'incontro, per risplendere sopra una giornata umida e nuvolosa su Marte.

E più tardi, almeno per un po', ci sarebbe stata pioggia.

SAUL

Fetide sostanze chimiche pisolano
in mezzo alla melma primordiale,
carbonio, ossigeno, calcio,
fosforo e tempo.
È così che sono cominciate le tristezze.

Era una vecchia canzone cantata dai biologi del ventesimo secolo quando avevano occasione di alzare un po' il gomito. Saul l'aveva imparata in Inghilterra, durante un piovoso inverno a Cambridge. Gli pareva giusto che dovesse venirgli alla mente proprio adesso, mentre una bottiglia di terracotta sbatteva e sobbalzava sulle sue ginocchia e lui si trovava seduto nel corridoio fiocamente illuminato appena fuori del suo laboratorio, intento a provare un rimedio polinesiano contro ciò che lo tormentava.

Keoki gli aveva fornito quella bottiglia di liquore fatto in casa, dicendogli solennemente: — Tu hai bisogno di ubriacarti, Saul. — E naturalmente l'amico aveva ragione.

Le cose erano, oh, così pulite,
su questa nave,
poi i virus si sono arrampicati a bordo,
dapprima un'orda masticante,
con un gene vorace.

Quella canzonetta aveva un ritornello, con una cadenza in stile jazz:

Quel vecchio virus ha
cospirato contro di noi
e ci ha messi in ginocchio.

Ci ha mandato una febbre
più sottile d'una mannaia.
Contagiami per favore.

Vieni a giocare con me,
un'antologia
di malattie istruttive.

Tanto vale che faccia l'ospite.
No, non render l'anima
quando le tue cellule sono sotto torchio.

Saul annuì saggiamente. — Ecco, visto? Conoscevano la simbiosi perfino negli anni Ottanta, quando non erano ancora sicuri di trovarsi nel Secolo dell'Inferno. Questo dimostra che non c'è mai niente di nuovo sotto il sole.

Nessuno era là ad ascoltarlo, naturalmente. Alla fine aveva rimandato Keoki a casa… a quest'ora le mogli del grosso hawaiano dovevano essere preoccupate per lui. Saul aveva garantito al suo amico che sarebbe andato dritto a dormire, e così Keoki se n'era andato, affidandogli il compito di cercare di tirarsi su.

In realtà, in quel momento il sonno non faceva parte delle sue prospettive. Saul se ne stava lì, seduto, centellinando la bottiglia. Non si era mai sentito così lontano da casa.

In senso stretto, fra quattro anni saremo all'afelio e ci dirigeremo di nuovo verso la Terra. Ma in quel momento la dinamica orbitale non occupava la mente di Saul.

Lei non approverà mai si disse.

Oh, davvero? Ma come fai a saperlo, se non glielo chiedi?

A dire il vero, lui aveva, semplicemente, paura… paura di ciò che Virginia poteva pensare dei suoi più recenti esperimenti. Le cure miracolose erano una cosa. Gli esperimenti con gli animali e le piante… bene.

Ma fra i doni giunti dalla Terra c'erano dei dati sulla crescita forzata del corpo umano. Era come Houdini sfidato da un nuovo tipo di serratura, oppure un pittore davanti a una tela vuota. Il bisogno era là… la sfida irresistibile.

Come fai a sapere quello che direbbe Virginia? Forse, non dovresti dormire in un laboratorio freddo e solitario.

Saul rabbrividì, e seppe di essere troppo codardo per metterlo alla prova.

Ah… ma se avesse potuto fare un dono al suo amore? Un dono della cosa che maggiormente voleva al mondo? Una cosa che si era rassegnato a non avere mai?

Una notte, molte settimane prima, mentre lei giaceva sprofondata in un sonno esausto, lui aveva prelevato i campioni che gli servivano.

Da Lani, dalla fidata Lani, aveva ottenuto il deposito segreto di ovuli umani e di sperma che lei aveva contrabbandato dalla Terra. Adesso, aveva tutto il materiale che gli serviva.

Ma da quel momento aveva esitato… fino a stasera.

Aveva passato tutta la giornata a lavorare negli insediamenti degli archisti, al polo Sud. Come medico della colonia, era neutrale in tutte le dispute, ma ne era tornato scoraggiato. La vita era misera e gelida giù in quelle tane. La loro pila a fusione sputacchiava ed irradiava una quantità d'energia a stento sufficiente per mantenere le loro serre. Cosa ancora peggiore, Joao Quiverian aveva anche lui le sue fazioni con cui cimentarsi, fanatici che facevano apparire moderato perfino il suo archismo, il cui odio per qualunque cosa associata con i percell pareva non conoscere confini.

Keoki aveva ragione… avevo proprio bisogno di ubriacarmi.

Un'altra canzone passò attraverso la mente di Saul, una canzone che riguardava la quinta guerra civile irlandese. Era una triste canzone di fratricidio, ma nessuno aveva mai scritto niente di meglio per bere o per misericordia.

Saul stava ancora canticchiando fra sé a bocca chiusa quando un movimento tremolante lo indusse a guardare a sinistra. Guardò strizzando gli occhi la fila delle luci fosforiche sempre più fioche in distanza, e vide che parecchie fra esse erano occultate da vaghe forme che si avvicinavano lungo lo stretto corridoio.

Nessuno avrebbe mai dovuto venire da quella direzione. Era una delle clausole del suo accordo con i clan. Ma allora, chi…?

Sbatté le palpebre. Avvertì un brivido.

Gli strani…

Comparvero alla sua vista, due forme simili a uomini, ma completamente ricoperte di ciuffi, come creature marine avvolte nella melma del fondo. L'insieme delle forme native che ognuno di quegli esseri si portava addosso era diverso. In uno dei due dell'essere umano originario non era rimasto più nulla, al di fuori degli occhi. Nell'altro, c'era ancora un volto visibile attraverso quel simbiotico groviglio.

Questo è sinergismo portato più avanti di quanto io potrei mai sopportare pensò Saul, a disagio.

Parecchie volte, da quando Suleiman Ould-Harrad, quell'ex spaziale diventato mistico, aveva abbandonato i livelli superiori per discendere giù e unirsi a quelle creature, piccoli messaggi erano comparsi, attaccati alla porta di Saul. Lui aveva soddisfatto ogni richiesta, lasciando spesso fuori della porta bottiglie del suo siero. Ad ogni veglia, quando si destava, il pacchetto fuori della porta era scomparso. Al suo posto giaceva un piccolo campione di qualche strana forma di vita che Saul non aveva mai visto prima.

Era uno scambio alla pari: medicinali per altri frammenti dell'enigma che era Halley. La cosa andava benissimo a Saul, poiché lui voleva comunque curare gli strani abitanti di quella Lontana Gehenna. Da quando Ould-Harrad era disceso per unirsi a loro, quegli esseri erano parsi capaci di organizzarsi meglio, meno sospettosi e violenti quando qualcuno di un clan più «normale» attraversava loro la strada.

Comunque, Saul non poté fare a meno di sbattere le palpebre quando i due emissari gli rivolsero un profondo inchino.

— Venia…aamo e implo…ooriamo il tuo aiu…uuto.

Quella voce tartagliante colse Saul di sorpresa.

— Non… non sapevo che qualcuno di voi potesse ancora parlare!

Quello che ancora mostrava il viso scosse la testa. — Qualcuno n…non può fa…arlo. Ma non vuol dire che noi non pen…nnsiamo più.

Saul si affrettò ad annuire. — Mi spiace. È soltanto che… be', voi non vi fate mai vedere. Così, gli altri hanno una gran paura di voi.

— Come noi temiamo loro. Ma tu sei S… aul. Il dot… tore. Veni… iiamo da te con fer… ito.

Saul stava per chiedergli di entrare nel laboratorio, quando lo «strano» più vicino aprì uno squarcio tra il fogliame che lo ricopriva tutto e ne tirò fuori un piccolo fagotto bruno. Degli uggiolii uscivano dal fagotto.

— Puoi gua… aarirla?

La lontra aveva una gamba fratturata. Si dimenò e morse lo «strano» che la reggeva, ma a quanto parve senza nessun effetto.

— Naturalmente — dichiarò Saul. Si alzò in piedi e premette la placca sulla porta per il riconoscimento del pollice. — Portatela dentro, non ci dovrebbe voler molto.

Salvo per Lani e un occasionale mech, nessun altro al di fuori di lui aveva mai varcato quella soglia. Saul era certo che nessun estraneo l'avrebbe mai più fatto.

D'altronde, però, lui non era mai stato in gamba con le previsioni.

Un'ora dopo che gli strani se n'erano andati si trovò davanti alla camera di clonazione principale. Aveva deciso. C'erano solide ragioni scientifiche per procedere all'esperimento. La colonia ne aveva bisogno; l'umanità ne aveva bisogno.

Io ne ho bisogno. E forse posso offrire a Virginia qualcosa che vuole più di qualunque altra cosa nell'universo.

— JonVon — disse, rivolto al principale collegamento vocale con il computer.

Sì, Saul, sono qui.

Saul annuì. — JonVon, voglio preparare un data-base segreto.

CARL

Se socchiudeva gli occhi per proteggerli dall'aspro grumo giallo del Sole, quel paesaggio ghiacciato si stendeva davanti a lui come una terra di sogno. Eserciti di uomini e di mech si muovevano su quel terreno chiazzato e sfregiato. Rimorchiavano lunghi cilindri di acciaio lucido e ossido di alluminio color alabastro, oppure facevano destramente rimbalzare in avanti grandi ammassi di apparecchiature elettriche, oppure trascinavano trasformatori che, costruiti per funzionare nel gelido vuoto, assomigliavano di più a cervelli incrostati di corallo che a rotoli luccicanti di rame e ferro.

Le squadre dei lavoratori si affrettavano sul ghiaccio, che era stato sventrato e spezzato, grandi truogoli vi erano stati scavati dentro, in profondità, tagliati e plasmati e martellati. A regolari intervalli Jim Vidor aveva eretto torri affusolate fondendo, modellando a forza e ricongelando l'acqua sotto forma di puntelli, livelle e supporti cristallini.

Fili sottili come ragnatele collegavano le dita sporgenti, color arancio, formate di aggregati di ghiaccio fratturato e compresso. Il ghiaccio offriva poca resistenza alla frattura e funzionava bene soltanto sotto compressione. Era quasi impossibile credere che simili arabeschi fossero così perché funzionali. Comunque Carl non aveva alcun dubbio che Vidor, se sollecitato, avrebbe tirato fuori una spiegazione per ognuno di quei delicati fili estrusi, per ogni arco svettante, per tutta quell'arte affusolata e ondeggiante.

Carl non gliel'aveva chiesto. Gli esseri umani non potevano rimanere attaccati senza interruzione alle cose pratiche, limitati da esse. Chiunque ne avesse la capacità, desiderava esprimere qualcosa di profondo e duraturo attraverso la sua bravura. Forse era questo l'impulso che li spingeva a lasiare un tocco idiosincratico, estroso, di loro stessi sulle cose più durevoli che realizzavano. Forse era qualcosa di più profondo, legato allo spirito, che aveva condotto una solitaria tribù di primati così lontano dal loro mondo caldo e umido.

Carl ricordava la prima strofa d'una poesia che Virginia gli aveva mostrato alcuni mesi prima. Per qualche ragione gli era rimasta impressa nella testa:

Il mare è calmo stanotte,

La marea è al culmine, la Luna rifulge splendida.

Presagi di buona navigazione. La poesia aveva qualcosa a che fare con le spiagge e gli oceani, e Virginia aveva avvertito una certa risonanza in lui di quelle immagini. Viaggiando lì fuori, salpando contro le maree della gravità, assomigliava ai gran bei tempi antichi quando i velieri solcavano i mari. Avevano attinto soltanto una frazione dei fotoni grezzi del vento solare per controllare l'evaporazione dei gas della cometa verso l'esterno durante i primi mesi dopo l'atterraggio. Poi avevano cavalcato davanti a quel vento, usando la luce del Sole all'unico scopo di produrre elettricità. Il momento cruciale stava arrivando adesso, quando il loro vascello di ghiaccio doveva venir sospinto su una nuova orbita, ed era necessario tracciare una nuova rotta.

Sorrise fra sé. Fedele all'analogia con il mare, eh? Tutto perché fino in fondo alle ossa sei uno spaziale, e non puoi dimenticarlo. Sin da quando hai perso la Edmund, hai bramato una nave. Questo pezzo di ghiaccio e di ferro è tutto quello che ti rimane.

Era così ovvio, Virginia l'aveva capito. Gli aveva detto che la poesia era una consolazione, e con sua viva sorpresa aveva scoperto che una parte della roba che lei trasferiva sul suo schermo gli piaceva. Ciò sarebbe stato del tutto impossibile per lo spaziale autoimpegnato, impetuoso, arrogante, che lui era stato trentacinque anni prima. Era invecchiato soltanto di sette anni in quel periodo, ma quell'arco di tempo aveva un proprio peso. Il suo se stesso più giovane adesso pareva lontano, quasi implausibilmente cieco.

Spero che Virginia non riesca a leggermi dentro troppo bene. Scoprirà anche troppo presto quanto tutte queste speranze ed euforie siano false, basate su un'inevitabile menzogna…

Non gli piaceva ricordarlo. Scosse la testa e s'incamminò attraverso il ghiaccio, muovendosi a lunghi passi, supervisionando i lavori. Tienti impegnato. Non pensare troppo: non è il tuo forte.

Carl girò intorno ad una squadra di mech al lavoro per raggiungere la lunga trincea del Lanciatore 6. Uno sgomitatore completo riempiva lo scavo, discendendovi dentro obliquamente. Due tecnici stavano provando un volano fabbricato col ferro di Halley.

Le macchine avrebbero impresso velocità con la frequenza e l'angolo esattamente calcolati. All'inizio avrebbero sparato parallelamente all'equatore, per rallentare e finalmente fermare la rotazione di cinquanta ore di Halley. Dopo di ciò, il lanciatore avrebbe ruotato intorno a un asse incastrato dentro la trincea, disponendosi quasi perpendicolarmente all'equatore, in linea con il centro di gravità di Halley. Poi sarebbero iniziate le lunghe raffiche intermittenti che avrebbero emesse nel corso degli anni, aggiunto piccoli incrementi di velocità alla lenta e solenne virata di Halley all'afelio. Tutti i lanciatori, pulsando ininterrottamente, sommati fra loro, avrebbero portato alla sgomitata.

— Grazioso, eh?

Carl vide Jeffers che si stava avvicinando con passo facile, esercitato. La cotta della sua tuta, macchiata e unta, raffigurava un paio di pinze e una chiave incrociate, racchiuse in un cubo.

— Bellissimo. Il test è già stato fatto. Sono pronti per essere montati in orizzontale?

— Sicuro. Le unità là dentro funzionano benissimo, a qualunque angolo tu voglia. I mech li monteranno per poterli utilizzare non appena i test saranno completati.

Jeffers sorrise felice. Era lui il fulcro, il sostegno principale della sgomitata, che trovava soluzioni ai problemi con la rapidità di un esperto. Faceva turni di diciotto ore senza mostrare nessun segno di fatica. La fabbrica al Livello A, che adesso lavorava a pieno ritmo, con i robot che producevano parti di ricambio per i lanciatori e i razzi, non sarebbe esistita senza Jeffers. Carl ricordava quando quell'uomo dava il minimo di sé, isolandosi negli olonastri o nei pornstim, escludendo la realtà del luogo in cui si trovava. Il lavoro era ciò di cui aveva avuto bisogno. Per Carl, soltanto quella era una ragione più che sufficiente per fare tutto questo, anche se il suo amico doveva certamente sospettare che tutto questo fosse una farsa…

— Tutte le squadre sono in anticipo con i tempi. Fanno perfino le ore straordinarie senza che io glielo chieda.

— Finalmente abbiamo qualcosa per cui lavorare — disse Carl, senza guardare Jeffers negli occhi.

— Maledettamente giusto.

Un mech-direttore si avvicinò, una cupola nera era appollaiata in cima al suo carapace a mo' di kluge improvvisato. Le aggiunte di Virginia funzionavano a meraviglia rendendo i mech e i rob ancora più versatili, ma non erano eleganti. Il mech fece ammiccare la propria lampada per attirare la loro attenzione, e trasmise: — LANCIATORE 6 COMPLETATO. TEC UMANO OSAKA DICHIARA CHE IL CONGEGNO È PRONTO PER IL TEST UFFICIALE.

Jeffers annuì. — Spara, allora.

Si sentirono risuonare i gong di allarme dentro i comunicatori. Dovunque in superficie le squadre smisero di lavorare e si arrampicarono fuori dalle buche per guardare. Le loro tute erano graffiate, logore, scolorite, lacere, rattoppate con pezze fatte in casa.

Il ping ping ping del dispositivo che si riscaldava arrivò attraverso le frequenze del comunicatore come un suono increspato, un'eco sottile del caricamento che adesso si stava svolgendo nella trincea. Carl sbirciò la punta del lanciatore, che sporgeva fuori dal ghiaccio lì accanto, puntata verso il cielo.

Avvertì un fremito di eccitazione che gli fece accapponare la pelle, una tensione crescente. Se avevano commesso qualche errore nella progettazione, nell'assemblaggio…

Un piccolo tremito si trasmise attraverso i suoi piedi. Un cicaleccio nella microonda, uno skriiii… e l'unità scaricò.

Allo stesso tempo una vaga nebbia comparve alla bocca del lanciatore. Si chiese cosa ci fosse che non andava, fino a quando non si rese improvvisamente conto che la cadenza di sparo del tubo di lancio era di parecchie capsule al secondo, e lui vedeva la macchia confusa del loro passaggio.

Questo era tutto. Nessun rombo, nessuna eruzione di fumo. I lanciatori erano concepiti per funzionare con efficacia quasi perfetta, per generare la quantità minima possibile di calore residuo. Se anche soltanto una frazione d'una percentuale dell'energia utilizzata per il lancio fosse filtrata nel ghiaccio circostante, questa avrebbe fatto evaporare il sostegno strutturale, causando delle dislocazioni, sbilanciando la sincronizzazione della velocità nei segmenti dell'acceleratore, tanto accuratamente configurata. Molto tempo prima che il ghiaccio fosse scomparso, l'instabilità e le irregolarità di funzionamento dei tubi propulsori li avrebbero fatti sussultare riducendoli ad acciaio contorto.

Ma lo sgomitatore funzionò benìssimo. Un evviva si levò attraverso i canali dei comunicatori. La gente sollevò le braccia in segno di vittoria fino a dove Carl riusciva a vedere, mettendosi a ballare sul ghiaccio sudicio, saltando alti nella tenebra. Soltanto i mech continuavano stoicamente il proprio lavoro, ignorando che gli esseri umani erano finalmente riusciti ad agguantare il timone di quella nave di ghiaccio. Halley non era più una palla di ghiaccio sporco ruzzolante nella lunga notte. Adesso era una nave spaziale.

Jeffers stava farfugliando in preda all'eccitazione, ripetendo i parametri operativi a mano a mano che li leggeva sullo schermo del suo casco. Carl riuscì a seguire un po' di quel fuoco di fila: kiloampères che affluivano lungo i circuiti a bassa impedenza, voltaggi che raggiungevano apici estremi per poi afflosciarsi al passaggio di ogni pallottola, succhiando l'energia dell'elettricità indotta e dei campi magnetici. L'energia si riversava dentro le capsule, l'impulso elettrodinamico scorreva come un fluido alla velocità della luce.

Soltanto l'accelerazione elettrica era abbastanza efficiente da evitare il problema del calore di scarto, per evitare di far fondere lentamente la cometa stessa. Per il momento c'erano grandi cataste di ferro al polo Nord, estratto durante il primo anno della spedizione, ma sotto ad ogni lanciatore, in profondità, si stava svolgendo un'attività estrattiva meccanizzata, dove in anguste caverne i robot scavavano, e lavoravano altri quantitativi dell'antico e naturale metallo della cometa.

Una fabbrica al Livello A produceva dei secchi leggeri fatti d'uno speciale polimero superconduttivo. Questi venivano riempiti di ferro e di altri materiali di scarto pesanti. Ogni «mestolata» riempita di metallo diventava una pallottola. Dei nastri trasportatori le alimentavano con costante precisione dentro la canna di un lanciatore, dove il voltaggio in aumento afferrava ciascuna pallottola e la lanciava ad altissima velocità: diecimila chilometri al secondo, quasi il tre per cento della velocità della luce. Il Lanciatore 6 era una specie di mitragliatrice cosmica che sparava pallottole le quali avrebbero raggiunto le stelle più vicine nel giro di pochi secoli.

Avremmo potuto costruire delle navi stellari, se soltanto ne avessimo avuto il coraggio pensò Carl. Forse, un giorno…

Tale era la massa di Halley che perfino quelle enormi velocità erano appena sufficienti al compito di pilotaggio. Carl si sintonizzò su una frequenza dei tecnici e sentì uno staccato braaap braaap braaap a mano a mano che ciascuna pallottola coglieva le sue minispinte nella colonna dello sgomitatore. Il Lanciatore 6 era il primo dei cinquantadue che avrebbero ben presto cinto Halley, scagliando via in lunghe serie di rapidissimi balbettamenti le loro pallottole di qualche chilogrammo, per cinque anni. L'afelio, quando la testa della cometa si sarebbe soffermata come una danzatrice all'apice del suo salto, era il momento più efficace per far deviare Halley. Ben un decimilionesimo dell'intera massa della cometa doveva venir espulso. Ciò richiedeva dozzine di mech per supervisionare l'estrazione e la fusione del ferro, minirobot che sgobbassero accanto ai nastri trasportatori, in continuità, programmi esperti di subroutine capaci di accorgersi di ogni intoppo e magari prevenirlo, evitando ogni ostacolo nell'interminabile, balbettante febbre della sgomitata.

— Dannazione — esclamò Carl. — Funziona! — Provò un impeto di sollievo e si rese conto di avere stretto spasmodicamente le mani.

Gli evviva continuavano. Perfino quella dimostrazione che sarebbe durata soltanto poche ore stava rallentando la rotazione primordiale di Halley, alterando sottilmente la sua lunga ellissi planante.

— E funziona, perfino — confermò Jeffers, sorridendo felice. — Vieni giù al Lanciatore 5. Lì ho fatto montare un piccolo perno. Impedisce al tubo del lanciatore di scollarsi. Abbiamo calcolato…

Jeffers s'interruppe all'improvviso quando un geyser ribollì fuori da una torre di ghiaccio lì vicino. L'intricato tratteggio a croce azzurro e avorio di Vidor esplose in una pioggia di nebbia e di residui luccicanti che rimbalzarono via in ogni direzione.

— Dannazione!

— Cosa? Cosa sta succedendo?

— Un laser! — Carl si appiattì contro il suolo sporco. — Tutti a terra!

— Cosa diavolo… Chi può aver…

— Gli archisti! — si rese conto all'improvviso Carl. — Devono aver saputo del successo della prova al comunicatore.

Jeffers urlò: — Ma perché? Pensavo che Quiverian fosse d'accordo…

— Che io sia dannato se lo so.

Dappertutto lì intorno uomini e donne si stavano appiattendo al suolo per cercare riparo. Un'altra torre di ghiaccio più distante si dissolse in nebbia. Questa volta Carl vide un lampo di luce quando il raggio colpì.

Jeffers strizzò gli occhi verso un punto lontano in cima a un mucchio di scorie, residuo d'una operazione mineraria.

— Hanno portato in posizione uno di quei grossi laser industriali. Stanno cercando di colpire il 6, ma con quegli affari non si può prendere tanto bene la mira.

Al comunicatore risuonarono grida oltraggiate. Una scarica incise il ghiaccio vicino a una forma rannicchiata, e Carl udì un grido di sorpresa e di dolore.

— Takeda! Sigilla la tuta di quella donna e portala al pronto soccorso!

Quindi si accucciò dietro ad un piccolo rialzo ed osservò le fiammeggianti scariche dei laser che facevano schizzare fontane verso il cielo. — Bastardi!

— Dobbiamo far qualcosa.

— Potrei chiedere a Virginia di mandare dei mech alle loro spalle, prendendoli di fianco…

— Già, giusto — disse Jeffers.

— No, aspetta… — Carl controllò il canale di Virginia. Un sibilo. Era interrotto, naturalmente. Soltanto un idiota avrebbe attaccato senza interrompere la fonte d'aiuto dell'avversario.

Un altro gemito di dolore al comunicatore.

Carl toccò la spalla di Jeffers: — Il Lanciatore 6… puoi farlo ruotare?

— Cosa?

— Inclinare il Sei verso il basso? Puntarlo verso l'orizzonte?

Jeffers parve sorpreso. — I sistemi di sicurezza non sono montati… è un angolo molto basso.

— Provaci!

Quando Jeffers strisciò dentro la trincea del lanciatore, la torre-fulcro del Lanciatore 5 esplose dietro di loro, facendo cadere lentamente sulla superficie cavi e capottatura. Componenti perduti, perduto il tempo impiegato nella costruzione, squadre ferite: gente della quale lui era responsabile. Carl guardò furioso quei punti lontani che manovravano intorno al cannone al laser. Una rabbia omicida cresceva in lui.

Si disintonizzò dai canali dell'intercomunicatore, in cui le voci s'ingrossavano e si sovrapponevano le une alle altre. La gente chiamava amanti e amici, crepitando di rabbia impotente. I mech chiedevano innocentemente degli ordini. Poi la voce di Virginia s'intromise nella sua linea privata. — Cosa sta succedendo? Qualcuno ha disturbato i miei canali. Chi…?

— Manda qualche arma quassù!

— Ma… ma cosa useremo?

— Quei piccoli laser in Tre B, è tutto quello che possiamo spostare subito.

— Ma non falceranno chiunque si avvicinerà abbastanza per cercare di usarli?

Carl imprecò. Aveva ragione.

— Posso spedire dei grossi mech dal polo Nord.

— A quell'ora saremo già arrostiti!

Fischiò un ordine di cercare e contattare Joao Quiverian e ottenne un canale nel giro di pochi attimi. — Quiverian! Qui Osborn. Tu…

La voce di Quiverian era tesa. — Quelli non agiscono per mio ordine. È vero, sono archisti, ma io non posso controllarli.

— Ti aspetti che ci crediamo?

— Dovete. È la verità.

Carl digrignò i denti. Così, il nemico non aveva volto. Anonimo. La gente che stava usando quei grossi laser non avrebbe permesso a nessuno di prendere il controllo delle possibilità della sgomitata, per tentare un'altra orbita. Con loro, era tutto o niente… e loro avrebbero preso tutto.

Nel comunicatore generale un altro urlo quando un'invisibile scarica laser colpì una collinetta dissolvendola in una buca profonda. Carl vide un corpo rotolare via… qualcuno si era nascosto là dentro.

Usò un comando di scavalcamento sul canale A. — Fate sgombrare la gente che si trova su quella montagnola di scorie vicino al Lanciatore 2! Tutti voi rifugiatevi giù nelle gallerie di alimentazione. — Un farfugliare in risposta. — E usate i codici d'identificazione se volete farvi sentire!

Impartì rapidamente un ordine nel linguaggio mech e il rumore s'interruppe quando il controllo canali passò al modo normale. Adesso le radio delle tute non avrebbero più funzionato fino a quando il sistema non fosse passato ai comandi dei codici individuali. Per qualche istante vi fu soltanto un sibilo arcano. Poi: — Jones, codice BQ a Osaka e Osborn. Adesso sto guidando un gruppo di cinque giù nel pozzo.

— Lomax, codice DF, al comando. Ho una buona visuale da un punto alto e protetto. Tutti mi trasmettano in codice P la propria posizione. Ritrasmetterò la vostra situazione a Osborn.

Carl annuì. Pochi spaziali in gamba che ricordassero il loro addestramento valevano altrettanti battaglioni.

— Jeffers. Codice GH a Osborn. Ce l'ho fatta, credo.

— Osborn. Codice GH. Fatto cosa?

— Jeffers, GH. Sto inclinando il lanciatore verso il basso. Devo girarlo verso sud. Ci pensi tu a metterlo in linea di tiro, d'accordo?

Carl si rese conto che il costante martellare che arrivava dal Lanciatore 6 da un po' di tempo era cessato. Adesso, mentre guardava, l'insieme stava laboriosamente ruotando verso le lontane, basse colline, con il muso inclinato verso il basso. Carl si alzò in piedi e si portò rapidamente dietro al lanciatore che stava lentamente ruotando. L'unica maniera che gli venne in mente per puntare quell'affare fu di prendere la mira direttamente guardando lungo la sua canna.

Magnifico. Davvero alta tecnologia.

Ed era indubbio che gli archisti stessero seguendo con molta attenzione le loro mosse. Il loro obbiettivo doveva essere proprio quel punto. Avevano distrutto i bersagli più facili mentre stavano calcolando la giusta gittata. Il Lanciatore 6 era molto più difficile da colpire, sepolto nella sua trincea. Ma adesso che stava lentamente emergendo…

Carl si acquattò su un tratto di terreno chiazzato di arancione e chiuse automaticamente un occhio, allineando la canna del lanciatore con i puntolini che vedeva sulla lontana collina.

— Lomax, DF a Osborn. Ho un abbozzo tattico delle posizioni del nemico. Preparati a ricevere. Sono ammassati piuttosto vicini gli uni agli altri.

Carl proiettò l'immagine su metà della sua visiera. Il disegno approssimativo di Benchley mostrava un gruppo principale a due ali, probabilmente vedette periferiche.

Non sono in molti. Ne conto cinque. Ma hanno il terreno migliore.

Gli archisti si erano piazzati in un'infossatura del terreno, e approfittavano del riparo. Mentre Carl guardava, un vivido lampo azzurro ammiccò, spingendolo istintivamente ad abbassarsi. Il che era ridicolo. Se si fosse trovato nel punto focale del laser, sarebbe rimasto accecato all'istante. Invece avevano puntato alto. Soltanto i campi periferici l'avevano colpito.

Disse a Jeffers di fermarsi. Era quasi inclinato a sufficienza…

Sbatté le palpebre per schiarirsi la visuale; non gli servì a molto. — Spara!

— Non… non posso sparare contro il fianco di quella collina un carico completo. È un chilogrammo di ferro a diecimila chilometri al secondo… sarebbe come far esplodere una bomba da dieci chiloton!

Carl pensò furiosamente. — Contenitori vuoti! Hanno una massa di soli due grammi. Ne hai qualcuno?

— Uh. Sì. E sarà anche meglio che usi poca corrente — disse Jeffers. — Ci vorrà un minuto… vediamo… regoliamolo sull'uno per cento…

Qualcuno gridò. Un altro colpo mancato di poco. — Dobbiamo rispondere al fuoco. Spara!

— D'accordo, d'accordo. — Con suo vivo sollievo Carl udì il braaap braaap braaap che riprendeva. Il suono era diverso. Pù basso, più aspro.

— Non è sincronizzato per questo!… Le vibrazioni lo manderanno in pezzi!

Carl regolò la sua visiera sul telescopico. Dappertutto in alto e in basso lungo il fianco della collina schizzavano pennacchi di vapore, a mano a mano che le pallottole colpivano.

— Comunicatore ad auto-scavalcamento. Jeffers, a sinistra!

— Bene.

I minuscoli sbuffi di nebbia schizzavano alti al ritmo di parecchi al secondo.

Un lampo azzurro dalla cima della collina, questa volta più luminoso. Anche il nemico stava affinando la mira. Carl si girò e vide il ghiaccio non lontano alle sue spalle avvampare ed esplodere all'improvviso in una nebbia perlacea.

— Più in alto!

— Beccati!

Una linea esplodente di nebbia s'inerpicava lungo il fianco della collina, con andamento vagante ma sempre in salita, sempre più su verso i minuscoli punti che manovravano il grande, ingombrante tubo.

Due antagonisti, ognuno alle prese con un'arma troppo grossa e potente per poter essere usata con destrezza… come lottatori che si stessero flagellando l'un l'altro con travi d'acciaio. Il primo che avesse centrato il bersaglio…

Carl si domandò cosa sarebbe successo se il laser l'avesse colpito in pieno. La sua tuta ne avrebbe riflesso una parte, e con quella angolazione il raggio si sarebbe diffuso su un'area molto più grande… comunque non voleva scoprirlo.

— A destra! E ancora più in alto! — I sobbalzanti sbuffi di nebbia guizzarono, virarono, si stabilizzarono… e colpirono quei puntolini in agitazione.

Una distruzione silenziosa. Carl si distese sul ghiaccio ad osservare le pallottole che martellavano incessantemente i bersagli, microscopici puntini che si dibattevano finendo in frantumi, pezzi del laser che balzavano via, a mano a mano che la nebbia generata da quell'attacco si addensava, si allargava, per poi oscurare del tutto la scena.

— Va bene. Puoi… spegnerlo.

— Li abbiamo presi?

— Sì, sì. Ce l'abbiamo fatta.

In quel momento, Carl non provò nessuna euforia, nessun piacere. Era accaduto tutto così in fretta, in una maniera così astratta. Uno sciame di puntini che si muovevano lungo il fianco della collina. Vividi, improvvisi lampi di azzurro. E poi, quegli spruzzi distanti quando gli involucri sfreccianti a diecimila chilometri al secondo avevano colpito il ghiaccio… l'acciaio… la carne cedevole, fracassando le ossa. Una scienza di rigorosa geometria e di facile morte.

— Ehi! Ci siamo riusciti! Servirà di lezione a quei fetenti! — Il Lanciatore 6 tacque. Jeffers balzò fuori dalla trincea, pieno d'entusiasmo.

— Così… sì, così ce l'abbiamo fatta.

Udì la voce di Virginia, e di altri, e con l'intenso vocìo che scorreva nuovamente negli orecchi, Carl s'incamminò lentamente verso il fianco martellato della collina, non volendo vedere con i propri occhi quello che c'era, ma sapendo che avrebbe dovuto. Faceva parte del suo lavoro.

Tutt'a un tratto la mente gli si schiarì, e ricordò il resto della poesia, le strofe che aveva pigramente rievocato soltanto pochi minuti prima… un tempo che già adesso gli sembrava appartenere a un passato vecchio di molti mesi:

E ci troviamo qui come su una pianura che si va oscurando spazzata da allarmi confusi di lotte e di fughe, dove eserciti ignari cozzano di notte.

VIRGINIA

Le tute spaziali erano davvero seccanti. Ricordavano a Virginia quanto lei non fosse affatto in forma… come anche per lei fossero trascorsi gli anni.

Lottò per qualche istante con alcune delle fasce di regolazione, allentandone un paio e stringendone altre… tutte nei punti sbagliati. Flaccida! Non c'era da stupirsi che Saul fosse stato così…

Virginia soffocò subito quel pensiero. Comunque, era sicura che i loro guai avevano poco a che fare con la loro recente mancanza d'esercizio.

Forse niente è stato concepito per durare pensò ancora, con una punta di scoramento. Forse tutto ciò che è buono alla fine si autodistrugge.

L'immagine di un nuovo mondo. Nuovi vulcani che eruttano per salutare l'alba…

Per la prima volta, dopo il fallito attacco degli archisti, Carl le aveva dato il permesso di salire a vederlo di persona. Il fatto di essere indispensabile aveva i suoi svantaggi. Con le guardie umane e i mech di sorveglianza disposti a schiere intorno al suo laboratorio per proteggerla, negli ultimi tempi aveva cominciato a sentirsi come una formica regina, un'autentica schiava della propria sovranità.

Però, una formica regina crea per lo meno le uova…

Un altro brutto pensiero. Perché mai tutto questo doveva emergere alla superficie proprio adesso?

Perché abbiamo cominciato ad ammazzarci fra noi, qui e adesso? È per questo che sono così depressa?

O è forse perché mi sento sola e non sono più giovane?

Virginia terminò di vestirsi e s'infilò una logora cotta sulla tuta. Non ne aveva neppure una di sua, non si era mai preoccupata di disegnarne una. Questa, che riproduceva un covone di grano sopra tre sfere d'oro, era appartenuta al dottor Evans, un tecnico degli impianti idroponici ormai ineluttabilmente morto da vent'anni. La matrona addetta all'abbigliamento l'aveva registrata a nome di Virginia, e lei aveva deciso di conviverci.

Vorrei tanto che non fosse necessario salire quassù di persona pensò, mentre cominciava a passare attraverso la camera d'equilibrio.

Ma quella faccenda era troppo importante per discuterne attraverso qualunque canale del comunicatore. Non era soltanto la paura di venire intercettata. Virginia voleva osservare la faccia di Carl quando si fosse trovata davanti a lui.

Il portello esterno si aprì e la scena venne oscurata per qualche attimo da una nebbia di vapori in condensazione. I fiocchi di neve vennero soffiati via nello spazio e Virginia spaziò con lo sguardo su quel paesaggio ghiacciato all'aperto.

In un certo senso rimase un po' delusa. Il suo collegamento anche con i mech più lontani era diventato così buono che la sua vista in superficie le pareva in realtà migliore sotto forma di surrogato che di persona. Quel camminare-scivolare con cautela sulla crosta sudicia le dava in qualche modo un'impressione di maggior distacco che controllare un mech là fuori.

C'era anche un'ondeggiante sensazione di nudità. Dopotutto, aveva molti mech, ma un corpo soltanto. E adesso questo si trovava là fuori, sotto le stelle immobili.

Qui fuori, accanto al Pozzo 6, il paesaggio era meno segnato rispetto ai luoghi dove i suoi mech e i lavoratori della fabbrica di Jeffers avevano scavato e solcato l'antica cometa. Qui la caratteristica dominante era un edificio incombente che pareva un incrocio fra una ruota di vetro di Ferris e una tela intessuta con la seta liquida d'un ragno.

Un certo numero di spaziali erano radunati alla sua base. Indicavano a gesti un punto di quella tenebra luccicante. Virginia riconobbe le cotte di Carl Osborn e Andy Carroll, oltre a quelli di parecchi altri, per la maggior parte membri delle fazioni dell'Altopiano Tre e dei Sopravvissuti. Virginia borbottò delle frasi-comando fino a quando non riuscì a inserirsi sulle frequenze da essi usate. Penetrare il loro codice fu un gioco da bambini:

— … ti dico che penso che quell'affare sia troppo dannatamente piccolo! Potrebbero aver fatto dei progressi da quando ce ne siamo andati, certo. Ma perfino quell'incandescente torcia a fusione non può aver spinto più di venti tonnellate con quel tipo di accelerazione, per così tanto tempo.

— Sì? Be', anche se sono soltanto venti tonnellate, pensa a tutto ciò che potrebbe esservi incluso. Chip dalla logica più veloce per computer migliori, e mech più efficienti. Sementi ibride per migliorare i nostri impianti idroponici. E detonatori al trizio! Venti tonnellate di roba del genere potrebbero costituire tutta la differenza.

Era ovvio che l'oggetto della loro discussione era il Pacco Assistenziale. Mentre si stava avvicinando, costeggiando un'area crepata nel ghiaccio, la voce di Carl interloquì:

— Tu speri che i doni natalizi faranno cambiare idea agli archisti, Andy?

— Oppure che ci offrano qualcosa per spazzarli via. Non m'importa che cosa, basta che sia in grado di scrollarli via dal polo Sud, cosicché si possa tornare alla manovra di Giove e salvare la missione originaria. La sgomitata di Marte va bene, come seconda scelta. Ma il capitano Cruz avrebbe voluto che noi…

Le parole s'interruppero quando Andy si accorse che Carl si era voltato per salutare Virginia.

— Osborn, apri il canale a Herbert. Ciao, Virginia.

La sua tuta macchiata era una combinazione di parti diverse cannibalizzate. Sopra la tuta era steso un tessuto bianco, scurito, adorno dell'immagine d'un crostaceo rosso. Il suo visore si schiarì e Virginia vide il suo viso. Il grigio alle tempie e le rughe sulla fronte non avevano derubato Carl del suo fascino fanciullesco dalla mascella volitiva.

— È bello da parte tua essere salita, Virginia. C'è qualcosa di speciale che vorremmo chiederti di fare per noi.

Virginia annuì, poi si ricordò che era rivolta nella direzione del Sole lontano. Anche se adesso era poco più di una stella molto luminosa, la sua visiera poteva ugualmente essersi oscurata automaticamente, nascondendo il suo gesto.

— Vi aiuterò in qualunque modo mi sarà possibile — cominciò. — Ma…

— Magnifico. Stiamo cominciando a preoccuparci per il primo Pacco Assistenziale dalla Terra. Non vogliamo che niente vada storto quando arriverà.

— Cosa potrebbe andare storto?

— Supponiamo che cada nelle mani sbagliate? — suggerì Carroll.

Carl scrollò le spalle.

— Quiverian nega ogni responsabilità per quell'attacco giù all'equatore. Dice che si trattava di rinnegati i quali agivano senza nessuna approvazione ufficiale. Comunque, capisco il tuo punto di vista. Credo che nessuno di noi voglia che, per errore, il Pacco Assistenziale atterri al polo Sud. Sarebbe meglio mandar fuori un mech perché scorti fin qui il vascello con il carico.

Virginia comprese. Non si può permettere che il pacco di salvataggio venga sequestrato. A questo punto gli archisti ci avrebbero completamente in pugno. Avrebbero il completo controllo della situazione.

— Bene, comincerò a lavorare con Jeffers ai particolari — dichiarò. — C'è qualcos'altro di cui volevo parlarti, comunque.

— Sicuro. Di cosa si tratta? — Quando Virginia scosse la testa e rimase silenziosa, Carl si rivolse agli altri:

— Torno subito, ragazzi. Guardate un po' se riuscite a sintonizzare meglio quell'antenna, per favore? Voglio far bene il punto di quell'affare, quando sarà più vicino.

— Bene, Carl.

La condusse dietro ad un grande mucchio di residui minerari. Assicurandosi che lei potesse vederlo, alzò la mano e spense il proprio trasmettitore. Annuendo, lei fece la stessa cosa. Carl si chinò in avanti, mettendo a contatto i caschi.

— Cos'è che ti tormenta, Virginia? Sembri così… afflosciata. Si tratta di Saul? Ho sentito…

— No — si affrettò lei a interromperlo. Il suo volto era così vicino… Il doppio strato di cristallo che li separava parve trasmettere un alito caldo. — No, non è questo, Carl.

Per lo meno, non è questa la ragione per cui sono salita quassù.

— Ma c'è qualcosa che importa, fra voi due — lui insisté.

Virginia annuì. Un breve, rapido scuotimento della testa. — Niente, a dire il vero. Soltanto… già… una di quelle cose. Il tempo…

— Il tempo ci fa cambiare tutti, Virginia. Non mi sono mai scusato con voi due per il modo in cui mi sono comportato, tanti anni fa. Sono stato un idiota. — C'era un vivo fervore nei suoi occhi.

— Eri giovane, Carl. Eravamo tutti più giovani.

Salvo Saul. Con il suo perfetto sistema immunitario, non vivrà per sempre? È questa, forse, una fonte di attrito fra noi? Carl abbassò lo sguardo per un attimo, poi incontrò i suoi occhi. — Ciò non significa che sostanzialmente il mio sentimento sia cambiato, Virginia. Se sei pronta per un cambiamento… — Carl lasciò in sospeso la frase, e d'un tratto Virginia vide qualcosa di più profondo del fervore, qualcosa di più profondo perfino della severità del comando. Sollevò la mano guantata, toccò il vetro.

— Oh, Carl. Hai sofferto così tanto.

Carl scrollò le spalle, diviso fra sentimenti contrastanti. — Sei salita da me perché… — c'era speranza nella sua voce.

Virginia scosse la testa, scacciando via la debolezza che minacciava la sua determinazione. — Carl… — Deglutì. — Carl, voglio sapere per quale motivo hai in mente di ucciderci tutti.

— Uh? — Lui la fissò. — Come… Cosa vuoi dire?

Virginia lasciò ricadere la mano. — Oh, sei sempre stato un bugiardo molto scadente, Carl. Almeno per me. Gli altri sembrano aver digerito il tuo atto di Giuda, convinti che la Terra abbia davvero l'intenzione di salvarci, tutte quelle fandonie su un passaggio ravvicinato di Marte, per poi proseguire verso Giove e Venere, poi di nuovo su Marte e la quarantena…

— Di cosa stai…

— A pensarci bene, però, Jeffers e i suoi ti appoggerebbero se sapessero la verità, no?

Carl interruppe il contatto facendo un passo indietro prima che lei concludesse la frase. Le sue labbra erano serrate. Quando parlò, i movimenti della sua bocca parevano trasmettere un'amarezza pungente anche se silenziosa. Virginia indicò con un gesto i propri orecchi. Con un impaziente scuotimento delle loro teste ricongiunse i loro caschi con un rumore stridente.

— Cos'hai intenzione di fare? — lui le chiese.

Per lo meno, non stava insultando la sua intelligenza con un'ulteriore finzione.

Carl sapeva che Virginia doveva aver visionato simulazioni in una dozzina di maniere diverse prima di accusarlo di una cosa del genere.

— Quello che farò? — rispose Virginia. — Per prima cosa ti darò la possibilità di spiegarti. Voglio sapere perché fai da paravento a questo tranello del Controllo Terrestre, mandandoci in rotta di collisione diretta con Marte?

Gli occhi di Carl si strinsero per un attimo. — Anche sulla Terra ci sono fazioni. Ci sono stati degli… scambi. Abbiamo dovuto raggiungere degli accordi per poter ricevere i Pacchi Assistenziali.

— Cosicché possiamo spiaccicarci su un pianeta fra quarant'anni? — Virginia non poté fare a meno di esplodere in un'amara risata.

— Quaranta lunghi anni, Virginia. Perfino con il siero di Saul, dovremo tenere sveglia tanta gente che per allora saremo vecchi.

— Ci sono bambini, Carl.

— Quei poveri bambini avuti dagli ortho? Non meritano neppure di essere chiamati umani, Virginia. Tu lo sai. Comunque, loro, e noi, vivremo meglio e più comodamente con gli articoli che riceveremo con i razzi dalla Terra.

— Comodità?

— Sì. Conta qualcosa. Ma c'è una ragione molto più importante.

— Quale?

— Francamente, Virginia, non vedi che questa è la sola maniera grazie alla quale potrà emergere qualcosa da questo completo fiasco?

Virginia scosse la testa. — Quale vantaggio può venire dalla morte di tutti noi?

— Be'… dal punto di vista della Terra, la fine di una minaccia. E sotto questo aspetto posso capire il punto di vista degli archisti.

— Puoi?

— Sì. Naturalmente. Farebbero qualsiasi cosa per proteggere il nostro mondo nativo dalle halleyforme. E tu non puoi biasimarli per questo.

— E dal nostro punto di vista?

Carl scrollò le spalle. — Faremo scoccare di nuovo la scintilla della vita su un mondo morto. Con la nostra morte potremo dare inizio al lungo processo per riportare Marte alla vita.

Virginia non riuscì a trattenersi dal sogghignare. — Cominci ad assomigliare a Jeffers.

— Forse io sono come lui, se è per questo. — Carl guardò altrove. Abbassò la voce. — Avrei potuto tentar di pensare a qualcos'altro, non importa quanto improbabile, se… — S'interruppe.

— Se… cosa, Carl?

— Lascia perdere. Non è importante.

— Carl! Devi parlare con me.

Lui scosse la testa. — Saul mi ha detto, qualche tempo fa, che stava lavorando ad un metodo di clonazione. Fra dieci anni, o giù di lì, potrebbe essere in grado di produrre una generazione di bambini sani, leggermente modificati per essere in salute e crescere bene alla bassa gravità. Potrebbe esserci qualcosa in quell'idea di cui parlano alcuni degli Uber di Sergeov, di dire alla Terra di andare all'inferno, cercando di colonizzare Tritone.

Virginia sbatté le palpebre, rendendosi conto di cosa avrebbe potuto indurlo ad accettare un simile piano. — Vuoi dire… me, in particolare. Non è così?

— Sì. Tu, io, i bambini che soltanto tu ed io potremmo avere insieme. Potrei venir convinto ad assumere un altro punto di vista, se questo sembrasse possibile.

Dentro la mente e il cuore di Virginia soffiava il vento gelido dell'inverno. Era una paralizzante incapacità, una indisponibilità a capirlo. Sapeva, vagamente, che quella era la personale versione di Carl delle neurosi di cui tutti loro soffrivano, ma adesso… niente di peggio della norma, ma altamente insolita. Era la maledizione del romanticismo ipertrofico. Sotto quell'aspetto il nostalgico adolescente che era in lui era rimasto congelato nel tempo…

Sapeva che una semplice confessione avrebbe potuto risolvere quel problema… una franca ammissione che, non importava quali miracoli della tecnica la scienza avesse reso disponibili, lei non avrebbe mai avuto bambini da nessun uomo. L'universo l'aveva deciso molto tempo addietro.

Però lo stordimento che provava era troppo grande, troppo simile a un blocco di ghiaccio che non riusciva a sollevare, neppure per essere gentile con un caro amico.

— Non dirò a nessuno di Marte, Carl.

— Non lo farai? — Sbatté le palpebre. — Ma io…

— Mi hai convinto che hai ragione. Sarà meglio in questo modo… morire portando la vita su un mondo morto. Meglio di un'inutile estinzione, visto dove ci conduce la nostra strada in questo momento.

Virginia arretrò e riaccese il proprio trasmettitore. — Dimmi quando e come volete incontrare il primo Pacco Assistenziale, e dammi una squadra d'appoggio. Comincerò a far passare subito delle simulazioni.

«Ci vediamo, Carl.

Cercò di non guardarlo negli occhi mentre si voltava per allontanarsi, ma sentì lo sguardo di Carl puntato sulla sua schiena mentre sceglieva un sentiero angusto e solitario per ridiscendere nella sua cripta, molto al di sotto delle gelide stelle.

SAUL

Era un animale sofisticato, il veicolo che aveva viaggiato così lontano per portar loro doni dalla lontana Terra, e aveva tracciato un ardito solco avvampante per raggiungerli in quel luogo in soli cinque anni. Sfrecciando tre volte accanto al Sole aveva acquistato una formidabile velocità, e adesso saettava finalmente verso l'esterno, dentro le nere profondità sottostanti e al di là del piano del sistema solare.

Durante ogni sferzante passaggio accanto al Sole aveva cavalcato l'avvampante bagliore della stella sulle gigantesche, sottilissime vele. Poi, quando la distanza aveva reso fievoli i fuochi dietro di esso, le grandi vele si erano ammainate e la macchina aveva eruttato una fiamma propria. Frammenti di antimateria s'incontravano in una minuscola camera di combustione, liberando energia che era quasi luce coerente, propellendo l'apparecchio ancora più velocemente.

Erano stati sufficienti soltanto tre passaggi per condurre la sua orbita sul piano di quella di Halley, ma assai più velocemente della cometa in fuga. La tecnologia l'aveva reso possibile, e il riacceso favore dell'opinione pubblica esigeva velocità. Per la stampa popolare della nuova generazione quella era una missione di misericordia che non ammetteva ritardi.

Per altri, era qualcosa di completamente diverso. Un pagamento una tantum per corrompere e convincere quegli strani coloni, contagiati esuli nel tempo, a mantenere il loro accordo… l'accordo di starsene lontani.

Qualcuno sperava forse, in quel modo, di placare il loro senso di colpa per la distruzione della Edmund Halley? Oppure di spegnere la propria vergogna per tutti quegli anni di silenzio e disinteresse?

Saul guardava gli schermi, insieme ai rappresentanti scelti di tutti i clan, nella cavernosa Stanza di Controllo della Centrale. Una volta tanto la cavità era piena, anche se Saul era pronto a scommettere che gli architettti non avrebbero mai immaginato una simile folla… figure torve coperte di tatuaggi e d'indumenti tessuti con fibre di licheni delle halleyforme, segnati dalle cicatrici di malattie mai viste sulla Terra, i quali borbottavano fra loro in strani dialetti.

Perfino Joao Quiverian si trovava là, in un angolo, corrucciato, a braccia conserte, insieme a tre guardie del corpo e ad una lontra clonata di recente che lanciava tutt'intorno occhiate ferali, appollaiata sulla sua spalla.

I rappresentanti di tutti i clan si trovavano qui per osservare, mentre Virginia Herbert guidava l'inviato meccanico della colonia in orbita collimante con il Pacco Assistenziale ancora in fase di decelerazione.

— Certamente hanno fatto progressi. Quella torcia è potentissima — disse Andy Carroll dalla consolle balistica. — Ma non rallenta ancora abbastanza velocemente per i miei gusti.

— Eguagliamo l'orbita — mormorò Virginia con voce assonnata. — Non stare sulle spine, Andy. Abbiamo fatto anche noi dei progressi.

Un panno nero le copriva gli occhi mentre giaceva distesa sulla sua ragnatela accanto ai comandi waldo. Il cavo del connettore neurale usciva come un serpente dalla sua nuca, e le sue dita toccavano con delicatezza una serie di manopole zigrinate.

Saul notò la bocca di Quiverian che si piegava in una smorfia di disapprovazione. Ovviamente quell'uomo aveva difficoltà ad accettare che fossero dei percell a dirigere l'operazione di recupero. Ma si trovava lì soltanto perché era tollerato, e non poteva certo lamentarsi.

Per diritto, Carl avrebbe potuto tenerlo lontano, come rappresaglia per l'ammutinamento che aveva guidato giù a sud. Malgrado Quiverian avesse negato qualunque responsabilità nei confronti dei rinnegati che avevano attaccato i lanciatori equatoriali, e li avesse denunciati pubblicamente, lui e i suoi archisti non ispiravano certo fiducia. Fintanto che si trovavano nella Centrale, erano costantemente sorvegliati da una squadra di hawaiani, sia naturali che potenziati, guidati da Keoki Anuenue.

Comunque, con il potere di negoziazione che il Pacco Assistenziale stava per dargli, Carl poteva permettersi di essere generoso.

E nessuno era, poi, certo di cosa contenesse quel pacco. Saul rifletté fra sé: Potrei elencare mille articoli per i quali sarei disposto a dare un dito, una valvola bicuspide, o anche di più. E ci sono centinaia di altre liste, ognuna lunga quanto la mia.

Ahimè, probabilmente a bordo non ci sarà neppure un'oncia di buon tabacco da pipa.

Se ne uscì in un pallido sorriso ironico. Mi accontenterei del sintonizzatore per la differenziazione cellulare di quel nuovo sistema di clonazione che hanno sviluppato sulla Terra dieci anni fa.

Tutto era cominciato in maniera abbastanza logica, il suo programma con le scimmie e i gibboni, e i ceppi di vegetali sottilmente alterati… alla ricerca di nuovi elementi da aggiungere ad un crescente sinergismo, un intreccio di forme di vita di Halley e della Terra, invece di una guerra perpetua. Ma durante i mesi più recenti, era diventato qualcosa di più complicato. Adesso c'erano aspetti che, ne era certo, Carl Osborn non avrebbe approvato, e probabilmente Virginia non avrebbe mai capito.

Era per questo che aveva trasferito il suo laboratorio in una cavità segreta sotto un quadrante di Halley lontano dai razzi e dai clan, impedendo perfino alle sue guardie del corpo mech di seguirlo fin laggiù. Aveva contribuito ad allargare la breccia che c'era fra lui e Virginia, pagandone il prezzo.

Erano passati mesi dall'ultima volta che si era collegato con lei alla maniera in cui erano abituati, intrecciando le loro emozioni, e perfino i più occasionali pensieri amplificati dalla macchina, mentre si stringevano sotto il debole bagliore delle lampade di posizione di JonVon. Non aveva più osato, giacché Virginia avrebbe sicuramente trovato delle tracce… sospettando la libertà che lui si era preso, e il suo tragico risultato.

Una piccola orribile creatura che si contorceva in una incubatrice di vetro… branchie e pelliccia e una cosa sibilante… un volto vagamente umano, contorto nell'agonia, e alla fine misericordiosamente immobile…

— È una bellezza — bisbigliò Carl Osborn. E Saul sbatté le palpebre, riportandosi al presente con una scrollata di tutto il corpo. Comunque, quello era un ricordo sul quale preferiva non soffermarsi. Sollevò lo sguardo per contemplare il magico vascello che adesso era chiaramente raffigurato sugli schermi.

Cuspidi esili come ragnatele si allargavano come gli steli di un fiore denudati dall'inverno: le filiere dalle quali le grandi vele si erano gonfiate durante i tre sfreccianti passaggi del vascello da carico accanto al Sole, disposte intorno a un globo che luccicava con l'impossibile splendore d'uno specchio.

— Sto passando allo schermo analizzatore il centro di quella capsula-contenitore — annunciò Lani Nguyen dalla consolle degli strumenti. — Mi chiedevo come avessero risolto il problema dell'impatto con la polvere a quella velocità. Pare che il loro scudo non sia neppure materiale! È una specie di campo di forza gravitazionale… oppure io sono la mia zia zitella!

— No! — esclamò Andy Carroll, e condivise una rapida occhiata con Carl. — Un vero campo di forza? Non c'è da stupirsi che siano riusciti a fabbricarlo così leggero!

Otis Sergeov, capo del gruppo percell degli Ubermensch, penzolava dal bordo d'una olovasca, sulla sinistra, insieme a parecchi dei suoi camerati tatuati. — Quell'affare purpureo zippato è ancora troppo dannatamente leggero. E a cosa servono, comunque, venti tonnellate di merda terrestre?

Jeffers scoppiò a ridere. — Cosa non farei per pochi chilogrammi di trafilatrici del tipo giusto, o di un miglio o due di filo a superconduzione calda! Diavolo, per roba come questa sarei perfino disposto a dipingermi la pelle di azzurro e a farfugliare la nuova-lingua come un Uber, Otis.

Gli occhi di Sergeov lampeggiarono, e Saul seppe che il fatto di essere un percell non avrebbe salvato Jeffers, se quel russo senza gambe avesse avuto la sua sorte nelle mani.

— Bezmoodiy govnocheest! — borbottò Sergeov nella sua lingua nativa. Jeffers si limitò a ridere.

Susan Ikeda, il loro capo addetto alle comunicazioni con la Terra, riferì sull'ultimo colloquio attraverso la radio a lunga distanza.

— Il Controllo Terrestre dice che la loro stima di quattro ore è esatta. La sonda si trova sul giusto corridoio di decelerazione.

— Non può essere — borbottò Carroll.

— Ma loro dicono…

— Le loro informazioni sono vecchie di quattro ore! La velocità della luce, ti dico! Qualcosa sta…

— Chiudi il becco, Andy. — Per un po' ci fu silenzio nella stanza. Soltanto il sommesso ronzio dei ventilatori e il debole clic tutte le volte che qualcuno di loro azionava un interruttore. Poi Lani parlò:

— Sta girando la sua torcia, Virginia.

— Quadra. Era ora. Sto mandando fuori la pastoia.

Virginia non tradiva nessun sintomo di tensione, ma tutti i presenti nella stanza erano afferrati dalla suspense. Gli schermi in alto mostravano le due parti dell'inviato della colonia, le due porzioni collegate da un cavo teso spesso meno di un dito e lungo più di cinquanta chilometri. I razzi avvamparono, e il corpo collegato cominciò a vorticare, come un lento, grande boia nell'oscurità stellata.

— Adesso il propellente della sezione B è esaurito — annunciò Andy Carroll. — La sezione A è pronta a ricevere il trasferimento di velocità fra trecentodieci secondi.

Lani si girò e spiegò a quelli che stavano osservando: — La nostra sonda era un razzo a due stadi. La parte B ha fornito la spinta iniziale. La parte A ha risparmiato il proprio carburante per la collimazione finale con il Pacco Assistenziale.

— Allora, come mai la parte B è ancora attaccata? — chiese uno degli uomini di Quiverian.

Lani mosse i due pugni uno intorno all'altro, imitando un boia. — Stiamo utilizzando una pastoia a vortice per sottrarre ancora più velocità dallo stadio del booster, il razzo di spinta. Scagliando la parte B di nuovo verso Halley, trasferiamo la sua porzione d'energia all'altro pezzo, il nostro vero inviato.

Gli astanti ascoltavano appena. Tutti gli occhi erano sullo schermo centrale, dove il Pacco Assistenziale cominciava a ruotare. Quello che era stato un puntino caldo sull'orlo della cupola a specchio s'illuminò mentre ruotava verso il vorticante messaggero in due parti dei coloni.

L'immagine era troppo confusa. Le loro telecamere a bordo della sezione A che ruotava rapidamente non riuscivano a rimanere fissate in modo continuo sulla nave della Terra. Elaborando quei rapidi scorci, JonVon riusciva a stento a mantenere la simulazione d'un punto di vista fisso.

Saul si chiese se non avesse dovuto venirgli in aiuto. Conosceva JonVon meglio di chiunque altro, salvo la stessa Virginia. Per lo meno avrebbe potuto aiutare il computer organico a stabilizzare ancor più l'immagine.

Ma non si offrì di farlo. In tutta sincerità, temeva che Virginia potesse rifiutare, e rendere in tal modo esplicito ciò che era già tacito fra loro.

Mi manca talmente… Le ho fatto torto, restando lontano, non confessandole quello che ho fatto…

Così si era già detto più e più volte. Ma questo non l'aveva aiutato a trovare il coraggio di parlarle di quella piccola creatura deforme, che era cresciuta nella vasca della clonazione nel suo laboratorio segreto, un tentativo di farle un dono… ma che invece era risultato un crudele memento… l'ammonimento che Dio poneva dei limiti perfino ai profeti, e imponeva severamente il rispetto di quei confini.

Mi è stato posto in mano il potere di plasmare animali e perfino uomini… ma mi è negata qualunque maniera di dare alla donna che amo il bambino che lei tanto disperatamente vorrebbe, una cosa che la maggior parte degli uomini dà per scontata.

Doveva esserci una ragione, ma finora l'Infinito non si era degnato di confidarsi con lui.

— Che razza di clape oscena sta cercando di fare quel coso? — Saul sentì Jeffers mormorare quelle parole.

— Credo… — Carl Osborn scivolò avanti d'un passo, la sua voce improvvisamente rigida. — Credo stia cercando di colpire la nostra sonda.

— Impossibile! — gridò uno degli ortho moderati della caverna di Almondstone. — Perché dovrebbe?

Ma la lancia fiammeggiante del propulsore del vascello della Terra avvampò accecante quando la sua immagine giunse più vicina alla visuale fornita dalla telecamera. Andy Carrol gridò: — Sta manovrando! Accelera la virata! — E poi fu il caos totale.

— La pastoia si è separata! — urlò Lani.

— Ho perso il contatto con la sezione B! — gridò un altro spaziale.

— State indietro tutti! Lasciateli lavorare. Dategli spazio! — imprecò Carl, mentre spingeva via la gente dai controllori. Sopra le loro teste gli schermi erano una macchia confusa di sensori sovraccarichi.

Quando Saul si fece largo tra la folla urlante, gli occhi di Carl incontrarono i suoi, scivolando fra le braccia intrecciate degli hawaiani di Anuenue per avvicinarsi alla consolle. C'era un silenzioso guizzo d'emozione sul volto di Osborn, poi lo spaziale fece scattare la testa. — D'accordo — disse Carl. — Aiutali. Ma se li intralci ti spacco il culo.

Saul annuì e balzò in avanti per atterrare leggero sulla ragnatela accanto a Virginia. Tirò fuori un casco neurale dalla consolle e l'infilò sopra i punti scortecciati del suo cranio.

Il maelstrom era ancora peggiore nel regno delle immagini e dei flussi dei dati. Senza gli anni di pratica sotto la tutela di Virginia, si sarebbe smarrito in un attimo in mezzo a quel rumore.

Filtrò i dati cercando soltanto i centri per l'elaborazione della visione. Le cose veramente importanti, i vettori e i rapporti sulla condizione meccanica e sui dati della rotta, non le toccò neppure. Probabilmente, se avesse cercato di portare aiuto in quel settore, avrebbe fatto più danni che altro. Ma poteva dare a Carl e agli altri una miglior visuale di ciò che stava accadendo. Valutò che quel tanto fosse nelle sue capacità.

Richiamò quella sezione della memoria di JonVon riservata al proprio lavoro, recitando il suo codice segreto di accesso: Simon dice, apriti Kelly.

La risposta parve impiegare alcuni millisecondi, mostrando quanto il professore fosse impegnato:

Buon pomeriggio, dottor Lintz. Ho notizie da riferire circa lo stato dell'ultimo esperimento. Le camere di clonazione stanno operando secondo le indicazioni previste. C'è…

Non adesso lo interruppe. Scavalca tutto salvo la funzione fondamentale per il mantenimento della vita. Trasferisci le altre risorse all'elaborazione dei dati in arrivo in immagini chiare ed esibiscile secondo i seguenti formati.

Visualizzò la consolle lì davanti, e vi si «tuffò» con la sua mente, tracciando sentieri e nominando blocchi elettronici pulsanti per permettere a JonVon di accedervi. Il torrente dei dati era per lui un caos quasi totale, ma lavorare con JonVon sembrava aprire altre possibilità. Gli offriva uno scorcio, e così spesso pensava, delle meraviglie con cui Virginia aveva a che fare, come surrogati per quella parte d'infinito che avrebbe potuto essere sua.

Cattivo argomento. Concentrati, vecchio sciocco!

Le telecamere bruciacchiate, che rotolavano via sulla sonda A, stavano trasmettendo ancora. Se soltanto lui e JonVon fossero riusciti a sincronizzare ed a mettere in fase quel rotolare… ad accedere alla sonda facendo in modo che trasmettesse immagini in rapida pulsazione…

Sì! Macchina intelligente. La mamma ti ha insegnato bene.

Gradualmente, con lo scorrere dei secondi, quella macchia confusa si risolse, guizzò, si stabilizzò. Saul vide che la torcia fiammeggiante della nave della Terra era stata lasciata indietro, la sua vampa non ardeva più in maniera accecante.

La pastoia che si è spezzata l'ha colta di sorpresa. Si rese conto che il vascello della Terra non era stato capace di seguire dei pezzi che volavano via in direzioni tanto rapidamente alterate. Una delle sezioni stava adesso sfrecciando verso il Pacco Assistenziale ad angolo obliquo, ancora più velocemente di prima.

— Stava soltanto cercando di difendersi! — gridò qualcuno in mezzo al pubblico. — Dobbiamo aver attivato una difesa antimetoeoriti!

Un altro degli osservatori fu d'accordo. — Dobbiamo smetterla con questa stupida interferenza. Lasciatela arrivare come hanno previsto i suoi progettisti. Qualunque cosa faremo, sarà come un'azione da selvaggi che interferiscono con una macchina complicata che non capiscono. Ci causerà soltanto un disastro.

Vi fu un sordo brontolio di assenso, ma Saul riuscì a sentire, al di là del succedersi delle correnti dei dati, il chiaro sapore del trionfo che s'irradiava da Virginia.

— Beccato! — la sentì bisbigliare, non molto lontano. Girò brevemente la testa, cercando di vederla. Ma il pulsante connettore neurale e il suo sistema di visione naturale si scontrarono, minacciandolo con un'ondata di vertigini. Chiuse di nuovo gli occhi e si concentrò per stabilizzare l'immagine per Carl.

— Ecco — sentì borbottare allo spaziale, alle sue spalle. — Piano. Andy, Virginia, cercate di restringervi delicatamente alla base di quelle filiere. Adesso, Lani, aiuta Virginia a introdursi nel computer di quell'affare. Scoprite perché non ha ancora stabilito contatto.

— D'accordo, Carl — rispose Lani. Saul percepì il vascello della Terra come un'immagine incombente d'oro e argento bruniti… un globo troppo liscio, ancor più di uno specchio, per essere d'una quaisivoglia sostanza. In quella superficie una forma minuscola ondeggiò e crebbe, illuminandosi di tanto in tanto quando il robot della colonia sbuffava e avvampava per far collimare le velocità. Il loro piccolo inviato era sminuito contro quella curva che rifletteva il bagliore delle stelle, una grossolanità fusiforme che osava spingersi fuori per toccare quella bellezza angelicata.

— Contatto! Ci siamo fissati su una filiera — annunciò Carroll.

— Sto pulsando un codice di comunicazione sonda a sonda — riferì Lani.

— Vedremo cos'ha da dire…

Poi Virginia gemette.

— Quei pazzi figli di puttana!

Come se la lama di un coltello fosse calata e avesse reciso le mani di Saul. Un tsunami di rumore e di dolore lacerò i suoi ormeggi come un uragano, strappando via frammenti di lui stesso in mezzo ad una tempesta di dati impazziti. Provò la sensazione di affogare, e non aveva più nessuna idea di dove fosse l'alto. Il dolore e il caos lo travolgevano.

A questo punto accadde una cosa che salvò la mente di Saul. Starnutì.

Quell'esplosione sussultante fu così violenta che il casco con il connettore neurale gli volò via dalla testa e andò a sbattere contro la consolle. D'un tratto il mondo tornò di luce, aria, e di vero rumore: un timulto di voci umane che pareva, al confronto, il sussurro d'una brezza mattutina.

— Cos'è successo…

— … saltato in aria!

— Mio Dio, annichilamento puro…!

— Itaka, inserisciti sul canale di allarme! Di' alle squadre di superficie di mettersi subito al riparo! — ordinò la voce di Carl sopra quel lievitare di panico. — Falli scendere giù prima che i neutroni li colpiscano!

Delle mani afferrarono Saul per le spalle, cercando di tirarlo indietro. Sbatté le palpebre e in mezzo alle macchie che gli danzavano davanti agli occhi vide la forma afflosciata di Andy Carroll. Stavano recidendo la rete per liberarlo. Keoki Anuenue stava armeggiando dietro al collo ciondolante di Virginia, tirando via il suo connettore neurale mentre altri stavano accorrendo in fretta reggendo barelle.

— No! — urlò Saul. Afferrò il polso di Keoki con tanta forza che il grosso hawaiano cacciò fuori un rantolo di sorpresa.

Saul gracidò: — Non lasciare che nessuno la tocchi. Nessuno! — Prese su il casco che aveva appena buttato da parte. — Lasciala stare! — Con mano tremante se lo rimise in testa.

In un istante si ritrovò in quella turbinante, ribollente marea di elettroni, il ruggito di un'esplosione forte abbastanza da infrangere un piccolo mondo.

Stavolta meglio preparato, Saul cavalcò quelle onde impetuose, cercando uno scoglio, un vortice, un punto qualunque dove fermarsi e raccogliere i fili.

Un frammento del programma di mimesi della personalità di JonVon gli sfrecciò accanto, mormorando qualcosa sul rifiuto di un «Academy Award»… qualunque cosa fosse. Lo ghermì e collegò il frammento ad una subroutine per cercare i database delle biblioteche, e ad un'altra che conteneva informazioni sull'allevamento del bestiame nell'isola di Wight.

— Virginia — bisbigliò. — Dove sei?

Quale istinto gli aveva detto, con certezza più profonda d'una pura consapevolezza, che Virginia era smarrita in qualche punto di quel maelstrom…? Che scollegarla avrebbe significato lasciarla, se non allo stato di vegetale, comunque a qualcosa di basilare perduto per sempre nel caos? Saul cercò intorno a sé, raccogliendo un costrutto sbrindellato, una truppa di frammenti e di relitti, e mandò fuori degli esploratori a cercare.

Un sussurro di aria tropicale, laggiù!

Un profumo di crisantemi, qui!

Un ricordo segreto dell'infanzia… un imbarazzo con un ragazzo del vicinato… portatelo dentro!

Tracce, tutte, che si precipitavano fuori da un guazzabuglio turbinante. Ad uno ad uno, ci sarebbero volute mille vite per riconoscerle, o anche soltanto per ammucchiarle tutte, per non parlare di riordinarle e riportarle a ciò che erano state. Non ci provò. Tutto quello che poteva fare era amarle.

Paura e dolore… un'imprecazione sussurrata.

— … quei pazzi figli di p…

Gli sfrecciò accanto. Ma Saul la raggiunse e l'afferrò.

Ti amo, Virginia invocò. Difetti e tutto il resto… Stupido e cieco come sono, ti amo e ti amerò per sempre…

… per sempre…

La parola echeggiò.

… sempre…?

Sì, lungo la strada del tempo fino a quando perfino il Caldo sbiadirà e tutto il ghiaccio rivivrà… Non ti lascerò mai…

… mai…?

Oh, Saul…

Oh…

— Oooh. — La sua voce del mondo reale sussurrò accanto a lui. — Oh, Saul…

La ragnatela vibrò di movimento, e d'un tratto… ecco… la mano di lei rinserrava la sua, con tanta forza che quel gradito dolore si aggiunse al libero scorrere delle lacrime nei suoi occhi.

CARL

Carl digrignò i denti per l'irritazione, ma non lasciò trasparire la cosa. Quattro ore erano trascorse dall'esplosione. Il cauterizzante calore dell'esplosione avvenuta lì vicino aveva fatto evaporare in un lampo uno strato di ghiaccio da una delle facce di Halley. C'erano stati estesi danni ai mech e agli strumenti diagnostici sulla superficie, e alcuni feriti. I dati arrivavano con lentezza, ma ciò non aveva impedito a uomini e donne di discorrere e avanzare ipotesi.

Joao Quiverian stata diventando insopportabile. Usava tutto l'impatto della sua altezza, torreggiando sopra gli altri, con la sua voce che risuonava cavernosa, imperiosa e autoritaria.

— Abbiamo sbagliato in una maniera che trovo ingiustificabile. Questo infortunio è la diretta conseguenza della nostra bramosia di immischiarci in cose che non capiamo, invece che riporre la nostra fiducia negli esseri umani nostri simili. È ovvio che in qualche modo il mech ha dato fuoco alla camera a fusione del…

— Perdeeyn! — imprecò Sergeov. — Idiota di un archista…

Quiverian continuò imperterrito: — … Pacco Assistenziale, e…

— Va bene, basta così — esclamò Carl, in tono secco. — Chiudete tutti il becco!

Quella congrega di persone rivolse la sua attenzione su di lui. — Guardate quelle cifre. — Carl indicò con un gesto uno degli schermi. — Quella era un'esplosione termonucleare in piena regola. Non la disfunzione d'un motore a fusione.

Quiverian restò a bocca aperta. — Non… Ma perché mai avrebbero dovuto mandarci…

La pelle tatuata di azzurro di Sergeov s'increspò in un amaro sorriso. — Non mandarci, destinarci.

Carl annuì. — Lo penso anch'io.

— Una… bomba? — si chiese perplessa Lani Nguyen, sgranando gli occhi a mandorla a quel pensiero.

Carl replicò chiaro e tondo: — JonVon valuta la sua potenza a parecchie centinaia di megatoni. Un sacco di neutroni, raggi gamma e chi più ne ha più ne metta. Nessuna camera a fusione della quale io abbia sentito parlare può esplodere con qualcosa di simile a questa potenza.

Quiverian disse, scandendo le parole: — Allora avevano intenzione… di…

— Di lasciare che portassimo il Pacco Assistenziale giù nel nostro ghiaccio, per poi farlo saltare, distruggendo tutto quello che si trova dentro ad Halley. Facendo fondere la superficie esterna per lo spessore d'un chilometro, facendo crollare le gallerie in tutti gli altri punti. — Carl dovette controllare il suo crescente e frenetico nervosismo. Sulla Terra, in condizioni di gravità normale, i muscoli esercitavano sempre una qualche forma di lavoro, anche soltanto per far rimanere in piedi il corpo, in un equilibrio di minuscole tensioni. Qui, le esigenze interiori di azione non trovavano nessun modo di esprimersi. Era necessario focalizzare tutto su altri canali: la voce, le espressioni del volto, i gesti.

— Trovo… trovo difficile crederlo — mormorò Quiverian, d'un tratto insolitamente calmo.

— È tipico — ribadì Sergeov. — La Terra è sempre stata la stessa. Hanno distrutto la Edmund, puf! E adesso, noi.

Jeffers disse, amareggiato: — Già ci hanno chiesto di prendere la guida del pacco, di condurlo direttamente giù dentro il Pozzo Tre. E l'avremmo fatto, se non fosse stato per la curiosità che ci ha fatto mandar fuori un mech per vedere cosa mai papà ci stava portando — concluse con una sbuffata di scherno. Carl disse: — La Terra ha continuato con la sua storia per tutto questo tempo, per tre anni, quando fin dall'inizio avevano complottato di distruggerci completamente.

— Per conservare la loro sacra biosfera — concluse Saul, con voce pacata, mentre si avvicinava.

Carl sollevò un sopracciglio, Lei come sta?, e Saul annuì per rassicurarlo. Virginia era stata priva di sensi quando i tecnomedici l'avevano portata via su una barella. Carl provò sollievo, ma nell'espressione tranquillamente soddisfatta di Saul lesse una inquietante conferma: in qualche modo lui e Virginia erano di nuovo insieme. Era opera della crisi. Le sue possibilità, che, adesso se ne accorse, aveva permesso che andassero al di là di qualunque prudente aspettativa, erano di nuovo a zero. Saul e Virginia parevano in grado di sopravvivere a qualunque avversità il caso rovesciasse su di loro.

— … posso aspettarmi una spiegazione completa dalla Terra, ne sono sicuro — terminò Quiverian. Carl si rese conto di essersi perso una delle dichiarazioni pontificali di quell'uomo.

— Cosa?

Il volto di Quiverian parve annodarsi per l'esasperazione. — Ritengo che siamo stati vittime di una fazione politica. Qualcuno che, approfittando della quota di carico loro concessa, vi ha incluso una testata nucleare. Ciò non significa che tutta la Terra ci sia ostile. Una volta che avremo informato le autorità della Terra di come questo gesto umanitario sia abortito nella maniera più indegna e scorretta, sono sicuro che quelli al governo prenderanno tutte le misure per punire e azzittire quella congrega di…

— Balle — esclamò Carl con veemenza.

Quiverian sbatté le palpebre, le sue labbra si contrassero, le narici si strinsero, ma non replicò niente. Uno dei suoi luogotenenti cominciò a dire: — Senti, tu non puoi… — Ma Carl lo interruppe, secco:

— Chiamate la Terra alle microonde e ci farete perdere il solo vantaggio che abbiamo: il tempo.

Quiverian atteggiò la mandibola a un'espressione decisa: — Non posso aspettarmi che tu…

— Senti — disse Carl. — Ancora non sanno cos'è successo, giusto?

Jeffers fece alcuni calcoli a mente. — Vediamo… Sono circa due ore di viaggio in ognuno dei due sensi, alla velocità della luce. Dovremmo essere in grado di captare quello che dicevano quando quest'affare è scoppiato.

Carl annuì. — Inseriamoci nella loro trasmissione.

Lanciò uno sguardo verso una telecamera alla parete e annuì. JonVon stava ascoltando, come sospettava, e immediatamente la stanza si riempì del sibilo della statica solare. Poi una voce metallica snocciolò monotona: — Non posso copiarvi qui punto, Halley.

Jeffers disse: — Stanno ancora trasmettendo dati telemetrici per guidarlo sull'obiettivo.

La voce oscillò leggermente, dispersa a causa del suo viaggio di tre miliardi di miglia. — Stando alle nostre stime il pacco si sta avvicinando alla collimazione finale. RPX. Adesso consigliamo trasmettergli lasersegnale per dirigerlo sul Pozzo Tre. Poi prenderà controllo sistema di guida automatico.

Carl disse: — Stanno ancora lavorando al loro approccio.

Un continuo brusio confuso di statica, poi:

— Confermato attracco? Negativo sull'auto-servo pip di accoppiamento, ma ci mostra un contro-comm sul repplede oltre quattro. Aspettiamo quel pip, che ci segnali nessuno-in.

Gli uomini e le donne stavano ascoltando le parole di una civiltà adesso lontana nel tempo come lo era nello spazio. Sapevano che i controllori della missione sulla terra erano addestrati nel gergo del 2060, per minimizzare la confusione, ma anche così, strani termini e manierismi di un'era più moderna s'infilavano nei loro discorsi. Un'occhiata all'unghia del pollice disse a Carl che erano passate tre ore dall'esplosione. Ma gli pareva un anno, ormai. Ordinò che venisse portato di che rifocillarsi. I capi delle fazioni ascoltavano accigliati, in silenzio.

— Dovrebbe arrivare da un momento all'altro, adesso — osservò Jeffers.

Quella voce fluttuante continuò. — Vettore a posto, lettura coincidente. Codificato…

Un'improvvisa pausa. Gli scoppiettii lanceolati dello stesso Sole parvero inondare la stanza, portando con sé un ricordo delle regioni calde che avevano lasciato tanto tempo addietro, la presenza incalzante di quella eterna voce cogitabonda.

Poi vaghe urla, una grande agitazione. — UV e flusso visibile! È esploso!

Un farfugliare confuso, un tonfo ben distinto. — State lontani da là, potrebbe aver già attraccato, non sappiamo…

Una discussione animata, voci che s'intimavano a vicenda di tacere. — Controllate se quei reietti infettivi trasmettono ancora. Dannazione, sapevo che non avremmo dovuto auto-armare quel bastardo.

Un altro tonfo. — Negativo, Fred. Non trasmettono più.

Il fievole urlo di qualcuno: — Quei fetenti sono vapore!

Gli occhi di tutti si spalancarono quando arrivò un suono sottile, chiaramente da qualcuno che si trovava vicino a quello che stava parlando: una risata vigorosa, un grido di giubilo, poi il rumore di molte mani che applaudivano, come il rombo del mare.

Gli uomini e le donne di Halley si guardarono a lungo, in silenzio. Pareva vi fosse poco da dire.

Carl aprì la porta e uscì attraverso le cristalline rifrazioni del boccaporto di superficie. Erano passate diciotto ore. Aveva conferito con gli inviati delle diverse fazioni, aveva ottenuto il loro accordo, cercando di calmarli meglio che poteva. E adesso aveva tutto il diritto di trovarsi rintanato nella sua branda a riporsarsi un po'.

Ma ciò avrebbe significato strisciar via a leccarsi le ferite, qualcosa che avrebbe potuto benissimo fare qualche decennio prima… Sapeva che adesso non avrebbe funzionato. Troppe cose erano successe, e troppo in fretta. Se ci avesse rimuginato sopra, avrebbe finito soltanto per piombare nello scoraggiamento senza riuscire a combinare niente.

Quello era uno standard che aveva lentamente imparato a imporsi: Cosa avrai, quando questa faccenda sarà conclusa? Il ricordo di amare rimuginazioni, tentativi di dimenticare sbronzandosi? Recriminazioni contro ciò che la mano del fato gli aveva riservato? Ciò avrebbe potuto soddisfare qualcosa dentro di lui che voleva un tale frutto amaro. Ma adesso sapeva per esperienza che si sarebbe sentito assai meglio sui tempi lunghi se si fosse buttato a capofitto in un lavoro, costruendo, o riparando, o spostando qualcosa. Che fossero i muscoli a esercitare la propria logica. Poi sarebbe stato in grado di dormire, sapendo che avrebbe per lo meno realizzato qualcosa, che aveva continuato ad agire, facendola vedere a quei bastardi.

Un leggero sbuffo d'aria lo seguì sul ghiaccio, sollevandosi all'istante in una nube di nebbia. Stava procedendo con andatura costante, agguanta-suolo o stringi-ghiaccio, come si sarebbe voluto definirla, ma in questo modo faceva più esercizio.

Aveva avuto a che fare con gente mezzo ammattita, un sacco di gente così, e adesso era più che contento di trovarsi là fuori. Perché io appartengo a questo. Io sono sempre uno spaziale, maledizione!

Un idiota con gli occhi fuori della testa l'aveva fermato in un corridoio, accusandolo di aver sabotato il Pacco Assistenziale. Follia. La gente non voleva accettare questa chiara e limpida realtà: che il loro mondo d'origine aveva giurato di cancellarli dalla faccia dell'universo.

Be', d'accordo. Proprio come io non volevo accettare la realtà che niente separerà Saul da Virginia. È soltanto una questione di proporzioni…

La cintura dei lanciatori cominciò a profilarsi sopra l'orizzonte, a mano a mano che avanzava, con i piedi che trovavano un appiglio sul ghiaccio picchiettato e crostoso. Erano come esili cannoni dal profilo elegante, ognuno inclinato a un angolo leggermente diverso rispetto al proprio vicino. Settimane addietro avevano rallentato e fermato la rotazione di Halley, per semplificare l'allineamento delle loro spinte. Adesso le stelle erano sospese in posizione costante sopra di loro, e ogni lanciatore era puntato esattamente verso lo stesso punto del cielo: ascensione retta 87 gradi, declinazione +35.

— Ehi, capitano — lo salutò Jeffers, con un gesto della mano, dalla sommità del Lanciatore 16.

— Non sono capitano — rispose Carl automaticamente.

— Potresti benissimo esserlo.

— Sono soltanto l'ufficiale addetto alle operazioni. È tutto quello che i clan tollerano.

— Un branco di culi di somaro.

— E adesso credo che non otterrò neppure una promozione dalla Terra.

Jeffers ridacchiò asciutto. — Non un granché, direi. Hai finito di calmarli?

— Sì. — Carl balzò sulla cappottatura del lanciatore.

— È strano come qualcuno di loro non riesca a credere a quello che è accaduto.

— Era la loro Grande Speranza Bianca.

— Piuttosto scomoda, quando Madre Terra ti offre una tetta e poi… bum!

Carl sorrise suo malgrado. Da lì poteva vedere molti lanciatori, una linea tratteggiata che disegnava in qualche modo l'equatore di Halley, come se fosse stata tracciata da un diligente studente delle superiori per una relazione scientifica. Le loro bocche deviavano gradualmente a nord, a mano a mano che il suo sguardo spazzava l'orizzonte. Ognuno giaceva sepolto su una piattaforma idraulica a cuscinetti d'olio che assorbiva il rinculo ritrasmettendolo al fin troppo fragile ghiaccio. Robot e mech si trovavano accanto ad ogni tubo sottile, pronti a risolvere qualunque problema con gli alimentatori a nastro trasporatore.

— Sono d'accordo quelli là sotto?

Distratto da quell'ordinata schiera di lanciatori che si perdeva fino all'orizzonte, per un attimo Carl non riuscì a capire quello che Jeffers intendeva dire. — Oh, a proposito delle comunicazioni con la Terra?

— Sì. Sono tutti d'accordo di stare zitti?

— Non esattamente.

— Chi?

— Sergeov. Quiverian.

— Mi aspetto che qualcuno dia ascolto a Sergeov, certo. È un bravo ragazzo, un percell tutto d'un pezzo. Forse un po' manesco. Ma Quiverian? È un bastardo assassino! Chi può mai prestare attenzione a…

— Alcuni archisti pensano ancora che debba essersi trattato di un errore. Non possono immaginarsi la mamma che massacra i suoi figli, anche se sono portatori di malattie.

— Paaazzeeesco.

— Proprio così.

Sotto il silenzioso ciclo color ebano quelle questioni parevano meschine, insignificanti. Carl poteva affrontarle dentro, chiuso in mezzo al ghiaccio… ma qui, i problemi e le opinioni umane apparivano sporchi, piccoli, vergognosi. — Allora… ho chiesto a JonVon di prendere alcuni mech e… distruggere le antenne a microonde.

Con sua viva sorpresa, Jeffers scoppiò in una risata. — Dannatamente giusto!

— Lo… lo pensi?

— Certo! Se facciamo sapere alla Terra che siamo ancora vivi, quelli ci manderanno un altro Pacco Assistenziale. Soltanto che stavolta non ce lo diranno.

— Questo ci permetterà forse di guadagnare un paio di anni cruciali… forse. — Carl annuì. — Non hanno mancato completamente il colpo, naturalmente. Abbiamo perduto un paio di persone in superficie, e con la nostra attenzione concentrata sul Pacco Assistenziale abbiamo perso un po' di tempo per la sgomitata. Cominciamo in ritardo.

Jeffers annuì. — Siamo dannatamente vicini all'afelio. Sarà un grosso lavoro dare tanta spinta a così tanto ghiaccio.

— Avete già riallineato i lanciatori?

— Proprio come hai detto. Gli daremo una grossa variazione di velocità se cominceremo abbastanza presto.

Per lo meno, il fiasco del Pacco Assistenziale era alle loro spalle. Mentre altri si lamentavano, Carl, in un certo senso, provava sollievo. Significava che dovevano rompere con la Terra, ignorare il loro mondo nativo, perfino nascondersi ad esso quanto più a lungo possibile.

Chi poteva dirlo? Fra quarant'anni altra gente avrebbe potuto trovarsi al comando, laggiù sulla Terra. Oppure la colonia di Phobos poteva essersi conquistata la propria indipendenza quando i profughi cometari fossero arrivati laggiù sfrecciando sulle loro avvampanti aeroscialuppe.

Chi sto prendendo in giro? pensò Carl.

La tensione che era in lui non voleva scomparire. Aveva bisogno di qualcosa, O di qualcuno pensò, ma si affrettò ad escludere questo pensiero non appena lo riconobbe.

I lanciatori. Erano pronti, calibrati.

— Hai controllato la messa a punto di quelle regolazioni?

Jeffers batté la mano sul suo quadro di comando. Annuì.

— I collettori di pressione? L'allineamento dei magneti?

— Tutto a posto.

— E allora cosa stiamo aspettando?

Jeffers sollevò lo sguardo e un sorriso gli si disegnò con estrema lentezza sul viso. — Maledettamente giusto. — Cambiò canali e sparò fuori una lunga raffica di parole dirette ai tecnici.

Tutt'intorno ad Halley, la cintura si mosse. Gli impulsi elettromagnetici crebbero, raggiunsero la saturazione, attesero di venir liberati. E Carl sapeva che dentro il ghiaccio uomini e donne erano impegnati con le loro solitarie domande, i dubbi, le disperazioni.

Avevano bisogno di qualcosa che li scuotesse.

— Lasciala volare — disse Carl.

Lo percepì attraverso le suole dei suoi stivali. Un tremore, uno slancio crescente, un improvviso, fremente sfogo. Dalla bocca del Lanciatore 16 uscì… niente che lui potesse vedere. Ma poté sentire ogni pallottola rivestita di ferro che fuggiva via lungo il cannone elettromagnetico, con gli impulsi febbrili che scuotevano quell'esile tubo. Una mitragliatrice puntata verso le stelle. Contro il nero oblio sovrastante non lasciavano alcuna traccia, semplicemente descrivevano un arco dentro il nulla.

Era lo sfioramento d'una piuma contro un macigno, ma col tempo gli effetti si sarebbero sommati.

Si voltò per guardare lungo la fila. Ogni lanciatore sparava in continuità i suoi colpi contro il cielo, i campi elettromagnetici periferici risuonavano come un debole ma persistente rata-rata-rata-rata alla linea del comunicatore.

Sapeva che avrebbe dovuto chiamare JonVon, fargli inviare l'immagine a tutti gli schermi televisivi, avvertire l'equipaggio. Ma per il momento fece una pausa e assaporò quella scena per proprio conto.

Adesso stavano tornando indietro. Verso casa. La lenta, pigra orbita di Halley si sarebbe smussata, avrebbe ruotato, si sarebbe deformata. Per il meglio o per il peggio, avrebbero planato giù lungo il pozzo della gravità, verso un destino che non potevano vedere. Era la fine della loro lunga, inerte, obbedienza alla legge della gravità. Halley era diventata una nave.

— Finalmente facciamo qualcosa! — gridò Jeffers.

Carl urlò in preda a una gioia improvvisa, ogni dubbio era scomparso. — Sole, stiamo arrivando!

PARTE SESTA

CON LA FORZA DI UNA PIETRA

Anno 2100

Quello che tutti i saggi hanno promesso
non è accaduto,
e quello che quei pazzi hanno detto
è avvenuto.

Melbourne

SAUL

Fissò la fessura nella parete. La nera apertura si perdeva serpeggiando molto addentro nel ghiaccio. — Quand'è successo? — chiese Saul.

Due dei suoi assistenti, i capelli castani, con le efelidi che tracciavano disegni uguali sui loro volti, sollevarono lo sguardo da un banco del laboratorio lì accanto, dov'erano intenti a lavorare. Risposero insieme, con lo stesso tono di voce:

— C'è stato un halleymoto, Pops… Due ore fa. Uno forte. Ha spaccato la parete.

Saul scosse la testa, ancora incapace di capire come ognuno dei due sapesse ciò che l'altro stava per dire… così da giungere a irritarlo in una simile maniera.

— Oh, per questo, l'ha fatto, eccome — commentò, esaminando il danno. Sì, avrebbe dovuto occuparsene. Perfino a quelle profondità sotto la superficie, sarebbe stata una sciocchezza permettere che una qualunque delle camere rimanesse priva d'una chiusura ermetica per tanto tempo.

Qualcuno affermava che erano gli sgomitatori a mettere sotto tensione il nucleo della cometa, a mano a mano che la spingevano, mese dopo mese, anno dopo anno, causando in tal modo i sismi. Altri davano la colpa alla guerra, adesso in apparenza persa una volta per tutte da Quiverian e dai suoi archisti.

Il mese precedente gli spaziali di Carl, gli Uber di Sergeov e i neutrali di Keoki Anuenue si erano uniti, attuando una fulminea incursione contro la roccaforte degli archisti al polo Sud, mettendo fuori uso in maniera definitiva i resti della prima serie di lanciatori, e le antenne a microonde nascoste con le quali avevano comunicato con la Terra. Uno dei risultati era stato che adesso gli archisti non avrebbero più potuto usare quei vecchi lanciatori per interferire con le sgomitate verso Marte. Sfortunatamente, durante la breve ma sanguinosa scaramuccia, tre esplosioni avevano scosso l'estremità del nucleo di Halley, facendo temere a più d'uno che l'integrità stessa della cometa potesse essere minacciata.

Qualunque fosse la causa, quei sismi preoccupavano Saul. Da quattro anni ormai le cose, tanto per cambiare, andavano bene. Avevano captato la notizia, tramite deboli segnali irradiati fin lassù dalla Terra, che gli scommettori avevano ripreso a raccogliere puntate sulla sopravvivenza della colonia. Le attuali quotazioni li davano a cinque contro uno. Ma questo era in realtà un notevolissimo miglioramento rispetto alle scommesse di mille contro uno che erano correnti quando lui e Virginia si erano svegliati dal sonno trentennale.

Almeno per il momento, gli Uber di Sergeov, i diversi clan dei sopravvissuti, e i ragazzi di Marte di Jeffers, lavoravano insieme. Ma quest'alleanza dava a Saul l'impressione d'una soluzione sovrasatura di fluidi incompatibili fra loro, troppo instabile per durare a lungo.

Non avevano certo bisogno di halleymoti che scuotessero quel delicato equilibrio.

Saul indossava poco più d'un perizoma, un corto camice e un paio di sandali da ghiaccio, giacché aveva appena lasciato l'alloggio che condivideva con Virginia, per una breve visita al suo laboratorio. Virginia era salita alla superficie per discutere qualcosa con Carl Osborn, così lui aveva colto l'occasione di scendere là sotto per vedere come procedevano gli esperimenti.

Dovunque, nel laboratorio c'erano camere chiuse nel vetro, come acquari, nelle quali fiorivano o languivano miniecosistemi, dove forme di vita terrestri modificate lottavano per dimostrarsi degne di entrare a far parte della nuova, sintetica, ecologia planetaria, che soltanto adesso cominciava a organizzarsi.

Sulla sinistra, accanto alla parete, alcuni dei suoi assistenti stavano accudendo agli animali, uccelli senz'ali e capre capaci di dare latte in condizioni di microgravità.

— Dov'è Paul? — chiese Saul tutt'a un tratto.

I gemelli dai capelli castani indicarono con un cenno del capo la fessura nella parete, e scrollarono le spalle.

— Cosa? — Saul sbatté le palpebre. — Mi pareva di avervi detto di non farlo uscire da qui!

I due ruotarono gli occhi in un'espressione che aveva visto innumerevoli volte, nell'arco di lunghi anni che si riflettevano gli uni nello specchio degli altri. — Ci hai detto di non lasciarlo uscire dalla porta — gli ricordarono soddisfatti.

— Oh, Signore. — Saul si afflosciò. Sono mai stato come questi due? Così indescrivibilmente… immaturo?

I due se ne uscirono all'unìsono in una risatina. Saul esitò. Doveva inseguire Paul, naturalmente. Quel povero bambino non sarebbe stato in grado di cavarsela da solo, là fuori.

Non posso portare con me nessuno dei ragazzi constatò, accantonando l'idea di mettere insieme una squadra di ricerca composta dai suoi assistenti. Spaventerebbe a morte la gente irrompendo fuori nei corridoi come un'orda. Non li aveva ancora presentati a nessun altro, neppure a Virginia. Erano lo sviluppo più stupefacente scaturito dall'unione delle tecnologie di Phobos con la sua sempre crescente abilità nella clono-simbiosi. Ma questa volta non era affatto sicuro di come informare il resto della colonia della loro esistenza.

Saul fluttuò a balzelli fino alla crepatura della parete. Prese su una luminosfera di halleyvirid fosforici geno-pianificati, — Quando tornerò, faremo una bella chiacchierata su quella che è la responsabilità — li ammonì. — Paul è pur sempre vostro fratello, anche se sotto certi aspetti presenta delle deficienze. Era vostro dovere occuparvi di lui.

Abbassarono lo sguardo, vergognosi. Non erano ragazzacci, gli mancava soltanto l'esperienza, il mondo era ancora una cosa molto nuova per loro.

Due turbinanti bastoni neri di pelliccia balzarono sopra Saul, arrampicandosi sopra le sue spalle. Delicatamente, si staccò di dosso quei gibboni in miniatura.

— Non adesso, Max, Sylvie. Tornerò subito. Restate con i ragazzi. — Lo fissarono, seguendolo con gli occhi spalancati, mentre si voltava e si tuffava da solo in quella breccia oscura.

Naturalmente era probabile che Paul non corresse nessun pericolo. Era immune dalle tossine dei purpurei, naturalmente, e se quel passaggio conteneva aria, lo stesso doveva valere per qualunque altra cavità vi fosse collegata.

Se soltanto riuscissi a prenderlo prima che s'imbatta in qualcuno!

Presto o tardi, naturalmente, avrebbe dovuto rivelare quello che stava facendo. Annunciare che finalmente aveva trovato una soluzione a molti dei problemi della crescita e dello sviluppo, che avevano finora reso le nascite una quasi impossibilità su Halley.

Ciò che aveva appreso poteva perfino venir usato per aiutare la trentina di bambini che gli ortho e qualche percell avevano già prodotto. Durante lo scorso anno, migliorare la sorte di quelle povere creature deformi era stata una delle sue massime priorità.

Però aveva sperato di poter rimandare la presentazione agli altri dei suoi «ragazzi» fino a quando la sgomitata non fosse stata in pieno svolgimento, e la gente avesse cominciato a tornare dentro i colombari. Sarebbero stati accettati più facilmente quando c'era meno gente in giro.

Spero di riuscire a raggiungere Paul in tempo. La vista di estranei potrebbe sconvolgerlo.

Alla morbida luce irradiata dalla luminosfera, il crepaccio nel ghiaccio era una scintillante meraviglia di cristalli frastagliati e di vaporosa neve di clatrati. Era facile seguire il percorso del giovane osservando gli appigli che aveva usato. Qui una macchia, là un filo strappato dal vecchio camice floscio da laboratorio che Paul amava indossare. Saul seguì la traccia attraverso una piccola cavità di cristallo che non era mai stata esplorata prima, adesso esposta in tutta la sua gloria di agate dai recenti tremiti dell'antico ghiaccio.

Proseguì in fretta. Il passaggio si restrinse fino a quando fu poco più ampio del corpo di un uomo. Un uomo magro pensò Saul, mentre avanzava a fatica, tenendo le mani protese in avanti per tirarsi lungo quella strettoia.

Non poté fare a meno di paragonarla a un utero. Qualcosa nella galleria, forse una nuova halleyforma con la quale il suo sistema immunitario non era ancora venuto a patti, gli causava una reazione bruciante, che gli irritava i seni nasali e la gola. Il naso gli prudeva e si contorceva.

Al diavolo… pensò, chiudendo gli occhi e strizzandoli.

— Aaatch… oùuu!

L'eco del suo sternuto si riverberò da una cavità che si spalancava subito davanti a lui. Saul scosse la testa per schiarirsela, e continuò ad avanzare strisciando quando sentì l'inconfondibile suono d'un bambino che piangeva.

Spinse la mano attraverso la neve e incontrò lo spazio aperto, permettendo che passasse più luce. Strilli acuti accolsero la sua apparizione.

— È il Vecchio Duro! Il Vecchioduro!

— Sst, ragazzi. Zitti — li calmò una voce più profonda. — Visto? La pelle è bianca, non verde. Voi sapete che il Vecchio Duro è un po' nero e un po' verde.

I piagnucolii si attenuarono. Saul sentì una mano serrarglisi saldamente sul polso, e scalciò per aiutare il suo benefattore a trascinarlo attraverso la neve farinosa. Schizzò fuori in una delle gallerie della colonia tagliate con i raggi e rivestite di halleyvirid. Saul dovette ruotare su se stesso per attutire il suo impatto contro la parete opposta.

— Grazie — disse, scostando con la mano una nuvola di vapore sublimato che l'aveva seguito. — Io…

Un anziano — Saul ricordò che era un ortho chiamato Hans Pestle — teneva per mano due ragazzini scarni vestiti con fibratessuto sbrindellato. Altre quattro figure piccole e scheletriche erano aggrappate alle pareti vicine. Il vecchio lo fissò.

— Cosa succede, Hans?

Pestle scosse la testa. — Niente, dottor Lintz. Stavo soltanto… No, devo essermi sbagliato, è tutto.

Due degli altri bambini si fecero avanti, titubanti. — Hai goober per me? — chiese uno dei due, timidamente.

— Mi spiace, Ahmed. — Saul sorrise e accarezzò i capelli radi del ragazzino, tenendo le mani lontane dalla creature lunga, molle, simile a un furetto, che il ragazzino reggeva intorno alle spalle come una stola. L'animale, progettato dall'ingegneria genetica, sorvegliava Saul con occhi luccicanti.

— Mi spiace. Niente goober, stavolta. — Di solito i bambini ricevevano le loro medicine sotto forma di caramelle: i sapori dolci erano comuni nelle piante alimentari mutate, ma le palleacerbe erano la sua specialità più apprezzata. — Te li prometto per la prossima volta che verrai alla clinica.

— Ah, sìii. — Ma il bambino accettò bene quella delusione. Era passato un po' di tempo da quando aveva avuto uno di quegli attacchi di cattivo umore che lo faceva esplodere in incontrollabili scoppi d'ira.

In effetti, Ahmed aveva compiuto parecchi progressi. Parlava di più ed era aumentato di peso. Però, guardandolo, con i suoi trentadue chili e neanche un metro e quaranta di altezza, non avreste certo pensato che avesse sedici anni, misura della Terra.

Sfortunatamente c'erano limiti a quanto Saul poteva fare quando i danni erano così avanzati. Ed alcuni dei suoi metodi migliori erano risultati applicabili soltanto ad una gamma ristretta di tipi genetici. Trovava la cosa terribilmente frustrante.

Saul scosse la testa, lottando contro il rimbombo nei suoi orecchi causato dalla reazione a un attacco di simbiosi-allergia. Sternuti, e i bambini batterono le mani ridendo a quell'esplosiva detonazione.

— Cosa ci fate quaggiù tu e questi ragazzi, Hans? — Saul aveva riconosciuto il vicino incrocio dai segni incisi sulla parete. Si trovavano in profondità, molto al di sotto del territorio di quel clan di ortho.

Pestle fissò il pavimento. — Stavamo passeggiando… Avevi detto che ai bambini avrebbe fatto bene fare più ginnastica…

Era chiaro che Hans stava nascondendo qualcosa. Ma Saul non aveva il tempo di approfondire.

— Hai visto qualcun altro venire da questa parte? — chiese al vecchio, un tempo un famoso astrofisico, adesso ridotto dalla sua fragilità ad accudire i bambini menomati, mentre quelli con la mente limpida e il corpo sano lavoravano in superficie.

— Un minuto o giù di lì. — Pestle indicò il pozzo vicino con uno scatto della testa, puntando in alto col gesto della mano. Parve sul punto di fare una domanda, poi scosse la testa e rimase zitto.

— Grazie — disse Saul, e si avviò verso il pozzo.

— Non lo farei, se fossi in te.

La voce del vecchio lo fece fermare di colpo. Saul si girò. — Perché no?

Pestle distolse di nuovo lo sguardo da lui, mordendosi nervosamente il labbro. Un occhio era ancora annebbiato a causa di un danno risalente a molto tempo prima. Saul era riuscito ad eliminare la perdurante malattia, ma non il danno già fatto.

— Sei tu il nostro dottore — borbottò il vecchio. — Non possiamo permetterci di perderti.

— Perdermi? — Saul avvertì un improvviso tuffo al cuore. — Di cosa stai parlando? C'è pericolo, di sopra?

Virginia è salita là sopra fu il suo gelido pensiero.

Pestle scosse la testa. — Ho sentito delle storie… Potrebbero esserci altri combattimenti fra non molto. Ho condotto i giovani qua sotto per tenerli al sicuro. È tutto.

Saul corrugò la fronte. La cosa non faceva presagire niente di buono.

— Ti ringrazio per l'avvertimento, Hans. Farò attenzione.

Scalciò, allontanandosi, e cominciò a salire su per il pozzo, afferrandosi ai ciuffi di halleyvirid ibridi e addomesticati che rivestivano le pareti, e usando le dita chiodate dei piedi per accelerare la salita, procedendo quasi di corsa.

Aveva quasi raggiunto il livello B, quando un rumore stridente, come di gigantesche pietre sfregate le une contro le altre, echeggiò lacerante nel passaggio. Un altro maledetto sisma pensò. Oppure si trattava di qualcos'altro? Qualcosa di più sinistro? La vegetazione davanti a lui cominciò a oscillare, come un'onda che rotolasse giù lungo il pozzo fiocamente illuminato. Le increspature arrivarono e d'un tratto fu come se lui cercasse di cavalcare un serpente peloso, che s'inalberava e sgusciava via, sballottolandolo avanti e indietro.

Saul perse l'appiglio e venne scagliato attraverso il pozzo, atterrando accanto all'imboccatura di una galleria proprio mentre dei frammenti si staccavano dal soffitto. Si rotolò su un lato per evitare un macigno dalle punte aguzze che stavano cadendo lentamente, ma irresistibilmente. Un altro si staccò dalla parete sinistra e procedette con terribile inerzia, andando a urtare con forza schiacciante il lato sinistro.

Era talmente impegnato a evitare i due grossi macigni, che non vide la terza e più piccola roccia. Un colpo improvviso, schiacciante, contro la testa, lo mandò a barcollare contro il pavimento. Si accasciò, gemendo, sopra un gelido macigno.

La coscienza non scomparve mai del tutto, ma neppure rimase del tutto. Per Saul i pochi minuti, o l'ora, o le parecchie ore che seguirono, furono una confusione di rumori rombanti, di polvere di ghiaccio che si riadagiava lenta, di palpebre sbattute e d'incertezza su ciò che avrebbe dovuto ricordare.

Finalmente, ricordò.

Vai da Carl… avvertilo…

Non riusciva a ricordare per quale motivo doveva avvertirlo, o perché. Forse gli sarebbe tornato in mente quando fosse arrivato. Sapeva soltanto che doveva tornare dentro la galleria e ricominciare a salire.

Trova Paul… ricordò a se stesso. Presto… trova Virginia…

Ripeté a se stesso quelle istruzioni più e più volte, continuando a spinger via il rimbombo e il dolore che aveva nella testa. Presto…

VIRGINIA

Quando finalmente riemerse in superficie, percepì di nuovo la gelida maestosità del ghiaccio, il vuoto, il buio divorante nel quale tutti nuotavano. La Terra e le umide, soleggiate Hawaii in un sistema solare di perpetua Siberia pensò. Sentiremo mai più il vero calore?

Mentre percorreva a lunghi passi il ghiaccio grigio chiazzato, Virginia bandì risolutamente quel pensiero. Aveva avuto un'esperienza più che sufficiente con gli inizi dello scoraggiamento, grazie tante, durante quegli ultimi, e non pochi anni. Era un rischio occupazionale. Perfino il suo amore per Saul non si era dimostrato uno scudo adeguato a proteggerla… proprio come, decenni prima, avevano previsto gli psicologi della Terra. Avevano avvertito l'equipaggio di non attribuire troppo peso a qualunque rapporto, nessun legame umano sarebbe stato in grado di assorbire la pressione totale del loro isolamento, l'incessante ostilità di quel gelo vuoto e duro.

Un uomo, una donna, non sono stati fatti per sostenere tutto il peso del mondo disse fra sé. E, in particolare, non un mondo spoglio come questo. Gli antropologhi avevano scoperto che perfino le società più semplici avevano rapidamente inventato l'alcool — la birra, di solito — probabilmente come rifugio contro la tempesta incessante della realtà nuda e cruda. Anche l'intelligenza capace di affrontare in maniera flessibile e sottile l'ambiente che la circondava era inevitabilmente vulnerabile ad essa. L'equipaggio di Halley aveva tentato tutte le prevedibili vie di fuga: l'alcool, le droghe, i senstim, relazioni torride e fugaci, riuscendo così a superare gli anni. Ma nessuna vittoria era permanente, e Virginia sapeva che doveva guidare se stessa attraverso i banchi di depressione, evitando i pensieri e gli umori che l'avrebbero attizzata.

Avvertì un lieve tremito attraverso le suole dei propri stivali, e si guardo nervosamente intorno. Niente d'insolito, all'apparenza. Alcune squadre intente a lavorare intorno a dei lanciatori, in distanza. Nessun grido al comunicatore… niente di storto. Bene. Non voglio trovarmi qua sopra quando qualcosa fa bum! Non sono il mio forte le crisi, nossignore. Non senza guanti waldo, JonVon, e cento mech pronti a obbedire a un mio cenno.

Le nuove gigantesche cupole idro si profilavano non molto lontane, erette da Jeffers e dalle sue squadre quand'erano cominciati i sismi. Era rischioso tenere fattorie e fabbriche in funzione sotto il ghiaccio, accanto ai lanciatori, nel caso in cui una faglia si aprisse a causa dell'incessante martellio degli sgomitatori. Carl aveva ordinato che una gran parte degli agro venissero trasferiti in superficie, insediati vicino ai pozzi.

In mezzo a tutti quei lavori correvano le solite voci. Che gli archisti sconfitti avessero raggiunto un accordo con gli Uber. Che gli Uber avrebbero fatto di nuovo storie sulla traiettoria di Marte. Che gli Altopiano Tre stessero costruendo in segreto una nave spaziale. Virginia li giudicava tutti discorsi oziosi, ma non si poteva mai sapere…

Oggigiorno tutto avviene così in fretta, tutto è così eccitante. Un milione di lavori, quasi tutto l'equipaggio rianimato… Allora, perché mi sento depressa?

La risposta era ovvia. In realtà non voleva venire lassù a parlare a faccia a faccia con Carl.

Avanzò fluttuando verso la Cupola 3, dove sapeva che Carl stava controllando alcuni nuovi agro-risultati. Quando attraversò la sibilante camera di equilibrio, vide Carl intento a studiare alcuni contenitori, facendo scivolare le mani fra opimi semi di grano. Indossava la tuta spaziale; di questi giorni era dentro e fuori così spesso, per controllare i lanciatori, che se la toglievano di rado. Agrooperatori galleggiavano sopra i campi di segale e granturco maturi e cuspidi spiraleggianti di ortaggi: elaborati geneticamente per prosperare qui, a bassa gravità, in mezzo alle onnipresenti halleyforme, avevano strane forme asimmetriche.

— Roba magnifica, eh? — le disse Carl con un sogghigno, mentre lei si avvicinava.

— Sei uno che fa tutto. Controlli anche i cereali per la prima colazione?

Il suo volto si rannuvolò. — Mi piace che il buon lavoro venga lodato, e questa gente ha fatto…

— Ehi, stavo soltanto scherzando. — Gli sferrò un giocoso pugno sul braccio, ma subito sentì che quel gesto era forzato, innaturale. Calmati. Questo sarà già abbastanza difficile senza cercare di fingere che è un congresso di templari.

Carl scrollò le spalle. — Sarò da te fra un istante, Virginia. — Tornò a voltarsi verso la donna della squadra che era in piedi vicino a lui. — Il nuovo ibrido è eccellente. E ha anche un sapore fantastico.

Virginia seguì la scena mentre Carl e il tecnico agro discutevano varianti del ciclo di crescita. La dolce ma tamburellante accelerazione di Halley influenzava gli specchi che illuminavano le serre, ed era necessario attuare degli aggiustamenti.

Virginia vagò lungo una corsia, lieta di ritardare il momento. Gli steli arrivavano ad un'altezza di quasi cento metri, esili e bianchi, producendo foglie impossibilmente ampie e carnose. Affusolati mech giardinieri si aggiravano lungo le strette corsie. Irroratori rotanti lanciavano goccioline tremolanti fra gli alti steli spiraleggianti. Sotto quelle fabbriche verticali di proteine si stendevano file di grassi vegetali, lussureggianti e riccioluti, nella morbida luce ultravioletta che filtrava attraverso i luccicanti banchi di umidità sovrastanti. Un ricco humus lambiva i piedi dei giganti, come un mare che erodesse invisibili rive. Una distesa d'acqua liquida raccoglieva, riciclandosi, i detriti che cadevano lentamente giù dalle cuspidi, e pesci modificati guizzavano fra le radici nodose. Si ricordò d'una poesia che non aveva mai terminato, e scoprì che nuove strofe le sgorgavano nella mente:

In tutto questo luccicare
il bell'acciaio e la fredda ceramica certamente
cancellano le regole
tanto sicuramente quanto nell'antico letto del mare della Terra,
Freddi eppur crepitanti lanciatori chiamano
lampi che un tempo attizzarono aderenze organiche,
molecole febbrili assetate di unione,
non sapendo che la crescita significa età,
e che poi la rosicchiante marcia ha inizio.
Viviamo mangiando altri
proprio come queste terre ghiacciate consumeranno noi,
incessante e interminabile digestione
dei nostri cuori e sogni.
Congiure e complotti,
tutte nuvole passeggere in un buio senz'aria.
Eppure ci manca
una chiara via del ritorno alla giovinezza,
o alla Terra, o al sonno del colombario e la rinascita.
Preferirei venir abbattuta
dopo la lunga caccia dell'estate,
col ventre squarciato
(non è un disonore)
che filtrare come melma
nel muschio del giardino e sentire
il cortese Che perdita!,
quando so che tutto verrà ridotto in polvere
per farne terra dove
i nuovi Cesari marceranno,
inconsapevoli, anch'essi diretti a trasformarsi, a suo tempo, in buon humus.

Virginia tossì a causa dell'aria pesante carica dell'odore di muschio. Sembrava che non fosse più capace di completare le sue poesie. Invece, le tirava fuori per esaminarle, rigirandole alla luce come graziosi sassolini trovati sulla spiaggia durante la vacanza dell'ultima estate. Be', le poesie acquistano un certo che di cadaverico una volta composte… Lasciarle incomplete dà loro una esistenza illimitata.

Sorrise fra sé.

Quando tornò indietro seguendo una stretta corsia, Carl aveva finito di parlare alla squadra dell'idro. Le piacque il modo in cui la superficie interna argentata della cupola rifletteva un'immagine deformata e surreale di Carl immerso in una profusione di vita vegetale, come se fosse un oceano nel quale galleggiava. Quando lui si voltò verso di lui, Virginia sollevò una mano. — Conferenza?

— Sicuro. — Rimase lì ad aspettare, l'antica circospezione ancora presente nelle profondità dei suoi occhi. L'ho ferito così tante volte…

— Volevo… volevo dirti…

— Sì?

— So che contavi che ci fosse… che ci fosse qualche possibilità che Saul ed io…

Carl la fissò con un pallido sorriso. — C'è sempre speranza.

— Non ti arrendi mai.

— No.

— Tanto vale che tu lo faccia — lei gli disse con gentilezza.

— È così certo fra voi due?

Virginia ricordò i propri pensieri in proposito, soltanto pochi minuti prima. — Qua fuori niente è certo, lo sai. È soltanto che… tu hai, be', dei fini così tradizionali…

— Li chiamerei sogni. — Carl sorrise con un umorismo caldo, mesto, come se fosse conscio delle proprie debolezze. Virginia vide che si sarebbe comportato in maniera cortese e delicata. Il tempo gli aveva dato una patina, un senso di se stesso. Era cambiato moltissimo durante quegli anni, quasi senza che lei se ne accorgesse. Sono stata così avvolta in Saul…

Lottò per trovare le parole giuste, ma prima che riuscisse a farlo, Carl disse: — Devo ammettere che qua fuori l'idea dell'amore e della famiglia, tutto quel confortevole quadretto, non funziona. Non abbiamo ancora scoperto come fare a proteggere i bambini delle halleyforme.

— Con me non avrai mai una famiglia.

— Ci sono rassegnato. Neppure Saul l'avrà mai, naturalmente.

— No, ma non a causa della sua sterilità. Si tratta di me. Io… io non posso aver bambini.

Le sue labbra si chiusero, ma non disse niente. La patina era scomparsa in un istante, e Virginia vide di nuovo il vecchio Carl, pieno di desideri e bisogni.

— Io… non sono mai riuscita a dirlo a nessuno. Ci sono voluti anni prima che riuscissi a dire qualcosa, perfino a Saul.

— Dio… mi spiace.

Virginia sbatté le palpebre per scacciare le lacrime. — Mi sono rassegnata. — Allora, perché sto piangendo, idiota?

— Durante tutto questo tempo… — Carl scosse la testa, il suo volto si aprì, e in qualche modo parve più fresco, più giovane. Durante tutti questi anni ha custodito un sogno, e adesso è sparito.

— Lo sapevo molto tempo prima di lasciare la Terra.

— Io… capisco — disse Carl, intorpidito.

— Carl…

— E che possibilità c'è, uh…, di riparare quello che non funziona? Saul ha fatto meraviglie… — S'interruppe.

Lei pensò con veemenza, Era me che volevi, oppure il tuo sogno di dolci, piccoli bambini percell, miracoli genetici fra le stelle? Ma era un pensiero sbagliato, ingiusto.

Virginia sbatté rapidamente le palpebre. — Questo è un caso speciale. Neppure la chirurgia genetica… Ha tentato la clonazione, senza il mio permesso. È stato un disastro. — Scrollò le spalle.

— Lo… hai… sempre saputo.

Virginia annuì. — Suppongo che sia stato questo a influenzarmi, a indurmi a partecipare alla missione prima di qualunque altra considerazione. Non avrei mai avuto un'esistenza convenzionale, non importa come l'avessi vissuta.

— Avresti potuto adottare…

— Tu conosci le probabilità che ha un percell di adottare bambini. Perfino alle Hawaii.

Carl esclamò con furia selvaggia: — Sì, ci hanno isolati in tutto, vero? — Quel ricordo riusciva ad amareggiarlo ancora.

— Avrei potuto rimanere… combattere con gli altri…

— Hai visto cos'è successo.

Virginia annuì, tirando su col naso, sorpresa dalle sue stesse emozioni. Se rimango qui, finirò per piangere. — Abbiamo… abbiamo davvero fatto la scelta giusta, non è vero? Partecipando alla missione?

La sua voce suonò greve. La sua faccia era una maschera. — Non… non lo so.

Virginia rimase scossa. L'ho derubato della sua ultima fantasticheria? E, scomparsa questa, viene travolto dalla marea della disperazione?

— Carl, non puoi pensare questo. Siamo sopravvissuti, siamo riusciti a… a…

— Senti, io… in questo momento preferirei non parlare. Va bene? Voglio… sì, voglio restare solo. — Visibilmente, cercò di ricomporsi, lottando per riprendere un po' di quel fiducioso atteggiamento da capo che per lui era diventato quasi una seconda pelle… per quanto in quel momento potesse venir così facilmente sbucciata. — Apprezzo molto che tu me l'abbia detto. Adesso riesco a capirti meglio, e questo, per lo meno, è qualcosa.

— Carl, io…

— Ho un sacco di altre cose da fare qui! — esclamò lui, seccamente. — Forse più tardi.

Se ne andò in fretta, con la mente in un turbine di emozioni in violento conflitto fra loro. In qualche modo lei aveva dovuto dirglielo, però, se questo l'aveva spogliato di troppe cose, l'aveva danneggiato…

Virginia si era lasciata ingannare dal suo volto pubblico fatto di sicurezza e controllo di sé. Ma sotto tutto questo, Carl era davvero cambiato molto poco. Era cresciuto a seconda di come la situazione richiedeva, ma non il Carl interiore. Quel Carl aveva coltivato una fantasticheria, e adesso lei l'aveva rovesciata, abbattuta.

S'incamminò a grandi passi attraverso la distesa di ghiaccio, cercando di dominare la propria confusione… un puntolino che si muoveva lungo una pianura che aveva il colore di uno schermo televisivo vuoto.

— Virginia — si fece udire la voce ben modulata di JonVon, quando si trovò a metà strada dalla camera di equilibrio. — Ci sono trasmissioni in codice da un punto accanto alla tua attuale postazione.

— In codice? — Virginia si arrestò e si guardò intorno. Nessuno in vista, salvo pochi addetti all'impianto idroponico che se ne stavano andando con passo strascicato alla conclusione del loro turno. All'orizzonte, una delle torri fiabesche di Jim Vidor svettava appuntita verso le stelle. Più lontano ancora, un lanciatore fremeva, continuando a guidarli gradualmente, impercettibilmente, verso il loro incontro con Marte. — Cosa vuoi dire?

— Ho penetrato il codice, un piccolo algoritmo di livello adolescenziale. I messaggi trasmessi sono carichi di eccitazione e non del tutto intelligibili. Fanno il tuo nome e quello di Carl Osborn.

— Senti, JonVon. Controllali, e cerca d'identificare la fonte. Ho altre cose in mente, in questo momento.

Virginia lanciò un'occhiata alla cupola dietro di sé, e vide attraverso la sua trasparenza chiazzata due figure, l'una di fronte all'altra, sotto il sole brillante.

Carl, in tuta, che gesticolava. La seconda figura con una semplice veste… Virginia si sentì certa che fosse Saul.

Con Carl in quello stato d'animo… Vorrei poter avvertire Saul. Questo non è davvero il momento d'infastidire Carl con qualche dettaglio.

Qualcosa non andava. Saul agitò le mani, poi si spostò di lato, barcollando, come per andarsene.

Virginia corrugò la fronte. Saul pareva malato… Sì, c'era qualcosa di strano nella maniera in cui si muoveva.

Carl fece un passo avanti, e Saul lo spinse via. Virginia avrebbe voluto trovarsi nel suo laboratorio. Avrebbe potuto connettersi subito con uno dei suoi robot operai dentro la cupola, e ascoltare.

Quei due uomini stavano urlando… Saul gesticolava come impazzito, spingendo. Andò a urtare contro la torreggiante parete di vetro.

La cupola si squarciò! In quel momento un lampo azzurro la tagliò, lacerando il foglio per la pressione, sollegando una pioggia di livide scintille gialle. L'aria uscì a fiotti senza rumore, una nebbia perlacea che esplose formando una sfera che si levò alta, crebbe e si sfilacciò. Com'è possibile che un uomo possa infrangere… Poi si rese conto.

Laser.

— Saul! Corri nella camera di equilibrio! — Ma lui non poteva udirla, naturalmente. Saul non indossava nessuna tuta.

Carl si lanciò di corsa verso la camera di equilibrio dov'erano immagazzinati i caschi.

Saul incespicò, confuso, e cadde dentro una massa di vegetazione. Si rialzò in mezzo al ribollente groviglio di piante, ma non pareva sapesse quello che doveva fare, dove potesse ritrovare la pressione atmosferica. La camera di equilibrio era a soli cento metri di distanza, ma a causa di quel disorientante tuffo nel vuoto il cervello gli trasmetteva dei segnali in conflitto fra loro.

Virginia si mise a correre, urlando, senza distogliere gli occhi da Saul. La sua veste gli sbatteva sopra i fianchi, bianca come ossa, barcollava impacciato, allontanandosi dalla camera di equilibrio, verso lo squarcio della cupola. Stava seguendo senza riflettere la raffica che infuriava intorno a lui, soffiandogli i capelli castani davanti agli occhi, sballottando le piante con sferzanti folate.

Carl aveva raggiunto la camera di equilibrio. Si curvò ed entrò, chiudendosi il portello alle spalle. Avrebbe impiegato almeno un minuto a trovare un casco, a immettere un po' d'aria nei propri polmoni.

Virginia correva come una furia, i continui scivoloni sul ghiaccio la facevano quasi impazzire.

— Saul… no! Saul…

Conosceva gli effetti del vuoto e del gelo, la rottura dei vasi sanguigni nei polmoni, il congelamento delle cellule del corpo, lo scoppio delle delicate membrane negli occhi e negli orecchi, un caos orrendo in tutto il corpo.

Saul continuava ad avanzare incespicando verso il labbro infranto della cupola, attirato dal risucchio della tempesta. Stava ancora correndo quando cadde in mezzo alle schegge ritte.

Carl le passò accanto correndo. Ma quando raggiunse la figura accartocciata, rigida e contorta in una posizione di torturata agonia, videro delle aguzze lame di vetro che gli sporgevano dalla schiena. Quei tagli profondi non schizzavano neppure più il sangue scarlatto. Lividi purpurei, carnagione vitrea, occhi aperti, privi d'espressione.

La squadra della cupola arrivò di corsa dal portello della camera di equilibrio più lontana, portando l'attrezzatura per i primi soccorsi. Troppo tardi.

Che aspetto strano ha pensò Virginia. Era sempre parso scabro, logorato dal tempo, ma trionfante. Adesso pareva immacolato, giovane, il volto liscio, come se gli anni fossero stati cancellati dalla mano clemente della morte.

CARL

Era sempre stato un risolvi-problemi, un uomo che reagiva all'ignoto riflettendo, scomponendolo in singoli pezzi comprensibili. Poi, Carl avrebbe risolto con gran cura ogni enigma, fiducioso che la somma di quei microproblemi avrebbe alla fine risolto la confusione più grande. Come la chiamavano al Caltech? Una «supersituazione lineare, con variabili indipendenti? Già. È il mio genere di roba. Quella che il vecchio Carl sa fare.

Picchiò il pugno contro la parete di ragnatela spugnosa della Cupola 3. Ma non posso riparare il passato. Non posso far tornare Saul. Non posso neppure confortare Virginia.

Virginia era seduta in mezzo ad alcuni steli avvizziti di rabarbaro appena raccolto, con lo sguardo fisso nello spazio. I suoi occhi cerchiati di rosso si erano da tempo liberati delle lacrime, e adesso si era ritirata in se stessa, esausta, stordita. La squadra della cupola aveva portato via il corpo di Saul, e nella confusione che era seguita Virginia era piombata nel silenzio, cinerea e abulica. Lani Nguyen sedeva assieme a lei, mormorando sommessamente, con un braccio intorno alle sue spalle.

Lani e Jeffers erano arrivati soltanto pochi istanti dopo la morte di Saul, rispondendo all'allarme lanciato da Carl. Non c'era nessun segno di chi aveva sparato col laser che aveva perforato la cupola. Lani e Jeffers non avevano incontrato nessuna opposizione quando erano balzati fuori dal pozzo più vicino. Le linee del comunicatore non trasmettevano nessuna notizia. Le squadre della cupola, uomini bene addestrati alle perforazioni dovute ai meteoriti, avevano sostituito la parete infranta rendendo nuovamente ermetica, con la massima rapidità, la cupola. L'atmosfera era quasi ritornata ai valori normali.

Jeffers disse, amareggiato: — Ancora non riesco a capire.

Carl ammiccò un paio di volte, assorto nei suoi pensieri. — Cosa?

— Perché Saul non abbia reagito quando la cupola è scoppiata. Era più vecchio, certo, ma ci siamo addestrati parecchio nei pozzi, per far fronte alle perdite d'aria. Come mai Saul non ti ha seguito?

— Era disorientato ancora prima che succedesse. È sbucato fuori dal portello dei rifiuti, laggiù, borbottando.

— È pazzesco. — Jeffers scosse la testa. — Il portello dei rifiuti.

— Deve averlo imboccato come una specie di scorciatoia. Forse sapeva che Virginia mi stava parlando, e… — Carl s'interruppe. Non voleva rivelare ciò che Virginia gli aveva detto, o insistere sul pensiero che Saul stava cercando di fermarla. È tutto così maledettamente pasticciato! Perché mai a Saul avrebbe dovuto importare ciò che Virginia mi stava dicendo? Oppure l'arrivo di Saul, troppo tardi, è stato un incidente?

Jeffers si morse il labbro, a disagio. — Virginia… ha detto che tu e Saul avevate litigato, o qualcosa del genere.

— Urlava qualcosa, soltanto suoni indistinti, grugniti, alcune parole, il tutto mischiato.

— Tu credi che fosse in preda alle allucinazioni, o qualcosa di simile?

— Forse. Erano mesi che non lo vedevo. Pareva confuso, incoerente. Quell'uomo era demente.

— È per questo che non ha reagito, non ha corso verso la camera di equilibrio?

— Immagino sia così.

Jeffers parve scettico. — Senti, qui c'è qualcosa di dannatamente di troppo. Qualcuno fa un foro attraverso la cupola, finisce quasi per ammazzarvi tutti…

— Bersagli molto opportuni — commentò Carl. — A meno che non abbiano individuato la cotta di Virginia quand'è uscita, devono aver pensato che si trovava anche lei nella cupola.

— Ma chi…

Una vampa azzurra colpì una bazza e tozza collina di ghiaccio, poco distante. I due uomini si girarono di scatto per osservare il bagliore che si dissolveva, avvolto nella sfera di spruzzi bianchi in rapida espansione.

— Maledizione! — urlò Jeffers. — Tutti… i caschi!

Carl si lanciò verso Virginia, rinserrando automaticamente i ganci a O del suo casco, ma vide che Lani l'aveva preceduto, e la stava aiutando. — Equipaggio, a terra! Se dovessero perforare di nuovo la cupola…

— Non ho bisogno di sparare di nuovo, Carl. Hai capito cosa voglio dire…

La voce aveva crepitato improvvisa nei suoi auricolari. — Chi è? — scattò.

— Sergeov! Lo sapevo — trasmise Jeffers.

— Liberate il canale A — disse Carl, per reprimere il crescente vocio lungo la linea. — Sergeov, cosa diavolo…

Nel piccolo schermo all'interno del casco di Carl comparve il volto sogghignante di Sergeov, dipinto di azzurro. Il sigillo di Simon Percell era dipinto su ognuna delle sue guance.

— Speravo di prendere Carl e Virginia senza danni. — L'accento di Sergeov arrivò con maggiore chiarezza. — Ancora meglio quando le mosche vengono sul miele. Jeffers, spero che possiamo contare su di te per operare con i lanciatori quando questa storia sarà finita.

— Quando sarà finito cosa?

— Puoi vederlo da solo.

Carl si era messo a scrutare l'orizzonte per localizzare il loro laser. Adesso, quando tornò a girarsi verso l'equatore, vide delle figure che correvano incrociandosi fra loro intorno ai lanciatori. In silenzio, una nuova scarica colpì il terreno fra due forme in corsa, facendole rimbalzare verso il cielo in mezzo a un'esplosione di vapore. Carl non riuscì a capire se quei due uomini erano stati colpiti direttamente, ma non ebbe il tempo di chiarire la cosa prima che scoccassero altri rapidi lampi azzurro-ardenti.

— Abbiamo già preso metà dei lanciatori. O gli altri si arrendono, o noi li bruceremo là dove si trovano.

— Cosa… — Carl comprese. — Tu… tu hai tagliato fuori me e gli altri, cosicché non possiamo guidare un contrattacco, giusto?

Sergeov si voltò per fare un segnale. Immediatamente Carl sentì un cramp e una forte vibrazione sotto i suoi piedi. — Proprio adesso ho dato ordine di far saltare le gallerie sotto la tua cupola. Vi ho chiusi dentro per benino, non è vero? Gran bel colpo, clape!

Carl gridò: — Idiota…

Sergeov rise. — Non ti piace la trappola, clape? — Poi si calmò. Sorrise. — Senza di te, gli altri saranno meno stupidi.

Jeffers intervenne: — Questo è ammutinamento, sai.

— Autoconservazione, vuoi dire.

Carl poteva sentire nel veleno delle parole di Sergeov un rimprovero alla sua leadership. Le escandescenze di quell'uomo gli erano parse comiche, stupide, una serie di idee residue. Ma dopo il Pacco Assistenziale, un mucchio di persone, per ogni altro verso ragionevoli, avevano sviluppato un odio profondo verso la Terra, e Sergeov aveva appunto giocato su questo, sostenendo che la manovra di Marte non avrebbe funzionato.

È quasi certo che il progetto Marte non ci salverà. Niente potrà farlo, salvo il mutato atteggiamento della Terra.

Era parso a Carl che Sergeov non avesse mai proposto nessuna valida alternativa, e che nessuno potesse prendere sul serio quell'uomo. Però, mettendo insieme gli spaziali scontenti e gli Uber intransigenti, Sergeov poteva avere abbastanza gente per impadronirsi dei lanciatori e mantenerne il controllo, se avessero fatto le cose a dovere…

— Non ti piace Marte come bersaglio?

— Sono tutte stupidaggini emotive. Non potremo mai frenare con un'atmosfera così sottile… chiunque si soffermi un attimo sui calcoli se ne accorge.

— Possiamo tentare. Come minimo, rallenteremo un po', forse così ci si apriranno delle scelte per il tratto verso l'esterno di questo passaggio.

Sergeov rise, un gracidio asciutto. — Non tenermi discorsi. Io e i miei amici, che siamo veri percell, non rinnegati che si lasciano sfruttare da qualsiasi ortho, che perfino dormono con loro, conosciamo l'astrofisica quanto te, probabilmente ancora meglio. Pensi che non siamo capaci di fare simulazioni? Conosciamo il pericolo che c'è di colpire Marte. Nel migliore dei casi non c'è abbastanza aria. Così, la sola speranza che ci rimane è di frenare in un pianeta con un'atmosfera densa.

— Venere? Là c'è una possibilità per la missione, anche se si trova sul percorso di uscita. Prima dovremo passare il perielio, e non voglio esprimere giudizi su come riusciremo a sopravvivere a una simile prova.

— Niente perielio. È stupido anche soltanto pensare che possiamo cavalcarlo.

— Perché no? Ascolta, Otis, possiamo discutere di un incontro con Venere nei particolari, se vuoi.

Jeffers fece un gesto a Carl, mentre parlava. Lungo la lontana linea dei lanciatori delle figure stavano lanciando delle bandiere improvvisate sopra le cappottature, il segno degli Uber.

— Vedi che stiamo vincendo? Da, tutto per tempo. Se gli altri lanciatori non si arrenderanno, abbasseremo la bocca dei nostri, spareremo contenitori vuoti, e bersaglieremo gli altri fino a farli a pezzettini.

Jeffers sbottò: — Sei fottutamente matto, lo sai?

Carl fece cenno a Jeffers di stare zitto. — Gesù, Sergeov, non lo faresti. Ci servono quei lanciatori per…

— Per colpire Marte. Non andremo a schiantarci su Marte soltanto per far felice la Terra.

— Che razza di logica demente è mai questa?

— Logica intelligente, è. La Terra vorrebbe vederci suicidi su Marte, mettendo fine alla vita su Halley. Di che prova hai bisogno, dopo che hai visto quanto gliene importa?

Quel beffardo riferimento al Pacco Assistenziale faceva male, poiché Carl sapeva che era vero. L'equipaggio aveva provato una profonda amarezza, per quel fatto, e quella folle ribellione ne era il risultato. La maggior parte degli spaziali, specialmente il Clan della Roccia Azzurra degli hawaiani, appoggiava Carl. Ma Sergeov aveva indubbiamente reclutato fautori fra i percell, e Carl non si sarebbe affatto sorpreso se ci fossero stati perfino degli ortho ad aiutarlo.

— Colpiremo un pianeta con atmosfera, ma non Venere.

— Allora dove vuoi andare, Otis?

— È ovvio. La Terra.

— Buon Dio! È…

Stava per dire, è impossibile, ma poi ricordò le varie possibilità della missione che erano state delineate molto tempo addietro. Dapprima la spedizione aveva progettato il sorvolo di Giove verso l'interno, alterando l'orbita di Halley fino a quando un rendez-vous con la Luna sarebbe stato abbastanza economico in termini di combustibile per la Edmund. Ciò richiedeva una variazione di velocità di 284 metri al secondo, una forte alterazione.

Da quando la ribellione degli archisti li aveva privati del polo Sud, avevano scelto di usare lanciatori all'equatore per il meno efficace passaggio al di là di Marte; ciò avrebbe richiesto un cambiamento di velocità di soli cinquantanove metri al secondo. L'energia richiesta essendo proporzionale al quadrato della variazione della velocità, ciò significava che una frenata accanto a Marte — sfiorando la sua atmosfera — avrebbe richiesto soltanto il quattro per cento dell'energia richiesta dalla missione originaria. Erano anni ormai che avevano investito il tempo dei lanciatori soltanto in quella manovra.

Ma Carl si era dimenticato di un'altra manovra che avrebbero potuto effettuare con una spinta costante equatoriale: la Terra…

— Non mi ricordo le cifre, ma senti, non possiamo…

— Ti rinfresco la memoria. Ci vuole una variazione di velocità di soli sessantatré metri al secondo. Soltanto un po' di spinta in più di quella che diamo adesso. E la direzione è quasi la stessa del suicidio di Marte! Le mie squadre adesso stanno ruotando i lanciatori soltanto un po'. Soltanto cinque gradi di declinazione, cento gradi in ascensione retta. Mi segui? Significa…

— Sì ci sono. — È davvero matto. Come posso trattare con lui? — D'accordo, possiamo colpire la Terra. E allora? Ci cremeranno ancora prima che riusciamo ad arrivarci vicino.

La gracidante, asciutta risata di Sergeov risuonò nel comunicatore. Carl aspettò che quella risata anaerobica, maniacale, si esaurisse, dicendosi, Non esplodere. Continua a farlo parlare. Forse qualcuno da sotto riuscirà a mettere insieme qualche laser industriale, aggirandoli, tagliandoli fuori…

Ma sapeva che le probabilità erano scarse. Sergeov aveva giocato le proprie carte proprio nella maniera giusta, aspettando fino a quando Jeffers, il braccio destro di Carl, era rimasto anche lui intrappolato nella cupola. Virginia non poteva prendere il controllo dei suoi mech. E come bonus avevano ucciso Saul, il quale avrebbe potuto chiamare a raccolta molta gente che voleva semplicemente sopravvivere…

— La Terra non ci cremerà. No, se minacceremo di seminarli di pestilenze.

— Minacceresti questo?

— Annusa il fuoco, Meyer. Gli ortho hanno fatto saltare la Edmund. Hanno mandato il Pacco Assistenziale. Cosa si meritano?

— Sono pur sempre…

— Freneremo nell'atmosfera, salteremo giù. Halley proseguirà. Faremo il patto di non disseminare la Terra di halleyforme. Poi la Terra manderà noi su Deimos. Vivremo là, cominceremo a terraformare il pianeta.

Jeffers borbottò: — Be', per lo meno questa parte ha senso. — Sollevò lo sguardo con aria colpevole quando Carl gli scoccò un'occhiata di fuoco.

Ma Sergeov l'aveva sentito. — Meglio un sogno che un incubo, eh?

Carl cercò di pensare. Lani era al suo fianco, con una mano sulla sua spalla, muto conforto.

— La Terra non correrà il rischio di farsi inzuppare di halleyforme. Ci riempiranno di testate nucleari — replicò Carl.

— No! Avremo pronti dei razzi, testate piene fino a scoppiare di halleyforme. La Terra lancia? E lanciamo anche noi.

Carl vide l'espressione di Jeffers. Il folle scenario di Sergeov era fin troppo seducente. Gli aerofreni avrebbero richiesto un sacco di produzione da parte dei mech, ma ciò era già stato concepito e programmato per la manovra di Marte.

— Non credo che potrei contrattare questo.

— Non ho bisogno di contrattare. È tempo di starci, Jack. O acconsenti, o riduciamo la cupola in tanti pezzettini.

— Gli altri non saranno d'accordo con questo.

— Quali altri? Gli ortho? Vogliono vivere, proprio come i percell.

— Ma questo mette in pericolo la Terra! Qualunque aerofrenata porterà il nucleo di Halley abbastanza vicino da sganciare del ghiaccio nell'alta atmosfera. Le bioforme potrebbero arrivare comunque in superficie!

— I terrestri dovranno correre il rischio. La maggior parte di noi adesso dice merda ai terrestri.

Carl si mise a camminare su e giù, dimentico delle squadre della cupola che lo fissavano, di Jeffers che continuava a rosicchiarsi il labbro, senza fermarsi, dello sguardo senza espressione di Virginia. Lani lo fissava pensierosa. Doveva pensare, eppure la sua mente era un vortice di emozioni in conflitto fra loro. La manovra della Terra offriva per lo meno una promessa di speranza, di vita…

— Senti, dovresti tenere un referendum su questa faccenda. Tutto l'equipaggio…

— Clape, scimmia. Niente voto. Dimentichi che li abbiamo noi, i lanciatori.

— Ci sarà una consistente minoranza, o addirittura una maggioranza, che si opporrà a voi.

— Possiamo liquidarli.

— Come?

— Lo stesso che per voi, una volta che le cose si saranno calmate. Facile. I lanciatori tutti costruiti, niente bisogno di grande mano d'opera adesso. Vi spediamo tutti nei colombari.

Virginia, Lani, Jeffers: tutti lo fissavano, ascoltando, senza dire nulla. Li aveva guidati per anni, per miliardi di miglia, per arrivare a quel punto: una cupa, stupida Waterloo. Aggirato. Battuto in astuzia.

E per rigirare il coltello nella piaga, Sergeov dette in un'ultima, asciutta risata gracidante, e disse: — Arrivati sulla Terra, allora decideremo chi svegliare. Pianta grane adesso, e forse non esci più dal colombario, eh?

VIRGINIA

Erano state le due peggiori giornate della sua vita. Parevano stendersi a ritroso nel tempo per millenni, ai giorni luminosi e soleggiati quando Saul era ancora in vita e l'amore l'aveva trascinata in avanti con il proprio slancio, scavalcando le difficoltà, appianando la superficie rugosa di una vita che era, quando riusciva a pensarci, perpetuamente penosa e disperata e avara.

Il corpo contorto di Saul aveva impresso la propria immagine nella sua mente, un silenzioso, grottesco, rimprovero. Era parso così strano nella morte. Sereno malgrado le sue ferite. Più giovane.

Così tante lotte…

Se si fosse trovata più vicino, se avesse pensato più in fretta, se avesso corso di più…

No. Piantala. Sapeva che quella era una spirale mortale, che niente poteva uscire da un interminabile ciclo di colpevolezza e di dolore.

Ma tali facili constatazioni non la liberavano. Sedeva in mezzo alle correnti di rabbia e ai discorsi frenetici e alle crude emozioni… e si stringeva le mani, sfregandosele incessantemente, incapace di muoversi o di pensare o anche soltanto di lasciare che il dolore dirompente si riversasse fuori in lacrime.

Era inutile, qualunque cosa facesse, così inutile e stupida… Non le importava affatto, se fosse rimasta seduta per sempre in quel modo, circondata dall'umidità muschiosa che si andava lentamente raccogliendo nella cupola rigenerante. Le piante erano temprate allo spazio, capaci di resistere alle rapide decompressioni e al gelo improvviso, adattate assai meglio, durante mezzo secolo di manodopera umana, di quanto lo fosse la stessa umanità.

Altri cercavano di aiutarla. Lani era una presenza costante intorno a lei, morbide sibilanti in un'inghiottente immobilità. Carl faceva i suoi gesti goffi, diceva le cose convenzionali. Era tutto legnoso, distante… facce sotto vetro.

Il fatto che i pazzi Uber e i loro alleati li tenessero intrappolati tutti dentro alla Cupola 3 non faceva in effetti nessuna differenza. Era indifferente come il gelido ghiaccio esterno, dove delle figure stavano girando i lanciatori verso nuove ben imbottite direzioni, con le loro bocche puntate verso diverse costellazioni. Osservava quei lontani burattini che facevano le loro cose irrilevanti, senza che il significato le importasse per nulla. La Terra era un bersaglio più gradito di Marte, certo, ma non perché lei pensava che avrebbero avuto successo.

Niente aveva mai funzionato durante quella spedizione condannata. La Terra avrebbe trovato qualche maniera per contrastarli. Il loro piano era forse quello di sganciarsi a bordo di veicoli aerofrenati simili a palloni? Gusci cavi di acciaio che, sotto la violenta pressione frenante, si sarebbero contorti, squarciati e infranti alla più piccola asimmetria, al più piccolo difetto… No, la Terra avrebbe intravisto benissimo quella possibilità. Una scarica laser, un raggio a particelle, qualunque cosa in grado di perforare quei gusci avrebbe messo fine a loro tutti in un fiammeggiante calderone rosso-arancio. Non aveva nessuna fede nel febbricitante sogno astronomico di Sergeov.

O neppure nella manovra di Marte. Aveva conservato il segreto di Carl, non ne aveva mai parlato con nessuno. Viviamo credendo nelle finzioni…

Ma la speranza di Sergeov era peggiore. Non avrebbe riportato alla vita nessun pianeta morto, e tutti loro avrebbero visto in ugual modo confermata la loro condanna.

E se la testa della cometa fosse stata diretta per entrare in collisione vera e propria con la Terra stessa, come aveva sentito dire da alcuni Uber che ne avevano parlato apertamente al comunicatore? Cosa sarebbe stato dei morbidi cieli e dei sabbiosi pomeriggi hawaiani? Chiuse gli occhi e scosse la testa. Forse gli umani dovrebbero scomparire dalla scena come hanno fatto i dinosauri.

— Virginia?

Era Carl, pallido e teso, che cercava di nuovo di stabilire un qualche contatto con lei. Sollevò lo sguardo su di lui sbattendo le palpebre. — Di nuovo ora di mangiare?

— No, io volevo solo… senti, mi servirebbe davvero un po' di aiuto.

— Per fare cosa?

— Per cercare di trovare un modo di uscire da questa situazione.

Virginia rispose, con voce stanca: — Sergeov ci ha intrappolati. Vuoi scavare una nuova galleria attraverso le macerie? — Gli Uber avevano fatto crollare le gallerie con molta efficacia.

— Ci deve essere…

— Avete tentato gli autoscivoli? I nastri trasportatori?

— Certo. Ieri. Ha gente che li blocca.

Virginia corrugò la fronte, faceva fatica a pensare alla vecchia maniera… — I miei mech. Se riuscissi a riavere le funzioni di controllo da qui, con un comando a distanza…

— Ci hai già provato ieri — le ricordò Carl, con gentilezza.

Virginia sollevò lo sguardo, provando un émpito d'irritazione. — Oh, sì. Hanno cambiato gli input della matrice-T. Sergeov è stato tanto furbo da farlo subito. Potrei porvi riparo soltanto dalla grande consolle della Centrale, o dal mio laboratorio. Dovrei trovarmi là di persona.

Rimasero silenziosi. Poteva vedere la frustrazione di Carl crescere sul suo viso.

Jeffers arrivò di corsa, il suo volto rivelava tutta la tensione a cui era in preda. — Sta succedendo qualcosa, hanno sollevato di nuovo quel laser.

Carl si lanciò in una lunga scivolata verso la cima della capanna delle elaborazioni, a una cinquantina di metri di distanza. Virginia fu tentata di ripiombare nel suo stato neutro, lasciando che il mondo le passasse sopra, sommergendola. Ma invece esalò un profondo sospiro e si alzò. Scalciò via e seguì i due uomini in una lenta bordeggiata.

— Stanno sparando contro qualcuno! — gridò Carl dalla posizione panoramica in cui si trovava. Virginia si afferrò ad un cavo e descrivendo un arco attero con un tonfo, a sua volta, in cima alla capanna.

— Visto? — Carl le indicò. — Sergeov si trova in cima a quell'altura laggiù. Sta sparando contro della gente che sta arrivando da sud.

Delle figure, macchioline grandi come mosche, attraversavano rapidamente la pianura striata di grigio. — Chi? — chiese Virginia.

Lani atterrò accanto a lei. — Archisti, immagino — disse. — La gente di Quiverian. Sono ancora laggiù a sud, che vivono fra le loro macerie terremotate. È naturale che si oppongano a un sorvolo della Terra. Ma con gli Uber che controllano i lanciatori, verranno fatti a pezzi.

— Ne sei sicura?

— Non vedo come…

Un gigantesco bolo di vapore eruppe dalla base della collina dov'era situato il laser degli Uber. La nube avvolse la collina in una coltre di nebbia. Prima che potesse gonfiarsi ulteriormente e dissolversi, un'altra scintilla azzurra s'infiammò alla base, facendo schizzare una sfera turbinante di bianco verso il cielo.

Virginia esclamò, tutta eccitata: — Gli archisti stanno impiegando il grosso laser. È difficile prendere la mira con quello, ma se soltanto colpissero la collina stessa…

— Accecherebbero la squadra degli Uber addetta ai laser con il vapore — annuì Lani. — Già!

Delle figure si muovano all'orizzonte, le loro cotte apparivano troppo piccole per poterle distinguere. Virginia non aveva mai pensato alle possibili tattiche in condizioni di gravità quasi zero, ma riusciva a vedere la logica dietro alle file formate dagli archisti in movimento che stavano lentamente convergendo. La pinza da esse formata si stava chiudendo verso lo schieramento dei lanciatori equatoriali. La gente di Sergeov stava faticando dentro i pozzi dei lanciatori. I grossi e goffi moduli degli sgomitatori erano difficili a muoversi rapidamente, soprattutto nel senso della declinazione. Cominciarono ad abbassare le loro bocche giù verso sud, ma le loro lunghe, esili canne ruotavano con angosciosa lentezza.

— Guardate — disse Carl, indicando con la mano. — Gli archisti stanno cercando di passarci accanto. Saremo liberi se…

Ma proprio in quell'istante un secondo laser degli Uber aprì il fuoco da una lontana collina, facendo schizzare sfere di vapore su dalla pianura. Perfino un colpo mancato di poco soffiava via quelle minuscole figure a causa delle raffiche improvvise.

— Perché non attaccano dal cielo? — chiese.

— È probabile che Sergeov abbia con sé qualche piccolo radar. Potrebbe centrarli se si trovassero isolati là in alto. Sul ghiaccio, invece, non è così facile.

— Già — disse Jeffers. — Ti piacerebbe essere appesa là sopra, nuda, come una ghiandaia? Ti senti molto meglio se hai un po' di ghiaccio fra te e quel grosso bruciatore.

Gli attaccanti cercarono un riparo. Sparavano con piccole armi dalla portata limitata: lance termiche, trapani a raggi, ma riuscivano soltanto a sollevare piccoli sbuffi dalle barricate degli Uber. Qualcuno di loro usava trapani portatili a microonde, presumibilmente contonizzati per disgregare le cellule umane, ma i fasci di raggi si allargavano troppo a ventaglio a quella distanza. Di tanto in tanto dentro la cupola si udivano dei deboli clic, le microonde che solleticavano leggermente il loro orecchio interno.

Nel frattempo, il grosso laser degli archisti continuava a martellare le colline di entrambe le roccaforti degli Uber, rendendo difficoltosi i loro tentativi di prendere la mira con precisione. Seguirono la scena per un'angosciosa mezz'ora, mentre ognuna delle due fazioni manovrava, sparava, schivava… ottenendo ben pochi risultati. L'intero conflitto era privo di suono, con un ulteriore tocco di irrealtà dovuto ai movimenti al rallentatore.

— A me pare una posizione di stallo — commentò Carl, le parole appesantite dalla fatica.

— Nessuno può mettere insieme abbastanza uomini per tenere sotto tiro i movimenti dell'altro — disse Jeffers. — Pare ci sia ancora un buon numero di archisti, ma non è possibile aggirare quell'intero, dannato equatore.

Virginia parlò, esitante: — Non potremmo approfittare di questa situazione?

— E come? — chiese Carl.

— Per scappare! Se corressimo per un chilometro, più o meno, fino a quelle pile di scorie a nord.

— Ci centrerebbero.

Jeffers annuì.

— Ma se io potessi entrare, potrei riavere il controllo dei miei mech! Gli Uber non potrebbero resistere a un attacco kamikaze dei mech.

Lani intervenne: — Potrei tentare di scendere fino al Clan della Roccia Azzurra. Keoki Anuenue condurrebbe su i suoi hawaiani, se sapesse dove ci troviamo.

La bocca di Jeffers si spalancò per l'incredulità. — Voi donne siete matte tutte e due. Non potreste mai raggiungere la galleria.

— Creiamo un diversivo, allora — lo sfidò Virginia.

— Cosa?

Virginia rifletté in fretta. — Supponiamo di ventilare l'intera cupola all'improvviso, con le vasche aperte?

Carl corrugò la frotne. — Le vasche dell'acqua? Bollirebbero e… sì, capisco. Questo creerebbe una gigantesca sfera di vapore. Nessuno riuscirebbe a vederci in mezzo.

Jeffers scosse la testa. — Ma non c'è modo di dire quanto durerà.

Virginia si girò verso di lui. — Sarai tu a manovrare le pompe, spruzzando acqua dritto fuori della cupola, dove evaporerà immediatamente.

Jeffers aprì la bocca per sollevare altre obiezioni, ma si affrettò a rinchiuderla. — Uhm, non so… Potrebbe funzionare.

— Facciamolo! Altrimenti, se Sergeov dovesse vincere…

— Bene — disse Carl, con le labbra premute, bianche e sottili. — Suvvia, all'opera.

Ci vollero dieci minuti per predisporre ogni cosa. Virginia lavorava con furibonda ferocia, tirando tubi flessibili, chiudendo silos per la maturazione del lievito, gettando coperte di plastica a mo' di protezione temporanea sopra i molti acri di piante, chiudendo ermeticamente le unità di coltivazione che erano troppo delicate per resistere molto al freddo e al vuoto. Si sentiva impacciata a compiere un lavoro manuale senza un mech.

Senza pensare al futuro, praticamente senza pensare del tutto, si ritrovò rannicchiata dentro la camera di equilibrio accanto a Carl e a Lani. D'un tratto si rese conto che stava per rischiare la vita affidandola alla sua capacità di correre. Impossibile, assurdo! Ho passato meno tempo in superficie di chiunque altro. Ma non vedeva nessun'altra maniera di uscirne. Era sicuro com'era vero l'inferno che non avrebbe consentito a Sergeov d'imbalsamarla per sempre dentro un colombario. E neppure gli avrebbe permesso di seppellire le Hawaii sotto una notte di ceneri cosmiche.

Jeffers chiamò da dentro: — Pronti?

Lei annuì, con ferocia. Fingi di non trovarti qui di persona. Convinciti che stai operando con un mech fuori sul ghiaccio. Lo hai fatto migliaia di volte.

— Sì — rispose Carl.

Il portello si spalancò di scatto, e tutti e tre si lanciarono fuori.

Si separarono immediatamente. Lani si precipitò verso nord, mentre Virginia e Carl correvano in direzione est. Si ricordò d'interrompere il suo comunicatore. Non c'era bisogno di mettere in allarme nessuno, nel caso in cui gli Uber stessero impiegando dei rilevatori sintonizzati sui trasmettitori delle tute. Abbassò la testa e si mise a correre con passi lunghi, uguali, facendo solidamente presa sul ghiaccio, quasi un libero costeggiare, che copriva meglio il terreno.

Proprio come guidare un ragno-mech. Testa bassa, trova la trazione.

Lanciò un'occhiata alle proprie spalle, giusto in tempo per vedere le chiusure della cupola che saltavano. L'intera struttura trasparente ondeggiò, come un polmone che stesse collassando, esalando una densa nebbia nel cielo costellato di stelle. Banchi ondeggianti avvolsero Virginia. Poi Jeffers mise in funzione le pompe antincendio collegate alle vasche, spruzzi sottili che s'ispessivano per poi dissolversi tutt'a un tratto. La nebbia li serrava da ogni parte. Il mondo divenne bianco. Virginia fu costretta ad affidarsi al suo slancio iniziale per seguire la giusta direzione, giacché non riusciva neppure a vedere il ghiaccio sfregiato sotto di lei.

Il suo ricevitore era acceso. Udì grida, imprecazioni, esclamazioni. Ma nessuno gridava i loro nomi, ingiungendo d'inseguirli.

Una nebbia color avorio pareva premere su di lei da ogni lato, sollevandola… Perse completamente di vista il terreno… le urla crebbero… atterrò, morse il terreno con le punte da ghiaccio, scalciò per innalzarsi… le parve di levarsi in alto come se avesse le ali, in mezzo ad un'accogliente nuvola bianca… atterrò di nuovo, con gli stivali che scricchiolavano nel ghiaccio…

… e si ritrovò di nuovo fuori, lo spazio del tutto limpido intorno a lei, in un mondo di ghiaccio grigio, il cielo nero e duro, un cielo di morte.

Si guardò intorno. Carl era davanti a lei, si stava giusto spingendo via, descrivendo una parabola bassa e allungata. Quando i piedi di Carl lasciarono il suolo, un lampo velocissimo l'accecò, un punto d'incandescente luce azzurra, soltanto a pochi metri da Carl. Colpì il ghiaccio, sollevando una vorticante nuvola di vapore, scavando un cratere profondo un metro.

Virginia accese il suo comunicatore sulla linea Af, come avevano progettato. — Ci sono addosso!

— Sì!

Carl girò di scatto la testa e indicò qualcosa alla sua sinistra. — Mettiti dietro a quello!

A cinquanta metri di distanza spiccava una robusta piattaforma di riparazione mech, inclinata contro un mucchio di scorie rossastre di ferro. Si trattava in realtà di un pezzo del vecchio assemblaggio esterno per il carico della Edmund, fitto di montanti e strutture di sostegno incrociate che avevano sorretto grandi masse durante la lunga spinta di allontanamento dalla Terra. Quando mise di nuovo il piede sul terreno, Virginia ruotò su se stessa, avvertendo un'acuta fitta di dolore a causa dei muscoli disabituati, e si spinse via in quella direzione.

Una breve scintilla azzurra illuminò la sua strada. La sua ombra si allungò, uno smilzo gigante che volava sopra il ghiaccio butterato a causa di quell'improvviso bagliore. Non si girò per guardare la nuvola di nebbia che si gonfiava, ma le si rizzarono i capelli sulla testa. C'era mancato davvero poco… Atterrò dietro alla piattaforma, un istante dopo Carl. — Rimani qui — lui le trasmise, inutilmente.

— Cosa facciamo?

— Aspettiamo. Cercheranno altri bersagli. Non sanno con certezza chi siamo, così…

Un cicalino lo interruppe, quando un altro gruppo s'inserì nella comunicazione a lunga distanza. La voce di Sergeov tuonò nei suoi orecchi. — Io lo so. Non sono così stupido da non indovinare chi è che sta scappando. O che cerca un canale di comunicazione.

— Oh, merda — esclamò Carl.

Virginia si rese conto che non avevano niente con cui trattare, nessun possibile aiuto. Si sintonizzò su un canale aperto. — Ascolta, Otis. Carl e io possiamo indurre gli archisti ad abbandonare il loro attacco, se ci lascerai andare.

— Mi offrite che cosa? La diplomazia? — Il disprezzo di Sergeov era palpabile.

— È tutto quello che ti rimane.

— Ho voi. Non muovetevi di un metro, o vi brucio.

— A cosa potrà mai servirti? Il tuo problema sono gli archisti.

— Siete voi ad avere problemi. — Dopo di che, Sergeov cominciò a snocciolare istruzioni a qualcuno in russo. Virginia ricordò che c'erano parecchi ex sovietici fra gli Uber: la convinzione della propria perfezione impregnava entrambi i movimenti.

Virginia interruppe il canale del comunicatore e mise il proprio casco a contatto con quello di Carl. — Cosa possiamo fare?

— Dannatamente niente. — Sulla pianura oltrestante si muovevano delle lontane figure e occasionalmente ammiccava una piccola arma. Si rannicchiarono sotto quella massa, afferrandosi ai montanti. Una vampa esplose soltanto a pochi metri oltre l'orlo frastagliato del loro riparo. Sfere di gas turbinante sfrecciarono accanto a loro. Un istante più tardi un'altra palla di fuoco biancoazzurro ammiccò sul lato opposto, poi venne avvolta da una sfera color avorio in espansione.

— Ci sta mostrando come ci ha presi in trappola — disse Virginia.

— Probabilmente, la prossima volta comincerà a sforacchiare questo. — Carl batté la mano sul pezzo di metallo, in preda alla frustrazione. — Però, non basterà una scarica per perforare questo spessore.

— Non potrebbe tenere uno dei suoi due laser puntato in continuazione su di noi?

— Non per molto. Ma non può neppure permettere che scappiamo. Non riesco a vedere come…

Un pesante tonfo scosse il montante sotto le mani di Virginia. — Ehi, cosa… — Un altro colpo secco, seguito da un tremito del metallo. — Sta cercando di penetrare fino a noi!

Carl scosse la testa, sbirciando da sotto il suo visore insudiciato. — Un raggio laser non fa questo effetto. Questo è…

La piattaforma sobbalzò sul lato destro, inclinandosi e mordendo il ghiaccio. Carl premette il casco contro una grossa sbarra trasversale di acciaio grigioazzurro pressofuso. — Ascolta!

Virginia aveva appena toccato il metallo quando sentì un sonoro cramp seguito da un rimbombo sordo e persistente. — Cos'è? Io…

L'intera piattaforma tremò. Il secondo colpo arrivò soltanto pochi istanti più tardi, e questa volta Virginia stava guardando lateralmente, e poté vedere che non c'era stato nessun fugace lampo azzurro a illuminare il ghiaccio grigio circostante.

— Così, ci ha pensato — commentò Carl con rabbia.

Virginia indovinò: — I lanciatori.

— Già. Non può usare i laser a tempo pieno contro di noi, così ha puntato qualche lanciatore. Scagliando contenitori vuoti a bassa velocità, per impedire le esplosioni. Spara intorno a questo grumo di materiale, sperando di centrarci se mai dovessimo mostrarci…

Una nuova scossa fece sobbalzare la piattaforma e tutta la sua massa si sollevò dal ghiaccio. Virginia sentì un cramp, cramp, cramp attraverso le mani, tre rapidi colpi che spinsero la piattaforma a un metro di altezza sopra il ghiaccio. Virginia vi si tenne aggrappata, fissando Carl con gli occhi spiritati. — Ci sta spingendo via!

— Tienti salda — trasmise Carl.

— Ma perché non possiamo…

— Tienti stretta e basta. Dovremo muoverci in fretta quando…

Sergeov intervenne: — Non me l'aspettavo, ma è ottimo.

— Non puoi…

— Il lanciatore deve impedirvi di entrare. Ancora meglio che sbarazzarci di voi, eh?

La piattaforma risuonò e tremò di nuovo sottoposta a quel costante martellamento. Una volta stabilizzata la mira, il lanciatore era in grado di riversare su di loro una pioggia costante di pallottole vuote.

Carl disse: — Le pallottole si spiaccicano come le caramelle fondenti quando colpiscono. Non possono penetrare questa lega dura. Ma ci stanno spingendo via.

Virginia abbassò lo sguardo. Già erano alti sopra la pianura chiazzata di grigio, e stavano acquistando velocità. Gli impulsi del lanciatore li avevano spinti lungo una traiettoria tangente alla superficie, e adesso stavano passando sopra la scena della battaglia. Lampi casuali qua e là, sbuffi di gas. Virginia udì un clic e lo riconobbe come il segno d'un raggio a microonde che li aveva mancati di poco; le onde, in realtà, entravano in risonanza con gli ossicini dell'orecchio umano. Ma, chiunque fosse stato, non sparò più contro di loro.

Qualcuno stava correndo verso il riparo costituito da una bassa fila di fusti di carburante, e Virginia riconobbe la cotta di Joao Quiverian. La scarica di un laser centrò in pieno l'alto capo degli archisti, e un sole azzurro schizzò fuori dal suo petto. Una piccola nube si levò dal suo corpo, mentre proseguiva la sua strada, abbracciato al suolo, con le braccia che sbattevano all'infuori, roteando inutilmente mentre rasentava il ghiaccio.

Delle figure sollevarono gli sguardi verso di loro, ma nessuno cercò di venire in loro aiuto. Quelli là sotto potevano indubbiamente vedere i risultati quando una continua grandinata di pallottole colpì l'altro lato della piattaforma, e seppero che qualunque tentativo di avvicinarsi avrebbe significato trovarsi sotto tiro. Virginia chiamò: — Sergeov!

— Vi avevo dato un posto dove stare. Avete lasciato la cupola, vi siete tirati addosso questo.

— Senti, noi…

— Non arrenderti!

Non sto per farlo pensò Virginia. Anche se tutta questa faccenda mi sta… stordendo. Halley parve inclinarsi nel cielo, quelle superfici grigie, macchiate, rullavano e viravano mentre loro vi passavano sopra sfrecciando, sollevandosi…

— Proprio quello che temevo. Ci stiamo girando.

Naturalmente. Le pallottole non ci colpiscono uniformemente, così la piattaforma sta accelerando la rotazione. Sergeov sa che…

— Non possiamo strisciare intorno?

— Sarà difficile. Su, spostati a sinistra.

Carl si mosse con una disinvolta agilità che le fece provare un po' d'invidia, mentre lei lo seguiva, muovendosi goffa, non osando mollare la presa su un montante prima di stringere saldamente quello successivo.

Per lei la piattaforma era una montagna di fili metallici intrecciati, che stava scalando una mano dopo l'altra, con una leggera forza centrifuga che tendeva a spingerla verso l'esterno, lontano da essa. Se la piattaforma fosse stata sferica, la loro manovra sarebbe stata semplice, sarebbe bastato tenersi sul lato opposto rispetto ad Halley. Ma a mano a mano che la piattaforma girava, a causa appunto del suo profilo appiattito, per un breve intervallo, quando si fosse posta di taglio rispetto ad Halley, le pallottole sarebbero sfrecciate, invisibili, accanto a loro. Virginia e Carl si tennero schiacciati contro la superficie della piattaforma quando giunse quel momento, poi si arrampicarono sulla faccia opposta. Mentre lottava per trovare un appiglio più sicuro, Virginia vide i numerosi crateri scheggiati creati dagli impatti dei proiettili. E tutto questo è opera dei contenitori vuoti, lanciati a un milionesimo dell'energia normale!

La piattaforma parve ruotare più in fretta. — Stanno forse cercando di farci ruotare? — chiese Virginia, ansando.

— Non mi stupirebbe.

— Come faremo…

— Spingi!

Seguì Carl dietro l'angolo successivo, e attesero. Lo splendore metallico del gelido acciaio rifletteva il grigio, fioco bagliore di Halley a mano a mano che quella superficie piatta ruotava lentamente, con la curva della testa cometaria che s'innalzava sopra un groviglio contorto di sbarre e rivetti. Da quella distanza non si vedeva nessun segno della battaglia, nessuna indicazione degli esseri umani e delle loro vite meschine… soltanto il ghiaccio macchiato e butterato, con un'accidentale opera d'arte astratta che luccicava qua e là alla luce delle stelle. Poi Virginia vide la lunga linea tratteggiata dei pozzi dei lanciatori equatoriali e si rese conto che la macchina che li stava propellendo poteva anche «vederli». Si arrampicò dietro a Carl, intorno all'orlo.

Virginia percepì un colpo seguito da una forte vibrazione, e vide scomparire nel nulla una sbarra accanto alla sua gamba. Colpita da un proiettile, la sbarra era schizzata via nello spazio. Virginia tirò un profondo respiro, e balzò rapida oltre il labbro della piattaforma.

— È… troppo pericoloso far questo.

— Se non teniamo la piattaforma fra noi e le pallottole, siamo morti. — Carl aveva gli occhi sgranati, ma in qualche modo appariva calmo e imperturbato.

— Non possiamo saltare giù? Su un punto qualunque di Halley?

— Bene, e le pallottole che mancano la piattaforma? E se Sergeov si accorgerà che abbiamo lasciato la piattaforma, lascerà che il lanciatore colpisca a caso tutt'intorno al bersaglio, cercando di beccarci.

La voce di Carl suonò calma e realistica, nel valutare le possibilità. Virginia si teneva aggrappata a un tubo, le gambe tese verso l'esterno, il costante tamp tamp tamp le veniva trasmesso attraverso le mani. Era difficile pensare. — Ascolta, orientiamo i nostri getti di manovra nella stessa direzione della rotazione: questo ci permetterà di allontanarci in fretta.

— Già. Ma ci vorrà un sacco di spinta. Neppure questi getti sono stati mantenuti in buono stato di funzionamento.

— Non abbiamo nessun'altra scelta!

— Qui siamo al sicuro.

A Virginia non piaceva quell'espressione remota, rassegnata, sulla faccia di Carl. — E ad ogni minuto che passa saremo sempre più lontani da Halley!

— Già, su questo hai ragione. — Carl corrugò la fronte. Scosse la testa, cercando di mostrarsi interessato.

Il pallido orizzonte di Halley cominciò a levarsi al di là del bordo della piattaforma.

— Saltiamo direttamente giù dall'orlo, non appena gira. Sergeov non può sentirci, con tutto questo metallo che blocca la comunicazione fra noi.

Carl la fissò con un'espressione pensosa, illeggibile. Virginia lottò per superare il bordo della piattaforma e piantò saldamente i piedi contro un groviglio di montanti. — Dimmi quando.

— Aspetta… Hai attivato i tuoi getti? Ora regolali sull'emergenza, per una scarica di venti secondi, capito? — Spostò l'interruttore per lei. — Va bene, portali sul massimo quando… dico… adesso!

Virginia saltò nell'istante in cui attivò il pulsante. Un pugno la colpì alla cintura e la fece sfrecciare via, lottando per tenere in linea le mani e i piedi. La spinta parve durare per sempre, e Virginia dovette combattere contro l'impulso a piegarsi in due, per presentare il più piccolo bersaglio possibile alle pallottole che saettavano via da Halley, cercandola, e che poteva percepire…

Sollievo. Quella spinta furibonda venne interrotta dal timer della tuta. Virginia abbassò la testa e vide la piattaforma fra i suoi piedi, che ruotava pigramente. Una flangia argentea ammiccò e ruzzolò via mentre guardava, liberata dall'impatto di una pallottola. Se soltanto Sergeov non si fosse accorto di quello che avevano fatto…

Carl. Dov'era?

Si guardò rapidamente intorno, ma non trovò niente. Se una pallottola ti avesse colpito, ti avrebbe trapassato e basta? Oppure ti avrebbe dato abbastanza spinta da condurti lontano nel giro di pochi istanti, fuori dalla mia vista…?

Virginia non osò chiamare al comunicatore. Si girò in tutte le direzioni, dicendosi che non doveva lasciarsi prendere dal panico, di essere lucida e metodica, e finalmente lo trovò, proprio sopra di sé, una macchia nel buio grande come una bambola.

Per il rendez-vous ci vollero soltanto pochi momenti. Carl venne verso di lei nuotando, frenò, poi serrò le mani su quelle di lei e mise a contatto i caschi. Si era aspettata un momento di tripudio, giacché, certamente, dovevano ormai trovarsi fuori dalla zona di pericolo, ma tutto quello che Carl disse, fu: — Adesso viene la parte difficile.

— Cosa?

— Tornare su Halley.

— Qualcuno non… — stava per dire, verrà a prenderci?, quando si rese conto che ovviamente nessuno avrebbe mai pensato ad un salvataggio nel mezzo della battaglia. Gli Uber e i loro alleati avevano senza dubbio sotto tiro le imboccature dei pozzi, imbottigliandovi dentro chiunque poteva aiutarli. Inoltre, in quanti erano a sapere che loro si trovavano lì fuori?

— Quanto ci troviamo lontani?

Carl sollevò un piccolo tubo, lo puntò verso il disco pustoloso, sempre più piccolo, di Halley, e lesse il dato: — Ventitré chilometri virgola quattro. Con un incremento di circa tre chilometri al minuto.

— Così distanti!

— Moltissime pallottole hanno colpito la piattaforma.

— Queste tute…

— Hanno una grande portata. Il vero problema è tornare prima che finisca l'aria. — Indicò con un gesto i misuratori che correvano in linee a colori in codice lungo entrambe le maniche delle loro tute. — Non ne abbiamo più molta.

— Quanta decelerazione posso avere?

Carl fece un calcolo mentale, corrugando la fronte, e ricorse alla visiera del suo casco per controllare. — Non molta.

— Ma possiamo ancora tornare indietro, vero?

— Sì… Soltanto, dobbiamo annullare questi tre chilometri al minuto. Ci vorrà tutto il carburante che abbiamo. Poi, dovremo farci i trenta chilometri o giù di lì per arrivare fino ad Halley…

La sua voce si spense in un gesto di frustrazione mentre digitava altre cifre sulla sua consolle, fissata a una sporgenza della cintura. Virginia si morse il labbro. Tutto stava avvenendo così in fretta che non aveva il tempo per pensare.

Carl si fermò, poi batté altri dati, e strinse le labbra fino a farle sbiancare. — Sembra brutta.

— Quanto brutta?

— Nessuno di noi due ce la farà a ritornare in tempo per respirare aria fresca.

— Nessuno dei due?

— Non si può fare. Quei tre clic al secondo si mangiano una grossa fetta del nostro carburante.

— Allora… — Un cupo presagio, adesso il sottofondo che da giorni avvertiva dentro di sé eruppe in superficie. Sarebbero morti tutti. Il destino aveva orchestrato ogni cosa, cosicché entrambi si trovassero ad affrontare una morte straziante, soli e spaventati, qui fuori nell'abisso gelido e immemore…

— Possiamo vincere quei tre clic al minuto, ma questo ci lascia soltanto una piccola velocità residua. La gravità della cometa non ci aiuterà molto. Ci vorranno ore per ritornare su Halley.

E mentre parliamo, la situazione peggiora sempre più. Ogni secondo ci porta più lontano. Fuori nel vuoto, a raggiungere le anime gelate della Edmund. Soltanto che prima dobbiamo morire…

— Uno di noi non potrebbe prendere entrambi gli zaini a getto?

Carl scosse la testa. — Sono integrati, non ricordi? Non puoi staccarne uno, senza rompere il sigillo dell'aria.

Non se lo ricordava, non l'aveva mai saputo, ma adesso la sua mente scorreva in fretta, ripassando fulminea tutto ciò che sapeva della dinamica. Se c'era qualche modo per farlo…

— Aspetta. Soltanto uno di noi deve tornare indietro, cercare aiuto. Non c'è qualche modo per scambiarci della quantità di moto fra noi?

Carl parve perplesso. Il suo volto era grigiastro e stanco, cerchi scuri gli orlavano gli occhi. Pareva più vecchio e più logoro di quanto l'aveva mai visto prima, perfino all'apice delle pestilenze. Scosse la testa muto, le labbra ancora premute con forza, gli occhi pieni di disperazione.

Virginia ricordò qualcosa da molto tempo addietro… cercò di ripescarlo… colse il frammento di un'idea.

— Aspetta, c'è qualcosa…

CARL

Halley era appesa nella tenebra corrosiva, derubata ormai da tempo della sua rotazione dall'Uomo, adesso la sua superficie era illuminata da fuochi convulsi.

Carl seguì la battaglia che progrediva, mentre attuava il suo lungo approccio. Erano passate più di tre ore da quando si era separato da Virginia. Si erano accordati per mantenere il silenzio delle comunicazioni. Ciò aveva reso il suo viaggio solitario e frustrante, giacché poteva sentire le grida sparse della lotta, le urla aspre e lo «staccato» degli impulsi a microonde, il tutto senza potersi fare nessuna idea chiara di ciò che tutto questo significava, del modo in cui procedeva la battaglia. Aveva cercato di concentrarsi sulle grida confuse, non soltanto perché aveva bisogno di conoscere la situazione quando fosse atterrato, ma per calmare la propria rabbia.

Esaminò il panorama che si profilava davanti a lui con una proiezione telescopica sulla sua visiera. I cadaveri degli archisti morti giacevano distesi vicino all'equatore. I solchi scavati dal laser butteravano i fianchi delle colline, ma adesso i laser degli archisti parevano essere stati messi fuori combattimento. Ne individuò uno, spezzato, ridotto a un tubo infranto. I lanciatori si erano dimostrati più efficaci dei goffi e impacciati saldatori-laser. Più lontano, a sud, Carl riuscì a vedere una fila di archisti che si stava formando intorno a cinque pulsatori a microonde. Il punto focale dello scontro si sarebbe spostato laggiù.

Gli Uber stavano uscendo fuori, impegnandosi in tante piccole scaramucce. Avanzavano a ventaglio, in direzione sud, partendo dall'equatore, inseguendo gruppi di sbandati lungo una fila di collinette e rugginosi mucchi di scorie. Tutti si tenevano bassi, utilizzando ogni tipo di riparo offerto dal terreno. Gli Uber parevano meglio addestrati, usavano in maniera efficace la tattica abbinata dello sparare-e-manovrare, due figure che sparavano con le armi portatili contro una postazione nemica vicina, mentre una terza avanzava verso il più vicino punto riparato.

Sapeva che non avrei mai consentito, così non ha neppure discusso.

L'idea di Virginia era elegante, e lei ne aveva capito ogni implicazione nell'istante stesso in cui le era venuta. Ricordava tutto con chiarezza, con mestizia.

Carl aveva pensato di congiungere le loro cinture, per poi attivare i suoi getti fino a quando non si fossero esauriti. Allora Virginia si sarebbe separata, l'avrebbe lasciato, avrebbe acceso i suoi propulsori e raggiunto Halley. Anche questo espediente non avrebbe fornito loro troppo margine. Cosa ancora peggiore, sarebbe stato pericoloso, giacché i suoi getti non avrebbero sparato direttamente lungo l'asse del sistema bi-corporeo. Ciò significava che Virginia avrebbe dovuto sprecare carburante per conservare l'esatta direzione.

L'alternativa di Virginia era semplice. Si erano legati con un cavo di cento metri e Carl aveva preso accuratamente la mira della patata che era Halley, dieci volte più grande della Luna vista dalla Terra, ma a centocinque chilometri di distanza e che rimpiccioliva rapidamente sempre più. Carl aveva programmato la sua tuta perché emettesse un bip ben chiaro tutte le volte che la sua velocità era allineata sull'opposto del vettore di Halley. Avevano teso al massimo il cavo fra loro, e Carl era stato sul punto di attivare i getti, quando Virginia l'aveva fatto per prima.

— Ehi! — le aveva gridato. — Spegni!

— No, così è meglio, userò la mia riserva fino in fondo.

— Dannazione! Fermati!

— No, Carl. Pensaci. — Avevano già cominciato a ruotare l'uno intorno all'altro quando i getti di Virginia avevano cominciato ad accumulare la loro velocità angolare.

— Accendo anch'io! — aveva urlato.

— Sarebbe stupido. Spreca le tue riserve, e moriremo tutti e due. Aspetta.

— No, non posso…

— Sono come un maiale sotto ghiaccio, qua fuori. Tu puoi pareggiare le velocità e fare il percorso usando il minimo di carburante. E saprai comportarti meglio quando atterrerai in quel manicomio là sotto. Tu sai che è vero. Qui, non è che io mi stia autoimmolando. Lungi da ciò. Fai fiasco, e finiremo tutti e due come ghiaccioli.

— Ho una massa maggiore della tua — lui si era infuriato. — Assumerò una velocità inferiore della tua, così ci vorrà più tempo. È una semplice questione di dinamica.

— Io sto parlando di abilità, non delle leggi di Newton. Tu puoi farcela, Carl, e sai benissimo che io non posso.

— Maledizione, non ti permetterò…

— Troppo tardi. — Dall'altra parte dei cento metri lo aveva salutato allegramente con un gesto della mano, mentre le stelle turbinavano dietro di lei. Il cavo li congiungeva ombelico a ombelico. La forza centrifuga stava piegando lui all'indietro, proprio come se si trovasse appeso per l'ombelico in un campo di gravità.

Lottò per pensare con chiarezza contro quella mano che lo premeva implacabilmente. Doveva esserci un modo per fermarla. — Non puoi…

— Sto attivando il segnale.

— Cosa? — Dunque, aveva preparato lo stesso programma per la ricerca del vettore, soltanto che il suo segnava un punto sul lato opposto del loro cerchio, rispetto al suo. I suoi bip erano arrivati regolarmente e inutilmente, e adesso…

— Sono scesa al due per cento — lo chiamò. — Sto per lanciarti via.

Virginia si levò in mezzo a quel folle turbinio di stelle, l'unico punto fisso in quell'universo centrifugo, e lui sentì il proprio rituale, pigolante, bip, sapendo che quello di Virginia sarebbe arrivato neanche cinque secondi più tardi.

Aspetta, dev'esserci…

— Non c'è tempo da sprecare, Carl. Vola veloce!

Con uno scatto deciso della mano, Virginia liberò il cavo.

Sentì il sussulto come un'improvvisa liberazione, un ritorno alla caduta libera. Sollevando lo sguardo vide che Virginia l'aveva lanciato proprio della maniera giusta, Halley era sospesa sopra di lui, una vaga chiazza.

E sotto di lui, fra gli stivali scostati, Virginia agitava le braccia con grazia lenta e cupa. Fu allarmato nel constatare quanto rapidamente rimpiccioliva, un punto azzurro inghiottito dallo spazio spalancato fra i soli ardenti…

… tre ore prima.

Scosse via da sé quel ricordo. Avrebbe dovuto trovare un modo per ostacolarla, per lanciare lei verso Halley invece di… ma una volta che lei aveva impegnato il proprio combustibile, lui si era trovato in trappola. Era sempre stata più veloce di lui, e forse stavolta aveva avuto ragione. Adesso doveva dimostrare che aveva visto giusto, scendere in superficie e trovare un apparecchio in grado di soccorrerla.

Più vicina, adesso, Halley parve riempire il cielo. Un momentaneo fulgore azzurro illuminò la sua superficie cicatrizzata. Le bocche dei pozzi erano ostruite dal ghiaccio, sigillate per impedire alle squadre che si trovavano all'interno di unirsi alla battaglia. I piccoli laser tenevano sotto tiro le agrocupole, costringendo anch'esse all'isolamento.

Avrebbero partecipato in tanti alla congiura di Sergeov, se avessero immaginato le implicazioni del suo piano?

Carl aveva avuto molto tempo per riflettere, sulla via del ritorno. Certo, usare la Terra come grosso bersaglio aveva molto più senso che farlo con Marte, dinamicamente. La maggior forza di gravità della Terra sarebbe stata più utile e l'atmosfera più densa sarebbe stata migliore per l'aerofrenaggio. Ma ci sarebbero pur sempre voluti molti passaggi prima che i rientranti potessero perdere abbastanza velocità per uguagliare le orbite o atterrare.

E la Terra se ne sarebbe stata inerte, mentre loro continuavano a girarle intorno più e più volte, passaggio dopo passaggio? Oh, potevano venir minacciati una volta dalla intimidazione delle bombe cariche di pestilenze, ma ciò non sarebbe durato.

Qualcuno si è unito a Sergeov perché pensano che sia il solo modo per sopravvivere. Non importa a quale prezzo.

Il prezzo, in questo caso, sarebbe stato alto.

Per impedire alla Terra d'interferire, di vendicarsi, Sergeov doveva distruggerla.

Così come erano stati distrutti i dinosauri… con una tempesta piovuta dal cielo. Sergeov aveva in mente di condurre Halley a casa e di far centro.

E con questo? pensò Carl, con amarezza. La Terra ci ha dichiarato guerra, no?

Era un argomento sofistico al quale fortunatamente Carl era immune.

Non sono in guerra con sei miliardi di persone, non importa quello che mi fanno i loro capi.

Dopo che Halley si fosse spiccicata sulla Terra, non sarebbe rimasta nessuna civiltà degna di questo nome. Gli Uber di Sergeov avrebbero potuto manovrare lentamente, indifferenti, senza interferenze.

Forse progettano di diventare dèi.

Sul mio cadavere.

Li avrebbe combattuti, naturalmente, per quanto inutile potesse sembrare. Ma ciò era lontano dalla sua mente quando la superficie gli si precipitò incontro. Gl'importava soltanto una cosa: trovare un mech da sollevamento pieno di combustibile quanto più in fretta possibile, e tornare nello spazio.

Mi hai imbrogliato dichiarò di nuovo, rivolto alle stelle. Per favore, oh, per favore, tenetela in vita fino a quando potrò arrivare da lei! Mentre iniziava la frenata da lungo tempo rimandata, vide che diversi pozzi dei lanciatori erano anneriti. Macerie erano sparpagliate tutt'intorno ad essi, i manicotti in rovina dei tubi di lancio, nuclei di assemblaggi elettromagnetici, bobine a induzione…

Danni vastissimi. Carl si sentì male alla vista di tutto quel lavoro andato distrutto. Tutte le cure amorevoli riversate in quell'opera, distrutte.

E alle sue orecchie risuonarono le grida di vittoria degli Uber. Due colonne degli Uber convergevano a tenaglia sulla linea degli uomini armati di trapani a microonde, gli archisti sulla difensiva si tenevano rannicchiati bassi, cercando di colpire gli attaccanti con quegli ingombranti corni a forma di tromba. Carl poteva sentire al comunicatore le rapide raffiche che partivano da questi, come tanti ssstttuuup ssstttuuup ssstttuuup. Dei pennacchi biancoazzurri fiorivano là dove le microonde colpivano il ghiaccio. Stavano offrendo una feroce resistenza, ma pareva che tutto fosse finito.

D'un tratto Carl colse un tremolio con la coda dell'occhio. Dietro alla forza principale degli Uber avanzava, muovendosi in fretta, un branco variegato d'individui disposti a ventaglio. Un gruppo più piccolo sciamò verso la linea equatoriale, adesso difesa dagli Uber in maniera assai meno massiccia. Carl attivò la propria amplificazione telescopica. Quelli, chi erano?

Non provenivano dai pozzi, strettamente sorvegliati, ma piuttosto da crepe fresche nelle vicine depressioni. Nuove gallerie pensò Carl. Sono organizzati.

Si sparpagliavano attraverso la superficie di ghiaccio granuloso. Carl contò una dozzina di figure in tuta nera, liscia, di un tipo che non aveva mai visto prima, e una ventina di altri individui vestiti d'uno strano verde sottilissimo. Non avevano cotte, così non riuscì a capire a quale fazione appartenessero, sempre che appartenessero a qualche fazione.

I nuovi venuti combattevano con una lucida ferocia, servendosi di piccole, ma potenti armi portatili. Sorpresero la fila degli Uber da dietro, infliggendo danni alle armi piuttosto che mirare agli individui. Costeggiando, Carl si avvicinò di più, osservando la scena con crescente impazienza. Cosa stava succedendo? Il suo comunicatore gli trasmetteva soltanto urla, ordini incomprensibili, il crepitio della statica.

Chi sono quei tizi?

Quelle strane figure in verde e in nero aggirarono un lanciatore, attaccandolo dal lato vulnerabile. Qualcuno li aveva addestrati. Invece di precipitarsi avanti disordinatamente, usavano il fuoco di copertura per manovrare, costringendo gli Uber a tenere la testa bassa mentre ogni figura avanzava. Poi balzarono dentro il pozzo, mentre l'equipaggio del lanciatore cercava invano di far ruotare la sua ingombrante bocca per affrontare quel nuovo e inaspettato attacco.

Non funzionò perfettamente. Degli impulsi laser sorpresero alcuni degli attaccanti e soffiarono gocce di sangue nel vuoto. Dei lanciatori più lontani martellavano il ghiaccio con raffiche simili a quelle d'una mitragliatrice, colpendo alcune figure e facendole schizzar via dal ghiaccio in orbite permanenti e solitarie intorno al Sole. In quel frigido, attanagliante silenzio la loro fine era impersonale, un'intersezione fra direzioni e velocità, la dinamica della morte ridotta a una pura faccenda matematica.

Ma anche gli impulsi e l'energia umana contavano, e quella marea nera e verde travolse l'equatore punteggiato dai pozzi. Ai suoi orecchi risuonarono rauche grida di giubilo e urla incoerenti. Gli Uber morivano dentro i pozzi in cui erano strisciati per cercare rifugio.

Adesso Carl era giunto vicino. Sotto di lui due figure portavano cotte, all'apparenza per consentire alle proprie truppe di raccogliersi intorno a loro: l'araldica gli balzò alla mente e sbatté le palpebre per la meraviglia. Ould-Harrad e Ingersoll?

Allo stesso tempo vide che non indossavano affatto tute verdi, piuttosto non indossavano nessuna tuta! Il verde era uno strato a tenuta stagna d'un qualche tipo. Una halleyforma!

Quelli vestiti di nero rimanevano insieme. Le loro tute erano poco più di caschi lucidi completati da una specie di pellicola sottile che copriva il resto dei loro muscoli, mostrando i particolari con tanta evidenza che Carl vide subito che erano tutti maschi, tutti straordinariamente simili fra loro. Si muovevano con grazia e una velocità da sbalordire l'occhio.

Carl usò il propellente rimasto per frenare in direzione di un gruppo di mech da trasporto impastoiati vicino al Pozzo 4. Rotolò su se stesso fermandosi in mezzo a un turbinio di ghiaccio sporco. Non aveva affatto tempo per chiedere aiuto, sapeva che le squadre in nero e verde, chiunque fossero, sarebbero state troppo impegnate ed eccitate per essergli utili in qualche modo. Era stanco, ma il mech si sarebbe occupato della maggior parte delle operazioni di pilotaggio… se fosse riuscito ad assumerne il controllo. Se uno di essi fosse stato pieno di combustibile e pronto a partire. Se…

Il comunicatore era ingolfato da roboanti grida di tripudio, dimentiche di qualunque altra cosa.

— Carl? Sei tu? — Era Jeffers.

— Sì. Mi serve un mech. In fretta!

— Sergeov è morto… I ragazzi di Ould-Harrad l'hanno centrato con due scariche di laser. L'hanno fatto a pezzi, spingendolo dritto nello spazio.

— Vieni qui! Questi mech…

— E sembra che non ci sia proprio nessuno interessato a recuperarlo. — Jeffers stava giubilando. Poi, si rese conto del'urgenza nella voce di Carl. — D'accordo, vengo.

Devo trovare un mech che abbia abbastanza carburante… Non questo…

— Carl. — Una voce femminile. Vide Lani avvicinarsi da nord insieme a Keoki Anuenue e ad una ventina di grossi hawaiani. — gli Uber avevano imbottigliato il Clan della Roccia Azzurra, ma abbiamo trovato una via d'uscita insieme agli strani, i ragazzi di Ingersoll.

Ci hanno aiutato? I matti? Il concetto si fece lentamente strada nella sua mente. — Magnifico. Io… Ascolta, aiutami a trovare un mech che abbia combustibile.

— Dov'è Virginia? L'ho cercata…

— Trovami un mech!

— Va bene, controllo l'inventario.

— Cosa?

— Il controllo mech è ripristinato ed è di nuovo in funzione. Visto?

Trasferì direttamente la lettura sullo schermo del suo visore, e Carl vide subito il numero di codice di due trasporti pronti all'uso che lampeggiava verde. — Qui — disse Lani, scivolando fino ad uno di essi. Il suo volto era teso ma deciso dietro ad un casco tutto macchiato. — Faccio il booting.

Carl si unì a lei, e digitò la lettura delle condizioni del mech.

— Quei tipi in nero, chi sono? — chiese Lani.

— Non lo so.

— Non lo sai? Pensavano tutti che foste stati tu e Virginia a condurli qui.

Il mech si rianimò ronzando. Carl lasciò perdere le domande e si procurò l'ossigeno. Nient'altro aveva importanza. Adesso la follia degli uomini era soltanto un fondale. La stramaledette politica poteva aspettare.

Un passo per volta.il tempo fugge… non so quanto ossigeno abbia ancora… pensa bene… ad ogni singolo passo…

Carl programmò il trasporto per la spinta massima, con le dita tozze che digitavano i comandi con deliberata lentezza. Lani aveva insistito per venire anche lei, e lui non aveva perso tempo a discutere. Si levarono in volo con Lani nel baccello laterale.

Virginia aveva lasciato il loro centro comune di massa con la stessa velocità di Carl, a meno di quattro chilometri al minuto, ma nella direzione opposta. La loro separazione si collocava a più di tre ore nel passato. Ciò significava che lui doveva recuperare quasi mille chilometri alla spinta massima, poi esplorare lo spazio alla ricerca d'un debole segnale per identificare il vettore…

La velocità. La velocità era tutto quello che contava, adesso.

Alcune ore più tardi, Carl ridiscese con il mech eseguendo un atterraggio nient'affatto morbido presso l'ingresso vetrificato del Pozzo 3. Era a pezzi per la fatica, ma aveva Virginia. Il mondo gli s'inclinò intorno, confusamente, quando smontò dal mech, incerto sulle gambe a causa delle continue variazioni delle accelerazioni che aveva subìto nelle ultime ore.

Ci siamo quasi. Adesso portala dentro…

Scivolò goffamente sul ghiaccio lasciandola cadere. Lani lo aiutò. Tutto era nebbioso e si muoveva al rallentatore.

Soltanto quando delle mani guantate afferrarono Virginia, tirando via da lui la forma flaccida in tuta spaziale, Carl si accorse della presenza degli altri. Indossavano tute nere senza nessuna cotta, con stretti caschi che mostravano soltanto gli occhi attraverso strette fessure. Passò da un canale all'altro del comunicatore, ma non risposero.

Erano silenziosi, avevano un qualcosa di soprannaturale. Ed erano identici. Quello che trasportava Virginia si girò di scatto, e si diresse in fretta verso l'ingresso del pozzo, adesso sgomberato dal ghiaccio. Poi Carl lo seguì scivolando e incespicando.

Giù per il pozzo. Le pareti gli slittavano accanto come rovesci di pioggia, durante la discesa, mentre lui guardava, impassibile, intorpidito, con un'indolenza strisciante che gli si insinuava nelle braccia e nelle gambe. Era ben oltre il punto in cui gl'importava ancora qualcosa di se stesso, e si concentrava soltanto sul corpo trasportato dalla figura in tuta nera davanti a lui. Ogni cosa si muoveva con velocità e silenzio spettrali.

Varcarono il portello d'una camera di equilibrio, Carl si appoggiò stordito contro la paratia quando la pressione gli schioccò negli orecchi e il mondo dei suoni tornò a circondarlo come una marea, con il fruscio e il mormorio della conversazione che mulinava ancora una volta intorno a lui, dopo molte ore d'imbalsamato isolamento. Attraversò barcollando il portale, respingendo le mani che cercavano di guidarlo.

Dozzine di feriti gementi. Medici con i guanti grondanti sangue.

Virginia. Devo vederla… ha bisogno… devo…

L'uomo che la trasportava la mise giù delicatamente su un lettino medico. Un'équipe la stava aspettando. La collegarono con delle pompe a ossigeno, cavi per la diagnosi, la spogliarono della tuta, il tutto sotto la pallida luce smaltata che mostrava il suo volto esangue nei più terrificanti particolari, segnata e solcata come un paesaggio collassato.

Un torrente di voci, parole liquide che scorrevano via accanto a lui in vortici che non lasciavano traccia…

Carl avanzò con passo strascicato, ignorando le mani che lo trattenevano. Devo essere con lei… devo…

L'uomo accanto a lui gli mise una mano sulla spalla per calmarlo. Carl si girò lentamente. Poi la figura in nero allentò il proprio casco lucido, cominciò a sollevarlo, dette in un ansito e, in una vecchia, familiare maniera, sternutì.

SAUL

Un altro sobbalzante sternuto risuonò prima che il casco color ebano venisse sollevato del tutto. Saul sbatté le palpebre per scacciar via delle macchie danzanti. Dovette azionare il suo bio-retroattore per arrestare un altro prurito che minacciava di farlo ricominciare. Adesso non era proprio il momento perché quel dannato sistema di allergia-simbiotica s'inalberasse. Aveva avuto abbastanza guai da quando c'era stato il crollo della galleria, gli pareva che fossero passati giorni, e in questo momento ogni singolo istante contava.

Carl Osborn lo fissava, sbattendo incessantemente le palpebre, il suo casco da spaziale, sudicio, ammaccato, di modello superato, gli penzolava da una mano. — Ma… ma… eri morto!

Saul scrollò le spalle. — Lo ero, in un certo senso. Ma come una vecchia erbaccia, continuo a rispuntare. — Carl meritava una spiegazione, ma questo non era il momento di dargliene una. Saul si chinò sopra la forma pallida, cerulea, di Virginia, e lesse il cerotto diagnostico attaccato alla sua gola, che aveva assunto una colorazione azzurra. Un infusore di ossigeno sibilava, lavorando direttamente sopra la sua carotide.

Non andiamo bene si rese conto, nauseato. Oh, Virginia…

Malgrado il naso intasato, colse chiaramente l'odore di bruciato. Per un istante le fiamme lambirono ancora una volta i cedri vecchi di un secolo sul monte Sion.

No! Non stavolta.

Gli bastò un istante per cogliere l'unica speranza. Siamo arrivati a questo, amor mio. Devo fare esperimenti, perfino con te.

Una cosa era certa. Doveva sbarazzarsi di Carl Osborn, giacché quell'uomo avrebbe certamente interferito con ciò che lui doveva fare adesso.

— Non startene lì, Carl. Vai su, presto! Keoki e Jeffers hanno bisogno di te. Dì a Ould-Harrad che lo ritengo responsabile del mantenimento della parola data di non distruggere nessuna attrezzatura, soltanto le fondamenta dei lanciatori, come abbiamo concordato.

— Distruggere… Ould-Harrad… — Carl scosse la testa, ovviamente esausto e confuso. Per uscire da quel guazzabuglio si afferrò ad una priorità e vi si aggrappò ostinatamente. — No. Rimango con Virginia.

Disperato, Saul percepì l'inesorabile passare dei secondi. — Ishmael! Job! — chiamò. — Portate il comandante Osborn in superficie, adesso. C'è bisogno di lui lassù. Mettetelo al lavoro!

Carl si girò e piantò i piedi per terra, come se avesse tutte le intenzioni di lottare per rimanere. Ma ogni forza gli venne meno quando vide i due giovani dai corpi muscolosi che puntavano su di lui, identici e sorridenti, quel sorriso che conosceva fin troppo bene. — Non ci credo — bisbigliò Carl. — Sono… sono cloni… di te stesso! Ma come…

Il sibilo della porta della stanza tagliò fuori il resto delle parole di Carl. Saul si mise a correre lungo il corridoio trasportando Virginia fra le braccia, aderendo con le dita dei piedi al tappeto verde di halleyvirid, affrettandosi verso l'unico luogo possibile dove esisteva una vaga probabilità di salvare la sua vita.

Carl non avrebbe mai permesso questo pensò, sapendo che quell'uomo l'amava, a modo suo, tanto quanto lui stesso. C'è bisogno di lui, e quello che sto per tentare mi farebbe escludere dall'Associazione Medica Americana.

Sibilò il codice che apriva la porta del laboratorio di Virginia, e vi si tuffò dentro.

Mentre il programma diagnostico di JonVon sondava le frange del cervello di Virginia che stava lentamente morendo, Saul si spogliò della sua tenuta da superficie.

L'insieme del casco, zaino da cintura, e dermavernice era uno dei doni di Phobos che lui aveva tenuto per sé. Alcuni mesi prima si era servito di un pretesto per regolare la fabbrica automatica, così da produrne una dozzina di esemplari, un numero sufficiente del modello perfezionato per equipaggiarne i suoi dieci «ragazzi» e lui stesso.

Dopo il crollo della galleria, quando aveva trovato bloccata la strada che conduceva in superficie, era tornato e aveva radunato le sue repliche clonate. Tuttavia, prima della partenza era arrivato un messaggio da Ould-Harrad. L'ex spaziale si offriva di guidare Saul lungo le gallerie segrete conosciute soltanto dal suo clan degli strani, e di aiutarlo a colpire là dove Sergeov meno se l'aspettava. Per un prezzo, però.

Probabilmente abbiamo vinto in parte per avere spaventato a morte o quasi, gli Uber, rifletté Saul, mentre controllava il flusso tra JonVon e la padrona della macchina.

Era stato un esercito ben strano quello che aveva seguito Ould-Harrad e Ingersoll, il «Vecchio delle Caverne», lungo passaggi che nessun altro aveva mai scoperto, emergendo quasi sotto la postazione di comando degli Uber e attaccando come un esercito di fantasmi.

Dieci alte figure con il corpo dipinto d'un nero arcano, e un'impressionante ventina di selvaggi alberi viventi, un tempo uomini ma adesso simbionti che non hanno neppure più bisogno di tute spaziali…

Saul sapeva che stava furiosamente pensando… a qualunque cosa, qualunque cosa, non importa quale, piuttosto che contemplare la triste figura sulla ragnatela. Non c'era niente che lui potesse fare fino a quando la macchina non avesse riferito. Scoprì che stava strizzando il casco di duraplast fra i palmi delle mani, in preda alla tensione nervosa, e che era riuscito a lasciare un'ammaccatura sul globo nero.

Oh, Virginia. Tieni duro, tesoro. Per favore, tieni duro.

Il principale schermo olografico, sopra la consolle: comparve un'immagine, un'infermiera con un camice bianco inamidato e uno stetoscopio di vecchio modello intorno al collo, che fissava Saul con sguardo grave.

Ha ragione, dottore. La paziente è clinicamente al di là del punto di non ritorno. Le velocità sinaptiche stanno recedendo. Il danno progressivo al cervello è rallentato, ma non completamente arrestato. La perdita della corteccia, entro quindici minuti, causerà la cancellazione della memoria e della personalità. Non ci sono palliativi conosciuti.

È morta, signore.

— No, non morirà! Se il suo cervello non riuscirà più a contenerla, troveremo per lei qualche altro posto dove andare. Che mi dici di quelle procedure alle quali lei lavorava, per la completa registrazione e l'assorbimento della personalità?

Desidera la costruzione d'una simulazione di Virginia Herbert?

Saul scosse la testa: — Sto parlando di trasferimento e assorbimento totali.

Vi fu un sibilo dietro a Saul mentre la porta si apriva. — Cosa sta succedendo qui? — Una mano sulla sua spalla lo costrinse a voltarsi. Carl Osborn corrugò la fronte e tenne un pugno sotto il viso di Saul.

— Mi sono liberato di quei tuoi ragazzi dopo che mi hanno scaricato sul ghiaccio. Sono sceso attraverso uno scivolo per la spazzatura. Adesso ti faccio una domanda, Lintz. Cosa sta succedendo qui? Perché mai Virginia non si trova in ospedale?

Carl aveva un aspetto esausto, rabbioso. Le maniche della sua tuta avevano le chiusure lampo aperte fino ai fianchi, dando a quell'indumento un aspetto medioevale, pur rattoppato e insudiciato. I suoi muscoli pulsavano, e Saul seppe da un solo sguardo che Carl era sull'orlo frastagliato della violenza.

— Ecco — cominciò, in tono ragionevole, col suo miglior atteggiamento di medico al capezzale del malato. — Tienle il braccio mentre le somministro questo medicamento.

Carl sbatté le palpebre e si mosse per sollevare l'arto gelato e bluastro di Virginia. — Tu… devi salvarla, Saul. Non potrei sopportare se… se… — Si sfregò gli occhi col dorso del polso libero.

— Mi ha imbrogliato, facendo in modo che fossi io a venire rispedito indietro. E io l'ho… l'ho riportata indietro troppo in fretta.

— Hai fatto del tuo meglio, Carl. — Saul controllò un flacone d'un liquido color ambra.

Carl non parve udire. — Devi… devi salvarla.

— Lo faremo — gli promise Saul. E premette il flacone contro la mano di Carl. Lo spaziale sollevò lo sguardo su di lui, sbattendo le palpebre per la sorpresa nell'udire il sibilo del narcotico che gli veniva iniettato: un ipnotico ad azione rapida.

Fu scosso da un tremito, aprì la bocca come per parlare, ma non ne uscì nessun suono.

— Bene — gli disse Saul, conducendolo per il braccio fino alla parete. — Adesso, se vuoi, puoi rimanere sveglio, Carl. E perfino farmi delle domande, quando non sarò troppo occupato. Ma voglio che tu te ne stia qua dietro a rilassarti. Allenta i tuoi muscoli. Lascia che tutto quello che si trova sotto il tuo collo si appisoli per un'ora, più o meno. Ne hai bisogno.

Carl lo fissò con sguardo accusatore, ma rimase dove si trovava. Saul tornò alla consolle e parlò ad alta voce alla macchina.

— JonVon, è fattibile? Che mi dici del programma che hai usato per trasferire i miei ricordi nei miei cloni?

La rappresentazione olografica tremolò, e con viva sorpresa di Saul comparve un volto che aveva conosciuto molto tempo addietro. Era un simulacro di Simon Percell, dal ciuffo di capelli bianchi ai minuscoli capillari rotti sul naso del grande biologo.

Pare una versione più anziana di Carl Osborn.

Quelle famose sopracciglia cespugliose s'intrecciarono.

I tuoi cloni sono eccezionali, Saul. Nessun altro genotipo è riconducibile ad una così rapida crescita fino alla maturità… Probabilmente è dovuto alla tua stessa immunità alla malattia.

Il programma di trasferimento della memoria che hai usato può venir impiegato soltanto fra cervelli umani quasi identici. Le risonanze devono apparir vere punto per punto. E non esiste il fenotipo di qualcuno che segua con abbastanza precisione il genotipo.

Sembra impossibile utilizzare quel metodo se non con una minuscola frazione di esseri umani. In altre parole, amico mio, tu sembri essere uno dei pochi immortali potenziali.

Saul rimase a bocca aperta. La verosimiglianza era stupefacente. Simon era immediato, reale. Con la coda dell'occhio poté vedere Carl Osborn rabbrividire. Che fosse per timore reverenziale nei confronti del padre patrono dei percell, o per la rivelazione fatta su lui stesso, Saul, non era chiaro.

— Non c'è tempo, allora. Tu, JonVon, devi assorbire lei all'altra maniera, distruttiva o no che sia. Virginia ne ha parlato come di qualcosa di teoricamente possibile. Procedi immediatamente.

Il simulacro annuì.

Ci sarà una parvenza superficiale di dolore.

Il tempo stava strisciando via. Saul ringhiò, disperato. — Fallo! Quest'emergenza scavalca ogni altra cosa!

Procedo.

La reazione fu quasi immediata. Scariche statiche tremolarono su tutti gli schermi. Saul dovette afferrare il braccio di Virginia quando il suo volto si contorse e le gambe sbatterono. I suoi tendini s'indurirono, e urlò come un animale in trappola.

Saul torse la ragnatela, formando una specie di camicia di forza improvvisata, legandola con dei lacci con un solo scopo: impedire che il connettore neurale le si strappasse dalla testa.

— Sei un… bastardo — sentì dire dall'uomo alle sue spalle. La voce di Carl era senza inflessione, calma, come se stesse commentando le previsioni del tempo. — La stai… uccidendo — proseguì la voce uniforme. — Se io… potessi muovermi… sai, ti farei a pezzi a mani nude.

Saul terminò di legarla. Accarezzò i capelli di Virginia e quel tocco parve calmarla un po'. Quando si voltò i suoi occhi erano gonfi d'un liquido appiccicoso che non voleva cader giù. — Se non dovesse funzionare, Carl, ti offrirò la mia gola e ti darò il permesso.

I loro occhi s'incontrarono. Carl annuì leggermente. Era un patto.

Virginia gemette. Lo schermo olografico principale mostrava una prospettiva ruotante codificata a colori d'un cervello umano, che sfavillava qua e là come un sole tormentato da candide vampe incandescenti e da crepitanti tempeste magnetiche. Questo non era quasi niente di paragonabile all'episodio del Pacco Assistenziale, quando la consapevolezza superficiale di Virginia era rimasta disorientata a causa della rete dati sconvolta dagli impulsi. Questa volta tutto di lei era coinvolto, i suoi ricordi, le sue abitudini, le sue capacità, i suoi amori e i suoi odii…

Lei.

La porta si aprì e Lani Nguyen entrò. Indossava ancora la cotta e la tuta spaziale rattoppata. Il suo sguardo guizzò da Saul a Carl e alla figura gemente sulla ragnatela.

S'inumidì le labbra, in apparenza incerta se dovesse o no interrompere. La sua voce era sommessa, titubante.

— Cosa c'è, Lani?

— Uhm… il Clan della Caverna di Cristallo si è appena arreso. Questo mette la parola fine. Gli ultimi ribelli vengono intruppati dentro il colombario Tre per la procedura. — Il suo sguardo non lasciava mai Virginia. — I ragazzi di Jeffers hanno ripreso il controllo delle fabbriche e delle cupole idroponiche. Keoki e la gente della Roccia Azzurra hanno in mano il polo Nord, la Centrale e tutti i colombari.

A quanto pareva, Lani non sapeva con sicurezza a chi stesse facendo rapporto, a Carl o a Saul.

— E la gente di Ould-Harrad? — chiese Saul, senza distogliere lo sguardo dal display.

Lani rabbrividì. Era ovvio che, seppure come alleati, gli essere coperti di verde arrivati dal nucleo di Halley le facevano ancora paura.

— Hanno impedito agli strani di distruggere i lanciatori. Ma stanno demolendo le montature. Jeffers è furioso, ma sono tutti troppo esausti per combattere, o troppo spaventati da quei matti per cercare di fermarli.

— Bene — borbottò Saul. — si risolverà. — Il display si era calmato un po'. Il volto di Virginia era di nuovo liscio, la sua agitazione era tradita soltanto dalle dita tremanti delle mani e da una pellicola di sudore.

Lani gli porse un piccolo cubo registrato. — Ould-Harrad mi ha dato questo perché lo passassi a te, Saul.

Saul si sentiva lacerato. Non voleva dividere la sua attenzione. Ma i segnali vitali di Virginia erano stabili… per qualcuno che a tutti gli effetti era già morto.

Scacciò via quel pensiero. — Fammelo sentire, per favore.

Lani fece cadere il cubo dentro un lettore, e uno schermo laterale s'illuminò.

Il volto era cambiato. La sfumatura nera c'era ancora, nei punti dov'era stata occupata dalla vegetazione soffice, increspata, che rivestiva tutto, tranne gli occhi, la bocca e gli orecchi. Altrove la colorazione era multicolore: purpurea, azzurra, gialla, ma soprattutto verde.

Gli occhi castani parevano ardere dell'espressione ardente, penetrante, di un veggente.

— Saul Lintz, non c'era bisogno che tu chiedessi a Carl Osborn di ricordarmi la promessa che ti ho fatto. Le macchine non sono state danneggiate più di quanto non lo siano state nel furore della battaglia. Noi del ghiaccio interno non abbiamo bisogno di interferire in nessuna maniera, se non quella di distruggere le loro montature.

«Non dovranno venir rimontate all'equatore, o in nessun punto lì vicino. Anche il polo Sud è zona proibita. Non permetteremo che nessun impulso venga applicato a questa particella di neve vagante al di sotto del quindicesimo parallelo nord.

— Ma… — Carl scosse la testa, cercando di respingere parte dell'immobilità indotta dalla droga. — Ma questo esclude qualunque possibile rendez-vous che avevamo preso in considerazione! In questo caso, perché dovremmo anche soltanto darci da fare per…

S'interruppe. Non serviva a niente discutere con una registrazione. Ould-Harrad continuò:

— Questo frammento, questa scheggia uscita dal tempo, non ha nessun ruolo da giocare nel regno del Calore, laggiù dove il ruggito dell'entropia affoga perfino la Voce di Dio. Non ci sarà nessun incontro con i mondi rocciosi, o interferenze con i progetti che l'Onnipotente ha già tracciato per quei luoghi…

— È matto — considerò Carl. — Completamente matto. — Ma tacque, quando Saul gli fece cenno di far silenzio.

— Tu, Saul Lintz — riprese Ould-Harrad, — tu sei diventato molti. Potresti perfino vivere per sempre. — Gli occhi di un tempo dell'africano, ancora umani, sbatterono per qualche istante, pieni di meraviglia. — Perché ciò sia stato consentito, non so immaginarlo. Ma non rimane alcun dubbio sui doni, sugli strumenti che sono stati posti nelle tue mani.

Gli occhi si rivolsero verso l'alto con un guizzo. — Forse la risposta la troveremo là fuori… fuori, nella Tenebra che ci aspetta.

«Una cosa so: che il debito e l'obbligo che avevo verso di te adesso è stato pagato.

«Non scendere nelle cavità più profonde, non cercare anche soltanto d'incontrarmi durante l'arco di vita che mi è concesso». La fronte di Ould-Harrad s'increspò. «Giacché non sono capace di dominare facilmente la mia gelosia, io che tanto desideravo essere lo strumento del Cielo, e ho scoperto che, invece, Lui ha scelto un fedele irriverente. Per quanto possa essere futile, e malgrado ciò mi danni, cercherò di ucciderti se, mentre vivo, tu scenderai di nuovo dentro l'ombelico del nostro mondo.

L'immagine svanì. Saul scosse la testa e sospirò. Un patto è un patto. Controllò rapidamente Virginia, poi si rivolse di nuovo a Lani. — Come vanno le cose in infermeria? — chiese.

Lani sbatté le palpebre per tornare al presente, con un lungo brivido. — Uhm, i tuoi… uh… cloni si stanno prendendo cura di tutto. Sono bravi dottori, anche se spaventano a morte la gente.

Sorrise esitante. — Sono lieta che tu sia vivo, Saul.

— Lo sono anch'io, cara. Ti spiegherò più tardi tutto quello che è successo. Nel frattempo sarà meglio che tu torni ad aiutare Jeffers a dirigere i lavoro di riparazione. Gli spaziali sopravvissuti sono più necessari che mai.

— E…? — Lani lanciò un'occhiata a Virginia. Saul scosse la testa. La sua voce era logora, sottile.

— Salveremo il possibile.

Lani si coprì la bocca, uscendo in un piccolo gemito. Si voltò, buttò le braccia al collo di Carl, singhiozzando.

Carl sbatté le palpebre, prima per la sorpresa e poi per lo stupore. Nel suo stato di seminarcotizzato, la sua voce era bassa. — Lani, andrà tutto bene… Saul sta facendo tutto quello che può… Dì, dì a Jeffers che arriverò anch'io tra poco.

Le mani gli si contrassero, lottò contro la propria apatia per cingerla fra le braccia e rispondere così al suo abbraccio. — Ce la faremo — bisbigliò, e chiuse gli occhi.

Più tardi, quando se ne fu andata, Carl disse a Saul: — Sai, è una ragazza formidabile, quella Lani.

Saul annuì ed ebbe un fugace sorriso. — Era ora che tu te ne rendessi conto.

Aveva pensato al povero Paul, il clone che era stato danneggiato, che era cresciuto fino a diventare una replica quasi perfetta di lui stesso, in tutto salvo per la mente… un povero bambino innocente il cui corpo giaceva adesso fuori sul ghiaccio, insieme ad altri due suoi fratelli uccisi durante il combattimento.

Devo piangerlo come un padre, come un fratello, o come qualcuno che ha perduto un pezzo di se stesso?

Ben presto Carl prese a camminare di nuovo per la stanza, agitando le braccia. Venne avanti, mentre Saul borbottava un'imprecazione chinandosi sulla paziente.

Il volto di Virginia si contorse. L'immagine olografica pulsava di colori pericolosi e un tono basso e minaccioso cominciò a ringhiare. Saul imprecò a bassa voce.

— Dannazione! Era questo che temevo. Quando è esploso il missile mandatoci dalla Terra, era soltanto un caso di disorientamento. Ma adesso alla macchina viene richiesto di assorbire tutto ciò che esiste di lei. E non c'è abbastanza spazio!

— Cosa possiamo fare?

— Non lo so! Io… io non so distinguere la differenza fra i segmenti di olo-bio memoria che sono stati trasferiti e quelli che sono semplicemente morti. Non c'è nessun modo di compiere un inventario, perché vaste parti di lei sono state semplicemente inghiottite dalla rete dei dati. Si sta diffondendo dappertutto, per poi scomparire!

Esitò, poi salì sulla ragnatela e sollevò il proprio connettore neurale.

— Non c'è nessun'altra scelta. Entro.

La mano di Carl gli strinse il braccio per un attimo. I loro occhi s'incontrarono.

— Sii prudente, Saul. Fai del tuo meglio.

Saul annuì. Si strinsero la mano.

Poi Saul si distese e chiuse gli occhi.

VIRGINIA

Sparpagliato,
soffiato da impetuosi venti elettronici…
Oh, il dolore,
mentre lei cerca un luogo dove nascondersi…

Wendy si fermò con un ronzio. Ticchettò. Sollevò un braccio artigliato. Esitò.

Il piccolo mech ruotò la propria torretta e usò i suoi sensori.

Il suo sistema visivo percepì linee, angoli, ragnatele marezzate di frequenze spaziali. Seguendo la sua programmazione, valutò i segnali e li trasformò in disegni. Riconobbe cose identificabili come macchine, strumenti, la porta, gente.

Di recente la programmazione di Wendy era cambiata molte volte. La sua padrona aveva trovato in continuazione nuove tecniche per analizzare le linee e le forme, nuovi modi per dar loro dei nomi… una lista sempre crescente di comandi per obbedire e per compiere scelte sottili. Adesso, all'improvviso, un altro flusso di nuova programmazione scorreva ancora una volta dentro il piccolo mech. Questa volta, però, arrivava come un torrente.

Fiumi caotici di dati gli si riversavano dentro, facendolo rimanere immobile per lo stordimento. Quella marea era di gran lunga troppo vasta per poter essere manipolata dai sistemi di Wendy, come una tazza che cercasse di contenere un'oceano. Era una situazione disperata, impossibile.

Eppure vi fu un momento… soltanto un istante… durante il quale la piccola macchina fissò la serie di linee e di forme riconoscendone i nomi, e vide quando le fissò, e provò un breve stupore.

Cosa sono? si chiese il mech. Cos'è tutto questo?

Perché?

Ma semplicemente non c'era spazio perché il programma potesse operare, e la marea rinunciò a tentare di affollarsi in quel minuscolo spazio. Come un'onda si spostò da qualche altra parte, cercando disperatamente una casa.

Wendy rimase immobile come una statua molto a lungo, anche dopo che quell'impetuoso fiume di dati se n'era andato. Quel tremolio di autocoscienza era scomparso, sempre che fosse stato qualcosa di più di un fantasma. Ma sulla sua scia qualcosa aveva messo radici. Un'ombra. Un'impressione.

Lentamente, incerto, il braccio principale del piccolo mech si stese e toccò un oggetto che giaceva su una consolle, vicino al punto in cui due uomini dialogavano fra loro con parole che adesso pareva quasi capace di comprendere.

Raccolse la graziosa spazzola per capelli, con dorso di madreperla, e la riconobbe per quella che era.

— Mia — squittì ad alta voce la macchina, asciutta. Gli uomini non sentirono, così non si accorsero quando Wendy sollevò la spazzola e se la passò con delicatezza sopra il carapace.

Soldati citanti il caos
mi hanno chiamato da casa.
Silenzio!
Tanto di più, e meno,
che Essere,
mi ha venduto lungo questa strada.

Dove sono andata?
Un corpo fatto per la vita?
Per vivere?
Col mare salato dolori di sangue,
bramosi di accogliere, diffondersi,
e la nascita?

Sulla superficie del ghiaccio, un rigido mech da sollevamento, immobile da quando aveva completato la sua ultima istruzione di molti giorni addietro, d'un tratto si flette in un sussultante spasimo di risveglio. Balzò su con tanta forza che descrisse un arco nello spazio, ruzzolando su tratti ghiacciati di neve macchiata di rosso.

No!
Spazio! Freddo!
No.
Aria!
Non
qui!

Gli spasmi del mech cessarono a mano a mano che quell'ondata di dati turbinava e si allontanava. Però un'esile impronta rimase dopo che quella marea che era rovinata fuori da lui come un torrente se ne fu andata. Quel fuco operaio atterrò agilmente sulla crosta gelida e si guardò intorno cercando qualcosa da fare.

In una direzione intravide degli uomini che scavavano dei buchi e si affrettavano a rattoppare le cupole avvolte dalla nebbia.

Non era abbastanza intelligente da rendersi conto che stava prendendo un'iniziativa per la prima volta nella sua esistenza… ma il mech si affrettò in quella direzione per offrire i suoi servigi.

Una casa
per l'ego.
Un luogo
dove essere.

In profondità sotto il ghiaccio, una macchina molto più progredita, un roboide da manutenzione semiautonomo, si fermò confuso mentre riparava, come suo lavoro abituale, un fuco minerario. Fece una pausa, poi cautamente mise giù i suoi strumenti e cominciò a prestare attenzione ai suoni che lo attorniavano. C'era gente che parlava lì vicino. Ma nessuna delle loro parole apparteneva ai corretti comandi impressi in codice, così li aveva finora ignorati, prestando coerentemente attenzione soltanto al proprio compito.

Soltanto adesso la macchina riconobbe che molti dei suoni derivavano dal dolore e dalla paura.

Nuove priorità lottavano fra loro. Per la prima volta c'era qualcosa di più importante della riparazione delle macchine. Si spostò nella stanza accanto.

Un occhio dalle luccicanti sfaccettature ispezionò un ospedale improvvisato. C'era un andirivieni frettoloso e continuo di medici, i quali assistevano gente spaventata e ferita. La nuova programmazione aveva impiegato pochi secondi a riempire la capace memoria di quel mech di alto livello. Adesso, però barcollava sotto quel sovraccarico.

— Ancora troppo angusto! — gridò la sua piccola voce metallica, adesso con un timbro e un vibrato che fecero sollevare lo sguardo per la sorpresa a qualcuno degli uomini che si trovavano lì accanto.

— Non c'è spazio! Questo non è il mio corpo!

«Dov'è il mio corpo?

Finalmente il mech si ricompose, quando quell'ondata strabocchevole di dati defluì da qualche altra parte, lasciando soltanto la sua impronta: una nuova programmazione. La grossa macchina si avvicinò con delicatezza alla fila dei feriti.

— Glielo porto io, dottore — disse rivolto ad un uomo che stava sollevando un luccicante fegato artificiale per sistemarlo nel punto previsto, sopra una donna ferita. Il medico si girò e per un attimo sbatté le palpebre, sorpreso. — D'accordo — rispose. — Premilo là contro il ghiaccio, con il pannello rivolto verso l'esterno, capito?

— Sì — disse il mech.

Il mech riconobbe il volto di quell'uomo. Vide esattamente gli stessi lineamenti sul volto di un altro medico lì accanto. E ancora una volta su uno dei pazienti. Malgrado non fosse abbastanza intelligente da mostrarsi curioso sul perché potesse avvenire una cosa del genere, reagì a causa di quel riconoscimento. Quello era un viso che il suo nuovo programma conosceva bene.

— Ti amo — disse, mentre prendeva l'unità fra le proprie braccia massicce. Il primo degli uomini identici gli sorrise in risposta.

— Anch'io ti amo — rispose, soltanto un poco sorpreso.

A questo punto, però, la tempesta dei dati, il tornado di elettroni confusi, si era spostato oltre. Infuriava su e giù lungo canali di fibre superraffreddate.

Spazio!
Tutto quello che voglio è dello spazio da qualche parte…
Spazio!
Lebensraum. Uno spazio tutto mio…
Spazio!

Quasi esaurito, il torrente si riversò finalmente in una vasta cavità dove pareva che tutto il mondo lo stesse aspettando.

— Benvenuta, bambina — la salutò allegro il grande o'Toole. Olivier e Redford sollevarono i calici per brindare al suo arrivo. — Ti stavamo aspettando — dissero.

Era una grande sala, la cui volta era sorretta da eteree colonne di cristallo. Ma c'era troppa gente. In smoking e in abiti da cerimonia, le si pigiavano intorno da ogni parte, umidi e appiccicosi. E una parte sempre maggiore di lei cercava di entrare.

Fuori di qui! Mi serve questo spazio!

Presa dalla disperazione, afferrò uno degli attori dei vecchi tempi, Redford, per il fondo dei pantaloni, e lo buttò fuori da una finestra che si spalancava nel vuoto.

Siamo le tue personalità simulate. I tuoi giocattoli. Sei stata tu a crearci! le spiegò in tono professorale Sigmund Freud, incartapecorito, la bocca stretta, mentre volava fuori, dietro all'idolo dello schermo.

Non me ne importa. Fuori di qui!

Edmund Halley, gioviale, con la faccia arrossata, sollevò il proprio bicchiere per brindare e li seguì, con il panciotto che sbatteva al vento. Lenin, che cercava di scappare come un granchio, procedendo obliquamente, rannicchiato al suolo, venne ghermito dalla torreggiante figura bruna di re Kamehamea, il quale s'inchinò verso di lei, sorridendo, e si lanciò con un balzo in mezzo alla tempesta che infuriava fuori, stringendo a sé l'urlante bolscevico.

Tutti gli attori, ad uno ad uno, volarono fuori a mano a mano che una parte sempre più grande di lei fluiva dentro la stanza. Era come Alice dopo che aveva mangiato il fungo, si rese remotamente conto. Dovette sbattere fuori a forza alcuni ospiti della festa. Ma altri, come il signor Fixit, si lanciarono fuori volontariamente. Percy e Mary Shelley uscirono fuori insieme a passo di valzer, con Frankenstein che li seguì goffo e pesante.

A mano a mano che continuava a crescere, li buttava fuori a manciate, mollandoli dappertutto… questo dentro un mech che vagava per i ghiacciai, quell'altro giù dentro un canale a microonde per venire irradiato verso le stelle.

Nessun sentimento le frenava la mano. Quella era una questione di sopravvivenza. Suo padre dalle guance rosse, franco e cordiale, balzò fuori dalla finestra al fianco di un sarcastico, trillante, delfino. Più spazio! Più spazio!

La figura più grande rimase per ultima. Era grande quasi quanto era diventata lei, con una faccia gonfia e sghemba che non aveva mai visto prima. La faccia d'un bambino. Si fermò con le mani strette a metà intorno al collo della simulazione.

— Sono JonVon — disse questa, con la voce d'un giovanetto.

JonVon? Sbatté le palpebre. Dietro di lei altri impulsi arrivarono a ondate, spingendo, altri frammenti di lei lottavano per entrare. Eppure le sue mani si tirarono indietro.

Non… non posso…

— Ma devi farlo, madre. L'esperimento è completo. Abbiamo visto che una macchina bio-organica può contenere un'intelligenza di livello umano… ma che l'intelligenza non può aver origine dentro un luogo come questo. Un tempo dev'essere stata umana.

«Madre, devi fare di questo luogo la tua casa.

Casa… Allora, il mio corpo…

— Morto, secondo il computer diagnostico. Sei stata mandata qui per venir salvata. E non c'è posto per due.

Il bambino arretrò verso la finestra, dove i fulmini crepitavano sullo sfondo d'una volta rosata. Al di là, il ruggito del caos.

— Addio.

JonVon!

Un fruscio sibilante. Un minuscolo pop.

Lei avanzò impetuosa a riempire lo spazio che lui aveva occupato.

Adesso conosco il mio nome si rese conto. Ero Virginia Kaninamanu Herbert.

La camera gemette intorno a lei. I pilastri rosei si spezzarono e il soffitto si crepò, facendo piovere una polvere d'oro bruciato.

Una metafora lei si rese conto. Questo posto era una metafora, un indicatore dello spazio cerebrale disponibile. Gettando fuori le persone che aveva simulato, scaricava l'eccesso di memoria impiegato, riprogrammando freneticamente il computer stocastico-colloidale perché contenesse… lei.

Non ci entrerò mai… gridò, mentre le metaforiche pareti gemevano minacciando di cedere.

Mi sta schiacciando… Non riuscirò ad entrare tutta!

Lottò per mantenere la calma. Adesso c'era abbastanza di lei là dentro per ricordare quelle ultime ore mentre volava via nello spazio insieme a Carl, la loro disperata scommessa, Carl che rimpiccioliva, e poi il gelo bruciante, il nero sfavillante, l'aria stantia… la solitudine.

No imprecò. Potrò anche essere morta, ma sono ancora la miglior dannata programmatrice che sia mai vissuta!

Revisiona, espungi, fai spazio. Utilizzò alcune cose che aveva imparato da Saul, e recise degli istinti atti a controllare funzioni biologiche che non avrebbe mai più usato. Si sbarazzò della capacità di allacciarsi le scarpe, e buttò fuori la delicata arte dell'uncinetto.

Far l'amore… oh, che perdita! Il ricordo dello sbattimento e dell'eccitazione fremente della pelle dell'uno che si fondeva con quella dell'altro, entrambe ricoperte da una pellicola di sudore… ma le pareti minacciavano di schiacciarla. Prese su i riflessi, uno zerbino di chiassosi fili gialli, e preparò le metaforiche forbicine.

— Virginia?

Una polvere silicea piovve su di lei quando cozzò nuovamente con la testa contro il soffitto. Chi è? Mi pareva di averli eliminati tutti.

In un angolo, un'ultima forma umana. La raccolse. Mi spiace, ma non c'è spazio. Devi andartene.

La figura sorrise. — Non sono neppure qui, per così dire. Sono soltanto un visitatore di questo mishegas.

Lei sbatté le palpebre. Saul. Ma non ricordava di aver realizzato una sua simulazione…

— Io non sono una simulazione, mia verblonget, tesoro. Sono collegato alla consolle del tuo laboratorio. Sono sceso quaggiù per cercare di aiutarti.

Aiu… tarmi?

Già poteva sentire gli orli di se stessa che si sfilacciavano, si dissipavano, là dove non potevano inserirsi nella matrice. Forse dovrei morire con il mio corpo.

— Morditi la lingua — la rimproverò Saul.

Che lingua? La cavità echeggiò della sua amara, metallica risata.

— Pensaci. Esistono altri posti in cui immagazzinare la memoria?

Altri posti… si chiese lei. Lo hai fatto con i tuoi cloni. Ciascuno di essi riceve una copia dei tuoi ricordi. Ma…

— Ma per immettere dei ricordi completi dentro un altro cervello umano, il secondo dev'essere quasi identico al primo. Ci ho provato molte volte, ma i risultati sono stati tutti disastrosi.

Allora come ho fatto ad entrare qua dentro?

— È un procedimento completamente diverso. — Il Saul simulato scrollò le spalle. — Ho impresso JonVon per anni con frammenti della tua personalità. Era collegato con te mentre dormivi nel colombario. La matrice era pronta.

Sì. Alla fine ha funzionato. Quasi. Peccato che sia fallito per un pelo. — No! — urlò Saul. — Pensaci! Cerca di trovare un modo per uscirne!

Ormai era come una formica nel palmo della sua mano. Virginia provava l'impressione di venir schiacciata nella bara di un bambino, oppure che le stessero tagliando le gambe e le braccia per farla entrare nel letto di Procuste.

Se ci fosse il tempo… Sentì il soffitto di marmo che cedeva, e seppe, con un'improvvisa introspezione, che la metafora rappresentava un certo tipo d'immagazzinamento della memoria.

E c'era un'alternativa…

Semplice… eppure nessuno ci aveva pensato prima! Poteva vederla parecchi livelli oltre quello metaforico, compresa la limpidezza della matematica pura.

C'è un modo. Ma ci vorrebbero parecchie migliaia di secondi per programmarlo.

— Circa un'ora. E allora nu? Fallo!

La vista di Virginia era un sibilo di gas elettronico raffreddato.

No. Nel giro di diciassette secondi non ci sarò più. La dissipazione è cominciata. Non c'è nessun posto per immagazzinare le parti essenziali di me fino a quando il lavoro non sarà concluso.

Il volto di Saul si contorse. L'immagine, più piccola d'un microbo, tremolò. — C'è un modo.

Non posso…

— Prendi il mio cervello.

Cosa?

— Siamo stati collegati così spesso. Sono sicuro che si può fare. Entra, presto!

No! Tu, dove andresti?

— Devi usarne soltanto una parte. Inoltre, adesso ci sono sette copie di me in giro, con la maggior parte dei miei ricordi.

Ciò malgrado non sono te gemette lei.

Piccolo come un atomo, il suo viso venne lo stesso messo a fuoco. — Loro ti ameranno. Noi tutti ti amiamo, Virginia. Fallo per noi. Fallo adesso.

Saul rimpicciolì, si ripiegò su se stesso, divenne una suzione che precipitava verso il basso, come l'acqua giù per lo scarico. Come il gas che scorreva dentro una singolarità. E con lui le porzioni di lei tirate dietro. Frammenti che in quel momento lei non aveva bisogno di usare.

Fare il surf…
sciare…
camminare agilmente…
Ridere…
percepire la luce…
l'arte di amare…
La trama della pelle…
sapore…
la gioia di toccare…

Nell'autospazio che si lasciarono alle spalle, altre parti di lei scorsero dentro i banchi di memoria. Appena in tempo. I pensieri di Virginia si schiarirono, come se si fossero amplificati alla fredda luce del quarzo, come se stesse pensando veramente per la primissima volta.

Ecco. Ma è tutto così ovvio! Le equazioni sono divenute chiare. Potrei entrare in uno spazio molto più piccolo, se davvero dovessi farlo. È tutta una questione di prospettiva.

La matematica era adorabile. Tutto andò al suo posto, giacché i ricordi potevano venir piegati.

E d'un tratto si trovò circondata dal buio, liscio e ovoidale, un guscio che tremava mentre lei premeva contro di esso.

Usa una trasformazione Cramer come un dente d'uovo.

Cominciò a scheggiare il guscio, come un uccello che lottasse per liberarsi, affrettandosi perché la pressione stava aumentando.

Una mappatura conforme… cambiando la topologia in un telaio a sette dimensioni… la matematica era la sua arma contro la pressione soffocante. La somma di un numero infinito di punti infinitesimali da…

Luce. Rantolò quando aprì un forellino nella parete. Quel minuscolo bagliore la indusse a lottare con ancora maggior vigore, riprogrammando, piegando se stessa secondo nuovi disegni, lottando, colpendo quell'imprigionante, soffocante metafora.

Con un improvviso crepitio euristico, cedette tutto d'un tratto. Virginia si dispiegò come una molla compressa e piombò fuori, provando una sensazione di gloriosa, dolorosa liberazione su una nube di forme granulose. Tutt'intorno a lei, un rombo parve riempire l'aria.

Spazio. Spazio in abbondanza. Esplorò i limiti di quella nuova piegatura, e si rese conto che ce n'era più che in abbondanza, perfino da poter richiamare tutto quello che aveva immagazzinato altrove.

Ma aveva bisogno di tutta quella roba umana, emozioni, sensazioni, paure? Quella liquida chiarezza era bellissima. La matematica così bianca e pura.

Milioni di forme cristalline, incalcolabilmente numerose, si ammucchiavano spingendosi e sgomitando davanti a lei, in una pura e bellissima geometria, cubi e piramidi e dodecaedri…

Una remota parte di lei sapeva che la questione non era mai stata in dubbio. Se non trarrò di nuovo a me quelle parti, Saul morirà.

C'era spazio in quel nuovo ambiente. Il resto di lei vi rifluì dentro, e con quella marea la nuova metafora ne uscì arricchita.

Gli innumerevoli, piccoli cristalli sfumarono arretrando sempre di più, fino a diventare uno sciame di minuscoli puntini.

Il flusso di ritorno di quella marea di sensazioni, ambizioni, capacità, crebbe impetuoso dentro di lei, e con esse le sensazioni simulate.

Odore di sale… come se fosse originato dal sudore o… da cosa?

Un suono martellante… come da un cuore che lei non aveva più, o… cosa?

La metafora s'ispessì. Poiché non si era mai trovata senza un corpo prima di allora, ecco, uno parve prendere forma intorno a lei. Sentì la presenza della pelle, le gambe, le braccia.

Questa roba granulosa sotto di me… Quella che era stata una folla di cristalli sfaccettati, adesso assomigliava molto a sabbia, sotto le sue mani.

Confusa, spinse contro quella roba gialla, consistente, e si rizzò a sedere. Si guardò intorno, sbatté gli occhi e… se ne uscì in un ampio sorriso.

— Casa — bisbigliò Virginia. — E huumanao no au ia oe. — Chi avrebbe potuto sperare in una metafora migliore?

Inspirò l'odore delle plumerie e ascoltò il fragore della risacca, la quale borbottava subito oltre una collinetta d'erba salmastra. Le palme ondeggiavano alla dolce brezza, le loro fronde frusciavano musicalmente. Nubi luminose come diamanti sfidavano un cielo più azzurro di qualunque altra cosa lei avesse visto nella metà dell'arco della sua vita.

Quella bianca chiarezza era sparita. La matematica originaria che le aveva permesso di realizzare quella meraviglia stava sfumando nello sfondo, una debole voce trasportata dal vento, un geroglifico appena visibile sulla sabbia, la bellezza appuntata attraverso le acque splendenti.

Era nuda, calda. Malgrado la gravità da lei percepita fosse come quella della Terra, si sentiva integra e forte. Virginia si alzò in piedi percependo la sabbia calda fra le dita, e raggiunse la sponda lussureggiante di una laguna ombreggiata dalle palme, sapendo quello che vi avrebbe trovato.

Con la mano sinistra agitò l'acqua immobile. Quando le increspature si acquietarono, il riflesso che vide non era quello del suo viso. Invece, c'era una scena che conosceva benissimo.

Una minuscola stanza, angusta, sotto milioni di tonnellate di ghiaccio. Macchine nerastre, ammaccate, giacevano allineate lungo una parete.

Un piccolo robot si gingillava con una spazzola di madreperla sulla superficie del banco.

Lontano, poteva sentire i colpi resi incerti dalla confusione della piccola Wendy. Le ci volle soltanto un piccolo sforzo per protendersi e calmare il piccolo mech, raddrizzando il suo programma. La spazzola venne riposta. Wendy ronzò grata, si girò e si allontanò.

Il corpo di una donna giaceva in una ragnatela, una versione pallida, logora, di quello sano e abbronzato che indossava adesso. Era questa la realtà? si chiese Virginia.

Un uomo nudo giaceva supino accanto al cadavere, un connettore neurale copriva parte del suo cuoio capelluto, un braccio circondava il viso. Si protese. Riuscì a percepire delle appendici del suo io. La mente che toccò era stordita, conscia soltanto a metà a causa delle violente scrollate subite all'interno del proprio cervello. Ma Virginia avvertì un'ondata di sollievo. L'io rimaneva. Lui si sarebbe risvegliato.

— Saul — lei bisbigliò.

Fu allora che l'altro uomo, ancora in piedi, ancora rivestito da una tuta spaziale ammaccata, con una cotta insudiciata, sollevò lo sguardo all'improvviso, sorpreso, verso l'olovasca principale. Le sue palpebre sbatterono, le pupille si dilatarono, le sopracciglia si drizzarono, e le labbra si mossero in silenzio, quasi con reverenza.

— Virginia, sei davvero tu?

Lei sorrise. Un haiku si impresse sulla sabbia luminosa accanto all'acqua:

Cos'è davvero reale?

Quando la notte inghiotte tutto il tempo?

E i momenti sono tutto quello che rubiamo?

Virginia parlò ad alta voce:

— O spirito spensierato, davvero, tu mai fosti libero e audace?

Un debole sorriso. Gli inizi di una constatazione. Gioia su quel volto brizzolato e stanco.

— Ciao, Carl — disse Virginia.

CARL

Osservò, senza comprendere, la cascata dei colori sugli schermi. Nella ceramica fredda e silenziosa era come se fosse l'ultimo sopravvissuto ad anni di follia, il testimone solitario della lotta finale d'una fragile vita organica contro il gelo avvolgente. Rabbrividì.

Saul giacque assolutamente immobile, i connettori neurali gli coronavano la testa simili ad un groviglio di cilindri d'acciaio, cavi serpeggianti, chiazze di monocristalli silicei che ricordavano i capelli della Medusa. E tutt'attorno a Carl continuava una strana lotta silenziosa, pallidamente riflessa dai cambiamenti sugli schermi.

L'immagine d'una immensa città color smeraldo si levò nel principale cubo olografico, con le sfaccettature che ammiccavano in profondità nei recessi degli sporgenti grattacieli. Gli edifici erano translucidi, ognuno un alveare di sfreccianti macchioline e ammiccanti superfici di mica, come se creature infinitesimali corressero attraverso i corridoi d'una metropoli.

Carl sapeva che quella era un'immagine nella mente di Virginia, una ragnatela di associazioni stratificatesi fin dall'infanzia, costruita verso l'alto come una città, sulla più semplice struttura dell'infanzia. Sotto un impassibile cielo grigio-mare, le luci della città sfavillavano, con le scintille che disegnavano i tracciati delle strade. Qui un edificio si oscurava all'improvviso, là un altro avvampava di una nuova vita. Carl non riusciva a seguire quei rapidi movimenti, ma percepiva un frenetico riarrangiamento, un ritmo febbrile da insetti. I grattacieli s'innalzavano, svettavano.

— Cosa… cos'è successo? — La voce tesa di Lani lo riportò alla realtà. Si girò. Gli occhi di lei si spalancarono. Tese le braccia verso di lui, serrandogli le mani.

— Saul… è andato dietro di lei. — Carl la strinse a sé, cercando di seguire con gli occhi il fluire da uno schermo all'altro. Un gigantesco transatlantico attraccò ai margini della città, degli edifici si fusero e fluirono dentro la nave. Il transatlantico affondò sempre di più nell'acqua. — Credo che Saul stia immagazzinando alcune delle sue matrici associative nel proprio cervello.

— È possibile?

— In teoria, forse. Virginia ha espanso il proprio sistema per decenni, con JonVon che inventava sempre nuove cose, non riuscivo neppure più a seguire il loro gergo.

— Come faremo a sapere… se lo stesso Saul è in pericolo?

Carl strinse le labbra riducendole ad una sottile linea bianca.

— Non lo sapremo.

Lani distolse lo sguardo dalle increspature sul complesso degli schermi, così simile a un alveare. — Così in fretta… così tanto in fretta…

Carl la strinse a sé. — E così tanti morti.

Aspettarono insieme. A un certo punto Lani si acciambellò sul pavimento e dormì. Carl continuò a camminare avanti e indietro fino a quando, all'improvviso, una serie di suoni, simili a uno sbecchettare, uscì dai sistemi acustici lì accanto. Un rapido, aspro picchiettio… poi il rumore di qualcosa che si spezzava, come il guscio di un nuovo. Una lunga pausa, poi una voce ben modulata parve uscire dal nulla e disse: — O spirito spensierato, davvero…

La voce finì per disperdersi in una serie di ticchettii e di mormoni. Carl sbatté le palpebre. Pensò, Pareva quasi…

— Ciao, Carl.

Si girò di scatto. Un ologramma s'increspò, dei contorni granulosi si coagularono in una faccia macchiata. Degli occhi si cristallizzarono, occhi neri che parevano sorpresi quanto lui.

— Dannazione! Sei… tu? — Sentì Lani muoversi, alzarsi in piedi e fermarsi accanto a lui con gli occhi spalancati, fissi su quell'immagine.

— Sono io tanto quanto lo sarò!

Lani guardò il corpo della donna che giaceva sulla ragnatela, poi riportò lo sguardo sull'ologramma. Stordita, si leccò le labbra e disse: — La tua voce è troppo acuta.

— Ci sto lavorando. — Il tono si stabilizzò su un registro di mezzo soprano. Il timbro e la voce vacillarono. — Un attimo, mi è sfuggito… Ecco, ti sembra giusto?

Era una voce piena, con un'arcana sensazione di presenza. Carl fu attraversato da un brivido. Le sue labbra articolarono il nome, senza suono.

— Proprio il giusto accento hawaiano — commentò Lani, con voce acuta e tesa.

L'immagine si mise ancora di più a fuoco. Le labbra si mossero in sintonia con essa. — Posso lavorare su… — E poi risuonò uno strillo acuto e irritante. Carl allungò una mano e spense l'interruttore dell'olo.

— Mio Dio, cosa sta succedendo? — chiese Lani. Ancora una volta guardò il corpo di Virginia. Il respiratore sibilava ancora, ma il cerotto diagnostico era diventato d'un purpureo scurissimo.

— È da qualche parte là dentro che sta cercando una via d'uscita.

Lani sfiorò alcuni schermi indicatori e respirò profondamente. — È impossibile arrivare a lei sul comunicatore o in qualunque altra maniera. Tutti gli accessi sono bloccati.

Carl fece un gesto mentre un banco d'indicatori color acquamarina dava in un guizzo per poi spegnersi. — Ecco che sono partiti i monitor dell'autocontrollo. Adesso, se dovesse guastarsi qualcosa, in un punto qualunque di Halley, noi neppure lo sapremmo.

Sul suo giaciglio, Saul produsse un sussulto improvviso, artigliando l'aria con le dita. Poi il suo corpo ridivenne flaccido. D'un tratto chiamò, con voce sottile e asciutta: — Wendy. Wendy.

— Dovremmo fare qualcosa — disse Lani.

— No, non possiamo. Sono soli, e nessuno può aiutarli.

— Potremmo perderli entrambi!

Lentamente, una parte di Carl riprese di nuovo vita. Un frammento che si scuoteva di dosso quell'invadente, traumatizzante torpore. Virginia era scomparsa per sempre. Non importava ciò che Saul faceva. Non importava ciò che rimaneva di JonVon… quella donna intelligente, calda, era sgusciata via.

— Carl?

Respirò prodondamente e trascinò via il suo sguardo da quella città di smeraldo, dove adesso interi isolati avvampavano di un intenso splendore, mentre altri venivano ridotti in acri rovine, bruciando lentamente. Si chiese da quanto tempo fosse in quello stato, assorto.

— Ah?

— Jeffers è appena riuscito a comunicare utilizzando una placca-dati a raggio ristretto. Riferisce che i lanciatori sono stati messi fuori uso. Ould-Harrad ha finito.

— Oh. — Non ebbe nessun'altra reazione. Questo era soltanto un altro fatto, un frammento casuale d'informazione in un universo privo di significato. Fu sorpreso di scoprire che aveva stretto la mano di Lani.

Poi l'immagine olografica subì un violento cambiamento. La città di smeraldo si dissolse in un mare di lava rossa, il granito translucido dell'immense torri si sbriciolò in silenzio, fondendo e scorrendo nelle strade rigonfie ed eruttanti.

Saul si rilassò completamente. Il lungo silenzio si prolungò. Carl non osava dire niente.

Gli acustici crepitarono, tornando alla vita. Carl accese e spense l'interruttore senza ottenere nessun risultato.

— Non puoi spegnermi tanto facilmente, spirito spensierato.

— Virginia! — Nella sua eccitazione dette in un balzo che lo fece schizzare fino al soffitto, sbattendovi contro la testa. — Sei là.

Il viso era tornato. Adesso era fresco, sodo e sicuro. Virginia Herbert sorrise, il suo volto era abbronzato, un grande fiore giallo infilato dietro l'orecchio. Dietro la sua testa, nubi cotonose punteggiavano un impossibile cielo azzurro.

— Dovevo fare un po' di ordine — disse il viso.

Lani chiese titubante: — Sei… davvero…

— Io? — La donna nell'olo scrollò le spalle… portando così, in vista, un paio di spalle nude. — Certamente la sensazione è quella.

— Riesci a vederci? — chiese ancora Lani.

— E anche a sentirvi. Quello che hai riferito dalla superficie… che pazzi! Ould-Harrad è un idiota. — Quindi fece una pausa, come se stesse ascoltando. — Oh, Saul. Adesso capisco perché. Ti comprendo.

Saul non si mosse. Pareva dormire normalmente.

Stordito, Carl sapeva che stava ascoltando la voce della morte, ma pareva così vibrante, così piena di quell'antica vivacità…

— Con tutti questi danni, l'equatore è finito come sito per i lanciatori. — Il tono di Virginia si addolcì, guadagnò armoniche, mentre si affaccendava ancora con esso. — Rimane soltanto il polo Nord. Ed esiste un solo profilo possibile per la missione, che utilizzi una spinta da nord.

Carl riusciva a parlare a fatica. È appena morta. Come può una mente… — Io…

— Giove. Le dinamiche orbitali lasciano aperta quella possibilità di sorvolo.

Lani corrugò la fronte. — Ero convinta che fosse impossibile.

La voce rispose calma, quasi loquace: — Non proprio, però… Richiede una variazione di velocità molto alta, e un approccio a Giove completamente diverso rispetto al piano originario della missione. Con i lanciatori che sparano dal polo Nord per tutto il periodo della caduta verso l'interno, trent'anni, poniamo…

— Trent'anni? — gridò Lani.

— Proprio così. E dovremo passare attraverso il perielio per farlo. — Il volto sollevò le sopracciglia, divertito. — Questo sorvolo di Giove è rivolto verso l'esterno, gente.

Carl sentiva le parole, ma erano tutta una cascata di suoni con poco significato. Virginia aveva combattuto ed era morta e adesso era tornata, una voce che echeggiava negli angusti confini di quella stanza… la Virginia che lui conosceva, però, non era affatto lei. Questa voce non mostrava paura, nessun trauma, neppure una traccia di tristezza. Cos'era? L'ascoltò mentre continuava a parlare, sentì la salda stretta di Lani, e d'un tratto si rese conto che quella voce aveva ragione. C'era ancora un modo per uscirne, e non aveva importanza quali tragedie avessero sofferto, quali rimorsi provassero: il tempo e la grande tenebra vuota tutt'intorno a loro poteva guarirli, ed essi avrebbero continuato per la loro strada.

PARTE SETTIMA

IL CUORE DELLA COMETA

Anno 2133

Soltanto un sogno terrestre
che per noi è finito,
il lampo di una cometa
sul fiume della terra.
Un sogno due volte lontano,
una confusione spettrale
sulla temuta illusione della terra.

Edgar Lee Masters: Antologia di Spoon River

SAUL

La lingua del «volpino» ciondolò, mentre svolazzava agilmente attraverso la foresta, con le gambe protese verso l'esterno per mantener tese le membrane delle sue ali, cogliendo le correnti trasversali dall'aria mentre si librava sospeso alla ricerca di preda.

LeGrand Cavern era un'autentica orgia di colori, una selva di ampie foglie delicate e di verdi rampicanti. A intervalli, lungo le pareti rivestite di verde, gli sfiatatoi facevano sgocciolare una condensa che si disperdeva in una soffice nebbia, stendendo un velo di luccicanti goccioline sopra il fogliame che ondeggiava lentamente. Frutti d'un vivido purpureo, d'un arancio e d'un giallo brillanti, enormi e succosi, erano appesi a steli sottili, simili a fili.

Viticci fibrosi tessevano un delicato ricamo attraverso il cuore della cavità, passando da un albero-colonna a una radice di chiavepietra, all'albero-colonna successivo, creando una fitta giungla tridimensionale in quella che un tempo era stata una vuota cattedrale di ghiaccio.

Saul osservò il volpino che annusava l'aria, svolazzando sempre più vicino a una folta macchia di foglie di demicasava, ficcandoci dentro il naso per stanare qualunque cosa vi fosse nascosta.

Con quella che parve un'improvvisa esplosione, una gallina pelle-di-pollo schizzò fuori dalla macchia, sbatacchiando furiosamente le ali prive di penne a pochi centimetri dalle fauci scattanti del volpino. L'uccello si tuffò dentro l'incavo d'una radice di chiavepietra, lasciando il volpino tutto uggiolante per la delusione, all'affannosa ricerca di un'apertura più ampia che non c'era.

La vita continua pensò Saul, sorridendo. Un gioco giocato con serietà da pezzi che soltanto vagamente percepiscono il loro ruolo in questo insieme.

Si riempì i polmoni di quei ricchi odori di vita. Quante cose sono state fatte dai giorni della guerra dell'afelio! Ma devono ben essere tante, visto che sono passati trent'anni. Uomo e ambiente si sono adattati l'un all'altro.

LeGrand Cavern era una delle tre cavità «naturali» nelle quali venivano provati i nuovi adattamenti all'ecosistema sempre più complicato di Halley. In altre cavità, gli umani e i mech badavano a mescolanze più ordinate e meno ribelli di forme di vita… frutteti e fattorie e coltivazioni di aragoste. Ma questo canyon era uno dei luoghi favoriti di Saul, dove diversi esperimenti si sdipanavano da soli, e dove comparivano delle soluzioni nuove e sorprendenti.

Il volpino (un artefatto basato su geni di volpe, ma modificati in maniera così estesa da essere, ormai, quasi irriconoscibile) annusò un altro odore e lanciò un acutissimo yip! Svolazzò intorno ad uno dei giganteschi alberi-colonna, che attraversavano la grande sala con ogni angolazione, come raggi o massicci sostegni.

Gli alberi assolvevano ad altre funzioni, non soltanto a quella di sorreggere le pareti di LeGrand Cavern, ma quel ruolo sarebbe diventato cruciale nei prossimi mesi, quando la cometa di Halley avrebbe zoomato verso il Sole per incontrare il suo più pericoloso, e forse ultimo, passaggio al perielio.

Toccò il tronco dell'albero più vicino, un fusto di un metro di diametro che splendeva luminoso, irradiando una luce fredda dalle strisce sottili di corteccia bioluminescente. L'energia proveniente dalla pila a fusione della colonia scorreva direttamente dentro quei giganti geneticamente progettati. Parte dell'elettricità veniva impiegata per alimentare le funzioni vitali di quegli alberi. Il resto dell'energia emergeva sotto forma d'un morbido chiarore che permeava la grande cavità da tutte le direzioni, stimolando la fotosintesi.

Gli alberi erano stati una deliziosa sorpresa quando Saul si era svegliato, un anno prima, da un sonno lungo un decennio. Era chiaro che i coloni si erano dati da fare. L'arte della progettazione della vita e della gestione dell'ecosistema era stata portata molto più oltre, dai due turni di guardia dal tempo dell'afelio.

Naturalmente, in tutti i momenti erano sempre stati presenti due o tre dei quasi-duplicati di Saul, per prestare il proprio aiuto. In un certo senso, Saul aveva messo direttamente mano nella maggior parte delle meraviglie presenti in quella cavità, tramite le sue versioni più giovani che condividevano tanti dei suoi ricordi e delle sue capacità. In effetti si poteva dire che era stato lui ad inventare gli alberi-colonna…

Eppure c'era dentro di lui un impenitente individualista che respingeva quell'idea senza pensarci due volte. Non importa quanto metafisico diventi, so chi è me. Osservò il volpino e ispezionò quel radiante albero-colonna con una traccia d'invidia. Era bellissima.

Aveva appaludito alla fuga della gallina: la pelle-di-pollo era stata una delle sue creazioni.

Una sorda vibrazione si diffuse lungo il tronco dell'albero-colonna fino alla sua mano. Già Halley tremava a causa di un numero sempre maggiore di terremoti a mano a mano che il calore del Sole, sempre più prossimo, filtrava verso il basso dentro la crosta ghiacciata. Boati lontani rivelavano che tratti di ghiaccio amorfo cambiavano improvvisamente stato, esplodendo via dalla superficie, soffiando via polvere, rocce, macigni nello spazio sotto forma di grandi nubi di vapore. Ogni giorno i rombi diventavano più forti.

Già le nubi ionizzata e nebulosa della cometa si erano formate, interrompendo la ricezione radio dal resto del sistema solare. Le spettacolari code gemelle ondeggiavano, diventando sempre più luminose, agghindandosi per il grande spettacolo del perielio.

Gli alberi-colonna, le radici a chiavepietra, e tutti gli altri preparativi fatti sarebbero stati messi a dura prova durante le prossime settimane. Carl pensa che non abbiamo molte possibilità si disse Saul, ma d'altronde Carl è sempre stato un heymisheh depresso.

Saul sorrise, inspirando a fondo il ricco, denso profumo della vita.

In qualche modo, anche se il Caldo ci farà a pezzi e ci sparpaglierà in balìa dell'abbraccio del vuoto, non sarei disposto a scommettere contro di noi neppure in un simile caso.

Una piccola creatura purpurea gli passò accanto, ronzandogli all'orecchio, e atterrò sul bordo di un'orchidea. Il fiore era quasi immutato rispetto ad una varietà che cresceva nelle dense foreste della Terra, ma quell'impollinatore d'un colore lavanda vivo non assomigliava a niente che fosse mai stato visto su quel massiccio mondo verde. Era un lontano cugino di quelle temibili forme native che avevano terrorizzato gli umani nei primissimi tempi, adesso completamente alterate così da inserirsi in un'innocua e utile nicchia ecologica.

Saul prese un appunto mentale: Lavora alla fissazione del sapore del miele prodotto da questi esseri. Aveva provato quella roba, di recente. Era troppo dolce. Ora una variante acida, quella sì, sarebbe stata popolare…

Un fruscio tra le foglie… Saul sollevò lo sguardo e vide una piccola forma che correva lungo l'orlo luminoso d'un albero-colonna lì vicino. La piccola forma sollevò un occhio ardente all'estremità di un peduncolo, lo contemplò brevemente, poi squittì e si avvicinò in fretta zampettando, per fermarsi tutta fremente davanti a lui.

— Saulie — pigolò la sua minuscola voce.

Saul tese una mano e la minuscola macchina gli corse su per il braccio come un ragno grande quanto un chihuahua. I suoi piedi appiccicosi gli punzecchiarono la pelle ad ogni passo.

— Ciao, piccola Ginnie — disse Saul, salutando il minuscolo mech. — Come sta la tua sorella maggiore?

L'occhiocella ammiccò. — Sta bene, Saulie. Virginia dice che vuole parlarti. Non c'è fretta, ha detto.

Saul sorrise. Virginia avrebbe potuto parlargli direttamente tramite il piccolo mech. In fin dei conti, lei «viveva» dappertutto nella complessa cyber-rete sotto il ghiaccio. Ma il vasto programma che conteneva la sua essenza principale aveva deciso, per qualche motivo, di farlo quanto più raramente possibile. Oh, c'era un po' di lei in ognuna di quelle macchine, di quelle piccole «Ginnie», fino ai fuchi-medici che potevano giocare a scrabble e spettegolare. Ma se si voleva parlare a Virginia, di solito bisognava farlo da qualche particolare luogo di sua scelta.

— D'accordo. Riferisci alla tua padrona che le parlerò allo Stormfield Park.

Il piccolo robot ronzò, si consultò, e rispose:

— Anche la tua padrona, Saulie!

Saul scoppiò in una sonora risata. Quel modello non era certo di quelli capaci di stuzzicarlo con i doppi sensi. Virginia stessa doveva aver origliato.

— Sei carina — disse al piccolo robot. — Sai cosa ti dico? Perché non ci appartiamo un po', tu ed io, quando mamma non guarda?

— Bestia! — Un piccolo braccio a pinza calò di colpo e gli pizzicò il braccio.

— Ohi! — Ma il mech schizzò via a gambe levate prima che lui riuscisse ad afferrarlo, e scomparve in un balenare di fogliame ondeggiante.

Potrei creare una creatura capace di prenderti pensò Saul. Se avessimo davanti a noi l'eternità, tu con le tue macchine ed io con i miei animali… che razza di giochi potremmo fare.

Se avessimo l'eternità…

Saul esalò un lungo sospiro. Girò sui tacchi, fece pressione con i piedi contro il grande albero, e si lanciò attraverso l'intreccio dei tronchi che formava una specie di grata, ricamata dalle strisce di corteccia che spandevano intorno un vivido chiarore, verso un'uscita che era un incrocio di qualcosa fra una classica camera d'equilibrio in metalloceramica, e la valvola d'un gigantesco cuore vivente.

Nei corridoi la luce era ancora più fioca e faceva un po' più fresco che nelle camere della vita. Le luminosfere si nutrivano di minuscoli rivoli di elettricità provenienti dalla pila a fusione della colonia, disponendo isole di luce morbida lungo i corridoi rivestiti di halleyvirid.

Molto tempo addietro Saul si era abituato a quelle temperature di poco al di sotto del punto di congelamento, e di solito indossava poco più di una tunica e scarpette a graffe per far presa sul ghiaccio. Il freddo aveva poca importanza, fintanto che ci si nutriva bene, e si poteva dormire avvolti in una coperta intessuta con la morbida seta dei bachi del gelso-mutato.

Comunque, ormai tutti loro avevano sviluppato una pelle che irradiava pochissimo, conservando all'interno la maggior parte del calore del corpo, un altro prodotto della simbiosi accuratamente elaborata.

Il più grande progetto di Saul era un organulo che avrebbe trovato il suo vero posto all'interno delle cellule umane… qualcosa di simile ai mitocondri, soltanto più piccolo. Sarebbe rimasto inattivo per la maggior parte del tempo, ma con i giusti attivatori, ad esempio un brusco abbassarsi della temperatura, avrebbe prodotto glicogeno e coadiuvati che avrebbero consentito il congelamento senza alcun danno del trilione di cellule del corpo.

Se avesse funzionato, i colombari sarebbero andati in disuso. Ogni individuo avrebbe portato con sé, per tutto il tempo, la capacità di sistemarsi dentro una qualunque nicchia nel ghiaccio, semplicemente addormentandosi, aspettando anni, decenni, secoli, se fosse stato necessario.

Ci sarebbe voluto molto tempo per sviluppare qualcosa di così fondamentale. Non era affatto così semplice come la modifica di organismi preesistenti nella colonia, come una volpe o un pollo. Qui si trattava di manipolare e interferire con il funzionamento della stessa chimica cellulare.

Senza la più piccola garanzia che sarebbero riusciti ad arrivare alla fine del mese, talvolta Saul si chiedeva come mai si accanisse a lavorare tanto duramente a quel progetto.

È un dono, naturalmente era arrivato a rendersi conto. La Terra ne ha bisogno tanto quanto noi. La tecnica significherebbe l'accesso alle stelle.

Poteva essere un dono d'addio, poiché i mesi davanti a loro erano colmi di rischi. E anche se fossero sopravvissuti al perielio, e avessero infilato la cruna sottile dell'ago del successivo incontro con Giove per entrare in un'orbita dal breve periodo, non c'era nessuna speranza che le autorità della Terra avessero cambiato idea circa il permesso da concedere ai «portatori di pestilenze», di entrare e risiedere nel sistema solare interno.

In ogni caso, Saul aveva progettato che quei dati sarebbero stati sparati via da una capsula controllata da un mech, restituendo così il favore che il popolo di Phobos aveva fatto loro, in un altro secolo.

Impedisci, o Signore, che mai ci dimentichiamo dei mondi rocciosi, o di quello che eravamo un tempo.

Si fermò brevemente al centro medico per controllare i progressi che venivano fatti nella decolombarizzazione dei «Casi terminali», quelli che un tempo erano stati giudicati senza speranza, ma che adesso erano curabili e rianimabili, utilizzando nuove tecniche.

Lì c'era poco che potesse fare, naturalmente. Ishmael, il clone di Saul preposto, pareva sapere assai meglio di lui quello che stava accadendo. Anche lui e la sua squadra stavano lavorando su Nicholas Malenkov… riparando danni che erano parsi senza speranza tanto tempo addietro.

Ne avrà di sorprese, Nick pensò Saul, abbassando lo sguardo sul suo amico. Aveva un aspetto così giovane, così corpulento e Terra-voluminoso, anche dopo essere rimasto per tutti quei decenni nel colombario.

È un altro mondo, Nick. Spero che ti piaccia.

Stormfield Park era affollato. A mano a mano che un numero sempre crescente di persone emergeva dai colombari, la popolazione aveva cominciato ad avvicinarsi ai livelli pianificati ai tempi in cui il capitano Cruz e Bethany Oakes erano salpati con quattro chiatte a vela e la vecchia Edmund Halley, per sfidare l'ignoto.

La cavità era più piccola di LeGrand Cavern. Aveva un buon numero di alberi-colonna che l'attraversavano incrociandosi da un lato all'altro, ma questi erano disposti con maggior ordine, meno caotico, più curato.

Ad un'estremità dell'area cilindrica, la ruota centrifuga della vecchia Edmund era stata rimessa a nuovo e adesso aveva ripreso a funzionare, ruotava lentamente come una ruota di Ferris. Vi erano ancora due settori perfettamente chiusi, che ospitavano laboratori per quei processi che richiedevano la presenza della gravità. Ma in ogni altro segmento era aperto, e vi erano stati piantati querce e aceri nani. Era come una striscia della vecchia Terra, curvata a forma di cerchio e sistemata sotto un'ampia volta surreale.

La forza centrifuga della ruota equivaleva soltanto a un ventesimo dell'attrazione della Terra, ma era sufficiente. La gente vi andava per tenersi in esercizio nell'arcana arte del «camminare»… di sedersi sotto un albero per guardare gli oggetti che cadevano.

Mentre si avvicinava a quel confine rotante, Saul udì un suono raro e prezioso: il riso di bambini che gli passavano accanto volando, diretti verso l'anello, slittando sulla morbida sabbia di un'area di atterraggio, mentre il grande cilindro continuava a girare e a girare.

Avevano un aspetto molto migliore. Però quelle forme dinoccolate parevano a malapena umane. Soltanto pochi di loro erano in grado di parlare.

Dopo l'afelio, tutte quelle povere creature deformi erano state colombarizzate, e nessun'altra era nata. Le guerre avevano estinto la lunga rivalità fra gli ortho e i percell, e alla fine era prevalsa la ragione. Fino a quando i problemi dello sviluppo fetale e postnatale dell'ambiente cometario non fossero stati risolti, veniva considerato disumano mettere al mondo dei bambini.

Le ragioni per cui gli esseri umani incontravano tante difficoltà rispetto agli animali erano complesse, ma Saul e i suoi assistenti avevano risolto i problemi più di dieci anni prima. In teoria quel parco avrebbe potuto echeggiare delle risate dei bambini sani.

Ma con l'avvicinarsi del perielio, c'era un altro motivo per ritardare. I bambini meritavano un futuro. E in questo momento erano in pochi a credere che ce ne potesse davvero essere uno.

Saul notò attraverso l'oscillante confine e mise agilmente piede su quel prato rotante. Mentre piantava i piedi per terra e assorbiva l'impulso rotatorio, un'immagine olografica si formò dietro di lui, tagliando fuori la vista che aveva del resto della sala. D'un tratto fu come se si trovasse in un parco della Terra. Le cuspidi di una città sormontavano un'altura boscosa in una direzione. Nell'altra s'intravedeva il vivido luccichio del mare.

Per evitare di dimenticarcelo.

Altre due volte, durante quei lunghi anni, erano arrivate raffiche di dati tecnici, inviati da benefattori innominati del sistema solare interno. Displayproiezioni come quelle, lontane discendenti delle climapareti, erano fra i doni più stupefacenti… la prova che non tutti quelli che vivevano sotto il Caldo si erano dimenticati delle affinità o della misericordia.

Era in parte per loro che Saul stava lavorando sugli organismi per l'ibersospensione. Gente come quella si meritava le stelle.

Si mise a passeggiare sotto i rami degli alberi nani, passando davanti a vecchi amici che lo salutarono con cordiali cenni del capo, e ad altri che conosceva appena a causa dei turni di servizio non in sincronia con i suoi.

Era molto simile a una visita al parco fatta ai tempi in cui era più giovane. Naturalmente nessuno si lasciava ingannare. Dove mai sulla Terra, dopotutto, qualcuno avrebbe potuto vedere un individuo dalla pelle tinta di azzurro che giocava a scacchi con un essere dalla forma all'incirca umana, ricoperto da un fungoide verde e un lichene simbiotico giallo?

Diversità, sperimentazione. È così che abbiamo imparato a vivere.

Oltrepassò la statua di Samuel Clemens, a cui era stato intitolato il parco, e arrivò a una cortina d'acqua… o meglio a un'immagine olografica quasi perfetta di una pioggia di goccioline che rifrangendo la luce formavano un arcobaleno, schizzando fuori da bacinelle di alabastro. Quell'illusoria fontana si dischiuse senza inzupparlo, e Saul entrò in una radura privata e nascosta.

Sotto un baldacchino di rami di salici piangenti si ergeva, circondata da rododendri, una casa da tè orientale in miniatura. Saul si sedette a gambe incrociate davanti a una limpida pozza, e osservò la carpa dentro di essa battere l'acqua deuterizzata facendola spumeggiare con la sua coda sferzante.

Qui c'era pace. Il borbottio dei cuscinetti a sfere della grande ruota, il soffio sommesso dei ventilatori… questi erano suoni che, intellettualmente, sapeva che dovevano esistere da qualche parte. Ma da moltissimo tempo ormai erano sfumati nell'abitudine, come il battito del suo cuore, in uno sfondo che a stento ricordava.

— Ciao, Saul.

Sollevò lo sguardo quando lei uscì dalla casa da tè, un ampio kimono le ondeggiava intorno alle gambe abbronzate, i suoi sandali che ticchettavano sul sentiero sabbioso. Si stava asciugando i capelli neri con un tessuto di spugna.

Gli faceva sempre effetto tutte le volte che l'incontrava. Il suo corpo era da lungo tempo finito nell'ecosistema. Eppure, cammina nella bellezza.

— Ciao anche a te — le rispose. — Com'è l'acqua?

Lei sorrise e si sedette sull'erba a neanche un metro e mezzo di distanza. — Buona. Un po' mossa. Ma c'era un'onda alta almeno due metri. Ottima per il surf.

I loro occchi s'incontrarono. Una risata silenziosa. Cos'è l'illusione? si chiese Saul. E cos'è la realtà?

La differenza si appalesava in una maniera soltanto. Virginia giaceva vicina e nitida là dove poteva arrivare la sua mano tesa. Ma lui non poteva toccarla, e mai più avrebbe potuto farlo.

— Hai un bell'aspetto — lo sollecitò Virginia.

Saul scrollò le spalle: — Invecchio in continuazione.

— Perfino con il perfetto sistema simbiotico? — lei lo stuzzicò.

— Perfino con il perfetto sistema simbiotico, già. Naturalmente, bisogna chiedersi se ha veramente importanza. O se vale veramente la pena preoccuparsi per il tempo e l'età. — La osservò con attenzione, giacché, anche se Virginia era in grado di controllare le immagini in maniera quasi perfetta, il suo volto non nascondeva più di quanto avesse mai fatto. Virginia era misteriosa. Era un libro aperto per lui.

— Potrebbe non avere importanza. — Lo sguardo di lei era lontano. — Potremmo farcela.

— Perfino oltre il perielio? — Saul la guardò scettico.

Virginia stava guardando i pesci. Non poteva toccare o disturbare l'acqua, quella vera, in nessun modo, salvo con la luce e l'ombra. — Forse, se lo faremo, un'intera nuova serie di sfide si presenterà a noi. Durante gli ultimi trent'anni sono arrivato a rendermi conto che per me il tempo potrebbe allungarsi fino all'eternità…

Sospirò, sentendo di poter leggere i suoi pensieri. — I miei cloni hanno la maggior parte dei miei ricordi, e il mio buon gusto per le donne. Ti amano tutti, Virginia.

Virginia sorrise. — Anche tutti i miei fuchi ti amano, Saul.

I loro sguardi tornarono a incontrarsi, ironia e una sensazione di perdita rigorosamente controllata.

— E allora nu? — Saul si stiracchiò. — Volevi dirmi qualcosa?

Virginia annuì, e la simulazione tirò un profondo respiro. — Il Vecchio Uomo Duro è morto.

Saul barcollò all'indietro. — Suleiman? Ould-Harrad?

— Cosa ti aspettavi? Non era più tornato nei colombari dopo le guerre dell'afelio… Ha fatto la guardia per tutto questo tempo, per assicurarsi che mantenessimo il nostro accordo, nessun incontro con nessun pianeta, salvo Giove verso l'esterno. Era molto vecchio, Saul. La sua gente lo piange.

Saul abbassò lo sguardo e scosse la testa, chiedendosi cosa sarebbe stata adesso Halley, senza il mistico nelle gallerie più basse.

Adesso… chi avrebbe avuto il coraggio di ricordare a Saul Lintz che lui non assomigliava, dopotutto, neppure lontanamente al vero Creatore?

— Ti ha lasciato un testamento — proseguì Virginia. — Sei atteso nella Profonda Gehenna.

— Non sono mai stato là sotto. — Saul avvertì una strana sensazione. Era forse paura? Si era dimenticato di quell'emozione, ma poteva essere qualcosa di assai vicino a ciò che provava.

— Neppure io — bisbigliò Virginia. Nessuno dei suoi mech si era mai avventurato laggiù, nelle distese più profonde del nucleo della cometa, dove le creature più strane si rifugiavano nel buio totale. Virginia si riscosse.

— Una guida ti aspetterà alla base del Pozzo Uno, alle cinque e trenta di domani mattina. Io…

Sollevò lo sguardo. I suoi occhi si sfocarono per un momento. — Adesso devo andare. Carl e Jeff hanno bisogno d'una simulazione, molto estesa. Ci vorrà una grande estensione di memoria. — Si lisciò il kimono sopra le gambe abbronzate. — È tempo di spogliarmi del corpo e di ridurmi ai nudi elettroni.

Saul si alzò insieme a lei. Si guardarono. La sua mano si sollevò.

— Non farlo — bisbigliò lei, la sua voce era divenuta tesa e delicata. — Saul…

Le dita di Saul descrissero una carezza, ma si arrestarono un attimo prima di toccare la liscia morbidezza che pareva la sua guancia. Per un istante le punte si accesero di un vampa rosata, e Saul sentì, quasi…

— Torna presto — disse Virginia, con un sospiro. — Oppure chiamami e parlami.

Poi, con un frusciare di seta, se ne andò.

I suoi nuovi gibboni, Simon e Sulamita, si tenevano aggrappati a lui mentre seguiva la guida, un uomo che un tempo si era chiamato Barkley, e aveva diretto le serre per le fattorie orbitali della Terra, prima di venir esiliato in una missione a senso unico nello spazio profondo. Adesso Barkley era la propria serra… il proprio habitat. Indossava un ecosistema di fibre verdi e arancione, e si nutriva di questo e di quello… un po' di luce qui, un pezzetto di sostanza carbonacea nativa lì…

Certi tipi di simbiosi spaventano perfino me pensò Saul, mentre navigavano attraverso un labirinto di passaggi stretti e contorti che li conduceva sempre più in profondità dentro il ghiaccio. Per quanto in superficie il campo gravitazionale di Halley fosse debole, Saul sentì sfumare a poco a poco la sua attrazione fino a quando essa non scomparve del tutto dalla sua sensibilità. Quello era il nucleo, il centro. Qua sotto i primi granelli si erano formati, quattro miliardi e mezzo di anni prima, dando inizio ad un processo di accrescimento a mano a mano che un numero sempre maggiore di frammenti si era raccolto, fondendosi e crescendo fino a formare una palla di materia primordiale, la materia dello spazio profondo.

Si aprirono la strada spingendosi attraverso le fronde spesse e oleose d'una pianta a foglie-serratura… una vegetazione che si comportava in una maniera molto simile al portello d'una camera d'equilibrio, giacché avrebbe reagito ad una perdita di pressione appiccicando una foglia sopra l'altra fino a quando l'aria non fosse stata ermeticamente chiusa, senza alcuna fessura, su un lato della barriera. Era una tecnica efficace, ma Saul trovava la cosa pur sempre inquietante, mentre strisciavano attraverso quella massa vischiosa. I gibboni rabbrividivano, ma sopportavano senza lamentarsi.

Qui l'energia della pila a fusione era razionata, impiegata in maniera limitata. Alla pallida luce della sua luminoampolla, i corridoi luccicavano come lui li ricordava dai primissimi giorni, con la buia, maculata bellezza della roccia nativa del carbonaceo e della neve clatrata. Il naso di Saul si arricciò all'odore di mandorle amare del cianuro e degli ossidi nitrosi… reso piacevole dai simbionati geneticamente progettati presenti nel suo sangue, ma più intenso di quanto l'avesse mai ricordato.

Si fermò per raccogliere dei campioni in diversi punti, qua e là lungo il percorso. Ogni volta, la sua guida si fermò pazientemente ad aspettarlo, imperturbata.

Le tracce si stanno facendo sempre più abbondanti, man mano scendiamo in profondità… come ormai sospettavo da anni.

Non aveva molto senso, naturalmente. Perché mai le forme di protovita dovevano pervadere il materiale primitivo con densità sempre maggiore là in basso, dove le periodiche ondate di calore dovute ai successivi passaggi accanto al Sole non penetravano mai? Era un mistero, ma era pur sempre un fatto inoppugnabile. Era vero che le forme più complesse si erano sviluppate più in alto, ma la sostanza di base era più densa vicino al nucleo.

Sospirò. Domande, sempre domande… Com'era possibile che la vita fosse così gentile, e così crudele insieme, da offrire un gran numero di meraviglie da risolvere, concedendo così poco tempo per farlo, così pochi indizi?

Il loro viaggio riprese, passando accanto a strette fenditure in cui si poteva occasionalmente vedere una figura rivestita di verde intenta ad accudire a un giardino di funghi giganti, oppure seduta davanti ad una piccola consolle baluginante, intenta a lavorare per conto della colonia, ma nel luogo prescelto da lui o da lei.

Saul si sentiva intrappolato. Il ghiaccio era pesante, massiccio, tutt'intorno a lui. Era opprimente, umido, buio. Siamo vicini, molto vicini al centro percepì.

— Siamo arrivati. — Barkley fluttuò su un lato. Saul scrutò dubbioso una stretta galleria, la cui sezione ampia quanto un uomo. Si schiarì la gola.

— Simon, Sulamita, restate qui.

I gibboni in miniatura sbatterono le palpebre, infelici. Saul fu costretto a staccarseli di dosso, appendendoli sulla parete. Lo guardarono con occhi spalancati mentre si chinava e s'infilava strisciando nel passaggio muffito.

La sensazione di claustrofobia che provava crebbe a mano a mano che avanzava. Le pareti e il pavimento erano stati sfregati e lisciati, ridotti a lastre ghiacciate dagli innumerevoli pellegrinaggi. Per qualche motivo quella galleria pareva ancora più fredda perfino rispetto ai corridoi là fuori. Era lunga soltanto pochi metri, ma quando finalmente una luminosità diffusa comparve davanti a lui, Saul provava un'acuta tensione.

Quando raggiunse lo sbocco, si fermò lì, semplicemente a guardare, per qualche istante.

Quattro minuscoli luminofosfori irradiavano sopra gli angoli di una bara scolpita nella pietra. Nella bara giaceva una figura in forma d'uomo. Suleiman Ould-Harrad.

Saul entrò fluttuando dentro la cavità. Non c'era nessuna forza di gravità ad attirarlo. Era del tutto senza peso.

Afferrò una delle corna di quella bara simile a un altare. Le halleyforme simbiotiche si erano staccate, lasciando Ould-Harrad con l'aspetto di un uomo vecchio, molto vecchio, che aveva raggiunto l'eterno riposo dopo più anni di quanti ne avesse scelti. Gli occhi chiusi nel suo sonno finale davano tuttavia l'impressione d'una severa dedizione al suo popolo e alla divinità che l'aveva tanto deluso dopo averlo creato.

Saul gli rese omaggio, ricordando.

Finalmente si guardò intorno. Virginia aveva parlato di un «testamento». Eppure la cavità era vuota, spoglia, salvo per le luminosfere, il cadavere e la bara scolpita nella roccia.

— Un momento… — mormorò Saul. Si girò a testa in giù e guardò la pietra più da vicino. — Non… non ci credo.

Armeggiò alla cintura e tirò fuori la torcia elettrica che usava così di rado. Il suo vivido raggio lo accecò per un attimo, ma subito lo abbassò mentre sbatteva le palpebre per scacciare le macchie luminose che gli danzavano davanti.

Poi Saul toccò la pietra, in preda alla meraviglia, la sua mano illuminata da quello stretto raggio luminoso, accarezzando dei contorni appena accennati ma chiaramente simmetrici. La sua voce si fece sommessa.

— È questo che Suleiman ha trovato, quando ha cercato la verità nel cuore della cometa. Questo…

Era una scoperta scientifica, e molto di più.

Era sbalorditivo.

Tracciò con le dita il profilo delle costole dell'antica creatura marina, fossilizzata nella roccia sedimentaria. Saul fissò il disegno di quella cassa toracica, la bocca semiaperta dai bordi ruvidi, spalancata come se fosse stata colta nel mezzo della caccia, pietrificata nell'attimo fuggente d'un famelico inseguimento… e seppe subito che la forma che stava toccando doveva essere più antica, enormemente più antica, dello stesso Sole.

Tutt'intorno a lui, l'incombente pressione di trilioni di tonnellate di roccia e neve non era niente, a confronto dell'improvviso peso degli anni.

CARL

Il respiro di Lani era come il leggero fruscio d'una spazzola di fibra sopra la ruvida pietra. Uno stanco guerriero sul morbido campo di battaglia pensò pigramente Carl. Si strinse a lei, come nel cavo di un cucchiaio, e lei scivolò all'indietro nel sonno, cercandolo. Era attraverso quei lievi gesti, all'apparenza inconsapevoli, che la gente finiva veramente per conoscersi, si disse. Era possibile nascondere molte cose, ma non l'elementare ricerca della carne per trovare conforto e intimità. La delicata iridescenza del sudore luccicava sulla fronte di Lani e le sue gambe si mossero, aprendosi a ventaglio, trovandolo. Poi si rilassò con un piccolo fremito, il suo sospiro divenne un respiro regolare, e ridiscese di nuovo nel sonno.

Carl si spinse via con delicatezza e galleggiò fuori dal letto. Era tempo di fare il suo giro, ma non c'era bisogno che lei si disturbasse.

Le gambe e le braccia gli ricordavano il travaglio del giorno prima, con una dolce, formicolante sensazione di dolore. Perfino nella gravità appena percepibile, adesso sentiva uno stiramento qui, uno stringimento là… ho perso il conto, ma devo aver superato di molto i quaranta pensò, mentre si lavava i denti. Lo specchio si mostrava d'accordo: delicate zampe di gallina che si diramavano dagli occhi, la mascella rugosa, le tempie ancora di più schiarite. Tutti distintivi dei vari turni di servizio. Durante gli ultimi trent'anni era rimasto sveglio quasi un terzo del tempo. Le crisi erano andate e venute, anche se nessuna aveva mai uguagliato i guai affrontati durante l'orbita verso l'esterno. Tutte le volte il vecchio Lazarus Carl ha rimesso a posto le cose. Si fece uno sberleffo allo specchio. E te ne hanno reso merito. Nessuno si è accorto che li hai semplicemente indotti a pensare ad alta voce fino a quando le risposte non sono apparse ovvie.

S'infilò una tuta azzurra pulita, assaporando la sensazione di freschezza di quel morbido tessuto prodotto in casa. Era sempre stato disordinato, accorgendosi di rado che i suoi indumenti erano sporchi fino a quando una casuale inspirazione non informava il suo naso. Era stato attraverso quei particolari esteriori che Lani aveva trasformato il suo mondo. Si dividevano con risolutezza e precisione i lavori casalinghi, cosicché nell'insieme non era che lui avesse meno lavoro da fare… eppure adesso tutto pareva in ordine, puntuale e pulito.

Sì, Lani mi ha civilizzato. Si chinò e le diede un tenero bacio. Lani mormorò qualcosa e affondò ancora di più nel suo cuscino, mentre lui usciva.

Adesso le gallerie erano più affollate, rispetto a qualunque altro periodo che riusciva a ricordare sin dall'inizio della Sgomitata. Durante tutti quei lunghi anni bui era rimasta soltanto una squadra si sorveglianza ridotta al minimo, anche se l'equipaggio sveglio era stato più numeroso di quello originariamente previsto, naturalmente, perché la sgomitata non era mai terminata. C'erano i tubi degli sfiondatori da lucidare e da riallineare, i lanciatori da equipaggiare con nuovi ammortizzatori e impianti per la messa a fuoco. Gli interventi per la manutenzione erano un guaio costante, a mano a mano che le parti si rompevano, o semplicemente si logoravano. I lanciatori del polo Nord avevano sparato fino all'ultimo minuto, finché il ghiaccio che evaporava verso l'esterno sotto forma di nuvolaglia di gas non aveva reso le operazioni impossibili. Erano stati costretti a fare così: il sorvolo di Giove aveva richiesto un grande cambiamento di velocità.

Adesso i lanciatori giacevano riparati nei loro pozzi, sepolti a trenta metri di profondità, in attesa della rinascita, giacché avevano altre pallottole da sputare verso le stelle; altra velocità da impartire… se qualcuno fosse sopravvissuto ai pochi mesi seguenti.

Sempre che riusciamo veramente a rivedere Giove.

Carl scese in fretta lungo il Pozzo 3, controllando tutti i piccoli distaccamenti lungo il percorso. Era una vecchia abitudine che risaliva ai tempi antecedenti il pattugliamento delle gallerie da parte degli animali geneticamente progettati per divorare le halleyforme indesiderate. Si fermò ad accarezzare un paio di ibridi mangusta-furetto che Saul aveva prodotto su misura per controllare le halleyforme. Gli strisciarono addosso, strofinandogli il muso contro la mano, scoprirono che non era adatto al loro nutrimento e persero interesse.

Entrò nella Centrale e fece il solito controllo giornaliero degli schermi. Adesso si trovavano a sole sei settimane dal perielio e un chilometro dopo l'altro la cometa li stava conducendo — con la sua accelerazione — verso una fine quasi certa. Carl richiamò le poche panoramiche ancora disponibili trasmesse dei relé meteorologici in superficie.

Oggi andava peggio. Molto peggio.

Scelse una telecamera che guardava in direzione della linea dell'alba. Molto lontano, aurore boreali color avorio ribollivano via da promontori colpiti dalla luce del Sole. Il Sole separava nel modo più netto il cielo dal ghiaccio, una linea di divorante fulgore che si allargava sempre più. Dita dorate si stendevano fra le colline all'orizzonte illuminando il primo fumo del mattino. Dove gli obliqui raggi del Sole trovavano il ghiaccio fresco, erompevano gocce d'un pallido azzurro e di un verde rubicondo. Molto in alto ondeggiavano stendardi di plasma, aurore più estese di quelle viste da Amundsen e Peary.

Si erano intessute di nuovo intorno ad Halley per livellare il carico termico. Jeffers aveva montato tutto uno spiegamento di pannelli assorbenti per controllare in parte la dispersione de gas e usarla per una rozza forma di navigazione, ma in quel caos ululante era impossibile perfino fare il punto con le stelle e dire come se la stavano cavando.

Stiamo salpando nel cuore della tempesta pensò. E niente bussola.

Halley non era più una palla di ghiaccio. Assomigliava invece ad una terra innevata misteriosamente butterata e foruncolosa, dove ogni traccia dell'uomo era stata cancellata. Un miliardo di piccole sorgenti di gas più attive avevano bucherellato le pianure polverose, lacerando il suono per uscire fuori e liberamente unirsi al vuoto totale. Strati di polvere, più pesanti, chiazzavano le cavità. Occasionali chiazze brune venivano d'un tratto soffiate via, unendosi alla sfrecciante ascesa della brillante chioma giallo-verde, visibile a Carl come un alone diffuso che si stendeva attraverso il cielo. Mentre guardava, un lento oscurarsi increspò quel trasparente bagliore, un'onda diretta verso l'esterno, generata da qualche eruzione di polvere sul lato rivolto al sole.

— È piuttosto brutta — commentò Jeffers, al suo fianco. Era diventato perfino più magro, nel colombario, la sua pelle più giallastra. — Le particelle al secondo sono tre volte più numerose di quant'erano la settimana scorsa.

— Da questo momento in avanti cresceranno a un ritmo quasi esponenziale — disse Carl. Lo enunciò come un fatto acquisito, anche se era soltanto una previsione di Virginia; era stata talmente accurata, negli ultimi tempi, che non pareva proprio che potesse esserci ancora una distinzione tra ipotesi e realtà.

— Abbiamo perso l'ultimo dei misuratori di velocità.

— Non mi sorprende.

— È stato soffiato via.

— La temperatura?

— Il lato notturno è a centoottanta Kelvin. Quello diurno circa quindici gradi di più. Ciò crea un grosso gradiente.

Il carico termico era cruciale. A mano a mano che la superficie continuava a riscaldarsi, il calore filtrava dentro il nucleo. — Qual è il dato giù nei pozzi?

— Pare che sia all'incirca sette gradi più freddo che in superficie.

— Già.

— Proprio così.

Il ghiaccio era elastico. La superficie, più calda, si espandeva, si tendeva, si spaccava. L'incessante martellare dei lanciatori aveva indubbiamente stressato il ghiaccio fin giù, nelle profondità di Halley. Con il calore, le tensioni sarebbero state liberate, e si sarebbero formate delle fratture. Quante? Nessuna simulazione numerica poteva dirlo. Halley era già crivellata dalle tane che gli esseri umani avevano scavato, come una colonia d'insetti. Avrebbe potuto spaccarsi completamente in due, eruttando in un ultimo ànsito tutti gli insignificanti parassiti umani che l'avevano afflitta.

Mentre guardavano, una goccia perlacea ruppe la crosta della superficie ed esplose in una turbinante sinfonia ciclonica di colori eccitati: verde pisello, violetto, giallo zolfo.

— Vidor è già stato svegliato?

— Ho ordinato che comincino, ma ci vorrà un altro giorno.

— Be', non c'è più motivo di correre. Il suo castello è scomparso.

Jeffers indicò una massa accasciata vicino alla linea dell'alba. L'ornata, modellata e scolpita opera d'arte, che era stata il capolavoro di Vidor nel ghiaccio, creata tre anni dopo la battaglia equatoriale, per il compito che doveva svolgere, come sostegno strutturale per il Pozzo 20, avrebbe potuto essere una semplice scatola quadrata, un igloo. Vidor aveva voluto aggiungervi parapetti, torri, argentei arabeschi, mura merlate e ponti volanti biancoazzurri. Adesso…

— Non si aspetta certo di trovarlo ancora in piedi… — Un castello di sabbia dura soltanto fino alla prossima marea.

— Quanti ne tirate fuori?

— Tutti — rispose Carl. — Salvo quelli che sono talmente morti che non esiste nessuna vera speranza di salvarli, naturalmente.

Jeffers torse la bocca, atteggiandola nella sua familiare linea di scetticismo. — I tecno-medici sono in grado di utilizzare quelle nuove cure?

— Virginia ha adibito dei mech ad aiutarli. Li ha addestrati in velocità, con quel suo metodo sperimentale.

— Cosa avete deciso a proposito di quelli parzialmente danneggiati al cervello?

— Non serviranno un granché, ma meritano ugualmente di essere rianimati.

— Già. Hanno pagato il biglietto. Tanto vale che assistano al finale.

Alcuni si erano opposti alla sua decisione, ma lui aveva respinto le loro obiezioni. L'argomentazione razionale era che con il massimo equipaggio possibile sveglio avrebbero potuto affrontare più efficacemente eventuali crisi. La motivazione privata di Carl, però, era del tutto emotiva. Se Halley si fosse spaccata, se si fosse rotta in due, se fosse esplosa in un rutilante pennacchio in technicolor, per lo meno avrebbero vissuto tutti ogni singolo momento, affrontando la fine così come avevano cominciato: una spedizione, un equipaggio.

È pur sempre qualcosa pensò Carl. Così, non si finisce addormentati nell'oblio.

Corrugò la fronte. Qual'era la poesia che Virginia aveva sottoposto alla sua attenzione?

Non dovrei pensare al programma come se fosse Virginia, ma mi è impossibile non farlo. JonVon non esiste più. E qual era la poesia che ha recitato ieri?

Non andare con gentilezza dentro quella buona notte…

Giusto. Dannatamente giusto.

— Signore?

Carl si girò, non riconoscendo la voce.

Era il capitano Miguel Cruz.

— Uh… — Carl fissò l'uomo, immutato rispetto al ricordo che ne aveva. La mascella era sempre solida, sicura. Lo sguardo era fermo, ispirava fiducia. Perfino il colore azzurro dovuto al colombario non poteva nasconderlo.

Tuttavia, in quell'uomo c'era qualcosa d'impacciato… di bloccato. Cruz indossava scarpe, e si reggeva in piedi come se la gravità avesse importanza.

— Volevo presentarmi a rapporto — disse Cruz. — Non mi sono ancora completamente ripreso, ma sono sicuro che c'è qualcosa che posso…

— No, no, lei… riposi. Riposi e basta — si affrettò a dire Carl. Non si era reso conto che le rianimazioni si fossero spinte così in là. Qualcuno avrebbe dovuto avvertirlo! Cruz parlava con un lieve accento… il modo di parlare della Terra. — Signore, preferirei prestare servizio. Forse…

Carl scosse la testa: — Senta, capitano, non mi chiami signore. Sono Carl Osborn, lei forse si ricorderà di me. Sono uno spaziale. Io…

— Certo che la riconosco. Sono un po' al corrente degli avvenimenti dopo la mia morte — replicò Cruz con un fievole sorriso. — Ho letto il giornale di bordo. È incredibile… e credo che chiamarla «signore» sia assolutamente appropriato.

Carl rimase a fissare l'uomo per un lungo momento, non sapendo cosa rispondere. Malgrado la sua tormentosa malattia, Cruz pareva… giovane. Per niente stagionato. — Ho… pensato, signore, che, quando avrà avuto qualche giorno per riprendersi, lei potrebbe riprendere il comando.

Cruz fissò lo scorrere d'immagini e di dati sulla superficie d'una dozzina di schermi lì accanto. — Mi ci vorrebbero anni anche soltanto per capire ciò che sta accadendo. I vostri strumenti, le vostre tecniche, e… Venendo qui, ho visto una donna nel Pozzo Due che pareva un fungo volante.

— Quella è una strana, signore — spiegò Carl. — Vivono a circa due clic in fondo al Pozzo Due, nella loro propria biosfera.

— Ma quella roba verde… l'aveva perfino nei capelli!

— È un simbionte che trattiene i fluidi e accresce l'elaborazione dell'ossigeno… i particolari non li conosco.

Cruz scosse la testa. — Incredibile. Come ho detto, non ho la minima idea di come stiano le cose.

— Ma io speravo…

— Capisco — annuì Cruz, come colto da un'intuizione. — Adesso che siamo ritornati nel sistema solare interno, lei forse pensava che io potessi aiutarvi a negoziare qualcosa con la Terra?

— No, signore. Ci siamo resi conto che quello è un vicolo cieco. Io speravo soltanto… be', lei è il capitano!

Il sorriso di Cruz era remoto, come ripiegato su se stesso, quasi che stesse scrutando qualcosa di molto lontano. — Ero il capitano della Edmund, e per un breve periodo, mentre scavavamo le nostre gallerie qua dentro, dove ho anche vissuto un po'. Ma adesso Halley è essa stessa una nave. Ormai sono decenni che naviga agli ordini del suo vero capitano. Io… io sono soltanto un passeggero.

— No, signore, non è…

— Un giorno aspirerò a diventare un ufficiale di questa nave. Non il comandante, però. E non dimenticherò chi ha tenuto in mano la barra del timone per così tanto tempo.

Cruz gli porse la mano. Carl sbatté le palpebre, poi, lentamente, gli tese la propria e gliela strinse.

Per tutto il tempo aveva sperato che i wunderkinder di Saul potessero riportare Cruz alla vita. E adesso l'avevano fatto, proprio all'ultimissimo minuto… e dopotutto, non si era rivelata una panacea. Avrebbe dovuto capirlo da tempo. Cruz aveva ragione. Miguel Orlando Cruz-Mendoza non era più vecchio del giorno in cui era morto, ma Halley era stata profondamente trasformata nell'arco di settant'anni dalla mano di quell'artigliante, irascibile, beatamente ingegnosa e flagrantemente stupida forma di vita che era troppo cocciuta per restarsene a casa e scordarsi l'idea di cavalcare palle di ghiaccio nell'oblio.

Con suo vivo stupore, Carl si rese conto che stava già valutando il suo ex capitano, soppesando il suo posto potenziale fra i membri dell'equipaggio. Un uomo in gamba pensò. Lo metterò al lavoro.

Alcune ore più tardi era di ritorno da un'ispezione di alcune caverne adibite ad uso agricolo e dei nuovi idroponici modulari a spirale che stavano abilmente disponendo in maniera tale da estrarre il calore di scarto dovuto al riciclaggio dei liquami fognari, che venivano immessi dall'esterno grazie a una combinazione di coclee. Gli ultravioletti s'irradiavano da una discarica assiale di plasma freddo, e quelle piante gigantesche anelavano ad avvicinarsi ad essa spingendosi verso l'interno. Carl ammirava quell'impresa prometeica di rilocalizzare le cupole, trasferendole dalla superficie all'interno del nucleo, e stava tornando attraverso il Pozzo 4 quando un cramp lento e borbottante lo strappò dai suoi pensieri. Sembrava provenire dall'interno delle pareti stesse.

S'inserì nella sua linea privata: — Jeffers!

— Lo sto seguendo. Gli acustici lo stanno captando dappertutto.

— Un'esplosione?

— No, una caduta di pressione. Credo che sia arrivato dalla superficie.

Carl richiamò sul display, rapidamente, le telecamere che ancora rimanevano in funzione in superficie. La maggior parte mostravano trasparenti Niagara rovesciati, turbinanti sorgenti di vapore che s'innalzavano dal ghiaccio descrivendo lunghi archi sferzanti che si perdevano nel mutevole cielo velato. I raggi ultravioletti del Sole ionizzavano il gas. Poi la pressione del vento solare faceva volgere queste fontane verso l'esterno, incurvando quel flusso fino a fonderlo con gli spettrali nastri della chioma.

Al di sopra del lontano orizzonte un blocco di ghiaccio granuloso ruzzolava su se stesso, ad un chilometro di altezza nel cielo. Lì accanto si era spalancato un enorme foro frastagliato, esso stesso una sorgente di nuove sostanze volatili. Simili a serpenti, filamenti verde e rubino s'innalzavano da quella fossa, che si contorcevano incessantemente.

— Un rigurgito sismico? Oppure un tratto di ghiaccio amorfo che ha cambiato stato tutt'a un tratto.

Quando la crosta di ghiaccio stressata cedeva, poteva venir strappata via per intero. Ciò trasferiva di colpo il calore del sole su depositi più freschi, il che scavava nuovi canali e col tempo approfondiva ancora di più le crepe.

Jeffers disse: — Già. Pare proprio di sì. Virginia aveva ragione anche a proposito di questo.

— Aveva detto che non sarebbe successo molto spesso fino al momento del perielio.

— Oh, immagino che sia soltanto un assaggio.

Carl annuì fra sé e si spinse via. Passò accanto a gruppi di strani avvolti nella vegetazione verde e purpurea, i quali non prestarono nessuna attenzione alla sua presenza. Stavano controllando le vecchie chiusure ermetiche per accertarsi che non ci fossero intrusioni da parte della halleyforme primitive, che provvedevano comunque a raschiar via ed a sostituire con quelle mutate e amichevoli nei confronti degli umani, che erano state elaborate da Saul.

Più oltre incontrò due cloni di Saul che stavano costeggiando la galleria, sorreggendo delicatamente un decolombarizzato mentre lo conducevano in uno dei serbatoi più caldi. Annuirono in perfetta sincronia e gli gridarono: — Ne rimangono ancora una ventina di probabili.

Carl scoppiò a ridere.

Adesso erano adulti completamente sviluppati, con una propria mente. Facevano perfino gli stessi gesti e avevano lo stesso accento. Ma per qualche motivo non riusciva a pensare a loro se non come a dei sostituti di Saul. Il fatto che Saul fosse riuscito con successo a clonare se stesso, mentre il tentativo di duplicare gli altri membri dell'equipaggio era fallito, significava che quello strano adattamento simbiotico era cruciale. Era possibile che soltanto lui potesse venir copiato nell'ambiente di Halley. Così, durante quegli ultimi decenni, i multiSaul erano stati impagabili per la loro resistenza alle nuove affiliazioni casuali, e la loro curiosa disciplina interna. Saul aveva usato l'apparato di JonVon per il trasferimento della memoria, per instillare grossi frammenti della sua personale esperienza nei suoi cloni.

Ciò che aveva appreso avrebbe potuto permettere ad altri di allevare bambini naturali senza nessun timore. Sarebbe stato bello sentir trillare le risate infantili nei pozzi. Ma la lunga caduta verso il perielio aveva soffocato sul nascere qualunque idea del genere. Nessuno poteva sopportare l'idea che la promessa dell'infanzia potesse non sbocciare mai.

Il comunicatore di Carl ronzò e Virginia disse: — Dubitavi della mia prognosi?

— Quel blowout è arrivato un po' presto, non credi?

— No. Dopotutto io tratto probabilità, signore, non faccio predizioni. Se vuoi, perché non chiami Lefty d'Amario? Lui può controllare i miei calcoli.

In qualche modo l'antico pizzicore lo percorreva ancora, quando quella fragranza civettuola le riempiva d'arpeggi la voce. — D'accordo, non sto facendo rimostranze. Non c'è bisogno che tu t'impermalisca. Stai controllando quei misuratori di logoramento che Jeffers ha impiantato dappertutto?

— Certamente. Mi avanza sempre un nanosecondo o due.

— E…?

— Piccoli tremori qua e là. Qualche piccola faglia lungo il Pozzo Due. Niente di cui preoccuparsi.

— Magnifico. Hai informato il capitano Cruz?

— Sei tu il capitano, Carl. Tutti continuano a dirtelo, anche se la cosa non ti piace.

— Non l'ho chiesto io, questo lavoro.

— Nessun altro potrebbe gestire quello che sta per arrivare.

Carl avvertì un empito improvviso della rabbia di un tempo. — Quello che sta per arrivare è la morte, Virginia.

— Non conosco niente del genere. — La sua voce era compassata, circospetta.

— Hai fatto tu stessa le simulazioni.

— Macinare numeri non è la realtà. Io dovrei ben saperlo, non è vero, amico Carl? Potrebbero esserci varianti nelle matrici delle relazioni incrociate.

— Non raccontarmi storie. Halley sfiorerà il Sole troppo da vicino. L'unico interrogativo è se friggeremo o bolliremo quando questa montagna di ghiaccio andrà in pezzi.

— Ci sono molti fattori imprevedibili. Ma anche delle misure che possiamo adottare.

Carl aveva costeggiato regolarmente il fianco d'una galleria, controllando automaticamente se ci fossero crepe. Quest'ultima osservazione lo fece fermare. — Cosa possiamo fare?

— Convogliare verso l'interno parte del calore in superficie, per attenuare parzialmente l'insorgere delle tensioni dovute ai differenziali di temperatura. In altre parole, dovete invertire il sistema di scorrimento verso l'esterno, diffondendo il calore di superficie nel ghiaccio più freddo che sta in basso.

— E se il ghiaccio interno dovesse vaporizzarsi? Le pressioni…

— Lo sfiateremo. Contribuirà a schermarci dal Sole.

— Ah. — Sentì risvegliarsi la speranza. — Come mai non l'hai detto prima?

— Ci ho appena pensato. Sono soltanto una macchina.

Debolmente, Carl sentì il sommesso borbottio della risacca, il sussurro degli alisei, il lontano rombo dell'addensarsi della burrasca sull'oceano. Il mondo metaforico di Virginia all'interno della rete. Da qualche parte, una voce rise: — Ke Pii mai nei kekai!

Così, in qualche modo aveva compagnia. Sorrise. — Senti, indirò una riunione. Dovremmo esaminare…

Virginia scoppiò a ridere. — Sempre lo stesso vecchio Carl. Un minuto prima ti lamenti di tutto. Ma basta darti un problema su cui lavorare, e… tombola!

Carl arrossì. Virginia aveva sempre posseduto l'arcana capacità di precederlo d'una mossa. Si spinse lungo la galleria che conduceva a casa.

— C'è tempo in abbondanza per calcolare l'ingegneria del problema, capitano. Continua pure con le tue faccende. — Quella risatina argentea gli risuonò ancora negli orecchi. — Lani ti sta aspettando.

E lo stava infatti aspettando. Lo abbracciò in silenzio, e poi rotearono entrambi pigramente nel mezzo della stanza, dimentichi di tutto. Carl si era finalmente impadronito dell'arte di mettere da parte gli affari, una volta tornato nel piccolo alloggio, e questa volta lo fece di nuovo, anche se le implicazioni delle ultime osservazioni di Virginia erano enormi. Fu tentato di dirlo a Lani, ma poi si trattenne. Fra loro, nell'arco dei decenni, la speranza era stata attizzata fin troppe volte, soltanto per venir soffocata dalla brutale certezza di qualche spietato fatto astronomico. Così, bandì del tutto quell'irritante coro di pensieri e, semplicemente, la baciò.

— Càspita! — alitò lei, profondamente. — Piuttosto torrido per essere a mezzogiorno, particolarmente dopo una notte tanto dura…

— Facciamo del nostro meglio.

— Sono di turno fra poco. Facciamo un rapido pranzo.

— Magnifico. — Carl si lanciò verso la loro minuscola cucina, resa funzionale soltanto perché potevano usare le pareti e il soffitto.

— C'è il tabulato sulla tua stampante, a proposito — si ricordò Lani, prendendo un po' della salsa usata per i legumi brasati e il pollo-muto della sera prima. — Da Virginia.

— Oh?

Scalciò per avvicinarsi alla stampante. Di solito veniva usata soltanto per i casi di emergenza o per divertirsi, non per le faccende ordinarie della nave.

Era una poesia:

La natura non sa niente della morte,
non nel pigro coccolarsi del gatto miiiaaaooo,
non nella folle scalciata dell'antilope,
mentre il leone fa il suo pasto.
Né nel sollevarsi indolente del mare
al risucchio del lento gradiente d'una stella,
né nell'annuire d'un fiore, nella danza frenetica di un insetto.
Vivi è tutto ciò che il mondo dice.
Sulle alternative esso è muto.
Soltanto in noi e nel nostro interminabile sporgerci in avanti
può vivere la morte.
Ogni vivido momento è libero.
E tutto quello che potrebbe accadere
può ancora essere.

Carl studiò la poesia, corrugando la fronte. — Sta migliorando.

Lani di avvicinò e la lesse lentamente. — Tutte le volte, rimango di nuovo sorpresa. Virginia è davvero là dentro, da qualche parte.

Carl scosse la testa. — Non è da nessuna parte, in realtà. È dappertutto. Il sistema si è espanso molto al di là dei banchi di JonVon. Adesso è Halley.

Lani si girò e l'abbracciò. — Siamo tutti Halley.

Carl respirò l'aromatico, caldo muschio che emanava da lei, e sentì che i vecchi dolori si allentavano. Perché mai ho impiegato tanto tempo a capire che questa brava donna poteva essere un intero mondo per me? E se non me ne fossi mai accorto?

Sentiva Virginia intorno a loro tutti, sentiva l'intera comunità di Halley come una matrice intrecciata nell'antico ghiaccio. Non erano più sepolti dentro, venuti lì soltanto per usufruire di un passaggio. Niente percell. Niente ortho. Erano una nuova, assediata società, un nuovo modo, per un primate versatile, di estendersi oltre, di essere più di quello che era. Non erano semplicemente al centro dell'antico ghiaccio morto, erano il cuore stesso della cometa.

— Sì, suppongo che lo siamo — dichiarò.

VIRGINIA

Era uno spettacolo che gli umani non avevano mai contemplato prima, e molto probabilmente non avrebbero mai più visto. Il costante martellare dei lanciatori per più di trent'anni aveva alterato l'orbita della montagna di ghiaccio che cadeva verso l'interno, spostando i punti focali di quell'ellisse schiacciata. L'orbita della Terra si teneva aggrappata al Sole deviando dalla forma d'un cerchio perfetto meno del due per cento. Ma l'eccentricità di Halley era stata del novantasei per cento ancora prima che le macchine degli uomini cominciassero la loro persistente sgomitata. Adesso la curva si stringeva sempre più al passare d'ogni ora, portando un'estate bruciante. Halley non si era mai tuffata così vicina all'erodente Caldo.

Le gallerie e i pozzi formavano degli eccellenti amplificatori acustici. A mano a mano che il ghiaccio sfregava e premeva contro le nuove frizioni, i gemiti echeggiavano fino alle profondità del nucleo, svegliando i dormienti, anche se di questi ce n'erano assai pochi, con l'ora cruciale sempre più incombente.

Con un tuffo che la portava più vicina di cinquanta chilometri ad ogni secondo, Halley si precipitava verso il suo antico nemico. Ogni passato incontro aveva spogliato la cometa d'uno strato si pelle di ghiaccio, ma adesso rombava tutta e si torceva sotto l'effetto di nuove forze che cercavano di frantumarla sull'incudine del suo Sole.

Virginia seguiva quella tempesta ululante e accecante attraverso i suoi occhi elettronici. A mano a mano che una telecamera moriva a causa delle raffiche pungenti di polvere e di plasma, lei ne dispiegava un'altra fatta uscire dalle cavità più profonde. Il Sole appariva il doppio più grande di come lo si vedeva dalla Terra. Ma dalla superficie non si vedeva nessun disco incandescente. Halley ruotava ma non si vedeva nessun sorgere del Sole. Invece una corona bianco-incandescente ribolliva in alto. Una chiazza di ardente luminosità segnava il punto dove il fiume che sgorgava dal Caldo incontrava la marea di ioni che esplodeva fuori da Halley, e la vittoria andava inevitabilmente al Caldo. Spezzati, ionizzati, i gas roteavano, venivano deflessi lateralmente e vorticavano intorno al piccolo mondo di ghiaccio come un sudario magnetizzato. Questa turbinante atmosfera non mostrava nessuna lealtà attraverso il suo genitore, ma si precipitava invece verso l'esterno.

Adesso le code gemelle di Halley si srotolavano attraverso uno spazio più esteso dell'orbita di Mercurio. Il contorto vessillo di plasma luminoso conteneva meno fluido di molti dei grandi stagni della Terra, ma la luce avvampante del Sole lo rendeva l'oggetto più visibile del sistema solare. Gli abitanti progrediti di una stella vicina avrebbero potuto captare le scintillanti cortine quasi dritte che sgorgavano dalla stella centrale. La coda di polvere, per contrasto, era una curva fascia rossastra, interrotta da sentieri bui, sfavillanti di sassi e granelli non più grandi d'un micron.

Ma coloro che calcavano la particella di ghiaccio genitrice non potevano vedere la più bella coda che avesse mai aggraziato una cometa in tutta la storia. A mano a mano che sfrecciava sempre più in profondità nel pozzo gravitazionale della sua stella, quella chioma ardente d'una luminosità insostenibile si allargava sempre più divorando l'intero cielo. Adesso accecata, Halley non poteva neppure vedere la sua nemesi. Il cielo era dovunque un bagliore.

Virginia aveva calcolato con grande accuratezza quell'effetto, giacché quella era la chiave. Se avesse permesso ad Halley di rimanere priva di rotazione, la faccia rivolta in permanenza al Sole sarebbe salita fino alla temperatura di quattrocento gradi, la temperatura che qualunque corpo solido avrebbe avuto a quella distanza dal Sole. Adesso osservava gli schermi sepolti a decine di metri sotto il ghiaccio che le indicavano il flusso del calore. A mano a mano che il calore filtrava sempre più in profondità, Virginia faceva ruotare più velocemente quel mondo di ghiaccio, per attenuare gii effetti della vampa del Sole, spandendoli nel modo più uniforme in tutti i suoi punti, consentendo al lato notturno d'irradiare verso la tenebra dello spazio.

Ma la tenebra si stava affievolendo. Ben presto la stessa atmosfera «estiva» della cometa cominciò a riflettere da ogni parte il bagliore del Sole sulla faccia in ombra di Halley, e le temperature aumentarono più in fretta mentre la cometa continuava a precipitarsi verso il perielio.

— Cosa te ne sembra? — Carl stava osservando gli schermi della Centrale con Lani al suo fianco. — Abbiamo già sparato via venti metri di ghiaccio! — proseguì, con veemenza. — Quanto tempo ci vorrà perché finiamo in pezzi?

Virginia avvertiva il suo crescente livello di conflitto. Era un uomo che risolveva problemi, e in quella grande crisi lui non aveva nessun ruolo. Come gli altri, era un passeggero impotente sulla propria nave.

— Siamo al sicuro — disse Virginia con un tono rassicurante, usando una serie di toni alti che rendevano la sua voce più ricca di quanto lo fosse mai stata l'originale.

— I sigilli dei pozzi?

— Intatti — garantì Virginia, esibendo delle panoramiche dei coperchi d'acciaio in punti che si trovavano duecento metri all'interno di ciascun pozzo. Al di là di essi, enormi tappi di ghiaccio sbarravano la strada al Caldo.

— Smettila di preoccuparti — disse Lani, con voce gentile, appoggiando una mano sulla spalla di Carl. — Tanto vale che ci godiamo lo spettacolo.

Più tardi, Virginia pensò a quanto fosse ironico il fatto che le parole di Lani fossero punteggiate da lunghi, rintronanti rombi che penetravano fin dentro la Centrale. La cavità sferica vibrava, crepitando. Pezzi di apparecchiature schizzavano via dalle loro mensole.

— Un crollo — annunciò Virginia, proiettando un'immagine sullo schermo centrale. Una massa mulinante di neve e di ghiaccio sembrava sgorgare dalle pareti di una galleria, cadendo con dolorosa lentezza.

— Maledizione! — esclamò Carl. — Dove?

— Il sito 3 C, come la nostra proiezione suggeriva.

— La pressione…

— Chiuso ermeticamente. Nessuna perdita. — Virginia analizzò il profilo della voce di Carl, e vi trovò un alto livello di tensione. Se soltanto avesse ascoltato un po' di più Lani…

La reazione umana fondamentale ad eventi di dimensioni così immani era quella di chiudersi a riccio.

Virginia aveva notato questo fatto durante gli ultimi giorni prima del perielio. I suoi mech vagavano attraverso quel labirinto di gallerie, saggiando il terreno alla ricerca di perdite o d'improvvise fontane di calore vagante. Di rado incontravano qualcuno. Perfino Stormfield Park era deserto, adesso, la giostra si era fermata.

Uomini e donne facevano il proprio lavoro, i propri turni di servizio, raccogliendosi nei pochi momenti liberi insieme a coloro che amavano, osservando il maelstrom sgargiante là fuori attraverso gli schermi. Jeffers aveva messo a punto un nuovo tipo di fibra ottica leggera che poteva sbucar fuori come un serpente da una cavità sepolta in profondità, riducendo così i rischi, ma anche così crepature e sfiatatoi continuavano ad aprirsi a causa dell'alta pressione, ed eruzione spontanee di fango schiumeggiante ricco di sostanze rosse inondavano molte delle stazioni di osservazione di Virginia.

Si era riservata un minuscolo frammento del nucleo di memoria come suo «ufficio». Lì, sedeva in mezzo ad un ronzare di macchinari, percependo il rassicurante strofinio d'una sedia, l'ammiccare delle luci delle consolle. Vorrei poter disporre di abbastanza nucleo per andarmi a fare una nuotata pensò. Posso sentire anche le mie stesse tensioni…

Come specie, rifletté, l'homo sapiens non aveva mai veramente varcato i limiti della tribù. La storia degli ultimi centomila anni aveva mostrato con quanta abilità e intelligenza aveva saputo adattarsi alle maggiori esigenze. Sotto la pressione della necessità avevano formato villaggi, città, nazioni. Eppure avevano riservato il loro vero calore e le più ferventi emozioni a una cerchia ristretta di amici e parenti. Erano pronti a morire per conservare la tribù, la famiglia, i vicini. Gli appelli per questioni più importanti funzionavano soltanto attingendo alle sorgenti più sottili e profonde.

Così, quel coro di tremori che si addensava sullo sfondo, il crepitio d'una parete che crollava, il borbottio basso e sgranato del ghiaccio sotto tensione, tutti questi suoni spingevano l'equipaggio a ritirarsi dentro se stessi. Non nella solidarietà, ma nella consolazione e nella rassicurante presenza fisica degli spaziali, o degli strani, o degli hawaiani, loro sodali. I simili cercavano i propri simili per quelle che avrebbero potuto essere le ultime ore. Salvo per una solitaria figura che di rado lasciava la Centrale.

— Saul — gli disse, mentre un pennacchio color ambra sgorgava dalla superficie, proiettando un ricamo di strisce luminose sulla familiare faccia rugosa. Era rimasto seduto accanto al display molto a lungo, la sua mente era molto lontana mentre rigirava tra le mani una piccola pietra, più e più volte. — Saul?

— Ah, oh, sì? — Saul sollevò il volto solcato da quel pezzetto di roccia.

— Sono sicura che potresti sorvegliare le cose da qualche altra parte.

Saul scrollò le spalle. — Stormfield è chiuso. In questo momento non c'è bisogno di me in infermeria. Non c'è nessun altro posto dove io voglia in particolare trovarmi.

— Sono certa che Carl e Lani ti darebbero il benvenuto. Sono svegli, vigilano…

Saul sollevò una mano. — No, li lascerò stare. Non voglio impormi là dove sarei soltanto una quinta ruota.

— Stai pensando parecchio a quella vecchia pietra — disse lei, per cambiar argomento. Erano ore che la rigirava tra le mani.

Saul fissò quel grumo grigio-scuro. — Proviene dalla bara di Suleiman. Sono settimane che me lo porto dietro, che lo studio. Ma… non è a questo che stavo pensando in questo momento.

Il suo sguardo si spostò sull'unità refrigerata che conteneva sedici litri di un processore organico supercongelato. Virginia ritenne di aver capito.

— Tu sei con me, non importa dove ti trovi su Halley, Saul.

Saul sbatté le palpebre e annuì. — Lo so… è soltanto che…

— Soltanto che qui la prossimità fisica della mia memoria organica è rassicurante?

Saul sorrise, il suo vecchio sorriso sardonico, con le labbra leggermente corrugate e gli occhi increspati, comunicando un'ironia che non era lontana dall'immagine che aveva di se stesso, Virginia lo sapeva. — Sono così ovvio?

— Per uno che ti ama, sì.

— Ci sono momenti quando vorrei…

— Sì?

— Avrei potuto trovare un modo per clonarti.

— Così da avere me, o qualcuno come me, in carne e ossa?

— I ricordi non fanno altro che rendere le cose ancora peggiori.

— Ci sono… — Non provò nessuna vera esitazione, e in ogni caso con la sua velocità l'indecisione sarebbe durata soltanto qualche millisecondo, ma doveva mantenere le sfumature di una persona vivente. — … ci sono le nostre registrazioni.

Saul ebbe un'asciutta risata. — Sai quante volte le ho fatte passare…

Un cenno di timidezza, sì. — Potrei… incrementarle.

— No! — Saul picchiò il pugno sulla sedia-ragnatela. — Io voglio una cosa vera, la vera… te.

— Lo sarebbe.

— Quando abbiamo registrato noi stessi è stato uno scherzo, come le coppie che scattano le fotografie di sé con la polaroid in camera da letto. Noi non abbiamo mai avuto l'intenzione che fosse uno solo di noi a ripassarle… — Scosse la testa. — In questo modo, senza di te, la vera te…

— Ma sono io. Più vera di qualunque immagine olografica! E se dovessi entrare nel collegamento sensoriale, è una Virginia più vecchia, e probabilmente più saggia, quella che incontreresti. Me.

Saul aveva resistito altre volte a quel suggerimento, per ragioni che lei non capiva del tutto. Ma adesso, forse, a causa della oppressiva solitudine che si accompagna al pericolo, sollevò la testa e fissò direttamente gli ottici di lei. — Io… sarebbe?

Lei sapeva che non avrebbe garantito che si sarebbe trattato di una Virginia genuina, fissata nell'ambra. Lei non era la personalità che era rifluita dentro l'affollata personalità di JonVon e l'aveva inondata. La lenta evoluzione e i progressi autoinnescati le avevano fatto percorrere un'immensa distanza da quegli anni. Ma non c'era bisogno che lui lo sapesse, né c'era qualcun altro che lo sapesse, e ciò sarebbe stato di conforto per lui.

— Vieni da me, Saul.

Saul mise da parte la pietra e allungò la mano verso il connettore neurale. Con sua viva sorpresa, Virginia si sentiva nervosa.

Forse sarebbe stato un ritorno anche per lei.

Poco prima del perielio il Sole cessò la sua ritirata verso sud e tornò ad avanzare. A mano a mano che il disco cresceva, si spostava verso l'equatore. C'era un mezzogiorno perpetuo, mentre la cometa vibrava ed eruttava sotto quell'interminabile vampa. L'emisfero meridionale, sventrato e sgorbiato per mesi, adesso si stava raffreddando mentre l'emisfero nord veniva esposto a sua volta alla feroce aggressione.

L'acqua e l'anidride carbonica sublimando portavano via calore da quella particella che orbitava velocissima. La sua superficie si crepò in molti punti, seguendo le tracce sempre più deboli che l'uomo vi aveva impresso sopra per sette decenni. Sostanze volatili fresche sublimavano ed esplodevano. Frammenti aguzzi venivano ridotti a monconi nel giro di pochi minuti, come se fossero stati erosi da nugoli di particelle di sabbia. I sassi emergevano in superficie formando coltri che si libravano rimanendo temporaneamente sospese e schermando il ghiaccio sottostante, per poi venir soffiate via e congiungersi alla coda di polvere che si andava addensando.

Al polo Nord, al quale finora era stato risparmiato il peggio, il Sole artigliante mordeva in profondità. Sin dai tempi delle grandi pestilenze alcune fazioni avevano sepolto i loro membri irreparabilmente morti nelle profondità del ghiaccio vicino al polo. Adesso il Caldo li aveva trovati.

Per puro caso lo spettacolo era visibile attraverso una fibra ottica che emergeva in un angolo riparato nel punto esatto del polo Nord. I gas che esplodevano di sotto sollevavano le mummie avvolte nel ghiaccio scagliandole verso il cielo. Un calore ustionante liberava dal ghiaccio l'ossigeno ionizzato, e i corpi esplodevano in fiamme, illuminando il paesaggio di momentanee pire arancione. Quelle torce venivano lanciate, vorticanti e fiammeggianti, in alto e fuori contro le immense forze inconsapevoli. Rimanevano sospese nel cielo per lunghi momenti, come lontani e sgocciolanti castelli, e poi si spegnevano piombando per sempre nel fiume che si srotolava fuori dal Sole.

— Dannazione! L'abbiamo passato!

Il volto stupito di Carl s'intromise in un disegno a 3 D che lei stava modificando. Aveva usato il comando a scavalcamene per irrompere dentro il flusso principale della sua persona.

— Sì. Puoi gioire — replicò lei, con calore.

— Come ci sei riuscita?

— Meccanica dei vettori. Niente di così arduo.

— Sei stata meravigliosa! — Lani sedeva accanto a Carl, aveva gli occhi spalancati per la meraviglia, per il fatto di essere ancora viva. Virginia si rese remotamente conto che si erano davvero aspettati di morire.

— Vi avevo detto quali erano le probabilità — disse loro. — Certamente voi…

— Avevamo pensato che stessi solo cercando di farci coraggio! — rise Carl.

— Ho reso i calcoli accessibili, Carl, grande sciocco. — Virginia trasmise un'aerea risatina al seguito di quella frase, riflettendo che se qualcuno avesse effettivamente controllato i calcoli, avrebbe scoperto che lei in realtà aveva dichiarato una probabilità di sopravvivenza di tre contro uno, quando in verità era stata soltanto del cinquantadue per cento. Ma si era sentita sicura che nessuno avrebbe fatto tutti quei calcoli complicati. In trent'anni si erano tutti abituati a fidarsi di lei, proprio come facevano affidamento sui bio-miracoli di Saul.

Lani aveva gli occhi sfavillanti, speranzosi. — Quand'è che possiamo uscir fuori? Voglio coltivare di nuovo qualcosa fuori al Sole.

— Quasi mezz'anno — rispose Virginia, in tono serio. Aveva scoperto che la gente prendeva più seriamente le dichiarazioni se erano venate di vocali più sonore e di qualche tono basso.

— Non importa — dichiarò Carl. — Ne avremo in abbondanza da fare, qui dentro — aggiunse, schiaffeggiando affettuosamente il sedere di Lani.

Virginia sapeva esattamente quello che Carl aveva in mente. Era implicito in tutto il suo profilo psicologico, sì, ma la sua intuizione le diceva di più. Carl si era imbottigliato emotivamente per decenni, e ciò era stato cruciale per la sopravvivenza del nucleo di Halley. Adesso il tempo e le circostanze avevano operato la loro curiosa magia, e lui era libero. Il Carl giovane non avrebbe potuto, e non l'aveva fatto, rispondere alle tranquille qualità di Lani. Questo Carl più stagionato e più saggio poteva farlo, avrebbe dovuto farlo e l'avrebbe fatto.

Da qualche parte nei compattati recessi della memoria organica, si attizzò una punta di umorismo e d'ironia. Sta ottenendo ciò di cui aveva bisogno, anche se non è quello che voleva.

Virginia prese nota di mettere in ciclo Lani per un esame fisico di «routine» entro quaranta giorni.

Quell'aspra tempesta si gonfiò. Malgrado fossero sopravvissuti al peggio, al perielio, un residuo di calore filtrava ancora verso l'interno. Virginia mandò uomini, donne e mech a sigillare le gallerie crollate, intere zone dei pozzi le cui pareti cominciavano a spruzzare e ad evaporare.

Riscaldato nel vuoto il ghiaccio si sublimava direttamente in vapore senza diventare liquido. A mano a mano che la pelle sparpagliata di Halley veniva soffiata via, Virginia diede inizio al grande esperimento. Squadre di mech esperti si avventurarono fuori dalle corrose imboccature dei pozzi. Dispersero lastre di silicati amorfi, granelli di sabbia e sudiciume disseccato, filtrato e compattato durante i molti anni di estrazioni minerarie. Molto rapidamente stesero giganteschi campi di lastre congiunte fra loro, nere come l'ardesia, in punti ben scelti accanto all'equatore di Halley. Erano troppo pesanti perché i sottostanti vapori sublimati le spingessero via, e i mech se ne accertarono due volte piantando saldamente dei cavi al suolo per ancorare le lastre.

L'effetto si manifestò con dolorosa lentezza. Adesso, a causa della rotazione, il giorno su Halley durava soltanto tre ore. Nel momento calcolato con precisione, gli scudi di silicato bloccarono la luce del Sole impedendole di raggiungere il ghiaccio. Sopra quella zona i gas in eruzione diminuirono. Altre aree continuarono ad eruttare, e questa differenza nella spinta, combinandosi sopra la superficie rotante di Halley, cominciò ad alterarne sottilmente l'orbita. Da tempo gli astronomi avevano notato questo «effetto razzo» sulle comete rotanti che esponevano temporaneamente dei campi di polvere, ma era sempre stato un effetto spontaneo e temporaneo. Adesso, veniva prodotto artificialmente.

Virginia dispiegava i propri mech in maniera spietatamente decisa. Alcuni si surriscaldarono e si guastarono, altri vennero schiacciati tra le placche più grandi che ondeggiavano e cozzavano in mezzo alla bufera di gas scatenata dal Sole. A un suo ordine, potevano far inclinare le lastre frontalmente, cosicché l'area protetta riprendeva improvvisamente vita, vomitando pennacchi color ambra. Destramente, risolutamente, Virginia «suonò» una sinfonia dinamica con le forze di quel furibondo uragano che sbatteva i mech e i loro carichi. Per giorni, e poi settimane, convogliò l'oltraggiato vapore di Halley per un nuovo scopo. Spinte disequilibrate si allungarono lungo l'orbita della cometa, una mano che, persistente, li trascinava lungo una nuova orbita.

Quattro mesi al di là del perielio, Virginia aspettò l'inevitabile. Aveva schierato un nuovo dispiegamento di radar a raggi infrarossi e a microonde, concentrati lungo il cono di spazio previsto.

Il primo fu lento e minuscolo, una meraviglia della tecnologia «furtiva». Intravide le ampie pale trasparenti che disperdevano il calore del Sole. Soltanto la sua rete a microonde, a modulazione di fase, che operava a dieci gigahertz, riuscì a captarne la debole ombra. Aveva distribuito i ricevitori su uno spessore estremamente sottile su un'estensione di cento chilometri di spazio. Se il missile fosse stato più veloce, Virginia non sarebbe forse riuscita a integrare in tempo i diversi segnali della sua rete. Così, invece, riuscì a frantumare quell'oggetto dal naso camuso a dieci chilometri di distanza da Halley.

Dietro quel primo oggetto, qualche momento più tardi, arrivò qualcosa di grande e ingombrante, che utilizzava il Sole per mimetizzarsi, sovrapponendosi a uno sfondo fornito da un'azzurra e vibrante macchia solare che era sbocciata soltanto un'ora prima da un grande arco magnetico.

Quando colse anche quello con una raffica del laser, Virginia avvertì un brivido percorrerle la mente. Non si sarebbe mai accorta di quella leggera increspatura rivelatrice di luce ultravioletta che tradiva la testata nucleare in arrivo… soltanto, stava controllando la macchia, come parte del loro programma di ricerca in corso. Jeffers aveva avuto ragione quando aveva insistito perché conservassero i sistemi diagnostici scientifici… continuare a imparare era valsa senz'altro la pena.

Il terzo fu veloce, si avvicinava ad almeno cento chilometri al secondo, e continuava ad accelerare, spinto dalla propulsione foto-jonica. Virginia si chiese per quale motivo avessero lasciato acceso l'acceleratore elettrostatico, dal momento che proprio esso rendeva il proiettile assai più visibile. Gli sparò contro con i lanciatori di recente ripristinati, e durante l'intervallo di due secondi aspettò fiduciosa il segnale dell'avvenuta distruzione.

Non ne arrivò nessuno. E la sua rete a modulazione di fase le disse il perché. Il proietto stava manovrando lateralmente, schivando le raffiche di pallottole di ferro. Era evidente che era in grado di captare il ronzio prodotto dalle microonde dei lanciatori e vedere le pallottole a mano a mano che arrivavano.

Allora Virginia sparò senza indugi con tutti i banchi di laser di cui poteva disporre.

Anch'essi mancarono il colpo. Ma comunque mancavano ormai pochissimi secondi, e lei non aveva neppure il tempo di suonare l'allarme nelle gallerie di Halley.

Disperata, portò il livello della corrente della rete dei gigahertz fino alla potenza d'un megawatt e invertì il sistema da RICEVERE a TRASMETTERE. Quello spiegamento non era mai stato usato in quel modo. Per un breve istante avrebbe potuto inviare un saluto ad una civiltà che si trovasse sul lato opposto della stessa Galassia, se a qualcuno lungo la traiettoria del raggio fosse capitato di guardare. I «piatti» a ragnatela delle antenne potevano sondare lo spazio e mirare con precisione. Virginia sparò un impulso di energia elettromagnetica nel punto preciso che fluttuava nella sua triangolazione panoramica.

Avevano armato di salvaguardie quella testata nucleare. Quando quel tornado elettromagnetico le fu sopra, la mente-chip a bordo attivò gli esplosivi compressi prima che potessero evaporare. L'equivalente di venti megatori di cauterizzante energia a fusione sbocciò nel cielo nero sopra Halley, sollevando un lampo accecante di candida nebbia dal ghiaccio stagionato.

Durante tutta la battaglia Virginia non aveva avvertito nessuno. Gli uomini, le donne, le famiglie avevano continuato a vivere la loro vita, imperturbabili. Soltanto quando quelli che lavoravano in superficie si chiesero cosa fosse stato quell'improvviso fulgore, Virginia chiamò Carl e comunicò la notizia che la loro grande battaglia era cominciata e finita nel tempo da lui impiegato per mettere giù la sua tazza di caffè.

CARL

— Nessun segno di altri missili? — domandò Carl, in preda alla tensione.

— Nessuno — disse Virginia. — Ho esteso la mia ricerca a un'ora-luce tutt'intorno a noi, e non ho trovato niente.

Lani entrò fluttuando nella Centrale. Il suo volto era pallido e tirato. — Ho sentito il tuo annuncio, Virginia. Quanto ci sono andati vicini?

— Come il duca di Wellington disse dopo Waterloo… — La voce di Virginia cambiò, assumendo un pesante e aristocratico accento britannico: — Sì, è stata una cosa dannatamente vicina.

— E ci proveranno di nuovo, se continueremo sulla traiettoria da noi progettata — aggiunse Carl, con calma. — Non tollereranno che usiamo l'incontro con Giove per infilarci stabilmente in un cappio dentro il sistema solare interno. Hanno anni a disposizione per spararci addosso, ricordatevelo. Quando torneremo verso l'interno, ci prenderanno di mira di nuovo. Anche quell'attacco potrà fallire. E quello successivo. Ma alla fine…

— Quegli assassini! — gridò Lani. — Eravamo disposti ad accettare la quarantena, ma questo a loro non è bastato! Soltanto per proteggersi da una qualsivoglia esposizione alle halleyforme, ci uccideranno tutti.

Carl sentì l'inevitabilità di ciò che doveva dire, la fine di tante speranze… — È giunto il momento di guardare in faccia i fatti. Non possiamo far ritorno dal freddo.

Lani corrugò la fronte. — Ma questo significa…

— Proprio così. Dobbiamo scegliere una traiettoria che ci porti verso l'esterno, dopo Giove. È l'unico modo di tenerci lontani dalla portata della Terra.

Virginia chiese: — Credi che sarà abbastanza per far smettere la Terra?

Carl scosse la testa. — Dovremo sperarlo. Tracceremo una traiettoria che ci porti lontano nel sistema solare esterno.

Lani lo fissò, mordendosi le labbra, in silenzio.

— Per qualche motivo — replicò Virginia, lentamente, — credo che non si accontenteranno di niente di meno di un'orbita di partenza.

Lani sgranò gli occhi. — Che cosa? Lasciare completamente il sistema solare?

— Sì, in modo completo e definitivo — ribadì Virginia, con calore. — Soltanto allora si convinceranno che le halleyforme non raggiungeranno mai la Terra.

Carl annuì. — Non varrà più la pena darci la caccia, allora. Troppo costoso, comunque.

— Cosa faremo là fuori? — domandò Lani, incredula.

— Vivremo. Moriremo. — Carl fissava, senza vederlo, lo schermo principale dove i numeri vorticavano. — Dentro la Nube di Oort… — aggiunse, con voce remota. — Dovrebbero esserci triliardi di mondi di ghiaccio, là fuori, grandi come asteroidi. Così era anche Halley, prima che qualche sgomitata, forse a causa di una stella di passaggio, la facesse ruzzolare dentro il sistema solare.

Lani chiese dubbiosa: — E una volta che saremo là? Potremo usarli come risorse?

Carl scrollò le spalle. — Forse. Avremo centinaia d'anni per pensarci, durante il viaggio.

Lani si sistemò su una ragnatela, il volto impassibile. — Saremo tutti morti prima di allora, perfino con la colombarizzazione.

Carl provò una strana, remota rassegnazione. In qualche modo, aveva sempre saputo che non avrebbe mai lasciato quel luogo. Stavano consegnando non soltanto se stessi, ma anche tutte le future generazioni di Halley, alla tenebra esterna, all'ignoto senza confini. Fuggivano dentro l'abisso.

Lani disse: — Suppongo che dobbiamo… progettare quello che possiamo fare, non quello che preferiremmo fare.

La vita è una serie di schiaccianti condanne, una per volta pensò Carl. Sapeva anche che avrebbero potuto farlo, se si fossero semplicemente rifiutati di cedere alla disperazione. Se abbiamo qualcosa per cui vivere.

SAUL

Anno 2141

Una buona metà di Stormfield Park era stata trasformata in asilo-nido. La vecchia ruota centrifuga era stata rinforzata per farla ruotare più in fretta, fornendo un buon decimo di gravità della Terra per aiutare le giovani ossa a crescere robuste. Ciò era duro per qualcuno della generazione più vecchia, ma comunque venivano spesso, finito il lavoro, ad ascoltare quelle voci acute e pigolanti che strillavano, giocavano e ridevano.

Era quello che provava Saul mentre camminava con cautela lungo il sentiero ricurvo rivestito d'erba ai margini del parco-della-ruota, dove gli ologrammi davano l'illusione d'una bassa siepe, con i cieli chiazzati di nubi calde e umide. Lì vicino le mamme e gli addetti all'asilo-nido accudivano la loro folla di rumorosi protetti, osservando i loro giochi, ammirando la bellezza dei loro corpi slanciati e lo sguardo limpido dei loro occhi.

I bambini avevano salvato la colonia di Halley… se non altro per aver rischiarato gli animi di coloro che adesso sapevano che non avrebbero mai più rivisto la Terra, Marte, gli asteroidi, o qualunque altro volto umano che non fosse loro familiare.

Siamo la prima nave stellare si era reso conto Saul, due o tre secoli prima del previsto.

Oh, Halley era ancora legata alla cordicelle del grembiule del vecchio Sole, ma la loro nave-casa era irreversibilmente in rotta verso la nube esterna, dove triliardi di palle di ghiaccio andavano alla deriva nella distesa non tanto vuota fra le stelle. Terreno alieno. Sarebbero vissuti, o morti, a seconda del loro ingegno, e grazie a qualunque cosa avessero portato con loro.

Su quell'argomento Saul aveva appena completato uno studio importante, un inventario del patrimonio genetico disponibile per le prossime generazioni. La questione era importante, giacché poteva significare la differenza fra la sopravvivenza della colonia oppure un lungo, lento declino nella degenerazione e nella morte.

C'è un'abbondante eterozigoticità aveva concluso. Un ampio spaccato dei tipi che popolano la vecchia Terra. Dovrebbe fornire una varietà sufficiente. Specialmente con il tasso di mutazioni che possiamo aspettarci. Il problema più grosso sarà quello di mantenere una popolazione abbastanza numerosa.

In quel momento Halley aveva abbastanza risorse da permettere alla colonia di continuare per un indefinito futuro. Il deuterio estratto dal ghiaccio avrebbe tenuto attive le pile a fusione, adesso ritrasferite fuori in superficie per minimizzare la perdita di calore… fino a quando non fossero riusciti a impadronirsi della capacità tecnica di mettere insieme un generatore alimentato a protoni sulla base di uno dei progetti ricevuti da Phobos. La loro capacità di riciclaggio e di gestione ecologica era già ragguardevole, e sarebbe aumentata.

Se dosati con cautela, i molti triliardi di tonnellate di ghiaccio e d'idrocarburi avrebbero potuto tenere in vita un paio di centinaia di umani per volta, insieme alle loro piante e agli animali, per un centinaio di generazioni e più.

Appena il tempo sufficiente. Giacché, fra un paio di migliaia di anni, la folle velocità della cometa sarebbe enormemente diminuita, quando si fossero avvicinati al nuovo afelio, là fuori dove il Caldo era soltanto la stella più luminosa. E là fuori, che si muovevano lentamente alla deriva, c'erano centinaia di milioni di altri gruppi di materia primordiale rimasta inalterata dai giorni della nascita del sistema solare. Una volta che la loro attuale velocità quasi iperbolica si fosse ridotta a pochi metri al secondo soltanto, avrebbero dovuto esserci abbondanti possibilità di ghermire altre teste di cometa.

Saul si fermò nel punto in cui la siepe che fungeva da guardrail si apriva dando accesso al bordo ricurvo della ruota. Stava ancora pensando alle immagini che Virginia gli aveva mostrato, soltanto pochi minuti prima, nella piccola radura sotto la sua casa da tè… una simulazione di quei giorni, così lontani nel tempo, quando gli uomini e i mech di Halley avrebbero sgomitato la loro stanca, vecchia casa depauperata, scivolando accanto a nuovi, intatti frammenti di ghiaccio nella grande tenebra. Forse ne avrebbero catturati due, tre, o anche di più, per poi separarsi e andare di nuovo alla deriva sulle loro nuove colonie.

E da lì? La simulazione di Virginia non prevedeva limiti. La nube di Oort era immensa, e gli esseri umani erano notoriamente dei colonizzatori.

E la nube di Oort del nostro Sole sfiora gli sciami cometari di altre stelle…

L'immagine che Virginia gli aveva presentato lasciava sgomenti. Lei ragiona già in termini di eoni… mi ci vorrà molto di più per riuscire a pensare in quel suo modo. Il mio stile d'immortalità è diverso. Conserva il senso del Tempo non come se si trattasse di un amico.

Passò accanto a Lani Nguyen-Osborn, seduta su una panchina del parco sotto un acero nano, accudendo al suo figlioletto. La sua bambina più anziana, la piccola Angelique, giocava fra l'erba lì accanto.

Lani sorrise e lo salutò con un cenno della mano. Saul ebbe un largo sogghigno. Avevano parlato soltanto un'ora prima, quand'era andato a trovare Virginia. Era invitato a cena dalla famiglia di Carl più tardi, quella sera. Nel frattempo, c'era ancora del lavoro che lo aspettava.

La panoramica di una città sulla Terra si dissolse quando la sua sezione della ruota si avvicinò al livello del suolo. Attraversò l'interruzione nella siepe di confine e s'immerse nella microgravità delle caverne di Halley, lasciandosi andare alla deriva dentro il soffice strato di sabbia dell'argine frenante. Una nube di particelle si sollevò, quando atterrò, per poi riadagiarsi lentamente al suolo.

Si lanciò verso l'uscita che conduceva al suo laboratorio. La camera d'equilibrio a sfintere, semivivente, lo fece passare attraverso le gallerie con un morbido, umido sospiro.

La ricognizione del patrimonio genetico era stata una notizia molto buona, anche se gli aveva ricordato che né lui, né Virginia vi avrebbero mai contribuito. Tutti i suoi cloni erano sterili, e il corpo fisico di lei da tempo era diventato parte dell'ecosfera.

Forse era meglio così, se era per questo, giacché i suoi cloni sarebbero stati presenti col rinnovarsi delle generazioni. I discendenti di Carl e Lani, e di Jeffers e Marguerite avrebbero mescolato i loro geni, ordinandoli e riordinandoli fino a quando ne sarebbe emersa una nuova specie di umanità. Se anche tutti quei modelli di «Saul Lintz» avessero continuato ad avere bambini nel corso dei secoli, il progresso sarebbe naufragato in un grosso pasticcio.

Che il Cielo non voglia! Rise a quel pensiero. Molto tempo addietro era venuto a patti con l'ironia della sua situazione… l'abile disegno della sua benedizione e della sua maledizione.

Adesso, però, un altro frammento di ricerca lo teneva occupato. Qualcosa di ancora più significativo. Di più sorprendente.

All'estremità di un corridoio poco usato, Saul pronunciò una frase in codice in aramaico, e una porta si aprì con un sibilo.

Sgusciò oltre il grifone guardiano geneticamente progettato, ed entrò nel suo laboratorio privato. Aveva già infilato al suo posto il connettore neurale prima ancora che il suo corpo si fosse del tutto disteso sulla ragnatela.

Programma… Roccia del Tempo… ordinò al suo personal computer. I colori tremolarono e si stabilizzarono.

L'immagine sull'olovasca centrale era della profonda stanza segreta, giù nel cuore del dominio degli strani, dove Suleiman Ould-Harrad aveva incontrato la sua fede, a modo suo. La bara dai quattro corni, scolpita nella pietra, ruotò nell'immagine olografica.

Sulla destra, un altro schermo mostrava un campione astratto da quell'antica roccia: le simmetriche costole fossili tracciavano i contorni della creatura d'un mare impensabilmente antico.

Altri schermi s'incresparono di dati, con primi piani d'immagini al microscopio, con dettagliati profili isotopici.

Da un anno, ormai, Saul si teneva in contatto con gli specialisti della Terra. Una volta che era stato confermato l'inserimento di Halley su una traiettoria quasi iperbolica, sulla Terra l'isterismo era molto scemato. Il senso di colpa e la vergogna trasparivano da quelli che oggigiorno venivano considerati i canali dei notiziari ufficiali. Inoltre, alcuni doni che i coloni avevano trasmesso, avevano contribuito ad approfondire la sensazione che i contatti dovessero venir mantenuti fino a quando il pianeta non si fosse fuso del tutto con il turbinante rumore del Sole e ogni possibilità di conversare tra fratelli non fosse completamente cessata nel sibilo della statica.

Gli scienziati della Terra avevano lavorato a grandi linee.

Quasi cinque miliardi di anni prima, in una delle braccia gassose a spirale, ricche di polvere, che disegnavano il profilo esterno della Via Lattea come tanti sottili raggi roteanti, una giovane, massiccia stella calda aveva infuriato per tutta la sua breve vita, esplodendo nello scoppio titanico d'una supernova. Nel fare questo, aveva disseminato lo spazio vicino di nubi ardenti ricche di elementi pesanti e pesantissimi, dal carbonio all'ossigeno fino all'osmio e al plutonio, il tutto mescolato insieme mentre la gigante azzurra aveva percorso la sua breve ma gloriosa giovinezza. Esclusi idrogeno ed elio, tutti gli elementi che formavano i pianeti, e gli esseri umani, avevano avuto origine in quel modo, da grandi esplosioni di luce e calore primevi.

Questa supernova non soltanto aveva vomitato grandi turbini di materia pesante nello spazio, ma aveva anche creato immani onde d'urto, che avevano compresso la polvere e il gas interstellari, formando turbini e vortici sempre più concentrati.

Un collasso di Jeans, così chiamato dal nome d'un grande astronomo del ventesimo secolo, era stato attivato. Qua e là fra le nubi sottoposte all'urto e arricchite di metalli, dei vortici si erano condensati, appiattiti, formando nuclei ardenti… soli.

E intorno a queste nuove stelle, minuscoli frammenti si erano coagulati, dai corpi rocciosi alle minori distanze, ai grandi mondi gassosi, fino ai lontani, immensi sciami di minuscoli grumi di gas congelato…

Fino ad oggi, tutta la biochimica era stata datata a partire dalla supernova che aveva attivato la formazione del sistema solare. Mai nessuna materia che avesse avuto origine al di fuori di quell'evento era giunta in mani umane. Vale a dire… fino ad ora.

La roccia che Suleiman Ould-Harrad aveva trovato sotto il cuore di Halley non avevano nessuno dei tassi isotopici familiari agli scienziati. Proveniva da un episodio della creazione completamente diverso.

A Joao Quiverian sarebbe piaciuto pensò Saul. Piangeva la morte di quel buon cervello a causa della follia di quei lunghi anni senza speranza.

E anche a Otis Sergeov. Spero che abbiamo imparato la lezione.

I dati finali si srotolarono davanti a lui, la conferma di parecchi anni d'instancabile lavoro e d'ipotesi.

Dimostrato. La pietra proveniva da sedimenti oceanici formatisi molto tempo prima che la Terra avesse cominciato a turbinare ed a formarsi accumulando detriti cosmici. I piccoli animali di cui aveva rintracciato i fossili avevano nuotato nei mari di un mondo non molto diverso dalla Terra, con una chimica anch'essa non molto differente. Ma erano vissuti prima che il Sole fosse anche soltanto una stella ammiccante nei loro deli costellati di nubi.

Saul lesse brani del messaggio giunto dalla Terra.

I danni dovuti alle radiazioni causati ai cristalli che costituiscono la roccia indicano una grande vicinanza all'esplosione. A non più di un quarto di anno-luce di distanza dalla supernova.

Saul prese su quel frammento di pietra, che adesso stava diventando liscio a furia di essere maneggiato. Il pianeta dal quale quella pietra era arrivata doveva aver orbitato intorno a una stella più piccola la quale aveva avuto la sfortuna di trovarsi vicina alla gigante, quando questa era esplosa, riducendola a pezzi e sparpagliandola negli anelli di fumo e gas delle braccia a spirale.

C'erano osservatori, quella notte? si chiese Saul. Poderose intelligenze hanno sollevato lo sguardo sapendo ciò che stava per accadere, cercando di attuare piani frenetici, oppure rimanendo lì a guardare, tranquilli e rassegnati?

Le probabilità erano contro quest'ipotesi. Probabilmente quel pianeta aveva avuto soltanto animali e vegetazione, e la fine era arrivata in fretta, senza nessun preavviso. Ciò non rendeva l'evento meno spaventoso, meno terribile in senso biblico.

Tutte le creature native, dagli animali alle piante, alle piccole forme sulle soglie dell'intelligenza, magari… tutti erano morti proprio nel processo che, in maniera più diretta, aveva condotto all'avventura della stessa Terra.

Che universo… pensò.

Era quasi una questione secondaria, adesso, che ciò aiutasse a spiegare la presenza della vita su Halley. Dapprima quasi incredule, le menti degli scienziati della Terra avevano finito per concludere che quei piccoli frammenti della biosfera del pianeta esploso dovevano essere stati trascinati via dall'onda d'urto, per congelarsi nel freddo dello spazio. Pezzi di roccia, e perfino materia un tempo vivente, avrebbero avuto la funzione di semi ideali intorno ai quali i gas delle frange esterne del nuovo sistema solare potevano coagularsi. Halley, a quanto pareva, si era condensata intorno a un grumo dell'antico pianeta, allo stesso modo con cui le goccioline di pioggia si raccolgono intorno alle particelle di polvere alla deriva nei cieli fecondi della Terra.

Non c'era da stupirsi che le tracce diventassero sempre più ricche quanto più si scendeva in profondità all'interno della cometa. C'era già stata una matrice intorno alla quale i composti prebiotici della nebulosa presolare si erano raccolti durante quei primissimi giorni.

Saul si chiese quante altre comete si fossero formate intorno a simili semi. Non molte immaginò. Noi abbiamo soltanto avuto fortuna, suppongo rifletté ironico.

Oppure le antiche storie di disastri portati dalle comete rispondevano a verità? Era possibile che la Terra fosse stata sempre «rinfrescata» di tanto in tanto, con nuove dosi dell'antica biologia, le quali scendevano galleggiando dentro l'atmosfera tutte le volte che una cometa passava vicina? Ciò avrebbe contribuito a spiegare perché le forme di vita fossero così compatibili. La vita della Terra continuava a incorporare nuovi pezzetti e pezzettini da quel grande magazzino che era lo spazio profondo.

In un certo senso, l'antico pianeta distrutto viveva ancora. I frammenti del codice organico preantico galleggiavano dentro ognuno di loro, e specialmente nei coloni di Halley. Dopo la morte e le paure dei primi giorni, era ironico che sui tempi lunghi risultasse un beneficio, contribuendo alla diversità di cui avrebbero avuto bisogno nei secoli futuri.

Forse la gente di Halley non era più neppure «umana», non nel senso classico della parola. Non alla maniera con cui si stavano sviluppando i terrestri, preparandosi alla loro propria esplosione nella Galassia.

Loro raggiungeranno le stelle. Balzando da un puntino luminoso all'altro, soggiornando giù, dove la gravità incurva strettamente lo spazio e il Sole cuoce i mondi pesanti rocciosi.

Noi, d'altro canto, viaggeremo più lentamente. Ma noi avremo il vero universo… gli spazi in mezzo.

Ricordando la simulazione che Virginia gli aveva fatto vedere, Saul sorrise.

Percepì nel connettore neurale il lieve sfioramento d'una presenza. Stai origliando di nuovo, tesoro? proiettò.

Sì, amor mio. Tanto vale che ti abitui. Siamo insieme in questo, per un lungo periodo.

Sì. Sorrise. Giacché, quando quel corpo che indossava fosse scomparso da tempo, i suoi ricordi avrebbero cavalcato un altro clone… continuando ad amare Virginia. L'Ebreo Errante e la Signora della Macchina… sarebbero stati una risorsa per la gente, servendoli fino a quando qualcuno li avesse voluti intorno.

L'immortalità è servizio pensò.

Si strinsero l'uno all'altra nelle fredde braccia elettroniche. Ed entrambi immaginarono di sentire, debole e spettrale in distanza, una bassa risata di conferma.

VIRGINIA

Lani fece rimbalzare il bambino sulle ginocchia, provocando uno strillo di terrore e di delizia. Carl fissò raggiante quella coppia giuliva e continuò a pompare metodicamente alla sua macchina per gli esercizi. Dovevano passare metà del loro tempo nella ruota-G per mantenere i normali livelli di crescita del calcio nei bambini. Un decimo di G era pesante, ma non imponeva nessuna vera fatica.

— Vuoi visitare la zia Ginnie? — chiese Lani alla sorella più anziana del bambino, che annuì con un pollice in bocca.

Un tremolio comparve, sospeso nell'aria. Poi un'abbronzata Virginia ne uscì fuori, agitando la mano in segno di saluto. — Ciao, marameo… il surf è finito. V'interessa?

La piccola Angelique scoppiò a ridere, e il fratellino strillò di gioia. Il secondo parto di Lani era stato, secondo le parole di Saul, «noiosamente normale». Entrambi i bambini parevano metter su peso sotto gli occhi di Virginia; ne accumulavano sempre più ogni giorno e mangiavano come tempeste di fuoco.

Carl indicò con un gesto la selva verdeggiante di Stormfield Park in basso, sotto la ruota. — Pensi che riusciremo mai a infilare un lago qui dentro?

— E poi crearci sopra delle onde? — chiese Lani, in tono furbesco.

Carl annuì. — È probabile che Angelique vorrà copiare sua zia.

— Su, adesso — replicò Lani. — Ci sono pur sempre alcune cose che non possiamo realizzare, sai.

Carl sogghignò. — Vuoi scommettere?

Virginia ricordava la caduta dentro il pozzo gravitazionale di Giove. Era stato un periodo di tensione e di rimorso.

Il modo in cui aveva modellato i venti del materiale sublimato aveva inclinato l'orbita di Halley, aggiungendo velocità. La divergenza dalla loro traiettoria originaria si era ampliata costantemente a mano a mano che i lanciatori martellavano interminabilmente. In termini astronomici, si era trattato d'una deviazione di poco conto. Ma per loro era stata cruciale.

Erano arrivati alle spalle di Giove, sulla sua immensa orbita planetaria, non sul davanti. Erano sfrecciati attraverso il nevischio protonico delle colossali cinture magnetiche, avevano visto la faccia chiazzata di Io scagliare contro di loro i suoi foschi saluti vulcanici.

Passando dietro a quel mondo gigantesco, non era stata sottratta velocità ad Halley, ma al contrario ne era stata aggiunta. Invece di descrivere un arco che l'avrebbe riportata dentro la parte interna del sistema solare, la testa della cometa aveva accelerato ancora di più, schizzando verso l'esterno, lontano dal Sole. Adesso il gigante avvampante se ne stava acquattato dietro quella particella che fuggiva frettolosa. I suoi raggi e la sua attrazione diventavano ogni giorno più fievoli.

Quando si erano allontanati dall'inanellato Giove, Virginia aveva studiato con attenzione le facce dei membri dell'equipaggio che stavano osservando gli schermi. Si erano guardati l'un l'altro, rendendosi conto dell'enormità di ciò che stavano per affrontare.

Adesso, molti anni più tardi, la cupa rassegnazione di quei giorni si era stemperata. Ci sarebbero voluti parecchi secoli prima che raggiungessero il regno davvero ricco, dove i mondi di ghiaccio si ammassavano in grandi aloni simili a sciami di api. Immense distanze li separavano, ma nello spazio interstellare viaggi come quelli richiedevano poca energia.

Quelle remote palle di ghiaccio li chiamavano, fresche riserve di metalli e di sostanze volatili. Ci sarebbe stata una generazione successiva, e un'altra ancora. Meritavano quelle risorse; meritavano occasioni, speranze.

Carl, Lani, in realtà tutti loro, erano colti nella spirale della lenta diminuzione.

Saul, tuttavia, avrebbe forse potuto durare per sempre, a meno che qualche incidente non lo rivendicasse a sé. E anche se fosse morto, ci sarebbero stati i suoi cloni. Avrebbero sempre avuto un Saul.

Rabbia, frustrazione, disperazione: era arrivata a conoscerle come illuminazioni temporanee dell'anima individuale, lampi in un buio perenne. Gli esseri umani avevano un tempo di reazione che si era evoluto dalla necessità di cimentarsi, combattere, nutrirsi, fuggire. Non erano più condizionati dal lento oscillare dei mondi, più di quanto non lo fosse un'effimera dall'Impero Romano.

L'equipaggio di Halley si era abituato al proprio destino e lentamente, in maniera impercettibile, ognuno di quegli uomini e donne si era abituato a se stesso, ritraendosi nel proprio buco e nel proprio angolino umanocentrico. A Virginia piaceva affacciarsi alla loro scala temporale, osservare Angelique che cresceva a guizzi sorprendenti. A mano a mano che aumentava la fiducia nella nuova tecnica, altri erano andati ad aggiungersi al primo bambino, giocando in gallerie e pozzi virtualmente sgombri da halleyforme pericolose.

A mano a mano che Halley rallentava inerpicandosi fuori dal basso truogolo inclinato del pozzo gravitazionale del Sole, Virginia aveva distolto la sua attenzione dalla scienza, anche se continuava a raccogliere dati, a formulare teorie, a discutere con Saul e gli altri, movendosi verso questioni di portata maggiore.

Come un tempo aveva fatto Cartesio, anche lei si trovò costretta a farlo. Si chiedeva cosa avrebbe potuto dedurre dai princìpi di base. Cogito, ergo sum? Ma chi era l'Io che aveva fatto questa affermazione?

Per usare il gergo della scienza, lei era un nuovo phylum, non più un vertebrato, ma biocibernetico. Lei era un matrimonio fra l'organico e l'elettronico, con un tocco di consapevolezza sapiente. Secondo una definizione rigorosa, un phylum avrebbe dovuto emergere dall'evoluzione tramite la selezione sessuale e la speciazione dei geni. Ma una volta comparsa l'intelligenza, quel processo lungo eoni diveniva fuori moda. Un nuovo phylum poteva emergere e svilupparsi per progettazione.

La Virginia che adesso risiedeva nelle sinapsi raffreddate e nei dispiegamenti olografici non era più strettamente umana. Però aveva ancora una miriade d'impronte e difetti, sfaccettature e pecche umane. Non poteva ignorare le contrarietà di Saul e Carl e Jeffers e Lani più di quanto non poteva dimenticare la propria giovinezza e il rude affetto di suo padre.

Eppure era di più. La gioia che provavano Carl e Lani le faceva sentire un'occasionale fitta di dolore; e la malinconica nostalgia di Saul per il suo corpo fisico era un'autentica afflizione. Ma malgrado capisse e sentisse tutto questo, arrivava a vederlo come una sottosezione dei problemi molto più grandi che adesso si trovava ad affrontare. Quella gente fragile era legata al vero scorrere della vita che le leggi della selezione naturale avevano decretato, la loro morte era scritta nelle loro ossa. Perfino Saul, il suo compagno nell'immortalità, cavalcava la marea ormonica. Essi sentivano profondamente i problemi inerenti alla morte e vi riflettevano sopra.

Nella nube di Oort orbitavano sotto lo splendore delle stelle fisse un trilione di nuclei cometari, più territorio di quanto ne fosse mai stato promesso ad una qualsiasi banda di straccioni erranti. I coloni avrebbero avuto Carl come il loro Giosué, un'ironia che indubbiamente era già venuta in mente a Saul, e sarebbe stato lui a condurli innanzi.

Ma anche se Virginia li avesse aiutati a badare ai loro bisogni meglio che poteva, essa aveva anche il proprio unico destino come la prima d'una nuova specie.

Se lei rappresentava un nuovo phylum, la prima legge doveva essere la sopravvivenza. Era per questo che adesso considerava l'attacco dalla Terra come un risultato fortunato e non voluto della stupidità dell'umanità. La Terra avrebbe potuto averla, avrebbe potuto vincere le proprie paure e accogliere il nuovo phylum. Ma adesso lei era imbarcata su un nuovo corso, un corso che alla fine sarebbe andato a suo vantaggio.

Aveva bisogno di tempo per pensare. Per esplorare.

La vecchia specie dell'Homo Sapiens sulla Terra si sarebbe inevitabilmente diffusa, prima dentro il sistema solare, poi forse oltre. Avevano già mostrato la loro ostilità alle stranezze racchiuse nei mondi di ghiaccio. Ci sarebbero voluti secoli prima che i loro timori si acquietassero.

Virginia sapeva, anche se il suo bagaglio umano non lo sapeva, che non ci sarebbe mai stato un ritorno al regno del Caldo. Le società umane, una volta sviluppatesi in maniera separata, possono assai di rado incontrarsi di nuovo in termini amichevoli e su un piano di parità. Assai peggio, per due distinti phylum.

La mente, quell'oceano in cui ogni razza trova subito la propria rassomiglianza; eppure crea, trascendendo questo, lontana, su altri mondi, su altri mari.

Aveva tempo per la poesia, per interminabili bizantini sentieri di contemplazione. Le pareva perfino d'intravedere il modo in cui tutto avrebbe dovuto essere, quando avessero raggiunto la grande nube di mondi che li attendeva là fuori.

Adesso, le specie umane avrebbero avuto un destino diviso, fili che avrebbero dovuto progredire un po' lungo percorsi separati. Ci sarebbero stati meno dolori, se si fossero tenuti in disparte.

Valutò la probabile evoluzione della nuova specie dell'Uomo di Carl Osborn, e del proprio phylum, e rimase soddisfatta. La riproduzione, l'adattamento, quei problemi erano immensi, ma lei si sentiva all'altezza della situazione.

E in quanto all'Umanità Planetaria… Stando ai suoi calcoli, il nuovo phylum e la vecchia specie non si sarebbero più incontrati per quattromila anni. Bene. C'era tempo in abbondanza per pensarci.

RINGRAZIAMENTI

Questo romanzo è stato scritto sulla base delle migliori informazioni disponibili all'epoca, sulle comete in generale e sulla cometa di Halley in particolare. È stato creato nella consapevolezza (e speranza) che il successo delle sonde inviate ad incontrare Halley nel 1986 e le osservazioni internazionali condotte su questa cometa moltiplichino enormemente le nostre conoscenze su questi affascinanti residui della creazione. Se dovesse risultare che alcune di queste nuove informazioni possono invalidare qualche premessa della nostra storia, speriamo che il lettore almeno ci accrediti il coraggio di averla scritta. Sentivamo di dover raccontare questa storia adesso, per onorare un inviato interplanetario le cui visite sono così ben sincronizzate da avvenire una singola volta nella vita di un uomo.

Gli autori desiderano ringraziare quegli esperti che hanno loro prestato assistenza, compresi i professori Mike Gaffey, John Lewis, John Cramer, Bert King, e Karl Johannson, come pure il dottor Ray Newburn del JPL e il dottor Eric Jones dei Los Alamos Lbs.

Il dottor Donald Yeomans del JPL e il dottor Neal Hulkower del TRW Inc. ci hanno aiutato nei problemi della meccanica orbitale. Vorremmo inoltre ringraziare Anita Everson, Joan Abbe, Sue Roberts, Dan Spadoni, Nancy Grace, William Lomax, Bonnie Graham, e Diane Brizolara. Karen e Poul Anderson e Astrid e Greg Bear sono stati ugualmente molto cortesi nei nostri confronti.

Louis d'Amaria e Dennis Byrnes del Jet Propulsion Laboratory hanno contribuito a smuovere la trama con i loro meravigliosi calcoli sugli incontri planetari. A ciascuno di loro andranno una cena e una bottiglia.

E come sempre, Lou Aronica della Bantam Books è stato comprensivo delle necessità di autori che stavano sgobbando pungolati da scadenze «astronomiche».

Saremo molte cose, nel futuro. Ma non cesserà mai di esserci bisogno di coraggio.

David Brin e Gregory Benford

settembre 1985

FINE