Conferenza VIII
Come governare territori (naturali) in lotta?

Al “Teatro delle negoziazioni”, Les Amandiers, maggio 2015 – Imparare a riunirsi senza un arbitro superiore – Estensione della Conferenza delle Parti ai Non Umani – Moltiplicazione delle parti interessate – Tracciare le zone critiche – Riscoprire il significato dello Stato – Laudato si’! – Affrontare finalmente Gaia – “Terra, terra!”

Temevo che non sarebbero venute. Quando si sono apprestate a salire sul palco, delegazione dopo delegazione – “Foresta” dopo “Francia”, “India” accanto a “Popoli indigeni”, la delegazione “Atmosfera” prima di quella dell’“Australia”, “Oceani” dopo “Maldive”, ciascuna presentandosi con orgoglio, a parità di sovranità con tutte le altre –, ho cominciato a crederci. Quando, dopo tre giorni e una notte in bianco, le delegazioni sono tornate in scena per presentare al pubblico il risultato dei lavori, sfinite ma sempre padrone del loro gioco, ho capito che questi giovani, venuti da una trentina di paesi, avevano superato ogni mia aspettativa. Al teatro Les Amandiers, quel fine settimana di maggio 2015, credo davvero di aver visto comparire in alcuni momenti – facendo capolino dal fumo di cui il regista Philippe Quesne adora ammantare i suoi spettacoli – qualcosa come il “nuovo nomos della Terra”, quel nomos promesso da Schmitt ai “costruttori di pace”. Qualcosa che, nel mio entusiasmo, qualificherei come costituente. Per avviare questa ultima conferenza, vorrei presentarvi alcuni elementi del diritto costituzionale della Terra esplorato dalle delegazioni di studenti1.

Figura 8.1 ©Foto B. L.

Il palco del teatro Les Amandiers

il 31 maggio 2015, ultimo giorno di simulazione

della Conferenza COP21, all’interno del progetto Make it Work.

Come può accordare un qualche credito, mi direte, a una sorta di gioco che dei ragazzi stanno inscenando sul palco di un teatro? Gli attribuisco la stessa importanza dell’attività egualmente fragile, egualmente provvisoria, egualmente scomoda del pensiero. La scenografia allestita da Frédérique Aït-Touati per ricreare sul palco la simulazione di una negoziazione sul clima non è né più né meno illuminante della lettura di pagine di filosofia politica o della scrittura così esitante di queste conferenze. Quando si tratta di misurarsi con l’evento Gaia, bisogna dare fondo a tutte le risorse. Se sono l’ultimo a stupirmi del fatto che due centinaia di studenti possano risolvere un problema insolubile di geopolitica è perché il passo di una ballerina mi ha allertato per primo sulla necessità di mettermi all’opera. Peraltro, ho appreso di più dagli attori di Gaïa Global Circus che improvvisavano scene nelle luminose celle dei monaci della Certosa di Villeneuve-lès-Avignon che dalle innumerevoli opere di letteratura cosiddetta “ecologica2”. Cos’altro ho fatto, in queste pagine, se non commentare a mia volta, con ulteriori improvvisazioni, la loro “scrittura scenica” che interpretava le mie? I personaggi concettuali si muovono come meglio desiderano, da parete a parete.

A ogni modo, il concetto di un nuovo nomos della Terra può apparire soltanto come una finzione. Ricordate l’opera di invenzione indispensabile, un tempo, per fare emergere questo essere improbabile chiamato popolo o, più tardi, questione sociale? Come immaginare che si possa scoprire in un sol colpo, al solo pensarci intensamente, a cosa potrebbero somigliare le negoziazioni di pace fra territori in lotta? Se, come dice la massima, “la politica è l’arte del possibile3”, devono pur esserci delle arti capaci di moltiplicare questi possibili.

Esiste d’altronde un legame affascinante fra il principio della simulazione politica e quello della modellizzazione scientifica4. La nostra conoscenza del mutamento ecologico si basa sulle campagne di misurazione a lungo termine ma anche su modelli, che costituiscono il solo modo di approcciarci a fenomeni la cui complessità supera ogni capacità di analisi. Degli anelli che cominciano ad aggiungersi, l’uno dopo l’altro, alla nostra esistenza rendendoci consapevoli, ogni giorno di più, delle retroazioni reciproche fra le agency del mondo terrestre, bisogna farne un modello – una finzione – prima di poterli verificare nella realtà. A ogni generazione di modelli possiamo aggiungere nuove variabili, complicando ulteriormente una immagine del mondo che diventa progressivamente sempre più realistica – e sempre più complessa da calcolare! In maniera analoga, a ogni simulazione politica possiamo aggiungere nuove delegazioni, nuovi rappresentanti, complicando sempre più una immagine della cosa pubblica che diviene progressivamente sempre più realistica – e le cui derive sono sempre più difficili da controllare! Complicare i modelli del mondo e implicarvi coloro che ne sono interessati per poi comporre: ecco, mi sembra una definizione comune alle scienze, alle arti e alla politica.

È esattamente ciò che è successo in questo “teatro delle negoziazioni”, nel maggio 2015, e che conferisce a questo episodio apparentemente pedagogico una dimensione costituente. In effetti, sostengo che questo modello ridotto – 41 delegazioni, 208 delegati – sia più realistico del mondo reale in scala 1:1 e in particolare di questa famosa Conferenza delle Parti, o COP in inglese, di cui si intendeva prefigurare la XXI edizione a Parigi, nel dicembre 2015. Osservando i delegati – nella sala cosiddetta “trasformabile” che avevano preferito all’aula magna, troppo formale ai loro occhi – decidere che avrebbero preso posto a loro piacimento e per tutto il tempo necessario, mi perdonerete di non aver potuto fare a meno di pensare alla sala del Jeu de Paume e a quel momento, il momento decisivo, in cui, il 20 giugno 1789, gli Stati Generali avevano deciso di non sedere più per ordini – nobiltà, clero e Terzo Stato –, ma di riunirsi in Assemblea costituente!

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Prima di trasformarsi in tutt’altra cosa, gli Stati Generali sono stati convocati, come sappiamo, per risolvere una semplice questione di tassazione. Analogamente, fatte le debite proporzioni, partendo dalla questione del clima, la simulazione si è data tutt’altri scopi. Se il modello è più realistico è innanzitutto perché coloro che lo hanno sviluppato avevano deciso di non concentrarsi sull’interrogativo insolubile della riduzione delle emissioni di CO2 per tentare di restare al di sotto della soglia fatidica dei 2°C di riscaldamento. In effetti, l’eccellente libro di Stefan Aykut e Amy Dahan5 li aveva persuasi che il regime climatico non potesse condurre ad altro che a un’impasse: come si poteva sostenere di risolvere la conseguenza remota – l’azione della CO2 sul meccanismo del clima – senza attaccare le sue cause imminenti – le decisioni multiple sugli stili di vita delle nazioni partecipanti? Un po’ come cercare di limitare l’uso delle armi da fuoco dopo averne promosso la libera distribuzione. Perché la negoziazione fosse realistica, era necessario concentrarsi, a differenza della COP reale, sui differenti modi di occupare i territori, e non soltanto sull’allocazione delle quote di CO2. Era un modo per premunirsi in anticipo contro il possibile fallimento della COP21, prefigurando le riforme procedurali che avrebbero dovuto eventualmente attuare.

Innanzitutto, era necessario considerare come un obiettivo irrealizzabile affidare ai soli Stati-nazione il compito di risolvere i problemi creati dai loro modi, assai utopici, in ogni caso molto poco terranei, di occupare le loro terre. Le frontiere statali, l’abbiamo visto nelle due conferenze precedenti, risolvono un problema che risale a quattro secoli fa, al fine, da una parte, di imporre la pace fra religioni ormai fuori controllo e, dall’altra, di assicurare la presa illimitata di terre possedute sino ad allora da altri collettivi. Quattro secoli più tardi, dopo l’espansione imperiale, la colonizzazione, la decolonizzazione, la globalizzazione, non c’è più nulla di realistico in un’assemblea di 195 Stati. Anche se riuscissero a raggiungere un accordo, tutti i problemi che li assillano sfuggirebbero loro in ogni caso, poiché si sono ingarbugliati gli uni agli altri nella maniera più inestricabile, al punto da divenire, come si suol dire, trasversali.

Ah, direte, ma naturalmente bisogna trattare tutti questi problemi in “maniera globale”! E, tuttavia, è a questa utopia che si dovrebbe evitare di cedere. Malgrado la parola “parti”, i membri della COP non sono le parti di un Tutto più grande che permetterebbe di unificarle attribuendo a ciascuna un ruolo, una funzione e dei limiti, ma le parti, in senso diplomatico, in una negoziazione che non può avere inizio proprio perché non vi è più un arbitro superiore – né la forza, né il diritto, né la natura. Per combattere il dilagare del buonismo che accompagna troppo spesso la questione ecologica, bisognerebbe risolversi a non riunirsi sotto un principio superiore comune. Ritroviamo qui la figura del Globo che – abbiamo imparato nel corso di queste conferenze – è non soltanto inverosimile, ma moralmente, religiosamente, scientificamente e politicamente deleteria. Questo era il punto di partenza degli studenti, a maggio, per avviare la loro simulazione. Questo è il rischio che hanno accettato di correre: né Dio né Natura – e quindi nessun Maestro!

Stiliamo l’elenco dei principi superiori comuni che hanno acconsentito a non invocare. Hanno compreso, in primo luogo, che non bisogna fare affidamento sul miraggio di un governo mondiale che potrebbe, con un miracolo di coordinamento e buon governo, attribuire a ciascuno la sua parte di CO2 o di compensazione finanziaria, sotto pena di sanzioni. Pur avendo diritto a sognarlo, l’assenza di un governo planetario è sin troppo evidente. È dell’Onu che bisogna chiedersi quello che Stalin si chiedeva del Vaticano: “Quante divisioni?”. Le procedure snelle della COP non servono qui né per prefigurare questo governo mondiale né per sostituirlo, ma semplicemente per allentare, se possibile, lo stato di guerra.

Ma, in secondo luogo, non c’è più Natura globale capace, se soltanto tutti si volgessero a essa, di mettere a tacere tutte le divergenze. Non si è ancora visto un solo caso in cui l’appello alle Leggi della Natura abbia permesso l’allineamento automatico degli interessi. Come ho visto scritto sulle pareti del teatro Les Amandiers: “Il pianeta blu non unifica!”. In terzo luogo, la Scienza della natura non ha più la capacità di mettere tutti d’accordo. Anche senza la pseudo-controversia montata dai clima-scettici, se c’è una cosa che è sempre bene evitare è un governo di scienziati. L’umanità non è il loro forte, e per fortuna6.

Ciò che è interessante in questo esperimento è che gli studenti hanno inoltre compreso – sebbene sia per loro più difficile da ammettere – che le Leggi del Mercato note alla Scienza economica non possono fungere da Cupola sostitutiva, da Globo, da Assoluto, da Dio-Mammona, in grado di imporre decreti indiscutibili su tutto ciò che consuma, produce, compra e vende. Anche se, per un paradosso che non ha mai smesso di sorprendermi, il buon senso tende ad attribuire maggiore certezza indiscutibile alle leggi dell’economia capitalistica che a quelle della natura – entrambe fuse peraltro nel tema comune della naturalizzazione7 –, sembra comunque difficile non tenere conto del fatto che da dieci economisti si possono trarre almeno quindici consigli contraddittori sulla politica da mettere in atto. Pur con tutti i suoi assemblaggi di tecniche utili l’economia non può offrire più delle altre scienze alla Grande Unificazione delle Leggi del Pianeta. Volendo economizzare l’ecologia, state aggiungendo a una molteplicità vertiginosa altrettanta molteplicità.

Se esistesse un governo mondiale, una Natura unitaria, una Scienza universale o una Economia che operasse secondo leggi intangibili, i delegati si sarebbero riuniti, come abbiamo visto nella conferenza precedente, sotto l’egida di ciò che è necessario chiamare un (quasi-)Stato della Natura. Poco importa che questo Stato possa sembrare secolare o profano, sarebbe stato apolitico nel senso che avrebbe mantenuto la finzione di un arbitro sovrano a cui le delegazioni avrebbero potuto fare appello per porre fine ai disaccordi. I delegati avrebbero rivestito una funzione, ricoperto un ruolo, seguito un copione. Non avrebbero fatto altro che imitare semplici operazioni di polizia. Le loro delegazioni sarebbero state parti, nel senso insieme giuridico e organizzativo del termine, poiché sarebbe bastato loro obbedire alle regole. I giovani delegati si sarebbero divertiti molto, forse, ma allo stesso modo in cui si appassionano a una partita di Risiko o Dungeons & Dragons. Nessuna invenzione politica sarebbe stata necessaria, non si sarebbe configurato nulla di costituente.

Ciò che ha reso realistica la simulazione del maggio 2015 al teatro Les Amandiers era che le delegazioni si sono riunite in assenza di scappatoie, vie di fuga, senza un altrove, senza appello, senza sovrano esterno, senza alcun riferimento a una Cupola, una Tenda, un Dais capace di ripararli. Peraltro, quando le delegazioni, il primo giorno, si sono presentate le une alle altre, erano sporadiche le allusioni alla Natura, all’Umanità, al Pianeta, al Globo. Ogni delegazione parlava solo di sé. Ognuna si sapeva sola. Ognuna sapeva che le altre erano sole. Nulla le unificava in partenza. Il loro superiore comune era solo la cornice fittizia proposta dal segretariato che le aveva riunite e che avevano provvisoriamente accettato. Nulla di più di un middle ground, una tregua fra due fazioni in lotta8. Solo la minuscola finzione di trovarsi sulla scena, in un teatro, per quattro giorni, circondato da un minimo di arredo progettato appositamente9, definiva i limiti totalmente artificiali – e riconosciuti come tali. È perché non c’era nulla di naturale nell’esercizio che era realistico! Poiché nulla era scritto in anticipo, poteva fallire. E di fatto ha fallito più e più volte.

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E ancora, coloro che hanno progettato questo evento dovevano essere capaci di dare una qualche verosimiglianza a questo interno senza un arbitro esterno. Se sottolineo alcune innovazioni decisive che sono state introdotte è perché sono convinto che serviranno in futuro quando bisognerà intraprendere vere negoziazioni di pace10.

La prima innovazione, la più radicale, quella che è però apparsa scontata, quasi ovvia: non possiamo più lasciare che gli Stati-nazione occupino da soli la scena. È proprio per evitare questa utopia che dobbiamo aggiungere delle delegazioni non statali. Non più perché rappresenterebbero interessi superiori a quelli dell’Umanità ma, più semplicemente, perché sono altre potenze, possedute da altri interessi11, che esercitano sui primi una continua pressione e formano di conseguenza altri territori, altri tòpoi. Il punto decisivo è che le delegazioni il cui nome ricorda antichi elementi cosiddetti della “natura” – “Terra”, “Oceani”, “Atmosfera”, “Specie in via di estinzione” – non sono qui per naturalizzare la discussione, ricordando agli umani le necessità del loro “ambiente”, ma al fine di ripoliticizzare la negoziazione, impedendo alle coalizioni di formarsi in maniera troppo affrettata a spese di altre.

Ecco perché era importante che queste delegazioni non convenzionali si presentassero con lo stesso sistema e secondo un protocollo identico, comune agli Stati antichi o nuovi: ogni delegazione era formata allo stesso modo, si esprimeva nella stessa lingua (in questo caso, in inglese) e tutte erano rappresentate esattamente dagli stessi giovani in abito da sera o in giacca e cravatta… Nessuna bizzarria era ammessa. La delegazione “Oceano” non fingeva di parlare per conto di tempesta e tsunami, non più di quanto “Atmosfera” non vestisse i panni di Bora, né “Terra” quelli di una zolla brulicante di lombrichi12. Sul palco erano rappresentati solo interessi potenti, capaci di designare le altre parti interessate come loro nemici. Per esempio, le azioni di un paese che acidifica gli oceani al punto da trasformarli in deserto costituivano l’evidenza certa della sua colpa che andava a ricadere sul quasi-dominio “Oceano”, scatenando la replica immediata di quest’ultima delegazione: “Ciò che voi, delegazione ‘Stati Uniti’ o ‘Australia’, fate subire al nostro dominio, noi lo consideriamo inaccettabile per la nostra sovranità. Opponendoci a voi, definiamo il limite del nostro territorio e ridefiniamo la forma del vostro”.

È una finzione, certo, ma la finzione riguarda esclusivamente l’idea di conferire, per mezzo dell’uso della prosopopea, eguale sovranità a tutti gli interessi. Non è difficile comprendere lo stupore di un sovrano, intento a sorvegliare pacificamente il suo dominio, nell’udire all’improvviso la replica veemente di territori che cominciano a urlare: “Questo non è più tuo!”. La direzione della presa, della conquista di terra è immediatamente invertita, e, con essa, la definizione stessa di ciò che significa, per qualsiasi potenza, possedere una terra. Finora, questi interessi, queste imbricazioni, non erano presenti nel dibattito se non come dati che delineavano il quadro in cui operavano le delegazioni statali. I dati erano lì, certo, presenti, ma muti e disanimati. In ogni caso, dedrammatizzati. Formavano un quadro, non erano agenti. Erano cifre, non una voce, non un dramma, non un ruolo nello svolgimento di una trama. In altre parole, eravamo ancora nell’Olocene: la terra non stava reagendo alle azioni umane. Tutto cambia quando si dà alle agency una figurazione compatibile con quella di altre agency. Allora, la redistribuzione può cominciare.

Se accettate di definire il territorio non come un segmento di mappe bidimensionali, ma come ciò da cui un’entità dipende per la sua sussistenza, ciò che può essere reso esplicito o visualizzato, ciò che un’entità è pronta a difendere, allora ogni drammatizzazione, anche fittizia, di attori che lo compongono modificherà la composizione dello scenario13. Poco importa la figurazione da cui partite: ciò che conta è la reattività delle parti interessate. Se vi stupite del fatto che alla “Foresta” sia data una voce, allora dovete stupirvi anche quando un presidente parla in rappresentanza della “Francia”. Ogni soggetto giuridico ha molto da dire e si può esprimere solo con una vertiginosa serie di intermediari indispensabili. Se ci sono voluti decenni per accettare che la definizione della democrazia come volontà del popolo sovrano corrispondesse, seppur vagamente, a una realtà, è da una finzione che bisognerà cominciare. “Cosa? Il popolo sovrano? Ma dove avete la testa?” “Cosa? Una delegazione della Foresta? Ma non pensateci nemmeno!”. Gli studenti ci hanno pensato e la cosa non sembra aver rappresentato un problema per loro.

Mi sono divertito molto a osservare che le negoziazioni non si sono mai arenate su simili obiezioni. È con notevole gentilezza e senza il minimo imbarazzo che l’infaticabile presidente, Jennifer Ching, si rivolgeva tanto a “Terre” o ad “Amazzonia” quanto a “Canada” o “Europa”. Se la finzione sembrava così verosimile è perché si presumeva che ogni delegazione fosse in grado di parlare, cosa che è evidentemente più facile in un teatro avvezzo a sentire risuonare la voce dei cori, delle divinità, dei mostri o delle fate sotto le travi. Ma anche perché tutti i dispositivi di parola condividono la stessa stranezza, che si tratti di rappresentare umani (che non parlano) o non umani (che sono fatti parlare). Per i Terranei, la questione non si pone più: sono agiti da troppi agenti articolati per potersi credere i soli a parlare. Questo è forse l’unico vantaggio di vivere nell’epoca dell’Antropocene.

A ogni modo, parlare con qualche autorità è sempre interpretare ciò che direbbero attori muti se soltanto potessero parlare – ed essere interrotti da un altro che afferma che queste parti mute stanno dicendo qualcos’altro! Il dubbio sulla rappresentanza sorge solo al momento dei conflitti, quando la disputa diventa tesa e qualcuno si oppone a ciò che dice un prescelto, uno scienziato, un esperto, un cittadino, su quello o quell’altro stato del mondo, al punto da porre la domanda: “Come lo sai? Quali prove hai?”. È finito il tempo in cui gli umani si parlavano fra loro di fronte a una platea di cose inerti. Se parlano un linguaggio articolato è perché il mondo lo è altrettanto14. Ciò che è messo in dubbio nella negoziazione è la qualità della rappresentanza, e non più il principio della rappresentatività stessa15. Ciò che i moderni avevano dimenticato il Nuovo regime climatico è venuto a ricordarglielo.

È peraltro assai poco sorprendente che questo principio di rappresentazione sia stato sviluppato dagli scienziati in relazione alle cose del mondo, prima di mutare in un principio di rappresentanza politica di queste stesse cose, divenute altrettanti oggetti di controversia e preoccupazione. Senza la scienza, i mutamenti ecologici sarebbero rimasti invisibili. In qualche modo, gli scienziati sono stati gli attivisti di questa nuova questione sociale. Sono loro che, per primi, li hanno politicizzati – nel senso buono del termine – divenendo i loro rappresentanti e introducendoli nelle antiche questioni della democrazia e del governo rappresentativo. Sono loro che hanno messo l’acidificazione dell’oceano così come la spoliazione delle terre al centro dell’agenda politica delle assemblee rappresentative. Tutto quello che dobbiamo fare ora è continuare ciò che hanno iniziato.

Questa obiezione di principio che tanto ossessiona i giornalisti (“Come potete affermare di ‘rappresentare’ gli oceani o l’atmosfera?”) disturbava tanto meno i delegati in quanto avevano, tutti, incluso scienziati nella loro delegazione, ma senza dare loro un ruolo più elevato di mero portavoce tra gli altri. Le scienze non erano né fuori gioco, né relegate ai margini, né elevate a una posizione di superiorità in relazione agli altri giocatori. Ecco un’altra innovazione assai astuta. Ogni delegazione dava a suo modo un apporto in termini di ricerca, strumentazione, tecnologia, competenza, per potere rispondere alle questioni sulla qualità della rappresentanza di quello o quell’altro interesse, di quello o quell’altro Stato del mondo16. In ogni caso, la Scienza non era più lì per dettare il quadro generale in cui la negoziazione doveva necessariamente avere luogo. La loro oggettività non era messa in dubbio, bensì soltanto la loro unificazione. Neanche in questo caso dobbiamo più aspettarci di appellarci a una qualche autorità esterna. Questa prima assemblea postnaturale era anche postepistemologica.

Se questa distribuzione delle scienze sembra indebolire l’autorità che in ogni caso non hanno mai avuto, garantisce in cambio un posto privilegiato ai ricercatori che sono portati a essere ovunque. Si dimostrano in grado di difendere alfine l’originalità, la potenza, gli interessi di esseri di cui sono i portavoce e che possono incarnare – rappresentare, interpretare –, con le loro contraddizioni e le loro controversie in tutte le negoziazioni, per cercare di ridefinire le linee. La conoscenza situata è molto più realistica della conoscenza da Nessun Luogo o che sostiene di essere al di sopra delle parti. Siamo stati tutti confermati nelle nostre opinioni quando abbiamo visto Jan Zalasiewicz – il signor Antropocene in persona! – condividere una notte frenetica fra i delegati, senza essere in alcun modo sconvolto da questa innovazione. Perché sa, meglio di chiunque altro, quanto sia difficile creare consenso fra gli scienziati e in quante delicate negoziazioni si trovino implicati i geologi del gruppo di lavoro della Sottocommissione sulla nomenclatura del Quaternario che presiede17!

Era quindi molto importante che nessuno affermasse di rappresentare La Natura concepita nella sua globalità e che nessuna delegazione ambisse, per esempio, a interpretare la “voce di Gaia”. Tutta la politica ne sarebbe stata immediatamente svuotata. È a questo punto che diviene politicamente, e non più scientificamente, capitale non considerare Gaia un Sistema unitario. Se tutta l’astuzia di Lovelock, come ho cercato di mostrare, consiste nel disaggregare il sistema in una molteplicità di attori capaci di invadere, di sconfinare nell’azione degli altri, è di questa dis-aggregazione delle agency che bisogna ottenere la traduzione politica perché gli sconfinamenti dei territori gli uni negli altri diventino alfine chiaramente visibili18. Di qui l’importanza di moltiplicare (nel contesto certamente limitato del modello ridotto) gli un tempo esseri della natura. È a questo punto che, al posto del rapporto antico fra l’ordine di una società e l’ordine naturale che gli servirebbe da cornice, di una geografia umana stratificata al di sopra di una geografia fisica, si cominciano a definire le frontiere amico/nemico, e quindi a tracciare i fronti di territori in lotta.

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Piano piano, stiamo scivolando da conflitti tradizionali fra Stati-nazione verso conflitti fra territori. Il pluralismo delle delegazioni, tutte egualmente legittime, fa presentire che i rapporti fra i modi differenti di intrecciare gli interessi stanno infine diventando veramente conflittuali poiché non c’è più una via di fuga. Gli studenti non tentavano di stabilire una nuova versione del Whole Earth Catalog19. Ciò che interessava loro, al contrario, era qualcosa di simile a una redistribuzione delle terre, l’equivalente fittizio di una immensa riforma agraria! A partire da questo momento, le parti interessate si sono davvero appassionate al gioco. Anche se, nel linguaggio della “governance”, il termine “parte interessata” sembra piuttosto blando, è sufficiente, per riscoprirne la virulenza, sottolineare la parte, la porzione che si tratta di prendere, verso cui si nutre interesse, e ricordarsi che si tratta di strapparla a coloro che la detengono. Se le parti interessate [prenantes] si moltiplicano, diviene sempre più difficile restare nella posizione di parte detentrice [tenante]! Questa è stata l’esperienza delle delegazioni degli Stati-nazione: hanno trovato a chi rivolgersi… Riscontriamo qui il parallelo con la situazione rivoluzionaria che non ho potuto evitare di evocare, quando gli ordini tradizionali hanno rifiutato di riunirsi separatamente.

Tuttavia, la scena di conflitto costruita in tal modo sarebbe risultata di scarso interesse se coloro che l’avevano sviluppata avessero confinato le delegazioni non statali al rango degli un tempo oggetti “materiali”. Saremmo inevitabilmente tornati a opporre Umani e Natura, ricadendo nel vecchio dualismo Natura/Cultura che avrebbe paralizzato l’intera discussione. Sarebbe stato impossibile lottare contro questo schema – ne conosciamo bene la forza – senza introdurre delegazioni non statali che non si definiscono eredi degli antichi oggetti “materiali” finalmente dotati della parola. Di qui l’apporto fondamentale che hanno dato le delegazioni “Città”, “Popoli indigeni” o “Organizzazioni non governative20”. È allora che cominciamo a comprendere che il contributo delle delegazioni non statali non consiste nella “preoccupazione per la natura” ma in un’azione corrosiva contro la delimitazione di territori di cui gli Stati-nazione continuano a credersi i detentori esclusivi. Se “Terre”, “Atmosfera” o “Oceani” possono ancora sembrare la cornice (ex naturale) di un governo di uomini, le pretese di “Città”, “Ong” e “Popoli indigeni” a governare altrettanto vanno direttamente a erodere la logica stessa dell’esercizio del potere, nonché la sua proiezione amministrativa su una mappa bidimensionale.

E, tuttavia, siamo chiaramente consapevoli che ciò non sarebbe sempre sufficiente a rendere la simulazione realistica. Esistono in effetti certe potenze che agiscono costantemente in modo oscuro o surrettizio e che sembrano prendersi gioco dell’attività politica dei malcapitati Stati, divenuti nelle loro mani semplicemente delle marionette. Sono potenze riunite in un tutto unico quando si parla di “globalizzazione” o “mondializzazione”. Sono potenze che si pensa agiscano di nascosto e sono bollate col termine “lobby” – o persino mafie. “Bene”, si sono detti gli organizzatori, “se agiscono, se si oppongono l’un l’altra, se sono parti interessate o, meglio, parti arraffanti [arrachantes], allora non devono stare fuori, ma entrare all’interno, con eguale sovranità, esse stesse, di modo che possiamo sapere alfine come definiscono il loro territorio, chi sono i loro amici e i loro nemici, e per quale causa sono pronti a battersi, se necessario fino alla morte – il che significa generalmente la morte delle altre parti detentrici.” Di qui l’inclusione nella lista delle delegazioni “Potenze economiche”, “Organizzazioni internazionali”, nonché la delegazione più strana, ma che è stata una delle più efficaci, i “Beni petroliferi incagliati”, capace di distruggere gli altri paesi riducendo la loro ricchezza petrolifera a zero21.

Capite ora ciò che queste innovazioni hanno di costituente. Nella COP reale, tutti questi interessi, tutte queste parti interessate hanno un posto, ma all’esterno, sotto forma di innumerevoli campagne di influenza, lobbying, comunicazione, side-events. Nella sala di negoziazione, per contro, ci sono solo Stati, presumibilmente tutti uguali. All’interno, secondo un rigido protocollo, i paesi che tentano di ridurre l’impatto delle conseguenze remote – ciò che le emissioni di CO2 stanno causando all’apparato climatico –, in cerca di consenso; all’esterno, tutte le altre parti, divenute altrettanti gruppi di pressione, si scontrano nel caos più assoluto sulle cause prossime. Al teatro Les Amandiers gli organizzatori hanno deciso di posizionare tutte le parti all’interno di modo che non ci fosse più “esterno” e le parti interessate esercitassero le loro pressioni tutte insieme. Che ciascuno si batta sotto la propria bandiera22.

La regola di composizione è di un’estrema semplicità: ogni volta che qualcuno caratterizzerà un problema posto ai governi come trasversale, gli organizzatori cercheranno di inserirlo nella simulazione, dandogli forza, figura e voce. In altre parole, se desiderate arraffare una parte a un’altra, allora partecipate alla redistribuzione, ma non nascondete la mano. In base a questo principio, è necessario ora stabilire le delegazioni, non secondo la verosimiglianza della loro figurazione più o meno convenzionale o plausibile – “Terra” o “Città”, “Atmosfera” o “Congo”, “Ong” o “Artico” –, ma secondo la loro capacità di opporsi alle altre esplicitando su quale territorio si trovano. Se una parte è in grado di “prendere” il territorio di un’altra perché quest’altra lo sta già occupando, invadendo o limitando, allora le si accorderà eguale sovranità. Non dovrà agire in segreto, dovrà presentarsi e dire quali sono i suoi interessi, quali sono i suoi obiettivi di guerra, chi sono i suoi amici e i suoi nemici, in breve dove si trova, cosa consente di spaziarla, di distanziarla dalle altre. Così facendo, renderà visibile alle altre il territorio che occupa o che la preoccupa.

È il problema della ripartizione della corrente e del sistema di illuminazione che mi sembra giustificare la connessione con un episodio costituente. È ciò che ha permesso agli studenti di scoprire che erano davvero in uno stato di guerra e che la negoziazione non aveva nulla a che vedere con la semplice ripartizione delle quote di CO2 sotto l’arbitrato implicito di uno Stato della Natura. Mentre Hobbes ha dovuto inventare una politica dopo decenni di spaventose guerre civili, il paradosso delle negoziazioni sul clima è che bisogna fare comprendere ai protagonisti che sono di fatto in guerra, mentre si credono in una situazione di pace!

Cosa cambia in fondo, direte? Tutto. Come possiamo leggere in qualsiasi manuale di geopolitica, ogni volta che una grande potenza ha visto emergere un’altra potenza le restanti hanno dovuto ricominciare da capo il calcolo dei loro interessi (come la Spagna, in passato, ha dovuto adeguarsi all’avanzata dei Paesi Bassi o, al giorno d’oggi, gli Stati Uniti a quella della Cina). È ciò che i trattati chiamano l’equilibrio dei poteri o il concerto discordante delle nazioni23. Immaginate come si agita, questo equilibrio, quando “Città” e “Terre” iniziano a esigere quanto loro dovuto; immaginate la musica potente che fa battere loro i piedi! Non c’è, qui, qualcosa che potrebbe riscaldare lo Stato, “questo mostro freddo”, facendolo danzare?

Ciò che la simulazione ci ha permesso di testare è che ci sono due direzioni possibili per governare in un periodo di mutamento ecologico: verso l’alto o verso il basso. Verso l’alto, facendo appello a un principio superiore comune, allo Stato della Natura. Sfortunatamente, quest’ultimo non solo non esiste ma depoliticizza l’intera negoziazione, divenuta quindi la mera applicazione di regole di distribuzione. Verso il basso, accettando di non avere alcun arbitro sovrano ma trattando tutte le parti interessate come aventi il medesimo grado di sovranità. La prima direzione è utopica, nel senso etimologico di ciò che è di “nessun luogo”; la seconda consiste nel darsi una terra. Una simile situazione non esiste più? È vero, ma perlomeno permette di ripoliticizzare la negoziazione con ciò che vi è di più essenziale: l’appartenenza a un territorio. Se la democrazia deve ricominciare, è dal basso; ed è un bene che si ricominci dalla terra, dal suolo, non c’è nulla di più basso! Volevate operare bottom-up? Bene, ecco a voi!

Ricordate forse la frase del generale de Gaulle: “Al club dei Grandi trovavamo, seduti ai posti migliori, tanti egoismi sacri quanti erano i membri iscritti24”. Il realismo in geopolitica esige di non credere mai che si potrà richiedere ai “membri iscritti” di abbandonare il loro “egoismo sacro” per il bene superiore di tutti. Il realismo in Gaia-politica consente nondimeno di chiedere alle parti interessate di definire in termini differenti ciò che questo egoismo deve difendere fino alla morte, modificando proprio il territorio che si tratta di difendere. Dopotutto, lo stesso generale de Gaulle sapeva bene che difendere la sua patria scegliendo di rimanere con le armi abbassate, immobile dietro la linea Maginot, o mobilitando divisioni corazzate, non significava affatto rimanere fedele allo stesso “egoismo sacro” – né alla stessa patria.

Questa è l’innovazione più importante della simulazione di maggio: nell’impossibilità di abbandonare la difesa serrata dei propri interessi, è fattibile allungare la lista di ciò a cui si è direttamente interessati? Se gli Stati-nazione si trovano condizionati da altre delegazioni che sostengono di esercitare la loro autorità sulla stessa terra, o su porzioni della stessa terra, come reagiranno? Come modificheranno la definizione di ciò a cui tengono, in fondo, più di ogni altra cosa? Entrate nella negoziazione con una idea dei vostri interessi, ne venite fuori con un’altra. A Realpolitik risponde Realpolitik al quadrato… Non è così, in fondo, che si apprende l’“arte brillante della diplomazia25”?

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Perché la simulazione al teatro Les Amandiers consentisse di istituire o instaurare Gaia, i delegati avrebbero dovuto realizzare due degli obiettivi che gli ideatori si erano dati; sfortunatamente, non sono riusciti a realizzarne neppure uno. Avevano previsto di chiedere alle delegazioni di visualizzare con mezzi appropriati le nuove forme di sovranità sovrapposte che stavano esplorando. Infine, nel corso della cerimonia conclusiva, avrebbero voluto che gli antichi Stati-nazione ridefinissero pubblicamente la loro sovranità di fronte alle altre delegazioni. Se si vuole che il nuovo nomos della Terra non sia solo una visione fugace sono questi due compiti che bisogna affrontare per completare l’esercizio.

Avrete forse notato che, nella conferenza III, abbiamo già incontrato la difficoltà di dare dei limiti precisi all’“egoismo sacro”. Ho cercato di mostrarvi come Lovelock si fosse preso gioco della strana idea del gene egoista, non perché dubitasse del fatto che i viventi si interessassero avidamente alla loro sorte – come potrebbe essere altrimenti? –, ma perché dubitava che si potessero assegnare dei limiti certi ai loro interessi26. È la distinzione stessa fra un organismo e il suo ambiente che la teoria di Gaia mette in discussione. Ritroviamo qui lo stesso problema della misurazione dell’egoismo – sempre così “sacrosanto” – non più di organismi, ma di Grandi Potenze. Questa volta è la distinzione stessa fra uno Stato e il suo ambiente che l’intrusione di Gaia obbliga a riconsiderare. Il fatto che i geni e gli Stati abbiano qualcosa in comune non può più stupirci poiché, in entrambi i casi, è dalle teorie organizzative, dalla scienza economica, dai formati contabili che prendiamo sempre a prestito la nozione di limite o calcolo. Tracciare i limiti degli interessi è l’azione più direttamente politica che ci sia27. È sempre qui che si dirime la questione della ripartizione delle agency (che è in fondo il solo soggetto di queste conferenze).

Contrariamente a quel che si crede in generale, la famosa tragedia dei comuni non nasce dall’incapacità degli individui di mettere da parte i loro interessi egoistici perché sarebbero incapaci di consacrarsi a lungo al “bene di tutti28”. La tragedia si genera dalla credenza recente in base alla quale si può calcolare l’interesse dell’individuo – statale, animale o umano, poco importa – in un solo modo, ossia ponendolo su un territorio che appartiene esclusivamente a lui e su cui regnerebbe sovranamente, e rimettendo poi “all’esterno” ciò che non deve essere preso in considerazione. È il termine tecnico “esternalizzazione” – sinonimo esatto di negligenza calcolata e, di conseguenza, di irreligione29 – che porta alla luce la novità nonché l’artificialità di questo tipo di calcolo. Per riscoprire il mondo comune – e forse anche il senso (del) comune –, la soluzione non è fare appello alla Totalità, che a ogni modo non esiste, ma imparare a rappresentare in maniera differente il territorio a cui si appartiene. Ciò permetterà di modificare quello che si richiede di difendere, in nome dell’egoismo sacro. Si tratta, in fondo, di internalizzare le invasioni, gli sconfinamenti innumerevoli di coloro dai quali, gradualmente, stiamo scoprendo di dipendere per la nostra sussistenza.

In termini di geopolitica, la questione equivale quindi a visualizzare sulla stessa terra diverse autorità sovrapposte. Gli olandesi, per esempio, hanno dimostrato di saper eleggere, allo stesso tempo, sin dal XIII secolo, i deputati chiamati a rappresentare i soggetti umani, ma anche i rappresentanti della direzione generale per la gestione idrica (Rijkswaterstaat), le cui decisioni sono rispettate attentamente dagli allevatori di vitelli, vacche, pollame, nonché dai floricultori di tulipani30. Si obietterà che non c’è nulla di straordinario nel fatto che un paese costruito artificialmente con dighe e polder dia alle potenze del mare e dei fiumi una rappresentanza degna della loro sovranità. Dopotutto, se i Maestri dell’Acqua sbagliano i loro calcoli, è l’intera Olanda che scomparirà, inghiottita dal mare del Nord allo stesso modo di Atlantide. Quando si tratta di vita e di morte, è normale che l’Acqua eserciti realmente un dominio riconosciuto e che sia quindi rappresentata dall’intermediazione di un potere che si aggiunge, si oppone, si sovrappone a quello del re e del Parlamento… È la prova in ogni caso che non c’è ostacolo alcuno a immaginare su uno stesso lotto di terra sovranità che sconfinano l’una nell’altra, come i poteri del papa e dell’imperatore nel Medioevo31.

Non c’è evidentemente nulla di naturale in un simile schema. Per convincersene è sufficiente comparare la situazione con quella dei produttori di mandorle della Central Valley in California. Anche loro dipendono talmente tanto dalle potenze dell’acqua che la loro verde vallata non dovrebbe essere altro che un deserto di sabbia bruciata dal sole32. Ma, poiché non c’è nessuno a rappresentare la falda acquifera da cui pompano con gioia sempre più in profondità nei periodi di siccità, ogni agricoltore ruba l’acqua del vicino, al punto di fare letteralmente sprofondare per subsidenza il livello del terreno sotto i loro piedi, offrendo così la migliore caricatura possibile della tragedia dei comuni33. Chi ha visto Chinatown34 sa che dipanare un intrico di interessi non è un’operazione esente da rischi… Contrariamente agli olandesi, gli agricoltori della Central Valley sono stati economizzati35 – modernizzati, naturalizzati, materializzati, poco importa l’aggettivo –, tanto da ritrovarsi inermi a fronteggiare il fenomeno di una calamità cosiddetta, a torto, “naturale”: penuria d’acqua e penuria di capacità di prendere in mano la situazione36. È strano constatare che i californiani ignorino ancora le procedure degli antichi comuni che, nel corso di millenni, avevano inventato dispositivi ingegnosi per distribuire l’acqua a tutte le parti interessate e gestire quindi le siccità. O piuttosto, è tragico, in effetti, constatare che si possa perdere volontariamente una competenza così essenziale per la propria sopravvivenza – il che dimostra che l’egoismo, per quanto “sacro”, non è comunque lucido!

Nel caso della Central Valley, la difficoltà di rappresentazione-rappresentanza è doppia: per un geologo, non c’è nulla di più difficile di mappare una falda acquifera i cui limiti non coincidono mai chiaramente con quelli del catasto. Ma, anche se vi riuscisse, come rappresentare l’acqua senza la finzione di un rappresentante, di un funzionario, di un ufficiale, di un intermediario che parlerebbe a suo nome, e soprattutto che potrebbe discutere faccia a faccia con i rudi agricoltori californiani? La finzione non risiede nel dare una voce all’acqua, ma nel credere che si possa fare a meno di rappresentarla con una voce umana, capace di farsi comprendere da altri umani. L’errore non è sostenere di rappresentare i non umani; lo facciamo in ogni caso in continuazione quando parliamo di fiumi, viaggi, futuro, passato, Stati, Legge o Dio. L’errore sarebbe ritenere possibile di prendere in considerazione questi interessi senza un umano che ne incarni, personifichi, autorizzi, rappresenti gli interessi. Questa personificazione, così necessaria al Leviatano per uscire dallo stato di natura, è ancora più indispensabile per i territori in lotta che stanno cercando di porre fine allo Stato della Natura37.

Capite ora perché ho tanto insistito sulla continuità da stabilire fra agency. Non esiste un acquifero oggettivo come definito dalla geologia, quindi un acquifero giuridico stabilito dalle complesse leggi sui terreni, e poi ancora, al di sopra di questo, un acquifero politico dell’acqua californiana. Non ci sono livelli; il mondo non è una millefoglie. L’acqua della falda acquifera della Central Valley vince o perde le sue proprietà, i suoi attributi, a seconda del modo in cui è associata ad altre agency. L’acqua esternalizzata da ogni trivellatura, stabilita “liberamente” da ogni proprietario indipendente, non è affatto la stessa acqua pazientemente monitorata dal Rijkswaterstaat dei Paesi Bassi. In assenza di un’adeguata rappresentanza, non ha le stesse proprietà e quindi gli stessi proprietari; ed è dunque impossibile per le parti interessate appropriarsene nella sostanza. È acqua in qualche modo rifiutata, disanimata – e presto svanita come quella di un miraggio. Quest’acqua è, in senso letterale, utopica.

Possiamo qui vedere tutta la bizzaria di ciò che abbiamo studiato nella conferenza VI, riassunta nel termine immanentizzazione, questa curiosa maniera di sfuggire all’immanenza, attraverso un appello spostato verso la trascendenza, e contemporaneamente alla trascendenza, per via di un cortocircuito troppo rapido con l’immanenza38. È questo miscuglio molto strano, molto moderno, anche molto perverso, che dà l’impressione agli umani di ricevere un bene loro dovuto in quantità infinita per un tempo infinito – come fosse caduto dal Cielo – e che, allo stesso tempo, sta scomparendo – come se, letteralmente, fosse stato inghiottito dalla terra. È questo miscuglio che fa passare coloro che si credevano in diritto di possederlo per sempre da un entusiasmo infinito per il futuro a una profonda disperazione per gli errori del passato. Esattamente il contrario, di conseguenza, dell’acqua ben governata degli olandesi, e quindi delimitata o, come si suol dire, appropriata. Il “buon governo” dell’acqua, delle terre, dell’aria, delle città o delle economie richiede un governo rappresentativo, e quindi dei portavoce, emblemi, figure, con cui poter parlare faccia a faccia. Con un “cattivo governo” ciò è impossibile. Sin da quando Lorenzetti ha dipinto il suo ciclo di affreschi a Siena, sappiamo che è soltanto erigendo simili figure che possiamo “scongiurare la paura39”. Perché ciò che sapevamo dipingere nel XIV secolo, lo abbiamo totalmente dimenticato nel XXI?

Il problema delle “questioni ecologiche”, per impiegare un termine desueto, è che sembrano parlare di oggetti che sono stati teletrasportati tanto nell’utopia quanto nell’ucronia. Né l’acqua, né la terra, né l’aria, né i viventi sono nel tempo o nello spazio di coloro che ne fanno la cornice della loro azione. Conosciamo bene il dibattito, antico quanto l’idea stessa di geopolitica, sull’esistenza o meno di “frontiere naturali” – il Reno, gli Urali o il Rubicone. Dopo tutto ciò che abbiamo fatto subire alla (nozione di) “natura”, va da sé che non è più questo genere di limite che può consentirci di stabilizzare le relazioni fra agency. Resta tuttavia il compito di tracciare i limiti di queste ultime. Limiti che non possono essere dettati dall’esterno semplicemente perché sarebbero stati “determinati oggettivamente dalle Leggi della Natura”. Questi limiti devono essere percepiti, devono essere generati, devono essere scoperti, devono essere decisi dall’interno dei popoli stessi. Senza decisione, lo sappiamo bene, non c’è corpo politico né libertà né autonomia.

In ciò risiede tutto l’interesse per termini come “limiti planetari40” nonché “zone critiche41”, nozioni inventate, come l’Antropocene, da scienziati consapevoli che il concetto di limite include il diritto, la politica, la scienza – e forse anche la religione e le arti. Tutto quel che permette di rendersi sensibili alla retroazione degli esseri. Ciò che gli scienziati stanno reinventando con questi termini ibridi è un’attività geo-tracciante che non fa altro che richiamarci, dopotutto, al senso antico della geografia, della geologia, della geomorfologia, ossia la scrittura, l’iscrizione, la grafia, il tracciato e l’inventario di un territorio. Nessuno può appartenere a una terra senza questa attività di localizzazione dello spazio, di tracciatura di appezzamenti, di disegno di linee, tutte parole greche – nomos, graphos, morphos, logos – che sono radicate nella stessa Ge, Geo o Gaia.

Sfortunatamente, se c’è una crisi della rappresentanza non è soltanto perché esitiamo a dare voce alle cose che ci riguardano. È anche perché siamo confinati all’immaginario delle mappe bidimensionali, alle frontiere delimitate, che sono sì utili, come sappiamo, per “fare la guerra42”, ma si rivelano del tutto inadeguate se vogliamo districarci nella geopolitica di territori in lotta. Per darci una visione finalmente realistica delle nostre appartenenze, ci manca una geografia dei territori discontinui e sovrapposti. Qualcosa come una mappa geologica con la sua vista tridimensionale, i suoi livelli multipli incastrati gli uni negli altri, le sue dislocazioni, le sue rotture, le sue serpentine, tutta questa complessità che i geologi hanno saputo governare nel corso della lunga storia del suolo e delle rocce, ma di cui la sfortunata geopolitica rimane deprivata43. Non sappiamo come rappresentare gli sconfinamenti, che sono tuttavia il solo modo di riaprire, con nuovi costi, la questione della sovranità. Le reti, purtroppo – mi pagano per saperlo –, restano di difficile lettura44. Quando sono proiettate sullo sfondo di una mappa, ci ritroviamo ancora una volta all’interno dei limiti dell’antica cartografia, senza avere compiuto pressoché progressi.

La geostoria avrebbe bisogno di una rappresentazione visuale capace di competere con le antiche rappresentazioni della geografia e della storia, finalmente fuse. È come se ogni limite, ogni frontiera, ogni cippo di confine, ogni sconfinamento, in breve ogni anello, debba essere al contempo collettivamente raccontato, collettivamente tracciato, collettivamente riprodotto e ritualizzato. Ognuno di questi anelli registra le reazioni inaspettate di qualche agente esterno che giunge a complicare l’azione umana. A causa di questa reattività, ciò che un “territorio” significa è stato totalmente stravolto: non è più il vecchio paesaggio pastorale di campi ben delimitati le cui messi giungono lentamente e accuratamente a maturazione – “Et in Arcadia ego”. Lungi dall’essere la “conquista territoriale”, l’“appropriazione della terra”, la Landnahme celebrata da Carl Schmitt è piuttosto la violenta riappropriazione di tutte le rivendicazioni umane da parte della Terra stessa – come se “territorio” e “terrore” avessero una radice comune.

I Terranei devono tracciare e ritracciare senza sosta gli anelli con tutti i mezzi a loro disposizione, come se le antiche distinzioni fra la strumentazione scientifica, l’emergere di un pubblico, le arti politiche, nonché la definizione dello spazio civico fossero sul punto di scomparire. Tali distinzioni sono molto meno importanti di questa potente ingiunzione: fate in modo che un anello sia tracciabile e pubblicamente visibile, altrimenti finiremo ciechi e indigenti, senza alcuna terra in cui stabilirci45. Diventeremmo stranieri nel nostro proprio paese. Tutto si risolve in questi anelli, come se le fila della tragedia non fossero intrecciate soltanto dagli dèi dell’Olimpo di un tempo, ma da tutte le agency. È ciò che racconta l’Antropocene: un mito veramente edipico. E, contrariamente a Edipo, per così lungo tempo cieco alle sue azioni, di fronte alla rivelazione degli errori passati noi dobbiamo resistere alla tentazione di accecarci nuovamente, accettando di guardarli in faccia, per poterci volgere, i grandi occhi spalancati, in direzione di ciò che viene verso di noi.

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Chi aveva concepito la simulazione aveva immaginato un’ultima scena, prima della cerimonia finale della firma, nel corso della quale si sarebbero riuniti i delegati in rappresentanza dei governi degli Stati-nazione, le sole parti riconosciute dalla COP ufficiale. Una simile assemblea non avrebbe avuto lo scopo di prendere finalmente delle decisioni che le altre delegazioni avevano semplicemente proposto, ma di individuare quali forme giuridiche, in conformità al diritto internazionale, si sarebbero dovute conferire alle decisioni prese dalle altre delegazioni. Una simile innovazione avrebbe invertito la direzione della sovranità46. Invece di occupare l’intero spazio, gli Stati si sarebbero ritrovati nella condizione di servitori, mediatori, organizzatori, operatori logistici, giuristi. Si sarebbe riconosciuta loro la sola competenza per cui sono veramente indispensabili: creare, sottoscrivere e mantenere accordi internazionali. Tutto il resto sarebbe rimasto in altre mani. Saremmo stati sorpresi di vedere emergere l’equivalente di una società civile formata dai territori in lotta e che avrebbe fatto dell’apparato di Stato un organo non più di comando, ma di servizio. Lo Stato sarebbe stato disinventato… Attendevo proprio con ansia questa scena finale! Volendo trovare un parallelo storico, sarebbe stata importante tanto quanto il passaggio da una monarchia di diritto divino a una monarchia costituzionale.

Lo Stato si sarebbe “ridotto” per tutti questi motivi? Non necessariamente. Di certo avrebbe subito una forte scossa, ma in fondo, a cominciare dalla sessione di apertura della simulazione al teatro Les Amandiers, gli spettatori, guardando “Città” o “Terre” negoziare da pari a pari con “Russia” o “Brasile”, avevano già percepito fino a che punto gli Stati-nazione rivelassero la loro ormai vetusta età. In effetti, avremmo piuttosto preferito liberare questi Stati dall’impresa irrealizzabile di tenere un territorio al riparo da tutte le invasioni, impresa che hanno sempre gestito molto male e che non ha più alcun senso all’epoca del mutamento ecologico. In ultima analisi, ne sarebbero usciti davvero ringiovaniti. Chi può negare il guadagno in civiltà ricavato col passaggio dal potere dei re a quello degli Stati costituzionali? Che progresso ci sarebbe se potessimo finalmente passare da Stati-nazione regnanti senza contropoteri, su una terra delimitata da frontiere, a un ordine costituzionale finalmente dotato del sistema complesso di contropoteri esercitati dalle altre delegazioni – i famosi checks and balances tanto celebrati dagli Umani, ma di cui i Terranei sono ancora alla ricerca?

Se è vero che la concezione moderna della sovranità dipende dalla necessità di trovare una soluzione alla questione insolubile del doppio potere della religione e della politica, comprendiamo quanto ne gioverebbe allo Stato se potesse disfarsi di una sovranità così mal riposta. Col peso di questa soluzione immaginata per risolvere il problema religioso e conquistare terre straniere – precedentemente svuotate dei collettivi multiformi che avevano imparato ad abitarle –, da allora lo Stato soffoca sotto il fardello della responsabilità della Terra intera. Tanto più che, a partire dalle guerre di religione, la questione della sovranità è stata resa ancora più complicata dall’autorità della Scienza con la S maiuscola, termine con cui è stata indicata, più spesso, per diversi decenni, la scienza dell’Economia. Sotto l’autorità di questa potenza apparentemente mondiale ma curiosamente deterritorializzata, lo Stato ha perso la capacità di garantire la difesa dei suoi soggetti. Ciò che chiamiamo “globalizzazione” indica che nessuno sa più dove abitare47. Il fallimento della lotta dello Stato contro le mondializzazioni successive non l’ha preparato affatto a tenere conto di questa nuova forma di mondializzazione da parte della Terra stessa. Nell’epoca dell’Antropocene lo Stato sovrano si ritrova quindi affetto da obsolescenza, proprio nel momento in cui la mondializzazione planetaria diviene letteralmente, e non più figurativamente, il pianeta. Come conservare il “monopolio della violenza fisica legittima” quando si ha a che fare con la violenza geostorica del clima?

Presto, le pretese dello Stato-nazione di rappresentare la sovranità totale su un territorio che, in ogni caso, gli sfugge, sembreranno altrettanto strane delle rivendicazioni dei re di esercitare il potere assoluto. Lo Stato dovrà inevitabilmente imparare a condividere il potere e, quindi, in maniera altrettanto ineluttabile, prepararsi a un rafforzamento o, diciamo, a una riarticolazione della cosiddetta sovranità. Non c’è alcuna ragione perché lo stesso termine continui a designare questo amalgama di autorità religiose, scientifiche e politiche, che riempirebbe totalmente uno spazio continuo delimitato da una frontiera. Significa caricare lo Stato di un peso divenuto troppo gravoso per esso. La scena che immaginavo alla fine della simulazione era quella in cui si sarebbe sbarazzato di questo fardello per redistribuire la sovranità in modo diverso. Lo Stato si sarebbe rafforzato, a condizione che tutto ciò che lo circondava, ciò che esternalizzava, fosse incluso all’interno – come la simulazione presupponeva48. Non soltanto gli antichi stati della natura, ma anche quelle che vengono chiamate, a torto, le forze sovranazionali che occupano tutte, in ultima analisi, un territorio che, per quanto discontinuo sia, dobbiamo ugualmente imparare a mappare. Se pretendiamo di governare ciò che accade offshore, dovremo ridefinire la costa, i margini, i limiti che alfine conterranno tutte le potenze, nel senso letterale di limitarne l’espansione. Immaginate la scena? “Oggi, 31 maggio 2015: gli Stati sono aboliti”… Saremmo entrati finalmente nel XXI secolo!

Ed è a questo punto che la figura, ora meno enigmatica, di Gaia sarebbe intervenuta. Contrariamente alla Natura, Gaia non fa irruzione per regnare al posto di tutti gli Stati costretti a sottomettersi alle sue leggi, ma come ciò che richiede che la sovranità sia condivisa. È come se la Natura fosse stata confusa con l’oikos locale, storico, sublunare di Gaia. In un’epoca precedente, quando menzionavamo la presenza di un “fenomeno naturale”, non appena si oltrepassava la soglia invisibile della società, della cultura e della soggettività, era come se tutto il resto – dalle viscere del nostro corpo al Big Bang, dalla terra sotto i nostri piedi alle distese infinite delle galassie – fosse fatto della stessa materia, appartenesse allo stesso dominio e obbedisse alle stesse leggi intangibili. Ma Gaia non è la Natura. Gaia49 sono gli avatar localizzati, storici e profani della Natura; o, piuttosto, la Natura appare retrospettivamente come l’estensione epistemologica, politicizzata, (contro)religiosa e leggendaria di Gaia. Di qui la sorprendente inversione che sfocia nello smarrimento totale dei moderni. Se la Natura aveva potuto fornirci la speranza di unificare e pacificare la politica o, almeno, di offrire uno sfondo solido alle vicissitudini della storia umana, Gaia non fanno nulla di simile. Non promettono la pace e non garantiscono nessuno scenario stabile.

Contrariamente all’antica Natura, Gaia non rivestono né il ruolo di oggetto inerte che potrebbe essere appropriato né quello di arbitro superiore a cui, in fin dei conti, potrebbe rimettersi. È l’antica Natura che poteva al contempo servire da quadro generale alle nostre azioni pur restando indifferente al nostro destino. È Madre Natura che fungeva da nutrice a umani capaci al contempo di negligerla come un semplice oggetto inerte e muto, anche quando ne celebravano l’ultima ratio. Come si suol dire: “Che insuperabile perfezione Madre Natura!”. Questa figura apparentemente materna si ritrovava al contempo al di sotto – come oggetto manipolabile e deprecabile – e al di sopra – come arbitro finale e giudizio ultimo. Tutto ciò che gli umani potevano fare era rivestire il ruolo di bravi bambini, custodi giudiziosi, ribelli certi di essere puniti o giardinieri rispettosi. Si capisce perché la progenie di questa matrigna crudele e sanguinaria si sia precipitata al lettino dello psicanalista – e perché le femministe ne abbiano combattuto il mito50 senza requie. La Natura, lo capiamo adesso ancor più chiaramente, non ha altro potere se non quello di rendere folli i suoi figli. Con lei l’ecologia, che fosse scientifica o politica, non aveva alcuna possibilità…

Ogni concezione della nuova geopolitica deve tenere conto del fatto che i Terranei sono attaccati a Gaia in un modo del tutto diverso da quello con cui gli Umani erano attaccati alla Natura. Gaia non sono più indifferenti alle nostre azioni. Contrariamente agli Umani nella Natura, i Terranei sanno di essere alle prese con Gaia. Non possono né trattarli come oggetti inerti e muti né come giudici supremi e arbitri finali. È in questo senso che non intrattengono più con esse una relazione d’attaccamento Madre-figlio. Terranei e Terra sono cresciuti. Le due parti condividono la stessa fragilità, la stessa crudeltà, la stessa incertezza sul loro destino. Sono potenze che non si possono dominare e non possono dominare. Poiché Gaia non sono né esterni né indiscutibili, non possono restare indifferenti alla politica. Possono trattarci da nemici. E noi rispondere a tono.

Mentre la Natura poteva regnare sugli umani come un potere religioso a cui bisognava rendere un culto paradossale, civico e secolare, Gaia ordinano soltanto di condividere il potere come poteri profani e non religiosi. È inutile sperare in una nuova translatio imperii che andrebbe da Dio alla Natura, poi dalla Natura a Gaia. Nessuna “legge dei tre Stati” è qui all’opera51. Gaia si accontentano di richiamare le tradizioni più modeste di un corpo politico che riconosce finalmente nella Terra ciò a cui questo corpo assemblato accetta solennemente di essere in definitiva vincolato. Anche se, fino a oggi, non si è sviluppato alcun culto civico per una simile delineazione delle “frontiere planetarie” che un corpo politico imporrebbe a se stesso, ciò che abbiamo fatto nella simulazione è intra-vedere un simile rituale. Dei limiti che nulla imponeva – nel senso dell’antica Natura – sono stati decisi collettivamente – dinanzi alla nuova Gaia. Ciò non vuol dire che gli Umani debbano sentirsi colpevoli – la colpevolezza li paralizzerebbe invano –, ma che devono imparare a divenire capaci di rispondere52. È rendendosi capaci di questa risposta, dotandosi di una nuova sensibilità, che gli Umani nella Natura diventano Terranei con e contro Gaia. Eccoli i checks and balances, questa strana metafora tecnica utilizzata dal diritto costituzionale e che ritroviamo qui, come principio di composizione delle agency53.

È ciò che ci permetterà di comprendere finalmente la metafora così sconvolgente degli anelli di retroazione e l’uso così precario della nozione di cibernetica. Come sappiamo, nell’etimologia stessa di “cibernetica” c’è tutto un governo che pretende di reggere il timone! La questione è sapere se la metafora propenda più verso la tecnica – con una proliferazione di servocomandi e centri di controllo – o verso la politica – con una moltiplicazione di opportunità di assistere a proteste da parte di coloro che insistono a retroagire ai comandi! Da un lato, si estende sempre più l’ambizione moderna per antonomasia, fino al sogno da incubo della geoingegneria54; dall’altro, si approfitta della situazione per demodernizzarsi, ritornando sulla Terra.

Tutto dipende da ciò che s’intende con rispondere ai comandi. Tutto ciò che reagisce alle nostre azioni comincia ad assumere una consistenza, una solidità, una coerenza che possono essere trattati sia come oggetti inerti che hanno la prevedibilità di un sistema cibernetico nel senso tecnico del termine, sia come agenti che sono tutti chiamati a far sentire la propria voce. Cosa fate quando, per esempio, ascoltate gli specialisti del clima continuare ad aggiungere ai loro modelli la “risposta” dello strato di ghiaccio al surriscaldamento delle acque, la “risposta” dei microrganismi all’acidità degli oceani, la “risposta” del Gulf Stream (corrente del Golfo) alla circolazione termoalina, la “risposta” dei terreni alla perdita di biodiversità? Ragionate nei termini di un sistema sempre più naturalizzato o, invece, di un corpo politico da comporre, un’agency dopo l’altra? Se ne fate un sistema globale, disanimate e depoliticizzate. Se ne fate una divinità totale, sovranimate e depoliticizzate altrettanto sicuramente. Possiamo divenire capaci di attenerci all’animazione propria della Terra, cosa che consentirebbe di ridefinire tanto la politica quanto la natura? È quest’ultima una estensione della politica? Sì, in effetti. Non è strano avere potuto pensare un tempo che solo gli umani fossero “animali politici”? E gli animali, allora? E tutti gli agenti animati?

Gaia non possiedono, non devono possedere, la qualità legale della res publica, dello Stato, del grande Leviatano artificiale inventato da Hobbes. È tanto dallo Stato quanto dallo Stato della Natura che vengono, in qualche modo, per liberarci. Se abbiamo sostenuto a lungo che bisognava uscire dalla Natura per emanciparsi come Umani, è di fronte a Gaia che i Terranei cercano l’emancipazione. Quando cominciamo a riunirci come Terranei, realizziamo che siamo convocati da un potere pienamente politico poiché capovolge tutti i titoli, tutte le rivendicazioni legali a occupare una terra e a reclamarne la proprietà. Dinanzi a un simile ribaltamento dei titoli proprietari, i Terranei comprendono che, contrariamente a ciò che gli Umani non hanno mai smesso di sognare, non rivestiranno mai il ruolo di Atlante, né quello del Giardiniere della Terra, che non saranno mai capaci di rivestire il ruolo di Mastro Ingegnere del Vascello Spaziale Terra e neppure di ricoprire la funzione di Custode modesto e fedele del Pianeta Blu. È molto semplice: non sono soli al posto di comando. Qualche altra entità li ha preceduti, anche se hanno scoperto tardi la sua presenza, la sua precedenza e la sua priorità. L’espressione condivisione del potere non significa nient’altro.

Gaia non ha altra natura giuridica se non quella di destinataria, colei a cui ci si rivolge. Se non ha sovranità, è possibile che possieda almeno ciò che i Romani chiamavano una maiestas55. Ci si può rivolgere a Gaia non come si faceva con la Natura impersonale e nondimeno personalizzata, ma in maniera franca e diretta, nominandola come una configurazione di nuove entità politiche. Vivere all’epoca dell’Antropocene è riconoscere una strana e difficile limitazione di poteri a favore di Gaia, considerata come l’aggregazione profana di tutti gli agenti riconosciuti grazie al tracciato dei circuiti di retroazione. Anche in questo caso, il pensiero e la pratica hanno bisogno della finzione: “Gaia, ti nomino come ciò a cui mi rivolgo e ciò che sono pronto ad affrontare”.

Se è sempre appropriato rimuginare retrospettivamente sulla domanda: “Come mi sarei comportato se mi fossi trovato fra i criminali del secolo passato?”, è ancora più utile, mi sembra, evitare di ritrovarsi fra i criminali del secolo presente quando saremo costretti ad affrontare le “battaglie per l’assegnazione, l’appropriazione e la distribuzione di spazi e climi”. Carl Schmitt attribuisce allo jus publicum europeanum il merito di avere limitato a due secoli le guerre intraeuropee esportandole altrove, prima che scoppiassero nel XX secolo al di fuori di ogni confine, per divenire mondiali. I Terranei saranno capaci di inventare un successore di questo jus publicum, in vista della limitazione delle guerre a venire per la espropriazione del mondo? Saremo capaci di porre questo nuovo diritto sotto la stessa antica invocazione, quella della “Terra, madre del diritto”, che Virgilio salutava col nome di “justissima tellus”? Un siffatto passaggio porterebbe a un modo di azione differente per le antiche “leggi della natura”, qualcosa come un “jus publicum telluris”, ancora da inventare, in vista della limitazione di ciò che Schmitt, nel suo linguaggio terribilmente preciso, chiamava le Raumordnungskriege, le “guerre per l’ordine spaziale”, espressione che, una volta purgata delle sue associazioni con i conflitti del XX secolo, offre una definizione radicale della vita terrestre, ma una vita terrestre finalmente capace di abbracciare la presenza di Gaia, in modo da consentirci di dare dei limiti alle guerre a venire.

In fondo, lo scontro si riduce a questo: estendere l’egemonia degli Stati-nazione sulla Terra dando ai moderni un nuovo orizzonte di dominio – una sorta di eco-modernizzazione più imperiosa e assai più violenta di tutte le precedenti occupazioni di terra – o accettare di inginocchiarsi alla maestà di Gaia, facendo della distribuzione delle agency la questione politica per eccellenza – una ripresa della grande questione della democrazia? Quest’ultimo corso equivarrebbe probabilmente a sbarazzarsi delle espressioni “moderno”, “natura” e persino “ecologia”, ciò che ho riassunto con la formula “passare dall’Antico al Nuovo regime climatico”.

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L’esito di questa battaglia dipende necessariamente dal modo in cui riusciremo ad accogliere l’eredità della religione. Se è vero, come credo insieme a molti altri, che ciò che chiamiamo “secolarizzazione” non abbia fatto altro che riprendere il tratto principale delle controreligioni – vivere nella fine dei tempi –, ma spostando questa fine dei tempi nell’utopia della modernizzazione, capiamo bene che l’accesso al terrestre sarà reso impossibile. Anche se riuscissimo a ridare un posto alle scienze e a ridare nuovo impulso alla politica, resterebbe il fatto che gli eredi del modernismo – ossia, oggi, il pianeta intero, in ciò che ha di globalizzato o mondializzato – si situano in un tempo impossibile, quello che li ha strappati per sempre al passato e scagliati in un futuro senza avvenire. Esattamente la situazione temporale di cui l’Antropocene marca l’obsolescenza.

Se manchiamo questo bivio, la battaglia fra religioso e secolare continuerà. Al posto di scoprire la materialità, il terrestre, l’ordinario, il mondano, ci ritroveremo immersi in guerre infinite sui fondamenti utopici dell’esistenza – con in più, sotto il nuovo nome di fondamentalismo, il ritorno delle guerre di religione da cui lo Stato avrebbe dovuto difenderci. Possiamo persino immaginare il peggio, guerre di religione condotte in nome della salvaguardia della Natura! Ricordiamo l’argomentazione di Schmitt: sono le guerre innescate in nome della ragione, della morale, del calcolo, le guerre “giuste”, a condurre allo sterminio senza limiti. Guerre globali condotte in nome della sopravvivenza del Globo sarebbero un male ben peggiore delle guerre cosiddette “mondiali”. L’entità, la durata e l’intensità di queste guerre possono essere limitate solo se accettiamo che la composizione del mondo comune non è stata ancora raggiunta, che non c’è Globo. Come possiamo decidere i limiti? Accettando la finitudine: quella della politica, quella delle scienze, ma anche quella delle religioni.

So bene che la soluzione usuale consiste nel dire: “Lasciamoci le religioni alle spalle e passiamo ad altro”. Ma come fare se, in questo movimento, portiamo con noi il peggio che le religioni hanno da offrire, lasciando da parte l’antidoto che hanno saputo sviluppare? Con questa strana idea del secolare, non possiamo né fare ritorno al religioso né liberarcene. La sola soluzione possibile è rivedere nuovamente il significato dell’espressione “controreligione”. Se non c’è nulla da fare col fardello della religione divenuta salvezza dell’anima e vigilante della morale, bisogna tuttavia cercare di addomesticare questa feroce invenzione di un tempo che non passa, poiché, in ogni caso, l’abbiamo ereditata. Intorno alle questioni piuttosto oscure della fine, degli scopi, della finitudine, dell’infinito, del senso, dell’assurdo e così via, c’è sempre la questione religiosa. Per riscoprire il senso della questione dell’emancipazione è dall’infinito che bisogna emanciparsi.

Il solo modo per farlo, mi sembra, è prendere sul serio la dimensione apocalittica di cui siamo i discendenti – l’apocalisse che noi abbiamo fatto subire agli altri collettivi e che oggi ci sta ricadendo addosso –, ma il cui significato abbiamo perso la capacità di cogliere. La questione diviene dunque la seguente: possiamo reimparare a vivere nel tempo della fine, senza per questo cadere nell’utopia, quella che ci ha teletrasportati nell’aldilà, nonché quella che ci ha fatto mancare l’aldiquà? In altre parole, possiamo tornare a umiliarci56 per tre volte di fila – per le scienze, per la politica e per la religione –, al posto di abbandonarci all’amalgama mortale che ne ha mescolato le virtù ma è riuscito solo ad avvelenarci? Se la parola “umiliarci” vi sconvolge, ricordate che c’è humus e compost in essa… La frase del Mercoledì delle ceneri, “Ricordati, uomo, che polvere sei e polvere ritornerai” (Gn 3,19), non è una maledizione ma una benedizione: ciò che vale più di ogni altra cosa dura soltanto grazie a ciò che non dura.

Vivere al tempo della fine è innanzitutto accettare la finitudine del tempo che passa e farla finita con la negligenza. Prima di essere fatta esplodere in grandiosi scenari cosmici ad alto budget, la cesura radicale dell’escatologia deve essere innanzitutto riconosciuta in una tonalità più leggera, più umile e più economica. La fine del tempo non è il Globo Finale che circonda tutti gli altri globi, la risposta finale al senso dell’esistenza: è piuttosto una nuova differenza, una nuova linea, tracciata all’interno di tutte le altre linee, che le attraversa da parte a parte, una linea che conferisce un significato differente a tutti gli eventi, ossia uno scopo, una presenza finale e radicale, un compimento. Non un altro mondo, ma questo stesso mondo colto in modo radicalmente nuovo.

Tragicamente, questa torsione nel flusso del tempo, questo evento nell’evento, questo eschaton situato all’interno del movimento della storia, è stato metamorfizzato nella fuga fuori dal tempo, nella salvezza nell’eternità, in ciò che non conosce tempo. L’Incarnazione è stata alterata in un punto di fuga lontano da ogni carne, verso il regno disincarnato di un remoto dominio spirituale. Come se la calamità del naturale non fosse abbastanza, generazioni di preti, pastori, predicatori e teologi hanno iniziato a maltrattare le Sacre Scritture per aggiungere, al di sopra della Natura, un dominio del sovrannaturale. Come se la (non)esistenza della Natura potesse fungere da fondamento solido alla (non)esistenza del Sovrannaturale! L’insieme della religione, o almeno del cristianesimo e dei suoi molteplici avatar, è stato progressivamente spostato verso il progetto di salvezza delle anime disincarnate degli umani dal loro attaccamento peccaminoso alla Terra. Lo sguardo rivolto verso l’alto, gli occhi estasiati nell’attesa dell’evento finale! È in gran parte la credenza secondo cui bisogna condurre una battaglia spietata contro il materialismo ad avere fuorviato il cristianesimo, costringendo il fedele a disprezzare il sentiero delle scienze, nel momento stesso in cui queste mostravano il cammino della Terra più chiaramente della colonna di fumo che guidava gli Ebrei nel deserto.

L’idea non è stata infruttuosa. La Creazione come alternativa alla Natura ha permesso di assicurarsi che il potere di conversione dell’Incarnazione non fosse limitato ai recessi intimi dell’anima e che potesse estendersi finalmente, a poco a poco, dovrei dire prossimo a prossimo, al cosmo intero. Ma soltanto a condizione che la Creazione non diventi un altro nome della Natura, distinta solo dalla presenza di agenti sovranimati e retta da un Grande Disegno provvidenziale. Lo Spirito Santo può “rinnovare la superficie della Terra”, ma è impotente quando si confronta con la Natura senza volto. È perché Gaia offre simili figure profane, mondane, terrestri che può permettere alla dinamica dell’Incarnazione di riprendere il suo slancio in uno spazio liberato dai limiti della Natura. Se “sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto” (Rom 8,22), ciò vuol dire che non è stata compiuta e che pertanto debba essere composta, passo per passo, anima per anima, agente per agente.

Com’è strano che i teologi che combattono il materialismo abbiano impiegato così tanto tempo per comprendere che sono loro ad avere costruito, nei secoli, un vero e proprio culto della Natura, ovvero la ricerca di una entità esterna, immutabile, universale e indiscutibile, in contrasto con la storia mutevole, locale, intricata e discutibile che noi altri Terranei abitiamo. Per salvare il tesoro della Fede, l’hanno abbandonata all’Eternità. Nel tentativo di migrare verso questo mondo sovrannaturale, non avevano notato che ciò che era stato “messo da parte” non era il peccato ma tutto ciò per cui, secondo la loro storia, il loro Dio aveva fatto morire Suo Figlio, ovvero la Terra di Sua Creazione. Hanno dovuto dimenticare che un’altra accezione della parola “ecologia” – per riprendere la bella etimologia fittizia di Jürgen Moltmann57 – potrebbe essere oikos logou, ovvero la Casa del Logos, quel Logos che, come recita il Vangelo di Giovanni, ha “molte dimore” (Gv 14,2). Spero abbiate compreso che, per occupare la Terra o, piuttosto, per essere occupati e preoccupati dalla Terra, dobbiamo abitare tutte queste dimore allo stesso tempo. Il cosmo non ha bisogno di spargere la Gloria di Dio; ha bisogno, al contrario, che la religione, limitandosi, impari a cospirare con le scienze e la politica, per ridare senso alla nozione di limite.

Non nutrivo speranze al riguardo, lo ammetto, fino a quando non mi sono imbattuto con ammirato stupore nella lettura dell’enciclica di papa Francesco, in grado di riprendere il Cantico delle Creature rivolgendosi alla Terra col nome di “madre” e “sorella”. Mi ero ripromesso di non citare mai san Francesco: troppo sentimentalismo, troppo buonismo. E tuttavia, quando ho letto: “Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba58”, mi sono detto che fra la genealogia terrificante di Gaia e l’albero genealogico realizzato da papa Francesco si potevano stabilire dei legami che l’antica disputa contro il paganesimo sembrava avere reciso per sempre59. Tanto più che l’autore, con la sua schietta verve, ne faceva una nuova versione del Manifesto del partito comunista, riconnettendo finalmente l’ecologia alla politica e senza disprezzare peraltro le scienze. Mi sono allora chiesto se l’auspicio di Voegelin non si fosse infine avverato60: coloro che erano passati attraverso tutti gli avatar delle controreligioni successive stavano forse imparando ad aprire la loro anima, come dice Voegelin, a una istanza suprema senza peraltro dovere abbandonare le altre. È possibile, mi chiedevo mentre leggevo l’appello di papa Francesco alla conversione, che l’intrusione di Gaia ci renda prossimi a tutti gli dèi? Che la sin troppo celebre frase del filosofo Heidegger, “Ormai solo un Dio ci può salvare!”, possa diventare: “Ormai solo l’unione di tutti gli dèi ci può salvare…”.

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Se volessi, per concludere, riunire in un vivace schizzo tutto ciò che ho detto di Gaia, direi che la partita non è ancora finita. Il peggio può ancora accadere, in particolare che si scambi Gaia per la reincarnazione dell’antico Stato della Natura. Immaginate questa catastrofe: élite politiche, scientifiche e religiose farebbero di Gaia la potenza a cui bisognerebbe obbedire in nome delle verità indiscutibili dello Stato, della Scienza e della Religione confuse tutte insieme. “Gaia esige! Gaia vuole! Gaia chiede!” Tutte le potenze del Globo fuse nel più tossico degli amalgami. L’Impero del Globo, il ritorno! Con tutti i totalitarismi ad agire di concerto, un governo di Gaia sarebbe l’orrore assoluto. Se mi avete seguito sin qui, avrete compreso che Gaia non è il Globo, né una figura globale, ma l’impossibilità di attenersi a una figura del Globo. Gaia è storica fino in fondo. Gaia non è una madre nutrice, né una matrigna, indifferente o lontana. Non è affatto materna! Se ne dubitate ancora, ritornate alla Gaia della mitologia greca, la più ambigua, la più complessa, la meno stabile delle potenze antiche. La Gaia attuale che dobbiamo affrontare non è una divinità più propizia dell’antica Ge. Ella obbliga tutte le divinità a riaprire la questione del loro modo di presenza. Gaia non è più erede di forze politiche di quanto non lo sia di forme della religione cosmica. È intrisa di troppe scienze, strumentazioni, modelli, sensori, per somigliare in qualche modo alle antiche forme di accesso al mondo. In questo senso, è tanto distante da Pachamama quanto dall’antica Ge. E tuttavia metamorfizza le scienze e le cambierà per sempre: le antropologizza, le riporta sulla Terra, incoraggia la loro molteplicità, accoglie i loro strumenti, cospira con la loro ritrovata modestia. Gaia chiede alle scienze di dire dove si situano e su quale porzione di Terra abitano. Gaia non è più scientifica alla vecchia maniera di quanto non sia un ersatz pagano della Creazione. Diffida del paganesimo – questa versione dispregiativa dell’antica appartenenza al mondo – tanto quanto del farsi trasformare dalla religione cristiana nel disegno provvidenziale di un Dio trascendente. Diffida di ogni trascendenza. Non rifiuta il disegno, ma vuole che ve ne siano tanti quanti sono gli attori sulla sua Terra. Si oppone a qualsiasi fuga nell’aldilà. Gaia è la grande figura contro l’utopia e l’ucronia. Gaia è la grande cacciatrice di gnostici. Gaia è la terza parte in tutto ciò che fanno gli uomini, le divinità, gli organismi e gli dèi, è un altro nome per indicare “Terzi”. Gaia può accogliere il presente, ma diffida dell’Apocalisse e di tutto ciò che richiede di saltare alla fine dei tempi. Sminuisce le esagerazioni della religione come quelle delle scienze e della politica. Vuole che il presente sia celebrato innanzitutto per ciò che è, il tempo che fa durare le cose attraverso ciò che passa e non dura. Gaia è la finitudine, la molto giusta e molto mondana finitudine. E quindi, sentitevi liberi, adepti della (contro)religione, di aggiungervi il tempo dell’attesa finalmente compiuta, ma che questo compimento sia nel tempo. Gaia sta dinanzi a noi come la Terra che non dobbiamo lasciare, che non possiamo lasciare. Lungi dall’essere la rana gonfia d’aria che crede di essere più grande del bue, Gaia è la grande potenza della deflazione. È la spina che sgonfia tutte le ossessioni del Globo. Esige che i moderni smettano di credersi dall’altra parte dell’Apocalisse. È una grande figura dell’esegesi: rileggete i vostri testi sacri, voi scienziati, voi religiosi, voi politici. Col suo dito Gaia indica la Terra, semplicemente.

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Avete spesso contemplato, ne sono sicuro, le meravigliose mappe orbis terrae, dette anche mappe T-O, con cui i monaci, nel Medioevo, rappresentavano il mondo, con Gerusalemme al centro, prima che fossero rese obsolete dalla scoperta stupefacente di un mondo infinitamente più vasto, di cui bisognava ora imparare a disegnare i lidi61. Ho spesso pensato, preparando queste conferenze, a quanto la situazione presente somigli a quella dei nostri antenati eruditi nel momento in cui giunse loro la notizia che Cristoforo Colombo, contro ogni aspettativa, aveva fatto ritorno dal suo viaggio in direzione della Cina. Anche noi disegniamo senza sosta le nostre mappe a forma di “T” maiuscola, con l’Uomo al centro e la Natura, circolare, globale, che lo circonda, lo minaccia o lo protegge. E anche noi dovremo ridisegnarle per intero, per assorbire altre terre appena scoperte che obbligano a uscire del tutto dalla Natura e dall’Umanità, redistribuendo le scienze, la religione, la politica, ridelineando in breve la totalità della nostra cosmologia. Che sorpresa per la gente del XVI secolo scoprire quanto la natura si rivelasse più vasta del suo piccolo mondo mediterraneo. Che sorpresa per la gente del XXI secolo scoprire quanto ristretta sia la (nozione di) Natura rispetto al comportamento della Terra che si spalanca improvvisamente sotto i loro piedi.

Inutile cullarsi nelle illusioni: siamo tanto impreparati agli sconvolgimenti futuri dell’immagine del mondo quanto lo era l’Europa nel 1492. Tanto più che, stavolta, non è l’espansione dello spazio ciò a cui dobbiamo prepararci, la scoperta di terre nuove svuotate preliminarmente dei loro abitanti, la gigantesca conquista territoriale che ha permesso quella che è stata definita a lungo l’“espansione occidentale”. Si tratta sempre dello spazio, della Terra, di scoperta, ma è la scoperta di una Terra nuova considerata nella sua intensità e non più nella sua estensione. Non assistiamo stupiti alla scoperta di un Nuovo Mondo a nostra disposizione, ma all’obbligo di reimparare da capo il modo in cui dovremo abitare l’Antico62! La novità è ancor più grande e il nostro stupore ancora più totale perché stavolta non siamo più noi a cacciare dalla loro terra i popoli antichi: è la nostra, anche nostra, terra a essere oggetto di conquista. O, piuttosto, sembra che siano tutti i popoli un tempo umani a ritrovarsi simultaneamente a essere oggetto di una presa della terra inversa, da parte della Terra stessa. Peraltro, tutti questi rovesciamenti sono ancora così oscuri che non conosciamo ciò che ci è caduto addosso meglio di quanto non lo conoscesse Colombo al ritorno da Hispaniola, che aveva scambiato per le coste della Cina! Nel momento in cui concludo queste conferenze, non sono nemmeno così sicuro della qualità delle notizie che ho riferito raccontandovi ciò che l’Antropocene modificherà dei nostri modi di vivere – potrebbero essere solo dicerie…

Quel che è certo è che, se gli umani della specie moderna si erano potuti definire come coloro che si emancipavano sempre dai vincoli del passato, che cercavano sempre di superare le insuperabili colonne d’Ercole, al contrario, i Terranei devono esplorare la questione dei loro limiti. Mentre gli Umani avevano come motto “Plus ultra”, i Terranei non hanno altra massima che questa: “Plus intra”. Non possono contare su nessun’altra versione più antica di ciò che rappresentava il suolo, la terra, il terreno. Non perché temano di essere reazionari e retrogradi (retrogradare è ciò che hanno smesso di fare quando hanno smesso di credere di essere moderni63!), ma perché non c’è modo di contenere, di limitare i loro modi di vita, le loro tecnologie, i loro valori, la loro moltitudine, le loro città, per rientrare nei ristretti limiti di ciò che significava “appartenere a un paese”. Paradossalmente, in vista della determinazione dei loro limiti, i Terranei devono sradicarsi dai limiti di ciò che erano soliti considerare lo spazio: la campagna stretta che desideravano così tanto lasciarsi alle spalle, nonché l’utopia dello spazio indefinito che erano così ansiosi di raggiungere. La geostoria richiede un cambiamento nella definizione stessa di ciò che significa avere, mantenere od occupare uno spazio, di ciò che significa essere “fatto proprio” da una terra.

Il problema che la politica degli Stati-nazione non poteva prevedere, il potere trasformatore di miliardi di persone potrebbe scoprirlo. Dove potremmo scoprire i “quattro pianeti” necessari al nostro progresso e al nostro sviluppo se non nelle sinuosità e negli anfratti di Gaia stessa64? Vale a dire, all’interno delle frontiere planetarie, avvolte nei loro mondi multipli, e perché dovremo imparare a mantenere la nostra attività entro limiti volontariamente e politicamente imposti? È qui che risiede la trascendenza della religione, nell’intimo delle anime umane; è qui che le scienze e la tecnologia risiedono, nell’intimo delle innumerevoli storie intrecciate con tutti gli eventi di tutti gli agenti, in tutte le deviazioni e pieghe della storia naturale della Terra; è qui che si trovano le fonti della politica, nell’intimo dell’indignazione e della rivolta di chi lancia un grido mentre sente il terreno scivolare via sotto i piedi. Ciò che il motto Plus intra designa è anche, in un certo modo, un cammino per il progresso e l’invenzione, un cammino che collega la storia naturale del pianeta con la storia sacra dell’Incarnazione e con la rivolta di chi imparerà a non stare mai fermo e in silenzio col pretesto di obbedire alle leggi della natura.

È sempre la vecchia e fiera ingiunzione: “Avanti! In marcia!”, non verso una nuova terra, ma verso una terra il cui volto deve essere rinnovato. Sapete bene che Cristoforo Colombo prendeva molto sul serio il suo nome, “portatore di Cristo”, e che era convinto di aiutare il suo Dio ad attraversare l’Atlantico, allo stesso modo in cui il traghettatore Cristoforo aveva permesso, recita la leggenda, al bambino Gesù di attraversare il fiume. Nessuno può più credere che abbiamo spalle abbastanza forti da sostenere un simile peso. Dovremo piuttosto accettare di pesare meno sulle spalle di ciò che ci porta attraverso il guado del tempo, ossia Gaia.

Per quanto lontani siamo dallo spirito di conquista del capitano Colombo, forse siamo nondimeno sempre come i marinai assetati a bordo della sua caravella, in attesa, giorno dopo giorno, del grido che la vedetta finirà di certo col far risuonare un mattino, dall’alto della sua coffa: “Terra, terra!”.

1 Il “Teatro delle negoziazioni”, una simulazione svolta nel contesto di Make it Work, progetto inscenato a Parigi al teatro Les Amandiers, dal 26 al 31 maggio 2015, regia di Philippe Quesne e Frédérique Aït-Touati con la partecipazione di SPEAP, la Scuola di Arti Politiche di Sciences Po (cop21makeitwork.com/simulation), su iniziativa mia e di Laurence Tubiana.

2 Il progetto Gaïa Global Circus è stato sviluppato nel 2011, 2012 e 2013 alla Certosa, col sostegno indefesso di François Dehanne e a Reims, nel 2013, grazie a Ludovic Lagarde.

3 È la massima del programma di sperimentazione in arti politiche (SPEAP) creato nel 2010 a Sciences Po con Valérie Pihet.

4 A. Dahan, M. Armatte, Modèles et modélisation: 1950-2000, in “Revue d’histoire des sciences”, vol. LVII, n. 2, 2005, pp. 243-303.

5 Si trattava di uscire dall’impasse messa in luce dal libro di S. Aykut, A. Dahan, Gouverner le climat?

6 È ciò che preoccupa i clima-scettici e che dovrebbe piuttosto rassicurarli: il caso è così raro che bisogna prenderlo come segnale di una situazione di fatto eccezionale. Nel suo libro, Paul Edwards suggerisce in modo ancora più inquietante che le certezze non saranno mai più grandi di quelle odierne poiché, modificando a tal punto il sistema, lo stiamo rendendo anche sempre meno prevedibile. Cfr. P.N. Edwards, A Vast Machine, cit.

7 Essendo la seconda natura, l’Economia, sempre più difficile da mettere in dubbio della prima. Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione, cit.

8 R. White, The Middle Ground, cit.

9 La trasformazione materiale dello spazio, noto per la sua importanza in ogni impresa diplomatica, era stata affidata al gruppo di designer tedeschi RaumLabor.

10 A partire da Non siamo mai stati moderni, mi ostino a cercare la forma esatta e la fattibilità pratica di ciò che chiamavo allora il “Parlamento delle cose”.

11 La parola “interesse” va intesa nel senso in cui è stata utilizzata nelle conferenze II e III, come una proprietà generale delle agency che si sovrappongono e si compenetrano.

12 Ogni delegazione includeva obbligatoriamente cinque delegati – o entità: un rappresentante governativo o quasi-governativo, un attore economico, un rappresentante della società civile, un esperto scientifico, un quinto liberamente scelto.

13 Cfr. M. Lussault, L’avènement du monde, Éditions du Seuil, Paris 2013; B. Latour, La mondialisation fait-elle un monde habitable?, in “Territoires 2040”, n. 2, 2009, pp. 9-18.

14 Questo elemento essenziale dell’Enquête sur les modes d’existence è stato affrontato alla fine della conferenza II, pp. 107 ss.

15 B. Latour, P. Weibel (eds.), Making Things Public, cit.

16 Malgrado la presenza di numerosi studenti con una doppia formazione scientifica e “letteraria”, l’accesso alle scienze era inadeguato. L’innovazione, tuttavia, consisteva nel distribuire i ricercatori in tutte le delegazioni e non nel tenerli in disparte e al di sopra degli altri, come accade realmente nell’Intergovernmental Panel on Climate Change – Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (GIEC).

17 Ho presentato Jan Zalasiewicz all’inizio della conferenza IV, a p. 165.

18 La sovrapposizione, la penetrabilità, l’overlap: ecco il punto essenziale della riterritorializzazione del Nuovo regime climatico. Senza questo si ricade nell’identità separata da frontiere, pur continuando a sognare un mondo globale. Si ricade nello schema delle parti e del Tutto.

19 D. Diederichsen, A. Franke (eds.), The Whole Earth, cit., appassionante rivisitazione della storia di questo catalogo che ha rivestito un ruolo così importante negli anni Ottanta del secolo scorso.

20 Alcune delegazioni occupavano una posizione intermedia fra una definizione geografica classica e una definizione plurinazionale, come l’Artico, il Sahara o l’Amazzonia. Ciò corrisponde, del resto, più o meno alla realtà come mostrata da F. Gemenne, Géopolitique du changement climatique, Armand Colin, Paris 2009.

21 Questa delegazione si ispirava al progetto dell’agenzia territoriale Oil left in the ground, sviluppato da J. Palmesino e A.-S. Rönnskog.

22 W. Lippmann, The Phantom Public, cit.

23 F. Ramel, Philosophie des relations internationales, Presses de Sciences Po, Paris 2011.

24 C. de Gaulle, Mémoires de guerre. Le salut (1944-1946), t. III, Plon, Paris 1959.

25 L’“arte brillante della diplomazia”, citata in piena crisi dalla presidentessa Jennifer Ching a un delegato preoccupato.

26 Supra, pp. 154 ss.

27 Come la localizzazione nello spazio e nel tempo è la più formale delle operazioni che pretendono nondimeno di definire la materia (come mostra Whitehead), analogamente la strutturazione di interessi individuali distinti dal loro “contesto” è l’operazione più politica che ci sia, anche se pretende di definire l’evidenza in qualche modo autoctona degli interessi umani. Il problema, in fisica e nelle scienze sociali, è lo stesso e le due procedure nascono contemporaneamente nel XVII secolo.

28 E. Ostrom, Governing the Commons, Cambridge University Press, Cambridge 1990.

29 Cfr. M. Callon, La sociologie peut-elle enrichir l’analyse économique des externalités?, in D. Foray, J. Mairesse (éds.), Innovations et performances, EHESS, Paris 1999, pp. 399-431. Sulla negligenza come antonimo della religione cfr. la citazione di Serres, supra, p. 218.

30 W.E. Bijker, The Politics of Water, in B. Latour, P. Weibel (eds.), Making Things Public, cit., pp. 512-529.

31 Punto essenziale di Schmitt ne Il nomos della terra: non si tratta in alcun modo di domini separati – contrariamente a ciò che è accaduto sin dall’epoca di Hobbes –, ma di un principio di sovrapposizione sulle stesse questioni da parte di forme distinte di potere. Questo stesso principio presiede alla “revisione costituzionale” che ho proposto in Politiche della natura, cit.

32 Deserto artificialmente prodotto poiché si trattava di una vasta zona umida sistematicamente distrutta dopo la colonizzazione.

33 M. Richtel, California Farmers Dig Deeper for Water, Sipping Their Neighbors Dry, in “The New York Times”, 5 giugno 2015. Sul contesto geostorico della crisi attuale, cfr. J. McPhee, Assembling California, Farrar, Straus & Giroux, New York 1994.

34 Film di Roman Polan´ski, 1974.

35 L’economizzazione è il risultato di un lavoro di strutturazione e performazione, che permette di sbarazzarsi dell’idea che l’homo œconomicus sia un “nativo”.

36 M. Davis, Late Victorian Holocausts, Verso, London 2001; tr. it. di G. Carlotti, Olocausti tardovittoriani, Feltrinelli, Milano 2002.

37 Questo gioco di personificazione è al centro del capitolo XVI del Leviatano di Hobbes: “Da qui segue che, quando l’attore fa un patto con autorità, con ciò vincola l’autore non meno di quanto sarebbe stato vincolato facendolo da sé” (T. Hobbes, Leviatano, cit., p. 267).

38 E. Voegelin, La nuova scienza politica, cit., e il mio riassunto a p. 280.

39 P. Boucheron, Conjurer la peur, Éditions du Seuil, Paris 2013.

40 W. Steffen, K. Richardson, J. Rockström et al., Planetary Boundaries, cit.

41 S.L. Brantley, M.B. Goldhaber, K. Vala Ragnarsdottir, Crossing Disciplines and Scales to Understand the Critical Zone, cit.

42 Allusione al titolo del celebre saggio di Y. Lacoste, La géographie, ça sert, d’abord, à faire la guerre, Maspero, Paris 1976.

43 J. Zalasiewicz, comunicazione personale, 31 giugno 2015.

44 Malgrado i numerosi sforzi del médialab di Sciences Po per rendere la logica delle reti più facile da seguire... Cfr. la straordinaria impresa del Bureau d’Études, An Atlas of Agendas, per rappresentare l’influenza del capitale attraverso le reti. Cfr. Bureau d’Études, An Atlas of Agendas, Vice Versa Art Books, Onomatopee, Eindhoven 2015

45 Come i cippi commemorativi degli tsunami che mostrano l’entità dei cataclismi passati e sono stati ignorati o dimenticati (cfr. M. Fackler, Tsunami Warnings, Written in Stone, in “The New York Times”, 20 aprile 2011). Reiko Hasegawa mi ha gentilmente tradotto il testo di una di queste pietre eretta nel 1933: “Houses on the higher ground, happiness and joy of children and descendants / Memory of the tragedy of great tsunamis / Must not built houses below this stone / The tsunami came until here in 1896 as well as in 1933 / The district was completely destroyed, survivors counts only two for the first and four the other / Be warned no matter how many years go by” (“Case sulle alture, felicità e gioia di figli e nipoti / In memoria della tragedia del grande tsunami / Non andranno costruite case sotto questa pietra / Lo tsunami arrivò fin qui nel 1896 e nel 1933 / Il distretto venne completamente raso al suolo, i sopravvissuti furono solo due per il primo e quattro per il secondo / State in guardia, non importa quanti anni trascorrano”), comunicazione personale, 1° luglio 2015.

46 Avremmo in tal modo capovolto la scena dell’incontro COP a Copenaghen nel 2009 in cui i capi di Stato, dopo avere distrutto tutto il lavoro di negoziazione, si sono messi intorno a un tavolo e hanno redatto su un foglio bianco, in qualche riga, ciò che sembrava loro accettabile. Cfr. lo straordinario video: http://www.spiegel.de/video/video-1063770.htm.

47 Di qui la sorprendente reazione, visibile ovunque, del ritorno all’identità, proprio nel momento in cui il mutamento ecologico impone la sovrapposizione e l’intricazione di tutte le agency. È questa crisi che esplorano in fondo S. Aykut e A. Dahan in Gouverner le climat? Il punto interrogativo del titolo del volume deve essere inteso come un no, non si può governare il clima – non soltanto perché non c’è timone di governo, ma perché non c’è neanche Stato governante. Questo è quel che significa passare dall’Antico al Nuovo regime climatico.

48 Curiosamente, terminano con un vibrante appello al ritorno dello Stato due volumi recenti sia N. Klein, This Changes Everything, Simon & Schuster, New York 2014, tr. it. di M. Bottini, D. Didero, N. Sabatini, L. Taiuti, Una rivoluzione ci salverà, Rizzoli, Milano 2015; sia S. Aykut, A. Dahan, Gouverner le climat?, cit.

49 Utilizzo il plurale per sottolineare il carattere multiplo di questo attore.

50 Cfr. C. Thompson, Making Parents, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2005; G. Di Chiro, Ramener l’écologie à la maison, in É. Hache (éd.), De l’univers clos au monde infini, cit.; e, in particolare, lo straordinario libro di S. Federici, Caliban and the Witch, Autonomedia, New York 1998, tr. it. Calibano e la strega, Mimesis, Milano-Udine 2018.

51 Allusione alla sempiterna triade, invocata in particolare da Auguste Comte, che pretende di ritmare la storia e la sua evoluzione per stati (teologico, metafisico e positivo).

52 Vedi l’uso di “respons-abile” da parte di D. Haraway, supra, p. 55.

53 La metafora tecnica del regolatore ha sempre affascinato la teoria politica, cfr. O. Mayr, Authority, Liberty & Automatic Machinery in Early Modern Europe, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1986.

54 C. Hamilton, Earthmasters, cit.

55 Devo questo suggerimento a P.-Y. Condé: “Non era ancora l’effettivo adempimento di una somma di competenze, così come doveva concepirla il diritto monarchico alla fine del Medioevo e all’inizio dell’epoca moderna. Era un adempimento affermato soltanto come impossibile da trasgredire, a pena di interdetto. Un luogo svuotato della Maestà, che proiettava attorno al potere il suo cerchio sacro. […] La storia dello Stato romano, se si vuole intendere con questa parola qualcosa di diverso da una vaga approssimazione descrittiva, ossia se si vuole comprendere nei termini stessi in cui veniva formulata a Roma la problematica – e più ancora la pratica – della costruzione giuridica dell’Uno, deve includere la storia del crimine di lesa maestà. Il crimine non è un incidente di percorso, un’anomalia accidentale. È al contrario l’evento che presuppone l’istituzione politica edificata sulla difesa di un punto di riferimento ultimo” (cfr. Y. Thomas, L’institution de la majesté, in “Revue de synthèse”, vol. CXII, nn. 3-4, 1991, pp. 331-386).

56 “Umiliarsi” è qui inteso nell’accezione costruttiva di “riconoscere la propria pochezza, i propri limiti”, “essere e dimostrarsi umile”, accezione che ritroviamo nei Vangeli (“Chi si umilia sarà esaltato”, Mt 23,12; Lc 14,11 e 18,14) nonché nella letteratura, laddove “umiliare” vale “rendere meno superbo, più mite e comprensivo”, facendo dunque del termine “umiliazione” una delle tante espressioni dell’umiltà [N.d.T.].

57 J. Moltmann, Gott in der Schöpfung, Chr. Kaiser, Münich 1985; tr. it. di D. Pezzetta, Dio nella creazione, a cura di G. Francesconi, Queriniana, Brescia 1986.

58 F. d’Assisi, Cantico di frate Sole, in G. Contini, Letteratura italiana delle origini, Sansoni, Firenze 1970, pp. 4-5.

59 Papa Francesco, Laudato si’!, cit.

60 Supra, p. 282 sul pluralismo irrealizzabile della tradizione occidentale.

61 J. Brotton, La storia del mondo in dodici mappe, cit.

62 Vedi la citazione di Schmitt commentata alle pp. 322-323.

63 È l’indietreggiare della ballerina che ci è servito da indice sin dall’inizio, supra, pp. 11 e 327.

64 Secondo i calcoli – evidentemente approssimativi – del Living Planet Report 2014 del WWF, servirebbero quasi quattro pianeti, calcolati in “ettaro globale”, per garantire a tutti gli umani lo stile di vita nordamericano.