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Dobbiamo ringraziare i sostenitori di Donald Trump per avere ben chiarito tutta questa problematica quando lo hanno spinto a ritirarsi, il 1o giugno 2017, dall’accordo di Parigi sul clima.

Ciò che la militanza di milioni di ecologisti, gli allarmi lanciati da migliaia di scienziati, l’azione di centinaia di industriali non sono stati capaci di ottenere, e su cui nemmeno papa Francesco è stato in grado di attirare l’attenzione,1 è riuscito a Trump: tutti ormai sono consapevoli della centralità della questione climatica per le poste in gioco geopolitiche e di quanto essa sia strettamente legata alle ingiustizie e alle disuguaglianze.2

Ritirandosi dall’accordo Trump, pur senza dichiarare apertamente una guerra mondiale, ha definito il teatro delle operazioni: “Voi e noi americani non apparteniamo alla stessa terra. La vostra può essere minacciata, la nostra non lo sarà!”.

Vengono così tratte le conseguenze politiche e ben presto militari, in ogni caso esistenziali, di ciò che aveva predetto Bush padre nel 1992 a Rio: “Our way of life is not negotiable!”. Ecco, se non altro le cose sono chiare: non esiste più l’ideale di un mondo condiviso da quello che finora si è chiamato l’“Occidente”.

Primo evento di portata storica: la Brexit. Il paese che aveva inventato lo spazio senza limiti del mercato sia per mare sia per terra; il paese che ha continuato a spingere l’Unione Europea a non essere altro che un enorme centro commerciale è lo stesso che, di fronte all’irruzione di alcune decine di migliaia di rifugiati, decide di punto in bianco di non stare più al gioco della globalizzazione. Alla ricerca di un impero da tempo scomparso, tenta di svincolarsi dall’Europa (a costo di difficoltà sempre più inestricabili).

Secondo evento di portata storica: l’elezione di Trump. Il paese che aveva imposto al mondo il suo modello di globalizzazione, e lo aveva fatto con violenza; il paese che aveva fondato la propria identità sull’emigrazione eliminando i suoi primi abitanti è lo stesso che affida il proprio destino a colui che promette di isolarlo in una fortezza, di non far più passare i rifugiati, di non andare più in soccorso di una causa che non sia quella del proprio suolo, pur continuando a intervenire dappertutto con la stessa sconcertante disinvoltura.

La nuova attrazione provata per le frontiere da coloro che ne avevano predicato lo smantellamento sistematico segna già la fine di una certa concezione della globalizzazione. Due dei maggiori paesi del “mondo libero” dicono agli altri: “La nostra storia non avrà più niente a che vedere con la vostra; andate al diavolo!”.

Terzo evento di portata storica: la ripresa, l’estensione, l’ampliamento delle migrazioni. Nel momento stesso in cui ciascun paese avverte le molteplici minacce della globalizzazione, molti devono organizzarsi per accogliere sul proprio suolo milioni di persone – alcuni parlano di decine di milioni!3 – che l’azione congiunta di guerre, fallimenti dello sviluppo economico e mutamento climatico spinge alla ricerca di un territorio abitabile per sé e i per i propri figli.

Si potrebbe dire che è un problema vecchio. Ma non è così, perché in realtà questi tre fenomeni sono aspetti diversi di un’unica metamorfosi: la nozione stessa di suolo sta cambiando natura. Il suolo sognato dalla globalizzazione comincia a venir meno. È tutta qui la novità di quello che si chiama eufemisticamente “crisi migratoria”.

Se l’angoscia è così profonda è perché ciascuno di noi comincia a sentirsi mancare la terra sotto i piedi. Scopriamo più o meno oscuramente che siamo tutti in migrazione verso territori da riscoprire e rioccupare.

E questo succede a causa di un quarto evento di portata storica, il più importante e il meno discusso: Parigi, 12 dicembre 2015, l’accordo sul clima, al termine della conferenza denominata cop21.

La cosa importante per misurarne l’impatto non è ciò che i delegati hanno deciso; e nemmeno l’applicazione o no dell’accordo (che i negazionisti faranno di tutto per neutralizzare); l’importante è che, quel giorno, tutti i paesi firmatari, anche se plaudivano al successo dell’improbabile accordo, hanno al tempo stesso realizzato con terrore che, se avessero continuato ad attenersi alle previsioni dei loro rispettivi piani di modernizzazione, non sarebbe esistito un pianeta compatibile con le loro aspettative di svilup-po.4 Ce ne vorrebbero molti, di pianeti; ma purtroppo ce n’è solo uno.

Ora, se non ci sono pianeta, terra, suolo, territorio sufficienti a ospitare il Globo della globalizzazione verso la quale tutti i paesi hanno preteso di dirigersi, allora più nessuno ha, per così dire, un tetto assicurato.

Ciascuno di noi si trova quindi di fronte alla seguente alternativa: “Continuiamo ad alimentare sogni di fuga o ci mettiamo alla ricerca di un territorio abitabile per noi e i nostri figli?”.

O neghiamo l’esistenza del problema o cerchiamo di toccare terra. Questa è ormai la discriminante per tutti, molto più del sapere se siamo di destra o di sinistra.

Ciò vale sia per i vecchi abitanti dei paesi ricchi sia per i loro futuri abitanti. I primi perché capiscono che non c’è pianeta adatto alla globalizzazione e che dovranno cambiare i propri stili di vita; i secondi perché hanno dovuto lasciare il loro vecchio suolo devastato e imparare, a loro volta, a cambiare completamente modo di vivere.

In altri termini, la crisi migratoria è generalizzata.

Ai migranti venuti dall’esterno, che devono attraversare frontiere al prezzo di immense tragedie per lasciare i propri paesi, bisogna d’ora in poi aggiungere i migranti dall’interno, che subiscono, restando sul posto, il dramma di vedersi abbandonati dai propri paesi. Ciò che rende la crisi migratoria così difficile da concettualizzare è il fatto di rappresentare il sintomo, più o meno lacerante, di una prova comune a tutti: la prova di ritrovarsi privati di una terra.

È questa prova a spiegare la relativa indifferenza per l’urgenza della situazione, e il perché siamo tutti quietisti climatici dal momento che speriamo che, senza far nulla, tutto “alla fine si aggiusterà…”. Non possiamo fare a meno di chiederci quale sia l’effetto, sul nostro stato mentale, delle notizie relative alle condizioni del pianeta che ascoltiamo tutti i giorni. Come non sentirsi intimamente rosi dall’ansia per non saper trovare una risposta?

Proprio tale inquietudine, al tempo stesso personale e collettiva, rende così importante l’elezione di Trump, che altrimenti non sarebbe stata altro che la sceneggiatura di una mediocrissima serie televisiva.

Gli Stati Uniti avevano due soluzioni: rendendosi conto della portata del mutamento climatico e dell’immensità della loro responsabilità, potevano diventare finalmente realistici portando il “mondo libero” fuori dall’abisso oppure sprofondarvi continuando a negarlo. Coloro che si nascondono dietro Trump hanno deciso di far sognare ancora qualche anno l’America ritardando l’impatto con il suolo, e trascinando così gli altri paesi nell’abisso – forse definitivamente.


1. I cattolici hanno fatto di tutto per ignorare il legame tra povertà e disastro ecologico, che è invece chiaramente articolato nell’enciclica di papa Francesco, Laudato si’, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2015.

2. Persino il presidente Macron, in genere indifferente a tali problematiche, si è sentito in obbligo di farla propria e lanciare #MaketheEarthGreatAgain!

3. D. Ionesco, D. Mokhnacheva, F. Gemenne, Atlas des migrations environnementales, Presses de Sciences Po, Paris 2016.

4. La lettura degli indc (nel gergo dell’onu, Intended Nationally Determined Contributions) preparati per la cop21 presenta il progetto di sviluppo di ogni paese (si veda il sito diplomatie.gouv.fr./fr/politique-etrangere-de-la-france/climat/paris-2015-cop21/les-con tributions-nationales-pou-la-cop-21, consultato il 7 agosto 2017).