Conferenza VII
Gli stati (di Natura) fra guerra e
pace
La grande riserva di Caspar David Friedrich – La fine dello Stato della Natura – Sul corretto dosaggio di Carl Schmitt – “Noi siamo alla ricerca del regno di senso normativo della Terra” – Sulla differenza fra guerra e operazione di polizia – Come voltarsi e affrontare Gaia? – Umani contro Terranei – Imparare a identificare i territori in lotta
Sebbene avessi sotto il naso la riproduzione del quadro di Caspar David Friedrich, è toccato ancora una volta al mio amico, lo storico dell’arte Joseph Koerner, tracciare con un dito i contorni dell’ansa dell’Elba, perché realizzassi finalmente, in un sol colpo – come in un test di Gestalt –, che ciò che avevo inizialmente scambiato per un primo piano paludoso di pozzanghere e fango in cui si riflettevano i raggi del sole era in realtà il globo stesso, come sepolto nella Terra. Non il mappamondo, il globo della cartografia – il solo che Friedrich avrebbe potuto fare ruotare sulla punta delle dita, all’inizio del XIX secolo –, ma il globo meteorologico tale e quale i primi astronauti hanno potuto contemplare con stupore, così differente dalle mappe, con le sue luci radenti, le sue montagne in rilievo, i suoi oceani iridescenti e la presenza enigmatica dei suoi continenti, nessuno dei quali è appunto riconoscibile, come se appartenessero a un altro pianeta. Ed è certo su un altro pianeta che bisogna risiedere per occupare pertanto il punto di vista di chi vede il globo irriconoscibile immergersi lentamente, sempre più in profondità – a meno che, al contrario, non sia sul punto di emergere –, sotto le sembianze di una Terra incastonata nel recinto di un paesaggio ordinario nei dintorni di Dresda. Paesaggio che lo stesso spettatore dovrebbe contemplare frontalmente, ma in cui non può risiedere, più di quanto non possa penetrare nel cielo dorato a cui la curva simmetrica delle nuvole conferisce l’impressione di un’enorme sfera, la cui immensità si trova da un lato amplificata, dall’altro ridimensionata, ridotta, invertita dal guazzabuglio di stagni e pozzanghere in primo piano.
Figura 7.1 ©Foto Jürgen Karpinski
Caspar David Friedrich, La grande riserva,
Galerie Neue Meister,
Staatliche Kunstsammlungen Dresden.
Una chiatta a vela, il vento in poppa, lentamente discende, o forse risale, il fiume, ritracciando all’inverso l’ansa delineata dal dito di Joseph, il limite della “grande riserva” – da qui il titolo del quadro –, senza dare allo spettatore una chiara indicazione di ciò che è qui delimitato: è il globo terrestre il cui orlo sprofonderebbe nel fiume? L’Elba che delimiterebbe i pascoli, i campi e la foresta, in cui peraltro non figurano uomini né animali? A meno che il limite non sia la minuscola linea più tenue che si intravede al di sopra degli alberi, all’orizzonte, a segnalare una seconda volta, là dove l’intero paesaggio sta fuggendo il sole, la transizione dell’insieme del quadro nella riserva definitiva della notte?
Ma ciò che è più straordinario è che sembra impossibile tenere lo sguardo fisso sulla riva, sotto i boschetti, nella quiete, nella tranquillità, poiché questo luogo idilliaco, questa Arcadia, è inaccessibile allo sguardo quanto la vista in primo piano e corrisponde, come sottolinea Koerner, alle linee di fuga, all’infinito, dei raggi visuali1. Peraltro, è inutile sperare in un qualche ritorno bucolico a un habitat locale, poiché la riva dell’ansa è come compressa, schiacciata da due immensi rulli: il globo in primo piano che sembra infossarsi e l’altro rullo, sullo sfondo, il cielo in cui il sole è tramontato – o sta forse sorgendo – e che sembra ruotare intorno al primo come le due viti di una pressa. No, non è un paesaggio che qualcuno si fermerebbe a contemplare. Nessuna stabilità possibile, a meno di, forse, stare in piedi sulla chiatta, ma allora si sarebbe ancora in movimento.
Se sono così affascinato da questo dipinto è perché è sufficiente un breve momento di disattenzione per non scorgere più ciò che Joseph Koerner è convinto di avervi visto. Egli adduce a riprova il fatto che un incisore, Johann Philipp Veith, ha creduto di fare la cosa giusta rettificando l’improponibile punto di vista dello spettatore virtuale di questo quadro per renderlo più razionale e più coerente: diminuendo leggermente la curva del primo piano, facendo del globo terrestre una semplice riva dell’Elba, con fango, pozzanghere e ruscelli, non è riuscito a far altro che rovinare l’effetto complessivo2. Non imitate questo incisore: che colui che guarda questo quadro non cerchi di semplificare il luogo da cui deve situarsi per contemplarlo. Che s’immerga piuttosto in se stesso, per rimettersi finalmente in discussione. Nella “natura” nessuno ha spazio… Due secoli dopo, ma per tutt’altre ragioni rispetto all’età cosiddetta romantica, l’abbiamo compreso anche noi.
Di certo, non ho idea di ciò che Caspar David Friedrich abbia voluto racchiudere in questo quadro e nel suo titolo, Das große Gehege. Se l’ho scelto come punto di partenza è perché mi sembra riassumere meglio di ogni altro uno degli argomenti delle conferenze precedenti: non si può cogliere nulla dell’intrusione di Gaia – o forse si tratta qui della sua estrusione – se la si confonde con la contemplazione di un globo. Colui che crede di vedere il globo terrestre dall’alto crede di essere Dio – e poiché Dio stesso, ovviamente, non vede la Terra in tal modo, la visione globale è insieme menzognera ed empia. Guai anche a chi crede di potere sfuggire alle immense distese del cielo e della Terra credendo di rifugiarsi in un boschetto, i piedi in acqua, sulla riva di un fiume, a contemplare il mondo da spettatore: sarà schiacciato!
La genialità di questo quadro è avere quindi segnato l’instabilità di ogni punto di vista, che si tratti di vedere il mondo dall’alto, dal basso o dal centro. La grande riserva, la grande impossibilità, non è essere imprigionato sulla Terra, è credere che quest’ultima possa essere colta come un Tutto razionale e coerente, impilando le scale le une sulle altre, dalle più locali fino alle più globali – e viceversa –, o pensare che ci si potrebbe accontentare del proprio minuscolo lotto di terra, in cui coltivare il proprio giardino. In altre parole, coloro che sostengono di ordinare le differenti dimensioni della Terra non meritano l’appellativo di terrestri.
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In queste conferenze stiamo cercando di rispondere all’intrusione di Gaia, imparando a disfarci, uno a uno, degli schemi di pensiero propri di ciò che potremmo chiamare l’Antico regime climatico. Tenteremo di rimaterializzare la nostra esistenza, il che significa innanzitutto riterritorializzarla o, meglio, ma la parola non esiste, riterrestrizzarla. Cosa evidentemente sorprendente per gente che lamenta di essere troppo “coi piedi per terra” ma che, in fin dei conti, lo era ben poco! Il che equivale a ripoliticizzare la nostra concezione dell’ecologia. È a questo compito che dobbiamo ora dedicarci.
Questa ripoliticizzazione l’ho preparata insistendo, nelle ultime due conferenze, sull’obbligo diplomatico di presentarci gli uni agli altri in guisa di popoli che espliciterebbero, il più chiaramente possibile, quali istanze supreme li convocano, su quali terre si credono localizzati, in quali periodi temporali si situano e in base a quali cosmogrammi – o a quali cosmologie – sono distribuite le agency con cui hanno scelto di mescolarsi3. È l’importanza di questa zona metamorfica che ho tentato di farvi percepire nelle prime due conferenze, approfondendo la nozione così importante di agency4.
Come ora vedremo, l’Antico regime non rendeva possibile davvero “fare politica”, poiché non aveva mai incontrato veri avversari; si accontentava di lottare contro persone irrazionali o infedeli che si trattava di istruire o convertire, ma mai di combattere. In ogni caso, non combattere nel senso radicale che costoro potevano, a loro volta, metterci in pericolo pregiudicando i nostri valori. Questi ultimi restavano al sicuro, nella Natura, nell’ineluttabile Progresso, nel Senso della storia, nella Scienza indiscutibile. A noi, no, davvero, nulla poteva accadere. Potevamo subire intoppi, battute d’arresto, ma non una crisi vera e propria. Nessuna messa in discussione. Il giudizio finale aveva già avuto luogo. Fondamentalmente, eravamo tanto senza storia quanto senza politica. Di qui il nostro stupore, la nostra impreparazione, il nostro scetticismo dinanzi all’irruzione della strana coppia introdotta nelle conferenze III e IV: Gaia, per prima, e poi la sua complicazione più recente, l’Antropocene.
Per comprendere la ripoliticizzazione dell’ecologia che ne consegue, vi chiederò di sottoporvi a un piccolo “esame di coscienza” ponendovi la seguente domanda: “Ho mai avuto dei nemici?”. Se accettate di discendere in voi stessi, di guardarvi dentro e di riflettere sul senso delle battaglie che conducete, sono quasi certo che scoprirete di non averne mai avuti. Avversari sì, certo, ma nemici no. State combattendo senza dubbio i clima-scettici o i capitalisti la cui ascesa sta distruggendo il pianeta, forse le banche o ancora i politici incapaci di vedere oltre la scadenza del loro mandato; a meno che non lottiate piuttosto contro gli ecologisti, questi guastafeste “che vogliono interdire ogni innovazione”, i fautori della decrescita, o persino gli scienziati divenuti “una lobby di modellisti che non fa i conti con la realtà”. Sì, di avversari ne abbiamo tutti a volontà.
E tuttavia, qualunque sia il fronte a cui abbiamo aderito, siamo obbligati a riconoscere che non abbiamo nemici, se l’autorità suprema in nome della quale combattiamo – quella che ci ha mandato in missione e di cui siamo divenuti i ministri, i militanti, il braccio armato – ha già una conoscenza certa del senso della storia e del suo giudizio sicuro. Stiamo procedendo soltanto a un’opera di pulizia. Non siamo altro che l’avanguardia di un movimento ineluttabile. Il tempo non ha influenza alcuna sulla causa che serviamo poiché è incapace di modificarne il contenuto. La storia può avanzare più lentamente del previsto, ma non può cambiare radicalmente direzione. In senso letterale, la causa che serviamo trascende la storia5.
Avete avuto il tempo di fare questo piccolo test e verificare quale dei vostri avversari ha la capacità di farvi tremare di incertezza sulla solidità dei vostri valori? Tranquilli, non vi chiedo di rivelare pubblicamente il risultato di un simile esame di coscienza! Ma semplicemente di renderci sensibili, voi e io, al calo di intensità politica che auspichiamo ogni volta che la “natura” entra in scena, come se pensassimo di stare gettando acqua sul fuoco per spegnerlo, quando di fatto versiamo olio.
Se l’appello alla “natura” possiede un potere tale di depoliticizzazione è precisamente perché coloro che combattono per essa – poco importa in quale campo – non possono che realizzare nel tempo un piano che non dipende dai capricci del tempo che passa. La “natura” immunizza dai rischi della politica. È stata concepita a questo scopo. Ecco perché, letteralmente, non c’è mai stata davvero una politica ecologica6. Ciò che chiamiamo più spesso con questo termine è l’applicazione nella realtà di principi la cui evidenza proviene da un’altra fonte, più spesso dalla Scienza, contro la resistenza ostinata di coloro che non obbediscono a questi principi perché non li comprendono davvero. Nulla nella resistenza di questi oppositori vi obbliga a ricominciare tutto da capo: sono semplicemente arcaici, retrogradi, incolti, forse stipendiati, sicuramente in malafede. Nessuno vi costringerà a ridisegnare da cima a fondo ciò che chiamate la vostra ecologia, né a decidere in cosa, in ultima analisi, consiste. Anche se vi dichiarate “in guerra” contro simili avversari, questa guerra non sarà reale, poiché rimarrà pedagogica. Come parlare di guerra se non rischiate di perderla? Rimarrete in fondo convinti che, se soltanto aveste potuto spiegare loro chiaramente i motivi, si sarebbero convinti della giustezza della vostra battaglia. Quando si fa appello alla “natura” in tal modo, è quasi sempre perché si desidera spiegare ancora una volta a dei somari, fra le pareti virtuali di un’aula, ciò che finiranno col comprendere – a forza.
Se non c’è politica, nel senso che non incontriamo mai un nemico ma soltanto gente che è in errore e che andrà punita o riabilitata, ciò significa che non ci troviamo solamente entro i confini di una scuola ma anche all’interno delle frontiere di un quasi-Stato. I cittadini di un simile Stato battibeccano sì sui dettagli, ma sono d’accordo sui punti essenziali. Gli Stati-nazione possono essere in conflitto gli uni con gli altri – e si potrebbero fare innumerevoli esempi! –, ciò non impedisce però loro di ritrovarsi tutti sotto l’egida di un’autorità che ha il potere di farli ragionare e che dovremmo chiamare sovrana. Prova ne è che, se la Scienza avesse dimostrato qualcosa della Natura, allora, evidentemente, gli Stati-nazione, tutti insieme, all’unisono, non avrebbero potuto far altro che sottostare alle sue leggi! (Se dubitate che sia il caso della fisica, della medicina o della biochimica, pensate al potere sovrano dell’Economia: quale impero ha mai goduto di un’autorità così assoluta?) Ora che abbiamo perduto questo accordo, realizziamo che avevamo risieduto, di fatto, in ciò che va definito uno Stato della Natura, le cui leggi universali potevano essere invocate da qualsiasi individuo razionale per porre fine alle dispute e portare gli avversari a ravvedersi.
Le persone razionali accettano di vivere sotto l’egida di uno Stato la cui forma esatta non è mai precisata ma che assolve una funzione essenziale: arbitrare in ultima istanza tutte le dispute. È sotto questo strano regime, come abbiamo visto nella conferenza I, che la “natura” ha finito col rivestire il ruolo di Corte suprema di ogni decisione morale7. È il fatto di trovarsi all’interno di questa Grande Riserva che spiega il languore di ogni discussione sull’ecologia: l’idea straordinaria che, se ci volgiamo alla “natura” e alle sue leggi, raggiungeremo necessariamente un accordo, come se fossimo cittadini dello stesso corpo politico. Ogni razionalista, in questo senso, è cittadino dello Stato della Natura. Chi oserebbe mettere in discussione lo Spirito delle sue Leggi?
Prima dell’Antropocene, non ci eravamo resi del tutto conto dell’esistenza di questa Cupola [Dôme] virtuale, poiché limitavamo l’esistenza degli Stati ai soli assemblaggi umani. Se questi ultimi avevano un’ecologia era al di fuori di loro, nell’ambiente, e serviva soltanto a situarli da qualche parte su una mappa. È questa finzione che è svanita con l’immersione nella geostoria, con la proliferazione delle controversie – di cui la generalizzazione del clima-scetticismo non è che un sintomo –, in breve, con l’intrusione di Gaia. Per la prima volta, è emerso chiaramente che l’universalità delle leggi, la fondatezza dei fatti, la solidità dei risultati e la qualità dei modelli non potevano più essere sfruttati, nemmeno in sogno, per garantire l’accordo delle menti e piegare gli Stati-nazione sotto uno stesso giogo. È proprio perché Gaia non è la “natura”, né alcuno dei suoi surrogati, che obbliga a riprendere la questione della politica e a cercare un altro principio di sovranità. Se Gaia possiede un effetto così potente di leva politica, è perché solleva nuovamente il problema di stabilire in nome di quale autorità suprema abbiamo accettato di dare la nostra vita – o, più spesso, di prendere quella degli altri.
Ecco perché mi sono permesso, nelle due conferenze precedenti, di affrontare il bizzarro esercizio di sostituire la falsa universalità dello Stato della Natura – inoperante in ogni caso – con la convocazione di popoli distinti, di collettivi, capaci di stringere relazioni diplomatiche. Ciò che perdiamo da un lato – l’appello indiscutibile alla Scienza della Natura –, lo riguadagneremo forse dall’altro, a condizione di accettare di passare da un regime di pace apparente a un regime di pace possibile. Nel mezzo, è vero, è inutile nasconderlo, bisogna accettare di parlare di guerra. Non riusciremo mai a ripoliticizzare l’ecologia se non accettiamo innanzitutto di riconoscere l’esistenza di uno stato di guerra – una guerra dei mondi – e che l’Antico regime climatico non era nient’altro che un armistizio, in attesa di un trattato di pace che non si è mai stipulato, perché ci avrebbe costretto a distinguere con precisione le verità contrastanti della religione, della politica e della scienza. Esito a ribadirlo, ma è in questo senso che la “ripresa delle ostilità” potrebbe essere un buon segno per noi. Finalmente, grazie alle dispute sul clima e su come governarlo, poniamo nuovamente la questione politica in termini di vita e di morte: cosa sono pronto a difendere? Chi sono pronto a sacrificare?
Con una torsione inattesa del celebre concetto di Hobbes, siamo entrati in questo stato di natura che egli collocava in un passato mitico, prima del contratto sociale, e il cui modello gli era fornito dai costumi (fraintesi) degli indiani d’America: “Per tutto il tempo in cui gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga soggiogati, si trovano in quella condizione chiamata guerra e questa guerra è tale che ogni uomo è contro ogni uomo8”.
Oggi, la cosa strana è che questo stato di natura non è situato, come lo era per Hobbes, nel passato; viene verso di noi, è il nostro presente. Peggio ancora: se non siamo abbastanza ingegnosi, potrebbe diventare anche il nostro avvenire. Ora che non c’è più il “potere comune” dello Stato della Natura e delle sue leggi a tenere tutte le entità “soggiogate”, assistiamo a una guerra “di ogni uomo contro ogni uomo”, i cui protagonisti possono quindi essere non soltanto il lupo e l’agnello, ma anche il tonno e la CO2, il livello del mare, i noduli delle piante o le alghe, in aggiunta a innumerevoli fazioni umane in disaccordo su pressoché ogni cosa: “A qualcuno, che non abbia valutato bene queste cose, potrebbe sembrare strano che la natura abbia dissociato gli uomini in questo modo e che li abbia predisposti ad aggredirsi e a distruggersi l’un l’altro9”.
Contrariamente a ciò che diceva Hobbes, oggi non ci sorprende affatto che la “natura” non possa in alcun caso pacificare l’“animale politico”! La “natura”, ora lo sappiamo, divide – e divide radicalmente. Non c’è dunque nulla di sorprendente nell’essere terrorizzati all’idea di avere perso la sicurezza del grande Leviatano e di ritrovarci di fronte all’altro Cosmocolosso le cui avventure stiamo seguendo dall’inizio di queste conferenze: l’Antropocene10.
Se non dobbiamo abbandonare il progetto di ricercare la sicurezza e la protezione, la pace e la certezza, sotto un nuovo Leviatano da inventare, è perché la sicurezza apportata dallo Stato della Natura non è mai stata conseguita in realtà. Il desiderio di costruire la Repubblica, l’autentica res publica, è sempre davanti a noi. Grazie all’irruzione di Gaia prendiamo coscienza del fatto che non abbiamo neppure cominciato ad abbozzare un contratto realistico, perlomeno un contratto che possa reggere su questa Terra sublunare che è la nostra. Ecco perché ci sentiamo così fortemente contemporanei di Hobbes, messi a confronto con la stessa antica questione di porre fine alle guerre civili e religiose. Con la differenza che egli desiderava ricostruire la società civile dopo che la garanzia di una Religione veramente cattolica (nel senso etimologico di universale) fosse scomparsa, laddove noi dobbiamo fare altrettanto, ora che l’autorità di una Natura veramente cattolica, conosciuta dalle scienze unificate, è altresì crollata. Nel nuovo Leviatano le violente dispute sull’esegesi della letteratura scientifica sostituiscono le dispute ai ferri corti sull’esegesi della letteratura biblica. Ricordate la replica, nell’opera Gaïa Global Circus, della climatologa Virginie a Ted, il factotum dei clima-scettici: “Andate a dire ai vostri maestri che gli scienziati sono sul piede di guerra!11”.
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Per proseguire con questi temi tanto delicati quanto rischiosi, voglio ricorrere all’autore meno adatto a rassicurarvi, il tossico e nondimeno indispensabile Carl Schmitt (1888-1985). Possiamo paragonare il giurista nazista a un veleno conservato in laboratorio alla bisogna, ovvero per quando si renda necessario un principio attivo abbastanza potente da controbilanciare altri veleni ancora più pericolosi: è tutta una questione di dosaggio! In questa circostanza, le sostanze che dobbiamo contrastare sono così forti che vi invito a mitridatizzarvi con piccole dosi di Schmitt, assunte con precauzione… In ogni caso, come fare a meno di qualcuno che ha scritto, in pieno XX secolo, questa frase così perfettamente adeguata alla crisi che stiamo vivendo? “La terra è detta nel linguaggio mitico la madre del diritto […]. È quanto intende il poeta quando, parlando della terra universalmente giusta, la definisce justissima Tellus12”.
“La giustissima Terra”! Per coloro fra di noi che cercano di affrontare Gaia e comprendere quale sia il diritto che potrebbe partorire, ammettiamolo, vale la pena esaminare il testo più a fondo. D’altro canto, non sono interessato a Schmitt in quanto inventore del sin troppo celebre principio di eccezione13.
Volendo reagire alla progressiva scomparsa della politica, estromessa dal management, dall’organizzazione, dall’economia (ciò che oggi si chiamerebbe la “governance”), Schmitt ha proceduto come se l’eccezione politica fosse un momento raro, riservato al Capo, al di sopra delle leggi. L’idea era ovviamente corretta – la politica non ha nulla a che vedere con la semplice applicazione di una regola prestabilita. Ma ha troncato questa idea ponendo l’accento su un solo segmento della traiettoria del tutto particolare del discorso politico – il momento in cui il Capo va dritto “al punto”, recidendo il nodo gordiano. Ora, il modo di esistenza politica è eccezionale in tutti i suoi segmenti, dal momento che traccia una curva che non procede mai, com’è ovvio, in linea retta14. Cosicché il principio di eccezione non ha più nulla di eccezionale, una volta che si accetti di seguire il modo così particolare con cui il politico distingue, in ogni momento, il vero dal falso.
Sfortunatamente, invece di accettare l’originalità di questo modo facendo emergere il contrasto con i modi dell’informazione scientifica, della morale o del diritto, Schmitt ha messo in rilievo uno solo dei suoi momenti – associandolo, perdipiù, al ruolo del Führer – e ne ha così dissimulato la banalità paradossale. In altre parole, Schmitt ha confuso lo stato di eccezione con la particolarità di questo modo. Per evitare di essere contaminati da questa versione ristretta del principio di eccezione, i suoi lettori, fingendo di esserne inorriditi, hanno cominciato a sostituire il discorso tortuoso, proprio del politico, con l’applicazione di regole di buon governo15. Nel tentativo di salvare la singolarità del politico sul punto di essere spodestato, Schmitt ne ha dato una versione così esotica, così teutonica, che non è riuscito, in ultima analisi, a far altro che accelerarne la scomparsa!
Ciò che deve interessarci piuttosto è questo libro dallo strano titolo, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum”, scritto durante la guerra e pubblicato poco dopo16. Che rapporto sussiste, vi starete chiedendo, fra l’ecologia politica e questo anziano pensatore reazionario? Nessuno17! È proprio perché Schmitt non pensa neppure per un secondo a ciò che diverrà la questione ecologica che il suo modo di parlare della Terra e del suo diritto, del suo nomos, come lo definisce, può apparire così utile a chi sta cercando di disfarsi del peso che il concetto di “natura” ha fatto ricadere sui temi concernenti la Terra, il diritto, la sovranità, la guerra e la pace, questioni che sono divenute le nostre con la comparsa di Gaia. È perché non guarda minimamente al mondo, al Globo, che Il nomos della terra può essere utilizzato per concettualizzare il successore della nozione politica, scientifica e teologica di “natura18”. Quando Schmitt volge lo sguardo alla Terra, vi vede la matrice di un diritto possibile. Qualcuno che ignori fino a questo punto la natura: è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno!
Se Schmitt può quindi venirci in soccorso, a condizione di rispettarne il dosaggio, è perché ha compreso, da buon giurista, che non è possibile operare alcuna distinzione tra i fatti e i valori se non ci si situa in uno stadio precedente la forma moderna che ha causato la biforcazione fra diritto naturale e diritto positivo, physis e nomos19. Ma è, in secondo luogo, perché lui stesso ha compreso – senza tuttavia la generosa luminosità di Voegelin – l’importanza dell’Apocalisse in ogni filosofia della storia e non crede, contrariamente ai moderni, di essersi sbarazzato definitivamente della religione. Dietro il guazzabuglio della sua mitologia, ha perfettamente colto che non si può pensare la politica se si cerca di sfuggire al tempo della fine20.
Ciò che è più straordinario per i suoi contemporanei è che non scambia le scienze, e in particolare la cartografia, per quel che descriverebbe obiettivamente il mondo esterno, ma per ciò che, all’interno del mondo, lo modula, lo indaga, lo calcola, lo disegna, in breve, lo rappresenta in modo peculiare. In altre parole, Schmitt non si lascia impressionare dalla figura così pregnante del Globo: quando parla del globale è sempre perché vi vede la mano di una egemonia scientifica, economica o istituzionale in via di espansione o, con le sue parole, di “conquista territoriale21”. Come nel quadro di Friedrich, per lui il globo è inserito nel mondo. Per tutte queste caratteristiche Schmitt resiste allo scientismo del suo tempo.
Ciò sarebbe sufficiente, è evidente, a renderlo utile ai fini della nostra ricerca, ma è la conseguenza che ne trae per la comprensione dello spazio che m’interessa maggiormente. Schmitt è forse il solo pensatore politico a non essersi lasciato conquistare dal contesto spaziale. Lo spazio, a suo avviso, è il risultato provvisorio di un fenomeno di espansione, di spazializzazione, di conquista territoriale, che dipende da altre variabili politiche e tecniche. Per lui, come per gli storici delle scienze più recenti, la res extensa non è ciò in cui si situa la politica – lo sfondo topografico di ogni geopolitica –, ma ciò che è generato dall’azione politica stessa e dalla sua strumentazione tecnica. In altre parole, anche per lui, lo spazio è figlio della storia. Schmitt ignora quindi risolutamente la distinzione canonica fra geografia “fisica” e geografia “umana22”. Proprio perché è sia un giurista sia un teologo politico, egli cerca di tornare a uno stadio che si collocherebbe prima dell’invenzione del territorio, concepito come uno spazio trasparente che un sovrano contemplerebbe dalla finestra del suo palazzo23. Notate che sto dicendo “prima” e non “dopo”. In effetti, contrariamente a tanti critici dello spazio, Schmitt non cerca di aggiungere il sentimento dello spazio “vissuto” allo spazio “oggettivo” – il che equivarrebbe a prolungare la biforcazione fra geografia umana e fisica –, ma piuttosto di generare tanti spazi, al plurale, quante sono le situazioni politiche e tecniche concrete. Al territorio concepito come uno spazio, un contenitore indifferenziato, oppone i territori concepiti come luoghi, contenuti differenzianti.
Di conseguenza, quando Schmitt parla della Terra, non sta parlando del Globo su cui si posizionerebbero successivamente gli Stati-nazione in guerra, come pezzi su una scacchiera, ma di territorializzazioni multiple, alcune delle quali intratterrebbero provvisoriamente relazioni spaziali particolari – deformando così la scacchiera. La storia, inclusa la storia delle tecnologie, è quindi per lui all’origine delle pratiche di spazializzazione. Poiché questo è anche il punto essenziale che abbiamo riconosciuto in Lovelock24, con la stessa diffidenza per il globale che deve essere composto organismo per organismo, capite bene perché la lettura di un simile libro mi ha profondamente colpito. Peraltro, cosa c’è di sorprendente nel volgersi a un maestro riconosciuto della geopolitica e del diritto internazionale per riaprire le questioni poste dalla Gaia-politica e il Nuovo regime climatico? Fra il nomos di una Terra concepita come un Globo e il nomos di una Terra concepita come Gaia, ossia come l’anti-Globo, Schmitt ci permetterà di operare una scelta.
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Come molti lettori, ho rimandato il più possibile la lettura di quest’opera fino a quando, un giorno, ho aperto Il nomos della terra e mi sono imbattuto nel seguente paragrafo, l’ultimo della prefazione:
L’ordinamento eurocentrico finora vigente del diritto internazionale sta oggi tramontando. Con esso affonda il vecchio nomos della terra. Questo era scaturito dalla favolosa e inattesa scoperta di un nuovo mondo, da un evento storico irripetibile. Una sua ripetizione moderna si potrebbe pensare solo in paralleli immaginari, come se ad esempio uomini in viaggio verso la luna scoprissero un nuovo corpo celeste finora del tutto sconosciuto, da poter sfruttare liberamente e da utilizzare al fine di alleggerire i conflitti sulla terra. La questione di un nuovo nomos della terra non può trovare una risposta in siffatte fantasie. E neppure potrà essere risolta mediante ulteriori scoperte nel campo delle scienze naturali.25
“Favolosa” non è ovviamente il termine che impiegheremmo oggi per parlare della carneficina vissuta da chi è stato così “scoperto”! Ricordiamo la data del 1610, utilizzata come “chiodo d’oro” per l’inizio dell’Antropocene, per via dell’eliminazione degli Indiani d’America e della riforestazione che ne è seguita26. Ciò che interessa Schmitt non è la sorte degli Indiani, ma il collegamento fra la rivalità degli Stati europei e la conquista di terra libera – ossia terra svuotata preliminarmente dei suoi imperi e nazioni. Ora, questa domanda, in una forma leggermente differente, ci ha tenuti occupati sin dall’inizio: gli umani possono ancora espandersi ulteriormente, verso nuove terre? La risposta di Schmitt è negativa. Non troveremo più un “nuovo corpo celeste” se non nella fantascienza. Ecco la Grande Riserva! Né la conquista dello spazio né “ulteriori scoperte” ci offriranno più l’occasione di attenuare le rivalità fra Stati-nazione. Siamo di nuovo schiacciati nel solo spazio sublunare. I nostri sogni di conquista somigliano ormai all’aereo supersonico Concorde, sospeso alla fine di una pista all’aeroporto Charles de Gaulle, sorta di monumento involontario ai futurismi passati. L’antico nomos della Terra – introduco nuovamente la maiuscola – dipende da scoperte di mondi in estensione, mentre il futuro nomos dipende dalla scoperta di una Nuova Terra in intensità.
Schmitt era evidentemente in errore quando diceva che gli umani non hanno trovato nuove terre. Quelle che hanno sfruttato con la stessa frenesia e la stessa violenza con cui hanno abusato del Nuovo Mondo non si trovavano fra la Terra e la Luna e non è con un razzo che si erano avvicinati a esse. Si trovavano sotto la superficie della Terra e, se gli Stati hanno potuto affondarvi la mano per mitigare le loro rivalità anche quando le esacerbavano, è stato attraverso pozzi minerari, esplorazioni, trivellazioni, estrazioni e fracking. Potremmo persino dire che il carbone, il petrolio e il gas costituiscono di fatto un “nuovo corpo celeste”, se teniamo a mente che abbiamo a che fare col sole catturato da entità viventi i cui resti sono stati alla fine sedimentati in strati di roccia27. Ecco il loro nuovo Nuovo Mondo. Ed è come una res nullius e senza il minimo scrupolo che questo continente nuovo è stato conquistato: “Drill Baby, drill!28”. Fino ad arrivare alla situazione attuale in cui si è superata la soglia di 400 ppm di CO2.
A ogni modo, Schmitt ha ragione su un punto: questa nuova conquista territoriale, tanto favolosa quanto inattesa, è anche “irripetibile”. A partire dalla pubblicazione del suo libro, la riserva è stata chiusa definitivamente, imprigionandoci negli effetti imprevisti di una simile estrazione. Le potenze si sono limitate, esse stesse, a rimanere impantanate nelle conseguenze della loro azione di conquista. Il giudizio è senza appello: non c’è più nulla che possa attenuare le rivalità fra Stati-nazione imprigionati in questa Grande Enclosure29. Ci dirigiamo ancora una volta verso la guerra di tutti contro tutti, senza alcuna possibilità di rinviare i conflitti attenuando le rivalità fra potenze con l’occupazione di nuove terre.
Ma ciò che mi ha più stupito è la fine del paragrafo: Schmitt termina con una invocazione totalmente differente sia nella direzione che nel tono:
Il pensiero degli uomini deve nuovamente rivolgersi agli ordinamenti elementari della loro esistenza terrestre. Noi siamo alla ricerca del regno di senso della terra [Sinnreich der Erde]. Questa è l’impresa rischiosa del presente libro e questo l’imperativo che sta all’origine del nostro lavoro.
È agli spiriti pacifici che è promesso il regno della terra. Anche l’idea di un nuovo nomos della terra si dischiuderà solo a loro.30
Mentre stava indirizzando la nostra attenzione verso una guerra senza fine, ecco che comincia a parlare di “spiriti pacifici” alla ricerca di ciò che è corretto tradurre con il “regno di senso della terra”. E che lo faccia poi citando, cosa stupefacente per il giurista del Terzo Reich, il Discorso della montagna! È vero che lo rimaneggia in parte31, ma capiamo bene che il bellicoso Carl Schmitt non poteva spingersi tanto oltre da affidare ai “miti” una simile “rivelazione”! È quindi “ai costruttori di pace” che affida la scoperta del “nuovo nomos della terra”, “impresa rischiosa” e “imperativo all’origine” della sua opera.
L’insolito termine nomos – configurazione in cui “divengono palesi gli ordinamenti e le localizzazioni della convivenza umana32” – non deve preoccuparci. Anche se Schmitt dà prova di notevole erudizione nell’approfondirne l’etimologia33, vi si affeziona, in fondo, per altre ragioni. È infatti alla ricerca di un termine che possa conferire adeguata dignità a un concetto che consentirebbe ai suoi lettori di situarsi in un punto antecedente l’invenzione della distinzione fra natura e politica34. E, come sempre, quando si cerca di tornare indietro nel tempo, è alla mitologia che bisogna affidarsi e, se possibile, in greco! In pratica, il termine nomos ricopre tecnicamente la stessa funzione della parola assai più austera che ho utilizzato in queste conferenze: redistribuzione delle agency. Con questo concetto, anch’io ho cercato di situarmi in una posizione antecedente alla distinzione fra natura e cultura, qualità primarie e secondarie, scienza e politica. Se il nomos si presenta come un elemento di una storia mitica del diritto internazionale, il suo autentico ruolo concettuale è rendere i collettivi nuovamente comparabili. In altre parole, il nomos è una versione più giuridica e più erudita del termine cosmogramma che ho utilizzato per immaginare l’assemblea diplomatica dei popoli in lotta per la Terra.
Dobbiamo accettare di prendere sul serio il sorprendente imperativo a “dischiudere” il cosmogramma (o il nomos) della Terra agli “spiriti pacifici” e a loro soltanto? Come possiamo credere che un pensatore invischiato in tanti orrori possa anche parlare di pace, di rivelazione e di condivisione della Terra? È a questo punto che dobbiamo prendere una decisione: Schmitt ha realizzato che non potremo mai parlare di pace se non ci decidiamo innanzitutto a riconoscere nella situazione attuale uno stato di guerra – e quindi ad accettare di avere dei nemici. Sostengo che, almeno su questo punto, dobbiamo decidere in suo favore. “Hic Rhodus, hic salta.”
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Prima di interessarci a ciò che consentirà ai territori di esplicitare le loro linee di battaglia, cerchiamo di capire perché l’accesso alle negoziazioni di pace esiga il riconoscimento preliminare di uno stato di guerra. Tutto dipende dalla distinzione introdotta da Schmitt in un libro assai meglio noto, Il concetto di ‘politico’, fra operazioni di polizia e stato di guerra. Queste categorie, come sappiamo, si basano sulla distinzione amico/nemico. Il vero nemico non deve essere confuso con l’avversario che si disprezza per motivi morali, religiosi, commerciali o estetici. In tal caso il legittimo oppositore diverrebbe una semplice canaglia o, per dirla in latino, hostis sarebbe scambiato per inimicus.
Non v’è bisogno che il nemico politico sia moralmente cattivo, o esteticamente brutto; egli non deve necessariamente presentarsi come concorrente economico e forse può anche apparire vantaggioso concludere affari con lui. Egli è semplicemente l’altro, lo straniero35 [der Fremde] e basta alla sua essenza che egli sia esistenzialmente, in un senso particolarmente intensivo, qualcosa d’altro e di straniero, per modo che, nel caso estremo, siano possibili con lui conflitti che non possano venir decisi né attraverso un sistema di norme prestabilite né mediante l’intervento di un terzo “disimpegnato” e perciò “imparziale”.36
Fintanto che esiste un “terzo ‘disimpegnato’ e perciò ‘imparziale’”, capace di applicare “un sistema di norme prestabilite” per giudicare chi ha torto e chi ha ragione, non esiste nemico né stato di guerra. E dunque, secondo Schmitt, neppure politico. Fintanto che esiste un arbitro riconosciuto da tutti, un giudice, una Provvidenza, un distributore supremo, ossia uno Stato, le migliaia di battaglie inevitabili fra gli umani divisi non sono altro che lotte intestine superabili con l’applicazione di semplici regole di organizzazione. “Se ci sono problemi, chiamate la polizia!” Ma non c’è guerra quando i conflitti possono essere risolti chiamando la polizia, poiché persino coloro che sono coinvolti nella disputa concordano sul fatto che lo Stato ha il diritto di definire in tal modo la situazione. Non c’è guerra là dove l’amministrazione, il diritto positivo, la polizia e il bilancio sono sufficienti. Tutte queste operazioni sono giudicate legittime a priori e possono essere calcolate in anticipo; tutti i rischi corsi nell’attuarle sono di esecuzione, non di principio.
La guerra comincia quando non c’è arbitro sovrano, quando non esiste “un sistema di norme” che possa essere applicato per emettere un giudizio. È allora che raggiungiamo il “limite” e i “conflitti con lo straniero” diventano possibili.
I concetti di amico, nemico e lotta acquistano il loro significato reale dal fatto che si riferiscono in modo specifico alla possibilità reale dell’uccisione fisica. La guerra consegue dall’ostilità poiché questa è negazione assoluta di ogni altro essere. La guerra è solo la realizzazione estrema dell’ostilità. Essa non ha bisogno di essere qualcosa di quotidiano o di normale, e neppure di essere vista come qualcosa di ideale o di desiderabile: essa deve però esistere come possibilità reale, perché il concetto di nemico possa mantenere il suo significato.37
Schmitt sta ovviamente pensando solo alle guerre fra umani, così come sono state innescate, scatenate, esacerbate dall’assenza di una terza parte superiore (in veste di superarbitro) o, al contrario, tenute a freno, rallentate, pacificate dalla presenza di un arbitro. In qualità di storico di diritto interstatale, egli identifica l’arbitro nell’antico potere della Chiesa o nel diritto europeo moderno degli Stati-nazione – quel jus publicum europaeum, oggetto di tutti i suoi elogi. A seconda della presenza o meno di questa figura di terzo-arbitro, la politica appare o scompare. Anche se questo argomento è ben noto, non ha tuttavia permesso sinora di rallentare la dissoluzione della politica nella gestione, nell’etica e nella governance.
Cosa accade quando riconosciamo anche l’assenza di una terza parte esterna e disinteressata che arbitri i conflitti fra umani e altri esseri, vale a dire i non umani, che possono divenire “in un senso particolarmente intensivo” – non v’è dubbio su questo punto – “stranieri”? Se conducete le vostre battaglie ecologiche come se si svolgessero sotto l’egida di un arbitro imparziale, non è evidente che si ridurranno anch’esse a semplici operazioni di polizia, senza chiamare in alcun modo in causa la distinzione amico/nemico? Avremo a che fare solo con esseri razionali che cercano di ricondurre altri esseri irrazionali alla ragione o alla conoscenza certa di oggetti disanimati. In mancanza di qualsiasi “negazione assoluta di ogni altro essere”, potremo constatare dei combattimenti fra avversari, ma non guerre fra stranieri. Ecco qui l’origine della depoliticizzazione delle questioni ecologiche: i naturalisti non hanno nemici, poiché, letteralmente, il caso è chiuso, la questione è risolta – in senso tanto legale quanto scientifico. Come dice l’adagio: Roma locuta, causa finita est (“Roma ha parlato, il caso è chiuso”).
Se il concetto chiave è la presenza o l’assenza di un terzo disinteressato e imparziale, capiamo bene che, se intendiamo ripoliticizzare l’ecologia, non dobbiamo esitare a estendere l’argomentazione di Schmitt a tutti i conflitti, compresi quelli che mettono in gioco gli agenti un tempo naturali. Anche se in prima battuta questo essere “l’altro, lo straniero” designava entità antropomorfe, ottant’anni dopo il numero di coloro che sono scesi nell’arena è drammaticamente aumentato. Ciò che Schmitt poteva solo intravedere, noi, contemporanei dell’Antropocene, siamo costretti a riconoscerlo: ogni volta che ci troviamo di fronte a situazioni in cui è in ballo la “negazione esistenziale di un altro essere” – e quindi, oggi, ovunque –, l’ostilità si diffonde a macchia d’olio. Ciò non significa che dovremo necessariamente combattere – la guerra non è “cosa comune, cosa normale”, neppure “una soluzione ideale o auspicabile” –, ma piuttosto che la Cupola della Natura, sotto la quale tutti gli antichi conflitti avevano luogo, è scomparsa. È questa scomparsa che obbliga ciascuno di noi a prendere sul serio l’“attualizzazione ultima dell’ostilità” anche quando si tratta di esseri “stranieri”, ai quali, in senso letterale, neghiamo l’esistenza e che possono, a loro volta – è qui la novità –, negarcela.
Siamo giunti al punto in cui non dovremmo sbagliarci in merito al ruolo di Gaia in questo ritorno alla situazione di guerra. Gaia non occupa più in alcun senso la posizione di arbitro che la Natura rivestiva nel periodo moderno. Tale è il punto critico, di non ritorno, fra la “natura” unitaria, indifferente, imparziale, globale, le cui leggi sono stabilite in anticipo dal principio di causalità, e Gaia che non è unitaria, i cui anelli di retroazione devono essere scoperti uno a uno e di cui non si può più dire che sia indifferente alle nostre azioni, dal momento che siamo obbligati a definire l’Antropocene come la reazione multiforme della Terra alle nostre imprese. Gaia non è più “incurante” di ciò che facciamo. Lungi dall’essere “disinteressata” al nostro operato, nutre ora invece notevole interesse proprio nelle nostre azioni. Gaia è infatti una terza parte in tutti i nostri conflitti – soprattutto a partire dall’Antropocene –, ma non ricopre in nessun momento il ruolo di terzo superiore alle situazioni e capace di assommarle. Il tutto, anche in questo caso, come sempre, è inferiore alle parti38.
Comprendiamo come lo Spirito delle Leggi nei due regimi sia a questo punto differente: nell’Antico regime climatico, ogni conflitto è pre-giudicato dalla semplice applicazione delle leggi della “natura”; nel Nuovo regime climatico non c’è arbitro sovrano, bisogna battersi punto per punto, per scoprire – e non più applicare – le reazioni delle agency le une sulle altre. Nel primo regime gli oggetti sono disanimati, soltanto i soggetti hanno un’anima; nel secondo l’animazione è condivisa fra tutte le entità, a tal punto che non c’è più né oggetto (disanimato) né soggetto (sovranimato). Nel primo regime ci sono solo operazioni di polizia, nel secondo ci si ritrova effettivamente in uno stato di guerra. Nel primo regime la Pace è data a priori, nel secondo bisogna inventarla con la messa a punto di una diplomazia specifica. Il primo è naturalista; il secondo, diciamo, composizionista39.
Ecco perché bisogna diffidare del concetto di Globo e perché è così essenziale non confondere Gaia con la Sfera, il Sistema o la Terra colta nel suo insieme o Tutto40. Il Globo offre una raffigurazione, per così dire, geometrica dell’arbitro sovrano che regna al di sopra di tutti i conflitti – e che, di conseguenza, prontamente li depoliticizza. Gaia, di contro, può essere definita come la moltiplicazione dei siti in cui entità radicalmente straniere praticano la “negazione esistenziale” le une delle altre. Mai più l’insieme complesso delle scienze della natura che costituisce la climatologia sarà capace di rivestire il ruolo di arbitro finale e indiscutibile. Non a causa della controversia artificialmente alimentata sull’origine antropica del cambiamento climatico, ma in ragione della quantità di anelli che le scienze devono mettere in campo, uno dopo l’altro, per renderci sensibili alla sensibilità di Gaia. La “natura”, o almeno la Terra sublunare, è stata posta in una situazione tale da obbligare tutti a prendere delle decisioni sugli “estremi” della vita e della morte di fronte a stranieri che pretendono di negare la loro condizione esistenziale. Gaia e le scienze del sistema della Terra sono interamente coinvolte in una geostoria tanto “piena di rumore e furore” al pari della storia antica, essa stessa “raccontata da un idiota”!
Ecco perché, nelle epoche precedenti, quando invocavamo la Natura, ci posizionavamo effettivamente, senza neppure pensarci, sotto l’egida di uno Stato della Natura, uno Stato con la S maiuscola, un Leviatano mostruoso, con una metà fatta di politica, l’altra di Scienza. Se questo Stato mostruoso riusciva a sopravvivere, bene o male, con una metà del corpo nella natura e l’altra nella politica era perché bisognava porre fine, come abbiamo visto con Toulmin41, alle guerre di religione per mezzo di un culto della certezza incontestabile. L’armistizio proposto da Hobbes non è mai riuscito a ottenere, con un trattato in buona e debita forma, una situazione di pace duratura fra le esigenze contraddittorie delle diverse forme di controreligione. Da qui la costruzione di una Costituzione traballante che faceva finta di offrire la pace alle nazioni pur conducendo una guerra contro la “natura”, una guerra tanto più senza limiti poiché non è mai sembrata una guerra.
Come sappiamo, gran parte dell’opera di Schmitt è dedicata alla questione di una guerra divenuta illimitata, in mancanza di un riconoscimento chiaro della qualità del nemico. È proprio questa negazione di uno stato di guerra e la dissimulazione del rapporto amico/nemico sotto la parvenza di semplici operazioni di polizia che porta, agli occhi di Schmitt, alla trasformazione di guerre limitate in guerre di sterminio42. Qualsiasi lettore dei conflitti ecologici attuali non può che concordare su questo punto: mai i conflitti sarebbero giunti fino allo sterminio radicale se fossero stati considerati come guerre in cui l’altra parte, a sua volta, poteva mettere in pericolo l’esistenza di coloro che l’attaccavano. La possibilità di uno sterminio, di ciò che è necessario chiamare una guerra di annientamento, proveniva dall’illusione che stavamo conducendo, in nome della civiltà, soltanto una semplice operazione di pacificazione! Come scriveva Schmitt:
Un mondo nel quale sia stata definitivamente accantonata e distrutta la possibilità di una lotta di questo genere, un globo terrestre definitivamente pacificato, sarebbe un mondo senza più la distinzione fra amico e nemico e di conseguenza un mondo senza politica.43
Schmitt non prendeva di mira ovviamente l’ecologia tale e quale si è sviluppata sin qui, ma mirava con precisione all’ideale di coloro che desideravano un “globo terrestre definitivamente pacificato”. Non è questo l’ideale dei naturalisti, l’utopia degli ecologisti profondi, superficiali o una via di mezzo; l’orizzonte di coloro che sperano di divenire i manager e gli ingegneri o re-ingegneri del pianeta, di coloro che desiderano uscire dallo “sviluppo sostenibile”, l’ideale degli ecomodernisti44, di coloro che si considerano i fedeli guardiani, gli austeri maggiordomi, i giardinieri avveduti o i custodi attenti della Terra? In breve, non è in effetti il sogno di coloro che vorrebbero tremendamente, quando hanno a che fare con “semplici questioni materiali”, fare del tutto a meno della politica?
La scelta che ci suggerisce Schmitt è terribilmente chiara: sia che accettiate di distinguere il nemico dall’amico, e allora vi state impegnando in politica, definendo strettamente le frontiere di guerre assai reali – “guerre su ciò di cui è fatto il mondo”; sia che evitiate accuratamente di condurre guerre e avere nemici, ma in questo caso state rinunciando alla politica, il che significa che vi state arrendendo alla protezione di uno Stato della Natura che ingloba tutto e che ha già unificato il mondo in un unico insieme, in un Globo, che sarebbe capace di risolvere tutti i conflitti dal suo punto di vista disinteressato, neutro, onnicomprensivo. Uno stupefacente amalgama dei poteri religioso, scientifico e politico: “Sub specie aeternitatis, sub specie Dei, sive Spherae, sive Naturae”.
La seconda soluzione sarebbe preferibile, lo riconosco senza difficoltà, poiché consentirebbe almeno di rimandare i conflitti: “Restiamo tutti fratelli sotto lo stesso pianeta blu, schierandoci sotto la stessa autorità politico-scientifica per sfuggire a conflitti ben più gravi”. Poiché non sono particolarmente bellicoso, non mi dispiacerebbe affatto. Ma soltanto a condizione che un simile Stato possa esistere. Se non può esistere, allora ciò che avrebbe potuto essere accettato come soluzione di ripiego diviene semplicemente criminale, poiché acconsentiremmo a porre la nostra sicurezza e quella di tutte le altre entità con cui condividiamo la Terra sotto la protezione di un corpo politico incapace di difenderci. Quando si tratta di garantire la loro sicurezza, i pacifisti diventano pericolosi.
La virtù pericolosa dei pensatori reazionari come Schmitt è costringerci a fare una scelta più radicale di quella di tanti ecologisti, sempre animati dalla speranza di uscire dalla crisi senza mai politicizzare le questioni di “natura”. È una scelta difficile, lo ammetto: sia che la “natura” ponga fine alla politica, sia che la politica obblighi ad abbandonare la “natura” – e quindi accetti finalmente di affrontare Gaia. Tenete a mente quella frase del Vangelo che ho già citato, frase che Schmitt avrebbe sin troppo bene compreso: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra: sono venuto a portare non pace, ma spada!” (Mt 10,34). Fra i costruttori di pace e gli “spiriti pacifici” ai quali, e a loro soltanto, il “nomos della Terra” è stato promesso, bisognerà operare una scelta.
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Accettare di attraversare uno stato di guerra per ricercare, quindi, per mezzo di transazioni diplomatiche, soluzioni di pace richiede importanti trasformazioni nel modo in cui i collettivi si presentano gli uni agli altri. Questi ultimi devono accettare di precisare l’epoca in cui vivono, il nome che attribuiscono al loro popolo e, soprattutto, devono essere capaci di tracciare lo spazio loro proprio perché gli altri comprendano quale sia il territorio che sono pronti a difendere. I limiti spaziali – ecco l’innovazione di Schmitt che ci interessa maggiormente – sono delineati dall’identificazione di stranieri riconosciuti come altri “in un senso particolarmente intensivo” (hostis), “per modo che, nel caso estremo, siano possibili con lui conflitti”. Fare emergere questi limiti è il solo modo per ripoliticizzare l’ecologia e porre fine, di conseguenza, alle semplici operazioni di conquista, di occupazione della terra o di pacificazione.
Cominciamo dall’epoca. Per tenere testa alla minaccia, dobbiamo innanzitutto comprendere perché sentiamo che viene verso di noi e perché è così difficile affrontarla a testa alta45. Come ho ricordato nell’introduzione, ho dato inizio al bizzarro progetto di volgermi a Gaia delineando nella mia mente il profilo di una ballerina che inizialmente indietreggia dandosi alla fuga, come se stesse scappando da qualcosa di così terribile da restare indifferente alla distruzione che si stava invece lasciando alle spalle, arretrando alla cieca, un po’ come l’“angelo della storia” reso celebre da Walter Benjamin46. Questo “angelo della geostoria”, come ho definito la danzatrice, getta dietro di sé occhiate sempre più inquiete, poi rallenta, come fosse rimasto impigliato in rovi spinosi, finché non finisce col voltarsi di scatto, a cogliere di colpo tutto l’orrore delle cose che deve affrontare, e pian piano arriva ad arrestarsi completamente, gli occhi enormi spalancati, incredulo, prima di iniziare a battere in ritirata, terrorizzato da ciò che sta venendo verso di lui.
Contrariamente a ciò che si dice spesso di loro, i moderni non sono creature che guardano in avanti, ma quasi esclusivamente indietro e, curiosamente, in alto. Ecco perché l’irruzione di Gaia li lascia così di stucco. Poiché non hanno occhi dietro la testa, negano completamente che stia venendo verso di loro, come se fossero troppo occupati a fuggire gli orrori di un tempo. Sembrerebbe che la loro visione del futuro li abbia resi ciechi alla direzione che hanno intrapreso; o, piuttosto, è come se ciò che intendono con “futuro” sia interamente costituito dal rifiuto del loro passato, senza alcun contenuto realistico sulle “cose a venire”. I figli dell’Illuminismo hanno l’abitudine di rifiutare con terrore il passato minaccioso da cui hanno avuto il coraggio di scappare o, al contrario, di dotarlo di qualità magnifiche a cui aspirano con nostalgia, ma sono di poche parole in merito alle cose a venire.
Come abbiamo imparato con Voegelin, il futuro dei moderni non è davanti a loro, affidato a una visione realistica, esitante, del tempo che passa, ma è fatto piuttosto di quella trascendenza inaccessibile che cercano nondimeno di situare nel tempo per sostituirne il corso. Il futuro, per loro, è l’avvenire, ma privato del modo di divenire, poiché non lo guardano mai dritto in faccia e non lo colgono mai nella sua forma umile e ordinaria. Di qui l’assenza eclatante di realismo, la suscettibilità a ciò che in inglese è detto “hype”, la ripresa continua di una visione futuristica del futuro. A causa del fenomeno che Voegelin chiama immanentizzazione47, i moderni non sono mai del loro tempo, ma sempre dall’altra parte dell’Apocalisse, sospesi fra la speranza e la disperazione, entrambe ugualmente senza senso. E inoltre, poiché hanno completamente dimenticato le origini della controreligione di cui sono gli eredi inconsapevoli, sono incapaci di guarire da questa illusione, ritornando ai testi che li avrebbero resi di nuovo sensibili alle esigenze della controreligione. In breve, il tempo dei moderni è sorprendentemente atemporale48.
Non vedono l’avvenire se non in forma di romanzo futuristico. Nulla di sorprendente in ciò: non hanno mai prestato particolare attenzione alla direzione in cui stanno andando, ossessionati dall’idea di sfuggire al loro attaccamento alla vecchia Terra. Pronti al distacco, sembrano veramente ingenui quando incontrano la prospettiva del riattaccamento a una nuova residenza, della delineazione di un nuovo nomos. Somigliano ad astronauti che si apprestano a fare un giro di esplorazione nello spazio senza tuta. I moderni sono straordinariamente abili a liberarsi dalle catene del loro passato arcaico, provinciale, soffocante, locale, territoriale, ma, quando si tratta di designare le nuove località, i nuovi territori, le nuove province, le nuove reti strette verso cui stanno migrando, si accontentano dell’utopia, della distopia, della pubblicità, limitandosi a gonfiare il petto, come se avessero davvero i polmoni adatti a respirare l’aria sottile e tossica della mondializzazione49.
Ma allora, a quale orizzonte volgerci quando affrontiamo Gaia? Dobbiamo scegliere fra due concezioni opposte di progresso poiché Gaia è simultaneamente ciò che era qui, che è stato dimenticato e abbandonato nel cammino – Ge, l’antica dea – e ciò che viene verso di noi, il nostro avvenire, senza per questo essere il nostro futuro. L’ironia della geostoria è che si trova stretta fra due divinità, l’una del passato più antico, l’altra dell’avvenire più prossimo, ed entrambe portano lo stesso nome. Di conseguenza, non appena cominciamo a preoccuparci del clima, dell’appartenenza alla terra, del territorio, non sappiamo se l’ingiunzione consista nel condurci indietro o in avanti, se dobbiamo guardare in alto, in basso, dietro o davanti a noi… Non c’è da stupirsi se siamo divisi e l’ecologia ci fa ammattire!
Se il futuro e l’avvenire ci conducono in direzioni differenti, lo stesso vale per la parola terra. A seconda che parliate della terra come gleba e terreno, o della terra come Terra, l’orientamento della freccia del tempo cambia immediatamente. Oscillate dall’attitudine reazionaria all’attitudine progressista. Insistere sulla gleba e il terreno è essere reazionario alla maniera antica, invocando “la terra che non mente”, Blut und Boden. Ed è ben vero che i reazionari di ogni tendenza, incluso Schmitt, hanno sempre insistito su quanto sia criminale la volontà di lasciare l’antica terra, di abbandonare la cara vecchia landa, di dimenticare i limiti del vecchio nomos, di essere emancipati e cosmopoliti. Contro questi nostalgici richiami a restare “indietro”, i rivoluzionari hanno sempre fatto appello all’emancipazione. Eppure, ciò che non potevano immaginare era che ci potesse essere un altro significato nell’attaccamento alla terra antica, nel senso, stavolta, della “buona vecchia Terra”. Non appena lo dite, le cose si capovolgono, e la terra, che era fino a poco prima quel che ci si doveva lasciare alle spalle per profittare della modernizzazione, diviene la nuova Terra che sta venendo verso di voi. Contrariamente a ciò che dicono i nostalgici, il ritorno della Terra non ha nulla a che fare con il ritorno alla terra!
Ciò può sorprendere ma, all’epoca dell’Antropocene, il Grande Racconto dell’Emancipazione ci ha resi inadatti a trovare il cammino della Terra a cui apparteniamo. Come se le nozioni stesse di “appartenenza” e “territorio” odorassero di reazione! Eppure, si potrebbe pensare che, dopo tanti secoli di critica della religione, non avremmo alcuna difficoltà a riconoscere che siamo “di questa Terra”. Com’è strano che, dopo aver sentito così tanti appelli a favore del materialismo, ci ritroviamo totalmente indifesi nell’affrontare le condizioni materiali della nostra esistenza atmosferica! Dopo tanto sarcasmo verso chi predicava alle masse che dovevano fuggire nel “retromondo [arrière-monde]50” per scampare alle dure condizioni del mondo di quaggiù, eccoci tuttavia sconcertati dal fatto che possano esserci dei limiti ai nostri obiettivi, incapaci di definire una condotta mondana, terrestre, incarnata. Mentre la “morte di Dio”, si supponeva, avrebbe dovuto riportarci a una condizione umana, troppo umana, ci ritroviamo esitanti, mormoranti nel buio, in una “valle di lacrime”, chiedendoci stupiti come sia possibile avere così tanta difficoltà a sentire la terra sotto i piedi! Mentre per parecchi secoli ci eravamo riempiti la bocca con la certezza di essere realisti tutti d’un pezzo, circondati da matters of fact, scopriamo ora esterrefatti di essere di qui. Ai materialisti siamo costretti a chiedere: “Per favore, ridateci la nostra materialità”… È come se, al di sotto della valle di lacrime, ci fosse un’altra valle di lacrime!
Ciò che sta per venire, Gaia, deve apparire come una minaccia, perché è questo il solo modo per renderci sensibili alla mortalità, alla finitudine, alla “negazione esistenziale”, alla semplice difficoltà di essere di questa Terra. È il solo modo per renderci consapevoli, tragicamente consapevoli, del Nuovo regime climatico. Solo la tragedia può permetterci di essere all’altezza di questo evento. Come abbiamo visto nella conferenza precedente, i fuochi d’artificio dell’Apocalisse non sono qui per prepararci a un’ascensione estatica al Cielo, ma al contrario per evitarci di essere cacciati dalla Terra che reagisce ai nostri tentativi di dominarla. Abbiamo frainteso l’ingiunzione: non dovevamo portare il Cielo sulla Terra, ma in primis prenderci cura, grazie al Cielo, della Terra. È il solo modo per costringerci a cambiare la direzione della nostra attenzione, dopo tanti anni passati a negligere ciò che accadeva alle nostre spalle. Se l’“angelo della geostoria” sta iniziando a guardare in avanti con orrore e incredulità è perché ha preso consapevolezza dell’esistenza di una minaccia e del fatto che ha condotto a una guerra che non cesserà mai se continua a negarla! Per dirlo senza mezzi termini, non possiamo continuare a credere al vecchio futuro, se vogliamo avere un avvenire. È ciò che intendo con “affrontare Gaia”.
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È impossibile capire le questioni ecologiche se non accettiamo di avere opinioni divergenti in merito. Per resistere al desiderio di svuotare l’ecologia della sua politica, dobbiamo sospendere queste visioni unanimi, universali e globali. Senza riconoscere per prima cosa che gli umani sono divisi in innumerevoli partiti in guerra tra loro, nessuna pace sarà possibile, nessuna Repubblica sarà mai costruita. Vi supplico di non trarre la conclusione che disprezzo l’ideale dell’universalità: riconosco, condivido, faccio tesoro di questo ideale, ma cerco un modo realistico di conseguirlo. E, per farlo, dobbiamo fare come se fossimo certi che non sia già realizzato. La nostra condizione è quindi al contempo la stessa e l’opposto di quella di Hobbes: la stessa, perché l’imperativo è la ricerca della pace; l’opposto, perché non possiamo andare dallo stato di natura allo Stato, ma dallo Stato della Natura al riconoscimento di uno stato di guerra. Mentre Hobbes aveva bisogno dello stato di natura per generare il concetto di contratto sociale, noi abbiamo bisogno di riconoscere un nuovo stato di guerra prima di cercare nuove forme di sovranità. Ecco perché era così importante, nelle conferenze precedenti, combattere la maledizione del Globo e introdurre popoli multipli e dispersi, distribuendo le loro agency in funzione di cosmogrammi specifici e convocati da deità differenti. Conveniamo per un momento di porre la questione nella seguente forma: invece di immaginare che non abbiate nemici perché vivete sotto la protezione di una Natura (presumibilmente depoliticizzata), designate i vostri nemici e delimitate il territorio che siete pronti a difendere.
Ciò equivale, temo, a dubitare della solidità del contratto sociale. Infatti, ciò che rende la designazione del nemico ancora più urgente è che non ha senso parlare della “specie umana” come di una parte in conflitto con un’altra – per esempio con la “natura51”. La prima linea non divide soltanto ognuna delle nostre anime, ma anche tutti i collettivi intorno ai problemi cosmopolitici che dobbiamo affrontare. L’antropos dell’Antropocene non è altro che la finzione pericolosa di un agente universalizzato capace di agire come un’umanità unica52. Perché una tale Umanità sia sostenibile, ci dovrebbe essere uno Stato mondiale già posizionato dietro di essa. L’Umano (con la U maiuscola) come agente della storia è stato smobilitato e dismesso53. Come abbiamo visto nella conferenza IV, il vantaggio dell’Antropocene è che pone fine non soltanto all’antropocentrismo, ma anche a ogni unificazione prematura della specie umana, consentendo di immaginare una nuova comprensione della nozione di specie – ma non ancora, anzi, soprattutto non ancora.
Che consideriate la controversia mondiale sugli OGM, il calcolo degli stock ittici, lo sviluppo dell’energia eolica, l’alterazione delle coste, la manifattura di abbigliamento, la produzione di cibo, medicine e macchine, la riconfigurazione delle città, la trasformazione delle tecniche agricole, la protezione della fauna selvatica, il cambiamento del ciclo del carbonio, il ruolo del vapore acqueo o l’influenza delle macchie solari, il distaccamento dei ghiacciai – in ogni caso, vi trovate davanti a questioni, a sfide, che riuniscono coloro che vi si oppongono54. Ora che c’è uno stato di guerra comprovato, è possibile per ciascuna delle parti in lotta essere espliciti sui propri scopi bellici.
Al di là delle ragioni tattiche, non è più necessario nascondersi dietro un qualche appello all’oggettività della conoscenza, ai valori indiscutibili dello sviluppo umano, al Bene pubblico o al benessere della comune umanità55. Diteci piuttosto chi siete, chi sono i vostri amici e i vostri nemici, chi siete pronti a sacrificare per la vostra felicità, quali stranieri possono mettervi in condizione tale da negare la vostra esistenza – e, inoltre, per favore, diteci infine chiaramente da quale deità vi sentite convocati e protetti. Se trovate questo argomento troppo crudele, ricordate che le crisi ecologiche non ci hanno privati di un terzo disinteressato, capace di arbitrare tutti i nostri conflitti, ma ci hanno al contrario rivelato che questa terza parte non è mai esistita e che la soluzione ideata nel XVII secolo non era mai stata altro che un armistizio provvisorio. È questo lo stato di eccezione aperto dal Nuovo regime climatico. È quel che ci obbliga a occuparci ancora una volta di politica.
Tremo all’idea di sostenere una tesi che si presta così facilmente a fraintendimenti, ma bisogna pur trarre le fila di queste sette conferenze: se vogliamo avere una ecologia politica, dobbiamo innanzitutto cominciare a riconoscere la divisione di una specie umana che è stata prematuramente unificata. Dobbiamo fare spazio ai collettivi in conflitto gli uni contro gli altri, e non soltanto per le culture conosciute attraverso una scienza come l’antropologia fisica o culturale. Dobbiamo rimettere in questione non solo l’idea di una Natura intesa come indifferente alla nostra miseria – Gaia è eccessivamente suscettibile56 –, ma anche la nozione di umani prematuramente unificati. Ecco perché è forse preferibile dire che il “popolo di Gaia” si riunisce, si raduna, si comporta in un modo che non è facilmente conciliabile, per esempio, con coloro che si definiscono “popolo della Natura”, “popolo della Creazione” o con quelli che si inorgogliscono di essere semplicemente “Umani”. Ricordate il bizzarro Trono di Spade a cui ho tentato di giocare nella conferenza V. Questi diversi popoli potrebbero riunirsi in futuro, ma soltanto dopo essere stati capaci di comprendere in cosa si differenziano57. Troppe preoccupazioni “ci” dividono – e questo “ci”, per prima cosa, possiede frontiere che sarebbe bene cercare di ridisegnare.
Con l’avvento dell’Antropocene, gli Umani sono ora in guerra non con la Natura, ma con… a proposito, con chi? Ho avuto un sacco di problemi a trovare loro un nome. Ci vorrebbe un appellativo che divida coloro che sono stati chiamati Umani, consentendo di specificare le loro autorità supreme, le loro epoche, le loro terre – in breve, il loro cosmogramma –, invece di fonderli tutti in una massa informe58. La fantascienza utilizza spesso il termine “Terrestri”, ma avrebbe un non so che di Star Trek e designerebbe in ogni caso l’insieme della specie umana considerata da un altro pianeta, in occasione di un “incontro del terzo tipo” con piccoli uomini verdi. Possiamo parlare di “Gaiani”? Sarebbe troppo bizzarro. Chiamarli “bifolchi”? Sarebbe dispregiativo. Ho preferito Terranei (in inglese Earthbound).
So che è rischioso enunciare il problema così, senza mezzi termini, ma sono costretto a dire che, nell’epoca dell’Antropocene, gli Umani e i Terranei dovrebbero accettare di entrare in guerra. Per dirlo nello stile di una finzione geostorica, gli Umani che vivono all’epoca dell’Olocene sono in conflitto con i Terranei dell’Antropocene.
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I Terranei devono potere tracciare i territori da cui dipendono per la loro esistenza. Quest’ultimo punto è quello che vorrei affrontare in conclusione, prima di esplorare nella conferenza successiva la geopolitica del Nuovo regime climatico. Hobbes – l’Hobbes un po’ semplificato che prendo come punto di riferimento utile a portare avanti tali questioni – era riuscito a ottenere una parvenza di pace affidando allo Stato la piena sovranità, alle Scienze della Natura una forma indiscutibile di certezza, all’esegesi biblica una interpretazione strettamente morale e personale, e, infine, assicurandosi che gli oggetti del mondo naturale fossero totalmente disanimati e che gli agenti umani si attenessero al solo calcolo dei loro interessi, escludendo ogni altro valore59. Il cosmogramma di questo grande Leviatano, se ha permesso forse di ritardare lo stato di guerra ecologico dichiarato, ha avuto l’enorme pecca di privare la politica di ogni ancoraggio territoriale. Il Leviatano poteva muoversi indifferentemente ovunque, poiché i confini che ne definivano il recinto provenivano soltanto dallo Stato e dalla sua designazione dell’amico e del nemico. Di qui la divisione fra geografia fisica – la griglia della scacchiera – e geografia umana – le società che rappresentavano le pedine.
Cosa c’era al di sopra degli Stati? Le regole del calcolo economico, il fantasma della Chiesa pre-Riforma60, le leggi della natura umana, la guerra di tutti contro tutti fra gli Stati sovrani? Nulla che potesse garantire una pace duratura. Il dramma di questa soluzione provvisoria è che i ristretti limiti della sovranità consentivano e consentono ancora – ecco il punto essenziale – la conquista, la presa illimitata di terre [l’illimitation des prises de terre61]. Si è conseguita la pace civile tra Stati al prezzo di una guerra invisibile e totale contro i territori. Di qui la strana astrazione di una geopolitica fondamentalmente senza Terra, senza altro “geo” se non la forma bidimensionale di mappe scambiate per territori. Ciò che l’ecologia politica ha permesso di comprendere è fino a che punto questa Realpolitik fosse, in fondo, irrealistica.
Quando aveva fatto della Terra l’agente principale che definiva le forme concrete di politica, Schmitt non aveva previsto che il ruolo dato a questa Terra potesse cambiare così rapidamente. Aveva infatti colto che gli Stati-nazione non erano semplicemente localizzabili in uno spazio indifferenziato e che si posizionavano automaticamente, definendo altrettanti spazi quante erano le decisioni concernenti l’amico e il nemico. Ciò era evidente per le frontiere geopolitiche: là dove passa il confine, passa anche la differenza fra alleati e stranieri. Schmitt aveva ben compreso che ogni nuova tecnica aveva generato nuove opportunità di posizionarsi ed estendersi: le caravelle dei primi esploratori, così come gli aerei da guerra o i sottomarini, definiscono di volta in volta nuove occupazioni di terra [prises de terre62] (immaginiamo dunque facilmente l’attenzione con cui avrebbe seguito la teoria politica dei droni63). E tuttavia, se è riuscito a spazializzare la politica, non è però evidentemente riuscito a storicizzare l’agency della Terra. Sebbene l’intento del suo libro fosse porla di nuovo all’inizio della riflessione, questa Terra rimane, in ultima analisi, stabile dall’inizio alla fine.
La terra è detta nel linguaggio mitico la madre del diritto […]. Così la terra risulta legata al diritto in un triplice modo. Essa lo serba dentro di sé, come ricompensa del lavoro; lo mostra in sé, come confine netto; infine lo reca su di sé, quale contrassegno pubblico dell’ordinamento. Il diritto è terraneo e riferito alla terra. È quanto intende il poeta quando, parlando della terra universalmente giusta, la definisce justissima Tellus.64
Con simili affermazioni Schmitt reinventa il sentiero da tempo perduto fra diritto positivo e natura, sentiero che la soluzione modernista aveva definitivamente interrotto, poiché la “natura” era stata affidata a oggetti disanimati che non potevano generare un qualche diritto o politica che sia. Finché la Terra veniva confusa con la “natura”, nessuno poteva più qualificarla come la “più giusta”. E tuttavia, si percepisce ben presto che qualcosa non va e che una possibilità di pensiero è definitivamente preclusa. Nella traduzione francese de Il nomos della terra si adotta l’aggettivo terrien (Le droit est terrien et se rapporte à la terre) che non equivale a terrestre (terrestre). Il mondo prospettato dalla mente terranea non è necessariamente di una scala comparabile a quella della Terra. Schmitt, in altre parole, proietta nella sua teoria del diritto i pregiudizi di un vecchio che guarda dalla finestra un antico paesaggio agricolo europeo. Nella sua visione della terra non c’è né antropologia né ecologia. Questa ripartizione terranea, terrosa, tradizionale dei ruoli fra l’uomo e la terra è chiaramente evidente in una delle numerose definizioni che dà del nomos:
Nomos, per contro, viene da nemein, una parola che significa tanto “dividere” quanto “pascolare” [Weiden]. Il nomos è pertanto la forma immediata nella quale si rende spazialmente visibile l’ordinamento politico e sociale di un popolo, la prima misurazione e divisione del pascolo, vale a dire l’occupazione di terra e l’ordinamento concreto che in essa è contenuto e da essa deriva […]. Nomos è la misura che distribuisce il terreno e il suolo della terra collocandolo in un determinato ordinamento, e la forma con ciò data dell’ordinamento politico, sociale e religioso. Misura, ordinamento e forma costituiscono qui una concreta unità spaziale.65
E aggiunge:
Nell’occupazione di terra, nella fondazione di una città o di una colonia si rende visibile il nomos con cui una tribù o un seguito o un popolo si fa stanziale, vale a dire si colloca storicamente e innalza una parte della terra a campo di forza di un ordinamento.66
Ecco infatti il limite, quello di Schmitt, non quello dei lotti coltivati: anche se l’ordine concreto è tratto dalla Terra invece di essere semplicemente imposto alla terra, nondimeno è sempre l’uomo che misura la terra e la conquista, che se ne appropria. L’attore resta sempre l’umanità67. È l’uomo che fonda, misura, si stabilisce, che “innalza una parte della terra a campo di forza di un ordinamento”. Nemmeno per un istante Schmitt immagina – e come potrebbe all’epoca in cui scrive? – che la Terra possa occupare una posizione diversa da quella di ciò che è preso, occupato, conquistato!
Il paradosso di Schmitt è che fa della Terra la “madre del diritto” in una lingua mitica, ma senza poterle accordare altro potere se non quello di rendere “spazialmente visibile” l’“ordinamento politico e sociale”, dandogli una “forma immediata”. Ciò che Schmitt non poteva immaginare è che l’espressione “conquista territoriale”, “presa della terra” – Landnahme – potesse iniziare a significare conquista, presa da parte della Terra. Da quel momento tutto sarebbe cambiato. Mentre gli Umani sono definiti come coloro che prendono la Terra, i Terranei sono presi da essa. In entrambi i casi, la Terra è sempre la Madre del loro diritto, ma non è la stessa madre, non è lo stesso diritto, e, di fatto, non sono gli stessi umani – non sono più tratti dalla stessa gleba, fatti dello stesso humus, modellati dallo stesso compost, in breve, non hanno la stessa composizione. Che la madre del diritto, in fondo materna e benevola, in ogni caso simpatetica, possa divenire la matrigna, la strega o persino la virago del diritto: ecco ciò che non era previsto in questa stupefacente idea di porre l’antica Ge, nel bel mezzo del XX secolo, agli albori della storia mitica dell’ordine concreto.
È questa inversione radicale nella direzione della presa, della conquista, che dovremo prendere in considerazione. Contrariamente ai Terranei, gli Umani non sono degni di fiducia perché non sapete mai dove sono diretti, né quale sia il principio che delimita le frontiere del loro popolo. Pertanto, è impossibile tracciare una mappa precisa dei loro conflitti geopolitici: sia che vi dicano di non appartenere a nessun luogo in particolare, di essere definiti solo dal fatto che – grazie alle loro qualità spirituali o morali – sono stati capaci di liberarsi delle dure “necessità della Natura”; sia che vi dicano di appartenere totalmente alla Natura e al suo regno della necessità materiale, ma quel che intendono con materialità ha così poco a che fare con gli agenti che hanno precedentemente disanimato che il “regno della necessità” – physis – sembra altrettanto al di fuori della Terra quanto il regno della libertà – nomos. In entrambi i casi, sembrano incapaci di appartenere ad alcun cosmo, di tracciare alcun cosmogramma. In ragione di questa mancanza di localizzazione, sembrano restare indifferenti alle conseguenze delle loro azioni, rinviando sempre il pagamento dei loro debiti, indifferenti agli anelli di retroazione che potrebbero renderli sensibili a ciò che fanno e responsabili di ciò che hanno fatto. I moderni si vantano di essere razionali e critici, pur essendo risolutamente non riflessivi. Paradossalmente, ciò che intendono con “essere orientati verso l’avvenire” equivale a dire: “Après moi le déluge68! (Dopo di me il diluvio!)”.
I Terranei, per contro, possono dirsi sensibili e responsabili, non perché possiedano qualità superiori, ma perché appartengono a un territorio e perché la delimitazione di questo popolo è resa esplicita dallo stato di eccezione in cui accettano di essere posti da coloro che osano chiamare i loro nemici. Certo, il territorio in questione non somiglia alle carte geografiche delle nostre aule. Non è fatto di Stati-nazione racchiusi nelle loro frontiere – i soli attori che Schmitt prendesse in considerazione –, ma è costituito piuttosto da reti che si intrecciano, si contrappongono, si sovrappongono, si contraddicono, e che nessuna armonia, nessun sistema, nessuna “terza parte”, nessuna Provvidenza suprema può unificare a priori. I conflitti ecologici non riguardano il Lebensraum nazionalista del passato, bensì, malgrado tutto, lo “spazio” e la “vita”. Il territorio di un agente è la serie degli altri agenti con cui deve fare i conti e che gli sono necessari per sopravvivere nel tempo.
Naturalmente, una simile divisione fra interno ed esterno è tanto fragile quanto variabile, poiché la serie di agenti da cui ciascuno di noi dipende e a cui apparteniamo non può essere sintetizzata senza l’installazione di strumenti capaci di tracciare gli anelli che fanno retroagire la più piccola delle nostre azioni sulle sue cause. Al minimo indebolimento della sensibilità degli strumenti, alla minima riduzione dell’ampiezza di banda dei sensori, l’agente diviene subito meno sensibile, meno reattivo, meno responsabile, diviene incapace di definire ciò a cui appartiene, letteralmente inizia a perdere terreno. Come vedremo nella conferenza successiva, è ciò che rende queste mappe geopolitiche così difficili da stabilizzare.
Se Umani e Terranei sono in guerra, ciò potrebbe anche accadere ai “loro” scienziati in conflitto. Lo scienziato naturalista – colui che dice fieramente di essere “della Natura” – è una figura sfortunata, destinata a scomparire, disincarnata, dietro il suo Sapere, o ad avere un’anima, una voce e un posto, ma a rischio di perdere la sua autorità69. Al contrario, gli scienziati terranei sono creature incarnate. Formano un popolo. Hanno dei nemici. Appartengono al territorio disegnato dai loro strumenti. Il loro sapere si estende fino alla capacità di finanziare, controllare, mantenere i sensori che rendono visibili le conseguenze delle loro azioni. Non si fanno scrupoli a riconoscere il dramma esistenziale in cui sono coinvolti. Osano dire quanto abbiano paura e, dal loro punto di vista, un tale terrore aumenta la qualità della loro scienza piuttosto che diminuirla. Appaiono chiaramente come una nuova forma di potenza non nazionale che prende parte esplicitamente in quanto tale ai conflitti geopolitici. Se il loro territorio non conosce frontiera nazionale, non è perché hanno accesso all’universale, ma perché non cessano di indurre nuovi agenti a divenire parte integrante della sussistenza di altri agenti. La loro autorità è pienamente politica poiché rappresentano agenti che non hanno altra voce e che intervengono nella vita di tanti altri agenti. Non esitano a delineare la forma del mondo, il nomos, il cosmo in cui preferiscono vivere.
Non cercano più di essere la terza parte dominante in tutte le discussioni. Sono un partito, talvolta vincono, talaltra perdono. Sono di questo mondo. Per loro non è un’onta avere degli alleati. Non temono di intraprendere ciò che Schmitt chiama, in breve, Raumordungskriege, guerre per l’ordine spaziale. Liberati dal terribile obbligo di essere i sacerdoti di una divinità in cui non credono, potrebbero quasi dire fieramente: “Noi siamo di Gaia”. Non perché confidino nella saggezza ultima di una superentità, ma perché, finalmente, hanno abbandonato il sogno di vivere all’ombra di una qualsiasi superentità. Se Gaia pesa su di loro è perché hanno compreso che è con lei, piuttosto che con la Natura, che dovranno condividere d’ora in avanti ogni forma di sovranità. Sono profani, non più perché si piccano di avere profanato i valori di altri, come i razionalisti all’antica, ma nel senso assai più banale che accettano di essere ordinari e di questo mondo. Ciò che sembra forse alla maggior parte della gente, scienziati inclusi, una catastrofe – il fatto che i ricercatori siano ora impegnati in geopolitica –, io la intendo come il solo minuscolo barlume di speranza che può illuminarci nella situazione attuale. Finalmente sappiamo cosa stiamo affrontando e con chi dovremo affrontarlo.
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Se soltanto avessi torto! Come mi piacerebbe riuscire a concludere questa conferenza dicendovi che adesso potete svegliarvi da quest’incubo, che l’espressione “guerra e pace” applicata alla Natura era semplicemente un modo di dire. Come sarebbe bello tornare all’Antico regime climatico! Prendere di nuovo le distanze da questa tragicommedia e smettere di far fronte a Gaia. Torneremmo a stenderci comodamente a letto, la testa poggiata sul soffice cuscino del clima-scetticismo…
Non so se ve lo ricordate ma, fino a poco tempo fa, quando alzavamo lo sguardo al cielo, al mattino, potevamo contemplare lo spettacolo di un paesaggio indifferente ai nostri affanni o, più semplicemente, il mutare del tempo, il suo corso incessante, senza che questo volgesse uno sguardo di rimando a noi. La natura era esterna. Com’era rilassante! Ma oggi, invece di incantarci al cospetto delle nuvole, sono le nostre azioni, in parte – una parte di giorno in giorno meno infinitesimale –, che queste nuvole trasportano. Che piova o faccia bello, d’ora in poi, non possiamo più evitare di dire a noi stessi che è in parte colpa nostra! Invece di godere dello spettacolo delle scie dei jet nel cielo blu, tremiamo al pensiero che questi aerei stiano modificando il cielo che attraversano, che lo stiano trascinando sulla loro scia come noi trasciniamo l’atmosfera dietro di noi ogni volta che riscaldiamo il nostro appartamento, mangiamo carne o ci prepariamo a volare dall’altra parte del mondo. No, decisamente, a meno di contemplare i corpi celesti nel mondo sovralunare, non c’è più nulla di esterno su cui meditare con serenità.
Quaggiù, nel mondo sublunare, è il sentimento del sublime, anch’esso, a esserci sfuggito! Per provarlo, dovevamo sentire la nostra piccolezza dinanzi alla maestosità della natura, come anche la magnificenza delle nostre anime di fronte alla brutalità di questa stessa natura. Ma come continuare a percepire ancora il sublime, nell’Antropocene, dal momento che siamo ormai una forza geologica dall’imponenza comparabile alle catene di montagne, ai vulcani, all’erosione? Quanto alla crudeltà, siamo noi, noi moderni, ad averne riempito la nostra anima al punto di rivaleggiare, anche in questo caso, con la natura – noi che condividiamo ormai la stessa prospettiva di divenire roccia? Non riusciremo mai più, semplicemente, a placare la nostra hybris dinanzi allo spettacolo di paesaggi grandiosi. Nella Grande Riserva in cui siamo ora confinati, un occhio è puntato su di noi, ma non è quello di Dio che fissa Caino rannicchiato nella tomba, è l’occhio di Gaia che ci guarda dritto in faccia, in pieno giorno. Impossibile ormai restare indifferenti. Ormai tutto ci riguarda.
Espulso dall’ansa dell’Elba, l’occhio dello spettatore virtuale era costretto a esitare sulla corretta angolazione che avrebbe consentito di cogliere il quadro di Caspar David Friedrich, obbligando il visitatore a rivolgere la sua attenzione dentro di sé. Quando torniamo a esaminare il quadro, due secoli dopo, ci rendiamo conto che siamo stati espulsi dalla Natura, in effetti, ma non più perché è esterna, indifferente, inumana, eterna, ma perché noi stessi siamo talmente aggrovigliati in essa che è divenuta interna, umana, troppo umana, provvisoria forse, in ogni caso sensibile a tutto ciò che facciamo, in veste di terzi in tutte le nostre azioni. Una terza parte che esige la sua parte. Secondo quali regole di distribuzione darle ciò che le è dovuto, a lei, a questa natura che il poeta ha salutato con l’invocazione di justissima tellus?
1 J.L. Koerner, Caspar David Friedrich and the Subject of Landscape, Reaktion Books, London 2009.
2 J. P. Veith (1768-1837), copia di Das große Ostra-Gehege an der Elbe, 1832, Museo di Dresda.
3 Vedi nella conferenza V, p. 217, l’elenco dei tratti che mi è servito per immaginare una simile convocazione di popoli.
4 Vedi la conferenza II, in particolare le pp. 107 ss.
5 È questa trascendenza insoddisfacente che abbiamo preso in esame nella conferenza precedente, a p. 276, seguendo la proposta di Voegelin.
6 B. Latour, Politiche della natura, cit.
7 Sull’impossibilità di distinguere descrizione e prescrizione, vedi, in particolare, pp. 81 ss.
8 T. Hobbes, Leviatano, cit., p. 207.
9 Ivi, pp. 207-209.
10 Vedi la conferenza V, pp. 203 ss.
11 P. Daubigny, Gaïa Global Circus, 2013, cit. a p. 57.
12 C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., pp. 19-20.
13 C. Schmitt, Der Begriff des Politischen, Hanseatische Verlagsanstalt, Hamburg 1932; tr. it. di P. Schiera, Le categorie del politico, a cura di G. Miglio, P. Schiera, il Mulino, Bologna 1972.
14 B. Latour, Et si l’on parlait un peu politique?, in “Politix”, vol. XV, n. 58, 2002, pp. 143-166.
15 Su questo errore di categoria fra organizzazione e politica, cfr. B. Latour, Enquête sur les modes d’existence, cit., e le voci corrispondenti sul sito modesofexistence.org.
16 Sulla scrittura di questo libro, cfr. la presentazione della versione francese di Peter Haggenmacher.
17 Ho fatto tesoro di un seminario organizzato da Sciences Po nel maggio 2015 sull’uso del Nomos della terra in ecologia politica con P.-Y- Condé, N. Feldmann, D. Heinz, B. Karsenti, J. Koerner, M. Northcott, C. Minca, K. Olwig e R. Rowan che ringrazio per le loro stimolanti osservazioni.
18 D. Heinz, La terre come l’impensé du Léviathan, tesi diretta da B. Karsenti, EHESS, Paris 2015.
19 “Nonostante i mutamenti di pensiero e di espressione, iniziatisi già nell’epoca classica, è sempre stato chiaro che il termine nomos non significava originariamente un semplice atto di posizione, in cui essere e dover essere fossero divisi e la struttura spaziale dell’ordinamento concreto potesse rimanere ignorata” (C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 57).
20 H. Meier, Die Lehre Carl Schmitts, J.B. Metzler, Stüttgart 1994; tr. it. La lezione di Carl Schmitt, a cura di C. Badocco, Cantagalli, Siena 2017. Per un uso direttamente religioso e persino spirituale di Schmitt in ecologia, cfr. lo straordinario libro di M.S. Northcott, A Political Theology of Climate Change, cit.
21 C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 73.
22 Due libri, entrambi pubblicati nel 2015, operano simili collegamenti fra il concetto di spazio e la politica ecologica, utilizzando Il nomos della terra: C. Minca, R. Rowan, On Schmitt and Space, Routledge, London 2015; F. Luisetti, W. Kaiser (eds.), The Anomie of the Earth, Duke University Press, Durham 2015; cfr. anche S. Legg (ed.), Spatiality, Sovereignty and Carl Schmitt, Routledge, London 2011. Sfortunatamente, sembra che la biforcazione spazio fisico/società sia qui data per scontata e insuperabile.
23 K. Olwig, Has “Geography” Always Been Modern?, in “Environment and Planning A”, n. 40, 2008, pp. 1843-1861; S. Elden, The Birth of Territory, University of Chicago Press, Chicago 2013.
24 Alla fine della conferenza III, pp. 156 ss.
25 C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 15, corsivo mio.
26 S.L. Lewis, M.A. Maslin, Defining the Anthropocene, cit., ripreso all’inizio della conferenza VI, a p. 259.
27 L’infinitizzazione dell’economia è collegata da T. Mitchell alla “terra nuova” del petrolio che appare accessibile in quantità illimitata – e corrisponde peraltro all’inizio della “grande accelerazione”. Cfr. T. Mitchell, Carbon Democracy, Verso Books, London 2011.
28 “Trivella, ragazzo, trivella!”, lo slogan che riecheggia ai comizi dei repubblicani negli Stati Uniti ed esprime l’entusiasmo quasi cosmico per l’accesso illimitato al petrolio e l’opposizione radicale a ogni restrizione.
29 Nella forma inattesa del tema dei “limiti planetari” proposto da W. Steffen, K. Richardson, J. Rockström et al., Planetary Boundaries, in “Science Express”, 15 gennaio 2015. Su questa rivalità cfr. D. Heinz, La Terre come l’impensé du Léviathan, cit.
30 C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 15.
31 Il Vangelo di Matteo recita: “Beati gli operatori di pace [o costruttori di pace, o spiriti pacifici, o coloro che si adoperano per la pace] perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9), mentre coloro che “erediteranno la terra” o, meglio, “avranno in condivisione la terra” sono i “miti” (Mt 5,4). La traduzione ecumenica francese evita il possessivo: “Heureux les doux car ils auront la terre en partage” (“Beati i miti, perché avranno la terra a loro disposizione”).
32 C. Schmitt, Il nomos della terra, pp. 19-21.
33 E. Laroche, Histoire de la racine Nem en Grec ancien, Klincksieck, Paris 1949.
34 Il giurista canadese Richard Janda ha colto chiaramente questo legame: “This is to say that Schmitt was hiding the fact that what he would ultimately call nomos, associated with the appropriation of land, was not so much an original root relationship to the earth but rather the earlier relationship to the earth that had, for him, the greatest energy and majesty to it” (“Tutto questo per dire che Schmitt nascondeva il fatto che ciò che in ultima analisi avrebbe chiamato nomos, associato all’appropriazione di terra, si configurava non tanto come originario rapporto radicale con la terra, quanto piuttosto come il precedente rapporto con quest’ultima che le restituiva, a suo avviso, la più grande energia e maestà” (Comunicazione personale, 22 marzo 2013).
35 Non dimentichiamo che la nozione di “straniero” si è considerevolmente ampliata nell’epoca dell’Antropocene con l’inclusione dei non umani.
36 C. Schmitt, Der Begriff des Politischen, Hanseatische Verlagsanstalt, Hamburg 1932; tr. it. di P. Schiera, Il concetto di ‘politico’, in Le categorie del politico, a cura di G. Miglio, P. Schiera, cit., p. 109, corsivo mio.
37 Ivi, p. 116, corsivo mio.
38 Non si sottolinea mai abbastanza la tensione fra il globalismo e il pensiero di Gaia. Vedi la conferenza IV.
39 Nel senso della mia modesta iniziativa: cfr. B. Latour, Steps toward the Writing of a Compositionist Manifesto, cit.
40 Supra, in particolare, p. 201.
41 Vedi la conferenza precedente, pp. 262 ss.
42 Di qui la sua critica al trattato di Versailles che aveva considerato la Germania non soltanto come la parte che aveva perso, ma come quella criminale, e il modo in cui Schmitt ha rivisitato la storia della guerra – cfr. la bella introduzione di C. Jouin a C. Schmitt, La guerre civile mondiale, ERE, Paris 2007.
43 C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, cit., p. 118.
44 Cfr. il sito del Breakthrough Institute fondato dopo la pubblicazione del libro di T. Nordhaus, M. Shellenberger, Break Through, Houghton Mifflin Company, New York 2007. Bisogna tuttavia riconoscere ai due fondatori una grande apertura di spirito per avermi accolto per un periodo come collega, pur non condividendo pressoché nessuna delle loro posizioni!
45 È il breve filmato della ballerina Stéphanie Ganachaud il cui movimento continua a ossessionarmi, vimeo.com/60064456, cit. a p. 11.
46 W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte [1942], in Werke und Nachlaß, bd. 19, Suhrkamp, Berlin 2010; tr. it. Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola, M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997.
47 Vedi l’argomentazione alle pp. 280 ss.
48 Risiede qui tutto il significato del progetto di Péguy, allievo ispirato da Bergson, in particolare in Clio: restituire ai moderni una temporalità. Cfr. C. Péguy, Clio, Gallimard, Paris 1917; tr. it. Clio, a cura di G. Antonelli, A. Prontera, Milella, Lecce 1994.
49 P. Sloterdijk, Sphären. Band III. Schäume, in P. Sloterdijk, Sphären, cit.; tr. it. Sfere III. Schiume, a cura di G. Bonaiuti, Raffaello Cortina, Milano 2015.
50 Il concetto di Hinterwelt, “retromondo” o “mondo dietro il mondo”, è stato sviluppato da Nietzsche nell’opera Così parlò Zarathustra. Nel suo ampio spettro di significati, l’idea nietzschiana di “retromondo” ha a che fare con la tendenza profondamente radicata nella cultura occidentale a interpretare la realtà mondana come rinvio a una dimensione più profonda e vera, capace di farne da fondamento: di fronte a un’esistenza di cui percepisce la mancanza di significato, l’uomo tenta di porvi rimedio con la religione o la filosofia [N.d.T.].
51 La rivolta di Gaia di J. Lovelock non è quindi un buon titolo: non ci sono due parti.
52 È il senso della critica indirizzata alla nozione di Antropocene di C. Bonneuil, P. de Jouvancourt (En finir avec l’épopée), nonché di I. Stengers (Penser à partir du ravage écologique), presente nella stessa collettanea. Cfr. É. Hache (éd.), De l’univers clos au monde infini, cit.
53 D. Chakrabarty, Postcolonial Studies and the Challenge of Climate Change, cit. Mi ha rassicurato sentire Anna Tsing rispondere con voce calma a un uomo che muoveva un’obiezione sul nuovo attore che avrebbe sostituito il proletariato rivoluzionario: “Forse abbiamo già avuto troppi attori eroici…!” (Utrecht, 18 aprile 2015).
54 N. Marres, Material Participation, Palgrave Macmillan, London 2012.
55 Che ognuno riesca a battersi sotto la propria bandiera è l’unica speranza democratica di W. Lippmann e la sola che ritiene realistica. Cfr. W. Lippmann, The Phantom Public, cit.
56 È la proprietà che le conferisce I. Stengers.
57 R. White, The Middle Ground, Cambridge University Press, Cambridge (Mass.) 1991. È sulla creazione di un simile spazio comune – una finzione, una simulazione – che ci concentreremo nella conferenza successiva.
58 Prima di indignarsi della perdita di umanità, è opportuno ricordare quanto si siano ristrette le proprietà dell’umano che si vorrebbero salvaguardare, poiché, per paura di sprofondare nel “naturalismo”, non integravano né il mondo, né il corpo, né la materialità.
59 Sulla figura di Hobbes delineata da Voegelin, cfr. il commentario fondamentale di B. Karsenti, La représentation selon Voegelin, ou les deux visages de Hobbes, in “Revue des sciences philosophiques et théologiques”, vol. XCVI, n. 3, 2012, pp. 513-540.
60 C. Schmitt, Sul Leviatano, cit.
61 L’espressione francese “prise de terre” (traduzione, a sua volta, dell’originale “Landnahme”), “appropriazione del suolo”, “occupazione della terra”, è resa in italiano – nell’edizione italiana de Il nomos della terra – con “conquista territoriale”, per “designare il processo di ordinamento e localizzazione concernente la terraferma e costituente il diritto” (secondo la definizione stessa di C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 73). Nel corso delle conferenze sarà evidente il suo legame semantico anche con la traduzione più letterale e più antica di “presa (di possesso) della terra”, come leggiamo nella Bibbia, in particolare nella Genesi [N.d.T.].
62 Non si può parlare di questi temi senza fare riferimento alla mitologia, come fa Schmitt in Land und Meer, Reclam Verlag, Berlin 1942; tr. it. Terra e mare, a cura di A. Bolaffi, Giuffrè, Milano 1986.
63 Come fa splendidamente G. Chamayou, Théorie du drone, La Fabrique, Paris 2013.
64 C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., pp. 19-20, corsivo mio.
65 Ivi, p. 59, corsivo mio.
66 Ibid., corsivo mio.
67 È questa ambiguità che esplora D. Heinz, La terre come l’impensé du Léviathan, cit.
68 Frase attribuita dalla tradizione al re di Francia Luigi XIV, che l’avrebbe pronunciata nel corso di una conversazione con la marchesa di Pompadour, allo scopo di porre fine alle insistenti esortazioni di quest’ultima a occuparsi attivamente degli affari dello Stato [N.d.T.].
69 Vedi la conferenza V, alle pp. 228 ss.