Perduta in uno spazio brulicante di stelle, sola in una nera giungla di vuoto cosmico, la Terra ha sognato per migliaia d'anni la propria solitudine. Come in una grande casa abitata da vecchi abitudinari, nella quale nessuno viene mai a rendere visita, così gli abitanti della Terra pensano che nessuno possa venirli a trovare da quel nero abisso scintillante di punti luminosi che splende sopra le nostre teste, di notte.

Come la Luna è stata una fedele compagna della Terra nella sua solitudine celeste, così le stelle sono state soltanto immagini remote, indistinte, piccole fiamme sospese nel cielo, inaccessibili e straniere e incorporee. Ma un giorno qualche viaggiatore, lasciando la strada lontana, potrebbe venire a bussare alla porta della vecchia casa; un giorno qualcosa potrebbe avvicinarsi, strisciando, nella giungla nera degli spazi cosmici. Quel giorno potrebbe essere vicino, in un cosmo dove le forze del tempo e del caso si muovono secondo schemi che la mente umana non riesce neppure a intuire. E cosa accadrebbe, se uno dei punti luminosi nel cielo… una delle stelle lontane… apparisse d'un tratto enorme, come un globo sanguigno e minaccioso, nei cieli notturni della Terra? Se la fedele compagna delnostro pianeta, la Luna, fosse risucchiata e cancellata dal cielo? Inizierebbe allora una lunga, infinita notte di novilunio. Un grande cielo color ardesia, dove le stelle brillano rade e fievoli, sopra coste battute da gigantesche maree, tra grandi cataclismi ed eventi ancor più bizzarri, una notte di novilunio che opera strani prodigi sulla mente e sul cuore degli uomini, facendo emergere tutto ciò che di migliore, e di peggiore, di nobile, e di volgare, costituisce l'essenza della natura umana. In questa notte di novilunio, forse il genere umano comincerebbe a conoscere se stesso…

Vincitore del premio Hugo per il miglior romanzo in 1965.

Fritz Leiber

Novilunio

«Che ne pensate di una galleria nell'iperspazio?»

«Forse… si tratta di una possibilità concreta.»

Un attimo prima, lo spazio era vuoto; nell'istante successivo, esso era brulicante d'incrociatori da guerra…

Pianeti. Sette pianeti, armati e forniti delle risorse che solo un pianeta poteva possedere.

Edward E. Smith: «Second Stage Lensmen»

Tyger, tyger; burning bright
In the forests of the night,
What immortai hand or eye
Could frame thy fearful symmetry?
In what distant deeps of skies
Burnt the fire of thine eyes?…
In what furnace was thy brain?…

WILLIAM BLAKE

Poi vidi quand'ebbe aperto il sesto sigillo: e si fece un gran terremoto; e il sole divenne nero come un cilicio di crine, e tutta la luna diventò come sangue.

E le stelle del cielo caddero sulla terra come quando un fico scosso da un gran vento lascia cadere i suoi fichi immaturi.

E il cielo si ritrasse come una pergamena che si arrotola; e ogni montagna e ogni isola fu rimossa dal suo luogo…

Poi suonò il terzo angelo, e cadde dal cielo una grande stella, ardente come una torcia; e cadde sulla terza parte dei fiumi e sulle fonti delle acque.

Apocalisse di S. Giovanni

Il volo interstellare vero e proprio venne raggiunto per la prima volta rimuovendo un pianeta dalla sua orbita naturale, grazie a una serie d'impulsi forniti da razzi, con un'opportuna scelta di tempo e con un accurato calcolo della potenza necessaria, per proiettare la massa planetaria nello spazio esterno, a una velocità assai superiore alle normali velocità planetarie e stellari…

A questo evento seguì un'era di guerre quali mai la nostra galassia aveva conosciuto. Grandi flotte di pianeti, naturali e artificiali, manovrarono tra le costellazioni, per annientarsi a vicenda, distruggendosi con fasci di raggi sub-atomici proiettati a distanze immense. Man mano che le onde della battaglia si propagarono nello spazio siderale, interi sistemi planetari vennero totalmente distrutti.

Olaf Stapledon: «The Stars Maker»

CAPITOLO I

Molte storie del terrore e del soprannaturale cominciano con un volto rischiarato dai raggi della luna che sogghigna dietro una finestra di cristallo, o con un antico documento vergato in una calligrafia minuta e precisa, o con l'ululare di un mastino nelle brughiere solitarie. Ma questa storia cominciò con un'eclissi di luna, e con quattro scintillanti fotografie astronomiche recentissime, ognuna delle quali mostrava grandi campi stellari e oggetti planetari. Solo che… era successo qualcosa alle stelle.

La prima fotografia era uscita dal laboratorio di sviluppo solo sette giorni prima della notte dell'eclissi. Le fotografie provenivano da tre diversi osservatori astronomici, e la quarta addirittura era stata presa dal telescopio situato a bordo di un satellite artificiale. Erano il trionfo della più pura scienza, all'estremità opposta di qualsivoglia superstizione, eppure ognuna diede un brivido di disagio al giovane scienziato che le vide per primo.

Quando egli cercò i punticini neri che avrebbero dovuto esserci… e quando vide le ombre debolissime che non avrebbero dovuto esserci… provò un'istintiva, vaga sensazione di disagio, una remota vibrazione di quel senso dell'ignoto che alberga in ciascuno di noi, e che per un istante lo avvicinò all'uomo delle caverne, all'adoratore dei demoni, e al villico del Medio Evo ossessionato dal terrore delle streghe.

Attraverso canali privilegiati, con priorità assoluta, le quattro fotografie giunsero al Comando Settoriale di Los Angeles del Progetto Luna dell'Astronautica degli Stati Uniti… quel Progetto Luna americano che teneva a stento il passo di quello sovietico, ed era enormemente distanziato dal Progetto Marte dei russi. E così, negli ambienti responsabili del progetto Luna degli Stati Uniti, il senso di disagio e l'inquietudine per l'ignoto furono ancora più forti, benché venissero espressi sotto forma di risate sardoniche e di fantasiose battute di spirito dettate da un vago nervosismo, come spesso capita agli scienziati posti di fronte al soprannaturale e all'inesplicabile.

Alla fine, le quattro fotografie… o piuttosto, ciò che esse preannunciavano… ebbero un influsso immenso su ogni essere umano della Terra, su ogni atomo del nostro pianeta. Esse aprirono delle crepe profonde nell'animo umano.

Costarono a migliaia di persone la ragione, e a milioni di esseri umani la vita. E fecero qualcosa anche alla Luna.

Così, noi possiamo iniziare questa storia dove vogliamo… prendendo Wolf Loner in mezzo all'Atlantico, o Fritz Scher in Germania, o Richard Hillary nel Somerset, o Arab Jones che fuma «erba» ad Harlem, o Barbara Katz che si aggira per Palm Beach in «mini» nero, o Sally Harris a caccia di nuove sensazioni nei dintorni di New York, o «Doc» Brecht che vende pianoforti a Los Angeles, o Charlie Fulby che tiene conferenze sui dischi volanti, o il generale Spike Stevens che s'accinge a usurpare il comando dell'Astronautica americana, o Rama Joan Huntington che interpreta il buddismo, o Bagong Bung nel sud del Mare della Cina, o Don Merriam nella Base Lunare degli Stati Uniti, o perfino Tigran Biryuzov, in orbita intorno a Marte. Oppure potremmo cominciare da Tigerishka, o da Miao, o da Ragnarok, o dal Presidente degli Stati Uniti.

Ma poiché erano vicini a quel primo centro di disagio, vicino a Los Angeles, e per la parte cruciale che avrebbero poi avuto nella storia, cominceremo da Paul Hagbolt, un pubblicista alle dipendenze del Progetto Luna; e da Margo Gelhorn, fidanzata di uno dei quattro giovani americani che avevano raggiunto la Base Lunare degli Stati Uniti, e dalla gatta di Margo, Miao, che aveva un singolarissimo viaggio davanti a sé; e dalle quattro fotografie, benché allora esse fossero soltanto un mistero segretissimo e bizzarro, piuttosto che una squillante, incombente minaccia; e dalla Luna, che stava per scivolare nell'oscurità ambigua e livida di bagliori appena intuibili dell'eclissi.

Margo Gelhorn, uscendo nel prato, vide la luna piena sospesa alta sull'orizzonte. Il satellite della Terra era vividamente tridimensionale, come se fosse stato un pallone da pallacanestro fatto di marmo variegato e chiazzato. Il suo pallido alone dorato era degno della rarità meteorologica di una profumata, limpida sera della Costa del Pacifico.

«È già alzata, quella cagna,» disse Margo.

Paul Hagbolt, che stava uscendo dalla porta alle sue spalle, fece una risata colma di disagio.

«Allora è proprio vero. Tu consideri la Luna una rivale.»

«Rivale… all'inferno! Lei si è presa Don,» disse in tono aspro la giovane donna bionda. «Ed è perfino riuscita a ipnotizzare Miao… guardala!» Stava tenendo in braccio una placida gattina grigia, i cui occhi verdi trattenevano la luna come due minuscole perle scintillanti.

Anche Paul sollevò il capo per guardare la Luna, o, più precisamente, un punto vicino alla sommità, sopra la macchia più scura del Mare delle Piogge. Non riuscì a distinguere il cratere Piatone, che conteneva la Base Lunare degli Stati Uniti, ma sapeva che esso era visibile.

Margo disse, in tono amaro:

«È già abbastanza brutto dover guardare lassù, e vedere quella mostruosità sepolcrale, sapendo che Don è lassù, esposto a tutti i pericoli di un pianeta sepolcrale. Ma adesso che dobbiamo pensare anche a quell'altra cosa che è apparsa nelle fotografie astronomiche…»

«Margo!» disse seccamente Paul, lanciando quasi automaticamente un'occhiata intorno. «La notizia è ancora rigorosamente riservata. Non dovremmo parlarne… non qui.»

«Il Progetto ti sta trasformando in una vecchia zia! Inoltre, non mi hai detto nulla di più di un vago indizio…»

«A pensarci, non avrei dovuto darti neppure questo indizio…»

«Be', allora, di che cosa dobbiamo parlare?»

Paul sospirò.

«Senti,» disse. «Credevo che fossimo usciti per assistere all'eclissi, e magari per fare una passeggiata in macchina…»

«Oh, avevo dimenticato l'eclissi! La Luna si è fatta un po' nebulosa, non trovi? È già cominciata?»

«Mi sembra,» disse Paul. «È il momento del primo contatto.»

«Cosa farà l'eclissi a Don?»

«Niente di preoccupante. Lassù si farà buio per un po'. È tutto. Oh, sì, e la temperatura, all'esterno della Base Lunare, scenderà di 250 gradi, o giù di lì.»

«Un soffio dalla settima bolgia dell'Inferno e lui dice, 'È tutto'!»

«Non è brutto come sembra a dirlo. Vedi, la temperatura iniziale sarà già di circa 150 gradi sopra lo zero,» spiegò Paul.

«Un'ondata di gelo sibcriano nel bel mezzo di un calore sahariano, e lui dice, 'sciocchezze'! E quando penso a quell'altro orrore sconosciuto che striscia verso la Luna, dalle profondità dello spazio esterno…»

«Piantala, Margo!» Il sorriso lasciò il volto di Paul. «Tu stai parlando di fantasticherie nate nel bel mezzo di un volo della tua immaginazione.»

«Immaginazione? Mi hai detto o non mi hai detto che quattro fotografie stellari hanno mostrato…»

«Io non ti ho detto niente… niente che tu non abbia completamente frainteso. No, Margo, rifiuto di dire una sola parola di più su questo argomento. Né voglio ascoltare le tue elucubrazioni. Rientriamo in casa.»

«In casa? Sapendo che Don è lassù? Io ho intenzione di vedere questa eclissi dall'inizio alla fine… magari dalla strada costiera, se durerà a sufficienza.»

«In questo caso,» disse Paul, con calma, «Farai meglio a prendere qualcosa di più pesante del tuo giacchettino. Lo so che adesso sembra caldo, ma le notti californiane sono ingannevoli.»

«Perché, le notti sulla Luna non lo sono, forse? Ecco, reggimi tu Miao.»

«Perché? Se credi che io possa dare un passaggio a un gatto libero…»

«Perché questa giacca è troppo calda! Bene, prendila e ridammi Miao. Perché non devi far salire in macchina un gatto? Sono persone, proprio come noi. Non è così, Miao?»

«Non sono persone. Sono soltanto dei bellissimi animali.»

«Sono persone. Perfino il tuo divino Heinlein ammette che essi sono cittadini di seconda classe, buoni quanto gli aborigeni o i feddayn.»

«Me ne infischio della parte teorica, Margo. Semplicemente, rifiuto di far salire a bordo delia mia decapottabile, con la capote abbassata, un gatto in libertà.»

«Miao non è nervosa. È una ragazza.»

«Le femmine sono calme, per caso? Guardati allo specchio!»

«Allora non la prendi a bordo?»

«No.»

A circa un quarto di milione di miglia dalla Terra, in direzione delle stelle, la Luna si andava trasformando, da un colore spettrale dorato al pallido bronzo, mentre lentamente costeggiava i bordi dell'ombra del globo più grande. Sole, Terra e Luna si stavano allineando nel cosmo. Era la decimiliardesima eclissi della Luna, milione più, milione meno. Nulla di straordinario, in realtà, eppure sotto la velata coltre atmosferica della Terra centinaia di migliaia di persone stavano già assistendo allo spettacolo, dalla faccia notturna del pianeta, che ora si stendeva attraverso l'Atlantico e le Americhe, dal Mare del Nord alla California, e dal Ghana all'Isola di Pitcairn.

Gli altri pianeti erano quasi tutti dall'altra parte del Sole, lontani come persone all'estremità opposta di una grande casa.

Le stelle erano occhi e scintille di ghiaccio e brina, occhi senza dimensioni, nelle tenebre, lontane come case dalle finestre illuminate, sull'altra riva dell'oceano.

La coppia Terra-Luna, vicina nello splendore della fornace solare, era quasi sola in una nera foresta larga venti milioni di milioni di miglia. Una stuazione ove la solitudine era quasi spaventosa, terrificante, specialmente se si immaginava che qualcosa di totalmente ignoto si stesse muovendo in quella foresta, avvicinandosi strisciando, facendo tremolare la fredda luce dello spazio siderale.

Lontano, nel cuore nel Nord Atlantico, uno spruzzo di acqua nera negli occhi destò Wolf Loner da un raggelante incubo di terrore, in tempo per vedere l'ultima finestra dai contorni spezzati, alta nel nero banco di nubi che si andava addensando a occidente, chiudersi e nascondere la luna ramata. Sapeva che era l'eclissi a rendere fumoso il globo lontano, eppure, nell'ultimo riverbero dei suoi incubi, la Luna pareva chiamare aiuto da un edificio in fiamme… Diana in pericolo. Le nere onde silenziose e il vento sul curvo tamburo teso della vela, presto, rollando e beccheggiando e gracchiando, cancellarono anche l'ultimo ricordo dell'inquietante visione.

«La ragione è ritmo,» disse ad alta voce Wolf Loner, senza rivolgersi ad alcuno, nel raggio di cinque miglia o, per quello che lui sapeva, duecento… essendo quest'ultima la distanza che, secondo i suoi calcoli, doveva separarlo da Boston, nel corso della sua traversata solitaria verso oriente, iniziata a Bristol.

Controllò la posizione della vela, e la solidità delle sartie, poi si calò, mettendo avanti i piedi, nella cabina spaziosa come una bara scomoda, per schiacciare un pisolino più caldo e più lungo.

Tremila miglia a sud della piatta imbarcazione del navigatore solitario, il transatlantico di lusso Principe Carlo sfrecciava come un gabbiano in un gran cielo d'acqua verso Georgetown e le Antille, attraverso una nebbia invisibile di onde radio convergenti. Nella cupola panoramica ad aria condizionata, opportunatamente oscurata, alcune persone anziane, che sbadigliavano per l'ora tarda… era passata mezzanotte… assistevano all'eclissi, e alcune coppie giovani approfittavano dell'oscurità, mentre dal salone delle feste della nave venivano attutite le potenti venature wagneriane del neo-jazz, come tuono lontano. Il capitano Sithwise ricontrollava il numero di noti fascisti brasiliani, del nuovo tipo imprevedibile, sulla lista dei passeggeri, e immaginava che fosse in programma una rivoluzione.

A Coney Island, nella fitta ombra della nuova banchina, Sally Harris, con le mani intrecciate dietro la nuca, sotto lo splendore della sua esplosiva acconciatura, rimase immobile, apparentemente divertita, mentre Jake Lesher armeggiava tirando lateralmente l'elastico del reggiseno, attraverso la nera stoffa sericea della blusa Misura 8 della ragazza.

«Divertiti,» gli disse, «Ma ricorda che assisteremo all'eclissi all'ultimo piano del Missile di Dieci Piani. Dieci piani, uno sull'altro.»

«Accidenti, chi vuole vedere una luna che è malata, malata, malata,» rispose Jake, con voce un po' ansante. «Sal, dove diavolo sono i ganci e le asole?»

«Nel posteriore di tua nonna,» lo informò la ragazza, e fece scorrere pollice e indice dalle unghie smaltate in argento nella scollatura a V a chiusura automatica della blusa. «Il dispositivo di apertura rapida magnetica è a prua, non a poppa, marinaio della Seconda Avenue che non sei altro!» gli disse, e mosse rapidamente le dita, con abilità. «Ecco! Vedi perché lo chiamano il Reggiseno che Scompare?»

«Cristo!» disse lui, «Sbocciano come per magia… e che spettacolo! Sembrano focacce appena sfornate! Oh, Sa…»

«Divertiti,» gli disse lei freddamente, arricciando il naso, «Ma ricordati che non riuscirai a farmi rinunciare all'idea di stanotte. E per favore tratta con rispetto le prelibate vivande.»

Don Guillermo Walker, socchiudendo gli occhi e cercando di penetrare la fitta giungla di nubi nere del Nicaragua, per scorgere lo scintillio d'inchiostro del Lago Managua, decise che bombardare la roccaforte del presidente nella protezione delle tenebre dell'eclissi era stata un'idea puramente teatrale, una improvvisazione da terzo atto dettata dalla disperazione, come quella di presentare Giovanna nuda sotto un impalpabile negligée nella Decisione d'Algiers, che non aveva salvato quella tragedia da un destino ignominioso.

L'eclissi non produceva un buio così fitto, aveva scoperto, e i tre cacciabombardieri del presidente avrebbero potuto avvistare e abbattere il suo vecchio Seabee in pochi secondi, ponendo la parola fine alla Rivoluzione dei Migliori, o per lo meno al contributo che a essa poteva dare l'autonominato discendente diretto del primo William Walker che, intorno al 1850, aveva esercitato l'onorevole professione del filibustiere nel Nicaragua. Era come una notte di novilunio, le stelle erano chiare, sopra le nubi… e l'idea appariva dannatamente disperata.

Se lui riusciva a lanciarsi dalla carlinga, sarebbe stato preso prigioniero. Non pensava di poter sopportare i loro sistemi di ricerca, se non trasformandosi in un bambino di tre anni.

Troppa luce, troppa luce! «Tu sei una sporca, tipica istriona d'avanspettacolo!» gridò Don Guillermo alla luna ramata. «Non sai neppure cosa voglia dire cancellarti!»

A duemila miglia da Wolf Loner e dal suo banco di nubi, in direzione est, Dai Davies, poeta gallese, vigoroso e sbronzo, agitò le braccia in segno di saluto, da un punto vicino alla cupa massa torreggiante della Centrale di Energia Marina Sperimentale della Severn, rivolgendosi alla fosca Luna che affondava nel cielo sereno del Canale di Bristol, al di là della Punta di Portishead, mentre il chiarore sempre più diffuso dell'aurora cancellava lentamente le stelle, alle sue spalle.

«Dormi bene, Cenerentola,» chiamò. «Adesso puoi lavarti il viso, ma ritorna, ti prego.»

Richard Hillary, romanziere inglese, nauseato e lucido, osservò in tono ironico:

«Dai, lo dici come se temessi che lei non tornasse.»

«Per ogni cosa c'è una prima volta, Rickybach,» gli disse in tono cupo Dai. «Non ci preoccupiamo abbastanza della Luna.»

«E tu ti preoccupi troppo di lei,» ribatté freddamente Richard. «Leggendo una massa vomitevole di fantascienza.»

«Ah, la fantascienza è il mio cibo e la mia bevanda… be', insomma, per lo meno è il mio cibo. Vomitevole, dici… forse stavi pensando alla dragonessa Errore che vomita libri, nella Regina delle Fate, immaginando che essa, dopo tutto l'odio stantio di Spenser, rigetti ora le opere complete di H.G. Wells, Arthur C. Clarke, ed Edgar Rice Burroughs,»

La voce di Hillary si fece glaciale.

«La fantascienza è volgare come tutte le forme artistiche che si occupano di fenomeni, invece che di persone. Dovresti saperlo anche tu, Dai. I gallesi non sono di cuore caldo?»

«Freddi come pesci,» replicò con orgoglio il poeta. «Freddi come la stessa Luna, che è un potere assai più grande, sulla vita, di quanto voi anglo-normanni sacrileghi, sentimentali, avvezzi alle taverne e infatuati di umanesimo e degenerati possiate mai immaginare.» Con un ampio gesto del braccio, indicò la Centrale. «Energia da Mona.»

«David!» esplose il romanziere. «Tu sai benissimo che questo giocattolo per trarre energia dalle maree è semplicemente un trucchetto per ammansire gente come me, che è contro l'energia atomica per le sue applicazioni belliche. E per favore, non chiamare le Luna Mona… si tratta di etimologia popolare. Mona può essere un'isola gallese, se proprio vuoi… Anglesey… ma non un pianeta gallese!»

Dai si strinse nelle spalle, guardando a oriente, in direzione del disco lunare fievole, che ormai svaniva.

«Per me Mona è la parola giusta, ed è questo che conta. Tutta la cultura è semplicemente un trucchetto per ammansire un'umanità bambina. E in ogni caso,» aggiunse, con una smorfia ironica, «Ora ci sono degli uomini sulla Luna.»

«Sì,» ammise freddamente Hillary. «Quattro americani, e un numero imprecisato, ma certamente ridotto, di sovietici. Dovremmo aver curato, invece, la povertà del genere umano, e le sofferenze dei nostri simili, prima di sprecare miliardi nello spazio.»

«Però su Mona ci sono degli uomini lo stesso… uomini sulla via dello spazio siderale, verso le stelle.»

«Quattro americani. Io rispetto di più quel Wolf Loner della Nuova Inghilterra che è partito da Bristol il mese scorso, a bordo della sua imbarcazione, per una traversata solitaria. Per lo meno, lui non sfruttava le ricchezze del mondo, per il suo capriccio avventuroso.»

Dai sorrise, senza distogliere lo sguardo dall'orizzonte occidentale.

«Accidenti a Loner, quell'anacronismo yankee! Probabilmente, è già affogato, e i pesci se lo sono mangiato. Ma gli americani scrivono magnificamente la fantascienza, e costruiscono delle navi lunari buone quasi quanto quelle dei russi. Buona notte, Monabach! Torna indietro, con la faccia sporca o pulita, ma torna indietro.»

CAPITOLO II

Attraverso la finestrella di visione dell'enorme casco, ancora polarizzato al cinquanta per cento per proteggere gli occhi dal tremendo riverbero solare, il tenente Don Merriam, dell'Astronautica degli Stati Uniti, stava osservando l'ultimo spicchio curvo di solido sole, già distorto e baluginante per il frapporsi dell'atmosfera terrestre, scivolare dietro il gran globo del pianeta madre.

Gli ultimi guizzi di luce solare riproducevano, con spaventosa esattezza, il tramonto del sole d'inverno nella trama intricata d'alberi senza foglie, a un quarto di miglio a est della fattoria del Minnesota nella quale Don Merriam aveva trascorso la sua adolescenza.

Girando il capo verso il mini-pannello di destra, premette con la lingua un tasto, per togliere la polarizzazione. («I pianeti senz'aria verrano conquistati da pionieri con lingue lunghe e attive,» aveva concluso il Comandante Gompert. «Degli uomini-rospo?» aveva suggerito Dufresne.)

Le stelle sgorgarono dalla notte a moltitudini… una notte del deserto al quadrato, un gran mantello notturno cosparso di lustrini. L'ardore perlaceo della corona solare si mescolava col gran fuoco della Via Lattea.

La Terra aveva un anello di chiarore rugginoso… la luce solare curvata dalla densa atmosfera del pianeta… e sarebbe rimasta così per tutta la durata dell'eclissi. L'anello era più luminoso vicino alla crosta del pianeta e impallidiva fino a spegnersi a un quarto di diametro di distanza, e il punto più luminoso era scomparso pochi istanti prima.

Don notò, senza sorpresa, che il globo centrale della Terra era del nero più impenetrabile che avesse mai visto di lassù. A causa dell'eclissi, la faccia terrestre non era più accarezzata dal chiarore spettrale della luce selenita.

Era rimasto parzialmente rannicchiato nella sua tuta, appoggiato all'indietro, e sostenuto da una mano, per avere una visione più agevole della Terra, che era a metà strada dallo zenit. Ora, muovendosi agilmente nella fantomatica gravità lunare, si alzò completamente in piedi, e si guardò intorno.

Il chiarore delle stelle e il chiarore dell'anello intorno alla Terra coloravano di bronzo la cinerea pianura grigia di polvere, soffice e impalpabile come il pelo di un topo, una mescolanza di polvere di pomice e di ossido di ferro magnetico.

Nei tempi in cui l'esercito riformatore di Cromwell aveva governato l'Inghilterra, Hevelius aveva battezzato questo cratere Grande Lago Nero. Ma anche nel pieno fulgore della luce del sole Don non avrebbe potuto vedere le pareti di Piatone. Quel bastione circolare, alto quasi un miglio, che distava trenta miglia a est, a sud, a nord, e a ovest, gli era celato dalla curva della superficie lunare, una curva molto più accentuata di quella terrestre.

Il medesimo orizzonte vicino tagliava in due la metà della capanna, che distava solo trecento iarde. Era bello vedere quei cinque piccoli portelli illuminati, al margine tra la pianura oscura e la prateria brulicante di stelle… e vicino a loro, in rilievo nel chiarore stellare, i coni tronchi delle tre astronavi della base, ciascuna delle quali si ergeva alta sulle tre «gambe» di atterraggio.

«Com'è nero il nero?» domandò sommessamente la voce di Johannsen, all'orecchio di Don. «Passo.»

«Caldo e profumato. Suzie saluta con affetto,» rispose Don. «Passo.»

«Temperatura esterna?»

Don abbassò lo sguardo sui quadranti fluorescenti ingranditi sotto la finestrella di visione.

«Sta calando sotto i 200 Kelvin,» rispose, fornendo il perfetto equivalente di una temperatura di 100 gradi sottozero nella scala Fahrenheit, ancora diffusamente usata nelle regioni di lingua inglese della Terra.

«Il tuo SOS funziona?» continuò Johannsen.

Don toccò con la lingua una levetta, e un debole ululato musicale riempì il casco.

«Forte e chiaro, mio capitano,» disse, con un florilegio dialettico.

«Lo sento,» gli assicurò acidamente Johannsen. Don chiuse di nuovo il dispositivo con la lingua.

«Hai già mietuto le nostre latte?» domandò subito dopo Johannsen, riferendosi alle piccole «ceste» sostenute da paletti che venivano regolarmente messe fuori e raccolte per controllare i movimenti della polvere lunare e di altri materiali, comprese particelle atomiche radioattive sistemate a diverse distanze dalla Capanna.

«Non ho ancora affilato la mia falce,» gli disse Don.

«Fai con calma,» consigliò Johannsen, con un ringhio allusivo, e tolse la comunicazione. Lui e Don sapevano benissimo che piantare e raccogliere le «latte» era soprattutto una scusa per far indossare la tuta spaziale a un uomo, e farlo uscire dalla Capanna, come misura di sicurezza durante i periodi di maggiore pericolo di lunamoti… quando la Terra e il Sole attiravano la Luna dal medesimo lato, come accadeva ora, o dai lati opposti, come sarebbe accaduto tra due settimane. La trazione gravitazionale veniva ritenuta, teoricamente, la causa d'attivazione dei terremoti e così, probabilmente, dei lunamoti. La Base Lunare non aveva ancora sperimentato nulla di più grave di qualche blando tremore… il pennino del sismografo ancorato alla solida roccia sotto la polvere che reggeva come un cuscino la Capanna aveva appena tremolato; malgrado ciò, Gompert faceva quasi un punto d'onore del fatto di tenere un uomo sulla superficie lunare per diverse ore, ogni due settimane… a «terra nuova» e a «terra piena» (o plenilunio e novilunio, se si restava al gergo dei terricoli, o semplicemente alle maree). Perciò, se l'inatteso fosse accaduto e la Capanna avesse subito dei danni rilevanti, Gompert avrebbe avuto un uovo almeno fuori del suo cesto.

Era solamente una delle infinite precauzioni elaboratissime che la Base Lunare prendeva per la propria sicurezza. Inoltre, essa forniva l'occasione per un valido collaudo regolare dell'efficienza delle tute spaziali, e delle condizioni del personale destinato al lavoro solitario sull'aspra superficie di Selene.

Don alzò di nuovo lo sguardo verso la terra. L'anello brillava con maggiore regolarità, ora. Non riuscì a distinguere un solo lineamento del circolo d'inchiostro racchiuso dall'anello, benché sapesse che il Pacifico orientale e le Americhe si trovavano a sinistra, e l'Atlantico, e le estremità occidentali dell'Africa e dell'Europa si trovavano a destra. Pensò alla cara, lievemente isterica Margo e a quel buon vecchio nevrotico di Paul, e veramente, in quel momento, anche loro gli parvero piuttosto banali e privi d'importanza… dei graziosi, minuscoli scarafaggi che zampettavano sotto la fogna dell'atmosfera terrestre.

Guardò di nuovo in basso, ed era in piedi su di un biancore scintillante. Non un biancore letterale, eppure l'effetto di una nevicata fresca del Minnesota, quando il cielo si era rasserenato e la neve fresca aveva scintillato del riverbero delle stelle, in una notte di novilunio, era stato riprodotto con infernale precisione. Emanazioni di ossido di carbonio, il gas che era filtrato regolarmente attraverso la pomice e l'ossido del suolo di Piatone, d'un tratto si erano cristallizzate ovunque, in fiocchi di neve secca, che si erano formati direttamente sul suolo polveroso, o erano caduti su di esso quasi istantaneamente.

Don sorrise, sentendosi un po' meno inumanamente distante dalla vita. La luna non era diventata ancora per lui una Madre, tutt'altro, ma cominciava lentamente a sembrare una fredda, arida Sorella Maggiore.

L'aria profumata accarezzava la convertibile che portava Paul Hagbolt e Margo Gelhorn e la gatta Miao lungo l'Autostrada della Costa del Pacifico. A intervalli quasi regolari, un ingiallito cartello stradale cominciava a ingrandire, in lontananza, e avvicinandosi si poteva leggere STRADA SDRUCCIOLEVOLE o CADUTA MASSI, e poi il cartello spariva dal campo di luce dei fari. L'autostrada era una striscia d'asfalto stretta che si stendeva tra la spiaggia e un dirupo quasi verticale, alto circa trenta metri, di materiale geologicamente infantile… sedimentario, sabbia, ghiaia, e altri materiali sedimentari, benché qua e là da esso sporgessero delle rocce più grandi.

Margo, con i capelli al vento, sedeva con le spalle girate e il corpo in una posizione precaria, con le ginocchia sul sedile tra lei e Paul, in modo da potere osservare la Luna bronzea e fumosa. Aveva disteso la giacchetta in grembo. Sopra di essa si trovava Miao, acciambellata come una grigia noce di cocco, addormentata rapidamente, o per lo meno abilissima nell'imitare il sonno.

«Ci avviciniamo a Vandenberg Due,» disse Paul. «Potremmo osservare la Luna attraverso uno dei telescopi del Progetto.»

«Laggiù ci sarà Morton Opperly?» domandò Margo.

«No,» rispose Paul, con un lieve sorriso. «Lui è su nella Valle, in questi giorni, a Vandenberg Tre, e sta recitando la parte del maestro stregone davanti a tutti gli altri teorici.»

Margo si strinse nelle spalle, e guardò in alto.

«Ma la Luna non sparisce mai?» si chiese. «È ancora color bronzo.»

Paul le spiegò la natura della luce-alone.

«Quanto dura l'eclisse, insomma?» volle sapere Margo, e quando lui le rispose, «Due ore», lei obiettò: «Credevo che le eclissi finissero nel giro di pochi secondi, con tutta la gente eccitata intenta ad alzare le macchine fotografiche.»

«Quelle sono le eclissi di sole… i momenti di eclissi totale.»

Margo sorrise, e assunse una posizione più comoda.

«Adesso parlami delle fotografie stellari,» disse. «Non puoi essere ascoltato da orecchie indiscrete, su un'automobile in movimento. E adesso non sono più tanto eccitata. Ho smesso di preoccuparmi per Don… l'eclissi per lui è solo una coperta di bronzo.»

Paul esitò.

Lei sorrise di nuovo.

«Prometto di non fare elucubrazioni. Mi piacerebbe soltanto capire cosa vogliono dire.»

«Non posso prometterti una comprensione facile. Anche i grandi astronomi hanno limitato le loro profonde conclusioni a una serie di brontolii senza senso… Opperly compreso.»

«Ebbene?»

Paul frenò, aggirando una zona particolarmente ghiaiosa, poi cominciò:

«Be', comunemente le fotografie stellari non vengono mostrate in giro per anni e anni, se mai vengono mostrate, ma gli astronomi del Progetto hanno formulato una richiesta permanente ai loro colleghi dei vari osservatori, per ricevere subito qualsiasi immagine insolita. Riusciamo a ricevere perfino delle foto il giorno dopo che esse vengono scattate.»

«Ultime Notizie dell'Atlante Stellare?» rise Margo.

«Esattamente! Be', la prima foto è arrivata una settimana fa. Mostrava un campo stellare, nel quale era inquadrato il pianeta Plutone. Ma qualcosa era accaduto, durante il tempo di esposizione, e così le stelle intorno a Plutone erano scomparse, o avevano modificato la posizione. L'ho vista anch'io… c'erano tre macchioline debolissime, nei punti in cui si erano spostate le stelle più luminose nelle vicinanze di Plutone. Macchioline nere su bianco… nella vera astronomia, si guardano solo le negative.»

«Roba per iniziati,» disse Margo, solennemente. E poi, «Paul!» esclamò. «C'era un articolo sul giornale, stamattina, su un tizio che affermava di aver visto muoversi alcune stelle! Ricordo il titolo: Le stelle si sono mosse, dice un automobilista che ha sbagliato strada.»

«L'ho visto anch'io. L'uomo guidava una decapotabile aperta, in quel momento, e ha avuto un incidente… perché era rimasto affascinato dalle stelle, così ha affermato. Poi la polizia ha scoperto che aveva bevuto.»

«Sì, ma quelli che erano a bordo con lui hanno sostenuto le sue affermazioni. E più tardi il planetario è stato tempestato di telefonate di gente che annunciava lo stesso fenomeno.»

«Lo so, ne abbiamo ricevute anche noi al Progetto Luna,» disse Paul. «Il solito fenomeno di suggestione di massa. Senti, Margo, la foto di cui ti parlavo è stata scattata una settimana fa, e si trattava di un fenomeno che solo un potentissimo telescopio avrebbe potuto cogliere. Non mescoliamo i fatti scientifici con assurdità che ricordano la psicosi dei dischi volanti. Dunque, dicevo che abbiamo ricevuto una foto di Plutone che mostrava tre debolissimi spostamenti stellari. Ma senti questo… Plutone non si era affatto spostato. La sua immagine era un punto nero.»

«Cosa c'è di tanto eccezionale?»

«Comunemente, non ci si sorprende nel vedere degli spostamenti della luce stellare, o perfino degli offuscamenti di immagini stellari. È l'atmosfera terrestre a produrre i fenomeni, proprio come fa sfumare e tremolare le colline in una giornata torrida… infatti, è l'atmosfera a produrre lo scintillio delle stelle di notte. Ma in questo caso, qualunque cosa stesse distorcendo la luce delle stelle doveva trovarsi al di là di Plutone. Davanti alle stelle, ma al di là di Plutone.»

«Quanto è lontano Plutone?»

«Quasi quaranta volte più lontano del sole.»

«Cosa potrebbe distorcere la luce delle stelle, nello spazio siderale?»

«È questo che rende perplessi i pezzi grossi. Un particolare tipo di campo elettrico o magnetico, forse, anche se dovrebbe trattarsi di un campo di potenza inaudita.»

«E le altre foto?» lo incalzò Margo.

Paul fece una pausa, sorpassando un autotreno che brontolava cupamente.

«La seconda, scattata quattro sere fa dal nostro satellite astronomico, e trasmessa subito dalla telecamera, mostrava lo stesso fenomeno, solo che il pianeta in oggetto era Giove, e la regione della distorsione era più vasta.»

«Così, qualunque cosa avesse causato la distorsione doveva essersi avvicinata?»

«Forse. Incidentalmente, le lune di Giove non erano state influenzate minimamente dal fenomeno. La terza foto, che ho visto l'altro ieri, mostrava una zona di distorsione ancor più vasta, al cui centro c'era Venere. Solo che questa volta anche Venere si era spostata… un bel salto.»

«Come se la luce fosse stata distorta da questo lato di Venere, rispetto alla Terra?»

«Sì, esattamente tra Venere e la Terra. Naturalmente, in questo caso avrebbe potuto trattarsi di un fenomeno atmosferico, ma gli astronomi non ne sono convinti.»

Poi Paul tacque.

«Ebbene?» lo incoraggiò Margo. «Avevi detto che le foto erano quattro.»

«Ho visto la quarta oggi,» disse lui, in tono guardingo. «Scattata la notte scorsa. L'area di distorsione era ancora più vasta. Questa volta, in essa era compreso anche il bordo della Luna. L'immagine della Luna non era stata influenzata dal fenomeno.»

«Paul! Dev'essere stato quello che ha dichiarato l'automobilista… nella stessa notte!»

«Non credo. È difficile vedere a occhio nudo una stella nelle vicinanze della Luna. Inoltre, quello che dicono i profani non conta nulla.»

«Be',» ribatté lei, «Certamente sembra che qualcosa si stia avvicinando alla Luna. Prima Plutone, poi Giove, poi Venere, ogni volta più vicino.»

La strada descriveva un'ampia curva, verso sud, e la fosca luna di rame apparve sospesa sul Pacifico, mentre essi viaggiavano.

«Aspetta un momento, Margo,» protestò Paul, staccando per un istante la mano sinistra dal volante. «Anche a me è venuta la stessa idea, così ho chiesto un parere a Van Bruster. Lui afferma che è assolutamente inverosimile che un solo campo, viaggiando nello spazio, fosse stato responsabile delle quattro distorsioni. Lui crede che il fenomeno sia stato causato da quattro campi diversi, privi di alcun collegamento tra loro… e così è fuori discussione l'ipotesi che qualcosa si stia avvicinando alla Luna. E c'è di più… lui dice che non è rimasto troppo sorpreso, alla vista di quelle foto. Secondo lui, gli astronomi sono da anni a conoscenza della possibilità teorica di esistenza di simili campi, e ora le prove concrete non cominciano ad apparire per puro caso, ma grazie ai telescopi elettronici e alle emulsioni fotografiche ultrarapide, che vengono usate da quest'anno. Le distorsioni appaiono nelle istantanee stellari, mentre con esposizioni più lunghe non sarebbero mai apparse.»

«E Morton Opperly cosa pensa delle foto?» domandò Margo.

«Lui non… No, aspetta, è stato lui a insistere di tracciare una rotta dei campi di forza da Plutone alla Luna, con gli elaboratori elettronici. Ehi, siamo passati in questo momento dall'uscita per la Collinare di Monica! È quella nuovissima, fantastica strada che attraversa le montagne e giunge a Vandenberg Tre, dove si trova adesso Opperly.»

«La rotta da Plutone alla Luna era in realtà in linea retta?» domandò Margo, rifiutando di cambiare argomento.

«No, era il più dannato zig-zag immaginabile!»

«Ma Opperly ha detto qualcosa?»

Paul esitò, e poi disse:

«Oh, ha ridacchiato, e ha detto, 'Be', se la Terra o la Luna sono il loro obiettivo, si stanno avvicinando a ogni colpo,' o qualcosa del genere.»

«Vedi?» disse Margo, con soddisfazione. «Vedi? Di qualunque cosa si tratti, la sua destinazione sono i pianeti!»

Barbara Katz, intraprendente Giovane Avventuriera e lettrice di fantascienza di antica passione, attraversò silenziosamente il prato, scomparendo dietro la siepe, allontanandosi dai lampioni stradali e dai fari della polizia di Palm Beach, e si fermò dietro un boschetto prima che il freddo fascio di luce giungesse dalla sua parte. Ringraziò Mentore, il suo dio fantascientifico, perché le calze di nailon che indossava sotto l'abito nero erano nere anch'esse, e non dei colori sgargianti così di moda… quei colori sarebbero stati visibili, anche senza il faro. La borsetta da hostess che portava in spalla era nera, e braccia e viso non la preoccupavano, perché erano abbastanza scuri da confondersi nella notte… e a farla scambiare per una meticcia, di giorno. Barbara era disposta a dare il suo contributo all'integrazione razziale, ma ugualmente trovava spiacevole il fatto di abbronzarsi così rapidamente.

Un altro carico che gli ebrei avrebbero dovuto sopportare con coraggio, le avrebbe detto suo padre, benché suo padre non avrebbe approvato il fatto che delle intrepide ragazze andassero a caccia di miliardari nelle loro tane, in Florida, tane che essi dividevano con gli alligatori. Né che queste ragazze portassero dei bikini nella borsetta.

Il faro della polizia stava frugando i cespugli, dall'altra parte della strada, ora, così lei continuò la traversata del prato, silenziosa e agile e invisibile. Decise che poteva trattarsi certamente della casa dalla quale aveva visto giungere il lampo di un cannocchiale, quando al tramonto lei aveva fatto il bagno.

Mano a mano che andava avanti, il buio s'infittiva intorno a lei. Quando girò intorno a un'altra macchia di palme, udì il ronzio di un piccolo motore elettrico, e per poco non si scontrò con un abito bianco che era seduto all'oculare di un grande telescopio bianco, montato su un treppiedi bianco e puntato verso il cielo occidentale.

Il vestito si rizzò a sedere, con una sorta di strattone che mostrò come esso venisse aiutato da un bastone, e una voce disse in alto, tremando:

«Chi è?»

«Buonasera,» rispose Barbara Katz, usando il tono più caldo e gentile che conosceva. «Credo che lei mi conosca… sono la ragazza che si cambiava, indossando il bikini a strisce nere e gialle. Posso osservare l'eclissi con lei?»

CAPITOLO III

Paul Hagbolt guardò le cime delle montagne, davanti a lui, là dove l'Autostrada della Costa del Pacifico deviava verso l'interno, e iniziava a inerpicarsi. Oltre la curva vicina, tra la strada e il mare, torreggiava il terrapieno roccioso alto novanta metri sul quale sorgeva Vandenberg Due, la casa del Progetto Luna, e la più nuova base dell'Astronautica degli Stati Uniti, irta di piste di lancio e di piattaforme di atterraggio. Ai piedi del terrapieno scintillavano grandi reticolati, e lungo la sommità, che pareva stendersi a perdita d'occhio, ammiccavano delle livide luci rosse. Scintillante e ammiccante, la base spaziale torreggiava misteriosa al centro della V formata dal divergere dell'autostrada e dell'oceano… torva e minacciosa rocca feudale del futuro.

Si udì un rumore più cupo, sull'autostrada, quando la convertibile attraversò un piatto ponte di cemento, che dominava un corso d'acqua, e Margo Gelhorn sobbalzò e si rizzò a sedere di scatto, accanto all'uomo. Miao sobbalzò a sua volta. Lo sguardo della giovane donna fissò un punto alle spalle di Paul.

«Ehi, aspetta un attimo.»

«Cosa c'è?» domandò Paul, senza rallentare. L'autostrada aveva cominciato a salire.

«Avrei quasi giurato,» disse Margo, guardando indietro, «Di avere visto un cartello con scritto "Dischi Volanti".»

«Forse c'era scritto qualcos'altro. Forse era la pubblicità di un grill,» suggerì Paul. «È facile confondersi.»

«Non c'era un grill, né qualcosa di simile. Solo un piccolo cartello bianco. Subito prima del ponte. Voglio tornare indietro, per dare un'occhiata.»

«Ma siamo quasi arrivati a V-2,» obiettò Paul. «Non vuoi vedere la Luna con un telescopio, prima che l'eclisse finisca? Potrai vedere Piatone, solo che dovremo alzare la capote e lasciare Miao chiusa a bordo. Non si possono portare animali a Vandenberg.»

«Non ho nessuna intenzione di andarci,» disse Margo. «Sono stanca di venire sottoposta alle ambigue precauzioni del Progetto. E soprattutto, io detesto qualsiasi organizzazione la quale neghi che i gatti sono persone!»

«Va bene, va bene,» ridacchiò Paul.

«Così torniamo indietro subito. Potremo vedere meglio l'eclisse, avendo la Luna di fronte.»

Paul fece del suo meglio per superare il piccolo cartello bianco senza fermarsi, ma Margo lo deluse subito.

«Laggiù. Dove vedi la lanterna verde! Fermati qui!» E quando l'auto si fermò con un pesante sobbalzo, Miao si mosse, alzò il muso, si stirò mollemente, e si guardò intorno senza eccessivo interesse.

C'era una strada sporca e ingombra di rocce che scendeva accanto alla spiaggia, ai piedi del promontorio che l'autostrada aveva aggirato con una deviazione verso l'interno… un gonfiore del paesaggio, minore, in confronto alla mole torreggiante di Vandenberg Due.

Su un lato della strada sporca e polverosa era appesa un'ondeggiante lanterna a kerosene, con una fiammella tremolante circondata da vetro verde. Sull'altro lato, perfettamente visibile nella luce dei fari della convertibile, c'era un cartello bianco piuttosto piccolo. Le lettere nere che esso portava impresse, in caratteri a stampa precisi e ben chiari, dicevano: Da questa parte per il simposio sui dischi volanti.

«Solo nella California meridionale succedono certe cose,» disse Paul, scuotendo il capo.

«Scendiamo per quella strada, e andiamo a vedere cosa succede,» disse Margo.

«Neanche per idea!» le disse Paul, con vigore. «Se tu non sopporti Vandenberg, io non sopporto i maniaci dei dischi volanti.»

«Ma non sembrano dei maniaci, Paul,» disse Margo. «Non vedi che l'intera faccenda ha stile? Guarda quei caratteri: è puro Baskerville.»

Prendendo in braccio Miao, Margo scese dall'auto, e si diresse verso il cartello.

«E poi, non sappiamo se la riunione si tiene stanotte,» la chiamò Paul. «Molto probabilmente è già avvenuta nel pomeriggio, o perfino la settimana scorsa. Chi lo sa?» Anche lui si alzò. «Non vedo né luci, né alcun segno di vita.»

«La lanterna verde dimostra che la riunione deve esserci stasera,» lo chiamò Margo, ormai vicina al cartello. «Andiamo a vedere, Paul.»

«Probabilmente la lanterna verde non c'entra nulla con il cartello.»

Margo si voltò, sollevando l'indice nel fascio di luce dei fari; l'indice era nero:

«Sono caratteri perfetti, ma non sono stampati. E la vernice è ancora fresca,» disse.

La Luna affondò ancor più profondamente nell'ombra della Terra, avvicinandosi a quel punto centrale in cui i tre corpi celesti sarebbero stati perfettamente allineati. Come sempre, la Luna… e il sole, quest'ultimo con effetti molto meno forti… solleticavano il pianeta in mezzo a loro con invisibili dita gravitazionali, facendo tendere la crosta rocciosa e le parti interne forti come l'acciaio della Terra, sfiorando gentilmente i pulsanti naturali che azionavano terremoti immani o minimi, e facendo risonare della lenta e variata musica delle maree la poderosa pellicola di oceani e mari, golfi e canali, stretti e lagune, laghi e baie del pianeta Terra; e in questa musica ogni singola vibrazione era un po' più lunga di una notte o di un giorno.

Spostandosi dall'altra parte della terra, agli antipodi della California Meridionale, si trovava Bagong Bung, nero come il carbone, con il sudore che colava sotto l'orlo del giallo turbante macchiato, e copriva le spalle e il petto nudi; Bagong Bung gridava al suo secondo di bordo, un australiano nudo come un verme, di spegnere il motore della Machan Lumpur. Se non avessero perduto tempo, avrebbero raggiunto la piccola baia naturale a sud di Do-Son prima che il sollevarsi di tre metri della marea potesse sollevarli sopra la lingua di roccia, e le secche, e là, nel Golfo del Tonchino, l'alta narea, comandata da chissà quali demoni ostili, veniva solo una volta ogni ventiquattro ore. Un elicottero di ricognizione avrebbe potuto notarli, se avessero incrociato nelle acque prospicenti la baia in attesa d'infiltrarsi nella regione per consegnare le armi e i medicinali alle brigate anticomuniste del Nord Vietnam che si nascondevano nei rifugi sotterranei… per proseguire successivamente fino ad Hanoi, dove la Machan Lumpur avrebbe consegnato il grosso del carico (fatto a sua volta di armi e medicinali) ai comunisti.

Quando le onde mosse dal motore, a poppa, si furono quietate, il golfo ampio duecento miglia che circondava il piccolo battello a vapore rugginoso parve scintillare, quieto e sornione, come un lago di bronzo liquido. Bagong Bung, socchiudendo gli occhi per proteggersi dal riverbero dell'orizzonte, con la mano appoggiata al cannocchiale di rame che portava infilato alla cintura, non pensava neppure lontanamente all'eclissi che il giorno e il globo terrestre gli nascondevano. A questo proposito, il piccolo malese, la sua imbarcazione stanca e cigolante (carica d'ipoteche presso dei banchieri cinesi), e il mare tiepido e placido erano tutti capovolti, a testa in giù e piedi in su, rispetto alle Americhe, e il sole che scaldava implacabilmente il suo turbante avrebbe arrostito le suole di un miliardo di piedi occidentali, se avesse potuto filtrare con i suoi raggi attraverso la solida crosta del pianeta.

Bagong Bung stava fantasticando sui nugoli di vascelli affondati e relitti che le acque poco profonde coprivano, intorno a lui, e a sud e a est, e al tesoro che sarebbe riuscito a trovare laggiù il giorno in cui avrebbe accumulato il denaro sufficiente per pagare l'equipaggiamento e i sommozzatori dei quali aveva bisogno… e per guadagnare, doveva portare avanti quel suo maledetto lavoro d'infiltrazione e di doppio gioco.

Don Guillermo Walker si disse che l'alveare di deboli luci che aveva appena sorvolato doveva essere Metapa. Ma… essendo il suo talento di navigazione celeste frutto di vanterie ed esagerazioni almeno pari alla sua carriera di attore shakespeariano in Europa… cosa sarebbe accaduto, se le luci fossero state invece quelle di Zapata o di La Libertad? Sarebbe stato ancor meglio, forse; mancando di gran lunga il suo bersaglio, sarebbe sfuggito anche alla tortura. Aveva il viso e la schiena coperti di sudore. Avrebbe dovuto radersi, pensò, sentendo il mento e le guance umidi e appiccicosi. I suoi catturatori avrebbero detto, torturandolo nella cella fumante, che la barba dimostrava che lui era un comunista castrista, e i suoi documenti della John Birch Society erano stati falsificati, o peggio. E così avrebbero bruciato la barba dal suo viso con la electricidad!

«Accidenti a te, sei stata tu a mettermi in questo pasticcio, brutta puttana in sottoveste, brutta cagna negra!» gridò Don Guillermo alla luna enorme, e al suo fosco disco arancione.

La Principe Carlo e la Pazienza, l'imbarcazione del navigatore solitario, percorrevano le loro rotte divergenti attraverso la massa dell'Atlantico. Quasi tutti i passeggeri giovani erano andati ai loro appuntamenti, con il sonno o con i partner o le partner scelti per la notte, ma il capitano Sithwise stava facendo il suo turno di guardia sul ponte. Provava una bizzarra sensazione di disagio. Si disse che doveva essere colpa della presenza di quei rivoluzionari a bordo: quel branco di conquistatori d'imperi produceva simili pazzi effetti… come se respirassero, ed emettessero, dell'etere.

Wolf Loner era cullato dalle braccia dell'oceano, e il suo cuscino era un miglio di acqua salata. Il banco di nubi, sotto il cui bordo orientale la Pazienza era entrata, era molto vasto, e lunghe scie di nebbia lo seguivano, e si stendeva fino a Edmond e al Great Slave Lake, e da Boston fino a nord, raggiungendo lo Stretto dell'Hudson.

Sally Harris concesse a Jake Lesher un altro sfogo di carezze e più pesanti attenzioni tattili, in una curva buia della Casa degli Orrori, ma lo ammonì:

«Ehi, non spiegazzarmi la gonna… usa la cerniera automatica sul fianco.»

«Anche le tue mutandine sono chiuse magneticamente?» domandò Jack.

«No, ma c'è un piccolo congegno che le fa sparire. Fai piano, adesso… e per l'amor di Dio, non dirmi che queste ti ricordano le vecchie, buone pagnotte fatte in casa che mamma Lesher cuoceva al forno. E adesso basta, altrimenti il Razzo chiuderà prima che noi abbiamo visto l'eclissi.»

«Sal, non sei mai stata così fissata per l'astronomia prima d'ora, e non abbiamo realmente bisogno degli scossoni di quelle montagne russe. Tu hai le chiavi dell'appartamento di Hasseltine, no?, e lui è partito, no?… e inoltre, non mi hai mai portato lassù. Se quel grattacielo per te non è abbastanzo alto…»

«Questa notte il mio grattacielo è il Razzo,» disse la ragazza. «Basta così, ho detto!»

Con una mossa sinuosa, lei si sottrasse alle mani di Jack, e corse via, passando davanti a un saturniano livido, alto due metri e mezzo, che era uscito a grandi passi da una parte, stringendo un lunghissimo fucile a raggi e inondandola di una luce azzurrina scintillante.

Asa Holcomb, con il respiro un po' affannoso, raggiunse la cima della piccola mesa a ovest delle Montagne della Superstizione dell'Arizona. Proprio in quel momento la parete della sua aorta si ruppe, e il sangue cominciò a filtrargli nel petto. Non ci fu alcun dolore, ma egli avvertì una debolezza strana, e un bizzarro senso di vertigine, e scivolò a sedere silenziosamente sulla roccia levigata e piatta, che conservava ancora un po' di calore della lunga giornata assolata.

Non rimase particolarmente sorpreso, né particolarmente impaurito. La debolezza sarebbe passata, oppure no. Il malore poteva essere passeggero… oppure no. Aveva saputo fin dall'inizio che quella breve arrampicata verso una buona posizione per osservare l'eclissi era una cosa pericolosa. Dopotutto, sua madre lo aveva avvertito che era pericoloso arrampicarsi da solo sulle rocce, settant'anni prima. Doppiamente pericoloso, con un'aorta sottile come carta velina. Ma valeva sempre la pena di correre qualsiasi rischio, pur di allontanarsi da solo, fare una piccola scalata, e osservare i cieli stellati.

I suoi occhi avevano indugiato, un po' malinconicamente, sulle luci della Mesa, ma subito dopo egli li sollevò. Quella sarebbe stata circa la cinquantesima volta in cui lui avrebbe visto la Luna sparire, ma quella notte lei pareva ancor più bella, nella fase di luce ramata, di quanto mai lo fosse stata in passato, molto più della melagrana che Proserpina aveva colto nel Giardino della Morte. La debolezza, il malore, non stavano passando.

CAPITOLO IV

La convertibile che portava Margo Gelhorn e la gatta Miao e Paul Hagbolt sobbalzava lungo la strada sconnessa, con la roccia brulla ed erta di nuovo a destra, la sabbia della spiaggia a sinistra, entrambe, ora, a meno di un metro di distanza. Allontanandosi dall'autostrada, la notte pareva chiudersi intorno a loro come un nero coperchio. I tre viaggiatori avvertivano pienamente, ora, la solitaria oscurità della luna in eclissi che s'inerpicava per i sentieri stellati del cielo. Anche Miao si era messa a sedere sulle zampe posteriori, per guardare avanti con occhi fosforescenti.

«Tra le altre cose, questa strada probabilmente conduce alla porta posteriore di Vandenberg Due,» stava ruminando Paul. «La porta della spiaggia, la chiamano. Naturalmente, io dovrei passare dalla porta principale, ma in un buio così…» Poi, dopo qualche secondo, «È buffo vedere come questi maniaci dei dischi volanti tengano sempre le loro riunioni accanto a qualche base missilistica, o a qualche centrale atomica. Sperano forse che un po' di chiasso e di splendore riesca a filtrare fino a loro, immagino. Sapevi che una volta l'Astronautica era sospettosa, nei loro confronti?»

I fari illuminarono una frana, che bloccava una buona metà della strada. La terra franata era alta fin quasi al cofano della macchina, e recente, a giudicare dall'aspetto umido del terriccio. Paul fermò l'auto.

«Fine della spedizione dei dischi volanti,» annunciò, allegramente.

«Ma gli altri sono andati avanti,» disse Margo, alzandosi di nuovo in piedi. «Vedi laggiù? È in quel punto che hanno aggirato la frana, per proseguire.»

«E va bene,» disse Paul, in tono scherzosamente cavernoso. «Ma se rimarremo bloccati nella sabbia, tu dovrai andare a cercare dei legni portati dalla marea, da mettere sotto gli pneumatici.»

Le ruote girarono a vuoto due volte, ma la convertibile non faticò affatto a mettersi in moto. Poco più avanti, essi ragggiunsero una specie di vallata naturale, o grande caverna, nell'altura, dove la strada si espandeva raggiungendo un'ampiezza almeno tre volte maggiore di prima. Una buona dozzina di automobili avevano usato quello spazio in più per parcheggiare, fianco a fianco, con i parafanghi quasi appoggiati alla parete naturale. Tra coloro che erano arrivati per primi si vedevano una perlina rossa, una utilitaria e un camioncino bianco aperto.

Dopo l'ultima automobile c'era un'altra lanterna verde, che illuminava un cartello vergato in eleganti caratteri: Parcheggiate qui. Poi seguite le luci verdi.

«Proprio come alla stazione della metropolitana di Times Square,» esclamò deliziata Margo. «Scommetto che tra questa gente ci sono dei nuovayorkesi.»

«Arrivati freschi freschi,» ammise Paul, squadrando con espressione diffidente la parete di roccia e terriccio, mentre parcheggiava accanto all'ultima automobile. «Non hanno avuto neppure il tempo di conoscere le frane della California.»

Margo balzò a terra, tenendo in braccio Miao. Paul la seguì porgendole il giacchettino.

«Non mi serve,» disse Margo. Senza commenti, lui lo piegò e lo appoggiò sul braccio.

La terza lanterna verde era sulla spiaggia, molto più avanti, accanto a una macchia d'erba. La spiaggia era piatta e uniforme. Finalmente essi poterono udire il fruscio delle onde… poco più d'increspature del mare, a giudicare dal rumore. Miao miagolò ansiosamente. Margo le parlò in tono sommesso e persuasivo.

Subito dopo le automobili, le alture s'inerpicavano ripide a destra, e la spiaggia livellata le seguiva verso l'interno. Paul si rese conto che dovevano trovarsi all'imboccatura del canale che avevano attraversato due volte, prima di lasciare l'autostrada. A una certa distanza, oltre il canale, il terreno ricominciava a salire. Ancor più lontano, egli poté vedere una luce rossa ammiccare, molto in alto, e, molto più in basso, riuscì a cogliere lo scintillio di un reticolato. Scoprì che queste prove dell'esistenza di Vandenberg Due producevano su di lui un effetto oscuramente rassicurante.

Si diressero verso l'oceano, oltrepassando la macchia erbosa, verso la scintilla verde della quarta lanterna, piccola quasi come un pianeta. La sabbia frusciava sotto i loro piedi dolcemente, a ogni passo. Margo prese sottobraccio Paul. Ti rendi conto che l'eclissi c'è ancora?» mormorò. Lui annuì. Lei disse, «Paul, e se le stelle intorno alla Luna ricominciassero a distorcersi?»

Paul disse:

«Credo che quella sia una luce bianca, vedi, al di là della quarta lanterna verde. E mi pare di vedere delle figure. E una specie di edificio basso.»

Proseguirono. Il basso edificio sembrava una casa sulla spiaggia abbandonata, o la vecchia sede di un circolo della spiaggia. Le finestre erano chiuse con assi di legno. All'esterno si vedeva un largo pavimento senza tetto e senza pareti, sollevato di circa mezzo metro rispetto alla spiaggia, che non poteva essere stato che una pista da ballo. Su di esso erano state sistemate almeno cento sedie pieghevoli, delle quali erano occupate solo le prime venti. Le sedie erano sistemate di fronte al mare e a un lungo tavolo, lievemente sollevato, posto su quello che un tempo doveva essere stato il palco dell'orchestra. Dietro al tavolo erano sedute tre persone, i cui volti erano illuminati da una piccola luce bianca… l'unica illuminazione, oltre alla lanterna verde sistemata in fondo allo spazio del pubblico.

Una delle tre persone era barbuta; un'altra era calva e portava gli occhiali; la terza era in abito da sera maschile, aveva una cravatta bianca e indossava un turbante verde.

Il Barba stava parlando, ma Paul e Margo non erano ancora abbastanza vicini da poterlo udire distintamente.

Margo strinse il braccio di Paul.

«Quella col turbante è una donna,» mormorò.

Una piccola figura si sollevò dalla sabbia, da un punto vicino alla lanterna, e si avvicinò a loro. Una piccola luce bianca ammiccò, ed essi videro che si trattava di una ragazzina pallida, con delle lunghe trecce rosse. Non poteva avere più di dieci anni. Aveva dei fogli di carta in mano, e teneva l'indice dell'altra mano sulle labbra. La luce bianca era quella di una piccola pila elettrica, appesa al collo della ragazzina con una fune. Avvicinandosi, lei porse i fogli ai nuovi arrivati, bisbigliando:

«Dobbiamo fare silenzio. È già iniziato. Prendete il programma.»

I suoi occhi si illuminarono, quando vide Miao.

«Oh, avete un gatto,» mormorò. «Non credo che questo dispiaccia a Ragnarok.»

Quando Margo e Paul ebbero preso un foglio a testa, la ragazzina li accompagnò a una scaletta che portava alla piattaforma, e indicò loro di sedersi davanti. Quando Margo e Paul, sorridendo ma scuotendo il capo, sedettero invece in una delle ultime file, lei si strinse nelle spalle, e si voltò.

Margo sentì che Miao s'irrigidiva. La gatta stava fissando qualcosa che giaceva disteso su due sedie della prima fila.

Ragnarok era un grosso cane poliziotto tedesco.

Il momento della prima crisi passò. Miao si rilassò un poco, pur continuando a fissare il cane con fermezza, tenendo basse le orecchie.

La ragazzina venne alle loro spalle.

«Io sono Ann,» mormorò. «Quella col turbante è mia madre. Noi veniamo da New York.»

Poi ritornò al suo posto di guardia, accanto alla lanterna verde.

Il generale Spike Stevens e tre membri del suo stato maggiore sedevano gomito a gomito in una stanza buia del Quartier Generale della Riserva dell'Astronautica degli Stati Uniti. Stavano osservando due enormi schermi televisivi, disposti l'uno accanto all'altro. Ciascuno schermo mostrava la stessa regione della Luna oscurata dall'eclissi, una regione che comprendeva il cratere Piatone. L'immagine sullo schermo di destra veniva ritrasmessa grazie a un satellite automatico per comunicazioni e osservazione, sospeso a 23.000 miglia di altezza sull'Isola di Natale, 20 gradi a sud delle Hawai, mentre l'immagine dello schermo di sinistra veniva da un analogo satellite equatoriale che si trovava al di sopra di un punto dell'Atlantico, al largo della costa brasiliana, dove il transatlantico atomico Principe Carlo stava viaggiando in direzione sud.

I quattro spettatori, con consumata perizia, incrociavano lo sguardo, fondendo le immagini che partivano da distanze di 30.000 miglia nello spazio. L'effetto era incredibilmente tridimensionale, con quella regione lunare che si stagliava in solidi particolari.

«Direi che il nuovo amplificatore elettronico ha avuto un discreto successo,» disse il generale. «I disturbi iniziali sono stati superati. Jimmy, vediamo un'immagine non ingrandita dell'intero settore dello spazio in cui si trova la Luna.»

Il colonnello Mabel Wallingford studiò di sottecchi il generale, intrecciando le lunghe dita forti. Qualcuno le aveva detto, un giorno, che possedeva mani da strangolatrice, e lei lo ricordava ogni volta che fissava il generale. Le dava un senso di acre soddisfazione il pensiero che Spike avesse un tono di così disinvolta fiducia, lo stesso che il potente Odino avrebbe avuto osservando i Nove Mondi dalla torre di Hlithskjalf ad Asgard, mentre in realtà non sapeva nulla di più di lei sul luogo in cui si trovavano: e cioè che erano entro un raggio di cinquanta miglia dalla Casa Bianca, e almeno sessanta metri nel sottosuolo. Erano stati tutti portati laggiù in macchina, ed erano entrati nell'ascensore con la testa incappucciata, e non avevano incontrato il personale al quale avevano dato il cambio.

Arab Jones e «High» Bundy e Pepe Martinez cominciarono il quarto giro, passandosi il bocchino di metallo l'uno dopo l'altro, e aspirando profondamente il fumo profumato, tenendolo a lungo nei polmoni. Erano seduti su cuscini e un tappeto, di fronte alla piccola tenda con una porta di strisce di plastica, una tenda sistemata sulla cima di un tetto, ad Harlem, non lontano da Lenox e dalla 125a Strada. Si cercarono con gli occhi, con l'amichevole vigilanza dei drogati, e poi i loro sguardi si spostarono all'unisono verso la luna in eclissi.

«Accidenti, scommetto che anche lei sta fumando,» disse «High». «Vedete quel fumo bronzeo? Quegli astronauti lunari devono essere in un bel viaggio!»

Pepe disse:

«Anche noi dobbiamo andare lassù. Tu pensi di eclissarti, Arab?»

Arab disse:

«Non c'è niente di meglio di una spinta astronomica, per un viaggio!»

CAPITOLO V

Paul Hagbolt e Margo Gelhorn cominciarono ad ascoltare quello che stava dicendo il barbuto:

«Le speranze e le paure di un essere umano, le sue inquietudini e agitazioni più profonde, danno sempre una colorazione a ciò che egli vede nei cieli… sia che si tratti di un aereo o di un pianeta o di una nave venuta da un altro mondo, o soltanto un corpuscolo del suo stesso sangue. Mettiamola così; ogni disco è anche un segno.»

La voce del Barba era gentile e mite, ma anche giovanile e intensa. Doc… l'omone calvo con gli occhiali… e la Turbantessa ascoltavano, con espressione imperscrutabile (Margo aveva impiegato due minuti per dare un soprannome a tutti e tre i partecipanti alla discussione, e a diversi spettatori).

Il Barba continuò:

«Il compianto professor Jung ha esplorato questo aspetto degli avvistamenti dei dischi nelle pagine del suo libro Ein Moderner Mythus von Diriger die am Himmel gesehen werden.» La sua pronuncia tedesca era un insieme di sputi e gorgoglii strozzati; egli tradusse immediatamente: «Il Mito Moderno delle Cose Viste nei Cieli.»

«Chi è il Barba?» domandò Margo a Paul. Lui cercò di studiare il programma, ma era impossibile nella loro fila, immersa nelle tenebre più fitte.

Il Barba proseguì:

«Il professor Jung era particolarmente interessato ai dischi con l'aspetto di un circolo diviso in quattro parti. Egli ha posto in relazione queste forme con quello che il buddismo Mahayana chiama Mandala. Un mandala è un simbolo di unità psichica… la mente individuale in guerra contro la pazzia. È facile che esso appaia in momenti di grande tensione e pericolo, come oggi, quando l'individuo è lacerato e scosso dall'orrore per la distruzione atomica, dal terrore di venire privato della propria personalità, trasformato in un altro numero, in un altro soldato-schiavo o consumatore-robot in un'orda totalitaria, e dalla paura di perdere completamente il contatto con la propria cultura, poiché essa si dirama in diecimila difficili ma fondamentali specializzazioni.»

Paul scoprì di attraversare uno dei suoi consueti momenti di colpa. Neppure cinque minuti prima lui aveva chiamato quella gente «maniaci dei dischi volanti», ed ecco là il primo che sentiva… e parlava in maniera sensata e civile.

Un ometto, seduto nella prima fila, vicino al cane Ragnarok, si alzò in piedi.

«Mi scusi, professore,» disse l'Omino. «Ma secondo il mio orologio, rimangono ancora solo quindici minuti di eclisse totale. Desidero rammentare a tutti di tener d'occhio l'orologio, pur prestando la massima attenzione, naturalmente, a quello che i nostri affascinanti oratori hanno da dirci. Rama Joan ci ha parlato di creature cosmiche capaci di seguire contemporaneamente almeno una dozzina di linee di pensiero. Certamente noi potremo seguirne due soltanto! Dopotutto, noi abbiamo tenuto questa riunione per l'inconsueta possibilità di compiere avvistamenti, specialmente dei dischi meno audaci, che detestano la luce. Non perdiamo quel che ci resta di questa preziosa opportunità di vedere i Dischi Timidi, come li chiama Ann.»

Diverse teste, nella prima fila, ondeggiarono obbedienti da una parte e dall'altra, mostrando profili con i nasi in alto.

Margo diede una gomitata a Paul.

«Fai il tuo dovere,» mormorò seccamente, guardandosi intorno con decisione.

«Buona caccia a tutti,» disse l'Omino. «Voglia scusarmi ancora, professore.» Tornò a sedere.

Ma prima che il Barba potesse continuare, venne affrontato da un uomo con spalle alte e braccia conserte che sedeva alto ed eretto sul suo sedile… Margo lo ribattezzò immediatamente Bacchetto.

«Professore, abbiamo sentito un'infinità di discorsi a doppio senso,» cominciò il Bacchetto. «Pieni di dotte disquisizioni e di parole scientifiche; eppure mi sembra che essi riguardino sempre i dischi che la gente immagina di vedere. A me questi non interessano, anche se interessavano al signor Jung. A me interessano soltanto i dischi reali, come quello sul quale io ho viaggiato, e con il quale ho potuto parlare.»

Paul sentì che il suo spirito s'innalzava. Ora sì che quella gente cominciava a comportarsi come dei maniaci di dischi volanti avrebbero dovuto fare!

Il Barba parve notevolmente offeso per quell'aperta sfida.

«Sono molto dolente di avere dato un'impressione simile, se davvero l'ho data. Credevo di avere chiarito perfettamente che…»

Doc sollevò la testa calva e tagliò corto alla difesa del Barba, posandogli una mano sul braccio, come per dirgli, «Lascia a me questo tipo.» La Turbantessa lo guardò con un debole sorriso, e sfiorò con un dito la cravatta del suo abito da sera.

Doc si piegò avanti, e chinò la cupola lucida della testa e gli occhiali scintillanti verso Bacchetto, come se quest'ultimo fosse stato un insetto di specie insignificante.

«Mi scusi, signore,» disse, con voce gelida. «Ma credo che lei affermi anche di avere visitato degli altri pianeti, a bordo di dischi volanti… pianeti che gli astronomi non conoscono.»

«Proprio così,» replicò Bacchetto, ergendosi come un fuso sulla sedia.

«Potrebbe dirmi, per favore, dove si trovano questi altri pianeti?»

«Oh, si trovano… in tanti posti,» replicò Bacchetto, conquistandosi qualche risatina subito dopo, aggiungendo, «I veri pianeti non si lasciano comandare da un branco di astronomi.»

Ignorando le risatine, Doc continuò:

«Questi pianeti si trovano dunque ai confini del nulla… sono forse i pianeti di un'altra stella, a molti anni-luce di distanza?» Ora la sua voce era gentile. Gli occhiali dalle spesse lenti parevano mandare un bagliore benigno.

«No, non è così,» disse Bacchetto. «Be', io stesso ho visitato Arietta la settimana scorsa, e il viaggio è stato di due giorni soltanto.»

Doc non si lasciò sviare da questa risposta.

«Sono dunque dei pianetini che si nascondono dietro il sole, o la luna, o magari Giove, in una specie di eclissi permanente, come persone che si nascondono dietro gli alberi di una foresta?»

«No, non sono neppure questo,» asserì Bacchetto, raddrizzando ancor più le spalle, eppure cominciando ad assumere un tono vagamente difensivo. «I miei pianeti non si nascondono dietro le sottane di nessuno… loro no! Sono soltanto… là fuori. E sono grossi, ci può scommettere… grossi come la Terra. Ne ho visitati sei.»

«Umf,» grugnì Doc. «Esiste la possibilità, forse, che si tratti di pianeti nascosti nell'iperspazio, in grado di balzarne fuori opportunamente a ogni morte di papa… diciamo, quando lei arriva a visitarli?»

Adesso era Doc che si era conquistato delle risatine divertite, ma lui ignorò anche quelle.

«Lei sta assumendo un atteggiamento di negazione pura,» disse Bacchetto in tono accusatore. «E troppo maledettamente teorico. Quegli altri pianeti sono semplicemente là fuori, le ripeto!»

«Be', se sono semplicemente là fuori,» brontolò gentilmente Doc. «Perché noi non possiamo semplicemente vederli?» Aveva piegato il capo in segno di trionfo, o forse gli occhiali gli erano solo scivolati un po' sul naso.

Ci fu una lunga pausa. E poi:

«Un nero atteggiamento negativo,» si corresse astutamente Bacchetto. «Sarebbe una perdita di tempo dirle che alcuni pianeti possiedono degli schermi d'invisibilità, che permettono alla luce di curvarsi intorno a essi. Non ho alcun interesse a discutere ulteriormente con lei.»

«Permettetemi di chiarire la mia posizione,» disse in tono rovente Doc, rivolgendosi a tutto il pubblico. «Io sono pronto a prendere in seria considerazione qualsiasi idea, senza preclusioni… anche la possibilità che esista un pianeta alieno in agguato nel nostro sistema solare. Ma io voglio qualche piccolo indizio di spiegazione razionale, anche se questo fosse la possibile esistenza di un pianeta nell'iperspazio. Concedo a Charles Fulby…» indicò con un cenno Bacchetto, «Il punteggio minimo, per la cultura che si è fatto assistendo a telefilm di seconda mano.»

Tacque, sospirando in tono vittorioso. L'Omino colse questa opportunità per alzarsi in piedi di scatto, accanto all'enorme cane Ragnarok, in fondo alla prima fila, e disse:

«Rimangono soltanto dieci minuti. So che questa discussione è interessante, ma continuate a osservare, per favore. Ricordate che, prima di ogni altra cosa, noi siamo studiosi dei dischi volanti. I pianeti volanti sono molto eccitanti, ma anche un solo piccolo disco, avvistato da un intero simposio, sarebbe per noi un vero trionfo. Grazie.»

Asa Holcomb aveva diretto il raggio della sua lampada di segnalazione verso la città, accendendo e spegnendo il raggio a intervalli regolari, lassù, alla sommità della mesa vicina alle Montagne della Superstizione. Dopotutto, teoricamente lui avrebbe dovuto tentare di salvare la propria vita. Ma poi si era stancato di quel dovere, e aveva spento la lampada, e aveva nuovamente rivolto lo sguardo verso il cielo stellato, una prateria scintillante di purissimi diamanti, nel momento dell'eclisse totale; guardò le stelle ammiccanti, e le riconobbe una per una, senza sforzo, e poi di nuovo si smarrì nella contemplazione della Luna cinerea oscurata dall'ombra della Terra, sospesa lassù in primo piano, simile a un grande emblema Hopi battuto da un gigantesco fabbro da un blocco d'argento annerito dal tempo. C'era sempre qualcosa di nuovo da vedere e scoprire, nell'immutabile cielo notturno. Sarebbe stato facile, per lui, rimanere disteso là per tutta la notte a scrutare il cielo, senza conoscere un solo momento di noia. Ma il senso di debolezza e di malessere si stava facendo più forte, e la roccia, sotto di lui, si era fatta più fredda, molto più fredda.

Pepe Martinez e 'High' Bundy si alzarono dai loro cuscini, e scivolarono come foglie d'autunno verso la vecchia parete di mattoni del tetto di Harlem. Pepe disse, indicando con un gesto languido la Luna:

«Un'altra boccata e poi… puff! Sarò lassù, proprio come John Carter.»

«Non dimenticare la tuta spaziale,» disse 'High'.

«Mi riempirò i polmoni del fumo dell'erba,» disse Pepe, «E respirerò con quello.» Fece un gesto verso le stelle. «Cosa dice quella grande tavola nera di pubblicità di gioielleria, "High"?»

'High' disse:

«Tavola! Quelle sono motociclette, amico, e ciascuna ha un faro di diamante, e vanno tutte in tutte le direzioni!»

Arab, ancora sdraiato sul suo cuscino, davanti alla tenda, intento a trangugiare qualche goccia di moscato da una bottiglia di liquore, li chiamò:

«E come è la notte, o figli miei?»

Pepe rispose:

«Bella come un serpente di seta, o padre mio.»

La Luna continuava a galleggiare nello spazio cosmico, attraversando lentamente l'ombra fredda e silenziosa della Terra, muovendosi con il suo passo costante e calmo di quaranta miglia al minuto, irrevocabilmente come il sangue che filtrava nel petto di Asa Holcomb, o come gli spermatozoi che si muovevano avidamente nelle reni di Jake Lesher, o come gli ormoni che fluivano dalle ghiandole adrenali di Don Guillermo, o come gli atomi che si dividevano per scaldare le caldaie della Principe Carlo, o come le onde che trasmettevano le loro immagini in codice nella caverna di Spike Stevens, o come il subcosciente di Wolf Loner che apriva e chiudeva le sue finestre seguendo il ritmo che egli chiamava sanità mentale. La Luna aveva fatto questo un miliardo di anni prima; e in futuro l'avrebbe fatto ancora per un miliardo di anni. Un giorno, dicevano gli astronomi, oscure forze di marea l'avrebbero lacerata, trasformandola in un fenomeno cosmico simile agli scintillanti, multicolori anelli di Saturno. Ma questo, dicevano gli astronomi, era un evento che distava ancora cento miliardi di anni.

CAPITOLO VI

Paul Hagbolt diede una gomitata di avvertimento a Margo Gelhorn, nervosamente, per far tacere la risatina sommessa della giovane donna, quando una donna nella seconda fila domandò a Doc:

«Cos'è quell'iperspazio dal quale, secondo lei, i pianeti potrebbero venir fuori?»

«Sì, perché non ci fornisce un quadro d'assieme facilmente comprensibile?» suggerì il Barba, con un tono degno di un consumato moderatore televisivo.

«È una nozione già comparsa negli studi di fisica teorica, e in moltissime opere di fantascienza.» Doc si lanciò nella spiegazione, aggiustandosi gli occhiali sul naso, e poi passandosi la mano sulla testa pelata.

«Come voi tutti sapete, la velocità della luce è generalmente accettata come la massima velocità possibile. Centottantaseimila miglia al secondo, circa duecentonovantanovemila chilometri, sembrano una velocità enorme, ma si tratta di un'andatura da tartaruga, quando viene applicata alle vaste distese che separano le stelle e i golfi cosmici ancor più sconfinati che dividono le galassie… una prospettiva proibitiva e deludente, per i viaggiatori spaziali.

«Però,» proseguì Doc, «Esiste la possibilità teorica che lo spazio-tempo venga così distorto, curvato o compresso, che remotissime parti del nostro cosmo giungano a toccarsi in un'altra e più alta dimensione… nell'iperspazio, ed è questa l'origine della parola. O perfino che tutte le parti siano in contatto con tutte le altre parti. Se esiste questo contatto universale, perciò, i viaggi più veloci della luce sarebbero teoricamente possibili a un ipotetico veicolo che uscisse dal nostro universo, penetrasse nell'iperspazio, e poi ritornasse nell'universo normale nel punto desiderato. Naturalmente, il viaggio iperspaziale è stato suggerito, come possibilità teorica, solo per delle astronavi, ma io non vedo perché un pianeta equipaggiato nella maniera adatta non possa riuscirci a sua volta… sempre in linea teorica. Scienziati autorevoli come Bernal, e filosofi come Stapledon, hanno teorizzato sulla possibiltà di pianeti vagabondi, per non parlare di scrittori come Stuart e Smith.»

«Teoria!» sbuffò Bacchetto, aggiungendo sottovoce, «Tutto fumo!»

«Cosa può rispondere a questa obiezione?» domandò il Barba a Doc, portando la domanda sul palco con perfetta imparzialità. «Esistono prove concrete dell'esistenza dell'iperspazio, o del viaggio nell'iperspazio?»

Oltre Doc, la Turbantessa fissò con curiosità i due compagni.

«Neppure un briciolo,» disse Doc, con un sorriso. «Ho cercato di indurre i miei amici astronomi a cercare qualche indizio, ma non mi prendono molto sul serio.»

«Questo è interessante,» disse il Barba. «Per esempio… quale forma potrebbero assumere gli indizi di cui ha ventilato la possibilità?»

«Ci ho pensato molto,» ammise Doc, con un certo orgoglio. «Un'idea che mi ha particolarmente colpito, durante queste riflessioni, è che la spinta necessaria a far entrare e uscire un'astronave dall'iperspazio potrebbe includere la creazione di campi gravitazionali artificiali momentanei… dei campi così intensi, che essi potrebbero distorcere visibilmente la luce stellare che passasse attraverso quel volume di spazio. Così ho suggerito ai miei amici astronomi di osservare se certi fenomeni si verificano… di stare, particolarmente, in attesa che le stelle ondeggino e mutino posizione apparente, nelle notti chiare di visibilità buona… e specialmente se il fenomeno fosse avvistato dai telescopi montati sui satelliti artificiali… e di cercare, attraverso delle foto stellari a breve esposizione, la prova del verificarsi dello stesso fenomeno… stelle che scompaiano per qualche istante, o si spostino nel cielo, o presentino improvvise e momentanee variazioni di velocità, o irregolarità di movimento».

La donna sottile della seconda fila disse:

«Ho visto sul giornale un articolo, che parla di un tizio che ha visto muoversi le stelle. Questa sarebbe una prova?»

Doc ridacchiò:

«Temo di no. Non era ubriaco? Non dobbiamo prendere troppo sul serio questi servizi giornalistici che popolano i quotidiani nella stagione morta.»

Paul avvertì simultaneamente un brivido gelido lungo la schiena, e la pressione delle dita di Margo sul suo braccio.

«Paul,» mormorò lei, in tono urgente. «Doc non sta descrivendo esattamente quello che tu hai visto in quelle quattro fotografie?»

«Sembra molto simile,» temporeggiò lui, cercando di chiarire per prima cosa il caos che si era scatenato nella sua mente. «Molto simile.» Poi, meditabondo: «Ha usato la parola 'distorcere'.»

«Be', allora?» domandò Margo. «Doc ha offerto una spiegazione possibile o no?»

«Opperly ha detto…» cominciò Paul… e si accorse che Doc stava parlando a lui.

«Scusatemi, voi due in fondo… spiacente, non conosco i vostri nomi… avete forse un contributo da offrire alla discussione?»

«Be', no. No, signore,» rispose rapidamente Paul. «Eravamo semplicemente molto colpiti dalla forza delle sue argomentazioni.»

Doc agitò la mano per un momento, accettando benevolmente l'elogio.

«Bugiardo,» bisbigliò Margo a Paul, con un sorriso. «Ho una mezza idea di raccontargli tutto.»

Paul non ebbe il coraggio di negare, e probabilmente fu una cosa buona. Stava subendo un nuovo attacco di colpa, acutissimo, malgrado non avesse una precisa localizzazione. Certamente, si disse, non poteva andare in giro a rivelare delle informazioni segrete del Progetto… addirittura a un gruppo di maniaci dei dischi volanti. Eppure, c'era qualcosa di sbagliato in un mondo nel quale delle persone come Doc non potevano venire a conoscenza dell'esistenza di quelle fotografie.

Ma poi cominciò a pensare alla sostanza dell'argomento in discussione, e il brivido ritornò, più lungo e più freddo. Accidenti, c'era qualcosa di diabolico nella maniera in cui le ipotesi di Doc calzavano con quelle fotografie. Sollevò lo sguardo, colmo d'inquietudine, e fissò la regione del cielo dove gravitava oscura la Luna in eclissi. Le parole di Margo risuonarono come un bisbiglio minaccioso nella sua memoria:

«Cosa succederebbe, se le stelle intorno alla Luna dovessero muoversi ora?»

I cesti per la raccolta di polvere lunare, appesi ai loro piedistalli di metallo sottile, sopra la pellicola vagamente scintillante di neve di ossido di carbonio, avevano l'aspetto di sinistri frutti meccanici di un giardino di ghiaccio. Muovendosi alla luce della lampa inserita nel casco della tuta spaziale, Don Merriam camminò verso il più vicino, lentamente, con la maggiore cautela possibile, per non sollevare che un minimo di polvere lunare. Malgrado le sue cautele, un po' di cristalli di ghiaccio secco si sollevarono, lungo il percorso, smossi dai pesanti stivali metallici, e descrissero un arco lento nel vuoto per poi ricadere verticalmente, come era tipico della polvere e della «neve» della luna senz'aria. Don toccò il pulsante del «cesto» che lo sigillava ermeticamente, e poi lo raccolse dal piedistallo e lo lasciò cadere nella borsa di raccolta.

«Il raccoglitore di frutta più pagato, da questa parte di Marte,» s idisse, con aria schifata. «Eppure io riesco a finire questo lavoro ancora troppo in fretta, per accontentare Gompert, il Re del Sindacato, il Monarca dei Rallentamenti.»

Sollevò di nuovo lo sguardo verso la Terra nera, all'interno dell'anello di bronzo.

«Il novantanove virgola nove per cento di quella gente,» si disse. «Sarebbe d'accordo nel dire che sto arricchendo sulla loro pelle, facendo un lavoro che non serve a niente. Lassù pensano che tutti gli esploratori spaziali siano dei fannulloni sfruttatori, i più grandi che siano esistiti dal tempo delle Piramidi. Loro, con la loro coltre d'aria… se capissero qualcosa!» Sorrise. «Hanno sentito dire che esiste un certo 'spazio', ma ancora non ci credono davvero. Non sono venuti quassù, per vedere con i loro occhi che non c'è nessun elefante gigante sotto la Terra, per tenerla su, e che non c'è una testuggine gigante per reggere l'elefante. Se dico 'pianeta' e 'astronave', loro pensano ancora 'oroscopo' e 'disco volante'.»

Voltandosi verso il cesto successivo, il suo piede toccò la pellicola di cristallo, e una debole vibrazione scricchiolante risalì lungo la tuta, partendo dal piede e risalendo la gamba. Era un'eco, che veniva dal golfo degli anni, delle sue galosce che cantavano schiacciando la dura crosta di neve del Minnesota, in una giornata fredda d'inverno.

Barbara Katz disse:

«Ehi, controlli anche lei, signor Kettering… vedo lampeggiare una luce bianca, vicino a Copernico.»

Knolls Kettering III, con le giunture lievemente scricchiolanti, prese il posto della ragazza all'oculare.

«Ha ragione, signorina Katz,» disse. «I sovietici staranno collaudando dei nuovi dispositivi di segnalazione, immagino.»

«Grazie,» fece lei. «Non mi fido mai di quello che vedo, nella Luna… continuo a vedere le luci di Luna City e di Leyport e di tutte le altre città lunari dei romanzi di fantascienza.»

«In confidenza, signorina Katz, a me succede lo stesso! E adesso c'è una luce rossa.»

«Oh, posso vederla?… Ma non voglio farla muovere continuamente. Potrei sedere sulle sue ginocchia, se non le dispiace… e se lo sgabello sopporta il peso.»

Knolls Kettering III fece una risatina di rammarico.

«A me non dispiacerebbe affatto, e lo sgabello potrebbe sopportare il peso, ma temo che le giunzioni di plastica della mia gamba non ce la farebbero.»

«Oh, accidenti, mi dispiace.»

«Non ci pensi, signorina Katz… siamo fratelli della compagnia della Lente. E non mi compatisca.»

«Non lo farei mai,» gli assicurò la ragazza. «Be', secondo me è così romantico avere un corpo con tutte queste riparazioni artificiali, proprio come i vecchi soldati che dirigono le accademie spaziali dei romanzi di Heinlein e di Edward E. Smith!»

Don Guillermo Walker dovette finalmente ammettere che il riverbero nero davanti a lui era acqua… e il piccolo lago, non quello grande, perché laggiù finalmente splendevano le luci di Managua, ammiccanti a meno di dieci miglia. Fu colpito da una nuova angoscia: di essere stato troppo minuzioso nella scelta del tempo. E se la Luna fosse uscita dall'eclissi in quel preciso momento, illuminandolo per i reattori del presidente e per i cannoni della contraerea, come un riflettore prematuro che avesse colto un tecnico di palcoscenico in tuta intento a cambiare la scena nel momento in cui il palcoscenico era stato oscurato? Avrebbe voluto essere di nuovo vicino a Chicago, quando aveva recitato piccole parti nelle compagnie estive, oppure era stato intento ad arringare un gruppo di giustizieri della John Birch Society; oppure avrebbe voluto avere di nuovo dieci anni, ed essere in un circo da cortile nel Milwaukee, a sfidare la morte scivolando da un filo rugginoso inclinato, da un'altezza di cinque metri.

Quest'ultimo ricordo gli diede coraggio. Morire per un circo da cortile… morire per una città bombardata! Lanciò i motori alla massima velocità, e dietro di lui gli alettoni martellarono l'aria un po' più rumorosamente, «Guil-ler-mo ge-ron-imo!» gridò Don Guillermo. «La Loma, eccomi… arrivo!»

CAPITOLO VII

Paul Hagbolt stava prestando solo una parte della sua attenzione agli oratori sul palco. La coincidenza delle foto stellari e dell'idea di Doc su pianeti che viaggiavano nell'iperspazio lo aveva distratto, e aveva messo in movimento la sua immaginazione. Come se un grande orologio, che lui solo poteva udire, avesse cominciato in quel momento a battere (una volta al secondo, non cinque come gli orologi da polso e quasi tutti gli orologi a molla), scoprì di essere diventato d'un tratto acutamente consapevole del tempo e di tutto ciò che lo circondava… il silenzioso gruppo di persone nel buio, la sabbia pianeggiante, il lontano, debole fruscio delle onde che si frangevano alle spalle degli oratori, la vecchia casa sulla spiaggia con le assi alle finestre, le installazioni incappucciate e ammiccanti di luci sanguigne di Vandernberg Due che si levavano come una torre nera alle sue spalle, le colline di terriccio sopra la macchia erbosa della spiaggia, e sopra ogni altra cosa la notte tiepida che schiacciava il mondo, schiacciata a sua volta dai più remoti recessi degli spazi cosmici, e rendeva ogni cosa minuscola, all'infuori del globo della Terra e della luna nera e delle stelle piccole e scintillanti.

Qualcuno rivolse una domanda a Rama Joan. Lei sorrise al Barba, e poi abbassò lo sguardo sul pubblico, e i suoi occhi parvero fissare ciascuno, uno dopo l'altro. Il gonfio turbante verde le celava i capelli, benché la sua carnagione fosse chiara come quella di Ann, e sottolineava la magrezza del suo viso. Rama Joan pareva una bambina denutrita.

Sempre senza parlare, levò lo sguardo al cielo stellato e si voltò a fissare la luna nera, poi fissò di nuovo il pubblico.

Poi disse sommessamente, ma con voce ugualmente aspra:

Che cosa sa ciascuno di noi, in realtà, di quel che esiste là fuori? Ne sappiamo meno di quanto un uomo imprigionato dalla nascita in una cella sotterranea potrebbe sapere dei milioni di abitanti di Calcutta, o di Hong Kong, o di Mosca, o di New York. So bene che alcuni, tra voi, pensano che delle razze progredite ci amerebbero e ci aiuterebbero in ogni modo, ma io giudico l'atteggiamento di razze più avanzate nei confronti dell'uomo sulla base dell'atteggiamento umano nei confronti delle formiche. Su questa base, posso dirvi una sola cosa: ci sono i demoni là fuori, nelle immensità stellate. I demoni!»

Si udì un basso rumore stridente e sordo, come se del metallo venisse piegato. Miao s'irrigidì tra le braccia di Margo, e rizzò il pelo. Ragnarok aveva ringhiato.

Rama Joan continuò:

«Tra le stelle, là fuori, nelle arcane profondità degli spazi astrali, possono esistere degli Indù incapaci di uccidere una mucca, e perfino dei Jain che accarezzano ogni superficie sulla quale si siedono, per timore di schiacciare involontariamente una formica, e che si coprono il volto con della garza, per non inghiottire un microbo, ma queste sarebbero al massimo le rare eccezioni. Tutti gli altri non si degneranno neppure di osservare la formica che schiacciano. Per noi, saranno dei demoni.»

Un nero abisso di mistero inghiottì Paul. Tutto, intorno a lui, pareva troppo reale, eppure sull'orlo periglioso della dissoluzione… tutto era raggelato, fantomatico. Guardò le stelle e la luna, cercando un appoggio, dicendosi che la volta celeste era l'unica cosa che non era cambiata nel corso di tutta la storia, ma poi una voce demoniaca bisbigliò, nelle profondità della sua mente: «Ma che accadrebbe, se le stelle si muovessero? Le stelle si sono mosse, nelle fotografie!»

Sally Harris guidò Jake Lesher sulla logora piattaforma di legno, verso il quinto e ultimo vagone del treno razzo. Gli unici passeggeri di quel viaggio, oltre a loro, erano un ragazzo e una ragazza, una coppia portoricana dall'aria timida, che stava già aggrappata alle sbarre di sicurezza con tutte e quattro le mani.

«Mio Dio, Sal, tutto il tempo che ho dovuto aspettare,» disse Jake, «E le deviazioni che ho dovuto discendere… voglio dire salire!… per accontentarti. L'attico di Hasseltine…»

«Zitto, questa non è un'attesa e neppure una deviazione, amoruccio,» bisbigliò lei, quando il tecnico passò da quella parte, compiendo l'ultimo controllo affrettato prima del lancio. «Adesso ascolta bene: non appena cominceremo a salire, scivola avanti per almeno trenta centimetri, e aggrappati allo schienale del sedile con la mano sinistra, con tutta la forza che puoi, perché con l'altra mano dovrai stringere me.»

«Ma il braccio destro è dall'altra parte, rispetto a te, Sal.»

«Adesso sì,» gli disse lei, e lo accarezzò in un punto delicato.

Lui sbarrò gli occhi, fissandola, e poi sorrise, incredulo.

«Tu limitati a seguire le istruzioni,» gli disse lei. Con uno scricchiolio e un sobbalzo, il trenino cominciò la sua ascesa verticale. A una dozzina di metri dalla cima, lei si mise a sedere agilmente, mosse la gamba in un arco scintillante, e serrò a forbice tra le gambe divaricate i fianchi del ragazzo. Con una mano gli afferrò il collo, con l'altra, rapidamente, sistemò adeguatamente le cose.

«Gesù, Sal,» ansimò luì, «Scommetto che faremo muovere la terra, come in Per Chi Suona la Campana!»

«La Terra, all'inferno!» gli disse lei, scoprendo i denti in un sorriso da Valchiria, quando il trenino parve arrestarsi, prima della lunga caduta, e il rimorchio si staccò. «Io farò muovere le stelle!»

Rama Joan disse:

«Oh, immagino che i popoli delle stelle saranno meravigliosi per noi, ci incuteranno rispetto, ammirazione e timore… e saranno infinitamente affascinanti, come lo è il cacciatore per un animale selvaggio che ancora non ha ricevuto la pallottola. Anch'io provo un tremendo interesse verso di loro, e sempre cerco di immaginare come saranno… eppure, malgrado tutto questo, per noi essi saranno sempre crudeli e remoti come il novantanove per cento di tutte le nostre divinità. E cosa sono gli dei del genere umano, se non il suo modo d'immaginare esseri di razze più avanzate? Prendete le testimonianze di diecimila anni di storia, se non volete prendere la mia, e vi renderete conto che là fuori… lassù… esistono i demoni.»

Ragnarok ringhiò di nuovo. Miao si rannicchiò contro le spalle di Margo, affondando le unghiette nel vestito.

L'Omino disse:

«Fine della totalità.»

«Davvero, Rama Joan,» disse Doc. «Questa è una sorpresa.»

Margo disse:

«Miao, va tutto bene!»

Paul guardò in alto, e vide il bordo orientale della Luna illuminarsi, e fu come la liberazione da un'oscura e misteriosa prigione. Capì d'un tratto che i suoi terrori incomprensibili sarebbero finiti, con la fine dell'eclisse.

A mezza dozzina di diametri lunari a est della Luna, uno squadrone di stelle parve girare, descrivendo delle piccole virgole strette nel cielo nero, trasformandosi in macchioline distorte, come una minuscola fontana di fuochi artificiali sgorgata dal cielo, un'eruzione microbica, un lampeggiare di lucciole remote… e poi si spense, e in quel punto il cielo diventò nero.

Dalla sua mesa solitaria, nell'aria cristallina della notte, Asa Holcomb vide tremare le stelle vicino alla Luna, come se nel cosmo fosse stata suonata un'angelica fanfara. Poi una grande porta d'oro e di porpora, quattro volte più grande della Luna, si aprì nella volta celeste in quel punto, dissipando l'oscurità della notte come d'incanto; e Asa si protese ansioso verso quella porta, tendendo le braccia, e il suo cuore si gonfiò per la maestà e il prodigio di quella visione, e la sua aorta si ruppe completamente, ed egli morì.

Sally Harris vide tremare le stelle nel momento in cui lei e Jake, strettamente allacciati e con il corpo più leggero per la velocità, stavano giungendo alla sommità della sesta vetta del Razzo di Dieci Piani di Coney Island. Nel cieco mondo egoistico dell'appagamento sessuale, che si stende esattamente sul confine tra le regioni conscie e inconscie della mente, lei seppe che le stelle erano un distretto provinciale di lei stessa… le Frontiere di Sally Harris… e così si limitò a dire, con una voce rauca e affannosa:

«Ce l'ho fatta, Cristo! Avevo detto che l'avrei fatto, e l'ho fatto!»

E anche quando, alla sommità della vetta successiva, dopo un tuffo pulsante e mozzafiato fino al nadir, e una nuova, eccitante ascesa, lei vide le stelle tremolanti sostituite da un disco giallognolo e rossigno, venti volte più grande della Luna, e tanto luminoso da mostrare l'imbastitura sulle spalle del vestito di Jack, mentre il ragazzo teneva il viso premuto tra i seni di lei, lei inarcò il capo, come una Valchiria, sentendo il freddo contatto della sbarra di sicurezza tra le natiche, e gridò alla volta celeste, con voce trionfante:

«Gesù, c'è anche un premio!»

'High' Bundy disse:

«Oh, che viaggio! Ascolta, Pepe, c'è questo vecchio cinese pazzo, più grosso di King Kong, dall'altra parte del mondo, che scalcia verso di noi, e sta dipingendo dei piatti dorati che sembrano due gocce d'acqua che fanno all'amore, e li lancia contro la luna gettandoli dietro le spalle, quando li finisce, e uno di essi si è bloccato lassù.»

«Lo vedo,» tubò Pepe. «Sta illuminando tutta New York. Illuminazione a piatto!»

«Lo vedo anch'io,» disse Arab, dietro di loro. «Fratello, che erba fenomenale!»

Knolls Kettering III, con l'occhio incollato all'oculare, nella buia notte di Palm Beach, stava dicendo, un po' pomposamente:

«Il nome 'pianeta', signorina Katz, deriva dal verbo greco planasthai, vagabondare. In origine, significava semplicemente 'il Vagabondo': un corpo che erra qua e là, tra le stelle fisse.» La sua voce parve più tesa. «Ehi, la luna si sta illuminando, e non solo lungo il bordo che esce dall'eclissi. Sì, non c'è dubbio. E ci sono dei colori.»

Una mano si curvò sulla sua spalla, con un atteggiamento protettivo, e la voce più minuscola che lui avesse mai udito in vita sua… come se Barbara Katz si fosse trasformata in una cavalletta… disse:

«Papà, per favore non stacchi l'occhio dal telescopio, in questo momento. Deve prepararsi a un grosso colpo.»

«Un colpo? Di che si tratta, signorina Katz?» le domandò nervosamente, obbedendo però alle istruzioni.

«Non sono molto sicura,» continuò la voce microscopica, una vocina sottile e timida che era quasi irriconoscibile. «Sembra una vecchia copertina di Amazing. Papà, credo che il suo Vagabondo abbia vagabondato da queste parti… solo che i Greci non li facevano così grossi. Credo che sia un pianeta.»

Paul, sobbalzando, aveva chiuso gli occhi per due secondi al massimo.

Quando li riaprì, il Vagabondo era lassù, e inondava il mondo di torrenti di luce dorata e sanguigna.

Il Vagabondo era lassù, quattro volte più grande del diametro della Luna, e a circa quattro diametri di distanza a est della Luna nel cielo, sedici volte l'area della Luna, diviso da una curva a S capovolta ondeggiante in due metà giallo e marrone, apparentemente più morbido del velluto, eppure con un contorno netto, stagliato, privo di qualsiasi alone.

Paul vide tutto questo come un disegno visuale, lo vide in un lampo, senza anlizzarlo. Un istante più tardi si era gettato al suolo, con le spalle serrate e la testa in giù, lontano dal Vagabondo. Perché la prima impressione dominante era di qualcosa di gigantesco e fiammeggiante sopra di lui, qualcosa di orribilmente massiccio, ormai sul punto di schiacciare la Terra e di schiacciare Paul Hagbolt.

Margo, che stringeva Miao, era sul palco di legno, accanto a lui.

Fu un semplice caso, ma in quel momento lo sguardo di Paul era diretto sul programma che teneva in mano. Automaticamente lesse una riga: «Il nostro conferenziere barbuto è Ross Hunter, Professore di Sociologia, Reed College Portland, Oregon»… prima di rendersi conto che stava leggendo perfettamente, alla luce del Vagabondo.

Per Don Guillermo, che si avvicinava alla collina che ospitava un grappolo di edifici governativi, e aveva gli occhi puntati sul 'Palazzo', e la mano sinistra stretta intorno al pomello di sgancio delle bombe, il Vagabondo fu un reattore lealista del Nicaragua che si era materializzato alla sommità della coda, eruttando un vulcano di silenziosi proiettili magnetici. Si rannicchiò sul sedile, chiuse gli occhi, e irrigidì collo e spalle preparandosi al colpo mortale. I proiettili non vennero, e non vennero ancora… quel bastardo doveva essere un sadico che prolungava con gioia l'agonia della sua vittima.

Fece virare l'aereo a sinistra, verso il grande lago, seguendo il piano, poi si costrinse a guardare in alto, alle sue spalle. Accidenti, quel maledetto ordigno era soltanto un grosso pallone di sbarramento che era stato improvvisamente illuminato, chissà come. E pensare che lo avevano ingannato con un trucco da carnevale simile, facendo sì che lui non sganciasse le bombe! Ma ci avrebbe pensato lui… sarebbe tornato indietro, e gliel'avrebbe fatta vedere, a quei bastardi!

In quel momento un abbagliante vulcano roseo eruttò da La Loma, ed egli vide che la sua mano sinistra stringeva un pomello al quale era appeso ora un filo spezzato. Un istante dopo, un'esplosione lo raggiunse, e fece tremare l'aereo. Raddrizzò il volo, e automaticamente continuò a viaggiare verso il Lago Nicaragua.

Ma, si domandò, com'era possibile che un pallone del genere si tenesse alla medesima velocità del suo vecchio apparecchio? E perché tutto il paesaggio era illuminato, come se fosse stato alzato il sipario del teatro universale?

Bagong Bung, con la testa arrostita dal sole, e le mani appoggiate alla ringhiera del ponte, ma con la mente intenta a immaginare un relitto avvolto d'alghe verdeggianti e con il nucleo d'oro, sommerso a meno di venti leghe di distanza, era del tutto inconsapevole, e non avvertiva uno iota del senso di mistero e di bizzarria, nel momento in cui il fronte gravitazionale di un corpo sconosciuto colpiva la Terra, dall'altra parte del mondo, arrivando nelle più riposte fibre del corpo di tutti gli uomini, e perciò anche in ogni atomo del corpo di Bagong Bung. Dato che esso aveva stretto con forza proporzionale la Machan Lumpur, il Golfo del Tonchino, e l'intero pianeta, il gorgo di polvere cosmica non produsse alcun effetto, oltre a quello di turbare i pensieri di Bagong Bung per un secondo.

Se Bagong Bung avesse guardato la bussola della Machan Lumpur, avrebbe visto l'ago girare follemente, e poi fermarsi tremando in una nuova direzione, lievemente spostata a est del nord, ma il piccolo malese guardava raramente gli strumenti… conosceva troppo bene quei mari poco profondi. E aveva avuto a che fare tante volte con i voltagabbana e i doppiogiochisti, sia dalla parte dei capitalisti che da quella dei comunisti, che anche se avesse visto girare la bussola, avrebbe pensato semplicemente che, dopotutto, anche lo strumento mostrava il suo grado naturale di instabilità politica.

Wolf Loner corrugò la fronte, nel suo sonno freddo e umido, a metà strada dagli antipodi, la piccola bussola della Pazienza girò e si riaggiustò in una maniera identica a quella della Machan Lumpur, e nello stesso istante il dito azzurrino di un fuoco di Sant'Elmo brillò brevemente alla sommità dell'albero. Wolf Loner si agitò, e quasi si svegliò, poi il sonno proseguì, questa volta più disteso.

Il generale Spike Stevens ringhiò:

«Jimmy, fai sparire quella grossa bruciatura, prima che perdiamo uno schermo.»

«Sissignore,» rispose il capitano James Kidley. «Ma di quale schermo si tratta? Continuo a vederla su entrambi.»

«È su entrambi,» intervenne raucamente il colonnello Willard Griswold. «Guarda meglio, Spike. È la fuori… grosso come la Terra.»

«Scusami, Spike,» intervenne il colonnello Mabel Wallingford… e il cuore della donna batteva più forte. «Ma non potrebbe essere un problema? Il Quartier Generale potrebbe influenzare le trasmissioni a piacimento, per controllare le nostre condizioni di efficienza.»

«Bene,» disse il generale, aggrappandosi alla cintura di salvataggio che lei gli aveva lanciato; e questo fece sorridere rabbiosamente la donna. Spike si era spaventato! Il generale continuò, «Se è un problema… come credo che sia… questo è il primo elemento. Entro cinque secondi, i nostri impianti di comunicazione gronderanno dati simulati di crisi. Va bene, allora, facciamo finta che si tratti di un problema.»

Con un violento sforzo di volontà, Paul si mise a sedere, e vide che il Vagabondo, almeno per quanto egli poteva giudicare, non si muoveva, e non cambiava aspetto. Aiutando nel medesimo tempo Margo a rialzarsi, si alzò in piedi, pur rimanendo un po' curvo, sotto il globo sanguigno del Vagabondo, come un uomo procede un po' curvo sotto una massiccia sporgenza di pietra, o per allontanarsi da un pugno sollevato.

Apparentemente, la reazione di gettarsi a terra era stata universale. Le sedie erano disseminate intorno e rovesciate; le persone che si erano trovate in prima fila, e i partecipanti al dibattito, non si vedevano.

Non del tutto universale, però. Bacchetto era in piedi, diritto come un fuso, e stava dicendo con una voce un po' stridula, ma singolarmente tranquilla:

«Non lasciatevi prendere dal panico, gente. Non vedete che si tratta di un grosso pallone sonda? Dal disegno, scommetto che è stato fabbricato in Giappone!»

Una donna pigolò, sotto il palco:

«L'ho visto sollevarsi da Vandenberg! Perché si è fermato? Sta ancora mandando fuoco! Perché non continua a salire?»

Di sotto il tavolo venne un ruggito; era la voce di Doc.

«Restate giù, stupidi! Non sapete che il fungo atomico diventa una perfetta sfera, nello spazio esterno?» Poi, un po' più piano. «I miei occhiali, Rama Joan… dove sono finiti?»

Ragnarok, con la coda tra le gambe, ritornò quasi esattamente al centro della piattaforma, descrivendo ampi giri, si fermò là, tra le sedie vuote, sollevò il muso verso il Vagabondo, e cominciò lentamente a ululare. Paul e Margo, camminando verso la prima fila, per raggiungere gli altri, si tennero alla larga dal cane.

Ann salì sulla piattaforma, dietro di loro.

«Perché hanno tutti paura?» domandò a Paul, allegramente. «Quello dev'essere il disco più grosso che sì sia mai visto.» Spense la lampadina che portava appesa al collo. «Di questa non ne ho più bisogno.»

Bacchetto ricominciò a cantilenare in tono privo d'emozione, monotono.

«Il pallone sonda giapponese si sta muovendo molto lentamente, gente. Passerà bassissimo sulle nostre teste, ma non abbiate paura, ci mancherà.»

L'Omino apparve sulla piattaforma, camminò fino a Bacchetto, allungò la mano e cominciò a scuotergli il braccio.

«Un pallone sonda potrebbe affievolire la luce delle stelle, lasciandone solo una mezza dozzina delle più luminose visibili a occhio nudo?» domandò. «Mostrerebbe così chiaramente i colori delle nostre automobili, laggiù? Trasformerebbe Vandenberg in una montagna verde, e ci permetterebbe di vedere il Pacifico, fino alle isole di Santa Barbara? Accidenti, mi risponda, Charles Fulby!»

Bacchetto si guardò intorno. Poi le pupille dei suoi occhi salirono e sparirono alla vista, ed egli scivolò lentamente contro una sedia, e giacque immobile sulla piattaforma. L'Omino guardò il corpo privo di sensi con occhio critico, e poi, dopo un momento di meditazione, disse:

«Qualunque cosa sia, non è Arietta.»

Simultaneamente, la lucida cupola e gli scintillanti occhiali di Doc, e il volto magro di Hunter… il professore del Reed College, che avevano ribattezzato mentalmente 'il Barba'… spuntarono da sotto il tavolo. Per un momento diedero l'impressione di due robusti nani. Poi:

«Non si tratta di fuoco atomico,» annunciò, «Altrimenti continuerebbe a espandersi. E all'inizio sarebbe stato maledettamente più luminoso.» Aiutò Rama Joan ad alzarsi in piedi. Un capo verde penzolava dal turbante. La camicia bianca era spiegazzata.

Anche Hunter si alzò in piedi.

Ann allungò una mano, e toccò Miao.

«Il vostro gatto sta facendo le fusa, e sta guardando il grosso disco,» disse la bambina dai capelli rossi a Paul e a Margo. «Credo che voglia prenderlo.»

Il Vagabondo continuò a rimanere sospeso nel cielo, morbido e vellutato, ma nettamente definito, incontrovertibile, con le chiazze marrone e dorate che formavano un distorto analogo del simbolo yin-yang della luce e delle tenebre, del maschio e della femmina, del bene e del male.

Mentre gli altri guardavano e fantasticavano, l'Omino estrasse dalla tasca della giacca un piccolo blocco per appunti, e disegnò un preciso contorno, uno schizzo o un diagramma, su una delle pagine bianche, rendendo continua la linea frastagliata di divisione del nuovo corpo celeste, e indicando la regione purpurea con un'ombreggiatura di linee parallele.

LO SCHIZZO DELL'OMINO

Don Merriam raccolse l'ultimo 'cesto' e si avviò di nuovo verso la Capanna. Guardò la volta celeste, per osservare l'eclisse. L'anello ora era luminosissimo sulla destra. Era ormai questione di secondi, e poi il disco del sole avrebbe cominciato a emergere, riportando sulla superficie lunare la rovente luce del giorno, e addolcendo il disco d'inchiostro della Terra con il riverbero della Luna.

A questo punto, si fermò bruscamente. Il disco del sole non era ancora apparso, ma il disco della Terra, nero come l'inchiostro un attimo prima, adesso brillava di una luminosità venti volte più intensa di quanto egli non avesse mai visto al chiarore lunare. Riuscì subito a distinguere facilmente le due Americhe, e sopra il bordo destro lo scintillio debole e minuscolo dei ghiacci della Groenlandia.

«Guarda la Terra, Don.» La voce di Johannsen suonò brusca e decisa al suo orecchio.

«Lo sto facendo, Yo. Che cos'è?»

«Non lo sappiamo. Una ipotesi: c'è una spaventosa esplosione in qualche altro punto della Luna… la Base Sovietica saltata in aria con tutti i suoi dispositivi atomici… tutto il combustibile dei loro razzi esploso…»

«Impossibile, non farebbe tanta luce, Yo. E comunque, può darsi che Ambartsumian abbia inventato un nuovo dispositivo d'illuminazione solare.»

«Un faro atomico?» Johannsen fece una risata aspra. «Dufresne ha appena avanzato l'Ipotesi Numero Tre: Tutte le stelle, dietro di noi, si sono trasformate in novae.»

«Questo sembra più verosimile,» concesse Don. «Ma, Yo, cos'è quella chiazza nell'Atlantico?»

La chiazza alla quale si riferiva era una specie di faro giallo e purpureo, come un disco nelle acque pallide.

Richard Hillary tirò la tendina accanto al suo sedile, per proteggersi dal basso sole dardeggiante del mattino, e si appoggiò comodamente allo schienale, mentre la corriera per Londra acquistava velocità. Era un piacevole contrasto con il piccolo autobus traballante che lo aveva portato da Portishead a Bristol. Finalmente sentì che il suo senso di disgusto cominciava a diminuire, come se i suoi intestini, vittime di folli convulsioni un'ora prima, si stessero riarrotolando in spire normali e sedate.

E guarda cosa può fare alle immagini mentali di una persona una sola notte trascorsa con un poeta gallese pieno di birra, pensò, con una certa vergogna. Come se nel mio ventre ci fossero dei serpenti, guarda un po'! Basta con queste cose, almeno per un bel po' di tempo!

Dai Davies era stato particolarmente chiassoso ed esagerato al momento della partenza, e aveva cantato a gran voce frammenti di un 'Arrivederci Mona' che aveva improvvisato sotto i fumi dell'alcol. Quei brani erano stati colmi di orridi neologismi, quali 'scuro di luna' e 'brillare di ragazza'; e il sollievo di Richard, nell'essersi finalmente liberato di Dai, era stato genuino e profondo. Non lo aveva neppure disturbato, almeno non ancora, il fatto che l'autista della corriera avesse acceso la radio, sia pure a volume ridotto, infliggendo alla mezza dozzina di passeggeri del neojazz americano, pretenzioso come il Partito Repubblicano.

Fece un sospiro silenzioso ma sentito. Sì, basta con Dai, per un poco, basta con la fantascienza, e basta con la Luna. Sì, in particolare, basta con la Luna.

La radio annunciò:

«Interrompiamo il programma per trasmettervi una sconcertante notizia d'agenzia, giunta in questo momento dagli Stati Uniti.»

CAPITOLO VIII

Hunter e Doc balbettavano ed emettevano torrenti di parole contemporaneamente, osservando il Vagabondo. La cupola calva di Doc aveva un soprannaturale alone color magenta, quando la testa scura e il volto barbuto di Hunter momentaneamente coprirono la metà dorata del corpo celeste.

Paul, improvvisamente percorso da una strana, elettrica energia nervosa, balzò sulla piattaforma, accanto a loro e disse, ad alta voce:

«Sentite, io possiedo alcune informazioni segrete sull'esistenza di fotografie stellari che mostrano regioni di distorsione, le quali confermano completamente quel che lei, signore, ha detto prima…»

«Silenzio! Non ho tempo per ascoltare le affermazioni pazzesche di voi maniaci dei dischi volanti,» ruggì Doc, senza malanimo, e proseguì subito, «Ross, le concedo che, se quell'oggetto è alla stessa distanza della Luna, deve essere grosso come la Terra. Deve essere così. Ma…»

«Ammesso che si tratti di una sfera,» intervenne seccamente Hunter. «Potrebbe essere piatto come un biliardo.»

«Certo, ammesso che sia una sfera. Ma questa è un'ipotesi naturale, razionale, non trova? Stavo dicendo che se invece si trovasse a mille miglia di altezza, allora il suo diametro dovrebbe essere soltanto…» chiuse gli occhi per due secondi, «Di trenta miglia. Mi segue?»

«Sicuro,» disse Hunter. «Triangoli similari e ottomila miglia diviso per 250.»

Doc annuì con tale violenza che per poco non gli caddero gli occhiali, e fu costretto ad afferrarli con una mano, per raddrizzarli.

«E se fosse soltanto a cento miglia di altezza… una quota ancora sufficiente per dare un'illuminazione generale, anche se in questo caso non potrebbe trattarsi di luce solare riflessa…»

«Allora il suo diametro sarebbe di sole tre miglia,» concluse Hunter.

«Sì,» ammise Paul, ad alta voce, «Ma in questo caso dovrebbe muoversi in un'orbita di novanta minuti. Questo significa quattro gradi al minuto… sufficiente per farci giudicare rapidamente la velocità, anche senza le stelle come punto di riferimento.»

«Lei ha perfettamente ragione,» disse Doc, rivolgendosi a lui, ora, come se si fosse trattato di un vecchio collega. «Quattro gradi sono la lunghezza della Cintura di Orione. E saremmo in grado di percepire un simile movimento molto rapidamente.»

«Ma come può essere certo che si tratti di un'orbita, qualsiasi essa sia?» domandò Hunter. «Come facciamo a stabilire con sufficiente certezza una cosa simile?»

«È un'altra ipotesi razionale, e naturale, come la precedente,» gli disse Doc, in tono un po' aspro e alzando la voce. «Come già abbiamo dato per scontato il fatto che l'oggetto rifletta la luce solare. Qualunque ne sia la provenienza, esso si trova ora nello spazio, così dobbiamo presumere che esso obbedisca alle leggi dello spazio, fino a quando non avremo avuto qualche prova contraria.» Si rivolse a Paul. «Cosa diceva prima, a proposito di fotografie stellari?»

Paul cominciò a spiegare la cosa.

Margo non aveva seguito Paul sul palco. Intorno a lei, gli spettatori si affollavano e chiacchieravano freneticamente; due donne erano inginocchiate accanto a Bacchetto, e gli stavano massaggiando i polsi, l'Omino stava dando la caccia a qualcosa, dietro le sedie, ma Margo guardava oltre la sabbia la sagoma spettrale d'ametista e di topazio del Vagabondo, una nuova aurora che rischiarava livida le acque del Pacifico. Fantasticò per qualche istante, e in questo fantasticare un'idea prese forma nella sua mente… il pensiero che tutti i fantasmi e gli spettri del passato, il suo passato, o forse il passato del mondo, sarebbero venuti marciando verso di lei, un cupo battaglione in marcia su quell'autostrada di pietre preziose.

Il viso della Turbantessa apparve nel suo campo visuale, e le disse in tono d'accusa:

«Io la conosco… lei è l'amichetta di quell'astronauta. Ho visto la sua foto su Life.»

«Ha ragione, Rama Joan,» disse una donna che indossava una maglietta grigia e un paio di minishorts, rivolgendosi alla Turbantessa. «Devo avere visto anch'io la stessa foto.»

«È venuta con un uomo,» offrì Ann, che era accanto a Rama Joan. «Ma sono brave persone; hanno portato un gatto. Vedi come sta fissando il grosso disco di velluto, mammina?»

«Sì, cara.» Rama Joan assentì, con un sorriso un po' crudele. «Vede dei demoni. I gatti li amano.»

«La prego, non cerchi di spaventarci più di quanto non lo siamo già,» le disse seccamente Margo. «È stupido e infantile.»

«Oh, lei crede che non ci saranno dei demoni?» domandò Rama Joan, in tono colloquiale. «Non si preoccupi per Ann. A lei piace tutto.»

Ragnarok, avvicinandosi, fissò Miao e ringhiò verso di lei. L'Omino, che stava cercando ancora qualcosa a tentoni dietro le sedie, disse seccamente:

«A cuccia, amico!»

Margo faticò per tener ferma la gatta, e ricevere il minimo possibile di graffi. Rama Joan le voltò le spalle, e osservò pensierosa il Vagabondo, e poi la Luna che stava ancora emergendo dall'eclisse. L'Omino trovò quel che aveva cercato fino a quel momento, e sedette su una delle sedie, posando la cosa sulle ginocchia… qualcosa che aveva le dimensioni di una valigetta da rappresentante, ma aveva gli angoli più acuti.

Sulla piattaforma, Doc stava dicendo a Paul:

«Be', sì, quelle foto sembrano suggerire l'ipotesi di un'emersione dall'iperspazio, ma…» Gli occhiali ingrandirono smisuratamente la sua espressione accigliata. «Purtroppo non vedo come possano contribuire a risolvere i nostri problemi, qui e adesso. Specialmente, quello che riguarda la distanza di quel dannato corpo celeste.» L'espressione accigliata si accentuò.

Hunter disse a Doc, ad alta voce:

«Rudolf! Mi ascolti!»

Doc raccolse un ombrello, e disse:

«Spiacente, Ross, devo fare una cosa,» e balzò dal palco, piuttosto pesantemente, atterrando sulla sabbia.

Paul si rese conto di quale fosse la natura della strana energia che lo inondava, perché ora poteva vedere che essa possedeva tutti gli altri… si trattava di pura esaltazione, come se tutti avessero respirato dell'aria con una percentuale di ossigeno enorme.

«Ma è importante,» continuò Hunter, parlando a gran voce, per metà a Paul, e per metà a Doc che era inginocchiato nella sabbia, dietro Paul. «Se quell'affare si trova solo a cento miglia di altezza, si trova nel cono d'ombra della Terra, e non può riflettere la luce solare. Così, immaginiamo che per un momento l'ipotesi che si trovi a dieci miglia di altezza sia esatta. Si tratta di una quota sufficiente a illuminare un'ampia regione. E in questo caso l'oggetto avrebbe un diametro di tre decimi di miglio… solo cinquecento iarde. Rudolf, ascolti… so che abbiamo tutti riso della vecchia idea di Charles Fulby, quella di un pallone sonda, o di segnalazione… ma sappiamo che dei palloni del diametro di cento iarde sono stati lanciati a quote di venti e più miglia. Se presumiamo che un gigantesco pallone, il quale trasporti all'interno una potentissima sorgente di luce, che probabilmente aiuta la salita scaldando il gas del pallone…» Si interruppe. «Rudolf, ma cosa diavolo sta facendo laggiù?»

Doc aveva infilato l'ombrello chiuso nella sabbia, ed era inginocchiato accanto a esso, e li guardava dal basso, attraverso la curva del manico. Il Vagabondo si rifletteva con riberberi fantastici nelle spesse lenti.

«Sto controllando l'orbita di quel dannato oggetto,» disse Doc. «Voglio allinearlo con l'angolo del tavolo a questo ombrello. Che nessuno muova quel tavolo.»

«Bene, le stavo dicendo,» chiamò Hunter, «Che può darsi che non segua affatto un'orbita, ma che stia semplicemente galleggiando. Le sto dicendo che potrebbe trattarsi soltanto di un pallone, grosso come cinque campi da football!»

«Ross Hunter!» La voce di Rama Joan era squillante, e aveva una sfumatura ironica. L'uomo barbuto si voltò. E tutti gli altri lo imitarono.

«Ross Hunter!» ripeté Rama Joan. «Venti minuti fa, lei ci stava parlando di grandi simboli nel cielo, e ora si accontenta di un grosso pallone rosso e giallo. Oh, bambini che non siete altro, guardate la Luna!»

Paul imitò tutti coloro che portavano una mano alla fronte, per proteggere gli occhi dal riverbero del Vagabondo. Il bordo orientale della Luna riluceva di luce bianca, ormai uscito per quasi un terzo dall'eclissi, ma perfino quell'area aveva delle chiazze colorate, mentre il margine ombreggiato e ancora scuro, intorno alla falce sottile, era pieno di riverberi purpurei e dorati. Senza alcun dubbio, la luce del Vagabondo pioveva con altrettanto vigore, se non di più, su quella faccia della Luna, come sulla Terra.

Il silenzio fu rotto da un improvviso ticchettio. L'Omino aveva aperto una macchina per scrivere portatile sulle ginocchia, e stava battendo industriosamente sui tasti. A Margo, quel ticchettio irregolare parve fuori luogo e solitario come qualcuno che avesse ballato il tip-tap su una tomba di un cimitero.

Il generale Spike Stevens disse, seccamente:

«D'accordo, dato che il Quartier Generale Uno non ha preso il controllo, ci pensiamo noi. Jimmy, invia quest'ordine alla Base Lunare: Lanciare un'astronave e compiere ricognizione del nuovo pianeta dietro di voi. Distanza valutata da vostra posizione 25.000 miglia. (Aggiungere le coordinate spaziali lunacentriche, a questo!). Vitale ottenere dati di ricognizione. Inviare dati direttamente.»

Il colonnello Griswold disse:

«Spike, i trasmettitori delle loro astronavi non sono sufficientemente potenti da raggiungerci.»

«Useranno come relé la Base Lunare.»

«Impossibile. Le onde radio non potranno raggiungerla, attraverso la crosta lunare.»

Spike fece schioccare le dita.

«D'accordo, allora ordina di lanciare due astronavi. Una per effettuare la ricognizione, l'altra… dopo un intervallo adeguato… per funzionare come relé tra il ricognitore e la Base Lunare. Bene. Dovrebbero avere tre astronavi funzionanti, no? Allora cambiamo… facciamo due per esplorare il nuovo pianeta, a nord e a sud, e la terza in orbita lunare, come appoggio e relé. Sì, Will. So che a questo modo sulla Luna rimarrà un uomo solo, senza astronavi, ma dobbiamo avere i frutti della ricognizione anche se questo dovesse costarci la base.»

Il colonnello Mabel Wallingford, rabbrividendo nell'atmosfera elettrica della sala sotterranea, ebbe un pensiero improvviso: E se non fosse stato un problema? Spike non sarebbe stato capace di affrontarlo, in questo caso. E pensò, ancora, In questo caso, io gli avrei dato la sua piccola vittoria, e gliela vedrei portare via!

Margo Gelhorn sentì che una delle donne diceva:

«Aspetta ancora prima di alzarti, Charlie.» Bacchetto era disteso tra le sue braccia, e stava fissando con grande serenità il Vagabondo, con un debole, remoto sorriso sulle labbra.

Impulsivamente, Margo si avvicinò. Anche Rama Joan lo fece, tenendo stretto automaticamente il capo penzolante del suo turbante verde.

«Ispan,» disse debolmente l'uomo allampanato. «Oh, Ispan, come ho potuto non riconoscerti? Immagino di non avere mai pensato a questo tuo volto.» Poi, con voce più alta, «Ispan, mondo di porpora e d'oro, Ispan, il Pianeta Imperiale.»

«Ispan,» disse l'Omino, senza emozione, continuando a scrivere a macchina.

«Charlie Fulby, vecchio bugiardo,» disse Rama Joan, quasi con tenerezza. «Perché continui questa commedia? Sai benissimo di non avere mai messo piede su un altro pianeta in tutta la tua vita.»

La donna lanciò un'occhiata infuocata, ma Bacchetto sollevò lo sguardo, fissando senza rancore la donna dal turbante verde.

«Non in carne e ossa, non col mio corpo, no, questo è verissimo, Rama,» disse. «Ma li ho visitati per anni e anni, nei miei pensieri. Sono sicuro della loro realtà, come Piatone era sicuro della realtà degli universali e come Euclide era sicuro della realtà dell'infinito. Ispan e Arietta e Brina devono esistere, proprio come Dio. Io lo so. Ma per far comprendere questo alla gente, nella nostra epoca materialistica, ho dovuto fingere di averli visitati fisicamente.»

«E perché adesso abbandoni la finzione?» lo incoraggiò gentilmente Rama Joan, come se già avesse conosciuto la risposta.

«Ora nessuno ha più bisogno di fingere,» disse sommessamente Bacchetto. «Ispan è qui.»

L'Omino fece uscire il foglio dal rullo della macchina per scrivere, lo infilò in un cartone a molletta, salì sul palco, e batté sul tavolo per richiamare l'attenzione.

Leggendo il foglio, annunciò:

«Dopo il luogo, data, ora e minuto, ho scritto: Noi sottoscritti abbiamo visto un oggetto circolare nel cielo, vicino alla Luna. Il suo diametro apparente era di quattro volte superiore a quello della Luna. Le sue due metà erano color porpora e oro, e assomigliavano a un Yin-Yang, o all'immagine speculare del numero sessantanove. Esso emetteva luce sufficiente a leggere correntemente e ha mantenuto il medesimo aspetto per almeno 20 minuti. Qualche correzione? Benissimo, lo farò circolare tra i presenti, pregandoli di firmare in caratteri chiari quanto è stato dichiarato. Desidero anche i vostri indirizzi.»

Qualcuno brontolò, ma Doc chiamò, dal punto in cui si trovava sulla sabbia:

«Benissimo così, adesso agli atti!» L'Omino presentò il suo foglio alle due donne più vicine a lui. Una ridacchiò istericamente, l'altra prese la penna e firmò.

Paul chiamò Doc:

«È già riuscito a notare qualche movimento?»

«No, non posso ancora essere sicuro di niente,» fu la risposta di Doc, che si rialzò con prudenza, come se non volesse disturbare l'ombrello infilato profondamente nella sabbia. «Certamente possiamo escludere l'ipotesi dell'orbita vicina alla Terra.» Si issò nuovamente sul palco. «C'è nessuno, qui, che abbia un piccolo telescopio o un cannocchiale?» domandò, senza troppa speranza. «O un binocolo da teatro?» Aspettò ancora un momento, poi si strinse nelle spalle. «Proprio degno di loro,» disse a Paul, togliendosi gli occhiali e pulendoli con un pezzetto di stoffa. «Che branco di orecchianti.»

Il viso di Hunter s'illuminò.

«C'è qualcuno, qui, che abbia una radio?» gridò.

«Io,» disse la donna magra, seduta sulla piattaforma accanto a Bacchetto.

«Bene, allora cerchi una stazione che trasmetta dei notiziari,» le disse Hunter.

«Cercherò di prendere la KFAC… trasmettono musica classica, con regolari bollettini sul traffico e giornali radio.»

Il commento di Hunter fu:

«Se l'hanno avvistato anche a New York o a Buenos Aires, saremo sicuri che deve trovarsi molto in alto.»

Margo stava contemplando di nuovo il Vagabondo, quando qualcuno le tirò il gomito, quello della mano che non teneva la gatta. L'Omino le disse, in tono cortese:

«Mi chiamo Clarence Dodd. Lei è…?»

«Margo Gelhorn,» rispose lei. «Quell'enorme bestione è il suo cane, signor Dodd?»

«Sì, infatti,» le disse in fretta, con un sorriso smagliante. «Posso avere la sua firma su questo documento?»

«Oh, per favore!» disse lei in tono acido, sollevando di nuovo lo sguardo in direzione del Vagabondo.

«Se ne pentirà,» le assicurò pacificamente l'Omino. «L'unica volta che io ho visto un disco plausibile, ho trascurato di procurarmi delle dichiarazioni firmate da parte delle quattro persone che si trovavano in auto con me. Una settimana dopo, dicevano tutti che si trattava probabilmente di qualcos'altro.»

Margo si strinse nelle spalle, poi andò fino al margine della piattaforma e disse:

«Paul, mi sembra che la metà purpurea si stia facendo più piccola, e c'è una striatura purpurea laggiù, al bordo esterno della metà gialla, che prima non si vedeva.»

«Ha ragione,» confermarono diverse persone. Doc cercò gli occhiali, ma prima di poter parlare, fu preceduto da Hunter.

«Sta ruotando. Deve essere una sfera!»

Improvvisamente il Vagabondo, che Paul aveva visto come una superficie piatta, parve arrotondarsi. C'era qualcosa di strano, d'indescrivibilmente misterioso nell'altra faccia nascosta, e totalmente ignota, che lentamente stava apparendo.

Doc sollevò una mano.

«Sta ruotando verso est,» asserì. «Cioè, questa sua parte… la qual cosa significa che la sua rotazione è retrograda rispetto alla Terra e a quasi tutti gli altri pianeti del sistema solare.»

«Dio mio, Bill, adesso dobbiamo subire anche delle lezioni di astronomia,» bisbigliò con voce bassa e sarcastica la donna in grigio all'uomo che le stava accanto.

La radiolina della donna magra si fece udire, molto debolmente, a eccezione delle forti scariche di statica. La musica che essa trasmetteva aveva un ritmo galoppante, travolgente. Dopo un momento, Paul riconobbe la 'Cavalcata delle Valchirie' di Wagner, che risuonava, là nella grande spiaggia all'aperto, come se a suonarla fosse stata un'orchestra di topi.

Don Merrian era già a metà strada dalla Capanna, e i suoi stivali sollevavano nubi di polvere lunare, mentre egli procedeva cautamente nella pianura sempre più illuminata, quando la voce di Johannsen risuonò al suo orecchio. Egli si fermò.

Johannsen disse:

«Ascolta, Don. Tu non devi rientrare nella Capanna. Devi salire a bordo della Nave Uno, e prepararti a un decollo solitario.»

Don soppresse l'impulso di protestare, di esclamare, «Ma, Yo…»

L'altro ridacchiò, approvando il suo silenzio, e proseguì:

«So che non le abbiamo mai guidate in volo solitario, se non nei voli di addestramento o nelle simulazioni, ma questi sono gli ordini che giungono dai pezzi grossi. Dufresne ha già indossato la tuta. Ti seguirà a bordo della Nave Due. Io sarò a bordo del Baba Yaga Tre, per fare da relé a Gompert alla Base, e lui ritrasmetterà al Quartier Generale sulla Terra. Tu e Dufresne dovrete decollare non appena riceverete il via. Dovrete compiere una ricognizione: tu dell'emisfero settentrionale, e lui di quello meridionale, dell'oggetto nascosto dietro la Luna che sta producendo la luce gialla e purpurea. È difficile crederlo, ma il Quartier Generale della Terra dice che si tratta di un…»

La voce si perse in un brontolio lacerante poderoso, quasi subconscio, che veniva attraverso gli stivali di Don, e gli risaliva il corpo. La Luna si mosse lateralmente di almeno mezzo metro, sotto i piedi di Don, gettandolo al suolo. Dopo due secondi, cadendo, il suo unico pensiero attivo fu quello di sollevare le braccia, tenendole piegate ai gomiti, per creare una specie di protezione intorno al casco, ma poté vedere la polvere grigia frangersi e sollevarsi qua e là, come un folto tappeto gonfiato dal basso da un vento forte, come se l'inerzia lo avesse tenuto fermo, mentre la luna solida si muoveva sotto di esso.

Cadde sul dorso, producendo un rumore cupo e profondo. Il ruggito si moltiplicò, veniva da ogni punto della crosta lunare, dal sottosuolo, o forse soltanto dalla suola magnetica dei suoi stivali. Piccole masse di polvere galleggiavano lentamente qua e là, intorno a lui, descrivendo parabole basse. Il casco non si era incrinato.

Il ruggito diminuì. Egli disse: «Yo!» e ripeté «Yo», e poi, con la lingua, azionò il fischio di allarme della Capanna.

Il faro di luce pupurea e gialla lo fissò minaccioso come un grande occhio baluginante, dal bordo occidentale dell'Atlantico, toccando la Florida.

Non venne alcuna risposta dalla Capanna.

CAPITOLO IX

Paul e Margo si mossero, seguendo il gruppo più nutrito degli studiosi di dischi volanti, in direzione della parete naturale dove avevano lasciato le automobili. In quel momento non riuscivano a ricordare chi avesse detto per primo, «Sarà meglio andarcene da qui,» ma una volta pronunciate queste parole, il consenso e le reazioni erano stati pronti, e quasi universali. Doc aveva chiesto di restare presso il suo astrolabio fatto di un ombrello e di un angolo del tavolo, e aveva tentato di convincere un piccolo nucleo di osservatori preparati a restare con lui, ma alla fine era stato dissuaso.

«Rudy è scapolo,» spiegò Hunter a Margo, quando un piccolo gruppetto residuo rimase in attesa che Doc raccogliesse le sue cose. «È disposto a restare tutta la notte sveglio, per compiere delle osservazioni o studiare una mossa di scacchi, o per fare aspettare tutti quanti…» queste ultime parole erano state gridate a Doc, «Ma tutti gli altri hanno famiglia.»

Non appena l'idea di partire era stata lanciata, Paul era stato preso dalla frenesia di raggiungere il quartier generale del Progetto Luna. Decise che lui e Margo sarebbero andati direttamente a Vandenberg Due; aveva pensato perfino di suggerire alla giovane donna di raggiungere la 'porta sulla spiaggia', ma poi aveva ricordato che da quella parte l'ammissione sarebbe stata più complicata e lunga.

Poi, nel momento in cui tutti avevano cominciato ad andarsene, Paul e Margo tra i primi, Miao, probabilmente incoraggiata dal fatto di vedere Ragnarok con un guinzaglio al collo, era balzata dal braccio di Margo, per investigare le regioni nascoste sotto l'antica pista da ballo. Ann era rimasta, per assistere al recupero di Miao, e Rama Joan era rimasta con sua figlia. Le due, madre e figlia, erano uno spettacolo bizzarro: la bambina dagli occhi placidi con le lunghe trecce rosse, e la donna abbigliata in maniera mascolina, con l'abito da sera e la camicia bianca spiegazzata.

Quando Doc arrivò, lamentandosi rumorosamente, i sei si avviarono, affrettando il passo per raggiungere gli altri.

Doc indicò col pollice il barbuto.

«Questo individuo ha per caso già tentato d'insidiare la mia reputazione?» domandò a Margo.

«No, il professor Hunter ha anzi cercato di accrescerla» rispose Margo, con un sorriso. «Mi pare che lei si chiami Rudolf Valentino.»

«No solo, Rudolf Brecht,» ribatté Doc. «Ma anche i Brecht sono un clan di uomini sensuali, è risaputo!»

«Vedo che lei ha dimenticato l'ombrello,» gli disse Hunter, posando la mano sul braccio di Doc. «Non che io sia disposto a permetterle di tornare indietro a prenderlo.»

«No, Ross,» disse Doc a Hunter. «L'ho deliberatamente lasciato nella sabbia… quell'armamentario medievale è ormai già una specie di monumento. Tra parentesi, vorrei far mettere agli atti l'osservazione che ci comportiamo tutti come stupidi. Ora dovremo lottare con i gorghi del traffico per tutta la notte, mentre avremmo potuto impiegare le stesse ore in fruttuose osservazioni in una località ideale… e avrei offerto a tutti una pantagruelica colazione campestre!»

«Non sono molto sicuro sulla località ideale,» cominciò freddamente Hunter, ma Doc lo interruppe, indicando col braccio il Vagabondo che galleggiava nel cielo, e domandando:

«Ehi, ammesso che quell'affare sia un autentico pianeta, secondo lei cosa sono quelle aree gialle e marrone? Potrebbe trattarsi di deserti gialli, e di oceani colmi di alghe purpuree e sedimenti.»

«Pianure aride con altissime percentuali di iodio e di zolfo,» azzardò Hunter.

«Con una pattuglia di frontiera di demoni di Maxwell per tenerli separati, immagino?» lo sfidò amabilmente Doc.

Paul sollevò lo sguardo. La fascia marginale purpurea era più grande, ora, e la regione gialla, muovendosi verso il centro, appariva quasi come una panciuta mezzaluna.

Ann disse:

«Secondo me, quelli sono oceani di acqua dorata, e terre coperte da una fitta foresta purpurea.»

«No, giovane amica, tu devi stare alle regole del gioco,» l'ammonì Doc, senza fermarsi, ma avvicinandosi un po' alla bambina. «E cioè che lassù non puoi avere nulla di cui tu non sia a conoscenza quaggiù.»

«È questa la sua formula per affrontare l'ignoto, signor Brecht?» domandò Rama Joan, con l'ombra di una risata nella voce. «Funzionerebbe anche per la Russia?»

«Be', io personalmente penso che si tratti di una formula dannatamente buona per affrontare la Russia,» replicò Doc. «Ehi, giovane amica,» continuò, rivolgendosi ad Ann, «Qual è il metodo migliore per scoprire il lato migliore di tua madre? Non ho mai corteggiato una Rama, finora, e l'idea mi rende notevolmente perplesso.»

Ann si strinse nelle spalle, muovendo le trecce rosse, e Rama Joan rispose per lei:

«Non cominci ad aspettarsi di trovare solo dei riflessi di se stesso,» gli disse, acidamente. Improvvisamente, lei si tolse il turbante, dal quale sgorgò una nube di capelli ramati che, finalmente, resero plausibile l'idea che lei fosse la madre di Ann, pur rendendo l'abito da sera maschile doppiamente fuori posto.

Stavano ormai raggiungendo gli altri, ed erano arrivati accanto alla macchia d'erba e di alghe sulla spiaggia. Paul fu colpito dal numero di persone che continuavano a camminare curve, sotto i raggi del Vagabondo, come per sfuggire alla sua presenza, poi si accorse che anche lui camminava in quel modo. Superarono la macchia sulla spiaggia e raggiunsero Bacchetto e le due donne che lo accompagnavano; la più magra teneva la radio, che continuava a pigolare musica sinfonica, tra un continuo temporale di scariche di statica.

«Ho provato con le altre stazioni,» disse la donna a Hunter. «Ma i disturbi sono ancora peggio.»

Bruscamente, la musica si interruppe. Tutti si fermarono all'unisono, imitati da diversi del gruppo che si trovava più avanti.

La radio disse, con chiarezza:

«Bollettino del Traffico. Le Statali di Hollywood e Santa Monica… no, mi correggo… le Statali di Hollywood, Santa Monica e Ventura sono bloccate dal traffico. Gli automobilisti sono pregati di non servirsi di queste strade, fino a nuovo avviso. Per favore, restate a casa. L'apparizione nel cielo non è un attacco atomico. Ripeto: non è un attacco atomico. Abbiamo raggiunto telefonicamente il professor Humason Kirk, celebre astronomo del Tarzana College, che ci ha dichiarato pochi istanti fa come l'apparizione nel cielo sia senza alcun dubbio… ripeto, senza alcun dubbio… una nube di particelle metalliche in orbita terrestre, che riflette la luce del sole. Una prima, sommaria analisi da lui effettuata gli ha fatto identificare, tra i componenti della polvere, l'oro e il bronzo rosato. Il peso totale delle particelle non può essere superiore a due, tre chilogrammi al massimo, ci ha assicurato il professor Kirk, e perciò la nube non può produrre alcun danno, di qualsiasi natura…»

«Oh, maledetto somaro idiota!» intervenne Doc. «Polvere cosmica! Balle

Diverse persone lo zittirono, ma quando poterono di nuovo ascoltare, si udì nuovamente il suono sommesso del pianoforte, con le prime note di un concerto.

Don Merriam pensò di essere giunto a meno di cento iarde dalla Capanna, quando arrivò il secondo lunamoto di forte entità, una scossa verticale, questa volta, ma preceduta dallo stesso sordo, tremendo brontolio lacerante, come se la Luna si stesse strappando le interiora. I denti gli vibrarono, accompagnando la violenta vibrazione della tuta, come per una solitaria nota di un pianoforte cosmico.

La solida superficie lunare cadde, da sotto i suoi piedi, si abbassò e poi gli salì incontro, e poi crollò di nuovo e si risollevò. Il tappeto di polvere si alzava e si abbassava all'unisono. Qua e là, dei frammenti lunari più grossi s'innalzavano nel vuoto per tre, quattro metri e più, e poi ricadevano, bruscamente, se paragonati alla polvere della Terra.

I sussulti della Luna continuarono. Don lottò disperatamente, per mantenere l'equilibrio, e gli parve di essere in piedi sul dorso di un cavallo imbizzarrito, con le mani pronte a muoversi dal lato in cui l'equilibrio si fosse fatto più precario. La polvere danzante produsse delle striature verticali… spesse cancellature rozze… sul gran sfondo di grappoli di stelle. Un poco di luce solare stava di nuovo bagnando la pianura interna del cratere Piatone.

I sussulti si quietarono. Don portò al massimo la polarizzazione del finestrino del casco, e cercò di trovare con lo sguardo la Capanna. Aveva rinunciato a stabilire un contatto radio. Non riusciva a distinguere i portelli, ma si trattava di un'impresa sempre difficile, in piena luce solare. Configurò l'esatta direzione osservando la posizione delle stelle, e si avviò dalla parte prescelta. Gli parve di vedere i trapezoidi dai bordi scintillanti e dalle lunghe gambe di due dei Baba Yaga.

Un secondo lunamoto ondulatorio lo gettò al suolo. Riuscì a sollevare gli avambracci appena in tempo per assorbire l'urto. Questo tremore parallelo alla superficie durò a lungo. Ci furono almeno dodici scosse ondulatorie. Il grigio lago di polvere di Piatone s'increspò fino all'orizzonte, come un sinistro mare spento. Spruzzi e onde di polvere si sollevarono e caddero. La polvere si comportava in realtà più come acqua (della Terra) che come polvere. Delle sporgenze di roccia nella polvere formavano degli insidiosi scogli. La polvere, ricadendo, copriva la visuale di Don.

Una componente verticale si aggiunse alla scossa orizzontale. Il ruggito lo assordò, lo stordì. La tuta di Don tremò spaventosamente.

Era pazzesco aspettare che le scosse si placassero. Allora ricominciò a procedere, strisciando verso le astronavi, come uno scarabeo d'argento in un mare di sabbia agitato dal vento. Avrebbe voluto avere anche i due arti in più di uno scarabeo.

Gli studiosi dei dischi volanti si stavano dividendo, dirigendosi verso le rispettive automobili, che apparivano alla base della parete bruna in tutti i loro colori. L'effetto generale della luce del Vagabondo, che mescolava i due colori complementari giallo e violaceo, era di un bianco giallognolo, a eccezione dei punti nei quali delle superfici speculari, come l'acqua, riflettevano l'intero globo, o nelle sporgenze d'ombra, dove un colore veniva cancellato.

Hunter disse a Paul, con un'ombra d'invidia nella voce: «Suppongo che voi del Progetto Luna abbiate compreso questa cosa molto più di quanto noi siamo riusciti a capirla; avrete maggiori particolari, per prima cosa, una massa di dati invidiabile sulla quale lavorare. I telescopi montati sui satelliti, i radar, e tutto il resto.»

«Non ne sono molto sicuro, Ross,» replicò Paul. «Vede, nel Progetto si sviluppa una specie di visione a binario unico… ci si muove in una galleria.»

L'Omino ritornò verso di loro, tenendo per il corto guinzaglio Ragnarok, e con l'altra mano il cartone sul quale era sistemato il foglio.

«Si ricorda di me?… Io sono Clarence Dodd. Non potrei avere la sua firma, ora, signorina Gelhorn?» disse in maniera affascinante, porgendo il foglio a Margo. «Domani chissà quante persone diranno, 'Ma perché non abbiamo firmato?' Ma allora sarà troppo tardi.»

Margo, sforzandosi di trattenere Miao, ringhiò:

«Oh, se ne vada, idiota!»

«Firmerò io, Doddsy,» annunciò allegramente Doc. «Solo, venga qui, e la smetta di provocare una guerra felino-canina.»

Ann ridacchiò.

«Mamma, il signor Brecht mi è simpatico.» La donna in abito da sera le sorrise debolmente.

«Ecco quel che mi piace sentire,» gridò Doc. «Continua a fare propaganda presso tua madre, e te ne sarò grato!»

Paul prese Margo per il gomito, per guidarla verso la sua auto, ma in quel momento qualcosa lo indusse a fermarsi, e a sollevare lo sguardo verso il Vagabondo. La figura gialla, dai bordi purpurei, era pienamente visibile ora, grazie alla rotazione, e si stagliava vividamente, spessa alla base, più sottile, e curvata, alla sommità. Quell'immagine era come uno stimolo per l'immaginazione di Paul.

DOPO UN'ORA

Clarence Dodd… o l'Omino, come Paul lo chiamava ancora mentalmente… diede il guinzaglio di Ragnarok a Doc, e fece un altro schizzo estremamente semplificato, usando delle linee diagonali per indicare la zona purpurea. Diede a questo schizzo la semplice definizione: «Dopo Un'Ora.»

Una delle automobili, una berlina rossa, fece marcia indietro e partì, molto prima di tutte le altre.

Più avanti, nel chiarore del Vagabondo, la donna magra chiamò:

«Per favore, aiutateci… Credo che Wanda abbia un attacco di cuore.»

Ragnarok guaì. Miao soffiò.

Improvvisamente, Paul si rese conto di che cosa gli ricordava la figura gialla: un dinosauro. Un dinosauro dalla lunga mandibola, accovacciato sulle enormi zampe posteriori. Sentì un brivido, e si accorse che gli era venuta la pelle d'oca. Poi scoprì di tremare, e nel suo corpo ci fu un brontolio sordo e basso.

Quando Paul era stato bambino, gli era piaciuto stare in mezzo al dondolo del patio, un sedile solido, soffice, sospeso al soffitto con quattro catene agli angoli, ampio a sufficienza per tre persone. Era stato in piedi sull'altalena, così l'aveva chiamata, e in quel tempo gli era parsa una mirabile dimostrazione di equilibrismo. Ora, d'un tratto, era di nuovo in piedi su quel dondolo, perché la terra, sotto i suoi piedi, si muoveva, dolcemente ma solidamente, con una specie di poderoso tonfo attutito, pochi centimetri avanti, pochi centimerti indietro, e poi di nuovo avanti, e lui muoveva il suo corpo per rimanere in equilibrio, proprio come aveva fatto da piccolo sul dondolo.

In una bailamme di esclamazioni e richiami inarticolati, Hunter gridò, con voce resa stridula dall'apprensione:

«Tenetevi lontano dalle auto!»

Margo si aggrappò a Paul. Miao, stretta tra di loro, miagolò disperatamente.

Tutti stavano correndo. La parete bruna parve gonfiarsi: su tutta la sua superficie si aprirono delle enormi crepe; e poi affondò, lentamente, così pareva, ma sobbalzando e tremolando. Si sollevò una nube di polvere. Un granello di pietra colpì Paul alla guancia. L'aria si fece acre, quasi irrespirabile. D'un tratto, l'odore di terra umida fu fortissimo.

«Venite!» gridò Hunter. «Ne sono rimaste sotto!»

Ma prima Paul guardò nuovamente in alto, guardò la figura eretta nel globo purpureo che ora si trovava visibilmente più vicino alla Luna.

Tyrannosaurus rex!

Pershing Square è un isolato di fontanelle e di prati verdi e curatissmi, che funge da tetto a un grande parcheggio municipale e a un rifugio atomico nel cuore della Vecchia Los Angeles, dove i cartelli dicono «Su crédito es bueno» assai più spesso che «Il suo credito è buono», preferendo l'antica forma spagnola all'inglese.

Quella notte gli ubriachi e i pervertiti e i nottambuli anonimi che, insieme agli scoiattoli pelosi e ai piccioni pennuti, sono i più insistenti frequentatori della piazza, avevano qualcosa di più emozionante da osservare che le barbe dei predicatori del Secondo Avvento e il gesticolare esaltato di conferenzieri sparuti e dagli occhi allucinati.

Quella notte gli abitanti di Pershing Square si riversarono in Olive Street, all'angolo della Quinta Strada, dove una statua bronzea di Beethoven osserva accigliata e pensierosa l'Hotel Baltimora, Bunker Hill, e l'Auditorio Battista che costituisce uno dei maggiori teatri della città. Le facce rivolte all'insù erano illuminate dalla luce del Vagabondo, mentre tutti fissavano silenziosamente il sud, dove galleggiava quel mostruoso segno nel cielo, ma il volto di Beethoven rimaneva pensieroso e introspettivo nell'ombra delle folte sopracciglia e dei capelli, mentre egli fissava la sua veste parzialmente sbottonata, imbiancata da escrementi di miriadi di piccioni.

Ci fu una momentanea intensificazione del silenzio timoroso, poi un lontano brontolio soffocato. Una donna gridò, e gli spettatori abbassarono lo sguardo. Per un lungo momento agli astanti parve che l'oceano nero stesse venendo verso di loro lungo Olive Street, in grandi onde dalle creste gialle e violette di schiuma… grandi onde nere che avevano percorso venti miglia a nord, da San Pedro, lungo le autostrade di Los Angeles e costiere.

Poi gli spettatori videro che le onde non erano di acqua nera, ma di freddo asfalto nero, che la stessa strada si stava gonfiando, mentre grandi scosse di terremoto si dirigevano a nord, percorrendola. Un istante dopo il ruggito diventò più forte di quello di cento reattori, e le onde dell'asfalto afferrarono gli spettatori, e ruppero le mura degli edifici circostanti in un'agghiacciante marea di pietra e cemento armato.

Per un secondo, una luce violetta infinitamente sinistra lampeggio nelle cavità infossate degli occhi del gigantesco Beethoven di metallo, mentre egli lentamente s'inclinava e precipitava in avanti.

Gli studiosi dei dischi volanti ebbero notevoli difficoltà ad affrontare le conseguenze delle ripercussioni marginali del grande terremoto di Los Angeles-Long Beach. Quando la donna magra e altri due componenti del gruppo vennero estratti, con qualche operazione di scavo, dalla leggera coltre di terra che li aveva ricoperti, al bordo della frana, un affrettato censimento mostrò che altri tre membri erano assenti. Seguirono dieci minuti di frenetici scavi, compiuti principalmente con due pale di lucido metallo che l'Omino aveva tirato fuori dal retro del suo camioncino, il quale era solidamente sepolto solo per quanto riguardava le ruote posteriori e la cabina. Poi qualcuno ricordò la berlina rossa che era partita prima di tutte le altre macchine; e qualcun altro ricordò che i tre dispersi erano arrivati proprio con quella macchina.

Mentre gli scavatori tiravano il fiato, Paul, la cui convertibile era sepolta al di là di ogni speranza di recupero, spiegò i suoi contatti con i pezzi grossi del Progetto Luna, e la sua intenzione di andare insieme a Margo fino all'entrata principale di Vandenberg Due, e si offrì di portare con sé tutti coloro che avrebbero voluto venire, e di garantire per costoro alle guardie… anche se l'evidente situazione di disagio nella quale gli eventuali partecipanti all'impresa si trovavano sarebbe stata sufficiente, da sola, a garantire l'ammissione alla base.

Doc si fece entusiasticamente paladino di questo suggerimento, ma trovò una rigida opposizione in un uomo dalle braccia tozze e robuste, che indossava una giacca a vento di cuoio e si chiamava Rivis; costui aveva un'opinione molto bassa di tutte le istituzioni militari, e del grado di aiuto che ci si poteva aspettare da loro… e aveva un'automobile che era stata appena sfiorata dalla frana, e aveva coperti di polvere solo il radiatore e le ruote anteriori. Rivis, che aveva anche quattro bei bambini, una dolce mogliettina, e una suocera isterica… tutti a Santa Barbara… era deciso a disseppellire l'automobile e a ripartire subito per tornare a casa.

Rivis fu subito assecondato dai proprietari dell'utilitaria e del camion di recapito bianco, dato che entrambi i veicoli non avevano riportato serie conseguenze dalla frana. I proprietari del camioncino, due giovani coniugi che si chiamavano Hixon e indossavano entrambi un completo unisex, shorts e maglietta grigi, furono particolarmente insistenti sull'importanza e la necessità di andarsene in fretta.

A queste premesse seguì una discussione dagli accenti sempre più aspri, i cui argomenti principali furono: l'Autostrada Costiera del Pacifico sarebbe stata bloccata dal traffico e/o dal terremoto? Paul era proprio quel che diceva di essere? I motori delle automobili disseppellite avrebbero funzionato (Rivis diede una dimostrazione accendendo il motore della sua automobile, benché l'autoradio non producesse che qualche breve scarica di statica). L'attacco di cuore di Wanda era autentico? Infine, i conferenzieri e il loro nuovo dubbio amico non erano forse un branco di intellettuali dal cervello degno di un'ostrica, terrorizzati all'idea di farsi venire qualche callo alle mani?.

Alla fine, metà degli studiosi dei dischi volanti, quasi tutti con automobili sepolte solo parzialmente, aderirono al gruppo di Rivis e degli Hixon e, in un'esplosione di risentimento e di improperi, rifiutarono perfino di promettere di accudire alla donna grassa che aveva subito l'attacco di cuore fino a quando Paul non avesse potuto mandare una jeep da Vandenberg Due per prelevarla.

L'altra metà del gruppo partì verso l'ingresso sulla spiaggia.

Don Guillermo Walker sapeva che il Vagabondo doveva essere qualcosa di simile a un pianeta, perché esso, e la sua torva immagine riflessa nel nero Lago Nicaragua, sotto di lui, lo avevano seguito ormai per sessanta miglia in direzione sud-est senza cambiare posizione… solo che adesso il «pianeta» pareva più vicino all'orizzonte occidentale, e forse più vicino alla Luna. E ora quello che appariva sul globo nel cielo era assai simile a un gallo dorato, che cantava per svegliare Simon Bolivar. Una volta ho recitato in Le Coq d'Or, o no? si chiese il bombardiere solitario. No, quella è un'opera, o un balletto.

Il paesaggio, e anche l'aria fino ai remoti orizzonti, aveva acquistato una nuova componente; l'orizzonte occidentale era roseo in molti punti, e lui non ne capiva il perché. Sorvolando la lunga isola dai contorni frastagliati di Ometepe, egli vide più luci ad Alta Gracia di quanto fosse possibile immaginarne, dopo mezzanotte. Tutti in piedi a guardare lassù a bocca aperta, a gridare o a piangere come idoti, o a tuffarsi nelle chiese, immaginò Don Guillermo.

Improvvisamente, un bagliore sanguigno dai foschi riverberi, e un'esplosione di rocce, eruttarono da un punto appena oltre la città, e per un istante egli pensò di avere sganciato una bomba della quale non aveva immaginato la presenza. Poi si rese conto che doveva trattarsi di uno dei vulcani di Ometepe, che esplodeva. Proseguì verso est… doveva allontanarsi, allontanarsi dalla tremenda esplosione! Quei lividi chiarori rosati… be', ma l'intera Costa del Pacifico doveva essere in eruzione, dal Golfo di Fonseca al Golfo di Nicoya.

Don Merriam, uno scarabeo ammaccato e dalle gambe appesantite da una tremenda stanchezza, si trascinò, facendo forza con le braccia, accanto all'orgogliosa bandiera magnetica della Capanna e vide, nel luogo in cui avrebbe dovuto sorgere la Capanna, un abisso dalle pareti frastagliate e irte, largo sei metri, con delle cascatelle di polvere che scivolavano lungo il bordo più lontano.

Una delle astronavi era precipitata con la Capanna, una era caduta sul fianco, attraverso l'abisso, come un ponte argenteo, con due delle tre «gambe» ammortizzatrici che sporgevano come le zampe di un pollo morto… mentre lui era strisciato fin quasi sotto il terzo Baba Yaga, senza neppure accorgersene.

Avevano chiamato i piccoli razzi lunari «Baba Yaga» perché… il primo a pensarci era stato Dufresne… essi ricordavano la capanna della strega montata su lunghe «zampe» che figura in un paio di pezzi popolari di musica classica russa, e che, nella tradizione che aveva dato origine ai pezzi musicali, andava in giro di notte proprio grazie a quelle zampe. Si diceva che gli astronauti lunari sovietici chiamassero le loro astronavi jeeps.

Ma ora il paragone con la capanna che camminava si stava facendo troppo realistico, perché le continue scosse verticali del lunamoto, che ormai Don non notava più, avendoci fatto l'abitudine, stavano facendo camminare il terzo Baba Yaga sulle zampe argentee, mano a mano che i sobbalzi lo facevano muovere. Uno dei piedi ammortizzatori era a un metro soltanto dall'abisso, e mentre Don osservava, si avvicinò di altri sei centimetri.

Don si rannicchiò, preparandosi a balzare. Si disse che Dufresne forse era decollato a bordo del razzo mancante, anche se lui non aveva visto il chiarore dei razzi. E Yo poteva essere, vivo o morto, sull'astronave che formava un bizzarro ponte sull'abisso. Gompert…

Il Baba Yaga fece un altro passo verso il precipizio. Don fece due rapidi passi a sua volta, sulla superficie sobbalzante, e poi si raddrizzò e afferrò l'estremità della scaletta che pendeva dal corpo dell'astronave, al centro delle tre gambe.

Facendosi forza, salì verso il portello, incastonato minacciosamente tra i cinque tubi — così simili a trombe — dei razzi. Il Baba Yaga ondeggiò. Don si disse che il suo peso abbassava un poco il centro di gravità dell'astronave, rendendo i suoi passi un po' più brevi.

CAPITOLO X

Sally Harris e Jake Lesher erano su uno dei convogli della metropolitana che sarebbero stati fermati e vuotati alla stazione della 42a Strada. L'ingorgo del traffico era stato pauroso, e l'auto di Jake era parcheggiata a Flatbush. La polizia aiutò il personale a sgombrare il convoglio della metropolitana, e a far salire in superficie i passeggeri.

«Ma perché, ma perché?» stava domandando Jake. «Sembra un brutto segno.»

«No, invece, un buon segno,» gli disse Sally. «Se ci fossero delle bombe, ci farebbero scendere. Inoltre, qui siamo vicini all'attico di Hugo. Com'è eccitante, Jake!»

Emergendo, trovarono Times Square gremita di folla, come non avrebbero mai creduto possibile alle tre del mattino.

Guardando a ovest, nella 42a Strada, poterono vedere il Vagabondo ancora alto sull'orizzonte, così vicino alla Luna che i due corpi celesti quasi si toccavano. Sul lato sud della strada, la divisione dell'ombra produceva un mare di immobili persone gialle, e sul loro lato un mare di persone purpuree. Le insegne pubblicitarie al neon erano tutte accese, ma la loro luce era in parte sbiadita a causa della luce che scedeva dal cielo.

La piazza era silenziosa, come mai lo era stata; ma in quel preciso momento un uomo emerse alle loro spalle, gridando a gran voce:

«Edizione straordinaria! Leggete tutte le notizie sull'avvenimento del secolo! Tutti i particolari sul nuovo pianeta!»

Jake trovò degli spiccioli, e prese una copia del Daily Orbit. Il tabloid aveva la prima pagina che riproduceva l'immagine del Vagabondo, una fotografia ancora umida che lasciava sulle dita una traccia di rosso e di giallo; e oltre alla foto c'era un commento di sei righe, che chiunque avrebbe potuto ottenere guardando il cielo e poi l'orologio. Il titolo diceva: Strano globo nel cielo — Enigma per il genere umano.

«Per me non è certo un enigma,» disse Sally, con enorme allegria, e poi, sorridendo a Jake, aggiunse, «Io l'ho creato. Io l'ho messo lassù.»

«Non bestemmiare, ragazza!» l'ammonì cupamente un uomo dalla bocca enorme come una lanterna.

«Ah, lei crede che non l'abbia fatto io, eh?» domandò Sally. «Le farò vedere!» A forza di gomiti, si aprì uno spazio libero intorno, e lanciò la giacchetta a Jake. Poi, puntando il dito successivamente su Bocca di Lanterna e sul Vagabondo, e poi facendo schioccare le dita, mettendosi a ondeggiare sinuosamente, in maniera provocante, cominciò a cantare, in un elettrizzante contralto, con una melodia presa imparzialmente da «Porta Verde» e «Strano Frutto».

Strano globo!… nel cielo d'occidente…
Strana luce!… che piove dall'alto…

Don Merriam aveva acceso i motori del Baba Yaga, prima di assicurarsi le cinture di sicurezza, e quando il sistema interno aveva appena cominciato a funzionare. Il motivo era semplicissimo: sentiva l'astronave sobbalzare ormai sul bordo dell'abisso.

Aveva fatto il possibile e l'impossibile, per ridurre i tempi di partenza. Aveva fatto «scoppiare» l'interno, facendo uscire in una sola vampata tutto l'ossigeno, per aprirsi una strada diretta di accesso, invece che attendere il lento funzionamento del doppio portello di decompressione. Aveva chiuso avventurosamente i portelli, alle sue spalle, e aveva compiuto un controllo approssimativo delle condizioni di funzionamento, e aveva dato solo un'occhiata al sistema di ricambio dell'aria, pur sapendo che l'ossigeno della sua tuta spaziale si stava esaurendo… e per poco non era stato ugualmente troppo tardi.

Il freddo fuoco degli ugelli inondò con forza la crosta lunare, però. Molecole torride piovvero dalla coda del Baba Yaga a una velocità di quasi due miglia al secondo, e dopo un momento che parve durare un'eternità l'astronave s'innalzò, ma lateralmente, invece che verticalmente… muovendosi come un vecchio aeroplano al decollo.

Forse l'errore di Don fu quello di avere tentato una correzione di rotta… il suo vettore lo avrebbe portato probabilmente a descrivere un'orbita, forse con eguale efficacia. Ma egli stava pilotando a vista, e non gli piaceva il modo in cui la bianca superficie lunare, percorsa da enormi spaccature nere, continuava a gonfiarsi nello schermo, così immensa e vicina, ed egli sapeva benissimo che più rapida era la correzione, minore era lo spreco di combustibile, e non sapeva con sicurezza la quantità di combustibile e di ossidante che gli rimaneva… anzi, in quel momento ancora non sapeva con esattezza in quale delle tre astronavi gemelle egli si trovasse… e, oltre a tutto questo, probabilmente era già stordito, e i suoi ragionamenti erano illogici, per la mancanza di ossigeno, che doveva scarseggiare nella tuta.

Così, incurante della gravità e mezzo che lo attirava come un magnete, e lo schiacciava con forza, egli allungò lateralmente un braccio… fu un'impresa notevole, perché usualmente solo un meccanismo-robot avrebbe potuto farla; oppure un secondo pilota… e premette i tasti che accendevano tre razzi a combustibile solido sul fianco dell'astronave che era rivolto alla Luna.

L'accelerazione addizionale che essi diedero all'astronave, e la scossa prodotta dalla loro accensione, furono sufficienti a sbalzarlo dal sedile. Inesorabilmente, ma con allucinante lentezza, la leva gli sfuggì dalle mani, ed egli cadde pesantemente… assai più pesantemente di quanto non sarebbe caduto sulla Luna… sul pavimento, a circa quattro metri di distanza, e il suo casco urtò la nuca, facendogli perdere i sensi.

Dieci secondi più tardi, il reattore ad anilina-nitro si spense, come accadeva automaticamente a quelle astronavi quando il pilota lasciava andare la leva. I razzi a combustibile solido si erano esauriti una frazione di secondo prima. La correzione era stata calcolata con rimarchevole esattezza, date le circostanze. Il Baba Yaga saliva dalla superficie lunare quasi verticalmente, con sufficiente energia cinetica, quasi, da sfuggire alla sua attrazione. Ma ora la blanda gravità lunare stava rallentando l'astronave secondo per secondo, benché il Baba Yaga si stesse ancora velocemente sollevando in caduta libera, e avrebbe continuato a farlo per qualche tempo.

Il casco di Don giaceva sopra il portello chiuso precariamente. Un sottile vapore bianco stava sfuggendo da una fessura sottilissima sulla «finestra» di visione. Sui bordi della fessura si stava formando della brina.

Barbara Katz disse a Knolls Kettering III:

«Adesso manca meno di un minuto al contatto, papà.» Con la parola 'contatto' lei intendeva riferirsi al momento in cui il Vagabondo avrebbe cominciato a coprire la Luna, o la Luna il Vagabondo, o…

«Chiedo scusa, signore,» disse una voce bassa e gentile, alle loro spalle. «Ma cosa succederà quando si urteranno?»

Barbara si voltò. Il retro della grande casa, ora, mostrava qualche luce. La luce disegnava i contorni di un uomo alto e grosso, che indossava una divisa da autista, e di due donne vicinissime l'una all'altra. Dovevano essere usciti molto silenziosamente.

Accanto a Barbara, il signor Kettering disse, con voce blanda ma esasperata:

«Avevo detto a tutti di andare a letto, qualche ora fa. Sapete che non vi voglio fra i piedi.»

«Chiedo scusa, signore,» insisté la voce. «Ma tutti sono in piedi, e fuori di casa, per osservare. Tutti gli abitanti di Palm Beach. La prego, signore, che cosa accadrà quando quello colpirà la Luna?»

Barbara avrebbe voluto parlare, per dire all'autista e alle domestiche molte cose: che era la Luna a muoversi verso il Vagabondo, perché il supporto alimentato elettricamente del telescopio era stato disposto per seguire la Luna nel suo pellegrinaggio celeste, e la Luna stava correndo con circa cinque diametri di vantaggio sulla sua traiettoria normale; che essi non conoscevano ancora la distanza del Vagabondo… per prima cosa, la superficie non mostrava dei particolari netti, se non ai margini, solo una distesa vellutata di giallo o di marrone, usando tutti gli ingrandimenti; che i corpi celesti usualmente non si urtavano, ma entravano in orbita l'uno intorno all'altro.

Ma lei sapeva che gli uomini… presumibilmente, anche i milionari… amavano essere loro a parlare di argomenti scientifici: e, oltre a questo, non le piaceva immischiarsi in problemi di etichetta interrazziale a Palm Beach.

Poi sollevò lo sguardo, e vide che il problema si era risolto da solo.

«Non si colpiscono,» disse. «La Luna sta passando di fronte al Vagabondo.» Aggiunse, impulsivamente. «Oh, papà, fino a questo momento non ho creduto che fosse davvero lassù!»

Si udirono degli ansiti sommessi; venivano dalle due donne.

«Il Vagabondo?» domandò a bassa voce l'autista.

Knolls Kettering III intervenne nella conversazione. Disse, un po' rigidamente:

«Vagabondo è il nome che la signorina Katz e io abbiamo scelto per il pianeta straniero. E adesso, per favore, tornatevene a letto.»

Arab Jones chiamò, sul tetto, Pepe Martinez e 'High' Bundy, che stavano danzando insieme con movenze molto libere:

«Ehi, guardate, adesso si accoppiano! La Vecchia Luna sta per entrare in lei, come sperma in un uovo purpureo.»

I tre fratelli di 'viaggio' interrazziali avevano fumato altri quattro contenitori di marijuana, per celebrare la magistrale 'visione' dell'apparizione del Vagabondo, e ormai erano in uno stato di eccitazione febbrile, carichi come fili dell'alta tensione… In uno stato che non avevano mai raggiunto prima di allora. Ma non così carichi, se era possibile raggiungere uno stadio simile, da essere completamente privi di poteri di ragionamento, perché Pepe esclamò:

«Come devono abbracciarsi quei messicani a sud della frontiera, e chissà come danzano i negri per le strade di Rio.»

E in quel momento 'High' concluse con queste parole:

«È così, amico: il viaggio è venuto nel mondo per restarci.»

Arab disse, con il volto bruno che brillava nella luce del Vagabondo:

«Pieghiamo dunque la nostra tenda e discendiamo, figlioli, a mescolarci con la popolazione terrificata.»

Hunter disse a Doc:

«Una cosa è certa: la Luna gli è proprio davanti.» E nel dirlo guardava il disco bianco che si ergeva davanti al Vagabondo. «Anzi, comincio a domandarmi… ricordando i triangoli simili, Rudy… se non possa trovarsi a due milioni e mezzo di miglia di distanza, e avere una superficie larga ottantamila miglia.»

«Giove che è passato a farci visita, allora?» replicò Doc con una risatina, e poi, immediatamente, domandò agli altri, «Bene, qualcuno può indicarmi la posizione di Giove, in qualche altro punto del cielo, ora? Anche se,» aggiunse, «Devo ammettere di non avere mai sentito parlare di un aspetto purpureo, per quanto riguarda Giove, né di una macchia gialla simile a un papero gigante.»

«Un pinguino!» disse forte Ann, alle loro spalle

I due uomini facevano parte del piccolo corteo che stava marciando, tra dune di sabbia e depositi d'alghe, verso la «porta sulla spiaggia» di Vandenberg Due. Il corteo era guidato da Paul, Margo con Miao, e Doc. Poi venivano Hunter, Bacchetto, e altri due uomini che portavano una branda di alluminio con i piedi ripiegati, sulla quale riposava Wanda… la donna grassa… lamentandosi un poco, di quando in quando. Accanto all'improvvisata barella camminava la donna magra, ma senza la radio, che era andata persa durante la frana. La donna magra parlava a Wanda in tono carezzevole, tentando di calmarla. La retroguardia era composta da Rama Joan, Ann, e Clarence Dodd… l'Omino… con Ragnarok al guinzaglio, e visibilmente (e audibilmente) nervoso.

La branda di alluminio era un altro pezzo uscito dal camioncino delle meraviglie (basta-dirlo-e-noi-l'abbiamo) dell'Omino. (Margo gli aveva chiesto se aveva una stufetta da campo e del combustibile. L'Omino aveva risposto, senza batter ciglio, «Sì, ce l'ho, ma non vedo l'utilità di portarla con noi questa volta».)

Quando Doc ebbe concluso la sua osservazione non del tutto frivola su Giove, Rama Joan li chiamò tutti, dicendo loro di guardare di nuovo il Vagabondo. Avevano già notato dei mutamenti considerevoli, negli ultimi quaranta minuti. Il papero (o dinosauro) aveva tutto il corpo sul bordo sinistro del disco, con la testa che sporgeva, a destra, come se facesse parte di una calotta polare dorata. Nella nuova area purpurea che la rotazione faceva apparire, apparve una grande chiazza gialla centrale, con una forma a metà strada tra un triangolo equilatero e una grossa D maiuscola.

«Guardate… subito dopo la D,» disse Rama Joan, «Sta arrivando una sottile falce nera. La Luna la nasconde quasi completamente.»

«È l'ombra della Luna sul nuovo pianeta!» gridò pieno di eccitazione Doc, dopo pochi secondi di silenzio. «E se è più piccola della Luna, non riesco a cogliere la differenza. Ross, non possono essere separati che da poche migliaia di miglia! Adesso sappiamo che quel pianeta ha le dimensioni della Terra, quasi esattamente!»

«Mammina, non significa che stanno quasi per urtarsi?» mormorò Ann. «Perché il signor Brecht è così felice? Perché non si sono urtati?»

«Non esattamente, cara. Probabilmente si sarebbe goduto moltissimo lo spettacolo. Il signor Brecht è contento perché gli piace sapere con esattezza dove stanno le cose, in modo da poterci metter sopra le mani al buio.»

«Il signor Brecht non può mettere le mani sul nuovo pianeta, mammina.»

«No, cara, ma adesso vi può metter sopra i suoi pensieri.»

La miscela di ossigeno ed elio lentamente riempì la cabina del Baba Yaga, dal serbatoio del quale Don Merriam aveva aperto la valvola, quando era salito frettolosamente a bordo. La pressione sigillò il portello interno, e aprì due sportelli nel casco di Don. Sulle pareti della cabina entrarono in funzione dei minuscoli ventilatori, che mossero l'aria, benché l'astronave si trovasse in caduta libera. L'aria fresca entrò nel casco di Don, sostituendo l'aria stantia e quasi velenosa. Il viso di Don si contrasse, ed egli rabbrividì. Il suo respiro si fece più forte, ed egli cadde in un sonno profondo e sano.

Il Baba Yaga raggiunse il vertice della sua traiettoria, rimase fermo là, poi cominciò a ricadere verso la superficie lunare. Cadendo, cominciò a ruotare su se stesso. Circa ogni trenta secondi lo schermo mostrava la luna, e quindici secondi più tardi la Terra. Durante la caduta, la tuta spaziale coperta da un sottile strato di polvere, che conteneva Don, cominciò a muoversi sul pavimento, ruotando molto lentamente.

L'Omino chiamò Paul, che si trovava più avanti:

«Non ho alcuna intenzione d'impugnare la sua veracità, signor Hagbolt, ma l'ingresso sulla spiaggia di Vandenberg Due si trova apparentemente più lontano di quanto lei ci abbia indotto a credere. Buono, Ragnarok!»

«È esattamente di fronte alla luce rossa intermittente,» disse Paul, desiderando in cuor suo d'essere sicuro quanto cercava di far credere agli altri. Aggiunse, «Devo ammettere di avere sottovalutato la distanza di quella luce.»

«Niente paura, Doddsy. Paul ci porterà laggiù,» Doc disse queste parole in tono fiducioso.

I tre si prepararono a dare il cambio a Hunter, a Bacchetto, e a uno degli altri due uomini che portavano la barella della donna grassa.

«Come ti senti, Wanda?» domandò la donna magra, inginocchiata nella sabbia, accanto all'improvvisata barella. «Puoi prendere un'altra pillola.»

«Sto un po' meglio,» mormorò la grassona, socchiudendo gli occhi. Il suo sguardo incontrò il globo del Vagabondo. «Oh, mio Dio,» guaì, girando il capo.

Il globo straniero, nella sua inesorabile rotazione, mostrava ora un nuovo aspetto. I resti del dinosauro, o del pinguino, formavano una grande C gialla intorno al bordo sinistro del pianeta, mentre la solida D gialla era giunta al centro, così che l'effetto generale era quello di una D racchiusa da una C. L'Omino tracciò un altro rapido schizzo, al quale diede la semplice dicitura di «Due Ore.»

DUE ORE

Ann disse:

«Secondo me, la C è un cestino di paglia rovesciato sul fianco, e la D un pezzo di torta al limone. E la Luna è una frittella tonda di crema.»

«Mi accorgo che hai fame,» disse sua madre.

«Oppure la D può essere l'occhiello di un gigantesco ago purpureo,» si affrettò a spiegare Ann.

Il Serpente Dorato si avvolge intorno all'Uovo Rotto, pensò Bacchetto. Il Caos si è schiuso.

La luna e la sua ombra si erano mosse, percorrendo l'intera superficie del pianeta. Ci fu un senso generale di sollievo, quando una sottile striscia di cielo notturno apparve tra i due globi celesti.

L'uomo che reggeva il quarto angolo della barella, un saldatore dal viso quadrato che si chiamava Ignace Wojtowicz, forse con la sola intenzione di prolungare il periodo di riposo, disse:

«C'è una cosa che proprio non capisco. Se là fuori c'è un vero pianeta, grosso come la Terra, come mai non avvertiamo l'attrazione della sua forza gravitazionale… dovrebbe farci almeno sentire più leggeri.»

«Per lo stesso motivo per cui non avvertiamo la gravità della luna o del sole,» rispose subito Hunter. «E poi, naturalmente, anche se conosciamo le dimensioni del nuovo pianeta, non abbiamo la minima idea sulla sua massa. Naturalmente,» aggiunse, «Se è scaturito dall'iperspazio, deve esserci stato un istante nel quale il suo campo gravitazionale non è esistito, per noi, e poi un istante nel quale esso è esistito… partendo dall'assunzione che il fronte del campo gravitazionale appena creato si muova alla velocità della luce… ma apparentemente, non si sono avuti dei fenomeni di transizione.

«Che noi abbiamo notato,» lo corresse Doc. «Tra parentesi, Ross, che cos'è questa espressione dubitativa sulla mia ipotesi di emersione dall'iperspazio? Da quale altro luogo avrebbe potuto venire, quella cosa

«Avrebbe potuto avvicinarsi al sistema solare cammuffato, od oscurato in qualche maniera,» asserì Hunter. «Noi dovremmo considerare tutte le probabilità. La sua filosofia si rivolge contro di lei, Rudy.»

«Umf,» fu il commento di Doc. «No, io credo che quanto ci ha detto Paul sui campi stellari distorti, nelle foto stellari, sposti gli aghi della bilancia verso l'Ipotesi Iperspaziale di Brecht. E il pianeta avrebbe dovuto 'oscurare' anche la sua gravità, direi, stando alla sua teoria. Tra parentesi, immagino che ci sia già possibile dedurre qualcosa, sulla massa del pianeta. Ora è l'una e sette minuti, Tempo della Costa del Pacifico,» disse, guardando l'orologio. «Circa due ore dopo l'apparizione del nuovo pianeta.»

«Due ore e cinque minuti,» si inserì l'Omino.

«Lei è una vera perla, Doddsy. Che tutti scolpiscano nella memoria le undici e due minuti, Tempo della Costa del Pacifico… un giorno i vostri nipoti potranno chiedervi l'esatto momento in cui avete visto saltar fuori dall'iperspazio Mister Monster. Comunque, all'una precisa la luna piena dovrebbe avere già superato il punto più alto della sua traiettoria nel cielo, essersi già da un'ora avviata verso il tramonto. A mio parere, non ci sono dubbi sul fatto che essa si trovi spostata a est, rispetto a quel punto, ancora vicina al suo zenit. Spostata di circa tre o quattro gradi a est, direi… sei, od otto diametri lunari. Questo significa che la trazione gravitazionale del pianeta emerso ha fatto accelerare la luna nella sua orbita. Ergo, il nuovo ospite non è un peso piuma.»

«Accidenti,» disse Wojtowicz, con enfasi. «Quale accelerazione potrebbe essere stata, Doc, immaginando che la Luna sia un razzo?»

«Be', può essere stata tra i due terzi di miglio al secondo a…» Doc esitò, poi disse, come se i suoi calcoli avessero fornito un risultato anche per lui incredibile, «A quattro o più miglia al secondo.»

Lui e Hunter si guardarono negli occhi.

«Accidenti,» ripeté Wojotowicz, «Ma da quanto ho capito, adesso, la Luna rimane sulla sua vecchia orbita, solo che la percorre molto più in fretta. Magari, un mese per ogni settimana, giusto, Doc?» Il nero istmo tra la luna e il pianeta si era un po' allargato, durante la conversazione.

«Credo che faremmo bene a muoverci a nostra volta,» disse Doc, con un tono stranamente remoto, chinandosi a prendere il suo angolo della barella.

«D'accordo,» lo assecondò bruscamente Hunter.

Le grandi pompe rotanti rombarono, muovendo masse di acqua a tribordo della Principe Carlo, per compensare il peso dei passeggeri e degli uomini dell'equipaggio allineati davanti alle ringhiere di babordo, e assiepati intorno ai portelli di babordo, per osservare il tramonto della Luna e del Vagabondo nell'Atlantico, mentre l'alba faceva impallidire il cielo dietro di loro, la stupenda aurora dell'oceano per la quale nessuno, in quel mattino, aveva un solo sguardo. La densità dell'atmosfera terrestre aveva trasformato il color porpora del pianeta in rosso e il color oro in arancio. Il suo tramonto, nel mare placido e silenzioso, era uno spettacolo maestoso.

Il tecnico radio dell'incrociatore atomico riferì al capitano Sithwise che nell'etere c'era una quantità insolita, e crescente, di scariche di statica.

Don Guillermo Walker riuscì a far atterrare il suo aeroplano all'estremità meridionale del Lago Nicaragua, vicino alla foce del fiume San Juan, malgrado l'alettone rotto di sinistra, e la dozzina di fori nelle ali, dovuti a frammenti di pomice vulcanica. Cosa importava… le rocce più grosse lo avevano mancato!

Il vulcano su Ometepe aveva ricevuto il rinforzo del suo gemello, Madera, ed essi stavano scagliando verso il cielo delle rosseggianti colonne di fuoco, circa a cinquanta miglia nord-est. E ora, superando tutte le aspettative di una notte così pazza, vide ammiccare, a meno di un miglio di distanza, i due rossi bengala gemelli che, come gli avevano promesso i fratelli Araiza, lo avrebbero guidato alla lancia. Caramba, que fidelidad! Non avrebbe mai più accusato un latinoamericano di frivolezza e di infedeltà!

Improvvisamente, il riflesso del Vagabando nel lago oscuro ondeggiò verso di lui. Vide le sinistre formazioni dell'acqua, come bassi gradini larghi, avvicinarsi a lui. Appena in tempo, fece virare l'aereo, prendendole di punta, e non di fianco. Il vecchio Seabee scalò il primo gradino con successo, anche se con un rumore d'acqua smossa e un sobbalzo violento. Le onde di un terremoto, o di qualche enorme smottamento!

CAPITOLO XI

Doc ansò, rapidamente:

«Non m'importa sapere quanto siamo vicini all'ingresso, so soltanto che devo riposarmi.» Abbassò il suo angolo della barella sulla sabbia, e s'inginocchiò là, appoggiando le braccia alle ginocchia, e ansando rumorosamete.

«La sua vita peccaminosa comincia a farle pagare le conseguenze,» disse allegramente Hunter, poi mormorò a Margo, «Sarà meglio che non sforziamo troppo il vecchio caprone. Generalmente fa ginnastica quanto un prosciutto affumicato.»

«Posso ritornare io,» si offrì ansiosamente quello che aveva occupato il posto di Doc poco prima… uno studente universitario dal viso allampanato, che era venuto al simposio in macchina da Oxnard, insieme a Wojtowicz.

«Sarà meglio che tiriamo tutti un po' il fiato, Harry,» disse quest'ultimo. «Professore…» si rivolgeva a Hunter. «Mi sembra che la Luna abbia rallentato di nuovo. Sia tornata alla normalità, quasi.»

Tutti, a eccezione della grassona, studiarono la situazione nel cielo occidentale. Perfino Doc sollevò il capo, pur senza smettere di ansimare. Senza alcun dubbio il nero istmo tra il Vagabondo e la Luna non si era allargato, durante la breve marcia del gruppo dopo l'ultima sosta.

«Mi sembra che la Luna stia rimpicciolendo,» disse Ann.

«Sembra anche a me,» ammise l'Omino. Sedette a terra, tenendo fermo con il braccio l'inquieto Ragnarok, e accarezzando il testone bruno del cane con dita suadenti, e sollevò il capo per osservare il cielo. «E… so benissimo che sembra fantastico, e pazzesco… ma ho l'impressione che la Luna si stia facendo oblunga, anzi, che si stia appiattendo un poco dall'alto al basso, allargandosi ai lati. Forse è solo un gioco della vista, ma sarei pronto a giurare che la Luna sta diventando ovale, e una sommità dell'uovo punta verso il nuovo pianeta.»

«Sì,» esclamò Ami, con voce un po' stridula. «E adesso vedo… oh. è una linea tenue, molto tenue, che va dalla sommità al fondo della Luna.»

«Linea?» esclamò l'Omino.

«Sì, come una spaccatura,» gli disse Ann.

L'Uovo Dischiuso e la Nascita Spaventosa, pensò Bacchetto. Così avviene come io avevo predetto. Ispan-Serpente ha fecondato, e la Bianca Vergine partorisce.

Devo confessare che questo non lo vedo,» disse l'Omino.

«Bisogna guardare con molta attenzione,» gli disse Ann.

«Ti credo sulla parola,» disse Wojtowicz. «I bambini hanno la vista acuta.»

Doc ansimò, eccitato:

«Se là c'è spaccatura che anche uno solo di noi è in grado di vedere, deve essere vasta miglia e miglia.»

Hunter disse lentamente, con voce sorda, come se le parole gli uscissero con uno sforzo tremendo:

«Io credo che la Luna stia entrando in orbita intorno al nuovo pianeta… e che stia penetrando nel limite di Roche.» Aggiunse, rapidamente. «Rudy, al di là del limite di Roche i satelliti solidi non si spezzano come se fossero liquidi?»

«Non credo che esista qualcuno che lo sappia con certezza.» rispose Doc.

«Be', allora è il momento di scoprirlo,» rispose l'uomo barbuto.

Rama Joan disse:

«E scopriremo anche cosa provano le formiche, quando qualcuno calpesta il loro formicaio.»

«La luna… si rompe?» disse Wojtowicz.

Margo strinse il braccio di Paul.

«Don!» esclamò. «Oh mio Dio, Paul, avevo dimenticato Don!»

Il Vagabondo apparve, all'inizio, a venticinquemila miglia di distanza dalla Luna; dieci volte più vicino alla Luna di quanto non fosse la Terra. I suoi effetti deformanti sulla Luna — effetti all'origine delle maree — furono perciò mille volte maggiori di quelli che la Terra esercita sulla Luna, dato che questi effetti variano inversamente al cubo della distanza tra i corpi. (Se essi non avessero variato inversamente al cubo, il massiccio sole avrebbe esercitato un effetto di marea sulla Terra molte volte maggiore della Luna, invece di essere superato, per questo effetto, dal corpo più piccolo, in proporzione di undici a cinque.)

Quando la Luna entrò in orbita intorno al Vagabondo, a una distanza di venticinquemila miglia, era cento volte più vicina a quel pianeta di quanto non lo sia la Terra. Perciò, il suo intero corpo, crosta e nucleo, veniva afferrato da una stretta gravitazionale un milione di volte più forte.

Lo schermo visore del Baba Yaga stava girando verso la Terra, quando il continuo rotolio della tuta spaziale, che batteva contro le pareti della cabina, finalmente svegliò Don Merriam, mentre lui stava rotolando in direzione dello schermo. Si svegliò con la mente lucida e pronta all'azione, riposato e tonificato dall'ossigeno fresco. Gli bastò un momento per raggiungere il sedile di pilotaggio. Legò le cinture di sicurezza, questa volta.

La bianca superficie lunare, macchiata dalle pareti dei crateri, e da qualcosa d'altro, apparve nel suo campo visuale, gonfiandosi visibilmente, avvicinandosi. Poi venne un precipizio di rocce nude e aspre e scintillanti, che scendeva, apparentemente senza limiti, verso il nucleo del satellite. Poi uno stretto nastro di oscurità abissale, diviso, in questa estensione nera, da un filo lucente, che era quasi completamente viola, ma a un'estremità si faceva di un giallo carico. Poi un altro scintillio, e un'altra interminabile parete abissale, che si tuffava verticalmente verso il centro della Luna.

Gli occhi dissero a Don che egli non si trovava a più di quindici miglia dalla superficie lunare, e continuava a precipitare verso la bianca parete a una velocità di circa un miglio al secondo. E non c'era il tempo di rallentare la caduta, facendo ruotare l'astronave e accendendo i razzi frenanti.

Mentre questi pensieri passavano come lampi nella mente di Don, le dita dell'astronauta toccarono i tasti dei razzi stabilizzatori, che fermarono la lenta rotazione del Baba Yaga, in modo che lo schermo… e Don… guardarono direttamente nell'abisso.

C'era una sola speranza, basata su qualcosa di esile come una combinazione di colori. C'era stato qualcosa di viola e giallo dietro la Luna, che aveva brillato con grande intensità. Ora c'era un filamento viola e giallo, che scintillava nell'oscurità nera del nucleo della Luna. Poteva darsi che lui riuscisse a vedere, attraverso l'abisso, dall'altra parte della Luna.

La luna… spaccata in due come un ciottolo? I nuclei planetari potevano fluire, non rompersi. Ma qualsiasi altra teoria voleva dire 'morte', per lui.

Le pareti di aspre rocce squarciate gli vennero incontro. Era troppo vicino alla parete di destra. Su quel lato del Baba Yaga, un piccolo razzo lampeggiò, facendo deviare lievemente l'astronave… e iniziando una seconda rotazione, che un'altra accensione degli stabilizzatori neutralizzò quasi nello stesso istante in cui si era manifestata.

Quando era stata ragazzo, Don Merriam aveva letto Gli Dei di Marte di Edgar Rice Burroughs. In quel romanzo di science fantasy, John Carter, il più grande spadaccino dei due pianeti, era sfuggito, insieme ai suoi compagni, dall'immenso mondo sotterraneo vulcanico che era la caverna dei Pirati Neri di Barsoom e del loro spaventoso culto di Issus, pilotando un apparecchio marziano verticalmente, attraverso il pozzo lungo miglia e miglia, e angusto, che conduceva nel mondo esterno, preferendo quella strada diretta e pericolosa all'espediente di salire lentamente e prudentemente, con la spinta di 'galleggiamento' dei serbatoi a raggi dell'apparecchio. Quest'ultima sarebbe stata l'unica strada normale e ragionevole, ma John Carter aveva trovato la salvezza per sé e i suoi compagni nella pura, folle velocità, orientandosi nel volo verticale con una stella visibile alla remota sommità della galleria.

Forse gli Dei di Marte erano gli arbitri di tutte le azioni di Don Merriam, a questo punto. In ogni modo, egli avvertì improvvisamente, intorno a sé, nella cabina del Baba Yaga, la spettrale presenza, nelle loro armature tempestate di gioielli, di Xodar il rinnegato Nero, di Chartoris, il misterioso Marziano Rosso, di Matai Shang, il sinistro Padre dei Sacri Tre, e della sua coraggiosa, bellissima, innamorata e incredibilmente traditrice figlia Phaidor. E fu un fatto che, nel momento in cui il Baba Yaga fu avvolto da pareti di nuda roccia toccate per la prima volta dai raggi del sole dopo milioni e milioni di anni di tenebra e silenzio, e mentre Don azionava i razzi principali, e fu schiacciato dall'accelerazione sul sedile, mentre usava come timone i razzi stabilizzatori e i razzi a combustibile solido, per mantenere uguale lo scintillio delle pareti a strapiombo, e il filamento viola-e-giallo al centro perfetto di due metà uguali di abisso nero, egli gridò improvvisamente, nella cabina deserta:

«Tenetevi forte, se vi è cara la vita! Sto per immergermi nell'abisso!»

Gli studiosi dei dischi volanti sentirono che la sabbia veniva sostituita da una striscia di terra dura e pressata, che si inerpicava bruscamente verso l'alto reticolato che circondava la base dell'altopiano sul quale sorgeva Vandenberg Due. Ma in quel punto… a mare del luogo in cui la rossa luce intermittente era sospesa, alla sommità del suo palo, trenta metri dopo il reticolato… e almeno sessanta metri più in alto… una rientranza vasta penetrava nella parete naturale, rendendo la salita più agevole. Molte tracce di cingoli e di pneumatici si vedevano, sul fondo della rientranza. C'era un ampio cancello, nel reticolato, dove esso attraversava la strada, e accanto al cancello, come se fosse stata costruita insieme al reticolato, c'era una torretta di guardia di due piani. Il cancello era chiuso e la torretta era priva d'illuminazione, ma la porticina, all'esterno della torretta, era aperta.

Quella visione rallegrò considerevolmente Paul. Egli raddrizzò le spalle, e il nodo della cravatta. Il piccolo corteo si fermò a una quindicina di metri dal cancello, e lui, Margo e Doc procedettero in quella direzione, preceduti dalle loro nere ombre dai contorni di porpora e d'oro.

Una voce metallica e dura uscì dalla cassetta sistemata sopra la porta, e disse:

«Fermatevi dove siete. State per violare i confini di un terreno di proprietà del Governo degli Stati Uniti. L'accesso è vietato a tutto il personale non autorizzato. Non potete oltrepassare il cancello. Ritornate da dove siete venuti. Grazie.»

«Oh, per la miseria!» esplose Doc. Da quando era stato sollevato dal peso della branda, aveva riacquistato rapidamente il suo spirito combattivo. «Credi che siamo una commissione esplorativa dei piccoli uomini verdi?» e gridò alla scatola. «Non vedi che siamo esseri umani?»

Paul toccò il braccio di Doc e scosse il capo, ma continuò ad avanzare. Chiamò, con voce cortese:

«Io sono Paul Hagbolt, 929-CW, accreditato capitano-parificato FC del Progetto Luna. Chiedo l'ammissione per me e per undici persone in condizioni di estrema necessità, a me note, e chiedo un trasporto per queste ultime.»

Un soldato uscì dall'oscurità della porta, e apparve nella luce del Vagabondo. Si trattava inconfondibilmente di un soldato, perché indossava un pesante paio di stivali, e aveva un elmetto sulla testa; una pistola, un coltello, e due granate appese alla cintura; sul braccio destro era ritto un fucile mitragliatore, e sulla schiena c'era il rigonfio… Paul notò questo senza credere ai propri occhi… di un dispositivo per il volo a razzo individuale.

Il soldato aveva il viso impassibile del giocatore di poker, e stava eretto rigidamente, ma il ginocchio destro si muoveva lievemente, rapidamente e con frequenza, come se da un momento all'altro egli avesse potuto iniziare una danza primitiva, o molto più ragionevolmente, come se egli avesse cercato di controllare un tic senza riuscirci.

«CW e JR, eh?» disse a Paul, sospettosamente, ma anche con un certo rispetto. «Vediamo i suoi documenti… signore.»

C'era un lieve odore acidulo. Miao, che era rimasta incredibilmente calma, dopo la frana, si spostò lievemente nelle braccia di Margo, guardò negli occhi il soldato, e soffiò come un vaporetto.

Porgendo al soldato i documenti, che aveva già preparato, Paul riuscì a cogliere un tremito.

Mentre il soldato studiava i documenti, tenendoli davanti agli occhi, inclinati per sfruttare la luce del Vagabondo, il suo volto era sempre inespressivo, ma Doc notò che i suoi occhi continuavano a fissare prima le carte, e poi il globo del Vagabondo.

Doc chiese, in tono discorsivo:

«Ha sentito niente su quello

Il soldato guardò Doc negli occhi, freddamente, e abbaiò:

«Sì, noi sappiamo tutto quel che c'è da sapere, su quello, e non ci siamo lasciati certo intimidire! Ma non ci lasciamo sfuggire nessuna informazione, capito?»

«Sì, capisco,» gli disse Doc, gentilmente.

Il soldato sollevò lo sguardo dai documenti.

«Benissimo, signor Hagbolt, signore, telefonerò la sua richiesta al cancello principale.» Indietreggiò, ritornando verso la porta.

«È sicuro di avere capito bene tutto?» domandò Paul, ripetendo le sue richieste, fornendo maggiori particolari, e menzionando i nomi di numerosi ufficiali.

«E il professor Morton Opperly,» intervenne Margo, con enfasi.

Paul concluse:

«E una di queste persone ha subito un attacco di cuore. Perciò vogliamo portarla nella torretta, dove è più caldo. E vorremmo dell'acqua.»

«No, voi restate tutti fuori,» disse seccamente il soldato, alzando la canna del fucile mitragliatore di qualche centimetro, e continuando a indietreggiare. «Aspetti,» disse a Paul. «Lei venga qui.» Dalle tenebre, all'interno della torretta, egli diede a Paul prima una coperta, e poi una bottiglia d'acqua. «Ma niente tazzine di carta!» aggiunse, soffocando quella che avrebbe potuto diventare una risatina stridula. «Non mi chieda delle tazzine di carta!» Sempre indietreggiando, sparì nelle tenebre, e si udì il rumore di un quadrante che girava.

Paul ritornò indietro con il suo magro bottino, e porse la coperta alla donna magra. L'acqua venne distribuita. Bevvero dalla bottiglia.

«Immagino che dovremo attendere un poco,» mormorò Paul. «Sono sicuro che il ragazzo sia in gamba, ma attualmente è nervosetto. Aveva tutta l'aria di prepararsi ad affrontare da solo il nuovo pianeta.»

Margo disse:

«Miao ha sentito a fiuto quanto era spaventato.»

«Ebbene,» fu il filosofico commento di Doc, «Se fossi stato completamente solo, quando il pianeta è apparso, ma con un po' di ferraglia a disposizione, credo che avrei spento le luci e mi sarei nascosto nell'armatura e avrei cominciato a tremare anch'io. Noi abbiamo incontrato il nuovo pianeta probabilmente nelle migliori condizioni possibili… e nelle circostanze più favorevoli. Pensate… stavamo frugando il cielo, alla ricerca di dischi volanti e altre manifestazioni soprannaturali, e discutevamo di pianeti e di iperspazio e cose simili.»

«Credo che se lei avesse paura, signor Brecht,» interloquì Ann. «Lei accenderebbe tutte le luci che ha intorno.»

«Vedi, giovane amica,» rispose Doc, «La mia idea contorta era che, se fossi stato così spaventato, non avrei voluto che qualcosa di grosso, nero e peloso vedesse dov'ero, per prendermi.»

Ann rise, contenta della risposta.

L'Omino disse a tutti con voce bassa, distante e quasi del tutto priva d'emozione:

«La Luna sta ruotando dietro il bordo del nuovo pianeta. Se ne sta… andando.»

Gli occhi confermavano ciò che era stato detto dalle parole. Un frammento del disco lunare era già nascosto dietro l'intruso purpureo e dorato.

Wojtowicz disse:

«Dio mio… Dio mio!…»

La donna magra cominciò a singhiozzare rumorosamente.

Rama Joan disse:

«Dacci coraggio.»

Le labbra di Margo formarono silenziosamente la parola, «Don», e lei rabbrividì, stringendo forte a sé Miao. Paul le circondò le spalle col braccio, ma lei si scostò, a capo chino.

Hunter disse:

«La luna si trova in un'orbita molto ristretta. La distanza tra le due superfici non può essere superiore a tremila miglia.»

Bacchetto pensò: Presa ormai dalle doglie del parto, la Vergine Bianca si ripara dietro le vesti di Ispan.

L'Omino porse le mani a coppa, e Rama Joan versò un po' d'acqua per Ragnarok.

Il colonnello Mabel Wallingford disse, con voce stridula: «Spike, ho parlato con il generale Vandamme in persona, e lui dice che questo non è un problema. Ci hanno permesso di occuparcene noi in gran parte, perché siamo stati i più pronti a reagire, e i primi disponibili. I tuoi ordini sono stati approvati e ritrasmessi.»

Spike Stevens, con gli occhi fissi sugli schermi gemelli che mostravano la luna che si spostava dietro la forma del Vagabondo, mordicchiò il sigaro spento che teneva in bocca, e ringhiò:

«D'accordo, allora, di' che ce lo dimostrino.»

«Jimmy, accendo lo schermo interno,» ordinò Mabel.

Il generale si accese il sigaro.

Un terzo schermo s'illuminò, mostrando un gentiluomo sorridente, dall'aspetto sereno e distinto, e la testa calva. Il generale si tolse di bocca il sigaro, come un fulmine, e scattò sull'attenti. Il colonnello Mabel sentì un freddo palpito di gioia, vedendolo comportarsi come il ragazzino diligente preso in fallo.

«Signor Presidente,» alitò Spike.

«Io non faccio parte di una crisi simulata, Spike,» rispose l'altro. «Benché sia difficile credere che questo possa averla infastidita, considerando il modo magistrale con il quale il suo gruppo ha operato finora.»

«Niente affatto magistrale, signore,» disse il generale. «Temo che abbiamo perduto la Base Lunare. Non ci giunge alcuna comunicazione, nemmeno una parola da più di un'ora.»

Il volto sullo schermo assunse un'espressione grave.

«Dobbiamo prepararci a subire delle perdite. Ora sto lasciando il Comando Spaziale, per incontrarmi con le autorità della Guardia Costiera. La parola che posso dirle è… continui con fede e coraggio!… per tutta la durata di questa…» Si vedeva benissimo che cercava, mentalmente, una delle sue famose frasi luccicanti ed essenziali. «…emergenza astronomica.»

Lo schermo si spense.

Il colonnello Willard Griswold, che non perdeva d'occhio gli schermi astronomici, disse:

«La Base Lunare? Diavolo, Spike, ma noi abbiamo perso la luna.»

CAPITOLO XII

Don Merriam era già da quindici minuti nel corpo della Luna, procedendo a una velocità di due miglia al secondo, e ora la striscia gialla e viola, dopo essersi allargata, fino a diventare un nastro, rimaneva da qualche tempo delle medesime dimensioni — cosa che non poteva essere un buon segno — ma non c'era nulla da fare, se non procedere come un proiettile attraverso l'incredibile crepaccio che divideva la Luna in due emisferi, un crepaccio incredibilmente levigato, come un diamante di taglio perfetto; mentre lui non poteva essere altro che un solo occhio vivente, un solo grande occhio la cui unica funzione era quella di pilotare, e si dovevano subire quei pensieri vaganti che giungevano alla mente, perché il compito di pilotare il proiettile che sfrecciava attraverso la Luna era troppo serio, occupava troppo la mente, perché egli potesse sprecare delle energie per sopprimere o controllare i pensieri vaganti.

Dopo la prima, violenta spinta di accelerazione, continuò accendendo il razzo centrale a brevi intervalli, pilotando il Baba Yaga con i razzi stabilizzatori.

Don Merriam stava viaggiando attraverso il nucleo di un corpo planetario. Era passato attraverso il centro di quel mondo, e finora il viaggio era stato un succedersi di riverberi e di tenebra e di macchie confuse e di un nastro violetto che divideva in due uno schermo a chiazze lattescenti. Il viaggio era tutto questo, e anche una gola bruciante, serrata da un nodo dolente, e occhi gonfi e tesi, e l'immagine di se stesso… un insetto che passava ronzando nel terreno, un tarlo che attraversava un legno lungo chilometri e chilometri, uno scarabeo che viaggiava in una galleria tra coltri smisurate di pietra, o un principe stregato che correva per un corridoio avvelenato, stretto fin quasi a sfiorargli i gomiti… e se lo sfiorava appena, che faux pas sarebbe stato!

Verso la metà del percorso, aveva visto delle striature nere come l'inchiostro, e un lampo di fiamma verde, ma era stato impossibile immaginare quale ne fosse stata la causa.

La lattescenza sullo schermo, in ogni modo, doveva essere causata dall'erosione dei vortici di polvere minutissima che a un certo punto gli avevano quasi nascosto il filamento colorato.

Aveva perduto di vista la luce del sole, a poppa, prima di quanto avesse sperato, e così aveva dovuto guidare il Baba Yaga servendosi soltanto degli scintillii vaghi delle pareti, i riverberi porpora e oro, e si trattava di un sistema infido, ingannevole, perché il giallo era più vivido del color porpora, e lo tentava a tenersi a una distanza eccessiva da esso.

Ma ora il nastro violetto cominciava a restringersi, ed egli capì che si trattava della condanna, un destino peggiore di una rotta di collisione, perché alla sua mente giunse, indomabile, l'immagine folle delle due metà squarciate della Luna che si chiudevano dietro di lui, escludendo tutta la luce solare, e poi… in una massiccia reazione, e per virtù della rabbiosa, mutua attrazione delle masse in movimento… anche davanti a lui, avvicinandosi di qualche metro mentre lui percorreva miglia e miglia, con apparente lentezza, ma velocità sufficiente a precederlo nel punto d'impatto.

Poi, nell'istante in cui gli parve di raggiungere il punto della collisione, quando i suoi calcoli rudimentali indicavano che egli aveva viaggiato per quasi duemila miglia attraverso la Luna, il nastro violetto si spense del tutto.

E poi, incredibilmente, come se egli avesse trovato una vita dopo la morte, Don Merriam uscì come un proiettile dalle tenebre, e si trovò nella luce, con grappoli di stelle che ardevano tutt'intorno a lui, e perfino il vecchio Sole che dardeggiava l'universo con i suoi bianchi raggi accecanti.

Soltanto allora vide ciò che si trovava davanti a lui.

Era un grande disco, grande come la Terra vista da un'orbita di due ore. Questo immenso disco irradiava una luce viola e dorata a destra, dove c'era il Sole, ma a sinistra era nero come l'inchiostro, a eccezione di tre pallidi ovali che irradiavano una vaga fosforescenza verdognola. Si rese conto che prima, nelle viscere della Luna, lui aveva perso di vista il nastro viola non perché le fauci di Selene si fossero serrate davanti a lui, ma semplicemente perché la faccia notturna del pianeta si era spostata, ponendosi di fronte all'abisso che lui aveva attraversato.

Accettò istantaneamente il fatto che si trattasse di un enorme pianeta, e che la Luna fosse entrata in un orbita stretta intorno a esso, perché soltanto questo, evidentemente, poteva spiegare ciò che aveva visto e quanto era accaduto nelle ultime tre ore: il diluvio di luce sulla faccia notturna della Terra, il faro occhieggiante nell'Atlantico, e soprattutto il frantumarsi titanico della Luna.

E, oltre il muro della ragione, c'era qualcosa d'altro in lui… c'era qualcosa che gridava, ora che era là fuori, e stava guardando quel globo maestoso, di credere che fosse davvero un pianeta.

Regolò l'astronave, facendola ruotare lentamente, e laggiù, a sole cinquanta miglia da lui, vide il gran disco della Luna, per metà nero, per metà di un bianco abbagliante, un inferno ivoreo di raggi solari riflessi. E vide che le pareti dell'abisso si erano veramente serrate, come fauci fameliche, dietro di lui, dal fronte dei geyser di polvere che s'innalzavano scintillanti nei raggi solari, nel vuoto illuminato, su tutto il bordo della linea notturna della luna, e lo vide anche dalla scacchiera surreale, dalle caselle distorte, di spaccature minori, segnate da geysers di polvere più piccoli, che s'irradiava dalla linea della spaccatura. Un tratteggio mostruoso, per un evento titanico.

Era sospeso a cinquanta miglia di altezza… e continuava ad allontanarsi… da quello che a ogni secondo acquistava maggiormente l'aspetto di un mare roccioso scosso da fremiti paurosi.

Poi, dato che non voleva tuffarsi… non ancora, almeno… alla velocità di un miglio al secondo nell'emisfero buio chiazzato di sinistra fosforescenza che ora si trovava sotto i suoi razzi, accese il motore principale, per diminuire la velocità… controllando finalmente il quadro degli strumenti, e scoprendo che a bordo c'erano combustibile e ossidante appena sufficienti per quella manovra. Così avrebbe dovuto entrare in orbita intorno al pianeta straniero… un'orbita ancor più interna di quella della Luna.

Sapeva che ben presto il Sole sarebbe affondato sotto il campo visuale, e che la luna, gigantesca creatura in metamorfosi, avrebbe conosciuto un'altra nera eclissi, quando il Baba Yaga e Selene sarebbero entrati insieme nel cono d'ombra… nella notte… di un favoloso mistero.

Fritz Scher sedeva rigido e impettito dietro la scrivania, nella lunga sala dell'Istituto di Ricerche sulle Maree di Amburgo, nella Germania Ovest. Stava ascoltando, con divertimento già sfumato da una traccia di esasperazione, le demenziali notizie del mattino che giungevano dall'altra parte dell'Atlantico. Spense l'apparecchio, con una forza che per poco non ruppe il pulsante, e disse ad Hans Opfel:

«Questi americani! Va bene che la loro presenza è necessaria per tenere a bada quei porci comunisti, ma che degradazione intellettuale, per la Madreterra!»

Si alzò dalla scrivania, e camminò fino alla lucida, aerodinamica macchina che occupava l'intera parete della sala, e la cui funzione era quella di prevedere le maree. All'interno della macchina, un filo scorreva attraverso molte pulegge di precisione asportabili e regolabili; ciascuna puleggia rappresentava un fattore che influenzava la marea, nel punto dell'idrosfera terrestre sul quale la macchina era regolata; alla fine del filo, un pennino sottilissimo tracciava su un cilindro grafico una curva che forniva con esattezza le maree in quel punto, ora per ora.

A Delf c'era una macchina che eseguiva l'intero lavoro elettronicamente, ma quelli erano gli inetti, sfaticati olandesi!

Fritz Scher disse, in tono drammatico:

«La luna in orbita intorno a un pianeta uscito dal nulla? Ah!» Batté con aria significativa la mano sul lucido fianco della macchina. «È qui che abbiamo inchiodato la luna!»

La Machan Lumpur, con la prua rugginosa puntata a sud del sole che tramontava sul Vietnam del Nord, attraversò la barriera che proteggeva il piccolo istmo, a sud di Do-Son. Bagong Bung notò, grazie a una configurazione familiare di radici di mangrovie, e grazie a un basso canneto grigio che faceva praticamente parte della sua famiglia, tanto gli era noto, che l'alta marea era forse un palmo più alta di quanto non fosse mai stata in quel punto. Un ottimo auspicio! Delle piccole onde increspavano misteriosamente le acque della rientranza naturale. Un uccello marino fece udire il suo rauco richiamo.

Richard Hillary vide i raggi del sole raddrizzarsi lentamente, mentre la corriera volava su un soffice cuscino d'aria verso Londra. Bath era lontano, ormai, e stavano passando davanti a Silbury Hill.

Ascoltò pigramente la solenne ridda d'ipotesi, intorno a lui, sulle notizie assurde che erano giunte per radio, e riguardavano un disco volante grosso come un pianeta, avvistato da migliaia di persone negli Stati Uniti. Veramente, la fantascienza stava ammorbando e corrompendo la gente in ogni parte del mondo.

Una ragazza attraente, nella sua bellezza campagnola, che veniva da Devizes e si era trasferita a bordo a Beckhampton — la ragazza indossava dei minishorts, stivaletti e una maglietta trasparente — era seduta nel posto davanti a lui, e aveva cominciato a chiacchierare con la donna che le sedeva vicina praticamente nel momento in cui si era seduta. Stava spaziando, con lo stesso, identico entusiasmo, sulle notizie del disco volante… e il piccolo terremoto che aveva fatto sussultare brevemente molte regioni della Scozia… e l'uovo che aveva mangiato a colazione, e la pietanza che avrebbe mangiato a pranzo. In onore di Edward Lear, Richard forgiò mentalmente un limerick su di lei:

C'era una Giovane Donna di Devizes

Che aveva i pensieri in due misure precise:

Mentre molti passavano per un cruna

Alcuni eran grandi come la Luna;

Quella Donna che amava lo spazio di Devizes.

Pensare e rifinire il limerick lo divertì, per tutta la strada fino alla Foresta di Savernake; e quando ebbe raggiunto quel luogo, si appisolò.

CAPITOLO XIII

Times Square, alle cinque del mattino, era gremita come lo era stata nella notte dello sbarco lunare e della Falsa Guerra Con La Russia. Il traffico era stato bloccato già da molto tempo. Le strade erano invase da fiumane di persone. Il Vagabondo, che ora copriva metà del disco lunare, era ancora visibile in fondo alle strade che attraversavano la città, compresa la 42a, ma era basso sull'orizzonte, con i colori modificati, il giallo più tenue, il purpureo diventato rossiccio.

Per contrasto le insegne pubblicitarie erano più vivide, specialmente quella più recente, che mostrava tre arance grosse come armadi.

Ma le strade non erano più silenziose e immobili. Mentre alcune persone restavano dov'erano, e si limitavano a guardare a occidente, la maggioranza stava ondeggiando ritmicamente; non pochi si erano presi per mano, e stavano danzando qua e là, vorticosamente, mentre qua e là giovani coppie ballavano sfrenatamente, in una fantasmagorica notte di carnevale. E quasi tutti fischiettavano, o accennavano, o urlavano a pieni polmoni una canzone che aveva diverse versioni, la più recente delle quali veniva cantata alla fonte, dove Sally Harris continuava a ballare, benché ora avesse acquistato un gruppo di almeno sei robusti, aggressivi ragazzi, oltre a Jake Lesher, che le davano man forte. E la canzone, come la cantava ora, con la sua voce da contralto ancor più seducente e vibrante, ora che la stanchezza l'aveva un po' arrochita, diceva:

Strano globo!… nel cielo d'occidente…

Strana luce!… che piove dall'alto…

Visione che ci fa paura

Ma dobbiamo vivere stasera,

Vivere con questo ritmo folle, yah!

D'oro!… come navi del tesoro…

Rosso!… come labbra del peccato…

Ma giugno non ci sarà più,

Perché la Luna non sarà più lassù!…

Solo un

Pianeta!… sulla Quarantaduesima Strada!

Improvvisamente, i canti e le danze cessarono ovunque contemporaneamente… perché la pista da ballo aveva cominciato a tremare. Fu una scossa breve. Qualche cornicione, non molti, e qualche calcinaccio, caddero sui marciapiedi. Si udirono delle grida… non molte, neppure in questo caso. Ma quando il breve terremoto fu finito, si poté vedere che l'insegna aveva perduto le sue tre arance, anche se continuava ad ammiccare benevolmente alla folla.

Arab Jones e i suoi «fratelli di viaggio» camminavano rapidamente, fianco a fianco, lungo la 125a Strada, allontanandosi da Lenox, nella direzione verso la quale tutte le altre facce scure stavano guardando: a ovest, dove il Vagabondo stava tramontando, come una grande fiche da poker dai colori chiassosi… una panciuta X purpurea su campo arancio… che copriva quasi completamente il soldino dorato della pallida Luna. Ben presto la coppia celeste sarebbe stata nascosta dai grattacieli, che parevano enfasizzare, con le loro sagome torreggianti e massiccie, l'aspetto di piccola città di Harlem, gli edifici a due o tre piani, con i negozi sulla facciata, che si affacciavano sulla 125a Strada.

I tre 'fratelli di viaggio' erano così carichi che la loro eccitazione era stata semplicemente aumentata dal terremoto, che aveva fatto scendere per le strade quasi tutti coloro che ancora non erano stati a fissare il Vagabondo.

A oriente il cielo era rosato, là dove il sole, che indugiava dietro le quinte dell'orizzonte prima di fare il suo ingresso in scena, aveva sciacquato il cielo da tutta la polvere di stelle, portando su Manhattan il chiarore del mattino. Ma nessuno guardava da quella parte, né dava alcun segno che quello fosse il momento di andare a lavorare, o di andare a letto per cercare di dormire un poco. Le guglie della bassa Manhattan erano una città fiabesca di castelli incantati a sud, ma nessuno guardava là.

Arab, Pepe e 'High' avevano rinunciato già da qualche tempo ad aprirsi una strada tra la folla che, in silenzio e a bocca aperta, fissava il cielo dai marciapiedi, e camminavano al centro della strada, dove non si muoveva nessuna automobile, e il numero di persone a testa in su era minore, ed era più facile aprirsi un varco. A Pepe sembrava che dal pianeta, davanti a lui, piovesse una polvere che congelava tutti i motori e quasi tutte le persone, con una specie di raggio a effetto combinato, paralizzatore e di bloccaggio dei motori, degno dei fumetti. Si fece il segno della Croce.

'High' Bundy mormorò:

«Il vecchio uomo della Luna adesso entra davvero in lei, è la volta buona! Le gira davanti, decide che gli piace, e poi whoosh!»

«Forse si nasconde perché ha paura. Come noi.» disse Arab.

«Paura di che cosa?» domandò 'High'.

«Della fine del mondo,» disse Pepe Martinez, con voce sommessa e lamentosa.

Solo il bordo del Vagabondo appariva ormai sopra i grattacieli, che sporgevano dal suolo e s'innalzavano sempre più rapidamente verso il cielo, mano a mano che i fratelli di viaggio si avvicinavano.

«Venite!» disse improvvisamente Arab, afferrando il braccio di Pepe e quello di 'High', e stringendo con forza. «Il mondo finisce, io parto. Andiamo via da tutti questi moribondi dagli occhi di gufo, che aspettano le trombe del Giudizio e lo scontro. Un pianeta si rompe, noi ne prendiamo un altro. Venite, prima che se ne vada!… Prenderemo la nostra stella al fiume, e saliremo a bordo!»

I tre cominciarono a correre.

Paul, Margo e i loro nuovi amici erano seduti sulla sabbia, a quindici metri dal cancello buio, quando la seconda scossa fece sussultare la spiaggia. Non fece nulla, se non farli ballare un poco, e loro non potevano fare nulla per evitarla, così si limitarono a respirare più forte, e a ballare con la spiaggia. Il soldato uscì di corsa dalla torretta, con il fucile mitragliatore spianato, si fermò, e dopo un minuto rientrò, camminando sempre all'indietro. Non rispose, quando Doc lo chiamò allegramente, dicendo:

«Ehi, non è stata una bella scossa?»

Cinque minuti dopo, Ann disse:

«Mammina, adesso ho fame davvero.»

«Anch'io,» disse il giovane Harry McHeath.

L'Omino, che stava diligentemente ammansendo un Ragnarok visibilmente turbato, disse:

«Ah, questa è buffa. Avremmo servito del caffè e delle tartine, dopo l'eclisse. Il caffè era in quattro grossi termos… lo so, perché l'ho portato io. Dev'essere ancora tutto sulla spiaggia.»

Wanda si mise a sedere, sulla branda, malgrado le proteste della donna magra.

«Cos'è tutto questo chiarore rosso, lungo la costa?» domandò, nervosamente.

Hunter fece per risponderle, non senza una sfumatura di sarcasmo, che si trattava semplicemente della luce del nuovo pianeta, quando vide che doveva esserci realmente un'altra sorgente di luce… un chiarore livido e sanguigno, come il rosseggiare di una fornace, che l'altra luce aveva mascherato.

«Potrebbe essere un incendio della sterpaglia,» suggerì con aria cupa Wojtowicz.

La donna magra disse:

«Oh, santo cielo, proprio adesso doveva accadere. Come se non avessimo guai a sufficienza.»

Hunter strinse le labbra. Non volle dire ad alta voce quello che pensava: «Oppure potrebbe trattarsi di Los Angeles che brucia.»

L'Omino richiamò la loro attenzione sulla volta celeste, dove l'intruso color porpora e giallo ora nascondeva completamente la Luna. Egli disse:

«Dovremmo avere un nome per indicare il nuovo pianeta. Sapete, è buffo, un momento per me è la cosa più importante di tutto il creato, ma un minuto dopo è solo una macchia nel cielo, che posso coprire tendendo la mano.»

«Cosa sigifica in realtà la parola 'pianeta', signor Brecht?» domandò Ann.

«'Vagabondo', cara,» le disse Rama Joan.

Bacchetto pensò: Ispan è noto all'uomo sotto mille nomi, eppure è sempre Ispan.

Harry McHeath, che aveva scoperto da poco la mitologia scandinava e gli Edda, pensò: Divoratore della Terra sarebbe un buon nome… ma troppo minaccioso per la gente di oggi.

Margo pensò: Potrebbero chiamarlo Don, e si morse il labbro, e strinse Miao così forte che la gatta protestò; delle lacrime filtrarono tra le ciglia socchiuse della ragazza.

«Vagabondo è il nome giusto,» disse l'Omino.

Il segno giallo, che per Bacchetto era l'Uovo Dischiuso, e per Ann era la Cruna d'Ago, in quel momento toccava il bordo sinistro del Vagabondo, da come essi lo vedevano. Le chiazze polari gialle rimanevano, e una nuova chiazza gialla centrale stava lentamente apparendo sul bordo destro. In tutto, quattro macchie gialle ai margini; a nord, a sud, a est e a ovest.

L'Omino estrasse il suo blocco d'appunti, e cominciò a tracciare uno schizzo.

TRE ORE

«La parte purpurea forma una grossa X,» disse Wojtowicz.

«La croce inclinata,» disse Bacchetto, parlando finalmente a voce alta. «Il disco dentato. Il circolo diviso in quattro.»

«È un mandala,» disse Rama Joan.

«Oh, già,» disse Wojtowicz. «Professore, lei ce ne parlava prima,» si stava rivolgendo a Hunter. «Simboli di qualcosa di psichico.»

«Unità psichica,» disse l'uomo barbuto.

«Unità psichica,» ripeté Wojtowicz. «Questo va bene,» aggiunse, in tono pratico. «Ne avremo molto bisogno.»

«E per questo ti ringraziamo,» mormorò Rama Joan.

Due grandi occhi gialli apparvero alla sommità della gobba della grande strada centrale di Vandenberg Due. Si udì un lontano ruggito. Poi la jeep iniziò la discesa verso il cancello, e i fari illuminarono cespugli e terriccio secco.

«Tutti in piedi,» disse Paul. «Adesso avremo un po' d'azione.»

Don Merriam poté vedere una grande, asimmetrica clessidra di stelle nello schermo del Baba Yaga. Alcune stelle erano lievemente offuscate dai punti nei quali lo schermo aveva subito l'impatto della polvere lunare, durante il viaggio al centro del satellite.

La massa nera che entrava nella clessidra da poppa era la Luna, ora in eclissi totale, a causa dell'enorme corpo celeste apparso da così poco tempo.

Il Vagabondo, che pareva penetrare nella clessidra di stelle da prua, non era completamente nero… Don poteva vedere sette macchie che emanavano la bizzarra fosforescenza verdognola, ciascuna apparentemente di 300 miglia; le più lontane erano ellissi, le più vicine erano circoli quasi perfetti. Erano informi, e non presentavano lineamenti di sorta, benché a volte qualcosa in esse desse l'idea di un pozzo fosforescente, o di un imbuto. Del loro significato, Don riuscì a supporre soltanto che fossero pallide macchie verdi sul ventre nero di un ragno.

In compagnia della luna, il Baba Yaga stava orbitando intorno al Vagabondo, ma guadagnava lentamente nei confronti della Luna, perché la piccola astronave, più vicina al Vagabondo, seguiva un'orbita più veloce.

Accese il radar. Il segnale di ritorno dalla Luna mostrò una superficie più irregolare di quanto crateri e montagne, da soli, avrebbero potuto giustificare, e perfino in cinque, brevi minuti i contorni erano grandemente cambiati; la marea che frantumava la Luna stava continuando.

Il segnale sorprendentemente forte che venne dal pianeta straniero mostrò una superficie sferica, solida, senza la minima indicazione delle chiazze verdi fosforescenti… come se il Vagabondo fosse stato liscio come una palla da biliardo!

Il pianeta straniero!… impossibile, ma era là, e si vedeva immenso, reale. Mentalmente, Don cercò di raccogliere i ricordi… frammenti di speculazioni e teorie, delle quali aveva letto qualcosa, e che riguardavano l'iperspazio: il concetto che un corpo potesse essere in grado di viaggiare da a qui senza traversare il continuum noto che divideva i due punti, forse entrando, o scivolando, in un continuum a più dimensioni, del quale il nostro universo era soltanto una superficie. Ma dove, in tutta quella immensità sconfinata di stelle e nebulose e galassie, poteva trovarsi il del pianeta straniero, dell'intruso penetrato nel sistema solare? Perché, in fondo, quel là avrebbe dovuto trovarsi nel nostro universo? Un continuum a più dimensioni avrebbe certamente avuto un'infinità di superfici tridimensionali, ciascuna delle quali sarebbe stata un cosmo separato.

Sul fondo della mente di Don, c'era solo una voce inquieta, che ripeteva:

«La Terra e il sole sono dall'altra parte di quel grosso globo a chiazze verdi che vedi a tribordo. Sono tramontati dieci minuti fa; sorgeranno tra altri venti. Io non ho viaggiato attraverso l'iperspazio, solo attraverso la luna. Io non sono nelle tenebre intergalattiche, né sto osservando una galassia a forma di covone, o di clessidra, mentre sette pallide nebulose verdi splendono livide a tribordo…»

Don indossava ancora la tuta spaziale, ma in quel momento si tolse il casco incrinato. Doveva esserci il casco di riserva, nel contenitore di emergenza. «Il rimedio è pronto,» borbottò, ma la sua gola si chiuse, al suono della sua stessa voce. La cabina era fredda e buia, ma lui non accese né la luce, né il riscaldamento… attenuò perfino le luci del quadro di comando. Gli pareva importante, più di ogni altra cosa, vedere tutto quel che poteva.

Stava guadagnando terreno rispetto alla Luna, certo, con la sua orbita interna: il covone di stelle davanti a lui si allargava molto lentamente a sinistra, mentre la nera massa della luna in eclissi si allontanava.

Improvvisamente, gli parve di vedere, sullo sfondo dello scintillare fitto di stelle della Via Lattea, minacciosi filamenti neri riunire la sommità del Vagabondo… che poteva chiamare il polo nord… al bordo più vicino, o naso, della luna. Intrecciati nello spazio, i neri fili erano così impercettibili che, come stelle debolissime, poteva vederli meglio se li osservava distogliendo lievemente lo sguardo.

Era come se, dopo avere catturato e ridotto all'impotenza la Luna, il Vagabondo stesse ora tessendo una tela nera intorno a essa, preparandosi a succhiarla completamente.

No, si disse. Non avrebbe dovuto cominciare a pensare ai ragni.

La voce continuava a ripetere:

«Il sole e la Terra sono oltre la massa chiazzata di verde a tribordo. Io sono Donald Barnard Merriam, Tenente dell'Astronautica degli Stati Uniti…»

Barbara Katz, con le spalle rivolte a quell'altro oceano che costeggiava l'America, 3.000 miglia a est degli studiosi dei dischi volanti, vide il mandala come la ruota dai raggi purpurei di un carro trainato da buoi. L'enorme ruota parve descrivere un quarto di giro, quando il pianeta toccò l'orizzonte.

«Accidenti, papà, sembra che il Vagabondo si stia sdraiando,» disse lei, provando improvvisamente un senso di sofferenza, e disperazione, perché non avrebbe potuto vedere la prossima faccia che il Vagabondo avrebbe mostrato agli uomini, né vedere la Luna uscire dalla sua ombra. Ma avrebbe visto lo spettacolo su tutti i canali televisivi. Oppure no? Ci sarà ancora la televisione? si domandò, guardandosi intorno, incredula. Dappertutto il cielo stava impallidendo, per quella luce di un'alba che non avrebbe raggiunto la Costa del Pacifico per altre tre ore.

Accanto a Barbara, Knolls Kettering III disse con una voce affaticata che lei non gli aveva udito prima.

«Sono stanchissimo… per favore…»

Lo prese per il braccio, e lui barcollò, e si mosse appoggiando gran parte del suo peso su di lei… ma non era un gran peso, onestamente. All'interno dell'abito bianco, il corpo del milionario pareva il guscio bruno e curvo di un insetto, mentre il viso aveva le guance scavate ed era percorso dal fitto reticolato di rughe che si vedeva in certe raffigurazioni di vecchie bis-bisnonne indiane. Barbara ne fu quasi sconvolta, ma poi ricordò che quello era il suo milionario privato, da preservare e coccolare. Allentò un poco la stretta sulla spalla dell'uomo, come se fosse stato un guscio fragile a rompersi.

La donna negra più anziana, vestita come la più giovane, in grigio-perla, con cuffia e colletto bianchi, arrivò di corsa, e prese il milionario dall'altra parte. Il contatto parve irritare l'uomo, e destarlo dal suo torpore.

«Hester,» disse, scostandosi da lei e avvicinandosi a Barbara. «Avevo detto a te, a Benjy e a Helen di andare a letto già molte ore fa.»

«Uh!» rise lei, sommessamente. «Come se avessimo potuto lasciarla a giocare al buio con quel telescopio! Guardi come porta il suo peso ora, Signor K. La plastica nel fianco si stanca di lavorare per tutta la notte, e si rompe facilmente.»

«La plastica non si può stancare, Hester,» obiettò lui, stancamente.

«Uh! non è certamente forte quanto lei, signor K!» disse lei, voltandosi a guardare, dall'altra parte, Barbara, con un'espressione interrogativa. Barbara annuì, con fermezza. Insieme, lo trasportarono attraverso il tappeto folto e immacolato del prato, salirono tre gradini immacolati di cemento, e attraversarono un'enorme cucina, immersa in una piacevole frescura, attrezzata con tanta ricchezza che, agli occhi di Barbara, parve quasi la cucina di un albergo.

Quando furono a metà di un'ampia scalinata, egli le fece fermare. Forse l'enorme, fresco, buio soggiorno attiguo alle scale lo aveva riportato nella notte, perché egli disse:

«Signorina Katz, ogni corpo celeste che appare eretto, quando è alto nel cielo, sembra coricarsi quando sorge e tramonta. Questo vale anche per le costellazioni. Spesso ho pensato…»

«Andiamo, andiamo, Signor K, lei ha bisogno di riposo,» disse Hester, ma egli diede uno scrollone stanco con il braccio, e disse, «Spesso ho pensato che la riposta alla domanda della Sfinge, e cioè su che cosa si muove su quattro gambe al mattino, due gambe a mezzogiorno, e tre gambe alla sera non fosse l'Uomo, ma la costellazione di Orione, che cammina nel cielo proprio davanti alla Stella del Cane, il cui sorgere segnala le inondazioni del Nilo.»

La sua voce tremò, pronunciando le ultime parole, e la testa si abbassò, e permise a Barbara e alla cameriera di portarlo di sopra. Barbara, sentendo il peso sul braccio… più di quanto non si appoggiasse al braccio di Hester, fu compiaciuta di notare… pensò: Penso di capire perché stai pensando a tre gambe alla sera, papà… o quattro.

Lo posarono su un grande letto, in una camera da letto buia che era più vasta della cucina. Hester prese qualcosa dal cuscino e lo infilò in un cassetto, poi cambiò idea e lasciò che Barbara vedesse l'oggetto.

Si trattava di una bambola snella, dai capelli neri, alta venti centimetri, che indossava una sottoveste nera, e calze nere, e dei lunghi guanti neri.

Knolls Kettering III mormorò, con voce stanca:

«Per mezzogiorno, leggi mezzanotte.»

Hester sollevò lo sguardo, osservò il corto vestito nero di Barbara, e le lunghe calze e i guanti neri, e i capelli neri, e sorrise.

Barbara non avrebbe potuto trattenersi dal rispondere al sorriso neppure se lo avesse voluto.

CAPITOLO XIV

Paul Hagbolt guardò il maggiore Buford Humphreys, attraverso il cancello dell'ingresso sulla spiaggia di Vandenberg Due. Margo era accanto a lui, e teneva in braccio Miao. I dieci studiosi di dischi volanti erano riuniti intorno a loro.

I contorni delle loro ombre producevano scintille rosse e gialle sul reticolato d'argento del cancello.

C'erano riflessi dorati e purpurei sulla superficie del Pacifico, alle loro spalle, dove il Vagabondo, ancora alto nel cielo, aveva iniziato una lenta discesa verso il placido oceano. Mostrava ancora la faccia che Rama Joan aveva chiamato mandala, benché ora la macchia occidentale gialla stesse crescendo, e quella orientale si stesse restringendo, mano a mano che la rotazione del pianeta continuava. Il globo inondava di uno strano crepuscolo il paesaggio della costa, e rendeva il cielo un grande lago grigio, nel quale brillavano solo cinque o sei stelle.

La jeep che aveva portato il maggiore Humphreys dalla sommità di Vandenberg Due brontolava ancora, dietro di loro, e rischiarava la sabbia con la luce dei fari inutilmente accesi. Uno dei due soldati che avevano accompagnato il maggiore sedeva al volante, l'altro era in piedi al suo fianco.

Il soldato pesantemente armato che montava di sentinella al cancello era in piedi, fuori del reticolato, nell'oscura cavità della porta della torretta. I suoi occhi erano fissi sul maggiore. Il fucile mitragliatore era nell'ombra, tranne un anello purpureo che si rifletteva sulla canna.

Il maggiore Humphreys aveva gli occhi pensosi e la bocca all'ingiù di un maestro di scuola, ma in quel momento l'espressione dominante era la stessa della sentinella… tensione che mascherava la paura.

Paul, con il viso gentile e bonario indurito un poco dalla responsabilità che avvertiva, disse:

«Speravo che venisse lei, maggiore. Questo ci risparmia un sacco di fastidi.»

«Lei è fortunato, perché non sono venuto per il suo caso,» rispose freddamente il maggiore Humphreys, e poi aggiunse, d'un fiato, «Alcuni altri della sezione di Los Angeles ce l'hanno fatta, prima che l'Autostrada Costiera saltasse. Speriamo che gli altri arrivino prendendo la Collinare, o le altre strade montane. Oppure li trasporteremo qui in elicottero… specialmente quelli del Caltech. Pasadena è andata, con la seconda scossa.» Si controllò subito, aggrottando le ciglia e scuotendo il capo, come se fosse irritato per avere detto impulsivamente tanto. Poi continuò ad alta voce, dominando il mormorio di esclamazioni che veniva dagli studiosi dei dischi volanti. «Bene, Paul, non ho tutta la notte a disposizione… anzi, non ho nemmeno un minuto da perdere. Perché lei è venuto dalla spiaggia? Riconosco la signorina Gelhorn, naturalmente…» fece un breve cenno del capo a Margo, «Ma chi sono gli altri?» Il suo sguardo studiò gli studiosi di dischi volanti, fermandosi dubbioso sulla gran barba bruna di Ross Hunter.

Paul esitò.

Doc, che aveva l'aspetto di un moderno Socrate dal viso lungo, l'enorme testa calva e gli spessi occhiali, si schiarì la voce e si preparò a rischiare tutto, dicendo: «Siamo dei collaboratori civili della sezione del signor Hagbolt.» Sospettava, infatti, che fosse uno dei momenti in cui una grossa bugia era necessaria.

Ma Doc aveva esitato una frazione di secondo più del dovuto. L'Omino, che era in prima fila, tra lui e Wojtowicz, fissò il maggiore con sguardo benigno. Un sorriso fiducioso apparve sotto i baffi cespugliosi, mentre egli annunciava, con una precisione da avvocato:

«Io sono il segretario, e siamo tutti membri di pieno diritto, dell'Associazione degli Studiosi di Meteore e Oggetti Volanti Non Identificati della California Meridionale. Stavamo tenendo un simposio, in occasione dell'eclisse, nella casa sulla spiaggia dei Rogers, dopo avere ottenuto il debito permesso dagli esecutori testamentari del patrimonio Rogers, e… benché questo non fosse strettamente necessario… dopo avere ottenuto l'approvazione del comando al quale lei stesso appartiene.»

Doc emise un lamento percepibile.

Il maggiore Humphreys parve trasformarsi in una statua di ghiaccio.

«Maniaci dei dischi volanti?»

«Proprio così,» rispose soavemente l'Omino. «Ma la prego… non maniaci… studiosi.» Aveva il braccio sinistro teso, nel tentativo di trattenere Ragnarok che, nervoso più che mai, minacciava di spezzare il guinzaglio.

«Studiosi,» fece eco il maggiore Humphreys, dubbioso, squadrandoli ben bene come se, pensò Paul, volesse chiedere a tutti di mostrare i loro libretti universitari.

Paul si affrettò a dire:

«Le loro auto sono rimaste sepolte, insieme alla mia, in uno smottamento di terreno, maggiore. La signorina Gelhorn e io ben difficilmente saremmo riusciti a giungere qui, senza il loro aiuto. Ora non hanno alcun posto in cui andare. Una persona del gruppo ha avuto un attacco di cuore, e un'altra è una bambina.»

Lo sguardo del maggiore Humphreys esitò, fissando Rama Joan, che era in piedi alle spalle di Hunter. Lei si fece avanti, e si mostrò… con i capelli rossi lunghi fino alle spalle, e l'abito da sera maschile con la cravatta bianca… poi sorrise gravemente, e fece un breve inchino. Ann, con le lunghe trecce rossicce, si fece avanti, accanto alla madre. Avevano l'aspetto di bizzarra bellezza e di insolente crudeltà di un'illustrazione di Aubrey Beardsley del Libro Giallo.

«Io sono la bambina,» spiegò freddamente Ann.

«Vedo,» disse il maggiore Humphreys, facendo un breve cenno d'assenso, e voltandosi. «Mi ascolti, Paul,» disse in fretta. «Sono molto spiacente, le assicuro, ma Vandenberg Due non può assolutamente accogliere dei profughi di un terremoto. Questo problema è già stato esaminato, discusso e una decisione è stata presa. Abbiamo un lavoro d'importanza vitale da svolgere, e un'emergenza può soltanto rendere più rigide le regole di sicurezza.»

«Ehi,» intervenne Wojtowicz, «lei stava dicendo che i terremoti sono stati violenti, nella contea di Los Angeles?»

«Gli incendi li può vedere da solo, no?» disse seccamente il maggiore Humphreys. «No, non posso rispondere a nessuna domanda. Passi alla torretta, Paul. E anche la signorina Gelhorn… sola.»

«Ma queste persone non sono dei comuni profughi, maggiore,» protestò Paul. «Saranno utilissimi. Hanno già compiuto alcune interessantissime deduzioni sul Vagabondo.»

Nel momento in cui pronunciò l'ultima parola, il globo giallo e purpureo, dimenticato per un momento, dominò nuovamente i loro pensieri.

Le dita del maggiore Humphreys si strinsero sulla rete, ed egli avvicinò il viso a quello di Paul. Con una voce nella quale sospetto, curiosità e paura formavano una bizzarra mescolanza, domandò:

«Vagabondo? Dove avete trovato questo nome? Cosa ne sapete di quel… corpo?»

«Corpo» lo interruppe Doc, in tono esasperato. «Anche un idiota vedrebbe che si tratta di un pianeta, ormai. In questo momento, la Luna è in orbita dietro di esso.»

«Non siamo responsabili della sua presenza, se è questo che sta pensando,» disse in tono leggero Rama Joan. «Non l'abbiamo evocato noi.»

«Sì, e non sappiamo neppure dove quel… corpo fosse sepolto prima,» aggiunse ironicamente Doc. «Anche se alcuni di noi pensano a un cimitero nell'iperspazio.»

Hunter gli diede un calcetto nello stinco, senza farsi vedere.

«'Vagabondo' è semplicemente un nome che gli abbiamo dato, perché significa 'pianeta',» intervenne, rivolgendosi al maggiore con tono accomodante.

«Vagabondo può anche andare, benché il vero nome sia Ispan,» La voce di Bacchetto risuonò cavernosa dal punto in cui il suo viso angoloso, con gli occhi e le guance scavate immerse nell'ombra, si levava dietro le spalle del Barba. Aggiunse, «Mentre forse i Saggi Imperiali già stanno per sbarcare a Washington.»

Le spalle del maggiore Humphreys si contrassero, come se una vespa lo avesse punto alla schiena. Egli disse, seccamente:

«Vedo.» Poi, rivolgendosi a Paul. «Venga. E la signorina Gelhorn… senza quel gatto.»

«Intende dire che vuole respingere questa gente?» domandò Paul. «Dopo che io ho garantito per loro? E con una persona moribonda, tra loro?»

«Il professor Opperly avrà qualcosa da dire sul suo comportamento, maggiore, ne sono certa,» intervenne freddamente Margo.

«Dov'è questo malato di cuore?» domandò il maggiore Humphreys, con il ginocchio che cominciava a sobbalzare come quello della sentinella.

Paul si guardò intorno, cercando la branda, ma proprio in quel momento Wanda issò la sua mole considerevole, presentandosi tra Hunter e Rama Joan.

«Sono io quella,» annunciò, in tono di grande importanza.

Doc fece udire nuovamente un basso gemito. Wojtowicz guardò la grassona con aria di rimprovero, massaggiandosi la spalla che aveva sopportato il peso della branda.

Il maggiore Humphreys sbuffò:

«Entrate… voi due soli,» disse a Paul, e si voltò verso la jeep.

Hunter mormorò a Margo:

«Sarà meglio che andiate, prima che cambi idea. È la cosa migliore, per lei e Paul.»

«Senza Miao?» disse Margo.

«La terremo noi, e poi verrà a prenderla,» si offrì Ann.

Quest'ultima offerta fece crollare le residue incertezze di Paul. Forse era banalissimo sentimentalismo permettere a una gatta e alla generosità impulsiva di una bambina di spostare i piatti della bilancia. Ma sentì che la sua voce gridava:

«Io non vengo!»

Con una voce che cercava di non essere feroce, il maggiore Humphreys rispose:

«Non scendiamo a livelli da melodramma, Paul. Lei non ha scelta. Non può disertare il progetto.»

Il braccio libero di Margo circondò la vita di Paul, e lo strinse, a mo' d'incoraggiamento. Doc gli mormorò all'orecchio:

«Spero che lei sappia quello che fa.»

«Lo dice lei che non posso, accidenti!» gridò Paul, con forza.

Il maggiore Humphreys si strinse nelle spalle, e salì a bordo della jeep. La sentinella chiuse la porta della torretta, alle sue spalle, e avanzò verso i dodici in piedi davanti al cancello.

«Muovetevi, voialtri,» disse nervosamente, agitando la canna del suo fucile mitragliatore. Un grosso filo lo seguiva, dalla mano sinistra… i comandi dei suoi razzi individuali.

A parte l'Omino, tutti indietreggiarono alla vista del fucile… perfino Ragnarok, perché l'Omino aveva lasciato andare il guinzaglio, fissando il reticolato con aria di scandalizzata incredulità.

«Maggiore!» gridò l'Omino. «La sua condotta è oltraggiosa e inumana, e io provvederò a rendere nota questa mia opinione. Le farò imparare che io sono un contribuente, signore. Il mio denaro alimenta installazioni come Vandenberg Due, e paga lo stipendio di pubblici servitori come lei, sia che indossino l'uniforme, sia che non l'indossino, e indipendentemente dai galloni che ci sono in quell'uniforme! La invito caldamente a riflettere…»

La sentinella avanzò verso di lui. Era chiaro che l'uomo desiderava che il problema fosse risolto, prima che lui fosse tornato da solo. Gracchiò raucamente:

«Zitto, lei, e si muova!» E diede una leggera spinta al fianco dell'Omino, con la canna del fucile.

Con un ringhio minaccioso, Ragnarok balzò dal gruppo, con il guinzaglio che lo seguiva come la coda di una cometa, e si lanciò verso la gola della sentinella, facendo brillare le zanne.

I razzi individuali del soldato sbocciarono… come se gli fossero spuntate altre due gambe, di un color arancio carico… ed egli si sollevò nell'aria, per ricadere più lontano. Durante il volo, diede una notevolissima dimostrazione di mira accurata in volo, piantando quattro pallottole nel corpo del suo aggressore. L'enorme cane poliziotto tedesco cadde, appiattendosi al suolo, e non si rialzò più.

Il gruppo cominciò a correre, poi tutti si fermarono.

La sentinella sorvolò il reticolato, e ricadde entro il recinto, facendo brillare ancora brevemente i razzi per attutire l'urto della caduta.

L'Omino s'inginocchiò accanto al corpo del suo cane.

«Ragnarok?» fece una pausa, incerto. Poi, «Be'… è morto!» e la sua voce era colma di stupore.

Wojtowicz raccolse la branda di alluminio, e si fece avanti con essa.

«È troppo tardi per tutto,» mormorò l'Omino.

«Non può lasciarlo qui,» disse Wojtowicz.

Issarono il cane morto sulla branda. Il Vagabondo mandava luce a sufficienza, per mostrare il colore del sangue.

Margo diede Miao a Paul, si tolse la giacchetta, e la usò per coprire Ragnarok. L'Omino le fece un segno di ringraziamento, con occhi storditi.

Poi il piccolo corteo ripartì lungo la strada dalla quale era venuto, attraverso la penombra scintillante di porpora e d'oro.

Il giovane Harry McHeath puntò il braccio verso il mare.

«Guardate,» esclamò. «C'è una sottile falce d'argento. La Luna sta uscendo dall'ombra del Vagabondo.»

Donald Merriam rabbrividì, quando vide i confusi filamenti neri riunire la punta della Luna alla sommità del Vagabondo, e diventare di un bianco cadaverico… un biancore che li rendeva facilmente visibili, ora, e ancor più simili a una tela di ragno.

Poi la punta della Luna si fece di un bianco altrettanto accecante: una piccola falce bianca che si allungava e si allargava rapidamente. I filamenti bianchi uscivano dalla punta bianca della Luna, e salivano intrecciati.

Un fenomeno profondamente sconvolgente, in quella falce di luna: mano a mano che essa cresceva, pareva diventare troppo convessa, come se la luna tendesse ad acquisire la forma di un pallone da rugby. E questo bordo sporgente troppo convesso non era uniforme, sullo sfondo nero dello spazio stellato, ma lievemente frastagliato. Anche il confine tra la falce bianca e la luna nera era lievemente frastagliato. E inoltre, c'erano delle spaccature enormi nella superficie della falce bianca, come se la luna fosse diventata un mosaico bizantino.

Improvvisamente, un bagliore bianco eruttò, accecante, da tribordo, nel muso del Baba Yaga. Il riflesso dello schermo spaziale quasi accecò Don.

Là, appena spuntato dietro il Vagabondo, c'era il disco abbagliante del Sole, vicino al circolo nero della Terra… un soldino incandescente, accanto a un dollaro. Come la luna e i filamenti, il Baba Yaga aveva completato il primo passaggio dietro il Vagabondo, e riemergeva nella luce del sole.

Don regolò le protezioni dello schermo, per bloccare le radizioni solari, poi diminuì la polarizzazione, fino a quando poté vedere il lato notturno della Terra illuminato dal riverbero del Vagabondo. La terza parte del Nord America, a oriente, era scivolata nel bordo destro del giorno. Tutto il Sud America era illuminato. Il resto del globo era Oceano Pacifico, se non dove la Nuova Zelanda era apparsa, sul bordo di sinistra, in basso… laggiù stava cadendo la sera.

Don si sorprese, per il senso di calore che gli veniva dal rivedere la Terra… non perduta, dall'altro lato del cosmo, ma ad appena un quarto di milione di miglia di distanza!

I neozelandesi e i polinesiani lasciarono i tavoli imbanditi per la cena, e corsero fuori, per assistere al levarsi del prodigio nella sera. Molti immaginarono che il Vagabondo fosse la Luna, mostruosamente deformata… molto probabilmente, qualche esperimento atomico americano o russo era sfuggito a ogni controllo… porpora e oro dovevano essere i contorni di qualche mostruosa esplosione atomica… e ci vollero ore e ore, per convincere costoro che si trattava di un'idea errata. Ma quasi tutti gli abitanti dell'Australia, dell'Asia, dell'Europa e dell'Africa si occupavano ancora dei loro affari, alla luce del giorno, beatamente inconsapevoli della presenza del Vagabondo, se non sotto la forma di uno dei soliti pazzeschi fenomeni americani che venivano mostrati da giornali e televisori, da classificare nella stessa categoria dei senatori, delle attrici di Hollywood, dei vari culti religiosi, e della Coca-Cola. Gli spiriti più furbi pensarono: Pubblicità per un nuovo film dell'orrore, o… ahah!… una scusa per gettare nuove ombre sulla Cina e sulla Russia. Nessuno stabilì un collegamento… a parte alcuni psicologi acutissimi… tra la notizia pazzesca sulla luna, e le notizie abbastanza reali dei disastri causati dai terremoti.

Anche l'Oceano Atlantico si trovava sulla faccia illuminata della Terra, ora, ma quella era una storia diversa, poiché quasi tutte le navi e quasi tutti gli aerei che avevano percorso le sue rotte avevano osservato il Vagabondo durante le ultime ore della notte. Costoro esplorarono freneticamente tutte le frequenze radio, in cerca di notizie, e cercando di lanciare rapporti e richieste di consigli agli armatori e alle autorità portuali. Alcuni proseguirono verso il porto più vicino. Altri, con una prudenza davvero commendevole, invertirono la rotta, dirigendosi verso il mare aperto.

La Principe Carlo aveva subito una drastica transizione. Un gruppo di rivoluzionari brasiliani neo-fascisti, con l'aiuto di due ufficiali di estrazione portoghese, s'impadronirono del grande transatlantico di lusso. Il capitano Sithwise diventò un prigioniero, tenuto sotto sorveglianza nella propria cabina. I piani dei rivoluzionari erano stati concepiti brillantemente, ma probabilmente non avrebbero avuto successo, se non fosse sopraggiunta l'eccitazione causata dalla «emergenza astronomica». Provando un senso che si avvicinava al sacro terrore essi si resero conto che, a prezzo della vita di sei uomini, e di tre feriti tra le loro fila, avevano assunto il controllo non solo di una nave grande come un albergo ultramoderno, ma anche di due reattori nucleari.

Wolf Loner fece colazione, comodamente e con calma, e iniziò i lavoretti di bordo della mattinata, mentre la Pazienza proseguiva verso ovest, sotto la foschia che celava completamente il cielo. I suoi pensieri si occuparono della grande immutabilità della natura, appena mascherata dalla patina della vita moderna.

Don Guillermo Walker, a bordo della lancia degli Araiza, uscì dal Lago Nicaragua e cominciò a percorrere il fiume San Juan, oltre la città di San Carlos, mentre l'alba arrossava la giungla. Ora che il Vagabondo non era più nel cielo, Don Guillermo era meno propenso a pensare a esso, e ai vulcani e ai terremoti, e ben più propenso a crogiolarsi nel successo del suo bombardamento della roccaforte del presidente, eseguito da solo a bordo di un piccolo, vecchio aereo che ora riposava sul fondo del lago. Sic semper tutti i gauchistes!

Finalmente, lui sì era realmente dimostrato degno, aveva sostenuto un esame che lo faceva salire di grado, rispetto a quegli sciocchi, miti sentimentali della John Bìrch Society!… o per lo meno, questo era il concetto che ne aveva Don Guillermo.

Batté il pugno sul petto, e gridò: «Yo soy un hombre!» Uno dei fratelli Araiza annuì, socchiudendo gli occhi per proteggersi dai raggi del sole nascente, e disse, «Sì,» ma senza troppo entusiasmo, come se l'essere un uomo non fosse una questione così importante.

CAPITOLO XV

Paul Hagbolt fu costretto ad ammettere, tra sé, che camminare sulla sabbia poteva diventare noioso, anche quando si era in compagnia di nuovi amici, e sotto un cielo rischiarato da un nuovo pianeta. Il momentaneo stato di esaltazione prodotto dall'avere sfidato il colonnello Humphreys e il Progetto Luna si era consumato molto in fretta, e quella marcia spezzaossa attraverso la spiaggia pareva sensazionalmente priva di senso e deprimente.

«Ci si sente soli, vero?» gli disse gentilmente Rama Joan. «Quando si rompe il legame con il grande protettore, e si rinuncia alla propria gente… e a quella della sua amichetta… per seguire un branco di svitati, con l'unico scopo di partecipare al funerale di un cane.»

Stavano camminando in coda alla processione, molto indietro rispetto alla branda portata da Clarence Dodd e Wojtowicz.

Paul fu costretto a ridacchiare.

«Per lo meno lei è sincera,» disse. «Però Margo non è la mia ragazza… voglio dire, che i sentimenti sono soltanto dalla mia parte. Siamo solo buoni amici, davvero.»

Rama Joan lo fissò, con occhio indagatore.

«E allora? Un uomo può buttar via la sua vita per amicizia, Paul.»

Paul annuì, con aria infelice.

«Me l'ha detto anche Margo,» spiegò; «Lei afferma che io traggo soddisfazione dal farle la balìa, e dal cercare d'impedire ad altri uomini di girarle intorno. A parte Don, naturalmente… e lei pensa che il mio interesse per lui sia più che fraterno, anche se io non me ne rendo conto.»

Rama Joan si strinse nelle spalle.

«Può darsi, immagino. Il rapporto tra lei, Margo e Don sembra abbastanza innaturale.»

«No, a suo modo è perfettamente naturale,» le assicurò Paul, con una specie di torva soddisfazione. «Siamo stati compagni di liceo e di università. Avevamo interessi comuni, in campo scientifico e in altri campi. Facevamo gruppo insieme. Andavamo perfettamente d'accordo. Poi Don ha deciso di diventare ingegnere, e astronauta. Io mi sono dato al giornalismo e al lavoro di pubbliche relazioni, e Margo si è data all'arte. Ma eravamo decisi a restare assieme, così, quando Don è entrato nel Progetto Luna, ci siamo entrati anche noi, o per lo meno ci sono entrato io. Allora Margo aveva già deciso che Don le piaceva un po' più di me… o che lo amava, qualunque cosa significhi… e così si sono fidanzati. Così il problema si è risolto… forse semplicemente perché la nostra società considera ancora con diffidenza la vita a tre. Poi Don è andato sulla Luna. Noi siamo rimasti sulla Terra. Non c'è altro, non c'è stato altro fino a stasera, quando apparentemente io ho deciso di lasciare tutto e venire con voi.»

«Forse perché già da molto tempo lei avrebbe dovuto esplodere. Be', io posso dirle perché sono qui,» continuò la donna dai capelli rossi. «Potrei essere al sicuro, a Manhattan, e fare la moglie di un pezzo grosso della pubblicità; Ann frequenterebbe un collegio di lusso, in Europa, e io potrei adattarmi a qualche conferenza sul misticismo e sulla magia nei circoli femminili e nei salotti. Sarei una donna ricca, e alla moda. Invece ho divorziato, arrotondo le mie entrate… che si riducono a una rendita vitalizia che ho ereditato… con i compensi per le conferenze che tengo; e per tenere fede al misticismo, devo addobbarmi di tutti questi armamentari da carnevale.» Indicò la cravatta bianca, e le code del suo abito da sera maschile, e fece una risatina di disprezzo. «'Protesta mascolina', dicono le mie amiche. 'No, semplice protesta umana', rispondo io. Volevo poter dire cose che credevo realmente, e dirle con passione… cose che fossero state solo mie. Volevo che Ann avesse una vera madre, non solo una statistica ben vestita.»

«Ma lei crede davvero alle cose che dice?» domandò Paul. «Al buddismo, mi sembra di aver capito… e a tutto il resto?»

«Non ci credo quanto vorrei, ma ci credo quanto posso,» gli disse. «La certezza è un lusso. Se lei dice delle cose con colore e con forza, per lo meno lei è un individuo. E anche se le falsifica un poco, rimane lei stesso, e se tenta e tenta senza stancarsi, forse un giorno troverà un frammento della verità… come Charles Fulby, quando ci ha detto che sapeva dei suoi pianeti misteriosi non in virtù di viaggi a bordo di dischi volanti, come aveva sempre proclamato, ma per puro intuito.»

«Fulby è un paranoico,» borbottò Paul, lanciando uno sguardo più avanti, dove Bacchetto procedeva diritto come un fuso dietro la branda, con Wanda alla sua destra e la donna magra alla sua sinistra. «Quelle due donne sono due discepole, o patronesse, o qualcosa del genere?»

«Sono sicura anch'io che soffra di paranoia,» disse Rama Joan, «Ma lei non crederà davvero, Paul, che le persone sane di mente abbiano il monopolio della verità, immagino? No, credo che siano le sue mogli… lui è cresciuto in una setta che professa il matrimonio multiplo. Oh, Paul, lei ci trova allarmanti, vero?»

«Non proprio,» protestò lui. «Benché ci sia sempre qualcosa di rassicurante, nel muoversi con la maggioranza.»

«E con il denaro e il potere,» ammise Rama Joan. «Be', si rallegri… la maggioranza e le minoranze svitate passano quasi tutto il tempo allo stesso modo: soddisfacendo i bisogni fondamentali. Stiamo ritornando tutti al padiglione sulla spiaggia, semplicemente perché pensiamo di trovare là del caffè e dei sandwich.»

In testa alla processione, Hunter stava dicendo a Margo Gelhorn più o meno lo stesso tipo di cose:

«Ho cominciato a frequentare le riunioni dei dischi volanti per un mio progetto sociologico,» le confessò. «Sono andato a riunioni di tutti i generi: quelle delle persone che avevano contatti con gli extraterrestri, come Charles Fulby, quelle degli studiosi seri, e tutte le altre sfumature… come questo gruppo, che comprende studiosi e appassionati raziocinanti e svitati e maniaci. Volevo analizzare una sindrome sociale, e scrivere alcuni saggi sull'argomento. Ma dopo un po' di tempo, ho dovuto ammettere di fronte a me stesso che continuavo ad andare a quelle riunioni perché ero affascinato.»

«Perché, professor Hunter?» domandò Margo, stringendo più forte Miao. Aveva freddo, senza la giacchetta, e la gatta era come una borsa di acqua calda. «Stare con gli appassionati dei dischi volanti l'aiuta a sentirsi bohemien, o diverso, come portare la barba?»

«Mi chiami Ross, No, non credo, benché suppongo che una parte del motivo sia la pura vanità.» Si accarezzò la barba. «No, è stato semplicemente perché a quelle riunioni trovavo delle persone che avevano qualcosa da seguire, che le faceva appassionare, qualcosa che permetteva di essere interessati senza tornaconto… e non si tratta di una cosa molto comune, ormai, nella nostra civiltà basata sui tre pilastri Denaro-Vendite-Classe, e sulle direttrici Non Rivelarti a Nessuno e Venditi a Tutti. Il virus mi ha preso a tal punto, che anch'io ho voluto offrire un contributo… partecipare a conferenze e a tavole rotonde, per esempio. Adesso il mio tempo dedicato ai dischi volanti è quasi come quello che vi dedica Doc… che si ammazza a vendere pianoforti… è un mago, nel campo… in modo da poter dividere il resto del tempo tra i dischi volanti, gli scacchi, e le altre cose.»

«Ma Doc è scapolo, mentre mi sembra che lei abbia affermato di avere una famiglia, non è vero… Ross?» domandò Margo, con blanda malizia.

«Oh, sì,» concesse Hunter, con una certa stanchezza. «A Portland c'è una signora Hunter, e due bambini che pensano che papà sprechi troppo tempo in compagnia dei maniaci dei dischi volanti, considerando i pochissimi saggi che ha tirato fuori da questo lavoro, e il fatto che la sua reputazione accademica non sia stata migliorata neppure di una iota da questa partecipazione.»

Stava pensando di aggiungere: «E, proprio in questo momento, sono a casa, e si chiedono perché papà non sia con loro, la notte in cui i cieli sono cambiati e i dischi volanti si sono avverati…» ma in quel momento si accorse che avevano raggiunto la vecchia casa sulla spiaggia e la vecchia pista da ballo. Vide che la lanterna verde ardeva ancora, e accanto a essa c'era una sedia, con un mucchietto di programmi inutilizzati, e c'erano le sedie vuote, disposte in file ordinate, a eccezione della prima fila (quando avrebbe potuto chiedere il rimborso del deposito che era stato lasciato per il noleggio, Dodd?)… e c'era un soprabito, che qualcuno aveva dimenticato, posato sullo schienale di una delle sedie, e c'era il lungo tavolo dei conferenzieri, e sotto di esso, alcune scatole di cartone che avevano abbandonato, nella fretta della partenza. E profondamente infilato nella sabbia, vicino alla piattaforma, c'era perfino il vecchio ombrello enorme che Doc aveva usato, per costruire un rozzo astrolabio, nel primo tentativo di controllare il movimento del Vagabondo.

Quando Ross Hunter vide queste cose, che si stagliavano contro il Pacifico dalla gran massa quieta e spettrale e dai riverberi dorati e purpurei, si sentì gonfiare il cuore per un senso inatteso di affetto e nostalgia e sollievo, e improvvisamente capì perché, dopo essere stati respinti da uno smottamento e da un recinto di rete metallica e da un alto papavero dell'esercito, avevano iniziato una lunga marcia sulla spiaggia per ritornare in quel posto.

La spiegazione era semplice… quella per loro era una casa, il luogo dove erano stati insieme, sicuri e tranquilli, e dal quale avevano assistito al grande mutamento nei cieli, quel luogo che, ciascuno di loro lo sapeva intimamente, anche se confusamente, forse sarebbe stato l'ultima casa che ciascuno di loro avrebbe più avuto sulla Terra.

Senza fretta, Wanda, la donna magra e il giovane Harry McHeath andarono a prendere le scatole lasciate sotto il tavolo.

Wojtowicz e l'Omino posarono la branda che reggeva Ragnarok, il cui gran corpo era parzialmente coperto dalla giacchetta di Margo.

Wojtowicz si guardò intorno, poi puntò il braccio verso l'ombrello e disse, con voce ferma:

«Ho la sensazione che quello sia il posto giusto… cioè, se, non le dispiace?» aggiunse, rivolgendosi a Doc, che aveva camminato in silenzio per tutto il tragitto da Vandenberg Due alla piattaforma, accanto all'Omino.

«No, non mi dispiace; anzi, ne sarei fiero,» rispose ruvidamente Doc.

Portarono in quel punto la branda, e Doc recuperò il suo ombrello. Poi Wojtowicz prese un badile, e cominciò a scavare. Il badile era riposto sotto il materasso.

La donna grassa lo notò, e chiamò, dalla piattaforma:

«Adesso capisco perché sentivo qualcosa di duro sotto il fianco, per tutta la strada.»

Wojtowicz si fermò un momento, per rispondere:

«Dovrebbe ringraziarci, invece, per averla trasportata gratis quando pensavamo che avesse avuto un attacco di cuore.»

Wanda rispose, con rabbia:

«Senta, quando io ho un attacco di cuore, è terribile… e non c'è niente da dire! Ma quando l'attacco di cuore è finito, è finito.»

«D'accordo, d'accordo,» le disse Wojtowicz, senza voltarsi.

Il rumore del badile era debole, mentre l'uomo scavava. La donna magra e Harry McHeath pulirono dalla sabbia alcune tazze, e le disposero sul tavolo. Gli altri osservarono la Luna emergere dall'ombra del Vagabondo, che pareva inclinarsi, nell'affondare verso l'abbraccio con il Pacifico.

La forma della Luna era visibilmente conica… schiacciata.

E invece delle macchie consuete dei 'mari', sulla faccia della Luna si vedeva come un sottilissimo, vago reticolo di lìnee d'ombra, che qua e là riflettevano pallidamente i colori del Vagabondo. L'effetto era orrido, e suggeriva la sinistra presenza di ragni.

Un parto chirurgico, pensò Bacchetto. La Vergine Bianca, fecondata da Ispan, partorisce tra grandi doglie… e deve dar vita ancora e ancora, torturata dal travaglio. Questo non l'avevo pensato.

Margo pensò: Mi dispiace di averla chiamata cagna. Don… Rama Joan bisbigliò a Paul:

«Il suo ragazzo era lassù, no? Così adesso può essere la sua ragazza, Paul…»

Wojtowicz si rialzò:

«Ecco, è abbastanza profonda,» disse raucamente all'Omino. «Non possiamo scavare di più, altrimenti troveremmo l'acqua.»

Si voltarono verso la branda. Clarence Dodd slacciò il guinzaglio dal pesante collare, e sollevò l'orlo della giacchetta dal corpo di Ragnarok, guardando Margo; ma la ragazza scosse il capo, e l'Omino riuscì a farle un triste sorriso, e lasciò ricadere la stoffa. Lui, Wojtowicz e Doc calarono il cane così avvolto nella sua tomba. Miao si mosse, nelle braccia di Margo, e guardò la scena con visibile curiosità.

Sopra la massa oscura del Pacifico, il Vagabondo era sospeso, strano nei suoi colori vividi, ed era una perfetta sfera, per quanto la luna che riemergeva era distorta e mutata. La macchia gialla a ovest era sparita, così la faccia del globo rivolta alla Terra era diventata di tre chiazze soltanto; ma l'impressione più vivida, con le due grosse braccia della croce purpurea, a est, che si allargavano sopra e sotto la grande macchia gialla orientale, era quella della testa di una belva purpurea, con le fauci spalancate.

Fenris Lupo, pensò Harry McHeat. E ora sembra che veramente stia divorando la Luna, che orbita proprio tra le sue fauci.

«Sembra un grosso cane che stia per azzannare qualcosa,» disse Ann, pensierosa. «Mammina, tu credi che gli dei abbiano portato lassù Ragnarok, come una volta portavano gli eroi e le ninfe della Grecia tra le stelle?»

«Sì, credo che sia accaduto proprio questo, cara,» le disse Rama Joan.

L'Omino estrasse automaticamente il blocco d'appunti e la penna, e poi guardò cupamente l'ultima pagina bianca. Margo diede Miao a Paul, poi prese gli oggetti dalle mani dell'Omino, e tracciò lo schizzo del Vagabondo in vece sua, imitando il suo stile schematico.

QUATTRO ORE

Il serpente si sazia dell'Uovo, pensò Bacchetto. O forse le strade si dividono?

Wojtowicz rapidamente gettò nella fossa prima la sabbia asciutta, poi quella umida. Doc prese dalle dita dell'Omino il guinzaglio, e lo strinse intorno al manico dell'ombrello, annodandolo in alto. Quando Wojtowicz ebbe pressato la sabbia, Doc affondò l'ombrello con forza al centro della tomba.

«Ecco, Dodd,» disse, circondando con il braccio la spalla dell'Omino. «Adesso c'è un segno. Una specie di caduceo.»

Dalla piattaforma, la donna magra chiamò:

«Ehi, venite tutti! Il caffè è caldo!»

Donald Merriam si trovava di nuovo nelle tenebre. Il Baba Yaga era ritornato in eclisse, questa volta a causa della Luna che passava di fronte al Vagabondo. La piccola astronave lunare viaggiava in caduta libera tra i due corpi. Continuava a guadagnare terreno, rispetto alla Luna, ma non era ancora uscita dalla sua ombra.

La luce del sole diretta aveva rapidamente riscaldato la cabina, ma prima che il calore si fosse fatto troppo intenso, la Luna si era interposta tra il Baba Yaga e il sole.

Le tenebre dell'eclisse non erano fitte come quelle della prima, essendo pervase dai riflessi violetti e gialli del sole sul Vagabondo. Questa luce rivelava il continuo sommovimento della rocciosa superficie lunare, che pareva un mare in tempesta visto da un aeroplano, durante una notte di luna piena.

Alla sua altezza, sopra il Vagabondo… ora 1.600 miglia, secondo il controllo radar… Don poteva vedere soltanto un quinto del disco del pianeta. Passando attraverso la faccia che sulla Terra aveva ricevuto i nomi più svariati… la X, il Disco Spezzato, la Ruota, la Croce di Sant'Andrea, e il Mandala, egli vide soltanto la macchia gialla orientale, e un bordo, intorno a essa, che si allargava, più avanti… le macchie gialle polari, e quella orientale, erano nascoste in quel momento dalla curva del Vagabondo.

Osservando la macchia gialla emergere dalla faccia notturna del Vagabondo, attraverso la linea dell'aurora, Don aveva avuto conferma del fatto che il globo stesse ruotando, e che la cima e il fondo fossero in realtà i poli, mentre l'asse planetario era approssimativamente parallelo a quello della Terra.

Cronometrando la velocità di emersione della macchia, Don aveva valutato che il periodo di rotazione del Vagabondo era di sei ore… un 'giorno' lungo un quarto di quello terrestre. E stava ruotando nella stessa direzione che lui e la Luna seguivano, nelle loro orbite di due ore… con i contorni della superficie planetaria che li seguivano, ma rimanevano rapidamente indietro.

Le chiazze fosforescenti verdastre della faccia notturna del Vagabondo non parevano esistere sulla faccia diurna… forse si trattava realmente di fosforescenza, visibile soltanto al buio. Né, per quello che ricordava, c'era stata qualche indicazione di divisione tra le regioni viola e quelle gialle, sulla faccia notturna… apparentemente, ci voleva la luce del sole per mostrare quella divisione.

Una buona metà della grande macchia gialla era occupata dall'ombra della Luna… nera, e incontrovertibilmente ellittica, un'ellissi che si accentuava costantemente. Studiandola, Don notò una rotondità di un pallido verde spettrale che cominciava a intrufolarsi nel bordo più avanzato… apparentemente le chiazze verdognole continuavano a ruotare, benché invisibili alla luce del sole.

L'assurdità allucinante della sua situazione d'un tratto lo colpì… lui era un insetto tra due giganti, che si muovevano follemente in un abisso immane.

Ricordò quando era stato bambino, nella cucina della fattoria del Minnesota, con le tenebre della sera appena calata che parevano premere da ogni parte, e oscuravano la finestra, fuori; e allora lui, Donnie, aveva detto: «Mamma, ho trovato una grande fossa nera nei boschi, e so che deve arrivare dall'altra parte della terra, perché ho visto una stella scintillare sul fondo. Ho avuto paura e, lo so che non mi crederai, mamma, ma quando mi sono messo a correre verso casa, ho visto un grosso pianeta giallo e porpora dietro la stalla!»

Si riscosse da quel falso ricordo. Per quanto la situazione fosse allucinante e misteriosa, lo era un po' meno, ora che lui aveva vissuto per un mese sulla Luna, e aveva attraversato la stessa Luna pilotando un'astronave.

Rivolse la sua attenzione ai filamenti bianchi, che salivano sinuosi dalla punta della Luna. Fece ruotare l'astronave, per seguire con gli occhi il loro percorso curvo tra le stelle, che li faceva divergere all'inizio, per poi convergere di nuovo quando essi svanivano a nord, sopra l'orizzonte violetto del Vagabondo.

Be', se quei filamenti bianchi, in chissà quale misteriosa maniera tenevano legati il Vagabondo e la Luna, era ragionevole pensare che dovessero essere legati intorno a un polo del pianeta. Se fossero stati attaccati a un punto equatoriale del Vagabondo, si sarebbero tesi e spezzati, o si sarebbero attorcigliati intorno al Vagabondo, poiché la Luna stava orbitando a una velocità tre volte superiore a quella impiegata dal pianeta per una rotazione.

Legati insieme! Si sarebbero… attorcigliati! Si accorse dell'enormità di quello che lui pensava. Li considerava dei fili veri e propri, capaci di tendersi e spezzarsi e avvolgersi, come se il Vagabondo e la Luna fossero stati due ornamenti dell'albero di Natale.

Eppure, quei filamenti bianchi devono essere qualcosa di reale.

Li seguì all'inverso, fino al punto in cui raggiungevano la 'punta' della Luna. Il Baba Yaga era davanti alla Luna, ora, ma ancora nella sua ombra perché entrambi stavano ricominciando a passare dietro il Vagabondo… la nera linea del crepuscolo, che egli aveva visto per la prima volta attraverso la spaccatura della luna, era già in vista, e tagliava l'orizzonte violetto.

Così la punta della luna era in ombra, la superficie era bronzea come brace morente. Prese da un ripiano magnetico un binocolo dalle lenti potentissime, e lo regolò con cura.

Sulla punta bianca della luna si vedeva una dozzina di immensi pozzi conici, le cui superfici interne ruotavano rapidamente in senso orario, come se fossero stati dei gorghi e dei maelstrom nell'oceano di roccia che si frantumava.

Ogni sottile filamento bianco, che diventava color bronzo scuro quando entrava nell'ombra lunare, portava verso il fondo di uno dei gorghi vorticosi, continuando a girare in una specie di circuito chiuso, seguendo la velocità di rotazione del gorgo. I filamenti parevano inspessirsi, verso il punto in cui terminavano.

Intorno a ciascun pozzo c'erano tre o quattro punti luminosi, viola o color limone. Aveva già visto uno o due punti luminosi simili a quelli lungo i filamenti. Don si domandò d'un tratto se quelle non fossero immense astronavi, presumibilmente partite dal Vagabondo, e se non stessero per caso generando dei campi gravitazionali o inerziali di natura a lui ignota.

Perché la supposizione logica che si doveva fare, dall'osservazione dei gorghi lunari e dei filamenti che vi penetravano, era chiarissima: in chissà quale arcana maniera, la sostanza della luna, sotto forma di polvere e di roccia finissima e forse anche di rocce più voluminose, veniva risucchiata dalla superficie del satellite, e trasportata attraverso lo spazio verso il polo nord del Vagabondo.

Arab, Pepe e 'High' erano sulla riva dell'Hudson, e consumavano assieme un'altra dose di droga, pronti a gettarla nell'acqua limacciosa e coperta da uno strato oleoso, se qualcuno fosse venuto da quella parte.

Ma nessuno veniva. La città era immersa in un'immobilità innaturale anche per le sei del mattino. Così 'High' versò la polvere, e Arab accese un'altra pipa, e se la passarono l'un l'altro.

Il loro arrivo al fiume, dopo una deviazione a nord, per aggirare i grattacieli, e sotto l'Henry Hudson Parkway, era stato piuttosto deludente. Non c'era stato, semplicemente, nulla a ovest, all'infuori del cielo pallido e delle lontane banchine e dei moli.

«È scomparsa, chissà come,» decise 'High'. «Forse è andata a letto.» Rise. Il suo sguardo si posò sulla Tomba di Grant. «Cosa ne pensi, generale?»

«Il fiume sembra alto, ammiraglio,» giudicò Arab, corrugando la fronte, e accendendo per la terza volta la pipa.

«Sicuro,» ammise 'High'. «Guarda come arriva alle banchine!»

«Quella non è una banchina,» protestò con disprezzo Arab. «Quello è un barcone affondato.»

«Fa lo stesso, l'acqua è alta tre metri più di quando siamo venuti.»

«Sei pazzo!»

«So anche dove lei è scomparsa,» esclamò d'un tratto Pepe. «Quella grossa cosa purpurea e dorata è anfibia… un pallone sottomarino! Si immerge. Per questo il fiume è alto… lo ha fatto gonfiare lei. Adesso è nascosta laggiù, e sta brillando al buio e all'umido.»

Mentre gli altri tremavano, per il delizioso orrore prodotto da quel pensiero, Pepe si fregò la guancia con le dita ingiallite della mano, ed esclamò di nuovo:

«No, aspettate! Non è come ho detto. Quella è un'esplosione atomica congelata. Hanno dato inizio all'esplosione, poi hanno congelato la palla di fuoco. Così lei galleggia qua e là, come un fulmine sferico, prima sopra il fiume, poi sotto. Quando sarà sgelata, la città farà bum! Guardate là!»

Il sole rosseggiante riverberava da file di finestre, dall'altra parte del fiume, finestre così basse che parevano far parte dell'acqua. Improvvisamente, l'orrore simulato diventò per tutti loro spaventosamente reale… l'improvviso terrore, contro il quale nessun fumatore di 'erba' può essere completamente sicuro.

«Venite!» Arab bisbigliò, e il bisbiglio era un grido raggelato dal terrore.

Si voltarono, e si misero a correre disperatamente verso Harlem.

Jake Lesher guardò ironicamente la folla che si assottigliava. Con la calata del Vagabondo, e la discesa sulla Terra della grigia, fredda luce del mattino, l'eccitazione era lentamente svanita da Times Square. I detriti lasciati dal terremoto parevano soltanto immondizie, dovute alla trascuratezza della folla… uno dei tanti progetti di demolizione di Manhattan.

Con incredulità, come se fossero state immagini uscite da qualche oscura divagazione musicale per metà sognata, per metà vissuta, egli ricordò la canzone di Sal, e la folla ondeggiante sotto la grande luce purpurea e ambrata. Poi il suo viso si distese, e gli occhi si allargarono, ma smisero di fissare ciò che li circondava, quando egli sentì sul bordo della sua immaginazione la carezza vaga dei primi, sottili filamenti di un sogno… o di una trama, perché le due cose erano molto vicine, nell'universo di Jake.

Sally Harris bruscamente lo prese sottobraccio. Facendolo girare su se stesso, gli bisbigliò rapidamente all'orecchio:

«Vieni, andiamo via da qui prima che quegli altri lupi mi trovino. Ci sono solo quattro isolati.»

«Non dovresti prendermi così di sorpresa, Sal,» si lamentò Jake. «Mi stava venendo un'idea… un'idea da soldi. Dove andiamo?»

«Avevi appena detto che ormai nulla avrebbe potuto sorprenderti. Ah! Stiamo andando a fare colazione, nell'attico di Hugh Hasseltine… io, e la mia chiave. Dopo quel terremoto, più in alto vado, meglio mi sento.»

«Più in alto sei, più in basso cadi,» rispose giudiziosamente Jake.

«Già, ma gli oggetti non mi cadranno addosso. Avanti, la tua idea verrà meglio a stomaco pieno.»

In alto, nel cielo, cominciavano ad apparire dei filamenti rosati.

CAPITOLO XVI

Doc grugnì, soddisfatto, e disse:

«Non credo che un altro sandwich mi farebbe male.»

«Abbiamo pensato che sarebbe stato meglio conservarne la metà,» gli disse la donna magra in tono di scusa, dalla parte opposta del lungo tavolo.

«L'idea è stata mia,» aggiunse il giovane Harry McHeath, imbarazzato.

«E probabilmente l'idea è buona,» concesse Doc. «Uscita dalla Famiglia Robinson Svizzera, vero? Qualcuno gradirebbe un sorsetto di Scotch?» Dalla tasca sinistra della giacca estrasse una bottiglia da mezza pinta. La grassona sbuffò.

«Meglio conservarlo per qualche caso di emergenza, Rudy,» disse con calma Ross Hunter.

Doc sospirò, e infilò di nuovo la bottiglia nella tasca.

«Suppongo che la seconda tazza di caffè sia stata severamente proibita dal Comitato di Salute Pubblica, vero?» brontolò.

Harry McHeath scosse il capo, nervosamente, e si affrettò a versare dell'altro caffè a Doc e agli altri.

Rama Joan disse:

«Rudolf, secoli fa lei si stava chiedendo che cosa producesse i colori del Vagabondo.»

Aveva fatto sdraiare Ann su due sedie accostate, vicino a lei, avvolta nel soprabito che qualcuno aveva dimenticato; la testa della bambina era appoggiata sulle gambe della madre. Rama Joan stava fissando il Vagabondo. La macchia gialla orientale adesso era completamente circondata dalla porpora, e questo distruggeva l'illusione delle fauci voraci. Le due macchie gialle polari si stavano rimpicciolendo, mano a mano che la rotazione del pianeta le portava fuori vista. L'effetto, in quel momento, sembrava quello di un bersaglio purpureo, con un grande centro giallo. Nel frattempo, la luna percorsa da reticolati vaghi e indistinti di spaccature, ormai a forma di losanga, aveva quasi terminato una seconda attraversata a ovest della faccia visibile del Vagabondo.

Rama Joan disse:

«Non credo che si tratti di una configurazione naturale, tutt'altro. Credo che si tratti semplicemente di una… decorazione. Un effetto ornamentale.» Fece una pausa. «Se esistono degli esseri capaci di guidare il loro pianeta attraverso l'iperspazio, certamente sarebbero in grado di dargli un aspetto che essi considerino artistico e distintivo. I cavernicoli non dipingevano l'esterno delle loro case, ma noi sì.»

«Sa che questo mi piace?» disse Doc, schioccando le labbra. «Un pianeta dipinto in due toni di colore. Per impressionare i vicini della galassia accanto.»

Wojtowicz e Harry McHeath risero con evidente disagio. Bacchetto pensò: Involontariamente, essi salgono verso la comprensione della gloria di Ispan. Hunter, a voce bassa ma vibrante di tensione, disse:

«Se fossero così progrediti, non credo che userebbero un pianeta naturale; ne traccerebbero il progetto, e lo costituirebbero come vogliono. Accidenti, questa sembra una pazzia!» concluse, rapidamente.

«Niente affatto,» gli assicurò Doc; «Sarebbe dannatamente efficace usare tutto il volume di un pianeta. Una prova di efficienza. Si potrebbero sistemare magazzini e dormitori e generatori fino al nucleo. Naturalmente, per questo sarebbero necessarie delle opere gigantesche di sostegno e di ingegneria, ma…»

«Se si possedesse il segreto dell'antigravità, non ci sarebbero delle difficoltà così enormi,» disse Rama Joan.

«Accidenti,» disse Wojtowicz, con voce atona.

«Come sei brava, mammina,» osservò Ann, con voce assonnata.

Hunter disse:

«Se si potesse cancellare la gravità di un pianeta rotante, bisognerebbe avere la maniera di tenerlo assieme con mezzi molto potenti, per impedire che la forza centrifuga lo faccia dissociare nelle componenti fondamentali.»

«Niente affatto,» gli disse Doc. «La massa e la velocità inerziale sparirebbero contemporaneamente.»

Paul si schiarì la voce. Era seduto accanto a Margo, e si era tolto la giacca posandola sulle spalle della ragazza. Aveva anche l'idea di circondarle le spalle con un braccio se non altro allo scopo molto pratico di scaldarsi un poco, ma qualcosa lo aveva fatto esitare fino a quel momento. Disse:

«Se esistessero delle creature così progredite non userebbero anche la massima prudenza, per evitare di danneggiare, o perfino di turbare, qualsiasi pianeta abitato cui si avvicinassero?» Aggiunse, in tono incerto, «Suppongo con questo di sottintendere l'esistenza di qualche benevola Federazione Galattica, o di un equivalente…»

«Un Ministero per il Benessere Cosmico,» suggerì Doc, in tono ironico.

«No, lei ha perfettamente ragione, giovanotto,» disse in tono autoritario la grassona, mentre la donna magra annuiva, tenendo le labbra serrate. «La prima legge degli Abitatori dei Dischi è quella di non fare alcun male alla vita, ma di amarla, e coltivarla, e proteggerla.»

«Ma è questa la prima legge della General Motors?» volle sapere Hunter. «0 del generale Mao?»

Rama Joan fece un sorriso misterioso, e domandò a Paul:

«Quando lei compie un viaggio in automobile, quali precauzioni speciali prende per non investire cani e gatti? I formicai sono tutti catalogati e circondati da cartelli di avviso, nel suo giardino?»

«Ancora appassionata per la sua teoria dei demoni, eh?» osservò Doc.

Rama Joan si strinse nelle spalle.

«I demoni e i diavoli potrebbero essere semplicemente degli esseri intenti nei loro scopi, che ora casualmente si scontrano con i suoi.»

«Allora il male è soltanto un incidente d'auto?»

«Forse. Ricordi che esistono dei guidatori imprudenti, e perfino degli automobilisti che usano un'auto per esprimersi.»

«Anche se l'auto è un pianeta?» chiese Paul.

Rama Joan annuì.

«Uhm. Io, per esprimermi, generalmente mi accontento di denudarmi,» asserì Doc, ridacchiando perfidamente.

Magro, che teneva le mani intorno al corpicino addormentato di Miao, intervenne a questo punto:

«Quando guido io, riesco a vedere un gatto sul marciapiede a tre isolati di distanza. I gatti sono persone. Ecco perché non avrei mai potuto entrare a Vandenberg, anche se fossero stati più decorosi su tutto il resto.»

«Ma le persone sono sempre persone?» le domandò Hunter, con un sorriso.

«Di questo non ne sono sicura,» ammise lei, arricciando il naso.

La grassona fece un suono di disgusto. Rama Joan disse gentilmente a Margo:

«Spero che quando le cose si faranno… be'… più scomode, lei non rimpiangerà mai di avere rinunciato a Vandenberg per venire con noi. Ha avuto l'occasione di scegliere, sa; le occasioni vengono una volta sola.»

Wojtowicz balzò in piedi.

«Guardate là!» gridò.

Stava puntando il braccio verso la distesa di sabbia, dove un paio di fari stavano salendo e scendendo. E in quel momento, alle loro orecchie giunse il ronzio pesante di un motore.

«Paul,» disse Hunter, «Sembra che il maggiore Humphreys abbia cambiato idea, e abbia mandato qualcuno a prenderla.»

«Viene dalla direzione sbagliata,» disse Doc.

«Già,» aggiunse Wojtowicz, «Viene dall'autostrada, e sta aggirando la frana.»

I fari rallentarono, esitarono, si affievolirono, poi ritornarono vividi. Il riverbero rendeva difficile distinguere l'auto, malgrado la luminosità dell'aria.

«Rimarranno bloccati, chiunque siano,» esclamò Margo.

«No, se accelerano ce la faranno,» disse Wojtowicz.

L'auto venne avanti come se avesse voluto sfondare la piattaforma, e poi frenò bruscamente, a quindici metri di distanza, e spense i fari.

«È il camioncino degli Hixon!» disse l'Omino.

«E quella è la signora Hixon,» disse Doc, quando una figura che indossava dei minishorts grigi e una maglietta del medesimo colore scese dal retro del camioncino, e corse verso di loro.

Wojtowicz, Ross Hunter e Harry McHeath corsero incontro alla donna. Quando la signora Hixon passò loro accanto, gridò:

«Andate ad aiutare Bill a curare Ray Hanks. Ray ha una gamba rotta.» Poi salì con un balzo sulla piattaforma.

Quella sera, poche ore prima, la signora Hixon era stata una bella donna, ma ora le mani, il viso, i minishorts e la maglietta erano macchiati di terriccio, i capelli erano scomposti come quelli di una Erinni, le labbra erano tese e scoprivano i denti, e gli occhi erano vitrei e sbarrati. C'era del sangue sul mento della donna. Non appena si fu fermata, cominciò a tremare violentemente.

«L'autostrada è bloccata su entrambi i sensi,» ansimò. «Abbiamo perduto gli altri. Credo che siano morti. Credo che tutto il mondo sia andato a pezzi. Mio Dio, avete qualcosa da bere?»

Doc disse, «L'ha voluto lei,» a Hunter, quando estrasse di tasca la sua bottiglia, versò una doppia dose in una tazzina da caffè vuota, e cominciò ad aggiungere dell'acqua. La donna afferrò la tazzina prima che Doc potesse finire, e trangugiò tutto avidamente, poi rabbrividì di nuovo. Doc le circondò le spalle con un braccio, e disse, con forza:

«Adesso ci racconti tutto, punto per punto,» La sua stretta si accentuò. «Dall'inizio.»

«Avevamo disseppellito tre auto. Quella di Rivis, il nostro camioncino e l'utilitaria di Wentcher. Le altre erano sepolte troppo in profondità, ma quelle bastavano a portarci tutti comodamente. Nel camioncino siamo saliti soltanto io, Bill e Ray. Quando siamo arrivati sull'autostrada, non abbiamo incontrato alcun traffico. Questo avrebbe dovuto metterci in guardia, ma sul momento abbiamo pensato soltanto di essere stati fortunati. Cristo! Rivis è andato a nord. Noi ci siamo diretti verso Los Angeles, seguendo l'utilitaria. L'autoradio è riuscita a captare due stazioni, malgrado le continue scariche di statica. Solo dei brevi frammenti. Niente, all'infuori del grande terremoto di Los Angeles… fate questo, fate quello, non fate quell'altro. Abbiamo dovuto compiere molte deviazioni, per aggirare rocce e frane. E ancora nessuna automobile in vista. Eravamo dove non c'era spiaggia, ma solo uno strapiombo sul mare.

«La strada si è gonfiata… così, semplicemente, senza alcun preavviso, mio Dio! Ha fatto sussultare l'auto, portandola come se fosse stata una barca. Lo sportello si è aperto, e Ray Hanks è caduto. Io mi sono aggrappata a Bill. Lui frenava, tenendosi puntellato al sedile. Le colline sono crollate. Una roccia grossa come una stanza è piombata sulla strada, davanti a noi, aprendo una spaccatura larga tre metri. Ricordo di essermi morsa la lingua. Bill ha fermato l'auto. Anche la strada ha smesso di gonfiarsi. E allora io ho sentito la polvere, soffocavo, ma poi, attraverso la polvere, ho sentito un gran rumore d'acqua, dove la roccia era caduta in mare… lo spruzzo è arrivato fino a noi. Così avevo in bocca il sapore di sale e di sangue e di polveri, e mi sentivo tremare tutta.

«A questo punto, è caduto un silenzio spaventoso. La strada, davanti a noi, era bloccata, con mucchi di detriti e il fondo smosso. Non so se avremmo potuto salire sulla montagna di detriti, da quella parte; ne avevamo l'intenzione, perché non sapevamo se l'utilitaria fosse rimasta sepolta, o fosse sfuggita, o chissà che altro. In quel momento, è avvenuto un altro smottamento. Un masso grosso come un leone mi ha mancata di così. Un altro è semplicemente esploso, come un fuoco d'artificio. Bill mi ha fatto salire in auto, e lui mi ha preceduto a piedi, tra le nuove frane, indicandomi dove mettere le ruote, in quell'inferno di montagnole e di crepacci e di detriti. Tossiva, e mandava un sacco di maledizioni al nuovo pianeta.

«C'era qualcun altro che stava urlando delle maledizioni… a noi, però. Era Ray. Lo avevamo dimenticato. Aveva una gamba spezzata, sopra il ginocchio, ma lo abbiamo sistemato sul retro. Io sono rimasta accanto a lui. Bill ormai poteva girare l'auto, la strada era ampia a sufficienza, e così siamo tornati indietro.

«Le frane continuavano, ma siamo riusciti ad aggirarle. Ora avremmo voluto incontrare delle auto sulla strada, ma non c'era nessuno. Bill si è fermato a un posto telefonico, ma era muto, e la luce, nella cabina, si è spenta proprio mentre lui cercava di captare un segnale. La radio era soltanto una bailamme di scariche di statica. L'unica parola che, apparentemente, riuscivamo a captare, tra le scariche, era fuoco! Ray e io continuavamo a urlare a Bill di andare più in fretta e più adagio.

«Abbiamo superato lo svincolo, qui vicino, ma dopo un quarto di miglio la strada era bloccata da un'altra frana, non un'anima in vista, nemmeno una luce… a parte quella maledetta cosa lassù. Siamo tornati qui. Non c'era alcun posto in cui andare, altrimenti.»

Respirò profondamente. Doc domandò:

«E quelle piccole strade che attraversano le montagne di Santa Monica? E in particolare, cosa ne è stato della Collinare di Santa Monica?»

«Piccole strade?» La signora Hixon lo guardò, pensierosa e stupita, poi cominciò a ridere e a singhiozzare nello stesso tempo. «Maledetto, stupido pezzo d'idiota, quelle montagne sono state agitate come un covone di fieno!» La risata diventò incontrollabile. Doc le mise le mani sulla bocca. Lei si dibatté selvaggiamente per un momento, poi abbassò il capo, afflosciandosi. Wanda e la donna magra vennero ad aiutare Doc, e accompagnarono la signora Hixon più avanti, sulla piattaforma. Rama Joan le seguì, dopo aver chiesto a Margo di prendere il suo posto, come guanciale per Ann, che stava osservando, attenta come un topolino.

Paul disse a Doc:

«Mi sorprende che non ci fossero delle altre automobili intrappolate in quel pezzo di autostrada. Sembra una cosa innaturale.»

«Probabilmente sono passate prima delle precedenti frane, quelle più leggere,» disse Doc. «E le stesse frane avrebbero impedito il passaggio alle auto successive, che avessero voluto percorrere la strada. Eppure, malgrado tutto quello che ha detto, io penso che alcuni siano riusciti a sfuggire al terremoto, prendendo la Collinare di Santa Monica.»

Hunter chiamò:

«Scendete, voialtri, e portate una branda. Dobbiamo far scendere Ray dal camioncino, in modo che qualcuno salga a bordo e raggiunga le nostre automobili.»

Tremanti, senza fiato e barcollanti per la folle corsa attraverso i grattacieli, Arab, Pepe e 'High' imboccarono la 125a Strada, dirigendosi a est, provando inizialmente un senso di maggiore confidenza, essendo entrati nel corridoio della loro amichevole, familiare casa afro-latina.

Ma i marciapiedi, gremiti di folla appena due ore prima, adesso erano vuoti e deserti. Solo una grande confusione di bicchieri e borse di carta, bottigliette vuote e fiaschette da mezza pinta testimoniava che le moltitudini di poco prima erano esistite davvero. Nessuna automobile si muoveva nelle strade, benché qua e là si vedessero delle auto parcheggiate a casaccio, e vuote… due avevano il motore acceso, e il fumo azzurrino usciva dai tubi di scappamento.

I fratelli di viaggio dovettero proteggere gli occhi dal riverbero del sole, quando guardarono a est, cercando qualche segno di vita all'orizzonte; ma a perdita d'occhio si vedeva lo stesso abbandono, la stessa immobilità predominava in tutte le strade laterali che portavano nel cuore di Harlem.

I soli suoni, dapprima, oltre a quelli dei loro passi e dei motori accesi, furono i profluvi sepolcrali di parole che uscivano da radio invisibili, e avevano un suono orribilmente importante, a giudicare dal tono; ma le parole erano incomprensibili, a causa delle continue scariche di statica e della lontananza… e soffocate com'erano dall'eccitato e ugualmente incomprensibile richiamo di sirene e di clacson, lontano.

«Dove sono finiti tutti?» bisbigliò 'High'.

«Attacco atomico,» affermò Pepe. «La Russia ha mandato i fuochi d'artificio. Tutti sono nascosti in cantina. Anche noi dobbiamo andare.» Poi, con un tremito nella voce, «La palla di fuoco si sta sollevando dal fiume.»

«No!» lo contraddisse gentilmente Arab. «Mentre noi eravamo al fiume, la Resurrezione è venuta e finita. I vecchi padri predicatori avevano ragione, dopotutto. Tutti sono stati presi… non c'è stato tempo per fermare i motori e spegnere le radio. Noi siamo gli unici rimasti.»

Si presero per mano e proseguirono in punta di piedi, per soffocare il suono dei loro passi, e avanzarono colmi di terrore.

Sally Harris e Jake Lesher uscirono in punta di piedi dalla piccola scatola di alluminio che li aveva portati per gli ultimi tre piani. Davanti ai loro occhi c'era penombra, con dei riflessi che coloravano un grande pianoforte. Sotto i loro piedi c'era un folto, soffice tappeto.

Sally mandò un sommesso grido di evviva. Con un lungo sospiro, la porta dietro di loro cominciò a scorrere, ma Sally la fermò, e la bloccò con un tavolino che reggeva un vassoio d'argento.

«Cosa tenti di fare?» domandò Jake.

«Non lo so,» disse lei. «Sentiremo il cicalino, se qualcun altro vorrà entrare. Vieni.»

«Aspetta un momento,» disse Jake. «Sei sicura che Hasseltine non sia in casa?»

Sally si strinse nelle spalle.

«Darò un'occhiata, mentre tu saccheggi il frigorifero. Avanti, non hai anche tu una specie di voragine al posto dello stomaco?»

Lo guidò silenziosamente verso la cucina.

Dai Davies ascoltò, con crudele divertimento, le misteriose notizie sul Vagabondo che giungevao per radio, nel piccolo pub sulla riva della Severn, vicino a Portishead, dove era andato, dopo un riposo di due ore, a bere qualche bicchiere del mattino. Di quando in quando, ampliava le notizie con sfoghi di fantasia, per l'edificazione e la soddisfazione dei suoi compagni bevitori, che parevano non apprezzare eccessivamente la cosa:

«Color porpora e ambra, eh? Questo è un grande cartellone pubblicitario che gli americani hanno dipinto su una stella, gente, per pubblicizzare un nuovo succo di frutta e una marca di birra denaturata!» e, «È un super-pallone sovietico, un sacro messaggero, ragazzi, mandato sulla Chicago senza legge per inondare il cuore della patria degli Yankee con una pioggia di copie preziose del santo Manifesto di Marx!»

Le notizie giungevano attraverso il cavo transatlantico, diceva lo sprezzante annunciatore… delle tempeste magnetiche di straordinaria intensità avevano reso impossibile le comunicazioni radio con l'occidente. Dai avrebbe voluto più di ogni altra cosa che Dick Hillary fosse stato con lui… questo delizioso nonsenso era proprio il genere di cosa che avrebbe fatto guaire quel nemico indefesso del volo spaziale e dei romanzi spaziali; inoltre, sarebbe stato un pubblico assai più degno e soddisfacente, per il raro ingegno di un poeta gallese, di quei pessimi bevitori del Somerset.

Ma quando, dopo altri due bicchieri colmi fino all'orlo, le notizie radio cominciarono a comprendere dei rapporti su una luna frantumata e catturata… l'annunciatore aveva un tono ancor più di derisione, ma adesso c'era una nota nervosa, nella sua voce, quasi isterica… l'umore di Dai cambiò bruscamente, e quando gridò nella sua voce c'era emozione da ubriaco, più che ingegno di poeta:

«Rubare la nostra luna, quei dannati Yankee non sono capaci d'altro! Non sanno che Mona appartiene al Galles? E se le fanno del male, noi nuoteremo fino a Manhattan, e li faremo a pezzi, non è vero, miei cari?»

Questo grido incontrò una serie di risposte: «Fa' silenzio, stupido, sta ancora parlando,» «Un gallese che parla a vanvera.» «Sbronzo, direi.» Basta così, lei è ubriaco,» quest'ultima dichiarazione veniva dall'oste.

«Vigliacchi del Somerset!» rispose forte Dai, sollevando il bicchiere come se fosse stato un'arma. «E se non mi seguite, vi inseguirò io, e vi pesterò fino a farvi diventare viola!»

La porta a vetri si spalancò, e una figura dagli occhi bianchi, che sembrava uno spaventapasseri dal lungo impermeabile e dal cappello impermeabile a tesa larga li fronteggiò, sullo sfondo della nebbia esterna.

«C'è qualcosa per radio, con le notizie sulla marea?» gridò questa apparizione all'oste. «Mancano due ore alla bassa marea, e il Canale si sta abbassando come non l'ho mai visto, parola mia! Venite, venite a dare un'occhiata anche voi. Se continua così, un uomo potrà camminare su tutta la costa a mezzogiorno, e un'ora dopo il Canale sarà quasi in secca!»

«Bene!» gridò a gran voce Dai, permettendo all'oste di portargli via il bicchiere e la bottiglia e appoggiandosi a braccia larghe al bancone, mentre gli altri si muovevano con aria curiosa e impaurita verso la porta. «Allora io andrò a piedi, per le cinque miglia di sabbia della Severn, e ritornerò nel Galles, liberandomi di voi del Somerset, smidollati che non siete altro. Perdio, lo farò!»

«E buona passeggiata,» borbottò forte qualcuno, mentre un buontempone aggiungeva, «Se è questa la sua intenzione, le consiglio di andare a est, descrivendo un giro completo… e dovrà percorrere più di cinque miglia, almeno il doppio. Andando diritto, amico, troverà Monmouth, non il Galles.»

«Per me Monmouth è ancora gallese, e maledizione all'Intesa del 1535,» rispose Dai, appoggiando il mento al bancone. «Oh, andate, andate tutti a spalancare la bocca e gli occhi di fronte a questo prodigio delle acque. Io vi dico che gli Yankee, dopo avere rotto e incatenato la luna, ora ci stanno rubando anche l'oceano.»

Il generale Spike Stevens esclamò:

«Chiama il Relé di Natale, Jimmy! Informali che anche la loro immagine comincia a confondersi.»

Gli osservatori nella sala sotterranea erano raggruppati di fronte allo schermo di destra, ignorando l'altro, che ormai da più di un'ora non era altro che un indecifrabile groviglio di disturbi.

L'immagine che veniva dal satellite sopra l'Isola di Natale mostrava il Vagabondo, con la faccia-bersaglio, e con la Luna che stava lentamente scomparendo dietro di esso, ma sia il pianeta che la luna danzavano, si gonfiavano e si distorcevano, mano a mano che le distorsioni elettroniche invadevano lo schermo.

«Ho tentato, generale, ma non riesco a ottenere risposta,» rispose il capitano James Kidley. «La radio e le onde corte sono andate. Le ultracorte se ne stanno andando… ogni tipo di comunicazione che non sia per cavo o per guida d'onda. E anche queste…»

«Ma noi siamo un quartier generale!»

«Mi dispiace, generale, ma…»

«Chiamami il Primo Comando!»

«Generale, loro non…»

Ci fu una forte vibrazione, che veniva dal pavimento, e si udì un rumore crepitante. Le luci ondeggiarono, si spensero, si riaccesero. La sala sotterranea cominciò a ballare. Dei frammenti d'intonaco caddero. Ancora una volta, le luci si spensero… tutte, a eccezione del pallido chiarore dello schermo dell'Isola di Natale.

Bruscamente, la tremolante immagine astronomica sullo schermo fu sostituita dal profilo di una grossa testa felina, con le orecchie a punta e le fauci sorridenti. Sembrava che, lassù, su quel satellite automatico a 23.000 miglia di quota sul Pacifico, una tigre nera avesse guardato con curiosità il telescopio. Per un momento, l'immagine rimase. Poi tremolò, e lo schermo si spense.

«Signore Iddio, cos'era quello?» urlò il generale, nel buio fitto.

«L'hai visto anche tu?» domandò il colonnello Mabel Wallingford. La domanda della donna fu sottolineata da una risata, per metà isterica, per metà esultante.

«Fa' silenzio, stupida cagna!» urlò il generale. «Jimmy?»

«È stata una distorsione casuale.» La voce del giovane ufficiale giunse un po' scossa, dalle fitte tenebre. «Un effetto illusorio. Non potrebbe trattarsi di…»

«Silenzio!» gridò il colonnello Willard Griswold, rivolgendosi a tutti e tre. «Ascoltate!»

Lo sentirono tutti; il rumore di acqua che gorgogliava e avanzava.

A bordo della Principe Carlo, l'agonia delle comunicazioni radio fu particolarmente avvertita.

Senza distinzioni, i ribelli che ora controllavano il transatlantico di lusso, e anche i membri dell'equipaggio fedeli, usando una trasmittente, cercarono inutilmente di trasmettere messaggi sul grande colpo, il primo gruppo indirizzando il messaggio ai suoi capi rivoluzionari, l'altro gruppo alla Marina Britannica. E Wolf Loner, tremila miglia più a nord, stava riflettendo su quanto era bello essere senza giornali e senza radio… provava un certo rammarico, davvero, al pensiero che lui e la sua imbarcazione avrebbero raggiunto Boston troppo presto.

Il campo magnetico del Vagabondo, assai più forte di quello della Terra, era sgorgato dallo spazio con la stessa rapidità del campo gravitazionale, influenzando quasi istantaneamete gli strumenti sensibili a esso. Ma oltre a questa influenza magnetica che pervadeva ogni cosa, c'erano ben più strane influenze dirette che sgorgavano dal Vagabondo, e colpivano il lato della Terra che si trovava di fronte al pianeta. Questi influssi cosmici squarciarono le fasce di Van Allen, e calarono sulla Terra in una raffica paurosa di protoni e di elettroni.

Queste potentissime influenze dirette vennero grandemente intensificate quando la Luna entrò in orbita intorno al Vagabondo, e cominciò a frantumarsi. Esse produssero una forte ionizzazione e altri, più sottili effetti, dei quali il primo risultato percettibile fu quello di rendere impossibile, nella stratosfera e anche nella più bassa atmosfera della Terra, qualsiasi comunicazione elettromagnetica.

Mentre la Prima Notte del Vagabondo avanzava verso ovest, girando intorno al mondo… o piuttosto, mentre il mondo ruotava verso oriente per entrare nella notte, questo avvelenamento del cielo per le onde radio si propagava all'intero globo, dando un enorme contributo alla nebbia della catastrofe che isolava nazione da nazione, città da città e, infine, avrebbe isolato ogni mente dalle altre menti.

CAPITOLO XVII

Mentre l'équipe chirurgica — stranamente assortita, per la verità — formata da Doc, Rama Joan e Bacchetto, si preparava a curare la gamba di Ray Hanks, Clarence Dodd guidò il resto degli uomini in una spedizione fino alle auto sepolte. Con la spinta combinata di tre o quattro uomini alla partenza, il camioncino si mise in moto abbastanza facilmente, nella sabbia, ma tendeva a fermarsi quando tutti tentavano di salire a bordo; così Hixon, l'Omino e il giovane Harry McHeath andarono in macchina, mentre Paul, Hunter e Wojtowicz si misero in cammino per raggiungerli alla frana.

Quando furono quasi arrivati, videro tornare indietro McHeath, che correva portando cerotti, garze e altri oggetti presi dalla valigetta di pronto soccorso di Dodd.

«Non sforzarti troppo, ragazzo,» gli gridò Wojtowicz. «A questo ritmo si fanno i quattrocento metri, non i cinquemila!»

«Quel ragazzo tende a strafare,» disse poi a Paul. «Ne sono responsabile verso le due zie, benché siano due vecchie dame arroganti che non vi raccomando!»

Dopo il breve esodo, aiutarono Dodd e Bill Hixon a scaricare, dal retro del camioncino di Dodd, e a trasferire sul veicolo funzionante, un formidabile assortimento di provviste, equipaggiamenti e oggetti pratici, tra i quali erano compresi scatole di cibo e di birra, coperte, due giacche di cuoio, una piccola tenda, stufetta a carbone, lampade a kerosene, e binocoli da campo… che vennero istantaneamente usati per guardare il Vagabondo, con scarsi risultati: infatti le lenti si limitarono a dilatare le chiazze purpuree e dorate. I binocoli permisero però di osservare con agghiacciante chiarezza gli enormi crepacci sulla superficie schiacciata, ellittica della Luna; l'ampiezza di quelle voragini divenne ancor più spaventosamente comprensibile.

Poi, dal veicolo di Dodd, scaturirono due machetes (Nel vederli, Paul ridacchiò per il romanticismo avventuroso di quegli oggetti) e due fucili con relative munizioni. Infine, tre latte da cinque galloni, e un lungo tubo, che usarono per trasferire la benzina dal serbatoio delle auto sepolte in quello del camioncino, e per ottenere una riserva di quindici galloni.

Wojtowicz si mise in spalla uno dei fucili, e annunciò:

«Ehi, guardate, rieccomi nell'esercito! Avanti… march!… Mi piace scherzare,» spiegò a Paul subito dopo.

Il camioncino carico, pur bloccandosi due o tre volte nella sabbia, compì il viaggio di ritorno abbastanza facilmente.

Il commento di Doc, dopo avere osservato il tesoro, fu:

«Dodd, qui vedo tutto il necessario per casi di emergenza, a eccezione di un liquore forte… o leggero,» aggiunse, scuotendo il capo, incredulo, alla vista dell'etichetta di una latta di pseudo birra, a bassissima gradazione.

«Ho un'ampia provvista di barbiturici e di dexedrina,» ribatté l'Omino.

«Non è la stessa cosa,» si lamentò Doc. «E non sono parziale nei confronti dei liquori. Se ci fosse almeno un po' di mescalina, diciamo, o di hashish, o perfino un po' di marijuana…»

Wanda parve lanciare fiamme dagli occhi. Harry McHeath rise nervosamente, e Wojtowicz disse solennemente, lanciando un'occhiata di avvertimento a Doc:

«Sta scherzando, ragazzo.»

Doc sorrise, e disse alla donna magra:

«Distribuisca il caffè rimasto, Ida. Gli Hixon non l'hanno ancora preso, e non hanno avuto neanche un sandwich, e una tazzina in più, o un boccone, non ci farebbero alcun male. Ora che sappiamo che Dodd ha quintali di caffè solubile, non c'è più bisogno di risparmiare. Inoltre, abbiamo bisogno di un contenitore per l'acqua del serbatoio della casa sulla spiaggia… ho controllato, ed è potabile. Alcuni tra voi potranno pensare che io sia soltanto un maniaco del C2H5OH, ma in pratica a volte mi soffermo perfino sull'H2O.»

Il suggerimento che riguardava il caffè venne accolto all'unanimità. Tutti erano stanchi, e lieti di salire sulla piattaforma, lasciando la sabbia scomoda; perciò presero posto, alcuni seduti sulle sedie, altri sul palco. Al centro, sulla branda, si trovava Ray Hanks, con la gamba fasciata e stretta da una «steccatura» improvvisata. Ma il ferito riposava passabilmente, dopo aver ricevuto una dose del whisky di Doc… e con Bacchetto accanto, che teneva sul suo fianco un leggero «tocco guaritore».

Ida versò il caffè agli Hixon, che ora sedevano fianco a fianco, con il marito che abbracciava la moglie con aria di protezione. I due si guardarono negli occhi, poi si toccarono le tazzine, con aria piuttosto solenne. Questo diede un certo tono all'insieme. C'era qualcosa di solenne in tutti loro, quando cominciarono a sorseggiare le ultime gocce di caffè caldo. Come Hunter aveva intuito prima, ciascuno a suo modo sentiva che quel luogo era una casa, per loro, e temeva il momento della partenza. Là sulla spiaggia non c'erano colline che potessero cadere, né edifici che potessero crollare o bruciare, né tubi del gas che potessero incrinarsi ed esplodere in vampate di fiamma gialla, né fili dell'alta tensione che, crollando, potessero spruzzare il terreno di crepitanti, mortali scariche azzurrine (Certo, c'era la casa sulla spiaggia, che ora pareva sgangherata, con una parete smossa dal terremoto, ma era buia e bassa e le finestre erano sbarrate con delle travi, e così essa poteva essere ignorata). Là non c'erano stranieri che seguissero le loro mosse su schermi segreti, né vittime che potessero supplicare il loro aiuto. Le scariche di statica soffocavano quei messaggi di catastrofe, quegli ordini e quelle proibizioni, tutto quello che la polizia e la Croce Rossa e la Difesa Civile stavano certo ordinando in quel momento, riempiendo l'etere di messaggi. Era meraviglioso sognare di poter restare là… una piccola, affiatata colonia sulla spiaggia… restare là a osservare il Vagabondo, che ora stava scendendo verso l'oceano, con la luna di nuovo nascosta dalla sua forma, e il pianeta che mostrava ora una faccia che ricordava un toro infuriato, che caricava tenendo bassa la testa purpurea, ora che il giallo bersaglio era sparito per metà dietro l'orlo del disco, e una rotondità più grande e più bassa di colore giallo stava apparendo lentamente dall'altra parte. Per caso, o forse addirittura intenzionalmente, due piccoli ovali gialli formavano due occhi. Dodd posò la sua tazza, per tracciare uno schizzo.

«El toro,» disse Margo.

«La testa di una piovra,» disse Rama Joan. «I cretesi la disegnavano proprio così, sui loro vasi.»

«Ma noi dovremmo andarcene da qui… e prima di tre, o quattro ore,» disse improvvisamente Doc, come se si fosse reso conto del sogno di tutti, che nessuno aveva pronunciato, di rimanere sulla spiaggia. «La marea.»

CINQUE ORE

Hunter aggrottò le sopracciglia, in segno di avvertimento, e Doc si affrettò ad aggiungere:

«Adesso, non fraintendetemi… in questo momento non corriamo il minimo pericolo, anzi, tutto il contrario. Qui l'intervallo dell'acqua alta è di circa dieci ore, e ciò significa una bassa marea circa quattro ore dopo che la Luna ha raggiunto il suo zenit, nel cielo. In altre parole, tra circa un'ora avremo la bassa marea. Vedete quanto è lontano il limite del bagnasciuga? Questo ci lascia tutto il tempo per un buon riposo… tempo che io per primo sono deciso a sfruttare.»

«Ma che cosa vuol dire la marea, Doc?» domandò Wojtowicz.

Di nuovo, Hunter si accigliò, e fece un piccolo segno di diniego col capo.

«No, Ross,» disse Doc, rivolgendosi a Hunter. «Credo che sia meglio affrontare la cosa adesso, quando ancora abbiamo tempo per respirare.» Poi, rivolgendosi a Wojtowicz, «Lei sa, naturalmente come la Luna… la massa della Luna… sia la principale causa delle maree. Ebbene adesso lassù c'è il Vagabondo. Si trova approssimativamente nello stesso punto della Luna, così possiamo aspettarci che le maree seguano più o meno lo stesso schema di prima.»

«Meno male,» disse Wojtowicz. «Per un momento mi aveva spaventato.»

Ma quasi tutti gli altri, ora, stavano guardando Doc, e non sorridevano. Doc sospirò, e disse:

«Però, a giudicare dal modo in cui ha catturato la Luna, il Vagabondo deve possedere una massa equivalente a quella della Terra… in altre parole, una massa ottanta volte superiore a quella della Luna.»

Ci fu un silenzio piuttosto prolungato. La parola «ottanta» rimase sospesa nell'aria, come una pietra grigia, che si faceva più grossa e più solida a ogni secondo che passava. Solo Bacchetto e le sue donne non sembravano molto preoccupati. Hunter aveva l'espressione accigliata, e stava scrutando ansiosamente le reazioni degli altri. Rama Joan, le cui ginocchia erano ritornate il cuscino della bambina addormentata, fece d'un tratto un caldo sorriso a Doc. La signora Hixon sollevò una mano, come se avesse voluto esclamare, «Ma…» Suo marito le prese la mano, e la strinse un po' più forte, facendo nello stesso tempo un solenne cenno di assenso a Doc. Paul fece lo stesso, circondando finalmente col braccio le spalle di Margo. L'Omino infilò in tasca il suo blocco d'appunti, e incrociò le braccia.

Doc sostenne lo sguardo degli altri, e fece un sorriso grave, e un po' triste.

Fu il giovane Harry McKeath a dare finalmente voce al pensiero generale.

«Lei intende dire, signor Brecht, che benché le maree possano seguire gli stessi orari e lo stesso ciclo di prima, esse saranno… ottanta volte più grandi?»

«Non ha detto questo!» intervenne in tono acceso Hunter. «Rudy, lei non ha preso in considerazione l'età delle maree. In ogni caso, dovremmo avere un giorno di tregua. Oltre a questo, le maree sono un fenomeno di risonanza… dovrebbe occorrere molto tempo, perché le bande delle maree oceaniche comincino a vibrare con maggiore ampiezza.»

«Questo può essere vero,» disse Doc. «Inoltre, ci saranno altri effetti moderatori, che potranno ridurre il fattore di ottanta. Però,» proseguì, con maggiore fermezza, «Quel pianeta dipinto in due tonalità è lassù, e non c'è ragionamento che possa cambiarne la massa. Avete visto tutti quel che ha già fatto alla Luna. Forse ci vorranno sette ore, o forse una settimana, ma l'acqua alta verrà, e quando verrà io mi sentirò più sicuro con un paio di colline sotto di me. È per questo che ho chiesto notizie sulla Collinare di Santa Monica,» spiegò agli Hixon. «Malgrado tutto,» continuò con voce forte, soffocando il brusio che aveva seguito le sue parole, «Prima che un uomo compia uno sforzo, egli raduna le sue forze… come io sto per fare ora. Chiunque voglia sprecare energia a blaterare inutilmente, si accomodi. Non mi darà fastidio.»

Detto questo, si sdraiò su quattro sedie allineate, portò le braccia sugli occhi e, dopo qualche tempo, cominciò sonoramente a russare.

Don Merriam, che si trovava per la seconda volta dietro il Vagabondo, improvvisamente pensò alla minaccia che la sola esistenza di quel pianeta poteva costituire per la Terra. Ci sarebbero stati dei terremoti… probabilmente… e gigantesche ondate di marea… certamente, anche se non sapeva con sicurezza quanto tempo ci sarebbe voluto ad accumularle… e avrebbe potuto esserci… be', lui non pensava che, a quella distanza, il Vagabondo avrebbe potuto spaccare la Terra, eppure avrebbe voluto vedere la Terra in quel momento, con il binocolo, per rassicurarsi.

Il suo dovere era quello di avvertire la Terra, o almeno di tentare, benché il tentativo sembrasse senza speranza. Riscaldò la radio del Baba Yaga, e cominciò alternativamente a trasmettere e ad ascoltare. Una volta, gli parve di udire il principio di una risposta, ma il segnale svanì.

Si domandò se qualcuno non fosse in ascolto, su quel nero emisfero dalle strane chiazze verdi.

Arab Jones e i suoi fratelli di viaggio, sull'Isola di Manhattan, avevano già trascorso una parte del giorno almeno doppia della parte di notte che ancora restava agli studiosi dei dischi volanti, dato che la linea dell'alba, in quel momento, stava avanzando verso ovest, attraverso le Montagne Rocciose, alla consueta velocità di 700 miglia orarie, spruzzandole di chiarori rosati e attirando gli avvoltoi sulla mesa solitaria di Asa Holcomb.

Nelle vicinanze di Roosevelt Square, Arab puntò il braccio verso i tetti, e gridò:

«Eccoli lassù!»

'High' e Pepe guardarono a loro volta. I tetti bassi erano una selva di gente, e spiegavano in parte il mistero della 125a Strada deserta. Alcune persone stavano guardando in basso, e altre stavano facendo dei segnali frenetici, e gridavano.

Ma era impossibile capire le parole, a causa del brontolio di un tassi abbandonato, parcheggiato così vicino che 'High', barcollante, usò uno degli sportelli aperti per appoggiarsi.

«Sono pazzi, se credono di sfuggire alle bombe a quel modo,» disse Pepe, guardando in alto. «Le bombe vengono dallo spazio, non salgono attraverso la roccia, non vengono certo dal vecchio Pellucidar!»

«Ne sei sicuro?» domandò 'High'. «Forse quella palla di fuoco sta venendo dal fiume, attraverso i canali di scarico.»

«Stanno aspettando tutti la palla di fuoco!» gridò Arab, spalancando le braccia per comprendere tutti i tetti della zona. «Ma sono già morti tutti! Sono un museo delle cere sulle cime dei tetti! Tutta New York è morta.»

Bruscamente, lo stimolo di paura di quest'ultima visione diventò un terrore paurosamente reale, ed egli pensò di essere spiato, e spinto, e attirato e infine irresistibilmente preso da tutte quelle scure mummie viventi di cera, che si trovavano quindici metri più in alto… e la visione diventò intollerabile.

«Andiamocene da qui!» urlò 'High'. Si rannicchiò un momento, e poi s'infilò nel tassi. «Io me ne vado!»

'High' si era messo al volante, e Arab e Pepe s'infilarono pesantemente nel sedile posteriore. Un balzo in avanti del tassi chiuse lo sportello, e li mandò ad affondare nel sedile di cuoio freddo e lucido, mentre 'High' si dirigeva a ovest, accelerando continuamente, e descrivendo una strana sarabanda tra centinaia d'auto abbandonate.

L'improvvisa frenesia di uscite di intere sezioni della Polizia e dei Vigili del Fuoco di New York, con un concerto di ululati che disturbava il rapido e sensato prepararsi della città alla catastrofe, fu dovuta a un certo numero di fattori concomitanti: dei rapporti esagerati sulla pressione della marea a Hell Gate, e dei danni riportati dal Centro Medico di Broadway, ordini errati o confusi impartiti da un cervello elettronico che si trovava nel centro sotterraneo del nuovo sistema automatico di coordinamento urbano… il cervello elettronico era entrato in corto circuito, per l'afflusso di acqua… e una falsa segnalazione di disordini nel centro commerciale.

Eppure, la bailamme generale fu dovuta in gran parte al sistema nervoso degli uomini… nuda paura alleata al frenetico bisogno di uscire e di fare in tutti i modi la parte dell'eroe. Fu come se il Vagabondo avesse finalmente realizzato le antiche superstizioni che affermavano come i raggi della Luna fossero portatori di pazzia. Per tutto l'emisfero occidentale… a Buenos Aires come a Boston, a Valparaiso come a Vancouver, ci furono le stesse, inutili, insensate sortite.

'High' Bundy stava ancora accelerando, tre isolati a ovest di Lenox, quando lui, Pepe e Arab udirono l'avvicinarsi delle sirene. Dapprima non capirono da dove esse venissero, ma solo che si avvicinavano, perché si facevano sempre più forti a ogni istante che passava.

Poi il tassi attraversò l'Ottava Avenue, e mentre il rauco ululato aumentava, essi videro avanzare a tutta velocità, lungo l'Ottava, a meno di un isolato di distanza, due pantere della polizia affiancate, e altre subito dopo, con le luci rosse di segnalazione ammiccanti.

'High' pigiò il pedale del gas con maggiore forza. Il suono delle sirene avrebbe dovuto diminuire per un paio di secondi, mentre c'erano degli edifici tra il tassi e le pantere. Ma non diminuì. Si fece più forte.

C'era un vecchio camioncino, abbandonato al centro della strada, all'incrocio successivo. 'High' si preparò a sorpassarlo a destra. Una pantera della polizia e un'auto dei vigili del fuoco uscirono come proiettili dalla Settima Avenue, da sud, e girarono per sorpassare il camioncino, ciascuno da un lato. 'High' premette l'acceleratore e non sterzò, passando a pochi millimetri dai parafanghi delle due auto, e attraversò la Settima con pochi centimetri di anticipo su una grossa autopompa dei pompieri, che seguiva le altre due auto a meno di una lunghezza. Pepe riuscì a scorgere il grande cappello rosso e il viso dagli occhi sbarrati dell'autista, e si mise le mani sugli occhi, tanto fu vivida l'impressione di uno scontro inevitabile.

Il tassi non era giunto neppure a metà dell'isolato successivo, quando l'incrocio, più avanti, si riempì di altre automobili rosse e nere, che sfrecciavano verso nord. Il concerto delle sirene, davanti e indietro, era lacerante.

Se i fratelli di «viaggio» non fossero stati carichi di droga, avrebbero potuto rendersi conto che la bailamme di auto della polizia e di autopompe che venivano da Manhattan bassa non aveva nulla a che fare con loro, personalmente, e che i minacciosi veicoli non convergevano sulla 125a Strada, ma continuavano la loro folle corsa verso nord.

Ma i fratelli di «viaggio» erano pieni di droga, e il magistrale stimolo di paura dell'inseguimento della polizia era sopra di loro. Pepe si convinse che loro sarebbero stati i capri espiatori, per un tentativo di distruggere Manhattan con bombe congelate… li avrebbero accusati di aver creato la palla di fuoco, e li avrebbero condannati con l'unica prova di un accenditore Zippo.

Arab sapeva che lo scopo della polizia era quello di spingerli sul tetto più vicino, per legarli lassù insieme alle ghignanti mummie di cera.

'High' pensò, semplicemente, che dovevano averli visti a fumare «erba» vicino al fiume… probabilmente, li avevano scoperti con la telepatia. Frenò, facendo fermare il tassi quasi davanti a Lenox. Scesero tutti.

L'entrata della metropolitana si spalancava come il nero invito di una caverna o di una tana, promettendo la sicurezza che tutti gli animali spaventati bramano. L'ingresso era parzialmente bloccato da una transenna bianca, ma i tre passarono oltre, e scesero di corsa le scale.

La biglietteria era vuota. I tre corsero fino ai binari. C'era un treno illuminato in attesa, con le portiere aperte. Ma a bordo non c'era nessuno.

La stazione era illuminata, ma non videro nessuno, da nessuna parte, su quella piattaforma o su quella di fronte.

Il treno vuoto stava ronzando sommessamente e insistentemente, ma dopo che le sirene si furono perdute in lontananza, non si udirono altri rumori.

CAPITOLO XVIII

Malgrado il russare vigoroso di Doc, destinato a rialzare il morale della compagnia, nessuno, a eccezione di Rama Joan, cercò di seguirne l'esempio, e dopo mezz'ora lo stesso Doc rizzò il capo, si mise a sedere, appoggiandosi ai gomiti, e s'inserì in una discussione tra Paul e Hunter sui sentieri cosmici che la Terra e il Vagabondo avrebbero seguito, rispettivamente.

«Ho già fatto i calcoli mentalmente… con una certa approssimazione, è naturale,» disse Doc. «Presumendo che siano di massa uguale, essi gireranno intorno a un punto mediano tra loro in un mese della durata di circa diciannove giorni.»

«Dovrà essere più breve, non c'è dubbio,» obiettò Paul. «Be', possiamo vedere con i nostri occhi a quale velocità si stia muovendo il Vagabondo.» Indicò il punto ove il pianeta straniero, ora di color mattone e arancio chiaro, si stava inclinando, tuffandosi nell'oceano, con il giallo ovale della luna che passava sulla faccia del pianeta, quasi da basso.

Doc ridacchiò:

«Quel movimento è soltanto la rotazione della Terra… lo stesso fenomeno che fa sorgere e tramontare il sole.» Poi, quando Paul si diede una manata sulla fronte, pensando alla propria stupidità, Doc aggiunse, «È un errore classico abbastanza naturale… continuo a farlo anch'io, mentalmente, e questo l'ho ereditato dai miei antenati cavernicoli, insieme alle ossa della coda! Ehi, guardate quanto si è ritirato il mare! Ross, temo che gli effetti di marea si mostrino più presto di quanto pensassimo.»

Paul, cercando di ritornare al nocciolo della discussione, si sforzò di visualizzare il quadro d'assieme… il fatto che maree ottanta volte più alte volevano dire anche maree ottanta volte più basse, a intervalli di sei ore, nella maggior parte dei luoghi.

«Tra parentesi,» aggiunse Doc, «Ci vorranno circa dieci giorni per entrare in quell'orbita di diciannove giorni, poiché l'accelerazione della terra è solo di circa cinque centesimi di pollice al secondo. Quella della luna, anche in relazione al Vagabondo, dev'essere stata di circa un metro e venti al secondo, cumulativa, naturalmente.»

Una fredda brezza di terra cominciò a soffiare, raggelando la nuca di Paul. Egli strinse ancor più la giacca intorno al corpo… Margo gliel'aveva restituita, quando l'Omino le aveva dato una delle giacche di cuoio. Malgrado ciò, Margo aveva infilato Miao nella giacca, per ottenere un po' di calore in più; e fissava in silenzio la spiaggia lunga e piatta.

«Guardate come la luce si riflette sulla sabbia umida,» disse Margo, senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Come ametiste e topazi accumulati così, senza un disegno preciso.»

«Zitta,» disse la donna grassa, che era accanto a lei. «Lui sta ricevendo dei messaggi.»

Dall'altra parte, sempre accanto a Wanda, Bacchetto stava fissando il Vagabondo come se fosse stato ipnotizzato dalla sua luce, con il mento appoggiato al pugno chiuso, in un atteggiamento che faceva pensare al «Pensatore».

«L'imperatore dice, 'Nessun male venga fatto alla Terra',» dichiarò in quel momento Bacchetto, con voce monotona, quasi in trance. «'Le sue acque turbolente saranno quietate, e gli oceani si ritireranno dalle coste'.»

«Un pianeta pieno di Re Canuti,» mormorò gentilmente Doc.

«Il suo imperatore avrebbe dovuto muoversi prima, per scongiurare i terremoti,» disse acidamente la signora Hixon. Il signor Hixon le posò la mano sul braccio, e le mormorò qualcosa. Lei si strinse nelle spalle, ma non fece altri commenti.

Rama Joan aprì gli occhi.

«Come stanno andando le sue teorie adesso, Rudolf?» domandò a Doc. «Angeli o demoni?»

Lui rispose:

«Intendo aspettare fino a quando uno non voli abbastanza vicino a me, perché io possa vedere se le sue ali sono di piume o di cuoio.» Poi, rendendosi conto che la sua non era stata necessariamente una battuta di spirito, lanciò una rapida occhiata al Vagabondo, simulando un brivido ironico. Poi si alzò in piedi, si stirò, e osservò la piattaforma.

«Ah, vedo che avete caricato il camion, mentre io dormivo,» fu il suo commento. «Ottima idea. Non avete dimenticato nemmeno i contenitori dell'acqua… immagino che si debba ringraziare lei per questa idea, Dodd.» Poi, a bassa voce, rivolgendosi a Hunter, «Come sta Ray Hanks?»

«Non si è nemmeno svegliato, quando abbiamo issato la branda a bordo. Lo abbiamo avvolto con una coperta.»

Si udì un grande ronzio nel cielo. Tutti s'immobilizzarono. Molti lanciarono sguardi apprensivi in direzione del Vagabondo, come se avessero temuto che qualcosa arrivasse di là. Poi Harry McHeath chiamò, eccitato:

«È un elicottero di Vandenberg… credo…»

Ma aveva l'aspetto di un normale elicottero d'osservazione della guardia costiera, che scivolava lentamente verso il mare, per poi descrivere un ampio arco e ritornare verso la spiaggia, a una quota di circa quindici metri da terra. Improvvisamente, l'elicottero si diresse verso di loro, e rimase sospeso in alto. Il ronzio diventò un ruggito. Il vento prodotto dalle eliche fece volar via i programmi accumulati sulla sedia.

«Quel maledetto idiota non cercherà di atterrare sulla nostra testa?» domandò Doc, guardando in alto, come tutti gli altri.

Una grande voce dominò il ronzio e scese su di loro:

«Andate via! Andate via da qui!»

«Be', che bastardi!» ruggì Doc, in modo che non si riuscì a capire ciò che la voce disse subito dopo. «Non sono soddisfatti di averci sbattuto la porta in faccia. Adesso ci ordinano di lasciare anche il quartiere!» Accanto a lui, l'Omino sollevò il pugno, e lo agitò rabbiosamente.

«Andate via subito dalla spiaggia!» terminò la grande voce, quando l'elicottero s'inclinò e continuò il suo tragitto lungo la costa.

«Ehi, Doc!» gridò Wojtowicz, prendendo la spalla dell'altro e scuotendola. «Forse cercano di avvertirci del pericolo della marea!»

«Ma quello non verrà prima di sei ore…»

Doc si interruppe, quando fu chiaro a tutti che il ruggito non se ne andava insieme all'elicottero, e mentre l'acqua spumeggiante sprizzava in almeno una dozzina di punti, dalle fessure della piattaforma.

La piattaforma era completamente circondata da un bianco mare di spuma. L'onda era venuta mentre tutti gli occhi erano rivolti all'elicottero, e il ruggito delle eliche aveva soffocato quello dell'onda.

«Ma…» domandò Doc, anch'egli simile a un Re Canuto.

«Non è un'onda di marea, ma tsunami!» Gli gridò Hunter. «Onde prodotte da movimenti sismici… maremoto!»

Doc si asciugò la fronte.

Con un sibilo di rabbia e un cupo crepitio di sassolini e conchiglie, l'acqua si ritirò, lasciando dietro di sé un disegno spettrale di schiuma.

«Ne sta arrivando un'altra!» gridò Paul, guardando una lontana muraglia pallida, con orrore. «Mettete in moto il camion!»

Gli Hixon stavano già salendo a bordo. Il motore tossì, e si spense. Hunter, Dodd, Doc e Harry McHeath balzarono sulla sabbia bagnata, e si prepararono a spingere. Rama Joan portò via quasi di peso Ann, la spinse a bordo del camion, e quando lei cercò di scendere, la schiaffeggiò sul viso. «Resta qui, e reggiti forte,» le ordinò. Wanda cercò di seguire Ann, ma Wojtowicz l'afferrò al volo, e le ringhiò, «Questa volta no, Cicciona!» Paul abbassò il telo del camion, cercando di fermarlo.

Finalmente il motore si accese. Wojtowicz spinse da una parte Wanda, e lui e Paul cominciarono a spingere, barcollando quando il camion avanzava di pochi centimetri. Gli pneumatici posteriori stridevano, girando a vuoto nella sabbia bagnata. Una spinta dagli uomini che si trovavano in basso, un'altra spinta da Paul e Wojtowicz, sulla piattaforma, e il camioncino avanzò di qualche altro centimetro. Un'esitazione, un'altra spinta, e improvvisamente il camion si allontanò rapidamente, con il telone posteriore che sbatteva nel vento, e le luci di posizione che scintillavano sull'acqua incrostata di bianca schiuma che avanzava.

La seconda ondata fu abbastanza alta da bagnare un angolo della piattaforma, e lasciarvi una traccia di sabbia e di sassolini, mentre le fessure si trasformavano in una rete di sorgenti, che sprizzavano acqua e schiuma. Mentre l'onda recedeva, Paul spinse Margo lungo la piattaforma dalle assi di legno umide. Margo portava con sé Miao. Indugiò sul bordo opposto della piattaforma, e si guardò intorno, vedendo gli altri, e gli uomini che si rialzavano a fatica, in basso, nell'acqua poco profonda.

«Avanti. Presto, prima che arrivi la terza ondata!» urlò, e scese dalla piattaforma, insieme a Margo, guidando l'inseguimento del camion.

Arab, Pepe e 'High' si aspettavano fiumi azzurri di poliziotti che si riversassero dietro di loro, nella stazione della metropolitana di Lenox e della 125a Strada. Così si prepararono mentre Arab era pronto a gettare la marijuana rimasta nel gabinetto, e 'High' pronto a tirar l'acqua, mentre Pepe stava ad ascoltare nervosamente. Non si trattava di un espediente molto astuto, ma lo fecero quasi istintivamente.

Ma nessun altro cercò di entrare; non udirono i passi pesanti e i richiami dei poliziotti, anzi non udirono nulla. E dopo qualche tempo uscirono dal loro precario rifugio.

La stazione vuota era come una casa stregata, così, per qualche tempo, essi girarono qua e là, senza una meta precìsa. Pepe cercò di prendere della cioccolata da una macchinetta distributrice, ma la macchina non funzionò. Pepe la scosse, un volta, ma si fermò bruscamente, nell'udire il rumore. Salirono nell'ultimo vagone del vuoto treno in attesa, che era diretto in centro, e lo percorsero fino al primo vagone. Poi, nella motrice, Arab abbassò una leva, e gli sportelli cominciarono a chiudersi; allora Arab riportò la leva nella posizione iniziale. Arab abbassò un'altra leva, e il ronzio del treno si fece più forte, il convoglio parve tendersi, pronto a partire; Arab si affrettò a riportare in posizione di partenza anche quella leva.

«Meglio lasciar stare questi aggeggi,» disse, ridacchiando.

Studiarono il nero, doppio tunnel davanti alla motrice, aspettando che arrivasse un treno, dall'una o dall'altra parte, ma non accadde nulla.

Più la stazione rimaneva vuota, più essa sembrava un piccolo mondo privato dei tre fratelli di viaggio. Sentendosi ricchi come i padroni del mondo, si accesero un altro «fornello» di droga, e fumarono seduti sulla piattaforma.

Finalmente, Arab disse:

«Cosa credi che sia accaduto in realtà, 'High'?»

'High' corrugò la fronte, pensieroso. Poi:

«I russi sbarcano alla Battery, da enormi sottomarini. Grande sconfitta per i poliziotti nella battaglia di Union Square. I poliziotti si ritirano a nord, combattendo delle azioni di retroguardia. I russi avanzano. I miei ordini, per la giornata: nascondetevi sottoterra, uomini, e fate i sordi e i ciechi.»

Arab annuì.

«Pepe?»

«Quella palla di fuoco! Lei è emersa alla Battery, si è divisa senza scoppiare, e poi è discesa galleggiando per le strade. La gente l'ha creduta di gas velenoso ed è scappata sui tetti, ma in realtà si trattava di fumo buono, fumo migliore del nostro. Tutti sono soffocati, meno noi. Avevamo troppa paura anche per respirare. Arab?»

Un vento caldo cominciò a soffiare accanto a loro, dalla galleria davanti. Era un vento greve di odori sotterranei: metallo, terra secca, sudore, e un crepitio elettrico, un sentore di ozono che pervadeva ogni cosa.

«Avanti, Arab, sei stato tu a cominciare,» lo incoraggiò Pepe.

«Va bene, adesso ho capito tutto,» disse Arab. «Il fiume era alto, l'abbiamo visto anche noi. Ha continuato a salire. L'acqua è traboccata alla Battery, ha invaso la terra e ha continuato ad avanzare verso nord. Un diluvio, come quello di Noè! La gente è stata avvertita, è fuggita sui tetti e si è trasformata in una congrega di statue di sale. L'ordine è stato quello di sgomberare gli scantinati e la metropolitana. La polizia è scappata. I pompieri erano pronti con gli idranti, ma l'acqua è una cosa che loro non possono combattere. Così sono scappati via anche loro. E l'acqua sta sempre arrivando, sale e sale e si avvicina.»

«Ehi, ma questa è davvero buona!» disse 'High'. «Re-alistica!»

La brezza si fece più forte, e gli odori aumentarono, nella metropolitana, ma ora a questi odori se ne mescolava uno strano, inappropriato, fuori luogo.

In fondo alla galleria, lontano, si vide un lampo azzurrino.

«Sta arrivando un treno,» disse Pepe.

Ci fu un altro lampo azzurrino, e un altro ancora. La brezza diventò un vento di uragano, e ora l'odore fuori posto diventò chiaro: era l'odore che si sentiva vicino al fiume. E c'era un brontolio lontano, che lentamente aumentava, diventava un ruggito.

«Un treno nero in arrivo, su entrambi i binari!» urlò Arab.

I lampi lividi, azzurrini, si avvicinarono, si avvicinarono, sempre più intensi, un temporale abbacinante. Il vento acre, salmastro, era quello di un tornado; carte e polvere volavano follemente intorno; il ruggito era quello di mille e mille leoni.

Per un momento, stretti gli uni agli altri, abbracciati sulla piattaforma, essi lo videro chiaramente: il fronte spumeggiante, nero di terriccio e di rifiuti, e con i piedi crepitanti di fiamma azzurrina.

Poi il pistone d'acqua salata carica di elettricità li travolse.

Sally Harris e Jake Lesher presero le uova strapazzate e il caviale da una padella d'argento posata su una fiamma azzurrina, e un vaso di cristallo circondato dal ghiaccio.

«Accidenti, siamo in alto,» disse Sally, guardando oltre il grande terrazzo dell'attico. «Vedo soltanto l'Empire State, l'RCA, il Chrysles, la Sixty Wall Tower… e quel punticino laggiù non è per caso il Waldorf Astoria?»

«Quaranta piani, prima di entrare nell'ascensore privato di Hasseltine,» le disse Jake, spalmando un po' di caviale su una fetta di pane tostato. «Li ho contati.»

Sally portò la sua tazzina di caffè sulla balaustra cromata, e si sporse, con un gesto irrequieto.

«Guarda, accidenti, la gente sembra un branco di formiche,» disse, senza voltarsi. «Stanno correndo tutti… non so perché. Jake, una volta ti avevo chiesto a cosa servivano quei piccoli idranti che sporgono dagli edifici… credevo che servissero a spegnere degli incendi di automobili, ricordi, o per respingere degli assembramenti di dimostranti.»

«Niente di tutto questo… servono per lavare i marciapiedi, al mattino,» le spiegò Jake, versandosi una tazza di caffè dall'alta caffettiera sottile, con la luce rossa alla base.

Lei annuì:

«Lo pensavo… li stanno usando, adesso.»

«Non è possibile, li usano alle quattro del mattino. Adesso sono le otto.» L'espressione dei suoi occhi si fece remota. Gli pareva che il pensiero, l'idea fabbricasoldi che aveva avuto a Times Square stesse finalmente tornando.

«Be', può darsi, ma laggiù sembra maledettamente bagnato.» Studiò la scena ancora per un poco. Poi, «Jake?»

«Cosa c'è adesso? Sal, io sto cercando di pensare.»

«Avevi ragione. L'acqua non esce da quei piccoli idranti. Esce dagli sbocchi della sotterranea.»

Jake balzò su, e ricadde con uno scossone che lo fece vibrare dolorosamente. Anche il pavimento aveva saltato. L'edificio ruggì e traballò… e traballò ancora. Jake agitò le braccia in aria, e poi si aggrappò alla balaustra cromata, dove Sally stava ondeggiando e squittiva, superando anche il ruggito sordo. Centinaia di metri più in basso, o almeno così sembrava, la sua tazzia da caffè, e grandi fiocchi di pietra, produssero degli schizzi piatti e minuscoli.

Il sordo brontolio, e l'ondeggiamento del grattacielo, diminuirono. Sally si sporse ancora dalla balaustra, e puntò il braccio verso il basso, dove un nastro nero stava uscendo lentamente dal loro edificio, vicino alla base.

«Guarda!» gridò lei. «Del fumo! Oh, Jake, non è emozionante?» domandò, quando lui cercò di tirarla dentro. «Dovremmo tirarne fuori una commedia!»

Nel caos del momento Jake fu ancora capace di rendersi conto che era quella l'idea fabbricasoldi che aveva cercato così affannosamente.

Dietro di loro, lo spioncino rosso alla base della caffettiera si spense, e la luce arancione del tostapane impallidì.

Gli studiosi dei dischi volanti avevano continuato a correre, sfuggendo ad altre tre onde sismiche che erano fatte più di schiuma che d'acqua… arrivavano alla caviglia… e poi erano riusciti a raggiungere la sabbia asciutta, e si erano fermati là, quasi tutti senza fiato; Bacchetto e Ida trascinavano quasi l'altra donna, e il momento pareva indurre a una tregua, quando le onde veramente alte cominciarono a inseguirli.

In alto, le colline rotondeggianti delle montagne di Santa Monica torreggiavano cupe e massicce sullo sfondo di un cielo già ingrigito dall'alba. Più vicino, ma già abbastanza lontano, le tremolanti luci di posizione del camion continuavano a ritirarsi. Hixon aveva scelto la via più diretta per allontanarsi dal mare, una via al centro, tra il grande rigonfio di Vandenberg e i primi corrugamenti del terreno che avevano sepolto le automobili, e gli altri avevano seguito il camion. Era stata la cosa più saggia… qualsiasi altro percorso li avrebbe fatti andare, traversalmente, proprio verso le ondate, attraverso una spiaggia ancor più bassa; il guaio era che anche la via centrale non era altro che sabbia e piatto terreno sabbioso, per una lunga distanza… il letto di un fiume in secca.

Dietro di loro, il Vagabondo toccò il bordo dell'oceano. La losanga della luna stava traversando di nuovo la faccia del pianeta. Il pianeta, a sua volta, stava di nuovo mostrando la sua faccia yin-yiang, benché ora apparisse inclinata… Doc, ansimando, pensò, Be', ma così siamo ritornati al principio. Quell'affare ha completato una rotazione… ha un giorno di sei ore. Poi qualcosa di nero e quadrato e dai bordi frastagliati s'innalzò torreggiante, e nascose al suo sguardo il disco del Vagabondo.

Era la piattaforma sulla quale avevano tenuto il simposio sui dischi volanti, sollevata come una piuma dalla seconda delle grandi ondate.

SIX HOURS

SEI ORE

Gli altri avevano ricominciato a correre, ed egli li seguì affannosamente, con tutto il lato sinistro del corpo trafitto da sottili punture, piccoli aghi che gli pungevano il cuore.

Poi… bene, fu come se in un terribile, istantaneo planare il Vagabondo avesse saltato un quarto di milione di miglia nella volta celeste, e si fosse fermato proprio sopra di loro, nascondendo tutto il cielo, a eccezione di un grigio, circolare limite di orizzonte.

Questo fu sufficiente a farli fermare di colpo, malgrado i pallidi orrori che agitavano pugni di relitti che ruggivano verso di loro, risalendo la spiaggia.

Hunter fu il primo a riacquistare il senso della distanza e delle proporzioni, e pensò, Be', ma è semplicemente (mio Dio, semplicemente!) un disco volante, largo dodici metri, fermo grazie a motori antigravitazionali a circa quattro metri da noi, e dipinto con un yin-yang violetto. Poi ricominciò a correre.

La prima, e più piccola, delle grandi ondate li spruzzò di spuma, e gorgogliò intorno a loro, alta fino al ginocchio. Benché la mente e i sensi fossero ancora ipnotizzati dall'oggetto fermo sopra di loro, il corpo reagì a quell'assalto materiale. Si aggrapparono gli uni agli altri, per non cadere; mani bagnate e scivolose toccarono mani bagnate e scivolose, o cinture bagnate, e giacche fradice. Wanda finì sott'acqua, e Wojtowicz si tuffò per ripescarla.

Le unghie di Margo affondarono nel collo di Paul, e lei gli gridò, all'orecchio:

«Miao! Prendi Miao!» muovendo nel contempo la mano. Paul riuscì a scorgere una piccola coda felina e delle orecchie appuntite, che sparivano nella schiuma sporca, e si tuffò follemente dietro di esse, muovendo le mani avanti. Così Paul non vide quello che accadde dopo.

Un portello rosa, largo un metro e mezzo, si aprì come per magia al centro del disco volante, e da esso si sporse, sospesa proprio al di sopra delle loro teste con due arti che terminavano in artigli e una coda prensile appuntita, con il pelo verde e violetto, una…

«Il diavolo!» urlò Ida. «Lei aveva detto che sarebbe venuto il diavolo!»

«Una tigre!» urlò Harry McHeath. Doc udì quelle parole, e la sua mente cominciò a rotolare, come un paio di dadi non truccati, incontrollabilmente, con il pensiero: Mio Dio, la seconda pagina domenicale di Buck Rogers! Gli Uomini-Tigre di Marte!

«Imperatrice!» gridò Bacchetto, piegando le ginocchia fredde; nelle sue narici, insieme al salmastro fetore del mare, sentì l'alito di un profumo celestiale…

Grandi occhi viola dalla pupilla nera li osservarono tutti, rapidamente, eppure dando l'impressione del pigro distacco sdegnoso di uno spettatore.

La seconda, enorme ondata distava meno di trenta iarde, e la piattaforma viaggiava sulla sua cresta, come l'asse del vecchio gioco di scivolare sull'acqua, mentre sedie sparpagliate ballonzolavano tutt'intorno, e dietro di essa stava giungendo anche la casa sulla spiaggia, visione torreggiante che in parte essi si aspettavano.

Una zampa verde si mosse, puntò una grigia pistola dalla canna a punta verso il mare, e la mosse a ventaglio, avanti e indietro.

Non si vide alcun lampo, né bagliore, né segni di sorta, ma la grande onda affondò, schiumò, si dissolse. La piattaforma scivolò su di essa, e si rovesciò di fianco. La casa sulla spiaggia galleggiò verso Vandenberg. Tutta la spuma sfrecciò via, svanita. Si videro le acque gonfiarsi e quietarsi confusamente, un grande vortice alto di là, la spiaggia nuda di qua. L'acqua non arrivava nemmeno alla coscia, e mancava della forza della prima ondata, quando finalmente li raggiunse.

La grigia pistola continuò a muoversi a ventaglio, avanti e indietro, sopra le loro teste.

Un grande soffio di vento passò sopra di loro, dalla terraferma. Doc, in equilibrio precario, cominciò a cadere. Rama Joan era aggrappata a lui.

La testa e le spalle di Paul emersero dalla schiuma. Teneva sulla spalla Miao, fradicia come un topo.

Il vento continuava a soffiare.

L'essere appeso al bordo del portello rosa parve allungarsi, in maniera quasi impossibile, diventando una curva verde a striscie violette che si tendeva verso Paul.

La pistola grigia cadde, e Margo la prese.

Artigli grigi e viola affondarono nella spalla di Paul, e lui e Miao vennero tirati su, da una forza muscolare certamente sovrumana, vennero attirati nel portello rosa. Margo, Doc e Rama Joan, aggrappati gli uni agli altri per non cadere, videro accadere la cosa con estrema chiarezza.

L'essere verde e violetto s'infilò nuovamente nel disco volante, dopo Paul e la gatta.

Poi, senza alcuna transizione visibile, il disco volante si trovò a centinaia di metri di altezza, non più grande della luna, e il portello era un punto pallido.

Margo s'infilò nella giacchetta la pistola grigia.

Il vento che soffiava dalla terra diminuì.

Il punticino svanì, e il disco scomparve.

Poi stavano tutti lottando per risalire, mano nella mano, sulla spiaggia, attraverso acque limacciose, che arrivavano al ginocchio, e venivano risucchiate dal mare.

Bagong Bung, al timone della Machan Lumpur, da poco uscita dalla piccola baia resa accessibile dall'alta marea, a sud di Do-Son, dopo la riuscita consegna di un carico di merci assortite di contrabbando… una consegna riuscita, ma spiacevolmente ritardata… vide il Vagabondo sorgere dall'orizzonte nuvoloso del Golfo del Tonchino, nella giovane notte, nell'istante in cui… a una buona metà del pianeta di distanza… gli studiosi dei dischi volanti, sfuggiti ai tsunami, stavano osservando l'ultima fetta sottile affondare nel Pacifico. Per Bagong Bung, lo yin-yang era un familiare simbolo cinese che egli amava chiamare 'Le Due Balene', ma la luna deformata… verso la quale diresse subito il suo cannocchiale di bronzo… era adesso, per lui, come una grossa borsa di diamanti un po' ingialliti.

Così, per Bagong Bung, il Vagabondo che sorgeva là dove la luna avrebbe dovuto sorgere da sola non fu tanto un'intrusione sconvolgente, bensì una promessa di buona sorte, un incoraggiamento soprannaturale. I diamanti lo fecero pensare ai tesori sommersi nelle navi perdute, sotto il mare poco profondo che lo circondava. Istantaneamente, e irrevocabilmente, egli decise che all'alba di domani, e con l'arrivo della bassa marea, lui avrebbe preso tempo per compiere almeno un'immersione nella nuova posizione che, secondo i suoi calcoli, doveva ospitare il relitto della Sumatra Queen.

«Vieni, Cobber-Hume,» chiamò, attraverso il rugginoso tubo di comunicazione, rivolgendosi al suo ingegnere australiano. «Una grande fortuna per noi. No, non posso dirtelo. Vieni su, vedrai con i tuoi occhi. Oh, vedrai!»

CAPITOLO XIX

Paul Hagbolt affondò in un mare respirabile di calore, di dolci profumi di spezie, e di allegri colori a pastello, dominati dal rosa… benché qua e là si vedessero delle striscie verdi.

Per pochi istanti, egli non ebbe la piena certezza di essere stato trascinato all'interno di un veicolo. Gli parve invece di avere subito un'istantanea traslazione in un altro piano di esistenza, in un altro punto dell'universo… un punto che aveva la calda, quieta e viscosa intimità di una giungla e di un'alcova insieme.

Non aveva visto il disco volante, se non per brevi istanti. Per quasi tutto il tempo in cui esso aveva galleggiato nell'aria sopra il gruppo, egli era stato inginocchiato, respirando acqua salata e soffocando e cercando di afferrare Miao. Quando era stato afferrato e tirato su, dapprima aveva pensato che lui e Miao fossero stati sollevati dall'ondata successiva, e stessero avanzando sulla cresta, come la piattaforma.

Poi erano venuti tre lampi, fuggevoli eppure così vividi da sconvolgere: per prima, una faccia enorme, elegante, verde-purpurea di gatto; poi, due occhi fissi, con incredibili iridi a cinque petali intorno alle nere stelle a cinque punte delle pupille; e poi, una zampa lunga, snella, grande come una mano, con stretti cuscini di pelo indaco e quattro artigli dalla curva crudele, fatti di corno traslucido, grigio e viola… ebbe l'impressione che quegli artigli fossero stati affondati fino a un attimo prima nel colletto della sua giacca, e forse nel suo collo, reggendolo.

Un istante dopo, egli stava galleggiando con una lieve spinta rotatoria in quel mare caldo, zuccheroso, profumato di spezie e chiazzato di verde, dove il rosa dominava.

Un buco nero in quel mare apparve davanti a lui, e attraverso di esso egli vide Margo, affondata fino all'anca nell'acqua sudicia e schiumosa, con in mano qualcosa di grigio e luccicante, con lo sguardo in alto, verso di lui, e accanto a lei vide Doc, macchiato di schiuma, e Rama Joan, sporca di sabbia, con i capelli rosso-dorati bagnati e grondanti e sporchi. Poi quelle immagini rimpicciolirono con incredibile rapidità, come se fosse stato interposto un telescopio alla rovescia. Malgrado ciò, fu in quel momento che Paul cominciò a credere di trovarsi all'interno del disco volante che aveva visto fuggevolmente… il disco volante che ora doveva sfrecciare più veloce di qualsiasi proiettile, benché egli non provasse la minima sensazione di accelerazione. Poi il foro si chiuse su un velo delicatamente rosato… sì, era veramente uno strano fiore rosa.

Una parola si formò nella sua mente: antigravità. Se questo veicolo trasportava un proprio campo di gravità-nulla… e forse anche d'inerzia-nulla… la cosa poteva spiegare il fenomeno dell'assenza di una pressione gravitazionale, e anche il suo galleggiamento, con il corpo grondante acqua salmastra, circondato da gocce rotonde galleggianti di quell'acqua salmastra, nell'aria respirabile e profumata di una stanza rotonda, appiattita, contornata di fiori vivi.

Dei piccoli artigli punsero la sua mano sinistra, come una dozzina di vespe; Miao era terrorizzata dalle strane sensazioni, e offesa dall'acqua di mare, e si aggrappava con eccessivo vigore a lui. Nell'improvviso dolore, Paul scrollò il corpo, scacciando la gattina infuriata, e lei sfrecciò via nell'aria e svanì con uno sbuffo di petali giallo-rosa in un'aiuola sospesa.

Un istante dopo, egli venne afferrato alle spalle, e gettato contro una superficie dura, liscia come il velluto, che misteriosamente doveva essersi trovata tra le aiuole sospese di fiori. La cosa che lo spaventò di più fu che l'arto che gli circondò il collo… un arto snello, forte e agile, coperto di pelo verde a strisce viola… aveva due gomiti.

Con una velocità fulminea, che non gli permise di vedere con chiarezza, la creatura-tigre verde e violetta lavorò sui polsi e le caviglie di Paul, uniti da una forza invincibile. Delle zampe, con piccoli artigli grigio-viola, lo toccarono senza graffiarlo; una volta, avvertì la coda di qualcosa di simile a un serpente. Poi la creatura si allontanò da lui, spiccando un agile balzo nella stanza, e si tuffò in un'aiuola fiorita, per seguire Miao. Una lunga coda verde che finiva in una sfumatura viola, dal pelo liscio e snella e aggraziata, svanì in una grande esplosione di petali.

Cercò di sollevarsi dalla superficie sotto di lui, e scoprì di essere solo in grado di muovere il capo. Benché si trovasse ancora in stato d'imponderabilità, era, in virtù di chissà quale congegno, incollato saldamente alla stessa superficie… come vide con chiarezza ancor maggiore quando guardò direttamente in alto, e vide, a non più di tre metri di altezza, (o sotto di lui, o da un lato… non sapeva come orientarsi, in assenza di gravità) un riflesso a braccia e gambe aperte, come quelle di un'aquila, sporco di sabbia e bagnato come un pulcino, pallido, e con gli occhi allucinati… la sua immagine riflessa, che era rinforzata da una dozzina di sempre più fievoli riflessi dei riflessi dello stesso quadro ridicolo e umiliante.

La forma interna e il motivo decorativo del disco volante gli furono finalmente chiari. Una metà buona dei fiori che lui aveva visto non erano altro che riflessi speculari. Soffitto e pavimento erano rotondi, piatti specchi posti l'uno di fronte all'altro, separati da uno spazio di circa tre metri, e con un diametro di almeno sei metri. Lui era disceso, braccia e gambe in fuori, vicino al centro di uno di essi. Il bordo tra i due specchi era lussureggiante di fiori esotici, dai grandi petali carnosi, fiori grandi e piccoli… giallo pallido, azzurro, viola, magenta, ma soprattutto rosa e rosso tenue. Fiori che parevano vivi, perché c'erano foglie a forma di falce, di spada e di lancia, e si potevano scorgere dei rami nodosi e sinuosi… probabilmente il loro serbatoio idroponico, o qualunque fosse il vaso che li conteneva, doveva riempire la maggior parte del bordo esterno aerodinamico.

Ma quella specie di frittella che era il bordo — divisa da intersezioni in spazi triangolari — non poteva essere interamente piena di vegetazione, perché nascosto tra quel lussureggiante groviglio, oltre i suoi piedi immobilizzati, riuscì ora a scorgere un quadro di comando grigio-argento… comunque, si trattava di una superficie piatta irta di lisce escrescenze d'argento, e tutta ricoperta di forme e figure geometriche. Sforzandosi di girare il capo per quanto gli era possibile, egli poté vedere degli analoghi pannelli oltre ciascuna delle sue braccia aperte, e i tre pannelli erano situati alla stessa altezza, agli apici di un triangolo equilatero idealmente tracciato all'interno del disco volante… ma ciascuno di essi era seminascosto dalla vegetazione… proprio come degli oggetti funzionali ma squallidi sarebbero stati nascosti da un abile arredatore in un piccolo appartamento abitato da una donna stilèe e di spiccato gusto estetico… come un radiatore, un acquaio, un telefono, un giradischi.

L'intera scena era immersa in una luce vivida, calda, che ricordava una spiaggia d'estate, e che veniva da… non riuscì a scoprirne l'origine. Un sole invisibile al chiuso… un effetto spettrale e bizzarro.

Ancor più spettrale e bizzarra, e infinitamente più vicina, fu la sensazione che egli provò subito dopo… e cioè che la sua mente fosse stata invasa, e i suoi ricordi e la sua conoscenza rimescolati e setacciati, come se fossero stati un mazzo di carte. Ricordò futilmente che c'erano dei luoghi comuni, nei quali si diceva che un uomo in procinto di annegare rivivesse in pochi secondi tutta la sua vita, e si domandò se questo si poteva applicare anche nel momento di annegare tra i fiori… o di essere crocifisso da una tigre, che si preparava a squartarlo e a divorarlo.

Le sensazioni che si susseguivano nella sua mente furono così veloci che egli poté captarne solo immagini indistinte e frammenti spezzati. Erano ciò che lui possedeva, i suoi beni privati mentali, eppure era incapace di osservarli uno per uno, mentre passavano alla velocità del lampo e sbiadivano… l'ultima delle umiliazioni! Fu capace di cogliere soltanto alcune immagini, verso la fine di quella 'perquisizione doganale' della mente, e scoprì che la sua mente mostrava una singolare preoccupazione per i giardini zoologici e i balletti classici.

Si guardò intorno, ma non riuscì a scorgere alcun segno della creatura-tigre e di Miao. Il sole invisibile continuava a irradiare una luce spettrale. Le aiuole di fiori erano mortalmente immobili e silenziose, e trasudavano i loro strani, esotici profumi.

Donald Merriam era giunto ormai a metà del suo terzo passaggio nell'ombra del Vagabondo. Alla sua destra c'era il lato notturno dalle strane chiazze verdi, che lo faceva ancora pensare al ventre di un ragno. Davanti a lui c'era uno scaffale di stelle, e alla sua sinistra l'elissoide nero, che si allungava continuamente, della luna, con i cupi filamenti che si alzavano dalla punta e s'intrecciavano nello spazio come i fili di una mostruosa tela di ragno, su quello sfondo dal fitto scintillare. Cominciava a sentirsi stanco, e aveva freddo, e aveva rinunciato a stabilire una comunicazione radio.

Un punto fievole e giallognolo apparve contro l'oscuro disco del Vagabondo, più avanti, vicino allo scaffale di stelle. Rapidamente diventò una goccia giallognola, orizzontale rispetto a lui, poi una doppia virgola con un piccolo spazio nero al centro, come i nuovi fari d'automobile fluorescenti che erano così di moda, infine diventò una coppia di fusi gialli, che aumentava continuamente di dimensioni.

Soltanto allora Don si accorse che quello non era un nuovo aspetto della superficie del Vagabondo, ma una cosa materiale… o due cose… che si dirigevano direttamente sul Baba Yaga. Trasalì, e batté le palpebre, e un istante dopo, senza alcuna decelerazione graduale che egli potesse notare, i due fusi gialli si erano immobilizzati ai due lati del Baba Yaga, e così vicini che la cornice dello schermo visore tagliava nettamente l'estremità esterna di ciascuno fuso.

Ora gli sembravano due vascelli spaziali a forma di disco, tra i nove e i quindici metri di larghezza, e con uno spessore di tre o quattro metri. Per lo meno, egli ebbe la speranza che si trattasse di veicoli cosmici… e non, non… animali.

La sommaria valutazione della loro forma venne confermata quando, senza alcun lampeggiare visibile di razzi stabilizzatori, essi s'inclinarono verso di lui e diventarono due circoli gialli, uno con un triangolo violetto dipinto su di esso, l'altro con una V violetta, le cui barrette si stendevano dal centro al bordo.

Poi egli sentì una lieve pressione sul corpo rivestito dalla tuta spaziale, mentre il Baba Yaga veniva attirato irresistibilmente tra le sue scorte… era così che cominciava a considerarle… fino a quando solo i margini inferiori del loro bordo apparvero sullo schermo. Da quel momento in poi, essi mantennero con esattezza la posizione… come se si fossero ancorati alla sua piccola astronave lunare… e anche al suo corpo, gli parve d'intuire, anche se la sensazione era veramente bizzarra.

La cosa successiva che egli notò fu che le pallide macchie verdognole stavano discendendo lentamente, lungo la curva nera del Vagabondo, strisciando come se fossero state cimici fosforescenti!

Poi vide che lo scaffale di stelle si stava allargando, mano a mano che il nero elissoide della luna si allontanava.

Stando a tutte le indicazioni, il Baba Yaga veniva attirato dai dischi volanti che costituivano la sua scorta, veniva attirato in alto, a una velocità di circa cento miglia al secondo. Eppure lui non aveva avvertito neppure un atomo, delle forze gravitazionali che avrebbero dovuto schiacciarlo contro la parete, o addirittura fargliela sfondare.

Non c'era stato un solo momento, nelle ultime ore, neppure durante la bizzarra traversata della Luna, nel quale Don avesse pensato, Questa deve essere un'allucinazione. Lo pensò allora. L'accelerazione, e il prezzo che si pagava, per ottenerla, in carburante e in pressione di gravità, erano il nucleo delle sue conoscenze tecniche. Ciò che ora stava accadendo al suo corpo e al Baba Yaga non era semplicemente una mostruosa intrusione dell'ignoto, ma era una palese, totale contraddizione di tutto ciò che lui sapeva sul volo spaziale e sulle sue ferree limitazioni. Da cinque miglia al secondo, rispetto al Vagabondo, a cento miglia al secondo, ad angolo retto rispetto alla rotta precedente, eppure senza avvertire minimamente il cambiamento, senza neppure un indizio dell'accensione di qualche reattore principale, più abbagliante ed esplosivo di una stella azzurra… questo non era soltanto misterioso e soprannaturale, era del tutto impossibile!

Eppure le macchie verdi continuavano a inabissarsi, scendendo per la curva del pianeta, e il grande scaffale colmo di stelle si allargava, in alto, e d'un tratto il Baba Yaga si trovò nella luce del sole, sopra il Vagabondo. I raggi riflessi colpirono i suoi occhi dolorosamente, come pugnalate, dalla parte sinistra dello schermo, e dal bordo giallo della sua scorta di sinistra. Chiuse subito gli occhi, cercò a tentoni gli occhiali polarizzati, li infilò, aprì gli occhi di nuovo, e guardò.

Il Baba Yaga, saldamente ancorato alle sue scorte, stava ancora salendo nel cielo intorno al Vagabondo, a velocità fantastica. Lo schermo s'inclinò un poco a destra, e, guardando al di sopra della sommità curva del pianeta, Don poté vedere la Terra, la cui faccia mostrava principalmente l'Oceano Pacifico, ora, e l'iroso sole bianco e abbacinante, che riusciva a ferirgli gli occhi benché lui indossasse gli occhiali polarizzati.

La superficie del pianeta, sotto di lui, era immersa nella notte, poi apparve una falce della faccia illuminata, quasi tutta gialla, ma con il bordo superiore colorato di violetto.

Intrecciati nello spazio, sopra e tutt'intorno a lui, su uno sfondo sfolgorante di stelle, c'erano i sottili filamenti bianchi che uscivano dalla punta della Luna. Due erano più grossi, ora… non erano più filamenti, ma funi.

Avanti, i filamenti convergevano e scendevano in una grande curva verso il polo nord del Vagabondo. Là, vicinissimi ma sempre separati, essi parevano semplicemente unirsi alla superficie vellutata del pianeta, alcuni sulla faccia illuminata, altri sulla faccia buia, in tutto una dozzina, non di più. Visti così essi avevano l'aspetto di viticci misteriosi, senza foglie, che spuntavano dalla sommità del Vagabondo. Il Baba Yaga e le sue scorte stavano sfrecciando come palle di cannone verso lo stesso punto.

Poi, nell'attimo in cui parve che tra una frazione di secondo essi avrebbero oltrepassato le corde sempre più grosse, o si sarebbero scontrati con esse, le più incrollabili convinzioni di Don intorno al volo spaziale furono nuovamente frantumate, quando il Baba Yaga e i due dischi di scorta persero quasi tutta la loro velocità in una frazione di secondo, senza alcuna transizione apparente, e simultaneamente precipitarono verticalmente verso il luogo nero e giallo ove i viticci avevano le loro radici.

C'erano due ipotesi: o i dischi volanti che costituivano la sua scorta possedevao il motore antigravitazionale del quale tutti ridevano, a eccezione degli scrittori di fantascienza, e stavano trasportando il Baba Yaga nel loro campo di gravità-nulla, o lui aveva le allucinazioni, oppure…

Si voltò verso il quadro di comando, e cercò di ottenere un segnale radar dalla superficie sottostante. Con sua sorpresa, il segnale ritornò immediatamente.

Si trovavano a trecentoventi miglia dalla superficie, e stavano scendendo a una velocità di dieci miglia al secondo.

Automaticamente, toccò i comandi dei razzi stabilizzatori, per invertire la posizione del Baba Yaga, per poi essere in grado di frenare la caduta con quel poco di combustibile che gli era rimasto.

I razzi stabilizzatori non fecero spostare di un millimetro il Baba Yaga. Lo schermo continuò a mostrare la superficie del pianeta, in basso. E solo in quel momento Don notò che stavano scendendo come piume, parallelamente alla parte illuminata di uno dei filamenti che erano diventate corde, e poi grandi liane. Ora quel 'filamento' pareva enorme, dello spessore di almeno un miglio, e la sua pallida estensione riempiva un quarto dello schermo.

Ma con un fantastico gioco di prospettiva, come una colonna di Frank Lloyd Wright ancor più esagerata, enorme verso il tetto, sottilissima verso il pavimento, il cavo-peduncolo-liana si restringeva fin quasi a diventare un punticino, dove incontrava la faccia notturna del pianeta, in un punto vicinissimo alla linea dell'aurora.

E guardando la superficie di quella strana colonna, così da vicino, vide che non era affatto levigata, ma si trattava di una sorta di sostanza liscia piena di pezzi e massi dai contorni frastagliati, di ogni dimensione e di ogni folle angolazione… certamente la mescolanza di polvere lunare e roccia lunare che lui stesso aveva immaginato venisse risucchiata dal grande vortice sulla punta della luna.

Le rocce si muovevano lentamente, verso il basso, scendendo come un treno di poco più veloce su un binario parallelo… e l'impressione che ne ebbe Don fu questa.

Ma la cosa voleva dire che l'intera colonna stava precipitando alla medesima velocità del Baba Yaga… dieci miglia al secondo. Perché non si frangeva in un gigantesco scoppio di roccia, nel punto in cui colpiva il Vagabondo?

Improvvisamente, le rocce nella grande colonna cominciarono a cadere come fulmini, acquistando contorni irreali, diventando una scia indistinta e levigata per l'enorme velocità… proprio come se il treno del binario accanto avesse cambiato marcia, trasformandosi in un super-rapido.

La colonna aveva accelerato, oppure…

Un veloce controllo radar gli mostrò che la quota del Baba Yaga e della sua scorta era diminuita a trenta miglia, ma che la velocità di discesa era adesso di un solo miglio al secondo.

Allora la seconda ipotesi era giusta: loro avevano rallentato.

Il radar indicava però che non stavano rallentando ulteriormente. Il tempo era sempre più scarso, e lui utilizzò gli ultimi venti secondi per effettuare una ricognizione radar della superficie sottostante, cercando di ricavare qualche rilievo. Ma non ce n'erano… non c'erano luci sulla fascia oscura, c'era soltanto una pianura di velluto color limone, sulla faccia illuminata. La colonna di polvere e roccia lunare continuava a precipitare, e conservava la sua enorme ampiezza.

Stavano calando, ora, verso la zona d'ombra del Vagabondo. Don si tolse gli occhiali. I bordi dei dischi volanti mostrarono la stessa fosforescenza giallognola che avevano mostrato dietro il pianeta. Per un istante, gli parve di vederli riflessi lividamente sulla nera superficie sottostante. Si preparò allo schianto, e alla morte.

Poi, d'un tratto, la fosca superficie non era più là, e, come se il Baba Yaga e la sua scorta fossero penetrati per magia attraverso il soffitto di una gigantesca sala illuminata, egli si ritrovò a fissare un'altra superficie, molto, molto più in basso.

Non c'era dubbio che fosse molto più in basso, perché la colonna di roccia lunare, che appariva enorme alla sommità, si restringeva fin quasi a un punto laggiù, e veniva trasformata, da quel fantastico gioco prospettico, in un bizzarro triangolo di roccia lunare.

Pareva logico fare almeno una supposizione. Tutta la superficie del Vagabondo che lui aveva visto fino a quel momento… la superficie che aveva riflesso la luce del sole e le onde radar con tanta fedeltà… la superficie che era stata gialla e violetta sulla faccia diurna, nera con macchie verdi fosforescenti sulla faccia notturna… non era nulla di più di un involucro, una pellicola così sottile e priva di sostanza che un'astronave fragile come il Baba Yaga poteva attraversarla, alla velocità di un miglio al secondo, senza subire il minimo effetto, né urti, né danni, una pellicola che formava il tetto e lo schermo di tutta la luce artificiale e della vera vita del Vagabondo, una pellicola tesa ovunque, a circa venti miglia di altezza dalla vera superficie del pianeta… se quella che lui stava guardando, ora, era la vera superficie, e non qualche nuova illusione.

Si trattava della vera superficie, se la complessità e tutte le apparenze di solidità potevano essere ancora dei validi criteri di valutazione. Sotto di lui, visibile in tutto lo schermo visore, si stendeva una pianura immensa, immersa in una luce dolce, che scintillava di laghi, o per lo meno di lisce macchie turchesi di qualche tipo, una pianura bucherellata da cupi pozzi circolari che scintillavano sul fondo, larghi un miglio e più, una pianura che a parte questi elementi era gremita di tutti i tipi di oggetti massicci, di tutti i colori e di tutte le solide forme geometriche immaginabili… coni, cubi, cilindri, eliche, emisferi, siqurrat, prismi… nessun oggetto che Don potesse riconoscere, se non come astrazione.

Giganteschi edifici, macchine, veicoli, pure forme artistiche? Avrebbero potuto essere qualsiasi cosa.

Diversi confronti balenarono nella sua mente. L'arte giapponese di disporre secondo schemi preordinati le rocce, su scala gigantesca. Le copertine dei romanzi di fantascienza, del tipo che mostra un pavimento piatto e infinito, coperto di sculture astratte che hanno un aspetto per metà vivo.

Poi i suoi pensieri affondarono in profondità, nel confuso abisso di ricordi e falsi ricordi della prima infanzia, ed egli ricordò quando lo avevano accompagnato a fare visita a sua nonna, a Minneapolis… l'acido, secco odore del grande soggiorno dal soffitto alto, e poi quando lo avevano portato su, a vedere… non a toccare… gli sportelli di uno scaffale portaninnoli, coperto da ciò che, in seguito, aveva cercato di ricostruire… conchiglie, monete cinesi, fermacarte, lucidi campioni di minerali, fiori di plastica… innocenti soprammobili che erano stati totalmente sconosciuti e infinitamente affascinanti per il piccolo Don Merriam, benché gli fossero apparsi privi di senso.

Adesso lui era tornato bambino.

Qua e là, tra lui e la pianura, benché non direttamente sotto, galleggiavano nubi piccole e scure, dai contorni irregolari e dalle molte forme; ciascuna reggeva, come se fosse stata un nido per uova di arcobaleno, un grappolo di grandi globi lucenti, che lanciavano in alto fasci di luce di tutti i colori e di tutte le sfumature.

Quelle nubi gli vennero incontro e furono dietro di lui, una dopo l'altra, ricordandogli che il Baba Yaga, la cui velocità era diminuita di poco, si stava avvicinando sempre più alla bizzarra superficie. Per lo strano effetto della discesa, la pianura parve gonfiarsi, sotto di lui, e venirgli incontro, mentre le aliene forme geometriche ingigantivano, aumentando la loro strana e non identificabile bellezza. Ma non aveva più paura… tutta la paura era finita quando aveva toccato la pellicola protettiva del pianeta, e ora si sentiva esausto.

Il Baba Yaga e la sua scorta erano diretti verso un punto a metà strada tra due dei grandi pozzi, che giacevano così vicini l'uno dall'altro che dapprima parvero toccarsi tangenzialmente. La colonna di roccia affondava in uno di quei pozzi. L'altro pozzo mostrava lo scintillio corrusco che pareva caratteristico di tutti i pozzi aperti.

Infine il margine tra i pozzi acquistò un'ampiezza, diventò un nastro d'argento. Uno dei dischi di scorta parve incastonarsi nella colonna di roccia che precipitava, tanto si trovava vicino a essa.

Un istante dopo, senza una scossa, senza neppure un fremito, e con tutta l'impossibile sensazione di volare nel sogno, il Baba Yaga si arrestò completamente, a non più di quattro metri da una piatta superficie di argento opaco… così vicino a essa, anzi, che Don poté distinguere dei disegni incisi sulla superficie: un arabesco spiraleggiante d'incredibile complessità, con fasce e fasce di geroglifici.

Ancora senza peso, egli galleggiò sopra lo schermo, e guardò in basso, sentendosi come un pesce che guardasse da un vetro sistemato sul fondo dell'acquario.

Poi, come se dei razzi stabilizzatori fossero stati azionati, o come se una mano gigantesca lo avesse afferrato, il Baba Yaga cominciò a capovolgersi. Don si aggrappò al sedile di pilotaggio, per non perdere l'equilibrio.

Il movimento s'interruppe a metà, nel momento in cui il motore principale dell'astronave doveva essere puntato contro la superficie sottostante. Allora, gradualmente, un campo gravitazionale cominciò a prendere lui e l'astronave. Udì tre tonfi sommessi, e simultaneamente avvertì tre piccole scosse, mentre i tre piedi dell'astronave si posavano al suolo. Strinse con forza maggiore il sedile, mentre il peso del suo corpo aumentava, fino a quando, almeno da quel che lui poteva giudicare dopo avere trascorso un mese sulla Luna, ritornò più o meno quello che era stato sulla Terra. Allora il suo peso smise di crescere.

Ma egli notò queste cose con una piccola frazione della mente soltanto, perché quasi tutta la sua attenzione era assorbita dalla vista che ora lo schermo gli forniva del cielo del Vagabondo… l'altra parte della pellicola attraverso la quale egli era passato, circa quaranta secondi prima.

Tra lui e il 'cielo', le piccole nubi nere… ora più scure, poiché non poteva più vedere le uova luminose delle quali erano il nido… navigavano con lenta determinazione, proprio come le piccole nubi si muovono sopra i deserti del Sud-Ovest americano, spinte da un vento costante di ponente, senza versare una sola goccia del loro carico di pioggia. La lenta processione non oscurava mai più di un ottavo del cielo. Né la precipitosa colonna di roccia, che ora rimpiccioliva in alto, fino a toccare il cielo ridotta a un punto, grande triangolo rovesciato, oscurava più di un ottavo del cielo.

E quel cielo non era né viola né giallo, né c'erano regioni nere, né vi apparivano delle stelle. Si trattava invece di un lento turbinare di tutti i colori cupi, un fosco arcobaleno tempestoso, un cielo che turbinava di mille prismi, mutando continuamente, descrivendo sfumature sempre mutevoli, e immensi disegni curvi. Aveva l'armonia, la grandezza e la minaccia di una perpetua sinfonia cromatica, eppure esso sembrava naturale, pareva promettere infinite variazioni vitali. Don non riuscì a capire se fosse il cielo a produrre quella luce, o se essa venisse dai globi annidati tra le nubi, ora nascosti, o da qualche altra fonte indiretta. Quel cielo ricordava in parte la marmorizzazione di una pellicola d'olio sull'acqua, e in parte le folli tele di Van Gogh, come La Notte stellata, e ricordava ancor più le sfumature profonde, riverberanti che scorrono maestose davanti agli occhi della mente, nel buio.

Mentre egli stava pensando a questo, un ultimo pensiero che pareva metterlo all'interno di qualche mente immensa, udì un lieve suono raschiante, che gli fece scorrere un brivido gelido in tutto il corpo. Abbassò lo sguardo, appena in tempo per vedere l'ultimo bullone del portello aprirsi da solo, e il portello sollevarsi senza alcuna causa visibile. Lo spazio aperto gli rivelava ora la scaletta vuota, che usciva dal suo involucro e si posava sul vuoto pavimento d'argento sottostante.

Poi una voce, stranamente dolce e carezzevole, lo chiamò, parlando in inglese perfetto, con un accento solo lievemente straniero:

«Vieni! togliti lo scafandro e scendi!»

Australia, Indonesia, Filippine, Giappone e le parti orientali di Siberia e Cina erano ormai entrate nel lato notturno della Terra. Il Vagabondo, frequentemente apparso nella sua forma di yin-yang o mandala, fece vibrare delle corde religiose e mistiche in milioni di menti. E le voci dell'Asia Orientale si unirono a quelle americane, per avvertire il grappolo di continenti vecchi e scettici dell'occidente… il cuore culturale del mondo… di quanto avrebbero visto, non appena fosse caduta la notte.

CAPITOLO XX

Paul Hagbolt era stanco oltre ogni sopportazione della sua posizione e della sua immobilità, e particolarmente della sua immagine riflessa, a braccia e gambe allargate, e il sole invisibile aveva asciugato completamente il davanti del suo corpo, quando riuscì a vedere due facce feline nascoste che lo osservavano, da un punto dell'aiuola fiorita accanto al pannello di comando che si trovava al di là dei suoi piedi. La prima era quella di Miao, la seconda era grande come quella di Paul. Si fecero avanti, galleggiando, dall'oscurità colorata, e i loro corpi, dopo quei visi, avevano una grazia sinuosa che non fece tremare neppure un petalo roseo o uno stelo verde… e poi, senza degnare Paul di un'altra occhiata, si sistemarono comodamente nell'aria, l'una di fronte all'altra, tanto che Paul poté vedere quelle figure di profilo.

La creatura-tigre sistemò Miao di fronte a lei, tenendo la gattina grigia rannicchiata su una zampa tesa e l'avambraccio secondario snello e sottile e verde… Paul si rese conto che il secondo gomito, che lo aveva terrorizzato, era semplicemente il normale polso felino, sopra le allungate ossa del palmo che formavano un avambraccio secondario sopra la zampa.

Il pelo di Miao era asciutto, ora, soffice e lucido, e la gattina si dondolava, incredibilmente a suo agio, avvolgendo la coda grigia intorno al polso a strisce violette, fissando con aria grave e pensierosa i grandi occhi della sua catturatrice… o piuttosto, della sua nuova amica, a giudicare dalle apparenze.

Avevano incredibilmente l'aspetto di una madre e di una bambina piccola.

I sentimenti di Paul verso la creatura-tigre, l'immagine stessa che aveva di lei, subirono dei rapidi cambiamenti, ora che poteva osservarla in posizione rilassata… questa volta la giudicò per la prima volta femmina, basandosi sull'apparente assenza di organi sessuali esterni, a parte due piccole mammelle sistemate in alto, nella verde pelliccia del suo petto.

Per essere una felina, aveva il corpo piccolo, le gambe e le braccia lunghe… come struttura, più simile a un leopardo indiano che a qualsiasi altro felino terrestre, benché di dimensioni considerevolmente maggiori: dimensioni umane. Le proporzioni generali, inoltre, erano più umane che feline… immaginò che, in una gravità normale, sarebbe stata sia bipede che quadrupede.

Il pelo della gola, del petto, del ventre, e della parte interna delle braccia e delle gambe era verde, tutto il resto era verde a strisce violette.

La testa aveva le orecchie aguzze di tutti i felini, ma c'era una fronte più alta e più ampia, che pareva aumentare la triangolarità dell'intero viso, che non era, ugualmente, del tutto felino, anche nel naso a bottone indaco e nei pallidi, sottilissimi baffi. Sul viso… era impossibile chiamarlo muso, e Paul non vi pensò neppure… il pelo era violetto, a eccezione di una sorta di maschera verde intorno agli occhi.

Malgrado l'avambraccio secondario sopra di esse, le zampe sottili avevano l'aspetto di vere mani… mani con tre dita, e con un pollice opponibile. Gli artigli erano invisibili, presumibilmente ritirati e nascosti nel naturale involucro della zampa.

La coda verde a strisce viola s'incurvava sinuosa e graziosamente intorno a una zampa posteriore piegata in parte.

L'effetto generale, si accorse d'un tratto… perfino la coda!… era adesso molto simile a quello di una donna alta e slanciata, vestita di un costume aderentissimo di pelo, abbigliata per chissà quale fantastico balletto felino. Provò una stretta di turbamento al cuore, quando ebbe quel pensiero.

E proprio in quel momento, la donna-tigre cominciò a parlare in inglese… un po' esitante, mozzo, e con un accento esotico, ma ugualmente inglese… non rivolgendo le sue parole a lui, bensì a Miao.

Era tutto così «impossibile,» che Paul ascoltò, come se fosse stato un sogno.

«Vieni, piccola,» diceva la donna-tigre, schiudendo, come per dare un bacio, la parte centrale delle sue labbra color fragola. «Adesso noi amiche. Non devi essere più timida.»

Miao continuò a osservarla con aria grave, e soddisfatta.

«Tu e io uguali,» continuò la donna-tigre, più affascinante che mai. «Tu comoda ora, sento. Così parla. Fai domande.»

Una pausa, e Paul cominciò a intuire il fantastico equivoco che aveva cominciato a manifestarsi… poi la donna-tigre disse:

«Tu così timida! Vuoi nomi? Io conosco il tuo. Il mio?… Tigerishka! Nome speciale, che invento per te. Tu mi pensi terribile tigre, e anche bella danzatrice sulle punte. Danzatrici sulle punte si chiamano, '-enska, -skaya, -ishka'. Tigerishka!»

Allora Paul capì. Era il super-errore di una super-creatura. Tigerishka aveva letto i suoi pensieri, riuscendo a imparare la sua lingua in pochi secondi, ma per tutto il tempo aveva attribuito quei pensieri alla sua simile, alla piccola felina Miao.

Nello stesso tempo, si rese conto di quale fosse stata la natura della stretta di turbamento che aveva provato: puro desiderio maschile, per una femmina eccitante e attraente.

Tigerishka doveva avere colto anche quel pensiero, perché agitò un dito dal pelo indaco davanti a Miao, in uno scherzoso segno di rimprovero, e disse:

«Tu hai dei sentimenti impertinenti per me, piccola. Davvero, tu non abbastanza grande… e noi entrambe ragazze! Andiamo, ora, parla… Paul…»

In quel momento, la verità, presumibilmente orribile, dovette balenare nella mente di Tigerishka, poiché lei girò lentamente la testa per fissare attonita il vero Paul, appoggiando simultaneamente una zampa sul bordo del pavimento, sotto di lei. Un istante dopo, lei aveva spiccato un gran balzo attraverso la cabina, ed era sopra di lui, con gli artigli sfoderati, le labbra rosse che scoprivano i canini affilati, in un ringhio silenzioso. Stringeva ancora Miao, che non pareva eccessivamente stupita da quell'improvvisa attività.

Al di là della spalla verde apparivano le immagini riflesse del dorso di Tigerishka e del viso di Paul, contratto in una folle smorfia.

«Tu… scimmia!» ringhiò Tigerishka. Abbassò ancora la testa, e Paul chiuse gli occhi per un istante. Poi, separando bene le parole, come ci si sarebbe rivolti a un contadino analfabeta, lei disse, «Tu tratti… piccola… come bestia… come animale domestico?» L'inorridito disprezzo dell'ultima parola era una mescolanza di ghiacciaio e di vulcano.

Tutto quello che Paul poté fare, in quel momento di frenetico terrore, fu di ricordare qualcosa che Margo diceva sempre, e balbettare:

«No! No! I gatti sono persone!»

Don Merriam era stato sull'orlo del Grand Canyon, sulla Terra. Aveva anche guardato dal bordo di Leibnitz, vicino al polo sud della Luna. Eppure mai… se non quando aveva attraversato la Luna a bordo del Baba Yaga… certamente mai da un punto d'appoggio solido, egli aveva guardato dall'alto qualcosa di tanto remoto e profondo come il pozzo circolare aperto, largo un miglio, che si spalancava a meno di una ventina di passi nel suolo d'argento sul quale era posato il Baga Yaga, con la scaletta calata tra i tre piedi di supporto.

Quanto era profondo il pozzo? Cinque miglia? Venticinque? Cinquecento? Pareva mantenere la sua larghezza di un miglio all'infinito. L'equivalente, in vuoto, di ciò che la colonna di roccia lunare era in solidità, si restringeva mano a mano, nei recessi dell'abisso, in un piccolo cerchio nebuloso, che era poco più di un punto… e quell'effetto era soltanto la conseguenza delle leggi della prospettiva, e delle limitazioni delle sue facoltà di visione.

Accarezzò per qualche istante l'idea che il pozzo attraversasse l'intero pianeta, passando per il centro e terminando dall'altra parte; così, se lui si fosse gettato in quell'abisso, non avrebbe mai toccato il fondo, ma sarebbe caduto per quattromila miglia, o più… una caduta estenuante, quella, che avrebbe richiesto almeno venti ore, se le velocità nell'atmosfera di quel pianeta erano equivalenti a quelle della Terra, un periodo che lo avrebbe fatto quasi morire di sete… e poi, finalmente, forse dopo una serie di cadute e ricadute, come un pendolo mostruoso, si sarebbe fermato nell'aria, al centro del pianeta, nuotando poi lentamente fino al bordo del pozzo, proprio come aveva nuotato nell'aria del Baba Yaga, in caduta libera.

Naturalmente la pressione, laggiù, a quattromila miglia di profondità, sarebbe stata più che sufficiente a schiacciarlo… ma loro dovevano avere anche il metodo per risolvere quel problema, dovevano avere il metodo per rendere l'aria sottile o densa come volevano, a qualsiasi profondità. Stava già pensando nei termini del loro potere, della loro scienza, della loro volontà… un potere che aumentava ogni volta che lui girava il capo, ogni volta che pensava, benché non avesse ancora visto uno solo di loro.

Il falso ricordo della sua infanzia ritornò, il ricordo del pozzo che attraversava la terra, e che lui aveva trovato dietro la fattoria dei genitori. Così, in quel momento, guardò in fondo al pozzo, cercando di cogliere lo scintillio di una stella, o meglio per cogliere il riverbero del giorno degli antipodi, prigioniero là in fondo, sotto la sua sezione della pellicola curva che era il cielo, a ottomila miglia da lui. Ma nello stesso istante in cui guardava, si rendeva conto che era impossibile vedere a tale distanza, e che in ogni caso l'impresa sarebbe stata irrealizzabile a causa della moltitudine di luci che lampeggiavano, scintillavano, e ammiccavano sui lati del pozzo, a ogni piano.

Perché la caratteristica più strana e innaturale del pozzo era, semplicemente, che esso era innaturale, non un fenomeno fisico o un pozzo scavato nella solida roccia… anzi, non si vedeva alcun segno di roccia, in giro… ma una serie di piani, piani e piani senza fine, verso il fondo, piani di struttura artificiale, e di volume interno abitabile. I piani cominciavano dopo trenta metri circa di nuda parete, e da quella profondità non si interrompevano più.

Riuscì a contarne centinaia e centinaia, ci riuscì con sicurezza, prima che essi cominciassero a fondersi e a confondersi, e anche questo solo per colpa dell'inadeguatezza della sua vista. Eppure, giudicando da quelli vicini alla sommità, erano piani altissimi, spaziosi, che suggerivano l'esistenza di una vita di grandezza e prospettiva più che umane, benché la sua mente si ritraesse inorridita, pervasa da un senso di claustrofobia, dalla soffocante immagine di un simile abisso di stanze e corridoi all'infinito.

L'unico paragone che egli poté trovare nella sua memoria… e si trattava di paragoni del tutto inadeguati… era quello dei cortili interni, ripiani e ripiani di terrazze e piccoli balconi, di certi enormi grattacieli adibiti a uffici, o forse l'immenso pozzo illuminato che si apriva tra gli scaffali di chissà quale titanica biblioteca per microfilm.

In basso, ora, molto in basso, gli parve di vedere dei piccoli aerei che spiraleggiavano nel pozzo, come pigri insetti, e alcuni di questi apparecchi parevano scintillare a loro volta, come i coleotteri fosforescenti dei tropici.

Nel suo desiderio di guardare più profondamente nel pozzo, si sporse un poco, aggrappandosi disperatamente, con le mani nude, alla balaustra d'argento liscia come velluto che lo recintava. Anche quella semplice caratteristica dell'ambiente era innaturale e indicativa del loro potere, perché la balaustra non aveva alcun supporto. Era fatta di due anelli ampi un miglio, di argento e sottili, sospesi a mezzo metro e a un metro sopra il margine del pozzo. O, se esistevano dei supporti invisibili, lui non ne aveva ancora toccato uno, né urtato col piede. Poteva vedere soltanto duecento, trecento metri degli anelli, sia nell'una che nell'altra direzione; più avanti, essi svanivano, come fili del telegrafo. In ogni caso, pareva una supposizione logica pensare che descrivessero un circolo completo.

Ma con tanti segni della loro presenza là in fondo, e con le prove della loro maestria tecnica ovunque, della loro scienza e della loro tecnologia, così vicine alla magia… dov'erano loro? Perché lo avevano lasciato solo per tanto tempo?

Voltò la schiena al pozzo, e si guardò intorno, inquieto, ma sul pavimento d'argento e tra le costruzioni geometriche lisce, senza aperture, che si sollevano da quella strana pianura, egli non riuscì a scorgere una figura vivente, né qualsiasi figura che egli potesse giudicare viva… umanoide, animale, o altro.

I due dischi volanti gialli e violetti, dal rigonfio centrale, erano ancora sospesi, enigmatici e silenziosi, a circa quattro metri di altezza dalla pianura d'argento, proprio come quando li aveva visti per l'ultima volta, e il Baba Yaga stava eretto in mezzo a loro, esattamente come lui l'aveva lasciato. Non era accaduto altro, fino a quel momento; quando la voce lo aveva chiamato, parlando in un inglese un po' esitante, con un accento singolarmente eccitante, lui si era spogliato dello scafandro, obbediente, quasi con ansia, ed era rapidamente sceso dal Baba Yaga, ma non aveva trovato nessuno. Dopo avere aspettato alcuni minuti ai piedi della scaletta, aveva camminato fino al bordo del pozzo, ed era rimasto affascinato.

Ora cominciava a domandarsi se per caso la voce non fosse stata un'illusione. Era irragionevole pensare che un alieno fosse capace di parlare in inglese, senza un contatto preliminare. Oppure no? I loro poteri…

Fece un profondo sospiro. Per lo meno, l'aria pareva sufficientemente reale.

Il silenzio era profondo, tranne quando lui restava immobile e si rilassava, e chiudeva gli occhi e respirava piano; allora gli pareva di udire il più sommesso, lontano, profondo dei ronzii. Il sangue di quello strano pianeta che scorreva? O soltanto il suo sangue? O forse il ronzio poteva giungere dalla colonna di roccia lunare che precipitava nell'altro pozzo, non più lontano dal Baba Yaga e dai dischi volanti sospesi di quanto lui si fosse allontanato dall'altra parte.

La grigia colonna, che occupava un terzo del suo orizzonte, ma saliva restringendosi fin quasi a diventare un punto, là dove si stendeva la pellicola di cielo, pareva a un primo sguardo come una solida montagna; solo che lui sapeva la verità… sapeva che essa stava precipitando costantemente dallo spazio, a una velocità sufficiente a rendere individualmente invisibili le particelle e i frammenti che la componevano… presumibilmente, la medesima velocità di dieci miglia al secondo che lui aveva dedotto sopra la pellicola che copriva come un tetto quella strana atmosfera.

Guardando quella colonna, poté vedere finalmente dei lievissimi mutamenti, nei suoi contorni… dei rigonfi e delle rientranze, che si formavano lentamente e conservavano la loro forma per molti secondi, e poi si spostavano in qualche altra sagoma uniforme. Questo gli ricordò i rigonfi e le scanalature grottesche che potevano essere assunti dai getti d'acqua di un rubinetto… a volte, con tale persistenza che la forma appariva di solido cristallo, e non di acqua corrente.

Ma com'era possibile che la colonna si muovesse a una velocità supersonica simile… due secondi, dal cielo alla pianura!… attraverso l'aria… l'aria che doveva esserci, ne era sicuro, per l'incontestabile prova che lui la stava respirando… com'era possibile che questo accadesse senza creare una rabbiosa e tumultuosa tempesta di polvere, di correnti nell'aria, senza un ruggito tremendo come l'esplosione di una dozzina di primi stadi di missili, o una decina di cascate del Niagara?

Loro dovevano servirsi, forse, chissà come, di un campo sconosciuto, dovevano avere creato un condotto a vuoto assoluto privo di pareti visibili, proprio come avevano creato… ora che ci pensava… dei condotti a vuoto analoghi per il Baba Yaga e la sua scorta, onde compiere il tragitto dell'atmosfera… e, ancor prima, attraverso il plasma sottile e le correnti di micrometeoriti dello spazio.

Continuò a fissare, in alto, la grigia colonna misteriosamente assottigliantesi. Per quanto tempo avrebbe potuto continuare quel mostruoso trasferimento di materia? Per quanto tempo avrebbe potuto durare la luna, anche sotto forma di un elissoide di pallido pietrisco che si allargava in un anello, a quella velocità di prelievo? Per quanto tempo sarebbe rimasto del materiale lunare nello spazio, al di fuori del Vagabondo?

Dal settore del suo cervello addestrato nelle scienze matematiche, nell'ingegneria e nella geometria solida, scaturì quasi immediatamente la prima risposta approssimativa, e cioè che ci sarebbero voluti ottomila giorni perché una fiumana di roccia come quella, muovendosi a una velocità di dieci miglia al secondo, trasportasse sul Vagabondo l'intera sostanza della Luna. E aveva visto soltanto una dozzina delle grandi correnti di roccia.

Ma loro avrebbero potuto accelerare le correnti, e avrebbe potuto esserci un altro gruppo al polo sud del Vagabondo, e in quello stesso istante altri gruppi potevano essere creati. Distogliendo lo sguardo dalla colonna, riuscì a scorgerne almeno altre tre, in lontananza; sembravano grandi fontane grige, che s'incurvavano salendo verso il cielo.

Il cielo era adesso una sinfonia di colori cupi, azzurro e verde e bruno, e ruotava lentamente trasformandosi in un grande fiume dai contorni confusi, austero e minaccioso. Abbassò lo sguardo, fissando le costruzioni più pallide che inanellavano la vuota pianura d'argento, tranne che nei luoghi in cui si aprivano i pozzi; lasciò spaziare il suo sguardo sui circoli di quei solidi mostruosi, lisci, multiformi, colorati, e gli parve che alcuni dei più lontani avessero cambiato posizione e forma… e in qualche caso si fossero avvicinati… da quando li aveva osservati per l'ultima volta.

Il concetto di grandi edifici… o qualunque altra cosa fossero… che si muovevano qua e là, quando non c'era altro segno di vita, lo turbò enormemente, ed egli si rivolse al pozzo dalla balaustra d'argento, per osservare con più attenzione i piani più alti, quasi disperatamente, cercando almeno una piccola indicazione di attività su scala meno mostruosa. Cercò di guardare ai piani più alti, quelli subito sotto di lui, o vicini a lui, dall'una e dall'altra parte, ma il labbro d'argento sul quale era fermo debordava sul pozzo, per diversi metri, come una tettoia, e gli impediva di vedere. Così guardò dalla parte opposta, alle finestre più alte, e ai balconi, e dopo qualche tempo gli parve di vedere piccole figure in movimento, lassù, ma a un miglio di distanza, o anche a mezzo miglio, era molto difficile esserne sicuri, e poi i suoi occhi cominciavano a confondersi e a velarsi. Si domandò se doveva ritornare nella sua cabina, per prendere il binocolo… quando una voce, dolce ma perentoria, parlò alle sue spalle:

«Vieni!»

Don si voltò, con estrema lentezza. In piedi, un poco più alto di lui, a meno di sei metri di distanza, con la grazia diritta e l'orgoglio di un matador, c'era un bipede nero, snello, sericeo, chiazzato di rossiccio, a metà strada tra il felino e l'antropoide. Aveva l'aspetto di un leopardo indiano dalla fronte alta, un cheetah, un poco più grande di un leone di montagna, ed eretto come un essere umano, o come una tigre esile, dalla pelliccia nera a strisce rosse, che indossasse un turbante nero e una stretta mascherina rossa… il turbante era il gonfiore delle ossa frontali e temporali, che avevano ben poco di felino. La coda si drizzava come una rossa lancia, dietro la schiena della creatura. Le orecchie erano a punta. I suoi occhi sereni erano grandi, con qualcosa di simile a un fiore intorno alle pupille.

Spostando appena i piedi piccoli e ravvicinati, eppure con un movimento simile a quello di un ballerino classico, l'essere protese un braccio, con una mano dalle quattro dita, in un gesto d'invito, e aprì le labbra sottili nella parte nera della maschera, mostrando le punte di piccole zanne sottili, ripetendo gentilmente:

«Vieni.»

Lentamente, come in sogno, Don si mosse verso l'essere alieno. Quando egli si fu avvicinato, l'essere annuì, e poi una sezione del pavimento sul quale erano fermi entrambi… una sezione d'argento circolare, larga circa tre metri… cominciò lentamente, lentamente ad affondare nel corpo del Vagabondo. L'essere mosse il braccio teso, fino a posarlo delicatamente sulle spalle di Don. Don pensò a Faust e a Mefistofele che scendevano insieme all'inferno. Faust aveva voluto tutta la conoscenza. Con i suoi magici specchi, Mefistofele aveva dato a Faust una rapida visione di tutto. Ma quale apparecchio magico poteva dare la comprensione vera?

Erano affondati fino al ginocchio nel pavimento d'argento, quando apparve un lampo nel cielo. Improvvisamente, oltre il Baba Yaga, apparvero un terzo disco volante e un'astronave così simile al Baba Yaga che la gola di Don s'irrigidì, al pensiero di Dufresne. Ma poi egli vide le piccole differenze di costruzione, e la rossa stella sovietica dipinta sul fianco.

La curva d'argento del pavimento d'argento gli nascose quella visione, mano a mano che la piattaforma continuava a discendere.

CAPITOLO XXI

Mentre un numero esiguo di esseri umani stabiliva un contatto diretto, eccitante e terrorizzante, con il Vagabondo e i suoi cittadini, e mentre un numero assai superiore di terrestri studiava il nuovo corpo celeste con gli occhi ingranditori e misuratori della scienza, la maggior parte del genere umano conosceva il nuovo ospite venuto dagli spazi celesti solo in virtù della visione a occhio nudo, e delle distruzioni che esso operava. La prima parte della distruzione fu di origine vulcanica e diastrofica. Le maree, o tensioni di marea, prodotte nella crosta terrestre, produssero i loro effetti assai più rapidamente di quelle negli strati oceanici.

Sei ore dopo l'apparizione del Vagabondo, era iniziata un'attività tremenda lungo tutte le cinture sismiche che racchiudevano l'Oceano Pacifico e si stendevano lungo le rive nordiche del Mediterraneo, fino nel cuore dell'Asia. La terra era squarciata; le città venivano scosse e frantumate. Centinaia di vulcani rosseggiarono torvi, mandando fumo e fiamme e lapilli. Alcuni esplosero. Tremende scosse ebbero origine in località remote come l'Alaska e l'Antartico, molte delle quali si produssero sotto il mare. Possenti tsunami organizzarono le loro fila, marciando come un fosco esercito sugli oceani, mostruosi gonfiori neri che si tramutavano in colossali pugni d'acqua, quando raggiungevano la riva. Centinaia di migliaia di uomini perirono.

Malgrado ciò, ci furono numerose regioni, anche vicino al mare, dove tutti questi disastri e questo scatenarsi della collera della natura non furono altro che dicerie, o titoli di giornale, o forse una voce alla radio, durante ore di tregua, nelle quali il Vagabondo era ancora lontano… prima che il suo occhio sanguigno facesse capolino all'orizzonte, avvelenando il cielo delle comunicazioni radio.

Richard Hillary aveva sonnecchiato, per quasi tutto il tragitto attraverso il Berks, e soltanto ora cominciava lentamente a svegliarsi, nell'istante in cui la corriera attraversava il Tamigi, a poca distanza da Maidenhead. Si disse che quella sonnolenza non era stata prodotta dal fatto di avere camminato per quasi tutta la notte… a lui piaceva enormemente camminare, ed era difficile stancarlo… bensì dalle farneticazioni letterarie di Dai Davies.

Ora era quasi mezzogiorno, e la corriera si stava avvicinando al Tamigi e alla massa cupa e fumosa di Londra. Richard scostò finalmente le tendine, e cominciò a rimuginare malinconicamente, ma non con astio, sulle maledizioni della civiltà dell'industria, della sovrappopolazione, e della frenesia di costruire senza criterio.

«Ha perduto la notizia, amico,» disse un ometto dal cappello floscio che aveva occupato il sedile accanto a lui.

Alla domanda cortese, benché piuttosto tiepida, di Richard, l'ometto fu ben lieto di fornire un riassunto. Durante le ultime ore c'era stato un numero considerevole di terremoti in tutto il mondo… apparentemente, un sismologo aveva contato le scosse e aveva decretato, «Assolutamente senza precedenti!»… e, come risultato, delle onde di origine sismica erano una possibilità perfino lungo le coste inglesi: erano stati affissi ovunque degli avvisi ai marinai, e alcune regioni costiere particolarmente basse erano state evacuate. Numerosi scienziati, presumibilmente a caccia di notorietà con gli espedienti del più vieto sensazionalismo, avevano fatto dichiarazioni sulla possibilità di «ondate gigantesche», ma simili esagerazioni erano state respinte con fermezza dalle autorità responsabili. Gli individui più razionali avevano gioiosamente spiegato come confondere gli tsunami con le ondate era un antichissimo errore popolare.

Per lo meno, la montatura dei terremoti aveva fatto sparire il gigantesco disco volante americano dalle prime pagine dei giornali. Però, per compensare questa vittoria, la Russia stava lanciando delle feroci proteste, parlando di un misterioso attacco, sventato con successo, alla sua preziosa base lunare.

Non per la prima volta, Richard pensò che l'industria delle comunicazioni della quale l'età moderna menava vanto aveva principalmente fornito gli individui e le nazioni dei mezzi per spaventare a morte, e nello stesso tempo annoiare a morte, se stessi e gli altri.

Non informò il suo «amico» autodesignatosi tale di questo pensiero, ma invece guardò dal finestrino, quando la corriera rallentò vicino a Brentford, osservando quella cittadina con i suoi occhi di romanziere, venendo ricompensato quasi subito con quel fenomeno umano descrivibile come uno «sciamare di fontanieri»; contò tre furgoncini, con gli emblemi di quel mestiere, e cinque uomini con borse degli attrezzi o grosse cesoie, che correvano in un luogo o nell'altro. Sorrise, pensando che l'eccessiva smania di edificare portava comunque i suoi inconvenienti digestivi.

La corriera si fermò, non troppo lontano dal mercato e dalla confluenza tra il docile Brent e il Tamigi. Due donne salirono a bordo, e una disse a voce alta alla sua compagna:

«Sì, ho appena telefonato alla mamma, a Kew, e l'ho trovata sconvolta, poverina. Dice che il prato è inondato.»

E allora accadde con incredibile subitaneità: uno sgorgare di acqua plumbea dai tombini delle chiuse, e un fluire di acqua ugualmente sporca dalle entrate di numerosi edifici.

L'evento diede a Richard un particolare brivido di orrore, perché, a un livello appena al di sotto del pensiero consapevole, egli lo vide come l'escremento di case malate, troppo nutrite, indipendentemente dagli esseri umani che le occupavano, il prodotto d'i quel loro malore. Diarrea architettonica. Non stava affatto pensando che spesso il primo segno di un'inondazione è il rigurgito delle fognature.

E poi ci fu un gran movimento di gente, e alle loro calcagna un fiotto di acqua più limpida, che andava da un marciapiede all'altro, un'acqua alta una decina di centimetri, che invadeva tutta la strada, e portava via lo sporco.

Certo doveva venire dal Tamigi. Il lindo Tamigi, lo 'Sweete Themmes' di Spenser.

La seconda puntata della distruzione, assai più vasta della prima, fu offerta dal Vagabondo alla Terra, con il veicolo dei mari che coprivano quasi i tre quarti della superficie terrestre. Questa sorta di pellicola liquida può essere trascurabile, perfino ridicola, su scala cosmica, ma è sempre stata una specie di dimensione infinita, una dimensione di distanza e di profondità e di potenza, per gli abitatori della Terra. E ha sempre avuto i suoi dei: Dagon, Nun, Nodens, Ran, Rigi, Nettuno, Poseidone. E la musica degli oceani è lo scorrere delle onde e delle maree.

L'arpa degli oceani, che Diana, dea della Luna, fa vibrare con rapida solennità, ha corde fatte di fasce di acqua salata, profonde miglia e miglia, ampie miglia e miglia e miglia, lunghe migliaia di miglia.

Attraverso le sconfinate distese del Pacifico e dell'Oceano Indiano sono tese le corde dei toni bassi: dalle Filippine al Cile, dall'Alaska alla Colombia, dall'Antartide alla California, dall'Arabia all'Australia, dal Basutoland alla Tasmania. Qui vengono suonate le note più profonde, e alcune vibrazioni durano un giorno intero.

L'Atlantico offre la voce media, cantabile. Qui il tempo è più rapido e più regolare, e la misura è la mezza giornata: le maree familiari, che giungono due volte al giorno, della storia occidentale. Le fasce di risonanza legano Terranova al Brasile, la Groenlandia alla Spagna, il Sudafrica all'Antartico.

Dove le corde s'incrociano, possono soffocarsi a vicenda, come nei nodi vicino alla Norvegia e alle isole Sottovento e a Tahiti, dove soltanto il sole controlla le piccole maree… il lontanissimo Apollo che pizzica le corde più debolmente di Diana, portando sempre l'alta marea a mezzogiorno e a mezzanotte, la bassa marea al tramonto e all'alba.

Il soprano dell'arpa dell'oceano è dato dall'echeggiare e riecheggiare di maree nelle baie, negli estuari, negli stretti, e nei mari quasi totalmente racchiusi dalla terra. Queste corde più brevi sono spesso le più forti, e le più feroci, come un violino dominerà sempre il violoncello; le alte maree dell'estuario della Severn, della Francia Settentrionale e dello Stretto di Magellano, del Mar d'Arabia e del Mare d'Irlanda.

Toccate dalle dita gentili della Luna, le corde liquide vibrano gentilmente… trenta centimetri più su e più giù, un metro e mezzo, tre metri, raramente sei metri, quasi mai di più.

Ma adesso l'arpa degli oceani era stata strappata dalle mani di Diana e di Apollo, e veniva pizzicata da dita ottanta volte più forti. Durante il primo giorno di apparizione del Vagabondo, maree si alzarono e si abbassarono tra le cinque e le quindici volte più del normale, e, durante il secondo giorno, tra le dieci e le venticinque… la risposta delle acque si adattava velocemente al folle arpeggiare del Vagabondo. Le maree di un metro e ottanta diventaro di diciotto metri; le maree di nove metri, diventarono di novanta… e più.

Le gigantesche maree seguivano generalmente gli antichi schemi… c'era un diverso arpista, ma l'arpa era la stessa. Tahiti fu soltanto una delle molte regioni della Terra… non tutte lontano dal mare… a venir lasciata tranquilla dalla presenza del Vagabondo, e là nessuno quasi se ne accorse, se non sotto l'aspetto di uno spettacolo astronomico nuovo e affascinante.

Le coste sono i recipienti degli oceani, e li contengono grazie a pareti che le stesse maree contribuiscono a intagliare. In pochissimi luoghi i mari sono fronteggiati da lunghe distese di terra piatta, dove la marea può ogni giorno compiere passi di miglia e miglia, verso la terra e di nuovo nel mare: i Paesi Bassi e la Germania Settentrionale, poche altre spiagge e acquitrini salati, l'Africa Nord-Occidentale.

Ma esistono molte coste piatte, solo a pochi metri, o a poche decine di metri di altezza sull'oceano. Là le maree ingigantite e moltiplicate, sollevate dal Vagabondo, marciarono verso l'interno, percorrendo dieci, venti, cinquanta miglia e più. Con grandi masse d'acqua dietro di esse, e con valli sempre più strette davanti, alcune avanzarono rapidamente, portando distruzione, con un fronte e una cresta di relitti e rottami, colme di sabbia e di terra, con piedi di rocce rombanti e di sassi fruscianti. In altri luoghi, l'invasione della marea fu silenziosa come la morte.

Nei luoghi ove a maree alte e improvvise si opponevano pareti costiere aspre ma non troppo alte… Fundy, Bristol, gli estuari della Senna e del Tamigi… dal recipiente si versò dell'acqua intorno, traboccando dagli orli: grandi funghi d'acqua che si gonfiavano, stendendosi su tutta la terra, in tutte le direzioni.

Gli zoccoli continentali più bassi vennero spazzati dal riflusso, e la loro sabbia venne risucchiata dai fondali oceanici. Apparvero, con le basse maree, scogliere e isole sommerse da milioni di anni; altre, che erano esistite per migliaia e migliaia d'anni, vennero totalmente sommerse. I mari poco profondi, e i golfi, come quello della Persia, vennero totalmente prosciugati una o due volte al giorno. Gli stretti furono solchi più profondi. L'acqua di mare coprì degli istmi bassi. Campagne coltivate, distese di terra fertile, vennero avvelenate dall'acqua salata. Greggi e armenti vennero spazzati via e inghiottiti dalla massa liquida. Case e città vennero rase al suolo. Grandi e antichi porti vennero sommersi.

Malgrado la nebbia della catastrofe e la subitaneità del colpo astronomico, vennero compiuti autentici prodigi di soccorso. Molte organizzazioni che esistevano soprattutto per scongiurare i disastri, che erano nate dai disastri, come la guardia costiera e la Croce Rossa, funzionarono in maniera egregia; e alcuni dei preparativi compiuti in vista di una guerra atomica e di altre catastrofi ripagarono finalmente coloro che avevano speso tanti mezzi e fatica per allestirli.

Eppure, milioni di esseri umani perirono.

Alcuni videro sopraggiungere il disastro, e riuscirono a fuggire e a mettersi in salvo. Altri, perfino nelle zone più minacciate, non vi riuscirono.

Dai Davies camminava sul fondo fangoso e sporco dell'Estuario della Severn, sulla sabbia umida, attraverso la nebbia leggera, che si stava dissolvendo; camminava a grandi passi, con l'energia e la concentrazione rabbiosa di un ubriaco, al culmine delle forze date dall'alcol. Aveva gli abiti e le mani sporchi di fango e sabbia, perché era scivolato e caduto due volte, ma ogni volta si era alzato e aveva proseguito, fermandosi solo per pochi istanti. Di quando in quando si voltava, e correggeva la direzione, quando vedeva che le orme dei suoi passi accenavano a piegare di qua e di là. E di quando in quando beveva un sorso da una bottiglia piatta, senza neppure rallentare l'andatura.

La linea costiera del Somerset era svanita già da tempo, se non per un confuso nereggiare, attraverso la cortina di nebbia residua, delle costruzioni dell'industria marittima, lungo il fiume, oltre la foce dell'Avon. Da molto tempo erano cessati gli applausi insinceri e gli indifferenti avvertimenti… «Torna indietro, pazzo gallese, se non vuoi annegare!…» dei compagni di taverna conosciuti al mattino.

Di quando in quando, cantava, «Cinque miglia fino al Galles, finché la sabbia è sotto il piede, da mezzogiorno alle due, finché dura la bassa marea,» improvvisando variazioni ricche d'imprecazioni, come «Maledetta gente del Somerset!,» oppure, «Li farò arrossire di vergogna!,» e «Maledetti yankee ladri di luna!»; di quando in quando cantava frammenti e brani del suo Arrivederci Mona, composto solo a metà, quali «Mona avvolta di gonna di meteore… Chiardifanciulla, antica come Fomalhaut… Affondi dita bianche nei miei laghi… Attiri le mie acque e le respingi…»

Si udì un brontolio lontano, davanti a lui. Un elicottero passò come un fantasma, allontanandosi in direzione del fiume, ma il brontolio rimase. Dai attraversò una fossa particolarmente viscida e fangosa, nella quale la sua scarpa affondò; e quando sollevò il piede, la scarpa uscì con un plop viscido e minaccioso. Decise che doveva essere quello il canale della Severn, e che lui doveva essere arrivato sulla grande distesa sabbiosa di fondale, nota sotto il nome di «Welsh Grounds».

Ma il brontolio si fece più profondo, e più forte; il cammino si fece più facile, perché le sabbie stavano di nuovo scendendo; un ultimo velo di nebbia svanì; e improvvisamente la strada gli fu bloccata da un rapido, torbido fiume ampio più di cento metri, che ribolliva in gonfiori schiumosi, e avidamente divorava i banchi di nebbia, da entrambi i lati.

Si fermò, sbalordito. Non gli era venuto in mente, neppure vagamente che, per quanto la bassa marea potesse scoprire il fondo del Canale, la Severn era un fiume, e avrebbe continuato a scorrere. E ora capiva che non avrebbe potuto percorrere un quarto di miglio attraverso il Canale.

Lontano, vide un rabbioso gonfiore biancastro, sprizzante acqua e schiuma, dove… ma certo!… l'Avon si gettava tempestoso nel fiume più grande.

Dall'altra parte, lontano, torreggiava la prua di un vapore in secca. L'elicottero era fermo sopra lo scafo. Si udivano dei rumori soffocati, ululati o sibili di vapore.

Fece un balzo indietro, quando una larga fetta di banchina sabbiosa si spalancò come una voragine quasi ai suoi piedi. Malgrado ciò, coraggiosamente si tolse la giacca, perché apparentemente era venuto il momento di nuotare, fermandosi a metà per tirar fuori la bottiglia. Sulle acque vicine, un enorme oggetto nero stava passando, portato dalla corrente. Si portò la bottiglia alle labbra. Era vuota.

Rabbrivì, e cominciò a tremare. D'un tratto, si vide come una formica con le ambizioni di un Napoleone. La paura scese su di lui.

Si voltò. Le sue impronte erano state appiattite, erano semplici pozzanghere e rigonfi privi di forma. E c'era uno scintillio d'acqua, su tutta la sabbia, che prima non c'era stato. La marea aveva compiuto il suo giro. Ora stava ritornando.

Gettò via la bottiglia e cominciò a correre, seguendo le orme confuse lasciate nel terreno, prima che svanissero completamente. I suoi piedi affondavano nella sabbia, più profondamente di quanto non fosse accaduto all'andata.

Jake Lesher abbassò e alzò un interruttore della luce, benché ormai le prove fossero più che sufficienti per stabilire che la corrente se ne era andata. Studiò l'ascensore, nella penombra del grande soggiorno. La cabina si era abbassata di una decina di centimetri, nell'ultima scossa, e ora pareva un po' inclinata. Nell'ombra, le pareti di alluminio parevano increspate. Gli parve di veder sporgere dei sottili fili neri, e indietreggiò, rifugiandosi nel livido chiarore del sole della veranda.

«Adesso il fumo è aumentato, e riesco a vedere delle fiamme,» gli disse Sally Harris, sempre china sulla balaustra. «Le fiamme stanno salendo dall'edificio, e la gente le sta guardando dalle finestre delle case vicine, ma l'acqua sta salendo più in fretta… mi sembra. È una corsa. Accidenti, Jake, questo è un diluvio come quello della Bibbia, e l'attico di Hugo è la nostra Arca di Noè. Ecco l'idea intorno alla quale costruiremo la nostra commedia. Useremo anche l'incendio, certo!»

Egli la prese per le spalle, e cominciò a scuoterla.

«Ma questo è tutto vero, piccola idota! Siamo noi che finiremo arrosto!»

«Ma Jake,» protestò lei, «Bisogna sempre avere una situazione reale, per scrivere una commedia. L'ho letto da qualche parte.»

Su tutta la Terra, i sensi e la mente di moltissime persone erano ermeticamente chiusi di fronte all'idea di un cambiamento nelle maree. Quelli che vivevano nell'interno erano propensi a dubitarne, o a minimizzare quello che non potevano vedere con i propri occhi, e moltissimi tra loro non avevano mai visto un oceano. Gli uomini che si trovavano in mare, senza alcuna striscia di terra da vedere all'orizzonte, non potevano percepire il gonfiarsi delle maree sotto di loro… non percepivano neppure le onde sismiche molto più brevi… e così non potevano notare se l'alta marea, sulla quale le loro navi si muovevano, fosse di pochi metri o di decine di metri più alta di quanto avrebbe dovuto essere… e inversamente, lo stesso concetto si applicava alla bassa marea.

Gli insorti che si erano impadroniti della Principe Carlo avevano troppe cose da fare… occuparsi della manutenzione di un grande transatlantico atomico, tenere calmi e sotto controllo i passeggeri, sventare i tentativi compiuti dall'equipaggio per rovesciare la situazione… e così decisero di eleggere quattro di loro comandanti, con uguali poteri. Ci vollero alcune ore, prima che questo direttorio rivoluzionario riuscisse a mettere il transatlantico su una rotta per Capo St. Roque, in direzione di Rio, dove i loro capi avrebbero dovuto teoricamente rovesciare il governo nel corso della notte… cosa questa che non poteva avere conferma, a causa dell'improvviso ammutolirsi delle onde radio. L'urgente appello del capitano Sithwise, prigioniero nella sua cabina, il quale chiedeva agli insorti di dirigere senza indugi il transatlantico atomico verso il nodo di marea vicino alle Isole Sottovento, venne accolto con derisione, perché era troppo evidente l'ingenuità di quel trucco per avvicinarli agli incrociatori della Marina Britannica.

Wolf Loner osservava l'enorme banco di nuvole chiudersi tutt'intorno alla Pazienza, e abbassarsi, tanto che l'imbarcazione parve viaggiare in mezzo a una fitta cortina di nebbia. In quel piccolo cosmo d'acqua e di biancore indistinto, che aveva per centro l'imbarcazione, ebbe l'antica fantasia, l'illusione che tutto il mondo fosse svanito intorno a lui, a eccezione di quell'unico punto, o che fosse in corso una guerra atomica nella quale le città svanivano come tizzoni nel fuoco, o che un morbo tremendo, causato da virus artificiali sfuggiti agli esperti della guerra batteriologica, avesse spazzato tutti i continenti, così che lui avrebbe scoperto di essere l'unico uomo sopravvissuto, il giorno in cui avesse messo piede a terra, a Boston. Sorrise, senza apprensione, «Preparati a sostenere l'urto dei tuoi atomi,» si disse.

Eppure, moltissime menti erano chiuse ai fatti che venivano a bussare alla loro porta. Nell'Istituto delle Maree, ad Amburgo, Fritz Scher diede una spiegazione, con propria soddisfazione, e in parte con soddisfazione di Hans Opfel, di tutte le misurazioni di maree divergenti dalla norma che giungevano da ogni parte del mondo. O esisteva un precedente, per la nuova rilevazione… una marea così e così era avvenuta in quel punto quaranta o quattrocento anni prima… oppure le acque venivano gonfiate da una tempesta che quegli stupidi, ciechi meteorologi non avevano visto; oppure qualche osservatore di notoria trascuratezza aveva interpretato erroneamente gli strumenti; oppure qualcuno di notoria instabilità era impazzito; oppure qualcuno, di notorie propensioni comuniste, aveva mentito.

«Basta aspettare un poco,» disse Fritz, sorridendo, ad Hans Opfel, quando quest'ultimo indicò la catasta crescente di rapporti riguardanti il Vagabondo e la distruzione della Luna. «Basta aspettare. Quando verrà la notte, la vecchia, cara luna sarà lassù, da sola come sempre… e riderà di tutti questi stupidi!» Si appoggiò tranquillamente alla lucida parete della macchina per la previsione delle maree, e l'accarezzò con affetto, quasi abbracciandola. «Tu lo sai quanto sono stupidi, vero?» mormorò, in tono infatuato.

Altre mentì, invece, accettarono la situazione.

Barbara Katz mise gli ultimi residui di uova e salsiccia sull'ultima fetta di pane tostato, spinse la tazza del caffè attraverso il grande tavolo di cucina, verso Hester, e sospirò, manifestando così la sua riconoscenza e la sua soddisfazione. Fuori, gli uccelli stavano cantando, alla luce del sole. Il vecchio orologio a pendolo massiccio appeso alla parete indicava le otto e trenta, in numeri romani. Un grosso calendario era appeso sotto l'orologio.

Hester fece un largo sorriso a Barbara, versandole dell'altro caffè, quel caffè incredibilmente concentrato che Barbara aveva tanto apprezzato, e disse:

«Adesso sembra tutto più sano e naturale, visto che il vecchio KKK si è procurato una vera ragazza, invece che quella bambola.»

Helen, la donna negra più giovane, ridacchiò, e poi distolse lo sguardo, con aria divertita e imbarazzata a un tempo, ma Barbara sorrise.

«Credo che vengano chiamate bambole 'Barbie',» disse. «Be', guarda caso, anch'io mi chiamo Barbara… Barbara Katz.»

Hester rise di cuore, a quelle parole, ed Helen soffocò un'altra risatina.

«Perché lo chiama 'il vecchio KKK'?» domandò Barbara.

«Il secondo nome è Kelsey,» spiegò Hester. «Knolls Kelsey Kettering III. Lei si chiama Katz, ed è la quarta.» E ricominciò a ridere.

Ci fu un prolungato, sommesso scricchiolio.

«Chiudi la porta, Benjy,» disse seccamente Helen, smettendo di ridere, ma l'alto negro non si mosse. Era in piedi, a metà strada tra il corridoio e la cucina, vestito impeccabilmente, camicia bianca, pantaloni grigio-argento con una banda grigio scura lungo le cuciture.

«È la bassa marea più mostruosa che ci sia mai stata,» le informò il negro, in tono apprensivo. «La gente cammina sul fondo del mare, come se potessero raggiungere le Bahamas senza neppure bagnarsi la caviglia. Vanno in giro con delle ceste, e raccolgono il pesce ancora guizzante, che sta morendo sul fondo!»

Barbara si drizzò di scatto, posò la tazza di caffè, e fece schioccare le dita.

«Neanche i televisori dei vicini funzionano… e nemmeno le radio,» aggiunse Benjy, guardandola; anche Hester ed Helen la guardavano.

«Lei sa quando viene la bassa marea, con esattezza?» domandò Barbara, in tono ansioso.

«Circa alle sette e mezzo,» rispose Benjy, senza esitazione. «Un'ora fa. C'è tutto su quel calendario, scritto sul retro del foglio.»

«Strappi un foglio, e me lo faccia vedere,» disse Barbara. «Che tipo di auto possiede il signor K?»

«Solo due Rolls,» le disse. «Limousine e sedan.»

«Vada subito a preparare la sedan per un lungo viaggio,» gli disse, in tono urgente. «Prenda tutta la benzina di scorta che è possibile trasportare… la prenda anche dalla limousine! Avremo anche bisogno di coperte, e di tutte le medicine del Signor K, e una provvista di cibo adeguata, e dell'altro caffè, in thermos… e un paio di bottiglie d'acqua!»

La fissarono tutti, come affascinati. La sua eccitazione era contagiosa, ma tutti erano sconcertati.

«Per quale motivo, bambina?» le domandò Hester. Helen ricominciò a ridacchiare.

Barbara lanciò loro un'occhiata severa, e poi disse:

«Perché sta arrivando l'alta marea! E sarà alta, come è bassa la bassa marea… anzi, ancora più alta!»

«Questo a causa del… Vagabondo?» domandò Benjy, porgendole il foglio che aveva chiesto.

Lei annuì, decisamente, studiando il retro del foglio. Poi disse:

«Il signor K possiede un telescopio più piccolo. Dove si trova?»

«Telescopio?» domandò Hester, con ironica incredulità. Disse, «Be', ma per quale motivo… oh, già l'astronomia, quello che lei e il signor K avete in comune. Dunque, penso che abbia messo l'altro… quello che gli serve per spiare le bambine… nel suo studio.»

«Lo studio?» disse Barbara, con gli occhi che si illuminavano. «E a proposito, c'è del denaro… in contanti?»

«Sarà in una delle casseforti a muro,» disse Hester, aggrottando un po' la fronte… ma solo un poco.

CAPITOLO XXII

Gli studiosi dei dischi volanti cominciavano finalmente a sentirsi di nuovo vivi, dopo la lotta e la gara di velocità silenziosa con le onde. Gli uomini avevano acceso un fuoco, servendosi di legno portato a riva dalle onde, accanto alla vuota autostrada, a pochi metri dal basso ponte di cemento che attraversava la rientranza, e tutti si stavano asciugando a quel calore, con un'attività necessaria di scambi di vestiti, e di coperte asciutte, e di altri generi di abbigliamento assortiti, distribuiti fraternamente dalla riserva del camioncino.

Rama Joan tagliò impietosamente i pantaloni del suo abito da sera sporco di sale e umido, trasformandoli in un paio di calzoncini coloniali, e senza riguardo per la moda tagliò anche le code della giacca, e le maniche fino al gomito, sostituì l'ormai dimenticato bianco impeccabile della cravatta e del colletto rigido con la stoffa verde del turbante, e raccolse la massa dei capelli rosso-dorati in una coda di cavallo. Ann e Doc l'ammirarono.

Tutti avevano un aspetto notevolmente ammaccato. Margo notò che Ross Hunter appariva più ordinato e curato degli altri uomini, poi si rese conto che il motivo era semplice… mentre gli altri avevano già un'ombra di barba sulle guance, Ross aveva semplicemente la stessa barba che gli aveva fatto guadagnare subito il soprannome.

Mentre il cielo si rischiarava, ritornando azzurro come ogni giorno, il morale del gruppo salì di qualche punto, e diventò un po' difficile pensare che tutti gli eventi della notte precedente fossero accaduti davvero, e che il pianeta violetto e dorato stesse in quel momento terrorizzando il Giappone, l'Australia, e le altre isole dell'Oceano Pacifico, la grande massa d'acqua che abbracciava mezzo mondo.

Ma potevano vedere una mostruosa frana, che bloccava la strada, a meno di duecento metri più a nord, mentre Doc indicò, puntando il braccio, le rovine della piattaforma e della casa sulla spiaggia, travi e assi e sagome appena distinguibili ammucchiate disordinatamente contro la scintillante rete metallica che recintava Vandenberg Due, a poco meno di un miglio di distanza.

«Eppure,» disse Doc, «Lo scetticismo umano sulle esperienze fatte cresce come i funghi d'autunno. Che ne diresti di preparare un'altra dichiarazione da firmare, Doddsy?» domandò, rivolgendosi con il nuovo e familiare soprannome all'Omino, adeguandosi alla familiarità che si era lentamente instaurata tra tutti i componenti del gruppo.

«Tengo un diario completo degli avvenimenti, in inchiostro a prova d'acqua,» lo rimbeccò bruscamente l'Omino. «È aperto in qualsiasi momento a ogni controllo.» Estrasse il suo libretto d'appunti, e lentamente sfogliò le pagine, per dare enfasi alla sua dichiarazione. «Se il ricordo degli eventi di qualcuno differisce dalle mie annotazioni, sarò lieto di mettere la correzione a verbale… a patto che l'autore della correzione sigli con le sue iniziali l'appunto.»

Wojtowicz, che guardava il libretto dall'alto, alle spalle dell'Omino, disse:

«Ehi, Doddsy, mi sembra che alcuni dei disegni del Vagabondo non siano molto esatti.»

«Ho eliminato i dettagli, e per questo motivo i disegni sono molto schematici,» ammise l'Omino. «Comunque, li ho tracciati… dal vivo. Ma se lei desidera tracciare a memoria alcuni disegni del nuovo pianeta… e firmarli!… sarò ben lieto di mettere a sua disposizione questo libretto.»

«Non fa per me, io non sono un artista,» si scusò Wojtowicz, con un sorrisetto.

«Be' potrai controllare l'esattezza dei disegni stanotte, Wojtowicz,» gli disse Doc.

«Accidenti, non me lo ricordi!» disse l'altro, portandosi le mani sugli occhi e fingendo di barcollare.

Soltanto Bacchetto rimaneva solo, infelice e turbato; era seduto sull'ampia balaustra del ponte, e guardava avidamente l'orizzonte, là dove era tramontato il Vagabondo.

«Ella ha scelta lui,» borbottava, attonito. «Io ho creduto, eppure sono stato trascurato. Lui è stato portato nel disco volante.»

«Non importa, Charlie,» disse Wanda, appoggiando la testa grassoccia sulla spalla magra di Bacchetto. «Forse non era l'Imperatrice, ma soltanto la sua ancella, e ha confuso gli ordini.»

«Sapete, è stato veramente infernale… quel disco volante che è calato sopra di noi,» disse Wojtowicz agli altri. «C'è solo una cosa… siete sicuri di avere visto Paul attirato a bordo? Non vorrei dirlo, ma avrebbe potuto essere risucchiato in mare, proprio come stava per accadere a molti.»

Doc, Rama Joan e Hunter testimoniarono di avere visto l'evento con i propri occhi.

«Credo che le interessasse più il gatto che Paul,» aggiunse Rama Joan.

«Perché?» domandò l'Omino. «E perché l'uso di 'lei'?»

Rama Joan si strinse nelle spalle.

«Non è facile dirlo, signor Dodd. Solo che anche lei aveva l'aspetto di una gatta… e non ho notato alcun organo sessuale esterno.»

«Neppure io,» confermò Doc. «Benché non possa affermare di averli cercati in quel momento con viziosa avidità.»

«Lei pensa che il disco volante avesse davvero un motore antigravitazionale… come quelli dei romanzi di E.E. Smith?» domandò Harry McHeath a Doc.

«Non vedo altra spiegazione… se ben ricordo come si muoveva nell'aria. In una situazione simile, la fanta'scienza è la nostra unica guida. D'altra parte…»

Margo approfittò del fatto che l'attenzione generale era concentrata sulla conversazione, per scivolare silenziosamente tra i cespugli, nella direzione presa dalle altre donne in precedenza, alla ricerca di inesistenti servizi igienici. Si arrampicò su una piccola sporgenza rocciosa, accanto al corso d'acqua, e si trovò su una striscia di terra, circondata da rocce, a circa sei metri di altezza rispetto alla spiaggia.

Si guardò intorno. Non riuscì a vedere nessuno. Estrasse dalla giacca di cuoio la grigia pistola che era caduta dal disco volante. Era la prima occasione, da quell'indimenticabile alba, che aveva per ispezionarla con maggiore attenzione. Tenerla nascosta, quando aveva asciugato gli abiti al calore del falò, era stato un problema irritante.

Era un grigio uniforme… alluminio o magnesio, a giudicare dal peso… e di forma liscia ed elegante. Non c'era alcun foro visibile, nella canna a punta, né alcuna intuibile apertura per l'uscita di qualcosa di materiale. Nella parte anteriore del rigonfio — che equivaleva a un grilletto — si trovava un bottone ovale. L'impugnatura pareva fatta per due dita e un pollice. Sul lato sinistro dell'impugnatura, lontano dal palmo della mano destra che stringeva l'oggetto, c'era una stretta striscia verticale che scintillava di bagliori violetti, per cinque ottavi della lunghezza, come un termometro.

Margo strinse la pistola, a titolo di prova. Proprio davanti all'estremità della canna, lei notò un sasso, largo mezzo metro, posato sul bordo del terrapieno. Il cuore cominciò a batterle più forte. Puntò la pistola contro il sasso, e sfiorò il pulsante. Non accadde nulla. Premette il pulsante con maggiore forza, poi ancora un po' di più, e improvvisamente… non ci fu rinculo, ma d'un tratto il masso stava volando via veloce, insieme a una porzione del terrapieno larga almeno un metro, per poi cadere, praticamente senza produrre alcun suono, sulla sabbia, a trenta metri di distanza, e un po' di sabbia parve rimbalzare e fermarsi ancor più avanti. Un vento freddo soffiò brevemente alle sue spalle. Si udì cadere del terriccio e del pietrisco, giù per il pendio.

Margo respirò profondamente, e deglutì. Poi sorrise. La colonnina viola non pareva più breve. Forse era diminuita di qualche millimetro, ma non ne fu sicura. Infilò di nuovo la pistola nella giacca, stringendo ancora di più la cintura. Un'espressione pensierosa sostituì il sorriso.

Tornò indietro, oltre la sommità del costone roccioso, e dall'altra parte trovò Hunter, con i raggi del sole che traevano scintillii ramati nella barba scura.

«Professor Hunter!» esclamò Margo. «Non credevo che lei fosse un uomo di questo genere!»

«Quale genere?» le chiese, forse con un breve sorriso, ma era difficile stabilirlo, a causa della barba.

«Be', seguire una ragazza quando ha cose private da fare.»

La guardò, semplicemente, e Margo si passò una mano sui capelli biondi, per ricacciare indietro una ciocca ribelle.

«Lei non è abituata all'interesse aperto degli uomini? Sessuale, o di altro genere?» le domandò, in tono gentile. Poi, «Il fatto è che mi era parso di sentire il rumore di un piccolo smottamento.»

«Un masso è rotolato sulla spiaggia,» disse lei, passandogli accanto, «Ma il rumore non può essere arrivato lontano.»

«A me è arrivato,» le disse, cominciando a scendere per il pendio, dietro di lei. «Perché non si toglie quella giacca? Comincia a far caldo.»

«Io sarei capace di trovare una forma d'approccio più delicata,» gli disse Margo, con un certo risentimento.

«Anch'io,» le assicurò Hunter.

«Già, immagino,» ammise lei, dopo un momento. Poi, fermandosi ai piedi del pendio, aggiunse, «Ross, mi dica il nome di un grande scienziato, specialmente di un fisico, calibro premio Nobel, che abbia una vera saggezza, e comprensione per il genere umano?… Integrità morale, ma anche ampiezza di visione e profondità di sentimenti.»

«È veramente una domanda difficile. Be'… c'è Drummond, c'è Stendhal… ma non possiamo definirlo un fisico… c'è Rosenzweig… ah, e naturalmente Morton Opperly.»

«Ecco il nome che volevo sentirle dire,» fece Margo.

Dai Davies cominciò a picchiare sui battenti della porta a vetri della piccola taverna, vicino a Portishead. Le ginocchia tremavano; il viso era di un livido pallore verdastro; i capelli erano arruffati, diritti e umidi; gli abiti erano grondanti… e le sue cadute lo avrebbero lasciato coperto di fango, se non avesse dovuto nuotare per compiere gli ultimi cento metri della sua ritirata attraverso la Manica.

E ormai era giunto alla fine della sua forza da ubriaco… se ci fossero volute altre dieci bracciate convulse, non sarebbe mai arrivato a riva, lo sapeva, non sarebbe mai uscito dalla selvaggia marea diluviale che risaliva schiumando e gorgogliando il corso della Severn. Aveva bisogno di alcol, di liquori, di birra!… come un ferito grave ha bisogno di una trasfusione.

Eppure, per chissà quale ragione, gli sporchi bastardi del Somerset avevano chiuso la porta e si erano nascosti… senza dubbio per contrariare lui, senza dubbio per pura crudeltà, odio dei gallesi e disprezzo dei poeti, perché quella non era l'ora di chiusura. Ma, per i patimenti di Cristo, lui avrebbe pensato a denunciarli alla polizia, per quella chiusura ingiustificata! Premette il viso contro le finestrelle a vetri della porta, per vederli rannicchiati nei loro vili nidi da topi, ma la sala oscura era vuota, le luci erano tutte spente.

Indietreggiò, barcollando, battendosi le braccia sul petto per trovare un po' di calore, e urlò raucamente, muovendosi lungo la strada:

«Dove siete, tutti? Venite fuori! Ehi, qualcuno… venite fuori!» Ma neppure un'anima si fece vedere, neppure una porta si aprì, neppure un viso arcigno di donna fece capolino da una finestra. Era solo, completamente solo.

Ritornò, tremando, alla porta del pub, appoggiò le mani a essa, per conservare l'equilibrio, riuscì a sollevare la gamba indolenzita, e scalciò con violenza, convulsamente. Tre pannelli di vetro si ruppero, e i frammenti caddero all'interno. Dai abbassò la gamba, poi si rannicchiò davanti alla porta, e infilò il braccio nell'apertura, cercando a tentoni… trovò la serratura, aprì il paletto, girò la maniglia, e la porta si aprì. Allora Dai entrò barcollando, senza più guardare la porta con i piccoli pannelli di vetro rotti, fece quattro passi verso il bancone, e si fermò, traballando, al centro della stanza; per poco non perse i sensi.

E poi, mentre se ne stava là, ansando, e i suoi occhi si abituavano alla penombra, un meraviglioso cambiamento avvenne in lui, e colmò tutto il suo corpo. D'un tratto, gli parve che il fatto di trovarsi là, da solo, fosse la cosa più bella del mondo; era il realizzarsi di un vecchio, vecchissimo sogno.

Non si preoccupò del lontano ruggito, dietro di lui, né si voltò a guardare, attraverso la porta rotta, il Canale che si avvicinava, a gradini sporchi, bassi, schiumosi. Aveva occhi soltanto per le bottiglie verdi e ambrate, dalle affascinanti etichette, disposte sui ripiani, dietro il bancone. Erano per lui come libri preziosi, fondi di ogni saggezza, amici dei solitari, una splendida biblioteca che poteva esser sempre assaporata e assaggiata, e della quale egli non avrebbe mai saputo stancarsi.

E, avvicinandosi a essi con amorevole deliberazione, con un largo, gioioso sorriso, cominciò sommessamente, con voce carezzevole, a leggere i titoli sui loro dorsi:

«Old Smuggler… di Richard Blackmore. Teachers, di C.P. Snow. The Black and the White, di Stendhal. White Horse, di G.K. Chesterton…»

Il generale Spike Stevens avanzava nella fredda acqua salata, oltre il pozzo dell'ascensore, dal quale l'acqua sgorgava con maggiore forza a ogni momento, facendo cigolare la porta di metallo. Una torcia elettrica, che aveva legata sul petto, brillava sull'acqua alta fino alla coscia, e su una parete decorata con scene di battaglie storiche. Altre tre lampade salivano dietro di lui «…come se fossimo dei maledetti malandrini di una commedia musicale,» aveva detto il colonnello Griswold.

Il generale cercò a tentoni, sulla parete, affondando le dita nella carta che la copriva, e aprì… mentre la carta si rompeva… una porticina di sessanta centimetri quadrati, che rivelava una cavità poco profonda, che conteneva soltanto una grossa leva nera.

Si voltò verso gli altri.

«Vedete,» disse, rapidamente, «Io conosco soltanto l'ingresso del condotto di uscita. Non so quale sia il punto di uscita, più di quanto lo sappiate voi, perché secondo i piani io non dovrei sapere dove siamo… e non lo so, infatti. Speriamo che ci porti in una torre, o qualcosa di simile, perché sappiamo di trovarci a circa sessanta metri di profondità, e che lassù, per qualche strano motivo, c'è dell'acqua salata. Capito? Bene, adesso apro.»

Si voltò, e abbassò la leva. Il colonnello Mabel Wallingford era in piedi, proprio alle sue spalle; il colonnello Griswold e il capitano Kidley si trovavano qualche metro più indietro.

La leva si abbassò di pochi millimetri, e si bloccò. Il generale fece forza, usando entrambe le mani, fino a quando non si trovò nell'acqua soltanto fino al ginocchio. Mabel si avvicinò, e strinse la leva a sua volta, e fece forza, combinando i suoi sforzi con quelli del generale.

Griswold esclamò:

«Un momento! Se è bloccata, significa che…»

La leva si abbassò di quindici centimetri. A un metro di distanza, la carta che copriva la parete si ruppe ad angolo retto, mostrando una porta larga sessanta centimetri e alta un metro e mezzo… e dalla porta uscì una nera massa d'acqua, che si rovesciò sul capitano Kidley e sul colonnello Griswold… Mabel vide affondare sempre più la lampada di Griswold.

L'acqua solida continuava a entrare, scorrendo impetuosa ai piedi del colonnello Mabel e del generale. L'uomo e la donna si aggrapparono alla leva.

CAPITOLO XXIII

Margo e Clarence Dodd avevano i gomiti appoggiati alla balaustra di cemento del ponte, e stavano guardando le colline, facendo ipotesi sulla grande cupola di fumo che saliva dal sud e immergeva il sole in un rosso bagno di sangue, gettando su tutto il paesaggio una livida colorazione ramata. Margo era andata là, soprattutto per allontanarsi da Ross Hunter.

«Nei canyon e sulle montagne potrebbero esserci soltanto degli incendi nella boscaglia,» disse l'Omino. «Ma ho paura che sia qualcosa di ben più grave, signorina Gelhorn. Lei abita a Los Angeles?»

«Ho un cottage in affitto a Santa Monica. Più o meno la stessa cosa.»

«Ha famiglia?»

«No, sono sola.»

«Almeno questo è un bene. Voglio dire che, finché non comincia a piovere, temo che…»

«Guardi,» disse lei, abbassando lo sguardo. «C'è dell'acqua nel torrente, ora! Questo non significa che nell'entroterra piove?»

Ma proprio in quel momento, con un trionfale colpo di clacson, il camion di Hixon fece il suo ritorno da una ricognizione lungo la costa, seguito da un piccolo autobus scolastico giallo. I due veicoli si fermarono sul ponte. Wojtowicz scese dall'autobus. Stava agitando uno dei fucili. Doc lo seguiva, ma si fermò sul predellino, che era un palco adeguato per un discorso, almeno per Doc.

«Sono lieto di annunciare il ritrovamento di un mezzo di trasporto,» gridò, giovialmente. «Avevo una specie di chiodo fisso, così ho perlustrato la Collinare di Santa Monica, e lassù, in una piccola valle a meno di cento metri dall'autostrada, ho scoperto questo affascinante autobus, in attesa di iniziare il suo giro mattutino, e che oggi cambierà passeggeri… noi, per l'esattezza! È meravigliosamente rifornito di benzina, e c'è una ricca provvista di burro e di panini alla marmellata e di latte pastorizzato, vitaminizzato, squisito. Preparatevi alla partenza entro cinque minuti, tutti!» Scese dal predellino, e con un mezzo passo di danza si voltò verso gli altri. «Doddsy, non è acqua piovana quella che scorre nel torrente, laggiù, ma si tratta di acqua salata… l'aumentare dell'alta marea. Guarda dall'altra parte del ponte, e vedrai questa meravigliosa distesa scintillante coprire come un grande lenzuolo il mondo, fino alla Cina. In momenti simili, la gente ha, più o meno a ragione, il senso di venire travolta dagli eventi… o dall'acqua salata, come in questo caso. Tu possiedi l'altro fucile, Doddsy… tu andrai con gli Hixon. Ida verrà con te, per occuparsi di Ray Hanks. Io comanderò l'autobus.»

«Signor Brecht,» disse Margo. «Lei ha per caso intenzione di portarci nella Valle, attraverso la Collinare di Santa Monica?»

«Per lo meno, a metà strada. A seicento metri di altezza, se ci riesco. Dopo…» Si strinse nelle spalle.

«Signor Brecht,» continuò la ragazza. «Vandenberg Tre è esattamente dall'altro capo della Collinare. Sulle alture. Morton Opperly lavora là, occupandosi della pura parte scientifica del progetto Luna. Credo che dovremmo tentare di raggiungerlo.»

«Be', non si tratta di una cattiva idea,» fece Doc. «Dovrebbe dimostrare più buon senso dell'alto papavero di Vandenberg Due, e potrebbe accogliere con piacere qualche nuova recluta ragionevole e ben disposta. In questa situazione irreale, l'idea di fare cerchio intorno ai maggiori scienziati è ottima. Però, Dio solo sa se riusciremo ad arrivare a V-3, e se Opperly sarà ancora là, quando vi arriveremo,» aggiunse, stringendosi di nuovo nelle spalle.

«Questo non importa,» disse Margo. «Chiedo soltanto che, se si presenterà un'occasione per mettersi in contatto con Opperly, lei mi dia una mano. Ho un motivo speciale, che è di estrema importanza, ma che ora non posso spiegare.»

Doc le lanciò un'occhiata penetrante, e poi fece un sorrisetto.

«Sicuro,» promise, e in quel momento Hunter, e alcuni altri, lo circondarono, bersagliandolo di domande o di suggerimenti.

Margo salì subito a bordo dell'autobus, e occupò il sedile dietro il posto del conducente. L'autista era un vecchio arcigno, con un mento così sfuggente che Margo si domandò se avesse dei denti in bocca.

«È molto gentile da parte sua aiutarci,» disse Margo.

«Lo dice a me?» la rimbeccò il vecchio, voltandosi a guardarla, con aria incredula, e mostrando qualche dente ingiallito e nerastro sulle gengive scoperte. «Lui mi ha parlato,» proseguì, indicando col pollice Doc, che era ancora a terra, «Di questa marea di centosessanta metri, che mi avrebbe fatto annegare se non fossi salito in fretta sulle colline. Ha reso l'immagine maledettamente vivida. E poi mi ha detto che non dovevo sciuparmi troppo il cervello, per decidere se accompagnare voialtri o no, perché con lui c'era un tizio armato di fucile. Gentile da parte mia? Non ho avuto scelta, ecco tutto. Inoltre,» aggiunse, «C'è stata una gigantesca frana che ha bloccato il mio percorso normale, a sud. Tanto vale buttarsi in quest'impresa, con un gruppo di pazzi come voi.»

Margo rise, con sincerità.

«Vedrà che si abituerà a noi,» disse.

In quel momento, Bacchetto entrò nel veicolo, diritto come un fuso, voltandosi per gridare a Doc:

«Va bene, Wanda e io accettiamo di usare questo mezzo di trasporto, ma io rifiuto categoricamente di bere latte che contenga raggi di fallout e veleno per topi!»

L'autista guardò Margo.

«Può darsi,» disse, acidamente.

Gli altri salirono a bordo, uno dopo l'altro. Hunter sedette accanto a Margo, mentre lei stava parlando con l'autista. Con ostentazione, Margo si scostò un poco, facendogli posto, ma Hunter non la guardò. Doc si fermò sulla porta, e contò i presenti.

«Tutti presenti,» annunciò. Si sporse sul predellino, e gridò verso il camion, «D'accordo, tutto a posto, partiamo! Invertire la rotta, e seguire in fila a poppa!»

L'autobus scolastico usò il ponte per fare manovra, seguito dal camion. Margo notò che l'acqua, nel torrente, era ormai alta un metro e più. Un'ondata avanzò, bianca di spuma ai lati. La spiaggia sulla quale aveva lanciato il sasso grazie all'arma caduta dal disco volante era anch'essa sott'acqua. La notte scorsa, quella strada era stata a più di mezzo miglio dall'oceano, ma ora soltanto cento metri la separavano dal bagnasciuga.

Doc si sistemò nella posizione strategica che si era riservato, dietro la porta e dirimpetto a Hunter. Stese comodamente una gamba sul sedile libero accanto a lui.

«Sulla Collinare di Santa Monica,» disse all'autista. «Mantenga i cinquanta, vada con calma, e stia attento alle rocce. Abbiamo circa quattro miglia di autostrada da percorrere… tempo a sufficienza per sfuggire al signor Pacifico, mentre lui ingrassa. Ricordate tutti che le maree, sulla Costa del Pacifico, sono del tipo misto. Fortunatamente per noi, questa mattina l'alta marea è bassa… McHeath,» chiamò, senza voltarsi. «Tu sei il nostro ufficiale di collegamento. Tieni d'occhio il camion. E gli altri non restino ammucchiati dalla parte del mare. Voglio che questo autobus sia in equilibrio perfetto, quando cominceremo a salire. Siamo molto avvantaggiati sulla marea… non c'è pericolo.»

«A meno che non arrivino altre…» cominciò Margo, ma si trattenne subito. Aveva voluto dire, ondate di origine sismica, oppure tsunami.

Hunter le fece un sorriso radioso.

«Molto bene; non lo dica,» le mormorò. Poi, parlando solo un poco più forte, si rivolse a Doc, «Ehi, Rudy, dove ha trovato quella cifra di centosessanta metri?»

«Ottanta volte la normale marea di Los Angeles, di due metri e dieci, approssimata per difetto,» replicò Doc. «Una cifra eccessiva, spero con ogni forza, ma dobbiamo fare il calcolo approssimativo, sì o no? Ah, passare la vita sull'onda del mare, una casa sull'abisso che si muove, da-da-da-da-da-da…»

Margo fece una smorfia, nell'udire quella voce arrochita che 'cantava per tener su il morale'… con quale avvedutezza, era una domanda aperta… e desiderò con tutte le sue forze che al suo posto ci fosse stata la voce di Paul. Poi strinse con forza le mani, e studiò il retro del sedile dell'autista. Era stato lavato da poco, si vedeva, ma si potevano ancora distinguere frasi come 'Ozzie è un puzzone', 'Jo-Ann le ha di gomma', e 'Pop ha 13 denti'.

Malgrado le parole rassicuranti di Doc, tutti osservarono con notevole eccitazione le acque che avanzavano strisciando nell'entroterra, e cercando di penetrare il nebbioso orizzonte, mentre un senso di tensione crescente parve stringere l'autobus diretto a sud. Margo sentì allentarsi la tensione, nel momento in cui iniziarono la ripida ascesa, sul nastro nero a due corsie della strada di montagna… e poi, quasi immediatamente, la tensione ritornò, e tutti guardarono avanti, cercando di avvistare frane, smottamenti, o rocce cadute. Nella memoria di Margo risuonò subito la vivida frase della signora Hixon: «Quelle montagne sono state agitate come paglia al vento.» Ma la prima parte del tragitto, che scalava una bassa collina, pareva diritta e priva di ostacoli.

«Il camion percorre la strada dietro di noi, signor Brecht,» annunciò una voce militaresca, dal fondo.

«Molto bene, McHeath,» gridò Doc. Poi, rivolgendosi a Hunter e a Margo con sorridente entusiasmo, e parlando forte, in modo che tutti udissero, «Sono pronto a scommettere sulla Collinare di Santa Monica. La stampa non ne ha parlato molto, ma in realtà si tratta di un progresso rivoluzionario, nella costruzione di strade.»

«Ehi, Doc,» chiamò Wojtowicz. «Se questa strada è libera fino alla Valle, dovrebbe esserci del traffico.»

«Sei furbo stamattina, Wojtowicz,» ammise Doc, «Ma a noi basta che la strada sia libera per le prime tre miglia… questo ci porterà a centottanta metri di altezza. Non dobbiamo preoccuparci delle altre ventidue miglia. Anzi, per noi sarà probabilmente meglio trovarla bloccata, più oltre.»

«Ho capito, Doc; dovremmo combattere, altrimenti, cinquanta milioni di automobili.»

«Il cielo è più scuro davanti a noi, mamma,» pigolò Ann. Lei e Rama Joan occupavano i posti dietro a Doc. «Una grande nube di fumo.»

«Siamo tra l'acqua e il fuoco,» annunciò Bacchetto, e nella sua voce era tornata la vecchia nota sognante. «Ma rallegratevi tutti, poiché Ispan ritornerà.»

«È proprio di questo che ho paura,» disse Hunter a Margo, sottovoce. Poi nello stesso tono, abbassando lo sguardo sulla giacca di cuoio della ragazza, là dove la cerniera lampo era tirata fino al collo, aggiunse, «Le dispiace mostrarmi l'oggetto che la donna-tigre ha lasciato cadere dal disco volante? Gliel'ho visto raccogliere, vede, e credo che l'abbia collaudato stamattina. Funziona?»

Non sentendo una risposta, Hunter aggiunse:

«Lo tenga per sé, se questo contribuisce a darle un senso di sicurezza. Ho sentito la domanda che ha rivolto a Doc, e approvo di cuore. Altrimenti, le toglierei l'oggetto immediatamente… senza pensarci un attimo.»

Neppure questa volta Margo si voltò a guardarlo. Forse si era pettinato la barba, ma era sudato, e se ne sentiva l'odore.

L'autobus raggiunse la cima della prima collina, fece una lenta giravolta verso il basso, e s'inerpicò per un pendio ancora più rapido. Neppure questa volta apparvero frane o macigni.

Doc disse, ad alta voce:

«La Collinare di Santa Monica si stende quasi lungo le cime delle alture, ed è costruita di una lega asfaltoide dalla fortissima coesione molecolare. Di conseguenza, è solida e robusta, quasi a prova di bomba. L'ho saputo sfogliando le riviste tecniche. Ah! Fidarsi sempre di un genio multiforme, dico io!»

«Di un chiacchierone multiforme,» borbottò qualcuno, dietro di lui.

Doc si voltò, sorridendo minacciosamente, e lanciando un'occhiata sospettosa a Rama Joan.

«Abbiamo già raggiunto i novanta metri di altezza,» annunciò.

L'autobus fece una curva, e cominciò a marciare lungo la seconda altura, permettendo loro di vedere per l'ultima volta l'Autostrada Costiera. Era coperta d'acqua. Le onde si frangevano contro le pendici delle colline, tra le erbe folte e gli sterpi.

Dai Davies, con l'aria di disinvolta casualità che avrebbe potuto avere qualche figlio poeta di Poseidone, nello studio di suo padre, osservò le gonfie acque grigie del Canale scintillare qua e là, nella luce d'argento filtrata dalla nebbia del sole al tramonto, mentre l'acqua saliva e saliva, lungo il pendio della strada di fronte al pub.

L'ultima volta che aveva guardato, c'erano stati due mercantili e un battello di linea, che combattevano contro le ondate che li respingevano nel canale. Ora se n'erano andati, lasciando solo qua e là relitti confusi, e piccole casse lontane e galleggianti, che non valeva la pena guardare.

Si era dedicato alla radio, poco prima, e aveva ascoltato gli annunci pronunciati con voce tesa e ansiosa, sulle mostruose ondate di marea; e c'era stato chi aveva insistito che le loro origini dovevano essere le scosse sismiche che avevano fatto tremare la crosta terrestre, ormai da ore e ore; e poi la radio aveva lanciato grida concitate, avvertendo le imbarcazioni, e gli autobus, e i treni, di fare questo e quello, e l'impossibile; e cupi, isterici, complessi ordini a tutta l'Inghilterra, così sembrava a Dai, di andare in qualche altra parte, preferibilmente sulla cima del Monte Snowdon.

Decise che i pavidi abitanti del Somerset dovevano essere fuggiti ascoltando le prime trasmissioni di quegli avvisi frenetici… chiudendo miserabilmente i loro liquori a chiave, prima di andarsene!… e poi aveva lasciato perdere, aveva pensato ai cartoni animati, tornando quasi bambino, crogiolandosi nella meravigliosa sensazione, e canticchiando: «Chi ha paura dell'onda cattiva? Non Dai, certamente!»

Ma poi le luci si erano spente, con un lampo verdastro, e anche la radio aveva taciuto, e lui era andato in cerca di candele, sistemandole artisticamente sul bancone, sette con i loro candelabri.

Si rivolse a esse, ora, e tutte stavano ardendo meravigliosamente, fiammelle tremule e ondeggianti, come sette vergini d'oro e d'argento, gettando un chiarore superno su tutti i libri verdi e ambrati, dalle precise etichette, che si trovavano davanti.

Vediamo, pensò, passando lentamente oltre le fiamme delle vergini, Sono molti giorni che non penetro nell'Old Bushmills di Thomas Hardy, ma sono enormemente tentato da alcuni canti di Vat 69, di Ezra Pound. Quale dovrei scegliere, ora? O forse… sì… per un aroma straniero, Kirchwasser di Heinrich Heine!

Il generale Spike Stevens e il colonnello Mabel giacevano fianco a fianco, trenta centimetri o meno sotto il soffitto di cemento, sulla sommità di un grosso classificatore di metallo, largo come un giaciglio. La donna aveva perduto la sua lampadina, ma il generale aveva ancora la sua legata al petto. La luce scintillava su una superficie immobile di acqua nera, venti centimetri sotto l'orlo della sommità del classificatore.

Anche l'uomo e la donna erano distesi immobili come l'acqua. C'era un frastuono, nelle loro teste, prodotto dalla pressione dell'aria, che era calda, a causa della stessa compressione.

Non c'era nulla da vedere, sulla parte ancora asciutta delle pareti e sul soffitto, a parte la griglia di un aeratore, dietro la testa di Mabel.

Il generale disse… e la sua voce era stranamente aspra, e distante… «Non capisco perché, con una simile pressione, l'aria non sfugge di là…» indicò l'aeratore, «E poi, finis. Dev'esserci un blocco… forse qualche valvola anti-atomica, entrata in funzione.»

Il colonnello Mab scosse il capo. La donna era distesa sulla schiena, e guardava in alto, attraverso le ciglia socchiuse.

«Non è facile vederlo, subito,» disse, gentilmente. «Ma il condotto di aerazione è pieno d'acqua. Si gonfia un poco, nei quadratini dell'aeratore, sembrano le punte di grosse dita nere. La pressione dell'acqua, dall'alto e dal basso, forma una specie di equilibrio… in ogni caso, per il momento, e finché le superfici nella griglia non saranno disturbate.»

«Tu hai delle visioni,» le disse il generale. «Una pessima fantasia idrostatica. La pressione sull'acqua che si trova sotto di noi deve essere maggiore. Dovrebbe ugualmente spingere l'aria verso l'alto.»

«Forse il condotto di aerazione non si è ancora riempito completamente,» gli rispose il colonnello Mab, con una scrollatina di spalle. «Ma io non ho le visioni.»

Allungò la mano, e infilò il mignolo nel più vicino foro della griglia; poi lo ritrasse immediatamente, quando un rivoletto d'acqua grosso come un sigaro sprizzò su di loro, gettandosi rumorosamente nell'acqua nera, in basso… dando l'assurda impressione di un elefante che si liberasse di un po' di fluido.

Il generale la prese per le spalle.

«Maledettissima, stupida cagna,» ringhiò. Poi la guardò bene in viso, e infilò le dita nel colletto della donna, strinse forte, e lo strappò. «Sì,» disse, raucamente, facendo un breve segno di assenso. «Che ti piaccia o no.»

Esitò, poi disse, in tono di scusa, ma anche di estrema determinazione :

«Non c'è altro luogo in cui fuggire, se non l'uno nell'altra.»

Lei gli sorrise brevemente.

«Vediamo di farlo bene, grosso bastardo in divisa,» gli disse. Socchiuse gli occhi. «Siamo finiti,» disse, pensierosa, pronunciando ogni sillaba come se fosse stata una pietra, e lei vi stesse camminando prudentemente sopra. «Ma se riuscissimo a fare in modo di raggiungere l'orgasmo proprio quando affoghiamo… Dovremo aspettare, finché l'acqua non sarà sopra di noi… Non deve essere troppo presto…»

«Accidenti, questa è un'idea, Mab!» le disse il generale, sorridendole come un cupo mastino.

Lei corrugò la fronte.

«Non è tutto,» disse, parlando sommessamente, tanto che era difficile udirla nel rumore delle cascatelle d'acqua… erano tre, adesso. «C'è qualcos'altro. Ma è sufficiente per cominciare, e penserò all'altra cosa fra un po'.»

Sbottonò la giacca bagnata e la gonna, e sfibbiò il reggiseno. Il raggio della lampadina legata al petto del generale scintillò sui seni della donna. Il generale entrò in lei, e si misero al lavoro.

«Adesso fa' piano, vecchio bastardo,» gli disse Mabel.

Quando l'attirò a sé, la lampadina disegnò un quadratino roseo nel petto della donna, che riluceva di un debole chiarore tra i seni.

Quando l'acqua fu a due centimetri dalla sommità del classificatore, fecero una pausa.

«Come topi in trappola,» gli disse lei, affettuosamente.

«Hai una bella coda, signora Topa,» le disse il generale. «Ho sempre pensato che fossi lesbica. Ti chiamavano tutti 'il colonnello Mabel', proprio per questo.»

«Lo sono, infatti,» lo informò Mabel. «Ma non è tutto quello che sono.»

«A proposito della tigre nera che ci era parso di vedere…» le disse il generale.

«L'abbiamo vista,» fece lei, e sorrise. «Morire soffocati è una morte molto silenziosa,» gli disse. Mosse la mano nell'acqua, come se fosse stata su una canoa… e per un momento, fu proprio così. «Questo è preso dalla Duchessa di Amalfi, generale. Il duca Ferdinando. Carino, non trovi?» Vedendo che lui corrugava la fronte, perplesso, gli disse, continuando a sorridere. «Ho letto in diversi libri che un impiccato raggiunge sempre un orgasmo… e soffocare è come essere impiccati. Non so se questo valga anche per le donne, ma può darsi, e il mio sesso deve sempre correre tutti i rischi. Almeno, se potessimo far combinare tutte queste cose… Ti piace uccidere una donna, generale? Io sono una lesbica, generale, e sono stata a letto con ragazze che tu non hai mai avuto.

«Ti ricordi quella piccola rossa, nella Sezione Statistica, che aveva sempre un tic all'occhio sinistro, quando le urlavi qualcosa?»

Proprio in quel momento l'acqua fu sopra il classificatore, e l'aeratore si ruppe, e un grande singhiozzo inorganico iniziò mentre, alternativamente, un massa d'acqua cadeva dalla cavità, e una massa d'aria fuggiva verso l'alto, ritmicamente. Il classificatore tremava.

Il generale e il colonnello Mab si rimisero al lavoro.

«Maledetta, schifosa insidiatrice di ragazze, prendila calma, adesso,» le gridò il generale all'orecchio. «Io ricorderò che sei tu la donna.»

«Lo credi davvero?» gridò lei, e le sue mani dalle dita lunghe e forti, mani da strangolatrice, salirono, tra le braccia del generale, e si chiusero intorno al collo.

CAPITOLO XXIV

I muscoli e i legamenti di Paul Hagbolt cominciavano a far male, per quella posizione innaturale, malgrado l'aiuto della mancanza di gravità. Pensò a qualche cortese protesta, a quel riguardo, senza alcun effetto. Dopo avere superato il primo momento di terrore per Tigerishka, aveva dato voce a quelle lamentele, e aveva anche cominciato a fare molte domande. Ma lei aveva detto, 'Chiacchiere di scimmia', e aveva appoggiato una zampa di velluto sulle sue labbra, e una paralisi aveva bloccato la gola e il viso di Paul, sotto il naso… misteriosamente, un bavaglio invisibile gli era stato applicato.

Per lo meno, le sue sofferenze distolsero la sua mente dalle umiliazioni. Adesso era nudo. Dopo aver scoperto che la mente primitiva che si trovava a bordo del disco volante era quella di Paul, e non quella di Miao, Tigerishka aveva… 'sfogliato'… i suoi pensieri un'altra volta, con disprezzo. Poi gli aveva tolto gli abiti bagnati, con rapidità ancor maggiore, liberandogli per un momento il polso o la caviglia per facilitare il procedimento. Poi lo aveva sottoposto a un'ispezione anatomica distaccata, condotta gelidamente, come se lui fosse stato un cadavere. E infine… massima delle umiliazioni!… aveva attaccato, alla biforcazione tra le gambe di Paul, un paio di apparecchi igienici.

Da essi uscivano dei tubi, collegati al medesimo pannello grigio-argento nel quale, attraverso una porta spalancatasi per un momento, lei aveva gettato gli abiti fradici di Paul. Paul lo battezzò il Pannello dei Rifiuti.

Nel calore della cabina era più comodo essere nudo, benché la comodità non cancellasse l'umiliazione.

Dopo aver provveduto all'evidentemente disgustoso compito di pulire Paul, Tigerishka si dedicò alle proprie faccende. Prima di tutto, si lisciò e agghindò, facendo lo stesso anche a Miao, usando non solo una lingua lunga e appuntita, di un pallido color viola, assai più simile a quella di un rospo che a quella di un gatto, ma usando anche due pettini d'argento che usava con uguale destrezza con tutti e quattro i suoi arti e la coda prensile. Mentre si pettinava ritmicamente, cominciò a miagolare gentilmente, sommessamente, le note discordanti di una musica felina, riuscendo chissà come a produrre tre voci simultaneamente. I peli catturati da quell'operazione finirono nel Pannello dei Rifiuti.

Poi, con sublime — o semplicemente orrenda — indifferenza felina per il mondo che agonizzava sotto di loro… se, come Paul si domandava, il disco volante era sospeso ancora sulla California Meridionale, o sulla stessa Terra… Tigerishka diede da mangiare a Miao. Dal secondo dei tre pannelli… Paul lo battezzò subito il Panello del Cibo… estrasse un grosso verme rosso-bruno, che Paul giudicò, istintivamente e con disagio, sintetico, piuttosto che naturale. Si dimenava con il necessario vigore per interessare enormemente Miao, che giocò con esso in caduta libera per qualche minuto, mentre Tigerishka guardava, prima di mangiarlo lentamente, dando segni di grande soddisfazione.

Poi Tigerishka andò davanti al terzo pannello, che dopo qualche tempo Paul battezzò Pannello di Comando, e si occupò di quello che doveva essere il suo normale lavoro, e cioè quello di osservatrice… almeno da quanto poté giudicare Paul.

La prima volta in cui lo specchio che gli stava di fronte si fece trasparente, Paul fu lietissimo degli accomodamenti igienici che erano stati predisposti per lui.

Mezzo miglio più in basso un rabbioso mare livido si gonfiava e si frangeva in turbini tempestosi; in quel mare si vedeva sporgere soltanto un'isola rocciosa e solitaria, e nelle acque un'enorme petroliera solitaria rollava e beccheggiava; grandi masse di acqua verdastra le coprivano la poppa.

La trasparenza della parete di fronte era perfetta. Gli parve di essere sul punto di precipitare, attraverso il grande anello di fiori, verso lo spumeggiante maelstrom. Poi lo specchio riapparve.

La stessa cosa accadde almeno una mezza dozzina di volte, in rapida successione; e le quote di osservazione variavano bruscamente. Paul si sentì sospeso, con lo stomaco rovesciato, sopra il mare, la costa, e la campagna. Una volta gli parve di riconoscere la parte settentrionale della Valle di San Fernando, con una sezione delle montagne di Santa Monica, ma non poté esserne sicuro.

Fu impossibile, però, confondere la visione successiva. Erano ad almeno cinque miglia di quota, ma non c'era nulla, sotto di loro, fin quasi ai bordi della finestra di nove metri, all'infuori di una città… una città illuminata dal sole, con il mare da un lato, le montagne da altri due lati, e che continuava sul quarto, apparentemente infinita.

La città era macchiata, diagonalmente, da sei pennellate parallele, che cominciavano soprattutto vicino al mare, con un allegro colore vermiglio, ma rapidamente diventavano di un nero brunito di fumo denso, che si allungava fino alle montagne, e penetrava nell'entroterra.

Era Los Angeles… in fiamme. Questa volta, il disco volante si abbassò a sufficienza, perché Paul potesse identificare le principali zone d'incendio: Santa Monica, Long Beach, Torrance, Inglewood, il centro civico di Los Angeles, e Santa Monica, con le ultime lingue di fuoco che sfioravano i pendii meridionali delle montagne di Santa Monica, attraverso Beverly Hills e Hollywood.

La casetta di Margo, a Santa Monica, e l'appartamento di Paul, a quanto pareva, erano solo dei ricordi.

Erano troppo in alto, perché lui potesse vedere distintamente… ma si limitò a immaginare il brulicar di formiche delle automobili, i grappoli dei rossi insetti rettangolari che erano le autopompe.

La linea costiera, a sud, pareva completamente sbagliata… in molti punti il Pacifico penetrava troppo nell'entroterra.

Si sentì soffocare, e allora capì che aveva tentato di urlare a Tigerishka, malgrado l'invisibile bavaglio, di fare qualcosa.

Lei non gli rivolse neppure un'occhiata, ma voltò le spalle al quadro di comando, per stendersi su un pavimento invisibile, guardando verso sud-ovest, là dove c'era il mare.

Due miglia sotto di loro un banco fittissimo di nubi grige dai bordi neri stava avanzando rapidamente verso la costa trasformata. Il bordo nero toccò l'incendio di Long Beach, e il fumo diventò biancastro… pioggia! Pioggia fittissima!

Paul guardò avanti, vedendo gli altri focolai d'incendio che si trovavano sul percorso della nuvolaglia, e vide lo scintillare argenteo e vermiglio di due reattori militari che si dirigevano verso di lui. Si videro degli sbuffi di fumo, sulle ali dei reattori, ed egli poté vedere i quattro missili aria-aria in rotta di collisione verso il disco volante, che ingrandivano avvicinandosi.

Allora parve che Los Angeles fosse stata scagliata giù, abbassandosi di venti miglia. La scena si espanse di trenta volte. Vide delle altre colonne di fumo, rimpicciolite dall'altezza, lungo la costa e oltre, verso Bekersfield. Poi la parete riapparve… non uno specchio, questa volta, ma un verde acquamarina, presumibilmente per non cadere nella monotonia.

Tigerishka allungò la zampa, infilandola tra i cespugli, e ne estrasse Miao. Attirò a sé la gattina e, voltando le spalle a Paul, disse a voce alta:

«Ecco, noi salviamo la sua città di scimmie per lui. Chiamiamo un grande disco oltre il mare. Facciamo piovere. Poca gratitudine. Aiuta le scimmie, le scimmie sparano.»

Miao miagolò, come se avesse preferito ritornare tra i fiori, ma Tigerishka le leccò il muso con la lingua sottile, e la gattina ronfò, felice.

«Lui non ci piace, vero?» continuò Tigerishka, lanciando un'occhiata di sbieco a Paul, con voce che era a metà tra le fusa e la risata crudele. «Scimmie! Vili, chiacchierone, a branchi dappertutto… nessuna individualità, nessuna intuizione.»

Paul avrebbe voluto strozzarla, affondare le dita nel pelo verde e folto del suo collo. Sì, avrebbe voluto circondarle quel collo con le mani, e poi…

Tigerishka attirò Miao più vicina a sé, e mormorò, non così piano che Paul non potesse udire:

«Ci sembra che puzzi. Puzza anche con la mente, vero?»

Paul ricordò, sconsolato, che un giorno aveva pensato che Margo gli mettesse troppo i piedi sul collo. Già. Quello era stato prima di conoscere Tigerishka.

Don Merriam era seduto sul bordo di un letto che sembrava un grande cuscino cedevole, in una stanzetta dalle pareti immerse in una penombra riposante.

All'altezza delle sue ginocchia c'era un tavolino basso, sul quale erano posate una tazza trasparente, e una fiaschetta piena d'acqua, e anche un vassoio trasparente sul quale erano ammucchiati dei cubetti bianchi, spugnosi, dalla superficie ruvida. Aveva bevuto l'acqua avidamente, ma aveva soltanto sfiorato uno dei cubi, benché l'odore e il sapore fossero molto simili a quelli del pane.

Nella stanza si trovavano anche una sorta di toilette, con un coperchio trasparente, e in un angolo c'era una zona, di circa un metro quadrato, nella quale una pioggia continua cadeva fitta, producendo un rumore riposante, senza bagnare il resto della stanza. Non era ancora andato sotto quella doccia, anche se si era spogliato quasi completamente.

La temperatura, l'umidità, e l'illuminazione della stanza si adattavano così meravigliosamente alle sue esigenze, che gli pareva quasi di trovarsi in un'estensione del suo corpo.

Prima che una porta celata nella parete, scorrendo lateralmente, avesse chiuso fuori il suo ospite, o catturatore, l'uomo-tigre rosso e nero gli aveva detto:

«Bevi. Mangia. Sollevati e rinfrescati. Riposa.»

Erano state queste le sue uniche parole, dal momento in cui aveva chiamato Don. Durante la breve discesa della piattaforma, e poi nel breve tragitto lungo un corridoio stretto, l'essere alieno aveva taciuto.

Don aveva accolto con sollievo l'uscita della creatura, ma aveva provato una sorda irritazione verso se stesso, per il timore e la timidezza che gli avevano impedito di fare delle domande; e in quel momento provava quasi il desiderio che l'essere ritornasse.

Questo era soltanto uno dei sentimenti contradditori che vivevano in lui: stanchezza-inquietudine, salvezza-estraneità, il bisogno di lasciar correre i suoi pensieri, e il bisogno di trattenerli, la necessità di affrontare la situazione, e la necessità di evadere nell'illusione.

Era facile considerare quel luogo una piccola stanza d'ospedale. Oppure una piccola cabina, in un grande transatlantico. Ebbene, che cos'era in fondo un pianeta, se non una specie di nave, che si muoveva attraverso l'oceano dello spazio? Almeno, questo pianeta, con i suoi ponti senza fine…

La stanchezza si impadronì di lui; le luci si affievolirono ancor più; egli si distese completamente sul letto, ma nello stesso tempo la sua mente diventò incredibilmente attiva, cominciò a balbettare… anche se in maniera ordinata, in un certo senso.

L'effetto, che era molto simile a quello del pentothal di sodio, era quasi piacevole. Almeno, serviva a neutralizzare l'ansia e l'apprensione.

Gli venne in mente che dovevano essere loro che penetravano nella sua mente, la esaminavano, ma si rese conto che questo non gli importava.

Era un arricchimento, osservare i suoi pensieri, la sua conoscenza, e le esperienze che lui ricordava, disporsi in file ordinate, e poi sfilare in parata, passando davanti a qualche misterioso palco d'onore…

Dopo qualche tempo, quelle immagini mentali cominciarono a muoversi troppo rapidamente, perché lui potesse seguirle, ma anche questo era bello, perché la macchia indistinta che il loro passaggio produceva era un'oscurità calda, tenera, sonnolenta, che lo racchiudeva completamente.

CAPITOLO XXV

I fenomeni prodotti dalle mostruose maree furono innumerevoli, mano a mano che le acque orrendamente gonfiate dal Vagabondo si muovevano intorno al mondo.

Le correnti negli stretti, come quelli di Dover, della Florida, di Malacca e di Juan de Fuca, diventarono troppo forti per essere combattute dalle navi. Piccole imbarcazioni vennero inghiottite, come granelli di crusca in un mulino.

Altissimi ponti, costruiti per resistere a venti d'uragano, vennero messi alla prova dall'acqua corrente. Divennero barriere per le imbarcazioni, che si ammucchiarono contro di essi, e li ruppero.

Delle navi ormeggiate si sollevarono dai moli e dalle banchine, portando con loro gli ormeggi, oppure si infilarono nelle strade centrali delle città di porto, infilandosi nelle pareti dei grattacieli.

I battelli più leggeri vennero strappati dalle grandi ancore, o tirati a fondo da esse. I fari vennero inondati. Alcuni brillarono per ore negli abissi, dopo essere stati sommersi dalle acque.

I ghiacci perenni delle coste della Siberia e dell'Alaska vennero rotti dal basso, e sciolti nell'acqua salata. In America e in Russia i razzi a testata nucleare vennero sommersi nei loro ripari (Un giornale dell'interno suggerì di usare le bombe atomiche per far evaporare l'acqua). Le linee dell'alta tensione vennero sommerse, tra un crepitio di corti circuiti, e riapparvero più tardi, drappeggiate di rottami.

Le piccole maree del Mediterraneo diventarono enormi, per lo meno quanto bastava a creare disastri della medesima entità subita generalmente dai porti oceanici colpiti da uragani rinforzati da eccezionali maree lunari.

Le limpide acque del Mississippi furono come un velo sottile, sopra la marea salata che dal Golfo penetrò nel delta del fiume, invadendo le strade di New Orleans.

I fratelli Araiza e Don Guillermo Walker s'imbatterono in un fenomeno analogo sul San Juan. Più tardi, nel pomeriggio, il fiume invertì il corso della corrente, traboccò nella giungla, su entrambi i lati, e cominciò ad acquistare un sapore salmastro. Apparvero dei rottami, portati dalla corrente verso monte. Bestemmiarono, sbalorditi… i latini con un certo rispetto, lo yankee in modo teatrale, recitando un brano del Re Lear… e diressero la lancia nuovamente verso il Lago Nicaragua.

La popolazione delle grandi città portuali trovò rifugio sulle alture dell'entroterra o… in maniera assai più precaria… sui piani più alti dei grattacieli, dove vennero combattute delle guerriciole feroci per la conquista dello spazio vitale. Furono organizzati dei ponti aerei, che salvarono qua e là dei dispersi. Persone eroiche e semplicemente ostinate, o incredule, rimasero ai posti di lavoro. Una di queste persone era Fritz Scher, che rimase per tutta la notte all'Istituto delle Maree. Hans Opfer, sfidando l'acqua che invadeva le strade di Amburgo, era uscito per la cena, promettendo di ritornare con dei wurstel e un paio di bottiglie di birra, ma non fece più ritorno… sopraffatto dalle acque e dal proprio istinto di conservazione.

Così Fritz non ebbe più nessuno cui rivolgere le sue risate di scherno, quando arrivò la bassa marea, nelle ore serali. E più tardi, verso mezzanotte, ebbe soltanto la sua macchina per la previsione delle maree, con la quale dividere le sue razionalizzazioni sul motivo dell'incredibile bassa marea, segnalata dai pochissimi rapporti che continuavano ad arrivare. Ma questo gli diede uguale soddisfazione, perché il suo devoto affetto per la lunga macchina aerodinamica stava diventando fisico. Trasferì la scrivania accanto alla macchina, in modo da poterla toccare costantemente. Di quando in quando andava a una finestra e guardava brevemente fuori, ma c'era una fitta nuvolaglia, così la sua incredulità verso il Vagabondo non venne messa alla prova cruciale.

Molti di coloro che sfuggivano alle maree s'imbattevano in altri guai, che fecero loro dimenticare la minaccia delle acque. A mezzogiorno, ora del Pacifico, l'autobus scolastico e il camion che trasportavano gli studiosi dei dischi volanti erano impegnati in una corsa col fuoco. Davanti a loro, grandi muraglie di fiamme stavano scalando rapidamente i pendii sabbiosi, lungo i quali la Collinare di Santa Monica attraversava la spina dorsale delle montagne di Santa Monica.

Barbara Katz osservò la piccola ondata giungere dal lato sinistro della Rolls Royce, dall'altra parte della strada, e disperdersi tra i fili verdi dell'erba, mentre Benjy, con ostinazione ammirevole, manteneva la velocità sui cinquanta chilometri orari, con una costanza esasperante. Come comandante a bordo dell'auto, almeno secondo il parere degli altri, Barbara avrebbe dovuto sedere davanti, ma la ragazza riteneva ancor più vitale rimanere accanto al suo milionario, così era seduta dietro Benjy, con il vecchio KKK accanto a lui, ed Hester dall'altra parte; mentre Helen era sul sedile anteriore, accanto a Benjy e a una montagna di valigie,

Il sole era alto nel cielo, e i suoi raggi avevano cominciato a giungere all'interno della macchina, quando essi iniziarono una marcia verso est, attraverso le zone paludose. I finestrini erano chiusi ermeticamente, dalla parte di Barbara, e il caldo si faceva sentire. Sapeva che il lago Okeechobee doveva essere da qualche parte, a destra, verso nord, ma non poteva vedere altro che l'apparentemente infinita distesa erbosa, interrotta qua e là da macchie di neri cipressi sepolcrali, e lo stretto corridoio d'acqua, simile a uno specchio, copriva la strada diritta, livellata, con un velo di due centimetri, o al massimo otto… finora.

«Lei ha proprio ragione sull'alta marea, signorina Barbara,» disse Benjy, con voce gentile e allegra. «Arriva fin qui. Mai sentita una cosa simile.»

«Zitto, Benjy,» lo avvertì Hester. «Il signor K sta ancora dormendo.»

Barbara avrebbe voluto essere così fiduciosa, sulla propria sapienza, quanto sembrava esserlo Benjy. Controllò i due vecchi orologi da polso del vecchio KKK, che si era messa al polso… le due e dieci, dicevano… e l'ora per la seconda alta marea della giornata a Palm Beach, sul retro del foglio strappato dal calendario… l'una e quarantacinque. Ma un'alta marea che penetrava nell'interno non sarebbe stata più lenta che sulla costa? Almeno, le sembrava di ricordare che per i fiumi il ritardo esisteva. Non sapeva abbastanza, si disse.

Un'automobile aperta, che andava a una velocità doppia della loro, li sorpassò ruggendo, spruzzando la Rolls d'acqua. Continuò a filare come un proiettile, sollevando spruzzi d'acqua in ogni direzione. A bordo c'erano quattro uomini.

«Un altro maniaco della velocità,» brontolò Hester.

L'incontro svegliò il vecchio KKK, che guardò Barbara con occhietti arrossati e stanchi, che le parvero svegli per la prima volta, nel corso della giornata. Aveva attraversato il periodo dei preparativi e della partenza vera e propria in una specie di sopore ipnotico, che aveva preoccupato Barbara, ma non Hester. «Non ha dormito fino in fondo, ma starà benissimo,» le aveva detto Hester.

In quel momento, il signor K disse, bruscamente:

«Telefoni all'aeroporto, signorina Katz. Vogliamo due biglietti per Denver, con il primo aereo. Tripla tariffa per gli impiegati dell'ufficio prenotazioni, per il pilota, e per la compagnia aerea. Denver è a un miglio di altezza, lontano dalla portata di qualsiasi marea, e ho degli amici là.»

Barbara si voltò a guardarlo, spaventata, poi si limitò a indicare l'ambiente che li circondava.

«Oh, sì, adesso comincio a ricordare,» disse il milionario, lentamente, dopo un momento. «Ma perché non ha pensato all'aria, signorina Katz?» si lamentò guardando la borsetta nera della Black Ball Jetline che la ragazza teneva sulle ginocchia.

«Questa me l'ha prestata un'amica. Sono venuta con l'autostop, dai Bronx. Non vado spesso in aereo,» confessò, infelice, sentendosi ancor più infelice dentro. Ecco, lei era venuta a soccorrere così brillantemente il suo milionario… abbacinata da una sedan Rolls Royce… e aveva trascurato il metodo più ovvio per farlo, probabilmente condannandoli tutti. Santo cielo, perché lei non aveva pensato come un milionario?

In un angolo della mente, al di fuori dell'area dell'infelicità, lei si stava chiedendo se il vecchio KKK avesse fatto un piccolo sbaglio, nel menzionare solo due biglietti. Certamente aveva voluto dire cinque… be', lui parlava a Hester, a Helen e a Benjy come se fossero stati i suoi figli!

«Almeno abbiamo portato del denaro con noi?» le domandò seccamente.

«Oh, sì, signor Kettering, abbiamo preso tutto quello che c'era nella cassaforte dello studio,» gli assicurò Barbara, traendo un po' di conforto dallo spessore dei rotoli di banconote che poteva sentire, attraverso la stoffa della borsetta.

La Rolls stava rallentando. L'ultima automobile che li aveva sorpassati era bloccata, nell'erba alta, con il cofano semisommerso, e i quattro uomini che erano stati a bordo si trovavano nell'acqua fino al ginocchio, bloccavano la strada e gesticolavano.

Quella visione la galvanizzò.

«Non rallenti!» gridò, aggrappandosi allo schienale del sedile di Beniv. «Acceleri e vada diritto!»

Benjy rallentò ancora un poco.

«Fa' quello che ti dice la signorina Katz, Benjamin,» gli ordinò il vecchio K, con un'asprezza che gli fece pronunciare l'ultima parola insieme a un colpo di tosse… e l'ultima parola fu, «Svelto!»

Barbara poté vedere la testa di Benjy abbassarsi, le spalle alzarsi, e immaginò che i suoi occhi si socchiudessero, mentre il piede premeva il pedale dell'acceleratore.

I quattro uomini aspettarono, finché non si trovarono a due macchine di distanza, poi saltarono ai bordi della strada, mandando grida rabbiose. Non era stato un buon bluff.

Barbara si voltò, e vide uno di loro lottare con un altro, che aveva estratto la pistola.

Forse ho fatto una cosa sbagliata, pensò.

Col cavolo, che l'ho fatta!

Dai Davies era seduto sul bancone, osservava le sue vergini-candele versare le ultime bianche lacrime, il loro latte di vergine, con l'animo annerito che si rovesciava nelle pozze di cera e vi annegava. Gwen e Lucy erano andate, e anche Gwyneth, ora. Era una doppia perdita, perché lui aveva bisogno del loro semplice calore e della luce; il sole era tramontato, e l'oscurità limpida ma intensa si era posata pian piano sul gran prato grigio acquoso che era tutto ciò ch'egli poteva vedere attraverso i vetri sfaccettati della porta. Aveva sperato che un guizzo di luce gli giungesse dal lontano Galles, ma non era venuto.

La marea della Severn era entrata nel pub già da qualche tempo, ed era così alta, ora, che lui doveva sollevare i piedi. Due scope, uno straccio, un secchio, una cassa di sigari, e sette pezzi di legno galleggiavano intorno a lui, lentamente. Aveva pensato fuggevolmente di andar via, a un certo punto, e si era infilato due bottiglie nelle tasche, in vista di questa eventualità; ma poi aveva ricordato che quello era il terreno più alto che si trovasse intorno, per centinaia e centinaia di metri, e le candele erano state calde e gentili, e adesso lui aveva bevuto ancora, lo sapeva, aveva una nuova riserva d'alcool che per un poco lo avrebbe mantenuto leggero.

In ogni caso, era quello il luogo migliore per fare il Re Canuto sopra una bara di coccodrillo. Ancora cinque centimetri, e la marea si sarebbe fermata, e avrebbe cominciato a defluire, decise d'un tratto… e ordinò con voce potente all'acqua di farlo.

Dopotutto, all'una, o qualche minuto dopo, c'era stata la bassa marea, così ora doveva essere l'alta marea, o doveva mancarvi poco… se questo pazzo diluvio salato obbediva a qualcuna delle vecchie regole.

Annusò beatamente la bottiglia aperta che teneva in mano… importata dall'America, Kentucky Tavern di Erskine Caldwell… e guardò Eliza rabbrividire e spegnersi e poi, d'un tratto, sprizzare fiamma azzurrina e vivida.

Le finestrelle bordate di piombo si gonfiarono, per un nuovo afflusso della marea. L'acqua penetrava dal buco che aveva aperto nella porta. Poi sentì chiaramente il bancone, sotto di lui, muoversi un poco… anzi, era l'intero edificio a muoversi. Bevve un lungo sorso, e gridò, ridendo, «Una volta tanto è la taverna a ballare, e non Dai!» Poi fu pervaso da un'immensa serietà, e finalmente capì con esattezza quello che stava accadendo, e gridò, con selvaggio orgoglio, «Muori, Davies! Muori! Guadagnati il tuo nome. Ma muori gloriosamente. Muori, con una bottiglia di whisky in mano, cantando il tuo amore per la lontana Cardiff. Ma…» E poi, vincendo per la prima volta nella sua vita la strisciante gelosia per Dylan Thomas… «Non addentrarti quieto in quella buona notte. Infuria, infuria, contro il morire della luce.»

E in quel momento, mentre Eliza si spegneva in un ultimo guizzo, e l'ultima goccia di luce perlacea parve smorire su tutta la grigia pianura della Severn, si udì bussare con forza alla porta, un battito pesante, lento, triplo e autoritario.

Un terrore soprannaturale s'impadronì di lui, e gli diede la forza di muoversi, vincendo la forza del whisky, di calarsi nell'acqua gelida e guazzare in essa, immerso fino alla cintola, per aprire la porta. Là, appena fuori, premuto contro la porta dalla corrente, egli vide, alla luce morente di Mary e Jane e Leonie un piccolo scafo lungo, nero e vuoto.

Ritornò pesantemente al bancone, e l'acqua era un ostacolo ma anche un supporto, per lui; prese tre bottiglie nuove, stringendole nell'incavo del braccio, e, tornando indietro, raccolse le due scope galleggianti.

La leggera imbarcazione stava aspettando. Dai gettò a bordo le scope, vi posò le bottiglie con ogni cautela, e poi si issò a bordo, faticosamente; per poco non perse i sensi, ma l'acqua era gelida, e finalmente riuscì a salire, gettandosi a faccia in giù sul legno bagnato. E allora perse i sensi. Con un ultimo calcio in direzione della porta, riuscì a far muovere la barca, che si allontanò galleggiando.

Richard Hillary camminava, in un crepuscolo più scuro, a dieci metri da una strada rumorosa di macchine. Le auto si muovevano lentamente, quasi a contatto di parafango, in tre corsie vicinissime, e così non c'era posto per il traffico che veniva dalla direzione opposta. Era inutile tentare di ottenere un passaggio, perché le automobili erano tutte cariche di passeggeri… e se un posto vuoto fosse apparso, sarebbe stato conquistato subito da qualcuno che ne aveva più evidenti diritti, o semplicemente da qualcuno più vicino alla strada. Inoltre, lui camminava quasi più rapidamente delle automobili, e certamente più in fretta della maggior parte dei pedoni.

Automobili e gente a piedi, e lui era a qualche distanza da Uxbridge, e si dirigeva a nord-est. Era stato un sollievo, quando il sole abbacinante era tramontato, benché ogni segno del passar del tempo facesse ancor più affrettare i pedoni, e gremisse ancor più di macchine la strada.

In vita sua, Richard non aveva mai sperimentato un tale disastro rivoluzionario, né direttamente, né nello scorrere degli eventi intorno a lui… neppure ai tempi dei bombardamenti, che ricordava confusamente nelle nebbie dell'infanzia… e tutto in sei ore. Prima, la corriera che si era diretta a nord, per sfuggire alla piccola inondazione di Brentford… il brontolio del conducente alle proteste dei passeggeri, rotto soltanto da un reiterato «Ordine della Polizia Stradale!»… notizie radiofoniche di grandi inondazioni nel cuore di Londra, del disco volante americano avvistato nella Nuova Zelanda e in Australia, e chiamato «un pianeta»… la radio ammutolita da scariche di statica, proprio mentre qualcuno aveva cominciato a recitare un elenco di «direttive ai civili»… gente che si domandava, freneticamente, come mettersi in contatto con le famiglie, e lui che si sentiva per metà ferito, e per metà sollevato, al pensiero che nel suo caso non c'era nessuno che contasse davvero. Poi la corriera che si fermava al West Middlesex Hospìtal, con l'informazione che era stata requisita per trasportare i pazienti… altre proteste senza esito… il consiglio di andare a nord-ovest a piedi, «lontano dall'acqua»… il rifiuto di credere… un breve vagabondaggio tra i prati di una nuova università… automobili, e profughi pallidi come cenci lavati che venivano in sempre più gran numero da est… l'elicottero che seminava volantini… un volantino ancora fresco d'inchiostro, che diceva semplicemente, «Tutti gli abitanti del Middlesex Occidentale vadano sulle colline Chiltern. Acqua alta prevista per le due dopo mezzanotte.» Finalmente, unendosi a una carovana di viaggiatori che andavano a nord-ovest, e che ingrossava sempre di più… lui era diventato un componente di una folla attonita e frettolosa.

Richard giudicò di essere in cammino ormai da due ore. Era stanco; teneva la testa bassa, lo sguardo fisso sulle scarpe infangate. C'erano segni evidenti d'inondazioni recenti, in una distesa di terreno più basso, che avevano appena superato: pozzanghere torbide ed erba sporca e appiattita. Non aveva un'idea precisa sul luogo in cui si trovava, tranne il fatto che aveva passato già da tempo Uxbridge, e aveva attraversato la Coine e il Grand Junction Canal, e che lontano, davanti a lui, già poteva vedere le colline.

Il crepuscolo era stranamente livido. Per poco non si scontrò con un gruppo di persone che si erano fermate, e a occhi sbarrati guardavano qualcosa in alto, sopra la testa di Richard. Si voltò a sua volta, per vedere quale fosse il motivo di tanto interesse e lassù, basso sull'orizzonte orientale, egli vide finalmente l'agente della loro sciagura, grande almeno quanto la Luna doveva sembrare grande in sogno. Era quasi tutto giallo, ma con una larga sbarra purpurea che scendeva dal centro, e dalle estremità della sbarra due braccia purpuree, che si curvavano per formare una grande D. Pensò, D come disastro, D come dramma, D come distruzione. Quell'oggetto poteva essere un pianeta, ma non sembrava bello… sembrava un emblema minaccioso, come quelli che si potevano vedere in una fabbrica di bombe.

Si ritrovò a pensare a tante cose… in quale sicurezza la Terra aveva ruotato in tutta la sua solitudine, per milioni di anni, come una casa nella quale non giungono mai degli estranei, e quanto precaria fosse sempre stata in realtà quella solitudine. Quando la gente rimane sola per troppo tempo, diventa eccentrica, ed egoista, e abitudinaria… questo pensiero lo colpì, e non voleva andarsene.

Ma perché, pensò, rabbiosamente, Perché, quando infine dagli estremi limiti dell'universo giunge un intruso mortale, esso non sembra altro che uno stupido annuncio pubblicitario, una lampada circolare su di un cartellone invisibile?

Poi lo scintillare di un pensiero, giunto in ritardo: D come Dai. Ricordò in quel momento che le maree, alla foce dell'Avon, raggiungevano un'altezza di dodici metri, con la luna piena, e fuggevolmente si domandò cosa stesse facendo in quel momento il suo amico.

Dai Davies riprese i sensi, intirizzito paurosamente, e con la bocca sul legno. Riuscì ad appoggiare i gomiti sul legno… facendolo rollare, con quel movimento, e rendendosi conto di essere su una fragile imbarcazione… e a sollevare il viso dal legno, appoggiandolo sulle mani. Sopra il parapetto egli vide soltanto la nera pianura del Canale di Bristol, gonfia di acque silenziose, con alcune luci remote e piccole, che avrebbero potuto essere Monmouth o Glamorgan o Somerset, o le luci d'imbarcazioni, solo che era difficile distinguerle dal riverbero di stelle rade e fievoli.

Sentì sul petto il freddo cilindro di una bottiglia. L'aprì e bevve un sorso di Scotch. Non lo riscaldò, ma parve dargli un po' di vita. La bottiglia gli scivolò dalle mani, e cadde gorgogliando. La sua mente non stava ancora funzionando. Tutto quello che entrava era il pensiero che il Galles doveva essere sotto di lui, compresa la Stazione Sperimentale di Energia delle Maree della Severn. La prima parte di quel pensiero gli ricordò frammenti delle poesie di Dylan Thomas, che borbottò confusamente: «Solo le profonde, sommerse campane di armenti e di chiese… Acque scure su ogni campo… Sotto le stelle del Galles, Gridano, Moltitudini di Arche! (Un'arca-fuscello, Noè-Solitario.) Oltre le terre velate d'acqua chiara… e ora i fiori delle inondazioni.»

A intervalli regolari, la fragile imbarcazione sussultava. Dai, laboriosamente, riuscì a concludere che quelle piccole onde potevano essere le ondulazioni morenti delle enormi ondate dell'Atlantico, che risalivano la Manica lottando con la marea. Ma cos'era, cos'era quello che faceva scintillare le piccole creste delle onde, scintille di birra e di liquore, di sangue e d'oro?

Poi le onde fecero girare la barca, ed egli vide, nascente a est, il globo purpureo del Vagabondo, con un drago d'oro ricamato su di esso. Di fronte al drago galleggiava uno scudo d'oro, triangolare. E portato dalla rotazione di quel globo alieno stava giungendo un grosso fuso bianco, a grani, che pareva il bozzolo scintillante di qualche immensa lucciola bianca. Nella mente di Dai filtrarono i ricordi di quelle folli notizie yankee, e forse l'associazione d'idee tra lucciola, lucciola di Luna, Luna gli disse che il fuso era la stessa luna alla quale lui e Dick Hillary avevano augurato la buonanotte quindici ore prima.

Immobile e incapace di parlare, attonito, s'immerse in quella visione per tutto il tempo che poté sopportare. Poi, quando il freddo lo fece tremare convulsamente, e lo scafo girò, portato dalle onde, e muovendosi più velocemente, ora, mentre anche i sussulti si facevano più forti, egli trovò la bottiglia quasi vuota, e bevve un sorso, lentamente, prudentemente. Poi si mosse, faticosamente, fino a quando non riuscì a mettersi a sedere, trovò le due scope, le infilò al posto dei remi che non c'erano, e cominciò a remare.

Sobrio, oppure soltanto vigorosamente ubriaco dopo un riposo, forse lui avrebbe potuto uscire da quella situazione, benché il riflusso della marea fosse assai veloce, e lui si trovasse più vicino al Canale della Severn che alla riva del Somerset. Ma si limitò a remare quel tanto che bastava per mantenere quel fragile guscio in direzione del mare, e di occidente, in modo che lui potesse osservare quel magico prodigio celste. E mentre guardava, borbottava e si lamentava, «Mona, cara Luna… ti sei trovata un altro uomo, vedo… un grande imperatore, venuto a bruciare il mondo con acqua e tempesta… sei stata violata e ferita, Luna mia, ma sei più bella che mai, sai tessere un'altra e nuova forma dalla tua tragedia… vorresti essere un anello bianco?… Io sono ancora il tuo poeta, Luna, il poeta della Luna, solitario… sono un Solitario, un nuovo Solitario, il Solitario del Galles, non il navigatore, andrò con la forza dei remi in America questa notte, solo per vederti… mentre città e navi affondano, e un gran rumore si sente nella città, e poi anche questo svanisce mano a mano che giungono le onde scure, e non sono scure ma rosse di acqua chiara, luce nuova nel cielo, mentre in un sussurro il mondo affonda sotto il placido mare…»

Le onde si fecero più alte, minacciose, ruggenti di schiuma d'oro e di vino. A un quarto di miglio da lui, se si fosse voltato a guardare, avrebbe visto svilupparsi un insidioso gioco d'onde incrociate, una rete di onde scintillanti come pietre preziose che s'impennavano avide mentre le onde piccole e mortali andavano verso la riva.

Bagong Bung, piccolo al fianco del grosso ingegnere australiano, osservò la ciminiera arrugginita, spezzata, incrostata di alghe sollevarsi gradualmente, come a scatti, dall'acqua scintillante, cinquanta metri oltre la prua della Machan Lumpur, mentre il Vagabondo tramontava sopra il Vietnam, e il sole sorgeva sopra Hainan.

Una forte corrente muoveva le alghe e penetrava nei fori della ciminiera, schiumando e spingendo anche la Machan Lumpur, così che il piccolo vapore teneva in funzione l'elica solo per conservare la posizione, mentre il Golfo del Tonchino continuava a vuotarsi nel Mare della Cina.

Un suono basso e risonante veniva da sud, simile al ruggito remotissimo di un reattore. Non avevano modo di sapere che quel suono portava l'annuncio dell'esplosione dell'isoletta vulcanica di Krakatoa, nello stretto di Sunda, un'esplosione avvenuta due ore e mezzo prima.

E ora il ponte del relitto, incrostato di alghe variopinte, apparve, e la corrente, cominciò a scemare. Quando infine l'intera sagoma della nave affondata diventò visibile, Bagong Bung seppe, con certezza, che si trattava proprio della Sumatra Queen.

Allora il piccolo malese s'inginocchiò sul ponte, e s'inchinò verso ovest, nella direzione del Vagabondo e, per combinazione, anche della Mecca, e disse, sommessamente:

«Terima kasi, bagus kuning dan ungu!»

Dopo avere ringraziato il portatore di miracoli giallo e purpureo, si alzò bruscamente in piedi, e con un cenno gioioso e regale della mano gridò:

«Ci legheremo alla nostra nave del tesoro, Cobber-Hume, baik sobat e saliremo a bordo come re! Finalmente, mio buon amico, la Machan Lumpur è veramente la Tigre del Fango!»

Sally Harris si sporse dalla balaustra dell'attico, e sospirò. Le ombre erano più fitte, intorno.

A occidente, le ultime fiamme del tramonto si mescolavano a quelle del petrolio uscito dai serbatoi rotti dall'inondazione, che stava ora galleggiando e bruciando sull'acqua salata che inondava Jersey City. A est il Vagabondo stava spuntando, mostrando la sua faccia di dinosauro.

«Cosa succede, Sal?» disse Jake, che era seduto all'interno, sorseggiava dell'ottimo brandy e assaggiava numerosi, squisiti formaggi. «Non dirmi che il nostro incendio è ricominciato.»

«No, sembra proprio spento. L'acqua arriva a metà dell'edificio, e continua a salire.»

«È questo che ti preoccupa?»

«Non lo so, Jake,» disse lei, inquieta. «Stavo guardando le chiese che affondavano. Non sapevo che ce ne fossero tante. San Patrizio e l'Epifania e Cristo re e San Bartolomeo e della Grazia e il Tempio degli Attori e Santa Maria Vergine e del Calvario e di Tutte le Anime e di San Marco, e B'nai Jeshurum e la Chiesetta dietro l'Angolo e…»

«Ehi, non puoi vederle tutte da qui,» protestò Jake. «Non puoi vederne neppure la metà.»

«No, ma posso vederle con la mente.»

«Be', allora dedica la tua mente al lavoro!» le ordinò. «Ascolta, Sal, il nostro pianeta si è trovato addosso King Kong, che si alza sopra l'Empire State Building. Che ne dici, per qualcosa di folle e divertente? Forse riesco a infilare l'idea nella commedia.»

«Sono pronta a scommettere che riuscirai!» esclamò lei, rianimandosi. «À proposito, hai finito la mia canzone dell'Arca di Noè?»

«Non ancora. Santo cielo, Sal, dovrò pure riposarmi un poco, dopo l'incendio.»

«Ti sei già riposato. Avanti, mettiti al lavoro.»

CAPITOLO XXVI

Doc gridò:

«Fuori tutti, gente, per sgranchire un po' le gambe e per rispondere al richiamo della Natura,» E la voce era gioviale, malgrado il tono brusco. «Wojtowicz, a quanto pare abbiamo finalmente trovato il blocco stradale del quale avevi supposto l'esistenza.»

Gli studiosi dei dischi volanti uscirono subito nell'aria fredda e umida delle colline. Dietro di loro, ardeva una strana luce verdognola che veniva dal sole al tramonto… il consesso scientifico del gruppo deliberò che l'effetto era dovuto alla cenere vulcanica che già riempiva la stratosfera, benché Bacchetto avesse le sue idee su certe aurore planetarie.

Era evidente che essi avevano sopportato molte prove difficili, nella giornata che stava per finire, e che gli effetti del sonno perduto della notte prima stavano apparendo, come vendicatori.

La vernice gialla dell'autobus scolastico, e lo smalto bianco del camion, mostravano delle chiazze nerastre, nei punti in cui erano sfuggiti a malapena alle lingue di fuoco degli incendi. La mano destra di Clarence Dodd aveva una voluminosa fasciatura, per una ustione che l'Omino si era procurato reggendo un telone per proteggere Ray Hanks, Ida e se stesso dalle fiamme ruggenti e insidiose.

Hunter lanciò un'imprecazione, quando per poco non cadde giù dall'autobus, inciampando su due badili lasciati sbadatamente sull'entrata dopo due ore estenuanti di scavi nella sabbia e nel pietrisco per aprire un varco nella Collinare di Santa Monica, sufficiente a lasciar passare i due veicoli. Spinse i due badili sotto i sedili, con un'altra imprecazione.

Numerosi, tra i viaggiatori, erano bagnati come pulcini, e i segni neri del fuoco sull'autobus e sul camion erano umidi, dopo essere stati ruscelletti per la violenta pioggia che era sopravvenuta, marciando sulle montagne di Santa Monica in ondate grigio-acciaio, da occidente, dieci minuti dopo che essi avevano vinto la loro corsa col fuoco. L'immenso tendaggio nero delle nubi oscurava ancora tutto l'orizzonte, a oriente, benché l'orizzonte di occidente già si stesse rasserenando.

Si erano addentrati per almeno venti miglia nelle montagne, ed erano sulla cima della penultima altura, prima della discesa verso la Valle, verso Vandenberg Tre, e la Statale 101 che portava a nord da Los Angeles, verso Santa Barbara e San Francisco.

C'erano larghe macchie di umidità, sull'impermeabile preso a prestito che Doc si era sistemato sulle spalle, come una cappa militare, nel momento in cui aveva guidato fuori gli altri, con Rama Joan e Margo subito alle spalle.

In quel punto la Collinare attraversava un gradino, per metà naturale e per metà ricavato dall'uomo con l'esplosivo, in un grande dirupo di solida roccia, dal quale un picco che portava come corona un enorme masso, che si levava a cinquanta metri da loro, sulla destra, scendeva a un'angolazione di trenta gradi e poi, dopo il gradino sul quale scorreva la strada, continuava a discendere con una pendenza più accentuata per dodici metri circa, per poi inabissarsi quasi verticalmente, tanto che accanto a esso, e più oltre, era visibile soltanto il fianco di un'altra piccola montagna, a mezzo miglio di distanza.

Il formidabile pendio roccioso grigio era ricoperto da chiazze di licheni, verde pallido, arancio, azzurro fumoso e nero, ed era costellato e butterato da spaccature e trincee e buche, alcune delle quali ospitavano delle pietre grosse come un camioncino.

Uno dei macigni più voluminosi si trovava proprio al centro della strada, rovinandone l'armonia, posato nella spaccatura abbastanza profonda che esso stesso aveva prodotto nell'asfalto. Una zona priva di licheni, direttamente sopra, mostrava il punto dal quale il masso si era staccato, probabilmente a causa di uno dei terremoti.

«Accidenti, direi proprio che abbiamo trovato il blocco stradale,» disse Wojtowicz. «Guardi che roba, Doc!»

Proprio di fronte al masso, ferma al lato della strada, c'era una Corvette rovesciata, a quattro posti. Rossa, lavata di fresco dalla pioggia, aggiungeva un po' di colore al fosco paesaggio. Ma non c'era nessuno in vista, e l'allegro richiamo di Doc, «Ehi, c'è qualcuno qui?» ebbe risposta soltanto dalle eco delle lontane vallate.

Ida raggiunse in fretta Doc, dicendo:

«Signor Brecht, per oggi Ray Hanks non potrà sopportare ulteriormente il viaggio. Gli abbiamo sollevato un po' le spalle… dice che si sente meglio così… ma soffre sempre, e ha la febbre alta.»

Doc girò intorno al cofano rosso, poi, d'un tratto, s'immobilizzò, sobbalzando, come se avesse urtato una parete invisibile. Si voltò, e mostrò a coloro che gli erano stati alle spalle un viso più verde del chiarore del cielo, e sollevò il braccio, dicendo, «Restate dove siete. Che nessuno si avvicini.» Si tolse l'impermeabile, e lo gettò su qualcosa che giaceva proprio davanti all'automobile.

Con un mugolio sommesso, gorgogliante, Ida si afflosciò quietamente a terra.

Poi Doc si rivolse a loro, nuovamente, appoggiandosi all'auto per non cadere, e passandosi una mano tremante sulla fronte, dicendo con voce tremante, con difficoltà, come se avesse voluto combattere contro un conato di vomito.

«È una giovane donna. Non è morta di morte naturale. È stata spogliata e torturata. Ricordate, tempo fa, il caso 'Black Dahlia'? È qualcosa di simile.»

Anche Margo stava subendo un attacco di nausea. Aveva appena intravisto, prima che l'impermeabile l'avesse pietosamente coperta, la bianca maschera di una faccia con le guance tagliate, tanto che la bocca pareva stendersi da un orecchio all'altro.

Rama Joan, che teneva stretto il capo di Ann, premendo il viso della bambina contro il suo corpo, ma che era in punta di piedi, intenta a guardare avanti, annunciò:

«Ci sono due Sedan, dall'altra parte del masso. Non vedo nessuno a bordo.»

L'Omino si fece avanti, mettendosi accanto a lei.

«Dov'è il tuo fucile, Doddsy?» gli domandò Doc.

«Be', con questa mano non posso usarlo,» lo rimbeccò l'altro. «L'unica cosa che posso fare è di scrivere sul mio quaderno. Il fucile l'ho lasciato sul camion.»

«Ho il mio, Doc,» chiamò Wojtowicz. Avanzando di corsa, inciampò, ma evitò di cadere appoggiando il calcio del fucile sull'asfalto. Nel momento in cui ritrovò l'equilibrio tenne brevemente il fucile per la canna, come il bastone di un pellegrino.

Nello stesso momento, una voce vicina gridò seccamente le classiche parole:

«Non muovetevi. Vi abbiamo sotto tiro. Che nessuno muova un dito, altrimenti apriremo il fuoco.»

Un uomo era uscito da dietro un masso, proprio al di sopra della strada, e altri due uomini erano usciti da un altro masso, proprio al di sotto. Gli ultimi due tenevano i fucili spianati contro Wojtowicz, mentre l'altro faceva muovere lentamente, pigramente, le canne di due rivoltelle. La testa di ciascuno degli uomini era interamente coperta da una rossa maschera di seta, con dei buchi per gli occhi. L'uomo che si trovava in alto aveva un cappello nero da studente calcato sul viso, ed era magrissimo, e vestito elegantemente, ma dava l'impressione di un vecchio segaligno e agile, piuttosto che di un giovane.

Stava scendendo, rapidamente e con passo sicuro. I suoi occhi si contraevano irrequieti, come le canne delle rivoltelle, mentre fissavano i viaggiatori.

«Ottima supposizione, quella sulla 'Black Dahlia',» disse rapidamente, ma con estrema chiarezza, pronunciando ogni parola con esagerata precisione. «È stata il capolavoro della mia gioventù. Questa volta, tutto andrà assai più speditamente, e piacevolmente… e ci sarà una possibilità di sopravvivere per ciascuno di voi… se l'uomo con il fucile lo lascerà andare subito.» Le dita di Wojtowicz si schiusero, e il fucile ondeggiò stranamente per un secondo, prima di cominciare a cadere. «E se gli uomini si separeranno dalle donne, scendendo di qualche metro da quella parte, in modo che…»

Dei frammenti di roccia sprizzarono da un punto del masso che bloccava la strada, a meno di un metro e mezzo dall'uomo dalla maschera rossa e dal cappello nero. Quasi simultaneamente, si udì un crepitio di fucile, dietro di loro. Ray Hanks era riuscito a sparare, dalla sua precaria branda a bordo del camion.

Wojtowicz raccolse fulmineamente il fucile, e ancora a terra sparò ai due uomini armati di fucile. Quasi immediatamente essi spararono, e Wojtowicz cadde.

Margo aveva già estratto dalla giacca la pistola grigia, e la stava puntando contro Cappello Nero, premendo il pulsante. L'uomo si appiatti contro il macigno, con un rumore sordo di ossa che si schiacciavano, a braccia aperte, come un uomo crocifisso, e le rivoltelle gli saltarono via, sfrecciando l'una da una parte, l'altra dalla parte opposta. Il macigno dondolò, solo per un attimo, e lievemente.

Qualcuno stava gridando forte, gioiosamente.

Wojtowicz sparò, da terra, gli uomini armati di fucile spararono di nuovo, poi Margo puntò la pistola su di loro, ed essi veleggiarono via nell'aria, caprioleggiando e dibattendosi come marionette, mentre i fucili roteavano nell'aria più lontano… finché essi non furono a una decina di metri dal bordo del dirupo, e s'inabissarono, sparendo alla vista.

Cappello Nero cadde lentamente in avanti, dal macigno, rivelando una macchia rossa nel punto in cui la testa era stata appoggiata a esso. Margo corse verso di lui, puntandogli contro la pistola, e si limitò, semplicemente, a spazzarlo via, facendolo cadere nel precipizio dietro i suoi accoliti, seguito da tre piccoli macigni.

Doc, il più vicino alla linea di fuoco di Margo, fece una specie di piroetta, tendendo le braccia, come un ballerino, fece tre lunghi passi giù per il pendio, e riuscì a puntellarsi, contro un costone roccioso, prima di precipitare a sua volta.

Margo fu raggiunta da Hunter, che le prese la pistola con una mano, le staccò il dito dal pulsante con l'altra, gridandole all'orecchio, «Sono soltanto io!»

Soltanto allora smise di urlare come una furia, e ansimò, facendogli un sorrìso diabolico.

«Uh, uh,» disse.

Bacchetto corse verso Ida.

Harry McHeath s'inginocchiò accanto a Wojtowicz, che stava dicendo:

«Accidenti, oh, accidenti!» Poi: «Be', ragazzo, avevo intenzione di buttarmi giù dopo il primo colpo, in ogni caso. È stato solo un graffio alla spalla… credo. Meglio dare un'occhiata.»

Doc s'arrampicò di nuovo per il pendio, avvicinandosi a Margo e a Hunter, e domandò:

«Mio Dio, che cosa è quell'arma? Ho messo il braccio nel raggio, proprio all'orlo, e mi è sembrato di venire tirato da una locomotiva.»

Margo disse rapidamente a Hunter:

«Niente paura, non è scarica. C'è ancora metà carica… ecco, quella linea viola, visto?»

«Mi faccia…» cominciò Doc, e poi si raddrizzò bruscamente, e si guardò intorno. «McHeath!» gridò. «Portami il fucile di Wojtowicz! Rama Joan, occupati di Wojtowicz. Hixon, prendi il fucile di Hanks… se quell'eroe te lo concede. Ross, restituisci a Margo la pistola. Lei sa come usarla. Margo, lei e io andremo in ricognizione, fino a quando saremo certi che la zona è completamente libera da vermi di quella specie. Stia alla mia sinistra, e spari a chiunque compaia armato, e non sia uno di noi, ma faccia attenzione alla direzione del raggio.»

Margo, che era diventata pallidissima, ricominciò a sorridere, e si mise accanto a Doc, secondo le istruzioni, assumendo una posizione vigile, con le spalle un po' curve. Wanda, avvicinandosi a Bacchetto, per aiutarlo a far riprendere i sensi a Ida, lanciò un'occhiata prolungata a Margo, rabbrividì, e fece un ampio giro per evitarla.

L'Omino disse, pensieroso:

«Credo proprio che fosse l'assassino della 'Black Dahlia', ma ormai, probabilmente, temo che non sapremo mai quale fosse il suo viso. Be'… avremmo potuto perfino riconoscerlo.»

Wojtowicz fece una smorfia di dolore, quando Rama Joan gli strappò la camicia insanguinata con i denti, per scoprire la spalla, ma riuscì a gridare a Doddsy.

«Oh, che scemenze.»

Rama Joan si passò la lingua sulle labbra, per togliere le gocce di sangue che vi erano rimaste, e disse gentilmente:

«Vada a prendere la sua valigetta di pronto soccorso, signor Dodd.»

Doc prese il fucile che McHeath gli aveva portato, infilò una nuova cartuccia nel caricatore, e s'incamminò per il pendio, dicendo a Margo:

«Avanti, adesso che c'è ancora luce. Dobbiamo essere sicuri di accamparci in una zona tranquilla.»

Barbara Katz controllò una smorfia, quando il grosso poliziotto infilò la testa e la torcia elettrica nel finestrino, dalla parte in cui si trovava la ragazza, e domandò con voce autorevole e calma:

«Voialtri negri avete rubato quest'auto?»

Lei cominciò a parlare rapidamente, immedesimandosi nella parte di segretaria-compagna di Knolls Kelsey Kettering III, continuando a muovere la raano, avanti e indietro, sul bordo del finestrino, per attirare l'attenzione del poliziotto sulla banconota da cento dollari che teneva tra pollice e indice, ma egli continuava a muovere il raggio della torcia elettrica sui loro volti.

Quando il raggio illuminò il viso di KKK, Barbara si rese conto, trasalendo, che il viso grinzoso e abbronzato del vecchio sembrava quello di un vecchio negro. Ed egli era ricaduto nel suo sopore… il calore era stato troppo, per lui. Ma poi gli occhietti azzurri si aprirono, e una voce rauca, ma arrogante, ordinò:

«La pianti di gettarmi quella luce negli occhi, pezzo d'idiota vestito di blu!»

Questo parve soddisfare il poliziotto, perché egli spense la torcia, e Barbara sentì scivolar via la banconota dalle dita, con silenziosa efficienza. Il poliziotto si rialzò, indietreggiò di un passo, e disse, bonariamente:

«Va bene, penso che possiate andare. Ma ditemi una cosa, perché state tutti scappando come topi? Da che cosa scappate? Molti dicono che è colpa delle onde, ma non ci sono cicloni in vista. Un paio di automobilisti hanno parlato di qualcosa che dovrebbe venire da Cuba. State scappando tutti come lepri. Non ha senso, ecco.»

Fu Barbara, questa volta, a sporgere la testa dal finestrino.

«È veramente colpa delle onde… la marea,» spiegò. «È il nuovo pianeta a causarla.» Guardò verso oriente, in fondo alla strada che avevano percorso, là dove il Vagabondo stava sorgendo, tutto purpureo, con una gialla forma mostruosa disegnata sul disco. Il fuso scintillante della Luna deformata, con un'estremità del fuso accorciata e appiattita dalla curva dell'orbita, avrebbe potuto essere un sacco che il mostro stava portando.

«Oh, quello,» disse il poliziotto, con il faccione rischiarato da un gioviale sorriso. «È un coso che si trova lontano nel cielo. Non conta. Io sto parlando delle cose che avvengono sulla Terra.»

«Ma c'è la luna che si sta sbriciolando, intorno al nuovo pianeta,» obiettò Barbara.

«Non è la forma giusta della Luna, quella,» le spiegò pazientemente il poliziotto. «La Luna dev'essere da qualche altra parte.»

«Ma il nuovo pianeta sta veramente provocando delle enormi maree,» disse lei, in tono quasi supplichevole. «La prima non è stata così brutta, ma saranno sempre più alte. La Florida non raggiunge un'altitudine superiore ai novanta, cento metri… l'acqua potrebbe sommergerla completamente.»

Il poliziotto spalancò le braccia, come per invocare la testimonianza della notte tiepida e profumata, pervasa dai dolci aromi degli aranci in fiore, e ridacchiò con aria tollerante.

Barbara disse:

«Io cerco solo di avvertirla. Quel pianeta è un segno di sventura.» Lui continuò a ridacchiare.

A questo punto, Barbara si lasciò trasportare dalla collera.

«Be', se non sta sucedendo niente d'importante,» chiese, con aria di sfida, «Per quale motivo lei sta fermando tutte le automobili?»

Il sorriso svanì.

«Noi manteniamo l'ordine, qui, perché è il nostro dovere,» disse in tono aspro, muovendosi verso l'auto successiva della fila. «Dica al suo ragazzo di muoversi, prima che io cambi parere. Il suo padrone dovrebbe badare ai suoi affari, e non lasciar parlare la sua serva negra, al suo posto. Voialtri negri istruiti e laureati siete i peggiori. A scuola cercano d'insegnarvi la scienza, ma poi la mescolate con tutte quelle vostre pazze superstizioni africane.»

Si diressero a nord, in silenzio, mentre il vagabondo procedeva lentamente nella sua scalata del cielo, e il fuso che era la Luna strisciava sul suo disco purpureo, e il mostro si trasformava in una grande D purpurea.

Knolls Kelsey Kettering III cominciò ad ansimare raucamente. Hester disse:

«Dobbiamo trovargli un letto. Deve distendersi.»

Benjy rallentò, per leggere un cartello:

«State lasciando le Everglades e state entrando nella Highlands County.» Dalle paludi entravano nella contea che il cartello chiamava delle «alteterre». D'un tratto, il negro rise rumorosamente. «L'idea delle alteterre mi sembra magnifica.»

Ma sarebbero state abbastanza alte? si domandò Barbara.

Richard Hillary si svegliò, indolenzito e tremante. Nel sonno, aveva spostato la paglia che lo aveva coperto. E attraverso la paglia, sotto di lui, era salito l'umido gelo del terreno… il freddo delle colline Chiltern, pensò subito. In alto, il pianeta straniero guatava, ritornato ora sulla sua triste D. Ricordò alcune delle altre facce che esso aveva mostrato… facce ugualmente brutte, che parevano segni, o giocattoli da psicologo, piuttosto che formazioni naturali… una, una X gonfia al centro; un'altra, un grosso bersaglio giallo in un disco purpureo. Eppure, ora pareva gonfio come un vero globo, e l'aspetto di segnale piatto e luminoso era meno accentuato. E c'era una bellezza affine all'Uccello nello Spazio di Brancusi, nel suo bianco semianello ricurvo. Quest'ultimo poteva essere la Luna, come un compagno di sventura gli aveva assicurato? Certamente no. Eppure per tutta la notte scorsa la Luna aveva viaggiato nel cielo, e dov'era adesso il bianco satellite?

Si mise a sedere, con calma, fregandosi le braccia e le gambe per trarre un po' di calore, riabbottonandosi il colletto del soprabito, e alzando il bavero inadeguato. Il fienile dal quale aveva preso il suo giaciglio era completamente esaurito, ora, e là dove c'erano stati non più di dodici compagni, al momento di coricarsi, due ore prima, ora c'erano decine e decine di mucchietti di paglia, ciascuno dei quali copriva uno o più dormienti. Com'erano sopraggiunti silenziosamente… zittendo il vicino, forse, raccogliendo e ammucchiando la paglia; gente arrivata in ritardo a un ostello. Invidiò coloro che dormivano insieme, le coppie che dividevano il calore, e ricordò, con un grande rammarico, la Giovane Donna di Devizes, che allora gli era parsa così stupida e rozza. Ricordò anche la descrizione della colazione che lei aveva fatto.

Guardò in direzione della fattoria, dove aveva comprato una piccola ciotola di brodo, e aveva pagato la paglia del suo giaciglio. Le luci erano ancora accese, ma le finestre erano oscurate irregolarmente. Si rese conto, con blando stupore, che questo avveniva perché molte persone, fuori, si ammucchiavano contro le mura, come api in cerca di calore. Certamente, molti degli ultimi arrivati dovevano essere affamati; il cibo pronto doveva essere finito come la paglia. O forse la moglie del contadino stava cucinando? Annusò l'aria, ma riuscì a cogliere soltanto un odore salmastro. Aveva forse aperto un barile di carne salata? Ma ora la sua mente stava vagabondando scioccamente lungo sentieri futili, si disse.

Malgrado la folla dei nuovi ospiti, apparentemente non stava più sopraggi ungendo nessuno. E la strada, oltre il cancello, che era stata rumorosa di traffico quando lui si era addormentato, ora era quieta e deserta.

Si alzò in pedi, e guardò a oriente. La valle, attraverso la quale aveva camminato poco tempo prima, era adesso colma di scura nebbia argentea, che allungava dita sottili intorno alla collina sulla quale ora si trovava, nascondendo ogni cavità erbosa.

La nebbia aveva una superficie singolarmente piatta, che scintillava cupamente, come metallo.

Vide due luci, una verde e una rossa, muoversi attraverso la nebbia misteriosamente, vicinissime.

Si rese conto che si trattava delle luci di una barca, e che la nebbia era acqua solida, stagnante. L'assedio dell'alta marea.

CAPITOLO XXVII

Doc e Margo perlustrarono il pendio roccioso fino in vetta, e la strada per duecento metri oltre il macigno che la bloccava; e non trovarono alcun segno di vita umana, pur disturbando quattro lucertole e un falco. La valle che si apriva più avanti, tra le due ultime coste montuose, era tutta annerita. Conservava soltanto delle ceneri bagnate, di tutti gli arbusti e dei fiori che aveva contenuto, e gli scheletri carbonizzati delle querce nane. Presumibilmente, aveva mugghiato delle fiamme di un violento incendio, solo poche ore prima… e questo contribuiva a spiegare per quale motivo nessun altro fosse venuto da quella parte.

Clarence Dodd e Harry McHeath si offrirono di partecipare alla ricognizione, accelerandone il ritmo. Il secondo discese fino all'orlo del precipizio sottostante, e ritornò ad annunciare che la parete rocciosa piombava verticalmente per centocinquanta metri fino a un costone di roccia, che scendeva poi digradando in gradini ripidi, una sorta di pietraia ricca di sterpaglia.

Le rivoltelle di Cappello Nero non si trovarono… o erano cadute nel precipizio, o si erano infilate in uno dei molti crepacci e delle molte buche della parete.

Le due Sedan al di là del macigno avevano ancora la chiavetta d'accensione infilata nel cruscotto; Doc le requisì, e se le infilò in tasca. Doddsy trovò i documenti di circolazione sotto il cruscotto, e, leggendoli alla luce della torcia elettrica, perché il chiarore verdastro era insufficiente, si domandò se uno di quelli non fosse il nome dell'ignoto sadico della «Black Dahlia». Presumibilmente, Cappello Nero e i suoi accoliti erano venuti a bordo delle due guide interne, mentre la ragazza era venuta dalla direzione opposta, a bordo della sua rossa Corvette… un incontro puramente casuale al blocco stradale… e poi, probabilmente prima della pioggia, mentre le fiamme ruggivano ancora a oriente, formando uno sfondo adeguatamente infernale… be', non era salutare pensarci troppo.

Nel frattempo, Ross Hunter e gli Hixon chiusero il corpo della ragazza assassinata nell'impermeabile di Doc e nel telo più piccolo del camion. Il fagotto spoglio venne infilato in una caverna grande come una bara, dopo essere stato trasportato su per il pendio per una trentina di metri, in un luogo scoperto dal giovane McHeath. Alla coperta venne attaccato un breve resoconto, vergato con l'inchiostro a prova d'acqua di Doddsy, delle circostanze della sua morte e, con un punto interrogativo, venne aggiunto il nome della donna — e l'indirizzo — il tutto trovato sui documenti di circolazione della Corvette. Bacchetto recitò un servizio funebre breve e insolito, facendosi un segno di croce che terminava con una circonluzione dell'indice davanti alla fronte.

Poi tutti cominciarono a sentirsi un po' meglio, benché non appena l'orrore e l'eccitazione svanirono, diventò evidente che tutti erano stanchi oltre ogni sopportazione, e quello doveva essere il loro bivacco. Vennero compiuti i preparativi per dormire, quasi tutti vennero alloggiati nell'autobus scolastico; i due feriti vennero assegnati a quel riparo senza esitazioni, perché cominciava a far freddo, e prima dell'alba il freddo sarebbe diventato intenso. Hixon era preoccupato, per l'eventualità che altri massi sospesi sulla strada piombassero su di loro, nel caso di un terremoto, ma Doc gli spiegò che malgrado le scosse precedenti erano tutti rimasti al loro posto, e che dopotutto l'improvvisa forza di gravità del Vagabondo aveva probabilmente cagionato nelle prime ore, tutti o quasi i terremoti di assestamento e che ben difficilmente se ne sarebbero verificati altri.

Doc decise che due persone sarebbero rimaste di guardia per tutta la notte, avvolte in pesanti coperte, in una specie di riparo naturale, una sporgenza rocciosa coperta da una tettoia di roccia che sporgeva dal pendio a quasi due terzi di esso, e in posizione quasi verticale rispetto al macigno che ostruiva l'autostrada. Le sentinelle sarebbero state armate, con uno dei fucili e con la pistola grigia di Margo. Doddsy e McHeath avrebbero fatto il primo turno, fino a mezzanotte, Ross Hunter e Margo da mezzanotte alle due e mezzo, lui e Rama Joan dalle due e mezzo all'alba. Hixon avrebbe tenuto l'altro fucile, e avrebbe dormito al posto di guida dell'autobus. Le donne assegnate al servizio di guardia avrebbero dormito nella cabina del camion, insieme ad Ann. Wanda si lamentò della composizione mista dei turni di guardia, e Doc le diede una risposta pepata.

La stufetta di Doddsy venne riempita di carbonella. Su di essa, venne scaldata l'acqua, per preparare il caffè solubile. Questa fu la loro cena, insieme al latte e al burro e ai panini dell'autobus.

Margo pensava che non avrebbe sopportato quella roba dolciastra, ma dopo il primo morso si ritrovò affamata, e mangiò tutto quello che le capitava sotto i denti, ingollando anche tre tazze di cafè au lait. Si sentiva leggera, quasi ubriaca, nella sua mente balenavano di quando in quando immagini felici dei sadici dalla maschera rossa che venivano scagliati in aria dalla sua pistola, precipitando verso la morte, e disse quello che provava a tutti coloro che le erano vicini.

Sorprendendo Bacchetto dietro l'autobus, gli domandò di punto in bianco:

«Signor Fulby, è vero che lei è sposato sia con Ida che con Wanda?»

Bacchetto, per nulla impermalito, chinò la testa stretta e brizzolata, e rispose:

«Infatti sì, ai nostri occhi esse sono entrambe mie mogli, e io colui che dà il nome alla famiglia. Nel suo complesso, è stata una relazione dalla quale abbiamo tratto arricchimento e giovamento. Inizialmente sposai Wanda per la gloria del corpo… e Ida per l'esaltazione dello spirito. Naturalmente, ora le cose sono un po' diverse…»

L'arcigno vecchietto dell'autobus ascoltò gran parte della conversazione, e si voltò, con un grugnito:

«Invidioso, Pop?» gli domandò Margo, con una sorta di amichevole malizia.

Tigerishka finì di dar da mangiare a Miao per la terza volta, e guardò Paul. Poi, con quella che gli parve una deliberata e umanissima scrollata delle belle spalle verdi a strisce viola, spalle più agili e forti di quelle di qualsiasi tennista o ballerina della Terra, lei ritornò al Pannello del Cibo, poi ritornò verso di lui con una specie di cubo in una zampa, e due tubi sottili che seguivano il cubo. Rimase sospesa a mezz'aria sopra di lui, apparentemente indecisa sul modo in cui nutrirlo… se per via orale, o per via endovenosa, o addirittura per via rettale.

Adesso la gola di Paul era secca, dolente per la sete, degno contrappunto al generale indolenzimento dei muscoli, e aveva la testa che gli girava un poco, forse più per la stanchezza che per la fame. La cosa della quale era maggiormente consapevole, però, era un'irritazione malevola per il cambiamento di Tigerishka. Mentre Miao mangiava, Tigerishka aveva danzato… un piroettare e caprioleggiare e rimbalzare armonico, veloce e meravigliosamente ritmico, tra il soffitto e il pavimento del disco volante, prendendo la spinta dall'uno e dall'altro, a intermittenza. Simultaneamente, una strana musica aveva riempito il disco volante, e la misteriosa luce aveva cominciato a pulsare, seguendo il ritmo.

Tigerishka, aveva capito Paul, era una danzatrice sulle punte per nascita e conformazione anatomica, essendo i suoi piedi quasi tutte dita… digitigrada, non plantigrada… e la giuntura della gamba, sopra i piedi, che corrispondeva al gomito più basso del braccio, era come una lunghissima, agilissima caviglia.

La danza lo aveva totalmente affascinato, distogliendo la sua mente da tutto il dolore e dall'apprensione.

Ora la leggiadra ballerina era ritornata l'impersonale infermiera sadica… una trasformazione detestabile.

Così, malgrado la sete, egli scosse malinconicamente il capo, e cercò di serrare con fermezza le labbra intorpidite e secche. Poi sollevò le palpebre, e sollevò solennemente il viso verso Tigerishka, nell'unica espressione di supplica che la sua mente riusciva a escogitare… benché si rendesse conto acutamente che quell'espressione doveva dargli l'aspetto perfetto di una scimmia immobilizzata e imbavagliata, che implorava la libertà.

Lei gli sorrise, senza socchiudere le lunghe labbra… un'altra ironica imitazione di un gesto umano, ne fu certo… e continuò a contemplarlo.

Era di nuovo notte, ora, e lui si trovava a bordo del disco volante da dodici ore almeno, perché l'ultima osservazione era stata inconfondibile… l'immagine di San Francisco che affondava nella sera, mostrando le nere cicatrici e le colonne di fumo degli incendi spenti dalla pioggia, e anche una gran folla di navi nella Golden Gate. Poi il disco volante si era inclinato, ed egli aveva visto sorgere a oriente il Vagabondo, con la sua faccia di mandala, con uno scintillare asimmetrico intorno, come un anello… uno scintillare che, dopo pochi secondi di frenetiche supposizioni, egli dovette riconoscere come la Luna sbriciolata.

Tigerishka allungò una mano, e gli sfiorò la mano destra con il dorso della zampa verde, poi si rialzò. Egli si rese conto, con stupore incredulo, che il suo braccio destro era libero. Mosse le dita, le contrasse più volte, piegò e ripiegò il polso, avvertendo un dolore minore del previsto, poi cominciò a sollevare le dita alla bocca, ma si fermò a metà.

Se avesse semplicemente toccato le labbra, lei avrebbe interpretato il gesto come l'espressione del suo desiderio di essere nutrito da quella parte con i tubi.

Si portò le dita alla fronte, poi, con un breve movimento, le portò alle labbra, spostandole poi per indicare le orecchie a punta di Tigerishka. Sempre guidato da quell'ispirazione, egli indicò con le dita la bocca di Tigerishka, poi indicò le sue orecchie.

«Sì, vuoi parlare,» interpretò lei. «Scimmia gatto, molte chiacchiere da fare, eh?» Lentamente, lei scosse il capo. «No! Tutte domande frivole… una, dieci, cinquemila. Conosco scimmie.»

Le sue speranze crollarono. Nello stesso tempo egli pensò, con singolare certezza, che lei avrebbe potuto dire le stesse cose in un inglese perfetto, ma aveva scelto deliberatamente di non farlo… proprio come un brillante europeo, perfettamente in grado di pronunciare impeccabilmente molte lingue straniere, si aggrappava alle sue esotiche costruzioni sintattiche, al suo accento, per dare enfasi alla sua individualità esotica, e anche per criticare con velata ironia le bizzarrie della pronuncia inglese, e le troppo semplificate regole di costruzione della frase.

«Però…» temporeggiò Tigerishka. «Ci sono cose che io dirò.» Poi, alla velocità di uno stenografo di tribunale, e in tono cantilenante, come se il compito l'annoiasse: «Io vengo da superiore cultura galattica. Leggere mente, lanciare pensiero, navigare iperspazio, vivere per sempre se si vuole, fare esplodere soli… tutte queste cose e altri. Avere aspetto di animale… riassumere forme ancestrali. Fare cervelli piccoli, ma in realtà immensi… (psicofisiosubmicrominiaturizzazione! Noi restiamo superiori). Tu non credi? Allora ascolta. Piante mangiano materia inorganica; loro superiori! Animali mangiano piante; loro superiori. Gatti mangiano carne fresca: noi più superiori di tutti! Scimmie tentano di mangiare tutto: un pasticcio!»

Poi, senza prendere fiato:

«Vagabondo naviga iperspazio. Sì, foto stellari, lo so. Bisogno di carburante… molta materia per convertitori. Vostra luna buona come legnaia. Frantumare, polverizzare, prosciugare. Noi ci riforniamo, poi andiamo. Nessun bisogno che voi scimmie vi arrabbiate o vi impermalite.»

Quando lei ebbe finito, Paul rimase stordito per almeno cinque secondi, infuriato per la spassionata, spietata semplificazione da lei fatta dell'intera faccenda. Poi capì che non poteva farci nulla, in nessun caso. Sospirò profondamente, e cercò di calmarsi, sperando che il suo volto diventasse un po' meno scarlatto. Poi premette la mano sulle labbra, e bruscamente, la staccò, come per dire, «Basta con questo bavaglio.»

Pensò anche che in realtà era del tutto inutile, quel gioco di gesti, dato che lei doveva conoscere i suoi pensieri, ma subito dopo capì anche che il fatto, semplicemente, era che si trattava proprio di un gioco. Ai gatti piacevano i giochi; i gatti amano giocherellare con delle vittime impotenti; e in questo, Tigerishka non pareva costituire un'eccezione.

Lei confermò questa supposizione, sorridendo, mentre lentamente scuoteva il capo… sorridendo, e arricciando il labbro superiore, in modo che i baffetti sottilissimi parvero arcuarsi.

Ricorse a un altro espediente. Ripeté il gesto precedente, ma subito dopo portò la mano alla bocca, come per reggere un bicchiere, muovendola, imitando il gesto di bere. Finalmente, si portò l'indice sulle labbra.

Le pupille a forma di stella di Tigerishka si strinsero, diventando due punti sottili, mentre lei lo fissava negli occhi.

«Io lascio bere con la bocca, tu non parli? Non dici una sola parola?»

Paul annuì, solennemente.

Dal cubo, lei prese una fiaschetta bianca, che pareva contenere mezza pinta, e l'appoggiò alle labbra di Paul.

«Io schiaccio piano, tu succhi,» disse, e con l'altra zampa sfiorò le guance e il mento di Paul. Nel viso dell'uomo ritornarono a fluire delle sensazioni, e nello stesso tempo qualcosa di fresco e umido dava sollievo alla sua gola secca e dolente. Dopo qualche tempo, venne anche il sapore: latte. Latte, con un lieve sentore di muschio. Si domandò se fosse latte felino o sintetico, assimilabile dall'uomo oppure no, ma decise che valeva la pena di affidarsi al giudizio di Tigerishka.

Quando i primi morsi della sete furono quietati, allungò la mano, per occuparsi personalmente del lavoro di schiacciare la fiaschetta. Lei non respinse quel tentativo, né lasciò immediatamente la sua stretta intorno alla fiaschetta, così, per qualche istante, egli sentì, con i polpastrelli e con il bordo della mano, il contatto vellutato delle zampe e, inoltre, nei cuscinetti di pelo, la dura curva degli artigli in riposo. Poi lei ritirò la zampa, dicendo soltanto:

«Piano, ricorda.»

Quando la fiaschetta fu completamente vuota, egli la restituì a Tigerishka, aggiungendo, senza averne l'intenzione, un «Grazie…», ma prima che le parole potessero uscirgli dalle labbra, le zampe di lei avevano sfiorato le labbra dell'uomo, e il bavaglio era ritornato.

Si domandò cupamente se il bavaglio fosse un puro effetto di suggestione, o qualche pellicola impalpabile, o un modo d'impregnare i tessuti istantaneamente, un espediente elettroporetico… o chissà cos'altro… ma una stanchezza enorme, un torpore invincibile, si stavano impadronendo di lui, gravavano come una cappa sul corpo e sulla mente. La stanchezza, o una droga? Era difficile, troppo difficile pensarci.

Confusamente, si accorse che l'invisibile sole interno del disco volante era impallidito, lasciando ogni cosa in una penombra crepuscolare. Attraverso le nebbie del sonno, egli avvertì il contatto liberatore della zampa di Tigerishka sul polso e la caviglia sinistra, così che solo la caviglia destra rimaneva bloccata.

Allora si rannicchiò in una posizione uterina, e galleggiò nella notte del sonno, verso il profondo abisso della quieta incoscienza.

L'ultima cosa di cui si rese conto fu la voce di Tigerishka che diceva, in tono neutro:

«'Notte, scimmia.»

CAPITOLO XXVIII

Il Vagabondo mostrava alla Terra la sua faccia di yin-yang per la quinta volta. Ormai per un giorno intero esso era rimasto sospeso nei cieli notturni della Terra. Per i meteorologi dell'Osservatorio Internazionale del Polo Sud, immersi nelle profondità della notte continua dell'inverno polare, il Vagabondo aveva compiuto un intero circuito del cielo senza sole, mantenendo sempre la stessa distanza dall'orizzonte di ghiaccio, e ora stava di nuovo sospeso nel punto in cui era comparso per la prima volta, sopra la Terra di Marie Byrd e la catena montuosa della Regina Maud. Grandi, verdi aurore boreali fiammeggiavano dalle nevi eterne, e scintillavano livide intorno.

Il pianeta straniero diede nuovi e potenti stimoli ad antiche credenze superstiziose, e a molte specie di manie.

In India, un paese che era sfuggito fino a quel momento ai tremendi terremoti, e aveva subito danni minimi per le maree, esso venne adorato da grandi congregazioni, in riti che duravano per tutta la notte. Alcuni lo identificarono nell'invisibile pianeta Ketu, finalmente vomitato dal serpente. I bramini lo contemplarono, calmi e pensierosi, e suggerirono che forse l'apparizione avrebbe segnato l'inizio di una nuova kalpa.

In Sudafrica esso diventò la bandiera della rivolta, in una sollevazione sanguinosa e trionfale contro i boeri.

Nei paesi protestanti, il Libro dell'Apocalisse venne letto e riletto in migliaia di Bibbie, che non erano state mai lette prima, e neppure sfogliate.

A Roma, il nuovo Papa, che era stato un astronomo tra i gesuiti, combatté ogni interpretazione superstiziosa degli eventi, mentre i paparazzi trovarono lenti e pellicole, per le loro macchine fotografiche, che permisero loro di fotografare divi dello schermo e altri notaboli intenti a gesticolare in direzione del Vagabondo, o fermi sullo sfondo del grande globo… mentre Ostia lottava contro le inondazioni, e le nuove maree del Mediterraneo risalivano il corso del Tevere.

In Egitto, una creatura felinide, atterrata con un disco volante, venne identificata come la benigna dea Bast da un teosofo britannico emigrato là, e il culto dell'adorazione dei felini ricominciò con nuovo vigore. Secondo il teosofo, lo stesso Vagabondo era il gemello distruttore di Bast: Sekhet, l'Occhio di Ra.

Ci fu una bizzarra eco di questo sviluppo della situazione a Parigi, dove due felinidi, ripetendo l'errore di Tigerishka, liberarono dal giardino zoologico tutte le tigri, i leoni, i leopardi e gli altri grandi felini. Alcune belve apparvero nei cafés della Riva Sinistra. Un'analoga liberazione avvenne al Tiergarten di Berlino, dove gli animali erano minacciati dalle acque alte.

Era strano, stranissimo pensare che Don Merriam stava dormendo comodamente nella sua piccola cabina, a bordo del Vagabondo, proprio come Paul stava saporitamente dormendo nel disco volante di Tigerishka.

Mentre il Vagabondo causava ondate di panico e psicosi collettiva, la sua improvvisa apparizione, e le catastrofi che l'avevano accompagnato, agirono in altri casi come una sorta di terapia di choc. Ci furono letteralmente delle esplosioni di sanità, nei reparti d'isolamento degli ospedali psichiatrici. Vedendo realizzarsi l'impossibile, e vedendo che anche i medici e gli infermieri ne erano terrorizzati, gli psicotici videro soddisfare allo stesso tempo qualche profondo bisogno inconscio. E le nevrosi, le psicosi e le neurosi private diventarono banali, per i loro possessori, di fronte alla follia cosmica che aveva turbato la Terra.

Su altri individui, il Vagabondo operò un cambiamento… donando una capacità dell'ultimo istante di vedere la verità, anche se non di lottare con essa. Quando Fritz Scher, ormai immerso fino alla cintola nell'acqua salata, guardò fuori della finestra, nell'Istituto delle Maree di Amburgo, verso l'aurora, le nubi si sollevarono un poco a occidente, come una tendina sollevata a metà, e dietro di esse il Vagabondo lo guatò minaccioso, diritto in volto. Le cose finalmente si chiarirono nella sua mente, quando un nuovo, possente gonfiarsi d'acqua lo sommerse, e lo trasportò via dalla finestra. Mentre egli si aggrappava inutilmente ai fianchi aerodinamici della macchina per la previsione delle maree, portato irresistibilmente dalla corrente, usò gli ultimi respiri per gridare e gridare e gridare questa frase: «Moltiplicate tutto per ottanta!».

Barbara Katz sentì muoversi un poco il letto, sotto di lei, mentre la buia stanza del terzo piano dell'albergo dondolava con l'edificio che la conteneva. Dominò l'impulso di balzare in piedi, e si fece ancor più vicina al vecchio KKK, poi allungo la mano sopra il corpo del vecchio, verso Helen, che riposava dall'altra parte. Un'ora prima il vecchio era stato scosso da un lungo brivido. Nel pomeriggio era stato il caldo a tormentarlo, ma ora, con le gelide acque dell'Atlantico che invadevano tutta la Florida, era il freddo il nemico peggiore.

Benjy, in piedi davanti alla finestra, con il volto rischiarato dal bagliore spettrale del Vagabondo, annunciò:

«L'acqua è sopra le finestre del primo piano, e la corrente è forte. Sta passando una casa da spiaggia. Sentito il colpo? Ci ha urtati.»

«Torna sulla tua branda, Benjy, e riposati un po',» chiamò Hester, dall'angolo. «Se questo posto parte, non possiamo farci nulla. L'acqua bussa per entrare, e tu non puoi dirle di stare fuori!»

«Io non ho la tua calma, Hes,» le disse Benjy. «Avrei dovuto restare sull'auto, assicurarmi che la tenessero in alto. Però adesso l'acqua sarà molto vicina.»

«Faranno meglio a non azzardarsi a muoverla!» disse Barbara, a bassa voce ma con intensità di sentimenti. «Quel parcheggio lassù era compreso nei cinquemila dollari che abbiamo pagato per questa camera.»

Dall'altra parte del vecchio KKK Helen disse, con un'ombra di risatina nella voce:

«Chissà se questi vampiri hanno ricordato di portare la cassaforte all'ultimo piano. Altrimenti adesso sarà spazzata via!»

«Zitta,» disse Hester. «Benjy, torna a letto.»

«E che attrazione c'è?» domandò lui, pensieroso, dalla finestra. «Helen è andata a dormire con il Vecchio, per contribuire a scaldarlo. E quel trucco di farina e cipria che la signorina Barbara mi ha messo sulla faccia mi dà il prurito.»

«Piantala di lamentarti, negretto,» gli disse Hester. «Io e Helen siamo passate, come infermiere, ma tu avevi bisogno di schiarirti un po'. Non ti cambia, ma ti giustifica. Mostra che tu cerchi di compiacere. Con questo, e una banconota da mille dollari, puoi andare dappertutto.»

Benjy disse:

«Il vecchio Vagabondo mostra di nuovo il mostro sulla faccia. Ruota molto in fretta.»

La stanza ballonzolò. Si udì uno scricchiolio di legno. Benjy annunciò:

«L'acqua è salita di un'altra spanna. Mi sembra che gli angoli si stiano muovendo.»

Helen si rizzò a sedere:

«Tu pensi che dovremmo…» cominciò, con voce tesa, ansiosa.

«Silenzio!» ordinò duramente Hester. «Tutti devono fare silenzio, ora, e stare calmi e distesi. Ci stiamo godendo cinquemila dollari. Benjy, avvertimi quando l'acqua ti arriva al collo… ma non prima. Buonanotte!»

Nel buio, Barbara pensò al circuito automobilistico di Sebring, a un miglio di distanza, e a tutti quei meravigliosi motori sepolti sotto l'acqua salata, con l'olio portato via dalla corrente. Oppure erano stati previdenti, ed erano partiti a tutta velocità verso nord, in una strana, multicolore corsa verso le montagne? Immaginò i missili e le astronavi sommerse, cento miglia più lontano, a Capo Kennedy.

Il vecchio KKK si lamentò debolmente, e borbottò qualcosa. Barbara accarezzò la guancia grinzosa e ispida del vecchio, ma lui continuò a borbottare. Le sue dita, che teneva vicino al petto, come se stesse pregando, si muovevano lievemente. Lei cercò, sotto il letto, allungando la mano, e trovò la bambola in sottoveste nera, e la posò sul petto del vecchio. Egli si calmò. Lei sorrise.

La stanza ondeggiò.

Sally Harris aveva indossato un pigiama incrostato di perle, un elegante indumento che aveva trovato nell'interessantissimo guardaroba della camera da letto adiacente a quella del signor Hasseltine. Jake Lesher si era drappeggiato in un abito di saia blu, che gli andava largo dappertutto, dandogli un aspetto un po' goffo. Erano seduti davanti al grande pianoforte, sul quale erano posate delle bottiglie di vino e due bottiglie di champagne.

La stanza era illuminata da ventitré candele… tutte quelle che Sally era riuscita a trovare… e da due torce elettriche. Dei drappi neri coprivano le finestre e perfino l'ascensore bloccato, e specialmente le porte-finestre del terrazzo.

Il silenzio filtrava, attraverso i drappi neri, raggelando le fiammelle delle candele, premendo sulle loro gole e sui loro cuori. Ma poi le dita di Jake scesero sulla tastiera, e scacciarono il silenzio con gli accordi di un'introduzione. Sally si alzò, barcollando un poco, e cantò con voce forte e chiara:

Oh, io sono la ragazza dell'Arca di Noè,

E tu sei il Re del Diluvio solo per me.

Il nostro amore non è grande come l'oceano,

O solo come il Monte Ararat laggiù…

Tu mi hai trovato un attico nel mare!

È proprio grande questo nostro amore.

Mentre Jake suonava altri accordi con la mano sinistra, allungò la mano destra, porgendo a Sally un foglio.

«Prova la seconda strofa,» le disse.

Sally diede un'occhiata al foglio.

«Accidenti, ci sono della parole impossibili. E come faccio a cantare delle macchie d'inchiostro?»

«Ho trovato quelle che tu chiami 'parole impossibili' in una fantasiosa 'lista di eccezionali oggetti celesti', in uno dei libroni del tuo ragazzo intellettuale. Dobbiamo mantenere il tema astronomico, per adattarci al nuovo pianeta.»

«Pianeta, accidenti. Se non fosse stato per Hugo, tu saresti a bagno. Chissà dov'è Hugo, adesso? Va bene, Jake, attacca.» E cominciò a cantare, tenendo il foglio davanti agli occhi:

Oh, io sono la ragazza dell'Arca di Noè,

E tu il Re delle Tempeste solo per me.

Il nostro amore non è grande solo come il sole,

O come Orione o Messier-31…

Tu mi hai dato per barca un grattacielo, amore!

È proprio grande questo nostro amore.

Jake la guardò, raggiante.

«Ci siamo, bambina! Un vero incendio!»

«Incendio? Sarà meglio,» gli disse Sally, allungando la mano verso il bicchiere. «Perché è probabile che lo metteremo in scena in un teatro un po' umido.»

Richard Hillary provava un bizzarro senso di esaltazione, mentre camminava agilmente sul lato di una strada umida e salmastra, diretta a ovest, a una imprecisata distanza da Islip. Sull'erba coperta di fango e spianata dall'acqua, poté vedere in quel momento due pesci argentei rimasti all'asciutto, e un gamberetto verdognolo che avanzava debolmente sopra un pezzo di stoffa nera, fradicia, lunga, che avrebbe potuto essere una toga universitaria. Guardando a sud, poté scorgere alcune delle grige torri di Oxford, e distinguere chiaramente il bruno segno della marea a metà di esse. Trattenne il respiro, sollevò le mani, e il suo passo successivo si trasformò quasi in un balzo, mentre la sua immaginazione lo faceva nuotare freneticamente tra le acque del Mare del Nord, o d'Irlanda, che erano state là cinque o sei ore prima.

Ritornò a camminare normalmente, facendo una risatina incerta, ma conservando quel bizzarro senso di esaltazione. A volte, naturalmente, l'orrida intensità dei contrasti offerti costantemente dalle tracce della marea era una prova eccessiva, soprattutto quando questi segni comprendevano dei corpi umani coperti di fango, o perfino cadaveri di cavalli e di cani. In questi casi la sua regola, e apparentemente quella della gente che marciava con lui, era, «Se non si muovono, distogli lo sguardo da loro in fretta.» Aveva dovuto invocare quella regola numerose volte, nell'ultimo miglio percorso. Finora, nessuna delle forme fangose e distese si era mossa.

Richard era stato fortunato; aveva trovato un passaggio per quasi tutto il tragitto dal campo in cui aveva dormito all'estremità opposta delle Chiltern. Era partito di notte, subito dopo avere visto l'est inondato, dietro di lui, ed era stato raccolto da una coppia a bordo di una Bentley, che veniva da Letchworth. Marito e moglie erano stati molto nervosi, pervasi dall'ansia di andare a prende il figlio rimasto a Oxford. Non avevano visto molto delle inondazioni, ed erano stati perciò inclini a minimizzare. Gli avevano dato un sandwich. Dopo qualche tempo, un gran numero di automobili era apparso gradualmente, e l'andatura era diventata lenta, e quando finalmente erano discesi sulla strada viscida e scivolosa, poco dopo l'alba, per entrare nella fangosa pianura di Oxford, nel bel mezzo di un ingorgo del traffico colossale, Richard li aveva ringraziati e se ne era andato a piedi. L'ingorgo era parso durevole, e Richard non aveva potuto sopportare le espressioni stordite, sofferenti, incredule dei loro volti.

Era necessario avere un piano d'azione, si disse in quel momento, marciando a buona andatura in mezzo a un nutrito gruppo di colleghi viandanti, accanto a un'altra doppia fila di auto infangate, che si dirigevano lentamente a occidente. Attraversarono il Cherwell, percorrendo un ponte affollato che si trovava a meno di mezzo metro dalla superficie di un impetuoso, schiumoso corso d'acqua. Si domandò se l'acqua fosse salata, ma non si fermò ad assaggiarla.

Si domandò, inoltre, se l'inondazione avvenuta in quel luogo la notte precedente fosse venuta dall'Estuario del Tamigi, o da cento miglia di distanza, dal Wash, attraverso le paludi e le lande, ruggendo sopra la distesa di terra tra Daventry e Bicester, o perfino giungendo attraverso delle brecce naturali dei Cotswolds dalla costa occidentale, dove le maree normali avevano una variazione massima di nove metri. Ma simili speculazioni non lo avvicinavano minimamente a un piano. Il sole cominciava a picchiare con maggiore violenza sulla sua schiena.

Si udì un ronzio sordo e martellante, e la folla, intorno a lui, si avvicinò ancor più alla strada, mentre un piccolo elicottero atterrava a cinquanta metri di distanza. Come pilota c'era una giovane donna, che indossava un camice bianco d'infermiera sporco di fango; costei scese a terra, e corse verso l'unica figura vivente che non si era allontanata dal rumore e dal vento delle eliche; un'altra giovane donna, seduta nel fango con un bambino tra le braccia. L'infermiera le prese il bambino, la fece alzare in piedi, e rapidamente l'accompagnò all'elicottero, facendola salire a bordo. Poi, senza dare alcuna risposta alle numerose domande che le venivano gridate dalla folla, rapidamente salì a bordo a sua volta, e l'elicottero decollò.

Richard scosse il capo, inquieto, e continuò a camminare. La vista di simili cose lo faceva sentire orribilmente solo, e non lo avvicinava a un piano d'azione.

Dopo qualche tempo, però, riuscì a formularne uno. Avrebbe raggiunto i Cotswolds prima della nuova ondata d'alta marea, sarebbe rimasto al riparo su una delle loro vette più alte, avrebbe attraversato la pianura della Severn per Jewkesbury, fino alle Malvern Hills, durante la bassa marea successiva, e finalmente avrebbe raggiunto, grazie a quello stesso procedimento a 'gradini', le Black Mountains del Galles, che avrebbero dovuto essere sicure, anche in vista delle alte maree successive. Lo stato precedente di esaltazione ritornò, sia pure in parte.

Naturalmente, sarebbe stato forse più saggio ritornare sulle Chiltern… quelle colline erano sembrate abbastanza sicure… o cercare le alture a est di Islip, ma si disse che quelle colline sarebbero state presto brulicanti delle orde di profughi che dovevano continuare a giungere da ovest, da Londra. Inoltre, detestava il pensiero di fermarsi da qualche parte, anche su di una vetta apparentemente sicura, ed essere costretto ad aspettare e a pensare. Era intollerabile… era necessario muoversi, muoversi sempre. E si prova una certa lealtà verso una linea d'azione appena elaborata con tanta fatica.

Finalmente parlò del suo piano (Cotswolds-Malvern Hills-Black Mountains) a due uomini più anziani, che camminarono accanto a lui per qualche tempo. Il primo disse che era del tutto privo di senso comune, l'elucubrazione di un pazzoide; il secondo disse che il piano avrebbe salvato mezza Inghilterra, e che doveva essere comunicato senza indugio alle autorità responsabili (costui agitò il suo bastone furiosamente, verso un elicottero che li sorvolava lentamente).

Richard fu completamentet disgustato di entrambi dopo pochi minuti, in particolare del secondo, e accelerò il passo, lasciandoli a discutere tra loro, con voce forte e tono collerico. Bruscamente, tutta la sua esaltazione era sparita, e si rese conto che il piano e i ragionamenti seguiti erano semplicemente le razionalizzazioni di un bisogno di fuggire a occidente, non più sensato delle folli migrazioni del lemming attraverso la Scandinavia, per gettarsi nell'Atlantico e trovarvi la morte. In effetti, si domandò, lo choc e il disorientamento, in lui e in tutti coloro che lo circondavano, non avrebbero potuto spogliare le loro menti deile patine di pensiero civile, e lasciar scoperto qualche oscuro nucleo cerebrale primitivo, che rispondeva soltanto al medesimo richiamo che i lemming potevano udire?

Continuò a camminare a passo veloce, però, tenendosi più vicino alla strada e cercando un posto libero su una delle automobili. Dopotutto, lemming o no, quello stupido piano era tutto ciò che aveva, e aveva ricordato in quel momento l'obiezione più forte che il primo uomo gli aveva fatto: cioè che per i Cotswolds mancavano ancora venti miglia.

Quando la marea del mattino invase il Canale di Bristol e risalì la Severn, portando con sé relitti di barche e travi di case, e boe strappate alle loro ancore, e pali del telegrafo seguiti da un corteo di fili, e case divelte, e i morti, giungendo assai più alta della notte prima, Dai Davies ritornò con essa, passando Glamorgan e Monmouth, girando e rollando come il marinaio fenicio annegato di T.S. Eliot, amorevole poeta gallese fino alla fine, a dodici metri di profondità.

CAPITOLO XXIX

Margo e Hunter, avvolti ciascuno in una coperta, occupavano il posto di guardia, una specie di ciotola scavata dalla Natura nella roccia; McHeath e Doddsy avevano già liberato lo spazio dall'acqua piovana e dai detriti che lo avevano riempito. Sopra di loro, sull'orizzonte occidentale, tra nuvole stracciate facevano capolino delle stelle ammiccanti, ma il cielo, sopra di loro e a oriente, era coperto da una fitta coltre scura. Sotto di loro, uno stretto cono di luce brillava sulle Sedan bloccate, e lungo la strada, verso la Valle. Poiché Doddsy aveva numerose batterie di ricambio per la sua torcia elettrica, Doc aveva deciso di sistemarla alla sommità del macigno. «Servirà a chiunque sia di guardia per avvistare eventuali intrusi che cerchino di raggiungerci dalla Valle,» aveva detto. «È probabile che costoro vengano a cercare l'origine della luce, e se le loro intenzioni saranno amichevoli, chiameranno a gran voce. Ma non sparate subito, tanto per non avere disturbi. Avvertiteli che sono sotto mira. E non svegliate l'intero accampamento, per una visita; limitatevi a svegliare me.»

Ora Hunter e Margo stavano fumando, una piccola falla nella perfezione del piano di Doc… ma non troppo grave, avevano stabilito dopo brevi meditazioni. Il piccolo alone di brace rossigna, mentre Margo aspirava, illuminava le guance e il mento della ragazza, e i capelli biondi, raccolti dietro la nuca, un'acconciatura necessaria dopo essere stati inzuppati la notte prima dall'acqua salata.

«Lei ha l'aspetto di una Valchiria, Margo,» le disse sommessamente Hunter, in tono convinto.

Da sotto la coperta lei tirò fuori la pistola grigia, e la tenne alta sul petto, e la brace della sigaretta trasse qualche scintilla da essa.

«Infatti, mi sento una Valchiria,» mormorò lei, in tono felice. «Non mi è affatto piaciuto, quando gli altri avevano questa pistola, anche se le cose che Doddsy ha notato erano tutte molto interessanti.»

Durante il suo turno di guardia in compagnia di McHeath, l'Omino aveva esaminato la pistola, servendosi della piccola torcia elettrica, e di una lente d'ingrandimento, e aveva scoperto una minuscola scala lungo la colonnina viola. «È stata fabbricata da creature la cui vista è migliore della nostra,» aveva dedotto. Aveva anche scoperto un'altra cosa che Margo non aveva neppure notato; una minuscola levetta incassata, alla sommità dell'impugnatura… che puntava la sua sottilissima estremità all'estremità di una scala circolare, ugualmente minuscola, in posizione alla fine della canna. Nessuno poté immaginare quale fosse la funzione di quella levetta, e fu deciso di non compiere esperimenti con essa.

«Mi chiedo su quanti pianeti abbia fatto vittime, quest'arma,» mormorò Margo, in quel momento.

«Sì,» disse Hunter, «Lei ha proprio l'aspetto di una vestale, una vestale guerriera che vigila sulla sacra fiamma dell'arma.» Si avvicinò un poco a lei. Lei sentì l'odore muschioso del sudore dell'uomo.

«Zitto… non ha sentito qualcosa?» mormorò lei, rapidamente. Spensero le sigarette e aspettarono, pieni di tensione, con gli occhi fissi sulla strada. Hunter strisciò lentamente verso l'estremità della cresta rocciosa, seguendo una sorta di sentiero che aveva esaminato ed esplorato al tramonto, e che dominava la scena, un pendio da una parte, una caduta verticale di almeno nove metri dall'altra.

L'accampamento formato dall'autobus e dal camion era immerso nel più profondo silenzio, e non c'era alcun segno di movimento straniero, benché il vento sussurrante facesse loro pensare alla tomba nella caverna, a cinque metri da loro. Dopo qualche tempo ritornarono nelle posizioni precedenti, e accesero nuovamente le sigarette.

«Sa una cosa, Margo,» riprese Hunter, esattamente dal punto in cui era stato interrotto. «Secondo me, uccidere quegli uomini l'ha riportata alla vita. L'ha risvegliata, forse per la prima volta, Un'esperienza del genere provoca questi effetti a molte persone.»

Lei annuì, tutta compresa, sorridendo interiormente.

«Tutto è doppiamente reale, ora,» mormorò. «Mi sembra quasi che la realtà sia fatta di una sostanza più solida, e che io abbia sensi e percezioni migliori, soprattutto dei corpi delle persone. È fantastico.»

«L'ha resa più bella,» disse Hunter, posando la mano sul polso di Margo. «Molto più bella. Una splendida vestale, una meravigliosa Valchiria.»

«Ah, Ross,» mormorò lei, solennemente. «Chiunque penserebbe che lei mi stia facendo la corte.»

«Infatti,» le disse, accentuando la stretta sul polso.

«Lei ha una moglie e due figli, nell'Oregon,» mormorò lei, scostandosi, ma non con tanta forza da liberarsi.

«Loro non contano,» le disse. «Benché sia sempre preoccupato per la loro sorte. Ma ora noi viviamo di giorno in giorno, di secondo in secondo. Ogni ora potrebbe essere l'ultima. Margo, voglio baciarti.»

«Ci siamo conosciuti soltanto ieri, Ross. Lei ha molti anni più di me…»

«Dieci, al massimo,» mormorò lui, raucamente. «Margo, le vecchie regole e le vecchie convenzioni non contano più. Come ha detto Rudy, questa è una para-realtà…»

In quel momento, dei venti, lassù nel cielo, riuscirono ad aprire le nubi, ed essi videro il Vagabondo, con il suo volto di mandala, e la Luna che formava una sorta di corona scintillante, bianca, intorno a esso. Il miracolo e la bellezza di quella sfera violetta e dorata li colpirono con tutta la forza del loro fascino, ma dopo qualche istante Ross Hunter circondò con l'altro braccio il corpo di Margo, e l'attirò a sé. Lei si scostò, liberandosi dalla stretta, e puntò il braccio verso il cielo.

«Ho un ragazzo lassù,» disse. «Il suo posto di lavoro era su quel… su quel relitto di diamanti lassù. Ma forse è riuscito a fuggire; forse adesso si trova sul Vagabondo.»

«Lo so,» disse Hunter, guardando solo il suo viso, che era rischiarato dalla luce del Vagabondo. «Ho anche letto la storia del tuo romanzo d'amore su una rivista. Ho pensato, allora, che tu avessi un aspetto disgustosamente frivolo e inerte, come se tu avessi avuto bisogno di essere afferrata dalla vita, e da un vero uomo.»

«Da te, vuoi dire?» disse Margo, in un tono ironicamente confidenziale. «E poi c'è Paul,» proseguì in fretta. «Rapito da un disco volante, e ora Dio solo sa dove. Lui è pazzo di me, ma è tutto aggrovigliato, dentro. Forse quello che gli sta succedendo ora lo libererà dai suoi complessi.»

«Non m'importa di nessuno dei due,» disse Hunter, tenendola per le spalle. «Non ho scrupoli etici, sul fatto di approfittare delle immediate difficoltà di ragazzi più giovani che sono pazzi di te. Tu sei bella, e chi ti prende per primo, ha vinto. Inoltre, io ti conosco meglio di loro, io conosco la Valchiria bionda che si è appena risvegliata, e sono più pazzo di loro. Ora non c'è niente che conta, all'infuori di me e te. Oh, Margo…»

«No!» disse lei, bruscamente, alzandosi improvvisamente dalla sua coperta, e liberandosi dal contatto delle mani di lui. «Sono lieta che tu sia pazzo di me, ma non ho bisogno di te, non ho bisogno dei tuoi 'me e te'. Vivere da sola, nella mia nuova realtà, mi basta; è tutta l'eccitazione che voglio; sta consumando tutte le mie forze. Hai capito?»

Dopo un sospiro prolungato, lui ammise:

«Va bene, immagino che dovrò subire.» Poi, «Sarà meglio darci un'occhiata intorno, alla luce del Vagabondo. Tu osserva la metà occidentale. Prima però abitua i tuoi occhi alla luce.»

Dopo un minuto di osservazione, spalla a spalla, egli cominciò a parlare sommessamente, senza guardarla.

«Dando per assodato che tu ora sia completamente assorbita da te stessa, dubito che tu sia stata mai innamorata. Paul lo sfruttavi e lo comandavi… questo era evidente. Immagino che riuscissi a dominare… come si chiamava?… ah, sì, Don… lusingando la sua virilità.»

«Interessante,» mormorò Margo.

«No, non credo che quei due ragazzi siano molto importanti, come rivali,» continuò Hunter. «Morton Opperly è un pericolo maggiore, perché rappresenta una figura paterna; un mago dal fascino sinistro che… scommetto che tu sogni proprio questo!… un giorno porterà via la nostra giovane Valchiria, nel suo cupo castello nella Landa dell'Alta Matematica. Incesto, con sottofondi einsteiniani.»

«Molto interessante,» fu il commento di Margo. «Mi sembra di vedere un chiarore appena discernibile, a oriente. Forse è l'autostrada.»

Cinque minuti dopo, Hunter esplose, in maniera molto spontanea, dicendo:

«Cristo, è freddo. Se ci avvolgessimo entrambi nella stessa coperta, secondo la vecchia maniera puritana, sarebbe meglio…»

«Niente affatto, soldato,» ribatté lei. «Fare all'amore, e il dovere di una sentinella, non possono mescolarsi.»

«Au contraire, combinano meravigliosamente. Si diventa meravigliosamente vivi, percettivi, vibranti… si percepisce tutto.»

«Niente affatto, Ross, ho detto.»

«Non stavo tentando un nuovo approccio,» protestò lui. «Cercavo solo di essere pratico. Sto gelando.»

«Allora avvolgiti nella tua coperta,» suggerì lei. «Non ho bisogno di scaldarmi.» Gli sorrise, allegramente. «Proprio in questo momento, sono calda come il fuoco, dal collo alle dita dei piedi. E mi sento meravigliosamente viva, vibrante. Tutta da sola.»

«Tu sei una cagna,» le disse lui, pensieroso.

«Sì, infatti,» ammise lei, con un sorrisetto felice. «E ora vado a fare una piccola ricognizione, per prima cosa in fondo alla strada, cinquanta metri oltre le Sedan. Porterò il fucile. Tu resta qui e… coprimi.»

«Cagna,» ripeté lui, amaramente, quando lei cominciò a scendere dal pendio.

Una nube stava oscurando il Vagabondo, quando essi svegliarono Doc, per il cambio della guardia. Doc grugnì un paio d'imprecazioni, sommessamente, e fece un paio di flessioni per sgranchirsi braccia e gambe indolenzite, poi si fece più attento e deciso.

«Bisogna cambiare le batterie delle lampade,» notò. «Le ho qui, in tasca. Avremmo dovuto girare una delle automobili, e usare i fari. Non si può fare adesso, però… sveglieremmo tutti.»

Quando Margo ebbe preso il posto di Rama Joan, sul camion, il Vagabondo era di nuovo visibile nel cielo, e mostrava le Fauci. Ann era sveglia. Dal momento dell'orribile incontro del pomeriggio, la bambina che 'adorava tutto' era stata molto pensierosa. Margo si domandò inquieta, in quel momento, cosa stesse pensando la bambina quando la fissava con quei grandi occhi, ricordando forse la guerriera urlante che aveva ucciso con gioia i nemici.

«Perché la mamma deve andare via?» domandò invece la bambina, in tono un po' risentito.

Margo le spiegò che era quello il suo dovere.

«Io credo che alla mamma piaccia stare con il signor Brecht,» commentò Ann, lamentosamente.

«Guarda il Vagabondo, cara,» suggerì Margo. «Vedi, la Luna sta diventando un anello. Ha rotto il bozzolo, e sta riaprendo le ali.»

«Sì, è bello, non è vero?» disse Ann, e finalmente una nota sognante ritornò nella sua voce. «Foreste purpuree e mari dorati… Salve, Ragnarok…»

A bordo dell'autobus, la signora Hixon mormorò all'orecchio del signor Hixon:

«Bill, e se questa gente scoprisse che non siamo sposati?»

Lui le rispose, in un bisbiglio:

«Bambina mia, non credo che avrebbe la minima importanza, per loro.»

La signora Hixon sospirò.

«Però, è una specie di distinzione essere l'unica coppia sposata normalmente di tutto il gruppo.»

Paul si svegliò, solo nello spazio oscuro come un angelo vagabondo, così gli parve… così in alto, sopra la Terra, che le stelle scintillavano più fitte sopra la curva a falce dell'orizzonte nero, più vivide e grandi e luminose di quanto egli le avesse mai viste, perfino nel deserto. Eppure si sentiva così comodo e riposato, e la transizione dal sonno alla coscienza era stata così graduale, da non fargli provare la minima ombra di paura. Inoltre, c'era una superficie calda, vetrosa, invisibile ma che lui poteva toccare. Isolava tutta l'aspra solitudine ghiacciata dello spazio da lui, e il suo piede destro era incollato a essa, un contatto rassicurante. Fece un profondo sospiro.

Era rannicchiato nella notte, almeno a cento miglia di altezza dall'Arizona, decise, e stava guardando a occidente, perché poteva vedere tutta la California Meridionale e l'angolo nord-occidentale del Messico, compreso il collo della penisola di Baja California, e più oltre, il Pacifico. Era impossibile confondere quel grande disegno.

Poteva vedere le luci di San Diego… almeno, delle luci simili a quelle di una città, all'incirca nel punto in cui avrebbe dovuto sorgere San Diego… e si rese conto di ringraziare silenziosamente Dio per questo, in maniera molto banale e scontata, ma con enorme sincerità.

Non c'erano nubi. Il Vagabondo era sospeso a ovest, e mostrava il suo viso di toro, incoronato dalla Luna frantumata. La sua luce viola e dorata scintillava su tutta la superficie del Pacifico, verso di lui, e trasformava in un magico lago anche l'estremità settentrionale del Golfo di California, e così tutte le linee costiere erano chiaramente definite.

Le aree di terra riflettevano solo un lucore giallastro diffuso, come una luce lunare ingigantita, assai più fioca, però, del mare scintillante.

Ma poi egli vide, con un senso d'orrore vago, ma crescente, che il Golfo di California si stendeva almeno cento miglia in più del normale, a nord-ovest, in una lingua scintillante che dapprima si restringeva, ma poi si allargava. Era impossibile confondere quella diversità nel disegno…

A causa dei terremoti, oppure a causa dell'alta marea, o per entrambe quelle cause, le acque salate del Golfo erano penetrate nelle terre sotto il livello del mare, coprendole completamente, intorno alla Imperial Valley, allungandosi minacciose verso Palm Springs. Ricordò che una delle città di quella zona, una città piuttosto grande, si chiamava Brawley, e un'altra Volcano…

Davanti al suo naso, lo spazio si trasformò in una parete rosa, e una voce neutra chiamò: «'Giorno, scimmia.»

Battendo le palpebre, Paul si girò, lentamente, appoggiandosi con il piede destro al legame invisibile. Tigerishka galleggiava nell'aria, curva davanti al pannello di comando, e pareva seduta su un dondolo invisibile. Miao le stava in grembo, e stava industriosamente pettinando le ginocchia verdi della grande felina con la sua piccola lingua rosa.

Paul inghiottì, e poi sollevò le dita, pensieroso, alle labbra. Il bavaglio invisibile non c'era più.

Tigerishka gli sorrise:

«Dormito sette ore,» lo informò. «Senti meglio?»

Paul si schiarì la voce, ma poi si limitò a tener chiuse le labbra, e a fissarla. Non restituì il sorriso.

«Oho, abbiamo imparato un po' di saggezza, eh?» disse Tigerishka, facendo le fusa, proprio come una grossa gatta. «Scimmia non chiacchiera, noi andiamo meglio d'accordo. Okey, parla adesso, però.»

Paul tenne chiusa la bocca.

«Non essere permaloso, Paul,» ordinò Tigerishka. «So che sei civile, saputo subito, ma ti ho legato, imbavagliato, chiamato scimmia per insegnare piccola lezione: come tu non sia così importante nel grande disegno delle cose, come altri possano trattarti come tu tratti animale potenzialmente superiore come Miao. E anche, io fatto questo per darti esperienza di nascita, e qualsiasi psicologo può dirti che ne avevi molto bisogno.»

Paul la guardò a lungo, e poi, lentamente, scosse il capo.

«Cosa vuoi dire?» domandò seccamente Tigerishka, «Quale pensi sia stato il mio motivo?»

Pronunciando ogni sillaba con la chiarezza e la deliberazione che avrebbe messo nel fare lezioni di pronuncia, Paul disse:

«Tu mi hai detto di possedere una mente immensamente superiore alla mia, e sotto molti aspetti devo convenirne, eppure ieri, per almeno venti minuti, tu hai confuso i miei pensieri con quelli dell'animaletto affascinante, ma incapace di parlare e privo di cultura, che ora tieni in grembo. Così hai voluto sfogare su di me l'irritazione che provavi per avere commesso un errore così stupido.»

«È una menzogna! Non ho fatto nulla del genere!» replicò istantaneamente Tigerishka, parlando in un inglese perfetto, quasi come quello di Paul. S'irrigidì, gli artigli le spuntarono, e Miao smise di lambirla. Poi si trattenne, e si rilassò, ridacchiando. Una deliziosa espressione d'indifferenza le apparve sul volto, e nel modo in cui si strinse nelle spalle. «Piccola parte di mia ragione, qui tu nel giusto,» ammise, ritornando alla pronuncia affettata. «Pochi gatti nel cosmo, io speravo. Tu hai notato. Scimmie sono contorte.»

«Tu hai commesso ugualmente un errore, ed è stato grossolano,» le disse Paul, con calma. «Come potevi aspettarti che un animaletto piccolo come Miao avesse un cervello capace di ragionare?»

«Io pensavo fosse miniaturizzato,» rispose lei in fretta. «Avrei potuto dire di no se avessi controllato per chiaroveggenza, mi fidavo di telepatia.» Accarezzò Miao. «Ci sono altre chiacchiere da scimmia?»

Paul aspettò ancora un poco, e poi disse:

«Tu affermi di appartenere a una civiltà galattica superiore, eppure dimostri una fantastica xenofobia. A mio avviso, un vero cittadino galattico dovrebbe andare perfettamente d'accordo con esseri intelligenti di tutte le specie: abitanti del mare, aracnidi, coleotteri, anche, esseri alati, lupi e altri carnivori come te, e primati, anche.»

Tigerishka parve trasalire lievemente, quando lui disse, «lupi e altri carnivori,» ma si riprese subito, con un dolcissimo: «Le scimmie sono la specie peggiore, davvero, Paul.» Aggiunse, in tono sommesso. «E inoltre, il cosmo non è così dolce-dolce amorevole-tenero come pensi.» Aveva cominciato ad accarezzare Miao ritmicamente, facendo scorrere le zampe sulle piccole spalle della micia.

«Sono incline a convenirne,» fu il commento di Paul. «Tu pretendi di essere vicina all'onniscenza, e a una grande considerazione per la vita… almeno, ti sei vantata di avere salvato due città antropoidi dalle fiamme… eppure, quando voi tutti avete distrutto la nostra Luna, per rifornirvi di carburante, avete ignorato la presenza su di essa di un certo numero di esseri umani, compreso il mio migliore amico.»

«Peccato, Paul,» simpatizzò freddamente Tigerishka. «Ma loro su pianeta senz'aria, loro hanno astronave. Loro andati via.»

«Sì, almeno possiamo sperare che Don e gli altri siano fuggiti,» ammise Paul, con uguale freddezza. «Ma non credo che voi sapeste neppure che erano lassù! Non credo che, nel momento in cui siete emersi dall'iperspazio, abbiate avuto idea che questo pianeta fosse abitato da esseri intelligenti. O, in caso contrario, non ve ne siete curati affatto.»

Tigerishka pareva ancora calma, ma stava accarezzando Miao più velocemente, come una donna nervosa avrebbe potuto aspirare con maggiore forza il fumo di una sigaretta.

«Tu hai un po' di ragione in questo, Paul,» concesse. «Le cose sono brutte nell'iperspazio: tempeste, e altro. Nostro bisogno di carburante acutissimo. Ci sentivamo sconfitti quando siamo emersi, realmente. Inoltre, ultima esplorazione galattica non ha mostrato tracce di vita intelligente qui, solo promettenti specie feline.» E arricciò il naso, guardandolo, e interrompendo il movimento ritmico della mano per battere lievemente sul dorso di Miao.

Ignorando quell'interruzione, Paul disse:

«Ecco un'altra faccia della tua fretta insensibile e portatrice di errori: quando hai salvato Miao dalle ondate… e anche me, presumendo erroneamente che io fossi la bestia da soma di un gatto… hai lasciato un gruppo di preziosi esseri umani, compresa la mia ragazza, con la scelta tra affogare e nuotare.»

«Questa è una dannata bugia, Paul!» lo rimbeccò Tigerishka, in una delle sue esplosioni… Paul notò che la pronuncia e la sintassi si facevano esatte, quando lei non era controllata. «Io ho quietato le onde per loro, sono usciti salvi. Ho perfino perduto la pistola a inerzia.»

«Un altro errore di un super-felino?» domandò Paul. «Be', almeno questo è stato dalla parte della generosità, così vi passeremo sopra. Ma…»

Paul si interruppe, sommerso in quel momento dalla percezione di quanto fosse ridicola la situazione. Lui era là, nudo e legato, con dei tubi per gli arrangiamenti igienici che pendevano dal suo corpo, e recitava il ruolo del procuratore distrettuale con la più fantastica «Madame X» che mai fosse stata seduta sulla sedia dei testimoni… seduta, o galleggiante, si corresse subito.

La più bella, anche, aggiunse inquieto tra sé.

Oppure quello, si domandò, era soltanto l'antichissimo gioco della scimmia che stuzzicava il leopardo?

Ma poi ricordò Brewley e Volcano.

«Così hai una ragazza adesso, eh, Paul?» suggerì in tono malizioso Tigerishka. «È proprio vero? Margo lo sa? E tu, così onesto… questo è onesto per Don?»

Paul, con una certa dignità, accantonò questo meschino diversivo. La sua voce si fece più aspra, quando disse:

«Ma l'indicazione più inequivocabile sulla vera natura della tua civiltà galattica così vantata, e della vostra grande sensibilità, è la maniera in cui milioni di esseri umani stanno morendo, in questo stesso momento, sotto questo disco volante, a causa della distorsione del nostro campo gravitazionale provocata dal Vagabondo… tutto perché voi avevate bisogno di carburante, e non avete voluto aspettare ancora un poco, per trovare una fonte di approvvigionamento più adeguata… per esempio, le lune di Giove e di Saturno. Ammetto che abbiate spento qualche incendio, certo, ma soltanto dopo che centinaia, forse centinaia di migliaia di esseri umani sono morti tra le fiamme e per i terremoti avvenuti prima degli incendi. E ora, intere città vengono annientate dalle inondazioni che avete provocato. Se andiamo avanti così…»

«Fa' silenzio, scimmia!» ringhiò Tigerishka, con gli artigli sfoderati, e appoggiò una zampa al quadro di comando. Miao saltò via, galleggiando nell'aria. «Ascolta, Paul,» continuò lei, apparentemente dominandosi con una certa difficoltà. «Non mi sono mai vantata con te di essere umanitaria, o scimmiataria, o cosmotaria! I gatti hanno cultura crudele, per certi aspetti. Altre culture crudeli, molte altre! Morte, fa parte della vita. Alcuni soffrono sempre. Il nostro rifornimento, solo normale sviluppo degli eventi. È solo…»

Si interruppe, vedendo il dito che Paul stava puntando contro di lei. Il viso di Paul si era illuminato, perché in quel momento egli aveva intuito l'enorme significato del tentativo apparentemente sincero di Tigerishka di giustificarsi e giustificare il suo popolo.

«Non ti credo,» le disse, seccamente. «Tigerishka, io credo che la tua fretta e quella della tua gente, quella fretta che vi ha fatto commettere tanti errori, la mancanza di un'opportuna ricognizione, e di preparativi adatti, e quasi tutti i vostri sforzi tardivi e rozzi per riparare alcuni dei danni che avete prodotto… credo che tutto questo indichi che voi siete stati costretti ad agire precipitosamente da qualcosa di cui avevate profondamente paura!»

Con un ringhio acuto, Tigerishka si lanciò su di lui, lo premette contro la parete, tenendogli una zampa intorno al collo, e l'altra a pochi centimetri dal viso, con gli artigli sfoderati.

«Questa è una maledetta menzogna, Paul Hagbolt!» gridò lei, nell'inglese impeccabile dei momenti di collera. «Ti chiedo di ritirare immediatamente quanto hai detto!»

Paul trattenne il fiato. Poi scosse il capo.

«No,» disse, sorridendole, benché dai suoi occhi scendessero lacrime di dolore. «Tu sei spaventata a morte!»

Don Guillermo Walker cercò di allontanare le zanzare, e guardò i letti delle case inondate di San Carlos, rossi nel chiarore dell'alba, mentre la lancia stava tornando indietro, verso il Lago Nicaragua. Durante la notte, la corrente del fiume San Juan aveva nuovamente invertito il suo corso, opponendosi con forza alla lancia, e adesso era evidente la causa… il lago si era sollevato di quattro metri e più… benché la ragione di questo fenomeno fosse difficile da stabilirsi.

Anche il cielo presentava un mistero. A oriente era limpido, e il sole già irradiava luce e calore, ma a occidente una densa muraglia di nubi bianche si levava, dalla striscia di terra tra il lago e il Pacifico, e si stendeva a perdita d'occhio a nord e a sud.

Benché la notte prima egli fosse stato spettatore della grande esplosione di vulcanesimo, Don Guillermo non pensò che in quel luogo, come in molti altri, l'Oceano Pacifico fosse ora circondato da una cortina di vapore, là dove l'acqua di mare penetrava nelle spaccature vulcaniche.

Domandò per quale motivo la lancia si dirigesse a nord, e i fratelli Araiza lo informarono che erano diretti alla loro casa, a Granada. Qualcosa di duro e aspro, nella loro voce, gii impedì di fare obiezioni.

Questo non gli impedì, però, di lanciarsi un po' più tardi in un resoconto… non il primo che essi avessero udito da lui, però… di come, cento e più anni prima, il suo bis-bis-bisnonno fosse sbarcato nel Nicaragua in compagnia di cinquantotto seguaci yankee, un manipolo sparuto ma audace, che ben presto aveva assalito e occupato la stessa Granada.

Bagong Bung osservava il sole, che stava salendo per Don Guillermo, scendere nel Golfo del Tonchino, ora enorme e appiattito mentre dodici ore prima era stato piccolo e tondo, tanto gonfio e enorme che esso sembrava inghiottire tutto il Vietnam del Nord. Pensò alla sua cassaforte, nella cabina, che ora conteneva una borsa di ghinee d'oro, e due borse più grosse di monete d'argento… il modesto bottino della Sumatra Queen. Toccò il giallo fazzoletto di seta, che era legato intorno al suo capo alla moda piratesca, e poi si voltò verso Cobber-Hume, e disse:

«Yooh-eh, eh, baik sobat?»

«E una bella fumata per te, dato che non è contro la tua religione.»

Bagong Bung sogghignò, ma poi il suo viso si fece serio e pensieroso, ed egli disse, con voce intensa:

«Pagi clan ayer surut!»

Il mattino, e la bassa marea! Veramente, non vedeva l'ora che arrivassero. Aveva già da molto tempo deciso quale relitto avrebbe cercato, allora: la nave del tesoro spagnola, la semileggendaria Lobo De Oro. La Tigre del Fango avrebbe cercato di concludere con il Lupo d'Oro!

Barbara Katz ebbe una prima, semplice reazione, alla vista della doppia canna di fucile infilata attraverso il finestrino, accanto al posto di guida di Benjy: la considerò un altro ostacolo, da aggiungersi a tutti quelli incontrati… ostacoli da superare, aggirare, evitare nelle prime tre ore di luce. Terreno sabbioso… distese e distese; foglie e rami e fango; cespugli sradicati, e piccoli alberi; auto fuori uso, e macchine agricole; animali morti e… non fermarsi!… persone; filo spinato… quello poteva essere infernale; dovevano sistemare delle assi sopra un reticolato appiattito e spostato, per far passare la Rolls Royce senza forare le gomme; fiori sommersi di fango, dipinti qua e là, viscidi e insidiosi; case e stalle, a pezzi o quasi intatte… dovettero trovare un vialetto laterale, per aggirare un'impressionante catasta di legno e pietra. Tutto pareva immerso nel fumo, a oriente, come se una nebbia fitta si stesse sollevando dal suolo. Naturalmente c'erano state anche delle persene vive, benché non fossero state molte, ed esse si comportavano in maniera stordita e attonita, oppure badavano ai loro affari, come quello di spostare masserizie su terreni più alti, o di muoversi a bordo di auto o in sella a dei cavalli. Una volta, un piccolo aereo li aveva sorvolati, e il rumore dei motori era stato forte e sprezzante.

La seconda reazione di Barbara, alla vista della canna di fucile, fu che quella doveva essere la spiacevole emergenza che aveva aspettato fin dall'inizio; e fu lieta di avere una rivoltella a canna corta, calibro 38, nella mano destra, che teneva sotto la coscia, dalla parte del vecchio KKK, e, in caso di necessità, sperava di poterla alzare e cominciare a sparare attraverso il finestrino… però questo non sarebbe servito a molto, se avesse colpito Benjy ed Hester che si trovavano davanti, anche se il motore della Rolls stava ronzando sommessamente. Se avessero avuto un avviamento più rapido…

La terza reazione, alla vista della canna di fucile, fu di osservare la ruggine recente che macchiava il metallo, e di chiedersi se le cartucce non fossero bagnate; in questo caso, lei avrebbe avuto un vantaggio nettissimo, e non avrebbe avuto bisogno di sparare, ma solo di minacciare… però si trattava soltanto di supposizioni.

La voce dietro il fucile era pigra, ma minacciosa.

«Questo è un punto d'ispezione. Stiamo raccogliendo il pedaggio. Cosa stavate facendo…»

«Stavamo solo cambiando una gomma,» rispose seccamente Barbara.

«…giù a Trilby?» finì la voce.

Così quello, pensò Barbara, era il nome del miserabile villaggio distrutto, attraverso la cui strada principale in rovina erano passati venti minuti prima.

A voce alta, disse:

«Siamo venuti da Palm Beach, e stavamo semplicemente passando. Possiamo pagare il pedaggio,» ma mentre cercava, con la mano sinistra, nella borsetta nera che teneva sulle ginocchia, due grosse braccia abbronzate entrarono dal finestrino, e presero la borsetta, mentre una mano pelosa le prese il mento, e le fece rovesciare il capo, e per un secondo poté vedere un viso magro, ispido, dagli occhi da pesce; in quel momento, Barbara dominò l'impulso di sparare, o di mordere la mano. Poi le braccia si allontanarono, con la borsetta, e la voce disse:

«Ehi, quel vecchio corvo dev'essere uno di quei milionari di Palm Beach. Qua dentro ci sono banconote a chili.»

Barbara disse:

«È molto malato. È in coma. Vogliamo portarlo…»

«Uno di quei milionari yankee,» disse la voce. «Che scendono qui, e la fanno da padroni, e sfruttano i bianchi dando loro paghe da negri, e poi scappano come polli quando il Signore ci mette alla prova. Prenderemo il denaro per il Fondo del Giubileo, e prenderemo le due pollastre negre… renderanno la collina un po' meno scomoda. Uscite, voi due, presto!… oppure infilo una pallottola nel corpo del vostro autista dipinto!»

E appoggiò la canna del fucile alla tempia di Benjy.

Ci siamo, pensò Barbara, ma quando fece per sollevare la rivoltella, sentì le dita del vecchio KKK stringerle il polso, con sorprendente forza, impedendole di muoversi. Il vecchio si schiarì la voce, raucamente, e un attimo dopo parlò, con voce forte, imperiosa, una voce che Barbara non gli aveva mai sentito prima.

«Ho sentito per caso qualche spiritoso mettere in dubbio il colore di mio figlio Benjy? Dalle vostre parole, credevo che foste vera gente del Sud, qui, non sporchi vermi del fango!»

Si udì un mormorio, fuori, incollerito ma incerto. Il fucile si scostò da Benjy. Poi il vecchio KKK, fissando gli uomini avvolti negli impermeabili, con sguardo da avvoltoio, intonò, incredibilmente:

«Quando finirà la Notte Nera?»

Lentamente, come se gli fosse strappata a forza, la risposta fu data dal primo uomo che aveva parlato:

«Con l'alba del Giubileo Bianco.»

«Alleluia!» rispose il vecchio KKK. «Portate al Grande Maestro di Dade City il saluto del Grande Maestro di Dade County. Benjamin, sarei lieto se tu volessi proseguire.»

Si stavano muovendo… un metro… tre… cinque… e poi andavano velocemente per la strada, ed Hester stava dicendo:

«Attento a quell'ostacolo, Benjy!» E la Rolls sterzò bruscamente, e sterzò di nuovo, e poi accelerarono ancora, e Benjy stava ridendo, solo che questa volta la risata era un po' isterica; infine, riuscì ad ansimare:

«Il vecchio KKK allora è proprio degno del suo nome!» Si voltò «Chiedo scusa… papà!»

Hester disse:

«Non ti può sentire, Benjy. È di nuovo addormentato. Ha usato tutte le forze che gli restavano.»

Helen si voltò, a occhi spalancati:

«Non avevo mai sospettato che fosse del Klan.»

«Be'» disse Hester. «Ringrazia la provvidenza, piccola.»

CAPITOLO XXX

Doc si occupò delle operazioni, nell'accampamento, non appena l'alba verdognola invase il cielo. Si comportò con una misteriosità altezzosa che sarebbe stata irritante, se non fosse stata accompagnata da un palese, ironico entusiasmo. In particolare, rifiutò di discutere il loro prossimo obiettivo, o il problema del macigno che ostruiva la strada, fino a quando tutti non fossero stati organizzati per la partenza.

Diminuì di un terzo le razioni della colazione, che Ida e McHeath gli presentarono per approvazione, prescrisse penicillina per Ray Hanks, dopo che il ferito gli ebbe dichiarato di non essere allergico al medicamento, e rispose con un secco diniego alla proposta di Hixon, il quale suggeriva di rendere permanente quell'accampamento, creando gruppi da mandare fuori in cerca di approvvigionamento.

Le due Sedan vennero perquisite. Sotto il cruscotto della prima trovarono una pistola calibro 32, carica, e sul sedile posteriore un cappello nero. Doc requisì entrambi gli oggetti, calcandosi il cappello sulla testa pelata, con un allegro, ironico «Mi va a meraviglia!»

Wojtowicz, in piedi malgrado la ferita alla spalla, protestò:

«Non metta quel cappello, Doc, le porterebbe sfortuna,» mentre Bacchetto dichiarò, in tono sepolcrale. «Mai vorrei contaminare la mia testa con le molecole irradiate dall'aura di un assassinio sadico.»

«E io non voglio che le radiazioni solari arrostiscano la mia testa più di quanto non lo sia già,» rise Doc. «Posso sopportare benissimo, invece, la forfora di un assassino.»

La prima automobile cominciò subito a tossire e a brontolare, quando Doc girò la chiavetta di accensione, ma la batteria della seconda pareva esaurita. Doc si oppose alla proposta di Wojtowicz, di studiare sotto il cofano le condizioni del motore, ma non appena l'auto venne privata di tutta la benzina e dell'olio Doc ordinò agli altri di spingere il veicolo verso il precipizio.

Cinque secondi dopo la scomparsa dell'auto, oltre il bordo del precipizio, si udì arrivare lo schianto, seguito ben presto da tre avvoltoi.

Doc fece schioccare le dita, e borbottò:

«Non avevo certo intenzione di disturbare la loro colazione, se è quella che penso io.»

La signora Hixon lo udì, e il suo viso si fece verdastro.

Subito dopo Doc si diresse verso la Corvette rossa, che rispose meravigliosamente ai suoi comandi. «Magnifico,» fu il suo commento, quando scese di nuovo a terra, dopo aver frenato a pochi millimetri dal precipizio. «Questa è per me.»

Verso la fine della colazione, egli riunì Hunter, Rama Joan, Margo e Clarence Dodd, portandoli dietro il camion, in un punto dove gli altri non potevano ascoltare.

«Be', cosa facciamo?» domandò. «Continuiamo verso la Valle, o torniamo indietro, fino a Mulholland, e ci dirigiamo verso i Cornell o Malibu? Dobbiamo tenere in movimento questo gruppo, altrimenti il morale crollerà a zero, e non riusciremo a smuoverli neppure con le gru.»

«Se decidiamo per la Valle, come faremo ad aggirare quel macigno?» domandò l'Omino.

«Rimanda la soluzione, Doddsy,» gli disse Doc. «Andiamo per ordine; prima scegliamo, poi affrontiamo i problemi della scelta.»

«Un gruppetto potrebbe prendere la Sedan, e andare a perlustrare la Valle,» suggerì Hunter.

Doc scosse decisamente il capo.

«No, non possiamo permetterci di dividere il gruppo. È troppo esiguo.»

«Io conosco degli artisti, a Malibu,» cominciò Rama Joan, incerta.

«E io ne conosco a Cape Cod,» disse Doc, sorridendole e strizzandole l'occhio. «Probabilmente a quest'ora stanno nuotando verso lo Scoglio di Plymouth.»

«Ma io stavo per dire,» continuò Rama Joan, con una smorfia ironica. «Che voto per la Valle.»

«Qualcuno conosce l'altitudine della Valle?» domandò l'Omino. «Potrebbe essere inondata, attraverso i passi tra le montagne.»

«Lo scopriremo,» rispose Doc, stringendosi nelle spalle.

«Deve essere la Valle,» intervenne Margo, «Vandenberg Tre si trova ai piedi della Collinare. E credo sappiate tutti che io voglio dare la pistola a inerzia a Morton Opperly.»

Doc li guardò.

«E sia la Valle, allora,» decise. «Io penso, però,» aggiunse, rivolgendosi a Margo, «Che il nome migliore sarebbe pistola a momentnm.»

«Ma il macigno…» cominciò l'Omino.

Doc alzò il braccio.

«Venite,» disse, e tutti lo seguirono. Doc si avviò verso il masso.

Mentre passavano, Bill Hixon domandò in tono scherzoso, che per tre quarti era di intuibile antagonismo:

«Ebbene, dottore, il suo comitato esecutivo ha deciso i nostri prossimi lavori, per il resto della giornata?»

«Proseguiremo per la Valle,» disse freddamente Doc, «Dove potremo rifornirci, e prendere contatto con gli scienziati responsabili del Progetto Luna. Obiezioni?»

Senza attendere risposta, Doc andò a mettersi sul pendio, direttamente sopra il masso, e fece segno a Margo di salire.

«Ho visto il masso tremare,» spiegò, «Quando lei vi ha mandato a sbattere quel pistolero. Tre secondi da questo punto, e scommetto che il masso rotola giù. State alla larga, voialtri… indietro!»

Margo prese dalla giacca la pistola a momentum, poi si voltò bruscamente, e la diede a Hunter.

«Fallo tu,» disse, deliziata dall'idea di non avere più bisogno di quella grossa pistola, per provare un senso di sicurezza e di eccitazione… un'idea che le era parsa chiara in quel momento… e rendendosi conto che lei, proprio lei era la grossa pistola sulla quale poteva contare, e con la quale poteva fare esperimenti. Notò anche, con soddisfazione, l'espressione acre degli occhi di Hunter, arrossati e cerchiati di scuro.

L'uomo si rannicchiò, stringendo la pistola con entrambe le mani. Gli avevano detto che non c'era assolutamente rinculo, ma il suo corpo rifiutava di crederlo. Tutti i suoi muscoli s'irrigidirono. Con la coda dell'occhio, vide che Doc gli faceva segno di cominciare. Premette il bottone.

Qualunque fosse stato il campo, o la forza, che la pistola generava, il suo effetto era cumulativo, come se il masso avesse dovuto assorbirlo. Dapprima l'enorme roccia rotondeggiante non si mosse affatto… per il tempo sufficiente a far esclamare a Hixon, «Guardate, non si…»

Poi il lato più vicino a Hunter cominciò a sollevarsi, dapprima lentamente, poi con maggiore rapidità. McHeath gridò:

«Si sta muovendo!»

Il macigno si rovesciò. Hunter staccò il dito dal bottone. Il masso discese per il pendio sassoso, con un fragore impressionante, poi rotolò, rotolò, apparentemente muovendosi, all'inizio, più velocemente di quanto avrebbe dovuto farlo un masso rotolante.

Tutto il pendio roccioso tremò. Alcuni si aggrapparono alla persona più vicina.

Un ultimo schianto portò il mostruoso sasso oltre il bordo del precipizio, dal quale portò via una grossa porzione di roccia.

L'Omino disse ad alta voce, tirando fuori il suo libretto d'appunti:

«Questa è la più sorprendente dimostrazione di fisica impossibile che io abbia mai…»

Un tonfo gigantesco soffocò le sue parole. Il pendio roccioso tremò nuovamente, quando il masso colpì il fondo del precipizio.

Hunter guardò la scala graduata, sulla pistola, e disse:

«Rimane ancora più di un terzo della carica.»

Doc studiò il luogo sul quale era stato appoggiato il macigno. C'era una buca profonda mezzo metro, nell'asfalto, più fonda verso il bordo della strada, dove il nero materiale era schiacciato e compresso in una specie di labbro che si univa senza soluzioni di continuità alla roccia. Bruscamente, Doc annuì, con aria di approvazione.

«Non sono molto sicuro,» disse Hunter, scendendo dal pendio. «Scivolando lateralmente…»

Ma Doc stava già correndo verso la rossa Corvette.

Due dei tre avvoltoi… probabilmente erano gli stessi di prima… salirono dal precipizio, battendo le ali e allontanandosi dalla strada. Ma gli sfortunati volatili si imbatterono, più avanti, in un grosso elicottero militare, che era venuto rombando dalla direzione della Valle, durante le operazioni di sgombero della strada, che avevano assorbito l'attenzione generale. Gli uccelli virarono, e tornarono indietro.

Hixon avrebbe voluto fare dei segnali all'elicottero, con il fucile, ma Doc disse:

«No, baderemo ai fatti nostri. Comunque, possono vederti, e se quel macigno non li ha attirati, nient'altro al mondo potrà riuscirci.»

L'elicottero si allontanò, in direzione del mare.

Doc salì a bordo dell'automobile rossa, e gridò:

«Sgomberate la strada!» poi partì, superando la fossa, proprio mentre i due avvoltoi attraversavano rapidamente la strada, a meno di quindici metri di altezza, per poi sparire dietro il costone roccioso.

Doc fermò la Corvette subito dopo la Sedan.

«Fate scendere tutti dall'autobus, e portatelo qui!» gridò. Poi, rivolgendosi a Hunter, Margo e Rama Joan, che lo avevano seguito, «Io partirò per primo, su questa macchina. Poi l'ordine di marcia sarà: Sedan, autobus, camion. Tu verrai con me, Joan, ma sarà meglio che Ann viaggi sull'autobus. Tu guiderai la Sedan, Ross. Meglio cominciare subito. Margo, lei tenga la pistola a momentum, e vada con Ross. Lei è la nostra artiglieria pesante, se ci metteremo nei guai, ma aspetti sempre i miei ordini prima di sparare. Doddsy, sul retro del camion dovrà esserci un uomo con un fucile, per proteggerci alle spalle… ma la tua mano è ancora in pessime condizioni.»

«Harry McHeath sa come usare il fucile,» disse l'Omino. «Ed è una persona responsabile.»

Doc annuì.

«Digli che è stato promosso,» fece. «Hixon terrà l'altro fucile.»

Il conducente dell'autobus, Pop, rifiutò di guidare il veicolo oltre la buca.

«Le gomme sono vecchie,» spiegò. «Sono consumate. L'autobus potrebbe scivolare, affondando in quella buca…»

Doc stava già camminando a grandi passi verso l'autobus. Salì a bordo, e lo pilotò oltre la buca, con facilità pari a quella dimostrata precedentemente alla guida della Corvette.

Hixon fece passare anche il camion. Ray Hanks venne trasportato sulla branda, e, per accontentare la sua richiesta febbrile, venne nuovamente caricato sul retro del camion, e non sull'autobus. Venne raggiunto poi da Ida e dal giovane McHeath, che imbracciava il fucile e aveva il viso deciso e severo.

Mentre gli altri salivano a bordo dell'autobus, Doc disse a Clarence Dodd:

«Tu sarai il comandante a bordo… e terrai d'occhio Pop.»

Ritornando alla Corvette, trovò Ann seduta accanto a sua madre, al centro dei sedili anteriori. Doc si piantò i pugni sui fianchi, poi sorrise e si strinse nelle spalle, e si mise al volante. «Ciao, tesoro,» disse, accarezzandole i capelli. La bambina si scostò un poco da lui, avvicinandosi alla madre.

Doc accese il motore, poi si alzò, e guardò indietro.

«Ascoltate!» gridò, rivolgendosi alla Sedan, all'autobus e al camion. «Seguitemi, a intervalli di venti metri!… Io andrò piano. Tre colpi di clacson, da parte mia, significano rallentare! Quattro significano fermarsi! Cinque… da uno di voi… significano che siete nei pasticci. Capito?

«Bene! Partenza!»

La popolazione terrestre reagì alle catastrofi provocate dal Vagabondo a seconda di ciò che le circostanze costringevano, o non costringevano, a fare.

Una scheletrica New York di profughi e tendopoli e ospedali di emergenza e di terminali di ponti aerei cominciò a crescere a Putnam e a Dutchess, e sull'altra riva del fiume, nelle propaggini meridionali dei Catskills.

A Chicago alcune persone discesero fino al Lago Michigan, per ammirare con blanda meraviglia la marea di un metro e venti, e per ripetersi l'un l'altro di non avere mai saputo che ce n'era sempre stata una di otto centimetri. Sollevarono brevemente lo sguardo, per osservare una processione di piccoli aerei che volavano a oriente, per unirsi a qualche ponte aereo. Dietro costoro, il traffico ruggiva senza interruzione, fitto e intenso come tutti gli altri giorni.

In Siberia, ondate di marea invasero una base dove si fabbricavano bombe atomiche, e contribuirono a produrre una grande esplosione che disseminò micidiale fallout sui profughi in marcia.

Dai piccoli atolli del Pacifico, che si stavano sciogliendo tra vampate vulcaniche senza precedenti, lunghe canoe partirono per viaggi di esplorazione forzati, che ripetevano le imprese degli avventurosi antenati dei polinesiani.

Wolf Loner navigava fiducioso verso Boston, alla cieca. Si domandò, placidamente, per quale motivo almeno due volte, quella notte, la luce della luna era filtrata vividissima, attraverso le nubi, con una strana colorazione violetta.

La Principe Carlo sfiorava la costa brasiliana, nel suo viaggio verso sud. I quattro comandanti ribelli ignorarono l'avvertimento del capitano Sithwise, il quale li pregava di compiere un'ampia deviazione al largo della foce del Rio delle Amazzoni.

Paul Hagbolt osservava l'Europa settentrionale, da un'altezza di cinquecento miglia. La visione era limpida, rischiarata dal sole, però un gigantesco banco di nubi bianche si stava avvicinando all'Irlanda, dall'Atlantico.

Sotto di lui c'era il Mare del Nord, grande come appariva sulla pagina di un atlante, e di un grigiore spento, meno che nel punto in cui il sole produceva un riflesso irritante, nell'angolo dello Stretto di Dover.

Le Isole Britanniche, la metà meridionale della Scandinavia, e la Germania Settentrionale e i Paesi Bassi formavano altre tre pagine d'atlante, sistemate a sinistra, a destra, e in basso.

Scozia e Norvegia avevano l'aspetto giusto, ma il pendant della Svezia meridionale era attraversato dalle strisce grigie del Baltico.

Sotto una scheletrica Danimarca, una larga scimitarra d'acqua, con la parte tagliente della lama rivolta a sud, si stendeva attraverso i Paesi Bassi e la Germania settentrionale. Paul pensò, Oh, bene, questa non è la prima volta che l'Olanda viene inondata.

L'Inghilterra, poi… anch'essa era percorsa da lacci grigi, e qualcosa aveva dato un grosso morso alla costa orientale. Il Tamigi? L'…Humber? Paul si sentì colpevole, sapendo che la sua mente avrebbe dovuto trovare la risposta esatta immediatamente, ma la geografia non era mai stata il suo forte. Perché Tigerishka non guardava nel suo inconscio, e glielo diceva? si domandò, futilmente, guardando là dove Tigerishka si stava facendo bella coscienziosamente, con un pettine d'argento e la lunga lingua.

Le accuse di Paul, e le rabbiose reazioni di Tigerishka, erano terminate nella maniera più spenta immaginabile. Lei aveva abbassato i minacciosi artigli, gli aveva voltato la schiena, e aveva passato l'ora successiva davanti al pannello di controllo, a volte manipolando le escrescenze argentee, ma soprattutto rimanendo immobile. Poi aveva cominciato una nuova serie di manovre e di osservazioni.

Si era interrotta a metà per liberare Paul, senza alcun commento, dall'ultimo legame alla caviglia, e dalle connessioni igieniche. Poi gli aveva spiegato in maniera limpida e impersonale, ma in un inglese nuovamente distorto e affettato, le regole fondamentali per trattare il proprio corpo in stato di imponderabilità, e per usare il Pannello dei Rifiuti, e il Pannello del Cibo. Finalmente era ritornata ai suoi affari, lasciando Paul con la sensazione di essere un intruso capitato in un ufficio elegante e pieno di lavoro. Aveva frettolosamente consumato un pasto a base di proteine, una specie di polpetta che lui aveva buttato giù con dell'acqua pura, come se fosse stata una pillola. E adesso gli pesava ancora sullo stomaco.

L'osservazione era stata emozionante, nuovissima, all'inizio, ma poi si era rapidamente fatta noiosa.

Cercò di pensare a Margo, dall'altra parte del mondo, nella California Meridionale, e a Don, dall'altro lato della Terra, sulla Luna frantumata… oppure fuggito di là a bordo di un'astronave lunare… ma la sua immaginazione era esausta.

Tornò a concentrare la sua attenzione sulle osservazioni, ma fece uno sforzo sensibile… per distogliersi dalla visione inquietante e splendida di Tigerishka, che si lisciava il corpo e si agghindava, e ritornare all'atlante vivente che si stendeva sotto il fondo trasparente del disco volante, con i suoi supporti invisibili, in due dei quali lui aveva infilato, ora, un dito del piede e un dito della raano.

Vediamo, quel morso, sull'Inghilterra, potrebbe essere qualcosa che chiamavano il Wash, che era collegato a qualcosa che chiamavano le Lande… Sospirò.

«Ti senti triste per il tuo pianeta, Paul?» domandò Tigerishka. «Per la gente che soffre e il resto?»

Lui si strinse nelle spalle, e scosse il capo.

«È troppo enorme,» disse. «Ho perduto i miei sentimenti.»

«Ti piace vedere le cose più da vicino?» domandò lei, muovendosi e avvicinandosi a lui.

«A che servirebbe?» domandò Paul.

«Allora ti sentiresti triste per qualcosa di più piccolo, Paul, qualcosa più vicino a te,» gli disse Tigerishka. «Ragazza? Ti preoccupi per lei?»

Lui fece una smorfia.

«Non so. E poi Margo non è veramente la mia ragazza.»

«Allora ti senti triste per la cosa più vicina di tutte: te stesso.» lo informò Tigerishka, fermandosi accanto a lui. Posò una zampa vellutata sulla spalla nuda dell'uomo. «Povero Paul,» disse, dolcemente. «Tutto sconvolto. Povero, povero Paul.»

Rabbiosamente, Paul si sottrasse a quell'eccitante contatto.

«Non trattarmi come un cucciolo nei guai,» disse, rabbiosamente. «Non trattarmi come una scimmietta malata. Trattami da uomo!»

Lei gli sorrise, le nere pupille si strinsero, fino a diventare punii sottili, e poi puntò la zampa contro il suo cuore, e disse: «Bang!»

Dopo un momento, anche lui ridacchiò, depresso, e ammise:

«D'accordo, Tigerishka, immagino che per te devo essere una specie di animale inferiore, ma in questo caso, guardami nella mente e dimmi cosa c'è che non va, in me. Perché sono così sconvolto?»

Le pupille cominciarono a espandersi, diventarono stelle… nere stelle in un cielo violetto.

«Bene, Paul,» disse lei, con tono grave, «Da quando mi hai costretto a trattarti da essere intelligente… primitivo ma intelligente, un essere che porta un piccolo universo vivo dentro di sé… non è più stato così semplice addentrarmi profondamente nella tua mente. Adesso, è diventata una questione diversa… ò come se io dovessi chiederti il permesso ogni volta. Ma ho raccolto certi dati, su di te, e se lo desideri, posso dirteli.» Il suo inglese era impeccabile, ora. Questo significava qualcosa, ma Paul era assorbito nelle parole di lei, e non vi fece caso.

«Continua,» disse lui, annuendo.

«Paul,» disse lei, «Ti offendi, a essere trattato come un cucciolo, eppure è così che tratti la gente che ti circonda. Tu stai un po' indietro, in disparte, e osservi i buffi atteggiamenti e il ridicolo atteggiarsi degli altri con comprensione e tolleranza, e accudisci, proteggi e coccoli quelli che ami: Margo, Don, tua madre, diversi altri. Questa tu la chiami amicizia, ma è possesso e protezione e tende a divorare le altre personalità. Una gatta onesta non farebbe questo neppure con i suoi gattini.

«Tu stai in disparte, e osservi te stesso più di quanto non sia salutare. Tu vivi troppo nel Paul che guarda se stesso, e nel terzo Paul che guarda il secondo, e così via. Osserva!» Trasformò le finestre in uno specchio. La zampa si mise tra l'occhio destro di Paul e le immagini che si ripetevano all'infinito, e chissà come riuscì a isolare perfettamente i contorni dei primi sei.

«Vedi?» gli disse. «Ciascuno osserva quello davanti. Lo so… tutti gli animali intelligenti amano osservare se stessi. Ma tu vivi troppo in quei riflessi, Paul. È meglio vivere principalmente davanti allo specchio, e solo un poco negli osservatori. In questa maniera, viene il coraggio. Non vivere nell'Osservatore Numero Sei!

«E inoltre, tu credi le altre persone uguali ai tuoi osservatori. Ti ritrai da loro, poi critichi. Ma no. Anche loro hanno degli osservatori, che guardano soltanto loro.

«E poi, ama di più te stesso, altrimenti non potrai amare nessuno.

«Altra cosa, su di te,» aggiunse, ritornando all'inglese affettato e imperfetto. «Riflessi di combattimento, scarsi. Lo stesso, la danza. Lo stesso, il sesso. Pratica insufficiente. Poca esperienza. Questo è tutto.»

«So che hai ragione,» disse Paul, lentamente, con voce sommessa, stanca. «Io cerco di cambiare, ma…»

«Basta pensare a te! Guarda! Guarda un grande disco volante, salvare una delle tue città!»

Soffitto e pavimento erano di nuovo trasparenti. Stavano scendendo rapidamente verso una rete di ramificazioni oscure, mescolate a una pallida scacchiera, dal centro della quale degli anelli bruni si espandevano verso un anello circolare che si fondava in una distesa grigio-azzurrina. In alto, sopra il centro dei circoli, era sospeso un disco volante giallo e viola, che doveva essere enorme.

La scacchiera si fece più grande… erano delle strade. E i quadrati erano blocchi di edifici, interi isolati.

Gli anelli bruni erano cerchi concentrici d'acqua, che veniva respinta fuori della città.

Riconobbe, da fotografie che aveva visto un tempo, i grandi edifici di Elektrosila e dell'istituto di Energetica, la forma verde-azzurra del teatro Kirov, la Piazza dei Dicembristi. Le ramificazioni dovevano essere le diramazioni del delta della Neva, e la città… Leningrado.

«Vedi? Noi salviamo le tue amate città,» disse Tigerishka, in tono di grande concessione. «Motore a momentum del grande disco muove soltanto l'acqua. Macchina molto progredita.»

Improvvisamente, il disco volante si abbassò a tal punto che egli vide i ciottoli delle strade, una grondaia colma di fango, e i corpi scomposti, ingrigiti e illividiti dall'acqua, di una donna e di una bambina. Poi una bassa onda bruna si sollevò, travolgendoli, e tra la schiuma sporca spuntarono per un momento un braccio grigio, e un volto grigio e barbuto e senza vita.

«Salvare?» domandò Paul, incredulo. «Sì, dopo avere ucciso milioni di uomini… e se questo vostro salvataggio non è peggiore del disastro. Tigerishka, come avete potuto distruggere il nostro mondo, solo per fare rifornimento più in fretta? Che cosa, che cosa vi ha spaventati a tal punto?»

Lei sibilò:

«Lascia stare questo argomento, Paul!»

Richard Hillary avanzava zoppicando rapidamente… un punto senza dimensioni, sulla pagina d'atlante dell'Inghilterra che Paul aveva osservato poco prima, ma ciononostante un uomo, vivo, ansante, spaventato. Stava sudando copiosamente; il sole lo martellava impietosamente con raggi caldi e soffocanti. Stava ansimando, e a ogni passo faceva una smorfia di dolore.

L'equivalente perfetto, tra i pedoni, di un'auto di grossa cilindrata su una grande autostrada, Richard aveva distanziato già da molto tempo la folla che lo seguiva, ma non aveva ancora raggiunto la folla dei profughi che marciava più avanti, se c'era davvero una folla. L'ultimo cartello che aveva visto aveva indicato, con beffarda opportunità, ne era certo, il «Mattatoio Provinciale.»

Guardando avanti, poté vedere che, a poche centinaia di metri, la strada cominciava a salire sinuosamente sulle pendici di un'alta collina, con una verdeggiante corona boscosa in vetta.

Ma, voltandosi, gli occhi abbacinati dal sole poterono vedere soltanto un pazzesco gioco d'incastri di coltri e serpentine di acqua.

Il serpente più grasso era la strada lungo la quale lui stava viaggiando, e che cominciò subito a riempirsi d'acqua, mentre lui indugiava, acqua che traboccava dal fossato di sinistra. Neppure due centimetri, eppure era una presenza minacciosa, inquietante.

A destra c'era un campo d'orzo, racchiuso minacciosamente da una staccionata apparentemente invalicabile, rialzato, rispetto alla strada, un campo che continuava a salire verso la cima della collina. Preso dalla disperazione, Richard scalò la staccionata, incurante della barriera di filo spinato che la dominava, e ricominciò a camminare tra l'orzo verdeggiante, che gli frusciava intorno ai piedi. Con un battito d'ali improvviso, che lo fece trasalire, un corvo emerse dal mare erboso, proprio davanti a lui, e si allontanò lentamente, gridando la sua rauca disapprovazione. Benché le gambe di Richard si piegassero, ormai, per la fatica, egli continuò la marcia, accelerando il passo.

Udì il brontolio di un tuono basso, lontano. Solo che quello era il genere di tuono che non smoriva brontolando nel silenzio, ma che si faceva sempre più forte, sempre più forte. Richard ebbe la certezza di essere sconfitto, ma cominciò ugualmente a correre, a correre con tutte le sue forze, verso la cima della collina. Dietro di lui, si sentì lo scalpiccio di conigli in fuga. A un certo punto, poté vedere almeno una dozzina di forme bianche che correvano.

Con la coda dell'occhio, cominciò a scorgere delle pareti che lo inseguivano, vorticose, rugghianti di schiuma sporca. Il tuono diventò tremendo, come quello di una dozzina di treni lanciati a tutta velocità. A un certo punto una schiuma giallastra gli circondò le gambe, e più avanti gli parve che una lingua d'acqua gli bloccasse la strada, isolandolo.

Eppure riuscì a raggiungere la sommità della collina, e le acque non arrivarono fin lassù, e il tuono tremendo cominciò lentamente a diminuire d'intensità.

Mentre lui stava là, barcollando, ansimando, con i muscoli del petto indolenziti, da una macchia d'alberi, proprio davanti a lui, sbucò un uomo diritto, piccolo, anziano, con una doppietta.

«Fermo, signore!» esclamò l'apparizione, puntando l'arma contro Richard. «Altrimenti farò fuoco.»

L'apparizione indossava ghette marrone, calzoni larghi grigi, e un pullover lilla. Il viso stretto, grinzoso, dagli occhi acquosi, era indurito da un'espressione di cupa disapprovazione.

Richard rimase immobile, non fosse stato altro che per la stanchezza che provava. Il tuono si allontanò e smorì completamente, mentre l'acqua torbida si quietava, livellandosi un po' più in basso, sulle pendici della collina.

«Avanti, parli!» esclamò l'apparizione. «Cosa le ha fatto credere di avere il diritto di calpestare il mio orzo? E come diavolo ha fatto a lasciare entrare tutta quest'acqua?»

Ritrovando un po' di fiato, finalmente, Richard curvò le labbra in un sorriso grave, e disse:

«Non l'ho fatto di proposito, mi creda.»

Sally Harris, con il sole del mattino che traeva scintille dorate dal suo bikini, si affacciò alla balaustra, e recitò una rapida serie di osservazioni.

Jake Lesher era seduto, con una tazza di caffè nero corretto con un po' di whisky irlandese, e fumava un grosso sigaro. Di quando in quando, corrugava la fronte. Un quaderno era aperto accanto alla tazza di caffè, e mostrava due pagine bianche.

Sally annunciò:

«L'acqua è dieci piani più in alto dell'ultima volta. I tetti sono gremiti di gente, e ci sono due o tre persone a ogni finestra che io posso vedere. Alcuni sono in piedi sui davanzali. Siamo stati fortunati, perché il nostro grattacielo si è incendiato e l'ascensore si è bloccato. Qualcuno sta agitando il pugno… perché io, che cosa ti ho fatto? Qualcun altro ha fatto un bel tuffo… ah, che brutta entrata in acqua! La corrente è forte… sta respingendo una lancia della polizia. Ehi tu, la smetti di puntare contro di me il tuo bastone? Ci sono delle madri, e dei bambini, e…»

Si udì uno zing, e un crack, e la ringhiera cromata risuonò per tutta la sua lunghezza. Sally fece un salto indietro, come se qualcosa l'avesse punta, e si voltò:

«Qualcuno mi ha sparato!» annunciò, indignata.

«Vieni dentro, piccola,» la erudì Jake. «La gente è sempre invidiosa di chi si trova in alto.»

CAPITOLO XXXI

Gli studiosi di dischi volanti udirono quattro rapidi colpi di clacson che giunsero attraverso l'aria pregna dei vapori acri, odiosi di una terra bruciata… un fetore ancor più odioso, da quando si era levato un vento caldo e umido di sud-est. In alto, il sole era rovente, ma c'era un enorme banco di nubi nere a sud.

Hunter fece fermare la Sedan dietro la Corvette, che era appena giunta sulla cima di un'altura, dove la strada passava tra due garitte di guardia naturali, sporgenze rocciose a un'altezza di cinque, sei metri.

Doc era ritto sul sedile, e studiava il paesaggio davanti a lui. Aveva vagamente l'aspetto di un pirata, con la falda del cappello nero calata sulla nuca, ma sollevata sulla fronte. Tese la mano destra, e Rama Joan gli porse il binocolo. Doc ricominciò l'osservazione, usando lo strumento. Anche Rama Joan e Ann si erano alzate.

Hunter spense il motore della guida interna, sistemò il freno, e quando l'autobus si fermò dietro di loro, terzo della fila, lui e Margo scesero e corsero verso la Corvette, per potere vedere a loro volta la scena.

Davanti a loro si stendeva un pendio digradante, che si abbassava in una serie di dolci ondulazioni per un quarto di miglio per raggiungere una zona pianeggiante, una valle profonda, oltre la quale il terreno tornava a salire, anche se l'altura successiva era più bassa.

Il pendio era nero, a sinistra, di un polveroso verde-bruno alla destra. La Collinare di Santa Monica lo discendeva in curve serpentine, attraversando e riattraversando la linea di demarcazione tra la zona bruciata e quella non bruciata.

Verso il fondo, quasi sulla linea di demarcazione, la strada passava accanto a tre bianchi edifici, circondati da un ampio spiazzo ghiaioso e da un alto reticolato metallico. Poi la strada entrava nel fondovalle, che proseguiva in entrambe le direzioni, una sorta di fossato pianeggiante, ma incurvato, che veniva infine nascosto dalle colline, da una parte e dall'altra.

In basso, al centro della fascia pianeggiante, seguendone i contorni, si stendeva quello che, per un lungo momento, parve semplicemente un serpente lungo più di un miglio, appiattito, squamoso, largo trenta metri. Le squame individuali, che scorrevano a file bordate di scintillii e guizzi metallici, erano soprattutto azzurre, brune, color crema e nere, benché qua e là se ne vedesse una verde o una rossa. A giudicare dai lati scintillanti, il serpente aveva un ventre d'argento.

Wojtowicz, sopraggiungendo alle loro spalle, esclamò:

«Accidenti, ci siamo. Ci siamo!»

Il serpente squamoso era la Statale 101 interna, gremita di automobili i cui parafanghi si toccavano. Il bordo scintillante era il reticolato dell'autostrada.

Doc disse, raucamente:

«Voglio parlare a Doddsy e a McHeath.»

«Ann,» disse Rama Joan, «Puoi andarli a chiamare?» La bambina si allontanò di corsa.

Non appena gli occhi di Hunter e di Margo smisero di seguire l'immagine, e si soffermarono su alcuni punti, i particolari cominciarono a distruggere l'illusione del serpente. In molti punti, delle automobili erano state portate sulla corsia di emergenza, accanto al reticolato. Alcune avevano il cofano sollevato, e delle macchie bianche sui lati… Hunter si rese conto che quelle macchie dovevano essere asciugamani, camicie, e grandi fazzoletti; patetiche «richieste di assistenza» secondo la legge, segnali predisposti prima che l'ingorgo si fosse fatto impossibile.

In numerosi punti, le squame del serpente erano contorte e schiacciate: incidenti ai quali nessuno aveva rimediato, e tentativi di interi gruppi di automobili di compiere un'inversione e tornare nella direzione dalla quale erano venute, attraversando la striscia divisoria, oppure utilizzando la corsia di emergenza.

In tre punti il reticolato metallico era incredibilmente gonfio e sporgente, e ogni gonfiore non era vuoto, ma conteneva delle automobili; quelle dovevano aver tentato di sfondare il reticolato, per uscire dall'ingorgo. Uno di questi tentativi aveva avuto un successo limitato: il reticolato era stato abbattuto, ma la strada, subito dopo, era bloccata da un groviglio di auto rovesciate e ammucchiate, una delle quali era addirittura salita sul cofano della precedente.

Qua e là, alcune auto si muovevano ancora, a strattoni apparentemente insensati, in avanti e indietro, spostamenti di pochi metri nell'una e nell'altra direzione. Il fetore dei tubi di scappamento si confondeva all'acre fetore di bruciato che veniva portato dall'umido vento di sud-est.

Hunter pensò all'aspetto che doveva avere avuto la scena di notte, nell'ultimo stadio della migrazione generale: cinquemila auto visibili, di là, diecimila fari che ammiccavano e si muovevano, diecimila parafanghi che si tamponavano e rumoreggiavano e si rompevano, qualche poliziotto che correva qua e là, cercando inutilmente di tenere aperte delle corsie che rapidamente si stringevano e si accorciavano, cinquemila motori, che vomitavano fumi acri e venefici, cinquemila clacson… E all'incirca altre centomila auto, tra quel punto e Los Angeles.

Sentì dire a Bacchetto, «Questa è la valle degli scheletri. O Signore dei Dischi Volanti, soccorrili.» Dall'automobile accanto, Rama Joan fece udire la sua voce, sommessamente, «Anche un malfattore vede la felicità, fino a quando il suo malfatto non matura; ma quando il suo malfatto matura…»

Il più grande, e più disastroso tamponamento era avvenuto nel punto in cui la Collinare entrava nella 101, subito dopo i tre edifici bianchi; cento automobili, e più, disseminate in disordine, alcune rovesciate, altre bloccate, e le più vicine, almeno trenta, annerite dal fuoco… Hunter pensò che, molto probabilmente, ora lui stava vedendo la causa dell'incendio dei boschi e degli sterpi.

Soltanto dopo che lui e Margo ebbero studiato le automobili a lungo (o solo per un interminabile momento d'incredulità, nel quale il tempo era stato sospeso) cominciarono a vedere le persone. Fu come se qualche oscura legge universale costringesse la vista a discendere a stadi, secondo le dimensioni.

Gente!… tre o quattro persone per ogni automobile, almeno. Molti erano ancora seduti all'interno delle auto. Altri erano in piedi, o camminavano tra le fiancate di latta, alcuni erano in piedi, o seduti, sulle capote coperte da teli o da cuscini. Lontano, a sinistra, al di là della sezione bruciata, molte persone avevano scavalcato il reticolato, e avevano organizzato dei bivacchi, stendendo coperte o teli o asciugamani da spiaggia, eppure ben pochi parevano essersi allontanati dall'autostrada che teneva prigionieri i loro veicoli; forse supponevano che l'ingorgo sarebbe stato risolto, prima o poi, tra poche ore, o in un giorno. E non c'era molto da girare… restavano vicini all'ombra.

Era una vecchia barzelletta, ricordò Hunter, quella che raccontava come gli abitanti di Los Angeles, usando le automobili perfino per far visita ai dirimpettai, avevano dimenticato come si faceva a camminare… una di quelle barzellette che sono poco più della nuda, spiacevole verità.

Alla sinistra della Collinare di Santa Monica, nel punto di uscita e dopo i resti del gigantesco tamponamento, un grappolo di automobili bianche e nere della polizia era riunito su una striscia libera della corsia di emergenza, in un semicerchio che ricordava quello delle carovane dei pionieri. Questo «accampamento» presidiava una breccia nel reticolato, larga a sufficienza per far passare un'auto, una breccia che pareva praticata da grandi cesoie. Mezza dozzina di poliziotti si trovavano all'interno del recinto, e in quel preciso momento un agente partì, su una grossa motocicletta, attraversando la breccia, voltandosi immediatamente e sfrecciando verso nord, sulla spianata al di fuori del reticolato. Alcune persone uscirono dai loro bivacchi, e parvero salutarlo, ma egli non si fermò, ed essi rimasero fermi, mentre la polvere sollevata dalla motocicletta si allungava e si allargava intorno a loro.

A destra, dove stava crescendo rapidamente, espandendosi verso il cielo, la nera muraglia di nubi, c'era un numero minore di bivacchi, ma un numero assai maggiore di persone all'aperto… persone magre, esili, che si muovevano rapidamente, in maggioranza, facendo grandi gesti, ondeggiando e saltando, riunendosi a gruppi, disperdendosi, raggruppandosi di nuovo. E da quella direzione pareva provenire, molto sottile e debole, il gracchiare, il pigolare e lo strillare e il tambureggiare di una musica jazz.

Tra i due gruppi di persone che si comportavano in maniera così diametralmente opposta, c'era una distesa di cento metri, che comprendeva l'uscita della Collinare, nella quale non si vedevano persone, neppure sedute sulle automobili… a eccezione di una decina di individui distesi qua e là sul terreno. Hunter si domandò, per un momento, cosa avesse indotto quella gente a stendersi sotto il sole cocente, prima di capire che erano morti.

Si accorse che i compagni dell'autobus e del camion si erano radunati intorno alla Corvette. In quel momento, udì avvicinarsi degli altri passi, e udì la voce dell'Omino:

«Guardate quel banco di nubi. Non credo di aver mai sentito parlare di un vento umido di sud-est nella California Meridionale.»

La voce di McHeath replicò:

«Forse l'oceano ha superato gli argini, e ha invaso le zone più basse, signor Dodd. E con… accidenti!… con cento miglia almeno di acqua di marea, l'evaporazione deve essere stata fantastica.» Hunter continuò a osservare la titanica, fantastica scena che aveva davanti.

Tra degli individui snelli e attivi entrarono nella terra di nessuno, lungo il costone della collina, accanto alla corsia di emergenza, muovendosi rapidamente, una corsa zigzagante e danzante. Uno di loro, a giudicare dai gesti, doveva portare e agitare una bottiglia. Erano arrivati a sessanta metri, quando si udì un crepitio di mitra, dall'accampamento della polizia. Uno dei tre cadde… era difficile stabilire, a quella distanza, se fosse rimasto immobile, o si fosse dimenato a terra. Gli altri due volteggiarono, scavalcando la fila più vicina di auto bloccate, e si nascosero dietro di esse.

Hunter circondò col braccio la vita di Margo.

«Mio Dio, Doc, cosa sta succedendo?» domandò.

«Già, per l'amor del cielo, Doc, ci dica cosa vede con il binocolo,» intervenne Wojtowicz. «Sembra la guerra!»

«Infatti,» annunciò freddamente Doc. «Adesso state a sentire, se ne avete voglia, perché non starò a ripete una seconda volta,» proseguì, a voce alta, continuando a guardare con il binocolo, «E non ci sarà tempo per nessun altro di osservare la scena con questo binocolo. È una guerra, o per lo meno una serie di scontri, tra un gran numero di giovani e giovanissimi e gli anziani, o comunque gli adulti… dirò meglio, la polizia, aiutata da alcuni adulti, ma quasi tutti gli altri sono neutrali, o comunque inutilizzabili. I ragazzi contro la polizia che protegge le famiglie. È il Giorno dei Giovani.

«Quegli individui magri sono dei teen-agers, in maggioranza. Bevono come spugne… vedo un autocarro carico di liquori che è stato aperto, e dei ragazzi che distribuiscono le bottiglie. Hanno un'orchestrina jazz, che suona in uno spazio libero. Ci sono degli scontri… coltelli e pugni. Una banda, armata di fionde, sta rompendo i vetri delle auto, e calpesta i cofani, per nessun motivo razionale che io possa scorgere.»

Doc censurò accuratamente, dalla sua descrizione, i rapporti sessuali che si svolgevano all'interno delle automobili… usate per l'ombra, e non per l'intimità, a quanto pareva… le due ragazzine che danzavano nude vicino all'orchestra, i pestaggi e i vandalismi insensati, e… nell'altra direzione… un gruppetto che staccava il radiatore di un'auto, e beveva avidamente il… be', lui sperava che non ci fossero troppi additivi, nell'acqua.

«Ma non tutta la loro violenza si rivolge contro le automobili e contro i vicini,» proseguì. «C'è un manipolo di ragazzi che in questo momento sta strisciando, tra le auto vuote, verso l'accampamento della polizia. Alcuni hanno delle pistole, gli altri delle bottiglie.

«Credo che la polizia abbia preparato una piccola imboscata, a sua volta. In ogni caso, ne vedo due o tre rannicchiati dietro le auto, al centro dell'ingorgo.

«Ma prima che cominci la battaglia, noi saremo lontani da qui, diretti a Mulholland,» continuò, con voce più alta, porgendo il binocolo a Rama Joan e voltandosi a fronteggiare la piccola comunità. «Doddsy! McHeath! Dite a Pop e a Hixon di mettersi al volante, e girare le macchine… c'è spazio per fare manovra… e…»

«Non vorrà dire che intende chiederci di scappare dalla parte opposta?» domandò lo stesso Hixon, ad alta voce, dal punto in cui era fermo, con il fucile tra le mani, accanto a Bacchetto. «Quando ci sono delle persone oneste laggiù, che stanno per essere assalite? Quando noi potremmo rovesciare le sorti dello scontro, usando la pistola gravitazionale? Senta, anch'io sono stato un poliziotto. Dobbiamo aiutarli.»

«No!» gli disse Doc, con asprezza. «Dobbiamo proteggere noi per primi, e portare la pistola a momentum a qualche gruppo responsabile di scienziati… e portarla con un po' di energia all'interno. Qual è la carica residua, Margo?»

«Circa un terzo,» rispose lei, controllando la linea viola.

«Visto?» continuò Doc, rivolgendosi a Hixon. «L'arma può sparare al massimo altri cinque o sei colpi. Ci sono miglia e miglia di questi maniaci, lungo la 101. Se ci buttiamo nella mischia, trasformeremo solo una piccola battaglia in un conflitto generale. Quello che succede laggiù è spaventoso, lo ammetto, ma è qualcosa che in questo momento starà accadendo in tutto il mondo, e non possiamo permetterci di mescolarci… un secchio d'acqua su una città in fiamme! No, noi torniamo indietro! Tu, Hixon, torna al camion e fallo girare…»

«Aspetti un momento, Doc!» Questa volta fu Margo a interromperlo, con voce squillante. Si avvicinò ancor più alla Corvette. «Laggiù c'è Vandenberg Tre,» disse, indicando, con la pistola a momentum, i tre edifici bianchi. «Morton Opperly può essere ancora là. Dobbiamo controllare.»

«Non c'è una sola possibilità su cento!» replicò rabbiosamente Doc. «Né su cinquecento! Sarà stato trasportato da qualche elicottero… forse lo stesso che abbiamo visto stamattina. No!»

«Ho visto muoversi della gente, all'interno,» mentì Margo. «Lei ha ammesso che il nostro scopo è quello di fargli avere la pistola. Dobbiamo controllare!»

Doc scosse il capo:

«No! Una possibilità troppo remota, una pazzia, un rischio da correre per nulla! O quasi…»

Margo gli sorrise.

«Ma io ho la pistola,» disse, impugnandola. «E scenderò laggiù, anche se dovessi scendere a piedi.»

«Questo si chiama parlare!» disse Hixon, rosso in viso.

«Benissimo, signorina Cuordileone, allora mi ascolti: lei scende, con quella pistola, a piedi o in automobile, e qualche pazzo cecchino la colpisce, o lei viene aggredita da tre lati contemporaneamente, e Opperly non ottiene l'arma… se la prendono quei maniaci. Bisogna che la pistola rimanga qui.

«Ma le darò una risposta, signorina Gelhorn. Lei scenderà laggiù senza la pistola… le darò la mia rivoltella… e porterà qui Opperly, oppure lo troverà laggiù, e noi discuteremo con lui. Che ne dice?»

Margo lanciò un'occhiata a Hunter.

«Mi dai un passaggio?» Egli annuì, e salì sulla Sedan. Lei girò intorno alla Corvette, e porse la pistola a momentum a a Doc. «Affare fatto.» Doc le diede la rivoltella, e lei la prese. Hunter mise in moto la guida interna, affiancando la Corvette di Doc.

Hixon si fece avanti.

«Ehi, vengo anch'io.»

«Lo vuole?» domandò Doc. Margo annuì. Doc chiese a Hixon, «Promettimi di aiutarli soltanto a trovare Opperly?»

Hixon annuì, borbottando:

«Se sapessi almeno chi è.»

Doc disse:

«Bene, allora, ma tu sei l'ultimo che possiamo usare. Non si accettano altri volontarii» Abbaiò quest'ultima frase direttamente a McHeath, che si era avvicinato. «Dammi il tuo fucile,» disse al ragazzo. «Tu sali su quelle rocce, lassù…» indicò il posto di guardia naturale più facile da scalare, «E sta attento che non ci sorprendano dai lati… chiunque, anche la polizia!»

Hixon sedette sul sedile posteriore della Sedan, Margo salì accanto a Hunter, e Doc, girandosi di scatto, appoggiò i gomiti al finestrino.

«Un momento,» disse, osservando l'autostrada intasata, nel momento in cui stava iniziando un'improvvisa azione.

Dodici figure almeno spuntarono dalle auto vicine all'accampamento della polizia. Scagliarono con forza degli oggetti. Si udirono crepitare delle armi da fuoco e due o tre figure caddero. Gli oggetti colpirono le auto della polizia. Esplosero delle fiammate.

«Bottiglie molotov,» mormorò Hixon, mordendosi un labbro.

Doc disse:

«Ecco il momento buono… sono tutti occupati in altre cose.» Infilò la teste nel finestrino. «Ho soltanto una cosa da dirvi,» ringhiò, rivolgendosi ai tre. «Tornate indietro, capito, bastardi?»

Barbara Katz sedeva sul ramo più alto di un albero gigantesco, un magnolio morto, dai grandi rami pallidi, simili a pioli e gradini; il sole era caldo, sulla sua schiena, e lei guardava a oriente, sotto il cielo azzurro, aspettando che l'Atlantico venisse da Daytona e attraverso il collo della Florida. Di quando in quando, cercava di studiare le cifre scritte sulla cartina delle maree, che si trovava sul foglio spiegazzato e macchiato del calendario, lo stesso foglio che Benjy aveva strappato il giorno prima; ma sapeva che quei dati ben difficilmente si applicavano ora, in quel punto, nella nuova situazione. Però c'era stata un'alta marea la notte prima, alle tre, e così avrebbe dovuto arrivarne un'altra a metà pomeriggio.

Sul ramo sottostante, il vecchio KKK era legato al suo sedile di emergenza, con alcune coperte tese tra il ramo e l'enorme tronco, coperte che lo proteggevano da una parte della luce del sole. Hester era seduta accanto a lui, gli reggeva la testa cascante, e cercava di rendere più comoda la sua posizione. Vicino a loro erano sistemati Helen e Benjy. Benjy aveva la corda che avevano usato per issare il vecchio e alcune altre cose.

Nelle loro uniformi macchiate e strappate, i tre negri sembravano degli uccelli spennacchiati, dalla cresta bruna, appollaiati così alla sommità dell'immenso albero, quasi del tutto privo di fogliame.

L'albero si ergeva su una piccola altura, coperta per metà dalle sezioni esposte delle enormi radici grigie; su quel monticello la Rolls Royce infangata era ferma, ben protetta dalle stesse radici.

A sud del monticello si stendeva un piccolo cimitero, con le lapidi di legno circondate dalla sabbia, e le croci abbattute, in un mare di fanghiglia lasciata dalla marea della notte. Ai piedi del cimitero si trovava una chiesetta di legno, che un tempo era stata verniciata di bianco. Era spostata di cinque o sei metri, rispetto alle fondazioni di mattone, ed era sconnessa negli angoli, benché le pareti non si fossero sfasciate. Il segno scuro della marea arrivava a circa due metri e mezzo di altezza, sulle pareti, arrivava quasi alle lettere nere dipinte sopra la porta, che dicevano Chiesa di Gesù Salvatore.

Barbara chiuse gli occhi più volte, rapidamente. Le sembrava che diverse chiazze del cielo azzurro fossero discese sul territorio piatto, verde-bruno a oriente, qualcosa di simile ai riflessi acquei che si vedono in una giornata torrida in fondo a una strada pianeggiante di asfalto. Le chiazze azzurre crescevano e si fondevano. Senza più accorgersi di battere le palpebre, Barbara osservava, con un'intensità vicina a quella dell'ipnosi. Ogni secondo era legato al secondo successivo, e ogni minuto al minuto successivo, come gli anelli di una catena senza fine, come se la catena del tempo si fosse fermata, o come se qualcosa, in lei, si fosse immobilizzato a tal punto da impedire di udire lo scandire degli attimi.

E così intenta a osservare lo strano fenomeno del cielo che si riversava sulla terra, Barbara non udì neppure il brontolio reale che veniva da oriente, sempre più forte, né i richiami intimoriti, eccitati dei tre grandi uccelli grigi e senza piume che erano appollaiati sul ramo, sotto di lei, e neppure sentì l'albero tremare e vibrare, quando le acque si sollevarono impetuose intorno a esso; e non udì nemmeno il grido di Helen.

Ma le parve che l'intera terra si rovesciasse, scivolando su nel cielo, mentre quell'azzurro scorreva abbacinante e veloce sotto di lei, e si sporse sempre più, e sarebbe caduta, se un corpo non fosse venuto al suo fianco, e non le avesse circondato la schiena con un braccio forte, sostenendola.

«Stia attenta, signorina Barbara,» le stava gridando Benjy. «Guardava con tanta attenzione che stava per cadere.»

Si guardò intorno, osservando la pianura d'acqua. La Florida non esisteva più. La Chiesa di Gesù Salvatore stava galleggiando, capovolta, con gli otto corti piedi di sostegno bizzarramente rivolti all'insù.

Guardò di nuovo in basso. Il gigantesco magnolio, dall'altezza dimezzata, era un solitario rifugio in mezzo al mare. Pensò alla Rolls Royce, e ridacchiò.

«Non saprei, signorina Barbara,» disse Benjy, indovinando prodigiosamente i suoi pensieri. «Ho staccato la batteria e qualche altra parte. Ho coperto di grasso il resto… potrebbe giovare. Ho ben protetto il serbatoio. Quando la marea scenderà, la macchina potrebbe ancora funzionare, anche se questo mi sorprenderebbe.»

L'albero ondeggiò nella corrente, e poi ondeggiò di nuovo. Hester mandò un grido. Helen si aggrappò a lei. Benjy rise raucamente. Disse a Barbara:

«Ma ho ancora speranza… un poco.»

CAPITOLO XXXII

Ross Hunter, con il piede premuto sull'acceleratore, fece girare la guida interna intorno all'ultima curva. Ora la strada si stendeva diritta, lungo l'alto reticolato di Vandenberg Tre.

Margo gli posò una mano sulla spalla, e indicò una porticina aperta nel primo angolo del reticolato.

Hunter non rallentò:

«Inutile,» grugnì. «Proverò dal cancello che può far passare l'auto.»

«Svelto,» lo incoraggiò Hixon, dal sedile posteriore.

Il paesaggio si fece improvvisamente spettrale. L'enorme banco di nubi aveva coperto il sole. Si udì il brontolio del tuono, nel quale s'inseriva il crepitio sinistro di armi da fuoco, più avanti. Un'auto della polizia uscì dall'accampamento in fiamme, attraverso l'apertura del reticolato, scese per un breve pendio, e si diresse verso di loro, sobbalzando e sterzando per evitare i resti anneriti del tamponamento, all'uscita della Collinare di Santa Monica. Una seconda auto della polizia uscì a marcia indietro, ma rapidamente, e seguì la prima.

Hunter rallentò. C'era un grande cancello con una garitta di guardia deserta. Il cancello era aperto. Hunter passò da quella parte, mentre una terza auto della polizia, questa a marcia normale, sfuggì dall'accampamento.

Hunter lanciò alla massima velocità la Sedan, sopra il terreno ghiaioso, verso un'ampia porta nera che si trovava sulla facciata del più grande tra gli edifici bianchi.

Più avanti, Margo vide un gruppo di teen-agers arrampicarsi sul reticolato, e penetrare attraverso una porticina.

Hunter frenò. Hixon e Margo uscirono subito. C'erano tre gradini di cemento, uno stretto porticato, poi la porta nera, sulla quale era incollata una targhetta bianca.

Hixon e Margo salirono di corsa gli scalini. Margo provò ad aprire la porta. Era chiusa. Hixon picchiò sopra di essa, con il calcio del fucile, e gridò: «Aprite!»

Hunter cominciò a fare manovra, con la guida interna, preparandosi alla partenza.

La prima automobile della polizia attraversò il cancello, con un grande stridore di pneumatici, e venne verso di loro. Attraverso le nubi di polvere, sollevate dalla prima auto, sopraggiunse la seconda, sempre a marcia indietro.

Hixon corse alla finestra più vicina, e la ruppe con il calcio del fucile, poi, sempre con il fucile, fece cadere anche gli ultimi frammenti di vetro rimasti.

Con un gridare stridulo di freni, una nube di polvere, e uno slittamento di tre metri, la prima auto della polizia si fermò accanto alla Sedan. Due agenti balzarono a terra, con i volti sporchi e bruciacchiati, gli occhi allucinati e l'espressione sconvolta. Uno di loro agitò una mitragliatrice.

«Gettate a terra le armi, voi,» gridò.

L'altro puntò la sua arma su Hunter.

«Scendi da quella macchina.»

Hixon, abbassando il fucile, gridò:

«Ehi, noi siamo dalla vostra parte!»

L'agente sparò un paio di raffiche, che produssero un disegno di fori nella parete, sopra la testa di Hixon. Hixon lasciò cadere il fucile.

Margo impugnava la rivoltella, tenendola dietro la schiena.

Hunter scese dall'automobile, e salì i gradini, tenendo le mani in alto.

L'auto della polizia che procedeva a marcia indietro si fermò dietro la prima. Altri agenti ne uscirono. La terza auto si fermò fuori del cancello.

Qualcosa cadde all'interno della Sedan, dal finestrino aperto, e rimbalzò sul sedile. Qualcos'altro colpì il parabrezza della prima auto della polizia, e delle fiamme sibilanti sprizzarono in un'esplosione giallo-azzurrina.

La polizia fece fuoco, in direzione dell'angolo dell'edificio dal quale erano arrivate le bottiglie molotov. Due o tre pistole invisibili risposero al fuoco.

Margo stava guardando la targhetta bianca sulla porta nera. La staccò, e la piegò accuratamente.

L'autista della prima auto della polizia ne uscì, coprendosi il viso con le braccia, per proteggersi dalle fiamme. C'erano delle fiamme anche all'interno della Sedan.

Hunter, tenendo le mani in alto, raggiunse Margo e Hixon.

La bottiglia molotov che era caduta intatta all'interno della Sedan esplose a sua volta. Dai quattro finestrini sprizzarono delle fiamme giallo-azzurrine.

Hunter disse:

«Presto, andiamocene. Il primo cancello, quello piccolo che abbiamo visto arrivando.»

Scapparono di corsa. La polizia non sparò contro di loro. Gli agenti si stavano già ammassando a bordo della seconda automobile. Si udì nuovamente il brontolio del tuono, questa volta molto più forte.

Margo, Hunter e Hixon corsero disperatamente, oltrepassando l'ultimo edificio bianco, nello stesso istante in cui una banda di teen-agers arrivava dall'altra parte, girando l'angolo. Margo avvertì le ondate di esaltazione folle che si sprigionavano da loro, come un vento elettrico, e per un istante si sentì dalla loro parte. Poi ci fu uno spruzzo di ghiaia, davanti ai piedi di Hunter, seguito da un crack, e lei capì che i ragazzi stavano sparando. Agitavano bottiglie e coltelli, e uno di loro aveva una pistola. Mancavano ancora cinquanta metri al cancelletto.

I teen-agers li inseguirono, correndo e urlando. Una ragazzina lanciò una bottiglia.

Correndo, Margo sparò contro di loro tre volte con la rivoltella, ma non colpì nessuno. Nello sparare il terzo colpo, inciampò, e cadde sulla ghiaia. La bottiglia lanciata cadde accanto a lei, e si ruppe. Sollevò le mani, per proteggersi il viso dalle fiamme, ma si sentì solo un pesante odore di whisky.

Hunter la sollevò di peso, e tutti ripresero a correre. Davanti a loro. Hixon stava indicando qualcosa, e gridava.

I teen-agers non li attaccavano più direttamente, ma una buona dozzina di ragazzi stavano correndo verso il cancelletto, per bloccar loro la ritirata.

Margo e Hunter videro quello che Hixon stava loro indicando: un'automobile rossa fiammante, con un cappellaccio nero al volante, che scendeva come un fulmine la Collinare di Santa Monica, con un gran stridore di gomme a ogni curva.

I teen-agers avevano bloccato la ritirata verso la porta, ma stavano ancora correndo in quella direzione.

La Corvette frenò bruscamente davanti al cancello. Rama Joan si alzò, accanto al guidatore, e puntò una mano che teneva qualcosa di grigio contro i teen-agers. Polvere e ghiaia si sollevarono, sui volti allucinati, ebbri dei ragazzi, ed essi cominciarono a barcollare, a piegarsi, a cadere all'indietro, come se fossero stati colpiti da un vento di uragano; il reticolato si gonfiò verso l'interno, ondeggiando.

Doc si alzò, accanto a Rama Joan, e gridò a Margo e ai due uomini:

«Venite! Fate presto!»

Varcarono di corsa il cancello, e si ammucchiarono nell'esiguo spazio della Corvette. Doc eseguì una giravolta strettissima, e partì.

Videro la seconda auto della polizia, sfuggita alla trappola di Vandenberg Tre, ritornare verso il groviglio di lamiere bruciate.

Ma la terza auto della polizia stava sopraggiungendo, risalendo la Collinare accanto al reticolato.

Rama Joan puntò la pistola a momentum contro di essa.

Hixon gridò:

«Non lo faccia! È la polizia.»

L'auto della polizia parve rallentare, solo che i suoi occupanti non furono piegati in avanti, ma all'indietro. L'intera auto cominciò a indietreggiare. Rama Joan smise di puntare la pistola.

La Corvette salì l'autostrada, ruggendo. Hunter protestò:

«Non così forte, Doc.»

Doc disse:

«Questo non è niente. Non mi hai visto scendere?» Però rallentò un poco.

Hixon borbottò:

«Direi che ce l'abbiamo fatta per un pelo! Comandante, questa si può chiamare un'apparizione tempestiva.»

Dietro di loro, l'auto che Rama Joan aveva fermato aveva compiuto un'inversione a U, ed entrambe le auto della polizia erano dirette a nord, lungo la piatta distesa che costeggiava il reticolato. Le fiamme dell'accampamento abbandonato si facevano sempre più alte e ruggenti. Il fuoco si era propagato ad altre automobili.

Hunter brontolò e disse:

«Questo è stato l'ultimo eroismo inutile nel quale mi sono impegnato.» Guardò Margo, aggrottando la fronte.

Il tuono ruggì più forte. Una grossa goccia di pioggia cadde su di loro.

Margo si infilò una mano in seno, trasse fuori un foglietto di carta, e lo spiegò.

«Inutile?» sorrise a Hunter, tenendo il foglio tra Doc e Rama Joan, ma in modo che anche Hunter potesse leggerlo.

Il messaggio vergato in lettere grandi e nere diceva: «Van Bruster, Comstock, e tutti gli altri! Veniamo trasportati a Vandenberg Due. Raggiungeteci seguendo la Collinare Monica. Buona fortuna!»

Era firmato: «Opperly».

Una grossa goccia di pioggia cadde sul foglio. La pioggia era nera.

Don Guillermo Walker e i fratelli Araiza erano giunti a metà del Lago Nicaragua. Ben presto la lancia avrebbe girato attorno all'isola di Ometepe. Dai due vulcani dell'isola si levavano grossi pennacchi di fumo nero, che, malgrado la vivida luce del sole, rosseggiavano foschi verso la base.

La luce del sole giungeva attraverso un'ampia breccia nella cortina di vapore, a occidente. La breccia avrebbe dovuto mostrare le città di La Virgin e Rivas sull'Istmo di Rivas, tra il Lago Nicaragua e il Pacifico, ma invece c'era solo una piatta, infinita distesa d'acqua livida.

Gli Araiza avevano fornito l'informazione che le normali maree, lungo la costa del Pacifico, da Brito e San Juan del Sur attraverso l'istmo erano di circa quattro metri e mezzo.

La conclusione era incredibile, eppure inevitabile. Le maree, moltiplicate dal Vagabondo, avevano invaso l'istmo, unendo il Pacifico al lago Nicaragua. Per questo il lago si era sollevato, e le sue acque ora erano salate. Dove un tempo i carri bianchi e azzurri della Compagnia dei Trasporti di Cornelius Vandenbilt avevano portato gli avventurieri con la testa piena di sogni dorati e il loro bagaglio da un oceano all'altro, dalla Baia della Vergine a San Juan del Sur, ora si stendevano le acque azzurre del Mare della Pace. Il Canale del Nicaragua, la cui esistenza tanti uomini avevano sognato, era diventato una realtà che si presentava due volte al giorno.

Un bagliore rossigno apparve a metà del cono ricoperto da fitta vegetazione di Madera. Quasi immediatamente, un pallido fumo sbuffò intorno a esso. Poi il chiarore cupo cominciò ad allungarsi verso il basso, seguito dal fumo. Rossa lava incandescente, che doveva essere fuoruscita da una spaccatura, e ora stava fluendo verso il lago.

La lancia conservò la rotta. Don Guillermo si meravigliò del fatto che le acque, intorno a loro, fossero così calme. Non pensava, in particolare, alla fantastica pressione che esse dovevano esercitare su quell'immensa estensione della costa, né poteva vedere nulla di minaccioso nell'assenza di cortine di vapore, benché, se ci avesse pensato, avrebbe capito che il vapore si formava ancora, molto più in basso.

Non ci fu alcuno stimolo definito, ma d'un tratto i tre uomini si guardarono in viso.

Don Guillermo schiacciò una zanzara che gli ronzava sul collo.

Un enorme bottone d'acqua si gonfiò, come un'escrescenza grigia, dalla placida superficie in direzione del sommerso Istmo di Rivas, e senza alcun suono crebbe, in tre secondi, fino a diventare un colossale fungo d'acqua, alto mezzo miglio e largo un miglio.

Qualcosa, che trasformava la superficie dell'acqua da una distesa chiara a una superficie spenta e opaca stava viaggiando da quel fungo verso la lancia.

I tre uomini guardarono, increduli.

L'onda d'urto provocata dall'esplosione colpì i timpani, e li abbatté sul fondo della lancia.

Don Guillermo riuscì a scorgere l'immensa collina verticale dell'acqua spinta dal vapore, un istante prima che essa avvolgesse lui e i suoi compagni. Pareva essere ricoperta dappertutto da una vegetazione acquea di fronde intrecciate, di un grigio cupo. Pensò, Il calore infernale. Qui io vado incontro a Macbelh. Eccomi, Graymalkin. Anche l'Istmo di Rivas svanì. Il Canale del Nicaragua diventò una realtà permanente.

CAPITOLO XXXIII

Don Merriam aveva mangiato e dormito un'altra volta, nella sua piccola cabina a bordo del Vagabondo, quando si svegliò con una sensazione di immensa chiarezza interiore. Osservò tranquillamente il soffitto dal colore neutro che si illuminava.

Non sentiva il letto, sotto di lui, e si rendeva conto appena del suo corpo… i piccoli, esili messaggi nervosi del tatto e della tensione erano al minimo. Per quel che poteva stabilire, lui era disteso supino, con le braccia diritte e rilassate sui fianchi.

Improvvisamente, fu pervaso da una curiosità senza limiti intorno alla grande nave della quale era diventato un passeggero involontario. Tutto il suo essere era divorato dal desiderio di conoscere, di sapere, o, se questo non fosse stato possibile, almeno di vedere. La sensazione era intensissima, eppure non provava il desiderio di sfogarla con contrazioni del viso e del corpo e dei muscoli.

Senza preavviso, il soffitto cominciò a discendere velocemente su di lui.

Cercò di buttarsi giù dal letto, ma l'unico risultato fu quello di girarsi, senza apparente movimento, e allora vide la parte inferiore della parete e la «doccia» che si trovava oltre, e da quella visione capì che lui si trovava a quasi due metri di altezza, rispetto a essi.

Il soffitto non si era mosso. Lui stava galleggiando nell'aria. Prima sulla schiena, ora bocconi, a cinquanta centimetri dal soffitto.

Aveva il mento sollevato, e la testa piegata all'indietro, benché non avvertisse alcun senso di costrizione, e così la sua vista era diretta avanti, come la punta di una lancia. Non poteva guardare in basso, a qualsiasi punto del letto sottostante, benché tentasse di farlo, perché voleva sapere se avrebbe visto il suo corpo disteso laggiù… sia che fosse un corpo reale, o di sogno.

Né poteva sollevare le mani davanti al viso, per vederle. O era incapace di muovere braccia e gambe, o non le possedeva più.

Era impossibile stabilire se lassù lui avesse un corpo reale, o anche un corpo di sogno, o se fosse soltanto un punto di osservazione sospeso, con un corpo immaginario dietro di esso.

Una piccola prova: gli era impossibile vedere, ai margini del campo visivo, i contorni sfumati del naso e delle sopracciglia e delle guance che normalmente si vedono, e si ignorano. Ma forse questo avveniva soltanto perché la sua vista era diretta così irrevocabilmente avanti.

Improvvisamente egli cominciò a muoversi, rapidamente, in quella direzione, verso la parete. Chiuse gli occhi… poteva fare questo, almeno, o comunque interrompere momentaneamente la visione… e quando li riaprì, benché non ci fosse stato alcun urto, né la minima sensazione di una resistenza, scoprì di volare veloce lungo un corridoio d'argento, ricoperto di arabeschi e di geroglifici. Si aprì, quasi immediatamente, in uno dei grandi pozzi, o condotti, e con un senso improvviso di esultanza si tuffò nell'abisso.

A questo punto cominciò per Don Merriam un'esperienza che avrebbe potuto essere solo un vivido sogno, o un sogno indotto in lui dai suoi ospiti-catturatori, o una percezione extrasensoria di chiaroveggenza offertagli sotto forma di un sogno nel quale volava, o perfino… così gli sembrava… una trasformazione del suo corpo, reso perfettamente immateriale, capace di permeare tutte le pareti e l'atmosfera e altre barriere, un miracolo operato da una fisica e da una chimica aliene, e reso immune alla gravità e a tutte le altre comuni leggi della natura. E a questo modo egli si tuffò e volteggiò e avanzò nell'aria, quasi involontariamente, ma ugualmente guidato dalla divorante curiosità della sua mente, e fu un viaggio d'incubo e di sogno, splendido, irreale e reale, esaltante.

O forse, pensò brevemente, questo accadeva in un solo istante, fuori del tempo.

Don Merriam non poté stabilire quale tra queste, o tra altre inimmaginabili soluzioni, fosse la base della sua esperienza. Poté soltanto volare e volteggiare e vedere.

Dapprima, i suoi movimenti furono limitati ai corridoi e ai pozzi vuoti. O, se c'erano delle creature, o delle macchine mobili, o dei piccoli aerei, in quel dedalo di corridoi e pozzi, erano confusi e resi invisibili dalla rapidità del suo passaggio. La regola era che, per alcuni istanti lui viaggiava a una velocità quasi pari a quella della luce, così gli sembrava, conscio solamente della forma generale e della direzione del passaggio attraverso il quale viaggiava; poi galleggiava lentamente, per un breve periodo, capace di vedere tutto ciò che lo circondava da vicino; e poi sfrecciava via di nuovo, in parte involontariamente, in parte perché un imperioso desiderio di vedere qualcosa d'altro s'impadroniva di lui. Questo processo proseguì, apparentemente interminabile, eppure senza stanchezza e neppure noia, come se il tempo fosse ingigantito senza limiti, attraverso la lente bizzarra di qualche arcano telescopio.

Gradualmente, si formò e si stabilizzò nella sua mente l'immagine tridimensionale del Vagabondo, totalmente artificiale, un gioco a incastro di globi, un globo dentro l'altro per piani e piani e piani… cinquantamila globi almeno… ovunque venato da corridoi, come un'immensa spugna d'argento. Molti dei grandi pozzi attraversavano completamente il pianeta, intersecandosi al centro in un immenso globo vuoto che aveva un suo cielo nero scintillante di luci disseminate casualmente, come stelle tra le cavità ampie un miglio e più di pozzi, con le loro tenebre e le loro luci sofficemente baluginanti.

Ma sebbene la sua immaginazione si gonfiasse felice di quel senso di esultanza e di una nuova potenza che la sempre crescente comprensione della struttura del Vagabondo gli dava, una caratteristica del pianeta lo opprimeva, e poi cominciò a spaventarlo, più per le sue implicazioni che per la sua semplice natura: la corteccia dello spessore di trenta metri, fatta di nero metallo, che era il suo tetto ricoperto dal sottile velo ornamentale… il terreno sul quale il Baba Yaga e l'astronave lunare sovietica erano atterrati… e le rotonde ampie un miglio, fatte di metallo ugualmente spesso, già predisposte per scivolare dai loro recessi e coprire l'imboccatura dei pozzi, sigillando il pianeta come una grande fortezza.

A rinforzare questa peculiare minacciosità, c'erano gruppi di mostruose bobine, spirali e spirali di metallo che discendevano nei pozzi che giungevano al centro del pianeta, come se i pozzi potessero servire, chissà come, alla funzione di mostruosi acceleratori lineari.

Interiormente ritraendosi dalla impervia corazza di metallo, Don si ritrovò al centro di quell'immensità centrale spruzzata di stelle. Forse era ampio solo venti miglia, ma ora gli sembrava un universo, e i grandi buchi nel suo cielo stellato parevano le porte di altri universi, ed egli sentì che c'erano degli esseri invisibili intorno a lui, impalpabili nebulosità pensanti che vivevano nelle gelide profondità dello spazio intergalattico, e questa presenza generò in lui un'improvvisa paura, ancor più acuta di quella prodotta dalla corteccia difensiva del pianeta.

Fu questa acuta paura, forse, a lanciarlo in una seconda esplorazione volante del Vagabondo. Non si limitò più ai corridoi, ma sfrecciò veloce attraverso le pareti, avvertendo il loro spessore soltanto come un momentaneo annebbiarsi della sua visione, come un breve battito di palpebre, percorrendo stanza dopo stanza, locale dopo locale, in una cavalcata turbinosa. E ora, quando faceva una pausa, si trovava sempre vicino a degli esseri viventi. Questi esseri viventi non erano di una sola specie, ma di molte.

Benché i felinidi, o uomini-gatto, come colui che lo aveva accolto sul pianeta, formassero una cospicua minoranza nell'equipaggio del Vagabondo, specialmente vicino alla superficie del pianeta, c'erano creature che parevano il prodotto finale di quasi tutte le linee di evoluzione terrestre, e anche di linee d'evoluzione completamente, irrevocabilmente aliene: cavalli dalle teste immense, con organi tattili e prensili annidati negli zoccoli; giganteschi ragni dagli occhi placidi, che pulsavano nelle giunture di una corrente sanguigna spinta da forti arterie; serpenti, con grandi occhi e piccoli tentacoli prensili; lucertole umanoidi, scintillanti di squame e dalle splendide, colorate creste; creature che avevano la forma, e si muovevano come grosse ruote, con un cervello centrale che ruotava in senso opposto, con gli organi sensoriali; piovre e polipi di terra, che si ergevano orgogliosamente su tre o sei tentacoli; e creature apparentemente ispirate da esseri mitici quali il basilisco e l'arpia. Queste creature mitiche Don le trovò nei più profondi recessi del pianeta, volando in una immensa sala che pareva un'immensa uccelliera. Questa sala, così grande da occupare diversi piani… un mondo interno a sua volta… era ricoperta di alberi sottili, dai molti rami nodosi, con piccole foglie, e illuminata da una dozzina di grandi lampade galleggianti che parevano soli.

Alcuni laghi color turchese che aveva scorto dal Baba Yaga erano profondi quanto erano ampi, e in essi abitavano balene dagli immensi occhi, e presumibilmente dai grandi cervelli, con braccia che parevano cavi, che terminavano in filamenti simili a dita. E accanto alle balene nuotavano altre creature marine, apparentemente intelligenti, dai volti mobili ed espressivi.

Don avrebbe voluto fermarsi a studiare tutte quelle creature, osservare le loro azioni nei dettagli, ma sempre il bisogno di vedere qualche altra forma di vita, ancor più misteriosa o prodigiosa, si impadroniva di lui e lo spingeva, così che le sue paure furono brevi come quelle avventure lungo i corridoi vuoti. In nessun caso le creature che egli osservava parvero rendersi conto della sua presenza.

Nessuna forma di vita pareva mantenere un isolamento razziale; aveva visto alcuni felini impegnati in conversazioni apparentemente amichevoli con le più piccole arpie, nel loro mondo-uccelliera, e c'era stato uno dei giganteschi ragni che aveva nuotato, usando come remi le lunghe zampe, e con indosso una sorta di tuta trasparente, nei profondi laghi delle balene.

Cominciò a sembrargli incredibile che la varietà e il numero degli esseri che stava osservando potessero essere ospitati da un pianeta delle dimensioni della Terra, ma poi si rese conto che, con tutti i suoi ponti, il Vagabondo aveva una superficie abitabile quindicimila volte superiore, almeno, a quella della Terra.

Malgrado il numero e la varietà, quasi tutti gli esseri che poté osservare così brevemente parevano occupatissimi, pressati da chissà quale urgenza. Anche le creature immobili gli parvero immerse nel lavoro… meditazioni d'importanza vitale. C'era un onnipresente senso di crisi.

Di quando in quando, come per un errore del disegno di volo, o forse per riposo, Don si fermava in una sala priva di occupanti: grandi serbatoi che si riempivano di roccia lunare; immensi corridoi di macchine silenziose e scintillanti di luci arcane, con grandi tubi e cavi nei quali scorrevano fluidi di molti colori; grandi serre di strana vegetazione, illuminate da lampade più luminose del sole… solo che quelle potevano essere delle piante intelligenti; caverne artificiali colme di strutture geometriche compatte, che parevano sull'orlo della vita, come quelle che si trovavano sulla superficie del Vagabondo; sale sferiche colme di materia solare pura, fiammeggiante, violenta, benché essa non lo bruciasse né lo accecasse.

A volte egli vide del lavoro fisico svolto da creature di protoplasma, apparentemente artificiali, simili a gigantesche amebe, le cui colonne prensili e i cui organi sensoriali variavano a seconda del lavoro che veniva svolto. Altrove, si vedevano al lavoro dei robot di metallo, che avevano la forma di ragni, di esseri a ruota, e di molte altre forme di vita… benché alcuni robot sembrassero realmente vivi, come lo parevano certe enormi strutture simili a giganteschi cervelli elettronici. Le loro pareti trasparenti mostravano scure masse gelatinose che scintillavano di filamenti sottilissimi d'argento, più sottili che dei capelli, come se avessero potuto farsi crescere nervi e cellule cerebrali a seconda del bisogno.

Più grande era la varietà di forme di vita intelligenti che Don vedeva, più egli diventava sensibile alla loro presenza. Ora, quando egli si fermò nuovamente nel globo centrale spruzzato di stelle, esso parve un brulicare di deboli, soffusi esseri di nebbia violetta, dalle forme continuamente mutevoli, e dalle molte braccia: gelide creature delle tenebre al di là delle stelle. E una volta, quando salì brevemente nel ponte più alto, egli scorse una delle grandi forme astratte colorate aprirsi come un uovo, e riversare sulla pianura un'orda di creature.

Eppure, più egli diventava sensitivo alla presenza di vita intelligente, più era scosso dalla convinzione che esistessero intorno a lui forme invisibili di vita, che i suoi sensi non potevano vedere… come se il Vagabondo avesse molti più fantasmi, a bordo, di tutti i membri del suo equipaggio.

Indugiò in un'immensa sala immersa nell'immobilità e nel silenzio, una sala profonda fatta di molte balconate, e quasi da un'infinità di cassette dai piccoli sportelli, come la sala di classificazione e registro di un'immensa biblioteca. C'erano dei filamenti che portavano dalle cassette a strumenti di visione, che davano l'idea di grandi microscopi, e a Don parve di scorgere movimento lungo quelle molteplici trame di tele di ragno, ed ebbe l'idea che in quel luogo microbi e virus servili stessero radunando, e ordinando per un'ispezione, delle molecole sulle quali era impressa la conoscenza totale delle razze e delle storie dei mondi. Tutto il pensiero e la cultura della Terra, si disse, sarebbe facilmente entrato in uno di quei piccoli sportelli, non avrebbe certo riempito interamente una delle cassette. Era come se in quel luogo lui sfiorasse la visione universale, onnisciente dell'eternità che a volte veniva chiamata Dio.

Da quella sala egli passò come un lampo immateriale in un'altra, molto più viva e colma di movimento, gremita di pannelli di comando, di mappe, di carte, di schermi e di cubi per la visione tridimensionale. Uno di questi cubi mostrava scene continuamente mutevoli di catastrofi: paesaggi e città dilaniati dal terremoto, percorsi dal fuoco, inondati da immense ondate e da un sollevarsi silenzioso delle acque. Guardò per qualche tempo, colmo di eccitazione, poi si rese conto, inorridito, che quello era il suo pianeta, la Terra, che subiva orrende mutilazioni, nella stretta della massa del Vagabondo… il Vagabondo, che poteva creare e annullare la gravità, a seconda dei desideri dei suoi occupanti.

Avrebbe voluto rimanere là, a guardare, o almeno gli parve logico, ma invece egli venne spinto irresistibilmente a proseguire, attraverso numerose pareti, fino a raggiungere un salone che era un grande osservatorio nero, per i molti volti alieni che lo circondavano, alcuni con due occhi, altri con tre, e altri ancora con otto. Nell'osservatorio erano sospesi dei modelli della Terra e del Vagabondo e una specie di anello gonfio, che era ciò che restava della Luna. Qua e là, soprattutto riuniti a grappoli, vicini ai due pianeti, c'erano dei punti di luce gialla e violetta che Don immaginò fossero astronavi.

I globi più grandi erano separati dalla distanza esatta… circa trenta diametri… e Don non riuscì a stabilire se quelle fossero copie, o proiezioni tridimensionali. L'illusione era così perfetta, da dargli l'impressione di galleggiare nello spazio, con gli spettrali volti alieni che sostituivano il gioco delle costellazioni.

Poi, senza preavviso, altri pianeti, verdi, grigi, dorati, alcuni dalla concezione strana come il Vagabondo, cominciarono ad apparire a uno o due per volta. Abbacinanti serpentine di luce che viaggiavano con una bizzarra lentezza percorsero lo spazio tra essi… radiazioni che si muovevano a una velocità di 299.000 chilometri al secondo, ma rallentavano secondo una precisa scala di quel modello. Ci furono delle minuscole esplosioni. Astronavi simili a punticini di luce si mossero, in flotte d'incrociatori da guerra. Poi tutti i pianeti, all'infuori della Terra, cominciarono a muoversi lentamente, come se manovrassero per prepararsi a una battaglia.

Ma egli non vide mai l'esito di quella battaglia, perché le forze che lo spingevano attraverso il Vagabondo cominciarono a operare su di lui con grande urgenza, come se lui fosse ormai vicino alla fine del viaggio. Per la prima volta, provò un palpito di stanchezza.

Le tre sale successive attraverso le quali venne spinto erano tutte cubi di osservazione, con sfondi di nero velluto, a eccezione dei volti alieni degli osservatori. La prima mostrava una lente piatta, che ruotava lentamente, una lente fatta di punti vividi e di grappoli di luce… una galassia, certamente, probabilmente la Via Lattea.

La seconda sala aveva un grande sciame di macchie piccole, morbide, sferiche e a forma di disco, macchioline di luce distanziate assai più dei loro diametri. C'era qualcosa di strano, nello spazio di quell'osservatorio… pareva incurvarsi su se stesso, racchiudersi in una curva inesplicabile, misteriosamente, così che, mano a mano che lui si muoveva tutto intorno a lui cambiava più di quanto non avesse dovuto. Un attimo prima di venire portato fuori di là, Don sospettò che in quel modo gli fosse stato mostrato l'intero cosmo degli universi-isole: la totalità, l'universo.

La sua immaginazione cominciò a vagabondare sonnolenta, indipendentemente da quanto lui vedeva. Molte frasi galleggiarono come filamenti di fumo, attraverso gli spazi abbagliati della sua mente: Questo pianeta artificiale… l'ombelico del cosmo… il cervello centrale… l'occhio eterno… il libro del passato… trascendente come Dio, ma non ancora Dio.

Ritornò in sé, o alla sua visione volante, trasalendo, rendendosi conto che egli stava guardando in un immenso osservatorio nero, nel quale aveva appena visto il cosmo… era riconoscibile dalla forma misteriosamente distorta… ma ora quel cosmo era soltanto una macchiolina minuscola e pallida di luce che galleggiava solitaria. Poi macchioline luminose ancor più spettrali, di altre forme e colori, cominciarono ad apparire e a svanire, alcune rapide come il lampeggiare di una lucciola, altre indugiando per un poco. Don si chiese, quasi sognando, se quelli fossero degli altri universi, noti alle creature del Vagabondo. O forse soltanto universi ipotizzati… cercati… c'era qualcosa d'ipotetico, nel loro chiarore spettrale, e nel loro rapido svanire… e stelle e galassie e universi sono realmente oggetti così irreali, non più dei fievoli punti di luce che nuotavano davanti agli occhi di un uomo che sta per addormentarsi…

Poi il cosmo luminoso cominciò a tuffarsi e a sfrecciare intorno, come una foglia presa da un turbine di vento, ed egli si domandò, confusamente, per quale motivo ciò accadesse, poiché, certo, l'universo doveva avere basi solide… e poi anche i cosmi spettrali cominciarono a ruotare e turbinare, ipoteticamente…

L'ultima sala che Don attraversò lo riscosse brevemente da quel torpore sonnolento, come nessun'altra visione avrebbe potuto fare, e in essa gli parve d'intuire una morale, benché la sua mente stanca fosse incapace di tradurla in parole. Si trattava di una caverna immensa, grande come il pianeta, simile a quella delle arpie, con un cielo rosso come una fornace che si arcuava sopra una savana punteggiata da rocce e macchie d'alberi. Piccoli animali più snelli e aggraziati dei daini, e armati con un solitario corno sottile, pascolavano, muovendosi su piccoli zoccoli. Uccelli, con piume di rubino e di topazio e di smeraldo, e con grandi code ed elaborati pennacchi e ruote di pavone volavano bassi, posandosi frequentemente sull'erba alta e tra gli alberi, come se cercassero semi e frutta.

D'un tratto, tre uccelli presero il volo dall'erba, e il più vicino gruppo di unicorni s'immobilizzò, fiutando l'aria e muovendo le piccole teste qua e là, per poi correre via a grandi balzi. Simultaneamente, da dietro una roccia, un felinide fulvo, dalla pelliccia striata di grigio, assai simile all'accompagnatore di Don spiccò un grande balzo. Questi inseguì gli unicorni, con le lunghe zampe che si muovevano velocissime, poi si gettò sull'ultimo del gruppo, lo fece cadere a terra, lo afferrò per il petto e i fianchi, e affondò le fauci verso la gola palpitante.

Un uccello color topazio svolazzò vicino alla più vicina macchia d'alberi, e di là spiccò un balzo un felinide dalla pelliccia verde, una femmina, a giudicare dalle dimensioni minori e dai contorni lievemente diversi. La belva balzò, con infinita grazia e la quasi incredibile elevazione di una ballerina classica che eseguisse una grand jeté. Le sue lunghe braccia si mossero veloci, e sfiorarono appena l'uccello, ma tre lunghi artigli affondarono nel petto. Tenendolo per la cresta, con l'altra mano, la felina se lo portò alle labbra, e morse.

C'era un rosseggiare cupo, sulle labbra olivastre, e sul canino aguzzo che apparve, quando essa guardò, al di sopra delle piume gialle, direttamente nella direzione di Don, con i suoi grandi occhi simili a fiori, dalle iridi di giada. Poteva trattarsi di una coincidenza, ma Don ebbe l'irragionevole certezza di essere visto. E mentre la felina succhiava il sangue della creatura, con il cielo sanguigno alle sue spalle, gli sorrise.

A questo punto un'infinita stanchezza piombò su di lui, e tutto si fece confuso e nebuloso, e Don capì di volare di nuovo nella sua piccola cabina. Cercò di guardare in basso, dove c'era il letto, ma anche questa volta non ne fu capace. Un istante dopo si ritrovò sdraiato sul letto. Sentì il contatto carezzevole dai piedi alla nuca, e ogni immagine svanì, e il senso di movimento vorticoso si quietò, scomponendosi nelle tenebre del riposo.

CAPITOLO XXXIV

Doc suonò il clacson quattro volte, e fermò la Corvette a pochi passi dal pendio roccioso sul quale si erano accampati la notte prima. Hixon era dietro, al volante del camion. A bordo della Corvette, Ann era tra Doc e Rama Joan, mentre Margo e Hunter erano seduti dietro.

Tutti e cinque erano di eccellente umore, e chiacchieravano allegramente, malgrado — o, probabilmente, proprio per questo — i loro volti fossero sporchi e anneriti, e gli abiti fossero sporchi e fradici per l'incredibile pioggia nera e calda che aveva cessato di battere proprio in quel momento, e che doveva essere stata impregnata della cenere vulcanica proveniente dal Messico e da altre regioni del sud.

«O fanghiglia marina scoperta dalla bassa marea, e risucchiata dal vento,» ipotizzò Doc, a questo punto. «Il sapore è salmastro.»

Il cielo era gravido di enormi nubi scure, che qua e là lasciavano filtrare una luce argentea.

«Tutti fuori,» ordinò allegramente Doc. «Ross, tu vai avanti, e controlla se c'è acqua nella buca. Voglio passare senza aspettare troppo.»

Hunter ubbidì. Margo andò con lui.

Il camion si fermò dietro la Corvette, e dietro il camion si fermò l'autobus scolastico, con la vernice gialla più annerita che mai.

Doc gridò, rivolgendosi a Hixon:

«Di' ai tuoi passeggeri di scendere, prima che facciamo passare i veicoli, come questa mattina. McHeath!… passa parola a Doddsy, e digli di far scendere dall'autobus tutti i suoi protetti. Non vogliamo perdere tempo, qui, più di quanto sia necessario. Poi mettiti di guardia accanto all'autobus, e sorveglia la strada dietro di noi.»

Ann si avvicinò a Doc. Disse, in tono eccitato:

«Posso restare in macchina con te? Non ho paura di scivolare, sai.»

«Sarebbe fantastico, tesoro, ma la tua mamma direbbe che io tento Kali,» disse Doc, abbassando il capo, e accostando alla guancia della bambina la sua guancia sporca. Rama Joan gli sorrise affettuosamente, e prese per mano sua figlia, ridendo.

«Non c'è acqua nella buca,» chiamò Hunter. In quel momento, scivolò e si ritrovò a sedere. «Ma è maledettamente viscido,» specificò, rialzandosi in piedi, mentre Margo gli sorrideva impietosamente. «Questa specie di pellicola di cenere bagnata è pericolosa.»

Il sorriso di Rama Joan sparì. Lei mormorò ansiosamente a Doc:

«Non possiamo riempire la buca di sassi e di terriccio, o per lo meno ripulirla?»

Doc si avvicinò ancor di più a lei, e rispose in tono basso e rapido:

«Ascolta, tesoro, quel branco di ragazzini ubriachi e assassini ci seguirà. Prenderanno delle automobili e verranno da questa parte, per raggiungere la spiaggia. Alcuni lo fanno da quando sono nati. È una seconda natura per loro. Non abbiamo veramente un minuto da perdere.»

Sedette al volante, suonò il clacson, una volta, e accese il motore.

«Arrivo!» gridò.

Partì a tutta velocità, e la Corvette attraversò la buca, senza scivolare e senza bloccarsi. La parcheggiò a una buona distanza, più avanti, poi ritornò di corsa là dove Rama Joan, Margo e Hunter lo aspettavano, davanti alla buca. Ann era ritornata accanto all'autobus, stava chiacchierando con McHeath e ammirava il suo fucile.

«È stato poco emozionante, dopo le premesse,» disse Doc. «Sto invecchiando, temo; e invecchiando si diventa prudenti.» Hunter e Margo si misero a ridere. Rama Joan fece un sorriso incerto.

Ida chiamò dal camion.

«Signor Brecht! Ray Hanks non vuole essere portato giù un'altra volta.»

Doc si guardò intorno, osservò i volti degli altri, si strinse nelle spalle e disse:

«Così risparmieremo tempo,» poi gridò, «Va bene, che corra il rischio! Fa' passare il camion, Hixon!»

Il camion partì a buona velocità. Solo quando arrivò sano e salvo dall'altra parte, accanto a loro, essi videro che la signora Hixon si trovava dietro, accanto ad Hanks, e gli reggeva il capo.

I passeggeri dell'autobus passarono in fila indiana attraverso la buca: Bacchetto, Wanda… e Ida con loro… ma non Wojtowicz, che si era fermato con McHeath e Ann; infine arrivarono Clarence Dodd e Pop, che discutevano animatamente. Pop stava protestando.

Doc si calcò in testa il cappellaccio nero, e si diresse verso di loro, bruscamente.

«Lo so, lo so!» disse, quando Pop aprì la bocca sdentata. «Le gomme posteriori sono più lisce che mai, e pericolose… e così via. Lascia fare a Rudy.»

«Manca anche un cilindro,» gli gridò Pop, ma Doc stava già correndo verso l'autobus.

Clarence Dodd notò i volti anneriti di Margo e degli altri.

«Quell'acquazzone sarebbe stato la gioia di Charles Fort,» disse, sorridendo. «Sapete? Sembrate tutti agghindati per un funerale indiano.»

Margo pensò, per la prima volta dalla notte precedente, alla ragazza torturata che riposava nella sua tomba, in alto.

Rama Joan, improvvisamente, si avviò verso l'autobus, per seguire Doc. Ann le fece un segno; si trovava accanto a Doc. «Ehi, mamma!» Rama Joan si fermò, e rispose al cenno, esitando.

Ann fece una risatina, e McHeath e Wojtowicz risero di cuore, per qualcosa che Doc aveva detto salendo a bordo dell'autobus. Il motore cominciò a tossire, e l'autobus si mosse, acquistando velocità, ma esitando ancora.

Pop borbottò:

«Certe volte il cambio si blocca, per andare in seconda.»

L'autobus entrò nella buca molto lentamente. Le ruote anteriori esitarono a uscirne, e poi la parte posteriore cominciò a scivolare lateralmente, in fretta. Doc diede gas. Le gomme posteriori squittirono lamentosamente, sulla pietra ricoperta dal nero velo scivoloso. Doc frenò, spegnendo il motore. L'autobus continuò a scivolare giù per il pendio.

McHeath buttò il fucile a Wojtowicz, e corse verso l'autobus, giù per il pendio, rischiando di scivolare.

L'autobus parve esitare, poi si fermò sull'orlo del precipizio di centocinquanta metri, con una ruota anteriore bloccata da un piccolo masso infilato in una buca. Tutti poterono vedere Doc sollevarsi dal sedile piegato all'indietro, appoggiarsi al pavimento inclinato, e allungare la mano verso la leva che apriva la porta anteriore.

Hunter, improvvisamente, afferrò Margo per la spalla, infilò la mano nella giacca di lei, ed estrasse la pistola a momentum.

McHeath era quasi arrivato all'autobus, e anche lui era vicino all'orlo del precipizio. Wojtowicz si domandò cosa intendesse fare il ragazzo; forse trovare un appiglio, e tendere la mano per sostenere Doc, quando egli fosse saltato a terra, sul pendio scivoloso.

Doc aprì la porta, e sporse il capo. In quel momento il piccolo masso uscì dalla buca, per l'eccessiva pressione alla quale era sottoposto, e le ruote posteriori dell'autobus scivolarono oltre il ciglio del burrone, mentre il fondo s'inclinava ancor più, opponendosi allo sforzo di uscire di Doc; il fondo dell'autobus grattò rumorosamente il bordo roccioso, scivolando lentamente.

Hunter strinse tra il pollice e l'indice la levetta nascosta, alla sommità del calcio della pistola grigia, e la spostò, in modo che la freccia non puntasse verso la canna, ma dalla parte opposta.

Doc era riuscito a uscire fino alla cintola, quando l'autobus si sbilanciò, buttandolo in ginocchio sulla porta. Mentre l'autobus dondolava, cominciando a precipitare nell'abisso, Doc guardò i suoi amici, alla sommità del pendio, si tolse il cappellaccio nero, e lo agitò verso di loro.

Hunter puntò contro di lui la pistola a momentum, e premette il bottone.

Il volto di Doc affondò, scomparve, insieme alla sua mano tesa, ma il cappellaccio nero tornò veleggiando nell'aria sopra l'orlo del precipizio, accompagnato da un vento gelido.

McHeath si gettò a terra, sull'orlo del precipizio, stringendo una sporgenza rocciosa con il piede, il ginocchio, il gomito e la mano, e si affacciò, guardando in basso.

Il pendio vibrò debolmente, sotto i loro piedi, e il grande schianto si udì cavernoso.

Il vento gelido diventò più forte. Il cappello nero veleggiò verso Hunter, e rimase appeso alla canna della pistola a momentum. Un sasso cominciò a risalire dal pendio, rotolando lentamente verso Hunter. Allora Hunter staccò il dito dal bottone, e chinò il capo. Il sasso invertì la direzione, e rotolò giù per il pendio, rumorosamente.

McHeath chiamò, raucamente, con voce strana, troppo tesa:

«È andato. È stato sbalzato fuori. L'ho visto cadere, e abbattersi sul fondo. Poi l'autobus gli è precipitato addosso.»

Hunter disse:

«Solo un secondo prima, e…»

Clarence Dodd gli disse:

«Lei ha girato la freccia di centottanta gradi, e ha rovesciato così il momentum?» E quando Hunter annuì, stancamente, l'Omino commentò, «Be', è logico.»

Hunter strappò il cappellaccio nero dalla canna della pistola, e lo sollevò, come se avesse voluto gettarlo a terra e calpestarlo. Poi si limitò a guardarlo, come se lo vedesse per la prima volta.

Ci fu un piccolo tonfo cavernoso, quando il sasso toccò il fondo, centocinquanta metri più in basso, e il suono arrivò fino a loro.

Sulla mesa assolata dell'Arizona, come una Torre del Silenzio, gli avvoltoi strapparono gli ultimi brandelli di carne dal viso di Asa Holcomb, lasciando completamente nudo il rosso teschio sogghignante.

Paul Hagbolt riposava appoggiato alla finestra liscia, calda e sicura che avvolgeva il disco volante di Tigerishka. Guardò in basso, e vide spezzarsi la calotta boreale della Terra, la bianca crosta di acqua gelata che veniva sollevata e frantumata dalle immani maree che erano entrate e uscite dal Mar di Groenlandia, nella Baia di Baffin, e nello Stretto di Bering. Quasi tutte le regioni artiche erano uscite dall'ombra, mentre l'emisfero settentrionale della Terra, nel chiarore dell'estate, s'inclinava verso il sole.

L'interno del disco volante era buio, ma un po' di luce si rifletteva dai ghiacci nevosi, scintillanti come fari ammicanti ogni volta che le onde inclinavano i lastroni di ghiaccio in modo che essi riflettessero la luce direttamente… stelle in un cielo bianco.

Anche Tigerishka era mollemente appoggiata alla finestra sull'infinito, a pochi passi da Paul. Stava accarezzando Miao, ma ora la gattina si ritraeva dalla mano vellutata, e si dirigeva nuovamente, con l'agilità acquisita in poche ore di imponderabilità, verso Paul, per tuffarsi nell'aiuola fiorita alle spalle dell'uomo… presumibilmente, per esplorarla di nuovo nel misterioso crepuscolo balenante dei ghiacci. Miao si era adattata con incredibile facilità alla caduta libera, e si divertiva a strisciare tra le piante, lungo i viticci intricati, e il musetto faceva capolino tra le foglie e i fiori, sorridendo di un sorriso felino, di quando in quando.

Tigerishka fece un suono dolce, musicale, che avrebbe potuto essere un sospiro. Paul pensò che forse li aveva portati là per sfuggire al pensiero colpevole di persone che morivano a migliaia sulla Terra. Fu sul punto di dirle che esisteva, o era esistita il giorno prima, una stazione meteorologica russa al Polo Nord, ma decise che Tigerishka avrebbe potuto leggere questo nella sua mente, se avesse voluto.

Senza preavviso, il disco volante cominciò a salire molto rapidamente. Prima la calotta polare, poi l'intera Terra, rimpicciolirono rapidamente.

Paul dominò le sue reazioni. L'emotività e l'eccitazione non erano sentimenti molto ammirati, tra i felini, e sapeva già che Tigerishka poteva operare il pannello di comando senza toccarlo, e senza guardarlo.

Le stelle spuntarono dappertutto, un grande prato di stelle scintillanti. Mentre la Terra continuava a rimpicciolire, il Vagabondo entrò silenzioso nel campo visivo. Anch'esso aveva una specie di calotta polare, una gialla calotta sbilenca che si stagliava sullo sfondo violetto, ma con un collo giallo che scendeva da essa… il collo di un dinosauro. Da quel punto, la forma gialla era come un'ascia di guerra.

Stavano salendo ad angolo retto rispetto alla luce del sole: nessun raggio penetrava direttamente nel disco volante. I due pianeti cominciarono a mostrare metà superficie, il Vagabondo arricchito da una mezzaluna di frammenti seleniti, sul lato rivolto al sole.

Si fece buio, nel disco volante, quando il riverbero dei ghiacci svanì. Quando i pianeti cominciarono a stabilizzarsi, smisero di rimpicciolire, essi furono due mezzelune piccole, quasi uguali, non molto distanti tra loro, sullo sfondo di grandi prati di stelle colorate, quelle stelle che Paul trovava insolite, le stelle che si vedono dall'emisfero australe.

Senza eccessivo stupore, capì che il disco volante aveva percorso diversi milioni di miglia in meno di un minuto… una velocità non troppo lontana da quella della luce.

Era come se lui e Tigerishka, camminando in una città, si fossero ritirati in un grande parco buio, e ora osservassero le luci della città al di là di acri e acri di prati e alberi oscuri. Dopo qualche tempo, l'immagine cominciò a portare un senso di solitudine.

Tigerishka disse, sommessamente:

«Ti senti Dio? Con la Terra come sgabello?»

Paul disse:

«Non so. Potrei cambiare il passato? Se qualcuno fosse morto, potrei riportarlo in vita?»

Tigeriska non rispose, anche se a Paul parve che, nel buio, lei avesse scosso lentamente il capo.

Ci fu una lunga pausa di silenzio. Poi Tigerishka fece udire di nuovo il lieve suono melodioso che somigliava a un sospiro. E poi, dolcemente:

«Paul?»

«Sì?» domandò lui, sommessamente.

Lei disse, sottovoce ma rapidamente:

«Noi siamo malvagi. Abbiamo fatto un male tremendo al tuo pianeta. Noi abbiamo paura.»

Continuò, questa volta non più come una bambina che confessasse di esser stata cattiva.

«La vostra generazione perduta, i vostri profughi ungheresi, i vostri anarchici, i vostri satanisti, i vostri beat, i vostri angeli caduti, i vostri giovani bruciati, i vostri delinquenti minorili… noi siamo come quelli. Corriamo, corriamo, corriamo. Fuggiamo, fuggiamo, fuggiamo. Ogni passo, battendo il cavo pavimento planetario sotto le gelide lampade stradali delle stelle: un miliardo di anni-luce.»

Sapeva che lei stava raccogliendo le parole, i concetti e le immagini della sua mente, eppure la sua mente non lo avvertiva affatto.

Tigerishka continuò:

«Il Vagabondo è il nostro carro fuggiasco, la nostra scialuppa di salvataggio… un meraviglioso, comodo vascello con cui fuggire. Cinquantamila ponti, per giocare e divertirsi! Cieli per accontentare ogni gusto… tramonti su ordinazione! Gravità calda e fredda a volontà in ogni cabina… favorevoli o contrari, scegliete quel che volete! La Stella dei Reietti. L'Arca di Satana!»

E adesso era la voce di una bambina molto cresciuta, che copriva la colpa con un velo di bravate e con immagini sporche scelte con deliberata ironia.

Lei continuò:

«Oh, che elegante Pianeta dei Dannati! Sopra abbiamo dipinto la nostra aria, per conservare l'intimità. Questo li ha sconvolti, nella catapecchia solare nella quale siamo entrati. Quegli squallidi conformisti pensavano che avessimo cose terribili da nascondere, dietro il nostro splendore bicromatico. Ebbene, è vero!»

«Il Pianeta Dipinto,» mormorò Paul, cercando di adeguarsi all'umore di lei… e usando almeno un'immagine, prima che lei la pronunciasse.

Lei rispose:

«Come il vostro Deserto, sì. E le vostre donne selvagge, no? Viola e giallo, come un'alba nel deserto. Abbiamo dipinto perfino le barche del Vagabondo, per conservare l'armonia… lance più grandi di transatlantici, scialuppe come questa. Oh, siamo i più alla moda, noi, i passeggeri dell'Arca di Satana, noi, l'orda diabolica, noi angeli impazziti!»

Gli sorrise, arricciando i baffi sottili, ma poi guardò di nuovo fuori, guardò le stelle e le due mezzelune, e la sua voce si fece più grave, anche se non del tutto.

«Il Vagabondo salpa per navigare nel vuoto autentico: l'iperspazio. Vuoi una strada impervia, un mare crudele, una tempesta che fa sembrare un uragano una brezza dolcissima, un fronte di novae, un ciclone siderale? Prova, prova l'iperspazio! Il vuoto completo, totale! Informe come il caos, ostile a ogni forma di vita. Nessuna luce, nessun atomo, nessuna energia che noi super-animali possiamo sfruttare… per ora! È come una distesa di sabbie mobili, nella quale tu devi scavare una galleria, o come un deserto mortale, privo d'acqua, che tu devi attraversare per raggiungere una stella, un'oasi con grandi palmizi. Uno strisciare, un ribollire nero, maligno, che è rispetto allo spazio quello che l'inconscio è rispetto alla mente cosciente. Vicoli nei quali la luce delle strade non giunge mai, contorti e senza sbocco, colmi di morte sporca… o acqua nera, fredda, oleosa, sotto banchine, acqua gonfiata da grandi ondate. Il Mar dei Sargassi delle Navi Stellari! Il Cimitero dei Pianeti Perduti! Oh, un mare affascinante per l'Arca di Satana, che dona ai suoi angeli nausea e incubi… il fiammeggiante, gelido, informe mare dell'Inferno!

«Tutto questo nostro universo, tendopoli dove le stelle sono tende… il cosmo che tu credi solido come una roccia, stabile come Dio… cavalca attraverso interminabili tempeste iperspaziali, proprio come un pezzetto di carta può cavalcare sulle ali di un tornado. E… il Vagabondo naviga solo nel pugno del vento che tiene il frammento di carta. Noi siamo naviganti timidi; stiamo sempre vicini alla costa.»

Paul guardò le stelle solitarie, disseminate qua e là nel cielo nero, e si domandò per quale motivo egli avesse sempre accettato così facilmente l'idea che esse rappresentassero l'ordine.

«La potenza di un miliardo di pile atomiche,» continuò Tigerishka, «È la scintilla che occorre per entrare nel vuoto… e per uscirne ci vuole energia infinitamente maggiore, e una perizia fantastica, sottile, e anche fortuna. Il Vagabondo mangia lune a colazione, e asteroidi per merenda! O meglio, essi sono mangiati dal vuoto nel quale il Vagabondo naviga, quel divoratore di neutrini… cibo gettato ai lupi dall'iperspazio, per pagare il nostro pedaggio.

«Non ci vuole tempo per viaggiare nell'iperspazio, se non alla partenza e all'arrivo,» continuò Tigerishka. «Ma, oh, lo spirito che ci vuole per guardare il vuoto, per aspettare il porto, l'attesa immensa che occorre per ritornare nel mondo!… come costeggiare una costa sconosciuta nella nebbia più fitta. Nell'iperspazio esistono i segni del nostro spazio… ombre di soli, fantasmi di pianeti e di lune, di polvere e di gas e di vuoto… ma sono ben più difficili da leggere che il radar in un cielo avvolto nella stagnola, sono più difficili da leggere che i geroglifici sconosciuti, consumati, resi irriconoscibili da fango e tempo e acqua, in una caverna antica quasi quanto il tempo.

«Abbiamo concluso questo nostro ultimo viaggio ammaccati ed esausti, affamati di massa e di luce solare. Il nostro isolamento dal nudo iperspazio era disceso a zero; per poco non abbiamo perduto cielo e atmosfera; nessuno ha potuto avventurarsi sui nostri ponti più alti, a eccezione dei giganti inorganici che vi abitano… le menti di cristallo che sono come colline colorate.

«E poi abbiamo fatto due false uscite nel tuo sistema solare, e ciascuna ci ha fruttato poche leghe cubiche di combustibile, del quale non potevamo fare a meno, ma ogni volta dovevamo immergerci di nuovo, perché i segni non erano giusti e i vettori sbagliati, e i punti d'uscita non erano sufficientemente vicini al vostro sole, o a una luna, per appagare i nostri bisogni.»

Paul intervenne, automaticamente:

«Solo due false uscite? Ci sono state quattro foto di campi stellari distorti.»

«Quattro foto, ma solo due false uscite… una vicino a Plutone, l'altra vicino a Venere,» asserì lei, freddamente. «Non interrompermi, Paul. Finalmente riuscimmo a emergere vicino alla vostra Luna, e l'eclissi era un'ombra perfetta, per noi. Siamo emersi dal mare dell'iperspazio. Ma ormai eravamo quasi privi di energia. Se avessimo dovuto combattere, avremmo potuto a malapena annullare la gravità del Vagabondo, per manovrare.»

«Tigerishka!» protestò Paul. «Intendi dire che… che avreste potuto annullare il campo gravitazionale del Vagabondo, in modo che non provocasse terremoti e immense maree sulla Terra… e non l'avete fatto?»

«Io non sono il capitano del Vagabondo!» ringhiò lei. «Inoltre, dovevamo avere la gravità totale, aumentata da supporti locali… applicazioni di forza e campi di attrazione. E anche nei peggiori momenti di emergenza, dobbiamo sempre conservare del combustibile di riserva per combattere… questo è evidente, no?»

Paul disse:

«Ma… Tigerishka, in confronto al Vagabondo, le forze spaziali del mondo, e le sue armi atomiche, sono giocattoli per bambini. Com'è possibile combattere…»

«Paul, ti ho già detto una volta che avevamo paura.» Le iridi che parevano i petali di un fiore mandarono un bagliore violetto, quando lei distolse lo sguardo da Paul. «Il Vagabondo non è l'unico pianeta che viaggia nell'universo.»

CAPITOLO XXXV

Hunter indugiò, per lanciare un ultimo sguardo al pendio, prima di camminare sulla strada, verso la Corvette, e prendere posto al volante. Rama Joan e Margo erano accanto a lui. Tutti gli altri erano già a bordo: Ann e Wanda sulla Corvette, gli Hixon e Ida nella cabina del camion, gli altri cinque uomini assiepati nel retro del camion, insieme a Ray Hanks. La sistemazione non piaceva affatto a Hunter, ma non c'era nulla che sembrasse giusto, dopo la morte di Doc; tutto era freddo e duro e goffo e scomodo, come lui si sentiva dentro.

Non aveva voluto prendere il comando, aveva cercato di passare l'incarico a Doddsy, ma Hixon lo aveva guardato negli occhi, e aveva detto:

«Credo che Doc avrebbe scelto te,» e questo aveva risolto tutto.

Lui detestava l'idea di prendere decisioni definitive, come rifiutare il suggerimento di Hixon… usare la pistola a momentum per spostare alcuni macigni e bloccare la strada; aveva risposto al suggerimento indicando, semplicemente, la scala graduata della pistola; era rimasto appena un ottavo della carica, se la colonnina viola aveva il significato che essi credevano. Ed era ancora più odioso decidere la strada da seguire, Mulholland o Vandenberg Due, in quest'ultimo caso ripercorrendo tutta la strada fatta; aveva rimandato la scelta, a quando avrebbe raggiunto il bivio… e allora dovette subire le critiche di Margo, che aveva dato per scontato il fatto che essi avrebbero continuato la ricerca di Morton Opperly, soprattutto ora che avevano trovato il messaggio. Margo disse a Hunter che ogni dissenso sarebbe stato evitato, rendendo chiara e manifesta la sua decisione fin dall'inizio.

Erano state pronunciate pochissime parole sulla sorte di Doc, anche se questo era sintomatico dell'umore cupo e della tristezza di tutti. Hunter aveva chiesto sommessamente a Wojtowicz quali erano state le ultime parole di Doc, quelle parole che li avevano fatti ridere, e Wojtowicz aveva risposto: «Gli stavo solo chiedendo per l'ennesima volta di togliersi quel cappello, perché portava sfortuna, e lui mi ha risposto, 'Wojtowicz, quando sarai calvo come me, e non potrai più nasconderlo, capirai che si tratta di una sfortuna peggiore!'»

Bacchetto aveva sentito, e aveva detto, scuotendo tristemente il capo:

«Anch'io lo avevo messo in guardia da quel cappello,» e poi aveva aggiunto qualcosa, che era parso «Il peccato d'orgoglio.»

Wojtowicz aveva chiesto immediatamente a Bacchetto di ripetere quello che aveva detto, se ne aveva il coraggio, e Doddsy aveva cercato di smussare gli angoli, dicendo. «Sono certo che Charles Fulby si riferiva all'Hubris… quel genere di altissimo ottimismo che certi eroi greci possedevano, e che faceva ingelosire gli dei, che decidevano di distruggerli.»

Wojtowicz aveva risposto, con rabbia:

«Greci o non greci, non me ne importa niente… nessuno dirà una sola parola contro Doc, capito?»

E ora Hunter stava guardando lo stesso cappellaccio nero, che aveva portato con sé, floscio e ammaccato, fino a quel momento, e pensò a Doc, laggiù con i tre assassini, tutti la stessa carne per gli avvoltoi.

«Dio,» mormorò, amaramente. «Non gli lasciamo neppure un monumento piccolo, come quello che lui ha fatto per lo stupido cane di Doddsy!»

Pensò di issare il cappello su un bastone, da qualche parte, ma l'idea era di pessimo gusto, e sbagliata. Lisciò la tesa del cappellaccio nero e, quando il vento si fece più forte, lo lanciò verso il pendio. Per un momento, pensò che sarebbe caduto sull'orlo, e che questo sarebbe stato il massimo dell'inettitudine, per lui, ma poi il cappello veleggiò oltre il bordo, e sparì.

Rama Joan gli strinse forte il braccio, e quello di Margo, dall'altra parte. Il suo viso, e i capelli rossi, erano ancora anneriti dalla pioggia, i resti tagliati, sporchi, penzolanti dell'abito da sera erano come un costume da clochard.

«Dio sa bene che non è certo un monumento,» disse a bassa voce, raucamente. «Ma Doc mi ha avuto là, stanotte.»

Gli occhi di Hunter si velarono di lacrime. Disse, in tono soffocato:

«Vecchio fornicatore incallito!…»

Lontano, molto lontano, e molto debolmente, egli udì il ronzio di un motore. Apparentemente, esso veniva dalla direzione della statale.

«Ha sentito il rumore, signor Hunter?» chiamò il giovane McHeath, rannicchiato in fondo al camion, con il fucile pronto. Hunter ricordò che Doc aveva detto che 'quel branco di ragazzini ubriachi e assassini' li avrebbe seguiti.

I tre corsero verso la Corvette. Hunter si mise al volante, Margo dietro, e Rama Joan davanti, accanto ad Ann; ed egli pensò, Doc avrebbe camminato con calma. Oppure no? Almeno avrebbe detto qualcosa.

Avviò il motore, poi si voltò, sollevando la mano destra.

«Se appaiono delle macchine dietro di noi, sorpassami,» gridò a Hixon. «In questo modo, noi potremo usare la pistola. Se puntano delle armi, sparate! Bene, andiamo!» Non andava bene affatto, pensò, mettendo in moto. Ma dovremo accontentarci.

Richard Hillary conobbe Vera Carlisle nel momento in cui la ragazza era seduta nel fango, a Tewkesbury, e piangeva sommessamente.

Star seduti nel fango cominciava a essere la maniera giusta per conoscere la gente, rifletté Richard, e a dire la verità era certamente meglio che trovare gente distesa a faccia in giù nella fanghiglia.

Lei era rannicchiata, come un topolino, nella stradina laterale, e piangeva così sommessamente che egli avrebbe potuto superarla senza accorgersene, se la notte non fosse stata ancora così chiara, due ore dopo il tramonto. Lei portava soltanto una radiolina a transistor, che stringeva come se fosse stata un bambino.

Durante le ultime trentasei ore, Richard era stato testimone di numerosi salvataggi, e riunioni, e di molte prove di amicizia e soccorso, e ora si rese conto che desiderava a sua volta di soccorrere e consolare qualcuno. Ebbe un acuto timore, al pensiero che qualcuno udisse i singhiozzi sommessi di quella ragazza, o li raggiungesse prima che quel pianto fosse stato quietato, e almeno i primi gesti di amicizia fossero stati fatti.

Avvicinandosi a lei, pensò al freddo che stava calando, e ricordò quanto erano sembrate calde le coppie sotto la paglia, la notte prima, e pensò inoltre che questa era la fine del mondo, o per lo meno un'eccellente imitazione; eppure, nello stesso tempo, gli parve che quei pensieri non descrivessero completamente i motivi che lo spingevano.

Le offrì del pane fresco, che aveva recuperato dai sacchetti di provviste lanciate da un elicottero, ma poi scoprì che il motivo di maggiore angoscia, per Vera, era il fatto di essere assetata. Procurarsi dell'acqua, nelle regioni sommerse dalla nuova marea, non era un'impresa semplice, con tutti i serbatoi, i pozzi e le sorgenti sommersi dall'acqua salata. C'erano dei tubi che contenevano acqua potabile, ma si trattava di un lavoro di ricerca che si affidava molto alla fortuna.

Ricordò di aver visto saccheggiare un pub, a pochi isolati di distanza, e quando essi si avviarono in quella direzione, passando per le strade i cui muri portavano il segno bruno della marea, scoprì un'altra causa del dolore della ragazza: aveva perso un tacco, e in ogni caso le sue scarpine strette, a punta, con i tacchi alti, non erano l'ideale per camminare.

C'era una fila ordinata di saccheggiatori, davanti al pub. Oh, noi britannici ossequiosi delle leggi, pensò Richard. Ci mettiamo in fila perfino per saccheggiare. Ricordò di aver visto un negozio di scarpe a poca distanza, e vi penetrò con determinazione… una cosa piuttosto facile, perché la marea l'aveva fatto prima di lui… e riuscì a trovare tra le scansie umide e sbilenche un paio di scarpe da tennis per Vera, e delle calze pesanti per entrambi. Tutti gli articoli erano fradici, naturalmente, ma questo non era grave.

Quando tornarono indietro, la fila era diminuita, e presto lui e Vera ricevettero una bottiglia di birra a testa e una fiaschetta di rum, sotto lo sgurado vigile e fiammeggiante di un uomo che avrebbe potuto essere il vero proprietario, ma non lo disse.

Fuori, un grassone stava puntando il braccio verso il fondo della strada, e diceva:

«Ah, ecco qui il bastardo!»

Era il Vagabondo, che sorgeva mostrando la faccia con la X panciuta, e con un anello quasi simmetrico dei frammenti biancheggianti della Luna.

Vera guardò il globo sanguigno per qualche istante, poi strinse le labbra e distolse lo sguardo. Richard sentì un'ondata di approvazione dentro di sé, per quella reazione. La ragazza aveva il gomito vicino a lui, che sporgeva solo un poco più del normale in una persona che camminava. Richard strinse il braccio della ragazza, con fermezza, e la scortò lungo la strada, riprendendo la direzione che aveva seguito prima d'incontrarla, muovendosi con passo sicuro ma tranquillo, all'inizio, mentre entrambi bevevano la birra e mangiavano un po' di pane. Non le disse nulla del suo piano per raggiungere le Malvern Hills. Ci sarebbe stato tempo a sufficienza per parlarne, quando avrebbero attraversato la ruggente Severn dal vecchio ponte di ferro di Telford… se non era crollato.

Vera accese la radiolina, e ascoltarono su tutte le lunghezze un rumore che somigliava a quello di olio che friggeva. Richard avrebbe voluto dirle di gettar via l'apparecchio, ma invece le domandò come le andavano le scarpe nuove, e lei, sorridendogli, rispose, «Sono paradisiache.»

Solo un'ora prima Richard aveva camminato, solitario al centro di una folla, pensando a tutti i milioni, o decine di milioni, di morti recenti che dovevano giacere in tutto il mondo, e chiedendosi se questo avesse davvero qualche importanza.

Aveva pensato: Il inondo ha davvero bisogno di tanta gente? Prendiamo la folla che ora mi circonda… decimata dalle inondazioni, eppure in maggioranza composta ancora degli stupidi stereotipi dei quali il mondo potrebbe far benissimo a meno. Quante persone sono necessarie, per sostenere una cultura ragionevolmente ricca? Un numero superiore al necessario non è, in realtà uno spreco? E milioni di stereotipi non sono un prezzo troppo alto da pagare, per qualche rara eccezione? Non c'è qualcosa di totalmente volgare nel concetto di un genere umano che si moltiplica all'infinito, senza alcun piano preciso, di un'umanità che forse, avendo coperto tutta la Terra, un giorno si propagherà come un branco di topi fin sulle stelle? Avere tante persone è realmente importante, se non per le persone? Il mondo ha bisogno di questa decimazione, e la merita!

Ma ora lui pensava che se anche un'altra persona soltanto fosse stata presa, quella persona avrebbe potuto essere Vera. In teoria esistevano decine di migliaia di Vere, supponeva, ma soltanto una ne esisteva dove questo Richard Hillary avrebbe potuto trovarla. Le strinse il braccio, con forza rinnovata.

CAPITOLO XXXVI

Paul Hagbolt guardava nell'abisso tenebroso senza fondo, come se la finestra circolare sulla quale si trovava fosse stata la sommità di un immenso acquario, le stelle e i sottili semicerchi della Terra e del Vagabondo una misteriosa luminescenza marina, o come se la rotondità fosse stata quella di un vetrino sotto un microscopio, e le stelle, microorganismi da studiare.

Si udì un fruscio leggero, e poi un miagolio sommesso… Miao, che aveva attraversato l'aiuola fiorita, e aveva annunciato qualche sua scoperta a Tigerishka.

Accanto a Paul, la gatta più grande disse:

«Poiché il genere umano è giovane, tu credi che anche l'universo lo sia. Ma invece è vecchio, vecchio, vecchio. Domani e domani… lentamente… l'ultima sillaba del tempo… favola narrata da un idiota… Sì!

«Tu credi che lo spazio sia vuoto, e invece è pieno. Il tuo sistema solare è uno dei pochi luoghi primitivi che rimangono, come un pezzo di terra piccolo, coperto da erbacce, circondato da grandi edifici nel cuore di una vasta e antica città che è cresciuta cancellando tutta la campagna.

«Nella galassia dove il Vagabondo è stato costruito nella sua orbita, i pianeti sono così fitti, intorno a ogni sole, che nascondono la sua luce e formano una metropoli dello spazio, una città soffocante e brulicante di palazzi grande come una galassia. È il vanto dei nostri ingegneri, 'Dovunque sfugga un raggio di sole, noi mettiamo un pianeta'. O costruiscono un campo, per sfruttare la luce solare.

«Decine di migliaia di pianeti intorno a ogni sole, che si perturbano con decine di migliaia di maree, così che l'armonizzazione delle maree è una buona metà della nostra ingegneria civile. Pianeti che si susseguono così ravvicinati, nella stessa orbita, da formare collane ellittiche, e ogni perla è un mondo. Conosci quegli oggetti filigranati che i tuoi cinesi intagliano nell'avorio, sfere entro altre sfere, in modo che tu guardi e guardi per trovare il centro, e concludi con la sensazione che là dentro sia prigioniero un po' dell'infinito? Questo c'è nei tuoi ricordi. È questo l'aspetto dei nostri sistemi solari, quasi ovunque.

«Voi della Terra non avete ancora udito questa notizia, semplicemente a causa dell'estenuante lentezza con la quale viaggia la luce. Se poteste aspettare un miliardo di anni, vedreste le galassie impallidire, non per la morte delle stelle, ma perché la loro luce è mascherata dal misero assieparsi dei padroni delle stelle.

«Quasi tutti questi pianeti che nascondono le stelle, a parte pochissimi antichi resti, sono artificiali. Miliardi di trilioni di soli morti e di lune fredde e di giganteschi pianeti gassosi sono stati scavati e scavati dai minatori delle stelle, per procurarsi la materia necessaria a crearli… le vostre piramidi egizie, moltiplicate all'infinito. Per tutto l'universo, i pianeti naturali sono rari come i pensieri giovani.

«La vostra stessa galassia, la Via Lattea, non costituisce un'eccezione. Grandi soli soffocati da grappoli di pianeti formano la grande nube oscura centrale che costituisce un enigma per i vostri astronomi.

«Uno stagno può riempirsi d'infusori con la medesima rapidità con la quale si riempie un bicchiere di acqua stagnante. Un continente può riempirsi di conigli, rapidamente, quasi quanto un solo campo. E la vita intelligente può espandersi fino ai limiti dell'universo… quei limiti che esistono ovunque… rapidamente, come può crescere e raggiungere la maturità su un solo pianeta.

«I pianeti di trilioni di soli possono riempirsi di costruttori di astronavi con la stessa rapidità con la quale se ne può riempire uno. Dieci milioni di trilioni di galassie possono venire infettate dal morbo del pensiero… quella tremenda epidemia!… rapidamente come una sola.

«La vita intelligente si espande più in fretta delle pestilenze. E la scienza cresce in maniera più incontrollabile del cancro. Su ogni pianeta naturale indisturbato, la vita striscia e palpita per miliardi di anni, poi nel giro di una notte avviene la fioritura, la veloce esplosione attraverso le immense distanze nere di semi che crescono come erbacce dovunque cadono, e poi l'esplosione dei loro semi, e così via, fino alla curva che delimita il confine dell'universo.

«C'è il dramma dell'incontro con le forme di vita… sorpresa, emozione, momenti di attonito stupore. E poi, troppo, troppo presto, viene la noia.

«Il piccolo stagno nel quale ieri nuotavano poche amebe oggi è gremito di vita brulicante… e anche il bicchiere. Le alghe sono rilucenti come gioielli. Poi, ben presto, la superficie dell'acqua è velata.» Puntò il braccio verso i grappoli di stelle. «Quei diamanti che vedi là fuori sono menzogne. I soli che hanno mandato quei raggi colorati ora sono mascherati.»

Tigerishka si voltò dalla finestra spruzzata di stelle, e guardò direttamente Paul.

«L'universo è pieno, Paul. La vita intelligente si trova dappertutto, i suoi pianeti oscurano le stelle, i suoi ingegneri consumano incessantemente la potenza dei soli per costruire un ambiente per la mente… trasmutando la materia in energia in un olocausto di fuoco ovunque, per creare nuove forme, nuove strutture, nuove menti. La Parola… chiamiamo così la mente… va avanti, e ben presto non rimane altro che la Parola. L'universo, con tutte le sue grandi, scintillanti distese, e i suoi splendidi isolamenti silenziosi, presto diventa un mostro di cemento, un florilegio di grattacieli, comincia a morire per il peso di troppe menti… benché loro non riescano mai a capire questo… proprio come una piccola baia verdeggiante e assolata può morire di troppa vita.

«L'immortalità è raggiunta, abbattendo i limiti della mente individuale verso il futuro. Il tuo mondo, Paul, è una delle poche isole di morte rimaste nell'oceano della vita eterna.

«Con il volo iperspaziale e le comunicazioni psioniche, le estremità dell'universo sono più vicine, tra loro, dei pianeti del tuo sistema solare. Le galassie separate da immensità oscure sono più centralizzate dei paesi del tuo mondo, perfino dei cinquantuno stati del tuo paese. E gli affari del cosmo sono ordinati da un governo democratico, più benigno e più terribile di quello di qualsiasi divinità immaginata.

«Può darsi che le vostre primitive visioni del paradiso… e specialmente del vostro atteggiamento ambiguo nei suoi confronti: che il paradiso sia una meraviglia indescrivibile, e nello stesso tempo un'immensa noia… altro non siano che valide intuizioni di quel governo.

«Sicurezza e stabilità sono le sue parole d'ordine. È conservatore, governato dai vecchi, che sono dappertutto, una grande maggioranza dal giorno in cui è stata raggiunta l'immortalità. È esasperante, paziente, giusto, misericordioso… ma solo con i deboli!… e infinitamente ostinato. I suoi archivi, da soli, impressi su molecole, occupano i pianeti artificiali di due ammassi stellari. Il suo scopo principale è semplicemente quello di ricordare e tesaurizzare… ma solo come un ricordo!… tutto ciò che è accaduto.

«Qualsiasi razza anche minimamente intelligente, rispettabile, sicura, di creature viventi può aspettare fiduciosamente da esso un supporto per i suoi sistemi di vita. Il governo è sempre contrario allo spreco di energia per qualsiasi scopo, all'infuori della conservazione e della sicurezza: si oppone all'esplorazione dell'iperspazio, e perfino al suo uso, se non per il trasporto delle sue forze di polizia. Il suo terrore più grande è per qualcosa che possa danneggiare seriamente, o comunque perturbare, l'universo, perché ora che… a eccezione dell'iperspazio… non è più possibile pensare alla salvezza nell'infinito e nell'inesplorato, un grande terrore cosmico della morte è nato.

«Eppure, poiché perfino gli immortali si devono riprodurre, anche se solo a un ritmo minimo, per mantenere l'illusione di essere ancora vivi, il governo deve trovare continuamente nuovo spazio per nuovi esseri. Verranno a cercare anche il tuo spazio, Paul. C'è stato un cambiamento, nella politica verso i mondi selvaggi rimasti. In passato erano chiusi come riserve di novità, erano protetti fino al giorno in cui avrebbero raggiunto una statura galattica. Ma ora c'è bisogno della loro superficie vitale, e della loro materia, e dell'energia dei loro suoli. Devono essere integrati in una superciviltà cosmica. Prudentemente, saggiamente, e con gentilezza… ma accadrà anche a voi della Terra, probabilmente prima che passino duecento dei vostri anni. E non sarà un processo lento… una volta iniziato, tutti i mondi selvaggi saranno occupati e integrati nel giro di pochi decenni.

«Per ridurre tutte le politiche del governo a una sola frase, lo scopo del governo cosmico è quello di conservare l'intelligenza fino a quando il cosmo morirà. C'era un tempo in cui questo significava 'per sempre', ma ora comprendiamo che significa soltanto fino al giorno in cui la mente avrà raggiunto il punto di saturazione, in cui tutta la materia esistente sarà stata forgiata al servizio e per il sostentamento dell'intelligenza, il giorno in cui l'entropia sarà rovesciata al massimo grado possibile entro i limiti di questo universo.

«Loro considerano questa la più grande missione. Noi la consideriamo la morte.

«Il mio popolo è quello dei Selvaggi… le razze più giovani, razze come la mia, cresciute ed evolute da solitari uccisori e predatori, che sono vissute molto vicino alla morte, e danno valore allo stile, più che alla sicurezza, alla libertà, più che alla stabilità; razze con un'appassionata venatura di sadismo; o freddamente scientifiche, che diano valore alla conoscenza quasi più che alla vita.

«Noi consideriamo la crescita più importante che l'immortalità; l'avventura più importante che la sicurezza. Grandi rischi e grandi pericoli non ci turbano.

«Noi vogliamo viaggiare con maggiore efficacia nel tempo. Non solo per osservare, ma per cambiare il passato, renderlo più pieno, ridare vita agli innumerevoli morti, vivere in una dozzina… o in un centinaio!… di presenti, e non in uno soltanto, risalire all'inizio e ricostruire.

«Vogliamo esplorare anche il futuro, non solo per rassicurarci alla vista di un caldo focolare morente, là… l'Intelligenza moribonda sull'ultimo letto. Vogliamo creare un altro cosmo, per continuare a vivere!

«Vogliamo conoscere e usare più profondamente la nostra niente… quello strano mondo cangiante che si trova all'interno del nostro cranio. Benché la telepatia e le percezioni extrasensorie siano comunissime, non sappiamo ancora se esistano altri mondi, dall'altra faccia della oscurità collettiva interiore… e come visitarli, e svelarli, e usarli.

«Noi cambieremmo tutto questo: esplorare i regni dello spirito come strani continenti, navigarli come lo spazio, scoprire se tutte le nostre menti riposano, come piccoli gusci d'arcobaleno, conchiglie sulle spiagge dello stesso mare nero, inconscio, battuto da mille tempeste. Forse da quella parte ci aspettano mondi inviolati. E poi, vogliamo delle macchine che rendano reali i pensieri… un'altra cosa che nessuno ha fatto.

«Ma sopra ogni altra cosa, noi vogliamo aprire l'iperspazio… non usarlo solo per rapidi viaggi costieri, navigando soltanto per le sue rive tempestose, e tenendo sempre in vista, anche se fievolmente, le spiagge e le linee costiere del nostro cosmo particolare… ma navigare audacemente oltre lo zoccolo universale, addentrandoci nel profondo ignoto con le sue immense tempeste. Questo è un compito per le galassie, non per i pianeti… uno oppure cento… anche se siamo pronti a correre il rischio, se sarà necessario.

«Noi crediamo che innumerevoli cosmi, oltre al nostro, viaggino nel vuoto turbinoso dell'iperspazio… un miliardo di trilioni di frammenti nel vento dell'uragano, un miliardo di trilioni di fiocchi di neve nella tormenta. Non saranno cosmi come il nostro, pensiamo, ma costruiti da particelle fondamentali diverse… o forse neppure particelle, ma continuità mutevoli. Mondi di solidità, o buchi immateriali. Mondi senza luce. Mondi nei quali la luce può muoversi lentamente come la parola, o rapidamente come il pensiero. Mondi nei quali frammenti di materia vivono di pensiero, come qui la mente sembra vivere di molecole.

«Mondi senza alcuna barriera tra niente e mente, e mondi fatti di celle di prigione più chiuse e severe delle nostre. Mondi dove il pensiero è reale, e dove ogni animale è un dio. Un universo fluido… pianeti come bolle… e mondi che si diramano nel tempo, come i viticci di liane possenti.

«Mondi dove lo spazio è attraversato da tele di ragno, invece di essere costellato di astri… un nuovo cosmo fatto di liane, o di strade. Un cosmo con dei solidi, ma senza gravità, mondi dalle dimensioni analoghe ai nostri, mondi diversi in ogni legge fisica fondamentale… una scala cromatica di universi, l'intero spettro del creato.

«Oppure, se non scoprissimo dei mondi nell'iperspazio… potremmo costruirli là!… creare la particella mostruosa che dà vita a un cosmo, esplodere da questo cosmo, come una farfalla dalla crisalide, senza curarci se esso verrà distrutto o no.

«Questi sono i nostri obiettivi più grandi. Quelli più piccoli: un riparo per tutto ciò che facciamo. Intimità, per il nostro pianeta e i nostri pensieri. Armi, secondo i nostri bisogni. Libertà di ricerca, da condurre segretamente come noi vogliamo. Nessuna ispezione! Il diritto di condurre il nostro pianeta dovunque vogliamo, anche se non ci aspetta un'orbita per la quale abbiamo già pagato l'affitto. Vivere tra le stelle, se così preferiamo, fuori, nella desolazione gelida, senza sole, brucando l'erba della prateria che è l'idrogeno… o nelle profondità oceaniche dello spazio che si stendono tra le galassie-isole. Il diritto di viaggiare sempre nell'iperspazio, ora riservato al governo e alla polizia. Il diritto di rischiare, il diritto di soffrire. Il diritto di essere stupidi e ciechi, il diritto di sbagliare, il diritto di morire.

«Questi nostri scopi sono detestabili, per il governo, che considera ogni topo spaurito e ogni passero caduto uguale a una tigre superba. Il governo vuole che una stazione di polizia mandi la sua luce azzurrina accanto a ogni sole, vuole un poliziotto che faccia la ronda intorno a ogni pianeta, autopattuglie che perlustrino il buio interstellare… polizia dappertutto, tanto da oscurare le stelle lucenti.

«Millenni or sono, il governo ha cominciato a criticare le nostre libertà… noi Selvaggi, noi Recalcitranti, noi Indomiti. Ci siamo riuniti tutti su un pianeta tutto per noi, abbiamo conquistato prestigio e potere, abbiamo alzato i nostri schermi, abbiamo vissuto la nostra vita, apparentemente abbiamo guadagnato terreno… e poi abbiamo scoperto che, così facendo, eravamo diventati un bersaglio unico e comodo per la polizia.

«Un secolo fa, siamo stati messi tutti sotto processo. Ben presto, è stato chiaro che la sentenza ci sarebbe stata sfavorevole: nessuna intimità, nessuna ricerca segreta, nessun viaggio nell'iperspazio, nessuna possibilità di risolvere da soli i problemi dell'universo.

«Arrenderci, allora… o morire? Siamo fuggiti.

«Da allora, è cominciata una caccia senza fine. I Segugi del Cielo sono sempre sulle nostre tracce: un pianeta inseguito da pianeti instancabili. Nessun luogo, in tutto il cosmo, è sicuro per noi. Nessun recesso è abbastanza lontano, in tutte le galassie, se non le tempeste dell'iperspazio che non abbiamo dominato… l'uragano della realtà.

«Pensa al mare, come se fosse l'iperspazio, e la sua superficie è l'universo che conosciamo, le sue navi i pianeti, e noi un sottomarino.

«Noi emergiamo vicino a qualche sole solitario, non ancora nascosto da globi artificiali. Allora essi appaiono, e noi dobbiamo immergerci di nuovo. A volte restiamo troppo a lungo, dobbiamo combattere una battaglia prima di svanire nell'oscurità crudele del vuoto. Abbiamo fatto esplodere tre soli, semplicemente come diversivi! Quelle novae si trovano in remote galassie. Forse abbiamo ucciso un pianeta: non ne siamo sicuri.

«A volte i nostri gelidi inseguitori stabiliscono una tregua, e ci supplicano per qualche tempo, e ci fanno delle offerte, prima di dirigere contro di noi le loro bombe e i loro raggi portatori di morte… sperando di farci vedere la luce della loro ragione, che splende sempre sopra il cortile della prigione cosmica.

«A volte i nostri gelidi inseguitori stabiliscono una tregua, e ci supplicano per qualche tempo, e ci fanno delle offerte, prima di dirigere contro di noi le loro bombe e i loro raggi portatori di morte… sperando di farci vedere la luce della loro ragione, che splende sempre sopra il cortile della prigione cosmica.

«Per due volte abbiamo rischiato tutto per scoprire un altro cosmo… ci siamo liberati da ogni ormeggio, nell'iperspazio, e abbiamo navigato alla cieca. Ma qualche mutamento dei venti dell'iperspazio ci ha respinto sempre in questo stesso universo… una foresta incantata di spine intorno a un castello, o una galleria che termina, per qualche oscuro trucco dello spazio, nella stessa cella dalla quale abbiamo iniziato a scavare.

«Noi siamo il Pianeta Vanderdecken del Cosmo, e giostriamo come cavalieri antichi intorno all'universo… ma lungo la strana curva dell'iperspazio, viene sempre, dietro di noi, quell'inseguimento freddo e instancabile.

«Cerchiamo di mantenere intatta la nostra morale, Paul, ma essa si allenta. Non avevamo necessità di fare del male al tuo pianeta, Paul!… almeno lo credo, non posso esserne certa… io sono soltanto una servitrice, sul Vagabondo. Ma pur non essendone certa, ti dirò una cosa: io spero che, prima di fare del male a un'altra creatura, noi possiamo piombare per sempre nella nera tempesta. Dicono che la terza volta si annega… Che possa essere così!»

La sua voce cambiò, e Tigerishka esclamò, d'un tratto:

«Oh, Paul, noi portiamo in tutto l'universo questi bellissimi sogni, eppure riusciamo soltanto a fare del male agli altri. Ti stupisci se, mano a mano, ci innamoriamo sempre più della morte?»

Tigerishka s'interruppe. Dopo qualche minuto, la sua voce, neutra ma tesa, come se lo sfogo fosse finito, e lei si fosse nuovamente rinchiusa in se stessa, disse:

«Ecco, ora ho detto tutto alla scimmia. La scimmia può sentirsi superiore al gatto, se vuole.»

Lentamente, sommessamente, Paul fece un profondo sospiro. Il cuore gli batteva forte. In qualsiasi altro momento avrebbe potuto mettere in dubbio la storia di Tigerishka, e la sua comprensione di quella storia, ma ora era semplicemente davanti ai suoi occhi, perfetta come lei l'aveva detta, come se le stelle che brulicavano alle sue spalle la portassero scolpita… una scrittura di diamanti, che diceva soltanto quello che aveva detto Tigerishka.

Quel fantastico castello sospeso sul più immane degli abissi era così simile a un luogo di sogno, così simile a ciò che veniva chiamato con leggerezza «l'occhio della mente», che Paul per un momento ebbe il dubbio di non trovarsi realmente là, fisicamente, ma di sognare, e nello stesso tempo sentì di essere sospeso nel cuore dell'infinito cosmo stellato; per una volta, immaginazione e realtà erano strettamente abbracciate.

Voltando le spalle alla grande finestra tiepida, con uno sforzo minore di un sospiro, egli guardò dall'alto la fantastica figura che si trovava accanto a lui, e che appariva più che mai una donna umana snella e graziosa, abbigliata per partecipare a un fantastico balletto felino. Le gambe erano allungate, le zampe anteriori… le mani… erano intrecciate sotto il mento, e così la testa era sollevata, ed egli vide il profilo del naso felino, la fronte alta e gli occhi che parevano nuove stelle. La coda si sollevava arcuata dietro di lei, e si contraeva, un lento ritmo alla luce delle stelle. Aveva l'aspetto di una giovane, snella sfinge nera.

«Tigerishka,» le disse, in tono sommesso. «C'era una volta una scimmia dai capelli lunghi, che visse affamata e morì giovane. Si chiamava Franz Schubert. Scrisse centinaia di canzoni scimmiesche… ballate di scimpanzé e lamenti di gorilla. Una di esse si adattava alle parole scritte da una scimmia dimenticata, che si chiamava Schmidt von Lubek. Ora mi sembra che quella canzone scimmiesca sia stata scritta per te, e per il tuo popolo. Per lo meno, prende il nome dal tuo pianeta… Der Wanderer… il Vagabondo. La canterò per te…»

Cominciò a intonare, «Ich komme von Gebirge her…»

«No,» disse, interrompendosi. «No, cercherò di tradurla nella mia lingua, e cambierò un poco alcune delle immagini, per renderle più appropriate, lasciando immutati i sentimenti e le parole chiave.»

Le parole e le frasi che desiderava gli vennero alla mente senza sforzo, e una nuova traduzione di quei versi dimenticati nacque nelle profondità dello spazio.

Udì un sommesso miagolio lamentoso, modulato superbamente, a più voci, e capì che Tigerishka stava prendendo l'accompagnamento del piano dalla sua mente, e lo riproduceva con la sua voce, un suono più triste e solitario di quello che il piano potesse ottenere.

Allora cominciò a cantare:

«Giungo qui, solitario, dalle stelle

La strada è incerta, piangono gli abissi

Non ho una mèta, è rara l'allegria

Ovunque io chiedo, 'Qual è la via?'

Lo spazio è oscuro, i soli sono freddi,

I fiori pallidi, e la vita è antica.

Le parole sono soltanto rumore…

In ogni luogo io sono uno straniero,

E tu dove sei, mondo tutto per me?

Sognato e cercato per tanto tempo, e mai conosciuto;

Il cosmo, verde come la speranza,

Colle di fiori audaci che salgono alle stelle;

Mondo dove i miei amici possano camminare,

I miei morti rivivere, non più bianchi come calce,

L'universo che parla le mie parole…

Dove sei?

Non ho una mèta, è rara l'allegria,

Ovunque io chiedo, 'Qual è la via?'

Il fantasma di una risposta viene dallo spazio:

'Là dove tu non sei… quello è il tuo posto'.»

Quando l'ultimo verso venne cantato, e Tigerishka ebbe sussurrato l'accompagnamento fino alla fine, lei sospirò, e disse, dolcemente:

«Siamo noi, è vero. Deve avere avuto un poco di gatto in lui, quella scimmia Schubert… e quella scimmia Schmidt, anche. Anche in te c'è un poco di gatto, Paul…»

Lui guardò per un momento la figura snella, incorniciata dalle stelle, che stava accanto a lui, e poi allungò una mano che anch'essa era incorniciata di stelle, e la posò sulla sua spalla. Non avvertì alcun irrigidimento, nessuna collera, sotto il pelo tiepido, asciutto, corto e morbido. Dopo un momento, benché non si trattasse di un'idea prestabilita… forse era quel pelo morbido a guidare le sue dita… cominciò a grattare dolcemente il margine curvo tra la spalla e il collo, esattamente come avrebbe potuto fare con Miao.

Per qualche tempo lei non si mosse, benché gli sembrasse che, sotto il pelo, i muscoli si rilassassero. Poi si udì un mormorio sommesso, come di fusa appena bisbligiate… ai limiti del suono… e Tigerishka protese la testa verso la mano di Paul, in modo che l'orecchio accarezzasse il polso dell'uomo. Spostò quelle carezze verso la nuca, e lei sollevò il capo, muovendolo da una parte e dall'altra mentre le fusa si facevano più profonde. Poi lei girò il corpo, un quarto di giro soltanto, e per un istante Paul pensò che volesse dirgli di smettere, ma scoprì rapidamente che lei voleva essere accarezzata anche sotto il mento. E poi sentì un dito di seta premergli la nuca, e scendere sofficemente lungo il suo corpo, e si accorse che era la punta della coda di Tigerishka che lo accarezzava.

«Tigerishka?» mormorò.

«Sì, Paul…» rispose lei, debolmente. Appoggiando i gomiti e le ginocchia alla calda trasparenza che lo sosteneva, Paul si avvicinò a lei, e le sue braccia si chiusero intorno alla schiena snella e soffice, mentre la punta della coda continuava ad accarezzarlo; e nello stesso tempo egli sentì le zampe soffici di Tigerishka posarsi sulla sua schiena, con in cima soltanto un fantasma di artigli. Sentì Miao miagolare lamentosamente. «È gelosa…» alitò Tigerishka, con l'ombra di una risata nella voce, quando appoggiò la guancia a quella di Paul, e lui sentì la lingua sottile e ruvida toccargli lievemente l'oreccchio, e scendere carezzevole lungo la nuca.

Fino a quel momento lui aveva fatto tutto molto gravemente, come se ogni gesto avesse fatto parte di un rituale, nel quale egli non doveva sbagliare, né doveva eccitarsi, ma ora si sentì sicuro, nel cedere a quella fantastica Venere in Pelliccia felina, e stretto a lei sentì l'eccitazione venire, e le immagini cominciarono a fluire nella sua mente, ed egli si lasciò andare completamente, senza però, stranamente, perdere il controllo. Perché le immagini venivano in uno strano ordine, come quando la sua mente era stata esplorata per la prima volta da Tigerishka, ma adesso venivano con sufficiente lentezza da permettergli di vederle tutte chiaramente, sempre, fino in fondo. Erano immagini di uomini, di donne e di animali. Erano immagini di amore erotico, di stupro e violenza, di tortura e di morte… ma si accorse che perfino le morti e le torture servivano solo a sottolineare l'intensità dei contatti, la squisita violazione di tutti i tabù del corpo, la completezza dell'unione; erano le decorazioni interne per le azioni di due corpi. Queste immagini si alternavano regolarmente con simboli che impregnavano la mente, simboli che parevano elaborati gioielli e smalti disegnati, o figure significative di un caleidoscopio ricco e colorato. Dopo molto tempo, i simboli cominciarono a dominare le immagini; cominciarono a pulsare come grandi tamburi, a rabbrividire e a risonare come immensi cembali; c'era la sensazione dell'universo intorno, dello sfrecciare verso di esso in tutte le direzioni, di espandersi fino a raggiungere la totalità, in una colossale serie di ondate che si accumulavano e diminuivano, ondate che si gonfiavano alzandosi verso le stelle, oltre le stelle, verso le tenebre di velluto.

Dopo molto tempo, egli discese lentamente, galleggiando sull'infinita dolcezza morbida di quel nero letto senza fondo, e apparvero di nuovo le stelle, e Tigerishka si sollevò un poco, sopra di lui, in modo che egli vide, molto debolmente, al chiarore delle stelle, il viola delle sue iridi che erano petali di fiori, e il verde bronzeo delle sue guance, e le sue labbra di fragola socchiuse, incuranti di mostrare i canini candidi e scintillanti; e allora lei cominciò a recitare:

«Povera scimmietta, stanotte stai ancora male.

Le parole acute, timorose ti hanno dato la febbre?

È venuto un leone in sogno a darti tanta paura?

Ed è stato il serpente Terrore a scivolare dal silenzio?

Tossisci, gemi, sento battere i tuoi piccoli denti.

Quali sono le parole che mormori mentre soffri?

Guerra, tortura, colpa, vendetta, crimine, delitto, odio?

Ti accarezzo la fronte, povera scimmietta… hai paura.

Bestie molto più sagge, sotto stelle più antiche

Hanno sofferto il tuo male, e visto le speranze negate.

Cercando Dio, combattendo il Destino, picchiando sulle sbarre,

E come te, scimmietta, un giorno sono morte,

Il ramo ondeggia nel vento, la notte è profonda.

Guarda le stelle, povera scimmietta, e dormi.»

«Tigerishka,» domandò Paul, preso da una curiosità sonnolenta. «Ho cominciato a scrivere quel sonetto anni fa, ma sono riuscito a terminare solo tre versi. Sei stata tu…»

«No,» disse lei, dolcemente. «L'hai finito da solo. L'ho trovato là, giaceva nell'oscurità dietro ai tuoi occhi, gettato là in un angolo. Riposa ora, Paul. Riposa…»

CAPITOLO XXXVII

Quando gli studiosi di dischi volanti raggiunsero l'incrocio, il problema della strada da prendere venne risolto dalle circostanze, senza che Hunter dovesse sforzarsi. Lo svincolo per Mulholland era bloccato da tre lunghe, lussuose automobili, semisepolte dal fango. I loro occupanti erano usciti, ed erano radunati in un gruppetto, probabilmente per discutere sulla direzione da prendere sulla Collinare di Santa Monica. Benché infangati come le loro auto, avevano l'aspetto di individui di lusso… probabilmente, milionari di Malibu.

Così, per raggiungere Mulholland ci sarebbe voluto del tempo, e Hunter aveva il presentimento che il tempo fosse molto scarso, per la sua piccola carovana di due veicoli, perché l'inseguimento dalla Valle e dalla Statale 101, dopo essere rimasto distanziato per qualche tempo, in un minaccioso fragore di spari e di clacson, ora si stava avvicinando.

La Collinare di Santa Monica, in quel punto, attraversava in linea retta tre quarti di miglio, sulle montagne centrali, annerite dagli incendi, delle alture di Santa Monica. La Corvette e il camion avevano coperto meno della metà della dirittura, quando due automobili sportive, cariche di occupanti, apparvero sull'ultima curva, seguite da altri veicoli. Hunter fece rallentare la Corvette, e fece segno al camion di procedere. Hixon ricordò le istruzioni, e gli passò accanto, a tutto gas. Hunter ebbe una fuggevole visione dei volti degli uomini sul retro: Fulby, Pop, Doddsy e Wojtowicz… e McHeath, vigile al suo posto di guardia, con l'unico fucile rimasto alla compagnia.

Le donne che erano sull'auto, insieme a Hunter, erano silenziose e nervose. Ann si stringeva al braccio della madre.

Poi egli ebbe un'altra fuggevole visione di facce, questa volta appartenenti alla gente di Malibu che era in piedi accanto all'auto di lusso, facce che avevano un'espressione sorpresa e addolorata, come se avessero voluto dire, «Ma che maniere, passarci davanti, a tutta velocità, senza neppure un cenno di saluto… e in questi momenti catastrofici, quando l'unione è d'obbligo!»

Hunter non augurò loro nulla di male, esattamente, ma sperò che essi distraessero e ritardassero un poco i pazzi teen-agers che li inseguivano dalla Valle. Quando udì uno stridere di freni, dietro di loro, e poi il rumore di uno sparo, fece una smorfia, che per metà era soddisfatta, per metà colpevole.

Il camion di Hixon stava scomparendo dietro la prima di una serie di curve a gomito che salivano verso una delle vette, una lunga serie di tornanti che Hunter ricordava dal viaggio del giorno prima. Corrugò la fronte, e andò avanti, con il sole verdognolo al tramonto davanti a lui, e cominciò a cercare una certa configurazione della strada che ricordava dal giorno prima.

La trovò alla seconda curva: un grappolo di enormi macigni, all'interno della curva a gomito. Frenò bruscamente, subito dopo le rocce, e scese a terra.

«La pistola a momentum!» domandò a Margo; la ottenne, e si arrampicò sul pendio ripido, annerito dal fuoco e pervaso da un odore acre, fino a quando non fu dietro i massi. Puntò la pistola contro di essi, e premette il pulsante. Per i primi due secondi, temette che i massi non sì muovessero, e che l'ultima parte della carica fosse sprecata per nulla, ma poi essi cominciarono a rotolare, cozzando rumorosamente tra loro, scesero rugghiando il pendio, e si abbatterono rovinosamente sull'asfaltoide.

Hunter scese di corsa, e guardò, attraverso la nube di polvere che si era sollevata, cercando di stabilire se fosse necessario un altro colpo, ma i massi bloccavano la strada alla perfezione.

Dall'alto venne un debole suono di applausi, e Hunter, voltandosi, vide il camion muoversi sulla strada, due tornanti più in alto. Ritornò di corsa all'automobile. Prima di restituire la pistola grigia a Margo, controllò la colonnina violetta, e vide che era rimasta ancora una piccola parte della sconosciuta energia. L'auto partì, ed egli sentì il rumore di una brusca frenata alle loro spalle, e uno scoppio di voci irate.

Ann disse:

«Ora quelle persone non potranno più usare la strada, vero?»

«Nessuno potrà usarla, cara,» le disse Rama Joan.

«O almeno lo speriamo,» disse Margo, con una punta d'ironia, dal retro. «È stato un buon lavoro, Ross?»

«Una muraglia impenetrabile,» le rispose lui, seccamente. «Ci vorrebbe una squadra di operai, e un argano, per smuovere alcune di quelle rocce.»

Ann insisté:

«Io volevo dire le brave persone che abbiamo sorpassato, quelli in piedi vicino alle loro macchine.»

«Loro avevano la loro strada, quella dalla quale sono venute,» le disse freddamente Hunter. «Hanno avuto la possibilità di far marcia indietro, e di usarla per andarsene. Se non l'hanno fatto, be', tutto sommato erano dei ricchi perdigiorno e degli stupidi.»

Ann si scostò un poco da lui, avvicinandosi alla madre. Hunter imprecò mentalmente contro se stesso, per avere mostrato simili sentimenti a una bambina. Doc non era stato così.

«Il professor Hunter ha fatto una cosa perfettamente giusta, Ann.» intervenne Wanda, con compiaciuta sicurezza, dal sedile posteriore. «Un uomo deve sempre pensare, per prima cosa, alle donne che sono con lui, e alla loro sicurezza.»

Rama Joan disse sommessamente ad Ann:

«Gli dei hanno sempre avuto dei problemi, sul modo di usare le loro armi magiche, cara. Questo ricorre in tutte le leggende.»

Hunter, con gli occhi fissi sulla strada che si snodava come un pericoloso serpente, avrebbe voluto dire a entrambe di fare silenzio, ma riuscì a tacere.

Passarono venti minuti almeno, prima che essi raggiungessero il camion. Hixon si era fermato all'imboccatura di un'altra strada laterale.

«C'è scritto 'Per Vandenberg',» annunciò, indicando un cartello, quando la Corvette si fermò accanto al camion. «Immagino che sia la strada diretta e più rapida per Vandenberg, attraverso le colline. Poiché immagino che sia quella la nostra destinazione, per trovare quell'Opperly e tutto il resto, credo che dovremmo andare di là. Ci risparmieremmo miglia e miglia di autostrada lungo la costa.»

Hunter guardò la strada laterale, che pareva in perfette condizioni, almeno per i primi metri… costruita di asfaltoide resistente, come quello della Collinare. Rifletté per qualche secondo.

Durante la pausa, un brontolio profondo, sommesso come un sospiro, passò in alto, proveniente da sud-est. Nessuno degli studiosi dei dischi volanti possedeva il vocabolario capace di tradurre quel suono nella sparizione, tre ore e mezzo prima, dell'Istmo di Rivas, di Don Guillermo Walker, e di José e Miguel Araiza.

Hunter scosse il capo e disse, a voce alta:

«No, continueremo per la Collinare. Abbiamo fatto questa strada ieri, e sappiamo che è in buone condizioni… non ci sono frane, né crolli, né altri pericoli. Una nuova strada è sempre un'incognita.»

«Sì?» fu il commento di Hixon. «Vedo che hai finalmente accettato il mio consiglio, usando la pistola gravitazionale per bloccare la strada a quei pazzi.»

«Sì, infatti,» fu l'unica risposta che Hunter riuscì a pensare, e non la pronunciò in tono benevolo.

«E poi c'è la marea, come mi ha ricordato Doddsy,» continuò Hixon. «Lungo l'Autostrada Costiera, dovremmo preoccuparci anche di quella.»

«Se arriveremo prima del tramonto, non ci saranno pericoli. La bassa marea è alle cinque,» gli disse Hunter. «Cioè, se le maree seguono il vecchio schema anche adesso… come abbiamo visto ieri.»

«Già… 'se',» disse Hixon.

«In qualsiasì punto della costa, quando la raggiungeremo, dovremo affrontare la marea,» lo rimbeccò Hunter. Aveva i nervi tesi. «Andiamo, allora,» ordinò. «Da qui andrò io in testa.»

Sedette al volante, e si avviò lungo la Collinare. Dopo qualche tempo Margo disse, in tono rassicurante:

«Hixon ti sta seguendo.»

«E gli conviene, accidenti a lui!» sibilò Hunter.

Da quaranta ore il Vagabondo sollevava maree sempre più alte, non solo nella crosta e nei mari della Terra, ma anche nell'atmosfera… una marea quattro volte maggiore di quella quotidianamente causata dal calore dell'atmosfera, riscaldata dai raggi solari. E inoltre, i vulcani e l'evaporazione dalle regioni invase dal flusso di marea enormemente ingigantito avevano dato un contributo senza precedenti alla formazione di condizioni atmosferiche eccezionali. Vortici immani si stavano formando nell'aria perturbata. Cicloni, uragani e tempeste si stavano formando. Nei Caraibi, sulle Celebes, e nel mare della Cina, e in una dozzina di altri punti nevralgici, il vento si stava alzando, come mai si era alzato sulla Terra prima di quel giorno.

La Principe Carlo stava audacemente navigando, spinta dai motori atomici, a sud-est del porto di Caienna. Nera sagoma che si stagliava sullo sfondo di un selvaggio tramonto, il Capo d'Orange annunciava al grande transatlantico il passaggio della foce del fiume Oyapock, e l'avvicinarsi della foce del Rio delle Amazzoni. Il capitano Sithwise mandò nuovi messaggi ai quattro comandanti ribelli, implorandoli di fare rotta per l'Atlantico del Sud, lontano da qualsiasi costa. Il messaggio venne accolto con risate di scherno.

In una delle regioni non ancora turbate dai venti causati dal Vagabondo, Wolf Loner cercava nella grigia cortina di nuvole e nebbia la sagoma di Capo Ann, o almeno lo scintillio del faro nella Rada di Boston. Sapeva che ormai la fine del viaggio era vicina, ma aveva notato nelle acque gonfie galleggiare relitti e strani rifiuti, e non aveva calcolato di essere così vicino a Boston. Comunque, non c'era altro da fare, se non tenere spiegate le vele e navigare.

Barbara Katz prese il piccolo telescopio, e salì sul tetto della Rolls in panne per esplorare le basse cime della foresta di rizoforee che si stendeva su entrambi i lati della strada stretta e fangosa e coperta di ogni sorta di detriti lasciati dal riflusso. Era rimasto solo il chiarore soffuso del crepuscolo, a illuminare la scena, il sole era già tramontato, e quel chiarore si rifletteva sulle nubi che si muovevano rapidamente in una grande processione, spinte da un freddo vento di sud-est. Il tempo era cambiato totalmente, negli ultimi venti minuti.

Hester sporse il viso dal finestrino, e mormorò: «La smetta di picchiare lassù, signorina Barbara. Il signor K è esausto, e quel po' di energia che gli rimane non dev'essere disturbata.»

Helen era inginocchiata, e porgeva gli attrezzi a Benjy, disteso sotto la macchina; Benjy stava cercando di liberare l'interno della ruota sinistra da un groviglio di pesante filo metallico che l'auto aveva raccolto chissà come, e aveva continuato ad arrotolarsi intorno alla ruota, rotolo su rotolo, come un bizzarro gomitolo, e che egli aveva notato solo quando era stato troppo tardi.

Benjy strisciò fuori della sua scomoda posizione, e sedette a terra, accanto a Helen, e dopo avere respirato affannosamente, riposando per un momento, scosse il capo e disse:

«Temo di non riuscire a liberare la ruota. Non ho le cesoie adatte, e quel filo è troppo solido. Deve essersi avvolto per duecento volte.»

Secondo Barbara, intenta a esplorare intorno, dal tetto della macchina, e occupatissima a muoversi il meno possibile per non disturbare il vecchio KKK, il prodigio era che Benjy fosse riuscito a rimettere in moto la macchina, dopo che essa era stata sommersa dalla marea, e che per un'ora avessero potuto avanzare, scivolando, schizzando fango, faticando, in direzione nord, prima che si fosse presentato quel nuovo inconveniente.

Hester si sporse dal finestrino e disse, seccamente:

«Sarà meglio che ci riesci, Benjy. Questa è la regione più bassa che abbiamo incontrato fino a questo momento, e quegli alberelli nodosi non servono a niente, vedi?»

«Hes, non credo di farcela. Almeno, non in meno di due o tre ore.»

«Ehi!» chiamò Barbara, dall'alto, con voce eccitata. «In fondo alla strada… a meno di un miglio… sì, vedo… sporge dalle cime degli alberi, sì, è un triangolo bianco! Credo che siamo salvi!»

«Ma a cosa può servirci un triangolo bianco, bambina?» domandò Hester.

«Benjy,» chiamò Barbara. «Credi di riuscire a preparare una barella per il signor K… o a trasportarlo a braccia per un miglio?»

«Be',» rispose lui, «Credo che sia l'unica cosa che non ho ancora fatto.»

Bagong Bung era immerso fino al polpaccio nella fanghiglia del fondo, olezzante di pesce, e stava scavando freneticamente con un badile militare dal manico corto. Di quando in quando abbassava il badile, per frugare nel fango e prendere qualcosa ricoperto di fango e di piccole dimensioni, che poi infilava, senza esaminarlo, in una borsa di tela, e poi proseguiva.

Aveva le gambe ricoperte di vesciche prodotte dalle meduse, e la mano sinistra era gonfia, là dove una conchiglia l'aveva punto, ma non prestava alcuna attenzione a questi piccoli danni, pur dedicando qualche istante, a volte, per affondare rabbiosamente il badile nel corpo di qualche verme dall'aria sinistra, o allontanare un granchio verde che si avvicinava troppo.

Stava scavando quasi al centro di una losanga dagli angoli netti, lunga ventuno metri e larga sei, incorniciata a intermittenza da legno annerito e marcio, incrostato di conchiglie e di formazioni coralline. Forse non si trattava della Lobo de Oro, ma certamente aveva l'aspetto del relitto di qualche vascello antichissimo.

A quindici metri di distanza, Cobber-Hume era curvo su un asse di plancia preso dalla Machan Lumpur, e stava furiosamente manovrando una pompa da biclicletta. La pompa era collegata a una scialuppa di salvataggio di colore arancio vivo, che era stata gonfiata già per un quarto. Due piccoli cilindri arancione, gettati da parte, erano del gas che avrebbe dovuto gonfiare la scialuppa senza sforzo, ma che non lo aveva fatto.

Ad altri quindici metri di distanza la Machan Lumpur era distesa sul fianco, e mostrava il fondo arrugginito e drappeggiato d'alghe.

Il sole appena spuntato proiettava lunghe ombre grottesche dai due uomini e dalla piccola nave, sul fondo esposto dal riflusso del Golfo del Tonchino, e illuminava il Vagabondo che stava tramontando a occidente, mostrando la faccia di toro, che Bagong Bung chiamava besar sapi… «la grande vacca».

Nubi stracciate stavano andando a nord, a folle velocità, sospinte da un vento che gemeva intorno alla coricata Tigre del Fango. Una ventata improvvisa colse alla sprovvista Cobber-Hume, ed egli barcollò e scivolò sulla non troppo stabile piattaforma di pompaggio.

Bagong Bung si fermò, con i gomiti sulle ginocchia, e ansimò. Poi gridò «Lekas, lekas!» in tono di rimprovero, rivolgendosi a se stesso, e ricominciò a scavare. La lama urtò l'angolo mangiato dal mare di un oggetto di ferro battuto, che avrebbe potuto essere l'angolo di un forziere, e questo lo spinse a lavorare ancor più intensamente.

Cobber-Hume gli gridò:

«Sarà meglio che tu smetta di cercare il tesoro nel fango, sobat, e che prenda un po' di cibo e d'acqua fresca lekas dalla Machan, o che mi dia una mano con questa maledetta pompa. Quando verrà la marea, sarà una maledetta cagna, e questo vento la farà venire più in fretta, e allora tutti i lupi d'oro del mondo non potranno aiutarci… e neanche un canguro di platino!»

Ma Bagong Bung riuscì solo a scavare e a scegliere, il grosso australiano a pompare, le nubi correvano sempre più fitte tra la Terra e il sole appena spuntato, e il vento sibilava intorno.

Barbara Katz gridò, più forte dell'ululato del vento: «Eccolo!»

Lo stesso lampeggiare livido che mostrò i rami più alti delle rizoforee agitarsi follemente, sul nero sfondo delle nubi gonfie, rivelò anche il triangolo bianco della prua di una barca a vela, che sporgeva, ad almeno quattro metri di altezza, tra due alberi dai rami quasi intrecciati.

Barbara spostò il pesante thermos nella mano sinistra, e la grossa torcia elettrica nella destra, e l'accese, camminando tra gli alberi verso la prua bianca. La luce mostrò l'ampia curva della chiglia, bloccata tra i rami più bassi di tre alberi.

Benjy posò sulla strada il vecchio KKK, avvolto nella sua coperta.

Hester ed Helen posarono le voluminose borse, e s'inginocchiarono ansiosamente accanto al vecchio.

Benjy si avvicinò a Barbara. Stava ansimando.

«Faccia luce… sullo scafo,» riuscì a dire.

Si aprirono un varco nel sottobosco, muovendo il raggio della torcia sullo scafo, prima da un lato, poi dall'altro. Barbara riuscì a distinguere il nome del battello: Albatros.

«Sembra che non ci siano falle,» disse Benjy, dopo qualche minuto di osservazione, parlando molto vicino all'orecchio di Barbara, per dominare l'ululato del vento. «Direi che l'albero sia stato tagliato netto, però, altrimenti l'avremmo visto. Credo che sia stato portato qui dalla marea. Forse è troppo stretto da quei rami, ma credo che possa disincagliarsi. Posso arrampicarmi sui rami, e portare con me questa, per farvi salire tutti.» Toccò il rotolo di corda che aveva avvolto intorno al petto.

Il vento diminuì un poco, e Benjy si mise le mani intorno alla bocca, a imbuto, e urlò:

«Ehi! C'è nessuno a bordo?»

La pausa di quiete nel vento durò per altri due secondi, poi, quando l'ululato tornò a farsi più forte che mai, Benjy disse:

«Mi è parso di sentire un lamento, lassù. Diverso da quello del vento.»

«Anch'io l'ho sentito,» replicò Barbara, battendo i denti… soprattutto per il freddo, volle convincersi. Diresse il raggio della torcia in alto. «Oh, mio Dio!»

Nel centro del raggio di luce sporgeva, sul fianco del battello, un visino furioso, con la bocca spalancata.

«È un bambino!» esclamò Benjy.

«Tienti pronto a prenderlo, Benjy,» disse Barbara.

«È un bambino!» esclamò Helen, che era arrivata alle loro spalle. Agitò la mano verso il visino piangente. «Resta lassù adesso, bambino! Non cadere. Arriviamo!»

Sally Harris e Jake Lesher indietreggiarono, quando la colonna d'aria mossa dalle grandi eliche li raggiunse, agitando i loro vestiti e costringendoli a socchiudere gli occhi, e agitando tutt'intorno la fiamma a carbonella che avevano acceso nella casseruola dell'arrosto, come segnale di S.O.S.

Era buio, ma l'aria era limpida, il cielo sereno, e i raggi di porpora e oro del Vagabondo che era spuntato mostrando la sua faccia di dinosauro scintillavano sulle piccole onde scure che lambivano quasi il pavimento dell'attico, e di quando in quando lo raggiungevano, coprendolo di un sottile velo di schiuma, ma il vento delle eliche respingeva la schiuma.

L'enorme elicottero nascondeva il cielo grigio, sopra le loro teste, e le eliche tracciavano circoli oscuri in esso.

Un bianca scaletta di corda scese ballonzolando verso di loro, e insieme a essa una voce potente, che annunciò:

«Ho posto solo per un altro!»

Jake afferrò la scaletta con una mano, e cercò Sally con l'altra, ma le fiamme li dividevano, e quando lei si avvicinò, urtò la casseruola, e il combustibile rovente sibilò sull'acqua e fiammeggiò, creando una tenda di nebbia e di luce che ricacciò indietro la ragazza. Un attimo dopo il fuoco si era spento, ma la scaletta stava già portando via Jake. Jake si voltò, afferrò il gradino più basso con entrambe le mani, e si calò giù. Toccò col piede il pavimento dell'attico, scivolò sul fondo viscido, e un attimo dopo, staccando le mani dalla scaletta, andò a finire contro la balaustra, e le piccole onde bianche lo coprirono di spuma.

L'elicottero si abbassò. Le onde si ritirarono dal vento delle eliche, che quasi le toccavano. La scaletta cadde dall'elicottero, e galleggiò sull'acqua increspata, come lo scheletro di un gigantesco millepiedi. L'elicottero prese quota e si allontanò verso nord, senza dire un'altra parola.

Jake si alzò in piedi, faticosamente, e seguì con lo sguardo le piccole luci di posizione che si allontanavano nel buio.

Sally si avvicinò, si fermò alle sue spalle.

«Perché hai lasciato andare la scaletta, Jake?»

«Avevo paura di rompermi le gambe, battendo contro la balaustra,» le disse, chiaramente disgustato di se stesso. «Non ho potuto dominarmi.»

Sally lo abbracciò.

CAPITOLO XVIII

Mentre la Corvette scendeva per il pendio della penultima altura, prima dell'Autostrada Costiera, con Hunter al volante, il sole di smeraldo che tramontava sull'orizzonte acqueo era ancora luminoso a sufficienza per mostrare ciò che, apparentemente, era un miglio di nuova spiaggia, che si stendeva oltre quella vecchia, fino ai limiti di un mare placido. Hunter si voltò, e sorrise, senza lasciarsi turbare dall'aspetto spettrale dei volti rischiarati dalla luce verdognola. Ebbe un impulso infantile, desiderò di gridare a Hixon, che lo seguiva col camion a pochi metri, «Che cosa ti avevo detto? Bassa marea, o quasi!… ci ho preso in pieno!»

«Guarda, mammina,» disse Ann, «C'è una vite che cresce in mezzo alla strada!»

Non poteva trattarsi di una vite, Hunter lo sapeva bene, ma doveva essere qualche relitto vegetale, forse un ramo abbattuto e portato là dall'uragano del giorno prima. Si udì un sordo scoppiettio sotto le gomme, quando l'auto passò sulla massa verdeggiante. L'auto slittò un poco, e Hunter sterzò e rallentò. Lo fece quasi automaticamente, perché la sua attenzione, come quella degli altri, era quasi completamente assorbita dalla visione di quanto il mare si era ritirato. Adesso che erano più vicini, la prima valutazione… un miglio… pareva un grossolano errore per difetto. Dapprima fu sorpreso, poi affascinato, poi totalmente pervaso da una specie di sacro timore.

Scendendo verso la costa, il sole tramontava più velocemente. La luce verde si fece più cupa. Benché l'oceano fosse così incredibilmente lontano, l'odore salmastro era fortissimo, intorno. Non c'era vento, e a eccezione del ronzio dei due motori il paesaggio pareva schiacciato da una gran cappa di silenzio. Notò che nessuna automobile passava sulla Costiera… e soltanto allora si rese conto che la parte più stupida della sua mente non aveva perso la speranza di vederne.

Iniziarono l'ultima discesa. Ancora una volta l'automobile slittò un poco, e Hunter rallentò la velocità.

«Non ricordavo quella casa diroccata,» disse Rama Joan, pensierosa.

«E io non ricordo affatto la vecchia barca che vedo su quel campo,» chiamò Margo, da dietro.

Si udì un improvviso gracchiare.

«Guardate quegli uccelli bianchi, appollaiati sul pendio,» osservò con voce stridula Wanda. «Be'… sarei disposta a giurare che sono gabbiani.»

«Ecco un'altra vite,» li informò Ann. «No, due. Oh, e c'è un pesce.»

A quella parola, una morsa di orrore afferrò Hunter, e la scena intorno a lui acquistò le livide colorazioni di un incubo, benché per un attimo egli non riuscisse a comprenderne il motivo… c'era qualcosa di atrocemente ovvio e palese, che la sua mente rifiutava di vedere. Hixon stava suonando il clacson, dietro di lui. Quell'idiota voleva sorpassarlo? Una… due… tre… quattro volte. Quattro colpi di clacson volevano dire qualcosa, ma lui non riusciva a ricordare cosa, perché adesso capiva che quel senso di orrore era l'illusione di viaggiare sotto il mare… il silenzio, la fosca luce verde, la strada scura che cambiava, a impercettibili passi, trasformandosi in un pendio liscio di fanghiglia marina, il fetore di pesce («…e un pesce!»), le grandi masse d'alghe, non viti!…, che scoppiettavano sordamente sotto le gomme…

Quattro vuol dire 'fermarsi'! ecco cosa aveva detto Doc. Istantaneamente, ma con un bizzarro senso d'impaccio, Hunter frenò. Dapprima l'auto non rallentò neppure. Poi si fermò, gradualmente, scivolando e deviando malgrado le sue continue sterzate… si fermò perché le gomme stavano sollevando del sedimento, da un rivestimento liscio, che copriva per due o tre centimetri la strada.

Guardò la strada dalla quale erano venuti, semplicemente perché l'auto era adesso ferma quasi diagonalmente, sulla strada, e vide il camion, verde negli ultimi bagliori del crepuscolo, fermo, perfettamente in linea, quindici metri più indietro. Le sue mani tremavano sul volante, e il cuore batteva precipitosamente.

Fu Rama Joan a tradurre l'orribilmente ovvio in parole. Disse, in tono incredibilmente disinvolto:

«Dobbiamo aver passato il limite dell'alta marea già da un quarto di miglio.»

Era questo che gli faceva contrarre i muscoli e battere il cuore, Hunter lo capì d'un tratto… e, nel capirlo, il suo corpo cominciò a quietarsi… semplicemente, il pensiero che l'acqua salata era stata dappertutto, là, e alta tre o quattro metri, solo sei ore prima, lasciandosi dietro la sua vita marina e il suo sedimento marino e i suoi rifiuti, quell'acqua salata che sarebbe ritornata tra sei ore… l'idea stessa delle maree di pochi metri, che ora scendevano, al momento della bassa marea, sotto lo zoccolo continentale, e ritornavano gonfie, in un flusso che copriva le pendici delle montagne.

Le donne stavano accettando quell'idea con una calma incomprensibile, pensò. Sarebbe stato molto, molto più naturale se avessero urlato.

Hixon, Doddsy, Wojtowicz e McHeath erano scesi dal camion, e stavano camminando verso di loro. Camminavano in modo strano… gambe rigide e gomiti in fuori. Ma, naturalmente… la strada ricoperta di fanghiglia doveva essere terribilmente viscida.

Hixon e Doddsy si fermarono accanto a lui, mentre gli altri andarono avanti. L'Omino disse, voltandosi a guardare il mare: «Ma è…» e a questo punto, evidentemente, non riuscì a trovare le parole adatte per descrivere i suoi sentimenti.

L'ultimo spicchio di sole verde scomparve sotto l'acquoso orizzonte, ma tutto il cielo rimase verde… pallido come un'onda trasparente a ponente, nero come una cupa foresta a levante.

Soltanto allora si rese conto che tutti dovevano essere attoniti e storditi quanto lui.

Un paio di minuti più tardi, tutti cominciarono a riscuotersi dalla prima ondata di stupore. Erano scesi quasi tutti dai veicoli, ed erano in piedi, confusi e malfermi, sulla fanghiglia.

Wojtowicz e McHeath ritornarono lentamente indietro. I pantaloni del ragazzo erano coperti di fango, e le scarpe erano due grosse masse di fanghiglia.

«È impossibile passare in auto da quella parte, signor Hunter,» disse il ragazzo, allegramente. «Il fango è profondo quasi un metro, sull'autostrada.»

Wojtowicz annuì, enfaticamente.

«Il ragazzo è andato un po' più avanti di me. Guardatelo!»

«E tutto questo sedimento è stato depositato in sole tre alte maree,» disse l'Omino, scuotendo il capo. «Sorprendente.»

Hunter disse, in tono amaro.

«Non c'è altro da fare… dobbiamo tornare indietro, e prendere l'altra strada, con il cartello che indica Vandenberg.» Guardò Hixon. «Avevi ragione.»

Hixon annuì. Osservò le ruote della Corvette, immerse nella fanghiglia.

«Penso di poterti tirare fuori di là,» disse. «Ho una fune, e dove mi sono fermato il fango è molto più sottile, e quasi secco. La trazione dovrebbe bastare. E ho le catene, se ce ne fosse bisogno.»

«Non voglio fare l'uccello del malaugurio,» disse l'Omino. «Ma quando torneremo indietro, c'è il pericolo d'imbatterci in quei giovani pazzi della Valle.»

Hixon si strinse nelle spalle.

«È uno dei rischi che dobbiamo correre. Non c'è altra strada. Speriamo che il blocco stradale di Ross li trattenga, e che preferiscano dirigersi a Malibu. Vado a prendere la corda.»

Margo disse a Hunter:

«Vandenberg dista soltanto quattro miglia. Non potremmo arrivarci a piedi? Anche col fango, non dovrebbero occorrere più di due o tre ore.»

Hunter le disse, aspramente:

«Cerca di usare il cervello. Tra poche ore, non più di due o tre, tutta la strada costiera sarà sott'acqua. Anche questo punto si troverà a una profondità di quindici metri e più.»

«Oh, sto diventando stupida,» sospirò Margo, stancamente. «Vorrei…» Non disse cosa.

Hunter domandò, in tono un po' risentito.

«Vivere da sola, nella nuova realtà, non è più tanto divertente?»

Margo lo guardò negli occhi.

«No, Ross,» disse. «Non lo è più.»

L'Omino li interruppe:

«E per quanto riguarda l'idea di andare a piedi, dobbiamo ricordare che c'è da trasportare Ray Hanks. Non mi piacciono le sue condizioni, Ross. Gli ho dato tutti i barbiturici che potevo dargli, entro i limiti della prudenza. Si è assopito non appena il camion si è fermato, ma probabilmente si sveglierà non appena ripartiremo. Soffre moltissimo.»

In quel preciso istante, Pop si avvicinò zoppicando.

«Signor Hunter,» annunciò, bellicoso. «Non posso stare sul retro di quel camion neanche un minuto di più. Sono tutto un dolore.»

Hunter stava per dargli una risposta pepata, quando Ida disse:

«Può prendere il mio posto nella cabina. Voi uomini non sapete come si deve curare il signor Hanks, e comunque si tratta di un compito mio.»

Hixon lanciò l'estremità della fune.

«Legala al parafango anteriore,» disse a Hunter. «Credi di farcela?»

«Ci penso io,» disse Wojtowicz, afferrando il capo della corda prima di Hunter.

«Immagino che la Corvette sia a corto di benzina,» disse l'Omino a Hunter.

«Sì, signor Dodd,» chiamò Ann, che era accanto alla madre. «Stavo guardando la lancetta, e il serbatoio è vuoto.»

«Vado a prendere subito una delle latte di riserva,» disse l'Omino.

Hunter annuì. Si sentiva, allo stesso tempo, furibondo e impotente. Tutti si facevano in quattro per lui, parlavano per lui, facevano i suoi lavori. Non gli lasciavano dire una parola. A questo punto, Doc avrebbe trovato qualcosa di spiritoso da dire, ma lui non era Doc. Guardò Margo, che stava fissando il mare lontano, e provò un sordo desiderio.

Sally Harris e Jake Lesher, avvolti in una coperta, per maggiore sicurezza tenevano le braccia intorno al basso colmo del tetto dell'attico. Mezzo metro sotto le gronde, i piccoli frangenti scintillavano, riflettendo i raggi del Vagabondo, che mostrava la faccia ad ago, chiamata alternativamente da Jake la Mano Chiusa… per il Serpente attorcigliato… e la Torta nel Cielo… per l'Uovo Dischiuso.

«E noi che pensavamo di tirarne fuori una commedia,» disse Sally, sommessamente.

«Già,» le fece eco Jake. «Pensavamo proprio questo… di farne uno spettacolo senza precedenti, un supercolosso. Ma stavamo ancora pensando al coperto.»

Sally si guardò intorno, guardò le acque nere e increspate che coprivano Manhattan, e le rare torri basse, solitarie che spuntavano qua e là.

«Ma pensa!… ce ne sono alcune ancora illuminate,» commentò.

«Motori a gas nell'attico,» spiegò Jake. «O forse batterie.»

«Qual è quello di fronte, là?» domandò Sally. «L'Irving Trust, o il Singer Building?»

«E quale differenza fa?»

«Ma io voglio ricordare esattamente… o comunque, saperlo esattamente, se non potrò ricordare.»

«Lascia perdere, Sal. Dimentica queste cose. Ho portato una bottiglia di Napoleon, guarda. Che ne diresti di bere qualcosa?

«Sei molto caro,» gli disse, sfiorandogli la mano fredda con la sua, ancora più fredda. E poi cominciò a cantare, sommessamente, come se avesse temuto di disturbare le piccole onde sempre più alte:

«Oh, io sono la Ragazza della Zattera di Noè,

E tu sei il mio Re in Esilio, qui con me.

Il nostro amore non è grande come scintilla,

O un palpito di stella in una sera tranquilla…

Ma sei rimasto con me, e mi hai trovato da bere,

È molto grande questo nostro amore.»

Richard Hillary e Vera Carlisle erano sdraiati, a poca distanza l'uno dall'altra, su del fieno ancora verde, preso da un piccolo covone che avevano trovato in alto, sulle Malvern Hills. Richard pensò, irrequieto: Ieri notte paglia, questa notte fieno. Paglia, sterile e secca, per la morte. Fieno, acerbo e dolce, per la vita.

Il Vagabondo li guatava torvo da occidente, mostrando di nuovo la gonfia X. Il pianeta stava diventando spaventosamente familiare, come la faccia di un orologio. Tre quarti d'ora prima, Vera aveva detto: «Guarda, è già mezza D passata.»

Non era freddo. C'era una brezza quasi tiepida che spirava da sud-ovest… spettrale, innaturale, sconvolgente.

Sarebbe stato facile pensare che, osservando la gonfia massa della Severn riempire le sue valli e traboccare, come una bianca muraglia tonante scatenata dall'apertura di un ottavo sigillo nel Libro dell'Apocalisse, i sensi non avrebbero potuto resistere, sarebbero stati soffocati e confusi e soggiogati. Ma, come Richard stava scoprendo, i sensi non funzionavano a questo modo. Sperimentare l'inimmaginabile li rendeva soltanto più vivi, più acuti, più aspri.

O forse erano entrambi troppo stanchi, troppo intorpiditi dai veleni della fatica, troppo assonnati.

Vera gli aveva raccontato, prima, la sua storia. Era una dattilografa di Londra, che era stata salvata dal tetto di un palazzo a uffici durante la seconda alta marea, ed era arrivata nella valle della Severn a bordo di una piccola barca a motore, che aveva navigato nell'alta marea mentre Richard aveva camminato tra il fango della bassa marea, solo per naufragare vicino a Deerhust; solo Vera, tra coloro che erano stati a bordo, era sopravvissuta, almeno per quello che ne sapeva.

Poco prima Richard le aveva chiesto di narrargli la sua storia con maggiori particolari, ma lei aveva protestato, dicendo che era troppo stanca. Aveva ascoltato le interminabili scariche di statica nella sua radiolina a transistor per qualche tempo, e Richard aveva detto, «Getta via quell'ordigno.» Lei non lo aveva gettato via, ma lo aveva spento. Ora stava dicendo, sottovoce, «Oh, non riuscirò mai a dormire, mai. Ho la testa che scoppia, e pensa, e pensa…»

Richard si voltò, girò su se stesso, e le posò leggermente il braccio sulla vita, con il volto sopra quello di lei, poi esitò.

«Continua,» disse lei, guardandolo con un sorriso un po' amaro. «O hai delle pillole di sonnifero?»

Richard ci pensò per un momento, poi disse, piuttosto formalmente:

«Anche se le avessi, preferirei sempre, enormemente, te.»

Lei rise.

«Sei così rigido,» gli disse.

Richard l'attirò a sé, e la baciò. Il corpo della ragazza era teso, e non cedeva.

«Vera,» le disse. Poi, stringendola con decisione, «Come vezzeggiativo, ti chiamerò Veronal.»

Lei fece un'altra risatina, rise più di lui che della sua battuta, gli parve, ma il suo corpo si rilassò. Improvvisamente, le sue dita strinsero le spalle di Richard.

«Avanti, provami,» mormorò con voce calda nell'orecchio dell'uomo. «Io sono una medicina forte, fortissima, per dormire.»

Barbara Katz, all'inizio, era stata delusa dell'esiguità dell'unica cabina dell'Albatros, soffitto basso, pareti vicinissime; ma adesso era lieta di quelle dimensioni, perché significava che c'era sempre una superficie a portata di mano per puntellarsi, ogni volta che la barca rollava o beccheggiava più di quanto lei si aspettasse. E il fatto che il tetto lievemente arcuato fosse così basso le dava misteriosamente un senso di sicurezza, ogni volta che un'ondata si abbatteva fragorosamente su di esso.

La cabina era immersa nel buio, se non nei momenti in cui il livido bagliore di un lampo la rischiarava, apparendo nei quattro piccoli oblò, o quando Barbara accendeva la torcia elettrica.

Il vecchio KKK giaceva, legato con una coperta a una delle cuccette, mentre Hester era seduta precariamente accanto al capo del vecchio, cullando tra le braccia lo sconosciuto bambino. Helen era distesa sull'altra cuccetta, si lamentava e vomitava, in preda al mal di mare, mentre Barbara stava ai piedi di quella cuccetta, seduta precariamente come Hester. Di quando in quando, Barbara si abbassava a toccare il fondo, cercandovi l'acqua. Fino a quel momento, nulla di allarmante.

L'Albatros era quasi affondato, prima che la marea riuscisse a sollevarlo dalla stretta gelosa delle rizoforee. Poi c'era mancato poco che esso non venisse capovolto da un albero più alto. Dopo questi incidenti, era stato tutto divertente, fino a quando le onde di tempesta non si erano fatte così alte e minacciose da costringere tutti, a eccezione di Benjy, a rifugiarsi sottocoperta.

Dopo un lungo silenzio… cioè, un lungo periodo nel quale non si era udito nulla, all'infuori del pianto del bambino, del cigolio dei legni, delle onde e del vento che batteva la barca… Barbara domandò:

«Come sta il signor K, Hester?»

«È morto poco fa, signorina Barbara,» rispose l'altra. «Adesso zitto, bambino, hai già avuto il tuo latte in scatola.»

Barbara digerì l'informazione. Dopo qualche tempo, disse:

«Hester, forse dovremmo avvolgerlo in un telo, o qualcosa del genere, e metterlo di là… c'è spazio a sufficienza… in modo che tu possa distenderti su quella cuccetta.»

«No, signorina Barbara,» replicò con sicurezza Hester. «Non vogliamo che il suo fianco si rompa di nuovo, o qualcosa del genere. Adesso è in ottima forma, solo che è morto, e se rimarrà sdraiato non gli succederà nulla. Allora avremo la prova di avere fatto per lui tutto quello che abbiamo potuto.»

Helen si rizzò a sedere di scatto, gridando:

«Oh, Signore, c'è un morto nella cabina! Voglio uscire!»

«Sdraiati, pazza di una negra!» ordinò Hester. «Signorina Barbara, la tenga ferma!»

Non ve ne fu bisogno. Un nuovo attacco di mal di mare costrinse Helen a sdraiarsi.

Poco dopo i sussulti dell'Albatros si fecero meno violenti. Le solide masse d'acqua non si abbattevano più sulla cabina.

«Vado su, a portare un po' di caffè a Benjy,» disse Barbara.

«No, lei non può andare, signorina Barbara.»

«Sì, invece,» rispose Barbara a Hester.

Quando ebbe socchiuso cautamente il piccolo portello, sul fondo della cabina, e si fu affacciata fuori, la prima cosa che vide fu Benjy, acquattato a gambe aperte dietro il piccolo timone. Le nubi si erano aperte, in alto, e attraverso l'esigua breccia il Vagabondo mostrava la sua faccia di toro.

Barbara uscì del tutto. Il vento la colpì con forza, un vento che veniva da poppa, ma non era troppo violento, così lei chiuse il portello e avanzò verso Benjy.

Lui prese il caffè, dalla bottiglietta thermos che Barbara gli aveva portato, e la ringraziò con un cenno del capo.

Si guardò intorno. Il Vagabondo, che era svanito nuovamente tra le nubi, illuminò con i suoi ultimi raggi un deserto di acque scure e gonfie, che parevano profonde, molto profonde. E c'erano delle onde altissime, intorno.

«Credevo che il mare si fosse calmato,» gridò a Benjy, nel vento.

Lui indicò la prua.

«Ho trovato un materasso,» gridò. «E ho legato a esso il capo di una fune, e l'altro capo l'ho legato alla prua di questa barca, tendendolo forte. Tiene ferma la barca, in modo che sostenga meglio le onde e il vento.»

Barbara ricordava il nome di quell'espediente: un'ancora di mare.

«Dove pensi che siamo, Benjy?» gridò.

La risata del negro fu portata via dal vento.

«Non so se siamo nell'Atlantico, o nel Golfo, o chissà dove, signorina Barbara, ma siamo sempre a galla!»

Sally Harris e Jake Lesher si calarono dal tetto dell'attico. Malgrado l'attività fisica, tremavano violentemente di freddo. Al di là della balaustra, le onde stavano scendendo, a un ritmo quasi visibile.

Sally guardò nel soggiorno, alla luce del Vagabondo, che mostrava la faccia con le Fauci, quella che lei chiamava Rin-Tin-Tin.

«È un disastro,» annunciò a Jake. «I mobili sono capovolti. Il piano è a gambe all'aria. Il tappeto è bagnato, e tutte quelle tende nere inzuppate d'acqua danno al posto l'aspetto di un obitorio sconvolto da una tempesta. Avanti, cerchiamo un po' di legna o delle candele, o qualsiasi cosa che possa servire a fare del fuoco. Sto gelando.»

CAPITOLO IXL

Il Vagabondo indossò la sua maschera yin-yang per la nona volta. Da due giorni interi esso tormentava la Terra con fuoco e inondazioni e terremoti e ora con grandi tempeste. Bagong Bung lasciò cadere il badile, raccolse il sacco fangoso, e corse verso la scialuppa arancione, che gli stava passando davanti sorretta da un gradino d'acqua incoronato di spuma. Cobber-Hume lo afferrò per la spalla. I quattro capitani ribelli della Principe Carlo, terrorizzati dai venti di uragano che dilaniavano la notte plumbea da oriente, come diecimila aerei invisibili che ronzassero sopra di loro, e inorriditi dagli altissimi reggimenti onde che marciavano sotto il vento come granatieri neri, fecero virare il grande incrociatore atomico, per salvarsi, in una delle foci del Rio delle Amazzoni. Le onde ricominciarono ad abbattersi sull'Albatros, malgrado l'ancora di mare, ma Barbara Katz non volle discendere in cabina. Un vento gelido cominciò a soffiare a raffiche, spazzando la terrazza dell'attico del signor Hasseltine, increspando le pozzanghere d'acqua salmastra che erano rimaste, e Sally Harris e Jake Lesher si ritirarono nuovamente nel soggiorno fradicio. Nella luce del faro della Pazienza, Wolf Loner vide due cadaveri galleggiare sulle acque, tra i detriti e i rottami sempre più fitti.

Il camion e la Corvette degli studiosi dei dischi volanti, con i fari accesi, avanzarono cautamente lungo la strada di montagna fiancheggiata, a intervalli regolari da cartelli che indicavano la direzione di Vandenberg Due. Erano già due volte che i passeggeri del camion avevano dovuto scendere, per aprire un varco nelle frane di sassi e pietrisco, non abbastanza grandi da richiedere l'uso dell'ultima carica rimasta nella pistola a momentum. Da un attimo all'altro, praticamente, una nuova frana poteva apparire nel fascio luminoso dei fari della Corvette. Si udiva il monotono clangore delle catene delle ruote posteriori del camion.

La brezza di levante che veniva dalle montagne, dietro di loro, era tiepida… fortunatamente, per individui esausti dalla fatica ed esposti all'aria, tranne Hixon e Pop che erano al riparo della cabina del camion.

A parte quello dei motori e delle ruote, l'unico suono era un ruggito lontano, debole, ritmico e sibilante, che veniva da un punto davanti a loro.

Il Vagabondo era spuntato due ore dopo il tramonto, e ora galleggiava sulle montagne orientali, nel cielo grigio e limpido; e la sua calda luce di vino e d'oro creava l'illusione che esso fosse l'origine dell'amichevole brezza. Non era più perfettamente sferico, però, ma lievemente gibboso, come la luna due giorni dopo il plenilunio. Una stretta falce nera tagliava il bordo della metà purpurea dello yin-yang, mentre imitando i movimenti della luna che aveva distrutto, il pianeta si muoveva verso oriente, intorno alla Terra, o, piuttosto, intorno a un punto tra i due pianeti. Sciolto e disarmonico intorno all'equatore del pianeta, come una sciarpa fragile spruzzata di diamanti, l'anello di frammenti lunari scintillava e riluceva.

Ora la strada saliva dolcemente verso un'ampia sella naturale, i cui fianchi s'innalzavano in lisci pendii coperti di terriccio per culminare in piatte e basse creste rocciose. La Corvette raggiunse la sommità della sella, girò a destra, e si fermò, lanciando quattro rapidi colpi di clacson, e spegnendo le luci. Il camion si affiancò a essa, sulla sinistra, e fece lo stesso.

Quasi tutti i componenti del gruppo avevano avuto, in un momento della loro vita, l'esperienza di guardare dall'alto una distesa di nebbia, o un basso strato di nuvole, dalla cima di una montagna o da un aeroplano, vedendo le cime delle colline e dei monti sollevarsi tra le dense volute, e meravigliandosi per l'aspetto piatto e solido, e per l'estensione, dell'eterea pianura… un autentico oceano di nubi. Ora le stesse persone ebbero, per un momento, o due, o tre, l'illusione di assistere allo stesso spettacolo, nella luce del Vagabondo.

Questo illusorio oceano notturno di nubi cominciava a meno di cinquanta metri dal punto in cui si trovavano, e a non più di una dozzina di metri più in basso, e si stendeva fino all'orizzonte occidentale, seguendo da vicino, su entrambi i lati, i contorni delle colline. C'era soltanto un'isola, bassa e piatta, ma così grande da stendersi oltre il campo visivo, dietro le nere pendici delle alture, a nord. Su quest'isola brillavano e ammiccavano disordinatamente delle luci rosse e bianche, e la luce del Vagabondo rivelava due grappoli di edifici bassi, dalle pareti e dai tetti pallidi. E in quei primi momenti di visione si udì un remoto ronzìo, e una piccola coppia di luci, rosse e verdi, scese dal sud, un piccolo aeroplano che scendeva sull'isola. Uno stretto, di almeno quattrocento metri, separava l'isola dalla terraferma.

Poi l'illusione svanì e, uno per uno, gli studiosi dei dischi volanti capirono che non era un oceano di nubi quello che si stendeva fino all'orizzonte, ma l'oceano vero, l'oceano salato, non nebbia, vapore acqueo impalpabile, ma un mare di acqua solida, con le onde che si frangevano ritmicamente sulle pendici della collina, e sulla strada in discesa, cinquanta metri più avanti; che l'isola era Vandenberg Due; e che lo stretto copriva, tra le altre cose, l'Autostrada Costiera del Pacifico, dove descriveva una curva verso l'interno della base dell'Astronautica, la casa del Progetto Luna… di Morton Opperly e del maggiore Buford Humphreys, di Paul Hagbolt e Donald Merriam, benché gli ultimi due ora fossero altrove.

Al volante della Corvette, Hunter avvertì sulla spalla sinistra il contatto di dita che dapprima indugiarono leggere, ma poi strinsero con forza. Posò la mano destra sulla mano che gli stringeva la spalla, e voltò il capo, e guardò il volto di Margo… i capelli biondi appiattiti, le lunghe labbra, le guance affilate, gli occhi scuri… e lei sostenne il suo sguardo, con occhi inespressivi, indecifrabili.

Senza staccare la mano da quella di lei gridò, rivolgendosi al camion:

«Ci accamperemo qui, stanotte, vicino al mare. Quando la marea scenderà, entreremo a Vandenberg.»

Don Merriam guardò le pareti del pozzo, e sollevò lo sguardo verso il circolo di cielo che ruotava musicalmente in una tempesta rossa e nera, come se i colori fossero stati scelti per adattarsi al pelo della sua guida che era in piedi, in silenzio, sulla piattaforma accanto a lui.

Il circolo crebbe lentamente, poi rapidamente, poi l'ascensore si fermò, e il suo pavimento tornò a essere una parte uniforme della grande pianura vergata di strani geroglifici.

Apparentemente, nulla era mutato. La colonna di roccia lunare torreggiava ancora come un grigio pinnacolo, quattro volte più alto dell'Everest, e si tuffava nell'abisso. Al di là della pianura vuota, le grandi strutture plastiche erano ferme in lontananza, come un'armata di sculture astratte. Il pozzo sbadigliava, con la sua balaustra d'argento priva di supporti.

Poi Don vide che solo un disco volante… colorato con uno yin-yang violetto… galleggiava nell'aria, accanto al Baba Yaga. L'astronave lunare segnata e ammaccata dalle peripezie sostenute riluceva, come se fosse stata rimessa a nuovo, e invece della scaletta, sotto il portello c'era un massiccio tubo di metallo, grande come un uomo, che pareva allargarsi in fondo.

Al di là del Baba Yaga, l'astronave lunare russa scintillava anch'essa come se fosse stata nuova, e un tubo metallico simile sporgeva dal portello, che era situato in prossimità della punta.

Il felinide toccò lievemente la spalla di Don e disse, nel suo inglese lievemente distorto e carezzevole:

«Ora ti portiamo da un amico terrestre. La tua astronave è rifornita e revisionata, e viene con noi, ma all'inizio tu viaggerai nella mia. Ci sarà un trasferimento nello spazio. Non aver paura.»

Paul Hagbolt si svegliò di soprassalto. Tigerishka stava ringhiando, rivolgendosi a lui:

«Svegliati! Vestiti. Abbiamo un ospite!»

Il sobbalzo lo fece volare a un metro di distanza dalla finestra sulla quale aveva riposato, così, per il momento, poté soltanto galleggiare impotente nella gravità nulla del disco volante, cercando nel frattempo di sollevare dagli occhi e dalla mente la cappa del sonno.

Il sole interno era stato riacceso, e le finestre erano di un solido rosa, ancora una volta, e creavano un effetto combinato di serra e salotto.

Tigerishka stava estraendo da una porta del Pannello dei Rifiuti alcuni oggetti flosci. Un attimo dopo, li lanciò a Paul.

«Vestiti, scimmia.»

Uno degli oggetti s'impigliò negli artigli, e lei lo strappò, infuriata, e lo getto dietro gli altri.

Paul, o piuttosto il suo corpo, intercettò gli oggetti senza difficoltà, poiché erano stati lanciati con precisione. Erano i suoi vestiti, perfettamente lavati, e profumati di cotone e altre fibre, benché fosse sparita la piega dei pantaloni. Cominciò ad armeggiare con essi, dicendo, con una voce ancora assonnata:

«Ma, Tigerishka…»

«Ti aiuterò io, stupida scimmia!»

Lo raggiunse subito e, afferrando la camicia, cominciò a infilare il piede di Paul in una manica.

«Cosa è successo, Tigerishka?» domandò, senza aiutarla. «Dopo questa notte…»

«Non azzardarti neppure a menzionare questa notte, scimmia!» ringhiò lei. La camicia si strappò, e lei cercò d'infilare il piede di Paul nel più vicino indumento che poté afferrare, che era la giacca.

«Ma ti comporti come se fossi arrabbiata e ti vergognassi di quanto è accaduto,» protestò, continuando a ignorare i suoi tentativi di vestirlo.

Lei interruppe quello che stava facendo, e lo afferrò per le spalle, e lo fissò furibonda.

«Come se mi vergognassi!» ripeté lei, con voce vibrante. Poi, gelidamente: «Paul, tu hai mai masturbato un animale inferiore?»

Paul si limitò a fissarla stolidamente, sentendo i suoi muscoli irrigidirsi, soprattutto intorno al collo.

«Non darti un'aria così sconvolta,» ordinò lei, nervosamente. «Succede sempre, sul tuo pianeta. In una maniera o nell'altra, lo fate per ottenere il seme dei tori e degli stalloni, per la fecondazione artificiale… e così via!»

Lui disse, con voce calma:

«Vuoi dire che quanto è accaduto stanotte non è stato un vero amplesso?»

Lei sibilò, a quelle parole, soffiò come una vera gatta, e poi disse, in tono aspro:

«Un vero amplesso avrebbe inaridito i tuoi fragili genitali d'antropoide! Ero stupida, ero annoiata, mi dispiaceva per te. È stato tutto.»

Per un momento, Paul capì chiaramente che una super-bestia, al proprio livello, poteva avere delle neurosi, proprio come quelle di un antropoide parlante, poteva soffrire di attacchi d'irrealtà, fare le cose sbagliate, annoiarsi, consumare stancamente il tempo e i sentimenti. Per un momento capì quanto lui stesso doveva essere stato solo e confuso, per pretendere di amare una gatta come se fosse stata una ragazza, fantasticare una passione erotica per Miao.

Ma in quell'istante Tigerishka lo schiaffeggiò, con una zampa, e ringhiò:

«Non sognare, scimmia. Vestiti!»

Il fragile ponte di comprensione che l'intuito aveva creato si schiantò, benché in superficie questo non fosse immediatamente palese, perché lui continuò, con la medesima calma irreale:

«Vuoi dire che è stata questa l'intera esperienza, che è stato questo l'unico significato di questa notte, per te? Soltanto essere 'gentile' con un animale domestico?»

Lei disse, con fermezza:

«Questa notte i miei sentimenti sono stati, per il novanta per cento, pietà per te e noia per me.»

«E l'altro dieci per cento?» insisté lui.

Lei abbassò i grandi occhi.

«Non lo so, Paul. Ecco, non lo so,» disse, rigidamente, afferrando di nuovo la giacca. Poi, «Oh, vestiti da solo,» sibilò, esaperata, e si diresse al pannello di comando. «Ma sbrigati. Il nostro ospite è quasi arrivato alla porta.»

Paul ignorò quelle parole. Nella sua gelida miseria si stava insinuando un'ondata di calda malizia. Lentamente, si sfilò dal piede la manica della giacca. Disse, in tono uniforme:

«A me sembra che questa notte tutto sia cominciato quando io ho trattato te come un animale domestico, grattandoti sotto il collo e accarezzandoti il pelo, e tu eri felice, facevi le fusa, reagivi esattamente come…»

Il pavimento rosa balzò in alto e lo urtò, e il dolore si ripercosse sordamente nel suo corpo. Tigerishka disse:

«Sono passata alla gravità terrestre, per aiutarti a vestirti più in fretta! Oh, se almeno tu avessi idea di che cosa significa essere legata a questo modo a un repellente corpo calvo, e con una mente assolutamente inferiore, e dover stancare la propria gola con l'assurdità di produrre dei suoni…»

Ora, finalmente, Paul cominciò a occuparsi dei vestiti, senza fretta, individuando la biancheria e disponendola in ordine, per indossarla. Ma nello stesso tempo quell'ondata di malizia cercava qualcosa… qualsiasi cosa, non aveva importanza… per rispondere usando le stesse armi di Tigerishka. La trovò abbastanza rapidamente.

«Tigerishka,» le disse lentamente, sentendosi insolitamente pesante ma a suo agio, mentre sedeva sul rosso pavimento di velluto e indossava gli slip e allungava la mano verso i pantaloni, «Ti vanti di essere infallibile, per quanto riguarda la mente. E certamente la tua mente lavora molto più in fretta della mia. Presumibilmente, tu possiedi una memoria eidetica per tutto ciò che accade intorno a te… compreso quello che osservi nella mia mente. Eppure questa notte, quando ti ho menzionato le quattro fotografie stellari rivelatrici che io ho visto… fotografie di un pianeta che compiva una falsa uscita dall'iperspazio, lo capisco ora… mi hai assicurato che potevano esistere solo due campi di distorsione, il primo vicino a Plutone, il secondo vicino a Venere.

«Be', pensa quello che vuoi, ma c'erano altre due fotografie di distorsioni stellari, altre due false uscite.» A questo punto, la sentì entrare nella sua mente. Proseguì ugualmente: «Erano la seconda e la quarta della serie, e mostravano Giove e la Luna.»

La risposta di Tigerishka lo sorprese. Lei disse, in fretta:

«Hai ragione. Devo fare immediatamente rapporto al Vagabondo. Potrebbe trattarsi di… quello di cui abbiamo paura.» Si voltò bruscamente verso il pannello di comando. Era in piedi, ora, eretta sulle zampe posteriori, nella stessa gravità che premeva il corpo di Paul. «Tu, saluta il nostro ospite!»

Un portello si aprì al centro del pavimento rosa e, con le spalle voltate a Paul, un uomo che indossava l'uniforme dell'Astronautica degli Stati Uniti fece il suo ingresso. Appoggiò i gomiti sul bordo del portello, affrontò la gravità, ma evidentemente questa non lo sorprese particolarmente, perché egli issò subito il resto del suo corpo all'interno del disco volante.

Paul, che aveva appena indossato la camicia, si alzò di scatto, e riuscì a cogliere una fuggevole visione dell'interno di un largo tubo metallico, mentre il portello si chiudeva.

Il nuovo venuto, dopo avere fissato Tigerishka, si guardò intorno.

«Don!»

«Paul!»

«Credevo che tu fossi perduto sulla Luna. Come…»

«E io credevo che tu fossi… non so cosa. Ma come…»

Tacquero entrambi, impacciati, aspettando che l'altro incominciasse a parlare. Poi Paul si accorse che Don lo stava squadrando con evidente curiosità. Si affrettò a chiudere la cerniera lampo dei pantaloni, e ad abbottonare la camicia.

Don guardò Tigerishka, la guardò per diversi secondi. Poi guardò i fiori e il resto dell'arredamento. Infine il suo sguardo tornò a posarsi su Paul, ed egli spalancò le braccia, con aria sconfitta, e sorrise, con l'aria di chi vuole dire, «Non m'importa che il sistema solare stia andando a pezzi, né che noi ci troviamo in un impossibile campo gravitazionale, in un impossibile disco volante, nel cuore dello spazio siderale… Ma tutto questo è buffo, come una farsa piccante!»

Paul si accorse di arrossire. Provò una collera violenta contro se stesso.

Tigerishka si voltò a guardarli, dal pannello di comando, per il tempo sufficiente a dire:

«Benvenuto, Donald Barnard Merriam! Ti prego di scusare la scimmia, si vergogna della sua nudità. Ma suppongo che anche tu ti vergogni. Veramente, dovreste provare entrambi il pelo!»

CAPITOLO XL

Per gli studiosi dei dischi volanti era un quarto dopo il dinosauro, come avrebbe detto Ann, se non fosse stata addormentata. In quel momento il Vagabondo era più alto, nel cielo, di un'ora e quindici minuti rispetto a quando la Corvette e il camion si erano affiancati sulla sella rocciosa, per osservare l'alta marea. Ora la cena era finita, i graffi e le ferite accumulati nello spostare i sassi e il pietrisco erano stati puliti e fasciati, e più di metà degli studiosi dei dischi volanti erano addormentati, a bordo dei due veicoli e intorno a essi, avvolti, malgrado la relativa mitezza della notte, in soprabiti, coperte, e nei bordi del grande telo.

Tre figure si scaldavano ancora intorno alla stufetta da campo sulla quale avevano bollito l'acqua per il caffè: Pop, sbilenco come un insetto, intento ad accarezzarsi i pochi cattivi denti rimasti nella voragine della bocca, con la solennità e l'acidità che avrebbe avuto se il Buon Dio fosse stato un dentista, e Pop si preparasse a citarlo in giudizio per cattiva pratica professionale; Bacchetto, seduto a gambe incrociate nella più semplice variante della posizione di loto… caviglia destra sopra il ginocchio sinistro, ginocchio destro sopra la caviglia sinistra… e intento a fissare il dinosauro che ruotava verso l'oriente del Vagabondo, come se quell'animale dorato, che ora aveva assunto un aspetto piuttosto fallico, fosse stato l'ombelico del cosmo; e l'Omino, seduto a terra e intento a trascrivere gli eventi e le osservazioni della giornata sul suo libretto d'appunti, nella luce del Vagabondo.

Hunter, mano nella mano di Margo, e con la ragazza che camminava al suo fianco, si avvicinò all'Omino e lo toccò sulla spalla dicendo, sommessamente:

«Doddsy, la signorina Gelhorn e io andiamo sulla cresta, dall'altra parte della strada. Se c'è qualche emergenza seria: cinque colpi di clacson.»

L'Omino sollevò lo sguardo, e annuì.

Dietro la stufetta, Pop lanciò uno sguardo alla coperta che Margo portava sul braccio, e poi distolse lo sguardo, e fece un piccolo, sgradevole suono sprezzante, per metà cinico, per metà di rabbiosa disapprovazione.

Bacchetto si ritirò dalla sua contemplazione, per guardare Pop. «Fa' silenzio,» disse, piano e con calma. Poi guardò Hunter e Margo, e il Vagabondo, che era sopra di loro, e un sorriso apparve sul suo viso fanatico e astratto, e tracciando con l'indice destro il segno di Iside sul ginocchio destro, disse: «Ispan fa piovere benedizioni sul vostro amore.»

L'Omino chinò il capo sul suo libretto d'appunti. Aveva le labbra serrate, come se avesse voluto nascondere un sorriso, o perfino soffocare una risatina.

Hunter e Margo attraversarono la strada. Ann e sua madre erano distese, avvolte in una coperta, sul margine dell'ombra del camion, e a Hunter parve che Rama Joan stesse loro sorridendo, con gli occhi aperti, ma quando si avvicinò vide che gli occhi della donna erano chiusi. In quel preciso istante si accorse, con la coda dell'occhio, della presenza di un'alta figura nera che era in piedi nell'ombra del camion, verso il fondo. Anche il suo viso era nero, oscurato da un cappellaccio nero con la falda rivolta all'ingiù.

Un brivido percorse la schiena di Hunter, perché ebbe la certezza che l'apparizione fosse Doc. Avrebbe voluto che Doc parlasse, e mostrasse il viso, ma la figura si limitò a sollevare le mani verso il cappellaccio, e a calcarlo ancor più sul viso, per poi ritirarsi nell'ombra.

In quell'istante Hunter sentì che le dita di Margo s'irrigidivano nelle sue, ed egli guardò direttamente nell'ombra del camion. Là non c'era più nessuna figura.

Continuarono a camminare, senza dire nulla di quanto avevano visto. L'erba scricchiolava debolmente sotto i loro piedi, mentre essi salivano il pendio, nel grigio giorno di mezzanotte del Vagabondo. Erano acutamente consapevoli della presenza del mare invasore sulle colline… l'alta marea in attesa, a cinquanta metri da loro, con onde che lambivano l'altura… e del Vagabondo invasore del cielo, o meglio, invasore dello spazio della Terra, e portatore del suo spazio scuro e perlaceo, e del mistero e della presenza che invadevano la vita di tutto il genere umano, di tutta la Terra.

Salirono su un basso costone roccioso, e di là salirono su un altro, e allora, davanti a loro, apparve una roccia grigia e rettangolare, piatta e liscia, che pareva la bara di un gigante. Margo distese la coperta su quella roccia, ed essi s'inginocchiarono sulla coperta, uno di fronte all'altra. Si fissarono intensamente, senza sorridere, o se le loro labbra sorridevano, si trattava di un sorriso crudele, divoratore. I silenzi tra i palpiti della marea e lo sciabordio della risacca erano colmati dal pulsare ritmico del loro sangue, più forte del ritmico sospiro-schianto dello stesso mare. Le colline parevano riecheggiare questo pulsare del sangue, e quasi muoversi con loro, e il cielo pareva risonarne. Margo aprì la cerniera lampo della giacca, la posò a terra, vi posò accanto la pistola a momentum, portò le mani alla gola, e cominciò a sbottonarsi la blusa, ma Hunter le tolse questo compito, e lei fece scorrere le dita della mano destra nella barba dell'uomo, e la chiuse nel pugno, imprigionando i peli duri e sporchi, e infilò le nocche delle dita nel mento cespuglioso. Poi il tempo parve arrestarsi, o meglio, parve perdere la sua urgenza direzionale del movimento; diventò un luogo all'aperto dove si stava in piedi, piuttosto che un basso, stretto corridoio nel quale si era spinti frettolosamente. Il mare e le rocce e le colline e il cielo e la fredda aria che li racchiudeva, e il grande, splendido pianeta sospeso nel cielo, tutte queste cose a modo loro acquistarono vita, divennero mobili della stanza che è la mente, o… più esattamente… la mente protese dita invisibili per abbracciarle. Più Margo e Hunter erano consapevoli l'una del corpo dell'altro e del proprio corpo, più, e non meno, era l'intensità con la quale diventavano consapevoli di tutto ciò che li circondava, l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo, le grandi e le piccole cose, perfino la piccola colonnina violetta, lunga pochi decimi di millimetro, sulla scala graduata dell'impugnatura della pistola a momentum… ed erano consapevoli delle cose invisibili, come delle cose visibili, dei morti, come dei vivi. I loro corpi e i cieli erano una cosa sola, il sole inghiottito corteggiava la nera rotondità lunare del pianeta, e finalmente veniva accettato da essa. La risacca viva, punitrice era in loro, e il mare con tutta la sua grandezza e la tempesta e la certezza della bonaccia. Il tempo si stendeva, passando con un filamento invisibile di movimento, per una volta non bisbigliava una sentenza di morte, ma fondeva armoniosamente la morte con la vita. In alto, la bestia dorata e affilata andava a oriente ruotando, attraverso la fosca porpora, e nel suo andare diventò il dorso del serpente dorato attorto intorno all'uovo dischiuso, nella faccia che per un'ora avrebbe assunto il Vagabondo… il serpente femmina che lottava, e soffocava, e infine distruggeva il maschio portatore del seme… mentre intorno al grande pianeta intruso i frammenti della luna luccicavano e scintillavano e danzavano, come i milioni di spermatozoi danzavano supplicanti, insinuanti, orgogliosi, imperiosi, intorno all'ovulo.

Don Merriam aveva fornito a Paul Hagbolt un breve riassunto della sua esperienza nello spazio e a bordo del Vagabondo. Questo pareva confermare l'ambiente di gran parte di ciò che Tigerishka aveva detto a Paul, e il racconto fece rivivere in lui una piccola parte dei sentimenti che erano stati introdotti in lui dalla storia del pianeta fuggiasco, benché ancora Paul fosse ferito e scosso dall'improvviso, repentino mutamento dei sentimenti di Tigerishka. Ora Paul stava narrando a Don cosa era accaduto a lui e a Margo, nella notte dell'apparizione del Vagabondo… al simposio sui dischi volanti, e al cancello d'entrata di Vandenberg, e tra le onde sismiche… quando Tigerishka lo interruppe bruscamente.

«Smettete di chiacchierare, per favore! Ho qualche domanda per voi.»

Era in piedi, davanti al roseo pannello di comando circondato di fiori… dove era stata, presumibilmente, in silenzioso contatto con i suoi superiori. Paul e Don erano seduti sul roseo pavimento, attraverso il quale Miao compiva delle allegre, periodiche sortite di esplorazione dall'aiuola fiorita… evidentemente molto confusa o almeno stimolata dalla gravità terrestre simulata.

«Creature, siete state trattate bene qui, e durante i vostri contatti con il mio popolo? Donald Merriam?»

Don la fissò, pensando a quanto lei ricordava, se non fosse stato per il colore del pelo, la felinide che aveva visto catturare un verde uccello di topazio e berne il sangue, con l'aria di una ballerina che consumava uno spuntino dopo il teatro.

Disse:

«Dopo essere fuggito dalla luna… completamente grazie ai miei sforzi, per quello che so… sono stato raccolto da due delle vostre astronavi, scortato sul Vagabondo, tenuto in una stanza confortevole per due giorni, apparentemente, e poi condotto qui. Nessuno mi ha parlato molto. Credo che la mia mente sia stata penetrata e ispezionata. In una visione simile a un sogno, mi sono state mostrate molte cose. Questo è tutto.»

«Grazie. Ora tu, Paul Hagbolt, sei stato trattato bene?»

«Be'…» le sorrise, con aria interrogativa.

«Basta un semplice sì, o un no!» fece lei, seccamente.

«Allora… sì.»

«Grazie. Seconda domanda: Avete visto delle prove di soccorso alla gente della Terra, per salvarla dagli inconvenienti causati dalle maree?»

Paul disse:

«Ho visto le cose che mi hai mostrato su Los Angeles e San Francisco e Leningrado: incendi spenti dalla pioggia, maree respinte da un campo di repulsione di qualche tipo.»

Don disse:

«Credo di avere visto delle immagini televisive dello stesso genere in una immensa sala del Vagabondo, durante la mia visione di sogno.»

«Era una visione reale,» gli assicurò lei. «Domanda…»

«Tigerishka,» la interruppe Paul. «Tutto questo ha per caso a che fare con le due fotografie stellari che non combinano con le false uscite del Vagabondo dall'iperspazio? Avete paura che gli inseguitori vi raggiungano, e state preparando una difesa delle vostre azioni in questo sistema?»

Don lo guardò, sorpreso… Paul non gli aveva ancora detto nulla della storia di Tigerishka… ma lei disse, semplicemente:

«Smettila di chiacchierare, scimmia… voglio dire, creatura. Sì, è possibile. Ma… terza domanda: per quello che sapete, i vostri compagni hanno sofferto a causa del Vagabondo?»

Don disse, freddamente:

«I miei tre compagni, nella Base Lunare, sono morti quando la Luna si è spezzata.»

Lei annuì, seccamente, e disse:

«Uno di loro può essere sopravvissuto… stiamo controllando. Paul Hagbolt?»

Lui disse:

«Ne stavo parlando a Don proprio adesso, Tigerishka. Margo e quelli dei dischi volanti stavano bene, quando li ho visti per l'ultima volta… voglio dire che per lo meno erano vivi, benché minacciati dalla risacca di grandi onde sismiche, che tu hai provveduto a rendere più piccole. Ma questo è accaduto due giorni fa.»

«Sono ancora vivi,» gli assicurò Tigerishka. I suoi occhi violetti scintillarono, e le labbra si curvarono in un piccolo, ironico sorriso umanoide, e lei aggiunse, «Ho continuato a tenerli d'occhio… voi mortali non riuscite mai a capire quanto gli dei si preoccupino di voi: riuscite soltanto a vedere le inondazioni e i terremoti. In ogni modo, non chiederò a nessuno di voi di accettare semplicemente la mia parola. Vi mostrerò tutto! In piedi, per favore, entrambi. Vi manderò subito sulla Terra, perché possiate controllare con i vostri occhi.»

«Vuoi dire… con il Baba Yaga?» domandò Don, mentre entrambi obbedivano. «Come certamente sai, il Baba Yaga è legato a questo disco volante, ora, da un tubo spaziale, e mi è stata data l'idea che io… voglio dire, ora, noi, Paul e io… potremo usarlo per ritornare sulla Terra. Credo che il Baba Yaga possa farlo, se veniamo liberati ai margini dell'atmosfera, senza alcuna velocità orbitale da…»

«No, no, no,» lo interruppe Tigerishka. «Più tardi farete questo… tra un'ora o due, diciamo, e sopra il vostro campo di Vandenberg… che in questo momento si trova a sole cinquecento miglia sotto di noi, tra l'altro… ma ora vi manderò laggiù con un sistema molto veloce. Mettetevi di fronte al pannello di comando! State fianco a fianco!»

Don commentò, con un sorrisetto un po' cupo:

«Sembra che tu ci voglia fare una foto.»

Tigerishka disse:

«È esattamente quello che sto per fare.»

La luce solare, all'interno del disco volante, cominciò a scemare. Miao, come se avesse fiutato l'atmosfera eccitata, sbucò dall'aiuola fiorita, e venne a strofinarsi contro le loro gambe. Preso da un impulso improvviso, Paul prese in braccio la gattina.

Margo e Hunter si erano vestiti, e avevano piegato la coperta, e avevano cominciato a scendere il pendio, mano nella mano, uniti tra loro e con il cosmo, nei bagliori residui del loro amplesso, quando udirono una voce chiamarli debolmente:

«Margo! Margo!»

Sotto di loro, ai piedi del pendio, si trovava l'accampamento intorno alle due macchine. Nessuno si muoveva. La luce del Vagabondo scendeva a fiotti dalla faccia del serpente e dell'uovo, e mostrava soltanto delle figure oscure, avvolte nelle coperte e addormentate. La pozza di tenebre accanto al camion era diventata più piccola, poiché il Vagabondo era più alto nel cielo, eppure c'era ancora.

Ma la voce non pareva giungere dall'accampamento, ma dall'aria.

Guardarono verso il mare, e videro che era disceso di dieci metri e più, lasciando un'ampia fascia di collina venata di nero e coperta di fanghiglia, là dove era giunta l'alta marea. L'acqua che ora si stendeva tra loro e Vandenberg Due assomigliava a un grande fiume, con piccole isolette che spuntavano qua e là. Il loro sguardo salì dal mare, e sullo sfondo del cielo grigio videro due figure di uomini, debolmente luminescenti, che scendevano nell'aria, eretti, ma con i piedi immobili. Le figure discendevano lungo una traiettoria inclinata, galleggiando leggere e senza peso, e svanirono nella collina, a metà strada tra la coppia e l'accampamento.

Hunter e Margo si tennero stretti, con tutto il corpo coperto di brividi e strani formicolii, perché entrambi ricordavano la figura che avevano visto nell'ombra del camion, ed entrambi ebbero l'idea che una delle figure senza peso fosse stata Doc… e l'intera visione un'altra, anche se più diretta, manifestazione di spettri, o una continuazione della prima.

Quando videro che non accadeva altro, ripresero a discendere, e dopo pochi passi Margo guardò in basso e mandò una esclamazione di orrore, e indietreggiò di due passi, improvvisamente, come se avesse visto la figura minacciosa di un serpente nell'erba, trascinando indietro con sé Hunter.

Dal terriccio, davanti a loro, spuntavano due teste umane, con i corpi sepolti nel terreno, dalle spalle in giù. I lineamenti dei volti erano confusi, benché un volto nebbioso sembrasse vagamente familiare a Hunter. Collo e spalle indicavano che uno era un astronauta in uniforme, l'altro… quello familiare… un civile. La mente di Hunter fu attraversata dal pensiero che quello era molto simile all'incontro di Ulisse con gli spiriti dei morti, negli Inferi, e che quei due fantasmi non erano stati evocati dal caldo sangue del toro sacrificale, ma dal sangue pulsante dell'amplesso di poco prima.

Poi le due figure si sollevarono dal terreno, non in virtù di uno sforzo fisico, perché non mossero né mani, né piedi, ma sollevati da un potere esterno a loro, fino a quando i loro piedi toccarono la superficie del terreno, eppure non dando l'impressione di stare in piedi, bensì di galleggiare, di fronte a Hunter e a Margo, a meno di due metri di distanza. Poi ciò che era confuso venne messo a fuoco, e Margo esclamò: «Don! Paul!» pur stringendosi ancor più a Hunter, nel dire questo… e anche Hunter riconobbe la seconda figura.

L'immagine-Paul sorrise, e schiuse le labbra, e una voce in perfetta sincronia con il movimento delle labbra, e che pure non usciva dalla gola, disse:

«Salve, Margo e professor… scusi la mia pessima memoria. Non siamo dei fantasmi. Questa è semplicemente un'avanzata forma di comunicazione.»

In maniera analoga l'immagine-Don disse:

«Paul e io vi stiamo parlando da un piccolo disco volante, sospeso nello spazio, tra voi e il Vagabondo, ma più vicino alla Terra. È bello rivederti, Margo cara.»

«È esatto,» interloquì Paul. «Voglio dire, il fatto di essere a bordo del disco volante. È lo stesso che mi ha raccolto sulla spiaggia. Guarda…» Sollevò qualcosa tra le mani. «Ecco Miao!»

La gattina rimase quieta per un momento, poi scoprì i dentini, ci fu un rabbioso sibilo sincronizzato, e la bestiola svanì nell'oscurità, in una macchia di pelo e zampe furiose.

L'immagine-Paul aggrottò la fronte, per un momento, e portò la mano alle labbra, succhiandosi un dito, per poi spiegare:

«Si è innervosita. L'intera faccenda è un po' troppo soprannaturale per lei.»

Margo lasciò andare la mano di Hunter, e fece un passo avanti, tendendo la mano a Paul, ma sollevando l'altra verso la guancia di Don, e piegando un po' il viso per baciarlo.

La mano passò attraverso la guancia, però, e con un gridolino nervoso… non tanto di paura, ma di rabbia per il suo nervosismo… Margo indietreggiò di nuovo, verso Hunter.

«Noi siamo soltanto delle immagini tridimensionali,» spiegò Paul, con un lieve sorriso. «Il contatto non si trasmette, con questo sistema. Noi vediamo le vostre due immagini, qui a bordo del disco volante, solo che non sono sempre unite nel disco volante, soprattutto quando stavano mettendosi a fuoco. È una situazione davvero strana, sembra una storia di fantasmi, se vuole scusare questa mia espressione, professor…»

«Mi chiamo Ross Hunter,» disse lui, riuscendo finalmente a parlare.

Don disse a Margo:

«Mi dispiace di essere troppo incorporeo per poterti baciare, cara. Rimedierò a questo, con gli interessi, quando ci vedremo fisicamente. A proposito, io sono stato fisicamente sul Vagabondo.»

«E io ho parlato con una delle sue abitanti,» disse Paul. «È una persona fantastica… dovreste conoscerla. Lei vuole che…»

Hunter lo interruppe:

«Siete stati sul Vagabondo, avete parlato con loro… Chi sono? Che cosa fanno? Che cosa vogliono?»

Paul disse:

«Non abbiamo il tempo neppure per provare a rispondere a domande simili. Come stavo per dire, la nostra… be', catturatrice… vuole che ci rassicuriamo sulla vostra salute, sul fatto che siate riusciti a sfuggire alle onde sismiche e alle maree, e che siate tutti sani e salvi. Questa è una metà del motivo di questa… chiamata.»

«Siamo salvi,» disse Margo, debolmente. «Per quello che può esserlo un abitante della Terra.»

«L'intero gruppo è sopravvissuto, finora,» continuò il Barba, «A eccezione di Rudolf Brecht, che è morto in un incidente di montagna.»

«Brecht?» domandò Paul dubbioso, corrugando la fronte.

«Lo ricordi; l'avevamo chiamato Doc,» spiegò Margo.

«Ma certo,» disse Paul. «E abbiamo chiamato quel buffo pazzoide stagionato Bacchetto, e il professor Hunter il Barba. Oh, mi scusi, professore.»

«Naturalmente,» disse Hunter, spazientito. «Qual è l'altro motivo della… chiamata.»

Don disse:

«Farvi sapere che, se tutto andrà per il meglio, atterreremo a Vandenberg Due tra poche ore, probabilmente a bordo della mia astronave lunare.»

«Per lo meno, lo farà Don,» aggiunse Paul. «Ora dobbiamo restare qui, nello spazio. Il Vagabondo può trovarsi in pericolo, si sta verificando un'emergenza.»

«Il Vagabondo, in pericolo?» ripeté Margo, incredula, quasi con ironia. «Un'emergenza si sta verificando? E come chiamereste quello che sta succedendo da due giorni?»

Hunter disse a Don:

«Siamo in vista di Vandenberg Due, come lei sa, e intendiamo raggiungere la base non appena ci sarà possibile.»

«Cerchiamo di raggiungere Morton Opperly,» interloquì Margo, quasi automaticamente.

Don disse a Hunter:

«Molto bene. Se riuscite a portar loro notizie sul mio conto, sarà più facile entrare nella base anche per voi. Dica a Oppie che il Vagabondo possiede degli acceleratori lineari lunghi ottomila miglia, e un ciclotrone di quel diametro. Questo dovrebbe convincerlo di qualcosa! Mi sarà molto utile, se essi saranno informati di anticipo dell'atterraggio che intendo compiere.» Guardò Margo. «Allora potrò baciarti come si deve, cara.»

Margo lo guardò, e disse:

«E anch'io ti bacerò, Don. Ma voglio che tu sappia che le cose sono cambiate. Io sono cambiata,» e si appoggiò a Hunter, per dimostrare quel che intendeva dire.

Hunter corrugò la fronte, e strinse le labbra, ma poi abbracciò Margo, e annuì, dicendo freddamente:

«È esatto.»

Prima che Don potesse dire qualcosa, se ne aveva avuto l'intenzione, il terreno intorno si fece improvvisamente di un rosso vivo, impallidì, ritornò rosso. La stessa cosa stava accadendo all'intero paesaggio: si illuminava di rosso, poi si oscurava, poi rosseggiava di nuovo, come se da una fonte invisibile venissero lanciati dei lampi ritmici di luce rossa. Hunter e Margo sollevarono lo sguardo, e chiusero immediatamente gli occhi, distogliendo lo sguardo dai piccoli lampi accecanti che ammiccavano rossi sul polo nord e sul polo sud del Vagabondo, arrossando ritmicamente la calotta polare del pianeta e tutto il cielo della Terra. In tutta la loro vita essi non avevano mai visto niente di simile a quelle fonti violente di luce monocromatica.

«L'emergenza è arrivata,» disse l'immagine-Paul, attraversata a intervalli dalla luce rossa, che rendeva l'immagine ancor più simile a un'anima dannata. «Dovremo interrompere questo collegamento.»

L'immagine-Don disse:

«Il Vagabondo sta richiamando le sue astronavi.»

Hunter disse, con forza:

«Avvertiremo quelli di Vandenberg. Ci vedremo là. Oppie: acceleratori lineari di ottomila miglia, e un ciclotrone di quel diametro. Buona fortuna!»

Ma in quello stesso istante le due immagini scomparvero. Non impallidirono, né si dissiparono… sparirono completamente, in un batter di ciglio.

Hunter e Margo abbassarono lo sguardo, osservando il fianco della collina rosseggiante. Anche la risacca era rossa, lo schiumare inquieto di un oceano di lava. L'accampamento era in preda all'agitazione: c'erano delle piccole figure che si muovevano intorno, si raggruppavano, puntavano il braccio.

Ma una di queste figure era più vicina. Nascosto dietro un masso, a meno di sei metri di distanza, Bacchetto li osservava attonito, invidioso, e i suoi occhi brillavano di una fame inappagabile, mentre la luce rossa balenava ritmicamente sul suo viso.

CAPITOLO XLI

A cinquanta milioni di miglia dalla Terra, verso lo spazio interstellare, l'astronauta Tigran Biryuzov poteva vedere il Richiamo Rosso chiaramente, mentre lui e i suoi cinque compagni orbitavano intorno a Marte, sulle tre astronavi della Prima Spedizione del Popolo dell'Unione Sovietica. Agli occhi di Tigran, la Terra e il Vagabondo erano due pianeti luminosi, separati come due stelle adiacenti delle Pleiadi. Anche nello spazio senz'aria, le loro forme gibbose non erano visibili agli occhi dell'astronauta comunista, senza l'uso del telescopio.

Le comunicazioni radio con la base si erano interrotte nel momento dell'apparizione del Vagabondo, e per due giorni i sei uomini erano stati sconvolti dal dubbio, non sapendo che cosa stesse accadendo nella più vicina orbita in direzione del Sole. Il progettato sbarco sulla superficie di Marte, previsto per dieci ore prima, era stato rimandato.

I telescopi mostravano loro la situazione astronomica con sufficiente chiarezza… la cattura e la distruzione della luna, i fantastici disegni della superficie del Vagabondo… ma questo era tutto.

Non solo il Richiamo Rosso era chiaramente visibile agli occhi di Tigran, ma anche i suoi cupi riverberi sanguigni sulla faccia della Terra. Cominciò ad annotare, «Krasniya molniya…» e poi s'interruppe, per picchiarsi la guancia con le nocche della mano, in un parossismo di curiosità frustrata, e pensò, «Lampi rossi! Madre di Lenin! Sangue di Marx! E adesso cosa succederà? E adesso cosa succederà?»

Gli studiosi dei dischi volanti avevano molte domande da fare, sulla conversazione così stimolante e così forzatamente limitata avuta con Paul e Don. Quando Hunter e Margo ebbero finito di rispondere a quelle domande, il Richiamo Rosso aveva già smesso di lampeggiare, e la marea, il cui riflusso era rapidissimo, aveva già scoperto una parte maggiore della strada per Vandenberg, e perfino un tratto dell'Autostrada Costiera.

Hixon fece un rapido riassunto della situazione, indicando con il pollice il Vagabondo:

«Così loro hanno dei dischi volanti, cosa che già sapevamo. E possiedono dei raggi a energia che possono abbattere le montagne e perforare un pianeta, probabilmente. E hanno dei televisori tridimensionali assai migliori dei nostri, cosa prevedibile. Ma adesso sembra che siano in pericolo, e questo non è possibile! Per quale motivo loro dovrebbero essere in pericolo?»

Ann disse, radiosamente:

«Forse sono inseguiti da un altro pianeta.»

«Tutto, ma questo no, Annie, ti prego!» protestò Wojtowicz, comicamente. «Un pianeta fantasma è il massimo che io posso sopportare.»

In quel momento il paesaggio s'illuminò, e Clarence Dodd che, unico tra loro, stava guardando a est, emise un suono strozzato, gorgogliante, come se avesse voluto gridare e avesse ricacciato in gola il grido… poi abbassò il capo, curvandosi, quasi per sfuggire all'orizzonte orientale, e nello stesso tempo puntò il braccio in quella direzione, sopra le montagne.

Sospesa lassù, tra il Vagabondo e l'orizzonte orientale, c'era una forma gibbosa, grande una volta e mezzo il Vagabondo, tutta di un uniforme grigio acciaio, a eccezione di una specie di faro scintillante, a metà strada tra il bordo rotondo e il bordo più piatto.

Margo pensò, Adesso il cielo è troppo pesante… deve cadere.

Bacchetto pensò, E l'Agnello aprì un altro sigillo… e un altro… e un altro… e un altro…

Wojtowicz esclamò, sommessamente:

«Mio Dio, Ann aveva ragione. È davvero un altro pianeta.»

«Ed è più grosso.» Era la signora Hixon.

«Ma non è rotondo,» protestò Hixon, come se la cosa lo incollerisse.

«Sì, invece,» lo contraddisse Hunter. «Solo che è parzialmente in ombra, più di quanto non lo sia il Vagabondo. È nell'ombra quanto lo sarebbe la Luna, se ci fosse ancora.»

«E almeno sette diametri del Vagabondo di distanza dall'altro pianeta,» dichiarò l'Omino, che si era ripreso così in fretta dallo choc iniziale da estrarre il suo libricino d'appunti. «Si tratta di quindici gradi. Un'ora.» Tolse il cappuccio alla penna, e osservò l'orologio.

Rama Joan disse:

«Quella specie di faro è il riflesso del sole. La superficie deve essere una specie di specchio opaco.»

Ann disse:

«Non mi piace il nuovo pianeta, mammina. Il Vagabondo è nostro amico, tutto dorato e bello, ma questo indossa l'armatura.»

Rama Joan attirò la testa della bambina contro il suo petto, ma continuò a fissare il nuovo pianeta, e disse, in tono profondo:

«Credo che gli dei siano in guerra. Il diavolo straniero è venuto a combattere il diavolo che conosciamo.»

L'Omino, che stava già prendendo appunti, disse in tono deciso:

«Chiamiamolo Straniero… sì, lo Straniero è un nome buono.»

Il giovane Harry McHeath pensò, Oppure potremmo chiamarlo Lupo… no, questo potrebbe confonderlo con le Fauci.

La signora Hixon disse, quasi in un ringhio:

«Oh, per la misericordia di Cristo, risparmiateci la poesia! Un nuovo pianeta significa altre maree, altri terremoti, altro Dio solo sa cosa!»

Mentre questa scena si svolgeva, Ray Hanks continuava a chiamare, in tono querulo, dal camion:

«Di che cosa state parlando? Non vedo niente da qui. Avanti, qualcuno mi dica qualcosa. Di che si tratta?» Il giovane Harry McHeath stava pensando che era meraviglioso trovarsi là, vivi, essere nati per poter assistere a simili prodigi, e compianse la miseria di coloro che non potevano assistere a un simile splendore celeste. Così fu naturale che la supplica di Ray Hanks lo raggiungesse direttamente. Saltò nel retro del camion, agilmente, posò la mano su uno specchio, e lo tenne inclinato in modo che Hanks potesse vedervi il riflesso dello Straniero.

Wanda, Ida e Bacchetto erano in piedi, vicini. In quel momento, Wanda sedette a terra, e si prese il viso tra le mani, e gemette lamentosamente:

«Questo è troppo. Credo che avrò un nuovo attacco di cuore.»

Ma Ida batté lievemente sulla spalla di Bacchetto, e chiese:

«Che cos'è, Charlie? Qual è il suo vero nome? Spiegalo!»

Bacchetto fissò lo Straniero con un'espressione tormentata, torturata, e infine disse, con una voce che, pur risuonando di un tono di sconfitta, aveva un bizzarro sottotono di sollievo, come se delle porte interne si fossero finalmente aperte nella sua mente:

«Non lo so, Ida. Semplicemente non lo so. L'universo è molto più grande della mia mente.»

In quell'istante, due linee luminose sprizzarono dai due lati dello Straniero, e viaggiarono verso il Vagabondo, nello spazio di un secondo, e passarono una davanti, e l'altra dietro il pianeta, e poi proseguirono, apparentemente più lentamente, attraverso il cielo grigio, diritte come se fossero state disegnate con la riga e una penna carica d'inchiostro azzurro luminoso. Ma dove le linee azzurre passarono davanti al Vagabondo ci fu un'eruzione di bianche scintille di una luminosità quasi accecante.

Una delle linee veniva dalla faccia oscura dello Straniero, e dava una pennellata azzurrina alla falce oscura, rivelandone la forma, e la sfericità dell'intero corpo celeste.

«Gesù, ma è davvero una guerra!» Ancora una volta, Wojtowicz fu il più sollecito a reagire vocalmente.

«Raggi laser,» disse l'Omino. «Raggi di luce solida. Ma così grandi… è quasi incredibile.»

«E noi vediamo soltanto i lati,» interloquì Hunter, attonito. «Quello che filtra. Immaginatevi di guardare direttamente uno di quei raggi! La luce di un milione di soli!»

«Di cento soli, per lo meno,» disse l'Omino. «Se uno di quei raggi fosse puntato, anche solo per un momento, verso la Terra…»

Azzurro e metallo fecero esplodere nella mente di Hixon una subitanea intuizione.

«Sapete cosa vi dico?» esclamò, eccitato. «Il nuovo pianeta è la polizia! È venuto ad arrestare il Vagabondo, per averci disturbati!»

«Bill, tu sei pazzo,» gridò la signora Hixon. «La prossima volta, dirai che quelli sono gli angeli!»

«Spero che combattano! Spero che si ammazzino a vicenda!» gridò Pop, con voce stridula, tremando in tutto il corpo mentre agitava i pugni chiusi verso i due globi nel cielo. «Spero che si brucino, che si facciano a brandelli!»

«Io spero proprio di no, invece,» gli disse Wojtowicz. «Cosa ci impedirebbe di venire colpiti, allora? Ascoltami, nonno, a te piacerebbe che qualcuno combattesse una guerra nel cortile di casa tua? Ti piacerebbe di essere un bersaglio immobile, per tutti i colpi lanciati a casaccio?»

Hunter disse, rapidamente:

«Io non credo che quel raggio stia colpendo il Vagabondo. Credo che stia colpendo l'anello lunare, e disintegrando tutti i frammenti che tocca.»

«È esatto,» dichiarò freddamente l'Omino. «Quei raggi che sfiorano il Vagabondo mi sembrano l'equivalente planetario di un colpo sparato davanti alla prua.»

Hixon udì quelle parole.

«Proprio come ho detto, è un arresto,» esclamò, soddisfatto. «Sapete… 'Che nessuno si muova, o spareremo per uccidere!'».

I raggi azzurri si spensero alla base, e impallidirono e svanirono per tutta la lunghezza, rapidamente come erano apparsi. Lasciarono due gialle striscie nel cielo grigio, ma era un'impressione della rètina degli osservatori. Eppure i due raggi azzurri, benché si accorciassero sempre più, e si estinguessero rapidamente, erano ancora visibili in lontananza, dei vermi diritti e azzurri che si allontanavano nell'infinito più remoto.

Hixon disse:

«Mio Dio, credevo che non smettessero mai. Devono avere sparato per almeno due minuti.»

«Diciassette secondi,» lo informò l'Omino, sollevando lo sguardo dall'orologio. «È un fatto dimostrato che, durante una crisi, la valutazione soggettiva del tempo subisce variazioni notevoli, e i testimoni possono discordare praticamente su ogni punto. È una cosa dalla quale dobbiamo guardarci.»

«Proprio così, Doddsy, ben detto, dobbiamo tenere la testa sulle spalle,» ammise Wojtowicz, che camminava lentamente, descrivendo uno strano circolo e guardando il cielo; la sua voce era incredibilmente allegra. «Continuano a bersagliarci di sorprese, e noi possiamo semplicemente prenderle come vengono. Bene! È come essere di nuovo al fronte… è come assistere a un bombardamento, senza poter fare niente.»

Come se la parola «bombardamento» avesse fatto scattare un circuito, si udì un sordo brontolio che veniva da tutt'intorno, e poi una vibrazione, e poi la strada, sotto i loro piedi, cominciò a ondeggiare. La Corvette e il camion cominciarono a cigolare e a gemere. Ray Hanks cominciò a piangere di dolore, e McHeath, che era ancora in piedi vicino a lui, dovette aggrapparsi al fianco del camion, per non venire scagliato a terra.

Per un osservatore dall'alto, tutti apparentemente sarebbero parsi impegnati a prendere parte alla bizzarra, breve danza circolare di Wojtowicz, arricchendola di un ondeggiamento ritmico. Una delle donne gridò, ma la signora Hixon pronunciò un torrente di oscenità, e Ann gridò:

«Mammina, le rocce stanno cadendo!»

Margo sentì quelle parole, e guardò in alto, verso il costone roccioso sul quale erano stati lei e Hunter, e vide cadere i macigni, che facevano balzi fantastici… tra di essi le parve di vedere la bara del gigante, sulla quale avevano disteso la coperta. Senza indugiare per l'improvviso senso di colpa irragionevole che l'aveva invasa, estrasse dalla giacca la pistola a momentum e sporse l'altra mano, per appoggiasi alla Corvette, ma non c'era alcuna stabilità da quella parte, solo un ondeggiamento ancor più forte. I grandi massi continuavano a scendere, spiccando balzi titanici. Hunter vide quello che Margo stava facendo, le balzò accanto, e urlò:

«La freccia è puntata verso la canna?»

Lei gridò, «Sì!» E mentre i massi convergevano, come grandi animali grigi, puntò la pistola a momentum al centro della valanga e, lottando per restare in piedi, premette il pulsante.

Mentre le scosse sismiche si quietavano lentamente, i massi rallentarono la loro folle, spaventosa discesa, parvero quasi trasformarsi in grandi guanciali grigi che rotolavano lentamente, invece che rimbalzare, sempre più lentamente, per poi fermarsi accanto alla strada, quasi ai piedi di Margo, e la bara del gigante si fermò dove si era trovato il bordo dell'ombra del camion.

Hunter staccò il dito di Margo dal pulsante, e guardò la scala graduata. Non c'era più traccia di viola.

Guardò in basso, osservando il quarto di miglio di discesa fino alla Costiera, e prodigiosamente la strada gli parve libera da nuove frane, e completamente prosciugata… benché apparisse terribilmente scivolosa. Attraverso l'autostrada scintillava il reticolato che proteggeva i piedi di Vandenberg, mentre oltre l'imboccatura della salita torreggiava il grande cancello d'accesso.

In alto brillavano il Vagabondo e lo Straniero, il primo mostrando le tre macchie… lo stadio a mezz'ora esatta di distanza dall'uovo e serpente e dal mandala… il secondo gelido e sereno, come se la sua gravità non avesse avuto nulla a che fare con il terremoto.

Nel grande silenzio, Ida mormorò:

«Oh, la mia caviglia.»

Wojtowicz disse, con voce stanca:

«Cosa facciamo adesso? Quale sarà la prossima scena dello spettacolo?»

La signora Hixon sibilò:

«Non c'è niente da fare, pagliaccio! È la fine!»

Hunter spinse Margo a bordo della Corvette, e salì a sua volta, poi suonò il clacson per richiamare l'attenzione generale. Disse, ad alta voce:

«Tutti sulle macchine! Infilate quello che avete nel retro del camion, se volete, ma sbrigatevi. Andiamo a Vandenberg.»

Lo Straniero diede a molti, tra coloro che lo videro, il sentimento al quale Wanda e la signora Hixon avevano dato voce… «Questo è troppo. Questa è la fine.» Le menti più scientifiche, tra i pessimisti, notarono che lo Straniero era abbastanza vicino al Vagabondo… solo quarantamila miglia di distanza, se la distanza dalla Terra era la stessa… così che la sua gravità avrebbe enormemente aumentato, e non controbilanciato, le grandi maree che il Vagabondo aveva sollevato.

Ma molti altri furono ingenuamente entusiasti della visione del nuovo pianeta d'acciaio, e degli emozionanti raggi che esso lanciava nel cielo. Per qualche tempo, almeno, lo spettacolo astronomico distolse la mente di costoro dai loro guai, dai pensieri e dalle preoccupazioni, e perfino dai problemi di vita o di morte. Nel mare in tempesta, nelle vicinanze (orizzontalmente o verticalmente) della Florida, Barbara gridò dal ponte dell'Albatros allo spirito del vecchio KKK: «Thrilling Wonder Stortes! Oh, ma è meraviglioso,» e Benjy le gridò, solennemente, «Certo che è fantastico, signorina Barbara.»

«Accidenti, questo secondo atto ha aspettato molto, prioria di arrivare,» si lamentò Jake Lesher, rivolgendosi a Sally Harris, mentre entrambi erano nuovamente seduti sul terrazzo, fianco a fianco, avvolti nelle coperte umide e con indosso dei guanti da sciatore trovati tra gli oggetti del signor Hasseltine. «Se la nostra commedia non si muove più in fretta, morirà a Filadelfia.»

In un altissimo osservatorio astronomico, solitario su una vetta delle Ande, il settantenne astronomo francese Pierre Rambouillet-Lacepède si fregò le mani con enorme soddisfazione, e prese da un tavolino carta e matita. Ah, finalmente, un autentico, stimolante esempio del Problema dei Tre Corpi!

Ci furono altri, sulla faccia notturna della Terra, che non videro affatto lo Straniero, a causa di cortine di nubi o di altri inconvenienti. Alcuni tra costoro non avevano ancora visto neppure il Vagabondo. Wolf Loner vide una piccola luce gialla, nella foschia perenne, che era stata aumentata dalla nebbia. Avvicinandosi, vide che si trattava di una lanterna a petrolio sistemata a pochi metri di altezza dalle acque, in un'alta finestra di pietra che aveva una volta rotonda. Quando la Pazienza si fu ancor più avvicinata, egli vide la stretta parete di pietra giallastra, e il nero campanile che si levava sopra il muro, e riconobbe il luogo perché vi era salito più di una volta, ma ugualmente non riuscì a credere ai propri occhi. Diede un colpo di timone e calò la vela, e la Pazienza urtò piano contro il tetto stretto, sotto la finestra. La vela batteva inerte nel vento, non c'erano correnti nell'acqua, intorno alla costruzione di pietra. Prese la fune di ormeggio, e salì sul tetto, e attraversò la finestra, mettendo prudentemente da una parte la lanterna, e poi si guardò intorno. Allora non ebbe più dubbi: si trovava nel campanile della Old North Church, nella parte più alta di Boston. In piedi, di fronte a lui, con la schiena appoggiata a una parete, come se avesse voluto attraversarla per magia, c'era una bambina bruna, dall'aspetto di italiana, che non aveva più di dodici anni, e lo fissava a occhi aperti, battendo i denti. Non rispose alle sue domande, neppure quando lui cercò di formularle in italiano o in spagnolo, chiamando a raccolta i suoi ricordi di quelle lingue; si limitò a scuotere il capo, e quello poteva essere soltanto un altro tipo di brivido. Così, dopo qualche tempo, tenendo ancora stretta la corda, si avvicinò alla bambina, e benché lei si ritraesse la prese in braccio, gentilmente ma con fermezza, e la portò fuori della finestra, rimettendo al suo posto la lanterna sul davanzale, e salì con la piccola a bordo della Pazienza. Posò la bambina nella piccola cabina, e l'avvolse in una coperta. Notò che ora l'acqua si stava muovendo, non con eccessiva forza, nella direzione dalla quale la sua imbarcazione era venuta. Così, scuotendo il capo, pensieroso, pensando a quello che c'era sotto di lui… il vecchio cimitero e la chiesa… fece virare la sua imbarcazione e, approfittando del riflusso, fece vela verso il mare aperto, lasciando l'estremo limite settentrionale della città di Boston.

Con diabolica precisione — per nulla voluta — i quattro capitani ribelli guidarono, con la forza dei motori atomici, la Principe Carlo nel Pororoca. Questa bocca di marea nell'estuario del Rio delle Amazzoni è, normalmente, una cascata lunga un miglio e alta cinque metri, un'onda di marea che risale il corso del fiume a una velocità di quindici miglia orarie, con un ruggito che può essere udito a dieci miglia di distanza. Ora si trattava di un'immensa collina liquida, alta quasi metà della lunghezza della Principe Carlo, che trasportava quella grande città-nave… una piccola Isola di Manhattan galleggiante… inclinata in avanti, a un angolo di venti gradi, risalendo il corso del più possente dei fiumi, ora gonfiato dal Vagabondo e anche dallo Straniero. Tutt'intorno gli uragani ruggivano con il Pororoca, e le onde sollevate da quei venti ciclonici gonfiavano ancor più le acque, e aumentavano la velocità di risalita. A oriente, la tempesta nascondeva completamente l'alba. Davanti, a occidente, c'era un deserto di tenebre e di nubi stracciate. In quel momento il capitano Sithwise raggiunse il ponte di comando… dato che una controrivoluzione era avvenuta a bordo senza incontrare la minima opposizione, nel periodo del cataclisma… e si mise al timone, e cominciò a lanciare degli ordini alle sale macchine che contenevano i potenti motori atomici. Dapprima pilotò la nave orientandosi con il riverbero e l'inclinazione del Pororoca, ma poi… dato che erano sospesi luminosi e immobili a tribordo, tra le nubi a brandelli che roteavano e mulinavano follemente… cominciò ad affidarsi anche, come riferimento, ai globi dello Straniero, in alto, e del Vagabondo, più in basso.

Paul e Don guardarono, in alto, il vuoto discoide dello Straniero, e il Vagabondo inanellato di luna, attraverso il soffitto trasparente del disco volante di Tigerishka, che ora si trovava immobile nello spazio, cinquecento miglia sopra Vandenberg Due.

Il campo di gravità artificiale era ancora in funzione, e così essi erano distesi sul fondo del disco volante. Anch'esso era trasparente. Attraverso quel fondo essi potevano vedere, grazie alla luce del sole riflessa dai due pianeti eruttati dall'iperspazio, la nera distesa della California Meridionale, qua e là invasa dal fievole argento del mare, e nell'altra metà dell'immagine offerta dal fondo vedevano la distesa relativamente illuminata del Pacifico, benché terra e mare fossero lievemente offuscati e distorti dagli strati più densi dell'atmosfera terrestre.

C'era qualcosa che ostruiva la visione, in basso. Dal portello ora visibile, al centro del pavimento trasparente, il grosso verme del tubo spaziale si stendeva da un lato, dove presumibilmente il Baba Yaga galleggiava, invisibile dal loro punto di osservazione. La luce riflessa dello Straniero e del Vagabondo, attraversando le due rigide trasparenze, riluceva sul metallo ruvido del tubo esterno e interno, mostrando i primi due sostegni, della lunga serie interna, grazie ai quali una creatura in caduta libera poteva muoversi attraverso il tubo.

Paul e Don evitarono di guardare in basso. Il campo di gravità artificiale, benché Tigerishka avesse loro assicurato che si stendeva soltanto all'interno del disco volante, rendeva l'abisso immenso sottostante qualcosa di intollerabile da osservare.

Avevano la stessa vista del Vagabondo e dello Straniero che godevano coloro che si avvicinavano a Vandenberg, solo che per Paul e Don i due pianeti erano molto più luminosi, e il loro sfondo non era un cielo grigio e livido, ma il nero velluto costellato di diamanti dello spazio.

Lo spettacolo era spettrale, incredibile, perfino 'glorioso', eppure, conoscendo la situazione che esso nascondeva, per quanto la loro conoscenza fosse parziale e frammentaria, Paul e Don provavano soprattutto un senso sempre crescente di tensione. Là, sopra di loro, galleggiavano l'Inseguito e l'Inseguitore, la Ribellione e l'Autorità, l'Avventura e la Repressione… immobili nella stasi di una tregua incerta, mentre i due globi si guardavano e si misuravano.

Il triangolo giallo e gonfio nella cruna d'ago purpurea del Vagabondo, e il vivido splendore solare nel globo più grande, gibboso, metallico dello Straniero erano due occhi che si fissavano senza tremare.

La tensione era mortale, estenuante. Don e Paul, malgrado il conforto della reciproca compagnia, provavano il desiderio di rimpicciolire, di affondare, affondare tra gli strati dell'atmosfera terrestre e nella rocciosa carne materna, per celarsi in chissà quale oscuro grembo silenzioso. Perfino l'ansia degli occhi, desiderosi di osservare ogni particolare di simili prodigi, cedeva a quel repentino impulso divorante.

Paul domandò, con voce quasi fanciullesca.

«Tigerishka, perché non sei tornata sul Vagabondo? È già passato molto tempo, da quando ha lampeggiato il Richiamo Rosso. Tutte le altre astronavi saranno già tornate.»

Dalle tenebre che avvolgevano il pannello di comando, dove nessun raggio di luce, né del Vagabondo né dello Straniero, la toccava, Tigerishka rispose:

«Non è ancora il momento.»

In un tono quasi querulo Don disse:

«Paul e io non faremmo meglio a salire sul Baba Yaga? Posso manovrare i comandi attraverso l'atmosfera, compiendo le operazioni di frenaggio, dato che non c'è alcuna velocità orbitale da annullare, ma sarà rischioso, e se dobbiamo aspettare molto…»

«Non è ancora il momento neppure per questo!» disse Tigerishka. «C'è qualcosa che devo chiedervi, prima di lasciarvi. Voi siete stati salvati dallo spazio e dalle onde. Avete un debito con il Vagabondo.»

Si fece avanti, sporgendo la testa dalle tenebre, e il suo profilo viola e verde si stagliò nella luce dei pianeti.

«Allo stesso modo in cui vi ho mandati sulla Terra,» cominciò lei, sommessamente, «Ora vi manderò entrambi sullo Straniero, per testimoniare a favore del Vagabondo. Mettetevi al centro, fianco a fianco, e di fronte a me.»

«Vuoi dire che noi dobbiamo parlare in vostro favore?» domandò Paul, mentre lui e Don eseguivano quasi automaticamente, senza chiedersi quale fosse stata l'origine del nome dato al nuovo pianeta. «Dobbiamo dire che le vostre astronavi hanno fatto tutto il possibile, per salvare gli esseri umani e le loro case? Ricorda che ho visto moltissime catastrofi che non sono state evitate… molto più dei salvataggi, anzi.»

«Racconterete soltanto le vostre storie… la verità, come entrambi la conoscete,» disse Tigerishka, girando il capo, in modo che i suoi occhi viola parvero scintillare. «Ora stringetevi la mano, e non muovetevi. Oscuro completamente questo disco volante. I raggi che vi trasmetteranno saranno neri. Questo viaggio sarà per voi infinitamente più reale di quello sulla Terra. I vostri corpi non lasceranno il disco volante, ma vi sembrerà il contrario. State fermi!»

Le stelle si oscurarono, la Terra diventò nera, le scintille viola gemelle degli occhi di Tigerishka si spensero. Poi parve loro che un turbine di vento aprisse nelle grandi tenebre una porta nascosta, e Don e Paul vennero lanciati ruotando, attraverso lo spazio, veloci quasi come il pensiero… un secondo, due… poi furono in piedi, mano nella mano, al centro di un'immensa pianura, apparentemente sconfinata, piatta come il deserto di sale vicino al Gran Lago Salato, ma scintillante e riverberante di grigio argento, e torrida di un calore che essi non potevano avvertire.

«Credevo che sarebbe apparso rotondo,» disse Paul, dicendosi a ripetendosi che in realtà lui era all'interno del disco volante, senza riuscire a convincersi di questa realtà.

«Il Pianeta Inseguitore è più grande della Terra, ricordalo,» replicò Don. «Ed è impossibile vedere la curva terrestre, quando si è sulla superficie.» Stava ricordando, in quel momento, l'orizzonte vicino e racchiuso della Luna, ma soprattutto pensava alla somiglianza enorme tra questa esperienza e il suo volo di sogno attraverso il Vagabondo… e si chiese se il metodo seguito allora non fosse stato lo stesso.

Il cielo era un emisfero punteggiato di stelle, dominato dal riverbero del sole. A pochi diametri dal sole, la Terra galleggiava oscura, circondata da una sottile falce bluastra. Sopra l'orizzonte di torvo metallo si ergeva il Vagabondo, solo una metà del disco già spuntata, cinque volte più grande della Terra, ora, enorme, ma con il grande occhio giallo tagliato in due dalla argentea linea dell'orizzonte, così che esso pareva guatare più fieramente, quasi socchiudendo le palpebre.

«Credevo che saremmo stati proiettati all'interno,» disse Paul, indicando la torva superficie metallica ai loro piedi.

«A quanto pare, bloccano anche le immagini, per sottoporle alle loro ispezioni doganali,» replicò Don.

Paul disse:

«Be', se siamo delle onde radio, queste onde trasportano anche la nostra percezione.»

«Tu dimentichi che siamo ancora a bordo del disco,» fece Don.

«Ma allora, quale strumento vede tutto questo, e trasmette l'immagine al disco?» volle sapere Paul. Don scosse il capo.

Un lampo bianco esplose sulla pianura metallica, tra loro e l'emisfero violetto e giallo del Vagabondo. Svanì istantaneamente, poi ci furono altri due lampi, più lontano.

Paul pensò, La lotta è cominciata.

«Meteoriti!» esclamò Don. «Qui non c'è un'atmosfera che li possa fermare.»

In quell'istante, essi discesero attraverso la superficie di metallo, e si trovarono nelle tenebre. Le tenebre durarono solo un istante, un breve lampo nero… e poi si trovarono sospesi al centro di un'immensa sala sferica, immersa nella penombra, che aveva pareti e pareti e pareti di grandi occhi che guardavano all'interno.

Fu quella la prima impressione. La seconda fu che le losanghe disegnate non fossero occhi veri e propri, ma oblò neri, circondati da anelli dei colori più varii. Eppure insieme a questo giunse la sgradevole impressione che occhi di tutti i generi stessero osservando, attraverso quegli oblò simili a pupille.

Don e Paul, quasi contemporaneamente, ebbero dei veloci lampi di ricordi, stranamente uguali… l'impressione di essere accompagnati nello studio del preside, alla scuola media.

Don e Paul non erano soli in quell'immensa camera. Sospesi qua e là, insieme a loro, al centro della sfera, c'erano almeno cento esseri umani, o piuttosto le loro immagini tridimensionali… un'incredibile riunione di umanità. C'erano persone di tutte le razze, uniformi di paesi asiatici e africani, due uniformi dell'Astronautica Sovietica, un Maori dalla pelle nera e lucida, un arabo dal bianco velo, un indiano seminudo, una donna in pelliccia, e molti, moltissimi altri che potevano essere scorti solo di sfuggita, a causa delle altre figure che si frapponevano tra gli osservatori e loro.

Un argenteo raggio di luce, sottile come uno spillo, uscì da un punto accanto a uno degli oblò neri, e si allungò verso l'estremità opposta del campionario umano… mentre gli oblò scintillavano, come se occhi attenti fossero stati dietro di essi… e d'un tratto qualcuno cominciò a parlare rapidamente, ma con estrema calma, dal punto toccato dall'ago d'argento nel gruppo degli umani… o almeno così sembrava. Al suono della voce, Don provò un brivido, perché la riconobbe.

«Mi chiamo Gilbert Dufresne, Tenente, Astronautica degli Stati Uniti. Di servizio sulla Luna, ho lasciato il satellite a bordo di un'astronave monoposto per compiere una ricognizione del pianeta alieno, nello stesso momento in cui è cominciato il lunamoto. Per quello che so, i miei tre compagni sono morti durante la rottura della Luna.

«Ho iniziato un'orbita lunare est-ovest, e ben presto ho avvistato tre enormi astronavi a forma di ruota. Dei raggi di trazione di natura ignota hanno preso il controllo della mia astronave, a quel punto, e ci hanno attirati all'interno di una delle astronavi. Là ho incontrato una varietà di esseri alieni. Sono stato interrogato, penso, in virtù di un tipo a me ignoto di esplorazione mentale, e i miei bisogni fisici sono stati soddisfatti. Più tardi sono stato condotto sul ponte, o cupola di comando, dell'astronave, dove mi è stato permesso di osservarne il funzionamento e le operazioni.

«L'astronave si era allontanata dalla Luna, ed era sospesa sulla città di Londra, che era inondata dall'alta marea. Dei raggi, o un campo di forza a me sconosciuto, lanciati dalla nostra astronave, hanno respinto la massa d'acqua. Mi è stato chiesto di salire a bordo di una piccola astronave, in compagnia di tre alieni. Questa astronave è discesa, fermandosi nell'aria vicino alla sommità di un edificio che ho riconosciuto come il British Museum. Sono entrato in uno degli ultimi piani, accompagnato da uno degli esseri alieni. Là l'ho visto far rivivere cinque uomini che, a mio avviso, erano certamente morti quando siamo entrati. Poi siamo risaliti a bordo della piccola astronave, e dopo numerosi episodi analoghi siamo ritornati a bordo della grande astronave.

«Da Londra ci siamo spostati a sud, verso il Portogallo, dove la città di Lisbona era stata rasa al suolo da tremende scosse telluriche. Là ho visto…»

Mentre Dufresne continuava a parlare, Paul (che non l'aveva mai visto, pur avendo sentito parlare spesso di lui) cominciò a provare la sensazione che, per quanto le parole dell'uomo potessero essere veritiere, esse erano inutili, prive di valore… un fatuo chiacchierare sul margine di grandi eventi che irrevocabilmente si muovevano sulla loro strada. Gli oblò parevano osservare con cinico disprezzo, o meglio, parevano ricoperti da una fredda noia serpentina. Occhi impassibili di rettili annoiati. Il preside della scuola media stava ascoltando quella storia sincera e dettagliata senza udirla realmente, con la mente distratta da grandi decisioni.

Apparentemente questo presentimento fu una valida intuizione, perché, senza un altro preavviso, l'intera scena svanì, e fu istantanemanete sostituita dall'interno del disco volante a lui così familiare, più piccolo, più comodo, più luminoso, verde nel pavimento e nel soffitto, ora; e c'era Tigerishka, davanti al pannello nascosto dai fiori, che diceva:

«È inutile. Il nostro appello è stato respinto. Salite a bordo della vostra astronave, e ritornate sul vostro pianeta. Presto! Toglierò il contatto non appena sarete a bordo del Baba Yaga. Grazie per il vostro aiuto. Addio e buona fortuna, Don Merriam. Addio, Paul Hagbolt.»

Un circolo di pavimento verde si sollevò. Senza dire una parola, Don si calò a testa in giù nel portello, e cominciò ad avanzare all'interno del tubo.

Paul guardò Tigerishka.

«Sbrigati,» disse lei.

Miao si avvicinò cautamente. Paul si chinò, e quando la gattina lanciò un'occhiata a Tigerishka, la prese in mano, bruscamente. Facendo un passo verso il portello, accarezzò il pelo grigio. La sua mano rallentò e si fermò, nel mezzo della carezza, ed egli si voltò.

«Io non vado,» disse.

«Devi farlo, Paul,» disse Tigerishka. «La Terra è la tua patria. Presto.»

«Rinuncio alla Terra e alla mia razza,» rispose lui. «Voglio restare con te.» Miao si dibatté, nella sua mano, cercò di andarsene, ma lui la tenne stretta.

«Ti prego, vattene subito, Paul,» disse Tigerishka, finalmente voltandosi, e muovendosi, verso di lui. Lo guardava fissamente negli occhi. «Non potranno mai più esserci rapporti, tra noi.»

«Ma io voglio restare con te, mi hai sentito?» La sua voce fu d'un tratto così forte, e collerica, che Miao fu presa dal panico, e gli graffiò la mano, per liberarsi. La tenne stretta, e continuò, «Anche come il tuo animale domestico, se deve essere così. Ma io resto.»

Tigerishka si fermò, e il suo viso era a pochi centimetri da quello di Paul.

«Nemmeno come mio animale domestico puoi restare,» disse. «L'abisso tra noi non è abbastanza grande, neppure per questo… Oh, Vattene, vattene, stupido!»

«Tigerishka,» le disse, raucamente, guardandola negli occhi violetti. «Sì, il novanta per cento di quello che hai provato questa notte era fatto di pietà e di noia. Cos'era l'altro dieci per cento?»

Lei lo guardò, rabbiosa, come se una frenesia di esasperazione si fosse impadronita della sua mente. Repentinamente, muovendosi con una velocità quasi accecante, gli strappò di mano Miao, e lo schiaffeggiò con violenza sul viso. I tre pallidi artigli violetti di quella zampa rosseggiavano per un buon centimetro, quando Tigerishka li ritrasse.

«Questo!» ringhiò lei, scoprendo i canini.

Lui fece un passo indietro, poi un altro, poi si trovò nel tubo. La gravità artificiale, in alto, lo spinse nella galleria, in caduta libera. Guardando in alto, poté vedere la maschera ringhiante di Tigerishka. Il sangue gli colava dalla guancia, e galleggiava in goccioline rosse sull'argentea parete del tubo. Poi il grande portello si chiuse.

CAPITOLO XLII

Gli studiosi dei dischi volanti entrarono a Vandenberg Due senza incontrare ostacoli né fanfare, e in maniera per nulla romantica… sporchi e infangati e laceri e abbattuti.

Non c'era nessuno a vigilare il reticolato, che fino a poco prima era stato sotto metri e metri di acqua salata, nessuno di guardia sul grande cancello, che ora era aperto e traballante… non c'era niente di niente, anzi, a eccezione di dodici centimetri di fanghiglia scivolosa… così essi entrarono, semplicemente, con le loro macchine, quasi tutti a terra per alleggerire i veicoli, e iniziarono la salita che portava all'altopiano.

Hunter era al volante della Corvette. Tutto il sedile posteriore era occupato dalla massa di Wanda, che ne traboccava, anzi, e ansimava affannosamente. Nemmeno Wojtowicz era stato capace di farle superare a urlacci quel nuovo attacco di cuore.

La signora Hixon stava guidando il camion, perché Bill Hixon voleva osservare il cielo, dove il Vagabondo, che mostrava il mandala, e lo Straniero, erano ormai allo zenit… e perché non le importava un accidente, come aveva ripetuto più volte. Era sola nella cabina… Pop avrebbe voluto restare, ma lei gli aveva detto che puzzava più del fango, e il camion era di Bill, e lui non l'avrebbe sopportato.

In fondo al camion c'erano Ray Hanks e Ida, la quale curava sia la gamba di Ray che la sua caviglia gonfia. Non credeva nei sonniferi, e faceva ingerire — e ingeriva — malgrado le deboli proteste di Bill, grandi quantitativi di aspirina.

«Masticale,» diceva a Ray. «Sono tanto amare che non si pensa ad altro.»

Tutti gli altri andavano a piedi. Già per tre volte alcuni di loro avevano dovuto spingere il camion, per fargli superare i punti peggiori, e per due volte il camion aveva dovuto trainare la Corvette, impantanata in pozzanghere più fonde. Tutti erano macchiati di fango, le scarpe erano globi gonfi di fanghiglia; e gli pneumatici del camion erano infangati a loro volta, tanto che le catene non servivano.

Si vide una traccia di colorazione azzurra, nel chiarore combinato dei due pianeti che bagnava il paesaggio fangoso. Harry McHeath, che per la sua età era in grado, come pochi di loro, di tener d'occhio due cose contemporaneamente, esclamò:

«Ricominciano! Lo stanno facendo tutti e due!»

Quattro raggi diritti, sottili e di un azzurro violento si stendevano attraverso la grigia pianura del cielo, dallo Straniero al Vagabondo. Ma ora, invece di passare a una certa distanza, essi convergevano. Eppure non colpivano il Vagabondo, ma si fermavano vicinissimi, lo spazio di un capello di cielo grigio, e venivano respinti in quattro deboli ventagli bluastri.

«Probabilmente colpiscono un campo difensivo,» ipotizzò l'Omino.

«Come le battaglie dei Figli della Lente!» esclamò al colmo dell'eccitazione McHeath.

Tre raggi violetti, assai simili, uscivano dal Vagabondo, diretti verso lo Straniero, e venivano intercettati. I raggi azzurri e violetti si allungavano, s'incrociavano, tra i due pianeti, come un gioco di elastici intrecciati, in una perfetta configurazione geometrica.

«Ci siamo!» gridò Hixon, con forza.

Wojtowicz stava osservando la scena con tanta intensità, che uscì dalla strada. Con la coda dell'occhio, McHeath lo vide cadere e sparire, e corse da quella parte.

«Sto benissimo, ragazzo, sono soltanto scivolato un poco… vedi, posso raggiungerti,» rispose Wojtowicz, in tono rassicurante, alla chiamata ansiosa di McHeath. «Dammi una mano per salire, per favore… non voglio perdere un solo secondo della scena!»

Hixon gridò, rivolgendosi alla signora Hixon sul camion:

«Dovresti essere qui a vedere, tesoro… è fantastico!»

Dalla cabina, la voce della signora Hixon rispose:

«Guarda anche per me i fuochi artificiali, Billy caro… io continuo a guidare il camion!» E suonò rabbiosamente il clacson per chiedere strada, poiché la Corvette pareva sul punto di fermarsi.

Ma Hunter stava soltanto rallentando. Aveva lanciato un paio di rapide occhiate ai due pianeti guerreggianti, ma gli pareva ancora più importante fare entrare il suo gruppo nel sancta sanctorum dell'Astronautica mentre durava l'eccitazione generale, che probabilmente favoriva la loro entrata. Lui doveva fare questo, e consegnare a Opperly la pistola a momentum scarica… aveva cominciato a condividere buona parte dell'ossessione di Margo, su questo punto. Mentre lei, che camminava faticosamente sulla strada, a sinistra della macchina, era evidentemente dello stesso umore, e aveva la stessa determinazione.

Così Hunter chiamò a gran voce:

«Avanti, gente! Adesso giriamo a destra. Non finite fuori strada!» E fece salire finalmente la macchina sul terrapieno.

Là, finalmente, trovarono del personale della base… tre soldati che probabilmente avevano costituito il corpo di guardia, a giudicare dalle tre armi appoggiate alla parete della capanna di metallo dietro di loro, ma che in quel momento erano intenti a osservare la battaglia interplanetaria. Uno di loro faceva schioccare le dita.

Quando il camion arrivò sul terrapieno, dopo la Corvette, ed entrambi i veicoli si furono fermati, Margo camminò rapidamente verso i soldati.

In alto, tre nuove linee azzurre, e due nuove linee violette si aggiunsero al groviglio dei raggi laser, complicando il gioco degli elastici tesi nel cielo.

Margo toccò la spalla del soldato più vicino, e, vedendo che non reagiva, cominciò a scuoterlo. Il soldato le rivolse un viso sudato e sconvolto.

«Dov'è il professor Morton Opperly?» domandò Margo. «Dove sono gli scienziati?»

«Cristo, che ne so io,» le rispose il soldato. «I cervelloni sono lassù, da qualche parte.» Indicò con un vago cenno della mano l'interno del terrapieno. «Non mi disturbi, signora!» Si voltò di scatto, con lo sguardo nuovamente fisso sul cielo, e batté la mano sulla spalla di uno dei compagni.

«Tony!» gridò. «Scommetto altri due bigliettoni, sulla vittoria del Vecchio Dorato su Palladicannone! Lo ridurrà in briciole!»

«Sei pazzo!»

(Duemilacinquecento miglia a est, Jake Lesher afferrò la spalla di Sally Harris, e ansimò: «Oh, Sal, se avessi potuto organizzare un banco di scommesse, su questo affare!)

Margo continuò a camminare. La signora Hixon suonò di nuovo il clacson. Hunter continuò a guidare, lentamente, seguendo Margo. Chiamò le figure che circondavano i due veicoli, dicendo, seccamente: «Voi, continuate a camminare. Guardate e camminate.»

Davanti a loro, dei fari si muovevano lentamente su pareti bianche, mettendo in risalto gruppetti e gruppi nutriti di uomini; nessuno si muoveva, ma tutti stavano guardando il cielo.

Altri due raggi azzurri lampeggiarono, non esattamente dallo Straniero, ma da punti a circa mezzo diametro di distanza dal nuovissimo pianeta… giganteschi incrociatori da guerra degli spazi siderali. Uno dei nuovi raggi, diritto come un ago, arrivò fino al Vagabondo. Apparve una macchia incandescente sul margine dell'incavo giallo del mandala, a nord, e quando l'accecante luce bianca impallidì, si vide un lungo buco nero, dai margini frastagliati, nella pelle d'oro e porpora del Vagabondo.

La voce di Ann si udì, stridula per il dolore:

«Mammina, stanno facendo male al Vagabondo! È terribile!»

Pop, che avanzava zoppicando, e aveva ricominciato ad agitare il pugno, ringhiò con gioia cupa:

«Friggili, oh, accidenti, friggili! Avanti, continua! Ammazzatevi, bastardi!»

Improvvisamente, i nove raggi azzurri che si bloccavano a pochissima distanza dal Vagabondo cominciarono a espandersi, generando una specie di nube di un pallido azzurro, emisferica, che nascondeva per metà il Vagabondo… una specie di cortina di nebbia attraverso la quale i lineamenti viola e gialli del pianeta si potevano vedere fievolmente. I raggi viola erano svaniti.

«Li stanno affogando,» gridò Hixon. «È fatta.»

«No, io credo che il Vagabondo stia alzando un nuovo tipo di schermo difensivo,» obiettò l'Omino.

Cinque punti accecanti di luce bianca apparvero sulla superficie d'acciaio dello Straniero.

«Missili che esplodono!» ipotizzò McHeath. «Il Vagabondo sta rispondendo colpo su colpo!»

Bacchetto, che respirava affannosamente, e si appoggiava con la mano al fianco del camion, mentre camminava accanto a esso, d'un tratto lanciò un'esclamazione, che era come una supplica piena di dolore:

«Ma che cosa dobbiamo capire, da tutto questo? L'odio e la morte regolano il cosmo, anche tra le più alte civiltà?»

Rama Joan, che fissava il cielo e camminava, tenendo per mano Ann, gli rispose in tono deciso, argentino:

«Gli dei spendono la ricchezza che l'universo raccoglie, esplorano i prodigi e li gettano nel nulla. È per questo che sono gli dei! Vi avevo detto che lassù esistevano dei diavoli.»

Ann disse, in tono accusatore:

«Oh, mammina!»

Secondo l'ipotesi di McHeath, i cinque punti bianchi dovevano essere un'arma d'offesa; e infatti essi erano ingigantiti, gonfiandosi nei pallidi emisferi di altrettanti fronti di esplosione, attraverso i quali la metallica, gelida superficie dello Straniero riapparve intatta.

Hixon disse:

«Non so niente di diavoli e dei, ma adesso so che ci sarà sempre la guerra,» Indicò con la mano lo zenit. «Quale ulteriore prova potremmo chiedere, dopo questa

La signora Hixon gridò, ironicamente, dalla cabina:

«Adesso stai parlando in maniera sensata, Bill, e a che ti serve?»

Bacchetto ansimò:

«Ma quando anche i più alti… e i più saggi… Non esiste alcuna cura?»

Il giovane Harry McHeath ascoltò quella domanda, e la tragedia che essa conteneva accese il fuoco della sua immaginazione, e per un momento egli si vide a bordo di un'astronave monoposta quasi onnipotente, galleggiante nello spazio cosmico, a metà strada tra il Vagabondo e lo Straniero, intenta a deviare i loro fulmini e a farli perdere innocui nello spazio lontano, riuscendo così a curare la loro follia.

L'Omino disse, non a voce alta, quasi parlando tra sé:

«Forse la cura deve venire sempre dal basso. E continuare a venire sempre dal basso. Per sempre.»

Ma Wojtowicz lo udì, e senza distogliere lo sguardo dall'incredibile spettacolo celeste, domandò:

«Che cosa intendi dire, Doddsy? Dal basso? Non vorrai alludere a noi?»

L'Omino lo fissò.

«Sì, Wojtowicz,» disse, facendo una risatina per la comicità dell'assunto, «Dai piccoli esseri senza importanza, dai trascurabili nessuno, come me e come te.»

Wojtowicz scosse il capo.

«Accidenti,» rise. «Sono ubriaco.»

Continuando per tutto il tempo ad avanzare, i veicoli e i pedoni si trovarono a questo punto vicinissimi alle mura illuminate dai riflettori. Un giovanotto che indossava una maglietta bianca passò di corsa accanto a Margo, e afferrò il braccio di un maggiore, gridandogli all'orecchio:

«Opperly dice di spegnere quei maledetti riflettori. Stanno rovinando tutte le nostre osservazioni!»

Hunter, ascoltando quelle parole, fu indotto a pensare ad Archimede che diceva al soldato nemico che aveva camminato sul diagramma tracciato nella sabbia: «Non rovinare il mio circolo!»

Il soldato della leggenda aveva ucciso Archimede, ma questo maggiore stava assentendo con vigorosi cenni del capo, e si voltò immediatamente. Hunter riconobbe il maggiore Buford Humphreys, conosciuto due sere prima. Nello stesso istante Humphreys lo vide, vide Rama Joan e Ann, vide l'intero gruppo di 'maniaci dei dischi' che aveva respinto in precedenza da Vandenberg. Spalancò gli occhi e la bocca, poi, scrollando le spalle per manifestare la più totale incomprensione, e lanciando un altro sguardo al cielo, corse via, gridando:

«Accidenti, caporale, spegni quei maledetti riflettori!»

Nel frattempo Margo aveva afferrato il giovanotto per la manica della maglietta, prima che lui avesse potuto andarsene.

«Ci porti dal professor Morton Opperly!» ordinò lei. «Dobbiamo fare rapporto. Guardi, ho qui un messaggio del professore.»

«D'accordo,» assentì il giovane, senza neppure dare un'occhiata al foglietto sporco e appallottolato. «Mi segua.» Puntò la mano verso i due veicoli. «Ma spegnete quei fari!»

I fari della Corvette e del camion si spensero un attimo prima che la parete bianca diventasse nera, ma Margo seguì il giovanotto. La maglietta bianca rendeva facile, a Hunter, il compito di seguirli. Oltre le due figure ora Hunter vedeva le sagome nere di grandi schermi radar, e il cilindro bianco di un telescopio.

In alto, i raggi azzurri si spensero lungo tutta l'estensione, e la cortina di nebbia intorno al Vagabondo impallidì, per essere istantaneamente sostituita da un centinaio di punti di luce bianca, di un bagliore abbacinante.

Ma nell'istante in cui McHeath, socchiudendo gli occhi, gridò, «Globo d'implosione!» si vide che il Vagabondo era scivolato lateralmente, allontanandosi nel cielo di due diametri, dando l'impressione allucinante che le fondamenta stesse dell'universo si stessero spostando. Il globo d'implosione s'illuminò, quando le bianche esplosioni che erano state sull'altra faccia del Vagabondo filtrarono, e il globo aveva adesso un ampio collo frastagliato, là dove il Vagabondo era sfuggito.

«Hanno reso privo d'inerzia… l'intero pianeta!» esclamò Clarence Dodd.

C'erano almeno sei nuovi buchi frastagliati sulla corteccia del Vagabondo, ora, neri, ma con un cupo rosseggiare verso il centro, in profondità… erano tanti, che i lineamenti del mandala erano a malapena identificabili.

Tangenziale dal fianco del pianeta devastato, scaturì verso lo Straniero un raggio viola, più grande e molte volte più luminoso di tutti i precedenti.

Ma prima che esso fosse arrivato a metà strada dallo Straniero, il pianeta più grande si mosse rapido come uno dei suoi raggi… una carica di rinoceronte attraverso il cielo, che distruggeva ogni traccia del senso di stabilità… raggiungendo una posizione a fianco del Vagabondo. Tra di essi non c'era neppure lo spazio di un diametro lunare.

Il Vagabondo svanì.

Un raggio azzurro partì dallo Straniero, e sfrecciò attraverso lo spazio nel quale era stato il Vagabondo.

«Accidenti, l'hanno fatto a pezzi!» urlò Pop, estatico.

«No, è scomparso una frazione di secondo prima,» lo contraddisse l'Omino. «Bisogna imparare a osservare.»

Lo Straniero, con la fosca superficie d'acciaio intatta, anche se segnata da cicatrici brune e verdognole, rimase sospeso nel cielo per tre, quattro, cinque secondi, poi svanì a sua volta… come una grande lampada elettrica, il cui filamento era il riverbero solare, spenta d'un tratto da una mano capricciosa.

Il fascio dei raggi laser azzurri, e il solitario raggio violetto, strisciarono nello spazio, allentandosi gli uni dagli altri, affievolendosi e accorciandosi, ma sempre in linea retta, nelle più remote distanze astronomiche, mentre il perlaceo globo d'imposione al quale il Vagabondo era sfuggito si fece più pallido, più grande, più spettrale.

«Il Vagabondo è fuggito nell'iperspazio,» disse McHeath.

«Forse, ma era già condannato,» disse Hixon. «È stato colpito, ancora un colpo e sarebbe andato a pezzi, e lo Straniero si è tuffato all'inseguimento. Il Vagabondo è finito.»

«Ma non possiamo esserne certi,» disse Hunter. «Potrebbe continuare a fuggire per sempre.» Mentalmente aggiunse, Come l'Olandese Volante.

«Non possiamo essere nemmeno certi che se ne siano andati davvero,» disse Wojtowicz, con una risatina nervosa. «Potrebbero essere balzati semplicemente dall'altra parte della Terra.»

«Questo è vero,» disse l'Omino. «Ma non li abbiamo visti neppure iniziare un movimento… sono semplicemente svaniti. E ho una sensazione…»

In quel preciso istante, quando i riverberi gialli e arancione svanirono dalla loro retina, gli studiosi dei dischi volanti cominciarono a rendersi conto, uno per uno, che erano in piedi, immobili, nell'oscurità totale. Hunter aveva spento il motore della Corvette. Dietro di lui, udì spegnersi il motore del camion. A gruppi di due e tre le stelle cominciarono ad ammiccare nel cielo nero… le vecchie stelle familiari, che il cielo grigio e d'ardesia aveva mascherato per tre notti.

Don e Paul guardarono, attraverso lo schermo visore del Baba Yaga, i vuoti campi di stelle, e i raggi laser azzurri e viola che si allontanavano in linea retta, strisciando verso l'infinito.

Erano entrambi legati ai sedili antigravitazionali. Paul teneva premuto sulla guancia un fazzoletto rosso in più punti. Don osservava il quadro di comando, e l'immagine verde del radar, i cui segnali rimbalzavano dalla California Meridionale e dal Pacifico. Benché soltanto una lievissima traccia dell'atmosfera della Terra fosse sotto di loro, lui aveva già compiuto una volta la manovra di frenaggio, soprattutto per assicurarsi che il motore principale si sarebbe acceso nel momento critico.

«Be', se ne sono andati,» disse Don.

«Nella bufera,» finì per lui Paul. «Il Vagabondo era già un relitto.»

«Non si può chiamare relitto un oggetto capace di immergersi nell'iperspazio,» gli assicurò Don, in tono allegro. Le stelle cominciarono a strisciare attraverso lo schermo, e Don accese per un secondo i razzi stabilizzatori, e le immagini si fermarono.

«Forse il Vagabondo sarà portato alla deriva nell'iperspazio in un altro cosmo,» mormorò pensieroso Paul. «Forse è questa la sua strada; non cercare di aprirsi un varco a forza, ma lasciarsi andare alla deriva, come una nave in avaria nelle correnti dell'iperspazio, arrendersi alla tempesta.»

Don gli lanciò un'occhiata acuta:

«Lei ti ha detto molte cose, vero? Chissà se è ritornata a bordo in tempo.»

«Naturalmente,» disse Paul, in fretta. «Credo che anche quelle piccole astronavi possano muoversi alla velocità della luce, o superarla.»

«È stato un bel graffio, quello che ti ha dato,» fece notare Don, casualmente, affrettandosi però ad aggiungere, «Io non ho avuto nessun grande romanzo d'amore, lassù.» Accese di nuovo i razzi stabilizzatori, e corrugò la fronte, osservando l'indicatore della temperatura esterna. Continuò, bruscamente: «E non credo che me ne siano rimasti neppure laggiù. Direi che Margo fa sul serio con quel tizio, quell'Hunter.»

Paul si strinse nelle spalle.

«E cosa t'importa? Tu hai sempre amato la solitudine più della gente. Non offenderti… amare se stesso è il principio di tutto l'amore.»

Di nuovo, Don gli lanciò una rapida occhiata.

«Scommetto che tu amavi Margo più di quanto l'amassi io,» disse. «Penso di averlo sempre saputo.»

«Naturalmente,» disse Paul, in tono piatto. «Sarà arrabbiata, perché ho perso Miao.»

Don fece una risatina.

«Quali e quante cose vedrà, quella gattina!» Poi la sua voce cambiò. «Tu volevi andare con Tigerishka, vero? Sei rimasto indietro, per chiederglielo.»

Paul annuì.

«E lei non mi ha voluto, a nessuna condizione. Quando le ho chiesto che cosa sentiva per me, mi ha dato questo.» Premette il fazzoletto sulla guancia che sanguinava ancora.

Don ridacchiò.

«Tu sei goloso di punizioni, eh?» Poi, in tono leggero: «Non so, Paul, ma se io fossi innamorato di una bellissima gatta, quel graffio sarebbe l'unica cosa capace di convincermi del fatto che lei mi ricambiava. Adesso stringi la sbarra… stiamo sorvolando le Cascate del Niagara.»

Gli studiosi dei dischi volanti erano in piedi, nell'oscurità fittissima, un nero edificio di tenebre con un tetto di stelle. Poi, così vicino che per un attimo parve loro di trovarsi realmente in una stanza, una piccola luce bassa si accese, mostrando un tavolo ingombro di carte, e dietro il tavolo un uomo che aveva il viso senza età, sottile e dai lineamenti marcati di un faraone. Margo si mosse verso quest'uomo, seguendo il giovane che indossava la maglietta bianca, e Hunter scese dall'auto e andò a sua volta in quella direzione.

L'uomo dietro il tavolo guardava alla sua destra. Qualcuno, in quel punto, disse:

«I campi magnetici di entrambi i pianeti sono scomparsi, Oppie. Siamo ritornati alla norma-Terra.»

Margo disse, ad alta voce:

«Professor Opperly, le stiamo dando la caccia da due giorni. Io ho qui una pistola che è caduta da un disco volante. Serve a imprimere momentum negli oggetti. Abbiamo pensato che dovesse essere affidata a lei. Sfortunatamente, per arrivare qui, abbiamo consumato tutta la carica.»

Egli le lanciò una rapida occhiata, poi abbassò lo sguardo sulla grigia pistola che lei aveva tirato fuori dalla giacca. Le sue labbra si strinsero in un sorrisetto abbastanza sgradevole.

«Direi che assomiglia molto di più a un giocattolo da quattro soldi,» le disse, bruscamente. Poi, volgendosi di nuovo all'uomo che gli stava accanto, «E le comunicazioni radio, Denison? L'etere è più libero, oppure…»

Margo aveva rapidamente spostato la freccia in senso opposto alla canna, poi l'aveva puntata contro il tavolo, e aveva premuto il bottone. Opperly e il giovanotto in maglietta bianca si mossero, cercando di afferrarla, poi si fermarono. Alcuni fogli di carta galleggiarono nell'aria, verso la pistola, e poi furono seguiti da tre fermacarte metallici e da una penna metallica che era stata usata come fermacarte. Per un secondo tutti questi oggetti rimasero appesi alla canna della pistola, poi ricaddero.

«Deve trattarsi di un fenomeno elettrostatico,» disse il giovanotto, con evidente curiosità, osservando i fogli che ricadevano lentamente.

«Agisce anche sugli oggetti metallici,» dichiarò l'uomo che era stato chiamato Denison, osservando i fermacarte che cadevano. «Induzione?»

«Ha attirato la mia mano! L'ho avvertito distintamente,» disse a sua volta Opperly, allargando le dita della mano che aveva allungato, sul tavolo, verso la pistola. Guardò di nuovo Margo. «Ha detto che è effettivamente caduta da un disco volante?»

Lei sorrise, porgendogli la pistola.

Hunter disse:

«Le portiamo anche un messaggio del tenente Donald Merriam, dell'Astronautica. Atterrerà qui…»

Opperly si era rivolto a qualcun altro che era accanto a lui.

«Non c'era un Merriam, tra i dispersi della Base Lunare?»

«Non è disperso,» interloquì Margo. «È riuscito a fuggire a bordo di una delle astronavi lunari. È stato sul nuovo pianeta. Cercherà di atterrare qui… forse sta già arrivando.»

«E aveva un messaggio speciale per lei, professor Opperly,» aggiunse Hunter. «Il nuovo pianeta possiede degli acceleratori lineari pari al raggio terrestre, e un ciclotrone pari alla circonferenza terrestre.»

Opperly sorrise.

«Ne abbiamo avuto appena adesso una dimostrazione, no?»

Nessuno di loro notò una stella ammiccare in ritardo, in prossimità di Marte. Un raggio laser in fuga nello spazio aveva colpito Deimos, la piccola luna esterna di Marte, trasformandola in una massa incandescente… provocando una considerevole eccitazione in Tigran Biryuzov e nei suoi compagni.

Opperly posò sul tavolo la pistola grigia, e girò intorno alla superfice ingombra di carte.

«Venite con me, per favore,» disse, rivolgendosi a Margo e a Hunter. «Dobbiamo avvertire il campo di atterraggio, per l'eventualità di un atterraggio.»

«Aspetti un attimo,» disse Margo. «Non lascerà semplicemente qui la pistola a momentum

«Oh,» disse Opperly, in tono di scusa. Allungò la mano, e porse la pistola a Margo. «Sarà meglio che me la custodisca lei.»

Richard Hillary e Vera Carlisle marciavano lungo una stradicciola fangosa che costeggiava sinuosa le cime delle Malvern Hills, dirigendosi a sud. Ancora una volta c'erano molte altre figure in marcia, con loro, una lunga teoria di punti in movimento.

Avevano scoperto che neppure il sesso e la compagnia possono placare lo stimolo del lemming, almeno di giorno. Richard stava pensando di nuovo alle Black Mountains. Doveva essere possibile raggiungerle, senza abbandonare il terreno alto.

Il sole del mattino era nascosto da una grigia nuvolaglia che era venuta da occidente, proprio quando il Vagabondo era tramontato, mostrando la D. Allora si era verificato un fenomeno apparentemente inesplicabile. Nel momento in cui il Vagabondo era svanito nella cortina di nubi, era sembrato rinascere, tutto di un grigio argenteo, e ancora più grande, un'ora sopra il punto in cui era svanito. Avevano fatto innumerevoli ipotesi, cercando di indovinare se si fosse trattato di un miraggio, o se addirittura non fosse stato un secondo pianeta straniero. Poi il miraggio, o il pianeta straniero che fosse, era svanito nella nuvolaglia.

Vera si fermò, e accese la radiolina a transistor. Richard si fermò, accanto a lei, facendo un sospiro di rassegnazione. Due passanti vicini si fermarono a loro volta, per semplice curiosità.

Vera, lentamente, fece ruotare il disco della sintonia. Non si udivano scariche di statica. Lei alzò il volume al massimo, e ricominciò a far ruotare il disco. E ancora, soltanto silenzio.

«Forse è rotta, signorina,» suggerì uno dei viandanti.

«Hai consumato le batterie,» le disse Richard, in tono ostile. «Meno male.»

Poi la voce giunse, sottile e sibilante, all'inizio, ma poi, quando Vera sintonizzò meglio l'apparecchio, chiara e forte nel silenzio dal grigio tetto delle colline:

«Ripetiamo. Un dispaccio di agenzia, trasmesso via cavo da Toronto, e confermato da Buenos Aires e dalla Nuova Zelanda, afferma definitivamente che i due pianeti stranieri sono svaniti, così come erano arrivati. Questo non significa un'immediata cessazione degli effetti sulle maree, ma…»

Continuarono ad ascoltare. Dalla strada, da ogni punto del percorso, arrivava molta gente, che si radunava, si radunava…

Bagong Bung decise che le onde si erano quietate a sufficienza, così prese il sacco di tela dal fondo della scialuppa di gomma, dove era rimasto, sotto il suo corpo, per maggiore sicurezza, insieme ai sacchetti legati che contenevano le monete della Sumatra Queen, e lo aprì, in modo che anche Cobber-Hume potesse vederne il contenuto.

Le acque tempestose, che avevano spazzato più volte la superficie della piccola scialuppa arancione, avevano portato via tutta la fanghiglia, e pulito tutti i piccoli oggetti contenuti dal sacco. Insieme a frammenti di corallo, e a ciottoli, e a conchiglie, c'era il cupo bagliore di oro antico, e c'erano le fiamme piccole e rosseggianti di tre… no, di quattro!… rubini.

Wolf Loner smise di dare la minestra alla bambina italiana, perché lei aveva girato la testa per guardare l'orlo del sole nascente che spuntava sull'Atlantico grigio. «Il sole,» mormorò lei.

Toccò il legno della Pazienza. «Una nave.»

Posò la mano sul polso della mano che teneva il cucchiaio, e sollevò lo sguardo, finalmente guardandolo negli occhi. «Noi siamo qui.»

«Sì, siamo qui,» le disse.

Il capitano Sithwise guardò in basso, dal ponte di comando della Principe Carlo, e vide leghe e leghe di verde giungla fangosa, che cominciava a fumigare vapore bianco, sotto i raggi del sole rosso e basso sull'orizzonte.

Il commissario di bordo disse:

«Estrapolando dai feriti visibili, signore, abbiamo ottocento arti rotti e quattrocento cranii fratturati da curare.»

Il secondo di bordo disse:

«Il Brasile possiede ora il nucleo di una città atomica nella giungla. Immagino che alla fine sarà questa la sua sorte, signore, benché la causa possa essere lunga, ed eccezionale, e terrà occupate, ne sono certo, tutte le corti di giustizia internazionali!»

Il capitano Sithwise annuì, ma continuò a studiare lo strano mare verde nel quale la sua nave era venuta a ormeggiarsi.

Barbara Katz guardò le acque azzurre, intorno all'Albatros. Erano pochissime le onde che mostravano una cresta bianca, neppure una su dieci. Il sole stava salendo sopra una costa di palme abbattute e contorte, a meno di due miglia di distanza. Hester sedeva sul portello, e teneva in braccio il bambino.

«Benjy,» disse Barbara. «C'è una piccola stiva, là sotto, e ci sono le coperte, se proprio non abbiamo della tela. Credi di riuscire a fabbricare un piccolo albero e una vela, e a…»

«Sì, signorina Barbara, sono sicuro di riuscirci,» le disse. Si stirò, e sbadigliò vigorosamente, offrendo il petto al sole. «Ma questa volta, prima di tutto, mi prenderò un po' di riposo.»

Sally Harris disse a Jake Lesher:

«Oh, accidenti, adesso tutta l'eccitazione è finita.»

«Gesù, Sal, ma tu non vuoi mai dormire?» protestò Jake.

«E chi potrebbe dormire, adesso?» domandò lei. «Cominciamo a fare dei segnali alla gente. O meglio ancora, adesso che abbiamo tutto il materiale, cominciamo a lavorare davvero sulla commedia!»

Pierre Rambouillet-Lacepède mise in disparte, con evidente rammarico, i suoi calcoli sui tre corpi, che ormai non avrebbero più potuto essere pienamente verificati, e prestò orecchio a Francois Michaud.

Il più giovane astronomo disse, con viva eccitazione:

«L'abbiamo scoperto, senza alcuna possibilità di dubbio! Il giorno siderale è stato allungato di tre secondi all'anno! I pianeti stranieri, dopotutto, hanno avuto un effetto misurabile sulla Terra!»

Margo e Hunter erano in piedi nel buio, mano nella mano, ai margini del campo di atterraggio, vicino all'estremità nord dell'altopiano di Vandenberg Due.

«Ti preoccupa incontrare Don e Paul?» le mormorò. «Non dovrei chiedere una cosa simile, naturalmente, ora che siamo preoccupati e ci chiediamo se ce la faranno ad atterrare!»

«No,» rispose lei, abbracciandolo con l'altro braccio. «Sarò felicissima di salutarli. Ora ho te.»

Sì, infatti, meditò lui, non eccessivamente felice. E adesso lui doveva adattare la sua vita a quella nuova conquista. Poteva rinunciare a Wilma e ai ragazzi? Assolutamente no, ne era sicuro.

Poi gli venne in mente un'altra cosa.

«E adesso tu hai Morton Opperly,» mormorò.

Margo sorrise, poi domandò:

«Cosa intendi dire con questo, Ross?»

«Niente di particolare, credo,» le rispose.

Intorno a loro erano radunati gli altri studiosi dei dischi volanti. Il camion e la Corvette erano fermi alle loro spalle.

Da un lato c'erano Opperly, e pochi membri della sua sezione. Il contatto radio con il Baba Yaga era stato annunciato, dalla torre di controllo, pochi secondi prima.

Sopra le loro teste, le vecchie stelle familiari del cielo boreale si stendevano tra le due costellazioni dello Scorpione e dell'Orsa Maggiore, ma in alto, a occidente, tra di esse giaceva uno scintillio a fuso di nuove stelle, alcune deboli, altre luminose, più luminose di Sirio… gli scintillanti resti della vecchia Luna, in un cielo che da quel giorno avrebbe conosciuto un eterno novilunio.

«Sarà strano non avere più una luna,» disse Hixon.

«Cento dèi cancellati dalla mitologia con un solo colpo di spugna,» fece notare Rama Joan.

«A me dispiace di più di avere perso il Vagabondo,» pigolò Ann. «Oh, spero che sia riuscito a fuggire!»

«Molte più cose di tutti gli dei della luna sono state cancellate,» disse Bacchetto, in tono cupo.

«Non importa, Charlie,» gli disse Wanda. «Tu hai visto grandi cose accadere. Tutte le tue predizioni…»

«Tutti i miei sogni,» la corresse. Corrugò la fronte, ma le strinse forte la mano.

Hunter disse:

«Avremo due nuovi dei, per ognuno di quelli che abbiamo perduto. Questa è la mia previsione.»

Pop disse, brontolando:

«Non me ne importa un accidente che sia scomparsa la luna. Per me non aveva mai fatto niente.»

«Non aveva neppure addolcito una bella ragazza, Pop?» gli chiese Margo.

McHeath annunciò, come se l'idea gli fosse venuta in quel momento:

«Niente più Luna… niente più maree.»

«Sì, ci saranno ancora delle maree solari,» lo corresse l'Omino. «Piccole, naturalmente, come quelle che si verificano a Tahiti.»

«Mi chiedo cosa ne sarà dei resti della luna,» disse Margo, guardando a occidente. «Rimarranno lassù, semplicemente, formando un anello intorno alla Terra?»

Opperly udì la domanda, e disse, a mo' di spiegazione:

«No, ora che il suo centro gravitazionale se ne è andato con il Vagabondo, i frammenti si diffonderanno a raggera, alla velocità che avevano in orbita… circa cinque miglia al secondo. Alcuni frammenti colpiranno l'atmosfera terrestre fra dieci ore. Ci sarà una pioggia di meteore, ma immagino non troppo distruttiva. L'anello si trova su un piano che passa sopra il nostro Polo Nord. Quasi tutti i frammenti dovrebbero mancarci. Altri assumeranno delle lunghissime orbite ellittiche intorno alla Terra.»

«Accidenti,» osservò Wojtowicz, quasi allegramente. «È come se fosse tornato Doc a spiegarci le cose.»

«Chi è Doc?» domandò Opperly.

Il gruppo fu silenzioso per un momento. Poi Rama Joan disse:

«Oh… un uomo.»

In quel momento una fiamma gialla apparve allo zenit, diventò una fiamma color limone, più grande, che scendeva verso la terra. Si udì un basso ronzio, che diventò un ruggito, come quello che si ode in un caminetto quando tutti i ceppi cominciano ad ardere. Il Baba Yaga toccò il suolo, mentre la fiamma gialla dei motori si spegneva, in un perfetto atterraggio…

FINE