Mi scusi disse una voce vicino a me, dove è andata la signora?

Si trattava nuovamente della bambina, la bambina dai capelli scuri e dagli occhi grandi. Le domandai se avesse visto una donna.

Mi prese una mano con la sua manina. Sì, una signora molto alta, e adesso ho paura. C'è una cosa terribile nel buio. L'ha trovata?

Ma tu non hai paura delle cose terribili, ricordi? Hai riso della faccia verde.

In questo caso è diverso, si tratta di una cosa nera che fiuta nel buio. Nella voce della bambina c'era una vera paura, e la mano che teneva la mia stava tremando.

Com'era la signora?

Non lo so. Sono riuscita a vederla solo perché era più scura delle ombre e ho capito che era una signora dalla sua andatura. Quando mi sono avvicinata per vedere chi fosse, c'eri solo tu.

Capisco le dissi. Anche se penso che tu non lo capirai mai. Adesso devi tornare da tua madre e dormire.

Sta arrivando rasente alla parete disse la bambina. Quindi mi lasciò la mano e scomparve, ma sono certo che non mi obbedì. Invece, seguì me e Jonas, perché l'ho intravista due volte da quando sono tornato qui nella Casa Assoluta dove, sicuramente, vive rubando il cibo. (È probabile che faccia ritorno nell'anticamera per mangiare, ma io ho ordinato di liberare tutto coloro che vi sono imprigionati, anche se credo che sarà necessario allontanarne alcuni con la minaccia delle armi. Ancora, ho ordinato di far venire da me Nicarete e quando, un istante fa, stavo raccontando la nostra cattura, il mio ciambellano è entrato per dirmi che aspettava di essere ricevuta.)

Jonas era steso dove l'avevo lasciato e anche in quel momento vidi nel buio il bianco dei suoi occhi. Avevi detto che te ne dovevi assolutamente andare per non perdere la ragione gli dissi. Vieni. Chi ha inviato le notule, chiunque possa essere, si è impossessato di un'altra arma. Io ho scoperto la strada per uscire e ora ce ne andremo.

Jonas non si mosse e fui costretto a prenderlo per il braccio e a sollevarlo. Quasi tutte le parti metalliche del suo corpo dovevano essere state forgiate con quelle leghe chiare che ingannano la mano con la loro leggerezza, perché mi sembrò di sollevare un bambino; ma le parti metalliche, come la pelle vera e propria, erano umide di una fanghiglia semiliquida. Il mio piede la riscontrò anche sul pavimento lì intorno e sulla parete. Qualsiasi cosa fosse quello che la bambina mi aveva segnalato, era venuto e se ne era andato mentre parlavo insieme a lei; e non era venuto a cercare Jonas.

La porta usata dai tormentatori non era molto distante dal punto in cui dormivamo, al centro della parete più interna dell'anticamera. Si apriva solo con una parola magica, come quasi sempre succede con le cose antiche. Sussurrai la parola e la oltrepassammo, lasciandola aperta, mentre il povero Jonas mi camminava al fianco come se fosse fatto completamente di metallo.

Una stretta scala, adornata dalle tele di ragni pallidi e tappezzata di polvere, portava in basso, con curve tortuose. Me ne ricordavo, ma oltre la scala non rammentavo altro. Qualsiasi cosa sarebbe accaduta, quell'aria viziata sapeva di libertà e respirarla faceva piacere. Nonostante la preoccupazione, avrei voluto ridere, ridere fragorosamente.

Porte segrete davano su numerosi pianerottoli, ma era molto probabile che avremmo incontrato qualcuno subito dopo averne aperta una, mentre la scala pareva abbandonata. Prima di farmi vedere da qualche abitante della Casa Assoluta, volevo allontanarmi il più possibile dall'anticamera.

Eravamo scesi di un centinaio di scalini quando giungemmo a una porta sulla quale spiccava un grosso simbolo teratoide che mi parve essere il glifo di una lingua sconosciuta sulle rive di Urth. In quel momento udii un passo sulla scala. Non avevo visto maniglie né chiavistelli, ma mi gettai contro la porta e, dopo una iniziale resistenza, la spalancai. Jonas mi seguì e la porta si richiuse dietro di noi tanto rapidamente che mi aspettai un grande frastuono; invece non provocò il minimo rumore.

La stanza in cui ci trovammo era semibuia, ma eravamo appena entrati che la luce si intensificò. Dopo essermi accertato che eravamo soli, guardai Jonas. Il suo volto era ancora inespressivo, come quando stava appoggiato al muro, ma non era più privo di vita come temevo. Pareva il viso di un uomo che si sta per svegliare e le lacrime avevano tracciato delle righe umide sulle sue guance.

Mi riconosci? gli domandai, e lui annuì senza parlare. Jonas, devo recuperare Terminus est, se posso. Sono scappato come un vigliacco, ma adesso che ho avuto tempo per riflettere capisco che devo tornare a cercarla. Nella tasca del fodero c'è la lettera di presentazione per l'arconte di Thrax e comunque non tollero l'idea di perderla. Ma se tu te ne vuoi andare da questo posto ti capisco. Non sei legato a me.

Jonas non parve aver ascoltato. So dove siamo disse, e sollevò rigidamente un braccio, mostrandomi qualcosa che io avevo preso per un paravento.

Fui contento di sentire la sua voce e, specialmente nella speranza che parlasse ancora, chiesi: E così, dove siamo?

Su Urth mi rispose, e percorse la stanza diretto verso i pannelli ripiegati. Erano tempestati di diamanti, notai, e smaltati a disegni strani, simili a quello sulla porta. Ma quei segni non erano più strani del comportamento del mio amico Jonas quando spiegò i pannelli. La rigidità che lo aveva caratterizzato un momento prima era svanita... eppure non era ancora tornato in sé.

Fu allora che capii. Tutti noi conosciamo qualcuno che ha perduto una mano (come lui) e l'ha sostituita con un uncino o con qualche altro meccanismo artificiale, e l'abbiamo visto usare quella mano e quella di carne per fare qualcosa. Fu la stessa cosa per Jonas quando lo vidi muovere i pannelli; ma la mano artificiale era quella di carne.

Quando me ne resi conto, capii anche ciò che aveva detto molto tempo prima; che nel naufragio della sua nave, il suo volto era andato distrutto.

Dissi: Gli occhi... non potevano sostituirteli, vero? Così ti diedero questa faccia. Anche lui era rimasto ucciso?

Lui si volse a guardarmi in un modo che mi fece capire come avesse dimenticato la mia presenza. Lui era a terra disse. Lo ammazzammo involontariamente, all'arrivo. Mi servivano i suoi occhi e la sua laringe, e presi alcune parti.

È per questo motivo che riesci a sopportare la compagnia di un torturatore. Sei una macchina.

Tu non sei peggiore dei tuoi simili. Rammenta che per anni, prima di incontrarti, sono stato uno di voi. Adesso sono peggiore di te. Tu non mi avresti mai abbandonato, ma io ti sto per lasciare. Mi si è presentata la possibilità che ho cercato per anni e anni, vagando avanti e indietro sui sette continenti di questo mondo, cercando gli ieroduli e facendo pasticci con rozzi meccanismi.

Pensai a tutto quello che mi era successo da quando avevo dato il coltello a Thecla e per quanto non riuscissi a seguire tutto ciò che Jonas aveva detto, gli dissi: Se questa è la tua unica possibilità, vai, e buona fortuna. Se mai rivedrò Jolenta, le dirò che l'hai amata, e niente altro.

Jonas scosse il capo. Non capisci? Tornerò a cercarla quando sarò stato rimesso a posto. Quando sarò razionale e intero.

Entrò nel cerchio dei pannelli e sopra la sua testa si accese una luce splendente.

Com'è assurdo definirli specchi. Sono specchi come il firmamento è un palloncino per bambini. Riflettono la luce, è vero, ma penso che questa non sia la loro reale funzione. Riflettono la realtà, la sostanza metafisica che si trova alla base del mondo materiale.

Jonas chiuse il cerchio e si mise nel mezzo. Per un tempo pari a quello della più breve preghiera, un miscuglio di fili metallici e di polvere lampeggiante danzò sopra i pannelli, prima che tutto svanisse e io restassi solo.

 

XIX

RIPOSTIGLI

 

Ero solo come non lo ero più stato da quando ero entrato nella camera della misera locanda, in città, e avevo visto le possenti spalle di Baldanders sporgere dalle coperte. C'era stato il dottor Talos e poi Agia, Dorcas e infine Jonas. Il malessere del ricordo mi sopraffece e vidi la nitida figura di Dorcas, il gigante e gli altri come li avevo visti quando io e Jonas eravamo stati condotti attraverso il bosco di susini. Avevo visto uomini con animali, attori e altri, e tutti, senza dubbio, stavano andando verso quella parte dei giardini in cui, come spesso mi aveva detto Thecla, si svolgevano gli spettacoli all'aperto.

Iniziai a curiosare nella camera nella vaga speranza di trovare la mìa spada. Non c'era e pensai che quasi certamente vicino all'anticamera doveva esserci un magazzino nel quale erano riposti gli oggetti confiscati ai prigionieri... quasi certamente allo stesso livello. La scala che avevamo disceso mi avrebbe riportato all'anticamera; l'uscita dalla Sala degli Specchi mi portò in un'altra stanza, che conteneva oggetti strani. Finalmente trovai una porta che conduceva in un corridoio buio e silenzioso, con il pavimento coperto da tappeti e le pareti costellate di quadri. Misi la maschera e mi avvolsi nel mantello, pensando che, sebbene le guardie che ci avevano catturati nella foresta mi avessero dato l'impressione di non conoscere la nostra corporazione, probabilmente le persone nelle quali mi sarei imbattuto nei corridoi della Casa Assoluta non sarebbero state tanto ignoranti.

Comunque, nessuno mi fermò. Un uomo con abiti sontuosi si mise in disparte e alcune bellissime donne mi guardarono incuriosite; di fronte ai loro visi sentii i ricordi di Thecla risvegliarsi. Alla fine trovai un'altra scala, non più stretta e segreta come quella che aveva portato me e Jonas nella Sala degli Specchi, ma spaziosa e aperta.

Salii un tratto, esplorai il corridoio fino a quando fui sicuro di trovarmi più in basso dell'anticamera e poi ripresi a salire. Improvvisamente vidi una giovane donna che scendeva frettolosamente i gradini nella mia direzione.

I nostri occhi si incontrarono.

In quel momento, ne sono certo, lei fu consapevole quanto me che i nostri sguardi si erano già incrociati. Nella mente la sentii dire: Carissima sorella con quella dolce voce e il suo volto ovale si inquadrò perfettamente. Non si trattava di Thea, la consorte di Vodalus, ma della donna che le assomigliava (e che senza dubbio ne usurpava il nome), la donna che avevo visto sulle scale della Casa Azzurra... mentre lei scendeva e io salivo, proprio come in quel momento. Così erano state convocate anche le prostitute, e non solo gli attori, per la festa che si stava allestendo.

Quasi casualmente scoprii il livello dell'anticamera. Avevo appena lasciato la scala quando mi resi conto che mi trovavo esattamente dove si erano messi gli hastarii mentre io e Nicarete stavamo parlando vicino al carrello d'argento. Era il punto più pericoloso e lo percorsi molto lentamente. Nella parete sulla mia destra si aprivano dodici porte, tutte con cornici di legno intagliato; ognuna, come capii quando mi fermai per osservarle, era inchiodata alla cornice e suggellata dagli anni. Sulla mia sinistra l'unica porta era quella grande, di quercia tarlata, oltre la quale i soldati avevano spinto me e Jonas. Davanti c'era l'entrata dell'anticamera e più oltre si allungava un'altra fila di porte inchiodate; al termine, un'altra scala. Pareva che l'anticamera fosse stata allargata fino a occupare tutto il livello, in quell'ala della Casa Assoluta,

Se fosse passato qualcuno, non avrei avuto il coraggio di fermarmi, ma dal momento che il corridoio era deserto, mi appoggiai per un istante al pilastrino della seconda scala. Quando ero stato portato lì, due soldati mi sorvegliavano e un terzo teneva Terminus est. Era molto probabile che, mentre io e Jonas venivamo spinti nell'anticamera, il terzo soldato avesse iniziato a salire gli scalini per recarsi nel locale in cui venivano custodite le armi confiscate. Ma non ricordavo niente; il soldato era rimasto indietro, quando eravamo scesi nella grotta, e non l'avevo più visto. Era addirittura possibile che non fosse entrato insieme a noi.

Disperato, feci ritorno alla porta tarlata e la aprii. L'odore muffito del pozzo si allargò immediatamente nel corridoio e udii i gong ricoperti di verderame iniziare il loro canto. Fuori, il mondo era immerso nella notte. A parte i fuochi fatui dei funghi, le pareti rugose erano invisibili e solo un cerchio di stelle, in alto, mostrava dove il pozzo sprofondava nelle viscere della terra.

Chiusi la porta e subito udii un rumore di passi sulla scala che avevo percorso poco prima. Non sapevo dove nascondermi e se fossi corso verso la seconda scala avrei avuto poche possibilità di arrivarci senza essere visto. Invece di provare a varcare la pesante porta di quercia e di richiuderla, decisi di fermarmi dove mi trovavo.

Il nuovo venuto era un tipo grasso, sulla cinquantina, vestito di una livrea. Nonostante fosse ancora lontano nel corridoio, non appena mi vide impallidì, eppure affrettò il passo per raggiungermi e quando ero ancora a venti o trenta passi di distanza iniziò a chinarsi dicendo: Ti posso essere d'aiuto, onorevolissimo? Io sono Odilo, il maggiordomo. Vedo che sei qui per una missione privata... per conto di Padre Inire?

risposi. Ma prima devo chiederti la mia spada. Speravo che avesse visto Terminus est e che me la consegnasse, ma mi fissò senza comprendere.

Poco fa sono stato accompagnato qui. Mi è stato detto di consegnare la spada e che mi sarebbe stata restituita prima che Padre Inire mi ordinasse di usarla.

L'omino scosse il capo. Ti garantisco che nella mia posizione sarei stato informato se qualcuno degli altri servitori...

È stato un pretoriano a dirmelo.

Ah, avrei dovuto immaginarlo. Quelli vanno ovunque e non rispondono a nessuno delle loro azioni. È scappato un prigioniero, onorevolissimo, penso che tu l'abbia saputo.

No.

Un certo Beuzec. Pare che non sia pericoloso, ma lui e un altro sono stati scoperti sotto un pergolato e questo Beuzec è fuggito prima che riuscissero a rinchiuderlo. Dicono che lo riprenderanno presto, non lo so. Ti assicuro, ho trascorso l'intera vita nella Casa Assoluta, e ha degli angolini strani... molto strani.

Forse la mia spada è finita in uno di quelli. Vuoi controllare?

L'uomo arretrò di mezzo passo, come se lo avessi minacciato a mani levate. Oh, guarderò, onorevolissimo, guarderò. Stavo solo cercando di fare un po' di conversazione. Probabilmente è quaggiù. Se mi vuoi seguire...

Ci incamminammo verso l'alta scala e notai che, nella mia frettolosa ricerca, mi era sfuggita una porta stretta proprio sotto la scala. Era dipinta di bianco e si confondeva con la pietra.

Il maggiordomo estrasse un enorme mazzo di chiavi e aprì la porta. La camera era triangolare e molto più grande di quanto avessi immaginato, allungandosi anche sotto gli scalini; vidi una specie di soppalco, raggiungibile tramite una scaletta malferma, sul fondo. La lampada era simile a quella che avevo osservato nell'anticamera ma più debole.

La vedi? domandò il maggiordomo. Aspetta, da qualche parte deve esserci una candela. Quella lampada da sola non serve a molto, gli scaffali creano molte ombre.

Io stavo perlustrando gli scaffali con lo sguardo, mentre l'uomo parlava. Erano carichi di vestiti e qua e là c'erano delle scarpe, una forchetta pieghevole, un portapenne, un pomandro.

Quando ero un ragazzo gli sguatteri della cucina scassinavano la serratura ed entravano qui a curiosare. Io li ho obbligati a smettere... ho messo una serratura più robusta; ma ho paura che gli oggetti migliori siano spariti molto tempo fa.

Che cos'è questa camera?

Originariamente era un ripostiglio per i postulanti. Vi si mettevano giubbe, stivali, cappelli e sai. I posti come questo si riempiono sempre degli oggetti che i fortunati dimenticano di portarsi via quando se ne vanno, e comunque questa è sempre stata l'ala di Padre Inire, e immagino che alcuni di coloro che vengono a fargli visita non se ne vadano più, così come vi sono quelli che escono senza mai essere entrati. Il maggiordomo si interruppe e si guardò intorno. Ho dovuto dare una copia delle chiavi anche ai soldati per evitare che abbattessero la porta a calci quando stavano cercando quel Beuzec, perciò è probabile che la tua spada sia finita qui. Se non c'è, probabilmente l'hanno portata al loro corpo di guardia. Non è questa, vero? Da un angolo prelevò un antico spadone.

No.

A quanto pare, questa è l'unica spada che si trovi qui, purtroppo. Ti posso indicare la strada per arrivare al corpo di guardia. Oppure posso svegliare un paggio e mandarlo a chiedere se si trova là, se preferisci.

La scaletta che conduceva sul soppalco era incredibilmente traballante, ma la salii ugualmente, dopo aver chiesto la candela al maggiordomo. Per quanto mi sembrasse del tutto improbabile che il soldato avesse posato lì Terminus est, volevo avere qualche minuto di tempo per pensare sul da farsi.

Mentre salivo, udii un debole rumore provenire dall'alto e lo attribuii a qualche roditore; ma quando sollevai la testa e la candela sopra il pavimento del soppalco, scorsi l'ometto che era in compagnia di Hethor sulla strada, inginocchiato in atteggiamento supplichevole. Era Beuzec, logicamente: non ero riuscito a ricordarmene il nome finché non l'avevo visto.

Hai trovato qualcosa lassù, onorevolissimo?

Stracci. Ratti.

Esattamente come pensavo disse il maggiordomo mentre scendevo l'ultimo scalino. Dovrei salire anch'io a dare un'occhiata, prima o poi, ma alla mia età non è piacevole arrampicarsi su quella cosa. Vuoi andare tu stesso al corpo di guardia, o devo svegliare un paggio?

Andrò io.

Il maggiordomo assentì con aria saccente. È meglio così. Probabilmente non si fiderebbero di un paggio e non riconoscerebbero nemmeno di averla. Come credo tu sappia, ti trovi nell'Apogeo Apotropaico. Se non intendi essere fermato da tutte le pattuglie, ti conviene procedere all'interno, perciò ti consiglio di salire per tre piani la scala sotto la quale ci troviamo e poi girare a sinistra. Segui la galleria per mille passi, fino a quando arriverai all'ipetrallo. Dal momento che fuori è buio, potresti non vederlo, perciò fai attenzione alle piante. Arrivato là svolta a destra e prosegui per altri duecento passi. C'è sempre una sentinella davanti alla porta.

Lo ringraziai e riuscii a precederlo sulla scala avviandomi mentre era ancora occupato con la serratura. Quindi mi fermai in un corridoio vicino al primo pianerottolo e lo lasciai passare oltre. Dopo che si fu allontanato, ritornai nel corridoio dell'anticamera.

Ero convinto che, se veramente la mia spada era stata portata nel corpo di guardia, sarebbe stato molto difficile riuscire a riprenderla se non ricorrendo alla circospezione o alla violenza, e intendevo assicurarmi che non fosse stata lasciata in un luogo più accessibile prima di fare ricorso a una di quelle due soluzioni. D'altra parte, era possibile che Beuzec l'avesse notata mentre scappava e si nascondeva di qua e di là, e volevo domandarglielo.

Nello stesso tempo ero molto preoccupato per i prigionieri dell'anticamera. Ero sicuro che ormai dovevano aver scoperto la porta che io e Jonas avevamo lasciato aperta e di certo si stavano aggirando in quell'ala della Casa Assoluta. Non sarebbe trascorso molto tempo prima che uno di loro venisse preso e iniziassero le ricerche degli altri.

Quando arrivai alla porta del ripostiglio avvicinai l'orecchio nella speranza di sentire Beuzec muoversi. Niente. Lo chiamai per nome, a bassa voce, augurandomi che mi rispondesse e cercai di aprire la porta facendo forza con la spalla. Non cedette e temevo di fare rumore colpendola con più violenza. Infine riuscii a incuneare tra la porta e lo stipite l'acciarino che mi aveva donato Vodalus e feci sobbalzare la serratura. Beuzec era scomparso. Dopo una breve ricerca trovai un buco che si apriva in una parete cava. Da lì doveva essersi infilato nel ripostiglio per distendere un pochino le gambe e poi era scappato ancora. Si dice che quei recessi della Casa Assoluta siano abitati da una specie di lupo bianco che molto tempo fa abbandonò le foreste circostanti. Forse Beuzec cadde preda di questi animali; non l'ho più rivisto.

Non cercai di seguirlo, ma richiusi la porta del ripostiglio e mascherai come potevo il danno provocato alla serratura. Solo allora feci caso alla simmetria del corridoio: l'entrata dell'anticamera era al centro, le porte inchiodate sui due lati e le scale alle estremità. Se quell'ipogeo apparteneva veramente a Padre Inire, tale simmetria doveva essere legata, almeno in parte, alla qualità speculare. In tal caso, doveva esserci un secondo ripostiglio sotto l'altra scala.

 

XX

QUADRI

 

Mi chiesi per quale motivo Odilo, il maggiordomo, non mi avesse mostrato anche quello; comunque non mi soffermai a pensarci mentre percorrevo velocemente il corridoio e quando arrivai alla porta il motivo mi balzò agli occhi: la porta era sfondata da tempo, non solo nella serratura, e soltanto due frammenti di legno scolorito appesi ai cardini rivelavano che una volta lì c'era stato un uscio. La lampada interna era spenta e si vedevano solo oscurità e ragni.

Avevo voltato le spalle e mi ero già allontanato di un paio di passi quando mi arrestai, spinto da quella coscienza di aver sbagliato che a volte ci assale prima ancora di capire in cosa consista l'errore. Io e Jonas eravamo stati rinchiusi nell'anticamera a pomeriggio avanzato. Durante la notte erano venuti i giovani esultanti con le fruste. La mattina seguente era stato catturato Hethor e contemporaneamente, a quanto pareva. Beuzec era sfuggito ai pretoriani ai quali il maggiordomo aveva consegnato le chiavi perché lo cercassero nell'ipogeo. Quando Odilo mi aveva incontrato e io gli avevo detto che era stato un pretoriano a prendere Terminus est, lui aveva pensato che io fossi giunto nell'arco di quella giornata, dopo la fuga di Beuzec.

Ma non era vero e quindi il pretoriano che aveva preso la mia spada non poteva averla messa nel ripostiglio chiuso sotto la seconda scala.

Tornai verso la porta sfondata. La debole luce proveniente dal corridoio rivelava che un tempo le pareti dello stanzino erano state ricoperte di scaffali, esattamente come l'altro: ma l'interno era spoglio, i ripiani erano stati tolti per essere usati diversamente e restavano solo i sostegni che sporgevano dai muri. Non distinguevo nessun oggetto, ma capivo anche che nessun soldato, destinato a superare delle ispezioni, si sarebbe avventurato fra quella polvere e quelle ragnatele. Senza nemmeno entrare con la testa, allungai la mano oltre lo stipite della porta sfondata e, con una sensazione impossibile da descrivere che era un misto di trionfo e di familiarità, sentii la mia mano chiudersi intorno all'amata impugnatura.

Ero nuovamente un uomo completo. O piuttosto, più che un uomo: un artigiano della corporazione. Là, nel corridoio, mi accertai che la lettera si trovasse ancora nella tasca del fodero, quindi sguainai la lama lucente, la strofinai, la oliai e la strofinai un'altra volta, provando i fili con il pollice e l'indice mentre mi incamminavo. Ormai il cacciatore delle tenebre poteva anche avvicinarmi.

Il mio primo obiettivo, decisi, sarebbe stato ritrovare Dorcas, ma non sapevo dove si trovasse la compagnia del dottor Talos; sapevo solo che si sarebbe esibita in un tiaso organizzato all'interno di un giardino... uno dei tanti giardini. Se mi fossi avventurato fuori in quel momento, al buio, forse i pretoriani non mi avrebbero notato avvolto nelle mie vesti di fuliggine, ma anche per me sarebbe stato difficile vederli. Comunque era improbabile che trovassi qualcuno disposto ad aiutarmi e quando l'orizzonte orientale fosse sceso sotto il sole, sicuramente sarei stato subito catturato come era successo quando io e Jonas eravamo entrati nei terreni della Casa Assoluta. Se fossi rimasto all'interno, l'esperienza avuta con il maggiordomo mi faceva sperare che nessuno mi avrebbe interrogato e che forse avrei trovato qualcuno pronto a darmi indicazioni. Decisi che avrei detto a tutti di essere stato convocato per la festa (credevo che un supplizio fosse verisimilmente parte delle celebrazioni) e che, essendomi allontanato dall'alloggio destinatomi, mi ero perso. In tal modo avrei saputo dove si trovavano Dorcas e gli altri.

Misi a punto il piano salendo la scala e arrivato al secondo pianerottolo girai in un corridoio che in precedenza non avevo notato. Era molto più lungo e più riccamente arredato dell'altro. Alle pareti erano appesi quadri scuri con le cornici dorate e sui piedestalli erano posati urne e busti e oggetti che non avevo mai visto. Le porte che davano su quel corridoio erano distanti fra loro cento passi o più, rivelando così che dietro i loro battenti si aprivano sale immense. Ma erano tutte chiuse a chiave e quando provai a far girare le maniglie mi accorsi che sia la loro forma sia il metallo di cui erano fatte mi erano ignoti: non sembravano adatte alle dita umane.

Dopo aver percorso quel corridoio per almeno mezza lega, o così mi sembrò, vidi qualcuno davanti a me seduto (o almeno lo pensai in un primo tempo) su un alto sgabello. Quando mi fui avvicinato, mi resi conto che l'alto sgabello in realtà era una scala a pioli e che il vecchio arrampicato in cima stava pulendo un quadro. Scusami dissi.

Il vecchio si volse a guardarmi, perplesso. Riconosco la tua voce, mi pare.

Allora anch'io riconobbi la sua, e anche il suo volto. Era Rudesind, il vecchio curatore che avevo incontrato tanto tempo prima quando il Maestro Gurloes mi aveva mandato a richiedere i libri per la Castellana Thecla.

Poco fa stavi cercando Ultan. L'hai trovato?

risposi. Ma non è stato poco fa.

La mia risposta sembrò infastidire il vecchio. Non stavo parlando di oggi! Ma non è passato molto tempo. Ah, rammento ancora il paesaggio che stavo pulendo, perciò non può essere passato molto tempo.

Lo ricordo anch'io dissi. Un deserto scuro riflesso nella visiera d'oro di un uomo rivestito dall'armatura.

Rudesind annuì e la sua irritazione sembrò dileguarsi. Si aggrappò alla scala e iniziò a scendere, tenendo stretta la spugna. Esattamente. Esattamente quello. Vuoi che te lo faccia vedere? È venuto molto bene.

Non ci troviamo nello stesso posto, Maestro Rudesind. Allora eravamo nella Cittadella, adesso siamo nella Casa Assoluta.

Il vecchio non badò alle mie parole. È venuto molto bene... L'ho messo da qualche parte, qui. Quei vecchi artisti... è impossibile superarli nella finezza del disegno, anche se ormai i colori si sono sbiaditi. E lascia che ti dica una cosa, io me ne intendo d'arte. Ho visto numerosi armigeri, e anche esultanti, venire a guardare i quadri e fare molti commenti, ma non capiscono niente. Chi ha osservato da vicino questi quadri, con attenzione? Mostrò se stesso, colpendosi il petto con la spugna, quindi si piegò verso di me sussurrando, nonostante nel corridoio ci fossimo solo noi due. Adesso ti rivelerò un segreto che nessuno di loro sa... uno di questi sono io!

Per educazione gli dissi che mi sarebbe piaciuto vederlo.

Lo sto cercando, e quando lo avrò trovato te lo dirò. Loro non lo sanno, ma è questo il motivo per cui continuo a pulire i quadri. Oh, sarei potuto andare in pensione. Ma sono ancora qui, e lavoro da più tempo di chiunque altro, a parte forse Ultan. Lui non riesce a vedere la lente. Proruppe in una risata stridula.

Mi sto domandando se tu puoi aiutarmi. So che sono arrivati gli attori convocati per il tiaso. Sapresti dirmi dove sono alloggiati?

Ne ho sentito parlare rispose Rudesind, con tono incerto. La chiamano la Stanza Verde.

Mi potresti accompagnare là?

Lui scosse la testa. Non ci sono quadri, perciò non ci sono mai stato, anche se c'è un dipinto che la rappresenta. Vieni, fai un tratto di strada con me. Troverò il quadro e te lo farò vedere.

Mi tirò l'orlo del mantello e io lo seguii.

Preferirei che mi portassi da qualcuno capace di farmi da guida.

Posso fare anche questo. Il vecchio Ultan ha una mappa, da qualche parte, nella sua biblioteca. Il suo assistente te la porterà.

Ma qui non siamo nella Cittadella gli ricordai nuovamente. Come sei arrivato qui? Ti hanno portato per farti pulire i quadri?

È giusto. È giusto. Rudesind si appoggiò al mio braccio. Esiste una spiegazione logica per tutto, non dimenticarlo mai. Deve essere stato proprio così. Padre Inire voleva che pulissi i suoi quadri, perciò eccomi. Si interruppe, distratto. Aspetta un momento. Hai capito male. Da giovane avevo talento, ecco quello che volevo dirti. I miei genitori, sai, mi incoraggiavano sempre e io disegnavo per ore intere. Ricordo che una volta trascorsi un'intera giornata di sole a disegnare con il gesso sul retro della nostra casa.

Sulla sinistra si apriva un corridoio più stretto e il vecchio mi portò da quella parte. Per quanto fosse meno illuminato (anzi, era quasi buio) e così ingombro che era quasi impossibile porsi alla giusta distanza per guardarli, era tappezzato di quadri molto più grandi di quelli del corridoio principale, che si estendevano dal pavimento al soffitto, ed erano più larghi delle mie braccia aperte. Per quel poco che riuscii a vedere, erano molto brutti... vere e proprie croste. Domandai a Rudesind chi gli avesse detto di parlarmi della sua infanzia.

Chi? Padre Inire rispose, piegando la testa di lato per guardarmi. Chi credi che sia stato? Poi abbassò la voce. Rimbambito. Ecco cosa dicono. È stato il visir di non so quanti autarchi dopo Ymar. Ora stai zitto e lasciami parlare. Vedrai, troverò il vecchio Ultan.

«Un artista, un vero artista, giunse dalle nostre parti. Mia madre, che era molto orgogliosa di me, gli fece vedere alcuni miei lavoretti. Si trattava di Fechin. Fechin in persona: e il ritratto che mi fece è ancora appeso qua, e ti guarda con i miei occhi castani. Sono seduto a un tavolo e sopra ci sono alcuni pennelli e un mandarino. Mi erano stati promessi per quando avessi finito di posare.

Non penso di avere il tempo di guardarlo, adesso dissi.

E così divenni un artista anch'io. Ben presto iniziai a pulire e a restaurare le opere dei grandi. Ho pulito per due volte il mio ritratto. È strano, te lo garantisco, lavare in questo modo la mia faccia. Spero sempre che qualcuno lavi la mia, ora, e riesca a levare con la spugna la polvere degli anni. Ma non è il ritratto che ti sto portando a vedere... tu stai cercando la Sala Verde, giusto?

risposi io, impaziente.

Bene. Qui c'è un quadro che la raffigura. Guardalo, così, quando ci arriverai, la potrai riconoscere.

Mi mostrò uno dei grandi quadri privi di valore. Non rappresentava affatto una sala, bensì un giardino bordato da alte siepi con uno stagno di ninfee fiorite e alcuni salici mossi dal vento. Un uomo vestito di un fantastico costume suonava una chitarra, ma non c'era pubblico. Alle sue spalle, le nuvole correvano in un cielo scuro.

Ora puoi andare in biblioteca a consultare la mappa di Ultan disse il vecchio.

Il quadro era uno di quelli che si dissolvono in macchie di colore se non lo si guarda nel suo complesso. Arretrai di un passo per averne una migliore prospettiva, quindi di un altro passo...

Al terzo passo capii che avrei dovuto urtare la parete alle mie spalle, e che non era successo. Invece, mi accorsi di essere nel quadro che occupava la parete di fronte: una camera buia, con antiche poltrone di cuoio e tavoli d'ebano. Mi volsi a guardarla e quando mi girai nuovamente il corridoio in cui ero stato con Rudesind era scomparso nel nulla; al suo posto vidi un muro rivestito di vecchia, scolorita carta da parati.

Sguainai Terminus est senza rendermene conto, ma non c'era nessun nemico da colpire. Proprio quando stavo per aprire l'unica porta della camera, essa si schiuse ed entrò una figura vestita di giallo. I corti capelli bianchi erano pettinati all'indietro, la fronte era alta e il volto sembrava quello di una donna grassa, sulla quarantina; al collo, appesa a una sottile catenina, teneva una boccetta a forma di fallo che io rammentavo bene.

Ah disse. Mi domandavo chi fosse entrato. Benvenuta, Morte.

Con tutta la dignità che riuscii a trovare, risposi: Io sono l'artigiano Severian, della corporazione dei torturatori, come puoi vedere. Il mio ingresso è stato assolutamente involontario, e a dire il vero ti sarei grato se potessi spiegarmi come sia successo. Quando ero nel corridoio, questa camera non pareva altro che un quadro. Ma quando sono indietreggiato di un paio di passi per guardare il dipinto appeso alla parete di fronte, mi sono trovato qui dentro. In virtù di quale arte è successo?

Non si tratta di un'arte rispose l'uomo dalla veste gialla. Le porte nascoste non sono un'invenzione originale, e l'ideatore di questa stanza non ha fatto altro che escogitare un modo per nascondere una porta aperta. La camera non è molto profonda, come puoi notare; anzi, è ancora meno profonda di quanto tu credi ora, a meno che ti sia già reso conto che gli angoli del pavimento e del soffitto convergono, e che la parete di fondo non è alta come quella dalla quale sei entrato.

Vedo dissi, e infatti era così. Mentre l'uomo parlava, quella stanza irregolare che la mia mente, abituata a vederne di normali, mi aveva spinto a credere uguale alle altre, mi si rivelava per quella che era, con un soffitto obliquo trapezoidale e il pavimento trapezoidale. Le poltrone dinnanzi alla parete dalla quale ero entrato possedevano una limitata profondità ed era praticamente impossibile sedervisi; i tavoli non erano che semplici assicelle.

In un quadro, queste linee convergenti ingannano l'occhio continuò l'uomo dalla veste gialla. Così, quando le si incontrano nella realtà, con una profondità di poco maggiore e con l'aggiunta di un'illuminazione monocromatica, si crede di vedere un altro quadro... soprattutto quando si è condizionati da una lunga sequenza di veri quadri. La tua entrata con quell'arma ha fatto sì che una vera parete si levasse dietro di te per poterti esaminare. È inutile aggiungere che sull'altra parte del muro è dipinto il quadro che tu hai creduto di vedere.

Ero più stupefatto che mai. Ma come è possibile che la stanza sapesse della mia spada?

— È più complicato di quanto io sappia spiegare... molto più complicato di questa povera stanza. Posso solo dirti che la porta è circondata da fili metallici che percepiscono gli altri metalli, i loro fratelli, quando passano attraverso il cerchio.

Sei tu l'artefice di tutto questo?

Oh, no. Tutte queste cose... L'uomo si fermò. Tutte queste e altre cento formano quella che noi chiamiamo la Seconda Casa. Sono opera di Padre Inire, che fu convocato dal primo Autarca per creare un palazzo segreto all'interno della Casa Assoluta. Io e te, figliolo, sicuramente avremmo costruito semplicemente delle stanze nascoste. Padre Inire fece in modo che la casa segreta coesistesse ovunque con quella pubblica.

Ma tu non sei Padre Inire dissi. Ora so chi sei! Mi riconosci? A queste parole mi levai la maschera perché potesse vedermi in volto.

L'uomo sorrise e disse: Sei venuto una volta soltanto. Così la khaibit non ti era piaciuta.

Mi era piaciuta meno della donna che impersonava... o meglio, amavo più l'altra. Questa notte ho perso un amico, eppure pare che sia destinato a incontrare i vecchi conoscenti. Posso chiederti come sei arrivato qui dalla tua Casa Azzurra? Sei stato convocato per il tiaso? Poco fa ho visto una delle tue donne.

L'uomo in giallo assentì distratto. Uno specchio stranamente angolato, situato sopra un mobile in un angolo di quella strana stanza, mi mostrò il suo profilo, delicato come un cammeo, e io dedussi che doveva trattarsi di un androgino. Fui preso dalla compassione, unita a un senso di impotenza, mentre lo immaginavo nell'atto di aprire la porta agli uomini, notte dopo notte, nella sua casa di piacere all'interno del Quartiere Algedonico. disse. Resterò qui per i festeggiamenti, poi me ne andrò.

Con la mente rivolta al quadro che il vecchio Rudesind mi aveva mostrato nel corridoio esterno, dissi: Allora mi puoi indicare il Giardino.

Capii immediatamente che l'avevo preso alla sprovvista, forse per la prima volta da anni. Nei suoi occhi comparve un'espressione sofferente e la mano sinistra si mosse, per quanto leggermente, verso la boccetta che teneva appesa al collo. Così ne hai sentito parlare... commentò. Anche supponendo che io conosca la via, per quale motivo te la dovrei indicare? Molti cercheranno di scappare attraverso quella strada, se il veliero pelagico avvisterà la terraferma.

 

XXI

IDROMANZIA

 

Passarono diversi secondi prima che io realizzassi quello che aveva detto l'androgino. Poi, l'odore delle carni arrostite di Thecla nella mia mente mi salì dolce e nauseante alle narici e mi sembrò di avvertire l'irrequietezza delle foglie. Dimenticando nella tensione del momento quanto fossero inutili le precauzioni in quella camera piena di inganni e illusioni, mi volsi indietro, per assicurarmi che nessuno ci stesse ascoltando; poi mi resi conto che, involontariamente (razionalmente avevo preso la decisione di interrogarlo prima di ammettere il mio legame con Vodalus), la mia mano aveva estratto l'acciarino a forma di coltello dalla tasca più interna della borsa che tenevo alla cintura.

L'androgino sorrise. Sentivo che potevi essere tu. Ti aspettavo da giorni e ho tenuto là fuori il vecchio e diversi altri con l'ordine di condurre a me gli sconosciuti più interessanti.

Ero prigioniero nell'anticamera risposi. E così ho perso tempo.

Ma sei riuscito a scappare, a quanto vedo. Non credo che ti avrebbero rilasciato prima che il mio uomo arrivasse a cercarti lì. È stato un bene che tu sia evaso... non ci resta molto tempo... i tre giorni del tiaso e poi me ne dovrò andare. Vieni, ti farò vedere la strada per il Giardino, anche se non sono affatto sicuro che tu riesca ad entrarvi.

Aprì la porta dalla quale era venuto e mi resi conto che non era perfettamente rettangolare. La stanza che stava dietro era leggermente più grande di quella che avevamo appena lasciato, ma i suoi angoli parevano regolari ed era riccamente arredata.

Per lo meno, sei arrivato nella parte giusta della Casa Segreta disse l'androgino. Diversamente avremmo dovuto camminare a lungo. Scusami, ma voglio leggere il messaggio che mi hai portato.

Si accostò a quello che a prima vista mi sembrò un tavolo dal piano di vetro e posò l'acciarino su un supporto, sotto il vetro stesso. Immediatamente si accese una luce che brillava dal ripiano, per quanto sopra non ci fossero lampade. L'acciarino si ingrandì fino a sembrare una spada e le sue striature, invece di essere i denti che generano le scintille da una selce, apparvero quello che erano in realtà: linee di una fluente scrittura.

Stai lontano mi ammonì l'androgino. Se non l'hai ancora letto, non lo fare ora.

Obbedii e per un po' di tempo restai a guardarlo mentre si piegava sul piccolo oggetto che gli avevo recato dalla radura di Vodalus. Finalmente l'androgino disse: Così non ci resta altro da fare... dobbiamo combattere su due lati... ma questo non ti riguarda. Vedi queir armadietto con l'eclisse scolpita sull'anta? Aprilo e prendi il libro che ci troverai dentro. Ecco, mettilo su questo leggio.

Nonostante temessi una trappola, aprii lo sportello dell'armadietto indicatomi. Vi trovai un unico libro mostruoso, alto quasi come me e largo due cubiti abbondanti; con la sua copertina verde-azzurro screziato, stava rivolto verso di me come un cadavere del quale avessi appena scoperchiato il sarcofago. Rimisi la spada nel fodero, presi con entrambe le mani l'immenso volume e lo sistemai sul leggio. L'androgino mi domandò se l'avessi già visto e io gli risposi di no.

Mi è sembrato che lo temessi e che cercassi... sì, mi è sembrato che cercassi di guardare altrove, quando l'hai portato. Mentre parlava, aprì la copertina. La prima pagina era scritta in rosso, in caratteri che non riuscii a comprendere. Questo è un ammonimento per coloro che cercano la via disse l'uomo vestito di giallo. Te lo devo leggere?

Io sbottai: Mi è sembrato di vedere un morto nel cuoio e ho avuto la sensazione che si trattasse di me.

Richiuse il libro e passò la mano sulla copertina. Queste tinture iridescenti come le piume dei pavoni sono l'opera di artigiani morti da tempo... le linee e i vortici che si vedono all'interno sono solo le cicatrici sui dorsi degli animali sofferenti, i segni lasciati dalle zecche e dalle fruste. Ma se hai paura, non sei obbligato ad andarci.

Aprilo dissi. Fammi vedere la mappa.

Non è una mappa. È la cosa in se stessa rispose lui, e a tali parole aprì la copertina e la prima pagina.

Restai quasi accecato, come mi è successo nelle notti tenebrose di fronte alla luce di un fulmine. Le pagine interne parevano d'argento puro, battuto e lucidato, che afferrava ogni barlume di luce presente nella camera e lo rifletteva moltiplicandolo per cento volte. Sono specchi dissi io; e mentre lo dicevo capii che non lo erano, che erano quelle cose per le quali noi non conosciamo altra parola che specchi, le cose che nemmeno un turno di guardia prima avevano riportato Jonas fra le stelle. Ma come possono avere tanto potere, se non sono messi l'uno di fronte all'altro?

L'androgino rispose: Pensa a tutto il tempo in cui si sono fronteggiati quando il libro era chiuso. Adesso il campo resisterà per un po' alla tensione che gli imporremo. Vai, se hai il coraggio.

Non andai. Mentre parlava, qualcosa prese forma nell'aria luminosa sopra le pagine aperte. Non era una donna e nemmeno una farfalla, eppure possedeva qualcosa dell'una e dell'altra. E come, quando osserviamo l'immagine di una montagna dipinta sullo sfondo di un quadro, sappiamo che nella realtà è grande come un'isola, capii che la stavo vedendo da molto lontano... le sue ali, penso, battevano nei venti protonici dello spazio e l'intera Urth avrebbe potuto essere un piccolo granellino di polvere mosso dal loro agitarsi. Poi, come io l'avevo vista, mi vide, nello stesso modo in cui l'androgino un momento prima aveva letto le volute e gli occhielli della scrittura dell'acciarino attraverso il vetro. Le ali avevano gli occhi.

L'androgino richiuse il libro con un colpo e fu come se avesse sbattuto una porta. Che cos'hai visto? mi chiese.

Io riuscivo a pensare solo che non dovevo più guardare quelle pagine e riposi: Ti ringrazio, sieur. Chiunque tu sia, d'ora in poi ti servirò.

Lui assentì. Un giorno, forse, ti ricorderò questa promessa. Ma non ti chiederò un'altra volta che cos'hai visto. Forza, asciugati la fronte. La visione ti ha marchiato.

Parlando mi offrì un piccolo telo pulito e io lo usai per tergermi la fronte: sentivo l'acqua colare sul mio volto. Quando guardai il tessuto, vidi che era macchiato di sangue.

Come se mi avesse letto nella mente, l'androgino disse: Non sei ferito. I dottori la chiamano emetidrosi, penso. Sottoposti alla tensione di un fortissimo turbamento, i capillari, nella parte interessata... a volte in tutto il corpo... si spaccano durante l'abbondante sudorazione. Purtroppo, ho paura che ti si formerà un brutto livido.

Perché l'hai fatto? chiesi. Pensavo che mi avresti fatto vedere una mappa. Io voglio solo trovare la Sala Verde, così mi ha detto che si chiama il vecchio Rudesind, là fuori... dove sono accampati i commedianti. Il messaggio di Vodalus diceva di uccidere il messaggero? Mentre parlavo, afferrai alla cieca la spada; ma quando le mie mani raggiunsero l'impugnatura, mi resi conto di essere troppo debole per sguainare la lama.

L'androgino rise. Era una risata sgradevole, una via di mezzo fra quella di una donna e quella di un ragazzo, che a poco a poco divenne convulsa come è, a volte, quella di un ubriaco. I ricordi di Thecla fremettero in me e fecero per risvegliarsi. Era tutto quello che desideravi? chiese lui quando riuscì a ritrovare l'autocontrollo. Mi hai chiesto di accendere la tua candela e io ho cercato di darti il sole, e adesso ti sei scottato. È stata colpa mia... cercavo, probabilmente, di ritardare il mio momento, eppure anche così non ti avrei permesso di arrivare tanto lontano se non avessi saputo dal messaggio che possiedi l'Artiglio. E ora sono veramente addolorato, ma non posso fare a meno di ridere. Dove andrai quando avrai trovato la Sala Verde, Severian?

Ovunque mi manderai. Come mi hai ricordato, io ho giurato di servire Vodalus. (In realtà lo temevo, e avevo paura che l'androgino l'avrebbe informato, se avessi fatto supporre una disobbedienza.)

E se io non avessi ordini per te? Ti sei già liberato dell'Artiglio?

Non ho potuto risposi.

Silenzio. Lui tacque.

Andrò a Thrax dissi. Ho una lettera per l'arconte di quella città; dovrebbe avere un lavoro per me. Mi piacerebbe andare, per rispetto della mia corporazione.

Questo è giusto. Quanto è grande, in verità, il tuo amore per Vodalus?

Mi sembrò di avere ancora in mano l'impugnatura dell'ascia. Per voi tutti, mi è stato detto, il ricordo muore; per me si attenua di poco. La nebbia che velava quella notte la necropoli alitò nuovamente sul mio volto e vissi ancora tutto quello che avevo provato dopo aver ricevuto la moneta da Vodalus e averlo visto allontanarsi verso un posto nel quale io non potevo seguirlo. Una volta lo salvai risposi.

L'androgino annuì. Allora ecco che cosa devi fare. Vai a Thrax come avevi deciso e convinci tutti, anche te stesso, che intendi occupare il posto che ti spetta. L'Artiglio è pericoloso. Lo capisci?

Sì. Vodalus mi ha detto che se si sapesse che è in nostro possesso, potremmo perdere l'appoggio della popolazione.

L'androgino restò in silenzio ancora un istante, poi disse: Le pellegrine sono a nord. Se ti capiterà l'occasione, devi restituire loro l'Artiglio.

È proprio quello che speravo di fare.

Bene. C'è anche un'altra cosa che devi fare. L'Autarca è qui, ma molto prima che tu raggiunga Thrax arriverà a nord con l'esercito. Se si avvicinerà a Thrax, potrai andare da lui. Con il tempo scoprirai il modo per levargli la vita.

Il suo tono lo tradiva non meno dei pensieri di Thecla. Mi sarei voluto inginocchiare, ma lui batté le mani e un ometto curvo entrò in silenzio nella camera. Indossava una tonaca con il cappuccio, come un cenobita. L'Autarca gli parlò, gli disse qualcosa che io ero troppo confuso per riuscire a capire.

 

Nel mondo intero ci sono pochissimi spettacoli migliori del sole all'alba visto attraverso le mille acque scintillanti della Fontana Vatica. Io non sono un esteta, ma la prima visione della sua danza (della quale avevo tanto sentito parlare) agì su di me come un tonico. Lo ricordo ancora per il mio piacere, come lo vidi quando il servitore incappucciato mi aprì una porta dopo tante leghe percorse nei corridoi dissimulati della Seconda Casa e io scorsi i getti argentati creare ideogrammi attraverso il disco solare.

Sempre diritto bisbigliò l'incappucciato. Segui il viale attraverso la Porta degli Alberi. Sarai al sicuro, fra i commedianti. La porta si richiuse alle mie spalle e si trasformò nel pendio erboso di una collinetta.

Procedetti barcollando verso la fontana che mi rinfrescava con gli spruzzi trasportati dal vento. Un lastricato di pietra serpentina mi circondava tutto intorno; per qualche tempo restai così, cercando di leggere la mia sorte nelle sagome danzanti; infine mi frugai nella borsa per fare un'offerta. I pretoriani mi avevano preso tutti i soldi, ma mentre cercavo fra i pochi oggetti che mi erano rimasti (un drappo di flanella, il frammento di cote e una boccetta d'olio per Terminus est, un pettine e il libro marrone) vidi una moneta incastrata fra i massi verdi ai miei piedi. Con un leggero sforzo riuscii a prenderla... era un asimi, talmente rovinato che quasi non si vedeva il conio. Esprimendo un desiderio lo gettai nel centro esatto della fontana. Un getto d'acqua lo afferrò e lo lanciò verso il cielo, facendolo brillare per un istante prima di lasciarlo ricadere. Iniziai a leggere i simboli che l'acqua disegnava contro il sole.

Una spada. Era un segno abbastanza chiaro. Sarei stato ancora un torturatore.

Poi una rosa, e al di sotto di questa un fiume. Avrei risalito il Gyoll come avevo intenzione di fare, dal momento che quella era la strada per arrivare a Thrax.

Ancora onde furiose, che ben presto si trasformavano in una sola, lunga ondata. Il mare, forse; ma come sarebbe stato possibile arrivare al mare risalendo verso la sorgente di un fiume?

Uno scettro, uno scranno e una moltitudine di torri: iniziai a credere che i poteri divinatori della fontana, nei quali non avevo mai riposto grande fiducia, fossero completamente falsi. Mi girai: in quel momento, vidi una stella a molte punte che si ingrandiva sempre di più.

 

Da quando ho fatto ritorno alla Casa Assoluta, ho visitato per due volte la Fontana Vatica. Una volta ci sono andato alle prime luci, passando dalla stessa porta dalla quale l'avevo vista la prima volta. Ma non ho più osato porle delle domande.

I miei servitori, che ammettono di avervi lanciato tutti i loro oricalchi quando nel giardino non c'era nessuno, mi dicono di non aver ottenuto nessuna profezia veritiera in cambio del loro denaro. Ma io non ne sono sicuro; rammento l'uomo verde, che faceva fuggire i visitatori predicendo il loro futuro. Non può essere che i miei servitori vedendosi predire una vita di vassoi e di scope e di campanelli la rifiutino? L'ho domandato anche ai ministri, che sicuramente lanciano nella fontana manciate di crisi, ma le loro risposte sono incerte e piene di dubbi.

Era veramente difficile per me voltare le spalle alla fontana e ai suoi splendidi messaggi enigmatici e avviarmi verso il vecchio sole. Immenso come la faccia di un gigante e cupamente rosso, spuntava a mano a mano che l'orizzonte si abbassava. I pioppi dei giardini orlavano lo sfondo e mi fecero venire in mente la figura della Notte sul khan, sulla riva occidentale del Gyoll, che tante volte avevo visto con il sole alle spalle al termine delle nostre nuotate.

Non sapendo di trovarmi ormai nella parte più interna della Casa Assoluta, molto distante dalle pattuglie che sorvegliavano i suoi confini, avevo paura di essere fermato da un momento all'altro, di essere addirittura riportato nell'anticamera... la cui porta segreta, ne ero certo, era stata scoperta e sbarrata. Ma non successe niente di tutto questo. Per quanto potevo vedere, non c'era nessuno in movimento, in tutte quelle leghe di siepi e di prati vellutati, di fiori e di acque mormoranti, a parte me. Gigli più alti di me, con le corolle a stella bagnate di rugiada, costeggiavano il viale; la perfetta pavimentazione non mostrava altri segni all'infuori di quelli lasciati dai miei passi. E gli usignoli stavano cantando ancora, alcuni in libertà, altri sospesi ai rami delle piante in gabbie dorate.

A un certo punto distinsi davanti a me, con un riflesso del vecchio orrore, una delle statue ambulanti. Simile a un uomo gigantesco (per quanto non fosse un uomo), troppo elegante e troppo lento per essere umano, attraversava un piccolo praticello nascosto come se si stesse muovendo al ritmo delle note impercettibili di una strana processione. Ammetto che mi attardai fino a quando non fu passato, domandandomi se potesse avvertire la mia presenza nell'ombra e se avesse importanza.

Quando ormai disperavo di trovare la Porta degli Alberi, la scorsi. Sarebbe stato impossibile non riconoscerla. Come i giardini meno importanti formano spalliere di peri contro un muro, così i grandi giardinieri della Casa Assoluta, che hanno a disposizione intere generazioni per portare a termine il loro lavoro, avevano modellato gli immensi rami delle querce fino ad adattarli tutti secondo un ben preciso disegno architettonico. E io, che camminavo sui tetti del più grande palazzo di Urth senza scorgerne una sola pietra, vidi da un lato, torreggiante, la grande entrata verde fatta di materiali vegetali viventi come se fossero muratura.

Mi misi a correre.

 

XXII

PERSONIFICAZIONI

 

Corsi attraverso il vasto e sgocciolante arco della Porta degli Alberi, corsi sull'ampia distesa erbosa che in quel momento era costellata di tende. Non so dove, un megaterio ruggì e fece scuotere la catena. Pareva non esistere altro rumore. Mi fermai in ascolto e il megaterio, non più disturbato dai miei passi, scivolò nel sonno letargico della sua specie. Avvertivo la rugiada scorrere dalle foglie e i leggeri, frammentari cinguettii degli uccelli.

Ma c'era qualcosa di più. Un debole whick, whick, veloce e irregolare, che aumentò d'intensità quando lo ascoltai. Mi incamminai in mezzo alle tende silenziose, alla ricerca di quel rumore. Ma dovevo aver sbagliato nel giudicarlo, perché il dottor Talos mi vide per primo.

Amico mio! Carissimo compagno! Stanno dormendo tutti... la tua Dorcas e gli altri. Tutti a parte te e me. Qua!

Mentre parlava, afferrò il bastone e lo fece roteare; il whick, whick era prodotto dalle corolle dei fiori recise.

Ci hai trovati appena in tempo. Appena in tempo! Saremo di scena questa notte, e sarei stato obbligato a scritturare un altro attore per recitare la tua parte. Sono contento di rivederti! Ti devo dei soldi... rammenti? Non molto e, sia detto fra noi, sono convinto che sia falso. Ma ti spetta ugualmente, e io pago sempre.

Purtroppo non me ne ricordo dissi io. Perciò non deve trattarsi di una gran somma. Se Dorcas sta bene, sono pronto a soprassedere, purché tu mi offra qualcosa da mangiare e mi mostri dove posso dormire per almeno due turni di guardia.

Il dottore chinò per un istante il naso appuntito per manifestare il suo rincrescimento. Puoi dormire quanto desideri, fino a quando non ti sveglieranno gli altri. Ma purtroppo non possediamo niente di commestibile. Baldanders, lo sai bene, divora tutto. Il maresciallo del tiaso ha assicurato che avrebbe portato qualcosa, oggi, per tutti noi. Accennò vagamente con il bastone all'irregolare accampamento di tende. Ma credo che non arriverà prima di metà mattina.

Non importa. In verità sono troppo stanco per mangiare; ma se tu mi facessi vedere dove mi posso coricare...

Cosa ti è successo alla testa?... Non ha importanza... lo nasconderemo con il trucco. Da questa parte! Il dottor Talos si era già incamminato di buon passo davanti a me. Lo seguii attraverso un labirinto di corde fino a una cupola color eliotropio. Vicino all'entrata vidi la carriola di Baldanders, e finalmente ebbi la certezza di aver ritrovato Dorcas.

 

Al mio risveglio, fu come se non ci fossimo mai separati. La delicata grazia di Dorcas era immutata; la bellezza di Jolenta la metteva in ombra, come al solito, ma quando ci trovavamo tutti e tre insieme io desideravo solo che lei se ne andasse, così da poter tenere gli occhi fissi su Dorcas. Dopo un'ora che eravamo tutti svegli, mi appartai con Baldanders domandandogli per quale motivo mi avesse abbandonato nel bosco oltre la Porta della Misericordia.

Io non ero con te rispose lui, adagio. Io ero con il mio dottor Talos.

Anch'io. Avremmo potuto cercarlo insieme e aiutarci reciprocamente.

Ci fu una lunga pausa; mi parve di avvertire sul volto il peso di quegli occhi spenti, e nella mia ignoranza pensai a quanto terribile sarebbe stato se Baldanders avesse avuto l'energia e il desiderio di arrabbiarsi.

Alla fine lui chiese: Eri insieme a noi quando abbiamo lasciato la città?

Certamente. Io, Dorcas e Jolenta eravamo tutti con te.

Un'altra pausa. Allora ti abbiamo incontrato là.

Infatti. Non lo ricordi?

Baldanders scosse lentamente il capo e io vidi che i crespi capelli neri erano striati di grigio. Una mattina mi sono svegliato vicino a te. Stavo pensando. Mi hai lasciato presto.

Allora la situazione era diversa... ci eravamo messi d'accordo di ritrovarci. (Sentii una fitta di pentimento, ricordando come non avessi avuto la minima intenzione di rispettare quella promessa.)

Ci siamo ritrovati disse Baldanders con voce spenta; e poi, notando che la sua riposta non mi era bastata, aggiunse: Qui, per me, non c'è niente di vero a parte il dottor Talos.

La tua lealtà è davvero lodevole, ma avresti dovuto ricordare che lui desiderava anche me, oltre a le, come compagnia. Non riuscivo ad arrabbiarmi con quel gigante mansueto e stupido.

Raccoglieremo molti soldi, qui nel sud, e allora ricostruiremo un'altra volta, come abbiamo già fatto, quando loro avranno dimenticato.

Qui siamo a nord. Ma hai ragione, la tua casa è stata distrutta, giusto?

Bruciata annuì Baldanders. Riuscivo quasi a scorgere le fiamme nei suoi occhi. Mi dispiace, se ti è successo qualcosa di sgradevole. Per molto tempo ho pensato solo al castello e al mio lavoro.

Lo lasciai seduto e mi recai a ispezionare le attrezzature del nostro palcoscenico... anche se non era necessario, e del resto non sarei stato in grado di notare niente, a parte le mancanze più evidenti. Numerosi commedianti si erano riuniti intorno a Jolenta e il dottor Talos li mandò via ordinando alla giovane di ritirarsi nella tenda. Un istante dopo udii il tonfo del bastone sulla carne; poi il dottore uscì, sorridente ma ancora turbato.

Non è colpa di Jolenta dissi io. È il suo aspetto...

Troppo appariscente. Oh, sì, troppo, troppo appariscente. Sai cosa mi piace di te, sieur Severian? Tu preferisci Dorcas. A proposito, dov'è? L'hai vista da quando sei tornato?

Ti avviso, dottore, non la picchiare.

Non ci penserei nemmeno. Ho solo paura che si sia perduta.

La sua espressione stupita mi convinse che stava dicendo la verità. Gli risposi: Siamo usciti a parlare per un momento, poi lei è andata a prendere l'acqua.

È un gesto coraggioso da parte sua commentò il dottor Talos, e dopo aver visto la mia espressione stupita aggiunse: Dorcas ha il terrore dell'acqua. L'avrai certo notato. È pulita, ma anche quando si lava, l'acqua non deve essere più profonda di un dito. Quando passiamo sopra un ponte, si aggrappa a Jolenta e trema.

Dorcas tornò e se anche il dottore disse qualcos'altro non lo sentii. Quella mattina, nel momento del nostro incontro, nessuno dei due era riuscito a fare più di un sorriso e di una incredula stretta di mano. Allora finalmente mi venne vicina, appoggiò i secchi che aveva portato e sembrò mangiarmi con gli occhi. Mi sei mancato tanto disse. Ero così sola, senza di te.

Il pensiero che qualcuno avvertisse la mia mancanza mi fece ridere, quindi sollevai l'orlo del mantello di fuliggine. Era questo che ti mancava?

La morte, intendi dire? Sentivo la mancanza della morte? No, la tua. Dorcas afferrò il mio mantello e mi attirò verso il filare di pioppi che formava una delle pareti della Sala Verde. Ho trovato una panchina, vicino alle aiuole delle erbe aromatiche. Vieni a sederti insieme a me. Potranno fare a meno di noi per un po', dopo tanti giorni, e alla fine Jolenta uscirà e troverà l'acqua, che comunque era per lei.

Non appena fummo lontani dal frastuono dell'accampamento, nel quale i giocolieri lanciavano i coltelli e gli acrobati i figli, ci trovammo immersi nel silenzio dei giardini. Si tratta, probabilmente, del più esteso tratto di terra esistente al mondo che sia stato spianato e ricoperto di piante per creare la bellezza, a parte quei terreni incolti che sono i giardini dell'Increato e i cui coltivatori sono invisibili per i nostri occhi. Le siepi, sovrapponendosi, creavano un angusto passaggio. Ci addentrammo in un boschetto di piante dai rami bianchi e odorosi che mi facevano ricordare dolorosamente i susini in fiore in mezzo ai quali i pretoriani avevano trascinato me e Jonas, nonostante gli uni sembrassero piantati solo a scopo ornamentale e gli altri, pensai, per i loro frutti. Dorcas aveva spezzato un ramoscello adorno di una mezza dozzina di fiori e se l'era messo fra i capelli d'oro chiaro.

Oltre il frutteto c'era un giardino tanto vetusto che, dedussi, doveva essere stato dimenticato da tutti, a parte i servitori che se ne prendevano cura. La panchina di pietra, un tempo, doveva essere stata abbellita da teste scolpite, ma erano talmente rovinate da aver perso quasi del tutto i lineamenti. Erano rimaste poche aiuole di fiori molto semplici e file odorose di erbe aromatiche... rosmarino, angelica, menta, basilico, ruta, che crescevano in un terreno diventato nero come il cioccolato in seguito alle fatiche di innumerevoli anni.

C'era anche un piccolo ruscello, dove Dorcas doveva aver attinto l'acqua. Una volta la sorgente doveva essere stata una fontana, ma ormai era solo una specie di polla che sgorgava in una conca di pietra non molto profonda dalla quale traboccava, insinuandosi in piccoli canalini rozzamente rivestiti di muratura che andavano a irrigare gli alberi da frutto. Ci sedemmo sulla panchina; io appoggiai la spada al braccio e Dorcas mi prese le mani.

Severian, ho paura mi disse. Faccio sempre dei sogni tremendi.

Da quando me ne sono andato?

Sempre.

Quando eravamo fianco a fianco nel campo mi dicesti che ti avevo svegliata da un bel sogno. Mi hai detto che era ricco di particolari e che sembrava vero.

Se era bello, me ne sono dimenticata.

Avevo notato che Dorcas teneva lo sguardo lontano dall'acqua che fuoriusciva dalla fontana in rovina.

Tutte le notti sogno che sto passeggiando lungo strade costeggiate da botteghe. Sono felice, o per lo meno contenta. Ho soldi da spendere e ci sono tante cose che desidero comprare. Me le elenco una per una nella mente e cerco di stabilire in quale zona del quartiere posso trovare ogni oggetto al prezzo più conveniente e della migliore qualità.

«Ma a poco a poco, mentre passo da una bottega all'altra, mi rendo conto che tutti quelli che incontro mi odiano e mi disprezzano, e so che è così perché mi credono uno spirito immondo che ha preso una forma umana. Alla fine entro in un negozio gestito da un vecchio e da una vecchia. La donna è seduta e sta lavorando un pizzo, l'uomo dispone le merci sul bancone per farmele vedere. Alle mie spalle avverto il rumore del filo che passa nel merletto.

Cosa vuoi comperare? domandai.

Vestitini. Dorcas allungò le piccole mani bianche, a mezza spanna l'una dall'altra. Vestitini per le bambole, credo. Ricordo, in particolare, le camicine di finissima lana. Alla fine ne scelgo una e consegno i soldi al vecchio. Ma non sono soldi... è solo un mucchietto di sporcizia.

Le tremavano le spalle e io la circondai con un braccio, nel tentativo di rassicurarla.

Allora vorrei gridare che stanno sbagliando, che io non sono lo spettro immondo che loro credono. Eppure so che, se lo facessi, qualsiasi mia parola verrebbe interpretata come la dimostrazione decisiva che essi hanno ragione, e le parole mi muoiono in gola. Il peggio è che esattamente in quel momento il fruscio del filo si interrompe. Dorcas aveva afferrato nuovamente la mia mano libera; la strinse come se volesse con quel gesto infondere in me le sue parole. Lo so, nessuno può capirmi se non ha fatto lo stesso sogno, ma è tremendo. Tremendo.

Forse adesso che sono di nuovo con te questi sogni finiranno.

E poi mi addormento, o per lo meno sprofondo nel buio. Se non riesco a svegliarmi, arriva il secondo sogno. Sono a bordo di una barca che viene spinta per mezzo di una pertica su un lago spettrale...

Questo per lo meno non è un mistero dissi io. Sei stata davvero su una barca simile, con me e Agia. Apparteneva a un uomo chiamato Hildegrin, lo ricorderai certamente.

Dorcas scosse il capo. Non si tratta di quella barca. È molto più piccola. C'è un vecchio che la spinge con la pertica e io sono distesa ai suoi piedi. Sono sveglia ma non posso muovermi e le mie braccia sono immerse nell'acqua scura. Proprio quando stiamo per arrivare a terra cado dalla barca; ma il vecchio non se ne accorge e mentre vado a fondo so che non si è nemmeno reso conto della mia presenza. Quasi subito la luce svanisce e io ho molto freddo. In alto, molto sopra di me, sento una voce amata che pronuncia il mio nome, ma non riesco a ricordare a chi appartiene.

È la mia voce e ti sto chiamando per svegliarti.

È probabile. Il segno della frustata che Dorcas portava sulla guancia dalla Porta della Misericordia bruciava come un marchio.

Rimanemmo seduti a lungo senza parlare. Gli usignoli tacevano, ma i fanelli cantavano su tutte le piante e scorsi un pappagallo, vestito di scarlatto e di verde come un piccolo messaggero in divisa, sfrecciare fra i rami.

Alla fine Dorcas disse: Com'è paurosa l'acqua. Non avrei dovuto portarti qui, ma era l'unico posto vicino che mi sia venuto in mente. Vorrei che fossimo seduti per terra sotto quegli alberi.

Perché la detesti tanto? A me pare molto bella.

Perché qui è all'aperto, ma generalmente scorre verso il basso, lontano dalla luce.

Però poi risale dissi io. La pioggia che scende in primavera è la stessa acqua che l'anno precedente abbiamo visto fluire nei canali di scolo. O almeno, così diceva il Maestro Malrubius.

Il sorriso di Dorcas rifulse come una stella. È piacevole crederlo, anche se forse non è la verità. Severian, è stupido da parte mia affermare che sei la persona migliore che conosco, perché sei l'unica persona buona che conosco in realtà. Ma sono convinta che, se anche incontrassi mille altri uomini, il migliore saresti comunque tu. È di questo che ti volevo parlare.

Se desideri la mia protezione, l'hai già, lo sai.

Non è tutto disse Dorcas. In un certo senso vorrei darti la mia. Ecco, ti sembra una stupidaggine, vero? Non ho una famiglia, non ho nessuno al mondo a parte te, eppure penso di poterti proteggere.

Conosci Jolenta e il dottor Talos e Baldanders.

Loro non contano. Non capisci, Severian? Anch'io non sono nessuno, ma loro sono ancora meno di me. Questa notte eravamo tutti e cinque nella tenda, eppure eri solo. Una volta mi hai detto di non avere molta fantasia; ma questo devi averlo avvertito.

È dalla... solitudine che mi vuoi proteggere? Mi farebbe piacere.

Allora lo farò, come posso e fino a quando mi sarà possibile. Ma soprattutto voglio proteggerti dal giudizio del mondo. Severian, ricordi il sogno che ti ho appena detto? Tutti, nella bottega e per le strade, pensano che io sia solo uno spettro ripugnante. E forse hanno ragione.

Stava tremando e io la strinsi a me.

In parte il sogno è doloroso proprio per questo motivo, in parte perché io so che sotto altri punti di vista hanno torto. Io sono lo spettro immondo. Io. Ma in me ci sono anche altre cose, che fanno parte di me esattamente come lo spettro.

Tu non potresti mai essere immonda.

Oh, sì rispose Dorcas, serissima, sollevando lo sguardo verso di me. Il suo volto non mi era mai parso tanto bello e puro come in quel momento, con il sole che lo illuminava. Oh, sì, posso esserlo, Severian. Esattamente come tu puoi essere quello che ti definiscono. Quello che a volte sei. Rammenti quando vedemmo la cattedrale salire verso il cielo e ardere in un istante? E quando percorremmo la strada in mezzo agli alberi finché vedemmo una luce, più avanti, ed erano il dottor Talos e Baldanders che stavano per inscenare il loro dramma insieme a Jolenta?

Tu stringevi la mia mano dissi. E discorrevamo di filosofia. Come potrei dimenticarmelo?

Quando raggiungemmo la luce e il dottor Talos ci vide... rammenti cosa disse?

Tornai con la memoria a quella sera, alla fine della giornata in cui avevo giustiziato Agilus. Udii il ruggito della folla, l'urlo di Agia e poi il rullo del tamburo di Baldanders. Disse che erano arrivati tutti, che tu eri l'Innocenza e io la Morte.

Dorcas annuì, seria. Infatti. Ma tu non sei davvero la Morte, sebbene molto spesso ti chiamino in tal modo. Non sei la morte, come non lo è il macellaio che passa tutto il giorno a tagliare la gola ai manzi. Per me tu sei la Vita, sei un giovane di nome Severian, e se desiderassi indossare altre vesti e diventare un carpentiere o un pescatore, nessuno te lo potrebbe proibire.

Non desidero affatto lasciare la mia corporazione.

Ma potresti. Anche oggi stesso. È questo che occorre rammentare. La gente non pensa agli altri come a esseri umani. Li insulta e li rinchiude, ma non vuole che tu ti lasci rinchiudere. Il dottor Talos è peggio di tanti altri. A suo modo, è falso...

Dorcas lasciò in sospeso quella frase di accusa e io dissi: Una volta ho sentito Baldanders sostenere che non mente quasi mai.

A suo modo, ho detto. Baldanders ha ragione: il dottor Talos non mente nel modo in cui generalmente si intende la menzogna. Definirti Morte non è stata una falsità, è stata una... una...

Metafora proposi.

Ma era una metafora pericolosa, cattiva, e rivolta a te suonava come una menzogna.

Tu credi che il dottor Talos mi detesti? Io lo ritenevo una delle poche persone gentili nei miei confronti da quando ho lasciato la Cittadella. Tu, Jonas, che ora se ne è andato, una vecchia che ho conosciuto quando ero stato catturato, un tale dalla veste gialla, che a sua volta mi ha chiamato Morte, e il dottor Talos. È un elenco molto breve, in verità.

Non penso che detesti nel senso comune del termine rispose a bassa voce Dorcas. E non penso nemmeno che ami come si intende l'amore. Lui desidera manipolare tutto quello che incontra, mutarlo secondo la sua volontà. E poiché distruggere è più facile che costruire, lo fa frequentemente.

Baldanders pare che gli sia affezionato dissi io. Una volta avevo un cane menomato e ho visto Baldanders guardare il dottor Talos come Triskele guardava me.

Capisco cosa intendi dire, ma non credo che sia così. Non hai mai riflettuto sul modo in cui tu guardavi il tuo cane? E che cosa sai del loro passato?

So solo che abitavano nella stessa casa sul lago Diuturna. Pare che la gente del posto abbia appiccato il fuoco alla loro casa per obbligarli ad andarsene.

Credi che il dottor Talos possa essere figlio di Baldanders?

Era un'ipotesi talmente assurda che scoppiai a ridere, contento di poter scaricare in tal modo la tensione.

Comunque continuò Dorcas, è proprio questo il loro modo di comportarsi. Come un padre volenteroso e ritardato con un figlio geniale e volubile. Per lo meno, a me sembra così.

Solo quando ci alzammo per fare ritorno verso la Sala Verde (che non ricordava affatto il quadro mostratomi da Rudesind più di quanto avrebbe potuto farlo qualsiasi altro giardino) mi chiesi se anche il termine «Innocenza» riferito a Dorcas dal dottore fosse stato una metafora dello stesso genere.

 

XXIII

JOLENTA

 

Il vecchio frutteto e l'orticello delle piante aromatiche erano talmente immersi nel silenzio che mi fecero pensare all'Atrio del Tempo e a Valeria, con il suo splendido viso incorniciato dal cappuccio di pelo. La Sala Verde era un pandemonio. Tutti si erano svegliati e talvolta parevano urlare insieme. I bambini si arrampicavano sulle piante per liberare gli uccellini dalle gabbie, inseguiti dalle scope delle madri e dai bastoni dei padri.

Molte tende vennero erette nel corso delle prove e scorsi una piramide all'apparenza stabile di tela rigata afflosciarsi come una bandiera e svelare, più in là, il megaterio verde come l'erba che si sollevava sulle zampe posteriori mentre una ballerina gli volteggiava sulla fronte.

Baldanders e la nostra tenda erano scomparsi, ma un istante dopo giunse il dottor Talos di corsa e ci accompagnò, di gran fretta, lungo i vialetti sinuosi, tra balaustrate e cascate e grotte colme di topazi grezzi e muschi in fiore, fino a una vallata erbosa nella quale il gigante era indaffarato a erigere il nostro palcoscenico sotto lo sguardo di una dozzina di daini bianchi.

Si trattava di un palco più complicato di quello sul quale avevo recitato fra le mura di Nessus. I servitori della Casa Assoluta, a quanto pareva, avevano offerto assi e chiodi, attrezzi e vernici e tessuti in quantità maggiore di quella che avremmo potuto sfruttare. Quella prodigalità aveva infiammato l'estro del grandioso dottore (estro mai del tutto sopito). Passava continuamente dall'aiutare Baldanders e me nella costruzione delle scene all'aggiungere frettolosamente nuovi episodi al manoscritto del suo dramma.

Il gigante fungeva da carpentiere e, nonostante si muovesse molto adagio, lavorava con tale costanza ed energia piantava con un colpo o due un chiodo grande quanto il mio indice e spezzava con pochi colpi di scure un'asse talmente grande che a me sarebbe occorso un intero turno di guardia per riuscire a segarla che era come se dieci schiavi lavorassero sotto l'incitamento della frusta.

Dorcas rivelò un talento per la pittura che stupì per lo meno me. Insieme, innalzammo le lastre nere che bevono il sole, non solo per radunare l'energia necessaria alla rappresentazione della sera, ma anche per accrescere le proiezioni.

Sono meccanismi che possono offrire uno sfondo di mille leghe con la stessa facilità con cui creano l'interno di una capanna, ma l'illusione si crea solo nel buio più totale. Per questo motivo conviene rafforzarla ponendo uno sfondo di scenari dipinti, e Dorcas li creava con facilità, immersa fino alla cintura fra le montagne mentre infilava i pennelli attraverso le immagini scolorite dalla luce del giorno.

Io e Jolenta eravamo meno utili. Io non ero portato per la pittura e comprendevo troppo poco le necessità dell'opera per poter essere d'aiuto al dottore nella disposizione del materiale. Jolenta, penso, rifiutava fisicamente e psicologicamente ogni genere di lavoro e di certo si ribellava a quello. Le sue lunghe gambe, tanto sottili sotto il ginocchio e tanto tornite sopra, non erano adatte a trasportare dei grandi pesi, a parte il suo corpo. I seni prosperosi sporgevano e i capezzoli rischiavano di restare schiacciati fra le assi o imbrattati di vernice. Non possedeva nemmeno un po' di quello spirito che anima i membri di un gruppo occupati a realizzare uno scopo collettivo. Dorcas aveva detto che la notte prima io ero stato solo, e forse aveva più ragione di quanto credesse; ma Jolenta era ancora più sola di me. Io avevo Dorcas e Dorcas aveva me, Baldanders e il dottore avevano la loro contorta amicizia, e nella rappresentazione eravamo tutti uniti. Jolenta possedeva solo se stessa, in una rappresentazione infinita il cui unico fine era ottenere ammirazione.

Mi toccò il braccio e, senza parlare, volse gli immensi occhi di smeraldo verso il nostro anfiteatro naturale, nel quale numerosi castani mettevano in mostra le candele bianche in mezzo al fogliame pallido.

Mi accorsi che nessuno ci stava guardando e assentii. Al confronto di Dorcas, Jolenta al mio fianco sembrava quasi alta come Thecla, nonostante si muovesse a piccoli passi invece che a passi lunghi e decisi. Superava Dorcas almeno di tutta la testa e la pettinatura la faceva sembrare ancora più imponente, insieme agli stivali con i tacchi alti.

Voglio vederlo disse. È l'unica occasione che mi capiterà in tutta la mia vita.

Era una evidente bugia, ma risposi, come se le avessi creduto: È una cosa reciproca. Oggi, e solo oggi, la Casa Assoluta ha l'opportunità di vedere te.

Jolenta annuì: avevo detto una profonda verità. Mi occorre qualcuno... qualcuno che incuta paura a quelli con i quali non voglio parlare. Intendo tutti questi commercianti e saltimbanchi. Quando tu non c'eri, nessuno mi voleva accompagnare, a parte Dorcas, ma chi ha paura di lei? Potresti sguainare la spada e tenerla sulla spalla?

Obbedii.

Se io non sorrido, obbligali ad allontanarsi. Hai capito?

Tra i castani l'erba era molto più alta che nell'anfiteatro naturale, ma risultava più morbida delle felci; il sentiero era di ciottoli di quarzo venato d'oro.

Se l'Autarca mi vedesse, mi vorrebbe avere. Pensi che assisterà alla rappresentazione?

Feci un cenno d'assenso per accontentarla, ma aggiunsi: Ho sentito dire che non ama molto le donne, per quanto belle, se non come consigliere, spie e scudiere.

Jolenta si arrestò e si girò, sorridendo. Appunto. Non capisci? Io posso farmi desiderare da chiunque; così l'Autarca, i cui sogni sono la nostra realtà, i cui ricordi sono la nostra storia, sebbene privo di virilità mi vorrà possedere. Tu hai desiderato altre donne a parte me, vero? Le hai desiderate tantissimo?

Riconobbi che aveva ragione.

E pensi di volermi come volevi loro. Jolenta si volse e riprese a camminare, ondeggiando un po', come era solita fare, ma rinvigorita dalle sue stesse argomentazioni. Io provoco l'erezione a ogni uomo e il prurito a ogni donna. Le donne che non hanno mai amato altre donne si innamorano di me... lo sapevi? Ritornano alle nostre rappresentazioni e mi inviano manicaretti e fiori, sciarpe, scialli e fazzoletti ricamati, uniti a bigliettini scritti, oh, in un modo da madre o da sorella. Intendono proteggermi dal mio dottore, dal suo gigante, dai loro mariti e dai loro figli e dai loro vicini. E gli uomini!Baldanders deve gettarli nel fiume.

Le domandai se fosse zoppa, e quando uscimmo dal boschetto di castani mi guardai intorno in cerca di un veicolo, ma non ne vidi.

Ho le cosce infiammate e camminare mi provoca dolore. Ho un unguento che calma leggermente il bruciore e un uomo mi ha regalato un ginetto da cavalcare; ma non so dove sia andato a pascolare, in questo momento. Sto bene soltanto quando posso stare con le gambe aperte.

Potrei portarti io.

Jolenta sorrise ancora, mettendo in mostra i denti perfetti. Farebbe piacere a entrambi, vero? Ma non penso che sarebbe dignitoso. No, camminerò... mi auguro di non dover fare molta strada. Anzi, non voglio camminare molto, qualsiasi cosa accada. Pare che qui intorno, ormai, ci siano solo i saltimbanchi. Probabilmente le persone importanti dormono fino a tardi e si stanno riposando in attesa della festa di questa notte. Anch'io avrò bisogno di dormire, almeno quattro turni di guardia, prima di continuare.

Udii il mormorio dell'acqua corrente e dato che non avevo una meta migliore da cercare, mi incamminai in quella direzione. Oltrepassammo una siepe di biancospini i cui fiori bianchi a macchie da lontano apparivano una barriera insuperabile e vedemmo un fiume poco più largo di una strada nel quale nuotavano cigni simili a sculture di ghiaccio. Vicino a un padiglione scorsi tre barche, modellate come il fiore del nerufaro. L'interno era foderato di broccato di seta e quando salii a bordo di una di esse, mi accorsi che emanavano un aroma speziato.

Splendide commentò Jolenta. Non si arrabbieranno se ne prendiamo una, vero? O forse, se si arrabbieranno, ci condurranno alla presenza di qualche personaggio importante, come accade nel dramma, e quando lui mi vedrà non mi lascerà più andare. Allora farò in modo che il dottor Talos resti con me, e anche tu, se lo desideri. Troveranno qualche lavoro da farti svolgere.

Le spiegai che intendevo continuare il mio viaggio verso il nord e la feci salire sulla barca, circondandole la vita con il braccio. Era sottile come quella di Dorcas.

Lei si allungò immediatamente sui cuscini e i petali sollevati fecero ombra alla sua carnagione perfetta. Mi tornò in mente Agia, che rideva in pieno sole mentre scendevamo la Scalinata Adamniana e si vantava del cappello a larghe tese che avrebbe indossato l'anno successivo. I lineamenti di Agia non avevano nulla da invidiare a quelli di Jolenta; era poco più alta di Dorcas, con i fianchi larghi e i seni che sarebbero sembrati piccoli in confronto all'abbondante pienezza di Jolenta: gli occhi castani a mandorla e gli zigomi alti esprimevano più astuzia e determinazione che passione e arrendevolezza. Eppure Agia aveva provocato in me un sano desiderio. Il suo riso era frequentemente venato di disprezzo, ma era autentico. Agia aveva sudato di passione; il desiderio di Jolenta non era altro che quello di essere desiderata. Per quel motivo io volevo, non tanto confortare la sua solitudine come avevo desiderato fare con Valeria, né cercare di esprimere un amore sofferente come quello che avevo provato per Thecla, e nemmeno proteggerla come desideravo fare con Dorcas, bensì svergognarla e punirla, annientare il suo autocontrollo, colmarle gli occhi di lacrime e farle strappare i capelli, come si bruciano i capelli dei cadaveri per affliggere gli spettri che li hanno abbandonati. Si era fatta un vanto di rendere le donne tribadi. Poco mancava che trasformasse me in un algofilo.

Questa sarà la mia ultima apparizione in scena, lo so. Lo sento. In mezzo al pubblico ci sarà sicuramente qualcuno... Jolenta sbadigliò e si allungò. Pareva talmente scontato che il corpetto straboccante non sarebbe riuscito a contenerla tutta che io levai lo sguardo. Quando lo rivolsi nuovamente verso di lei, si era addormentata.

A poppa della barca era fissato un remo leggero. Lo presi e mi accorsi che, nonostante lo scafo fosse rotondo, aveva una chiglia. Nel centro del fiumicello la corrente era sufficientemente intensa perché io mi limitassi a controllare solo il nostro avanzare lungo un susseguirsi di meandri ondulati. Nello stesso modo in cui il servitore incappucciato e io eravamo passati senza essere visti in mezzo ad alcove, appartamenti e porticati, quando mi aveva guidato lungo i percorsi reconditi della Seconda Casa, così io e l'addormentata Jolenta passavamo senza produrre il minimo rumore, senza fatica, e quasi del tutto inosservati, attraverso numerose leghe del giardino. Vidi coppie distese sulla morbida erba sotto le piante o nel più raffinato agio nei padiglioni, che parevano considerare la nostra barca un semplice ornamento lanciato sulla pigra corrente per loro piacere; se poi distinguevano la mia testa sopra i petali ricurvi, probabilmente pensavano che fossimo intenti alle nostre faccende. Filosofi solitari erano immersi in meditazione su panchine rustiche e compagnie festanti, non necessariamente erotiche, si aggiravano indisturbate fra le piante.

Infine il sonno di Jolenta mi annoiò. Lasciai il remo e mi inginocchiai vicino a lei sui cuscini. Sul suo viso addormentato si coglieva una purezza, sebbene artificiosa, che non vi avevo mai notato quando era sveglia. La baciai, e i suoi grandi occhi mezzi chiusi mi sembrarono quasi simili agli occhi allungai di Agia, e lo stesso valeva per i suoi capelli d'oro rosso che parevano quasi bruni. Le slacciai i vestiti. Lei pareva drogata, forse perché i cuscini ammucchiati contenevano qualche sonnifero, o forse perché era affaticata dalla passeggiata all'aperto e dal peso di una tale quantità di carne voluttuosa. Le scoprii i seni, ciascuno dei quali era grande quanto la sua testa, e le larghe cosce, che parevano racchiudere, nel mezzo, un pulcino appena nato.

 

Quando fummo di ritorno tutti compresero dove eravamo stati, sebbene penso che a Baldanders non importasse. Dorcas pianse di nascosto; sparì per un po' e quando ricomparve aveva gli occhi arrossati e un sorriso eroico. Il dottor Talos mi parve nello stesso tempo adirato e felice. Ebbi l'impressione (e l'ho tuttora) che non avesse mai posseduto Jolenta e che a lui solo, fra tutti gli uomini di Urth, lei si sarebbe data con la massima passione.

Per tutti i turni di guardia che mancavano al tramonto ascoltammo il dottor Talos discutere con diversi funzionari della Casa Assoluta e provando le scene. Dato che ho già parlato di che cosa significasse recitare in un dramma del dottor Talos, vorrei riuscire a riportare qui una versione approssimativa del testo... non come era trascritto sui frammenti di carta sporca che ci passammo l'un l'altro quel pomeriggio, e che di frequente contenevano semplici spunti che sarebbero serviti da guida per le improvvisazioni, ma come avrebbe potuto riferirlo uno scriba diligente presente fra il pubblico, e come venne in realtà riportato dal testimone demoniaco che vive dietro i miei occhi.

Innanzitutto dovete immaginare il nostro teatro. Il laborioso margine di Urth è nuovamente salito sopra il rosso disco solare; i pipistrelli dalle lunghe ali svolazzano in alto e un verde quarto di luna si libra basso nel cielo, a est. Pensate a una piccolissima valle, mille passi da un lato all'altro, incastonata fra le più dolci colline ondulate e ricoperte d'erba. Si vedono delle porte, in queste colline, alcune non più grandi di una banale entrata privata, altre ampie come i portali di una basilica. Sono tutte aperte e da esse penetra una luce velata di nebbia. I sentieri lastricati declinano verso il piccolo arco del proscenio, e là ci sono uomini e donne nei fantastici costumi di una festa in maschera... costumi principalmente presi dalle epoche remote, al punto che io, in possesso solo di quell'infarinatura storica che mi è stata impartita da Thecla e dal Maestro Palaemon, non ne riconosco quasi nessuno. I servitori si muovono fra gli spettatori in maschera portando vassoi carichi di coppe e bicchieri, di carni dal delizioso profumo e di dolci. Sedili di velluto nero e d'ebano, fragili come grilli, sono stati disposti davanti al palcoscenico; ma molti preferiscono rimanere in piedi e durante la rappresentazione gli spettatori vanno e vengono senza soste, e molti si fermano ad ascoltare solo una dozzina di battute. Sugli alberi cantano le raganelle, gli usignoli trillano e in cima alle colline le statue ambulanti si spostano, mutando lentamente posizione. Tutte le parti del dramma sono interpretate dal dottor Talos, Baldanders, Dorcas, Jolenta e me.

 

XXIV

IL DRAMMA DEL DOTTOR TALOS

ESCATOLOGIA E GENESI

 

Versione drammatica (così sosteneva il doltor Talos) di alcune parti del perduto Libro del Nuovo Sole

 

PERSONAGGI:

Una statua

Gabriele

Un profeta

Il gigante Nod

Il generalissimo

Meschia, il primo uomo

Due demoni (travestiti)

Meschiane, la prima donna

L'inquisitore

Jahi

Il familiare dell'inquisitore

L'autarca

Esseri angelici

La contessa

Il Nuovo Sole

L'ancella della contessa

Il Vecchio Sole

Due soldati

La Luna

 

La scena è buia. Compare GABRIELE, circondato da una luce dorata e con una tromba di cristallo in mano.

GABRIELE: Salve. Sono venuto a preparare la scena... in fondo questo è il mio compito. È la notte dell'ultimo giorno e la notte che precede il primo. Il Vecchio Sole è tramontato. Non riapparirà più nel cielo. Domani sorgerà il Nuovo Sole e io e i miei fratelli lo saluteremo. Questa notte... questa notte nessuno lo sa. Tutti stanno dormendo.

Passi lenti e pesanti. Arriva NOD.

GABRIELE: Onnisciente! Difendi il tuo servitore!

NOD: Tu lo servi? Anche io e Nephilim lo serviamo. Allora non ti farò del male, a meno che lo voglia lui.

GABRIELE: Sei al suo servizio? Come fa a comunicare con te?

NOD: In verità, non comunica affatto. Devo cercare di indovinare quello che desidera.

GABRIELE: Lo immaginavo.

NOD: Hai visto il figlio di Meschia?

GABRIELE: Visto? Oh, grande stupido, ma non è ancora nato. Che cosa vuoi da lui?

NOD: Deve venire a vivere con me, nella mia terra a est di questo giardino. Io gli darò in sposa una delle mie figlie.

GABRIELE: Allora hai sbagliato creazione, amico... Sei giunto con almeno cinquanta milioni di anni di ritardo.

NOD: (Annuisce adagio, senza capire.) Se lo dovessi incontrare...

Entrano MESCHIA e MESCHIANE, quindi JAHI. Sono tutti nudi e JAHI è ricoperta di gioielli.

MESCHIA: Che luogo meraviglioso! Stupendo! Fiori, fontane e statue... Non è fantastico?

MESCHIANE: (timidamente) Ho visto una tigre addomesticata con le zanne più lunghe della mia mano. Come la dobbiamo chiamare?

MESCHIA: Come deciderà lei. (A GABRIELE) Di chi è questo bellissimo posto?

GABRIELE: Dell'Autarca.

MESCHIA: E ci consente di abitare qui. È molto magnanimo.

GABRIELE: Non proprio. Qualcuno ti sta seguendo, amico mio. Lo sai?

MESCHIA: (Senza voltarsi.) Anche dietro di te c'è qualcosa.

GABRIELE: (Muovendo la tromba che simboleggia la sua carica.) Sì. Lui è dietro di me.

MESCHIA: Ed è molto vicino. Se hai intenzione di suonare quel corno per domandare aiuto, ti conviene farlo subito.

GABRIELE: Sei veramente perspicace. Ma non è ancora il momento.

La luce dorata scompare e GABRIELE esce di scena. NOD rimane fermo, appoggiato alla clava.

MESCHIANE: Io accenderò il fuoco e tu dovresti iniziare a costruire una casa per noi. Credo che qui piova spesso... guarda com'è verde l'erba.

MESCHIA: (Studiando NOD.) Ah, è solo una statua. Non mi stupisce che lui non lo temesse.

MESCHIANE: Potrebbe anche prendere vita. Una volta ho sentito dire che si possono generare dei figli dalle pietre.

MESCHIA: Una volta! Ma tu sei nata da poco. Ieri, mi pare.

MESCHIANE: Ieri... Non lo so... Sono una bambina, Meschia. Non ricordo niente, fino a quando sono uscita nella luce e ti ho visto parlare con un raggio di sole.

MESCHIA: Non si trattava di un raggio di sole! Era... a dire il vero non ho ancora trovato un nome che lo identifichi.

MESCHIANE: È stato allora che mi sono innamorata di te.

Entra l'AUTARCA.

AUTARCA: Chi siete?

MESCHIA: E tu chi sei allora?

AUTARCA: Io sono il proprietario di questo giardino.

MESCHIA si inchina e MESCHIANE esegue una reverenza, nonostante non indossi una gonna da sostenere.

MESCHIA: Pochi istanti fa abbiamo parlato con uno dei tuoi servitori. Adesso che ci penso, mi stupisce constatare quanto assomigliasse alla tua augusta persona. Tuttavia era... ecco...

AUTARCA: Più giovane?

MESCHIA: Per lo meno lo sembrava.

AUTARCA: Ebbene, immagino che sia inevitabile. Non che cerchi di giustificarlo. Ma sono stato giovane anch'io e, per quanto sia meglio accontentarsi delle donne di condizione simile alla propria, ci sono delle occasioni sarebbe successo anche a te, giovanotto, se ti fossi trovato al mio posto nelle quali una servetta o una contadinella, che si possono corteggiare con poco argento o una pezza di velluto e che non pretendono, nel momento meno adatto, la morte di un rivale o un posto d'ambasciatore per il marito... Ecco, allora una simile personcina diventa particolarmente attraente.

Mentre l'AUTARCA parla, JAHI si è portata via MESCHIA e gli sta appoggiando una mano sulla spalla.

JAHI: Adesso potrai constatare che lui, che tu ritieni la tua divinità, accetta e propone tutto quello che io ho detto a te. Prima che giunga il Nuovo Sole, creiamo un nuovo inizio.

AUTARCA: Ecco una incantevole creatura. Per quale motivo, figliola, scorgo nei tuoi occhi il riflesso delle lucenti fiamme delle candele, mentre tua sorella sta ancora soffiando sull'esca fredda per accendere il fuoco?

JAHI: Non è mia sorella!

AUTARCA: Allora è la tua avversaria. Ma vieni insieme a me. Permetterò a questi due di accamparsi qui e questa notte tu metterai una ricca veste e berrai vino, e la tua sottile figura sarà un po' meno graziosa a causa delle allodole farcite di mandorle e di fichi canditi.

JAHI: Vattene, vecchio.

AUTARCA: Come! Sai chi sono io?

JAHI: Qui sono l'unica a saperlo. Sei uno spettro o anche meno, una colonna di cenere sorretta dal vento.

AUTARCA: Adesso capisco, è pazza. Cosa intende convincerti a fare, amico mio?

MESCHIA: (In tono sollevato.) Non provi risentimento nei suoi confronti? Sei veramente buono.

AUTARCA: Nessun risentimento! Al contrario, un'amante pazza sarebbe un'esperienza molto interessante... Mi attira, credimi, e sono poche le cose che attirano quando si sono viste e sperimentate tante cose come è successo a me. Non morde, esatto? Intendo dire, non morde con troppa violenza?

MESCHIANE: Morde, e le sue zanne sono impregnate di veleno.

JAHI si lancia per graffiarla. MESCHIANE fugge, rincorsa.

AUTARCA: Ordinerò ai miei picchieri di inseguirle in tutto il giardino.

MESCHIA: Non ti preoccupare, fra poco saranno entrambe di ritorno. Intanto, sono davvero contento di poter restare un po' da solo con te. Ho delle domande da farti.

AUTARCA: Non concedo mai favori dopo le sei... è una norma che ho dovuto fissare per non perdere la ragione. Sono certo che capirai.

MESCHIA: (Un po' disorientato.) Grazie di avermelo detto. Ma non era mia intenzione chiederti dei favori, in verità. Desideravo solo domandare informazioni alla tua sapienza divina.

AUTARCA: In tal caso, accomodati. Ma ti avviso, c'è un prezzo da pagare. Desidero possedere quell'angelo demente questa notte.

MESCHIA: (Cade in ginocchio.) C'è una cosa che non ho mai capito. Per quale motivo ti devo parlare se tu conosci veramente ogni mio pensiero? Comunque la mia prima domanda è: anche se so che quella donna appartiene alla progenie che tu hai messo al bando, non dovrei ugualmente seguire le sue proposte? Perché lei sa che io sono al corrente, e sono propenso a credere che lei mi stia proponendo un'azione giusta convinta che io la rifiuterò perché è lei a propormela.

AUTARCA (A parte.) È pazzo anche lui, a quanto pare, e crede che io sia divino a causa della mia veste gialla. (A MESCHIA) Nessun piccolo adulterio ha mai danneggiato un uomo, a parte logicamente quello della moglie.

MESCHIA: Allora il mio le farebbe male? Io...

Entra la CONTESSA accompagnata dalla sua ANCELLA.

CONTESSA: Mio sovrano signore! Cosa stai facendo qui?

MESCHIA: Sto pregando, figlia mia. Levati almeno le scarpe, perché questo terreno è sacro.

CONTESSA: Mio signore, chi è mai questo pagliaccio?

AUTARCA: Un pazzo che ho trovato qui in compagnia di due donne altrettanto pazze.

CONTESSA: Allora sono più numerosi di noi, a meno che la mia ancella sia sana di mente.

ANCELLA: Mia graziosa signora...

CONTESSA: Ma io ho qualche dubbio al riguardo. Oggi pomeriggio mi ha preparato una stola viola da indossare con la sopravveste verde. Avrei fatto la figura di un palo ornato di vilucchi, penso.

MESCHIA, che si è adirato sempre di più mentre la CONTESSA parlava, la colpisce facendola cadere. L'AUTARCA fugge inosservato.

MESCHIA: Mocciosa! Non permetterti di scherzare con le cose sacre quando io sono nelle vicinanze e non osare fare altro all'infuori di quanto ti ordino.

ANCELLA: Ma tu chi sei, signore?

MESCHIA: Io sono il progenitore della razza umana, figlia mia. E tu sei mia figlia, e lo è anche lei.

ANCELLA: Spero che la perdonerai... e che perdonerai anche me. Avevamo sentito dire che eri morto.

MESCHIA: Non ti devi scusare per questo. In fondo, quasi tutti sono morti. Ma io sono ritornato, vedi, per salutare la nuova alba.

NOD: (Riprendendo a parlare e a muoversi dopo la lunga immobilità.) Siamo arrivati troppo presto.

MESCHIA: (Indicandolo.) Un gigante! Un gigante!

CONTESSA: Oh! Solange! Kyneburga!

ANCELLA: Sono qui, mia graziosa signora. Anche Lybe è qui.

NOD: È ancora troppo presto per il Nuovo Sole.

CONTESSA: (Iniziando a piangere.) Sta per arrivare il Nuovo Sole! Ci dilegueremo come sogni!

MESCHIA: (Notando che NOD non ha intenzioni violente.) Come brutti sogni. Ma per te sarà un bene. Lo comprendi, vero?

CONTESSA: (Ricomponendosi un po'.) Però non riesco a capire per quale motivo tu, che di colpo mi appari tanto saggio, abbia confuso l'Autarca con la Mente Universale.

MESCHIA: Io so che voi siete figlie mie nella vecchia creazione. Lo siete necessariamente, dato che siete donne umane e che in questa nuova creazione io non ho figlie.

NOD: Suo figlio prenderà in moglie mia figlia. È un grande onore e la nostra famiglia non ha fatto quasi niente per meritarlo. Noi siamo persone semplici, i figli di Gea... ma saremo esaltati e io diventerò... cosa diventerò, Meschia? Il suocero di tuo figlio. Forse, se tu non avrai niente in contrario, un giorno io e mia moglie andremo a casa di nostra figlia quando anche tu ti troverai in visita. Non ci negheresti un posto a tavola, vero? Ci siederemo a terra, logicamente.

MESCHIA: Non vi manderemo via, naturalmente. Il cane lo fa già... o lo farà, quando lo vedremo. (Rivolto alla CONTESSA.) Non hai pensato che io posso sapere su quella che tu chiami Mente Universale più di quanto il tuo Autarca sa di se stesso? E non solo la Mente Universale, ma anche molte altre potenze meno grandi si ammantano della nostra umanità, all'occorrenza, a volte solo per alcuni di noi. Noi che veniamo indossati in tal modo ce ne rendiamo conto raramente, e crediamo di essere soltanto noi stessi per noi stessi, mentre in realtà per gli altri diventiamo il Demiurgo, il Paracleto o il Demonio.

CONTESSA: È un genere di sapienza che io sto imparando troppo tardi, se veramente dovrò dileguarmi al sorgere del Nuovo Sole. È già trascorsa la mezzanotte?

ANCELLA: Quasi, mia graziosa signora.

CONTESSA: (Mostrando il pubblico.) E tutta questa bella gente, cosa ne sarà di loro?

MESCHIA: Cosa succede alle foglie quando il loro anno finisce e vengono strappate dal vento?

CONTESSA: Se...

MESCHIA si volta verso il cielo a oriente, come in cerca del primo segnale dell'alba.

CONTESSA: Se...

MESCHIA: Se cosa?

CONTESSA: Se il mio corpo contenesse una parte del tuo... stille di tessuto liquido nel mio grembo...

MESCHIA: In tal caso potresti restare su Urth un pochino più a lungo, simile a una cosa sperduta che non riesce più a trovare la strada di casa. Pensi forse di essere qualcosa di più di un cadavere? Anzi, sei qualcosa di meno!

L'ANCELLA sviene.

CONTESSA: Tu sostieni di essere il padre di tutte le cose umane. Dici il vero, perché sei la morte per la donna.

Sulla scena cala l'oscurità. Quando torna la luce, MESCHIANE e JAHI giacciono insieme sotto una pianta di rowan. Alle loro spalle, nella collina, si vede una porta. Il labbro di JAHI è spaccato e gonfio e le conferisce un'espressione imbronciata. Il sangue le cola sul mento.

MESCHIANE: Avrei ancora forza sufficiente a cercarlo se fossi sicuro che tu non mi seguirai.

JAHI: Io sono spinto dalle forze del Mondo degli Inferi e ti seguirò fino alla seconda fine di Urth, se occorrerà. Ma se mi colpirai un'altra volta, te la farò pagare.

MESCHIANE solleva il pugno e JAHI arretra.

MESCHIANE: Le tue gambe erano più tremanti delle mie quando abbiamo stabilito di fermarci qui a riposare.

JAHI: Io soffro molto più di te. Ma il Mondo degli Inferi mi dà la forza di resistere oltre ogni limite umano... per quanto io sia molto più bella e più tenera di te.

MESCHIANE: Questo l'hanno notato tutti, penso.

JAHI: Ti avviso nuovamente, ma non lo farò una terza volta. Colpiscimi ancora e sarà peggio per te.

MESCHIANE: Cosa vorresti fare? Evocare le Erinni perché mi annientino? Non ho paura di te. Se tu potessi fare qualcosa del genere, lo avresti già concretizzato da tempo.

JAHI: Peggio. Se mi colpirai un'altra volta, ti piacerà.

Compaiono il PRIMO SOLDATO e il SECONDO SOLDATO armati di picche.

PRIMO SOLDATO: Guarda!

SECONDO SOLDATO: (Alle donne.) Giù, giù! Non alzatevi, o vi infilzerò come uccelli. Dovete seguirci.

MESCHIANE: Camminando accucciati?

PRIMO SOLDATO: Sfacciata!

La incita con la picca e si sente un lamento quasi troppo profondo per essere avvertito. Il palcoscenico vibra di conseguenza e il terreno trema.

SECONDO SOLDATO: Cos'è stato?

PRIMO SOLDATO: Non lo so.

JAHI: La fine di Urth, stupido. Forza, trafiggila con la lancia. Tanto sei alla fine.

SECONDO SOLDATO: Tu non sai quasi niente! Per noi è l'inizio. Quando ci è stato ordinato di perquisire questo giardino, ci è stato detto che dovevamo cercare voi due e farvi prigioniere. Pensate, valete dieci crisi!

Prende JAHI e contemporaneamente MESCHIANE fugge nel buio. Il PRIMO SOLDATO la insegue.

SECONDO SOLDATO: Ah, mordi?

Colpisce JAHI con l'asta della sua arma. Lottano.

JAHI: Stupido! Lei sta scappando!

SECONDO SOLDATO: Spetta a Ivo preoccuparsene. Io ho la mia prigioniera e lui si è lasciato sfuggire la sua, a meno che riesca a riprenderla. Vieni, dobbiamo presentarci al chiliarca.

JAHI: Non mi vuoi avere prima di abbandonare questo posto meraviglioso?

SECONDO SOLDATO: Così da farmi tagliare il mio membro virile e da farmelo infilare in bocca? Certamente no!

JAHI: Prima occorrerebbe trovarlo.

SECONDO SOLDATO: Cosa? (La scuote.)

JAHI: Tu stai prendendo il posto di Urth, che non intende prendersi tale disturbo per me. Ma aspetta... lasciami sola per un momento e ti farò vedere cose meravigliose.

SECONDO SOLDATO: Posso già vederle adesso, e ne ringrazio la luna.

JAHI: Ti posso rendere ricco. Per te dieci crisi non saranno niente. Ma non avrò nessun potere finché mi terrai stretta.

SECONDO SOLDATO: Hai le gambe più lunghe della tua compagna, ma ho notato che non sei capace di muoverle in fretta quanto lei. Anzi, penso proprio che tu faccia fatica a reggerti in piedi.

JAHI: Non posso fare di meglio.

SECONDO SOLDATO: Ti terrò per la collana... la catena mi sembra abbastanza robusta. Se così ti può bastare, fammi vedere di che cosa sei capace. Altrimenti, seguimi. Non riuscirai a essere più libera di così fino a quando sarai con me.

JAHI solleva entrambe le mani, allungando i mignoli, gli indici e i pollici. Un istante di silenzio, poi si sente una inconsueta musica dolce e piena di trilli. Cadono dei fiocchi di neve.

SECONDO SOLDATO: Smettila!

La prende per un braccio e glielo abbassa. La musica smette di colpo. Gli ultimi fiocchi di neve gli si posano sul capo.

SECONDO SOLDATO: Non era oro.

JAHI: Però l'hai visto.

SECONDO SOLDATO: Nel villaggio in cui sono nato, c'è una vecchia che sa controllare il clima come te. Non è altrettanto veloce, lo devo ammettere, ma è molto più vecchia e debole.

JAHI: Chiunque sia, non ha nemmeno la millesima parte dei miei anni.

Compare la STATUA, avanzando adagio, come se fosse cieca.

JAHI: Cos'è?

SECONDO SOLDATO: Un giocattolo di Padre Inire. Non è in grado di sentirti né di emettere suoni. Non sono neppure sicuro che sia vivo.

JAHI: Se è per questo, non lo sono neanch'io.

La STATUA passa vicino a JAHI, che le accarezza la guancia con la mano libera.

JAHI: Amore... amore... amore? Non mi saluti?

STATUA: E-e-e-y!

SECONDO SOLDATO: Cosa stai facendo? Fermati! Donna, hai detto di non avere alcun potere, finché ti avessi tenuta stretta.

JAHI: Guarda il mio schiavo. Sei in grado di batterti con lui? Forza... spezza la tua lancia contro quel petto robusto.

La STATUA si inginocchia e bacia il piede a JAHI.

SECONDO SOLDATO: No, ma sono in grado di correre più velocemente.

Si getta JAHI sulla spalla e corre via. La porta nella collina si apre. Il SECONDO SOLDATO entra e la porta si chiude al suo passaggio. La STATUA colpisce vigorosamente l'uscio ma non riesce ad aprirlo. Il suo volto è rigato di lacrime. Infine si scosta e inizia a scavare con le mani.

GABRIELE: (Fuori scena.) In tal modo le immagini di pietra mantengono la fedeltà a un giorno del passato. Sole nel deserto, dopo la fuga dell'uomo.

La scena si oscura sulla STATUA intenta a scavare. Quando ritorna la luce, l'AUTARCA è seduto sul trono. È solo, ma le sagome proiettate sugli schermi laterali mostrano la presenza della corte.

AUTARCA: Eccomi qui, come se fossi il signore di cento mondi. E invece non sono nemmeno padrone di questo.

Fuori scena si distingue il passo di molti uomini in marcia. Si sente impartire un ordine.

AUTARCA: Generalissimo!

Compare un PROFETA. Indossa una pelle di capra e stringe un bastone sul quale è stato rozzamente inciso uno strano simbolo.

PROFETA: Stanno avvenendo cento prodigi. A Incusus è nato un vitello senza testa e con due bocche al posto delle ginocchia. Una donna nota a tutti per la sua onestà ha sognato di essere gravida di un cane; ieri notte sui ghiacci meridionali è caduta una pioggia di stelle e i profeti vagano sulla terra.

AUTARCA: Anche tu sei un profeta.

PROFETA: Li ha visti l'Autarca in persona!

AUTARCA: Il mio archivista, che è molto esperto nella storia di questo posto, mi ha detto che qui sono stati uccisi più di cento profeti... lapidati, bruciati, dilaniati dalle bestie feroci e annegati. Alcuni addirittura sono stati inchiodati alle nostre porte. Adesso parlami un po' dell'avvento del Nuovo Sole, tanto profetizzato. Come accadrà? Cosa significa? Parla, o il mio vecchio archivista avrà un altro nome da aggiungere al lungo elenco e il pallido fiordiluna crescerà avvinto a quel bastone.

PROFETA: Non spero certo di soddisfarti, ma ci proverò.

AUTARCA: Non sai?

PROFETA: Io so. Ma so che tu sei un uomo pratico e che ti interessi solo delle questioni materiali, mentre difficilmente innalzi gli occhi oltre le stelle.

AUTARCA: Sono trent'anni che mi vanto di questo.

PROFETA: Comunque sono sicuro che sei al corrente del cancro che rode il vecchio sole. La materia nel suo centro si sta ripiegando in se stessa, come se si trovasse in un abisso senza fondo.

AUTARCA: I miei astronomi mi hanno informato molto tempo fa.

PROFETA: Pensa a una mela malata fin dal germoglio. Esternamente appare bella fino a quando si disfa nella putredine.

AUTARCA: Ogni persona che si rende conto di essere ancora forte nella seconda metà della sua vita ha pensato a un simile frutto.

PROFETA: Questo riguarda il vecchio sole. E il suo cancro? Cosa ne sappiamo noi se non che priva Urth del calore e della luce e dell'ultimo sprazzo di vita?

Rumori di lotta fuori scena. Un urlo di dolore e uno schianto, come se un grosso vaso fosse caduto dal piedestallo.

AUTARCA: Ben presto sapremo che cosa ha provocato tutto questo chiasso, profeta. Vai avanti.

PROFETA: Noi però sappiamo che si tratta di un fenomeno molto più esteso, perché ha provocato una discontinuità nel nostro universo, una frattura nella sua trama, spinto da una legge a noi ignota. Non esce niente... tutto entra in esso e vi rimane per sempre. Eppure, potrebbe generare qualsiasi cosa, dato che fra tutti i fenomeni che abbiamo conosciuto è l'unico che non sia schiavo della propria natura.

Sopraggiunge NOD, sanguinante, pungolato da picche che sono guidate da dietro la scena.

AUTARCA: Che mostro è questo?

PROFETA: È la prova vivente dei prodigi che stanno accadendo. Un domani, come è già stato annunciato, la morte del vecchio sole provocherà la fine anche di Urth. Ma dalla sua tomba nasceranno dei mostri, un popolo nuovo, e il Nuovo Sole. Allora la vecchia Urth sarà come una farfalla che fuoriesce dalla crisalide secca e prenderà il nome di Ushas.

AUTARCA: E tutto quello che conosciamo sarà distrutto? Anche questa antica casa nella quale ci troviamo? Tu? Io?

 

NOD: Io non possiedo sapienza. Ma ho ascoltato un saggio, che fra breve diventerà mio parente per mezzo di un matrimonio, mentre diceva che tutto andrà per il meglio. Secondo lui noi non siamo altro che sogni e i sogni non hanno una vita propria. Guarda, io sono ferito. (Allunga la mano.) Quando sarà guarita, la ferita svanirà. Forse dovrebbe dire che le dispiace guarire? Sto solo tentando di spiegarvi il pensiero di un altro, ma credo che volesse dire proprio questo.

Fuori scena, profondi rintocchi di campane.

AUTARCA: Di che cosa si tratta? Tu, profeta, vai a vedere chi è l'artefice di tanto frastuono e per quale motivo lo ha fatto. (Il PROFETA esce.)

NOD: Sono certo che le tue campane stanno dando il benvenuto al Nuovo Sole. Anch'io sono venuto con lo stesso scopo. È nostra abitudine, all'arrivo di un ospite di riguardo, urlare e batterci il petto e colpire il terreno con tronchi d'albero, lietamente, e sollevare i massi più grandi per lanciarli nel burrone in segno di omaggio. Io lo farò questa mattina, se mi permetterai di andare, e sono certo che anche Urth si unirà a me. Le stesse montagne si getteranno nel mare quando all'alba sorgerà il Nuovo Sole.

AUTARCA: E tu, da dove vieni? Dimmelo e io ti restituirò la libertà.

NOD: Vengo dalla mia terra, a est del Paradiso.

AUTARCA: E dove si trova?

NOD mostra l'est.

AUTARCA: E dove si trova il Paradiso? Nella stessa direzione?

NOD: Il Paradiso è qui... noi siamo in Paradiso, o per lo meno, siamo sotto di esso.

Arriva il GENERALISSIMO, che avanza a passo di marcia fino al trono e saluta.

GENERALISSIMO: Autarca, come mi hai ordinato, abbiamo cercato in tutto il territorio sovrastante la Casa Assoluta. La Contessa Catarina è stata trovata e, dal momento che le sue ferite non sono gravi, è stata condotta nei suoi appartamenti. Abbiamo trovato anche il colosso che vedi davanti a te, la donna ricoperta di gioielli che ci avevi descritto e due mercanti.

AUTARCA: E gli altri due? L'uomo nudo e la moglie?

GENERALISSIMO: Non c'è traccia di loro.

AUTARCA: Continuate le ricerche e fate più attenzione.

GENERALISSIMO: (Saluta.) Come desideri, Autarca.

AUTARCA: E mandami la donna ingioiellata.

NOD fa per uscire di scena ma viene bloccato dalle picche. Il GENERALISSIMO estrae la pistola.

NOD: Non posso andarmene?

GENERALISSIMO: Assolutamente no!

NOD: (All'Autarca.) Ti ho spiegato dove si trova la mia terra. A est.

GENERALISSIMO: C'è ben altro che la tua terra, là. Conosco bene quella zona.

AUTARCA: Sono convinto che colui che sei venuto a ricevere arriverà, che tu sia libero o meno. Ma c'è una possibilità... e comunque le persone come te è meglio che non abbiano il permesso di aggirarsi dove vogliono. No, non sei libero e non lo sarai mai più.

NOD esce a precipizio dalla scena, inseguito dal GENERALISSIMO. Spari, grida e tonfi. Le sagome che circondano l'AUTARCA scompaiono. Nel frastuono si distinguono nuovamente le campane. NOD rientra con una guancia ustionata da un laser. L'AUTARCA lo colpisce con lo scettro. Ogni colpo provoca un'esplosione e una pioggia di scintille. NOD afferra l'AUTARCA e sta per farlo cadere a terra ma sopraggiungono due DEMONI travestiti da mercanti che lo scaraventano al suolo e rimettono l'AUTARCA sul trono.

AUTARCA: Vi ringrazio. Sarete generosamente ricompensati, Avevo perso la speranza di essere salvato dalle mie guardie e vedo che non mi sbagliavo. Posso domandarvi chi siete?

PRIMO DEMONE: Le tue guardie sono morte. Il gigante gli ha spaccato la testa contro le pareti e la spina dorsale sulle sue ginocchi a.

SECONDO DEMONE: Siamo due semplici mercanti. Eravamo stati presi dai tuoi soldati.

AUTARCA: Vorrei che voi foste i soldati e loro i mercanti! Eppure, apparite tanto delicati che non vi attribuirei nemmeno una forza normale.

PRIMO DEMONE: (Facendo un inchino.) La nostra forza deriva dal padrone che serviamo.

 

SECONDO DEMONE: Ti domanderai per quale motivo noi, due semplici mercanti di schiavi, vagavamo di notte nei tuoi giardini. A dire il vero, siamo venuti per darti un avvertimento. Di recente i nostri viaggi ci hanno condotti nelle foreste del settentrione e là, in un tempio più antico dell'uomo, un santuario ricoperto di vegetazione tanto da sembrare un tumulo frondoso, abbiamo parlato con un vecchio che ci ha profetizzato un grande pericolo per il tuo regno.

PRIMO DEMONE: E dopo aver saputo questo, siamo corsi qui ad avvisarti prima che fosse troppo tardi, e siamo giunti appena in tempo.

AUTARCA: Cosa devo fare?

SECONDO DEMONE: Questo mondo tanto caro a te e a noi ha girato tante volte intorno al sole che ormai la trama e l'ordito dello spazio si sono logorati e cadono come polvere e fili dal telaio del tempo.

PRIMO DEMONE: Gli stessi continenti sono vecchi come donne rugose, ormai da tempo privi della bellezza e della fecondità. Sta per arrivare il Nuovo Sole...

 

AUTARCA: Lo so!

PRIMO DEMONE: ... E li farà colare a picco nel mare come navi che affondano.

SECONDO DEMONE: E dal mare nasceranno nuovi continenti... luccicanti d'oro, argento, ferro e rame, ricchi di diamanti, rubini e turchesi; nasceranno terre coperte dall'humus di un milione di millenni e da lungo trascinato in mare.

PRIMO DEMONE: Per popolare queste terre si sta preparando una nuova razza. L'umanità che noi conosciamo sarà messa da parte come l'erba, dopo che a lungo ha prosperato sulla pianura, cede all'aratro e lascia il posto al grano.

SECONDO DEMONE: Ma cosa accadrebbe se il seme bruciasse? Cosa accadrebbe? L'uomo alto e la donna magra che hai visto poco fa sono il seme. Un tempo si desiderava che venisse avvelenato nel campo, ma l'incaricata ha perso di vista il seme in mezzo all'erba alta e alle zolle smosse, e grazie a qualche trucco è stata consegnata al tuo inquisitore perché la interrogasse. Comunque il seme potrebbe ancora essere bruciato.

AUTARCA: La tua proposta non mi giunge nuova: ci avevo già pensato anch'io.

PRIMO e SECONDO DEMONE: (In coro.) È naturale!

AUTARCA: Ma la morte di quei due fermerebbe davvero l'arrivo del Nuovo Sole?

PRIMO DEMONE: Tu lo desideri seriamente? Le nuove terre saranno tue.

Gli schermi si illuminano. Compaiono colline coperte di boschi e città ricche di guglie. L'AUTARCA si gira a fissarle. Un breve silenzio. Poi estrae dalle vesti un comunicatore.

AUTARCA: Che il Nuovo Sole non sappia mai quello che stiamo facendo qui... Navi! Copriteci di fiamme fino a quando tutto sarà bruciato!

I due DEMONI svaniscono e NOD si solleva a sedere. Città e colline si dileguano e gli schermi riflettono l'immagine dell'AUTARCA moltiplicata innumerevoli volte. Buio.

Al ritorno delle luci, l'INQUISITORE è seduto a una scrivania posta nel centro della scena. Il suo FAMILIARE, vestito da torturatore e con il volto coperto da una maschera, sta in piedi vicino alla scrivania. Ai lati vari strumenti di tortura.

INQUISITORE: Porta qui la donna che definiscono strega, fratello.

FAMILIARE: La Contessa sta aspettando qui fuori, è di sangue nobile ed è la favorita del nostro sovrano. Ti imploro, ricevila per prima.

Arriva la CONTESSA.

CONTESSA: Ho ascoltato le vostre parole, e non potendo credere che saresti stato sordo al mio appello, inquisitore, mi sono fatta coraggio e sono entrata. Mi ritieni sfacciata per questo?

INQUISITORE: Stai giocando con le parole. Ma lo ammetto, sì.

CONTESSA: Allora sbagli. Io vivo nella Casa Assoluta da otto anni, da quando ero una fanciulla. La prima volta che dai miei lombi passò il sangue, mia madre mi portò qui e mi ammonì di non avvicinarmi mai al tuo alloggio, perché in esso è sgorgato il sangue di molti senza rispettare le fasi della mutevole luna. Non ci sono mai venuta prima d'ora e sono entrata tremando.

INQUISITORE: I buoni non hanno motivo di aver paura. Comunque, anche in tal caso credo che tu sia stata coraggiosa, come tu stessa hai detto.