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Sembra ridicolo lasciare intendere che non abbiamo indicazioni più precise riguardo a questo terzo attrattore se non da coloro che lo fuggono. Come se, noi Moderni, non avessimo mai saputo quale fosse il quadro complessivo del nostro agire, così come la direzione complessiva della nostra storia. Come se fosse stato necessario attendere la fine dell’ultimo secolo per accorgersi che i nostri progetti, in un certo senso, fluttuavano nel vuoto.
E, tuttavia, non è esattamente la situazione in cui ci troviamo? Il Globale (plurale ma anche univoco) verso cui ci siamo evoluti finora, l’orizzonte che permetteva di proiettarci in una mondializzazione o globalizzazione infinita (e, per reazione, le località che si moltiplicavano per sfuggire a questo destino apparentemente ineluttabile), tutto ciò non ha mai avuto un suolo, una realtà, una materialità consistente.
L’impressione terrificante che la politica si sia svuotata della sua sostanza, che non si innesti più su niente, che non abbia più senso né direzione, non ha altra causa che questa progressiva rivelazione: né il Globale né il Locale hanno un’esistenza materiale e durevole.
Di conseguenza, il primo vettore indicato sopra (figura 1), la linea retta grazie alla quale si potevano situare arretramenti e progressi, assomiglia a un’autostrada senza inizio o fine.
Se la situazione malgrado tutto si chiarisce, è perché, invece di essere sospesi tra passato e futuro, tra rifiuto e accettazione della modernizzazione, ci troviamo adesso capovolti di 90°, sospesi tra il vecchio vettore e uno nuovo, spinti in avanti da due frecce del tempo che non vanno più nella stessa direzione (figura 4).
Tutta la faccenda consiste nel definire la composizione del terzo termine. In cosa può diventare più attraente degli altri due – e perché sembra a molti così repellente?
La prima difficoltà è quella di dargli un nome che non si confonda con gli altri due attrattori. “Terra”? Si crederà che si tratti del pianeta visto dallo spazio, il famoso “pianeta blu”. “Natura”? Sarebbe troppo ampio. “Gaia”? Sarebbe esatto, ma ci vorrebbero pagine e pagine per precisarne l’uso. “Suolo”? Fa pensare troppo alle vecchie forme di località. “Mondo”, sì, certo, ma si rischia di confonderlo con le vecchie forme di globalizzazione.
No, ci vuole un termine che raccolga la stupefacente originalità (la stupefacente antichità) di questo agente. Chiamiamolo per il momento il Terrestre, con la T maiuscola per evidenziare che si tratta di un concetto; e, anche, per precisare in anticipo verso dove ci si dirige: il Terrestre come nuovo attore politico.
L’evento di enorme portata che dobbiamo introiettare riguarda infatti la potenza d’azione di questo Terrestre che non è più lo scenario, lo sfondo, dell’azione degli esseri umani.
Si parla sempre di geopolitica come se il prefisso “geo” indicasse solo la cornice all’interno della quale si sviluppa l’azione politica. Ora, ciò che sta cambiando è che “geo” indica un agente che partecipa adesso a pieno titolo alla vita pubblica.
Tutto l’attuale disorientamento deriva dall’emergere di un attore che reagisce ormai alle azioni degli uomini e impedisce ai modernizzatori di sapere dove si trovano, in quale epoca e soprattutto il ruolo che d’ora in poi devono avere.
Le strategie geopolitiche che si vantano di appartenere alla “scuola realista” dovranno modificare un po’ la realtà che i loro piani di battaglia saranno costretti ad affrontare.
Fino a non molto tempo fa si poteva ancora dire che gli umani erano “sopra la terra” o “nella natura”, che si trovavano “nell’epoca moderna” e che erano “umani” più o meno “responsabili delle loro azioni”.
Era possibile distinguere una geografia fisica e una geografia “umana”, quasi si trattasse di due strati sovrapposti. Ma come dire dove ci troviamo se questo “sul” o “nel” quale siamo collocati si mette a reagire alle nostre azioni, ci ricade addosso, ci cattura, ci domina, esige qualcosa e ci trascina nella sua corsa? Come distinguere ormai la geografia fisica dalla geografia umana?
Finché la terra sembrava stabile, si poteva parlare di spazio e situarsi all’interno di questo spazio e su una porzione di territorio che pretendevamo occupare. Ma come fare se il territorio stesso si mette a partecipare alla storia, a rendere colpo su colpo, in breve, a occuparsi di noi? L’espressione “Appartengo a un territorio” ha cambiato senso: essa indica ora l’istanza che prende possesso del proprietario!
Se il Terrestre non è più la cornice dell’azione umana è perché esso vi prende parte. Lo spazio non è più quello della cartografia, con la sua quadrettatura di longitudini e latitudini. Lo spazio è diventato una storia convulsa di cui noi siamo dei partecipanti tra altri, che reagiscono ad altre reazioni. Sembra di atterrare in piena geostoria.1
Andare verso il Globale significava avanzare sempre più verso un orizzonte infinito, spingere davanti a sé una frontiera illimitata – o, al contrario, se ci si voltava dall’altra parte, verso il Locale, era nella speranza di ritrovare la sicurezza di una frontiera stabile e di un’identità sicura.
Se è così difficile capire oggi a quale epoca apparteniamo, è perché questo terzo attrattore è insieme noto a tutti e completamente estraneo.
Il Terrestre è un Nuovo Mondo, certo, che non assomiglia però a quello che i Moderni avevano già “scoperto”, spopolandolo previamente. Non è una nuova terra incognita per esploratori con casco coloniale. In ogni caso, non si tratta di una res nullius, disponibile all’appropriazione.
Al contrario, i Moderni stanno migrando verso una terra, un territorio, un suolo, un paese, una zolla, quale che sia il nome che gli si dà, che è già occupato, popolato da sempre; e, più recentemente, che si è trovato ripopolato dalla moltitudine di coloro che hanno sentito, ben prima degli altri, fino a che punto bisognava fuggire a gambe levate dall’ingiunzione di modernizzarsi.2
In questo mondo, ogni spirito moderno si trova come in esilio. Deve imparare a coabitare con coloro che considerava fino a quel momento arcaici, tradizionali, reazionari o semplicemente “locali”.3
E tuttavia, per quanto antico sia, tale spazio è nuovo per tutti perché, se seguiamo le discussioni degli specialisti del clima, semplicemente non c’è alcun precedente alla situazione attuale. Eccola la wicked universality, la mancanza universale di terra.
Quel che chiamiamo civiltà, intendendo con ciò le abitudini prese nel corso degli ultimi dieci millenni, si è sviluppata, spiegano i geologi, in un’epoca e in uno spazio geografico sorprendentemente stabili. L’Olocene (è il nome che le è stato dato) aveva tutte le caratteristiche di una “cornice” all’interno della quale si poteva in effetti distinguere senza troppa fatica l’azione degli esseri umani, proprio come a teatro si può dimenticare l’edificio e le quinte per concentrarsi sull’intreccio.
Lo stesso non vale per l’Antropocene, questo termine contestato che alcuni esperti suggeriscono per l’epoca attuale.4 Qui non si tratta di piccole fluttuazioni climatiche, bensì di uno sconvolgimento che coinvolge lo stesso sistema-terra.5
Certo, gli umani hanno sempre modificato il loro ambiente, ma questo termine indicava soltanto l’“entourage”, precisamente ciò che li circondava. Essi rimanevano i protagonisti, modificando solo marginalmente la scena dei loro drammi.
Oggi, la scena, il sipario, il retroscena, l’edificio intero sono saliti sul palcoscenico e disputano agli attori il ruolo principale. Questo cambia tutti i copioni, suggerisce altri epiloghi. Gli umani non sono più gli unici attori, anche se si vedono affidare un ruolo fin troppo impegnativo per loro.6
Quello che è certo è che non ci si può più raccontare le stesse storie. La suspense è totale.
Tornare indietro? Riapprendere le vecchie ricette? Guardare con altri occhi le saggezze millenarie? Imparare da culture che non sono state ancora modernizzate? Sì, certo, ma senza farsi illusioni: per quanto sta avvenendo non ci sono precedenti.
Nessuna società umana, per quanto saggia, acuta, prudente, cauta si possa immaginare, ha dovuto affrontare le reazioni del sistema-terra all’azione di otto-nove miliardi di umani. Tutta la saggezza accumulata durante diecimila anni, anche se si riuscisse a ritrovarla, è servita sempre solo a poche centinaia, a poche migliaia o a qualche milione di esseri umani su una scena alquanto stabile.
Non si comprende nulla dell’attuale vuoto della politica se non si coglie fino a che punto la situazione è senza precedenti. Siamo di fronte infatti a qualcosa che lascia sbalorditi.
È facile quindi comprendere la reazione di coloro che hanno deciso di fuggire. Come accettare di volgersi volontariamente verso questo nuovo attrattore quando si stava andando tranquillamente verso l’orizzonte dell’universale modernizzazione?
Accettare di guardare in faccia la situazione significa ritrovarsi nei panni dell’eroe del racconto di Edgar Allan Poe Una discesa nel Maelström.7 Ciò che distingue gli annegati dall’unico sopravissuto è la fredda attenzione con la quale il vecchio marinaio delle isole Lofoten esplora il movimento di tutti i rottami che il vortice fa mulinare attorno a lui. Quando la nave viene trascinata nell’abisso, il narratore alla fine riesce a sopravvivere aggrappandosi a un barile vuoto.
Bisogna essere astuti come il vecchio marinaio: non credere che si riuscirà a tagliare la corda, non smettere di notare attentamente la deriva di tutti i relitti, il che permetterà forse di scoprire, in un lampo, perché alcuni rottami sono risucchiati verso il fondo, mentre altri, a causa della loro forma, potrebbero servire da salvagente. “Il mio regno per un barile!”
1. Il tema della geostoria è stato introdotto da un celebre articolo di D. Chakrabarty, “The climate of history: Four theses”, in Critical Enquiry, 35, inverno 2009, pp. 197-222. Si veda anche, del medesimo autore, il capitolo nella raccolta di testi di É. Hache (a cura di), De l’univers clos au monde infini, tr. fr. Éditions Dehors, Paris 2014.
2. É. Hache, Reclaim. Recueil de textes écoféministes, Cambourakis, Paris 2016.
3. La figura del nuovo apprendistato dello spirito moderno è stata delineata da Michel Tournier attraverso il suo Crusoe, al quale Venerdì deve spiegare pazientemente come comportarsi sulla sua isola per non essere più uno straniero. Un’inversione dei legami tra possessore e proprietà così totale che Crusoe decide alla fine di restare nell’isola di Speranza! M. Tournier, Venerdì o il limbo del Pacifico, tr. it. Einaudi, Torino 2010.
4. C. Hamilton, Ch. Bonneuil, F. Gemenne, The Anthropocene and the Global Environment Crisis: Rethinking Modernity in a New Epoch, Routledge, London 2015.
5. Se ne trova una vivida rappresentazione in T. Lenton, Earth System Science, Oxford University Press, Oxford 2016.
6. Di qui la vivace controversia sul ritorno o meno della figura dell’umano come attore principale. Per prendere due posizioni estreme: D. Haraway, Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene, Duke University Press, Durham 2016; e C. Hamilton, Defiant Earth: The Fate of Humans in the Anthropocene, Polity Press, Cambridge 2017.
7. Ringrazio Aurélien Gamboni e Sandrine Tuxeido per avermi suggerito questo legame tra Poe e la crisi climatica.