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Torre di Babilonia

Prima che la torre fosse eretta, ci sarebbero voluti due giorni per camminare da un’estremità all’altra della pianura di Shinar. Ora che la torre è lì, un uomo senza carico sale dalla base alla sommità in un mese e mezzo. Ma pochi scalano la torre a mani vuote; il passo dei più è rallentato dal carretto di mattoni che si tirano dietro. Dal giorno in cui un mattone viene messo su un carretto a quando viene preso per far parte della torre passano quattro mesi.

Hillalum aveva passato tutta la vita nell’Elam, e conosceva Babilonia solo in quanto essa acquistava rame. I lingotti venivano caricati su barche che scendevano il Karun fino al Mare Inferiore, quando confluisce nell’Eufrate. Hillalum e gli altri minatori viaggiavano via terra, insieme a una carovana di onagri carichi. Camminavano lungo un sentiero polveroso che scendeva dall’altipiano, attraverso le pianure, fino ai campi verdi tagliati da argini e canali.

Nessuno di loro aveva visto la torre prima. La si scorgeva quando erano ancora a leghe di distanza: una linea sottile come un filo di lino, che ondeggiava nell’aria tremolante innalzandosi dalla crosta di fango che era Babilonia. Come arrivarono più vicini, la crosta crebbe nelle potenti mura della città, ma avevano occhi solo per la torre. Quando abbassavano lo sguardo al livello della piana fluviale vedevano i segni che la torre aveva prodotto fuori dalla città: lo stesso Eufrate ora scorreva a lato di un letto vuoto e asciutto, scavato per fornire creta per i mattoni. A sud della città si vedevano file e file di fornaci non più accese.

Appena si avvicinarono alle porte della città, la torre apparve più massiccia di qualsiasi cosa Hillalum avesse mai immaginato: una sola colonna che doveva essere larga come un intero tempio ma che si elevava così in alto da restringersi fino a scomparire. Tutti loro camminavano con la testa all’indietro, socchiudendo gli occhi al sole. Nanni, l’amico di Hillalum, gli diede di gomito, intimorito. “Dobbiamo scalare questa cosa? Fino in cima?”.

“Andare in su per scavare. Sembra… innaturale”.

I minatori raggiunsero la porta centrale del muro verso occidente quando un’altra carovana ne stava uscendo. Mentre si raggruppavano nella sottile striscia d’ombra fornita dalle mura, il loro caposquadra Beli gridò alle guardie sulle torri: “Siamo i minatori ingaggiati nella terra di Elam”.

Le guardie sembravano contente. Una gridò in risposta: “Siete quelli che devono scavare nella volta del cielo?”.

“Siamo noi”.

***

L’intera città era in festa. Era cominciata otto giorni prima, quando erano partiti gli ultimi mattoni, e sarebbe durata altri due giorni. Ogni giorno e ogni notte la città gioiva, danzava, banchettava.

Assieme agli operai delle fornaci c’erano i carrettieri, le cui gambe erano fasci di muscoli per aver scalato la torre. Ogni mattina una squadra cominciava la sua ascesa; saliva per quattro giorni, trasferiva il suo carico alla squadra successiva e il quinto giorno riscendeva nella città con i carretti vuoti. Una catena di queste squadre arrivava fino alla cima della torre, ma solo quella più in basso festeggiava con la città. Per quelli che vivevano sulla torre erano stati mandati su abbastanza vino e cibo, in tempo perché la festa potesse estendersi all’intero pilastro.

A sera Hillalum e gli altri minatori elamiti sedevano su sgabelli di terracotta davanti a un lungo tavolo carico di cibo, uno dei tanti collocati nella piazza della città. I minatori parlavano con i carrettieri chiedendo della torre.

Nanni disse: “Qualcuno mi ha raccontato che i muratori in cima alla torre piangono e si strappano i capelli quando un mattone viene lasciato cadere, perché ci vogliono quattro mesi per rimpiazzarlo, ma nessuno si dà pensiero se un uomo cade e muore. È vero?”.

Uno dei carrettieri più ciarlieri, Lugatum, scosse la testa. “Oh no, è solo una storia. C’è una carovana di mattoni che vanno sulla torre; migliaia di mattoni raggiungono la cima ogni giorno. La perdita di un solo mattone non significa nulla per i muratori”. E sporgendosi verso di loro: “Tuttavia c’è qualcosa che essi valutano più della vita di un uomo: una cazzuola”.

“Perché una cazzuola?”.

“Se un muratore fa cadere la sua cazzuola non può lavorare finché non ne viene portata su un’altra. Per mesi non può guadagnare il cibo che mangia, e così si trova in debito. La perdita di una cazzuola è causa di molti lamenti. Ma se un uomo cade e la sua cazzuola rimane, gli altri sono segretamente sollevati. Il successivo che fa cadere la sua cazzuola può prendere quella in più e continuare a lavorare, senza trovarsi in debito”.

Hillalum impallidì e per un momento cercò convulsamente di contare i picconi che i minatori avevano portato. Poi tornò in sé: “Non può essere vero. Perché non sono state portate cazzuole di riserva? Il loro peso sarebbe stato niente a confronto dei mattoni che vanno su. E sicuramente la perdita di un uomo rappresenta un grave ritardo, a meno che non abbiano lassù uomini di riserva esperti nel mettere mattoni. Altrimenti devono aspettare che altri salgano fino in cima”.

Tutti i carrettieri esplosero in una risata. “Di questo qui non possiamo prenderci gioco”, disse Lugatum divertito. Si girò verso Hillalum: “E così comincerete a salire appena la festa finisce?”.

Hillalum bevve dal suo boccale di birra. “Certo. Ho sentito che verranno anche minatori da una terra a occidente, ma non li ho visti. Sapete qualcosa di loro?”.

“Sì, vengono da una terra chiamata Egitto, ma non estraggono minerali come fate voi. Sono cavatori di pietra”.

“Anche in Elam caviamo pietra”, disse Nanni, la bocca piena di carne di maiale.

“Non come fanno loro. Loro tagliano il granito”.

“Granito?”. Nell’Elam c’erano cave di calcare e alabastro, ma certo non di granito. “Sei sicuro?”.

“I mercanti che hanno viaggiato in Egitto dicono che hanno piramidi e templi di pietra costruiti in calcare e granito, in grandi blocchi. E che nel granito tagliano statue gigantesche”.

“Ma il granito è molto difficile da lavorare”.

Lugatum scrollò le spalle: “Non per loro. Gli architetti reali ritengono che possano essere utili quando raggiungerete la volta del cielo”.

Hillalum annuì. Poteva essere vero. Chi sapeva di cosa avrebbero avuto bisogno? “Li hai visti?”.

“No, non sono ancora arrivati, ma li aspettiamo nel giro di pochi giorni. Potrebbero non arrivare prima che la festa finisca; e quindi voi elamiti salirete da soli”.

“Tu ci accompagnerai, vero?”.

“Sì, ma solo per i primi quattro giorni. Poi dovremo tornare indietro, mentre voi fortunati andrete avanti con un’altra squadra”.

“Perché ci ritieni fortunati?”.

“Mi piacerebbe fare la scalata fino alla cima. Una volta sono andato con le squadre più in alto e ho raggiunto l’altezza di dodici giorni, ma questo è il massimo a cui sono arrivato. Voi andrete molto più in alto”. Lugatum sorrise amaramente. “Vi invidio, voi che toccherete la volta del cielo”.

Toccare la volta del cielo. Romperla con i picconi. Hillalum si sentì a disagio all’idea. “Non c’è ragione di invidia…”, cominciò a dire.

“Giusto”, disse Nanni. “Quando avremo finito tutti potranno toccare la volta del cielo”.

La mattina dopo Hillalum andò a vedere la torre. Si trovò nell’enorme corte che la circondava. Da un lato c’era un tempio, che da solo sarebbe stato impressionante ma che sembrava insignificante vicino alla torre.

Poteva sentirne l’assoluta solidità. Secondo i racconti la torre era costruita per avere una forza che nessun ziggurat possedeva; era fatta per intero di mattoni cotti, mentre gli ziggurat ordinari erano di mattoni seccati al sole, tranne quelli usati per il rivestimento. I mattoni venivano messi in opera con una malta di bitume, la quale li impregnava formando un legante resistente quanto i mattoni stessi.

La base della torre somigliava alle prime due piattaforme di un comune ziggurat. C’era una gigantesca piattaforma quadrata di circa duecento cubiti di lato per quaranta di altezza, con una tripla scalinata sul lato sud. Poggiato su questa prima piattaforma c’era un altro livello, una piattaforma più piccola raggiunta solo dalla scala centrale. Dalla seconda piattaforma cominciava la torre.

Era di sessanta cubiti di lato e si ergeva come un pilastro quadrato che portava il peso del cielo. Attorno a essa si snodava una rampa leggermente inclinata, scavata lungo i lati, che avvolgeva la torre come una striscia di cuoio arrotolata attorno al manico di una frusta. No: dopo aver guardato meglio Hillalum vide che c’erano due rampe parallele. Il margine esterno di ciascuna rampa era guarnito di pilastri piuttosto larghi che fornivano un po’ d’ombra tra loro. Scorrendo con lo sguardo verso l’alto vide fasce alternate di rampe e mattoni, rampe e mattoni finché non li si poteva più distinguere. E ancora la torre si innalzava in alto, in alto più lontano di quanto l’occhio potesse vedere; Hillalum socchiudeva gli occhi e sbatteva le palpebre sempre più stordito. Arretrò di un paio di passi e incespicò, poi se ne andò rabbrividendo.

Hillalum ripensò alla storia che gli veniva raccontata nell’infanzia, la storia di ciò che era successo dopo il Diluvio. Narrava di come gli uomini avessero popolato di nuovo tutti gli angoli della terra, abitando più terre di quanto avessero fatto prima. E di come gli uomini avessero navigato fino ai bordi del mondo, e avessero visto l’oceano cadere giù nella nebbia per raggiungere le acque nere dell’Abisso, molto più in basso. E di come gli uomini avessero così misurato l’estensione della terra e l’avessero trovata piccola, e avessero desiderato vedere cosa ci fosse oltre i suoi confini, tutto il resto della Creazione di Yahweh. E di come avessero guardato verso il cielo e si fossero interrogati sulla residenza di Yahweh, sulle riserve che contenevano le acque del cielo. E di come, molti secoli prima, fosse cominciata la costruzione della torre, un pilastro verso il cielo, una scala che gli uomini potessero salire per vedere le opere di Yahweh, e che Yahweh potesse scendere per vedere le opere degli uomini.

A Hillalum questa storia era sempre sembrata bella, la storia di migliaia di uomini che lavoravano intensamente ma con gioia, perché lavoravano per conoscere meglio Yahweh. Si era sentito eccitato, quando i babilonesi erano venuti nell’Elam cercando minatori. Tuttavia, ora che si trovava alla base della torre i suoi sensi si ribellavano, dicendogli che nulla dovrebbe essere così alto. Quando aveva guardato la torre si era sentito come se non fosse più sulla terra.

Avrebbe potuto scalare un tale prodigio?

La mattina dell’ascesa la seconda piattaforma era coperta, da un bordo all’altro, da robusti carretti a due ruote sistemati in file. Molti erano caricati di cibi di tutti i tipi: sacchi pieni di orzo, grano, lenticchie, cipolle, datteri, cetrioli, pane, pesce secco. C’erano innumerevoli giare di acqua, vino di datteri, birra, latte di capra, olio di palma. Altri carretti erano caricati di tutto quello che si sarebbe potuto vendere in un bazar: recipienti di bronzo, cesti di canna, rotoli di tela di lino, sgabelli e tavoli di legno. C’erano anche un bue ingrassato e una capra, ai quali alcuni preti stavano mettendo un cappuccio in modo che non potessero guardare in basso e non si spaventassero nella salita. Sarebbero stati sacrificati una volta raggiunta la cima.

Quindi c’erano carretti caricati con i picconi e i martelli dei minatori, e gli attrezzi per montare una piccola forgia. I loro capisquadra avevano anche richiesto che un certo numero di carretti fossero caricati di legna e fascine di canne.

Lugatum stava vicino a un carretto assicurando le cinghie che tenevano la legna. Hillalum si diresse verso di lui: “Da dove viene questa legna? Non ho visto foreste dopo che abbiamo lasciato l’Elam”.

“C’è una foresta su a nord, che è stata piantata quando si è dato inizio alla torre. Il legname naviga fin qui lungo l’Eufrate”.

“Avete piantato un’intera foresta?”.

“Quando cominciarono la torre, gli architetti sapevano che per alimentare le fornaci ci sarebbe voluta molta più legna di quanto se ne potesse trovare nella pianura, e così fecero piantare una foresta. Ci sono squadre il cui lavoro è dargli acqua e piantare un nuovo albero per ognuno che viene tagliato”.

Hillalum era sbalordito: “E questo fornisce tutto il legname che serve?”.

“La maggior parte. Anche molte altre foreste a nord sono state tagliate e il legname è stato portato lungo il fiume”. Controllò le ruote del carretto, stappò una fiasca di cuoio che aveva con sé e versò qualche goccia d’olio tra la ruota e l’asse.

Nanni si diresse verso di loro guardando stupefatto le strade di Babilonia sotto di loro: “Non sono mai stato prima così in alto da poter guardare una città sotto di me”.

“Neanch’io”, disse Hillalum. Ma Lugatum si mise a ridere: “Venite. Tutti i carretti sono pronti”.

Rapidamente tutti gli uomini, a due a due, furono assegnati a un carretto. Gli uomini stavano tra le due aste del carretto, ognuna delle quali era fornita di un passante di corda per tirare. I carretti tirati dai minatori erano inframmezzati da quelli dei carrettieri esperti, per garantire che tenessero il passo giusto. Lugatum e un altro carrettiere avevano il carretto proprio dietro quello di Hillalum e Nanni.

“Ricordate”, disse Lugatum, “rimanete circa dieci cubiti indietro rispetto al carretto che avete davanti. L’uomo alla destra fa tutto lo sforzo quando si girano gli angoli, e quindi dovete scambiarvi i posti ogni ora”.

I carrettieri stavano cominciando a tirare i carretti su per la rampa. Hillalum e Nanni si chinarono e fecero passare le corde del loro carretto sulla spalla. Si alzarono insieme, facendo sollevare la parte anteriore del carretto.

“Ora tirate”, li incitò Lugatum.

Si appoggiarono sulle corde e le ruote del carretto cominciarono a girare. Una volta in movimento, tirare sembrava abbastanza facile, e si diressero verso la rampa. Quando l’ebbero raggiunta cominciò la salita, e dovettero fare uno sforzo maggiore.

“E questo sarebbe un carretto leggero?”, borbottò Hillalum.

La rampa era abbastanza larga da permettere a un uomo di passare a lato dei carretti. La superficie era pavimentata di mattoni, con due profonde scanalature scavate da secoli di ruote. Sopra le loro teste il soffitto saliva in una volta a canestro, con larghi mattoni quadrati che si sovrapponevano a sbalzo fino a incontrarsi al centro. I pilastri sulla destra erano abbastanza larghi da far sembrare la rampa un po’ come una galleria. Se non si guardava fuori non si aveva l’impressione di trovarsi su una torre.

“Avete l’abitudine di cantare, mentre scavate la roccia?”, chiese Lugatum.

“Se non è troppo dura”, disse Nanni.

“Allora cantate una delle vostre canzoni di minatori”.

La voce passò agli altri minatori, e di lì a poco l’intera squadra stava cantando.

Mentre le ombre si accorciavano, salirono sempre più in alto. Al riparo dal sole, circondati solo da aria limpida, sentivano più freddo che non negli stretti vicoli di una città al livello del suolo, dove la calura di mezzogiorno poteva uccidere le lucertole che si azzardavano a traversare la strada. Guardando fuori, i minatori potevano vedere lo scuro Eufrate e i campi verdi che si estendevano per leghe, attraversati da canali scintillanti alla luce del sole. La città di Babilonia era un fitto e intricato dedalo di strade e di abbaglianti palazzi imbiancati a calce; salendo se ne vedeva sempre meno, come se si restringesse attorno alla base della torre.

Hillalum stava di nuovo tirando dalla parte destra del carretto, più vicino al bordo, quando sentì gridare dalla rampa al livello inferiore. Pensò di fermarsi per guardare sotto ma non voleva interrompere il passo, e comunque non sarebbe stato in grado di vedere molto. “Che sta succedendo sotto?”, chiese a Lugatum dietro di lui.

“Uno dei vostri minatori ha il panico dell’altezza. Talvolta capita, tra quelli che salgono per la prima volta. Si aggrappano al pavimento e non possono più andare oltre. Per quanto sia raro che succeda così presto”.

Hillalum comprese: “Sappiamo di un terrore simile, tra quelli che vorrebbero diventare minatori. Alcuni non sopportano di entrare nelle miniere per paura di rimanere seppelliti”.

“Veramente?”, rispose Lugatum. “Non ne avevo mai sentito parlare. E tu come ti senti, riguardo all’altezza?”.

“Non ci penso proprio”. Ma scambiò un’occhiata con Nanni, ed entrambi sapevano la verità.

“Ti senti un certo nervosismo sulle palme delle mani, non è così?”, disse Nanni a voce bassa.

Hillalum strofinò le mani sulle grosse fibre della corda e annuì.

“Anch’io prima l’ho sentito, quando ero dalla parte del bordo”.

“Forse dovremmo essere incappucciati come il bue e la capra”, borbottò Hillalum scherzosamente.

“Credi che anche noi avremo paura dell’altezza, quando saremo più in alto?”.

Hillalum rifletté. Che uno dei loro compagni si fosse fatto prendere dalla paura così presto non prometteva bene. Allontanò il pensiero: migliaia salivano senza paura e sarebbe stato sciocco che il panico di un solo minatore contagiasse tutti loro. “È solo che non siamo abituati. Abbiamo mesi per abituarci all’altezza. Per quando arriveremo in cima alla torre, vorremo che sia più alta”.

“No”, disse Nanni. “Non credo proprio che vorrò ancora tirare quest’affare”. Entrambi si misero a ridere.

A sera mangiarono una zuppa di orzo, cipolle e lenticchie, e dormirono negli stretti corridoi che penetravano nel corpo della torre. Quando si svegliarono il mattino dopo, i minatori erano a malapena in grado di camminare, tanto avevano le gambe doloranti. I carrettieri, ridendo, diedero loro un unguento da spalmare sui muscoli, e ridistribuirono il carico dei carretti per ridurre quello dei minatori.

Da quel momento Hillalum si sentiva le ginocchia molli tutte le volte che guardava in giù. Il vento a quest’altezza soffiava costantemente, e Hillalum prevedeva che sarebbe aumentato di intensità man mano che fossero saliti. Si chiese se qualcuno fosse mai stato strappato via dalla torre in un momento di disattenzione. E la caduta: un uomo avrebbe avuto il tempo di dire una preghiera prima di abbattersi al suolo. Hillalum rabbrividì al pensiero.

A parte il dolore alle gambe, il secondo giorno fu come il primo. Ora potevano vedere molto più lontano e l’estensione della terra appariva sbalorditiva: oltre i campi coltivati c’era il deserto, e le carovane erano più piccole di file di insetti. Nessun altro minatore ebbe problemi con l’altezza così gravi da non poter continuare e l’ascesa andò avanti tutto il giorno senza incidenti.

Al terzo giorno le gambe dei minatori non erano migliorate e Hillalum si sentiva come un vecchio storpio. Solo il quarto giorno cominciarono a sentirsi meglio e ripresero i carichi originari. La salita continuò fino a sera, quando incrociarono la seconda squadra dei carrettieri che si tiravano dietro i carretti a passo veloce lungo la rampa di discesa. Le rampe di salita e di discesa correvano parallele, avvolgendosi l’una intorno all’altra senza toccarsi, ma erano collegate da corridoi all’interno della torre. Quando le squadre si incontravano tra le due rampe, passavano dall’una all’altra per scambiarsi i carretti. I minatori furono presentati ai carrettieri della seconda squadra e quella notte mangiarono e chiacchierarono tutti insieme. La mattina dopo la prima squadra preparò i carretti per il ritorno a Babilonia e Lugatum si accomiatò da Hillalum e Nanni.

“Prendetevi cura del vostro carretto. È salito su per l’intera altezza della torre più volte di qualunque uomo”.

“Hai invidia anche del carretto?”, chiese Nanni.

“No, perché ogni volta che arriva in cima deve poi rifare tutta la strada in giù. Io non potrei sopportarlo”.

Quando la seconda squadra si fermò, alla fine della giornata, il carrettiere dietro Hillalum e Nanni venne da loro per mostrargli qualcosa. Si chiamava Kudda.

“Non avete mai visto il tramonto da questa altezza. Venite a vedere”. Il carrettiere andò fino al bordo e si sedette, con le gambe penzolanti in fuori. Vide che loro esitavano. “Venite. Se preferite, potete sdraiarvi con il viso verso l’esterno, senza sporgervi”. Hillalum non voleva apparire come un bambino pauroso, ma non riusciva proprio a sedersi su un precipizio con migliaia di cubiti sotto i piedi. Si sdraiò bocconi, con solo la testa sul bordo. Nanni lo raggiunse.

“Quando il sole è vicino al tramonto, guardate in giù sul lato della torre”. Hillalum gettò uno sguardo sotto e rapidamente riportò gli occhi all’orizzonte: “Che c’è di diverso nel modo in cui il sole tramonta da qui?”.

“Pensaci bene, quando il sole affonda dietro le cime delle montagne a occidente, l’oscurità si estende sulla pianura di Shinar. Ma qui siamo più in alto delle montagne e così possiamo ancora vedere il sole. Il sole deve discendere ancora perché per noi ci sia la notte”.

Hillalum rimase a bocca aperta quando capì. “L’ombra delle montagne segna l’inizio della notte. Sulla terra diventa notte prima che qui”.

Kudda annuì. “Puoi guardare la notte che cammina su per la torre, dalla terra fino al cielo. Si muove rapidamente ma puoi comunque vederla”.

Fissò il globo rosso del sole per qualche istante, poi guardò in basso e indicò: “Ora!”.

Hillalum e Nanni guardarono anche loro in basso. Alla base dell’immenso pilastro la minuscola Babilonia era in ombra. Quindi l’oscurità si arrampicò su per la torre come una tenda che si srotolasse verso l’alto. Si muoveva abbastanza lentamente da far credere a Hillalum di poter contare i momenti che passavano, ma poi avvicinandosi diventò più veloce, passando oltre loro in meno di un battito d’occhi, e si trovarono nel crepuscolo.

Hillalum rotolò su sé stesso e guardò in su in tempo per vedere l’oscurità che saliva rapidamente sul resto della torre. Gradualmente il cielo diventò più scuro mentre il sole affondava sotto il bordo del mondo, laggiù lontano.

“Una bella vista, no?”, disse Kudda.

Hillalum non rispose. Per la prima volta aveva visto la notte per quel che era: l’ombra della terra stessa, gettata contro il cielo.

Dopo altri due giorni Hillalum si era abituato di più all’altezza. Per quanto fossero arrivati a quasi una lega in alto, poteva sopportare di rimanere in piedi sul bordo della rampa e di guardare in basso. Tenendosi a uno dei pilastri, si sporse con cautela e guardò verso l’alto. Si accorse che la torre non sembrava più un pilastro liscio.

Chiese a Kudda: “La torre sembra allargarsi in alto. Come può essere?”.

“Guarda più attentamente. Ci sono balconi di legno che sporgono dai lati della torre. Sono fatti di cipresso e sono sospesi a corde di lino”.

Hillalum socchiuse gli occhi: “Balconi? E per che cosa?”.

“C’è della terra sparsa sopra, così che ci si possa far crescere un po’ di verdura. A quest’altezza l’acqua è scarsa e quindi per lo più si tratta di cipolle. Più in alto, dove c’è più pioggia, vedrai anche fagioli”.

Nanni chiese: “Come può essere che sopra ci sia pioggia che non cade fino a qui?”.

Kudda lo guardò sorpreso: “Si asciuga nell’aria mentre cade, naturalmente”.

Nanni alzò le spalle: “Oh certo, è ovvio”.

Alla fine del giorno successivo raggiunsero il livello dei balconi. Erano piattaforme piene di cipolle, sostenute da pesanti corde fissate al muro appena sotto il ripiano successivo. Su ciascun livello c’erano numerose piccole stanze all’interno della torre, dove vivevano le famiglie dei carrettieri. Si vedevano donne che cucivano tuniche, sedute nei vani delle porte, oppure che cavavano le cipolle negli orti sospesi. I bambini si rincorrevano su e giù per le rampe, sgattaiolando tra i carretti e correndo sui bordi dei balconi senza alcun timore. Gli abitanti della torre individuavano facilmente i minatori, e tutti sorridevano e li salutavano.

Quando arrivò l’ora del pasto serale, tutti i carretti furono scaricati e il cibo e il resto furono presi per essere usati dalla gente lì. I carrettieri furono accolti dalle proprie famiglie e invitarono i minatori a unirsi a loro. Hillalum e Nanni mangiarono con la famiglia di Kudda e gustarono un buon pasto di pesce secco, pane, vino di datteri e frutta.

Hillalum vide che questa sezione della torre formava come una minuscola città che si stendeva tra due strade, la rampa di salita e quella di discesa. C’era un tempio nel quale venivano celebrati i riti delle feste; c’erano magistrati che dirimevano le dispute; c’erano negozi che venivano riforniti dalla carovana. La città era inseparabile dalla carovana: nessuna delle due poteva esistere senza l’altra. E tuttavia ogni carovana era essenzialmente un viaggio, qualcosa che cominciava in un posto e finiva in un altro. Questa città non era mai considerata come un luogo permanente, era soltanto parte di un viaggio lungo secoli.

Dopo cena chiese a Kudda e alla sua famiglia: “Qualcuno di voi ha mai visitato Babilonia?”.

Rispose Alitum, la moglie di Kudda: “E perché mai? È un lungo viaggio, e qui abbiamo tutto quello che ci serve”.

“Ma non avete nessun desiderio di camminare sulla terra?”.

Kudda alzò le spalle: “Viviamo sulla strada per il cielo; tutto il lavoro che facciamo è per portarla in su. Quando lasceremo la torre prenderemo la rampa verso l’alto, non quella verso il basso”.

Mentre i minatori salivano venne il giorno che la torre apparve uguale, dal bordo della rampa, sia che si guardasse in giù o in su. Verso il basso la torre si restringeva sino a scomparire, molto prima di raggiungere la pianura; e lo stesso succedeva verso l’alto. Tutto quel che si vedeva era una porzione della torre. Guardare in basso o in alto era terrificante, perché il conforto della continuità era sparito: non facevano più parte della terra. La torre avrebbe potuto essere un filo sospeso nell’aria, senza legami né con il cielo né con la terra.

C’erano momenti, a questo punto dell’ascesa, in cui Hillalum veniva preso dalla disperazione. Si sentiva disorientato ed estraniato dal mondo; era come se la terra l’avesse rifiutato per la sua mancanza di fede, mentre il cielo sdegnava di accettarlo. Desiderava che Yahweh desse un segno, per far sapere agli uomini che la loro impresa veniva approvata; come avrebbero altrimenti potuto trovarsi in un luogo che dava così poco conforto allo spirito?

Gli abitanti della torre, a questa altezza, non provavano alcun disagio. Accoglievano sempre i minatori con calore e auguravano la buona fortuna per il loro compito sulla volta. Vivevano nell’umida nebbia delle nuvole, vedevano i temporali dall’alto e dal basso, raccoglievano il grano sospesi nell’aria e mai si davano pensiero che quello potesse essere un luogo inappropriato per vivere. Non avevano bisogno di assicurazioni o incoraggiamenti divini e non erano turbati da alcun dubbio.

Con il passare delle settimane, il sole e la luna, al culmine del loro percorso quotidiano, raggiungevano un livello sempre più basso. La luna inondava il lato sud della torre della sua radiazione argentea, brillando come fosse l’occhio di Yahweh che li scrutava. Di lì a non molto si trovarono allo stesso livello della luna che passava: avevano raggiunto il primo dei corpi celesti. Guardarono il viso segnato della luna, meravigliati del suo moto equilibrato, indifferente a qualunque appoggio.

E quindi si avvicinarono al sole. Era estate, quando il sole apparve quasi a picco su Babilonia passando vicino alla torre. Questa sezione non era abitata e non c’erano balconi, perché il calore era tale da arrostire l’orzo. La malta tra i mattoni qui non era di bitume, che si sarebbe ammorbidito e liquefatto, ma di creta cotta dal calore. Come protezione contro le temperature del giorno, i pilastri lungo il bordo erano stati costruiti più larghi, fino a formare quasi un muro continuo che racchiudeva le rampe in gallerie provviste di strette fessure, le quali lasciavano passare solo il fischio del vento e lame di luce dorata.

Le squadre dei carrettieri, fino a questo punto, avevano viaggiato regolarmente, ma ora erano necessarie alcune modifiche. La mattina iniziavano sempre prima, per sfruttare maggiormente il buio. Al livello del sole viaggiavano solo di notte. Durante il giorno cercavano di dormire, nudi e sudati nella brezza calda. I minatori temevano che se si fossero addormentati si sarebbero arrostiti prima di potersi svegliare. Ma i carrettieri avevano fatto il viaggio molte volte senza perdere un solo uomo, e quando ebbero superato il livello del sole le cose tornarono come prima.

Ora la luce del giorno splendeva dal basso, cosa che ai più sembrava innaturale. Nel pavimento dei balconi erano stati lasciati spazi aperti, in modo da far passare la luce; le piante crescevano girate verso il basso, per catturare i raggi del sole.

Quindi si avvicinarono al livello delle stelle, piccole sfere di fuoco sparse da tutte le parti. Hillalum si era aspettato che fossero più fitte, ma anche contando quelle più piccole, invisibili dal livello del suolo, le stelle apparivano sparpagliate a una certa distanza fra loro. Non erano collocate tutte allo stesso livello, e occupavano in altezza un’estensione di due leghe. Era difficile dire quanto fossero distanti, perché non c’era alcuna indicazione della loro dimensione, ma ogni tanto ne passava qualcuna vicino, a incredibile velocità. Hillalum si rese conto che tutti gli oggetti in cielo si muovevano con una velocità simile, per poter traversare il mondo da un bordo all’altro nell’arco di un giorno.

Durante il giorno il cielo era di un blu molto più pallido di quanto apparisse dalla terra, segno che si stavano avvicinando alla volta. Studiando il cielo, Hillalum si sorprese che ci fossero stelle visibili di giorno. Non potevano essere viste dal suolo attraverso il bagliore del sole, ma da quell’altitudine erano ben distinguibili.

Un giorno Nanni corse da lui e disse: “Una stella ha colpito la torre!”.

“Cosa?”. Hillalum si guardò intorno in preda al panico, come fosse stato colpito.

“No, non adesso. È successo più di un secolo fa. Uno degli abitanti della torre sta raccontando la storia; suo nonno era lì”.

Entrarono nei corridoi e videro diversi minatori seduti intorno a un vecchio raggrinzito: “… si conficcò nei mattoni circa mezza lega sopra a noi. Potete ancora vedere il segno che ha lasciato; è come una grande cicatrice del vaiolo”.

“Ma che successe alla stella?”.

“Bruciava e sfrigolava, ed era così luminosa da non poter essere guardata. Gli uomini pensarono di sospingerla fuori, per farle riprendere il suo corso, ma era troppo calda perché ci si potesse avvicinare, e non osarono spegnerla. Dopo alcune settimane si raffreddò in una massa intricata di metallo del cielo, grande quanto può abbracciare un uomo”.

“Così grande?”, disse Nanni con la voce piena di timore. Quando le stelle cadevano sulla terra per conto loro, venivano talvolta trovati piccoli pezzi di metallo del cielo più duri del bronzo migliore. Il metallo non poteva essere fuso, così veniva martellato quando era scaldato al rosso; se ne facevano amuleti.

“Infatti, nessuno aveva mai sentito di una massa di tali dimensioni trovata sulla terra. Pensate che utensili se ne sarebbero potuti fare!”.

“Ma non avrete certo tentato di trasformarla in utensili?”, chiese Hillalum con orrore.

“Oh, no. Gli uomini avevano paura di toccarla. Tutti scesero dalla torre, aspettando il castigo di Yahweh per aver disturbato le opere della Creazione. Aspettarono per mesi ma non venne alcun segno. Poi tornarono ed estrassero la stella dal muro. Ora è conservata in un tempio giù in città”.

Calò il silenzio. Quindi uno dei minatori disse: “Non avevo mai sentito parlare di questa storia, tra quelle sulla torre”.

“È stata come una trasgressione, qualcosa di cui non si parla volentieri”.

Man mano che salivano più in alto, il colore del cielo diventava sempre più tenue finché un mattino, svegliandosi, Hillalum guardò dal bordo e lanciò un grido di sorpresa. Quello che prima sembrava un cielo pallido ora appariva come un bianco soffitto disteso lontano sopra la sua testa. Erano abbastanza vicini da percepire la volta del cielo, da vederla come un solido guscio che lo racchiudeva tutto. I minatori parlavano bisbigliando, imbambolati con lo sguardo fisso in alto, mentre gli abitanti della torre ridevano di loro.

Appena continuarono a salire furono colpiti da quanto si trovassero vicini. Il biancore li aveva ingannati, rendendo la volta non percepibile finché improvvisamente essa apparve quasi proprio sulle loro teste. Ora invece di salire verso il cielo essi salivano verso una pianura uniforme che si stendeva senza fine in tutte le direzioni.

Tutti i sensi di Hillalum erano disorientati a quella vista. Talvolta, quando guardava in su, gli sembrava che il mondo si fosse in qualche modo capovolto, e che se i suoi piedi si fossero staccati da terra sarebbe precipitato sulla volta. Quando invece la vedeva al suo posto, il suo peso gli sembrava oppressivo. La volta era uno strato pesante come il mondo intero, e tuttavia privo di alcun supporto. Provava quel terrore che mai aveva avuto nelle miniere: che il soffitto gli crollasse addosso.

C’erano poi momenti in cui sembrava che la volta fosse una parete verticale di incredibile altezza, che gli si innalzava di fronte e che la terra indistinta e lontana dietro di lui fosse un’altra parete, e che la torre fosse un cavo teso tra le due. Oppure, peggio ancora, per un istante gli sembrò che non ci fosse né sopra né sotto, e il suo corpo non riconobbe la direzione in cui era orientato. Era come il panico dell’altezza, ma molto peggio. Spesso sentiva di volersi svegliare come da un sonno senza fine, per poi ritrovarsi grondante di sudore, con le dita contratte che cercavano di afferrare il pavimento di mattoni.

Anche Nanni e molti degli altri minatori avevano spesso gli occhi appannati, per quanto nessuno parlasse mai di cosa disturbava il loro sonno. La salita divenne più lenta, invece che più veloce come si era aspettato il caposquadra Beli: la vista della volta procurava disagi e rallentamenti piuttosto che sollecitudine, e i carrettieri regolari cominciarono a spazientirsi. Hillalum si chiedeva che tipo di gente venisse forgiata dal vivere in queste condizioni: Come poteva sfuggire alla follia? Crescevano abituati a questo? I bambini cresciuti sotto un cielo solido avrebbero strillato di paura se avessero visto la terra sotto i loro piedi?

Forse gli uomini non erano fatti per vivere in un luogo simile. Se la loro natura si ribellava all’avvicinarsi così tanto al cielo, allora gli uomini sarebbero dovuti rimanere sulla terra.

Quando raggiunsero la sommità della torre il disorientamento sparì, o forse ne erano diventati immuni. Qui, in piedi sulla piattaforma quadrata alla sommità, i minatori fissarono la scena più terrificante mai vista da esseri umani: lontano sotto di loro si stendeva una tappezzeria di terra e mare velata dalla foschia, che dilagava in tutte le direzioni a perdita d’occhio. Proprio sopra di loro era appeso il tetto del mondo, l’assoluto limite superiore del cielo, che rendeva il loro punto di vista il più alto possibile. Qui c’era tanto della creazione quanto se ne poteva afferrare in una volta sola.

I sacerdoti intonarono una preghiera a Jahweh; lo ringraziarono per aver permesso loro di vedere tanto e invocarono perdono per il loro desiderio di vedere di più.

E sulla cima vennero collocati i mattoni. Si sentiva l’odore denso e aspro del catrame che si levava dai crogiuoli infuocati nei quali i blocchi di bitume venivano liquefatti. Era l’odore più terreno che i minatori avessero sentito in quattro mesi e le loro narici cercavano disperatamente di catturarne un soffio prima che fosse portato via dal vento. Qui alla sommità, dove la melma che una volta fuoriusciva dalle crepe della terra diventava solida per tenere insieme i mattoni, la terra protendeva una parte di sé nel cielo.

Qui lavoravano i muratori, uomini sporchi di bitume che preparavano la malta e disponevano abilmente i mattoni, con precisione assoluta. Meno di chiunque altro essi potevano permettersi di provare vertigine nel guardare la volta, perché la torre non poteva allontanarsi neanche di un’unghia dalla verticale. Si stavano avvicinando alla fine del proprio compito, e finalmente, dopo quattro mesi di ascesa, i minatori erano pronti a iniziare il loro.

Gli egiziani arrivarono poco dopo. Erano scuri di pelle e di corporatura snella, con rade barbe sul mento. Avevano tirato carretti carichi di martelli di basalto, scalpelli di bronzo e cunei di legno. Il caposquadra, che si chiamava Senmut, discusse con Beli, il caposquadra degli elamiti, su come affrontare la volta. Gli egiziani costruirono una forgia con quello che si erano portati dietro, e così fecero gli elamiti, per rifondere gli attrezzi di bronzo che si sarebbero spuntati durante lo scavo.

La volta si trovava ora appena sopra le dita di un uomo con le braccia allungate in alto; al toccarla, saltando, era fredda e liscia. Sembrava fatta di granito bianco a grana fine, uniforme e assolutamente privo di segni. E questo appariva un problema.

Molto tempo prima Yahweh aveva scatenato il Diluvio, liberando le acque sia da sotto che da sopra; le acque dell’Abisso avevano fatto irruzione dalle sorgenti della terra e le acque del cielo erano precipitate dalle aperture nella volta. Ora gli uomini vedevano la volta da vicino, e non c’era neanche la minima fessura. Scrutarono in ogni direzione, ma nessuna apertura, nessuno sportello, nessuna linea di giunzione interrompeva la distesa di granito.

Sembrava che la loro torre avesse incontrato la volta in un punto tra quelli che dovevano essere i grandi serbatoi, il che era senz’altro una buona cosa. Se nei pressi ci fosse stata una qualche saracinesca, avrebbero potuto rischiare di danneggiarla e di far svuotare il serbatoio. Questo avrebbe significato pioggia per Shinar, ma fuori stagione e più fitta delle piogge invernali; e avrebbe causato inondazioni lungo l’Eufrate. La pioggia sarebbe presumibilmente finita quando il serbatoio si fosse svuotato, ma c’era sempre la possibilità che Yahweh li volesse punire e far continuare la pioggia fino a che la torre fosse crollata e Babilonia dissolta nel fango.

Il rischio c’era ancora, anche se non c’erano tracce visibili. Forse le aperture non erano percepibili a occhi mortali e c’era un serbatoio proprio sopra di loro.

Ci fu un gran discutere su quale fosse il modo migliore di procedere.

“Di certo Yahweh non spazzerà via la torre”, argomentò Qurdusa, uno dei muratori. “Se la torre fosse sacrilegio, Yahweh l’avrebbe già distrutta. E per tutti i secoli che abbiamo lavorato non abbiamo visto neanche il più piccolo segno del suo dispiacere. Se c’è un serbatoio, Yahweh lo prosciugherà prima che lo raggiungiamo”.

“Se Yahweh avesse visto con tanto favore quest’impresa, nella volta ci sarebbe già una scala, pronta per noi”, lo contraddisse Eluti, un elamita. “Yahweh non ci aiuterà né ci ostacolerà; se perforeremo un serbatoio, dovremo affrontare l’impeto dell’acqua”.

Hillalum non poté più trattenere i suoi dubbi. “E se le acque fossero senza fine?”, chiese. “Yahweh può anche non punirci, ma può lasciare che ci puniamo da noi stessi”.

“Elamita”, disse Qurdusa, “anche per essere un novellino dovresti saperne di più. La nostra fatica viene dal nostro amore per Yahweh: abbiamo fatto questo per l’intera vita e così hanno fatto i nostri padri per generazioni e generazioni. Uomini devoti come noi non possono essere giudicati così duramente”.

“Anche se è vero che lavoriamo con le intenzioni più pure, questo non significa che abbiamo operato con saggezza. Gli uomini hanno veramente scelto la giusta via, quando hanno deciso di vivere le proprie vite lontano dal suolo dal quale hanno avuto forma? Yahweh non ha neanche mai palesato che la scelta fosse corretta. Ora siamo qui, pronti a bucare il cielo, anche se sappiamo che sopra di noi ci può essere l’acqua. Se la nostra scelta è sbagliata, come possiamo essere sicuri che Yahweh ci protegga dai nostri errori?”.

“Hillalum suggerisce prudenza, e io sono d’accordo”, disse Beli.

“Dobbiamo essere sicuri di non provocare un secondo Diluvio sulla terra, e neanche una pericolosa pioggia su Shinar. Ho parlato con Senmut, l’egiziano, e mi ha spiegato i procedimenti che usano per sigillare le tombe dei loro re. Credo che questi metodi possano garantirci una certa sicurezza, quando cominceremo a scavare”.

I preti sacrificarono il bue e la capra durante una cerimonia nella quale furono dette molte parole devote e fu bruciato molto incenso; e i minatori iniziarono il loro lavoro.

Molto prima che raggiungessero la volta era stato chiaro che non si sarebbe potuto scavare solo con martelli e picconi: anche se avessero scavato orizzontalmente, nel granito non sarebbero andati avanti più di due dita al giorno, e scavare in alto sarebbe stato molto più lento. E così adoperarono il fuoco.

Con il legname che era stato portato su accesero un falò, alimentato costantemente per tutto un giorno. Al calore della fiamma la roccia cominciò a creparsi e a frantumarsi. Dopo aver lasciato che il fuoco si esaurisse i minatori gettarono acqua sulla volta, per favorire la frantumazione. Poterono così spezzare la pietra in larghi frammenti, che cadevano pesantemente sulla torre. In questo modo riuscirono ad avanzare di quasi un cubito per ciascun giorno che il fuoco bruciava.

Il tunnel non si sarebbe innalzato verticalmente, ma con la pendenza di una scalinata; quindi costruirono una rampa di gradini che dalla torre arrivava sino all’imboccatura. Il fuoco lasciava le pareti lisce, e gli uomini misero in opera un traliccio di scalini in legno per non scivolare all’indietro. Per far bruciare la legna alla fine del tunnel utilizzavano una piattaforma di mattoni cotti.

Quando lo scavo raggiunse i dieci cubiti all’interno della volta, lo livellarono e lo ampliarono per formare una stanza. Dopo che i minatori ebbero rimosso tutta la pietra indebolita dal fuoco, subentrarono gli egiziani. Essi non usavano il fuoco. Utilizzando soltanto le loro mazze di basalto, iniziarono a ricavare una porta scorrevole dal granito.

Prima di tutto scalpellarono via la pietra per tagliare un immenso blocco di granito da uno dei muri. Hillalum e gli altri minatori cercarono di collaborare, ma trovarono la cosa molto difficile: non si doveva togliere via la pietra frantumandola man mano, ma la si doveva scheggiare via con un solo colpo di martello ben calibrato, né troppo leggero né troppo forte.

Dopo qualche settimana il blocco era pronto. Era più alto di un uomo, e anche più largo. Per liberarlo dal pavimento, intagliarono alcune scanalature intorno alla base e ci batterono dentro cunei di legno asciutto. Poi in questi spinsero a forza cunei più piccoli, e gettarono acqua nelle fessure per far gonfiare il legno. Nel giro di poche ore una crepa si fece strada nella pietra, e il blocco fu liberato.

Nella parte posteriore della stanza, sul lato destro, i minatori scavarono uno stretto corridoio inclinato verso l’alto, e nel pavimento di fronte all’ingresso intagliarono una scanalatura verso il basso, profonda un cubito. C’era così un canale liscio e continuo, tagliato attraverso il pavimento subito davanti all’ingresso, che finiva alla sua sinistra. In questo canale gli egiziani collocarono il blocco di granito. Lo trascinarono e lo spinsero nel corridoio laterale, dove entrava appena, e lo bloccarono al suo posto con un pilastro di mattoni piatti di argilla, che arrivava fino alla cima del muro di sinistra.

Con questa porta scorrevole di pietra, assicurata al suo posto, i minatori potevano tranquillamente continuare a scavare. Se avessero raggiunto un serbatoio, e le acque del cielo avessero cominciato a scorrere per il tunnel, avrebbero infranto il pilastro di mattoni e il blocco sarebbe scivolato giù per il canale fino a fermarsi davanti all’ingresso, bloccandolo completamente. Se l’acqua avesse avuto tale impeto da spazzar via gli uomini dal tunnel, i mattoni di argilla si sarebbero gradatamente dissolti e il blocco sarebbe comunque scivolato giù. L’acqua sarebbe quindi stata trattenuta e i minatori avrebbero potuto ricominciare a scavare in un’altra direzione, evitando il serbatoio.

I minatori usarono ancora il fuoco per far avanzare il tunnel. Per favorire la circolazione dell’aria, alcune pelli di bue stese su grandi telai furono collocate obliquamente a ciascun lato dell’ingresso del tunnel, in cima alla torre. Il vento continuo che soffiava sotto la volta del cielo veniva così deviato in alto, dentro il tunnel; teneva vivo il fuoco e rinnovava l’aria dopo la combustione, in modo che i minatori potessero scavare senza respirare il fumo.

Dopo aver predisposto la porta scorrevole, gli egiziani non smisero di lavorare. Mentre i minatori lavoravano con i loro picconi, essi si dedicarono a intagliare una scala nella solida roccia, per sostituire gli scalini di legno. Continuarono ad adoperare i cunei di legno, e i blocchi che rimuovevano lasciavano al loro posto scalini di pietra.

Così lavorarono i minatori, portando il tunnel sempre più avanti. La direzione dello scavo veniva invertita a intervalli regolari, come un filo su una gigantesca cucitura, in modo da procedere sempre verso l’alto. Ricavarono altre stanze provviste di porte scorrevoli, così che soltanto la parte superiore del tunnel sarebbe stata inondata se fosse stato raggiunto un serbatoio. Sulla superficie della volta del cielo intagliarono appigli ai quali sospendere passerelle e piattaforme; da queste, a distanza dalla torre, scavarono tunnel laterali che poi raggiungevano quello principale. Il vento veniva poi incanalato in questi tunnel secondari, per assicurare la ventilazione e far fuoriuscire il fumo dalle zone più alte.

Il lavoro continuò per anni. Le squadre dei carrettieri non portavano più mattoni, ma legna e acqua per gli scavi a fuoco. Venne gente ad abitare nelle parti inferiori dei tunnel, e sulle piattaforme sospese furono coltivati orti pensili. I minatori vivevano sul bordo del cielo; qualcuno si sposò e crebbe figli. Pochi rimisero ancora i piedi sulla terra.

Con un panno bagnato avvolto intorno al viso, Hillalum saltò sulla roccia da uno scalino di legno, dopo aver alimentato il fuoco all’estremità del tunnel. Il fuoco avrebbe bruciato per molte ore, e lui sarebbe sceso ad aspettare nella parte inferiore del tunnel, dove l’aria non era così densa di fumo.

Ma ci fu un frastuono lontano, il rumore di una montagna di pietra che si spacca in frantumi, e poi un ruggito crescente. Quindi un torrente d’acqua venne giù dal tunnel.

Per un attimo Hillalum rimase paralizzato dal terrore. L’acqua gelida gli avvolse le gambe, gettandolo a terra. Si rialzò boccheggiando, aggrappandosi agli scalini chino in avanti, contro la corrente.

Avevano perforato un serbatoio.

Doveva arrivare fino alla porta scorrevole più vicina, prima che si richiudesse. Le sue gambe volevano correre giù, ma sapeva che non sarebbe riuscito a restare in piedi se avesse lasciato l’appiglio, e farsi trascinare dalla corrente impetuosa avrebbe significato essere sbattuto di qua e di là fino alla morte. Il più velocemente possibile, sempre chino, ridiscese gli scalini aggrappandosi ora all’uno ora all’altro.

Scivolò ripetutamente, ogni volta trascinato giù per una dozzina di scalini, urtando violentemente senza sentire il dolore. Non poteva far altro che pensare che il tunnel sarebbe crollato schiacciandolo, oppure che l’intera volta si sarebbe spalancata e che il cielo si sarebbe aperto sotto i suoi piedi, e che sarebbe precipitato a terra insieme alla pioggia torrenziale. Era giunta la punizione di Yahweh, il secondo Diluvio.

Quanto mancava alla porta scorrevole? Il tunnel sembrava sempre più lungo, e l’acqua scorreva sempre più velocemente, facendolo rotolare giù per gli scalini.

All’improvviso si ritrovò ad annaspare nell’acqua bassa, incespicando. Era arrivato alla fine degli scalini, cadendo nella stanza della porta scorrevole, con l’acqua fino alle ginocchia.

Si rialzò e vide Damqiya e Ahuni, due minatori. Stavano davanti alla pietra che già aveva bloccato l’uscita.

“No!”, esclamò.

“L’hanno chiusa!”, gridò Damqiya. “Non hanno aspettato!”.

“E gli altri?”, chiese Ahuni, disperato. “Insieme potremmo spingere la porta”.

“Non c’è nessun altro”, rispose Hillalum. “E quelli dall’altra parte? Possono aprirci?”.

“Non ci possono sentire”. Ahuni colpì il granito con una mazza senza che si sentisse alcun suono nel fragore dell’acqua.

Hillalum si guardò intorno, e solo allora vide un egiziano che galleggiava prono nell’acqua.

“È morto cadendo giù per la scala”, gridò Damqiya.

“C’è qualcosa che possiamo fare?”.

Ahuni alzò gli occhi: “Yahweh, risparmiaci”.

I tre rimasero nell’acqua che saliva, pregando disperatamente. Ma Hillalum sapeva che le preghiere erano vane: il suo destino era arrivato alla fine. Yahweh non aveva chiesto agli uomini di costruire la torre o di perforare la volta del cielo; la scelta era solo degli uomini, e sarebbero morti nell’impresa esattamente come morivano in qualunque altra attività terrena. La devozione non li avrebbe salvati dalle conseguenze delle loro azioni.

L’acqua era arrivata al petto: “Risaliamo”, gridò Hillalum.

Si arrampicarono faticosamente su per il tunnel, contro la corrente, mentre l’acqua cresceva dietro di loro. Le poche torce si erano consumate, salivano nell’oscurità mormorando preghiere che non potevano sentire. Gli scalini di legno all’estremità del tunnel erano stati divelti e si erano accatastati più in basso. Si arrampicarono oltre e raggiunsero il ripiano in pendenza, e lì aspettarono che l’acqua li sollevasse più in alto.

Esaurite le preghiere, aspettavano in silenzio. Hillalum immaginò di trovarsi nella nera gola di Yahweh, quando l’onnipotente avesse bevuto le acque del cielo ingoiando i peccatori.

L’acqua salì e li porto in su, finché Hillalum poté toccare il soffitto con le dita. La gigantesca spaccatura dalla quale sgorgava l’acqua era proprio lì vicino. Era rimasta solo una piccola sacca d’aria. Hillalum gridò: “Quando non c’è più aria nuotiamo verso l’alto”.

Non sapeva se l’avessero sentito. Inspirò l’ultima boccata d’aria appena l’acqua raggiunse il soffitto, e nuotò su per la spaccatura. Sarebbe morto più vicino al cielo di qualunque altro uomo prima di lui.

La spaccatura si estendeva per diversi cubiti. Appena Hillalum l’ebbe superata, lo strato di roccia scivolò via da sotto le sue dita e le sue membra doloranti non toccarono nulla. Per un attimo sentì una corrente che lo trasportava, ma poi non ne fu più sicuro. Circondato solo dal buio, provò ancora quell’orribile vertigine che aveva sperimentato quando si era avvicinato alla volta celeste: non poteva distinguere alcuna direzione, neanche il sopra e il sotto. Spinse e scalciò, senza sapere se si stava muovendo.

Inerme, forse stava fluttuando nell’acqua ferma, forse veniva trascinato furiosamente dalla corrente; sentiva solo il freddo che lo intirizziva. Non poteva scorgere alcuna luce. Ma non c’era qualche superficie, alla quale poter arrivare?

Poi fu di nuovo sbattuto contro la pietra. Le mani sentirono una fessura nella roccia. Era tornato da dove era partito? Veniva spinto dentro, senza aver la forza di resistere, trascinato e sballottato contro le pareti del passaggio. Era incredibilmente profondo, come la più lunga galleria di una miniera; sentiva bruciare i polmoni, ma non era ancora alla fine. Non poté più trattenere il respiro, che fuggì dalle sue labbra. Stava annegando, e l’oscurità intorno a lui gli stava entrando nei polmoni.

All’improvviso le pareti si aprirono via da lui. Veniva sospinto da una corrente irresistibile. Sentì l’aria sopra l’acqua! E poi non sentì più nulla.

Hillalum si svegliò con il viso premuto sulla roccia bagnata. Non poteva vedere nulla, ma le mani toccavano l’acqua. Si girò gemendo; gli doleva ogni parte del corpo, era nudo e con la pelle scorticata e raggrinzita dall’immersione, ma respirava aria.

Dopo qualche tempo riuscì finalmente ad alzarsi. L’acqua gli scorreva velocemente intorno alle caviglie. Muovendo qualche passo, da una parte l’acqua diventava più profonda, dall’altra c’era roccia asciutta; scisto argilloso, a quel che sembrava.

Era completamente buio, come in una miniera senza torce. Tastando con le dita seguì il suolo finché esso si alzò e divenne una parete. Lentamente, come una creatura cieca, strisciò avanti e indietro. Trovò la sorgente dell’acqua, una larga apertura nel suolo. E ricordò! Era stato rigettato su dal serbatoio attraverso questa apertura. Continuò a strisciare per quelle che gli parvero ore; si trovava in una caverna, ed era immensa. Trovò un posto dove il suolo si alzava in un pendio. C’era forse un passaggio che portava sopra? Forse poteva ancora condurlo fino al cielo.

Hillalum continuò a strisciare, senza alcuna idea del passare del tempo, senza curarsi di essere in grado di rifare il cammino all’indietro, perché comunque non sarebbe potuto tornare al punto di partenza. Quando incontrava un passaggio verso l’alto, lo seguiva, ma quando non c’era scelta si trovava a ritornare verso il basso. Pur avendo inghiottito più acqua di quanto ritenesse possibile, cominciò ad avere sete, e ad avere fame.

E finalmente vide una luce, e corse verso l’esterno.

Rimase abbagliato e chiuse gli occhi, cadendo sulle ginocchia, con i pugni premuti sul viso. Era questo lo splendore di Yahweh? I suoi occhi avrebbero potuto sostenerlo? Qualche minuto dopo riuscì ad aprirli, e vide il deserto. Era emerso da una grotta alle pendici di una qualche montagna, e roccia e sabbia si estendevano fino all’orizzonte.

Il cielo era dunque proprio come la terra? Yahweh abitava in un simile posto? O questo era solo un altro regno creato da Yahweh, sopra a quello che lui conosceva, mentre Yahweh risiedeva ancora più in alto?

Un sole stava sopra la cima della montagna dietro di lui. Stava sorgendo o tramontando? C’erano anche qui giorni e notti?

Hillalum scrutò il paesaggio sabbioso. Una linea si muoveva lungo l’orizzonte. Forse una carovana?

Corse verso di essa, gridando con la gola bruciata fino a rimanere senza fiato. Una sagoma alla fine della carovana lo vide, e fece fermare tutta la linea. Hillalum riprese a correre.

Quello che lo aveva visto sembrava un uomo, non uno spirito, ed era vestito come la gente del deserto. Aveva una borraccia pronta. Hillalum bevve più che poté, respirando affannosamente.

Finalmente restituì la borraccia e riuscì a dire: “In che posto siamo?”.

“Intendi dire dov’è che sei stato attaccato dai predoni? Questa è la strada per Erech”.

Hillalum sbarrò gli occhi. “Mi stai prendendo in giro!”, gridò. L’uomo fece un passo indietro e lo guardò come se avesse preso un colpo di sole. Hillalum vide che un altro uomo della carovana veniva verso di loro per capire cosa stesse succedendo. “Erech si trova a Shinar!”.

“Certo. Non stai andando a Shinar?”. L’altro uomo rimaneva guardingo, pronto con il suo bastone.

“Io vengo da… Io stavo a…”. Hillalum si bloccò. “Conosci Babilonia?”.

“Oh, è lì che sei diretto? È a nord di Erech. Da lì è un viaggio agevole”.

“La torre. Avete sentito della torre?”.

“Certo, il pilastro verso il cielo. Si dice che gli uomini sulla cima stiano scavando nella volta del cielo”.

Hillalum cadde sulla sabbia.

“Ti senti bene?”. I due carovanieri confabularono tra loro e andarono a parlare con gli altri. Hillalum non li guardava.

Era a Shinar. Era ritornato sulla terra. Era salito al di sopra dei serbatoi del cielo ed era ritornato sulla terra. Forse Yahweh l’aveva portato lì per impedirgli di andare oltre? Ma Hillalum non aveva visto alcun segno, nessuna indicazione da parte di Yahweh. Nessun miracolo l’aveva condotto in quel posto. Per quel che ne sapeva, aveva semplicemente nuotato fuori dalla volta del cielo e si era trovato nella grotta lì sotto.

In qualche modo la volta stava sotto la terra. Era come se stessero l’una contro l’altra, per quanto separate da molte leghe. Come poteva essere? Come potevano toccarsi luoghi così distanti? Nel pensarci, a Hillalum girava la testa.

E quindi ci arrivò: un sigillo cilindrico. Quando lo si faceva rotolare su una tavoletta di argilla, il cilindro inciso lasciava un’impronta che formava un’immagine. Due figure potevano apparire alle opposte estremità della tavoletta anche se stavano fianco a fianco sulla superficie del cilindro. Il mondo intero era un cilindro di questo tipo. Gli uomini pensavano il cielo e la terra come fossero alle estremità della tavoletta, con in mezzo il sole e le stelle; in realtà il mondo era avvolto su sé stesso in qualche modo fantastico così che il cielo e la terra si toccavano.

Adesso era chiaro perché Yahweh non aveva abbattuto la torre, perché non aveva punito gli uomini per essere voluti andare oltre i limiti fissati per essi: perché il viaggio più lungo non avrebbe fatto altro che riportarli dove lo avevano iniziato. Secoli di fatiche non avrebbero rivelato sulla Creazione niente che già non sapessero. Ma per mezzo della loro impresa gli uomini avrebbero intravisto l’inimmaginabile arte di Yahweh, nel constatare quanto ingegnosamente il mondo fosse stato creato. Attraverso il mondo l’opera di Yahweh era rivelata, e attraverso il mondo l’opera di Yahweh era occultata.

E così gli uomini avrebbero conosciuto il loro posto.

Hillalum si alzò in piedi, le gambe malferme per il timore reverenziale, e guardò i carovanieri. Sarebbe tornato a Babilonia. Forse avrebbe rivisto Lugatum. Avrebbe mandato un messaggio a quelli in cima alla torre. Gli avrebbe detto della forma del mondo.