32

Elvis Cole

Silver Lake era un vecchio quartiere tra Los Feliz e Echo Park, cresciuto sulle colline che circondano un lago artificiale da cui l’area prendeva il nome. Jon e io parcheggiammo sul lato meridionale del lago e proseguimmo sull’auto di Pike, io seduto davanti e Jon dietro. Il GPS ci guidò lungo il lato ovest del bacino, affollato di podisti, ciclisti e gente che portava a spasso il cane. Dopo essere ripartiti, nessuno di noi disse una parola.

Dietro di me, Jon si assicurò una pistola calibro 45 alla cintura, indossò una camicia oversize con le maniche lunghe per nasconderla, e rimase a fissare il lago in silenzio.

«È bello oggi. Guardate com’è blu.»

Lanciai un’occhiata all’acqua, continuando però a pensare se saremmo riusciti a trovare la casa.

«Sì, bello.»

L’acqua era di un blu profondo bordato di verde smeraldo. Il verde era il riflesso delle sponde di cemento sotto l’acqua. L’argine si era crepato ed era stato riparato così tante volte che faceva pensare a delle labbra corrugate. Un tempo il bacino artificiale riforniva d’acqua seicentomila abitazioni, ora però offriva soltanto un bel panorama. La meravigliosa acqua blu era piena di agenti cancerogeni prodotti dalle radiazioni solari.

«Due minuti» disse Pike.

Ci allontanammo dal lago lungo una strada stretta che saliva tra case in stile spagnolo decorate in turchese, verde acido o giallo. Le case erano bellissime, ma strette tra la collina e la strada. La maggior parte non aveva neppure un vialetto, per cui ai lati della carreggiata c’erano molte auto parcheggiate appartenenti ai residenti e agli operai di un cantiere.

Dentro la Jeep si soffocava, come in un mezzo per il trasporto truppe su un terreno insidioso. Mi dissi che Amy sarebbe stata lì, ma non ci credevo. Chiunque abitasse lì doveva essere al lavoro, probabilmente una donna che non sapeva nulla di questo Charles o dell’ossessione di Amy.

«Sulla sinistra. Quella grigia» disse Pike.

Mi sporsi in avanti per vedere meglio.

«Rallenta.»

L’indirizzo era quello di una piccola casa intonacata con sotto un garage a due posti sul lato a monte della strada. Due grandi finestre affacciavano sul davanti dalla stanza sopra il garage, e una scaletta di cemento con una ringhiera di ferro battuto saliva dal marciapiede al portico. La porta del garage e quella d’ingresso erano pitturate di rosa. Mi chiesi se dietro quelle graziose porte rosa fossero nascosti esplosivi e testate per lanciagranate.

«Cosa guida?» chiese Jon.

«Una Volvo. Una berlina quattro porte beige.»

Superammo il cantiere, svoltammo alla prima traversa e tornammo indietro. Nessuna Volvo beige, nessun uomo di guardia, nessuno nascosto dietro le tende.

«Fermati. Voglio salire.»

Parcheggiammo davanti al garage. Pike provò a sollevare la porta, ma era chiusa. La cassetta della posta era vuota. Jon girò intorno al garage e scomparve su per la scarpata.

Non era necessario parlare.

Salii la scala e andai alla porta. Pike mi stava accanto, con la pistola abbassata lungo il fianco.

Le finestre che davano sul porticato erano coperte dalle tende, ma le tende erano sottili. Si vedevano delle sagome di luce – porte a vetri – ma all’interno non si muoveva nulla e la casa era immersa nel silenzio. Premetti il campanello e bussai. Tirai fuori l’attrezzo per forzare le serrature, ma in quel momento la porta si spalancò e comparve Jon Stone. Questi ragazzi della Delta Force si muovevano in fretta.

«Libero. Non c’è nessuno.»

Entrai passandogli davanti, scoraggiato e irritato.

«Come hai fatto a entrare?»

«Dalla porta della cucina.»

Il soggiorno si apriva su una sala da pranzo le cui portefinestre davano su un cortile piastrellato. Pike guardò attraverso i vetri per controllare il retro.

«Allarme?»

«No. La cucina è adiacente alla sala da pranzo, sul corridoio ci sono due camere e un bagno.»

Pike andò in cucina. Jon rimase vicino alle finestre sul davanti per tenere d’occhio la strada e io corsi verso le camere. Fui preso dalla smania di affrettare le ricerche. Mi dissi di rallentare, ma non lo feci.

Una piccola stanza in fondo alla casa dava sul cortile. La camera padronale era più grande e si trovava sopra il garage. Lanciai un’occhiata veloce alla stanza sul retro e tornai di corsa a quella padronale.

Un letto matrimoniale rifatto con cura guardava verso le finestre affacciate sulla strada. Accostato alla parete divisoria c’era un cassettone con lo specchio, davanti alle finestre era sistemato un tavolo che fungeva da scrivania. Dentro l’armadio erano appesi otto o nove completi da donna. Cinque paia di scarpe da donna e tre borse erano radunate dietro i vestiti. Gli abiti sembravano adatti a Amy e della taglia giusta. Otto o nove capi non erano molti. La cabina armadio nella casa di Hancock Park, invece, era così piena di roba che non avrei potuto dire se mancasse qualcosa.

Controllai il cassettone e andai alla scrivania. In due cassetti erano riposti degli indumenti, altri due erano vuoti. Sul tavolo c’erano un monitor e una stampante da pochi soldi, qualche blocco e delle penne. Sulla scrivania e nella camera in generale non c’era nulla che potesse identificare la persona che viveva lì.

Forse non ci viveva nessuno.

O forse ci avevano vissuto e ora se n’erano andati.

Tornai in soggiorno. Jon era ancora di guardia alle finestre.

«Cosa ne pensi?» mi chiese.

«Non lo so.»

Un divano color grigio talpa sistemato di fronte a due poltrone coordinate, con in mezzo un tavolino tozzo e squadrato, e due tavolini uguali troppo grandi per quell’ambiente erano sistemati ai due lati del divano, mentre sulla parete era appeso un dipinto di scarsa qualità. I mobili sembravano nuovi, ma ricordavano quelli che si trovano nelle catene di motel economici.

Pike emerse dalla cucina.

«Qualche piatto e un po’ di provviste, avanzi di cibo da asporto, qualcosa nel bidone dell’immondizia. Si direbbe roba di due o tre giorni fa. Una persona, non di più.»

«Telefono, tivù?»

«No.»

Osservai i mobili stile arredo di scena. La donna che viveva in quella casa era quasi certamente Amy, ma non ci dormiva con Charles, o con un’amica, e neppure con Thomas Lerner. Mi chiesi chi fosse realmente e se sarebbe tornata. A parte qualche indumento, lì dentro non c’era nulla di Amy, né di Jacob. Forse non sarebbe tornata. Forse aveva avuto quell’abboccamento con le persone che cercava e ora era morta, o magari in fuga dal paese.

Mi sentivo stanco. Avrei voluto sedermi sul divano grigio talpa e invece andai alla porta.

«Era lei. È stata qui, ma se n’è andata.»

Jon infilò i pollici nelle tasche dei pantaloni.

«Si è data parecchio da fare per sistemare questo posto. Potrebbe tornare.»

«Forse.»

«Posso predisporre qualcosa per farci sapere.»

Non capivo.

«Farci sapere cosa?»

«Ha il wi-fi. C’è un router sotto la scrivania.»

Jon tirò le tende e batté sulla parete.

«Se installo un sensore di movimento, sapremo se entra qualcuno. Una trasmittente audio-video qui e in camera da letto e avremo occhi e orecchie.»

Si strinse nelle spalle come se fosse la cosa più semplice di questo mondo.

«Non ti faccio neppure pagare, a parte il fatto che non potresti permettertelo.»

«Hai qualcosa per aprire il garage?» disse Pike.

«Ho gli attrezzi in macchina.»

Jon Stone era un bel tipo.

Pike ci accompagnò giù. Jon tornò alla casa a bordo della sua Rover, io salii sulla mia auto e rimasi a fissare l’ingannevole acqua blu. Amy Breslyn si stava dimostrando intelligente, scrupolosa, preparata. Piazzare delle microspie in casa aveva senso, ma Amy poteva avere altre case come questa sparse per la città, pronte per essere usate all’occorrenza e abbandonate. Se non fosse tornata, la villetta di Silver Lake non significava nulla. Mi serviva una nuova pista, e a questo stavo pensando quando chiamò Eddie Ditko.

«Avevo ragione a proposito del potenziale. Questa cosa darà i suoi frutti.»

«Raccontami.»

«Innanzitutto, devi sapere che non siamo gli unici cavalli in corsa. Un detective della polizia di Los Angeles ha chiamato Solano.»

«Carter?»

«Stinnis. Lo conosci?»

Doug Stinnis lavorava alla Omicidi di Hollywood quando lo conoscevo, prima che facesse il salto di qualità.

«È in gamba. È il tuo modo per dirmi che non vogliono parlare con te?»

«È il mio modo per dirti che la polizia è in vantaggio. E tu perderai.»

Certe volte bisogna ignorarli.

«Aiuta ad attenuare la mia vergogna. Cos’hai scoperto a proposito della casa?»

«Niente. Alla prigione non ne sapevano nulla finché non gliel’ha detto Stinnis. Sai cos’altro gli ha raccontato?»

«Che è di parecchio avanti rispetto a me e che io sono un incapace?»

«Esattamente. Medillo ha acquistato la casa dal suo compagno di cella, e anche il suo compagno di cella è morto a Solano.»

Conoscevo il suo nome perché l’avevo letto sui documenti fiscali.

«Walter Jacobi?»

«Forse non sei così incapace come sembra. Sì, Jacobi. Tre settimane dopo che la proprietà è passata di mano, Jacobi è morto per un’overdose. Undici giorni dopo, Medillo è stato assassinato.»

«Chi l’ha ucciso?»

«Non lo so. C’è stato uno scontro tra bande, una cosa tra neri e ispanici. A quanto pare Medillo era un semplice spettatore, ma si è beccato sedici coltellate.»

«Il caso è ancora aperto?»

«Sì. Lo sai come succede. Una ventina di sospettati, ma le telecamere erano state coperte e nessuno parla.»

«Ritengono che le due morti siano collegate?»

«Non ne avevano motivo, ma non sapevano della casa. Erano due tossici, e qualcuno potrebbe aver dato la colpa a Medillo per la morte del vecchio, ma sono solo voci. Ho chiesto i loro fascicoli.»

«Jacobi aveva dei parenti?»

«A Solano non risulta, ma Medillo aveva un padre e due sorelle.»

Mi ricordai del necrologio.

«Roberto, Nola e Marisol.»

«Visto? Non sei stupido come dicono. Se vuoi sapere della casa, chiedi alla sua famiglia. Probabilmente l’hanno aiutato loro a comprarla.»

«Grazie, Eddie. Mandami i fascicoli.»

Posai il telefono e fissai il lago. La vendita o l’acquisto di una proprietà da parte di un detenuto era legale, ma la presenza di notai, responsabili dell’ufficio prestiti, avvocati e altre persone necessarie a redigere un atto doveva essere autorizzata dal carcere. Se i dirigenti del penitenziario di Solano non sapevano della transazione, significava che Medillo e Jacobi non volevano che lo sapessero, e che in quella transazione c’era del marcio. Mi chiesi se fossero stati presenti il padre o le sorelle di Medillo. Probabilmente Stinnis si stava chiedendo la stessa cosa, e magari era già là a parlare con loro. Avevo bisogno di una pista diversa, e il miglior punto per trovare una pista era l’inizio.

L’inizio era Thomas Lerner, e Jennifer Li era ancora il miglior modo per arrivare a lui, se non l’unico. Sua madre non mi aveva dato il suo numero, ma mi aveva dato elementi sufficienti.

Andai a cercare Jennie.

La promessa
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