Porto di Valdez

Dopo aver piazzato le cariche esplosive a bordo della Hope, Abu Alam si era lasciato appena il tempo per distruggere le radio e precipitarsi sul ponte. Aveva dei margini troppo stretti. Era a oltre un miglio dalla spiaggia rocciosa all’estremità della baia di Valdez, quando sentì le sirene del terminal. Kerikov aveva fatto esplodere le batterie di azoto. Alam era in mezzo al mare, troppo esposto per far esplodere le cariche a bordo della nave col detonatore: avrebbe attirato l’attenzione, e invece aveva bisogno di tempo per rubare un mezzo con cui andare all’aeroporto di Anchorage.

Ogni secondo che passava aumentava le possibilità che Ivan Kerikov riuscisse a fuggire dalla nave, e uno degli ordini inderogabili di Rufti era che il russo non doveva sopravvivere. Alam tentennava tra la cautela e il desiderio di uccidere Kerikov. Sapeva che fino a che non avesse toccato terra doveva dare la precedenza alla cautela. Aveva valutato la possibilità di arrivare con il gommone fino a Valdez, ma probabilmente era stato visto quando aveva rapito Aggie Johnston. Era più prudente dirigersi al terminal di Alyeska, lasciare il gommone sulla spiaggia non lontano dalla struttura e rubare un mezzo approfittando della confusione generata dall’esplosione delle batterie di azoto.

Da sopra la spalla vide che i ponti della Hope erano deserti, probabilmente i giovani ambientalisti stavano ancora festeggiando. Alam odiava usare gli esplosivi. Erano lontani, impersonali. Preferiva di gran lunga veder morire le sue vittime, sentire l’odore della paura mentre la vita fluiva dal loro corpo attraverso un taglio alla gola o uno sparo in pieno petto. Aveva già usato le bombe, ma gli sembrava una fregatura, come se fosse l’esplosivo a uccidere al posto suo.

Una grossa ondata investì il gommone costringendo Alam a concentrarsi sulla navigazione. Subito fuori dal perimetro del terminal petrolifero, un fiumiciattolo sfociava nella baia, riparato da un fitto bosco su entrambi i lati: era un ottimo punto per attraccare. In lontananza Alam vide un ponticello che attraversava il fiume e, poco più in là, la strada di accesso al terminal. Perfetto.

Dato che non era esperto nella guida dei gommoni, si concentrò sulla manovra e non si voltò fino a che non sentì che la prua aveva toccato la riva mentre il fuoribordo sollevava il fango marrone del fondale. Quando finalmente si voltò, estrasse immediatamente il detonatore dalla tasca della giacca. Sul ponte della Hope si vedeva una moltitudine di piccole figure che saltavano giù. Da lontano sembravano i proverbiali topi che abbandonano la nave che affonda. I membri della PEAL stavano scappando, e forse tra loro c’era anche Kerikov. Alam non perse tempo a farsi domande, né vide la sagoma rossa dell’idrovolante danneggiato che si allontanava dalla nave. Pensò solo ai chili di esplosivo sapientemente posizionati a bordo della nave e alle morti che stavano per causare. Digitò un codice di attivazione sul detonatore, vide accendersi la spia verde e premette il tasto “Enter”.

Come un uccellino che non sa di non poter volare, l’aerodinamica del Cessna tentava di sollevare l’aereo e i suoi passeggeri, ma continuava a scivolare sulla superficie della Baia di Valdez. Aggie lottava per mantenere l’assetto, premendo con tutto il peso del suo corpo sul pedale di destra per compensare lo sbilanciamento causato dal danno all’ala sinistra. Riusciva solo a far strisciare l’aereo lateralmente attraverso la baia, col muso puntato a trenta gradi dalla linea di rotta. Mercer si era reso conto che ormai ne sapeva abbastanza in fatto di aerei da rendersi conto che non ne sapeva abbastanza per aiutare Aggie. Tenne le mani e i piedi lontani dai comandi e si concentrò sullo specchietto montato sopra il cruscotto e guardò la Hope che si rimpiccioliva dietro di loro. Per quanto fossero veloci, erano ancora troppo vicini alla nave. Se a bordo c’era una quantità di esplosivo sufficiente a spaventare Kerikov e a fargli fare quel salto suicida, lui e Aggie potevano aspettarsi una passeggiata movimentata. Non avendo niente da fare, Mercer afferrò la bottiglia di whisky che era rimasta in cabina e si concesse una dose abbondante di coraggio liquido.

La Hope, che era una nave da ricerca classe Hecla della Marina britannica, svanì proprio nell’istante in cui lui staccava la bottiglia dalle labbra.

Era lì, al centro dello specchietto, e un istante dopo era svanita in un’esplosione multicolore di fiammate gialle, rosse e nere, mentre lo scafo andava in pezzi e una miriade di frammenti di metallo, legno e carne umana venivano sparati in aria in ogni direzione. Una devastazione totale e assoluta. Prima ancora che l’onda d’urto raggiungesse il Cessna la nave era già quasi completamente affondata nell’acqua increspata della baia e non c’era più nessun segno della sua esistenza, a parte le fiamme e il fumo denso che si levavano sulla superficie e la disperazione di chi annaspava vicino alla sua tomba.

L’onda d’urto fece andare in frantumi tutte le finestre di Valdez che davano sulla baia, uccidendo quattro persone e rovesciando tutte le barche più piccole all’àncora nel porto, causando altre otto vittime. Se l’esplosione avesse tardato qualche minuto in più, le morti tra i civili sarebbero state molte di più, perché i curiosi si stavano recando tutti verso la costa per scoprire il motivo dell’allarme scattato al terminal con cui confinavano le loro case e che dava lavoro a molti di loro. L’avvertimento di Mercer era servito a salvare la vita di tutti i membri della PEAL tranne dodici: otto erano morti sul colpo, e quattro erano morti all’ospedale.

Aggie Johnston e Philip Mercer erano sfuggiti all’esplosione per un pelo.

“Tieniti forte” le gridò quando vide quello che era appena successo, lasciando cadere la bottiglia.

L’onda dell’esplosione sollevò il Cessna da dietro e le pale dell’elica toccarono l’acqua alzando una cortina di spruzzi che impedivano di vedere davanti. Aggie tirò immediatamente indietro la cloche sollevando contemporaneamente il piede dal pedale. L’aereo tentò di sollevarsi e per un magico istante fu di nuovo diritto, con i galleggianti in appoggio e le forze combinate delle ali e dell’onda d’urto che lo mantenevano in assetto.

Poi, le onde concentriche che si espandevano partendo dal punto dell’esplosione raggiunsero l’aereo sollevandolo come un surfista sulla cresta dell’onda perfetta, spingendolo a grande velocità lungo la baia di Valdez. Dal punto dell’esplosione le onde correvano a quasi duecento all’ora sollevando una montagna d’acqua alta dieci metri, sulla cui sommità Aggie riusciva a malapena a mantenere il controllo del velivolo. Non era sicura se le sue correzioni sulla cloche e sui pedali servissero a mantenerlo stabile, o se invece l’aereo non fosse totalmente in balìa dei capricci di quelle ondate violente.

Il ronzio negli orecchi cessò e Aggie si rese conto della violenza dell’acqua che scorreva tutto attorno, e udì la risata di Mercer. “Cosa cazzo hai da ridere?” gli strillò.

“Mezz’ora fa ti sei lamentata di come stavo volando, ma non vedo grandi miglioramenti.”

Prima che Aggie potesse ribattere con un insulto scurrile, un’onda colpì violentemente il frangiflutti che circondava la struttura del terminal scaraventandosi contro l’argine costruito per resistere agli tsunami, anche se i progettisti avevano pensato a fenomeni sismici e non a esplosioni devastanti come quella.

Il cemento nell’impatto strappò via i galleggianti e il muro assorbì una buona parte della forza dell’onda, mentre l’aereo rimase sospeso per un istante, prima di trovarsi ad arare con la pancia il terreno sassoso mentre le pale dell’elica si accartocciavano come i tentacoli di una creatura marina.

Il rischio che l’aereo si incendiasse era elevato, e non appena l’aereo si arrestò Aggie e Mercer schizzarono dai sedili.

“Signore e signori, vi ricordiamo che su questo volo le vostre miglia valgono il doppio. Grazie per aver volato con la Philip Mercer Airlines.” Mentre finiva la frase, Mercer si catapultò fuori dallo sportello della stiva, con Aggie subito dietro di lui.

La corsa per raggiungere il centro operativo sembrò non finire mai. Erano rallentati dalle ferite e dagli innumerevoli veicoli di servizio guidati dai tecnici che si stavano precipitando a verificare cos’era successo. Mercer spalancò la porta con una spinta, colpendo in pieno petto un’impiegata che fece un volo di quasi tre metri e che rimase a guardarlo interdetta. Mercer la ignorò e corse nella sala di controllo. La stanza era piena di gente, tutti gridavano cercando di farsi sentire sopra il frastuono delle sirene, e anche i professionisti più compassati avevano ceduto al panico quando si erano resi conto che razza di catastrofe avevano davanti. Andy Lindstrom stava al centro, paonazzo e roco per il troppo gridare. Teneva gli occhi incollati a decine di schermi, display e spie tentando di quantificare il danno al suo preziosissimo tubo. Attorno a lui una ventina di ingegneri cercavano di seguire gli eventi, disposti gerarchicamente con i più esperti in prima fila dietro a Lindstrom e i più giovani in fondo alla sala. Non c’erano finestre, e l’aria era impregnata del fumo di sigarette e dell’odore della paura.

“Andy!” gridò Mercer tentando di farsi sentire nella confusione.

Per richiamare l’attenzione estrasse la pistola di Kerikov e sparò un colpo sul pavimento che rimbombò nel silenzio improvviso.

“Andy, come siamo messi?” chiese Mercer calmo e impassibile alla folla ammutolita che lo stava guardando.

“Cristo, Mercer, cosa diavolo stai facendo?” L’espressione sul volto di Lindstrom era un misto di preoccupazione per la pistola che Mercer impugnava, sorpresa per il fatto di vederlo vivo e angoscia per l’azoto liquido che stava congelando la condotta trasformandola in un ghiacciolo. “Lieto di rivederti, ma non ho tempo da dedicarti adesso, il tuo amichetto russo ha distrutto la mia condotta.”

“Lo so.” Non c’era tempo per i convenevoli, pensò Mercer. “Dimmi se le pompe stanno funzionando.”

Prima che Andy rispondesse, un ingegnere seduto alla console disse: “No, il log del computer dice che hanno smesso di funzionare circa un minuto prima che scoppiassero le bombole di azoto. Attualmente sono disattivate, e sembra che non ripartiranno mai più. Dalle informazioni preliminari risulta che ci sono almeno quaranta punti in cui il petrolio ha smesso di scorrere e un paio in cui il flusso è ridotto al minimo. Sembra che ci siano stati due cedimenti, uno dei quali al centro del ponte sospeso sul fiume Tanana.”

“E il ponte, è crollato?” chiese Mercer preoccupato.

“Sì. Le valvole di ritegno sono aperte e il greggio esce a fiotti.”

“Dov’è l’informatico, Mossey?”

“Fino a un attimo fa era nella stanza dei computer” rispose un tecnico che si trovava accanto a Mercer.

Mercer si voltò di scatto e per poco non urtò Aggie della quale si era quasi dimenticato. Aggie si sentiva male al solo pensiero della condotta bloccata dal raffreddamento causato dall’azoto liquido. Come membro della PEAL era di fatto responsabile. “Non è ancora finita” disse Mercer precipitandosi in fondo alla sala.

La stanza dei computer, a differenza della sala operativa, era sterile e pulita, c’era solo una persona che infilava freneticamente dei fogli e dei CD in una valigetta di pelle. Mercer non gli diede neanche il tempo di girarsi: con la mano sinistra afferrò la testa di Ted Mossey e la picchiò sulla scrivania mentre con la destra gli puntava la pistola sulla faccia, premendo la canna così forte che i denti ferirono l’interno della guancia. Quando Mercer parlò, la sua era la voce di una belva feroce e aveva gli occhi pieni di disprezzo.

“Blocca il programma! Subito!”

“Non posso” balbettò Mossey, con un filo di saliva misto a sangue che gli colava dalla bocca sulla tastiera. “Il mio accesso è stato bloccato quando Kerikov ha fatto detonare le batterie con l’azoto.”

Mercer spostò il cane della pistola, e nel silenzio della stanza lo scatto risuonò come un ultimo avvertimento.

“Che peccato. Hai avuto a disposizione il programma per un paio di mesi e non lo hai manomesso per crearti un accesso nascosto? Un errore davvero fatale, ragazzo.”

Aveva intenzione di tenere in piedi quel bluff ancora per qualche istante prima di colpire di nuovo Mossey, ma non ce ne fu bisogno. Il ragazzo crollò immediatamente. “Aspetta, ti prego. Oddio… non uccidermi. C’è un accesso alternativo. L’ho creato appena Kerikov mi ha ingaggiato per farmi riattivare il suo vecchio programma.”

“Usalo immediatamente, furbacchione, e arresta le pompe in questo istante, altrimenti giuro su Dio che ti sparo in testa e col tuo cervello ci faccio un bel disegnino sul muro.” Mercer lasciò che Mossey si tirasse su ma gli tenne la pistola appoggiata all’orecchio. Il ragazzo si mise a lavorare con le dita che sfrecciavano sulla tastiera.

Aggie era in piedi in fondo alla stanza, sgomenta e affascinata nel vedere come Mercer riusciva a controllare perfettamente tanto la situazione quanto Ted Mossey. Il suo potere non dipendeva dalla pistola che impugnava, ma dalla sua persona. La convinzione con cui agiva e la fiducia incrollabile che aveva in se stesso lasciavano Aggie completamente rapita. Le sue azioni le erano sembrate istintive e imprevedibili, ma via via che la matassa si dipanava, appariva evidente che le sue erano le uniche scelte possibili. Guardandolo mentre stava lì in piedi, con il viso indurito e teso, Aggie pensò che Mercer era l’uomo più desiderabile che avesse mai visto. Sentì una scossa di eccitazione.

“Sono entrato” disse finalmente Mossey. “Ancora un minuto e ci sono.”

“Tra trenta secondi ti fracasso il cranio.” Nessuno, e nemmeno Mercer, sapeva se stava bluffando o no.

Andy Lindstrom aveva seguito Mercer e Aggie nella sala dei computer e, dopo aver assistito al dramma che si stava consumando, raggiunse una postazione vicino a Mossey per controllare sullo schermo lo stato delle pompe e della condotta. Il programma, installato da una talpa all’epoca della Guerra Fredda, era stato attivato dopo tutto quel tempo. Le dieci pompe lavoravano alla massima potenza, creando una spaventosa pressione di ritorno contro i blocchi di petrolio solidificato. Mercer era arrivato troppo tardi, ma la condotta stava tenendo. Se fossero riusciti a fermare le pompe in tempo, la condotta non si sarebbe spaccata come aveva previsto Kerikov.

“Pressione interna?” chiese Mercer senza distogliere gli occhi da Mossey.

“Milleduecento psi all’interno della camicia, rilevata da quasi tutti i sensori,” gridò Lindstrom. “Siamo oltre la soglia massima. Il tubo mollerà da un momento all’altro. Le pompe stanno tutte lavorando, non funzionerà.”

“È la seconda volta di oggi che qualcuno mi dice questa frase.” Mercer lanciò una rapida occhiata ad Aggie, che ricambiò con un sorriso.

Mossey si discostò dal computer, era sfinito, e disse: “È il massimo che posso fare.”

“Situazione?” abbaiò Mercer.

“Milleduecentoventicinque psi, scoppierà di sicuro.” Gridò Lindstrom. “Improvviso calo di pressione in uno dei sensori, perdita dalla condotta. Le pompe stanno ancora… Un momento! Le pompe si sono fermate!” La voce di Lindstrom si affievolì mentre guardava trepidante lo schermo. I valori trasmessi dai sensori della pressione interna montati all’interno del tubo continuavano a salire: avevano ormai superato del 15% il limite massimo di resistenza. Alla fine Lindstrom ritrovò la parola, rompendo quel silenzio denso con una voce così piena di emozione e di agitazione che gli ingarbugliavano le parole. “La pressione sta scendendo in caduta libera. La mia creatura ha tenuto. Grazie a Dio, e grazie alla cooperativa di saldatori che l’hanno fatta più resistente di quanto potessimo aspettarci.”

Mercer alzò lo sguardo, sollevato ma visibilmente provato da tutte le avventure che gli erano capitate dalla sera prima. “E non dici niente per i fabbri che hanno costruito il tubo?”

“Affanculo… erano tutti giapponesi,” disse Lindstrom scoppiando in una risata liberatoria. Doveva comunque affrontare un evento gravissimo, visto che c’erano tre perdite molto gravi che stavano riversando migliaia di barili di greggio, ma erano riusciti a contenere il danno entro livelli gestibili.

Con Mossey come testimone, Alyeska era al riparo da qualsiasi accusa.

“Errore umano” disse Mercer, come se stesse leggendo nella mente di Andy. “Non una negligenza, ma il tipo di errore che la gente commette quando fa la cosa sbagliata per il motivo sbagliato.”

“Come sapevi di Mossey?”

“Ti dirò tutto domani. Adesso ho bisogno di un drink, di una doccia calda e di un letto, e non necessariamente in quest’ordine.”

“Prima da bere.” Ridacchiò Andy. “Nel mio ufficio. Ma qualsiasi cosa tu abbia fatto oggi, non dividerò il mio letto con te.”

Mercer guardò Aggie e sorrise vedendo l’espressione timida del suo volto. Andy seguì lo sguardo di Mercer obbligando silenziosamente Mercer a fare le presentazioni. “Andy Lindstrom, questa è Aggie Johnston, la figlia di Max Johnston.”

“Conosco suo padre.” Lindstrom le strinse la mano e riportò lei e Mercer nel suo ufficio. “Sentite, io non ho tempo per quel drink, devo organizzare le squadre per la riparazione delle sezioni di tubo danneggiate. Il quadro dei sensori mostra i punti in cui la PEAL ha posizionato l’azoto. Ci sono chilometri di condotta tra un blocco e l’altro, e stiamo perdendo una quantità spaventosa di petrolio. La perdita sul ponte sul Tanana sta perdendo circa ventimila litri all’ora. Ogni minuto che passa questo casino diventa sempre più grosso.”

Lindstrom rimase in silenzio per qualche istante, quindi chiese: “Senti, Mercer, puoi rimanere qui in giro per un po’? Ho bisogno che mi racconti cos’è successo alla stazione numero cinque. Non siamo ancora riusciti a inviare una squadra, perché l’incendio al deposito di Fairbanks non è ancora stato domato e sta impegnando un sacco di uomini.”

“Allora Eddie non ce l’ha fatta?” Mercer era sbigottito. Era convinto che le squadre di soccorso sarebbero riuscite a trovare il pilota dell’elicottero prima che le ferite lo uccidessero.

“Eddie sta bene. In questo momento è in ospedale a Fairbanks, ma lo hanno sedato appena è arrivato. È stato recuperato ieri sera da un elicottero dell’esercito, ma i militari non sono arrivati fino alla stazione di pompaggio, sono ancora impegnati a trasportare i feriti di Fairbanks.”

In quel momento, per Mercer sapere che Eddie era in salvo gli sembrava più importante che arrestare il piano di Kerikov di distruggere l’oleodotto. Per lui, la vita umana veniva prima di qualsiasi altra preoccupazione. Negli interventi di recupero in miniera, aveva speso milioni di dollari per tirare fuori anche un solo minatore intrappolato, e per lui era comunque un ottimo affare. E poco importava se la posta in gioco era un mucchio di soldi o la tutela dell’ambiente in un’intera regione. La vita, la vita di chiunque, era al primo posto. Forse era un modo di pensare poco allineato con le dinamiche dell’epoca, ma lui era fatto così.

“Andy, sul serio, non so cosa dirti sulla stazione di pompaggio. Mi hanno catturato quando ero ancora a cento metri da lì.” Mercer stava quasi dormendo in piedi. “Domani ti dirò tutto quello che so, ma in questo momento non posso essere di alcuna utilità.”

Lindstrom non lo stava neanche ascoltando. Si era messo a litigare con un ingegnere sulla destinazione delle risorse e dei materiali per la riparazione. Mercer si allontanò portando con sé Aggie ed entrò nell’ufficio di Lindstrom chiudendo piano la porta. Il rumore della maniglia segnò simbolicamente la conclusione della serie di eventi che avevano appena affrontato, e l’apertura verso ciò che sarebbe accaduto tra loro. Con gli occhi pieni di desiderio e trepidazione si guardarono ed entrambi sentirono che quello che era successo era stata solo una distrazione da quello che c’era tra loro due.

L’aria era carica di eccitazione.

“Vuoi bere?” chiese Mercer staccandosi dagli occhi di lei e avvicinandosi alla scrivania di Lindstrom per prendere la bottiglia che sapeva ci avrebbe trovato.

“Sì, grazie” disse Aggie assecondando il desiderio di Mercer di prendere le distanze dalle loro emozioni.

Versò lo Scotch in due bicchieri di plastica, riempiendoli quasi a metà. Di tutti i cicchetti mattutini che si era concesso nella sua vita, che non erano pochi, gli sembrava che lui e Aggie, quello, se lo fossero decisamente guadagnato. Vuotò il bicchiere a grandi sorsi, e mentre Aggie sorseggiava il suo più timidamente, se ne versò un altro. Aggie vide un pacchetto di sigarette sulla scrivania di Lindstrom e ne fumò una con la stessa velocità con cui Mercer beveva lo Scotch.

“È finita?” chiese lei.

“Penso di sì” rispose Mercer. Erano in piedi l’uno di fronte all’altra, e il viso di Aggie era proteso verso il suo, con le labbra che lo invitavano suadenti. Nei suoi occhi color smeraldo brillava una luce inconfondibile.

Lui si abbassò leggermente per baciarla, e in quell’istante la porta dell’ufficio di Andy si spalancò con violenza e la corporatura massiccia della centralinista piombò nella stanza rischiando di cadere per l’irruenza. Stava per dire qualcosa, ma quando vide che Andy non c’era, impallidì. Mercer si rese conto che era molto spaventata, molto di più degli altri operatori coinvolti in quell’emergenza.

Non ricordava il suo nome, e le chiese se aveva bisogno di qualcosa. Lei vomitò la sua storia a velocità supersonica, senza pause tra una parola e l’altra.

“C’è stata una sparatoria all’ingresso principale. Ralph, la guardia più anziana, così gentile, è morto, e un’altra persona che non so chi sia è distesa in mezzo alla strada in un lago di sangue. Un uomo li ha assaliti, ha sparato nella guardiola con una specie di mitragliatrice e ha rubato uno dei camion di servizio. Oddio, povero Ralph, era un uomo così dolce.”

Crollò su una sedia, sopraffatta da tutto quello che stava succedendo, col corpo grassoccio che debordava dal sedile e le guance rigate di lacrime. Mercer lanciò un’occhiata ad Aggie, e lei capì al volo che lui le stava chiedendo di occuparsi della ragazza, e sparì di nuovo, precipitandosi all’aperto spintonando i numerosi operatori del terminal che si affannavano da una parte all’altra. L’aria era fredda e il cielo era plumbeo, e Mercer corse vero il Blazer che aveva preso in affitto e che era rimasto parcheggiato fuori dal centro operativo. Nonostante tutto quello che gli era capitato era riuscito a non perdere le chiavi, mettendole nella tasca della tuta che aveva trovato nel battello di salvataggio. Il motore ruggì allegramente al primo colpo e in un secondo il Blazer fu fuori dai cancelli del terminal, schivando gli operatori che si erano raccolti attorno ai cadaveri dei colleghi. Mentre sfrecciava sulla strada sperò che qualcuno di loro avesse avuto la presenza di spirito di chiamare le autorità di Valdez.

Aveva sistemato nella cintura la pistola che aveva preso a Kerikov. La tirò fuori e la appoggiò sul ripiano di plastica tra i due sedili. Guidava come una furia, con le gomme che stridevano sull’asfalto mentre sfrecciava a una velocità ben superiore a quella consentita. Aveva calcolato che dovevano essere trascorsi dieci minuti dall’aggressione, tenendo conto della distanza tra l’ingresso principale e il centro operativo e del tempo che ci era voluto perché i testimoni reagissero e si dessero da fare.

Se avesse avuto la sua Jaguar avrebbe recuperato quei minuti senza fatica, ma il Blazer era fatto per le strade sterrate, non per gli inseguimenti ad alta velocità.

Ci aveva messo meno di un secondo a intuire chi era l’uomo che stava inseguendo. Con Kerikov morto nelle acque del porto, solo Abu Alam mancava all’appello. Era logico che dopo aver fatto saltare la Hope Alam cercasse di andarsene al più presto dal Prince William Sound, e dato che la città era bloccata dall’ingorgo causato dai veicoli di soccorso diretti al porto, non aveva modo di raggiungere l’aeroporto. L’unica alternativa erano la Richardson Highway e Anchorage a circa trecento chilometri a nord. Se riusciva ad arrivarci, Mercer lo avrebbe perso del tutto.

La strada si srotolava davanti al Blazer con il motore Chevy che rombava sotto l’ampio cofano e le ruote che ubbidivano alla guida scattante di Mercer. Mentre guidava, scacciò la stanchezza consapevole di essere al limite della resistenza. Quella storia era cominciata proprio lì, con le prove sulla talpa di Howard Small, ed ebbe il presentimento che lì si sarebbe conclusa, forse proprio nei pressi del luogo dei test.

La sua mente tornò a qualche settimana prima, e ricordò che la strada che portava al sito delle prove si trovava a un paio di curve da lì. Non si rese conto di aver perso la concentrazione fino a quando, uscito da una curva stretta, si trovò davanti un autobus rovesciato sulla strada disseminata di schegge di vetro che luccicavano come diamanti. Un gruppo di persone si guardavano attorno attonite, alcune macchiate del loro stesso sangue, mentre altre cercavano di uscire dall’autobus distrutto.

Usando tutti e due i piedi Mercer inchiodò il pedale del freno a fine corsa. I pneumatici lasciarono sull’asfalto delle strisce nere e l’abitacolo si riempì della puzza della gomma bruciata. Una signora anziana sgranò gli occhi impietrita mentre il Blazer puntava dritto verso di lei. Mercer sterzò bruscamente fermandosi a pochi centimetri dalla donna, e mentre le sospensioni stavano ancor assorbendo la frenata brusca, Mercer stava già pestando sull’acceleratore.

Quando ripartì come un razzo oltrepassando la scena, vide una strada sterrata sulla destra che lasciava la Richardson Highway in direzione del punto in cui la condotta attraversava il Thompson Pass. Mercer riconobbe la strada: era quella che portava al luogo in cui lui e Howard avevano effettuato i test.

Appena ebbe abbandonato la strada asfaltata per imboccare la strada sterrata piena di fango, Mercer rifletté sulla scena che aveva appena visto. Alam doveva aver preso la curva troppo larga, invadendo la corsia dell’autobus che veniva dal lato opposto e, proprio come Mercer, aveva corretto verso destra per rientrare nella sua corsia. Quindi aveva visto la strada sterrata che saliva verso le colline. Ignorando l’autobus che sbandava, l’aveva imboccata a tutta velocità mentre l’autista dell’autobus perdeva il controllo e si rovesciava. Gli sembrava improbabile che dopo aver oltrepassato l’autobus Alam fosse rimasto sulla strada per Anchorage.

La strada di accesso al sito si snodava in stretti tornanti, e ben presto Mercer notò le tracce di pneumatici passati da poco, con gli schizzi di fango sollevati dal passaggio recente di un veicolo in corsa. Adesso che Howard era morto e che il sito era chiuso in attesa che i ricercatori dell’UCLA andassero a recuperare la mini-talpa e le altre attrezzature, nessuno aveva motivo di recarsi in quel luogo. Alam doveva essere proprio davanti a lui e la strada era senza uscita. Mercer prese la pistola e se la mise sulle ginocchia.

La strada era stretta e i rami delle piante che la costeggiavano raschiavano le fiancate del Blazer che saliva a tutta velocità. Quando finalmente arrivò al sito dei test, il fitto bosco si diradò aprendosi su un grande spiazzo erboso sovrastato da una parete rocciosa alta un’ottantina di metri. L’area era recintata da una robusta rete metallica, e nel punto in cui attraversava la strada di accesso c’era un cancello spalancato e scardinato che penzolava dalle cerniere.

La scena era esattamente come Mercer e Howard l’avevano lasciata prima di partire per la loro escursione celebrativa sulla barca da pesca. C’erano due container posizionati uno accanto all’altro e appoggiati su blocchi di cemento che servivano a tenerli in piano e un camion a quattro assi parcheggiato poco più in là. Minnie era stata lasciata proprio sotto la parete rocciosa coperta da un telone, dal quale uscivano i grossi cavi di alimentazione arrotolati sui carrelli portacavo collegati ai gruppi elettrogeni portatili. Era ancora puntata in direzione del foro che aveva scavato nella roccia per le prove, un’apertura perfettamente rotonda, nera e buia come la pece. Accanto a uno dei container che Howard e la sua squadra avevano usato come ufficio c’era uno dei pickup di Alyeska.

Mercer mise in tasca le chiavi del Blazer e con un balzo si riparò dietro uno dei container, tenendo la pistola puntata verso il campo. Esaminò in sequenza le opzioni a disposizione di Alam: di sicuro non aveva avuto il tempo di aprire il lucchetto dei container e nascondersi all’interno, e non era neanche dietro il camion, perché se no gli avrebbe già sparato quando lo aveva visto arrivare. Il campo era coperto di erba e non offriva alcun nascondiglio. Alam non stava correndo, né si stava arrampicando sulla parete, proibitiva anche per uno scalatore esperto. Rimanevano Minnie, i generatori e un paio di bancali di attrezzature ammucchiate fuori dall’apertura rotonda nella roccia. Gli altri quattro fori poco distanti da quello principale erano profondi solo mezzo metro, poiché erano serviti per tarare la macchina prima di effettuare la prova vera e propria, e si vedeva chiaramente che erano vuoti.

Mercer concluse che Abu Alam stava cercando di fuggire attraverso il tunnel del diametro di un metro scavato da Minnie. Per scrupolo strisciò per una cinquantina di metri fino a raggiungere i generatori, con il corpo stremato dalla tensione dell’attesa di uno sparo che non arrivò.

Con una mano azionò i comandi mentre con l’altra teneva la pistola puntata verso l’ingresso del tunnel. I generatori alimentati da un potente motore diesel partirono al primo colpo. Mercer sollevò quindi il telone che proteggeva la talpa, un macchinario dall’aspetto sinistro e ripugnante.

Quella perforatrice in miniatura funzionava con lo stesso principio delle sue sorelle maggiori, ma era molto più precisa. La lama, un disco del diametro di circa un metro e venti, era fatta di polimeri in fibra di carbonio e schegge di diamante tenute insieme da una molecola scoperta da poco, chiamata buckminsterfullerene. Era in grado di polverizzare in un istante anche la roccia più dura. Il corpo della macchina era una scatola arrotondata che conteneva la sofisticata dotazione di pompe e valvole idrauliche oltre a un sistema di posizionamento globale di terza generazione che la rendeva più precisa di un sottomarino nucleare americano. La propulsione era assicurata da zampe idrauliche simili a quelle di una cavalletta, due su ciascun lato della macchina. Le zampe garantivano la tenuta e la spinta necessarie a permettere alla lama di tagliare il granito alla velocità mai raggiunta prima di 60 centimetri al minuto. Sul retro della macchina era stato montato un enorme ventilatore che sparava all’indietro la polvere e i detriti prodotti dalla rotazione del disco nel tunnel appena scavato.

“Alam, so che puoi sentirmi” gridò Mercer in direzione del tunnel, e la sua voce rimbombava nella cavità. “Il rumore che senti è quello della perforatrice che ha scavato il tunnel in cui ti trovi.

In quel momento Abu Alam stava correndo quasi accucciato nella galleria buia, ma quando sentì quella voce si fermò. La voce era distorta dal riverbero, ma quello che riuscì a capire fu sufficiente per convincerlo a fermarsi. Riconobbe la voce dell’uomo catturato da Kerikov alla stazione di pompaggio. Non aveva nessuna intenzione di tornare indietro a ucciderlo. Philip Mercer era il nemico di Kerikov, non il suo. Gli interessava solo uscire da quel buco e scappare. Dietro di lui, l’ingresso del tunnel era ormai solo un puntino di luce, mentre davanti a lui c’era il buio più totale.

“È stata costruita dall’uomo che hai ucciso in California” continuò Mercer mentre preparava Minnie controllando i collegamenti e accertandosi che il disco di perforazione girasse liberamente sull’albero motore. “Era venuto qui a provarla subito prima che tu lo uccidessi, e per tua sfortuna, Alam, non abbiamo aspettato di finire il tunnel passando dall’altra parte per decidere che il test era riuscito. Ci siamo fermati a circa un metro dall’uscita sull’altro lato della montagna.”

Alam impallidì.

Mercer azionò le zampe della macchina e si spostò di lato. Minnie cominciò ad avanzare come un goffo coleottero, con la lama che girava a quindicimila giri al minuto. In assenza della resistenza opposta dalla roccia Minnie raggiungeva una velocità di circa cinque metri al minuto, e procedeva barcollando con un’andatura sgarbata. Ci avrebbe messo un’ora e mezza a raggiungere Alam. Mercer non poteva rimanere ad aspettare che lo raggiungesse, quindi programmò la macchina a fermarsi dopo aver tagliato gli ultimi centimetri di roccia. Si voltò e tornò verso il Blazer. “Muori, lurido bastardo.”

Abu Alam, il ‘padre del dolore’, rimase rannicchiato fino all’ultimo secondo alla fine della cavità, accovacciato contro la roccia. Poi Minnie lo raggiunse e il suo corpo venne liquefatto dalla lama rotante. Alcuni giorni dopo, quando la mini-talpa venne recuperata, il frammento più grosso del corpo di Alam sarebbe potuto passare da un tubetto di dentifricio.

Tornato all’inizio della strada sterrata, Mercer raccolse i tre feriti più gravi dal luogo dell’incidente dell’autobus, che comunque non erano in pericolo di vita. Li depositò all’ospedale di Valdez, ma se ne andò prima che qualcuno cominciasse a fargli domande. Poco dopo, mentre stava guidando per entrare nel terminal, si ricordò di una frase pronunciata da Kerikov la sera prima a bordo della Petromax Omega.

“Il blocco della condotta è solo una piccola parte di un attacco che verrà sferrato su tre fronti diversi.”

Mercer stava per scoprire la seconda parte del piano di Kerikov, tanto devastante quanto la prima, se non di più.