Capitolo 8
Psicoterapia della solitudine patologica

Uno sguardo d’insieme

Non esiste psicoterapia che non si occupi della sofferta solitudine. Potremmo addirittura dire che si tratta del disagio psicologico che ha dato avvio alla storia di questo tipo di cura; il primo trattato che ne parla, redatto dal sofista Antifonte, si intitola Arte della consolazione. Ben duemilacinquecento anni dopo, le ricerche sull’efficacia dei trattamenti psicoterapeutici sottolineano l’importanza per il buon esito della terapia della «relazione terapeutica», intesa come profondo e intimo contatto connotato da empatia e da compassione. Inoltre, tutte le numerose e diverse forme di psicoterapia si basano su di un «setting» che faciliti il «contatto» tra medico della mente e paziente. È fondamentale che il paziente, quale che sia il disturbo di cui soffre, trovi nel suo psicoterapeuta qualcuno che non lo lascia solo nella battaglia contro la sofferenza, anzi, come mostrano molti studi (Hubble Duncan Milher 1999; Assay, Lambert, 1999; Luborsky, 1975), spesso è sufficiente che si senta accolto e compreso perché si inneschi il cambiamento terapeutico. La relazione esclusiva tra terapeuta e paziente ha come primo effetto proprio il fatto che il secondo sente di potersi fidare, affidare e di poter contare sull’aiuto del primo. Pertanto potremmo affermare che la terapia psicologica, non importa quale sia il suo orientamento, inizia comunque con il far superare al paziente la sensazione di «sentirsi solo».

Uno sguardo analitico

Se è vero che tutte le forme di psicoterapia partono dalla sofferta solitudine del paziente nel non riuscire a superare sofferenze e disagi, è altrettanto vero che lo fanno in modi diversi e talvolta metodologicamente agli antipodi. Si pensi ad esempio a come, all’inizio del secolo scorso, le due prospettive psicoterapeutiche dominanti, quella psicoanalitica e quella behaviorista, già proponevano metodi che apparivano opposti tra loro: da una parte l’analizzando veniva curato nel segreto di una relazione molto prossima a quella di un confessionale, dall’altra veniva trattato come un topolino da laboratorio sottoposto a stimoli condizionanti che ne correggessero gli apprendimenti dominanti. Jung, contravvenendo ai dettami freudiani, trasformò il freddo contatto tra paziente e psicoanalista, posto alle sue spalle, mettendoli l’uno di fronte all’altro e aprendo così la relazione terapeutica a un maggiore scambio emotivo, grazie anche al linguaggio non verbale. È con Rogers (1951) che il focus della cura diviene il contatto empatico tra terapeuta e paziente, mentre con Erickson (1985) la relazione terapeutica diviene suggestiva e ipnotica. Impossibile non citare Wilhelm Reich (1942), la cui proposta terapeutica si basava sul contatto corporeo e il risveglio del piacere, mentre nello stesso periodo Binswanger (1973) esprimeva la sua visione esistenzialista della cura psicologica basata sull’«essere con», ovvero il vivere appieno la sofferenza del paziente facendogli percepire vicinanza e comunanza di destino.

Nella seconda metà dello scorso secolo tutti questi approcci psicoterapeutici si sono evoluti e altre prospettive si sono aggiunte, come quella sistemica e quella cognitiva, ma la più importante tra le innovazioni è stato il maggior rigore con cui si sono riconsiderati i risultati delle terapie, che si sono scoperti essere non troppo entusiasmanti. Eysenck (1952) valutò l’esito positivo delle cure al di sotto del 50% dei casi, la Menniger Foundation (1988) mostrò come dopo una media di 832 sedute di psicoanalisi gli esiti non erano migliori, Strupp (1979) verificò che in oltre il 40% dei casi i trattamenti psicologici inducevano peggioramenti invece che miglioramenti nello stato dei pazienti. Il risultato fu da un lato una marcata diffidenza da parte della medicina nei confronti delle cure psicologiche, ancora non del tutto estinta malgrado le cose siano notevolmente cambiate; dall’altro, nell’ambito psicologico e psichiatrico si iniziò a studiare e sperimentare molto di più la «tecnica» della psicoterapia, privilegiando l’attenzione ai risultati rispetto al fascino delle teorie. Grazie a ciò ad oggi i risultati sono ben diversi: la maggioranza delle psicoterapie garantisce esiti positivi in oltre il 60% (Conte, Dazzi, 1988) dei casi, alcune offrono risultati superiori, poche sono quelle che si avvicinano al 90% (Nardone, Watzlawick, 2005; Wilson, 1986; Nardone, Salvini, 2013). In particolare, ciò che ha dimostrato di fare la differenza è stato lo studio e la messa a punto di tecniche specifiche per le differenti forme di psicopatologie (Nardone, Milanese, 2019; Castelnuovo et al., 2013). Ovvero, non più approcci terapeutici proposti come panacea universale bensì tecniche differenziate per le differenti forme di sofferenza psichica e comportamentale.

Tutto questo vale, ovviamente, anche per quanto riguarda la solitudine patologica in tutte le sue forme dirette e indirette analizzate in precedenza. In altri termini, ad oggi non è solo obsoleto ma controproducente pensare che per superare disturbi invalidanti, nei quali il «sentirsi soli» svolge sempre un ruolo cruciale, ci si possa accontentare di una relazione di empatica compassione tra terapeuta e paziente o di indicazioni di «buon senso» che potrebbe darci anche il nostro parrucchiere. Mai dimenticare “il Figaro”. Nelle pagine che seguono passiamo in rapida rassegna le tecniche più idonee per affrontare con elevata probabilità di successo le forme di sofferenza di cui abbiamo trattato, tenendo a mente l’ammonimento di Georg Lichtenberg: «L’unica prova di una teoria è la sua applicazione».

Per motivi di spazio e contesto dell’esposizione non si può in questa sede esporre il trattamento completo, in tutte le sue fasi e differenti tecniche terapeutiche, di ognuna delle patologie citate, e per questo rimandiamo alle trattazioni specifiche (Nardone, Watzlawick, 1990; 2005; Watzlawick, Nardone, 1997; Nardone, Portelli, 2005; Nardone, Balbi, 2008; Nardone, 2009). In questa sede esporremo le particolari forme di intervento validate, sia dall’esperienza clinica che dalla ricerca, per far sì che la persona esca dalla prigione della solitudine patologica.

Quando la solitudine effettiva è parte integrante del disturbo

Come abbiamo visto, la depressione è la prima patologia che entra in gioco quando si tratta di ritiro sociale e solitudine patologica. Nell’intervenire terapeuticamente su questa componente del disturbo sono state messe a punto una serie di tecniche specifiche per le differenti manifestazioni della sintomatologia depressiva.

Quando questa è all’interno di una dinamica famigliare, si chiede ai famigliari di smettere di stare al capezzale del depresso poiché il loro aiuto si trasforma rapidamente in «vantaggio secondario» della patologia: il depresso cioè riceve attenzioni proprio grazie al disturbo, e questo è chiaramente dannoso. Tuttavia, si prescrive di assegnare uno spazio quotidiano di mezz’ora in cui tutta la famiglia si riunirà per ascoltare in silenzio e attentamente tutte le sue lamentele, senza dare nessun altro spazio di disponibilità nella giornata. Nella maggioranza dei casi il soggetto accetta il compito del «pulpito delle lamentazioni», ma continua a cercare il contatto interpersonale anche al di fuori di tale spazio. Siccome però se continua a lamentarsi del proprio malessere non trova ascolto, cerca di ottenerlo parlando d’altro e attivandosi a livello di comportamenti: in altri termini, mette in atto una risposta terapeutica paradossale allo stratagemma applicato tirandosi fuori dal suo isolamento depressivo.

Nel caso in cui, invece, il paziente è solo, gli si prescrive da una parte di calarsi ogni giorno volontariamente e in una precisa finestra temporale in tutte le sue peggiori sensazioni di disperata solitudine, e dall’altra si attiva una sorta di percorso per fasi nella direzione della costruzione di contatti e relazioni con il mondo esterno. Anche in questo caso si utilizzano particolari stratagemmi: il primo di solito è chiedere, al soggetto di impegnarsi «semplicemente», quando esce di casa, a incrociare lo sguardo con chiunque incontri e, se si crea il contatto visivo, a sorridere in modo accogliente. Mentre il primo compito dà uno spazio ove concentrare la sofferenza, il secondo è un cambiamento apparentemente minimo di apertura verso gli altri che, di solito, provoca compiacimento. Da un lato si crea un contenitore per la sofferenza in modo che non debordi continuamente, dall’altro la semplice disposizione di apertura agli altri crea una dinamica di reciproca accoglienza, anche solo non verbale, che risveglia l’emozione del sentirsi non rifiutato bensì considerato e quindi non più così «disperatamente solo». Questo è, ovviamente, solo l’innesco di un processo graduale di costruzione di una nuova forma di relazione con gli altri, in grado di sovvertire e poi rompere le catene dell’isolamento, un piccolo cambiamento che innesca una reazione a catena di grandi cambiamenti, la palla di neve che rotolando si ingigantisce fino a trasformarsi in inarrestabile valanga. Proprio per la sua caratteristica di «dirompente semplicità», questa tecnica terapeutica può essere applicata con successo in ogni caso di isolamento sociale, indipendentemente dalle sue ragioni, poiché inverte rapidamente gli atteggiamenti e i comportamenti del soggetto che si trova per scelta sua o della sorte nella condizione di patologico ritiro sociale. Per questo la adotto nella terapia della maggior parte dei disturbi di solitudine patologica effettiva, magari non come prima manovra terapeutica ma come passo successivo nelle strategie specifiche appropriate al disturbo.

Nel disturbo maniaco persecutorio, siccome siamo di fronte a un rifugiarsi difensivo rispetto alla presunta aggressione o rifiuto da parte degli altri, l’intervento terapeutico prevede immediatamente la focalizzazione su questa dinamica e su come smontare tale patologica convinzione. La prolungata sperimentazione ha prodotto uno specifico stratagemma terapeutico (Nardone, Balbi, 2008) che si è dimostrato particolarmente efficace ed efficiente in tale direzione. Al soggetto viene prescritto di «studiare i suoi nemici» per poterli combattere e vincere, prospettiva che viene immediatamente accolta da queste persone perché si sintonizza al loro sentire. Per farlo, però, ogni giorno devono uscire di casa, recandosi dove ci sono i «nemici» da studiare, e cercare di cogliere con precisione i chiari segnali non verbali o verbali o gli atteggiamenti che confermano la loro ostilità, il loro rifiuto o la probabile aggressione nei suoi confronti. Questa tecnica, chiamata «ricerca della conferma contraddittoria», fa scoprire al soggetto non solo che gli altri non ce l’hanno affatto con lui, bensì che nella maggioranza dei casi sono ben disposti nei suoi confronti. Vediamo qui in atto il raffinato stratagemma che fa sì che gli altri, sentendosi osservati, percepiscano di essere importanti e non di essere sottoposti a valutazione paranoica, e per questo reagiscono con atteggiamenti di accoglienza. Chi soffre di manie persecutorie deve ammettere quindi di avere fatto, giorno dopo giorno, una scoperta incontestabile, che induce un cambiamento emozionale correttivo sulla base del quale si potrà aggiungere la prescrizione del contatto visivo e del sorriso descritta nel paragrafo precedente e trasformare così completamente il sentirsi rifiutato in sentirsi desiderato. L’isolamento difensivo viene così destrutturato, poiché il piacere del contatto e del sentirsi non solo accettato ma anche apprezzato prende il sopravvento.

Nel caso di una fobia sociale, sorella minore del precedente disturbo persecutorio, il primo espediente terapeutico è quello della ricerca del contatto visivo e del sorriso interattivo precedentemente descritto, seguito o anticipato, nei casi più resistenti al cambiamento, dalla prescrizione della ricerca quotidiana di un piccolo rifiuto. Questo stratagemma, ripreso dal lavoro di Cloé Madanes (1981) ma rivisitato nella sua forma (Nardone, Watzlawick, 2005), si esprime nel prescrivere al soggetto che soffre di fobia sociale qualcosa di apparentemente molto logico: se vuoi emanciparti dalla tua fobia devi comportarti come se dovessi immunizzarti da un veleno, assumendone una piccola dose al giorno fino ad assuefarti e cessare di soffrirne. Ciò si traduce nella prescrizione quotidiana di cose come chiedere l’ora a una persona senza orologio o a un commesso un articolo che non può avere nel suo negozio, rifiuti piccoli, «assorbibili» perché deliberatamente indotti e relativi a situazioni irrilevanti, ma in cui la persona, cercando un piccolo rifiuto, incontra accoglienza e spesso indicazioni su come trovare ciò che cerca. Il più delle volte, infatti, chiedendo cose che non possono ottenere, i pazienti ottengono risposte gentili e talvolta sorprendentemente risolutive; il «no» ricercato si trasforma in cortese «sì» ricevuto, oppure colui che non può soddisfare la richiesta suggerisce qualcuno che può farlo. Insomma, la ricerca del piccolo rifiuto fa scoprire accettazione, considerazione e gentilezza, esattamente gli antidoti relazionali per chi è convinto che sarà comunque, prima o dopo, rifiutato. È evidente che da prima esperienza emozionale correttiva questa si converte poi in un percorso di sempre maggiori competenze comunicative e relazionali che finiscono per estinguere totalmente la fobia sociale e la sofferta solitudine.

Quando si ha a che fare con un disturbo ossessivo-compulsivo che induce all’isolamento all’interno di tutti i sistemi di difesa (Nardone, Portelli 2013) dalla tanto temuta quanto subita fobia, nessuna manovra terapeutica inerente al contatto con gli altri potrà essere attuata senza prima aver infranto la rigidità del disturbo stesso. In questi casi infatti l’isolamento è la difesa primaria da fobie come, ad esempio, quella del contagio o dell’entrare in contatto con lo sporco, oppure il correlato del disagio di svolgere solitari rituali propiziatori o di essere costretti a mettere in atto rituali riparatori per qualcosa che è accaduto. Qui si tratta si sbloccare prima i meccanismi del disturbo specifico, per poi occuparsi del recupero o della conquista di una relazione soddisfacente con gli altri e il mondo. Nella prolungata esperienza con questo tipo di disturbo, una delle best practices del mio lavoro (Nardone, 1993; 2003; Nardone, Portelli, 2005; 2013) applicata nell’arco di oltre trentacinque anni a migliaia di casi di persona e altrettanti o forse più nelle supervisioni ai miei allievi ovunque nel mondo, ho potuto rilevare che una volta estinta la patologia invalidante i problemi di isolamento e di relazione con gli altri tendono a risolversi spontaneamente.

Questo vale anche per il ritiro sociale tipico di chi soffre di incapacità sessuali, un astenersi che protegge dal rischio, vissuto come certezza, del fallimento della prestazione erotica con la conseguente caduta depressiva. In questi casi tuttavia, prima di applicare le strategie terapeutiche atte a risolvere il problema sessuale (Nardone, Rampin, 2015; Nardone, Balbi, Boggiani, 2020) spesso si deve lavorare sugli aspetti depressivi che tale incapacità tende a far sviluppare. Si rende pertanto necessaria, in taluni casi, una delle tipologie di intervento sull’isolamento e sulla rinuncia all’esporsi al rischio del fallimento tra quelle finora menzionate, altrimenti il soggetto non avrà la capacità di creare il contatto relazionale di intimità necessario per sperimentare concretamente la risoluzione del suo problema.

Nei confronti dell’anoressia, invece, si torna a un fenomeno clinico in cui il ritiro sociale fino al completamento isolamento è un fattore cruciale del disturbo, poiché solo isolandosi il soggetto riesce a concentrarsi nella sua strenua lotta contro il piacere del cibo e non solo, e a sviluppare livelli di astinenza così estremi da superare quelli dei mistici. Anche in questo caso la rottura degli schemi patologici che sostengono il disturbo deve avvenire prima del trattamento del problema dell’isolamento; per fare ciò è necessario costruire un’intensa, suggestiva ed emozionalmente carica relazione terapeutica con la paziente, e che questa sia la ragazzina o la «stagionata» anoressica cronicizzata non fa differenza. Solo attraverso una sorta di «seduzione terapeutica», ovvero usando tecniche suggestive che inneschino un risveglio sensoriale, in particolare del senso del gusto, si riesce a far sì che chi rifiuta il cibo riesca a concederselo gustandolo (Nardone, Verbitz, Milanese, 1999; Nardone, Valteroni, 2017). Dopodiché si può guidare direttamente la persona a ricostruire o costruire per la prima volta le sue competenze relazionali perdute o cancellate dalla malattia. In questo la paziente viene «addestrata» al gioco degli sguardi e dei sorrisi, con la sua valenza di fascinazione e seduzione. Il piacere della relazione con l’altro e l’esposizione alla temuta perdita di controllo dei sensi rappresenta infatti nell’anoressica una delle chiavi essenziali per risolvere il disturbo. L’anoressia richiede, per essere perseverata oltre che costituita, l’isolamento e l’astinenza; mettere in atto il contrario rappresenta sia la terapia che la prevenzione di ricadute.

Infine, nel disturbo di personalità paranoica, di solito è ben difficile intervenire con suggerimenti, indicazioni o prescrizioni terapeutiche dirette, poiché queste persone, fortemente diffidenti, non le seguono; l’accesso terapeutico è solo quello del dialogo e delle suggestioni indirette (Nardone, 2020). Questi sono i casi in cui l’arte della terapia prende completamente il sopravvento sulla scienza dei trattamenti: per ogni singolo paziente si deve trovare una specifica modalità relazionale e uno stile comunicativo, in modo da evitare boicottaggi o addirittura rifiuti alla terapia. Questo non significa che non ci siano tecniche apposite, ma che ognuna di queste va adattata, come un vestito su misura, alla originalità del caso. È provato che con questi soggetti il terapeuta deve essere carismatico ma non direttivo; il suo linguaggio deve essere carico di evocazioni suggestive ma indirette, deve evitare il ricorso a metafore a cui ogni paziente darebbe un suo senso personale, sempre negativo; i cambiamenti del suo agire devono emergere come cose che lui scopre come utili durante il colloquio e mai come ingiunzioni. Il vantaggio di questi casi dal punto di vista terapeutico è rappresentato dal fatto che queste persone sono tanto rigide nelle loro posizioni quanto bisognose di una via d’uscita dalle loro micidiali trappole mentali, e che basta creare una piccola incrinatura nella loro armatura difensiva perché diventi una crepa, su cui basta un’ulteriore pressione perché l’armatura si rompa del tutto. Allora è necessario instillare dubbi, parafrasare le loro argomentazioni introducendo, senza mai contraddirli, altre prospettive, citare aforismi e massime di noti autori per far sì che siano loro a dare suggerimenti al nostro posto, tutte strategie indirette di dialogo terapeutico. Si potrà pensare a dare dirette indicazioni solo nelle fasi della terapia successive alla rottura della rigidità di percezione paranoica che è il tratto dominante di questa psicopatologia maggiore. Ciò che spesso sorprende è che, quando riescono a farsi aiutare ed escono dal disturbo, queste persone risultano essere tra le più gentili, dolci e attente ai bisogni altrui, esattamente il contrario di come apparivano dentro l’armatura difensiva che li aveva costretti alla prigionia della più sofferta solitudine. Quella di chi per paura, per rabbia o per dolore non riesce a esprimere le sue qualità.

Quando si è soli con gli altri

Come appare evidente, questa classe di solitudine patologica richiede, per il suo superamento, interventi completamente differenti da quelli necessari per la classe precedente, poiché non siamo di fronte a persone che vivono una forma di isolamento o ritiro sociale, ma è proprio il malfunzionamento delle relazioni interpersonali, il loro eccesso o i loro effetti paradossali a essere oggetto della terapia. Il più attuale tra questi è certamente la sindrome dell’essere continuamente connessi a internet e ai social e la continua verifica del proprio grado di «desiderabilità virtuale». Questa pandemica compulsione alla iperconnessione funziona poi come una sorta di condizionamento pavloviano rinforzato dalla gratificazione provata ogni volta. La compulsività reiterata tende a costruire una vera e propria dipendenza, molto simile negli effetti a quella da droghe ma molto più subdola, perché prodotto di una realtà che, come ci teniamo di nuovo a sottolineare, può creare altrettanto bene quanto provocare tanto male.

Il trattamento terapeutico di questo disturbo nella sua prima fase è rappresentato non dall’astinenza obbligata ma, al contrario, dalla prescrizione del controllo. Come nel caso, sperimentato con successo terapeutico, dei disturbi ossessivo-compulsivi di altra natura (Nardone, Portelli, 2013), si rende ritualizzato in tempi prefissati l’obbligo del controllo delle connessioni. Per esempio a ogni ora del giorno, alle 8, 9, 10 e così via, per cinque minuti si deve attivare la compulsione per poi rimandarla all’ora successiva. In questo modo si «ruba il potere» all’ossessione, che da compulsiva diviene volontaria, e questo permette poi di dilatare i tempi tra un controllo e l’altro, riportando il controllo a tempi e modi ragionevoli e non più compulsivi. Nel frattempo il soggetto viene guidato a passare dal virtuale al reale e ad amplificare i contatti interpersonali in carne e ossa, e aiutato anche a superare i suoi limiti personali. Nel caso in cui ci si trovi di fronte a una dipendenza già strutturata, prima di tutto ciò sarà necessaria una fase di astinenza totale; talvolta la dipendenza può prendere forme talmente severe, come fantasie deliranti o iperattività mentale irrefrenabile, da richiedere anche un iniziale trattamento farmacologico ed eventuali ricoveri.

Nell’ambito di più evidenti problematiche relazionali, la ipersocialità e il bisogno di non essere mai soli, con il suo effetto simile a una trappola per mosche – un tunnel nel quale entrano e non riescono più a uscire – richiede un intervento terapeutico non tanto basato su prescrizioni dirette, bensì sul rovesciamento totale della percezione che rende indispensabile all’individuo la costante presenza degli altri. Allo scopo si utilizzano «ristrutturazioni terapeutiche» orientate a evocare la paura della «prostituzione relazionale» (Nardone et al. 2001; Nardone 2020) come condizione che conduce a essere più disperatamente soli con sé stessi, e a far «sentire» prima e comprendere poi che chi vuol piacere a tanti finisce per non piacere ad alcuno. La terapia consiste quindi nel creare un’avversione viscerale nei confronti di quella modalità relazionale che appariva indispensabile per essere amati, desiderati, considerati e per questo non «sfigati». Il paziente proverà prima con i sensi e poi nelle cognizioni che il vero sfigato è colui che ha sempre e comunque bisogno della presenza e conferma da parte degli altri e che si costruisce un successo relazionale solo apparente. Dopo aver smantellato a livello emozionale il copione relazionale disadattivo, si guida il soggetto ad acquisire competenze personali e interpersonali e a scoprire che per essere davvero ricercati e desiderati ci si deve mettere in gioco in prima persona, ricevendo e dando rifiuti, e gestire i contrasti talvolta fino al conflitto. Altrimenti il destino è di ridursi a indesiderabili «cavalier serventi» o, peggio, «cari amici» nel senso più superficiale e ipocrita.

Il grado estremo del bisogno di essere ritenuti importanti è rappresentato dal disturbo di personalità istrionico-narcisistico, per il quale, essendo questo un quadro clinico maggiore, il trattamento terapeutico necessita, oltre che di tecniche specifiche, di notevole carisma da parte del terapeuta. Si deve infatti smontare, elegantemente ma fermamente, ogni delirio narcisistico e far sentire al contempo l’accoglienza per la fragilità che vi sta dietro, lasciando intravedere una realtà migliore oltre il disturbo. Pertanto, come in tutti i disturbi borderline di personalità, la fermezza nel contrastare l’istrionismo è compensata dall’accoglienza protettiva nei confronti della fragilità del soggetto, al quale si propongono prospettive alternative, ma sempre senza mandarlo allo sbaraglio né fargli sentire che il sostegno del terapeuta verrà meno. In questi casi l’esperto psicoterapeuta (Petrini et al., 2012; Nardone, et al., 2017) sa che deve assumere e mantenere la posizione di punto di riferimento a cui il paziente può costantemente ricorrere. Questo fa sì che egli possa avventurarsi nell’esprimere sé stesso e le proprie qualità senza proteggersi dietro maschere mirabolanti dietro le quali rimane imprigionato. Molto spesso associata al disturbo istrionico è l’isteria che, non a caso, con questo disturbo viene confusa; tuttavia, basandosi sulla ricerca fallimentare di soddisfazioni e piacere in senso fisiologico, se ne distingue e richiede un trattamento terapeutico ben diverso. Nel caso dell’isteria, infatti, ciò che conta è mettere la persona di fronte al suo paradossale inseguimento di un piacere che non viene mai raggiunto e che la fa cadere in un abisso di insoddisfazione, tristezza e rabbia vissute in solitudine. Ancora una volta, il risultato non si ottiene attraverso prescrizioni, bensì con un confronto serrato nel dialogo terapeutico che talvolta, in questi casi, deve essere provocatorio e diretto a smantellare gli atteggiamenti di mascheramento e di apparente padronanza delle situazioni che queste persone esibiscono. L’obiettivo è bloccare la loro spasmodica mania di realizzare ciò che a loro manca, facendogli scoprire la verità del detto «meno lo bramo e lo bracco, più può giungere spontaneamente a me». Meno mi esibisco più brillo, meno chiedo più ottengo, più do attenzione all’altro, più attenzione ottengo su di me. Meno mi agito e mi attivo per ottenere il piacere e più mi lascio andare, abbandonando il controllo volontario, più ho la probabilità che il piacere si realizzi grazie a ciò che permetto all’altro di fare con me.

Altro discorso vale per i disordini alimentari in cui l’alta socialità è associata a seduttività e il piacere estremo, realizzato nel rapporto con «l’amante segreto» cibo, è gestito a mo’ di vera e propria perversione e conduce al volontario, compiaciuto isolamento. In questi casi, come è emerso con chiarezza dal prolungato lavoro di ricerca-intervento clinica (Nardone, Verbitz, Milanese, 1999; Nardone, Watzlawick, 2005; Nardone, Valteroni, 2017), se prima non si riesce a sbloccare il circolo vizioso del disturbo è impossibile lavorare sul suo effetto secondario, l’incapacità di stringere rapporti affettivi completi, sinceri e autentici. Tuttavia, sono state messe a punto strategie e stratagemmi terapeutici ad hoc per queste patologie anche nelle loro espressioni più severe, ed è proprio in virtù delle prerogative di intelligenza sociale elevata, seduttività e sensualità associate spesso anche a un aspetto particolarmente attraente, che una volta risolto il disturbo alimentare non è difficile compiere anche il passo successivo.

Nell’ipocondria l’intervento terapeutico non può non concentrarsi fin da subito su quella che è la tentata soluzione che nel soggetto alimenta più di ogni altra il disturbo e che, sul piano della sofferta solitudine, costruisce un fenomeno davvero antinomico: ottenendo una cosa produce il suo contrario. Richiedendo costantemente rassicurazione sul fatto di non essere malato, l’ipocondriaco crea una realtà nella quale tutti lo rassicurano ma nessuno lo salva. Lo schema relazionale gli fa sentire l’affetto e la disponibilità altrui ma non solo non elimina la disperata preoccupazione, bensì la alimenta, poiché «se tutti mi ascoltano e cercano di rassicurarmi c’è sicuramente qualcosa che non va», e siccome l’attenzione affettuosa e protettiva e le rassicurazioni sono inefficaci, il soggetto si sente ancora più disperatamente solo nella lotta contro le sue fissazioni fobiche. Per interrompere il circolo vizioso è indispensabile creare nel soggetto la «paura più grande che inibisca quella presente»: si deve cioè creare in modo ridondante e suggestivo l’effetto della richiesta di rassicurazione, facendo emergere come questa, invece di ridurla, incrementa la fobia (Bartoletti, Nardone, 2019). L’obiettivo è creare una reazione emozionale di avversione verso ciò che finora è risultato protettivo, facendone emergere e sentire la pericolosità. Grazie a ciò si riesce, di solito, a rompere il rigido schema anche nei casi più resistenti. Rispetto al sentirsi soli di fronte alla prevista morte per severa quanto sofferta malattia, questo cambiamento di atteggiamento e comportamento fa sì che il soggetto percepisca il sincero affetto e interessamento dei suoi cari, prima ostaggio delle sue ricattatorie richieste di rassicurazione, ristabilendo così un’adeguata dinamica affettiva che finalmente elimina la disperata solitudine.

Quando si è incapaci di stare soli

La terza classe di psicopatologie in cui la solitudine sofferta svolge un ruolo decisivo è rappresentata da quei disturbi nei quali la sintomatologia invalidante non permette all’individuo di rimanere da solo con sé stesso, pena lo sprofondare nel dolore o l’esplodere del panico. In questi casi l’obiettivo terapeutico sarà costruire o recuperare la capacità dell’individuo di essere solo nel fronteggiare con successo la sofferenza, conquistando così fiducia nelle proprie risorse e autonomia personale.

Il disturbo da attacchi di panico e le forme invalidanti di fobia con o senza ossessioni compulsive sono manifestazioni patologiche importanti sia a livello qualitativo che quantitativo, poiché la loro severità conduce alla totale invalidazione dell’individuo e la loro frequenza è superiore a qualunque altra forma di psicopatologia. L’intervento terapeutico sulla dinamica di costante richiesta di aiuto messa in atto dai soggetti che ne soffrono è parte fondamentale della prima fase del trattamento e diviene il focus della sua ultima parte. In questi casi fin dall’inizio della psicoterapia si deve evocare suggestivamente la «paura più grande» di un peggioramento della condizione patologica se questo copione di relazione con gli altri continua a essere applicato. Il limite di una paura è, infatti, una paura più grande, a cui di solito questi soggetti rispondono prontamente3 cominciando a ridurre o addirittura interrompendo le loro richieste di aiuto e scoprendo di essere in grado di fare da soli molto di più di quanto pensavano. L’altro passo fondamentale è far sperimentare loro la tecnica elettiva per la terapia del panico4 in modo da dare loro uno strumento per fronteggiare in prima persona le temute reazioni e far loro scoprire che sono in grado di gestirle e tenerle a bada. In altri termini, si rendono conto che nell’affrontare da soli la paura riescono a vincerla, cosa non realizzabile con l’aiuto degli altri, che se è protettivo è anche squalificante. Una volta realizzata questa prima fase di cambiamento terapeutico essenziale, il soggetto viene guidato a esplorare da solo tutto ciò che fino ad allora, per timore del panico, ha evitato, e a constatare non solo di esserne in grado, ma anche che la paura si può superare solo in prima persona: nessuno può farlo al posto nostro. Tutto ciò, come appare evidente, andrà a trasformare enormemente la dinamica con gli altri e permetterà la piena espressione delle qualità dell’individuo liberato dalla prigionia della paura patologica; la conquista dell’autonomia corrisponderà a una più intensa e autentica capacità di relazione. Il saper fare da soli è il più importante antidoto alla solitudine come effetto di dipendenza dagli altri.

Lo stesso tipo di processo terapeutico si applica al disturbo ossessivo-compulsivo in cui il soggetto crocifigge le persone intorno a lui ad assisterlo nei suoi rituali patologici e a rassicurarlo costantemente; ciò che differisce è che in questo caso si applicano le tecniche terapeutiche specificamente messe a punto per le diverse varianti di questa patologia (Nardone, 1993; Nardone, Portelli, 2013). Si tratta dei «controrituali terapeutici» (Nardone, Salvini, 2013) che vanno applicati ai rituali patologici portandoli all’autodistruzione, poiché ne ricalcano la struttura e la dinamica ma ne invertono il senso e l’effetto (Nardone, Watzlawick, 1990; Watzlawick, Nardone, 1997). Una volta liberata dalle catene delle ossessioni compulsive, la persona potrà riappropriarsi della propria esistenza ed esprimere pienamente sé stessa nelle relazioni con gli altri e il mondo oltre che con sé stessa.

Non di rado, soggetti con disturbi fobico-ossessivi severi tendono a cronicizzare il loro stato, o per mancanza di cure o per terapie inefficaci. In questi casi si osserva una cristallizzazione del copione comportamentale della dipendenza da figure di riferimento quali i famigliari o i partner, che di solito sono «adeguatamente» selezionati per la loro protettività e quindi risultano complementari alla personalità dipendente. È chiaro che di fronte a tali situazioni l’intervento terapeutico risulta più complesso e richiede spesso anche la partecipazione delle figure di riferimento, le quali devono essere messe nella condizione di fare un passo indietro perché il soggetto dipendente ne faccia due avanti in direzione dell’autonomia personale. In particolare, come abbiamo evidenziato in precedenza, si osserva ultimamente nei confronti dei figli un’iperprotettività famigliare e sociale tale da creare personalità dipendenti connotate da totale insicurezza e sfiducia nelle proprie risorse. In questi casi il lavoro terapeutico prevede da una parte la ristrutturazione diretta del ruolo dei genitori che, come nel caso precedente, devono permettere al figlio di esplorare la vita senza la loro vigilante protezione; dall’altra una sorta di percorso pedagogico per il giovane, che deve guidarlo a costruire competenze individuali, relazionali e sociali. In questo caso, mai dimenticare le parole dell’abate de Condillac (1780): «L’uomo altro non è che il frutto della sua educazione».

Abbiamo trattato dell’intervento terapeutico su forme di patologie che minano la capacità di stare da soli ed essere autonomi sulla base della paura; vediamo ora quelle fondate sul dolore per l’assenza o perdita dell’altro.

Le problematiche, talvolta nodi inestricabili, rappresentate dai legami morbosi sono antiche quanto l’uomo, ma certamente gli studiosi che ne hanno meglio messo in risalto i profili più usuali e suggerito il trattamento terapeutico sono Sigmund Freud e Don D. Jackson. Il primo fonda gran parte della sua teoria psicoanalitica proprio sul legame morboso madre-figlio e la rivalità di questo con il padre,5 indicando il processo terapeutico come analisi delle dinamiche inconsce che svelano al paziente tali «terribili» realtà da questi «rimosse»6 come chiave per l’acquisizione di quella lucida coscienza che permetterebbe di emanciparsi dal morboso triangolo relazionale dell’amore per l’uno e l’odio per l’altro. Il secondo grande studioso e terapeuta, fondatore della terapia sistemica, analizzò mediante le modalità di comunicazione tra i membri delle famiglie e delle coppie le dinamiche patologiche e il loro reggersi su complementarietà7 a incastro o a specchio tra i loro comportamenti e atteggiamenti. Invece che ricercare nelle dinamiche inconsce le cause della morbosità dei legami, Jackson (1957, 1959, 1964) ne studiò le sequenze di interazione, giungendo a rilevare come queste potessero essere racchiuse in due grandi categorie: la complementarietà e la simmetria. Nel primo caso la morbosità del legame si basa su un incastro micidiale tra i comportamenti dei soggetti in relazione, come nel caso del rapporto tra vittima e aguzzino o di un partner fedifrago con l’altro che sempre perdona, o ancora il genitore squalificante e il figlio che cerca di ottenere il suo consenso senza mai riuscirvi nonostante tutti i suoi sforzi. Nel secondo caso il legame si regge, invece, su un continuo braccio di ferro, talvolta anche fortemente conflittuale, tra i membri della famiglia o della coppia, come nel caso della rivalità o della gestione del potere nella relazione, o delle escalation simmetriche nel contrasto fino anche all’estremo. L’indicazione terapeutica di fondo che Jackson formulò come strategia per queste problematiche fu quella di fare in modo che nelle dinamiche complementari si introducessero, mediante prescrizioni terapeutiche dirette, indirette o paradossali,8 elementi di simmetria e, viceversa, inserire complementarietà in quelle simmetriche. Questa sorta di contaminazione della rigidità del copione relazionale mostrò il potere di sovvertirne l’equilibrio disfunzionale facendolo evolvere in uno più flessibile e funzionale. Nel caso della psicoanalisi il percorso previsto è prolungato nel tempo, mentre nel caso della terapia sistemica gli interventi prevedono effetti rapidi. Nella loro antitesi, i due approcci rappresentano a tutt’oggi le più applicate forme di intervento terapeutico sui legami morbosi, anche se per entrambi i paradigmi si sono avute nei decenni numerose evoluzioni delle tecniche terapeutiche. Ciò che si osserva, purtroppo, è che tali dinamiche relazionali sono estremamente resistenti al cambiamento e, spesso, anche quando questo è provocato non persiste a lungo e la dinamica precedente viene ripristinata. Paul Watzlawick faceva notare che spesso la persona che riesce a staccarsi dal partner tossicodipendente poi si mette con il giocatore compulsivo o con l’alcolista, così come il figlio che si emancipa dal legame morboso con la madre trova spesso una compagna da cui dipendere più o meno nello stesso modo. Il bisogno di morbosità, infatti, è il più delle volte estremamente radicato, e senza questa fusionalità, anche quando è in forma di conflitto, il soggetto sprofonda in un’acuta solitudine da mancanza. Il paradosso di queste persone è che senza quella dose di sofferenza ne manifestano una peggiore, e per questo tendono a riprodurla in ogni loro contesto relazionale.

Con le parole di Epifanio da Salamina: «Io sono tu e tu sei io, e dove tu sei io sono, e in tutte le cose sono disperso. E dovunque vuoi, tu mi raccogli, ma raccogliendomi, tu raccogli te stesso».

Il fatto che spesso chi vive una relazione morbosa non presenti evidenti sintomatologie cliniche non significa che la sofferenza sia minore, anzi: nel suo essere un modello che si ripete in modo ridondante nella vita anche con persone differenti, questa patologia della relazione può condurre agli esiti più funesti sia nei confronti di se stessi che dell’altro, poiché colui o colei a cui questi sono legati non può e non deve essere legato a nessun altro nello stesso modo. «Sono condannata… Non posso stare bene con te ma peggio ancora sto senza te»: questa espressione di una paziente esplicita più di qualunque dotta spiegazione lo stato di paradossale sofferenza di chi non può rinunciare alla presenza dell’oggetto del suo morboso legame.

Altrettanto sofferta e sicuramente più evidente è la dinamica relazionale delle crisi da perdita e abbandono. Anche in questo caso siamo di fronte a una sofferenza tanto antica quanto moderna, così come a numerose teorie su di essa e sul suo trattamento. Alcuni approcci terapeutici come quello delle «relazioni oggettuali» (Winnicott, 1957, 1965) o dell’attaccamento (Bowlby, 1980; Spitz, 1965; Ainsworth, 1978) ne hanno fatto l’oggetto principale del loro impianto teorico-applicativo. Fatto sta che l’abbandono, che sia perdita o rifiuto, è parte ineludibile della nostra esistenza, pertanto siamo tutti psicologicamente predisposti ad affrontarlo e quindi capaci di assorbirlo: per alcune persone, però, è totalmente inaccettabile e fa sprofondare nell’abisso della più glaciale e sofferta solitudine. Per questi soggetti non esiste una medicina in grado di alleviare il dolore della perdita, né un argomento che possa consolarli: devono soltanto attraversare il dolore per venirne fuori ma, ancora con le parole di Cioran (1952): «Il coraggio che manca ai più è quello di soffrire per cessare di soffrire». Nel caso di una perdita, un lutto o un abbandono, infatti, se l’individuo accetta il dolore e se lo concede quotidianamente in uno spazio e tempo appositamente allestito, esso decanta gradualmente sino a non essere più torturante; se, invece, non lo si accetta e si cerca di sfuggirgli si consolida e diviene una prolungata agonia (Nardone, 2019). Come già accennato, questo è un percorso molto più agevole per chi ha subito un lutto che per chi è vittima di un abbandono sentimentale, perché nel primo caso la persona perduta non ci ha rifiutato e non ha qualcun altro accanto al posto nostro, come invece accade nel secondo caso, quando chi abbandona, il più delle volte, lo fa per un’altra persona. Anche in questa condizione l’unico modo per uscire dal dolore è attraversarlo, tutte le altre possibili consolazioni, spiegazioni, giustificazioni, razionalizzazioni finiscono per mantenere e alimentare la sofferenza da abbandono; la persona giunge a elaborare la perdita solo dopo averne sofferto adeguatamente, a patto di accettarla come sorte indesiderata ma non correggibile. Nei casi di abbandono amoroso, il più delle volte, la perdita non viene accettata e l’individuo o continua a sperare in un ritorno, anche di fronte a tutte le prove del contrario, o fa di tutto perché questo avvenga, braccando l’ex partner e umiliandosi pur di riaverlo e rendendo ciò ancora più improbabile. Se non si crea un effettivo distacco da chi ha abbandonato è, infatti, pressoché impensabile realizzare l’elaborazione della perdita, e mantenere il contatto con chi non desidera più la relazione è un modo sicuro per mantenere la ferita dell’abbandono aperta e non permetterle di divenire cicatrice.

Riflessioni a margine

Le parole di Gibran (1926), «se vuoi vedere il giorno non puoi che attraversare la notte», riassumono in modo mirabile quanto è emerso dalla rassegna di interventi terapeutici sulle forme di patologica solitudine che abbiamo presentato. La costante di tutte le strategie capaci di risollevare l’individuo dal gelido abisso nel quale si trova sprofondato è il fatto che, in modi diversi, lo mettono in condizione di gestire la solitudine, non certo di annullarla. Solo accettarne la compagnia, come quella di un’ombra che ci segue costantemente, la trasforma da limite in risorsa, non qualcosa da cui fuggire, ma il luogo in cui rifugiarsi nei momenti peggiori per recuperare le forze e riprendere il nostro viaggio nella vita. A questo riguardo si ricordi il paradosso evangelico per cui le tenebre diventano luce, la tristezza si tramuta in gioia e la solitudine in comunione (Piovanelli, 1986) e le parole del Cristo a Filippo e Andrea nel mare della folla che gridava il proprio entusiasmo messianico nella Domenica delle Palme: «Se il chicco di grano caduto non muore, rimane solo, se invece muore, produce molto frutto». Dal terreno amaro della solitudine emerge il seme della relazione vitale con l’altro e con il mondo. Senza morte non c’è vita, senza solitudine non c’è incontro e relazione. Se non sai stare da solo non sai stare con nessun altro, se non sai stare con l’altro non sai stare da solo con te stesso.