Capitolo 1
Conoscere la propria ombra: essere o non essere soli

Il primo, fondamentale passo nell’analisi della solitudine consiste nel guardarla come si guarda una moneta, con le sue due distinte facce: il suo essere scelta e ricercata o, al contrario, subita e rifuggita. Nel primo caso abbiamo ciò che i mistici per primi, poi i filosofi e gli scienziati, infine gli psicologi, definiscono la via privilegiata per raggiungere stati elevati di coscienza, mettere in opera capacità creative e intuitive superiori e stati di trance performativa (Nardone, Bartoli, 2019). Nel secondo caso siamo di fronte alla solitudine disperata e disperante di chi si sente rifiutato, di chi non è in grado di relazionarsi, di chi ha perso le persone care o il proprio ruolo sociale, del malato o del morente, insomma quella condizione di abbandono a sé stessi, di smarrimento, di estraneità e di non esistenza per gli altri che il sociologo Émile Durkheim (Durkheim, 1897) ha descritto come «anomia».

Secondo questa contrapposizione avremmo quindi un lato della solitudine che può essere definito positivo e un altro considerato negativo. Come avremo modo di verificare, una simile visione manichea, basata sugli opposti, non si rivela uno strumento conoscitivo capace di dare conto di quei casi in cui ad esempio, la scelta deliberata della solitudine all’interno di un percorso mistico conduce, invece che all’elevazione ed emancipazione dalle umane passioni, a vertigini di sofferenza da isolamento; oppure, sull’altra faccia della medaglia, il caso in cui la sofferenza provocata dalla solitudine, vissuta in una condizione di pienezza, permette di rompere gli schemi che la alimentano e di uscirne addirittura fortificati. Ecco dunque che la solitudine, oltre a essere ambivalente, è anche circolare e retroattiva: se la ricerca del benessere attraverso di essa può condurre a lancinanti sofferenze, sprofondarsi nel dolore che produce può avere un esito taumaturgico. Non è neppure detto che scegliere volontariamente la solitudine o il suo opposto determini con certezza effetti positivi, poiché l’intenzionalità stessa può essere il prodotto di altre problematiche e non una scelta serena e consapevole; e anche se lo fosse, non è detto che gli esiti siano quelli desiderati. Ciò vale appunto sia per l’isolamento ascetico o misantropo, sia per la spasmodica ricerca di contatti interpersonali ed esperienze condivise.

Infine, la solitudine è un fenomeno paradossale. L’ebbrezza prodotta da una socialità estrema rappresenta spesso una fuga dal senso di solitudine che, anziché ridurne la sensazione, la fa aumentare, costringendo a esasperare ulteriormente la ricerca di contatti e conferme, alimentando ancor più l’intima solitudine del soggetto. Sono solo in mezzo a tanta gente che mi ama: questo è il paradosso del successo sociale che non è una soluzione al tormento dell’intima solitudine, bensì solo un sedativo, una sorta di stupefacente che nel suo euforizzare allontana la sensazione ma non la estingue. Anzi: per continuare a dare effetti deve essere assunto a un dosaggio sempre più alto, conducendo, prima o poi, a quello che il filosofo Cioran (1986) ha descritto come il «contemplare lo splendore dei disastri realizzati». All’opposto, se è vero che, come suggerisce un detto, «La felicità è tale solo se condivisa», la felicità nell’ascesi è il prodotto del contatto con un’entità metafisica, non una vuota solitudine; chi la ricerca e la pratica asceticamente può trovare una «compagnia» di grado più elevato rispetto a quella degli esseri umani. La ricerca della solitudine attraverso percorsi che non devono essere necessariamente religiosi e che comprendono, per esempio, le tecniche di meditazione, conduce all’incontro e alla relazione con qualcosa che può essere Dio, l’universale energia e la sua armonia o il proprio «sé interiore» della psicologia personologica (Murray, 1938; Allport, 1961). La dinamica è comunque di contatto con un’entità non tangibile che resterebbe altrimenti irraggiungibile.

A tutto questo, che già rende il fenomeno «scivoloso» – più si cerca di costringerlo in termini rigorosi, più scivola via – si aggiunge la visione esistenzialista, secondo la quale la solitudine è parte essenziale della condizione umana. Nel dolore come nella gioia, nel successo come nella sconfitta, nell’essere desiderati o rifiutati, nel vivere come nel morire si è comunque soli: poiché il nostro percepire le cose è comunque individuale e non può mai essere del tutto condiviso – anzi, nella maggioranza dei casi non lo è per nulla. Questa, che può apparire una visione nichilista dell’esistenza, in realtà prende semplicemente atto del soggettivismo ineluttabile del nostro percepire e del nostro reagire alla realtà che è alla radice dell’incomunicabilità tra gli individui, ciascuno con le loro personali – e irripetibili per l’altro – sensazioni ed emozioni. Nessuna teoria o buona pratica è in grado di cambiare questa condizione (Galimberti, 1986); l’esperienza soggettiva rimane tale anche se condivisa, in quanto la stessa realtà non può essere percepita esattamente nello stesso modo da differenti persone. Questo induce a concordare con l’esistenzialismo nel ritenere la solitudine del nostro sentire una condizione esistenziale insuperabile e che la condivisione sia solo un’illusione o un autoinganno sociale. Essere soli è la condanna con cui si nasce e non un effetto del nostro vivere. Ancora con le folgoranti parole di Cioran (1987): «Non ci si merita la croce, si nasce crocifissi».

Da un punto di vista logico-razionale questa tesi appare inoppugnabile, ma se si esce dall’ambito della fredda analisi e si contemplano dinamiche che vanno oltre i rigidi schemi del ragionamento, come fa Albert Camus nel suo magistrale Il mito di Sisifo (1942), le cose cambiano. Il premio Nobel, infatti, si oppone alla triste visione esistenzialista che descrive la vita come l’equivalente della condanna di Sisifo, costretto a spingere eternamente un enorme macigno su per una china per vederlo rotolare giù e a ricominciare ogni volta daccapo, con la sola consolazione dei pochi attimi in cui quello resta, vacillante, sulla cima. Secondo Camus l’uomo può correre il rischio di essere felice nonostante tutto ciò, anzi: proprio a partire da tale condizione esistenziale dovrebbe impegnarsi ad arricchire la propria vita di sensazioni piacevoli e di esperienze stimolanti in modo da riempire lo spazio fra la nascita e la morte non con la rassegnazione cupa dei filosofi esistenzialisti, bensì cogliendo e creando continuamente occasioni per vivere intensamente. Invece che alla resa, la sua visione invita alla lotta per la felicità nonostante i limiti che la nostra natura ed esistenza ci impongono. A guidarci, secondo Camus, non devono essere né una illusoria fede né una rassicurante illusione né alcun sublime autoinganno, bensì la lucida determinazione a realizzare il più possibile noi stessi, in collaborazione o competizione con gli altri, cercando nella vita tutto il bello che in essa può essere trovato. Un pensiero che richiama quello di Georg Lichtenberg (1981), filosofo illuminista che vantava tra i suoi ammiratori Nietzsche, Tolstoj ed Einstein, il quale sosteneva che «il bello della vita è cercare il bello nella vita» (1999), e ricorda anche la celebre frase di Fëdor Dostoevskij: «La bellezza salverà il mondo» (1869).

Se la solitudine esistenziale è una inesorabile condanna, possiamo affrontarla opponendole una vita, nel bene e nel male, intensamente vissuta. La passionalità è l’antidoto a questa malattia esistenziale: «La rottura del cerchio della solitudine risiede in un atteggiamento personale di coinvolgimento, che comporta un impegnarsi a fondo almeno per qualche cosa, un credere in alcuni valori, un essere disposti a lasciarsi ‘toccare’ nel nostro intimo da eventi, idee, ideali, sentimenti, affetti, problemi altrui; infine un’attenzione verso noi stessi fatta di sforzo di conoscenza e ricerca di orientamenti e significati. Solo in questo modo riusciremo a rompere la solitudine di vuotezza, la quale potrà attanagliarci ancora di quando in quando, ma non avrà presa stabile su di noi. Se riusciremo ad amare senza imprigionare, ad essere amati senza temere l’abbandono, a credere in certi ideali e doveri che ci si impongono pur lasciando intatta la nostra libertà, a provare stupore e ammirazione davanti al mondo, a scoprire con gioia i tratti di bontà negli altri uomini e a non sentirci rivoltati dai loro limiti e dalle loro cattiverie, avremo trovato altrettanti sintomi che, in fondo, il gelo della solitudine negativa non si è stretto attorno al nostro cuore» (Agazzi, 1986).