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Che cosa vogliamo dire, in fondo, con le rovine della mondializzazione? Forse che tutto il male verrebbe da lì, che è contro di essa che i “popoli” si sarebbero improvvisamente “ribellati” mediante un estremo sforzo di “presa di coscienza” che avrebbe loro “aperto gli occhi” sugli eccessi delle “élite”?
È arrivato il momento di fare attenzione alle parole che utilizziamo. Nel termine “globalizzare” c’è molta della follia della globalizzazione, certo, ma c’è anche la parola “globo”, che forse è il caso di conservare. In “mondializzare” c’è la bella parola “mondo”: sarebbe davvero triste doversene privare.
Da cinquant’anni ciò che definiamo “globalizzazione” o “mondializzazione” indica infatti due fenomeni opposti che sono stati sistematicamente confusi.
Il passare dal punto vista locale al punto di vista globale o mondiale dovrebbe significare che si moltiplicano i punti di vista, che si registra un grandissimo numero di varietà, che si considera un maggior numero di esseri, culture, fenomeni, organismi e popolazioni.
Oggi pare proprio che, con mondializzazione, si intenda l’esatto contrario di un simile ampliamento. Voglio dire che si è imposta a tutti e si è diffusa dappertutto un’unica visione, assolutamente provinciale, proposta da poche persone, che rappresentano interessi molto ristretti, limitata a pochi strumenti di misura, a qualche standard e formulario. Non stupisce che non si sappia più se convenga consegnarsi alla mondializzazione oppure combatterla.
Se si tratta di moltiplicare i punti di vista per complicare ogni punto di vista “provinciale” o “chiuso” per mezzo di nuove varianti, è una battaglia che merita di essere portata avanti; se si tratta invece di ridurre il numero di alternative sull’esistenza e sul corso del mondo, sul valore dei beni e sulle definizioni di Globo, si capisce facilmente che a una tale semplificazione occorre resistere con ogni mezzo.
A quanto pare, più si procede con la globalizzazione, più si ha l’impressione di avere una vista limitata! Ciascuno di noi è pronto a sradicarsi dal suo piccolo lotto di terra, ma di certo non per vedersi imporre l’angusta visione di un altro lotto solo un po’ più in là.
Possiamo quindi ormai distinguere tra mondializzazione-plurale e mondializzazione-univoca.
Ciò che complicherà ogni progetto di toccare terra da qualche parte è che la definizione dell’inevitabile mondializzazione porterà, come contraccolpo, all’invenzione del “reazionario”.
I fautori della mondializzazione-univoca accusano da tempo coloro che resistono al suo dispiegamento di essere arcaici, arretrati, di pensare solo al loro piccolo territorio e di volersi proteggere contro tutti i rischi restando chiusi nella loro piccola dimora! (Ah! questo gusto del grande spazio predicato da coloro che sono al riparo ovunque le loro miglia consentano loro di volare…)
È per smuovere questo popolo recalcitrante che i globalizzatori hanno inserito la grande leva della modernizzazione. Da due secoli, la freccia del tempo permette di definire, da un lato, quelli che vanno avanti – i modernizzatori, i progressisti – e, dall’altro, quelli che rimangono indietro.
Nel grido di guerra “Modernizzatevi!”, non c’è altro contenuto che questo: ogni resistenza alla mondializzazione diventerà a un certo punto illegittima. Non è possibile negoziare con chi vuole restare indietro. Coloro che si riparano dall’altro lato del fronte irreversibile della modernizzazione saranno a priori screditati:1 non sono solo perdenti, sono anche irrazionali. Vae victis!
È l’appello a questo tipo di modernizzazione a definire, per contrasto, il gusto del locale, l’attaccamento al suolo, la conservazione delle proprie tradizioni, l’attenzione per la terra, non più come un insieme di sentimenti legittimi, ma come espressione di una nostalgia verso posizioni “arcaiche” e “oscurantiste”.
L’appello alla mondializzazione è così ambiguo da rendere ambiguo per contagio ciò che possiamo intendere con locale. Per questo, a partire dall’inizio della modernizzazione, qualsiasi attaccamento a un suolo verrà bollato come reazionario.
Come ci sono due modi radicalmente diversi di guardare alla mondializzazione, di registrare le variazioni del Globo, ci sono almeno due modi, ugualmente opposti, di definire l’attaccamento al suolo.
È qui che le élite che tanto hanno approfittato della mondializzazione (sia univoca sia plurale) fanno così fatica a comprendere ciò che spaventa coloro che vogliono essere sostenuti, protetti, assicurati, rassicurati dalla loro provincia, dalla loro tradizione, dal loro suolo o dalla loro identità. Li accusano allora di cedere alle sirene del “populismo”.
Rifiutare la modernizzazione può essere forse un riflesso di paura, una mancanza di ambizione, una pigrizia innata, certo, ma, come ha ben capito Karl Polanyi, la società ha sempre ragione di difendersi contro gli attacchi.2 Rifiutare la modernizzazione vuol dire anche resistere coraggiosamente rifiutando di barattare la propria provincia con un’altra – Wall Street, Pechino o Bruxelles – ancora più ristretta e soprattutto infinitamente lontana e, perciò, molto più indifferente agli interessi locali.
È possibile far capire a coloro che sono ancora entusiasti della mondializzazione-univoca che è normale, giusto e indispensabile voler conservare, mantenere, assicurare l’appartenenza a una terra, un luogo, un suolo, una comunità, uno spazio, un ambiente, uno stile di vita, un mestiere, un saper-fare? Proprio per continuare a essere in grado di registrare più differenze, più punti di vista, e soprattutto per non iniziare a diminuirne il numero.
Sì, i “reazionari” si ingannano sulle mondializzazioni, ma di certo anche i “progressisti” si ingannano su ciò che tiene i “reazionari” attaccati ai loro usi e costumi.
Distinguiamo perciò il locale-univoco dal locale-plurale come abbiamo distinto la mondializzazione-univoca dalla mondializzazione-plurale. A conti fatti, la sola cosa che importa non è sapere se si è a favore o contro la mondializzazione, a favore o contro il locale, ma comprendere se si riesce a registrare, mantenere, amare il più grande numero di alternative possibili all’appartenenza al mondo.
Si dirà che è come spaccare un capello in quattro e introdurre divisioni artificiali per meglio dissimulare qualche vecchia ideologia del sangue e del suolo (Blut und Boden).
Ma sollevare una simile obiezione significa dimenticare l’evento che ha messo in pericolo questo grande progetto di modernizzazione, che comunque è diventato impossibile, perché non c’è Terra a sufficienza per contenere il suo ideale di progresso, di emancipazione e di sviluppo.3 Sono quindi tutte le appartenenze – al globo, alle province, ai territori, al mercato mondiale, ai suoli e alle tradizioni – a subire una metamorfosi.
Dobbiamo confrontarci con quello che è letteralmente un problema di dimensioni, di scala e di insediamento: il pianeta è troppo piccolo e limitato per il globo della globalizzazione; ed è troppo grande, infinitamente troppo grande, troppo dinamico e complesso per essere contenuto nelle frontiere ristrette e limitate di una qualsivoglia località. Siamo tutti doppiamente travalicati: dal troppo grande come dal troppo piccolo.
E, alla fine, nessuno ha la risposta alla domanda: come trovare un suolo abitabile? Né i fautori della mondializzazione (sia plurale sia univoca) né quelli del locale (sia plurale sia univoco). Non sappiamo dove andare, né come abitare né con chi coabitare. Come si fa a trovare un posto? Come possiamo orientarci?
1. L’idea di un fronte di modernizzazione e di come esso divida i sentimenti politici è sviluppata in B. Latour, Non siamo mai stati moderni, tr. it. Elèuthera, Milano 2015.
2. K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, tr. it. Einaudi, Torino 2000.
3. Per convenzione, “terra” con la minuscola si riferisce al quadro tradizionale dell’azione umana (degli esseri umani nella natura) e “Terra” con la maiuscola a una potenzialità di azione alla quale si riconosce, pur non essendo pienamente istituita, una qualche funzione politica.