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Amy Breslyn abitava in una casa a due piani, una costruzione gialla in stile mediterraneo con il tetto di tegole rosse vicino al limite meridionale di Hancock Park. Non era la parte più ricca del quartiere, ma le case, costruite negli anni Venti per una clientela benestante, davano ancora un’idea di agiatezza. Piante di paradisea incorniciavano le finestre e un vialetto scendeva attraverso il prato fino a un garage sul retro della casa. Accanto al vialetto c’era un cartello blu e giallo della vigilanza. Risposta armata.
Parcheggiai lungo il marciapiede sull’altro lato della strada e osservai la casa. Una volta una famiglia mi aveva assunto per trovare un chirurgo in pensione di nome Harold Jessler. Il dottor Jessler era scomparso da nove giorni e in quei nove giorni suo fratello, le sue due sorelle, sua figlia, suo figlio e la sua ex moglie avevano più volte telefonato e fatto visite a casa sua. Nessuno rispondeva alle chiamate e Jessler non era mai in casa. Temevano si fosse ammalato e allontanato, ma quando bussai alla sua porta il dottor Jessler rispose. Gli chiesi come mai avesse aperto a me ma si nascondesse ai suoi familiari e la sua risposta fu semplice. Non voleva vederli.
La casa di Amy era tenuta in modo impeccabile, il prato rasato con cura. Sul vialetto non c’erano giornali. Poteva essere dentro a contare i soldi o a guardare la tivù, ma probabilmente non era così. Di solito le persone che si appropriano indebitamente di quattrocentosessantamila dollari hanno un piano, e quel piano implica lasciare il paese.
Stavo scendendo dall’auto quando Meryl Lawrence chiamò.
«È andato a casa sua?»
«Sì. Sono appena arrivato.»
«Ha trovato qualcosa?»
«Sono appena arrivato.»
Riattaccai. Se Amy si stava nascondendo da Meryl Lawrence, non potevo biasimarla.
Attesi che passassero due donne sul marciapiede, poi andai alla porta. Non rispose nessuno e così entrai. Partì l’allarme ma quando inserii il codice si zittì.
«Signora Breslyn? C’è qualcuno?»
Nada.
L’ingresso era accogliente e spazioso, con pareti bianche intonacate e il pavimento di ceramica, e mobili di quercia massiccia trattati con mordente scuro come sangue secco. Sulla destra si apriva un soggiorno, sulla sinistra un’elegante sala da pranzo. Di fronte alla porta d’ingresso una scala portava al secondo piano. Una grande fotografia incorniciata di un ragazzino mi fissava dalla parete. Era la prima cosa che chiunque avrebbe visto entrando. Il ragazzino sembrava avere otto o nove anni: carnagione pallida, guance paffute, una chioma di riccioli scuri. Doveva essere Jacob.
«Ehi, c’è nessuno?»
Chiusi a chiave la porta d’ingresso, inserii nuovamente l’allarme e feci un rapido giro per accertarmi di essere solo. La casa di Amy era pulita, ordinata e immacolata come un albergo deserto. Niente mobili rovesciati, schizzi di sangue o biglietti con richieste di riscatto a suggerire qualche atto criminale. Il dottor Jessler si nascondeva sotto il letto, Amy Breslyn no. Quando fui certo che in casa non ci fosse nessuno, controllai il garage. La macchina non c’era, ma questo non significava che lei fosse in fuga o fuori città. Per quello che ne sapevo io poteva aver fatto un salto da Starbucks.
Cominciai la perquisizione dal primo piano, dalla sua camera da letto. Il letto era rifatto con cura. Non c’erano indumenti sparsi in giro o appesi ai cassetti aperti. I comodini di ebano ai lati del letto e il cassettone coordinato erano sgombri e puliti come quelli di un’esposizione di mobili, e il cassettone conteneva indumenti piegati e ordinatamente impilati. E non c’erano dépliant di viaggi, bigliettini d’amore o foto di uomini appiccicati alle pareti. Alla faccia dei tanti indizi.
Il guardaroba e il bagno mostravano la stessa ossessione per l’ordine e la pulizia. Gli abiti erano divisi per tipo e colore, appesi o piegati sugli scaffali. In fondo al guardaroba c’erano due valige nere Tumi. Il bagno conteneva un’ampia scorta di spazzolini da denti e articoli da toilette, e nessuna prova che Amy avesse fatto i bagagli per una vacanza romantica, una fuga precipitosa o che avesse comunque lasciato la casa. Ma non trovai nulla che indicasse che lei o qualcun altro abitasse ancora lì. I cestini erano vuoti.
Al primo piano c’erano tre stanze e la successiva era usata come studio. Una scrivania lunga e poco profonda era messa di traverso rispetto al muro in fondo, con dietro degli schedari che prendevano tutta la parete. Le altre pareti erano occupate da librerie basse piene di volumi dai titoli accattivanti tipo Il manuale dell’ingegnere chimico, Inibitori di masse reagenti, Dinamica dei fluidi comprimibili, e Termodinamica e cinetica di formazione dei polimeri avanzati. Sui ripiani più alti delle librerie erano posate fotografie incorniciate di Jacob o di Amy e Jacob insieme. Il ragazzo dell’ingresso era cresciuto fino a diventare un giovane alto e allampanato che torreggiava sopra la madre. Una foto ritraeva Amy che reggeva un vassoio di brownie enormi. Era circondata da Jacob e dai suoi amici in quella che sembrava la sede del giornalino del liceo. Un’altra ritraeva un Jacob adolescente con una ragazza in posa con Amy davanti alla casa. Jacob e la ragazza erano rispettivamente in smoking e abito lungo, probabilmente diretti al ballo di fine anno. Jacob era raggiante. Anche Amy sorrideva, ma in lei c’era qualcosa di triste. Forse era una di quelle persone che sembrano sempre tristi anche quando non lo sono.
La scrivania di Amy era sgombra e pulita come il cassettone e i comodini. Un telefono digitale, due grandi monitor, una tastiera wireless di ultimissima generazione e un mouse erano perfettamente allineati sulla superficie priva di polvere. I monitor erano spenti. Accanto alla tastiera, perfettamente a filo, c’era un raccoglitore blu con l’etichetta DIPARTIMENTO DELLA MARINA – REQUISITI PER PROCEDURE DI OFFERTA. La mia scrivania era una discarica di graffette, bollette, ricevute, blocchetti di Post-it, altre bollette, riviste che mi ripromettevo di buttare, fatture, tovagliolini usati e menu da asporto. La sua non presentava niente di tutto questo. Era come se qualcuno si fosse sbarazzato delle prove della sua vita quotidiana e delle sue attività.
C’era qualcosa in quella scrivania che non mi convinceva.
Mi sedetti e sfiorai la tastiera. I monitor non risposero. Si illuminarono quando li accesi, ma gli schermi mostravano solo uno sfondo azzurro. Guardai sotto e intorno alla scrivania. Trovai tutti i componenti del sistema tranne ciò che li faceva funzionare. Il computer di Amy era scomparso.
«Mmh» feci.
Gli investigatori fanno sempre così quando qualcosa non li convince.
Poi controllai il telefono. C’era segnale e così cercai di richiamare i registri delle chiamate in arrivo e in uscita. Erano vuoti. Come pure la rubrica del cordless. O il telefono era nuovo di zecca e non era mai stato usato, o qualcuno aveva cancellato i dati.
Tirai fuori il cellulare e chiamai Meryl Lawrence.
«Sono nella casa. Può parlare?»
«Sì. Ha trovato qualcosa?»
La sua voce era cauta e sommessa, come se temesse che i muri avessero orecchie. E da quanto mi aveva detto a proposito della divisione sicurezza, probabilmente le avevano.
«Forse. Lei è stata nella casa la scorsa settimana, giusto?»
«Sì. Ci sono stata tre volte da quando abbiamo ricevuto la sua email. Perché?»
«Il suo computer c’era?»
«Io cercavo Amy. Non ho guardato il computer.»
«Be’, manca. L’ha preso lei?»
«Prego?» La sua voce era fredda, sorpresa.
«Ha preso lei il suo computer?»
«Ma cosa le viene in mente? Non avrei mai preso il suo computer.»
«Avrebbe potuto farlo se avesse voluto che la divisione sicurezza entrasse nella sua posta elettronica.»
«No, non l’ho preso.»
«Dovevo chiederglielo. Probabilmente usa un laptop e lo porta con sé ovunque.»
«Allora trovi dov’è Amy e troverà il computer. Lei è con quel maledetto uomo, lo so.»
Non volevo che ricominciasse con la storia dell’amico.
«Un’ultima cosa. Quando è stata qui, ha usato il telefono?»
«Perché me lo chiede?»
«Magari ha fatto una chiamata con il suo telefono o ha premuto il tasto di ricomposizione dell’ultimo numero per vedere chi aveva chiamato.»
«No. Non sono così sveglia. Se mi fosse venuto in mente l’avrei fatto. Ha trovato il numero di quel bastardo?»
«Non ho trovato nessun numero. I registri del telefono sono stati cancellati.»
«Non può farseli dare dalla compagnia telefonica?»
«Dipende da quale operatore usa.»
«Probabilmente è stato quel maledetto uomo a cancellarli. Probabilmente le ha detto…»
Riattaccai e mi dedicai agli schedari. Erano bassi e larghi, con i fascicoli appesi da sinistra a destra anziché dal davanti al dietro. Speravo di trovare estratti conto bancari e della carta di credito, ma i cassetti erano pieni di articoli di giornale che parlavano della morte di suo figlio Jacob e delle successive indagini. Amy aveva archiviato centinaia di articoli, notizie e rapporti trovati su Internet, e decine di lettere che lei aveva scritto al dipartimento di Stato, piene di domande alle quali loro non erano in grado di dare una risposta. I fascicoli non contenevano niente su di lei, sul suo lavoro o sulla sua vita. I cassetti erano tutti per Jacob.
Fotografai il suo ufficio per il mio fascicolo e passai all’ultima stanza.
Era la camera da letto di Jacob. I suoi vestiti erano ancora appesi nel guardaroba, la scrivania e le pareti erano affollate dalle cose che i ragazzi accumulano. La fotografia del diploma era appesa sopra il letto. Ritraeva un adolescente goffo in tocco e toga con un’esplosione di brufoli infiammati sul mento. Probabilmente Jacob odiava quella foto e non l’avrebbe mai appesa nella sua camera. Doveva essere stata la madre a farlo.
Trovai tre annuari delle superiori su uno scaffale e una vecchia rubrica degli indirizzi nel cassetto della scrivania. Conteneva pochi nomi, ma controllai la L per Lerner e la T per Thomas. Lerner non figurava, ma gli annuari mi fecero venire un’idea. Tornai nello studio di Amy, presi la foto scattata la sera del ballo di fine anno e la infilai negli annuari. Portai il tutto al piano di sotto, lo lasciai nell’ingresso e feci una rapida ispezione del piano terra.
Soggiorno, sala da pranzo e cucina si rivelarono una perdita di tempo. In cucina c’era un altro telefono, anche quello con la memoria vuota. Stavo vivendo quella che nell’ambiente si chiama una mattinata infruttuosa.
L’ultima stanza era una specie di rientranza ricavata tra il soggiorno e la cucina. Un tavolo di vetro per la colazione rivolto verso la cucina con posato al centro un vaso vuoto di cristallo intagliato. Addossato alla parete c’era un secrétaire antico con un unico grande cassetto. Fu l’ultimo posto che perquisii nella casa di Amy Breslyn, ma fu lì che trovai quello che mi serviva.
Quindici o venti fascicoli sottili nel cassetto, con etichette scritte a mano: “Casa”, “Salute”, “Auto”, “Visa” e “Amex”. Ero orgoglioso di me per aver trovato quelle carte, ma Meryl Lawrence sarebbe rimasta delusa. Non c’era neppure un fascicolo con l’etichetta “Amico”.
Come prima cosa tirai fuori i documenti delle carte di credito, e scorsi rapidamente gli estratti conto. Non trovai alcun biglietto aereo per Dubai, nessuna spesa pazza da Tiffany, e nessuna crociera intorno al mondo. Niente negli ultimi tre estratti conto di Amy suggeriva dove fosse, cosa stesse facendo, né che si fosse intascata illegalmente quattrocentosessantamila dollari.
Misi da parte il fascicolo delle carte di credito, saltai quelli con su scritto “Giardiniere” e “Assicurazione”, e stavo sfogliando le ricevute quando mi tirai su di scatto e pronunciai il suo nome.
«Amy!»
Tre mesi prima, Amy Breslyn si era procurata una pistola semiautomatica Ruger nove millimetri insieme a un’iscrizione annuale a un poligono, l’X-Spot Indoor Pistol Range, le istruzioni per l’uso di una pistola, un kit per la pulizia, due scatole di munizioni nove millimetri, una custodia di nylon per la pistola e una cuffia antirumore. La ricevuta recava il timbro “pagato in contanti”.
Non avevo visto nessuna di queste cose, e così cercai di nuovo in camera sua.
Aprii le scatole di scarpe, controllai gli scaffali più alti, aprii valigie e borse. Guardai tra i materassi, sotto i vestiti nel cassettone e dentro i comodini. Cercai nel suo studio, in garage, negli armadietti della cucina, e persino nel frigo e nel freezer. Non trovai nulla. Nessuna pistola, nessun armadio blindato, nessun kit per la pulizia né munizioni.
Mi chiesi per quale ragione Amy avesse voluto una pistola, e se l’avesse portata con sé.
Presi i fascicoli dal secrétaire, li portai nell’ingresso e li posai sugli annuari.
Jacob mi scrutava dalla parete.
«Perché ha comprato una pistola, amico?»
Lui non rispose.
Mi chiesi che adulto fosse diventato Jacob. Mi chiesi cosa stesse facendo quando era esplosa la bomba all’altro capo del mondo, e se stesse ridendo quando era morto.
La casa era piena di lui. Le sue foto erano ovunque. La sua camera era un sacrario.
«Tu sei ancora qui, quindi lei è ancora qui. Non ti avrebbe lasciato solo.»
Jacob sorrise. Aveva brutti denti.
Ricambiai il sorriso.
«Restituirò le tue cose. Te lo prometto.»
Uscii e andai alla mia auto. Gettai annuari e fascicoli sul sedile del passeggero, ma non partii. Pensavo alla pistola. Amy poteva aver avuto un ripensamento. Poteva aver deciso che era troppo rumorosa, troppo puzzolente o che non fosse divertente. Forse avere una pistola in giro per casa la faceva sentire meno sicura, e così se n’era sbarazzata. C’erano un sacco di validi motivi per cui la pistola poteva essere sparita, ma le congetture non sono fatti.
Pensai di chiedere a Meryl Lawrence. Probabilmente mi avrebbe risposto che l’aveva presa l’amico di Amy e io avrei dovuto dirle che non avevo trovato alcuna prova dell’esistenza di un amico, e niente che facesse supporre che Amy Breslyn se ne fosse andata con lui o con chiunque altro.
Stavo ancora pensando all’amico, reale o presunto, quando una Toyota berlina verde si fermò sull’altro lato della strada e parcheggiò lungo il marciapiede davanti a casa di Amy.
Ne scese una donna ispanica tarchiata che portava una grande borsa di tela. Indossava ampi calzoni di cotone, una felpa della University of Southern California, e aveva i capelli tirati indietro con una fascia. Si mise la borsa a tracolla, si avviò faticosamente su per il vialetto e aprì la porta d’ingresso con una chiave. La vidi allungare la mano verso il pannello dell’allarme con gesto deciso prima che la porta si richiudesse.
Mi misi comodo e rimasi a fissare la casa.
Doveva essere la domestica di Amy. Apparentemente lei si era data alla macchia, ma la sua governante era lì, a pulire una casa già pulitissima. Mi chiesi se sapesse del periodo di aspettativa chiesto da Amy e se si aspettasse di trovarla a casa. Amy poteva non averle detto niente, ma la donna aveva la sua chiave e conosceva il codice dell’allarme, quindi Amy si fidava di lei. Chiunque fosse stato abbastanza tempo a servizio da conquistarsi la chiave per entrare autonomamente avrebbe potuto sapere se nella vita di Amy c’era un nuovo uomo, e di certo avrebbe saputo più di me.
Sei minuti prima, mi avrebbe sorpreso in casa. Sei minuti dopo, io me ne sarei già andato e l’avrei mancata. Certe volte gli dèi degli investigatori privati sono benevoli.
Aspettai cinque minuti per darle il tempo di sistemarsi, poi tornai alla porta di Amy.