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Il Los Angeles River scorreva in direzione sudest attraversando la San Fernando Valley fino a Griffith Park, dove curvava bruscamente a destra accanto al Dodger Stadium, a Chinatown e al centro di Los Angeles fino alla Long Beach Freeway, come un amante predestinato e impaziente di incontrare la sua compagna. Il fiume e l’autostrada attraversavano dritti il cuore della città fino a Long Beach, dove il corso d’acqua concludeva gli ottanta chilometri di attraversamento nel porto di Los Angeles. Lì, alla fine del suo viaggio, la foce del fiume era fiancheggiata dalla Queen Mary e dall’acquario del Pacifico. L’ufficio di Los Angeles della Sicurezza Nazionale si trovava proprio dall’altra parte della strada.
«È andata a Long Beach?»
«Sì. Al suo ufficio. Vuoi che le stia addosso?»
«No. Questo cambia tutto.»
«Lo pensavo anch’io.»
«Dobbiamo parlare con Jon. Vieni a Silver Lake e decideremo il da farsi.»
Mi immisi nel traffico, ma due isolati più in là mi fermai e cercai il suo nome con Google. La foto ufficiale del dipartimento per la Sicurezza Nazionale fu facile da trovare. Janet Hess sembrava più giovane di un paio d’anni rispetto alla donna che conoscevo come Meryl Lawrence, ma era lei, e il suo curriculum era impressionante.
Janet Hess attualmente ricopre l’incarico di agente speciale responsabile (SAC)/Direttore dell’Intelligence dell’ufficio investigativo della Sicurezza Interna, dipartimento della Sicurezza Interna degli Stati Uniti, Los Angeles, California. La signora Hess è responsabile di tutte le attività investigative dell’Agenzia delle Dogane e Immigrazione e del dipartimento della Sicurezza Interna per l’area metropolitana di Los Angeles, Las Vegas e Nevada meridionale. Prima dell’attuale incarico ha ricoperto la carica di assistente all’agente speciale responsabile (ASAC)/Direttore del Servizio informazioni sul campo dell’Unità immigrazione clandestina e traffico di esseri umani per l’area di Los Angeles, e come agente speciale supervisore/supervisore di squadra per l’Unità della Sicurezza Nazionale della contea di Orange, e dell’Unità investigativa di contrasto al traffico di esseri umani. Prima di entrare al dipartimento della Sicurezza Interna, la signora Hess ha lavorato nel dipartimento di Giustizia, Servizio immigrazione e naturalizzazione come Agente Speciale insieme all’Unità investigativa della Sicurezza Interna e alla task force interforze antiterrorismo.
Hess aveva a disposizione l’organizzazione, l’autorità e le risorse della sua agenzia, eppure aveva ingaggiato sotto mentite spoglie un civile, esponendo se stessa e l’agenzia a una situazione da incubo in termini di responsabilità. Evidentemente si aspettava di ottenere qualcosa, servendosi di me, che non riusciva a ottenere dai suoi agenti, e probabilmente questo era un segreto di cui nessuno sarebbe dovuto venire a conoscenza.
Tirai fuori il fascicolo di Amy e studiai l’identikit. Scott pensava che ci fosse una buona somiglianza con l’uomo in giacca sportiva, ma Hector Pedroia non era riuscito a identificarlo con certezza come Royal Colinski.
Misi da parte l’identikit, mi reimmisi nel traffico e telefonai a Scott mentre guidavo.
«È ancora alla Grandi Crimini?»
«Sì.» A bassa voce.
«Ho bisogno di due cose. Può parlare?»
«Non molto. Stiles è vicina.»
«La squadra di sorveglianza è andata via. Lo sapeva?»
«Uh-uh.»
«Cerchi di scoprire perché. Sia discreto, ma cerchi di scoprire perché.»
«Okay. Se n’è andata. Ora possiamo parlare.»
«Ho bisogno che lei faccia un controllo su un nome.»
«Non è così facile come sembra. Chi è?»
«Il fatto è che, chiunque salti fuori, non può parlarne né con Carter né con altri. Dovrà aspettare finché io non le do l’okay. Siamo d’accordo?»
«Mi sembra un po’ ambiguo, Cole. A me non piacciono le situazioni ambigue.»
«Potrebbe essere l’uomo in giacca sportiva.»
Scott rimase in silenzio, ma lo sentivo respirare.
«Non sto dicendo che è lui, ma è possibile. È l’effettivo proprietario della casa.»
«Lo farò.»
«E resterà tra noi due?»
«Sì. Mi dia il nome.»
«Nome di battesimo Royal, R-O-Y-A-L. Cognome Colinski.»
Gli feci anche lo spelling di Colinski.
«È sicuramente nella banca dati. Stampi la fedina penale completa e la foto segnaletica. Ci servirà.»
Arrivai a Silver Lake qualche minuto dopo, e trovai la Rover di Jon posteggiata un po’ più in alto rispetto al cantiere. Parcheggiai ancora più in su, oltre la curva, scesi a piedi e salii in macchina. Jon aveva spinto il sedile all’indietro e teneva il laptop aperto sulla consolle.
«Sei riuscito ad arrivare alla macchina?» chiesi.
«Negativo. Non si è mossa.»
Amy stava leggendo una rivista, allungata sul divano. Il computer e il cellulare erano posati sul tavolino. Era immobile. Jon fissava lo schermo, altrettanto immobile.
Guardai Jon che guardava Amy. Jon Stone era rimasto chiuso a bordo della Rover per ventotto ore, eppure sembrava perfettamente sveglio, vigile, sbarbato di fresco. Se riusciva a starsene sdraiato sui sassi oltre il limite degli alberi nell’Hindu Kush per un paio di settimane, passare la notte a bordo di una Range Rover non doveva essere poi così difficile.
«Quell’uomo, quello che ti ha detto che le conversazioni su Internet non hanno portato a nulla… Ti fidi di lui?»
Jon mi guardò, incuriosito. «Sì. Perché?»
«Ti ha detto che la Sicurezza Interna non è riuscita a identificare la persona che aveva postato quei messaggi, e così hanno passato tutto a Washington.»
«Sì.» Jon aggrottò la fronte.
«La donna che mi ha ingaggiato è un agente federale della Sicurezza Interna. Anzi, è la SAC, l’agente speciale responsabile dell’ufficio di Los Angeles, Janet Hess.»
Jon si mosse per la prima volta.
«Ne sei sicuro?»
«Pike l’ha seguita fino al suo ufficio.»
Richiamai la foto dal sito web della Sicurezza Interna e gliela mostrai.
«Hess.»
«L’agente speciale responsabile.»
«È quello che c’è scritto qui. L’agente di grado più alto dell’ufficio di Los Angeles.»
Jon si mise comodo.
«E perché questa donna avrebbe dovuto coinvolgerti nel suo caso?»
«Perché la tua spia avrebbe dovuto dirti che il loro caso era chiuso?»
Jon si mosse come una pantera che si alza dal suo giaciglio e tirò fuori il cellulare.
«Scopriamolo.»
Premette un tasto e si avvicinò il telefono all’orecchio. Dopo un attimo parlò.
«Obadete mi se vednaga, vuv vrusca c posledniat ni razgovor. Predishnata vi informatcia se okaza pulna glupost.»
Jon mise via il telefono e si accorse che lo fissavo.
«Scusa, amico. Questioni di sicurezza. Mi richiamerà.»
Lo guardai e lui si strinse nelle spalle.
«Perché, tu non parli bulgaro?»
Sbalorditivo.
Amy si mise seduta, posò la rivista e andò in camera da letto. Jon prese nota dell’ora.
«Ha letto ininterrottamente per un’ora e quaranta minuti.»
Richiamò la telecamera in camera da letto. Amy comparve nell’angolo superiore dell’inquadratura ed entrò in bagno. Vedevamo la porta aperta, ma non Amy.
«Riusciamo a sentire se fa una telefonata?»
«Forse. Ssh.»
Alzò l’audio al massimo. Udimmo silenzio seguito da uno sgocciolio.
Poi lo sciacquone che veniva tirato e l’acqua che scorreva. Amy entrò nella cabina armadio. Qualche istante dopo ne uscì con la giacca a frange e una grande borsa a colori vivaci. Ricordavo la giacca dalla sera prima, ma non la borsa. Mi chiesi se dentro ci fosse la Ruger. Amy gettò il telefono nella borsa, seguito dalla foto di Jacob, e uscì dalla stanza. Jon cambiò telecamera mentre lei rientrava in soggiorno e avviò il motore della Rover.
«Sta uscendo. Se vuoi tirartene fuori, scendi adesso.»
Amy infilò anche il computer nella borsa, e indossò la giacca. Le lunghe frange penzolanti fluttuavano come capelli nell’acqua. Si mise la borsa a tracolla, la sistemò e andò verso la porta.
«Dentro o fuori, amico. Io resto con lei.»
Allacciai la cintura di sicurezza.
«Sono dentro.»
Rimanemmo a guardarla mentre usciva.