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Settantadue lettere
Quando Robert era piccolo, il suo giocattolo preferito era un semplice pupazzo di creta che sapeva solo camminare in avanti. Quando i suoi genitori ricevevano gli ospiti in giardino, discutendo dell’ascesa al trono di Vittoria o delle riforme cartiste, Robert seguiva il pupazzo che marciava nei corridoi della casa di famiglia, girandolo a destra o sinistra quando c’era un angolo, o su sé stesso per farlo tornare indietro. Il pupazzo non obbediva a nessun comando né dimostrava alcun buonsenso; se incontrava un muro continuava a marciare fin quando braccia e gambe si trasformavano gradualmente in moncherini. A volte Robert lasciava che facesse così, per proprio divertimento. Quando gli arti del pupazzo erano completamente deformati, raccoglieva il giocattolo e ne estraeva il nome, arrestandone di colpo i movimenti. Poi impastava il corpo in una palla liscia, la appiattiva e ne ricavava una figura diversa: un corpo con una gamba storta, o più lunga dell’altra. Reinseriva il nome, e il pupazzo subito cadeva e si metteva a scalciare in tondo.
A Robert non piaceva molto modellare; gli piaceva esplorare i limiti del nome. Gli piaceva vedere quanto poteva modificare la forma del corpo prima che il nome non fosse più in grado di animarlo. Per risparmiare tempo nel modellarlo, al corpo aggiungeva di rado particolari decorativi; lo rifiniva solo quel tanto che bastava a provare il nome.
Un altro dei suoi pupazzi camminava su quattro zampe. Il corpo era ben fatto, un cavallo di porcellana dalla forma molto dettagliata, ma ciò che interessava a Robert era fare esperimenti col suo nome. Questo nome eseguiva l’ordine di partire e quello di fermarsi ed era in grado di evitare gli ostacoli, e Robert provò a inserirlo in corpi fatti da lui. Ma il nome richiedeva corpi di notevole precisione, e Robert non riuscì mai a modellarne uno di creta e a farlo animare. Preparava le gambe separatamente e poi le attaccava al corpo principale, ma non riusciva a saldare perfettamente le giunture; così il nome non riconosceva il corpo come un unico pezzo.
Robert esaminava i nomi stessi, cercando qualche semplice sostituzione che potesse distinguere un bipede da un quadrupede, o far sì che il corpo obbedisse a qualche comando elementare. Ma i nomi sembravano completamente diversi; su ogni frammento di pergamena erano scritte settantadue minuscole lettere ebraiche, disposte in dodici righe di sei, e per quel che poteva vedere Robert, l’ordine delle lettere era del tutto casuale.
Robert Stratton e i suoi compagni di quarta sedevano in silenzio mentre mastro Trevelyan passava tra le file di banchi.
“Langdale, cos’è la dottrina dei nomi?”.
“Tutte le cose sono riflessi di Dio, e, ehm… tutti…”.
“Risparmiaci i tuoi balbettii. Thorburn, tu sai dirci la dottrina dei nomi?”.
“Come tutte le cose sono riflessi di Dio, così tutti i nomi sono riflessi del nome divino”.
“E cos’è il vero nome di un oggetto?”.
“Il nome che riflette il nome divino nello stesso modo in cui l’oggetto riflette Dio”.
“E qual è l’azione di un vero nome?”.
“Dotare il proprio oggetto di un riflesso del potere divino”.
“Esatto. Halliwell, cos’è la dottrina dei segni?”.
La lezione di filosofia naturale continuò fino a mezzogiorno, ma dato che era sabato era l’ultima della giornata. Mastro Trevelyan congedò la classe, e i ragazzi della scuola di Cheltenham se ne andarono per i fatti loro.
Dopo essersi fermato in dormitorio, Robert incontrò il suo amico Lionel ai margini del parco della scuola. “Dunque l’attesa è finita? Oggi è il gran giorno?”, chiese Robert.
“Ho detto che lo era, no?”.
“Allora andiamo”. I due s’incamminarono, per percorrere il miglio e mezzo che li separava dalla casa di Lionel.
Durante il suo primo anno a Cheltenham, Robert conosceva Lionel solo di vista; Lionel era un esterno, e Robert, come tutti i convittori, diffidava degli esterni. Poi, per puro caso, Robert lo aveva incontrato durante le vacanze, a una visita al British Museum. Robert amava il museo: le fragili mummie e gli enormi sarcofaghi, l’ornitorinco impagliato e la sirena in salamoia, la parete irta di zanne di elefante e di corna d’alce e d’unicorno. Quel giorno era andato a vedere l’esposizione degli spiriti elementari: stava leggendo il cartellino che spiegava l’assenza della salamandra quando all’improvviso aveva riconosciuto Lionel, fermo accanto a lui, intento a scrutare l’ondina nel suo vaso di vetro. La conversazione aveva rivelato il loro interesse comune per le scienze, e i due ben presto erano diventati amici.
Quando furono in strada cominciarono a prendere a pedate un sasso, rimandandoselo tra loro. Lionel diede un calcio e rise quando il sasso schizzò tra le caviglie di Robert. “Non vedevo l’ora di uscire”, disse. “Non avrei sopportato un’altra dose di dottrina”.
“Perché si prendono la briga di chiamarla filosofia naturale, poi?”, disse Robert. “Ammettano semplicemente che è un altro corso di teologia, e basta”. I due avevano acquistato di recente la Guida per ragazzi alla nomenclatura, che spiegava come i nomenclatori non tirassero più in ballo Dio o il nome divino. Secondo il pensiero corrente, invece, esistevano un universo lessicale e un universo fisico, e unendo un oggetto a un nome compatibile si realizzavano le potenzialità latenti di entrambi. E non c’era un unico “vero nome” per un dato oggetto: a seconda della sua forma precisa, un corpo poteva essere compatibile con parecchi nomi, noti come i suoi “buoni nomi”, e all’inverso un semplice nome poteva tollerare variazioni significative della forma corporea, come aveva dimostrato il pupazzo deambulante dell’infanzia di Robert.
Quando arrivarono a casa di Lionel, promisero alla cuoca che sarebbero rientrati presto per il pranzo e si diressero al giardino sul retro. Lionel aveva trasformato un capanno degli attrezzi del giardino di famiglia in un laboratorio che usava per fare esperimenti. Di solito Robert era un visitatore abituale del laboratorio, ma ultimamente Lionel si era dedicato a un esperimento che aveva tenuto segreto. Solo adesso era pronto a mostrare all’amico i risultati. Lionel lo fece aspettare all’esterno ed entrò per primo, poi lo invitò a raggiungerlo.
Su ogni parete del capanno correva una lunga mensola, ingombra di fiale, bottiglie di vetro verde tappate e campioni vari di rocce e minerali. Un tavolo decorato di macchie e bruciature dominava l’ambiente angusto e sosteneva l’apparecchiatura dell’ultimo esperimento di Lionel: un’ampolla di vetro, fissata a un supporto in modo che il fondo rimanesse immerso in un catino d’acqua, a sua volta posto su un treppiede sopra una lampada a olio accesa. Nel catino c’era anche un termometro a mercurio.
“Dài un’occhiata”, disse Lionel.
Robert si chinò a osservare il contenuto dell’ampolla. Dapprima gli sembrò che fosse semplice schiuma, come quella che poteva gocciolare da una pinta di birra. Ma guardando meglio si rese conto che quelle che gli erano parse bolle erano in realtà interstizi di un reticolo luccicante. La schiuma era composta di homunculi: minuscoli feti seminali. Presi uno a uno i loro corpi erano trasparenti, ma tutti insieme formavano una schiuma pallida e densa di teste bulbose e arti filiformi.
“Così te ne sei fatta una in un barattolo e hai conservato lo sperma al caldo?”, chiese, e Lionel gli diede una spinta. Robert rise e alzò le mani in gesto di pace. “No, sinceramente, è una meraviglia. Come hai fatto?”.
Placato, Lionel disse: “È veramente un gioco di equilibrismo. Devi sempre tenere la temperatura giusta, è ovvio, ma se vuoi che crescano devi anche mescolare gli elementi nutritivi nel modo giusto. Se la mistura è troppo fluida, deperiscono. Se è troppo densa, si agitano e cominciano ad aggredirsi”.
“Mi stai prendendo in giro”.
“È la verità; prova, se non ci credi. I conflitti nello sperma provocano la nascita di mostri. Se all’uovo arriva un feto ferito, allora il bambino che nasce è deforme”.
“Pensavo fosse perché la madre ha preso uno spavento quando era incinta”. Robert poteva appena notare le impercettibili contorsioni dei singoli feti. Si rese conto che la schiuma rimaneva un po’ torbida proprio a causa di tutti i loro movimenti.
“Quello è solo per certi tipi di mostri, come quelli che hanno peli dappertutto o che sono coperti di macchie. I bambini che non hanno braccia o gambe, o che le hanno deformi, sono invece rimasti feriti quando erano ancora sperma. È per questo che non gli puoi dare un brodo troppo nutriente, soprattutto se non hanno dove andare. Diventano frenetici. E allora li puoi perdere in un attimo”.
“Per quanto tempo puoi continuare a farli crescere?”.
“Probabilmente non per molto”, disse Lionel. “È difficile tenerli in vita se non possono raggiungere un uovo. Ho letto che in Francia ne hanno fatto crescere uno fino alla dimensione di un pugno, e avevano la migliore attrezzatura possibile. Io volevo solo vedere se riuscivo comunque a farlo”.
Robert fissò la schiuma, ricordando la dottrina della preformazione nella quale mastro Trevelyan li aveva istruiti: tutte le cose viventi erano state create nello stesso istante, molto tempo prima, e le nascite di oggi erano solo ingrandimenti di quello che in precedenza non era percepibile. Per quanto sembrassero appena creati, quegli homunculi erano inimmaginabilmente vecchi; erano rimasti annidati in generazioni e generazioni di antenati per l’intera durata della storia umana, in attesa del momento di nascere.
Non erano solo loro ad aver aspettato, in realtà; anche lui stesso doveva aver fatto lo stesso prima della nascita. Se fosse stato suo padre ad aver fatto quell’esperimento, le minuscole figure che Robert vedeva sarebbero state i suoi fratelli e le sue sorelle non nati. Sapeva che non erano senzienti finché non raggiungevano un uovo, ma si domandò che pensieri avrebbero avuto se lo fossero stati. Immaginò la sensazione del proprio corpo, ogni osso e organo molle e chiaro come gelatina, incollato a miriadi di fratelli e sorelle identici. Come sarebbe stato, guardare attraverso palpebre trasparenti, rendersi conto che la montagna in lontananza era in realtà una persona, riconoscendola per il proprio fratello? E se avesse saputo che sarebbe diventato imponente e solido come quel colosso, se solo avesse potuto raggiungere un uovo? Non c’era da meravigliarsi che si accapigliassero.
Robert Stratton studiò nomenclatura al Trinity College di Cambridge. Lesse i testi cabalistici scritti secoli prima, quando i nomenclatori erano ancora chiamati ba’alei shem e gli automi golem, testi che avevano posto le fondamenta della scienza dei nomi: il Sefer Yezirah, il Sodei Razayya di Eleazar di Worms, l’Hayyei ha-Olam ha-Ba di Abulafia. Poi studiò i trattati alchemici che collocavano le tecniche della manipolazione alfabetica in un contesto matematico e filosofico più ampio: l’Ars Magna di Lullo, il De Occulta Philosophia di Agrippa, il Monas Hieroglyphica di Dee.
Imparò che tutti i nomi erano combinazioni di diversi epiteti, ognuno dei quali indicava un tratto o una capacità specifici. Gli epiteti venivano generati compilando tutte le parole che descrivevano il tratto desiderato: gli etimi e i loro derivati, sia di lingue vive che di lingue morte. Sostituendo e permutando selettivamente le lettere, si poteva distillare da quelle parole la loro essenza comune, che era l’epiteto di quel tratto. In certi casi, gli epiteti potevano essere usati come basi di triangolazioni, consentendo di ricavare epiteti di tratti che non erano descritti in alcuna lingua. L’intero procedimento risultava sia dall’intuizione che dalle formule; l’abilità a scegliere le migliori permutazioni di lettere era qualcosa che non si poteva insegnare.
Studiò le tecniche moderne di integrazione e fattorizzazione nominale. Per mezzo della prima, gli epiteti - concisi ed evocativi - venivano combinati insieme nella sequenza apparentemente casuale di lettere che formava il nome; con la seconda, al contrario, si scomponeva il nome nei suoi epiteti costitutivi. Non tutti i metodi di integrazione avevano una tecnica di fattorizzazione corrispondente: un nome potente poteva essere rifattorizzato per produrre un insieme di epiteti diversi da quelli usati per generarlo, e quegli epiteti spesso erano utili per questa ragione. Alcuni nomi resistevano alla rifattorizzazione, e i nomenclatori si sforzavano di sviluppare nuove tecniche per penetrarne i segreti.
In quel periodo la nomenclatura stava subendo una specie di rivoluzione. Fino ad allora c’erano state due classi di nomi: quelli per animare i corpi, e quelli usati come amuleti. Gli amuleti di salute venivano indossati come protezione dalle lesioni e dalle malattie, mentre altri amuleti rendevano una casa resistente all’incendio o una nave meno affondabile. Ultimamente, tuttavia, la distinzione tra queste categorie di nomi stava diventando incerta, con risultati eccitanti.
La nascente scienza della termodinamica, che stabiliva la convertibilità tra calore e lavoro, aveva recentemente spiegato come gli automi acquisissero la loro forza motrice assorbendo calore dall’ambiente. Utilizzando queste nuove conoscenze sul calore, un Namenmeister di Berlino aveva sviluppato un nuova classe di amuleti che consentivano a un corpo di assorbire calore da un luogo e di rilasciarlo in un altro. La refrigerazione ottenuta per mezzo di questi amuleti era più semplice ed efficiente di quella basata sull’evaporazione di un fluido volatile, e aveva immense applicazioni commerciali. Gli amuleti stavano inoltre facilitando il miglioramento degli automi: la ricerca di un nomenclatore di Edimburgo, sugli amuleti che impedivano agli oggetti di essere smarriti, lo aveva portato a brevettare un automa domestico in grado di riportare gli oggetti al loro posto.
Una volta laureato, Stratton si stabilì a Londra e ottenne un impiego come nomenclatore alla Manifattura Coade, uno dei principali costruttori di automi in Inghilterra.
Il suo automa più recente, stampato in gesso, seguiva di qualche passo Stratton mentre entrava nello stabilimento. Era un’enorme costruzione in mattoni, con lucernai sul tetto; metà dell’edificio era dedicata alla fusione in metallo, l’altra metà alla ceramica. In ciascun reparto un percorso tortuoso collegava i diversi ambienti, che ospitavano ciascuno una diversa fase della trasformazione delle materie prime in automi finiti. Stratton e il suo automa entrarono nel reparto della ceramica.
Costeggiarono una fila di basse vasche per la miscelatura dell’argilla. Ciascuna ne conteneva una diversa qualità, dalla comune creta rossa al più fine caolino bianco; sembravano enormi tazze colme di cioccolata o di panna densa, e solo il forte odore di minerale spezzava l’illusione. Le pale che mescolavano l’argilla erano collegate da ingranaggi a un albero motore, montato appena sotto i lucernai, che correva per tutta la lunghezza dell’ambiente. All’estremità della sala si ergeva un automa, un gigante di ghisa che faceva girare instancabilmente la manovella dell’albero. Stratton, nell’oltrepassarlo, percepì nell’aria un lieve senso di freddo, provocato dall’automa mentre assorbiva calore dall’ambiente.
Nel locale seguente c’erano gli stampi per le gettate: bianchi gusci di gesso accatastati lungo le pareti, che riportavano le forme invertite dei diversi automi. Nella parte centrale del locale, alcuni operai in grembiule specializzati nella modellazione lavoravano individualmente o in coppie agli stampi, come a bozzoli dai quali si sarebbero schiusi gli automi.
Il modellatore più vicino stava assemblando lo stampo di un automa da spinta, un quadrupede dalla testa larga utilizzato nelle miniere per spingere i vagoncini di minerale grezzo. Il giovane alzò gli occhi dal suo lavoro. “State cercando qualcuno, signore?”, chiese.
“Devo incontrare qui mastro Willoughby”, rispose Stratton.
“Scusate, non avevo capito. Sono certo che arriverà subito”. L’operaio riprese la propria opera. Harold Willoughby era un mastro modellatore di primo grado; Stratton doveva consultarlo riguardo al progetto di uno stampo riutilizzabile per l’automa al quale stava lavorando. Mentre attendeva, Stratton si aggirò pigramente tra gli stampi. Il suo automa rimase immobile, pronto a eseguire il prossimo comando.
Willoughby entrò dalla porta del reparto metalli, il volto arrossato dal calore della fonderia. “Scusate il ritardo, signor Stratton”, disse. “Siamo stati appresso a un grosso automa di bronzo per settimane, e oggi c’era la gettata. Meglio non lasciare soli i ragazzi, in un momento del genere”.
“Capisco perfettamente”, disse Stratton.
Senza perdere tempo, Willoughby si avvicinò a grandi passi al nuovo automa. “È questo l’incarico che Moore ha svolto per voi in tutti questi mesi?”. Moore era l’operaio che assisteva Stratton nel progetto.
Stratton annuì. “Il ragazzo lavora bene”. Seguendo le sue istruzioni, Moore aveva modellato innumerevoli corpi, applicando varie volte la creta sulla stessa armatura, e poi li aveva usati per ottenere i calchi di gesso su cui Stratton poteva provare i propri nomi.
Willoughby esaminò il corpo. “Bei dettagli; sembra abbastanza ben fatto… un momento…”. Indicò le mani dell’automa: invece di essere nella tradizionale forma a muffola o a pinna, con le dita appena suggerite da solchi superficiali, quelle mani erano completamente modellate; ognuna aveva un pollice e quattro dita separate e distinte. “Non vorrete dirmi che queste sono funzionali?”.
“Certo”.
Lo scetticismo di Willoughby era evidente. “Mostratemi”.
Stratton si rivolse all’automa. “Piega le dita”. L’automa alzò entrambe le mani, fletté ed estese a turno le dita, una coppia alla volta, e quindi riportò le braccia lungo i fianchi.
“Mi congratulo con voi, signor Stratton”, disse il modellatore. Si chinò per esaminare da vicino le dita dell’automa. “Le dita devono piegarsi a ogni giuntura perché il nome abbia effetto?”.
“Esatto. Potete progettare uno stampo componibile per forme così?”.
Willoughby schioccò diverse volte la lingua. “Sarà una faccenda piuttosto complicata”, disse. “Potremmo dover usare uno stampo a perdere per ogni gettata. Anche con uno stampo componibile il costo sarebbe piuttosto alto, trattandosi di ceramica”.
“Penso che ne varrà la pena. Permettetemi di darvi una dimostrazione”. Stratton si rivolse all’automa: “Fai un corpo; usa quello stampo”.
L’automa si trascinò fino al muro vicino e prese i pezzi dello stampo indicato da Stratton: era lo stampo per un piccolo automa messaggero di porcellana. Alcuni operai interruppero quello che stavano facendo per osservare l’automa che portava i pezzi su un tavolo di assemblaggio. Poi l’automa unì insieme le parti e le legò strettamente con lo spago. Lo stupore dei modellatori era evidente, nel guardare le dita che rigiravano le estremità dello spago per annodarlo. Quindi l’automa mise in piedi lo stampo montato e si girò per prendere una caraffa di creta semiliquida.
“Basta così”, disse Willoughby. L’automa si fermò e si rimise in piedi in posizione di riposo. Esaminando lo stampo, Willoughby chiese: “Lo avete addestrato voi?”.
“Sì. Spero che Moore gli insegni la fusione del metallo”.
“Avete nomi che possono imparare altre attività?”.
“Non ancora. Ma ho buone ragioni per credere che esista un’intera classe di nomi simili, uno per ogni tipo di attività che richiede abilità manuale”.
“Davvero?”. Willoughby si accorse che gli altri modellatori li stavano osservando e gridò: “Se non avete niente da fare, c’è un sacco di compiti che posso assegnarvi”. Gli operai ripresero prontamente il lavoro, e Willoughby si rivolse di nuovo a Stratton. “Andiamo nel vostro ufficio a parlare ancora di questa faccenda”.
“Benissimo”. Stratton ordinò all’automa di seguirli verso il blocco frontale del complesso di edifici collegati che formavano la Manifattura Coade. Entrarono nel suo studio, che era situato dietro l’ufficio vero e proprio. Una volta dentro, Stratton si rivolse al modellatore. “Avete qualche obiezione a proposito del mio automa?”.
Willoughby osservò un paio di mani di argilla montate su un banco di lavoro. Sul muro dietro il banco erano fissati alcuni disegni che mostravano mani in diverse posizioni. “Avete fatto un lavoro ammirevole, imitando la mano dell’uomo. Mi preoccupa però che sia proprio la modellazione, la prima competenza che avete insegnato al vostro nuovo automa”.
“Se temete che io stia cercando di sostituire i modellatori, state pure tranquillo. La mia intenzione non è assolutamente questa”.
“Ne sono sollevato”, disse Willoughby. “Perché avete scelto la modellazione, allora?”.
“È il primo passo per una strada piuttosto diversa. Il mio obiettivo finale è far sì che gli automi possano essere prodotti a un costo abbastanza basso da permettere alla maggior parte delle famiglie di acquistarli”.
La confusione di Willoughby era evidente. “E ditemi, vi prego, una famiglia che uso ne farebbe?”.
“Per azionare un telaio meccanico, ad esempio”.
“Ma di che state parlando?”.
“Avete mai visto i bambini che lavorano in una fabbrica tessile? Vengono fatti lavorare fino allo stremo; hanno i polmoni intasati di polvere di cotone; sono così deperiti che si stenta a immaginare come possano arrivare all’età adulta. Il tessuto costa poco, ma al prezzo della salute dei nostri lavoratori; i tessitori stavano molto meglio quando la produzione tessile veniva fatta a domicilio”.
“Sono stati i telai meccanici ad allontanare i tessitori dalle loro case. Come potrebbero farceli tornare?”.
Stratton non aveva mai parlato con nessuno di queste cose, e non gli parve vero di avere l’opportunità di spiegarsi. “Il costo degli automi è sempre stato alto, e quindi abbiamo fabbriche in cui dozzine di telai sono azionati da giganteschi motori alimentati a carbone. Ma un automa come il mio potrebbe a sua volta fabbricare automi a un costo molto basso. Se un piccolo automa, predisposto ad azionare poche macchine, fosse alla portata di un tessitore e della sua famiglia, essi potrebbero produrre tessuto a casa loro, come facevano prima. La gente potrebbe guadagnare un compenso rispettabile senza essere esposta alle condizioni della fabbrica”.
“Dimenticate il costo del telaio stesso”, disse Willoughby cortesemente, come se lo stesse compiacendo. “I telai meccanici sono notevolmente più costosi dei vecchi telai a mano”.
“I miei automi potrebbero occuparsi anche della produzione di pezzi in ghisa, il che ridurrebbe il costo dei telai meccanici come di altre macchine. Non è una panacea, lo so, ma sono comunque convinto che gli automi a basso costo offrano al singolo artigiano la speranza di una vita migliore”.
“Il vostro desiderio di riforma vi fa onore. Permettetemi tuttavia di suggerire che ci sono cure più semplici per i mali sociali che menzionate: la riduzione delle ore lavorative, oppure il miglioramento delle condizioni di lavoro. Non è necessario sconvolgere il nostro intero sistema produttivo”.
“Credo che ciò che propongo sia un ripristino, piuttosto che uno sconvolgimento”.
Ora Willoughby si stava esasperando. “Questa cosa di tornare a un’economia familiare sarà anche giusta, ma che succederebbe ai modellatori? Nonostante le vostre buone intenzioni, questi vostri automi farebbero rimanere i modellatori senza lavoro. È gente che ha affrontato anni di apprendistato e di addestramento. Come potranno mantenere le loro famiglie?”.
L’asprezza del tono prese Stratton alla sprovvista. “Sopravvalutate la mia abilità di nomenclatore”, disse conciliante. Il modellatore restava cupo. “Le capacità di apprendimento di questi automi sono estremamente limitate. Sono in grado di maneggiare gli stampi, ma non potrebbero mai progettarli. La vera arte della modellazione può essere svolta solo dai modellatori. Prima del nostro incontro avevate appena finito di dirigere diversi operai nella colata di un grande bronzo; gli automi non potrebbero mai lavorare assieme in modo così coordinato. Svolgono solo mansioni ripetitive”.
“Che razza di modellatori potremo addestrare, se durante l’apprendistato passano il tempo a guardare gli automi che lavorano al posto loro? Non consentirò che una professione onorevole sia ridotta a uno spettacolo di marionette”.
“Non è questo che accadrebbe”, replicò Stratton, prossimo a sua volta all’esasperazione. “Ma pensate a quello che voi stesso state dicendo: il prestigio che desiderate conservare per la vostra professione è esattamente quello a cui i tessitori sono stati costretti a rinunciare. Credo che questi automi possano contribuire a ridare dignità alle altre professioni, e senza grande scapito per la vostra”.
Willoughby non lo ascoltava neanche. “L’idea stessa che gli automi costruiscano automi! Non solo è una proposta offensiva, sembra anche possa portare a qualche disastro. Che mi dite di quella ballata, quella dei manici di scopa che portano i secchi e che diventano frenetici?”.
“Vi riferite a Der Zauberlehrling, l’apprendista stregone?”, disse Stratton. “Il paragone è assurdo. Questi automi sono così lontani dall’essere in grado di riprodursi senza intervento umano che non so neanche da dove cominciare a elencare le obiezioni. È più facile che un orso ballerino si esibisca nel London Ballet”.
“Se vi interessasse creare un automa capace di danzare, darei tutto il mio appoggio all’impresa. Ma comunque, non potete continuare con automi con queste abilità”.
“Scusate, signore, ma io non sono sottoposto alle vostre decisioni”.
“Troverete difficile lavorare senza la collaborazione dei modellatori. Richiamerò Moore e proibirò a tutti gli altri operai scultori di aiutarvi in alcun modo in questo progetto”.
Stratton rimase un attimo sconcertato. “La vostra reazione è del tutto ingiustificata”.
“La ritengo invece del tutto appropriata”.
“In tal caso, lavorerò con i modellatori di un’altra manifattura”.
Willoughby si accigliò. “Parlerò con il capo della corporazione dei modellatori, e gli consiglierò di proibire a tutti i nostri membri di fondere i vostri automi”.
Stratton si sentì ribollire il sangue. “Non mi farò intimidire”, disse. “Fate quel che volete, ma non potete impedirmi di perseguire il mio scopo”.
“Credo che la nostra discussione sia terminata”. Willoughby si avviò alla porta. “Buona giornata, signor Stratton”.
“Buona giornata a voi”, rispose Stratton rabbiosamente.
Il giorno seguente, intorno a mezzogiorno, Stratton uscì a fare i suoi quattro passi per il quartiere di Lambeth, dove si trovava la Manifattura Coade. Dopo qualche isolato, si fermò a un mercato rionale; tra cesti brulicanti di anguille e teli coperti di orologi a buon mercato c’erano a volte i pupazzi animati da un nome semplice, come quelli della sua infanzia, e Stratton non aveva perso la curiosità per le novità del settore. Quel giorno notò un nuovo paio di pupazzi pugilatori, dipinti in modo da sembrare un esploratore e un selvaggio. Li stava osservando, quando sentì alcuni venditori di farmaci miracolosi che si contendevano l’attenzione di un passante col naso che colava.
“Vedo che il vostro amuleto di salute vi ha abbandonato, signore”, disse un uomo sul cui banco erano disposte file di piccole scatole quadrate. “Troverete il vostro rimedio nelle proprietà curative del magnetismo, concentrate nelle pastiglie polarizzanti del dottor Sedgewick!”.
“Sciocchezze!”, replicò una vecchia. “Ciò di cui avete bisogno è tintura di mandragola, sperimentata e indiscutibile!”. Tese al passante un’ampolla di liquido chiaro. “Il cane non era ancora freddo quando questo estratto è stato preparato! Non c’è nulla di più potente!”.
Non vedendo altri nuovi pupazzi, Stratton lasciò il mercato e andò oltre, ripensando a quanto aveva detto Willoughby il giorno prima. Senza la collaborazione della corporazione, non gli sarebbe rimasto che ingaggiare modellatori indipendenti. Non aveva mai lavorato con artigiani di questo tipo, e avrebbe dovuto fare qualche ricerca: in apparenza fondevano solo corpi da usare con nomi di dominio pubblico, ma per alcuni di loro quell’attività copriva trasgressioni e violazioni di brevetto, e avere a che fare con questi poteva macchiare irrimediabilmente la sua reputazione.
“Signor Stratton”.
Stratton alzò gli occhi. Davanti a lui c’era un uomo piccolo e magro, in abiti comuni. “Sì. Ci conosciamo, signore?”.
“No, signore. Il mio nome è Davies. Sono alle dipendenze di lord Fieldhurst”. Porse a Stratton un biglietto che portava lo stemma dei Fieldhurst.
Edward Maitland, terzo conte di Fieldhurst e celebre zoologo e studioso di anatomia comparata, era il presidente della Royal Society. Stratton lo aveva sentito parlare a qualche conferenza della Royal Society, ma non erano mai stati presentati. “Cosa posso fare per voi?”.
“Lord Fieldhurst vorrebbe parlarvi, non appena vi aggradi, riguardo al vostro ultimo lavoro”.
Stratton si meravigliò che il conte fosse venuto a conoscenza di ciò che faceva. “Perché non mi avete cercato nel mio ufficio?”.
“Lord Fieldhurst preferisce tenere la questione riservata”. Stratton alzò le sopracciglia, ma Davies non diede ulteriori spiegazioni. “Siete disponibile, questa sera?”.
Era un invito insolito, ma comunque un onore. “Certo. Per favore, informate lord Fieldhurst che ne sarò felice”.
“Una carrozza sarà di fronte alla vostra abitazione stasera alle otto”. Davies si portò la mano al cappello, e scomparve.
All’ora indicata, Davies arrivò con la carrozza. Era una vettura di lusso; all’interno, mogano laccato, ottone lucido e velluto ben spazzolato. Anche l’automa che la trainava era costoso, un destriero di bronzo che non aveva bisogno di conducente per le destinazioni familiari.
Mentre andavano, Davies ignorò cortesemente qualsiasi domanda. Era ovvio che non era né un domestico né un segretario, ma Stratton non riusciva a stabilire che tipo di dipendente fosse. La vettura lasciò la città e si inoltrò nella campagna, finché non giunsero a Darrington Hall, una delle residenze di proprietà del casato dei Fieldhurst.
Una volta dentro, Davies precedette Stratton attraverso l’atrio e lo introdusse in uno studio arredato con eleganza; poi chiuse la porta senza entrare.
Seduto alla scrivania dello studio c’era un uomo dal torace ampio, in giacca da camera di seta e cravatta; le sue ampie guance profondamente incavate erano incorniciate da basette grigie e lanose. Stratton lo riconobbe subito.
“Lord Fieldhurst, è un onore”.
“È un piacere conoscervi, signor Stratton. Avete fatto un eccellente lavoro, negli ultimi tempi”.
“Siete molto gentile. Non mi ero reso conto che il mio lavoro fosse conosciuto”.
“Mi sforzo di essere informato, su queste cose. Vi prego, ditemi, cosa vi ha spinto a concepire simili automi?”.
Stratton spiegò i suoi progetti di produrre motori dal prezzo accessibile. Fieldhurst ascoltò con interesse, dando ogni tanto suggerimenti appropriati.
“È un obiettivo ammirevole”, disse, annuendo per sottolineare la propria approvazione. “Sono felice di constatare che i vostri motivi sono così filantropici, perché vorrei chiedere il vostro aiuto in un progetto che sto dirigendo”.
“Sarebbe un privilegio offrirvi tutto l’aiuto di cui sono capace”.
“Grazie”. Fieldhurst assunse un’espressione solenne. “Si tratta di una questione di notevole importanza. Prima di aggiungere altro, devo avere la vostra parola che considererete tutto ciò che vi rivelerò assolutamente confidenziale”.
Stratton incrociò lo sguardo del conte. “Sul mio onore di gentiluomo, signore. Non divulgherò nulla di quanto mi direte”.
“Grazie, signor Stratton. Per favore, da questa parte”. Fieldhurst aprì una porta nella parete posteriore dello studio e percorsero un breve corridoio. In fondo c’era un laboratorio; un lungo tavolo scrupolosamente in ordine ospitava diverse postazioni di lavoro. A ognuna c’erano un microscopio e una struttura articolata di ottone dotata di tre ruote perpendicolari tra loro, munite di manopole per regolazioni di precisione. Un uomo anziano stava guardando nel microscopio della postazione più lontana; quando entrarono, alzò gli occhi dal lavoro.
“Signor Stratton, credo che conosciate il dottor Ashbourne”.
Stratton, colto alla sprovvista, restò un attimo senza parole. Nicholas Ashbourne era stato docente del Trinity anni prima, quando lui studiava lì, ma in seguito aveva lasciato l’insegnamento per dedicarsi, a quanto si diceva, a studi di natura non completamente ortodossa. Stratton lo ricordava come uno degli insegnanti più appassionati che avesse avuto. L’età gli aveva in qualche modo prosciugato il volto, facendo sembrare la fronte ancora più alta, ma i suoi occhi erano luminosi e vigili come sempre. Ashbourne si avvicinò con l’aiuto di un bastone di avorio intagliato.
“Stratton, è un piacere rivederti”.
“Anche per me, signore. Non mi aspettavo davvero di trovarvi qui”.
“Sarà una serata piena di sorprese, ragazzo mio. Preparati”. Si rivolse a Fieldhurst. “Volete iniziare?”.
Seguirono Fieldhurst all’estremità del laboratorio; qui aprì un’altra porta e insieme scesero una rampa di scale. “Solo pochi individui - membri della Royal Society o del Parlamento, o di entrambi - sono al corrente di quanto vedrete. Cinque anni fa fui contattato confidenzialmente dall’Académie des Sciences di Parigi. Chiedevano che gli scienziati inglesi confermassero certi loro risultati sperimentali”.
“Davvero?”.
“Potete immaginare la loro riluttanza. Tuttavia, ritenevano che la questione avesse maggior peso delle rivalità nazionali, e quando mi resi conto della situazione anch’io fui d’accordo con loro”.
I tre scesero fino a un sotterraneo. L’illuminazione era fornita da lampade a gas lungo i muri, che rivelavano le notevoli dimensioni dell’ambiente; file di pilastri di pietra sostenevano volte a crociera. Il sotterraneo conteneva file e file di robusti tavoli di legno, ognuno dei quali sosteneva un contenitore delle dimensioni di una vasca da bagno. I contenitori erano di zinco, ed erano dotati sui quattro lati di lastre di vetro che permettevano di vederne il contenuto: un fluido chiaro, leggermente paglierino.
Stratton guardò la vasca più vicina. C’era una qualche distorsione che galleggiava al centro, come se una parte del liquido si fosse coagulata in una concrezione di gelatina. Era difficile distinguerne le caratteristiche, tra le ombre screziate che apparivano sul fondo della vasca; così si spostò su un altro lato della vasca e si chinò per osservarla da vicino contro la fiamma di una lampada a gas. Allora il coagulo divenne più chiaro, rivelandosi per una figura umana spettrale, traslucida come gelatina, raggomitolata in posizione fetale.
“Incredibile”, mormorò Stratton.
“Noi lo chiamiamo megafeto”, spiegò Fieldhurst.
“È cresciuto da uno spermatozoo? Ci saranno voluti decenni”.
“No, e proprio questo è il fatto notevole. Due naturalisti di Parigi, Dubuisson e Gille, hanno sviluppato anni fa un metodo per indurre la crescita ipertrofica in un feto seminale. La rapida infusione di sostanze nutritive permette al feto di raggiungere questa dimensione in un paio di settimane”.
Spostando la testa avanti e indietro e cambiando punto di vista rispetto a come veniva rifratta la luce delle lampade, Stratton notò lievi differenze che indicavano i contorni degli organi interni del megafeto. “Questa creatura è… viva?”.
“Solo in un modo non senziente, come uno spermatozoo. Nessun processo artificiale può sostituire la gestazione; è il principio vitale dell’ovulo che anima il feto, ed è l’influenza materna che lo trasforma in una persona. Noi abbiamo prodotto soltanto una maturazione dimensionale”. Fieldhurst indicò il megafeto con un gesto. “L’influenza materna inoltre fornisce al feto la pigmentazione e tutte le specifiche caratteristiche fisiche. I nostri megafeti non hanno alcun tratto particolare, a parte il sesso. Ogni maschio ha il generico aspetto che vedete qui, e anche tutte le femmine sono identiche tra loro. Nell’ambito di ogni sesso è impossibile distinguere un individuo dall’altro per mezzo di un esame fisico, indipendentemente da quanto fossero diversi i padri originari; solo un’accurata registrazione ci permette di identificare uno specifico megafeto”.
Stratton si rimise in piedi. “Allora qual era lo scopo dell’esperimento, se non si trattava della creazione di un grembo artificiale?”.
“Verificare la nozione di fissità della specie”. Ricordando che Stratton non era uno zoologo, il conte diede ulteriori spiegazioni. “Se i molatori di lenti fossero in grado di costruire microscopi dal potere d’ingrandimento illimitato, i biologi potrebbero esaminare le generazioni future annidate negli spermatozoi di qualsiasi specie e vedere se il loro aspetto rimane fisso, o se cambia per dare origine a una nuova specie. Nel secondo caso, potrebbero anche stabilire se la transizione avviene gradualmente o all’improvviso.
“L’aberrazione cromatica, tuttavia, pone un limite superiore al potere di ingrandimento di qualsiasi strumento ottico. Dubuisson e Gille ebbero così l’idea di aumentare artificialmente le dimensioni dei feti stessi. Quando un feto raggiunge la dimensione adulta, è possibile allora estrarre da esso uno spermatozoo e nello stesso modo ingrandire un feto della generazione successiva”. Fieldhurst si avvicinò al tavolo seguente della fila e indicò la vasca appoggiata sopra. “La ripetizione del procedimento ci consente di esaminare le generazioni future di qualunque specie”.
Stratton diede uno sguardo al sotterraneo. Le file di vasche assumevano un nuovo significato. “Così hanno compresso gli intervalli tra le ‘nascite’ per ottenere una visione preliminare del nostro futuro genealogico”.
“Precisamente”.
“Audace! E quali sono stati i risultati?”.
“Provarono con molte specie animali, ma non trovarono mai alcun cambiamento di forma. Lavorando con feti seminali di esseri umani ottennero però un risultato singolare. Dopo non più di cinque generazioni, i feti maschili non presentavano più gli spermatozoi, e quelli femminili non avevano ovuli. La linea terminava con una generazione sterile”.
“Immagino che la cosa non fosse completamente imprevista”, disse Stratton, lanciando un’occhiata alla forma gelatinosa. “Ogni ripetizione probabilmente indebolisce ulteriormente qualche essenza negli organismi. È del tutto logico che a un certo punto la discendenza diventi così debole che il processo si interrompa”.
“Questa fu anche la conclusione iniziale di Dubuisson e Gille”, disse Fieldhurst. “E così cercarono di migliorare la loro tecnica. Tuttavia non riuscirono a trovare alcuna differenza, in dimensioni o vitalità, tra generazioni successive. Né c’era alcuna diminuzione nel numero di spermatozoi o di ovuli; la penultima generazione era pienamente fertile quanto la prima. La transizione dalla fertilità alla sterilità era improvvisa.
“Trovarono anche un’altra anomalia: per quanto alcuni spermatozoi producessero soltanto quattro generazioni, o meno, questa variazione nel numero delle discendenze si verificava solo se i donatori originari erano diversi, e mai tra spermatozoi dello stesso donatore. Provarono con spermatozoi presi da donatori padri e figli, e in questi casi gli spermatozoi del padre producevano esattamente una generazione in più rispetto a quelli del figlio. E, da quello che ho capito, alcuni donatori erano veramente anziani. Sebbene contenessero pochissimi spermatozoi, i megafeti originati dai padri davano però luogo a una generazione in più di quelli ottenuti dai loro figli nel fiore della giovinezza. Il potere di produrre più generazioni non aveva alcuna corrispondenza con la salute o il vigore del donatore; era invece correlato con la generazione a cui il donatore apparteneva”.
Fieldhurst fece una pausa e guardò cupamente Stratton. “Fu a quel punto che l’Académie mi contattò per vedere se la Royal Society potesse replicare questi esperimenti. Insieme, abbiamo ottenuto gli stessi risultati, utilizzando campioni raccolti da persone tanto diverse quanto i lapponi e gli ottentotti. Siamo d’accordo sul significato di queste scoperte: il genere umano ha il potenziale per esistere solo per un numero prefissato di generazioni, e noi siamo a cinque generazioni dall’ultima”.
Stratton si girò verso Ashbourne, aspettandosi quasi che questi confessasse che si trattava di una burla particolarmente elaborata, ma l’anziano nomenclatore appariva assolutamente serio. Stratton guardò di nuovo il megafeto e corrugò la fronte, assimilando quanto aveva sentito. “Se la vostra interpretazione è corretta, altre specie devono essere soggette a una limitazione simile. Ma per quel che mi risulta, l’estinzione di una specie non è mai stata rilevata”.
Fieldhurst annuì. “Questo è vero. Ma abbiamo la testimonianza dei reperti fossili, che suggeriscono che le specie rimangano immutate per un certo periodo di tempo, e poi all’improvviso vengano sostituite da forme nuove. I catastrofisti ritengono che l’estinzione delle specie sia stata causata da sconvolgimenti violenti. Appare invece adesso, sulla base di quello che abbiamo scoperto sulla preformazione, che l’estinzione sia semplicemente il risultato del raggiungimento da parte di una specie del termine della propria esistenza. Le estinzioni sono morti naturali piuttosto che accidentali, per così dire”. Indicò la porta da cui erano entrati. “Vogliamo tornare di sopra?”.
Seguendo i due uomini, Stratton chiese: “E per quanto riguarda le nuove specie? Se non hanno origine da specie esistenti, nascono forse spontaneamente?”.
“Su questo non c’è ancora alcuna certezza. Normalmente, solo gli animali più semplici nascono per generazione spontanea: lombrichi e altre creature vermiformi, di solito per effetto del calore. Gli eventi postulati dai catastrofisti - alluvioni, eruzioni vulcaniche, collisioni tra comete - comporterebbero il rilascio di grandi energie. Forse queste energie incidono sulla materia così profondamente da causare la generazione spontanea di intere specie di organismi, annidate in pochi progenitori. In tal caso i cataclismi non sono responsabili per le estinzioni di massa, ma al contrario hanno l’effetto di generare nuove specie”.
Tornati nel laboratorio, i due più anziani si sedettero. Troppo agitato per imitarli, Stratton rimase in piedi. “Se qualche specie animale è stata creata dallo stesso cataclisma che ha creato la specie umana, anch’essa dovrebbe avvicinarsi alla fine del proprio arco di vita. Avete trovato altre specie dalle quali dedurre una generazione conclusiva?”.
Fieldhurst scosse il capo. “Non ancora. Riteniamo che le altre specie abbiano date d’estinzione diverse, in funzione della complessità biologica dell’animale; gli esseri umani sono presumibilmente gli organismi più complessi, e forse, data questa complessità, uno spermatozoo può contenere un minor numero di generazioni annidate”.
“Per lo stesso motivo”, replicò Stratton, “può darsi che la complessità dell’organismo umano lo renda inadatto al processo di crescita accelerata artificialmente. Forse sono i limiti del procedimento, a essere stati scoperti, non quelli della specie”.
“Un’osservazione acuta, signor Stratton. Gli esperimenti stanno proseguendo con specie che somigliano più all’uomo, come scimpanzé e oranghi. Ma una risposta inequivocabile a questa domanda può richiedere anni, e se la nostra interpretazione attuale è esatta, non possiamo certo permetterci di rimanere in attesa della conferma. Dobbiamo immediatamente stabilire una linea d’azione”.
“Ma cinque generazioni potrebbero essere oltre un secolo…”. Stratton si trattenne, imbarazzato per essersi lasciato sfuggire qualcosa di così ovvio: non tutti diventavano genitori alla stessa età.
Fieldhurst si accorse della sua espressione. “Vi siete reso conto del perché non tutti i campioni di sperma di donatori della stessa età hanno prodotto lo stesso numero di generazioni: alcune discendenze si stanno avvicinando alla fine più velocemente di altre. Per una discendenza in cui gli uomini generano figli in età notevolmente avanzata, cinque generazioni potrebbero significare oltre due secoli di fertilità. Ma senza dubbio ci sono discendenze che sono già arrivate al termine”.
Stratton immaginò le conseguenze. “La perdita di fertilità diventerà sempre più evidente alla popolazione con il passare del tempo. Potrebbe sorgere il panico molto prima che sia raggiunta la fine”.
“Esattamente, e i tumulti potrebbero estinguere la nostra specie con la stessa efficacia dell’esaurimento delle generazioni. Ecco perché il fattore tempo è un fattore critico”.
“Che soluzione proponete?”.
“Lascerò che sia il dottor Ashbourne a spiegare”, rispose il conte.
Ashbourne si alzò e istintivamente assunse l’atteggiamento di un professore durante una lezione. “Ricordi come mai furono abbandonati tutti i tentativi di costruire automi di legno?”.
Stratton rimase momentaneamente disorientato. “Si concluse che la struttura naturale del legno implica una forma in conflitto con quello che si cerca di intagliare. Attualmente si sta cercando di usare la gomma, come materiale di fusione, ma nessun tentativo ha avuto successo”.
“Esatto. Ma se la forma naturale del legno fosse l’unico ostacolo, non dovrebbe essere possibile animare con un nome il cadavere di un animale? In questo caso la forma del corpo dovrebbe essere ideale”.
“Un concetto macabro. Non saprei proprio quante probabilità di successo potrebbe avere un esperimento del genere. È mai stato tentato?”.
“In realtà sì, e neanche questo è riuscito. Dunque queste due strade di ricerca completamente diverse si sono rivelate infruttuose. Questo significa che non c’è modo di animare la materia organica usando i nomi? Ho lasciato il Trinity per dedicarmi a questa domanda”.
“E cos’avete scoperto?”.
Ashbourne eluse la domanda con un cenno della mano. “Discutiamo prima di termodinamica. Ne hai seguito gli sviluppi più recenti? Allora saprai che la dispersione del calore riflette un incremento di disordine a livello termico. Al contrario, quando un automa condensa calore dall’ambiente per eseguire lavoro, è l’ordine a esserne incrementato. Questo conferma una mia vecchia convinzione, che sia cioè l’ordine lessicale a indurre l’ordine termodinamico. L’ordine lessicale di un amuleto rafforza l’ordine del corpo che lo indossa, fornendo così protezione contro i danni. L’ordine lessicale di un nome che lo anima aumenta l’ordine del corpo animato, fornendo così forza motrice a un automa.
“La domanda successiva era questa: come si rifletterebbe un incremento di ordine, sulla materia organica? Dato che i nomi non animano il tessuto morto, è evidente che la materia organica non reagisce a livello termico; ma forse può ricevere ordine a un altro livello. Rifletti: un manzo può essere ridotto a un barile di brodo gelatinoso. Il brodo è composto della stessa materia del manzo, ma dov’è che è contenuto un maggiore grado di ordine?”.
“Nel manzo, ovviamente”, disse Stratton, sconcertato.
“Ovviamente. Un organismo, in virtù della propria struttura fisica, incarna l’ordine; più è complesso l’organismo, maggiore è l’ordine. La mia ipotesi era che un incremento di ordine nella materia organica sarebbe stato messo in luce dal poterle imporre una forma. La maggior parte della materia vivente, tuttavia, ha già assunto la sua forma ideale. La domanda è: cos’è che ha vita ma non ha forma?”.
L’anziano nomenclatore non attese che Stratton rispondesse. “La risposta è: un ovulo non fecondato. L’ovulo contiene il principio vitale che anima la creatura alla quale infine dà origine, ma non ha forma di per sé. Di solito, l’ovulo incorpora la forma del feto compressa nello spermatozoo che lo feconda. Il passo successivo era ovvio”. A quel punto Ashbourne si fermò, rivolgendo a Stratton uno sguardo interrogativo.
Stratton non sapeva che dire. Ashbourne parve deluso, e continuò. “Il passo successivo era indurre artificialmente la crescita di un embrione da un ovulo, mediante l’applicazione di un nome”.
“Ma se l’ovulo non è fecondato”, obiettò Stratton, “non c’è struttura preesistente da ingrandire”.
“Precisamente”.
“Volete dire che la nuova struttura dovrebbe sorgere dal di fuori, senza essersi sviluppata da una precedente struttura omogenea? Impossibile”.
“Ciò nonostante, la conferma di questa ipotesi è stata per diversi anni il mio obiettivo. I miei primi esperimenti consistevano nell’applicare un nome a ovuli di rana non fecondati”.
“Come facevate a inserire il nome in un uovo di rana?”.
“Il nome in realtà non viene inserito, piuttosto viene impresso mediante un ago fabbricato a questo scopo”. Ashbourne aprì una vetrinetta posta sul tavolo, tra due microscopi. All’interno c’era una rastrelliera di legno piena di piccoli strumenti disposti a coppie. Ognuno terminava con un lungo ago di vetro; in alcune coppie gli aghi erano spessi quasi quanto ferri da calza, in altre sottili come aghi per iniezioni ipodermiche. Ne prese uno dalla coppia di dimensioni maggiori e lo porse a Stratton perché lo esaminasse. L’ago di vetro non era completamente trasparente, e sembrava contenere un nucleo screziato.
Ashbourne ricominciò a spiegare. “Anche se questo può sembrare uno strumento medico, si tratta in realtà del veicolo per un nome, proprio come la più tradizionale striscia di pergamena. Rispetto al prendere penna e inchiostro, ahimè, richiede uno sforzo costruttivo molto maggiore. Per creare un ago del genere, bisogna prima disporre nel modo opportuno sottili fili di vetro nero in un fascio di fili di vetro trasparente, perché il nome da essi formato sia leggibile quando li si osserva da un’estremità. I fili vengono quindi fusi in un’unica barra di vetro, e la barra viene stirata in un filo sempre più sottile. Un vetraio abile può riuscire a mantenere ogni dettaglio del nome, per quanto sottile possa diventare il filo. Alla fine si ottiene un ago che contiene il nome nella sua sezione trasversale”.
“Come avete fatto, per generare il nome che avete usato?”.
“Di questo potremo discutere più diffusamente in seguito. Nell’ambito di questa nostra discussione, l’unica informazione notevole è che ho incluso l’epiteto sessuale. Ti è familiare?”.
“Lo conosco”. Era uno dei pochi epiteti dimorfici, avendo varianti maschili e femminili.
“Avevo bisogno di due versioni del nome, ovviamente, per indurre la generazione di maschi e di femmine”. Ashbourne indicò le coppie di aghi disposte nella vetrina.
Stratton vide che l’ago poteva essere bloccato alla struttura di ottone, con la punta in prossimità del vetrino che stava sotto il microscopio; le ruote con le manopole avevano presumibilmente la funzione di portare l’ago a contatto di un ovulo con estrema precisione. Restituì lo strumento. “Avete detto che il nome non è inserito, ma impresso. Intendete dire che è sufficiente toccare l’ovulo di rana con questo ago? E che poi l’influsso del nome non cessa, quando lo si toglie?”.
“Precisamente. Il nome attiva nell’ovulo un processo irreversibile. Il contatto prolungato del nome non ha un effetto diverso”.
“E dall’ovulo è nato un girino?”.
“Non con i nomi provati inizialmente; l’unico risultato è stato la comparsa di involuzioni simmetriche nella superficie dell’ovulo. Ma includendo epiteti diversi, sono riuscito a indurre l’ovulo ad assumere forme diverse, alcune delle quali avevano in tutto e per tutto l’aspetto di rane embrionali. Alla fine ho trovato un nome che ha fatto sì che l’ovulo non solo assumesse la forma di un girino, ma anche che maturasse fino alla schiusa. Il girino nato in questo modo si è sviluppato in una rana indistinguibile da qualunque altro membro della specie”.
“Avete trovato il buon nome di quella specie di rana”, disse Stratton.
Ashbourne sorrise. “Poiché questo metodo riproduttivo non comporta rapporto sessuale, l’ho chiamato ‘partenogenesi’”.
Stratton guardò sia lui che Fieldhurst. “È chiaro quale sia la soluzione che proponete. La conclusione logica di questa ricerca è scoprire il buon nome della specie umana. Volete che l’umanità perpetui sé stessa attraverso la nomenclatura”.
“Vedo che trovate sconvolgente questa prospettiva”, disse Fieldhurst. “È quello che ci si poteva aspettare: il dottor Ashbourne e io all’inizio abbiamo avuto la stessa reazione, come tutti coloro che se la sono trovata di fronte. A nessuno piace l’idea che gli esseri umani vengano concepiti artificialmente. Ma siete in grado di proporre un’alternativa?”. Stratton rimase in silenzio, e Fieldhurst proseguì. “Tutti quelli che sono al corrente del lavoro del dottor Ashbourne, e di quello di Dubuisson e Gille, concordano: non esiste altra soluzione”.
Stratton si ripromise di mantenere l’atteggiamento spassionato dello scienziato. “Come immaginate, esattamente, che venga usato questo nome?”.
Rispose Ashbourne. “Quando un marito non sarà in grado di rendere incinta la moglie, la coppia si rivolgerà a un medico. Il medico preleverà un campione delle mestruazioni della donna, ne estrarrà un ovulo, vi imprimerà il nome, e quindi reintrodurrà l’ovulo nel grembo”.
“Un bambino nato utilizzando questo metodo non avrà nessun padre biologico”.
“È vero, ma il contributo biologico del padre in questo caso ha un’importanza minima. La madre penserà al marito come al padre del bambino, e così la sua immaginazione conferirà al feto una combinazione dell’aspetto e del carattere suoi e del marito. Questo non cambierà. E non è necessario che aggiunga che l’impressione del nome non sarà resa disponibile per le donne nubili”.
“Siete sicuri che ne risulteranno bambini ben formati?”, chiese Stratton. “Senza dubbio sapete a cosa mi riferisco”. Erano tutti al corrente del disastroso tentativo fatto nel secolo precedente di creare bambini migliorati, mesmerizzando le donne durante la gravidanza.
Ashbourne annuì. “Siamo fortunati, in quanto l’ovulo è molto selettivo in ciò che accetta. Per ogni specie di organismo c’è una serie molto piccola di buoni nomi; se l’ordine lessicale del nome impresso non corrisponde esattamente all’ordine strutturale di quella specie, il feto risultante non si anima. Ciò non toglie che sia comunque necessario che la madre mantenga la mente serena durante la gravidanza; l’impressione del nome non può proteggere dall’agitazione materna. Ma la selettività dell’ovulo ci garantisce che ogni feto sarà ben formato sotto ogni aspetto, tranne quello previsto”.
Stratton si allarmò. “E quale sarebbe?”.
“Non ci arrivi? L’unico difetto delle rane create dall’impressione del nome è nei maschi; i maschi sono sterili, perché i loro spermatozoi non hanno feti preformati al loro interno. Le rane femmine prodotte sono invece fertili: i loro ovuli possono essere fecondati sia nel modo convenzionale che replicando l’impressione del nome”.
Il sollievo di Stratton era notevole. “Dunque la variante maschile del nome era imperfetta. Probabilmente è necessario che tra le varianti maschile e femminile ci siano ulteriori differenziazioni, oltre al semplice epiteto sessuale”.
“Solo se si considera imperfetta la variante maschile”, disse Ashbourne. “E io non la considero tale. Rifletti: per quanto un maschio e una femmina entrambi fertili possano sembrare equivalenti, differiscono radicalmente nel grado di complessità che presentano. Una femmina con ovuli fertili rimane un singolo organismo, mentre un uomo con spermatozoi fertili è in realtà molti organismi: un padre e tutti i suoi figli potenziali. In questa luce, le due varianti del nome sono ben combinate nelle loro azioni: ognuna induce un singolo organismo, ma solo nel sesso femminile un organismo singolo può essere fertile”.
“Capisco cosa intendete dire”. Stratton si rese conto che avrebbe dovuto abituarsi a pensare alla nomenclatura in ambito organico. “Avete sviluppato buoni nomi per altre specie?”.
“Più di una ventina, di vari tipi; siamo andati avanti rapidamente. Abbiamo appena incominciato a lavorare al nome della specie umana, e si è rivelato assai più difficile di quelli precedenti”.
“Quanti nomenclatori sono impegnati in questa impresa?”.
“Pochi”, rispose Fieldhurst. “Abbiamo coinvolto alcuni membri della Royal Society, e l’Académie ha messo all’opera alcuni dei più eminenti designateurs di Francia. Comprenderete se a questo punto non faccio nomi, ma vi posso assicurare che ci stanno aiutando alcuni dei più insigni nomenclatori inglesi”.
“Perdonatemi se ve lo chiedo, ma perché mi avete contattato? Io non appartengo certo a quella categoria”.
“Non hai ancora all’attivo una lunga carriera”, disse Ashbourne, “ma la classe di nomi che hai sviluppato è unica. Gli automi sono sempre stati specializzati in forma e funzione, un po’ come gli animali: alcuni sono bravi ad arrampicarsi, altri a scavare, ma nessuno in entrambe le cose. Eppure i tuoi possono controllare mani umane, che sono strumenti straordinariamente versatili: cos’altro può maneggiare qualsiasi cosa, da una chiave inglese a un pianoforte? La destrezza della mano è la manifestazione fisica dell’ingegnosità della mente, e queste caratteristiche sono essenziali per il nome che cerchiamo”.
“Abbiamo seguito con discrezione le attuali ricerche di nomenclazione per trovare nomi che dimostrassero una notevole destrezza”, disse Fieldhurst. “Quando abbiamo saputo cosa avevate realizzato, vi abbiamo cercato immediatamente”.
“In realtà”, continuò Ashbourne, “il motivo per cui i tuoi nomi preoccupano i modellatori è lo stesso per cui interessano a noi: per la prima volta dotano gli automi di capacità simili a quelle umane. Quindi adesso ti chiediamo: vuoi unirti a noi?”.
Stratton rifletté. Quello era forse il compito più importante a cui un nomenclatore potesse dedicarsi, e in circostanze normali non ci avrebbe pensato due volte. Ma, prima di potersi imbarcare in quell’impresa con la coscienza tranquilla, c’era un’altra questione che doveva risolvere.
“Mi onorate col vostro invito, ma che ne sarà del mio lavoro con gli automi abili? Credo ancora fermamente che i motori economici possano migliorare la vita della classe lavoratrice”.
“È uno scopo apprezzabile”, disse Fieldhurst, “e io non vi chiedo di rinunciarvi. La prima cosa che vorremmo faceste, infatti, è proprio perfezionare gli epiteti di destrezza. Ma i vostri sforzi di riforma sociale saranno inutili se prima non garantiremo la sopravvivenza della nostra specie”.
“Ovviamente, ma non vorrei che il potenziale di riforma offerto dai nomi di destrezza venisse trascurato. Forse non ci sarà mai più una migliore opportunità di ridare dignità ai lavoratori comuni. Che vittoria sarebbe, se la continuazione della vita significasse ignorare questa occasione?”.
“Ben detto”, riconobbe il conte. “Lasciate che vi faccia una proposta. Perché possiate utilizzare al meglio il vostro tempo, la Royal Society fornirà il supporto necessario per lo sviluppo dei vostri automi abili, procurando investitori e così via. Confido che dividerete saggiamente il vostro tempo tra i due progetti. Il lavoro sulla nomenclatura biologica deve rimanere segreto, ovviamente. La proposta è di vostra soddisfazione?”.
“Lo è. Allora benissimo, signori: accetto”. Si strinsero la mano.
Erano trascorse alcune settimane dall’ultima volta che Stratton aveva parlato con Willoughby, a parte qualche gelido scambio di saluti nell’incontrarsi. Di fatto, Stratton aveva pochissimi rapporti con i modellatori della corporazione, e passava il proprio tempo in ufficio, lavorando sulle permutazioni di lettere e cercando di perfezionare i suoi epiteti di destrezza.
Entrò nella manifattura dalla galleria principale, dove i clienti andavano per esaminare i campioni della produzione. Quel giorno era piena di automi domestici, tutti dello stesso modello. Stratton vide che il commesso stava controllando che i nomi fossero al loro posto.
“Buongiorno, Pierce”, disse. “Che ci fanno qui tutti questi automi?”.
“È appena uscito un nome migliorato per il modello ‘Regent’”, spiegò il commesso. “Tutti vogliono avere l’ultima novità”.
“Avrai da fare, questo pomeriggio”. Le chiavi per aprire le fessure portanome degli automi erano custodite in una cassaforte, che richiedeva la presenza di due dirigenti per essere aperta. La Manifattura Coade era restia a tenere aperta la cassaforte per più di un breve periodo ogni pomeriggio.
“Sono sicuro di riuscire a finirli in tempo, questi”.
“Non sopporti l’idea di dire a una graziosa cameriera che il suo automa delle pulizie non sarà pronto per domani”.
Il commesso sorrise. “Potete darmi torto, signore?”.
“No, certo che no”, disse Stratton, ridacchiando. Si girò per andare verso gli uffici, dietro la galleria, e si trovò di fronte Willoughby.
“Forse dovreste tenere aperta la cassaforte”, disse il modellatore, “in modo da evitare di arrecare disagio alle cameriere. Visto che il vostro intento sembra essere la distruzione delle nostre istituzioni”.
“Buongiorno, mastro Willoughby”, disse Stratton, rigidamente. Cercò di andare oltre, ma l’altro gli sbarrava la strada.
“Sono stato informato che la Coade consentirà a modellatori non appartenenti alla corporazione di venire per lavorare con voi”.
“Sì, ma vi assicuro che si tratta solo di artigiani della massima reputazione”.
“Come se ne esistessero”, disse Willoughby sprezzante. “Sappiate che ho raccomandato alla nostra corporazione di indire uno sciopero di protesta contro la Coade”.
“Certamente non dite sul serio”. Erano trascorsi decenni dall’ultimo sciopero dei modellatori, che era finito in disordini.
“Sono serissimo. Se la proposta di sciopero venisse sottoposta a votazione da parte degli iscritti, sono certo che sarebbe approvata; altri modellatori con cui ho discusso del vostro lavoro concordano con me che esso rappresenta una minaccia. Ma la dirigenza della corporazione non vuole mettere la proposta ai voti”.
“Ah, così non sono d’accordo con la vostra valutazione”.
A quel punto Willoughby aggrottò le sopracciglia. “Sembra che la Royal Society sia intervenuta in vostro favore e abbia persuaso la corporazione ad astenersi, almeno per il momento. Avete trovato sostenitori potenti, signor Stratton”.
A disagio, Stratton replicò: “La Royal Society considera che la mia ricerca valga la pena di essere portata avanti”.
“Forse, ma non crediate che la questione finisca qui”.
“La vostra animosità è ingiustificata, vi dico”, insisté Stratton. “Quando avrete visto come i modellatori possono usare questi automi, vi renderete conto che non c’è alcuna minaccia per la vostra professione”.
Per tutta risposta, Willoughby si limitò a guardarlo irosamente e si allontanò.
La volta successiva che vide lord Fieldhurst, Stratton gli domandò del coinvolgimento della Royal Society. Erano nello studio di Fieldhurst, e il conte si stava versando un whisky.
“Ah, sì”, disse. “Per quanto la corporazione dei modellatori sia nell’insieme piuttosto temibile, è composta tuttavia di individui che singolarmente sono più sensibili alla persuasione”.
“Che genere di persuasione?”.
“La Royal Society è al corrente che alcuni membri della dirigenza hanno a che fare con un caso ancora irrisolto di pirateria nominale nei confronti del continente. Per evitare qualunque scandalo, hanno accettato di rimandare qualsiasi decisione sugli scioperi finché non avrete dato una dimostrazione del vostro sistema di fabbricazione”.
“Vi sono grato per l’aiuto, lord Fieldhurst”, disse Stratton, stupito. “Devo ammettere di non aver mai immaginato che la Royal Society adottasse queste tattiche”.
“Ovviamente, questi non sono argomenti adatti alla discussione, nelle riunioni generali”. Lord Fieldhurst sorrise paternamente. “Il progresso della scienza non sempre avanza in linea retta, signor Stratton, e a volte la Royal Society deve usare sia i canali ufficiali che quelli non ufficiali”.
“Comincio ad apprezzarlo”.
“Allo stesso modo, pur non dando inizio a uno sciopero palese, la corporazione dei modellatori potrebbe adottare anch’essa tattiche più indirette; ad esempio la distribuzione anonima di libelli che suscitino l’ostilità pubblica nei confronti dei vostri automi”. Prese un sorso di whisky. “Hmmm. Forse dovrei incaricare qualcuno di tenere d’occhio mastro Willoughby”.
A Stratton fu assegnato un alloggio nell’ala degli ospiti di Darrington Hall, come lo avevano gli altri nomenclatori che lavoravano sotto la direzione di lord Fieldhurst. Erano davvero alcuni degli esponenti più in vista della professione, compresi Holcombe, Milburn e Parker; per Stratton era un onore lavorare con loro, anche se poteva offrire un modesto contributo, impegnato com’era a imparare le tecniche di Ashbourne per la nomenclatura biologica.
I nomi per l’ambito organico utilizzavano molti degli stessi epiteti dei nomi per gli automi, ma Ashbourne aveva sviluppato un sistema completamente diverso di integrazione e fattorizzazione, che comportava molti nuovi metodi di permutazione. Per Stratton era quasi come tornare all’università e imparare di nuovo la nomenclatura dal principio. Era comunque evidente che queste tecniche permettevano di sviluppare rapidamente i nomi per le specie; sfruttando le analogie indicate dal sistema di classificazione di Linneo, si poteva agevolmente passare da una specie all’altra.
Stratton imparò molto anche sugli epiteti sessuali, usati tradizionalmente per dotare un automa di caratteristiche maschili o femminili. In precedenza ne conosceva solo uno di questo tipo, e rimase sorpreso nello scoprire che si trattava di nient’altro che della versione più semplice fra molte altre esistenti. Era un argomento di cui le associazioni di nomenclatori non discutevano, ma questi epiteti erano tra quelli studiati nel modo più approfondito; si sosteneva infatti che il loro uso più antico risalisse all’epoca biblica, quando i fratelli di Giuseppe crearono un golem femmina da poter condividere sessualmente senza violare la proibizione che vietava un simile comportamento con una donna. Lo sviluppo degli epiteti era continuato per secoli in segreto, soprattutto a Costantinopoli, e ora le versioni moderne di automi cortigiane erano offerte da bordelli specializzati, proprio lì a Londra. Intagliati nella steatite, questi automi venivano perfettamente levigati, riscaldati alla temperatura corporea e cosparsi di oli profumati, e avevano prezzi superati solo da quelli di incubi e succubi.
Era da un terreno così ignobile che la loro ricerca cresceva. I nomi che animavano le cortigiane incorporavano potenti epiteti per la sessualità umana, sia nella forma maschile che in quella femminile. Eliminando mediante la fattorizzazione la carnalità comune a entrambe le versioni, i nomenclatori avevano isolato gli epiteti generali per la virilità e la femminilità umane, assai più sofisticati di quelli usati per generare animali. Questi epiteti erano i nuclei attorno ai quali, per accrescimento, i nomenclatori formavano i nomi che cercavano.
Un poco alla volta, Stratton assimilò informazioni sufficienti per cominciare a partecipare ai test dei nomi umani potenziali. Lavorò in collaborazione con gli altri nomenclatori del gruppo, e insieme si divisero il vasto albero delle possibilità nominali, assegnandosi i rami da investigare, potando quelli rivelatisi infruttiferi, coltivando quelli che sembravano più produttivi.
I nomenclatori pagavano alcune donne - invariabilmente giovani domestiche in buona salute - per le loro mestruazioni, come fonte di ovuli umani su cui poi imprimevano i loro nomi sperimentali, e che infine scrutavano al microscopio alla ricerca di forme che assomigliassero a feti umani. Stratton si informò sulla possibilità di raccogliere ovuli dai megafeti femminili, ma Ashbourne gli ricordò che gli ovuli erano vitali solo quando erano prelevati da una donna viva. Era una massima fondamentale della biologia: le femmine erano la fonte del principio vitale che animava la discendenza, mentre i maschi le fornivano la forma basilare. A causa di questa ripartizione di compiti, nessuno dei due sessi poteva riprodursi da solo.
Ma queste restrizioni erano state annullate dalla scoperta di Ashbourne: la partecipazione maschile non era più necessaria, dato che la forma poteva essere indotta lessicalmente. Una volta trovato un nome in grado di generare feti umani, le donne si sarebbero potute riprodurre da sé stesse. Stratton si rese conto che questa scoperta sarebbe stata accolta favorevolmente dalle donne che manifestavano inversione sessuale, che provavano amore per persone dello stesso sesso invece che di quello opposto. Se queste donne avessero potuto disporre del nome, avrebbero potuto fondare un qualche tipo di comunità che si sarebbe riprodotta per partenogenesi. Ne sarebbe stata esaltata la maggiore sensibilità del gentil sesso, oppure avrebbero avuto il sopravvento patologie incontrollabili? Era impossibile dirlo.
Prima dell’arruolamento di Stratton, i nomenclatori avevano sviluppato alcuni nomi capaci di generare in un ovulo forme vagamente omuncolari. Utilizzando i metodi di Dubuisson e Gille, avevano ingrandito le forme fino a dimensioni che consentivano un esame dettagliato; le forme assomigliavano più ad automi che a esseri umani, con arti che terminavano in pinne con le dita unite. Inserendo i suoi epiteti di destrezza, Stratton riuscì a separare le dita e a raffinare l’aspetto complessivo delle forme. Nel frattempo Ashbourne continuava a sottolineare la necessità di un approccio non convenzionale.
“Considera gli aspetti termodinamici di quello che fa la maggior parte degli automi”, disse Ashbourne nel corso di una delle loro frequenti discussioni. “Gli automi minatori estraggono minerale grezzo, quelli mietitori raccolgono il grano, quelli taglialegna abbattono alberi; per quanto noi possiamo ritenerle utili, tuttavia, non si può dire che queste mansioni creino ordine. Anche se i nomi degli automi creano ordine al livello termico, trasformando calore in moto, nella maggioranza dei casi il lavoro risultante è impiegato per creare disordine al livello visibile”.
“È una prospettiva interessante”, disse Stratton, pensoso. “In questa luce, molti dei limiti usuali nelle prestazioni degli automi diventano comprensibili: il fatto che non siano in grado di impilare casse meglio di come le abbiano trovate; la loro incapacità di separare frammenti di minerale in base alla loro composizione. Voi ritenete che le classi conosciute di nomi industriali non siano abbastanza potenti in termini termodinamici”.
“Precisamente!”. Ashbourne mostrò l’eccitazione di un insegnante che trova un allievo inaspettatamente dotato. “Questa è un’altra caratteristica che distingue la tua classe di nomi di abilità. Rendendo gli automi capaci di svolgere lavori qualificati, i tuoi nomi non solo creano ordine al livello termico, ma lo usano per creare ordine anche al livello visibile”.
“Vedo un’analogia con le scoperte di Milburn”, disse Stratton. Milburn aveva sviluppato gli automi domestici in grado di rimettere gli oggetti al proprio posto. “Anche il suo lavoro comporta la creazione di ordine al livello visibile”.
“Certo che la comporta, e questa analogia suggerisce un’ipotesi”. Ashbourne si piegò in avanti. “Supponiamo di riuscire a estrarre con la fattorizzazione un epiteto in comune tra i nomi sviluppati da te e da Milburn: un epiteto che esprima la creazione dei due livelli di ordine. Supponiamo inoltre di scoprire un buon nome per la specie umana, e di riuscire a includere l’epiteto in questo nome. Cosa pensi che si genererebbe, imprimendo il nome? E se dici ‘gemelli’ ti do un colpo in testa”.
Stratton rise. “Presumo di capire meglio di così quello che dite. State suggerendo che se un epiteto fosse in grado di indurre due livelli di ordine termodinamico nell’ambito inorganico, potrebbe creare due generazioni in quello organico. Un nome così potrebbe creare maschi i cui spermatozoi conterrebbero feti preformati. Questi maschi sarebbero fertili, anche se qualsiasi figlio nato da loro sarebbe di nuovo sterile”.
Il suo istruttore batté le mani. “Precisamente: ordine che genera ordine! Una congettura interessante, non trovi? Dimezzerebbe il numero di interventi medici richiesti per il mantenimento della nostra specie”.
“E per indurre la formazione di più di due generazioni di feti? Che tipo di capacità dovrebbe possedere un automa, perché il suo nome contenga un simile epiteto?”.
“Temo che la scienza della termodinamica non sia abbastanza progredita per poter rispondere a questa domanda. Cosa costituirebbe un livello di ordine ancora più alto nell’ambito inorganico? Forse automi che lavorassero in cooperazione? Non lo sappiamo ancora, ma forse col tempo lo sapremo”.
Stratton espresse un interrogativo che si era posto qualche tempo prima. “Dottor Ashbourne, quando sono stato introdotto in questo gruppo, lord Fieldhurst ha parlato della possibilità che le specie siano nate in seguito a eventi catastrofici. È possibile che intere specie siano state create mediante l’uso della nomenclatura?”.
“Ah, adesso ci addentriamo nel regno della teologia. Una nuova specie richiede progenitori che contengano un gran numero di discendenti annidati nei loro organi riproduttivi; queste forme rappresentano il più alto grado di ordine immaginabile. Un processo puramente fisico può creare una quantità così grande di ordine? Nessun naturalista è stato in grado di suggerire un procedimento attraverso cui questo potrebbe verificarsi. D’altra parte, anche se sappiamo che un processo lessicale può creare ordine, la creazione di una intera nuova specie richiederebbe un nome di incalcolabile potere. Una tale padronanza della nomenclatura potrebbe ben richiedere facoltà divine; forse fa parte addirittura della definizione di Dio.
“Questa, Stratton, è una domanda alla quale forse non avremo mai risposta, ma non possiamo permettere che ciò influisca sulle nostre azioni attuali. Ci sia stato o meno un nome all’origine della nostra specie, io credo comunque che un nome sia la migliore possibilità perché essa continui”.
“Ne sono convinto”, annuì Stratton. Dopo una pausa, soggiunse: “Devo confessare che per la maggior parte del tempo, quando sono al lavoro, mi occupo soltanto dei dettagli della permutazione e della combinazione, e perdo la visione dell’assoluta vastità della nostra impresa. È veramente inebriante pensare a cosa avremo compiuto se avrà successo”.
“Io quasi non penso ad altro”, replicò Ashbourne.
Seduto alla scrivania, nella manifattura, Stratton socchiuse gli occhi per cercare di decifrare l’opuscolo che gli avevano dato in strada. Il testo era stampato grossolanamente, le lettere erano troppo inchiostrate:
“Gli Uomini saranno Padroni dei NOMI, o i Nomi saranno Padroni degli UOMINI? Per troppo tempo i Capitalisti hanno accumulato Nomi nei loro forzieri, protetti da Brevetti e Serrature e Chiavi, ammassando fortune grazie al mero possesso di LETTERE, mentre l’Uomo Comune deve affaticarsi per ogni scellino. Strizzeranno l’ALFABETO finché non avranno estratto da esso anche l’ultimo penny, e solo allora lo getteranno a noi perché lo usiamo. Per quanto tempo ancora Noi permetteremo che ciò continui?”.
Stratton diede una scorsa a tutte le pagine, ma non trovò niente di nuovo nell’opuscolo. Negli ultimi due mesi ne aveva letti molti, e aveva trovato soltanto gli usuali proclami anarchici; non c’era ancora alcuna prova della teoria di lord Fieldhurst, che i modellatori se ne sarebbero serviti per attaccare il proprio lavoro. La sua dimostrazione degli automi abili era fissata per la settimana seguente, e ormai Willoughby si era lasciato sfuggire questa opportunità di suscitare l’ostilità dell’opinione pubblica. A Stratton, in realtà, venne invece in mente che avrebbe potuto lui stesso distribuire opuscoli per ottenerne il sostegno. Avrebbe potuto spiegare il suo obiettivo di portare i vantaggi degli automi a tutti, e la sua intenzione di mantenere un controllo rigoroso sui brevetti dei propri nomi, concedendo licenze solo a produttori coscienziosi. Avrebbe potuto persino darsi uno slogan: “Autonomia attraverso gli Automi”, forse?
Bussarono alla porta dell’ufficio. Stratton gettò l’opuscolo nel cestino. “Sì?”.
Entrò un uomo vestito di scuro, con una lunga barba. “Signor Stratton?”, chiese. “Permettetemi di presentarmi. Il mio nome è Benjamin Roth. Sono un cabalista”.
Stratton rimase un attimo senza parole. Solitamente, questi mistici si sentivano offesi dalla visione moderna della nomenclatura come scienza, considerandola la secolarizzazione di un rituale sacro. Non si sarebbe mai aspettato che uno di loro entrasse in una fabbrica di automi. “Piacere di conoscervi. Come posso esservi utile?”.
“Ho sentito dire che avete raggiunto grandi risultati nella permutazione delle lettere”.
“Ecco… vi ringrazio. Non immaginavo che potessero interessare una persona come voi”.
Roth sorrise imbarazzato. “Il mio interesse non sta nelle applicazioni pratiche. Il fine dei cabalisti è conoscere meglio Dio. Il mezzo migliore per far questo è lo studio dell’arte con cui Egli crea. Noi meditiamo su diversi nomi per entrare in uno stato estatico di consapevolezza; più potente è il nome, più ci avviciniamo al Divino”.
“Capisco”. Stratton si chiese quale sarebbe stata la reazione del cabalista se avesse saputo della creazione che veniva tentata nel progetto di nomenclatura biologica. “Prego, continuate”.
“I vostri epiteti di destrezza consentono a un golem di modellarne un altro, e quindi di riprodurre sé stesso. Un nome capace di creare un essere che è a sua volta in grado di creare ci porterebbe più vicini a Dio di quanto siamo mai stati finora”.
“Temo che vi sbagliate riguardo al mio lavoro, anche se non siete il primo a cadere in questo equivoco. L’abilità nel maneggiare stampi non rende un automa capace di riprodursi. Sarebbero richieste molte altre competenze”.
Il cabalista annuì. “Ne sono perfettamente consapevole. Io stesso, nel corso dei miei studi, ho sviluppato un epiteto che denomina certi altri attributi necessari, come lo scrivere”.
Stratton si sporse in avanti, con improvviso interesse. Dopo avere dato forma a un corpo, il passo successivo sarebbe stato animarlo con un nome. “Il vostro epiteto dota un automa della capacità di scrivere?”. Il suo automa riusciva ad afferrare una matita abbastanza facilmente, ma non era in grado di tracciare nemmeno il segno più semplice. “Come mai i vostri automi possiedono la destrezza necessaria per scrivere, ma non quella per maneggiare gli stampi?”.
Roth scosse il capo con modestia. “Il mio epiteto non conferisce in generale la capacità di scrivere, né la destrezza manuale. Consente a un golem di scrivere esclusivamente il nome che lo anima, e nient’altro”.
“Ah, capisco”. Dunque non forniva l’attitudine a imparare una categoria di competenze; assegnava una singola capacità innata. Stratton provò a immaginare le contorsioni nomenclatorie necessarie per far sì che un automa scrivesse istintivamente una particolare serie di lettere. “Molto interessante, ma immagino che non abbia grandi applicazioni, vero?”.
Roth esibì un sorriso addolorato; Stratton si rese conto di aver fatto un passo falso, e il cabalista rispose bonariamente. “Questo è un modo di vedere la cosa”, ammise Roth, “ma noi abbiamo una prospettiva diversa. Per noi il valore di questo epiteto, come di qualunque altro, non sta nell’utilità fornita a un golem, ma nello stato estatico che ci permette di raggiungere”.
“Ovviamente, ovviamente. E il vostro interesse per i miei epiteti di destrezza è dello stesso tipo?”.
“Sì. Spero che vogliate condividere i vostri epiteti con noi”.
Stratton non aveva mai sentito che un cabalista avesse fatto in precedenza una richiesta del genere, e chiaramente Roth non era felice di essere il primo. Fece una pausa per riflettere. “Un cabalista deve raggiungere un certo grado di iniziazione, per poter meditare sui nomi più potenti?”.
“Sì, assolutamente”.
“Quindi limitate la consultabilità dei nomi”.
“Oh, no, scusatemi per avervi frainteso. Lo stato estatico offerto da un nome è raggiungibile solo dopo che si siano padroneggiate le necessarie tecniche di meditazione, e sono queste tecniche a essere strettamente custodite. Senza l’addestramento appropriato, il tentativo di usarle potrebbe causare la pazzia. Ma i nomi stessi, anche quelli più potenti, non hanno alcun valore estatico per un novizio; possono animare la creta, nient’altro”.
“Nient’altro”, concordò Stratton, pensando a quanto fossero diversi i loro punti di vista. “In tal caso, temo di non potervi concedere l’uso dei miei nomi”.
Roth annuì con aria tetra, come se si fosse aspettato questa risposta. “Volete che vi si paghino i diritti d’autore”.
Adesso era Stratton a dover sorvolare sul passo falso del cabalista. “Il denaro non è il mio obiettivo. Tuttavia ho intenti precisi per quel che riguarda i miei automi abili, intenti che mi rendono necessario mantenere il controllo del brevetto. Non posso mettere a rischio i miei progetti divulgando i nomi indiscriminatamente”. Certo, li aveva condivisi con i nomenclatori che lavoravano sotto lord Fieldhurst, ma si trattava di gentiluomini vincolati a un segreto ben più grande. Dei mistici, Stratton si fidava meno.
“Posso assicurarvi che useremmo il vostro nome per nient’altro che le pratiche estatiche”.
“Scusatemi. Credo che siate sincero, ma il rischio è troppo grande. Il massimo che posso fare è ricordarvi che il brevetto ha una durata limitata; una volta scaduto, sarete libero di usare il nome come vorrete”.
“Ma ci vorranno anni!”.
“Comprenderete certo che ci sono anche altri, i cui interessi vanno tenuti in considerazione”.
“Quello che capisco è che le considerazioni commerciali sono di ostacolo al risveglio spirituale. L’errore è mio, che speravo qualcosa di diverso”.
“Non siete affatto giusto”, protestò Stratton.
“Giusto?”. Roth faceva uno sforzo visibile per trattenere la collera. “Voi ‘nomenclatori’ rubate tecniche intese a onorare Dio e le usate per arricchire voi stessi. L’intera vostra industria prostituisce le tecniche dello Yezirah. Non siete voi a poter parlare di giustizia”.
“Ma scusate…”.
“Grazie per aver parlato con me”. E con questo Roth se ne andò.
Stratton sospirò.
Scrutando nell’oculare del microscopio, Stratton girò la ruota del dispositivo di regolazione finché l’ago non toccò la superficie dell’ovulo. Ci fu un’immediata contrazione, come il ritrarsi dell’arto di un mollusco quando veniva punzecchiato, che trasformò la sfera in un minuscolo feto. Stratton ritirò l’ago dal vetrino, lo sbloccò dall’intelaiatura e ne inserì uno nuovo. Quindi trasferì il vetrino nel tepore dell’incubatrice e posizionò sotto il microscopio un altro vetrino, con un ovulo umano intatto. Ancora una volta si chinò sul microscopio per ripetere il processo di impressione.
I nomenclatori avevano recentemente sviluppato un nome in grado di indurre una forma indistinguibile da un feto umano. Le forme tuttavia non si animavano: rimanevano immobili e inerti agli stimoli. L’idea condivisa era che il nome non descrivesse con accuratezza le caratteristiche non fisiche di un essere umano. Di conseguenza, Stratton e i suoi colleghi avevano diligentemente compilato descrizioni su descrizioni della specificità umana, cercando di distillarne un insieme di epiteti che fossero sia abbastanza espressivi da denotare queste qualità, sia abbastanza concisi da poter essere integrati con gli epiteti fisici in un nome di settantadue lettere.
Stratton trasferì l’ultimo vetrino nell’incubatrice e riportò le annotazioni relative sul registro giornaliero. Per il momento aveva esaurito i nomi ridotti in forma di ago, e ci sarebbe voluto un giorno prima che i nuovi feti fossero abbastanza maturi per il test di vitalità. Decise di passare il resto della serata nel salotto al piano di sopra.
Entrando nella stanza rivestita di pannelli di noce, trovò Fieldhurst e Ashbourne seduti nelle poltrone di pelle, che fumavano il sigaro e bevevano brandy. “Ah, Stratton”, disse Ashbourne. “Unisciti a noi”.
“Credo che lo farò”, annuì Stratton, andando verso il mobile dei liquori. Si versò del brandy da una caraffa di cristallo, e si sedette con i due.
“Appena salito dal laboratorio, Stratton?”, chiese Fieldhurst.
Stratton annuì. “Pochi minuti fa ho fatto alcune impressioni con la mia serie di nomi più recente. Sento che le mie ultime permutazioni portano nella direzione giusta”.
“Non siete il solo a essere ottimista. Il dottor Ashbourne e io stavamo proprio discutendo di quanto siano migliorate le prospettive da quando è iniziata questa impresa. Adesso sembra che avremo un buon nome con un certo anticipo rispetto all’ultima generazione”. Fieldhurst aspirò una boccata dal sigaro e si allungò sulla poltrona fino a poggiare la testa sul coprischienale. “Questo disastro alla fine potrebbe rivelarsi una benedizione”.
“Una benedizione? E come?”.
“Ebbene, quando avremo il controllo della riproduzione umana, avremo un mezzo per prevenire che i poveri abbiano quelle famiglie così numerose che adesso si ritengono in diritto di avere”.
Stratton era sbigottito, ma cercò di rimanere impassibile. “Non avevo considerato questo aspetto”, disse con cautela.
Anche Ashbourne pareva sorpreso. “Non sapevo che aveste in mente questo tipo di sviluppi”.
“Ritenevo prematuro parlarne prima”, disse Fieldhurst. “Vendere la pelle dell’orso prima di averlo ucciso, come si suol dire”.
“Naturalmente”.
“Dovete convenire che il potenziale è enorme. Esercitando un certo discernimento nello scegliere chi potrà o no avere figli, il nostro governo potrà preservare il patrimonio razziale della nazione”.
“Il nostro patrimonio razziale sta subendo qualche minaccia?”, chiese Stratton.
“Forse non avete notato che le classi inferiori si stanno riproducendo a un ritmo superiore a quello della nobiltà e del ceto possidente. Per quanto non siano privi di qualità, i cittadini comuni difettano in finezza e intelletto. Queste forme di impoverimento mentale non fanno che riprodurre sé stesse: una donna di bassa estrazione non può che dar vita a un figlio destinato a vivere nello stesso modo. Data la grande fecondità delle classi inferiori, la nostra nazione alla fine sarebbe sommersa da gente rozza e ottusa”.
“Quindi l’impressione del nome sarebbe inaccessibile alle classi inferiori?”.
“Non completamente, e certo non all’inizio: quando si saprà la verità sul calo della fertilità, negare alle classi inferiori l’accesso all’impressione del nome sarebbe un invito alla sedizione. Ed è ovvio che le classi inferiori hanno un ruolo da svolgere nella nostra società, purché la loro proliferazione venga tenuta sotto controllo. Prevedo che questa politica entrerà in vigore solo dopo che saranno passati alcuni anni, durante i quali la gente si abituerà all’impressione nominale come metodo di fertilizzazione. A quel punto, forse in parallelo con un censimento, potremo imporre un limite al numero di bambini che sarà permesso avere a una data coppia. Il governo in seguito regolerebbe la crescita e la composizione della popolazione”.
“È questo l’uso più appropriato di un nome così potente?”, chiese Ashbourne. “Il nostro obiettivo era la sopravvivenza della specie, non l’attuazione di politiche di parte”.
“Al contrario, è una questione puramente scientifica. Proprio come è nostro dovere assicurare che la specie sopravviva, è anche nostro dovere garantirne la salute mantenendo un giusto equilibrio nella sua popolazione. La politica non c’entra; se la situazione fosse rovesciata e ci fosse scarsità di lavoratori, sarebbe necessaria la politica opposta”.
Stratton azzardò un suggerimento. “Mi chiedo se il miglioramento delle condizioni dei poveri potrebbe alla fine portare a migliorarne anche i figli”.
“State pensando ai cambiamenti prodotti dai vostri automi economici, non è così?”, domandò Fieldhurst con un sorriso, e Stratton annuì. “Le riforme che avete in mente e le mie possono rinforzarsi l’un l’altra. Diminuire il numero degli appartenenti alle classi inferiori potrebbe rendere più facile migliorarne le condizioni di vita. Non aspettatevi tuttavia che un semplice aumento del benessere economico possa migliorare la mentalità delle classi inferiori”.
“Ma perché no?”.
“Dimenticate che la cultura ha la caratteristica di autoperpetuarsi”, disse Fieldhurst. “Abbiamo visto che tutti i megafeti sono identici, eppure nessuno può negare le differenze tra popolazioni diverse, sia nell’aspetto fisico che nel temperamento. Questo può solo essere il risultato dell’influsso materno: il grembo della madre è un vaso in cui si incarna l’ambiente sociale. Una donna che ha vissuto tutta la vita tra i prussiani, ad esempio, mette naturalmente al mondo un figlio con tratti prussiani; in questo modo il carattere nazionale di quella popolazione si è mantenuto nei secoli, qualunque ne fossero le vicende. Non sarebbe realistico pensare che per i poveri la cosa sia diversa”.
“Come zoologo, siete senza dubbio più accorto di noi, in queste questioni”, disse Ashbourne, zittendo Stratton con un’occhiata. “Ci rimettiamo al vostro giudizio”.
Per il resto della serata, la conversazione verté su altri argomenti, e Stratton fece del suo meglio per dissimulare il proprio sconforto e mantenere una facciata di amabilità. Infine, dopo che Fieldhurst si fu ritirato, Stratton e Ashbourne scesero nel laboratorio per discutere.
“Che genere di uomo abbiamo accettato di aiutare?”, esclamò Stratton appena la porta fu chiusa. “Uno che vorrebbe allevare le persone come fossero bestiame”.
“Forse non dovremmo esserne così colpiti”, disse Ashbourne con un sospiro. Si sedette su uno degli sgabelli del laboratorio. “Lo scopo del nostro gruppo è stato di replicare per gli esseri umani un procedimento destinato solo agli animali”.
“Ma non a scapito della libertà individuale! Non posso essere complice di questo”.
“Non essere precipitoso. Cosa si otterrebbe, se tu lasci il gruppo? Nella misura in cui il tuo lavoro contribuisce alla nostra impresa, il tuo ritiro servirebbe solo a mettere a rischio il futuro del genere umano. D’altra parte, se il gruppo consegue il suo obiettivo senza il tuo aiuto, gli intenti di lord Fieldhurst saranno attuati comunque”.
Stratton cercò di ricomporsi. Ashbourne aveva ragione; se ne rendeva conto. Dopo qualche istante, disse: “Allora che potremmo fare? Ci sono altri che potremmo contattare, membri del Parlamento che potrebbero opporsi alla politica che lord Fieldhurst propone?”.
“Mi aspetto che la maggior parte della nobiltà e dei possidenti condivida l’opinione di lord Fieldhurst sulla questione”. Ashbourne appoggiò la fronte alle punte delle dita di una mano, e all’improvviso apparve molto vecchio. “Avrei dovuto prevederlo. Il mio errore è stato considerare l’umanità come una sola specie. Avendo visto l’Inghilterra e la Francia lavorare per un obiettivo comune, ho dimenticato che le nazioni non sono le uniche fazioni che si oppongono l’una all’altra”.
“E se di nascosto facessimo circolare il nome tra le classi lavoratrici? Potrebbero fabbricare i loro aghi e imprimere il nome per conto loro, in segreto”.
“Potrebbero, ma l’impressione del nome è un procedimento delicato, che è meglio eseguire in un laboratorio. Dubito che si possa compiere su vasta scala senza attirare l’attenzione del governo, che alla fine ne prenderebbe il controllo”.
“Ma c’è un’alternativa?”.
Ci fu un lungo momento di silenzio, mentre riflettevano. Poi Ashbourne disse: “Ricordi la nostra ipotesi a proposito di un nome che potesse indurre due generazioni di feti?”.
“Certo”.
“Supponi che sviluppiamo questo nome, ma senza rivelarne tutte le caratteristiche, al momento di presentarlo a lord Fieldhurst”.
“Questa è un’idea davvero astuta”, disse Stratton, sorpreso. “Tutti i bambini nati da questo nome sarebbero fertili, e così sarebbero in grado di riprodursi eludendo le restrizioni del governo”.
Ashbourne annuì. “Nel periodo prima dell’entrata in vigore delle misure per il controllo della popolazione, il nome potrebbe essere ampiamente diffuso”.
“Ma per la generazione successiva? La sterilità si ripresenterebbe e le classi lavoratrici dipenderebbero di nuovo dal governo per riprodursi”.
“È vero”, disse Ashbourne, “sarebbe una vittoria di scarsa durata. Forse l’unica soluzione permanente sarebbe un Parlamento più liberale, ma suggerire come ci si possa arrivare è qualcosa al di là delle mie competenze”.
Di nuovo, Stratton pensò ai cambiamenti che potevano venire dai suoi automi economici; se la condizione delle classi lavoratrici fosse migliorata come sperava, questo avrebbe potuto dimostrare alla nobiltà che la povertà non era innata. Ma anche se si fosse verificata la serie di eventi più favorevole, ci sarebbero voluti anni per influenzare il Parlamento. “E se potessimo indurre più di due generazioni, con l’impressione iniziale del nome? Un periodo più lungo prima del riapparire della sterilità aumenterebbe la probabilità dell’affermarsi di politiche sociali più liberali”.
“Ti stai facendo trascinare dalla fantasia”, replicò Ashbourne. “La difficoltà tecnica di indurre generazioni molteplici è tale che scommetterei più volentieri sull’eventualità che ci spuntino le ali e che prendiamo il volo. Sarebbe già abbastanza ambizioso cercare di indurre due generazioni”.
I due discussero strategie fino a tarda notte. Se avessero voluto nascondere il vero nome di qualsiasi nome presentato a lord Fieldhurst, avrebbero dovuto falsificare una lunga serie di risultati di ricerca. Anche senza l’ulteriore peso della segretezza, sarebbero stati impegnati in una corsa impari, dovendo cercare un nome notevolmente più sofisticato mentre gli altri nomenclatori ne cercavano uno che al confronto sarebbe stato relativamente semplice. Per avere più probabilità a favore, Ashbourne e Stratton avrebbero dovuto guadagnare qualcun altro alla loro causa; forse, con questo aiuto, sarebbe persino stato possibile rallentare ad arte la ricerca fatta dagli altri.
“Chi pensi abbia le nostre opinioni politiche, nel gruppo?”, chiese Ashbourne.
“Confido in Milburn. Non sono così sicuro di nessuno degli altri”.
“Non correre rischi. Nel contattare eventuali complici dobbiamo avere ancora più cautela di quanta ne ha avuta lord Fieldhurst quando ha creato inizialmente questo gruppo”.
“Sono d’accordo”, disse Stratton. Poi scosse il capo, incredulo. “Stiamo formando un’organizzazione segreta annidata in una organizzazione segreta. Se solo fosse così facile indurre i feti”.
Era la sera del giorno seguente, il sole stava tramontando, e Stratton attraversava il ponte di Westminster mentre gli ultimi venditori ambulanti se ne andavano spingendo carretti di frutta. Aveva appena cenato nel suo club preferito, e stava tornando alla Manifattura Coade. La serata precedente a Darrington Hall lo aveva turbato ed era rientrato a Londra la mattina presto, per ridurre al minimo i rapporti con lord Fieldhurst finché non fosse stato certo che il proprio volto non avrebbe lasciato trasparire i suoi veri sentimenti.
Ripensò alla conversazione in cui lui e Ashbourne avevano considerato per la prima volta l’ipotesi di fattorizzare un epiteto in grado di creare due livelli di ordine. Qualche tempo prima si era trovato a cercare un epiteto del genere, ma si trattava di tentativi occasionali, dato che l’obiettivo non era prioritario, e non avevano prodotto risultati. Ora il bersaglio si era spostato più in alto: due generazioni sembravano il minimo accettabile, e ognuna in più sarebbe stata di incalcolabile valore.
Rifletté di nuovo sul comportamento termodinamico indotto dai suoi nomi destri: l’ordine al livello termico animava gli automi, permettendo loro di creare ordine al livello visibile. Ordine che generava ordine. Ashbourne aveva suggerito che il livello successivo di ordine poteva essere dato da automi che lavorassero insieme in modo coordinato. Era possibile? Per lavorare efficacemente insieme avrebbero dovuto comunicare tra loro, ma gli automi erano intrinsecamente muti. Con quale altro mezzo avrebbero potuto sviluppare comportamenti complessi?
Si accorse all’improvviso di essere arrivato alla Manifattura Coade. Era già buio, ma conosceva bene la strada. Aprì la porta principale dell’edificio, attraversò la galleria e oltrepassò gli uffici amministrativi.
Mentre raggiungeva il corridoio su cui affacciavano gli uffici dei nomenclatori, vide che dal vetro smerigliato della propria porta proveniva luce. Aveva dimenticato il gas acceso? Aprì la porta per entrare, e rimase sbigottito.
Un uomo giaceva a faccia in giù sul pavimento davanti alla scrivania, con le mani legate dietro la schiena. Appena si avvicinò, Stratton vide che si trattava di Benjamin Roth, il cabalista, e che era morto. Aveva diverse dita spezzate; era stato torturato prima di essere ucciso.
Pallido e tremante, Stratton si rialzò in piedi e vide che l’ufficio era stato messo a soqquadro. I ripiani delle librerie erano vuoti; i libri erano sparpagliati sul pavimento di quercia. La scrivania era stata sgombrata; i cassetti con le maniglie d’ottone erano accatastati accanto a essa, svuotati e capovolti. Una scia di carte sciorinate per terra conduceva alla porta aperta dello studio; stordito, Stratton si diresse lì, per vedere cos’altro fosse successo.
Il suo automa abile era stato distrutto; la metà inferiore era sul pavimento, il resto era sparso in frammenti di gesso e polvere. I modelli di creta delle mani, sul tavolo da lavoro, erano stati schiacciati, e i suoi disegni erano stati strappati dalle pareti. Le vasche per mescolare il gesso traboccavano di carte prese dall’ufficio. Stratton si avvicinò, e vide che erano impregnate di petrolio.
Udì un rumore dietro di sé e si voltò verso l’ufficio. La porta sul corridoio si chiuse e rivelò dietro di sé un uomo dalle spalle ampie, che si fece avanti; era là da quando Stratton era entrato. “Gentile, a essere venuto”, disse. Scrutò Stratton con lo sguardo predatore di un rapace, di un assassino.
Stratton si diresse di corsa alla porta posteriore dello studio e per il corridoio sul retro. Sentì che l’uomo lo inseguiva.
Fuggì per l’edificio buio, attraversando laboratori pieni di carbone e barre di ferro, crogioli e stampi, illuminati dal chiaro di luna che penetrava dai lucernari in alto; era entrato nel reparto metallurgia della fabbrica. Nel locale seguente si fermò a riprendere fiato, e si rese conto di quanto pesantemente fossero rimbombati i suoi passi; muovendosi silenziosamente, invece di correre, avrebbe avuto maggiori probabilità di scappare. Sentì in lontananza che i passi del suo inseguitore si arrestavano; anche l’assassino aveva optato per il silenzio.
Stratton si guardò attorno in cerca di un nascondiglio sicuro. Tutt’intorno a lui c’erano automi di ghisa a vari stadi di completamento; si trovava nella sala di rifinitura, dove si rimuovevano i rilievi lasciati dalla fusione e si levigavano le superfici. Non c’era dove nascondersi, e stava per proseguire quando notò quello che sembrava un fascio di fucili montati su gambe. Guardò meglio, e riconobbe un automa militare.
Quegli automi venivano costruiti per il Ministero della Guerra: affusti che attivavano i propri cannoni, e supporti, come quello, che facevano ruotare batterie di fucili a tiro rapido. Brutte cose, che però in Crimea si erano rivelate di valore incalcolabile; all’inventore era stato concesso il titolo di Pari. Stratton non conosceva nessun nome per animare l’arma - erano coperti da segreto militare - ma soltanto il sostegno dei fucili era un automa; il meccanismo di sparo era strettamente meccanico. Se fosse riuscito a puntare i fucili nella direzione giusta, forse sarebbe stato in grado di far fuoco manualmente.
Si maledisse per la propria stupidità. Lì non c’erano munizioni. Scivolò nel locale accanto.
Era la sala di imballaggio, piena di casse di pino e mucchi di paglia. Chino tra le casse, raggiunse la parete più lontana. Dalle finestre scrutò il cortile sul retro della fabbrica, da dove gli automi finiti venivano portati via. Non poteva fuggire da quella parte; il cancello del cortile veniva chiuso a chiave di notte. L’unica via di uscita era l’ingresso principale, ma tornando sui propri passi rischiava di incontrare l’assassino. Doveva attraversare il reparto ceramica e poi tornare indietro passando dall’altro lato dello stabilimento.
Dall’entrata della sala giunse un rumore di passi. Stratton si abbassò dietro una fila di casse, poi vide una porta laterale lì vicino. La aprì il più furtivamente possibile, entrò, e la richiuse dietro di sé. L’inseguitore lo aveva sentito? Sbirciò attraverso una piccola grata della porta; non riuscì a vedere l’uomo, ma gli sembrò di essersi spostato inosservato. L’assassino stava probabilmente cercandolo nella sala di imballaggio.
Stratton si guardò intorno, e subito si rese conto del proprio errore. La porta per il reparto ceramica si trovava dall’altra parte della sala. Era entrato in un magazzino pieno di file di automi finiti, che non aveva altre uscite. Non c’era modo di bloccare la porta. Si era messo con le spalle al muro.
Cosa poteva usare come arma? Nel magazzino c’erano alcuni tozzi automi minatori, i cui arti anteriori terminavano in enormi picconi, che però erano imbullonati. Non era possibile liberarne uno.
Stratton sentiva che l’assassino apriva le altre porte laterali e perquisiva i magazzini. Poi notò un automa in disparte: il facchino utilizzato per spostare il materiale all’interno del magazzino. Era antropomorfo, l’unico automa di quel tipo presente nella stanza. Gli venne un’idea.
Controllò la parte posteriore della testa dell’automa. I nomi dei facchini erano da tempo di dominio pubblico, quindi non c’erano serrature a proteggere la fessura del nome; la striscia di pergamena sporgeva dalla fenditura orizzontale dietro la testa. Tirò fuori dalla tasca della giacca il taccuino e la matita che aveva sempre con sé e strappò un pezzo di foglio bianco. Nell’oscurità, tracciò rapidamente settantadue lettere in una disposizione che conosceva bene, poi piegò la carta più volte, formando un quadrato ben stretto.
Sussurrò all’automa: “Avvicinati alla porta il più possibile”. La figura di ghisa si mosse e si diresse verso la porta. La sua andatura era fluida ma lenta, e l’assassino avrebbe raggiunto il magazzino da un momento all’altro. “Più veloce”, sibilò Stratton, e l’automa obbedì.
Proprio mentre l’automa raggiungeva la porta, Stratton vide attraverso la grata che il suo inseguitore era arrivato dall’altra parte. “Togliti dai piedi”, abbaiò l’uomo.
Sempre obbediente, l’automa si spostò per fare un passo indietro. Stratton gli tolse il nome. L’assassino cominciò a spingere la porta, ma Stratton riuscì a inserire il nuovo nome, spingendo il quadratino di carta ripiegata nella fessura, il più in fondo possibile.
L’automa ricominciò a camminare in avanti, questa volta con un’andatura rigida e veloce: era il pupazzo dell’infanzia di Stratton, ora a grandezza d’uomo. Andò a sbattere subito contro la porta e la tenne chiusa, imperturbabile, con l’impeto della propria marcia, con le mani di ghisa che scalfivano ritmicamente la porta di quercia a ogni oscillazione delle braccia, e i piedi rivestiti di gomma che raschiavano il pavimento di mattoni. Stratton si ritirò in fondo al magazzino.
“Fermati”, ordinò l’assassino. “Smetti di camminare! Fermati!”.
L’automa continuò a marciare, ignorando qualsiasi comando. L’uomo spinse la porta, senza risultato. Allora provò a prenderla a spallate: a ogni colpo l’automa scivolava leggermente indietro, ma riusciva ad avanzare di nuovo prima che l’uomo potesse infilarsi nella stanza. Ci fu una breve pausa, poi qualcosa penetrò attraverso la grata della porta; l’uomo la stava sfondando con una sbarra di ferro. La grata si staccò di colpo, lasciando un’apertura. L’uomo allungò il braccio dentro e tese la mano dietro la testa dell’automa, cercando il nome con le dita ogni volta che la testa si proiettava in avanti. Ma non c’era nulla da afferrare; il pezzo di carta era scivolato troppo in fondo nella fessura.
Il braccio fu ritirato. Alla finestrella apparve il volto dell’assassino. “Ti credi furbo, eh?”, gridò. Quindi scomparve.
Stratton si rilassò un po’. L’uomo aveva desistito? Subito dopo Stratton cominciò a pensare alla prossima mossa. Avrebbe potuto aspettare lì fino all’apertura dello stabilimento; ci sarebbero state troppe persone in giro perché l’assassino rimanesse.
All’improvviso il braccio dell’uomo spuntò di nuovo dall’apertura, questa volta con un barattolo di liquido. Lo versò sulla testa dell’automa, e il liquido gli colò sulla schiena. Il braccio si ritrasse, e Stratton udì il rumore di un fiammifero che veniva strofinato e si accendeva. Riapparve la mano, che avvicinò il fiammifero all’automa.
La stanza venne inondata di luce quando la testa e la schiena dell’automa presero fuoco. L’uomo aveva usato petrolio per lampade. Stratton strizzò gli occhi di fronte allo spettacolo: luci e ombre danzavano sul pavimento e sulle pareti, trasformando il magazzino nel sito di qualche cerimonia druidica. A causa del calore, l’automa accelerò il suo assalto alla porta, come un sacerdote insensibile al fuoco che danzasse con frenesia crescente, poi all’improvviso si bloccò. Il nome aveva preso fuoco, e le lettere stavano bruciando.
Le fiamme gradualmente si spensero, e agli occhi di Stratton, appena adattatisi alla luce, la stanza sembrava quasi completamente nera. Più con l’udito che con la vista, si rese conto che l’uomo stava spingendo di nuovo la porta, questa volta riuscendo a spostare l’automa e a entrare.
“Adesso basta”.
Stratton cercò di precipitarsi fuori passandogli accanto, ma l’assassino lo afferrò facilmente e lo atterrò con un colpo in testa.
Riprese i sensi quasi immediatamente, ma l’assassino lo aveva già girato a faccia in giù sul pavimento, premendogli un ginocchio nella schiena. Gli strappò dal polso l’amuleto di salute e poi gli legò le mani dietro la schiena, stringendo la corda tanto che le fibre di canapa gli scorticarono i polsi.
“Che razza di individuo sei, per fare cose del genere?”, boccheggiò Stratton, la guancia schiacciata contro il pavimento.
L’assassino ridacchiò. “Gli uomini non sono diversi dai tuoi automi: allungagli un pezzo di carta con sopra le cifre giuste, e fanno quello che vuoi”. L’uomo accese una lampada e la stanza si illuminò.
“E se ti pagassi di più per lasciarmi stare?”.
“Non posso farlo. Devo pensare alla mia reputazione, no? Adesso diamoci da fare”. L’assassino afferrò il mignolo della mano sinistra di Stratton e lo spezzò di colpo.
Il dolore fu così intenso che per un attimo Stratton fu insensibile a tutto il resto. Era vagamente consapevole di aver gridato. Poi sentì l’uomo che parlava di nuovo. “Rispondi subito alle mie domande. Tieni copie del tuo lavoro a casa?”.
“Sì”. Stratton riusciva a pronunciare solo poche parole alla volta. “Nella mia scrivania. Nello studio”.
“Nessun’altra copia nascosta altrove? Forse sotto il pavimento?”.
“No”.
“Il tuo amico di sopra non aveva copie. Ma forse qualcun altro le ha?”.
Non poteva indirizzare l’assassino a Darrington Hall. “Nessuno”.
L’uomo gli prese il taccuino dalla tasca della giacca. Stratton sentì che lo sfogliava senza fretta. “Non hai spedito nessuna lettera? Non sei in corrispondenza con qualche collega, o cose del genere?”.
“Nulla che possa essere utilizzato per ricostruire il mio lavoro”.
“Stai mentendo”. L’uomo afferrò l’anulare di Stratton.
“No! È la verità!”. Non poteva impedirsi un tono isterico.
Poi Stratton udì un colpo sordo, e la pressione sulla schiena cessò. Con cautela, alzò la testa e si guardò intorno. Il suo aggressore giaceva privo di sensi accanto a lui. E lì vicino c’era Davies, con in mano uno sfollagente di cuoio.
Davies mise in tasca l’attrezzo e si chinò per sciogliere la corda che legava Stratton. “Siete ferito in modo grave, signore?”.
“Mi ha rotto un dito. Davies, come avete fatto…?”.
“Lord Fieldhurst mi ha mandato nel momento stesso in cui ha saputo con chi si era messo in contatto Willoughby”.
“Grazie a dio che siate arrivato”. Stratton si rendeva conto dell’ironia della situazione - il suo salvataggio ordinato proprio dall’uomo contro cui stava tramando - ma era troppo riconoscente per curarsene.
Davies aiutò Stratton ad alzarsi e gli porse il suo taccuino. Quindi usò la corda per legare l’assassino. “Sono andato prima nel vostro ufficio. Chi è il tipo per terra?”.
“Si chiama… si chiamava Benjamin Roth”. Stratton raccontò succintamente il suo precedente incontro con il cabalista. “Non so cosa ci facesse”.
“Molti religiosi sono un po’ fanatici”, disse Davies, controllando che l’assassino fosse ben legato. “Poiché non volevate dargli il vostro lavoro, probabilmente si è sentito in diritto di prenderselo da solo. È venuto nel vostro ufficio a cercarlo, e ha avuto la sfortuna di trovarsi lì quando è arrivato il nostro amico”.
Stratton sentì un’ondata di rimorso. “Avrei dovuto dare a Roth quello che mi chiedeva”.
“Non potevate sapere cosa sarebbe successo”.
“È veramente ingiusto che sia stato lui a morire. Non aveva nulla a che fare con questa faccenda”.
“È sempre così, signore. Andiamo, occupiamoci della vostra mano, adesso”.
Davies fissò il dito di Stratton a una stecca, e gli assicurò che la Royal Society si sarebbe occupata con discrezione di qualsiasi conseguenza degli eventi di quella sera. Raccolsero nell’ufficio le carte imbevute di petrolio e le sistemarono in un baule, in modo che Stratton potesse controllarle con comodo, fuori dalla manifattura. Quando ebbero finito, arrivò una carrozza per riportare Stratton a Darrington Hall; era partita insieme a Davies, che aveva raggiunto Londra con un automa da corsa. Stratton salì in carrozza con il baule di carte, mentre Davies rimase sul posto per occuparsi dell’assassino e provvedere al corpo del cabalista.
Durante il viaggio in carrozza, Stratton sorseggiò una fiaschetta di brandy, cercando di riprendere il controllo dei nervi. Provò un senso di sollievo quando furono a Darrington Hall; per quanto la residenza ospitasse una propria varietà di minacce, sapeva che lì sarebbe stato al sicuro. Quando raggiunse la sua stanza, il panico si era ormai convertito in spossatezza, e Stratton dormì profondamente.
Il mattino dopo si sentiva molto meglio, e cominciò a riordinare il suo baule di carte. Mentre era intento a dividerle secondo l’ordine originario, Stratton trovò un taccuino che non riconobbe. Le pagine contenevano lettere ebraiche disposte negli usuali schemi di integrazione e fattorizzazione nominale, ma tutte le annotazioni erano anch’esse scritte in ebraico. Con un rinnovato senso di colpa, si rese conto che il taccuino doveva essere appartenuto a Roth; l’assassino l’aveva trovato addosso al cabalista e l’aveva gettato insieme alle carte da bruciare.
Stava per metterlo da parte, ma la curiosità ebbe il sopravvento: prima di allora non aveva mai visto il taccuino di un cabalista. Gran parte della terminologia era arcaica, ma poteva capirla abbastanza bene; tra incantesimi e diagrammi sefirotici, trovò l’epiteto che permetteva a un automa di scrivere il proprio nome. Nel leggerlo, Stratton si rese conto che il risultato ottenuto da Roth era più elegante di quanto avesse pensato.
L’epiteto non descriveva uno specifico insieme di azioni fisiche, ma invece la nozione generale di riflessività. Un nome che includeva questo epiteto diventava un autonimo: un nome autodenotante. Gli appunti indicavano che un nome di questo tipo avrebbe espresso la propria natura lessicale attraverso qualunque mezzo consentito dal corpo. Il corpo animato non avrebbe neanche avuto bisogno di mani, per scrivere il proprio nome; se l’epiteto fosse stato incluso nel modo opportuno, un cavallo di porcellana avrebbe probabilmente potuto tracciare il proprio nome trascinando uno zoccolo nella polvere.
Combinato con uno degli epiteti di destrezza di Stratton, l’epiteto di Roth avrebbe in realtà permesso a un automa di fare quasi tutto ciò che era necessario per riprodursi. Un automa avrebbe potuto mettere insieme un corpo identico al proprio, scrivere il proprio nome, e inserirlo per animare il corpo. Non avrebbe però potuto insegnare al nuovo automa la modellazione, dato che gli automi non erano in grado di parlare. Un automa che potesse veramente riprodursi senza aiuto umano rimaneva ancora fuori portata, ma avvicinarsi tanto avrebbe sicuramente deliziato i cabalisti.
Sembrava ingiusto che gli automi fossero così più facili da riprodurre degli esseri umani. Era come se il problema della riproduzione degli automi avesse bisogno di essere risolto solo una volta, mentre quello della riproduzione degli esseri umani era una fatica di Sisifo, con ogni generazione ulteriore che incrementava la complessità del nome richiesto.
E di colpo Stratton si rese conto che non aveva bisogno di un nome che raddoppiasse la complessità fisica, ma di un nome che consentisse la duplicazione lessicale.
La soluzione era imprimere nell’ovulo un autonimo, e così indurre un feto che portasse il proprio nome.
Il nome avrebbe avuto due versioni, come era stato proposto inizialmente: la prima da usare per indurre feti maschi, e un’altra per feti femmine. Le donne concepite in questo modo sarebbero state fertili come sempre. Anche gli uomini concepiti così sarebbero stati fertili, ma non nella maniera usuale: i loro spermatozoi non avrebbero contenuto feti preformati, ma avrebbero invece portato già impresso uno dei due nomi, autoespressione dei nomi originariamente contenuti negli aghi di vetro. E quando uno spermatozoo del genere avesse raggiunto un ovulo, il nome avrebbe indotto la creazione di un nuovo feto. La specie sarebbe stata in grado di riprodursi senza intervento medico, perché avrebbe portato il nome dentro di sé.
Stratton e il dottor Ashbourne avevano dato per scontato che creare animali capaci di riprodursi volesse dire dotarli di feti preformati, perché quello era il metodo impiegato dalla natura. Di conseguenza, avevano trascurato un’altra possibilità: se una creatura poteva essere espressa in un nome, riprodurre questa creatura equivaleva a trascriverne il nome. Un organismo, invece di un minuscolo equivalente del proprio corpo, avrebbe potuto contenerne una rappresentazione lessicale.
L’umanità sarebbe diventata un veicolo del nome, e allo stesso tempo suo prodotto. Ogni generazione sarebbe stata sia contenuto che recipiente, un’eco in un riverbero di autosufficienza.
Stratton immaginò il giorno in cui la specie umana sarebbe potuta sopravvivere tanto a lungo quanto lo avesse consentito il suo comportamento; quando sarebbe rimasta in piedi o sarebbe caduta come risultato soltanto delle proprie azioni, e non sarebbe svanita semplicemente perché un predeterminato periodo di vita era giunto al termine. Le altre specie sarebbero sbocciate e appassite, come fiori lungo le stagioni delle ere geologiche, ma gli esseri umani sarebbero durati fino a quando lo avessero voluto.
E nessun gruppo di persone avrebbe controllato la fecondità di un altro gruppo; almeno nell’ambito procreativo, la libertà di scelta sarebbe stata restituita all’individuo. Non era questo l’uso che Roth aveva pensato per il proprio epiteto, ma Stratton sperava che il cabalista lo avrebbe comunque ritenuto degno. Quando il vero potere dell’autonimo fosse stato palese, un’intera generazione di milioni di persone in tutto il mondo sarebbe ormai nata grazie a quel nome, e nessun governo avrebbe potuto controllare in alcun modo la sua riproduzione. Lord Fieldhurst - o il suo successore - si sarebbe sentito oltraggiato, e alla fine ci sarebbe stato un prezzo da pagare, ma Stratton lo trovava accettabile.
Si affrettò a raggiungere la scrivania, dove aprì il proprio taccuino accanto a quello di Roth. Su una pagina bianca, cominciò ad annotare idee su come l’epiteto di Roth potesse essere incorporato in un buon nome umano. Già stava trasponendo le lettere nella propria mente, cercando una permutazione che denotasse sia il corpo umano che sé stessa. Una codifica ontogenetica della specie.