4.
Lunedì 23 dicembre - giovedì 26 dicembre
Erika si era fermata a casa di Mikael Blomkvist per tutto il fine settimana. Nel complesso, avevano lasciato il letto solo per andare in bagno o preparare da mangiare, ma non avevano solo fatto l’amore; erano anche stati ore a discutere del futuro, valutando conseguenze, possibilità e previsioni. All’alba del lunedì mattina, l’antivigilia di Natale, Erika gli aveva dato il bacio di arrivederci — alla prossima — ed era tornata a casa dal marito.
Mikael trascorse il lunedì prima lavando i piatti e facendo ordine nell’appartamento, e poi andando a piedi in redazione per ripulire la sua stanza. Non aveva pensato nemmeno per un secondo di rompere con il giornale, ma alla fine aveva convinto Erika che per un certo periodo sarebbe stato importante separare Mikael Blomkvist dalla rivista Millennium. Per il momento aveva intenzione di lavorare da casa, dal suo appartamento in Bellmansgatan.
Era solo in redazione. Gli uffici erano chiusi per Natale e i collaboratori avevano preso il volo. Stava sistemando libri e scartoffie dentro uno scatolone quando suonò il telefono.
«Vorrei parlare con Mikael Blomkvist» disse una voce speranzosa ma sconosciuta dall’altra parte del filo.
«Sono io.»
«Mi perdoni se la disturbo il giorno dell’antivigilia. Mi chiamo Dirch Frode.» Mikael annotò automaticamente il nome e l’ora. «Sono un avvocato e rappresento un cliente che sarebbe molto felice di poter avere un colloquio con lei.»
«Be’, dica pure al suo cliente di telefonarmi.»
«Intendevo dire che desidererebbe incontrarla di persona.»
«Okay, fissiamo un appuntamento e me lo mandi su in ufficio. Ma cerchi di fare in fretta, perché sto giusto sgombrando la scrivania.»
«Il mio cliente le sarebbe molto grato se fosse lei ad andare da lui. Abita a Hedestad — col treno ci vogliono solo tre ore.»
Mikael smise di sistemare le sue scartoffie. I mass-media hanno la strana capacità di attirare la gente più squinternata che telefona per dire le cose più assurde. Ogni singola redazione di giornale al mondo riceve chiamate da ufologi, grafologi, scientologi, paranoici e teorici della cospirazione di tutti i tipi.
Una volta, Mikael aveva ascoltato una conferenza in relazione all’anniversario dell’omicidio del primo ministro Olof Palme. La conferenza era assolutamente seria e fra il pubblico c’erano alcuni vecchi amici di Palme. Ma anche un numero stupefacente di detective privati. Uno di loro era una donna sulla quarantina che al momento delle obbligatorie domande aveva afferrato il microfono e poi abbassato la voce in un bisbiglio appena percettibile. Già questo lasciava presagire un interessante sviluppo e nessuno rimase particolarmente sorpreso quando la donna esordì affermando: «Io so chi ha ucciso Olof Palme.» Dalla platea le fu suggerito con una certa ironia che, se davvero era in possesso di questa informazione esplosiva, sarebbe stato di un certo interesse comunicarla a chi si occupava dell’inchiesta. Lei aveva subito replicato in un sussurro: «Non posso — è troppo pericoloso!»
Mikael si domandò se Dirch Frode non fosse un altro ancora nella schiera dei convinti paladini della verità che pensavano di svelare l’ubicazione della clinica psichiatrica segreta dove i Servizi di sicurezza conducevano esperimenti sul controllo del cervello.
«Non faccio visite a domicilio» rispose tagliando corto.
«In tal caso spero di riuscire a convincerla a fare un’eccezione. Il mio cliente è ultraottantenne e per lui venire a Stoccolma costituisce un’impresa faticosa. Se lei insiste possiamo certamente organizzare qualcosa, ma a essere sinceri sarebbe preferibile se lei potesse avere la gentilezza di…»
«Chi è il suo cliente?»
«Una persona di cui sospetto abbia già sentito parlare nell’ambito della sua professione. Henrik Vanger.»
Mikael si lasciò andare contro lo schienale, stupefatto. Henrik Vanger — altroché se aveva sentito parlare di lui. Capitano d’industria ed ex amministratore delegato del Gruppo Vanger, che un tempo era stato sinonimo di segherie, foreste, miniere, acciaio, industria metallurgica e tessile, produzione ed esportazione. Henrik Vanger era stato uno degli autentici grandi industriali della sua epoca, con fama di essere un uomo integro, un patriarca all’antica che non si piegava nel vento pungente. Apparteneva all’abc della vita economica svedese, uno della vecchia scuola, la spina dorsale dell’industria dello stato sociale e via dicendo.
Ma il Gruppo Vanger, tuttora un’impresa di famiglia, negli ultimi venticinque anni era stato devastato da razionalizzazioni strutturali, crisi di Borsa, crisi dei tassi, concorrenza dall’Asia, calo nell’export e altre seccature che nell’insieme avevano spostato il nome Vanger in acque stagnanti. La società era attualmente guidata da Martin Vanger, nome che Mikael associava a un tipo grassoccio dalla folta capigliatura che qualche volta era passato sullo schermo televisivo ma che lui non conosceva granché bene. Henrik Vanger era lontano dalla ribalta da almeno vent’anni, e Mikael non sapeva nemmeno che fosse ancora vivo.
«Perché Henrik Vanger mi vorrebbe incontrare?» fu la domanda naturalmente conseguente.
«Sono spiacente. Io sono l’avvocato di Henrik Vanger da molti anni ma tocca a lui spiegare che cosa vuole. Però posso almeno anticiparle che desidera discutere con lei di un eventuale lavoro.»
«Lavoro? Io non ho la minima intenzione di cominciare a lavorare per il Gruppo Vanger. Avete bisogno di un addetto stampa?»
«Non è esattamente quel genere di lavoro. Non saprei come esprimermi oltre che dire che Henrik Vanger è particolarmente ansioso di poterla incontrare per consultarla su una questione privata.»
«Lei è ambiguo più di quanto sia lecito.»
«Le chiedo scusa per questo. Ma c’è qualche possibilità di riuscire a convincerla a fare una piccola visita a Hedestad? Naturalmente paghiamo noi il viaggio oltre a un ragionevole compenso.»
«Forse non è il momento più opportuno. Ho parecchio da fare e… suppongo che abbia visto i titoli dei giornali su di me in questi ultimi giorni.»
«L’affare Wennerström?» Dirch Frode scoppiò in una risata chioccia dall’altra parte del filo. «Sì, ha avuto un certo valore di intrattenimento. Ma per dire la verità è stata proprio l’attenzione intorno al processo a far sì che Henrik Vanger si accorgesse di lei.»
«Ah sì? E quando vorrebbe ricevere la mia visita il signor Vanger?» volle sapere Mikael.
«Il più presto possibile. Domani è la vigilia e suppongo che lei voglia tenersi libero. Che ne dice del giorno di Santo Stefano? Oppure in qualche momento fra Natale e Capodanno?»
«C’è fretta, dunque. Mi spiace, ma se non mi viene fornita una ragionevole indicazione di quale sia lo scopo della visita, allora…»
«Senta, le assicuro che l’invito è assolutamente serio. Il mio cliente desidera consultare proprio lei e nessun altro. Vuole offrirle un incarico free-lance, se le può interessare. Io sono solo un messaggero. Di che cosa si tratti in concreto, deve spiegarglielo lui.»
«Questa è una delle conversazioni più assurde che ho avuto da tempo. Mi ci lasci riflettere. Come posso contattarla?»
Dopo aver posato il ricevitore, Mikael rimase seduto a fissare la confusione sulla scrivania. Non riusciva assolutamente a capire perché mai Henrik Vanger volesse incontrarlo. Mikael in realtà non era particolarmente interessato a recarsi a Hedestad, ma l’avvocato Frode era riuscito a stimolare la sua curiosità.
Accese il computer, andò su Google e fece una ricerca sul Gruppo Vanger. Ottenne centinaia di risultati — il gruppo poteva anche essere in acque stagnanti, ma era citato più o meno quotidianamente dai media. Salvò una dozzina di articoli che analizzavano la società e quindi cercò nell’ordine Dirch Frode, Henrik Vanger e Martin Vanger.
Martin Vanger compariva regolarmente in qualità di attuale amministratore delegato del gruppo. L’avvocato Dirch Frode manteneva un profilo basso, era membro del consiglio d’amministrazione del golf club di Hedestad e menzionato anche in relazione al Rotary. Henrik Vanger compariva — con una sola eccezione — unicamente in relazione a testi che parlavano di com’era nato il Gruppo Vanger. Il quotidiano locale Hedestads-Kuriren tuttavia aveva dato rilievo due anni prima all’ottantesimo compleanno dell’industriale, e il reporter ne aveva tracciato un veloce profilo. Mikael stampò alcuni dei testi che sembravano contenere della sostanza e mise insieme un fascicolo di una cinquantina di pagine. Quindi finì di ripulire la scrivania, chiuse gli scatoloni e se ne andò a casa. Non sapeva quando o se sarebbe tornato.
Lisbeth Salander trascorse la vigilia di Natale alla casa di cura di Äppelviken a Upplands-Väsby. Aveva portato con sé dei regali, un’eau de toilette di Dior e un dolce natalizio inglese acquistato da Åhléns. Mentre beveva il caffè, osservava la donna di quarantasei anni che con dita maldestre cercava di disfare il nodo del nastro legato intorno a uno dei regali. Nello sguardo di Lisbeth c’era tenerezza, ma non cessava mai di stupirsi per il fatto che la donna di fronte a lei fosse sua madre. Per quanto ci provasse, non riusciva a trovare traccia della minima somiglianza, né nell’aspetto fisico né nella personalità.
Alla fine la madre abbandonò i suoi sforzi e guardò disarmata il pacchetto. Non era una delle sue giornate migliori. Lisbeth Salander spinse verso di lei le forbici che erano state tutto il tempo bene in vista sul tavolo, e la madre d’improvviso si illuminò, rianimandosi.
«Devi proprio pensare che sono una stupida.»
«No, mamma. Tu non sei stupida. Ma la vita è ingiusta.»
«Hai visto tua sorella?»
«No, è da tanto che non la vedo.»
«Non viene mai a trovarmi.»
«Lo so, mamma. Non viene mai neanche da me.»
«Tu stai lavorando?»
«Sì, mamma. Me la cavo bene.»
«Dove abiti adesso? Non so nemmeno dove abiti.»
«Sto nel tuo vecchio appartamento di Lundagatan. Sono anni che ci abito. Ho potuto rilevare il contratto.»
«Magari ora di quest’estate potrò venire a trovarti.»
«Certo. Quest’estate.»
La madre alla fine riuscì ad aprire il regalo e annusò deliziata il profumo. «Grazie, Camilla» disse.
«Lisbeth. Io sono Lisbeth. Camilla è mia sorella.»
La madre assunse un’aria imbarazzata. Lisbeth Salander propose di andare nella sala tv.
Mikael Blomkvist trascorse il tardo pomeriggio della vigilia facendo visita alla figlia Pernilla che stava con la ex moglie Monica e il suo nuovo marito nella villa di Sollentuna. Aveva portato i regali di Natale per Pernilla; dopo averne discusso con Monica, si erano messi d’accordo di regalare alla figlia un iPod, un lettore mp3 non più grande di una scatola da fiammiferi ma capace di ospitare tutta la raccolta di dischi di Pernilla. Che era piuttosto vasta. Era stato un acquisto non poco costoso.
Padre e figlia trascorsero un’oretta in compagnia nella stanza della ragazza al piano di sopra. Mikael e la mamma di Pernilla si erano separati quando lei aveva solo cinque anni, e a sette aveva trovato un nuovo papà. Non che Mikael avesse evitato i contatti; Pernilla andava da lui qualche volta al mese e trascorreva vacanze di una settimana nella casetta di Sandhamn. Non era nemmeno vero che Monica cercasse di ostacolare i contatti o che Pernilla non si trovasse a suo agio in compagnia del padre — al contrario, nel tempo che passavano insieme andavano il più delle volte d’amore e d’accordo. Ma Mikael aveva essenzialmente lasciato decidere alla figlia con quale intensità volesse avere contatti con lui, in particolare dopo che Monica si era risposata. C’erano stati alcuni anni all’inizio dell’adolescenza in cui il contatto si era quasi interrotto, e solo negli ultimi due anni lei aveva manifestato il desiderio di vederlo più spesso.
La figlia aveva seguito il processo con la ferma convinzione che le cose stessero come Mikael continuava a ribadire; che era innocente ma non lo poteva dimostrare.
Gli raccontò di un possibile filarino con un ragazzo che frequentava la sua stessa classe al liceo ma in un’altra sezione, e lo sorprese rivelandogli di essere entrata a far parte di una chiesa locale e di considerarsi credente. Mikael si astenne da qualsiasi commento.
Fu invitato a fermarsi a cena ma rifiutò cortesemente; era già d’accordo con la sorella che avrebbe trascorso la sera della vigilia con lei e la sua famiglia nella villa della riserva yuppie di Stäket.
Al mattino aveva anche ricevuto un invito a trascorrere il Natale con Erika e suo marito a Saltsjöbaden. Ma lo aveva declinato nella convinzione che dovesse esserci un limite al benevolo atteggiamento di Greger Beckman verso i triangoli sentimentali, non avendo alcun desiderio di andare a scoprire dove passasse quella linea di confine. Erika aveva obiettato che in effetti era stato proprio il marito a proporre l’invito, e l’aveva punzecchiato accusandolo di non avere il coraggio di prestarsi a un vero e proprio triangolo. Mikael aveva riso — Erika sapeva che era solo banalmente eterosessuale e che l’invito non era da intendere sul serio — ma la decisione di non trascorrere la sera della vigilia in compagnia del consorte della sua amante era stata irremovibile.
Di conseguenza aveva bussato alla porta di sua sorella Annika Blomkvist, coniugata Giannini, dove il marito di origine italiana, i due figli e un plotone di parenti del marito stavano giusto per tagliare il prosciutto di Natale. Durante la cena rispose a domande sul processo e ricevette svariati consigli dispensati a fin di bene ma del tutto inutili.
L’unica che non commentò la sentenza fu la sorella di Mikael — la quale d’altra parte era l’unico avvocato presente. Annika aveva compiuto brillantemente gli studi giuridici e lavorato alcuni anni come uditore e pubblico ministero aggiunto prima di aprire, insieme ad alcuni amici, un proprio studio legale a Kungsholmen. Si era specializzata in diritto di famiglia e, senza che Mikael si fosse realmente accorto di come fosse successo, la sorella minore aveva cominciato a comparire sulle pagine dei giornali e in tavole rotonde alla tv in qualità di nota avvocatessa femminista che difendeva i diritti delle donne. In effetti rappresentava spesso donne minacciate o perseguitate da mariti o ex fidanzati.
Mentre Mikael l’aiutava a preparare il caffè, gli mise la mano sul braccio e gli domandò come stava. Lui rispose che si sentiva come un sacco di merda.
«Rivolgiti a un avvocato vero, la prossima volta» disse lei.
«In questo caso non avrebbe fatto differenza.»
«Che cosa è successo realmente?»
«Ne parliamo un’altra volta, sorellina.»
Lei lo abbracciò e gli stampò un bacio sulla guancia prima di tornare dagli altri con dolce natalizio e tazze di caffè.
Verso le sette Mikael si scusò e chiese di poter usare il telefono in cucina. Chiamò Dirch Frode e poté sentire un brusio di voci sullo sfondo.
«Buon Natale» gli augurò Frode. «Ha preso una decisione?»
«Non ho particolari impegni e lei è riuscito a risvegliare la mia curiosità. Vengo su a Santo Stefano, se vi va bene.»
«Magnifico, magnifico. Se sapesse quanto mi fa immensamente piacere la sua risposta. Voglia scusare, ma ho qui figli e nipoti in visita e non riesco quasi a sentire una parola. Mi permette di chiamarla domattina per prendere accordi sull’ora?»
Mikael Blomkvist si pentì della sua decisione già prima che la serata si concludesse, ma a quel punto gli sembrava troppo complicato telefonare per disdire, e così la mattina del giorno dopo Natale si ritrovò seduto sul treno che portava a nord. Mikael aveva la patente ma non aveva mai pensato di procurarsi un’automobile.
Frode aveva ragione nel dire che non si trattava di un viaggio lungo. Superarono Uppsala e poi cominciò la rada collana di piccole città industriali lungo la costa del Baltico. Hedestad era una delle più piccole, poco più di un’ora a nord di Gävle.
La notte prima era nevicato abbondantemente, ma il cielo si era rischiarato e l’aria era gelida quando Mikael scese dal treno alla stazione. Si rese subito conto di avere l’abbigliamento sbagliato per il clima invernale di quella regione, ma Dirch Frode non ebbe difficoltà a riconoscerlo, lo catturò amabilmente sulla pensilina e lo guidò rapido fino al caldo di una Mercedes. In città le operazioni di sgombero della neve erano in pieno svolgimento, e Frode zigzagava con cautela fra gli spazzaneve. La neve creava un contrasto esotico con Stoccolma, come se quello fosse un mondo sconosciuto. Eppure era solo a poco più di tre ore dal centro della capitale. Mikael guardava con la coda dell’occhio l’avvocato; un viso spigoloso, capelli bianchi cortissimi e occhiali spessi appoggiati su un naso importante.
«Prima volta a Hedestad?» domandò Frode.
Mikael annuì.
«Vecchia cittadina industriale con porto. Non grande, solo ventiquattromila abitanti. Ma la gente si trova bene, qui. Henrik abita a Hedeby — proprio all’ingresso meridionale della città.»
«Anche lei abita qui?» s’informò Mikael.
«È stata quasi una scelta obbligata. Sono nato nella Scania, ma ho cominciato a lavorare per Vanger subito dopo la laurea nel 1962. Sono avvocato d’affari e con gli anni io e Henrik siamo diventati amici. Oggi in realtà sono in pensione, con Henrik come unico cliente. Anche lui ovviamente è in pensione, e non ha bisogno granché spesso dei miei servigi.»
«Solo per raccattare giornalisti di dubbia fama.»
«Non si sottovaluti. Lei non è l’unico ad aver perduto un match contro Hans-Erik Wennerström.»
Mikael guardò Frode con la coda dell’occhio, incerto su come dovesse interpretare la battuta.
«Questo invito ha qualcosa a che fare con Wennerström?» domandò.
«No» rispose Frode. «Ma Henrik Vanger non fa esattamente parte della cerchia degli amici di Wennerström, e ha seguito il processo con molto interesse. Ma la vuole incontrare per tutt’altra questione.»
«Che lei non mi vuole raccontare.»
«Che non sta a me raccontarle. Abbiamo predisposto in modo che possa pernottare a casa di Henrik Vanger. Se però preferisce, possiamo prenotarle una stanza al Grand Hotel in città.»
«Mah, forse tornerò direttamente a Stoccolma stasera col treno.»
All’ingresso di Hedeby gli spazzaneve non erano ancora passati e Frode riuscì ad avanzare tenendo l’automobile nei solchi gelati tracciati da altri pneumatici. C’era un cuore di edifici in legno da vecchia località industriale lungo le rive del Baltico. Nei dintorni c’erano ville più moderne e più grandi. Il villaggio cominciava sulla terraferma per poi espandersi attraverso un ponte su un’isola collinosa. All’estremità del ponte dalla parte della terraferma sorgeva una chiesetta bianca di pietra, e di fronte brillava un’antiquata insegna luminosa che recitava «Caffè del Ponte e Fornaio da Susanne». Frode proseguì dritto per circa cento metri e svoltò a sinistra in un cortile appena liberato dalla neve, davanti a un edificio di pietra. La dimora era troppo piccola per essere definita un maniero, ma considerevolmente più grande del resto delle costruzioni, e segnalava chiaramente che quella era la residenza del padrone del posto.
«Ecco la proprietà Vanger» disse Dirch Frode. «Un tempo qui c’erano vita e movimento, ma oggi nella casa ci abitano soltanto Henrik e una governante. C’è posto in abbondanza per gli ospiti.»
Scesero dalla macchina. Frode indicò verso nord.
«Tradizionalmente, colui che guida il gruppo Vanger usa risiedere qui, ma Martin voleva qualcosa di più moderno, e si è costruito la villa là fuori sul promontorio.»
Mikael si guardò intorno e si chiese quale folle impulso avesse soddisfatto, quando aveva accettato l’invito dell’avvocato Frode. Decise che, se fosse stato possibile, sarebbe tornato a Stoccolma già quella sera stessa. Una scala di pietra conduceva all’ingresso, ma prima ancora che ci arrivassero la porta si aprì. Mikael riconobbe subito Henrik Vanger dalle immagini su Internet.
Nelle foto era più giovane, ma aveva ancora un’aria sorprendentemente vigorosa per i suoi ottantadue anni; un corpo robusto con un viso severo segnato dal sole e dalle intemperie e una capigliatura grigia folta, pettinata all’indietro, che lasciava intendere che i suoi geni non incoraggiavano la calvizie. Indossava pantaloni scuri stirati alla perfezione, camicia bianca e un comodo cardigan da casa marrone. Aveva baffi sottili e occhiali dalla leggera montatura metallica.
«Sono Henrik Vanger» salutò. «Grazie per essersi preso il disturbo di venirmi a trovare.»
«Salve. È stato un invito inatteso.»
«Venite dentro al caldo. Ho fatto preparare una camera degli ospiti; vuole darsi una rinfrescata? Ceneremo un po’ più tardi. Questa è Anna Nygren, che si prende cura di me.»
Mikael strinse la mano a una donna bassa sulla sessantina che prese in consegna il suo cappotto e andò ad appenderlo in un guardaroba. Offrì a Mikael delle pantofole per proteggere i piedi dagli spifferi del pavimento.
Mikael ringraziò e quindi si rivolse a Henrik Vanger: «Non sono sicuro di fermarmi fino a cena. Dipende un po’ da qual è lo scopo di questo gioco.»
Henrik Vanger scambiò un’occhiata con Dirch Frode. C’era un’intesa fra i due uomini che Mikael non riusciva a interpretare.
«Credo che approfitterò dell’occasione per lasciarvi soli» disse l’avvocato. «Devo andare a casa a mettere in riga i miei nipotini prima che me la distruggano.»
Si girò verso Mikael.
«Abito a destra dall’altra parte del ponte. Può arrivarci a piedi in cinque minuti; è dopo la pasticceria, la terza casa verso l’acqua. E se avete bisogno di me, non c’è che da telefonare.»
Mikael ne approfittò per infilare una mano in tasca e accendere un registratore. Paranoico, io? Non aveva idea di che cosa volesse Henrik Vanger, ma dopo il casino con Hans-Erik Wennerström dell’anno appena trascorso voleva avere una documentazione esatta di tutti gli avvenimenti insoliti che gli succedevano intorno, e un invito improvviso a Hedestad apparteneva sicuramente a quella categoria.
L’ex industriale batté la mano sulla spalla a Dirch Frode in un gesto di congedo e richiuse la porta d’ingresso prima di concentrare il suo interesse su Mikael.
«In tal caso andrò dritto al sodo. Non si tratta affatto di un gioco. Io voglio parlare con lei, ma ciò che ho da dirle richiede una lunga conversazione. La prego di stare ad ascoltarmi e di prendere una decisione solo dopo. Lei è giornalista e io vorrei affidarle un incarico free-lance. Anna ha preparato il caffè nel mio studio al piano di sopra.»
Henrik Vanger fece strada e Mikael lo seguì. Entrarono in uno studio rettangolare, di circa quaranta metri quadrati, sul lato corto della casa. La parete lunga era interamente coperta da una libreria che andava da terra al soffitto, carica di un’impareggiabile mescolanza di narrativa, biografie, libri di storia, libri sull’industria e il commercio e raccoglitori in formato A4. I volumi erano disposti senza un ordine apparente. Aveva l’aria di una libreria che veniva usata, e Mikael ne trasse la conclusione che Henrik Vanger era un uomo che amava leggere. Il lato opposto della stanza era dominato da una scrivania di quercia scura, messa in modo che chi vi sedeva fosse rivolto verso la stanza. La parete comprendeva una grande raccolta di quadri con fiori essiccati disposti con pedanteria in file ordinate.
Attraverso la finestra sul lato corto della casa, si aveva una panoramica del ponte e della chiesa. In fondo alla stanza c’era un salotto con un tavolino sul quale Anna aveva preparato tazzine, caffè e dolcetti fatti in casa.
Henrik Vanger fece un gesto a Mikael per invitarlo ad accomodarsi ma lui finse di non coglierlo, e invece si mise a girare curioso per lo studio, esaminando prima la libreria e poi la parete con i quadri. La scrivania era molto ordinata, con solo poche carte impilate una sull’altra. Verso il bordo c’era una fotografia in cornice di una ragazza dai capelli scuri, bella ma dallo sguardo malizioso; una giovane signora avviata a diventare pericolosa pensò Mikael. L’immagine era un ritratto della cresima ormai un po’ ingiallito, e dava l’impressione di essere lì da parecchi anni. D’un tratto Mikael divenne consapevole che Henrik lo stava osservando.
«Te la ricordi, Mikael?» domandò il vecchio in tono improvvisamente confidenziale.
«Ricordarmela?» disse Mikael alzando le sopracciglia.
«Sì, tu l’hai conosciuta. In effetti, sei già stato una volta in questa stanza.»
Mikael si guardò intorno e scosse la testa.
«No, come potresti. Conoscevo tuo padre. Negli anni cinquanta e sessanta affidai diversi incarichi a Kurt Blomkvist come installatore e tecnico. Era un uomo in gamba. Cercai di convincerlo a continuare a studiare per diventare ingegnere. Tu trascorresti qui tutta l’estate del 1963, quando sostituimmo l’intero parco macchine della cartiera qui a Hedestad. Era difficile trovare un alloggio per la tua famiglia e così risolvemmo la questione sistemandovi nel piccolo chalet dall’altra parte della strada. Puoi vederlo dalla finestra.»
Si avvicinò alla scrivania e sollevò il ritratto.
«Questa è Harriet Vanger, la nipote di mio fratello Richard. Si occupò di te diverse volte quell’estate. Tu avevi due anni, andavi per i tre. O forse ne avevi già tre — non ricordo. Lei ne aveva dodici.»
«Mi deve scusare, ma io non ho il benché minimo ricordo di quello che mi sta raccontando.» Mikael non era nemmeno convinto che Henrik Vanger dicesse la verità.
«Lo capisco. Ma io invece mi ricordo di te. Correvi in giro dappertutto qui intorno, con Harriet alle calcagna. Potevo sentire i tuoi strilli non appena inciampavi da qualche parte. Ricordo che ti diedi un giocattolo in un’occasione, un trattore giallo di latta con il quale io stesso avevo giocato da bambino e che ti piacque immensamente. Diventavi matto. Credo che fosse per via del colore.»
Mikael si sentì improvvisamente raggelare. In effetti ricordava il trattore giallo. Quando era diventato più grande era stato in bella mostra su una mensola nella sua cameretta.
«Ti ricordi? Ti ricordi quel giocattolo?»
«Sì, me lo ricordo. Forse può farle piacere sapere che quel trattore esiste ancora, al Museo del giocattolo in Mariatorget a Stoccolma. L’ho donato quando stavano cercando vecchi pezzi originali, dieci anni fa.»
«Veramente?» Henrik ridacchiò deliziato. «Lascia che ti mostri…»
Il vecchio si avvicinò alla libreria e prese un album di fotografie da uno dei ripiani più bassi. Mikael notò che aveva un’evidente difficoltà a chinarsi ed era costretto ad appoggiarsi per rimettersi dritto. Henrik Vanger fece cenno a Mikael di accomodarsi sul divano mentre lui sfogliava le pagine. Sapeva che cosa stava cercando e ben presto mise l’album aperto sul tavolino. Indicò una foto amatoriale in bianco e nero, dove nell’angolo in basso si vedeva l’ombra del fotografo. In primo piano c’era un bambino biondo in calzoncini corti che con espressione confusa e un po’ ansiosa guardava dentro l’obiettivo.
«Questo sei tu quell’estate. I tuoi genitori sono seduti in giardino sullo sfondo. Harriet è un po’ nascosta da tua madre e il ragazzo alla sinistra di tuo padre è il fratello di Harriet, Martin, che oggi è alla guida del Gruppo Vanger.»
Mikael non ebbe nessuna difficoltà a riconoscere i suoi genitori. Sua madre era evidentemente incinta — dunque sua sorella era in arrivo. Osservò l’immagine con sentimenti contrastanti mentre Henrik Vanger versava il caffè e spingeva verso di lui il piattino dei dolci.
«So che tuo padre è morto. Tua madre è ancora viva?»
«No» rispose Mikael. «È mancata tre anni fa.»
«Era una donna simpatica. La ricordo molto bene.»
«Ma qualcosa mi dice che non mi ha fatto venire qui per parlare di vecchi ricordi dei miei genitori.»
«Su questo hai perfettamente ragione. Ho pensato per giorni e giorni a che cosa ti avrei detto ma adesso che finalmente ti ho qui davanti a me non so esattamente da che parte cominciare. Suppongo che tu ti sia informato un po’ su di me prima di venire quassù. Allora sai che un tempo avevo una grande influenza sull’industria svedese e sul mercato del lavoro. Oggi sono soltanto un vecchio che probabilmente morirà presto, e la morte è forse un ottimo punto di partenza per questa conversazione.»
Mikael prese un sorso di caffè nero — preparato alla maniera tradizionale — e si domandò dove avrebbe condotto quella storia.
«Ho male alle anche e mi è difficile fare lunghe passeggiate. Un giorno scoprirai anche tu come le forze vengano a mancare, quando si è vecchi, ma non sono né squilibrato né senile. Dunque non sono ossessionato dalla morte, ma mi trovo in un’età in cui devo accettare il fatto che il mio tempo sta per finire. Arriva un momento in cui si desidera chiudere i conti e sistemare le faccende ancora in sospeso. Capisci quello che voglio dire?»
Mikael annuì. Henrik Vanger parlava con voce chiara e ferma, e Mikael aveva già tratto da sé la conclusione che il vecchio non era né senile né irrazionale. «Sono soprattutto curioso di sapere perché sono qui» ripeté.
«Ti ho chiesto di venire perché voglio pregarti di aiutarmi con questo bilancio conclusivo di cui ti ho parlato. Ho alcune cose in sospeso.»
«Perché proprio io? Voglio dire… che cosa le fa credere che io potrei aiutarla?»
«Perché proprio quando stavo cominciando a pensare di affidarmi a qualcuno, il tuo nome è venuto alla ribalta in relazione all’affare Wennerström. Ovviamente sapevo chi fossi. E forse anche perché ti avevo tenuto sulle ginocchia quando eri bambino.» Fece un gesto come per fermarlo. «No, non mi fraintendere. Non sto facendo conto che tu mi aiuterai per ragioni sentimentali. Ti sto solo spiegando perché ho avuto l’impulso di contattare proprio te.»
Mikael fece una risata cordiale. «Be’, in ogni caso sono ginocchia di cui non ho il minimo ricordo. Ma come poteva sapere chi fossi? Voglio dire, queste cose succedevano all’inizio degli anni sessanta.»
«Scusa, devi avermi frainteso. Voi vi trasferiste a Stoccolma quando tuo padre fu assunto come capo officina alla Zarinders Mekaniska. Era una delle tante aziende che facevano parte del Gruppo Vanger, e fui io a procurargli quel posto. Non aveva un’istruzione superiore, ma io naturalmente sapevo quanto valesse. Incontrai tuo padre diverse volte nel corso degli anni, quando dovevo andare alla Zarinders. Non eravamo amici intimi, ma ci fermavamo sempre a scambiare quattro chiacchiere. L’ultima volta che lo vidi era l’anno prima che morisse, e in quell’occasione mi raccontò che eri entrato alla scuola di giornalismo. Era molto orgoglioso. Poi naturalmente il tuo nome divenne noto in relazione a quella famosa banda di rapinatori — Kalle Blomkvist e via dicendo. Nel corso degli anni ti ho seguito e ho letto molti dei tuoi articoli. In effetti, leggo Millennium abbastanza spesso.»
«Okay, capisco. Ma esattamente che cosa vorrebbe che facessi?»
Henrik Vanger abbassò lo sguardo sulle mani per un breve attimo, e quindi sorseggiò un po’ di caffè, come se avesse bisogno di una piccola pausa prima di poter finalmente cominciare ad avvicinarsi al punto.
«Mikael, prima di entrare in argomento vorrei fare un patto con te. Voglio che tu faccia due cose per me. Una è un pretesto e l’altra è il mio vero motivo.»
«Che genere di patto?»
«Io ti racconterò una storia in due parti. Una tratta della famiglia Vanger. E questo è il pretesto. È una storia lunga e cupa, ma cercherò di attenermi alla verità nuda e cruda. L’altra parte della storia tratta del vero motivo per cui ti ho voluto qui. Credo che tu finirai per prendere un po’ il mio racconto per… pazzia. Ciò che desidero è che ascolti la mia storia fino in fondo — compreso ciò che vorrei che facessi e anche che cosa ti offro in cambio — prima di decidere se vorrai accettare l’incarico oppure no.»
Mikael sospirò. Era evidente che Henrik Vanger non era intenzionato a esporre la sua richiesta in maniera breve e concisa. Aveva la netta sensazione che, se avesse telefonato a Frode pregandolo di dargli un passaggio per la stazione, l’automobile si sarebbe rifiutata di partire a causa del gelo.
Il vecchio doveva aver dedicato diverso tempo a studiare come agganciarlo. Mikael ebbe la sensazione che tutto ciò che era successo da quando aveva messo piede in quella stanza fosse frutto di un’abile regia; la sorpresa introduttiva sul fatto che aveva già incontrato Henrik Vanger da bambino, l’immagine dei genitori nell’album delle fotografie e quel sottolineare che il papà di Mikael e Henrik Vanger erano stati amici, l’adulazione nascosta nel fatto che il vecchio sapeva chi fosse Mikael Blomkvist e da lontano aveva seguito la sua carriera negli anni… tutto l’insieme aveva probabilmente un solido nocciolo di verità ma era anche un esercizio di psicologia abbastanza elementare. In altre parole, Henrik Vanger era un abile manipolatore che aveva raccolto un’esperienza pluriennale su persone considerevolmente più scafate nelle stanze chiuse dei consigli d’amministrazione. Non era certo diventato uno dei magnati dell’industria svedese per caso.
La conclusione di Mikael fu che Henrik Vanger voleva che facesse qualcosa che lui probabilmente non aveva la minima voglia di fare. L’unica cosa che rimaneva era scoprire in che cosa consistesse questa cosa, e quindi declinare cortesemente. E, se possibile, fare in tempo a prendere il treno del tardo pomeriggio.
«Mi spiace, ma niente patti» rispose Mikael. Guardò l’ora. «Sono qui da venti minuti. Gliene concedo esattamente trenta per raccontarmi ciò che vuole. Dopo di che chiamo un taxi e me ne torno a casa.»
Per un attimo Henrik Vanger abbandonò il suo ruolo di benevolo patriarca e Mikael poté indovinare l’industriale senza scrupoli nei suoi giorni migliori quando è colpito da un rovescio o è costretto a occuparsi di qualche giovane dirigente ribelle. La sua bocca si piegò in un sorriso storto.
«Capisco.»
«È tutto molto semplice. Non c’è bisogno che la prenda troppo alla larga. Mi dica che cosa vuole che faccia, in modo che possa giudicare se voglio farlo oppure no.»
«Se non riesco a convincerti in trenta minuti, non ci riuscirò nemmeno in trenta giorni, è questo che vuoi dire.»
«Qualcosa del genere.»
«Ma la mia storia è effettivamente lunga e complicata.»
«Cerchi di abbreviare e semplificare. Noi giornalisti lo facciamo. Ventinove minuti.»
Henrik Vanger alzò una mano. «Basta così. Ho capito il tuo punto di vista. Ma non è mai buona psicologia esagerare. Io ho bisogno di una persona che sia in grado di indagare e di pensare in modo critico, ma che abbia anche un’integrità. Sono convinto che tu l’abbia, e non è un complimento. Un buon giornalista dovrebbe possibilmente possedere queste qualità e io ho letto il tuo libro, I cavalieri del tempio, con grande interesse. È perfettamente vero che ti ho scelto perché conoscevo tuo padre e perché so chi sei. Se ho capito bene, sei stato licenziato dal tuo giornale in seguito all’affare Wennerström — o quanto meno hai lasciato il posto di tua iniziativa. Questo significa che al momento attuale non hai un lavoro e non occorre un genio per capire che probabilmente ti trovi in ristrettezze economiche.»
«E allora lei può approfittarne per sfruttare la mia condizione, è questo che vuol dire?»
«Forse è così. Ma, Mikael — ti posso chiamare per nome? —, non ho nessuna intenzione di dirti delle bugie o di andare a pescare pretesti non veri. Sono troppo vecchio per queste cose. Se non ti piace quello che dico puoi tranquillamente mandarmi a quel paese. E allora cercherò qualcun altro che voglia lavorare per me.»
«Okay, in che cosa consiste il lavoro che vorrebbe offrirmi?»
«Quanto sai della famiglia Vanger?»
Mikael aprì le braccia. «Be’, più o meno quello che sono riuscito a leggere su Internet dopo che Frode mi ha chiamato lunedì. A suo tempo il Gruppo Vanger era uno dei gruppi industriali più importanti della Svezia, oggi si è considerevolmente ridimensionato. Martin è l’amministratore delegato. Okay, so anche un bel po’ di altre cose, ma dove vuole arrivare?»
«Martin è… è una brava persona, ma nella sostanza uno che prende le cose alla leggera. È del tutto inadeguato come amministratore delegato di un gruppo industriale in crisi. Vuole modernizzare e specializzare — pensiero più che corretto — ma ha difficoltà a portare avanti le sue idee e ancor più a risolvere la parte economica. Venticinque anni fa, il Gruppo Vanger era un serio concorrente della sfera Wallenberg. Avevamo circa quarantamila dipendenti in Svezia. Davamo occupazione, occasioni di lavoro e introiti a tutto il paese. Oggi la maggior parte di queste occasioni di lavoro è in Corea o in Brasile. I dipendenti sono diventati circa diecimila e fra uno o due anni — se Martin non riesce a spiccare il volo — scenderemo a forse cinquemila, distribuiti principalmente in piccole fabbriche. In altre parole, le società del Gruppo Vanger stanno per finire nella discarica della storia.»
Mikael annuì. Ciò che Henrik Vanger raccontava era grossomodo la conclusione cui era giunto lui stesso dopo un momento davanti allo schermo del computer.
«Il Gruppo Vanger è ancora una delle poche aziende familiari rimaste in Svezia, con una trentina circa di membri della famiglia come comproprietari di minoranza in misura diversa. Questa è sempre stata la forza del gruppo ma anche la nostra più grande debolezza.»
Fece una pausa a effetto e poi riprese a parlare con voce accalorata. «Mikael, più tardi potrai farmi tutte le domande che vuoi, ma ti prego di credermi sulla parola quando ti dico che disprezzo la maggior parte dei membri della famiglia Vanger. La mia famiglia è composta quasi interamente di ladri, avari, prepotenti e incapaci. Io ho guidato l’azienda per trentacinque anni — quasi tutto il tempo coinvolto in scontri implacabili con altri membri della famiglia. Loro, e non le aziende concorrenti o lo stato, erano i miei peggiori nemici.»
Fece una pausa.
«Ho detto che volevo servirmi di te per fare due cose. Vorrei che tu scrivessi una storia oppure una biografia della famiglia Vanger. Per semplicità possiamo definirla la mia biografia. Non ne risulterà un libro di chiesa, ma una storia di odio e liti familiari e di smodata avarizia. Ti metto a disposizione tutti i miei diari e archivi. Avrai libero accesso ai miei pensieri più riposti e potrai pubblicare esattamente tutto il marciume che troverai, senza riserve. Credo che questa storia farà apparire Shakespeare come un gaio intrattenimento per tutta la famiglia.»
«Perché?»
«Perché voglio pubblicare una storia scandalistica della famiglia Vanger? Oppure quale motivo ho per chiederti di scrivere la storia?»
«Tutte e due le domande, suppongo.»
«A essere onesti non mi interessa se il libro sarà pubblicato oppure no. Ma in effetti ritengo che la storia meriti di essere messa nero su bianco, anche solo in un’unica copia che tu consegnerai direttamente alla Biblioteca reale. Voglio che la mia storia sia a disposizione del resto del mondo quando morirò. Il motivo che mi spinge è il più semplice che si possa immaginare — la vendetta.»
«Di chi si vuole vendicare?»
«Non è necessario che tu mi creda, ma ho cercato di essere una persona onesta, anche come capitalista e capitano d’industria. Sono orgoglioso del fatto che il mio nome sia sinonimo di un uomo che ha tenuto fede alla sua parola e mantenuto le sue promesse. Non ho mai partecipato al gioco politico. Non ho mai avuto problemi a trattare con i sindacati. Perfino Tage Erlander aveva rispetto per me, a suo tempo. La vedevo come una questione di etica; io ero responsabile del pane quotidiano di migliaia di persone, e mi preoccupavo dei miei dipendenti. Stranamente, anche Martin ha la stessa propensione, pur essendo una persona molto diversa da me. Anche lui ha cercato di fare quello che è giusto. Forse non sempre ci siamo riusciti, ma nel complesso sono poche le cose di cui mi vergogno.»
«Purtroppo, io e Martin costituiamo probabilmente due rare eccezioni nella nostra famiglia» continuò Henrik. «Ci sono molte ragioni del perché il Gruppo Vanger oggi sia sull’orlo della rovina, ma una delle più importanti è la miope avidità che molti dei miei parenti coltivano. Se deciderai di accettare l’incarico ti spiegherò esattamente come si è comportata la mia famiglia quando hanno sparato addosso all’azienda mandandola a picco.»
Mikael rifletté un attimo.
«Okay. Anch’io non mentirò a lei. Scrivere un libro del genere richiederà diversi mesi. Io non ho né la voglia né l’energia di farlo.»
«Credo di poterti convincere.»
«Ne dubito. Ma ha detto che desiderava che io facessi due cose. Questo era il pretesto. Qual è il suo scopo reale?»
Henrik Vanger si alzò, di nuovo a fatica, e andò a prendere la fotografia di Harriet dalla scrivania. La mise di fronte a Mikael.
«Il motivo del mio desiderio che tu scriva una biografia della famiglia Vanger è che voglio che tracci una mappa dei suoi componenti con l’occhio di un giornalista. Questo ti fornisce anche l’alibi per frugare nella storia della famiglia. Quello che in realtà desidero è che tu risolva un mistero. Ecco qual è il tuo incarico.»
«Un mistero?»
«Harriet era la nipote di mio fratello Richard, figlia di suo figlio. Eravamo cinque fratelli. Richard era il maggiore, nato nel 1907. Io ero il più piccolo, nato nel 1920. Non capisco come Dio abbia potuto mettere insieme questa schiera di bambini che…»
Per qualche secondo perse il filo e parve sprofondare nei suoi pensieri. Poi tornò a rivolgersi a Mikael con rinnovata determinazione nella voce.
«Lascia che ti racconti di mio fratello Richard. Anche questo è un assaggio della cronaca familiare che voglio che tu scriva.»
Si versò del caffè e ne offrì anche a Mikael.
«Nel 1924, a diciassette anni, Richard era un fanatico nazionalista e antisemita che aderì alla Lega nazionalsocialista per la libertà, uno dei primissimi gruppi nazisti svedesi. Non è affascinante che i nazisti riescano sempre a piazzare la parola libertà nella loro propaganda?»
Henrik tirò fuori un altro album di fotografie e andò a cercare la pagina giusta.
«Questo è Richard in compagnia del veterinario Berger Furugård, che presto divenne il leader del così detto Movimento Furugård, che fu il grande movimento nazista dei primi anni trenta. Ma Richard non rimase con lui. Solo pochi anni più tardi divenne membro della Sfko, l’organizzazione fascista svedese. Lì conobbe Per Engdahl e altri individui che con il passare degli anni sarebbero diventati la vergogna politica della nazione.»
Andò avanti di una pagina nell’album. Richard Vanger in uniforme.
«Nel 1927 si arruolò nell’esercito — contro la volontà di nostro padre — e nel corso degli anni trenta frequentò una buona parte dei gruppi nazisti del paese. Se esisteva un’associazione cospiratoria e malata, puoi scommettere che il suo nome compariva nell’elenco degli iscritti. Nel 1933 fu creato il Movimento Lindholm, vale a dire il Partito nazionalsocialista dei lavoratori. Quanto ne sai della storia del nazismo svedese?»
«Non sono uno storico, ma qualche libro l’ho letto.»
«Nel 1939 iniziò la seconda guerra mondiale e nel 1940 ci fu la guerra d’inverno in Finlandia. Un gran numero di attivisti del Movimento Lindholm aderirono come volontari. Richard era uno di loro; a quell’epoca era già capitano dell’esercito svedese. Cadde nel febbraio del 1940, poco prima del trattato di pace con l’Unione Sovietica. Diventò dunque un martire del movimento nazista ed ebbe un gruppo di lotta intitolato al suo nome. Ancor oggi un certo numero di svitati si raduna in un cimitero di Stoccolma il giorno dell’anniversario della morte di Richard Vanger, per celebrarne la memoria.»
«Capisco.»
«Nel 1926, quando aveva diciannove anni, Richard frequentò una donna di nome Margareta, figlia di un insegnante di Falun. Si erano conosciuti in ambito politico, e nel 1927 dalla loro relazione nacque un figlio, Gottfried. Richard si sposò con Margareta alla nascita del figlio. Nella prima metà degli anni trenta mio fratello aveva sistemato moglie e figlio qui a Hedestad, mentre lui era di stanza presso il reggimento a Gävle. Nel tempo libero andava in giro a fare propaganda per il nazismo. Nel 1936 ebbe uno scontro durissimo con mio padre, il cui esito fu che mio padre privò Richard di qualsiasi sostegno economico. Da quel momento in poi doveva cavarsela con le proprie forze. Così si trasferì con la famiglia a Stoccolma dove vissero in relativa indigenza.»
«La sua parte dell’azienda di famiglia era vincolata. Non poteva vendere al di fuori della famiglia. C’è anche da aggiungere che Richard in casa era un brutale tiranno con pochi aspetti concilianti. Picchiava sua moglie e maltrattava il figlio. Gottfried era un bambino sottomesso e umiliato. Quando il padre morì aveva tredici anni; credo che sia stato il giorno più felice della sua vita. Mio padre ebbe compassione della vedova e del ragazzo e li riportò qui a Hedestad, dove li sistemò in un appartamento e provvide affinché Margareta potesse condurre un’esistenza dignitosa.
«Se Richard aveva rappresentato il lato oscuro e fanatico della famiglia, Gottfried ne rappresentò quello pigro. Quando arrivò ai diciott’anni me ne feci carico io — nonostante tutto, era il figlio del mio defunto fratello — ma devi tenere a mente che la differenza di età fra noi due non era poi così grande. Io avevo solo sette anni più di lui. Già allora sedevo nel consiglio d’amministrazione del Gruppo Vanger ed era chiaro che ero quello che avrebbe preso il posto di papà, mentre Gottfried in famiglia era visto quasi come un estraneo.»
Henrik rifletté un momento.
«Mio padre non sapeva esattamente come comportarsi verso il nipote e fui io a insistere che si doveva fare qualcosa. Gli diedi un impiego all’interno dell’azienda. Era dopo la guerra. Lui cercava di fare un lavoro decente, ma aveva molta difficoltà a concentrarsi. Era pasticcione ma affascinante, ed era il re delle feste, gli piacevano le donne e c’erano periodi in cui beveva troppo. Mi è difficile descrivere i miei sentimenti per lui… non era un inetto, ma era tutt’altro che affidabile e spesso mi deludeva profondamente. Con gli anni diventò alcolizzato e nel 1965 morì in un incidente causato dall’ubriachezza. Successe qui, dall’altra parte dell’isola, dove si era fatto costruire un piccolo chalet per andare a rifugiarcisi quando voleva bere.»
«Lui è il padre di Harriet e di Martin?» domandò Mikael indicando il ritratto sul tavolino. Controvoglia dovette riconoscere che il racconto del vecchio era interessante.
«Esatto. Alla fine degli anni quaranta, Gottfried incontrò una donna di nome Isabella Koenig, figlia di tedeschi che erano venuti in Svezia dopo la guerra. Isabella era un’autentica bellezza — voglio dire, del genere di Greta Garbo o Ingrid Bergman. Harriet prese probabilmente i suoi geni più da Isabella che da Gottfried. Come puoi vedere dalla fotografia, già a quattordici anni era molto bella.»
Mikael e Henrik Vanger studiarono la fotografia.
«Ma lasciami continuare. Isabella era nata nel 1928 ed è tuttora in vita. Aveva undici anni quando cominciò la guerra e puoi immaginare com’era essere adolescente a Berlino mentre i bombardieri rovesciavano giù il loro carico. Quando sbarcò in Svezia forse le sembrò di essere arrivata nel paradiso in terra. Disgraziatamente condivideva un po’ troppo dei vizi di Gottfried; era spendacciona e faceva sempre festa e talvolta lei e Gottfried parevano più due compagni di bevute che due coniugi. Lei viaggiava assiduamente per la Svezia e all’estero e in generale mancava di senso di responsabilità. Questo naturalmente si ripercuoteva sui figli. Martin nacque nel 1948 e Harriet nel 1950. La loro crescita fu caotica, con una madre che li abbandonava di continuo e un padre sull’orlo dell’alcolismo.
«Nel 1958 intervenni. Gottfried e Isabella all’epoca abitavano in centro a Hedestad — io li costrinsi a trasferirsi qui. Ne avevo avuto abbastanza e decisi di cercare di spezzare quel circolo vizioso. Martin e Harriet ormai venivano lasciati più o meno a se stessi.»
Henrik Vanger guardò l’ora.
«I miei trenta minuti sono quasi finiti ma comincio ad avvicinarmi alla fine del racconto. Mi concedi una proroga?»
«Allora, per farla breve. Io non avevo figli — un contrasto drammatico con i miei fratelli e gli altri membri della famiglia, che sembravano ossessionati da una sciocca necessità di propagare la stirpe dei Vanger. Gottfried e Isabella si trasferirono qui ma il matrimonio era agli sgoccioli. Già dopo un anno Gottfried traslocò nel suo chalet. Vi abitava completamente solo per lunghi periodi, e tornava da Isabella quando laggiù cominciava a fare troppo freddo. Quanto a me, mi presi cura di Martin e Harriet e per molti versi diventarono per me i figli che non avevo mai avuto.
«Martin era… per essere sinceri ci fu un periodo nella sua giovinezza in cui temetti che avrebbe seguito le orme del padre. Era debole e chiuso e meditabondo, ma era anche capace di essere affascinante e pieno di entusiasmo. Ebbe qualche anno difficile, ma poi si raddrizzò quando cominciò l’università. Lui è… be’, nonostante tutto è l’amministratore delegato di ciò che rimane del Gruppo Vanger, e questo può essere considerato un giudizio positivo.»
«E Harriet?» volle sapere Mikael.
«Harriet era la luce dei miei occhi. Cercai di darle sicurezza e fiducia in se stessa e fra noi c’era una grande intesa. Io la consideravo come figlia mia e lei finì per essere legata a me più di quanto lo fosse ai suoi genitori. Capisci, Harriet era molto speciale. Era chiusa — proprio come suo fratello — e da ragazzina aveva un debole per la religione, cosa che la distingueva da tutti gli altri della nostra famiglia. Ma era di un’intelligenza eccezionale. Aveva senso morale e al tempo stesso grande carattere. Quando aveva quattordici o quindici anni, ero fermamente convinto che lei — in confronto al fratello e a tutti gli altri mediocri cugini e nipoti intorno a me — fosse la persona destinata a guidare un giorno il Gruppo Vanger o almeno a rivestirvi un ruolo centrale.»
«Ecco che siamo arrivati al vero motivo per cui ti ho chiamato. Voglio che tu scopra quale membro della famiglia abbia ucciso Harriet Vanger e abbia poi dedicato i successivi trentasei anni a cercare di mandarmi fuori di senno.»