Fredric Brown
Arena
Carson aprì gli occhi e si trovò a guardare verso l’alto, in una tremolante semioscurità azzurra.
Faceva caldo. Lui era disteso sulla sabbia, e uno spuntone roccioso che sporgeva gli faceva male alla schiena. Rotolò sul fianco, scostandosi dalla roccia, e si rizzò a sedere.
«Sono pazzo», pensò. «Pazzo… o morto… o qualcosa di simile». Anche la sabbia era azzurra, azzurro-vivo, e non c’era niente di simile a questa sabbia azzurra sulla Terra o su qualcun altro dei pianeti.
Sabbia azzurra.
Sabbia azzurra sotto una volta azzurra che non era il cielo e neppure una stanza, ma una porzione circoscritta di spazio… in qualche modo lui sapeva che era circoscritta, finita, anche se non riusciva a coglierne la sommità.
Raccolse un po’ di sabbia tra le mani e la lasciò scorrere tra le dita. Colò giù, sulla sua gamba scoperta. Scoperta?
Nuda. Lui era completamente nudo, e già il suo corpo era madido di sudore per lo snervante calore, macchiato d’azzurro là dove la sabbia l’aveva toccato, appiccicandosi.
Ma dove non era sporco di sabbia, il suo corpo era bianco.
Rifletté: Allora, questa sabbia è davvero azzurra. Se fosse sembrata azzurra soltanto a causa di questa luminosità azzurra, allora sarei azzurro anch’io. Ma sono bianco, e allora la sabbia è azzurra. Sabbia azzurra. È qualcosa che non esiste. Non esiste nessun posto come questo, dove mi trovo adesso.
Il sudore gli sgocciolava sugli occhi.
Faceva caldo, caldo come all’inferno. Solo che l’inferno — quello degli antichi — avrebbe dovuto essere rosso, e non azzurro.
Ma se quel posto non era l’inferno, allora cos’era? Soltanto Mercurio, fra i pianeti, era caldo così. Ma questo non era Mercurio. E Mercurio si trovava a quattro miliardi di miglia da…
Allora, ricordò dove si era trovato prima. In quel piccolo ricognitore monoposto, fuori dell’orbita di Plutone, a esplorare poco meno d’un milione di miglia cubiche su un fianco dell’Armata Terrestre disposta in ordine di battaglia per intercettare gli invasori.
L’improvvisa, stridula esplosione spezza-nervi del campanello d’allarme quando il ricognitore rivale — lo scafo alieno — era giunto alla portata dei suoi rilevatori…
Nessuno sapeva chi fossero gli invasori, che aspetto avessero, da quale lontana galassia arrivassero, salvo che essa si trovava all’incirca nella direzione delle Pleiadi.
Dapprima, sporadiche incursioni contro colonie e avamposti terrestri. Battaglie isolate fra pattuglie terrestri e squadriglie d’invasori; scontri a volte vinti e a volte persi, ma, fino ad oggi, non conclusi mai con la cattura di un vascello nemico. E nelle colonie aggredite, nessuno era mai sopravvissuto per descrivere gli invasori usciti fuori dalle loro navi a combattere, se mai ne erano usciti.
All’inizio, la minaccia non era stata giudicata seria, poiché le incursioni non erano state numerose, o troppo distruttive. E, prese singolarmente, le loro navi si erano mostrate leggermente inferiori, come armamento, alle migliori navi da combattimento terrestri, anche se erano un po’ superiori quanto a velocità e a manovrabilità. Un vantaggio, quest’ultimo, sufficiente a dare agli invasori la scelta tra fuggire o combattere, a meno che non fossero circondati.
La Terra, comunque, si era resa conto della gravità del pericolo, e aveva costruito la più grande armata spaziale di tutti i tempi. Da molto quell’armata aspettava, ma adesso la resa dei conti era imminente.
I ricognitori terrestri, inviati nello spazio esterno, avevano rilevato, a venti miliardi di miglia di distanza, l’avvicinarsi di una immensa flotta, quale, appunto, ci si poteva attendere per la battaglia decisiva. Quei ricognitori non erano mai tornati indietro, ma i loro messaggi radiotronici sì. E adesso l’armata della Terra, tutte le diecimila navi e il mezzo milione di uomini armati fino ai denti, erano là fuori, oltre l’orbita di Plutone, in attesa d’intercettare il nemico e di combattere fino alla morte.
E sarebbe stata una battaglia ad armi pari, a giudicare dai rapporti inviati dagli uomini spintisi in avanscoperta oltre quell’immenso abisso di spazio, i quali, prima di affrontare consapevolmente la morte, erano riusciti a inviare dettagliate notizie sulle dimensioni e la potenza di fuoco della flotta nemica.
Era in gioco il dominio del sistema solare, ed entrambe le parti avevano un’uguale probabilità di vincere la battaglia. Per la Terra, era l’ultima possibilità di salvezza, poiché si sarebbe trovata, con le sue colonie, alla totale mercé degli invasori, se questi fossero riusciti a sfondare quello sbarramento…
Oh, sì. Adesso Bob Carson ricordò.
Non che ciò spiegasse la sabbia azzurra e la tremolante semioscurità azzurrastra in cui si era risvegliato. Ma l’assordante stridio del campanello d’allarme, e il suo balzo verso il pannello dei comandi. Il suo frenetico armeggiare mentre si assicurava con la cinghia al seggiolino. Il punto nero che s’ingrandiva sulla piastra video.
La bocca arida. La spaventosa consapevolezza che era giunto il momento. Per lui, almeno, malgrado le flotte principali fossero ancora fuori portata l’una dall’altra.
Il suo primo, duro assaggio. Nel giro di tre secondi, o meno, sarebbe uscito vittorioso dallo scontro, oppure ridotto in polvere carbonizzata. Morto.
Tre secondi… la durata di una battaglia nello spazio. Il tempo sufficiente a contare lentamente fino a tre, poi avevate vinto, o eravate morti. Un colpo solo bastava a liquidare un piccolo apparecchio monoposto come il suo ricognitore, dallo scarso armamento e la blindatura leggera.
Frenetiche, quasi automaticamente, le sue labbra asciutte avevano formato la parola «Uno», mentre manovrava per mantenere quel punto che s’ingrandiva al centro esatto della sottile griglia telemetrica sulla piastra video. L’avevano fatto le sue mani, mentre il suo piede destro era rimasto sospeso sopra il pedale che avrebbe fatto partire la scarica. Un solo vortice d’inferno concentrato che doveva far centro… Non ci sarebbe stato il tempo per un secondo colpo.
«Due». Nemmeno si era reso conto di averlo detto. Il punto sulla piastra video, adesso, non era più un punto. Distante solo poche migliaia di miglia, la sua immagine sulla piastra lo mostrava come se fosse a qualche centinaio di metri. Era un piccolo ricognitore, agile e veloce, grande all’incirca come il suo.
Uno scafo alieno, senza alcun dubbio.
«Tr…» Il suo piede aveva abbassato il pedale, per far partire la scarica…
E all’improvviso, l’invasore aveva virato stretto, guizzando fuori dal mirino. Carson aveva freneticamente manovrato per seguirlo.
Per un decimo di secondo, il nemico era uscito del tutto dalla piastra video, poi, dopo aver virato, Carson tornò a vederlo, che puntava alla massima velocità verso il suolo.
Il suolo?
Poteva esser soltanto un’illusione ottica. Doveva esserlo. Quel pianeta, o qualunque altra cosa fosse, che ora invadeva quasi completamente la piastra video, non poteva esser lì. Non era possibile. Non c’era nessun pianeta più vicino di Nettuno, a tre miliardi di miglia di distanza… e Plutone remotissimo, sul lato opposto rispetto al Sole.
I suoi sensori! Non avevano mostrato nessun oggetto di dimensioni planetarie, o anche soltanto un asteroide. E continuavano a non mostrarlo.
Perciò non poteva trovarsi lì, qualunque cosa fosse quell’immensa cosa verso la quale si stava tuffando, a poche centinaia di miglia sotto di lui.
E nella sua improvvisa ansia di evitare di schiantarsi, si era perfino dimenticato del vascello nemico. Aveva acceso i razzi frenanti frontali, e quando la brusca diminuzione di velocità l’aveva sbattuto in avanti, contro la cinghia del sedile, aveva acceso i razzi tutto a destra per una virata di emergenza. Li aveva spinti al massimo, e ce li aveva tenuti, cocciutamente, ben conscio di dover dare tutta la potenza che poteva spremere dai propulsori per impedire alla nave di schiantarsi… anche se sapeva che una simile, tremenda accelerazione gli avrebbe fatto perdere i sensi per qualche attimo.
E aveva perso i sensi.
E questo era stato tutto. Adesso, era seduto su quella calda sabbia azzurra, completamente nudo ma per il resto illeso. Nessuna traccia della sua nave spaziale ma — se era per questo — neppure nessuna traccia dello spazio. Quell’alta cupola sopra di lui non era il cielo, pur se era impossibile capire cosa diavolo fosse.
Si alzò in piedi.
La gravità gli parve un po’ più alta di quella terrestre. Non molto di più.
La sabbia si stendeva, piatta, in tutte le direzioni, poche chiazze cespugliose qua e là. Anche i cespugli erano azzurri, ma di differenti sfumature, alcuni più chiari dell’azzurro della sabbia, altri più scuri.
Da un vicino cespuglio scivolò fuori una piccola creatura che assomigliava a una lucertola, ma aveva più di quattro zampe. Anch’essa era azzurra. Di un azzurro vivo. Lo vide, e tornò di nuovo, correndo, sotto il cespuglio.
Alzò di nuovo lo sguardo, cercando di decidere cosa mai ci fosse sopra di lui. Aveva la forma di una cupola, ma non lo era. Sembrava tremolare, ed era difficile tenervi puntato lo sguardo. Ma, decisamente, s’incurvava sempre di più fino a raggiungere il suolo, vale a dire la distesa di sabbia azzurra che lo circondava da ogni lato.
Lui, non era molto lontano dal centro della cupola. Valutò a occhio di trovarsi a un centinaio di metri dalla parete più vicina, sempre che fosse una parete. Era un grande emisfero azzurro di qualcosa, con una circonferenza di circa duecentocinquanta metri, che sovrastava l’intera distesa di sabbia.
Tutto era azzurro lì… salvo una cosa. Si avvide, in quell’istante, di qualcosa di rosso laggiù, vicino alla parete opposta. Più o meno sferico, pareva avere all’incirca un metro di diametro. Era troppo lontano da lui, perché potesse distinguerlo chiaramente attraverso quell’azzurro tremolante. Ma, inspiegabilmente, rabbrividì.
Si asciugò il sudore sulla fronte, o cercò di farlo, col dorso della mano.
Era forse un sogno, un incubo? Quel calore soffocante, quella sabbia azzurra, quella vaga sensazione di orrore che avvertiva quando fissava quella cosa rossa?
Un sogno? No, non ci si addormentava, né ci si metteva a sognare, nel bel mezzo di una battaglia nello spazio.
La morte? No, neppure. Se c’era un’altra vita dopo la morte, non sarebbe stata una cosa priva di senso come quella, fatta di calore azzurro, di sabbia azzurra e di un rosso orrore.
Poi, udì la voce…
La sentì dentro la testa, non con le orecchie. Non sembrava venire da un punto preciso, ma da ogni direzione.
«Vagando attraverso lo spazio e le dimensioni», dissero le parole nella sua mente, «incontro qui, in questo spazio e in questo tempo, due popoli sul punto di scatenare una guerra che sterminerebbe l’uno e indebolirebbe l’altro a tal punto da farlo regredire allo stato selvaggio, al punto da impedirgli di realizzare il proprio destino, precipitando per sempre nella polvere da cui è uscito. Io dico che questo non deve accadere».
«Chi… chi sei tu?» Carson non lo disse ad alta voce, ma la domanda si formò nel suo cervello.
«Non riusciresti mai a capirlo completamente. Io sono…» Vi fu una pausa, come se la voce cercasse — nel cervello di Carson — una parola che non c’era, una parola a lui sconosciuta. «Io sono la fine dell’evoluzione di una razza così antica che la sua età non può venir espressa in parole che abbiano significato per la tua mente. Una razza fusa in una singola entità, eterna…
«Una entità quale la tua razza primitiva potrebbe diventare…» ancora una volta quel brancolare alla ricerca di una parola, «… un giorno. E così pure potrebbe diventarlo quella razza che tu chiami, nella tua mente, gli Invasori. Così, sono intervenuto prima dell’imminente battaglia, una battaglia tra due flotte di forza quasi identica, al punto che ne risulterebbe la distruzione di entrambe le razze. Una delle due deve sopravvivere. Una deve progredire ed evolversi».
«Una?» pensò Carson. «La mia o…»
«Ho il potere di fermare la guerra, di rimandare gli Invasori nella loro galassia. Ma tornerebbero. Oppure, la tua razza, presto o tardi, li seguirebbe fin laggiù. Solo restando in questo spazio e in questo tempo, sempre vigilante, potrei impedire che le due razze si distruggano l’una con l’altra, e io non posso restare.
«Perciò, intervengo adesso. Distruggerò completamente una flotta, senza nessuna perdita per l’altra. Così, una delle due civiltà sopravviverà».
Un incubo. Doveva essere un incubo, pensò Carson. Ma sapeva che non lo era. Era troppo pazzesco, troppo impossibile, perché fosse qualcosa di diverso dalla realtà.
Non osava far la domanda: Quale delle due? Ma furono i suoi pensieri a farla per lui.
«Sopravviverà la più forte», disse la voce. «Questo non posso… e non voglio cambiarlo. Io interverrò soltanto per farne una vittoria completa, non…» cercò di nuovo le parole, «… non una vittoria di Pirro per una razza semidistrutta, infiacchita.
«Dai confini di una battaglia non ancora accaduta ho prelevato due individui, tu e quell’invasore. Vedo nella tua mente che all’inizio della civiltà, all’insorgere dei primi nazionalismi, i duelli fra due singoli campioni per decidere della supremazia fra due popoli, non erano sconosciuti. Tu, e il tuo avversario, vi trovate qui, opposti l’uno all’altro, nudi e disarmati, in condizioni del tutto inconsuete, ugualmente sgradevoli per ambedue. Non c’è limite di tempo, poiché qui non c’è il tempo. Il sopravvissuto sarà il campione della sua razza, e quella razza sopravviverà».
«Ma…» La protesta di Carson era troppo inarticolata per esprimersi in parole. La voce rispose ugualmente:
«Le condizioni sono esattamente alla pari: il maggior vigore fisico dell’uno o dell’altro dei contendenti non potrà essere un fattore decisivo. C’è una barriera. Lo constaterai. L’intelligenza e il coraggio saranno più importanti della forza fisica. Soprattutto il coraggio, che è la volontà di sopravvivere».
«Ma mentre noi lotteremo, qui, le flotte…»
«No, voi vi trovate in un altro spazio, in un altro tempo. Finché vi troverete qui, il tempo rimarrà immobile nell’universo che conoscete. Vedo che ti stai chiedendo se questo luogo sia reale. Lo è e non lo è. Proprio come io — per la tua limitata comprensione — sono e non sono reale. La mia esistenza è mentale, non fisica. Mi hai visto come un pianeta; avrei potuto ugualmente apparirti come un granello di polvere o una stella.
«Ma, per te, questo posto adesso è reale. Ciò che soffrirai qui, sarà reale. E se morirai qui, la tua morte sarà reale, e la tua sconfitta significherà la fine della tua razza. È sufficiente che tu sappia questo».
La voce scomparve.
Di nuovo, era solo. Ma non del tutto solo poiché, non appena Carson sollevò lo sguardo, vide che la creatura rossa, quell’orrore rosso che era, lui lo sapeva adesso, l’invasore, stava rotolando verso di lui.
Rotolando.
Gli parve che non avesse né braccia, né gambe, né lineamenti riconoscibili. Rotolava sulla sabbia azzurra con la rapidità di una goccia di mercurio. E proiettava davanti a sé, in qualche modo che non riusciva a capire, un’ondata agghiacciante d’odio… nauseabondo, orrido, repulsivo.
Carson si guardò intorno freneticamente. Una pietra giaceva sulla sabbia, a poco più di un metro da lui, l’oggetto più simile a un’arma. Non era grande, ma aveva i bordi acuminati, come una scheggia di selce. Una selce azzurra.
L’afferrò, si rannicchiò su se stesso per affrontare il nemico. Stava arrivando in fretta, più in fretta di quanto lui potesse correre.
Non c’era tempo di pensare in che modo l’avrebbe affrontato. E in ogni caso, come avrebbe potuto elaborare una tattica, contro quella creatura la cui forza, le cui caratteristiche, la cui tecnica di combattimento, lui non conosceva? Rotolava così in fretta da apparire una sfera perfetta.
Dieci metri. Cinque. E poi, si arrestò.
O piuttosto, qualcosa l’aveva arrestato. D’improvviso, il lato anteriore della sfera si appiattì come se fosse andato a sbattere contro un muro invisibile. Rimbalzò, sì, rimbalzò indietro.
Poi, tornò a rotolare avanti, ma più lento, con più cautela. Si fermò un’altra volta, allo stesso punto. Tentò di nuovo, qualche metro più a lato.
Sì, c’era una barriera, lì, di qualche tipo. Allora, qualcosa scattò nella mente di Carson. Quel pensiero proiettato in lui dall’entità che li aveva portati in quel luogo. «… il maggior fisico dell’uno o dell’altro non sarà un fattore decisivo. C’è una barriera».
Un campo di forza, naturalmente. Non un campo netziano, ben noto alla scienza della Terra, poiché in tal caso la barriera avrebbe crepitato, irradiando luce. Questa invece era invisibile e silenziosa.
Era un muro che correva da un lato all’altro di quell’emisfero capovolto. Carson non dovette controllare di persona: lo stava facendo il Rotolante al suo posto. Stava infatti procedendo via via lungo la barriera, cercando in essa un’interruzione che non c’era.
Carson fece una mezza dozzina di passi in avanti, saggiando davanti a sé con la mano sinistra protesa. E infine toccò la barriera: sembrava liscia, cedevole, come un foglio di gomma più che una lastra di vetro. Calda al tocco, ma non più della sabbia sotto i piedi. Ed era completamente invisibile, perfino da vicino.
Carson lasciò cadere la pietra, appoggiò entrambe le mani contro la barriera, e spinse. La barriera parve cedere, soltanto un po’. Ma si rifiutò di cedere oltre, anche quando la spinse con tutto il suo peso. Gli diede la sensazione di un foglio di gomma sorretto da una lastra d’acciaio: una limitata elasticità, e poi una robustezza invincibile.
Carson si alzò in punta di piedi, arrivando più in alto che poté. La barriera continuava anche lassù.
Vide il Rotolante tornare indietro, dopo aver raggiunto l’estremità dell’arena. La sensazione di nausea investì nuovamente Carson, il quale balzò indietro, istintivamente, quando il nemico gli passò davanti, senza fermarsi.
Ma la barriera, si arrestava forse al livello del suolo? Carson s’inginocchiò e scavò nella sabbia. Era cedevole, leggera, facile da scavare. Ma, mezzo metro più sotto, la barriera continuava ininterrotta.
Il Rotolante stava tornando di nuovo indietro. Ovviamente, non era riuscito a trovare nessun varco nella barriera, né a destra, né a sinistra.
Eppure, doveva esserci un modo per passare, pensò Carson. Qualche modo per ingaggiare un corpo a corpo. Altrimenti, in che modo avrebbero potuto combattere?
Ma adesso non c’era fretta di scoprirlo. C’erano altre cose a cui pensare, prima. Il Rotolante era tornato indietro e si era fermato sull’altro lato della barriera, proprio davanti a lui, sì e no a un metro e mezzo di distanza. Pareva che lo stesse studiando anche se, per quanto ci provasse, Carson non riuscì a distinguere alcuna traccia di organi sensori, sulla superficie esterna della creatura. Niente che assomigliasse a occhi, orecchie, o anche soltanto a una bocca. C’erano, tuttavia — ora se ne accorse — una serie di solchi, circa una dozzina, e all’improvviso vide due tentacoli sporgersi fuori dai solchi e sprofondare nella sabbia, come per saggiarne la consistenza. Tentacoli di circa tre centimetri di diametro, e lunghi mezzo metro. Erano retrattili, e quando non venivano usati, erano tenuti dentro i solchi. Quando la creatura rotolava, restavano dentro, per cui sembravano non aver niente a che fare col suo sistema di locomozione. Questo, da ciò che Carson poteva giudicare, doveva dipendere da qualche spostamento — come, era impossibile anche soltanto immaginarlo — del suo centro di gravità.
Carson rabbrividì, fissando la creatura. Era aliena, completamente aliena, orribilmente diversa da tutto ciò che viveva sulla Terra, e anche dalle altre forme di vita trovate sugli altri pianeti del sistema solare. E in qualche modo, istintivamente, Carson sapeva che la sua mente era aliena almeno quanto il corpo.
Ma doveva tentare. Se il Rotolante non aveva alcun potere telepatico, il tentativo era destinato a fallire… eppure Carson pensava che la creatura l’avesse. Pochi minuti prima aveva proiettato qualcosa che non era fisico, quando si era diretta per la prima volta verso di lui. Un’ondata d’odio quasi tangibile.
Se era in grado di proiettare ciò, forse poteva leggergli altrettanto bene la mente, o quanto meno, quanto bastava per il suo scopo.
Ostentatamente, Carson raccolse la pietra che era stata la sua unica arma, poi la fece cadere al suolo con gesto di rinuncia, e sollevò le mani vuote, i palmi all’insù, davanti all’alieno.
Parlò ad alta voce, sapendo che, se anche le parole da lui pronunciate sarebbero state prive di significato per la creatura che lo fronteggiava, il fatto stesso di pronunciarle avrebbe messo a fuoco nel modo migliore i suoi pensieri.
— Perché non può esserci pace tra noi? — disse, e la sua voce risuonò strana in quel profondo silenzio. — L’Entità che ci ha portato qui ci ha detto ciò che accadrà, se le nostre razze combatteranno — l’estinzione dell’una e la regressione alla barbarie dell’altra. L’esito della battaglia, ha detto l’Entità, dipende da ciò che faremo qui. Perché non possiamo accordarci per una pace durevole, la tua razza nella tua galassia, e noi nella nostra?
Carson vuotò la sua mente d’ogni altro pensiero, aspettando la risposta.
Giunse, e lo fece barcollare all’indietro. Si ritrasse di parecchi metri, colmo di orrore, davanti alla profondità e all’intensità dell’odio e della bramosia di uccidere che fiammeggiavano nelle rosse immagini proiettate contro di lui. Non come parole articolate — come gli erano giunti i pensieri dell’Entità — ma come ondate successive d’una raccapricciante emozione.
Per un attimo, che gli parve un’eternità, dovette lottare contro l’impatto mentale di quell’odio, per liberare da esso la sua mente e cacciar via i pensieri alieni che l’avevano invasa, insozzandola. Aveva voglia di vomitare.
Lentamente, la sua mente tornò a schiarirsi, allo stesso modo in cui un uomo, svegliatosi da un incubo, spazza via dal cervello il rigurgito di paura che l’ha invaso. Era ancora in preda all’affanno, e si sentiva debole, ma riusciva a pensare.
Fissò il Rotolante. Era rimasto immobile, durante il breve, violentissimo scontro mentale. Ora ruotò di un metro o poco più su un lato, avvicinandosi al più vicino cespuglio azzurro. Tre tentacoli schizzarono fuori dai solchi e cominciarono ad esplorare il cespuglio.
— D’accordo, — disse Carson, — sarà la guerra, allora. — Esibì un sorriso forzato. — Se ho ben capito la tua risposta, la pace non è proprio di tuo gusto. — E, poiché dopotutto era giovane, non seppe resistere all’impulso di esclamare, in tono melodrammatico: — Fino alla morte!
Ma la sua frase, in quel profondo silenzio, suonò assai sciocca, alle sue stesse orecchie. Si rese conto che quel duello era fino alla morte. Non soltanto la sua morte o quella della creatura rossa e sferica, che nella sua mente aveva battezzato “Rotolante”, ma la morte dell’intera razza dell’uno o dell’altro di loro. La fine della razza umana, se fosse stato lui a fallire.
Ciò lo rese all’improvviso molto umile e quasi timoroso di pensarci. Più che di pensarci, di saperlo. In qualche modo fu certo, e non per pura e cieca fede, che l’Entità che aveva organizzato quel duello aveva detto la verità sui suoi scopi e sui suoi poteri. Non aveva affatto scherzato.
Il futuro dell’umanità dipendeva da lui. Era tremendo rendersi conto di questo, e scacciò via subito dalla mente questo pensiero. Ora doveva concentrarsi sui problemi immediati.
Doveva ben esserci un modo per attraversare quella barriera, o di uccidere attraverso essa.
Mentalmente? Sperò che questo non fosse l’unico modo, poiché il Rotolante possedeva, ovviamente, poteri telepatici assai più forti di quelli appena abbozzati di un essere umano… Oppure no?
Ma era forse riuscito, lui, a respingere dalla sua mente i pensieri del Rotolante? Sarebbe stato capace, l’alieno, di respingere i suoi? Se anche la sua capacità di proiettare era più forte, non era possibile che il suo meccanismo ricettivo fosse più vulnerabile?
Lo fissò, e si sforzò di focalizzare tutti i suoi pensieri su di lui.
«Muori», pensò. «Stai per morire, stai morendo, sei…».
Tentò molte variazioni sul tema, le più diverse e tremende immagini mentali. Il sudore gl’imperlò la fronte, e ben presto si accorse che stava tremando per l’intensità dei suoi sforzi. Ma il Rotolante continuò ad esplorare il cespuglio, del tutto impassibile, come se Carson gli stesse recitando la tavola pitagorica.
Dunque, quel sistema non funzionava.
Si sentiva sempre più debole, a causa del caldo opprimente e dei suoi strenui sforzi di concentrarsi. Si sedette sulla sabbia azzurra per riposarsi, e dedicò tutta la sua attenzione a studiare il Rotolante. Forse, continuando a studiarlo da vicino, avrebbe potuto valutare la sua forza fisica e individuare i suoi punti deboli… imparare cose preziose in previsione del momento in cui si sarebbe scatenato il corpo a corpo.
Il Rotolante stava spezzando dei ramoscelli. Carson l’osservò attento, cercando di stimare la fatica che gli costava farlo. Più tardi, pensò, a sua volta avrebbe cercato un cespuglio come quello, sul suo lato dell’emisfero, e avrebbe spezzato dei ramoscelli di uguale spessore, acquisendo, così, un termine di confronto tra la forza delle sue braccia e quella dei tentacoli dell’alieno.
I ramoscelli si rompevano con difficoltà; vide che il Rotolante doveva lottare con ognuno di essi. Notò che ogni tentacolo si biforcava all’estremità in due dita, ognuna con sulla punta un’unghia, o meglio un artiglio. Ma quegli artigli non sembravano particolarmente lunghi e pericolosi. Non più, comunque, delle sue unghie, se le avesse fatte crescere un po’. No, nell’insieme non gli parve che il Rotolante fosse un avversario troppo temibile, nel caso di un corpo a corpo. A meno che, naturalmente, quei cespugli non fossero fatti di un materiale troppo duro. Carson si guardò intorno e, sì, proprio alla sua portata c’era un cespuglio esattamente dello stesso tipo.
Allungò una mano e spezzò un ramoscello. Era fragile, facile da spezzare. Naturalmente, il Rotolante poteva aver finto d’incontrare difficoltà, ma lui non lo credeva.
D’altro canto, in quali punti era vulnerabile? Come avrebbe potuto ucciderlo, se gli si fosse presentata l’occasione? Tornò a voltarsi verso il Rotolante e a studiarlo. La pelle, o almeno lo strato più esterno, pareva assai coriacea. Avrebbe avuto bisogno di un’arma acuminata. Raccolse un’altra volta la pietra appuntita. Era lunga all’incirca trenta centimetri, sottile, e la punta a un’estremità era abbastanza aguzza. Se si scheggiava come la selce, avrebbe potuto renderla ancora più tagliente.
Il Rotolante stava continuando la sua esplorazione. Rotolò fino al cespuglio successivo, alquanto diverso dal primo. Una piccola lucertola azzurra, con tante zampe, come quella che Carson aveva visto prima, sul proprio territorio, sfrecciò da sotto il cespuglio.
Un tentacolo del Rotolante schizzò fuori e l’afferrò, sollevandola. Un secondo tentacolo sferzante si aggiunse al primo e cominciò a strappare le zampe della lucertola, con la stessa gelida efficienza con cui, fino a un attimo prima, aveva strappato le foglie al cespuglio. La lucertola lottò freneticamente, lanciando uno strillo acuto, il primo suono che Carson avesse udito, oltre alla propria voce.
Carson rabbrividì a quella scena, e avrebbe voluto distogliere lo sguardo. Ma si costrinse a guardare: qualunque cosa avesse potuto apprendere sul suo avversario avrebbe potuto dimostrarsi preziosa. Perfino sapere quanto fosse inutilmente crudele. Soprattutto, pensò, mentre un’improvvisa, frenetica ondata di rabbia saliva in lui, quella sua inutile, disgustosa crudeltà. Ciò, se non altro, gli avrebbe reso piacevole uccidere quella creatura, se e quando l’occasione gli si fosse presentata. Proprio per questo motivo resistette al disgusto e seguì fino in fondo lo smembramento della lucertola.
E fu contento, quando con le zampe per metà strappate, la lucertola smise di squittire e di dimenarsi e giacque, floscia e morta, nella stretta del Rotolante. L’alieno ovviamente non si divertiva più e non strappò le zampe rimaste. Con disprezzo scagliò lontano da sé la lucertola morta, in direzione di Carson. L’animaletto descrisse un arco fra loro e atterrò ai suoi piedi.
Aveva attraversato la barriera! La barriera non si trovava più là!
Carson balzò fulmineo in piedi, la pietra acuminata stretta in mano, e si scagliò in avanti. Avrebbe sistemato la faccenda lì, e subito! Con la scomparsa della barriera…
Ma non era scomparsa. Lo scoprì nel modo più sgradevole, battendoci contro la testa, e la violenta botta quasi gli fece perdere i sensi. Rimbalzò indietro e cadde.
Quando si rialzò, scrollando la testa per schiarirsela, colse con lo sguardo qualcosa che arrivava volando verso di lui, e per schivarlo si gettò lungo disteso sulla sabbia, appiattendosi. Malgrado la sua fulminea reazione, avvertì ugualmente un improvviso, acuto dolore al polpaccio sinistro.
Rotolò all’indietro, ignorando il dolore, e si rialzò. Ora vide che era stata una pietra a colpirlo. E vide anche il rotolante che ne stava raccogliendo un’altra, bilanciandola all’indietro fra due tentacoli, pronto a scagliarla di nuovo.
Anche questa pietra volò nell’aria verso di lui, ma stavolta fece in tempo a scansarla. A quanto pareva, il Rotolante poteva lanciare diritto, ma senza molta forza e non molto lontano. La prima pietra l’aveva colpito soltanto perché lui era seduto e non l’aveva vista fino a quando ormai gli era quasi addosso.
E nel medesimo istante in cui balzava di lato per schivar il secondo proiettile, Carson portò indietro il braccio destro e scagliò a sua volta la pietra che ancora stringeva in mano. Se una pietra, pensò con improvvisa esultanza poteva attraversare la barriera, allora il gioco di scagliar pietre può esser fatto in due. E il robusto braccio destro d’un terrestre…
Non poteva certo mancare una sfera d’un metro di diametro a soli quattro metri di distanza… e non la mancò. La pietra schizzò verso il bersaglio a una velocità molto superiore a quella dei proiettili scagliati dal Rotolante, e lo centrò in pieno, ma sfortunatamente lo colpì di piatto e non di punta.
Comunque, lo colpì con un tonfo sordo, e gli fece, chiaramente, molto male. Il Rotolante aveva afferrato un’altra pietra per scagliarla, ma cambiò idea e se ne andò. Quando Carson riuscì a trovare un’altra pietra per lanciarla, il Rotolante era già a quaranta metri dalla barriera e se la filava in fretta.
Il secondo lancio di Carson mancò il bersaglio di oltre un metro, e il terzo lancio fu corto. Il Rotolante era fuori tiro… o quanto meno, fuori tiro per un proiettile abbastanza massiccio da nuocergli.
Carson sogghignò. Aveva vinto il primo round. Ma…
Smise subito di sogghignare quando si chinò a esaminare il polpaccio ferito. L’orlo tagliente della pietra aveva lasciato un taglio profondo, lungo parecchi centimetri. Sanguinava abbondantemente, ma Carson non pensò che fosse arrivato tanto in profondità da troncargli un’arteria. Se avesse smesso di sanguinare da solo, bene. Altrimenti si sarebbe trovato nei guai.
C’era comunque una cosa da scoprire, che aveva la precedenza su quel taglio: la natura della barriera.
Carson avanzò di nuovo, questa volta con le mani protese; trovò la barriera, poi, tenendo una mano appoggiata contro di essa, vi scagliò contro un pugno di sabbia raccolto con l’altra mano. La sabbia passò. La sua mano, no.
Materia organica contro materia inorganica? No, perché la lucertola morta era passata, e una lucertola, viva o morta, era senz’altro materia organica. E la vita vegetale? Carson spezzò un ramoscello e lo spinse contro la barriera. Il ramoscello passò, senza incontrare resistenza, ma quando le dita che stringevano il ramoscello giunsero alla barriera, furono arrestate.
Lui non poteva attraversarla, né poteva farlo il Rotolante. Ma pietre, sabbia e lucertola morta…
E una lucertola viva? Si mise in caccia fra i cespugli, fino a quando ne trovò una e la catturò. La gettò con delicatezza contro la barriera: l’animale rimbalzò indietro e corse via, attraverso la sabbia azzurra.
Ciò gli dava, quanto meno, una risposta. La barriera impediva il passaggio alle creature vive. Le creature morte e la materia inorganica, invece, la superavano senza difficoltà.
Appurato questo, Carson tornò a occuparsi della ferita alla gamba. Sanguinava assai meno, e ciò significava che non doveva preoccuparsi di mettersi un laccio emostatico. Ma avrebbe dovuto trovare un po’ d’acqua, sempre che ce ne fosse di disponibile, per lavare la ferita.
Acqua! A questo pensiero, si accorse di essere tremendamente assetato. Doveva trovare l’acqua, nel caso in cui quel duello si fosse prolungato troppo.
Zoppicando leggermente, s’incamminò per compiere il giro completo della sua metà dell’arena. Guidandosi con una mano lungo la barriera, s’incamminò verso destra finché non arrivò alla parete curva dell’emisfero. Vista da vicino, era di un azzurro-grigio smorto, e al tatto dava la stessa sensazione della barriera centrale.
Fece una prova, lanciandole contro una manciata di sabbia. La sabbia raggiunse il muro e vi scomparve attraverso. Anche il guscio emisferico era un campo di forza. Ma opaco, non trasparente come la barriera. Lo percorse tutt’intorno, fino a quando non incontrò la barriera all’altra estremità, e ripercorse quest’ultima fino al punto di partenza.
Non c’era nessuna traccia di acqua.
In preda a una crescente preoccupazione, iniziò una serie di zig zag avanti e indietro fra la barriera e la parete emisferica, esaminando minuziosamente tutto lo spazio intermedio.
Non c’era acqua. Sabbia azzurra, cespugli azzurri e un calore intollerabile. Nient’altro.
Doveva essere la sua immaginazione, si disse rabbiosamente, quel suo soffrire troppo la sete. Da quanto tempo si trovava là? Naturalmente, da nessun tempo, secondo il suo riferimento spaziotemporale. L’Entità gli aveva detto che, là fuori, il tempo restava immobile, mentre lui era nell’arena. Ma i processi fisiologici del suo organismo continuavano lo stesso, mentre lui era là dentro. E dal punto di vista di queste sue funzioni, da quanto tempo era là? Tre o quattro ore, forse. Certo, non tanto tempo da soffrire a tal punto la sete.
Ma ne soffriva! Aveva la gola secca, riarsa. Probabilmente a causa dell’intenso calore. Era caldo! A occhio e croce, una cinquantina di gradi. Un calore asciutto, immobile, senza il più piccolo movimento d’aria.
Si scoprì a zoppicare sempre più malamente, ed era del tutto esausto, quando finì l’inutile esplorazione del suo dominio.
Occhieggiò, nell’altra metà, l’immobile Rotolante, e sperò che costui si sentisse stremato e avvilito quant’era lui. Era probabile che neppure l’alieno fosse troppo a suo agio. L’Entità non aveva detto, forse, che là dentro le condizioni erano scomode e inconsuete in modo equivalente per entrambi? Forse il Rotolante proveniva da un pianeta dov’era normale una temperatura d’una novantina di gradi. Forse adesso stava gelando, mentre lui arrostiva.
Forse l’aria era troppo densa per l’alieno, mentre era troppo sottile per lui… poiché lo sforzo di quella esplorazione lo aveva lasciato col fiato grosso. Ora si rese conto che, qui, l’atmosfera non era molto più densa di quella di Marte.
Niente acqua.
Ciò significava che il tempo a sua disposizione era strettamente limitato. A meno che non fosse riuscito, presto, a trovare un modo per attraversare la barriera, oppure di uccidere il nemico restando nella sua metà dell’arena, la sete non ci avrebbe messo molto a ucciderlo.
Ciò gli diede una sensazione di disperata urgenza. Doveva affrettarsi.
Ma si costrinse a sedersi un momento, per riposare, e pensare.
Cosa c’era da fare? Niente, eppure tantissime cose. Le diverse varietà dei cespugli, ad esempio. Non parevano promettenti, ma avrebbe dovuto esaminarli, per vedere se c’erano possibilità. E la sua gamba… avrebbe dovuto far qualcosa anche per quella, anche senza acqua per pulirla. Raccogliere pietre, da usare come munizioni. Trovare, fra esse, una pietra che potesse diventare un buon coltello.
Adesso la gamba gli faceva piuttosto male: decise, perciò, che doveva venire per prima. Un tipo di cespuglio aveva foglie, o comunque qualcosa che assomigliava alle foglie. Ne strappò una manciata e decise, dopo averle esaminate, di rischiare. Le usò per pulirsi via la sabbia, lo sporco e il sangue coagulato, poi fece un tampone di foglie fresche e lo legò sulla ferita servendosi dei viticci dello stesso cespuglio.
I viticci si dimostrarono inaspettatamente solidi e resistenti. Erano sottili e pieghevoli, eppure non riuscì a spezzarli: dovette staccarli dal cespuglio segandoli col bordo tagliente di un pezzo di selce azzurra. Alcuni dei più grossi erano lunghi una quarantina di centimetri, e archiviò nella mente, in vista di una utilizzazione futura, il fatto che un fascio di quelli grossi, legati insieme, avrebbe formato un’ottima corda. Avrebbe certo trovato il modo di utilizzare quella corda.
Poi si fabbricò un coltello. Le pietre azzurre si scheggiavano. Da un frammento lungo una quarantina di centimetri, si modellò un’arma rozza ma letale. E coi viticci del cespuglio si fece una cintura di corda nella quale infilare il coltello di pietra, per tenerlo con sé in ogni momento, ma sempre avendo le mani libere.
Tornò a studiare i cespugli. Ce n’erano di tre tipi. Uno era senza foglie, secco, friabile; il secondo di legno tenero, che si sbriciolava quasi fosse marcio. All’aspetto e al tocco sembrava un’ottima esca per il fuoco. Il terzo tipo era quello più simile al legno. Aveva foglie delicate, che appassivano al solo sfiorarle, ma gli steli, malgrado ciò, erano dritti e robusti.
Faceva caldo in un modo orribile, insopportabile.
Raggiunse zoppicando la barriera. La tastò, per garantirsi che fosse sempre là. C’era.
Restò a osservare il Rotolante per un po’. Si teneva a distanza di sicurezza dalla barriera, fuori portata dalle pietre che lui poteva scagliare. Laggiù, nel fondo dell’arena, si stava muovendo qua e là, intento a far qualcosa. Non riuscì a capire ciò che stesse facendo.
A un certo momento smise di muoversi, si avvicinò un poco alla barriera e parve concentrare la sua attenzione su di lui. Ancora una volta Carson dovette respingere un’ondata di nausea. Gli scagliò contro una pietra, e il Rotolante si ritirò, riprendendo la sua attività, qualunque cosa fosse ciò che stava facendo.
Almeno, poteva costringerlo a mantenere le distanze.
Gli sarebbe servito proprio tanto, pensò, amareggiato. Ma passò lo stesso un’ora, e anche quella successiva, a raccoglier pietre di dimensioni ridotte, adatte al lancio, disponendole in parecchi mucchi ordinati, accanto al suo lato della barriera.
Ora la gola gli ardeva come se vi bruciasse un fuoco, e Carson faticava a pensare a qualcosa di diverso, salvo l’acqua. Ma doveva pensare ad altre cose. Ad attraversare quella barriera, sotto o sopra di essa, ad attaccare quella sfera rossa e ad ucciderla, prima che il calore e la sete uccidessero lui.
La barriera si stendeva fino alla parete, su entrambi i lati, ma quanto in alto, o quanto sotto la sabbia?
Per un attimo la mente di Carson fu troppo confusa per elaborare un modo per scoprire l’una o l’altra di queste cose. Oziosamente, seduto sulla sabbia scottante, e non riusciva a ricordarsi di essersi seduto, osservò una lucertola azzurra che strisciava fuori da sotto un cespuglio per rifugiarsi sotto un altro.
La creatura lo guardò da sotto il secondo cespuglio.
Carson le rivolse un sorriso. Forse cominciava ad essere un po’ stordito, poiché ricordò all’improvviso la vecchia storia di quei coloni nel deserto di Marte, variante di una storia ancora più antica dei deserti della Terra: «Ben presto vi sentirete così soli che comincerete a parlare alle lucertole, e poi, non molto dopo, scoprirete che le lucertole vi rispondono…»
Sì, certo, avrebbe dovuto concentrarsi sul modo di uccidere il Rotolante, ma invece sorrise alla lucertola, e le disse: — Ciao.
La lucertola fece alcuni passi verso di lui. — Ciao, — rispose.
Carson la fissò sbigottito per un attimo, poi rovesciò indietro la testa ed esplose in una risata ruggente. E ridere così non gli fece neppure male alla gola; non era poi tanto assetato.
Perché no? Perché mai l’Entità che aveva elaborato quel posto allucinante non avrebbe potuto possedere il senso dell’umorismo, insieme a tutti gli altri poteri? Lucertole parlanti in grado di rispondergli nella sua lingua, se si fosse rivolto a loro… un tocco simpatico, raffinato.
Sorrise alla lucertola e le disse: — Vieni qui da me. — La lucertola si girò e fuggì via, correndo da un cespuglio all’altro, finché non scomparve.
Tornò ad essere tormentato dalla sete.
E doveva fare qualcosa. Non avrebbe certo vinto quel duello restandosene seduto lì, tutto sudato e avvilito. Doveva fare qualcosa… ma che cosa?
Attraversare la barriera. Ma non poteva attraversarla, né scavalcarla con un salto. Ma era proprio certo di non poter passare sotto ad essa? E, a pensarci bene, a volte non si trovava l’acqua, scavando? Due piccioni con una fava…
Tutto dolorante, Carson raggiunse zoppicando la barriera e cominciò a scavare, tirando fuori la sabbia a due manciate per volta. Era un lavoro lento e difficile, poiché la sabbia scorreva indietro dai bordi della buca, e più scendeva in profondità, più ampio doveva essere il diametro della buca. Quante ore gli ci vollero, non avrebbe saputo calcolarlo, ma a un metro e trenta di profondità raggiunse un letto di roccia. Un letto di roccia perfettamente asciutto: nessuna traccia d’acqua.
E il campo di forza della barriera scendeva dritto fino a quel letto di roccia. Niente da fare. Niente acqua. Niente.
Strisciò fuori dalla buca e giacque ansante. E poi, sollevò la testa e guardò dall’altra parte per vedere cosa stesse facendo il Rotolante. Certo, stava combinando qualcosa, laggiù.
Infatti. Stava costruendo qualcosa col legno dei cespugli legato insieme coi viticci. Un’intelaiatura di forma strana, alta all’incirca un metro e trenta, e press’a poco quadrata. Per veder meglio, Carson salì in cima al mucchio di sabbia che aveva scavato fuori dalla buca, e restò lì, aguzzando gli occhi.
C’erano due lunghe leve che sporgevano da dietro quella struttura, una con un affare a forma di tazza all’estremità. Sembrava una specie di catapulta, pensò Carson.
E infatti il Rotolante stava sollevando una pietra di considerevoli dimensioni; la depositò nella tazza. Uno dei tentacoli manovrò poi l’altra leva, poi spostò l’intera incastellatura, come per prendere la mira, e il braccio con la pietra scattò fulmineo in alto e in avanti.
La pietra descrisse un arco parecchi metri sopra la testa di Carson, così lontana da lui che neppure dovette abbassare la testa per schivarla. Però, valutò la lunghezza del lancio e fischiò sommesso tra sé. Lui non sarebbe mai riuscito a lanciare una pietra di quel peso, e per quella distanza. Neppure alla metà. E anche ritirandosi in fondo al suo territorio, non si sarebbe posto fuori portata da quella macchina, se il Rotolante l’avesse avvicinata alla barriera.
Un’altra pietra gli passò sopra, fischiando. Molto più vicina, questa volta. I lanci si stavano facendo pericolosi. Avrebbe fatto meglio a escogitar qualcosa per fermarli.
Continuando a muoversi avanti e indietro lungo la barriera, per impedire alla catapulta di prender bene la mira, le scagliò contro una dozzina di pietre. Ma vide subito che non sarebbe servito a niente: dovevano esser pietre leggere, altrimenti non sarebbe riuscito a scagliarle. Ma allora, anche quando colpivano il bersaglio, rimbalzavano via innocue. E il Rotolante non aveva alcuna difficoltà, a quella distanza, a scansarsi tutte le volte che una pietra minacciava di centrarlo.
Inoltre, il braccio di Carson cominciava a stancarsi. Tutto il corpo gli doleva per la tremenda stanchezza. Se soltanto avesse potuto riposarsi un po’ senza dover schivare le pietre lanciate da quella catapulta a intervalli non più lunghi di una trentina di secondi…
Tornò, barcollando, in fondo all’arena. Poi vide che anche questo non gli serviva a nulla. Le pietre arrivavano fin lì, solo che c’erano intervalli più lunghi fra i lanci, come se ci volesse più tempo per caricare il meccanismo, qualunque fosse, della catapulta.
Stancamente, tornò a trascinarsi fino alla barriera. Cadde molte volte e a stento riuscì a rialzarsi per proseguire. Era, lo sapeva, ormai allo stremo. Eppure, neppure adesso osava smettere di muoversi, ostinatamente deciso a mettere fuori uso, se vi fosse mai riuscito, quella catapulta. Se si fosse addormentato, non si sarebbe svegliato mai più.
Una delle pietre lanciate dalla catapulta gli diede il barlume di un’idea. Colpì uno dei mucchi di pietre che aveva eretto accanto alla barriera per usarle come munizioni, e dall’urto sprizzarono scintille.
Scintille. Fuoco. L’uomo primitivo aveva fatto il fuoco provocando scintille, e con alcuni di quei cespugli secchi e friabili come esca…
Per sua fortuna, un cespuglio di quel tipo era proprio accanto a lui. Spezzò dei ramoscelli, li portò accanto al mucchio di pietre, poi, pazientemente, sbatté una pietra contro l’altra finché una scintilla colpì il legno sbriciolato. E subito questo s’infiammò, così in fretta che gli bruciacchiò le sopracciglia, riducendosi in cenere in pochi istanti.
Ma ora aveva afferrato l’idea. Nel giro di pochi minuti aveva acceso un focherello al riparo della montagnola di sabbia che aveva eretto scavando la buca, un’ora o due prima. Il legno simile all’esca l’aveva iniziato, e ramoscelli d’altro tipo l’avevano alimentato, bruciando più lenti ma con fiamma costante.
I viticci duri, simili a fil di ferro, non bruciavano subito; ciò rese più facile confezionare bombe incendiarie e lanciarle: le fece avvolgendo una piccola fascina intorno a una pietra, per darle massa, e legando il tutto con dei viticci, tenuti lunghi per far roteare il proiettile prima di lanciarlo, dandogli velocità.
Ne fece una mezza dozzina prima di accendere e scagliare il primo. Cadde assai lontano, e il Rotolante iniziò una rapida ritirata, tirandosi dietro la catapulta. Ma Carson aveva pronti gli altri, e li scagliò in rapida successione. Il quarto s’incastrò nella struttura della catapulta, e fece l’effetto voluto: il Rotolante tentò disperatamente di spegnere le fiamme che si diffondevano rapide buttandoci sopra della sabbia, ma i suoi tentacoli riuscivano a raccoglierne troppo poco per volta, e i suoi sforzi furono inutili. La catapulta bruciò.
Il Rotolante si allontanò dall’incendio a distanza di sicurezza, e parve concentrarsi nuovamente su Carson, che sentì un’altra volta l’ondata di quell’odio nauseante investirlo. Ma più debole: anche il Rotolante si stava indebolendo, oppure Carson stava imparando a difendersi dai suoi attacchi mentali.
Gli fece uno sberleffo, poi l’obbligò a correr via, mettendosi al sicuro, scagliandogli addosso una pietra. Il Rotolante andò dritto al fondo dell’arena, e ricominciò a strappare i cespugli dal suolo. Probabilmente aveva intenzione di costruirsi un’altra catapulta.
Carson controllò, per la centesima volta, che la barriera fosse ancora in funzione, poi crollò seduto per terra accanto ad essa, poiché all’improvviso si sentì troppo privo di forze per restare in piedi.
Ora, la gamba ferita gli pulsava costantemente, e i morsi della sete erano sempre più violenti. Ma erano lievi fastidi al confronto della mortale stanchezza fisica che gli aveva afferrato tutto il corpo.
E il calore.
L’inferno doveva essere così, pensò. L’inferno al quale gli antichi avevano creduto. Lottò per rimanere sveglio, eppure rimanere sveglio gli pareva futile, poiché non c’era niente che potesse fare. Niente, fintantoché la barriera fosse rimasta invalicabile, e il Rotolante fuori della sua portata.
Ma doveva esserci qualcosa. Cercò di ricordare cose che aveva letto in libri di archeologia sulle tecniche di combattimento impiegate nelle epoche che avevano preceduto l’impiego del metallo e della plastica. Il proiettile di pietra: quello era venuto per primo, pensò. Be’, lui l’aveva già.
L’unico miglioramento sarebbe stata l’aggiunta di una catapulta, come quella del suo rivale. Ma non sarebbe mai stato capace di costruire una catapulta, non certo con i pezzetti di legno a sua disposizione nei cespugli: non c’era un pezzo più lungo d’una trentina di centimetri. Sì, avrebbe potuto ideare il modo di farne una, ma il lavoro sarebbe durato giorni, e lui non avrebbe mai avuto la forza sufficiente.
Giorni? Ma il Rotolante ne aveva fatta una. Erano lì da giorni? Poi ricordò che il Rotolante aveva molti tentacoli per quel genere di lavoro, e senza dubbio poteva farlo molto più in fretta di lui.
E inoltre, una catapulta non avrebbe risolto la questione. Doveva trovare di meglio.
Arco e frecce? No, aveva provato a tirare con l’arco, una volta, e sapeva quant’era inetto. Perfino con una moderna attrezzatura sportiva in duracciaio, fabbricata per ottenere la massima precisione. Con un arco abborracciato alla bell’e meglio, come quello che avrebbe potuto mettere insieme con ramoscelli e viticci, là, dubitava assai di poter scagliare una freccia più lontano di quanto riusciva a scagliare una pietra, e certo la mira sarebbe stata molto peggiore.
Una lancia? Be’, avrebbe potuto farsela. Sarebbe stata inutile come arma da lancio a distanza, ma sarebbe stata utilissima per uno scontro ravvicinato. Sempre che fosse riuscito ad avvicinarsi quanto bastava.
E fabbricarne una gli avrebbe dato qualcosa da fare. L’avrebbe aiutato ad evitare che la sua mente divagasse, come già stava facendo. Adesso, doveva spesso compiere uno sforzo per concentrarsi sul perché si trovava lì, e perché doveva uccidere a tutti i costi il Rotolante.
Per felice sorte si trovava accanto a uno dei mucchi di pietre. Cominciò a fare un’accurata cernita, fino a quando non ne trovò una che aveva all’incirca la forma di una punta di lancia. Con una pietra più piccola cominciò a scheggiarla per darle la forma giusta, modellando degli uncini affilati, rivolti all’indietro, sui lati, cosicché se si fosse conficcata, non sarebbe stato possibile strapparla fuori.
Un’arpione? Già, l’idea era buona, l’arpione avrebbe funzionato meglio della lancia, forse, in quella folle contesa. Una volta che fosse riuscito a piantarlo nel corpo del Rotolante, avendo solidamente legato una corda all’estremità dell’asta, avrebbe potuto tirare il Rotolante fino a contatto della barriera, e il suo coltello di pietra avrebbe completato l’opera, passando attraverso la barriera, anche se le sue mani non avrebbero potuto seguirlo…
Fabbricare l’asta fu più difficile della testa di pietra affilata. Ma sezionando in due e divaricando le estremità di quattro fra i più grossi ramoscelli che trovò, infilandoli l’uno nell’altro e legando gli incastri con dei viticci sottili ma resistenti, ottenne un’asta robusta lunga circa un metro e trenta. A un’altra tacca praticata a un’estremità fissò la testa di pietra, tenendola saldamente in posizione con viticci ancor più strettamente legati.
Era un’arma rozza, ma d’indubbia efficacia.
E la corda: con un gran numero di quei robusti viticci si confezionò una corda lunga sette metri. Era leggera e sembrava fragile, ma Carson sapeva che avrebbe retto al suo peso, e ce n’era d’avanzo. Legò un’estremità della corda all’asta dell’arpione, e l’altra estremità al suo polso destro. Anche se avesse mancato il colpo, scagliando l’arpione sull’altro lato della barriera, avrebbe potuto tirarlo indietro.
Poi, quand’ebbe stretto l’ultimo nodo e non vi fu più nulla da fare, il calore e la stanchezza e il dolore alla gamba e la sete tremenda all’improvviso furono mille volte peggiori di quant’erano mai stati prima.
Cercò di alzarsi, per vedere ciò che adesso stava facendo il Rotolante, e scoprì di non riuscire a mettersi in piedi. Al terzo tentativo, riuscì soltanto a sollevarsi in ginocchio per un attimo, ricadendo poi lungo disteso.
«Devo dormire», pensò. «Se si dovesse arrivare adesso alla resa dei conti, il nemico mi troverebbe impotente. Se sapesse in che condizioni mi trovo, si precipiterebbe qui subito a uccidermi. Devo a tutti i costi recuperare un po’ di forza».
Lentamente, tra mille fitte di dolore, strisciò lontano dalla barriera. Dieci metri, venti…
Il tonfo sordo di qualcosa che era caduto sulla sabbia, sfiorandolo, lo risvegliò da un sogno confuso e orribile, precipitandolo in una realtà ancora più confusa e orribile. Aprì nuovamente gli occhi alla radiosità azzurra sulla sabbia azzurra.
Per quanto tempo aveva dormito? Un minuto? Un giorno?
Un’altra pietra cadde, anch’essa vicinissima, schizzandolo di sabbia. Portò le braccia sotto di sé e, spingendosi, si rizzò a sedere. Si girò e vide il Rotolante a una ventina di metri di distanza, alla barriera.
Quando lo vide muoversi, l’alieno rotolò via in fretta, senza più fermarsi, finché non fu il più lontano possibile.
Carson si rese conto di esser piombato nel sonno troppo presto, quand’era ancora alla portata dei lanci del Rotolante. L’alieno, vedendolo disteso immobile, aveva osato avvicinarsi fino alla barriera, per scagliargli addosso delle pietre. Per fortuna, l’alieno non si era reso conto di quanto lui fosse debole altrimenti, invece di fuggir via, sarebbe rimasto li a tempestarlo di colpi.
Aveva dormito a lungo? Si chiese Carson. Probabilmente no, poiché si sentiva stremato e dolorante come prima. Per niente riposato, ma neppure più assetato. Probabilmente era rimasto lì disteso soltanto pochi minuti.
Ricominciò a strisciare, e questa volta si sforzò di arrivare alla maggior distanza possibile, quando la parete opaca e smorta del guscio esterno dell’arena fu soltanto a un metro da lui.
Poi, ripiombò nell’incoscienza…
Quando si svegliò, niente intorno a lui era cambiato, ma questa volta seppe di aver dormito a lungo.
La prima cosa della quale divenne conscio fu l’interno della sua bocca, secco, incrostato. La lingua gli si era gonfiata.
Sapeva che c’era qualcosa di sbagliato, mentre ritornava a una relativa lucidità. Si sentiva meno stanco, lo stadio dell’esaurimento totale era passato. Il sonno vi aveva posto rimedio. Ma sentiva dolore, un dolore tormentoso. E soltanto quando tentò di muoversi, seppe che proveniva dalla sua gamba.
Sollevò la testa e la guardò. Si era terribilmente gonfiata sotto il ginocchio, e il gonfiore era risalito fino a metà coscia. I viticci che aveva usato per legarci sopra il tampone protettivo di foglie ora gli segavano profondamente la carne gonfia.
Spingere il suo coltello sotto il legaccio infossato sarebbe stato impossibile. Per fortuna, l’ultimo nodo si trovava appena sopra lo stinco, sul davanti, dove il viticcio segava la carne meno che altrove. Riuscì, con uno sforzo angoscioso, a disfare il nodo.
Un’occhiata sotto il tampone di foglie gli rivelò il peggio. Infezione e avvelenamento del sangue, entrambi assai sgradevoli e in via di peggioramento.
E senza medicinali, senza garze sterili, soprattutto senz’acqua, non c’era proprio niente che potesse fare.
Niente del tutto, se non morire, quando il veleno si fosse diffuso nel suo sistema circolatorio.
Allora, seppe che la situazione era senza speranza, e aveva perduto.
E con lui, l’umanità. Quando lui fosse morto qua dentro, là fuori, nell’universo che conosceva, tutti i suoi amici, l’intera sua razza, sarebbero morti anch’essi. E la Terra, i pianeti colonizzati, sarebbero divenuti la dimora dei rossi, sferici alieni, gli invasori. Creature uscite da un incubo, prive di sentimenti, che facevano a pezzi le lucertole soltanto per divertirsi.
Fu quel pensiero che gli diede il coraggio di mettersi a strisciare, senza veder quasi nulla per la sofferenza, verso la barriera, una volta ancora. Non avanzando sulle ginocchia, ma tirandosi avanti con i gomiti e le mani.
C’era una probabilità su un milione che, quando fosse giunto là, gli rimanesse ancora un po’ di forza per scagliare l’arpione una sola volta, e con effetto mortale, se — un’altra probabilità su un milione — il Rotolante si fosse avvicinato alla barriera. O se la barriera era scomparsa.
Gli sembrò d’impiegare anni per arrivare fin là.
La barriera non era scomparsa. Era insuperabile proprio come la prima volta che l’aveva toccata.
Il Rotolante non era alla barriera. Sollevandosi sui gomiti, Carson poté vederlo laggiù, in fondo all’arena, al lavoro su un’intelaiatura di legno che, sebbene completata a metà, appariva la copia esatta della catapulta che lui aveva distrutto.
Il Rotolante pareva muoversi anch’esso lentamente. Ovviamente, doveva anche lui essersi indebolito. Ma Carson pensò che ben difficilmente avrebbe avuto bisogno di quella seconda catapulta. Lui sarebbe morto assai prima, pensò, che il Rotolante l’avesse finita.
Se fosse riuscito ad attirarlo fino alla barriera adesso, mentre era ancora vivo… Agitò un braccio e cercò di gridare, ma la sua gola riarsa non riuscì a produrre alcun suono.
Oppure, se fosse riuscito ad attraversare la barriera…
Doveva aver perso per un attimo il lume della ragione, poiché si trovò a picchiare coi pugni contro la barriera, in un futile eccesso di rabbia. Si costrinse, con uno sforzo, a smettere.
Chiuse gli occhi e cercò di calmarsi.
— Ehi, — disse una voce.
Era una voce piccola, sottile. Sembrava…
Aprì gli occhi e girò la testa. Era la lucertola.
«Vattene», avrebbe voluto dire Carson. «Vattene, tu non sei lì; o, se ci sei, non hai parlato. Sto di nuovo immaginandomi le cose».
Ma non riuscì a parlare; la sua gola e la sua lingua erano oltre la capacità di spiccar parola, aride e brucianti. Tornò a chiudere gli occhi.
— Ferita, — disse la piccola voce. — Uccidi. Ferita… uccidi. Vieni.
Aprì di nuovo gli occhi. La lucertola azzurra con dieci zampe era ancora lì. Corse avanti lungo la barriera, tornò indietro, corse ancora avanti, e tornò indietro.
— Ferita, — disse. — Uccidi. Vieni.
Ripartì un’altra volta di corsa, e tornò indietro. Voleva, era ovvio, che Carson la seguisse lungo la barriera.
Carson chiuse un’altra volta gli occhi. La voce continuò. Le stesse tre parole prive di senso. Tutte le volte che Carson apriva gli occhi, la lucertola correva avanti e tornava indietro.
— Ferita. Uccidi. Vieni.
Carson grugnì. Non gli avrebbe dato requie, a meno che non seguisse quel dannato animale. Questo, voleva la lucertola.
La segui, strisciando. Un altro suono, un acuto squittio, gli giunse alle orecchie e divenne più forte.
Qualcosa giaceva nella sabbia. Si contorceva e squittiva. Qualcosa di piccolo, azzurro, che sembrava una lucertola eppure non…
Poi, vide cos’era… la lucertola le cui zampe il Rotolante aveva strappato molto tempo prima. Ma non era morta, aveva ripreso i sensi e si dibatteva e urlava nell’agonia.
— Ferita, — disse l’altra lucertola. — Ferita. Uccidi. Uccidi.
Carson capì. Sfilò il coltello di pietra dalla cintura e uccise la creatura torturata. La lucertola viva schizzò via e scomparve.
Carson tornò a voltarsi verso la barriera. Vi appoggiò le mani e la testa e guardò il Rotolante che, laggiù, lontano, stava lavorando alla nuova catapulta.
— Se potessi arrivare fin laggiù… — sospirò. — Se soltanto riuscissi a passare! Potrei ancora vincere, se riuscissi a passare. Anche il Rotolante sembra debole. Potrei…
E poi fu travolto da un’altra ondata di nera disperazione, quando il dolore parve spezzare la sua volontà e fargli desiderare d’esser già morto. Invidiò la lucertola che aveva appena ammazzato. Non avrebbe più continuato a vivere, a soffrire. Mentre lui… Ci sarebbero volute ore, forse giorni, prima che l’avvelenamento del sangue lo uccidesse.
Se soltanto avesse trovato il coraggio di usare quel coltello su di sé…
Ma sapeva che non l’avrebbe fatto. Fintanto che fosse rimasto in vita, c’era sempre quella possibilità su un milione…
Si era puntato contro la barriera coi palmi delle mani, e vide com’erano ridotte le sue braccia, d’una spaventosa magrezza. Doveva trovarsi lì da molto tempo, ormai, perché le sue braccia si fossero ridotte così scarne e sottili.
Quanto tempo, ancora, prima di morire. La sua carne, quanto calore, quanta sete, quanto dolore avrebbe potuto sopportare ancora?
Per un po’, fu in preda a una frenesia isterica, poi, tornò in lui la calma, e con essa un pensiero stupefacente.
La lucertola che aveva appena ucciso. Aveva attraversato la barriera, ancora viva. Era giunta fin lì dal lato dell’alieno; il Rotolante le aveva strappato le zampe, poi l’aveva scagliata contro di lui, in un gesto di disprezzo, e la lucertola aveva superato la barriera. Perché era morta, lui aveva pensato.
Ma non era morta. Era soltanto priva di sensi.
Una lucertola viva non poteva attraversare la barriera, ma una lucertola priva di sensi poteva farlo. Quella, allora, non era una barriera per la carne vivente, ma soltanto per la carne cosciente. Era una proiezione mentale, un ostacolo mentale.
Con questo pensiero in testa, Carson cominciò a strisciare lungo la barriera per compiere il suo ultimo, disperato tentativo. Una speranza così remota, che soltanto un uomo morente poteva osare di credervi.
Non serviva valutare le probabilità di successo. Non quando, se non avesse tentato, quelle probabilità sarebbero precipitate a zero.
Strisciò lungo la barriera fino al mucchio di sabbia, alto poco più d’un metro, che aveva scavato fuori nel tentativo — quanti giorni prima? — di trovare un passaggio sotto la barriera o di raggiungere l’acqua.
Il mucchio era proprio accanto alla barriera; anzi la sabbia, assestandosi, l’aveva allargato alquanto alla base, così il pendio, su un lato, si trovava in parte al di là di essa.
Presa una pietra dal mucchio più vicino, Carson salì in cima al cumulo di sabbia, scese sull’altro Iato e si lasciò andare contro la barriera, con tutto il suo peso appoggiato su di essa, cosicché, se la barriera all’improvviso fosse scomparsa, sarebbe rotolato giù fin dentro al territorio nemico. Si accertò che il coltello fosse al suo posto, infilato nella cintura, e l’arpione nel cavo del suo braccio sinistro, la corda lunga sette metri legata ben salda al polso.
Poi, con la destra, sollevò la pietra con cui si sarebbe colpito alla tempia. Doveva essere un colpo fortunato: forte abbastanza da stordirlo, ma non troppo forte, per non stordirlo troppo a lungo.
Ebbe la sensazione che il Rotolante lo stesse osservando e che, vistolo precipitar giù attraverso la barriera, sarebbe venuto a indagare. Sperò che l’avrebbe creduto morto… che giungesse alla sua stessa, iniziale deduzione sulla natura della barriera. Ma sarebbe venuto avanti cautamente. Carson si augurò che ciò gli avrebbe dato il tempo di…
Si colpì.
Il dolore gli fece riprender conoscenza. Un improvviso, acuto dolore all’anca, ben diverso dal sordo pulsare della testa e dall’altro pulsare, ugualmente sordo, alla gamba.
Ma, prima di colpirsi, Carson aveva previsto quel dolore, si era caldamente augurato che ci fosse, e si era preparato a non reagire, svegliandosi, con un moto improvviso.
Giacque immobile, ma socchiuse cautamente gli occhi, e vide che la sua previsione era stata giusta: il Rotolante si stava avvicinando. Era a soli sei-sette metri di distanza, e il dolore che l’aveva destato era la pietra che l’alieno gli aveva scagliato addosso, per controllare se era vivo o morto.
Giacque immobile. Il Rotolante gli si avvicinò ancora di più. A cinque metri, tornò a fermarsi. Carson osava appena respirare.
Cercava di tenere sgombra la sua mente il più possibile, per timore che le facoltà telepatiche dell’alieno percepissero in lui una mente viva. E col cervello svuotato, l’impatto dei pensieri dell’altro quasi gli infranse l’anima.
Provò un puro orrore alla totale estraneità, alla diversità assoluta di quei pensieri. Percepì cose che non capì, e che non sarebbe mai stato capace di esprimere, poiché nessuna lingua e nessuna mente terrestri possedevano parole o immagini adatte. La mente di un ragno, pensò, oppure la mente di una mantide religiosa, o di un serpente marziano delle sabbie, rese intelligenti e poste in contatto telepatico con la mente umana, sarebbero apparse, al confronto di questa, familiari, consuete, amiche.
Ora capì che l’Entità aveva avuto ragione: uomo o Rotolante, l’universo non avrebbe potuto contenerli entrambi. Più distanti di Dio e il diavolo, un accordo fra loro, un equilibrio, sarebbero stati sempre impossibili. Ancora più vicino… Carson attese fino a quando l’alieno fu a un solo metro di distanza, e i suoi tentacoli artigliati si allungarono…
Dimentico, adesso, della lancinante sofferenza, balzò a sedere, sollevò e scagliò l’arpione con tutta la forza che ancora gli restava. O quanto meno, si convinse di aver messo in quel gesto disperato tutta la residua energia del suo corpo, poiché gli parve che una forza immensa l’avesse rianimato all’improvviso, bloccando, nel medesimo istante, ogni dolore.
E il Rotolante, l’arpione profondamente conficcato nel corpo, ruzzolò via. Carson cercò di alzarsi in piedi per inseguirlo, ma non vi riuscì; cadde, ma continuò a strisciare.
La corda si srotolò del tutto, poi Carson fu violentemente strappato in avanti per il polso. Il Rotolante lo trascinò per qualche metro, poi si fermò. Carson, abbrancando la corda con una mano dopo l’altra, continuò inesorabilmente ad avvicinarsi al nemico.
Il Rotolante tentava disperatamente, contorcendo i tentacoli, di strapparsi dal corpo l’arpione. Vibrò e oscillò, frenetico, poi dovette rendersi conto che non sarebbe riuscito a fuggire, poiché balzò addosso a Carson con tutti gli artigli protesi.
Carson impugnò il coltello di pietra e l’affrontò. Glielo piantò in corpo una volta, e un’altra, e un’altra ancora. E continuò implacabile, mentre quegli orribili artigli strappavano brandelli di pelle e di carne dal suo corpo.
Lacerò, squarciò, tranciò, e alla fine il Rotolante non si mosse più.
Un campanello squillava, e gli ci volle un po’, quand’ebbe aperto gli occhi, per poter dire dov’era, e chi era. Era seduto al quadro dei comandi del suo ricognitore, legato con la cinghia, e la piastra video davanti a lui mostrava soltanto lo spazio vuoto. Nessuna nave aliena. Nessun pianeta impossibile.
Il campanello era un segnale di chiamata; qualcuno gli stava chiedendo di staccare il ricevitore. Per puro istinto allungò la mano e fece scattare l’interruttore.
Il volto di Brander, comandante della Magellano, la nave-base del suo gruppo di ricognitori, comparve sullo schermo. Era pallido, e gli occhi neri ardevano di eccitazione.
— Magellano a Carson, — esclamò. — Rientra. La guerra è finita. Abbiamo vinto!
La piastra video si spense; Brander stava trasmettendo agli altri ricognitori il suo ordine.
Lentamente, Carson regolò i comandi per la rotta di rientro. Lentamente, incredulo, sganciò la cinghia di sicurezza e andò a servirsi da bere al serbatoio dell’acqua ghiacciata. Per qualche motivo, aveva una sete tremenda. Ne trangugiò sei bicchieri.
Si appoggiò alla paratia, cercando di metter ordine nella sua mente.
Era accaduto davvero? Lui si sentiva a posto, incolume. La sua sete era stata più mentale che fisica, la sua gola non era secca. La sua gamba… Si tirò su il calzone e si guardò il polpaccio. E vide una lunga linea bianca. Una cicatrice, perfettamente rimarginata. Prima, non c’era. Si apri la chiusura-lampo sul davanti della tuta e vide che il suo petto e l’addome erano costellati da tante, minuscole cicatrici, quasi invisibili, perfettamente rimarginate.
Sì, era accaduto.
Il ricognitore, grazie all’automatico, si stava già infilando entro l’ampio boccaporto della nave-madre. Gli agganci magnetici lo tirarono dentro al suo hangar, e pochi istanti più tardi un cicalino indicò che l’hangar era pieno d’aria.
Carson aprì il portello e uscì fuori, attraverso la camera d’equilibrio, e si diresse subito all’ufficio di Brander, entrò e salutò.
Brander aveva ancora un’aria confusa e stordita. — Ciao, Carson, — esclamò. — Cosa ti sei perso! Che spettacolo!
— Cos’è successo, signore?
— Non lo so, esattamente non riesco a spiegarmelo. Abbiamo sparato una salva… e tutta la loro flotta è finita in polvere! È stato come… come un lampo, è balzato da una nave all’altra, facendo esplodere anche quelle a cui non avevamo sparato, anche quelle che erano fuori portata! L’intera flotta aliena si è disintegrata davanti ai nostri occhi, e noi… nessuna delle nostre navi ha subito il minimo danno, neanche una graffiatura alla vernice!
«E non possiamo neppure accreditarcene il merito. Dev’essere stata qualche instabilità nella struttura del metallo che usavano, attivata dalla nostra prima salva. Oh, amico, amico mio, è davvero un peccato che ti sia perso la festa.
Carson riuscì a sorridere, anche se era soltanto il fantasma malato di un sorriso, poiché ci avrebbe messo giorni prima di riaversi dal trauma mentale della sua esperienza, ma il comandante non lo stava guardando e non lo notò.
— Sì, signore, — disse. Il buonsenso, ben più che la modestia, gli stava dicendo che sarebbe stato bollato per sempre come il peggior bugiardo dello spazio, se avesse detto anche una sola parola di più. — Sì, signore, davvero un peccato che mi sia persa la festa.