Conferenza IV
L’Antropocene e la distruzione (dell’immagine) del Globo*

L’Antropocene: una innovazione – Mente et Malleo – Un termine discutibile per un’epoca incerta – L’occasione ideale per disgregare le figure dell’Uomo e della Natura – Sloterdijk o l’origine teologica dell’immagine della Sfera – La confusione di Scienza e Globo – Tyrrell contro Lovelock – Gli anelli di retroazione non disegnano un Globo – Alfine, un principio diverso di composizione – Melancholia o la fine del Globo

Suppongo che non siamo in molti ad avere atteso con tanta impazienza, nella prima metà del 2012, le conclusioni del XXXIV Congresso internazionale di geologia che doveva avere luogo a Brisbane in estate1. Devo ammettere che, fino a questa data, non rientrava nelle mie abitudini seguire il lavoro di questo eminente corpo accademico – sebbene il loro motto un po’ nietzscheano Mente et Malleo (Con la mente e con il martello) sarebbe ben adeguato alla mia professione! Se l’ho fatto quell’anno è perché, come tutti, attendevo che la Commissione internazionale sulla stratigrafia o, per essere più precisi, il gruppo di lavoro della Sottocommissione sulla stratigrafia del quaternario, presieduto dal professore Jan Zalasiewicz dell’università di Leicester, assumesse finalmente una decisione chiara e netta sull’epoca in cui viviamo.

Definire un’epoca della storia, e farlo ufficialmente, non è cosa da poco! Avevano intenzione di dichiarare che la Terra era entrata in una nuova epoca o no2? E se sì, in quale data precisa? La posta in gioco era enorme: per la prima volta nella geostoria, si sarebbe proclamato solennemente che la forza più importante che modella la Terra è quella dell’umanità, presa in blocco e in un pezzo unico. Di qui il nome proposto, l’Antropocene (-cene sta per “nuovo”, antropos per “umano”). Lo Zeitgeist deciso da una Sottocommissione? Capite bene perché ero in trepidante attesa3!

E così, mentre mi aspettavo qualcosa di solenne, rimasi un po’ deluso nel leggere il resoconto della riunione di Brisbane:

Il gruppo di ricerca considera al momento l’Antropocene come una potenziale epoca geologica, ossia posta allo stesso livello gerarchico del Pleistocene e dell’Olocene, il che implica che sia situata nel periodo Quaternario, ma che l’Olocene si sia concluso4

“Potenziale” non è molto risolutivo; per contro, dichiarare che non viviamo più nell’Olocene, questo sì che è ben più radicale, poiché è proprio nel corso di questi undicimila anni di relativa stabilità fra le due glaciazioni che l’umanità o, più esattamente, le civiltà hanno potuto svilupparsi5. Fin tanto che eravamo nell’Olocene, la Terra rimaneva stabile e sullo sfondo, indifferente alle nostre storie. Era, per così dire, business as usual. Di contro, se “l’Olocene si è concluso”, questa, sì, è la prova che siamo entrati in un periodo nuovo di instabilità: la Terra diviene sensibile alle nostre azioni e noi, gli umani, diventiamo, in una certa misura, geologia!

Una simile decisione richiede, lo capiamo bene, un’attenta riflessione. Se la stratigrafia ha rivoluzionato la storia della Terra è in parte grazie alla cura con cui i geologi trattano le questioni di nomenclatura. È quindi fuori discussione che chicchessia possa essere autorizzato a determinare il nome del primo strato di roccia in cui s’imbatte. La relazione prosegue:

Grosso modo, per essere accettato come termine tecnico, l’“Antropocene” deve essere: a) scientificamente giustificato (ossia il “segnale geologico” attualmente prodotto da strati in formazione deve essere sufficientemente ampio, chiaro e distinto); b) utile alla comunità scientifica come termine tecnico. In termini di b) il termine ufficioso “Antropocene” si è già dimostrato molto utile per la comunità di ricerca sul cambiamento climatico e continuerà pertanto a essere utilizzato, ma resta da determinare se la tecnicizzazione nella Scala di tempo geologico possa renderlo più utile o estendere la sua utilità ad altre comunità scientifiche, come la comunità dei geologi.

Avanzare la proposta di un nome per una epoca geologica tramite la burocrazia dell’Associazione internazionale di geologia è un percorso altrettanto tortuoso del fare passare una legge al vaglio di commissioni parlamentari o promuovere la beatificazione di un santo per tramite della diplomazia vaticana. E, anche se i geologi concordano nel dare all’umanità un ruolo decisivo, devono ancora raggiungere un accordo sulla data e sul marcatore che consentirà a tutti gli specialisti, ovunque nel mondo, di riconoscerlo nelle rocce:

L’inizio dell’Antropocene è più generalmente attestato intorno al 1800, agli albori della rivoluzione industriale in Europa (originale proposta di Crutzen6); altre date candidate potenziali per i confini temporali sono state suggerite, talvolta date anteriori (durante o persino prima dell’Olocene), talaltre più tarde (per esempio all’inizio dell’era nucleare7). Tecnicamente, un “Antropocene” potrebbe essere definito in riferimento a un punto specifico in uno strato, ossia un Punto Stratotipico Globale (GSSP), noto in lingua corrente col nome di “chiodo d’oro” [golden spike], o da un confine temporale ufficiale (una Età Stratigrafica Standard Globale).

Insomma, una marea di questioni tecniche che non consentono sempre di capire se l’Olocene sia concluso o meno e se il Nuovo regime climatico a cui ho fatto riferimento nelle conferenze precedenti abbia un correlativo nelle rocce. È che avevo dimenticato che i geologi hanno l’abitudine di prendere tempo e di parlare in termini di milioni e miliardi di anni. Hanno impiegato, per esempio, quasi mezzo secolo per stabilire l’Era quaternaria! Ecco perché, indifferenti alla pressione esercitata da profani come me che volevano assolutamente sapere se la notizia fosse ufficiale o meno, hanno tranquillamente scritto nella relazione conclusiva che avrebbero dovuto differire la votazione finale di almeno quattro anni!

Il gruppo di ricerca ha presentato domanda di finanziamento per consentire alle discussioni e ai lavori di ricerca di proseguire e auspica di raggiungere un consenso sulla formalizzazione al Congresso internazionale di geologia del 2016.

Notate il verbo disinvolto “auspica un consenso”, nonché l’irritante abitudine dei ricercatori di richiedere sempre maggiori sovvenzioni8. Capite bene la mia delusione: come se avessimo tanto di quel tempo a disposizione per decidere la data che attribuisce agli umani la responsabilità di essere divenuti una forza geologica!

In attesa di questa decisione, gli articoli pubblicati dal gruppo di ricerca animato da Zalasiewicz offrono a chiunque voglia interessarsi all’argomento un appassionante esempio della redistribuzione delle agency che stiamo seguendo di conferenza in conferenza. Eccola qui, la zona metamorfica che ho cercato di definire nelle pagine precedenti: tutte le attività umane si trovano metamorfizzate in parte in forme geologiche; tutto quel che chiamavamo strato roccioso comincia a umanizzarsi – in ogni caso a recare le tracce degli umani selvaggiamente rimodellati! Non si tratta più di paesaggi, di utilizzo del territorio o di impatto locale. D’ora in poi, è con la scala dei fenomeni terrestri che va stabilito il confronto. A furia di aumentare costantemente il consumo energetico, la civiltà umana “gira”, se così si può dire, a 17 terawatt e 24 ore su 24, il che finisce per renderla paragonabile al dispendio di energia dei vulcani o degli tsunami – quelli più violenti ma su brevi lassi di tempo. Certi calcoli finiscono persino col paragonare la potenza di trasformazione umana alla tettonica delle placche9.

È come se i geologi, trasportandosi con l’immaginazione in tempi futuri, stessero facendo un esperimento di pensiero che consentisse loro di dedurre retrospettivamente, dagli strati di rocce che cominciano ad accumularsi, quel che ne è stato dell’epoca cosiddetta degli “umani10”. Nelle rocce, in effetti, è visibile ogni cosa: la modificazione della sedimentazione dei fiumi attraverso le dighe; i cambiamenti nell’acidità degli oceani; l’introduzione di prodotti chimici sconosciuti in passato; le rovine composite di vaste infrastrutture che non somigliano a nulla di ciò che le ha precedute; i cambiamenti nel ritmo e nella natura dell’erosione; le variazioni nel ciclo dell’azoto; l’aumento continuo della CO2 nell’atmosfera, senza dimenticare l’improvvisa scomparsa delle specie viventi nel corso di quella che i biologi si rassegnano a chiamare la “sesta estinzione11. Ogni cosa può essere identificata in maniera sempre più leggibile nei sedimenti perché, a partire dal 16 luglio 1945, le esplosioni atomiche costituiscono un serio candidato a sostituto del famoso “chiodo d’oro”, facile da rilevare ovunque nel mondo, e potrebbero mettere d’accordo tutti i geologi grazie alla chiarezza del segnale radioattivo.

Ogni elemento di questa lista – è proprio questo l’aspetto più affascinante – si poteva ritrovare nel corso del XIX e del XX secolo nelle narrazioni epiche delle gesta meravigliose dell’Uomo che trasformava la Terra per meglio dominarla. Con la differenza che oggi il tono non è più trionfale, che non si tratta più di “dominare” la natura, ma di ricercare nelle rovine sedimentarie la traccia di un divenire-pietra degli umani di un tempo. Come in una nuova dialettica servo-padrone, i tratti dell’uno e dell’altro hanno finito per confondersi. Antropomorfismo delle zone critiche, petromorfismo degli umani. In ogni caso, fusione delle forze geostoriche in ciò che somiglia proprio a un calderone di streghe.

La cosa risulterebbe divertente se non fosse così drammatica, ma quel che fa esitare di più i membri della Sottocomissione è il miscuglio di scale temporali alle quali devono fare fronte. Vi ricordate come a scuola ci hanno insegnato a restare a bocca aperta dinanzi al ritmo lento dei tempi geologici? In un momento in cui potevamo difficilmente immaginarci a venti anni, i nostri professori si strappavano i capelli per trovare metodi pedagogici ottimali, capaci di abolire la distanza infinita che ci separava dall’era dei dinosauri o dall’epoca di Lucy12. Ed ecco che, all’improvviso, con un’inversione completa, vediamo i geologi sbalorditi dinanzi al ritmo rapido della storia geo-umana, un ritmo che li costringe a posizionare il loro “chiodo d’oro” in un segmento di duecento o anche solo sessant’anni (a seconda che si scelga un limite temporale breve o molto breve per delimitare la comparsa dell’Antropocene). La formula “tempo geologico” è ora utilizzata per un evento che ha avuto una vita più breve dell’Unione Sovietica! Come se la distinzione fra storia e geostoria fosse improvvisamente scomparsa e i cicli di carbonio e azoto acquisissero una importanza su scala cosmica comparabile solo alle ultime glaciazioni o al progetto Manhattan13.

Lasciamo gli specialisti della stratigrafia procedere pure con calma e aspettiamo pazientemente che prendano una decisione. Vista l’importanza della posta in gioco, non possiamo biasimarli se chiedono un po’ di tempo per regolare questa accelerazione del tempo, anche se ciò significa adeguarsi al lento iter burocratico del senato accademico!

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Ciò che fa dellAntropocene un eccellente marcatore, un “chiodo d’oro” chiaramente riconoscibile ben al di là della frontiera della stratigrafia, è il fatto che il nome di questo periodo geostorico può divenire il concetto filosofico, religioso, antropologico e, come vedremo ben presto, politico più pertinente per cominciare a voltare le spalle definitivamente alle nozioni di “moderno” e “modernità”.

Trovo allettante che questo ossimoro di geologia e umanità sia il prodotto delle riflessioni di geologi seri che, fino a poco fa, erano totalmente indifferenti ai pro e ai contro delle ricerche nelle scienze umane. Nessun filosofo postmoderno, nessun antropologo, nessun teologo liberale, nessun pensatore politico avrebbe osato misurare l’influenza degli umani con la stessa scala dei fiumi, dei vulcani, dell’erosione e della biochimica. Quale “costruttivista sociale”, risoluto a mostrare che i fatti scientifici, le relazioni di potere, le ineguaglianze fra i sessi non sono “altro che” episodi storici fabbricati dagli umani, avrebbe osato dire la stessa cosa della composizione chimica dell’atmosfera? Quale critico letterario avrebbe esteso i principi della decostruzione dei testi agli strati di sedimenti che rivelano in tutti i delta del pianeta le tracce irrefutabili dell’erosione di origine umana14?

Nel momento stesso in cui stava diventando di moda parlare del “postumano”, assumendo il tono disincantato di chi sa che il tempo dell’umano è ormai “superato”, l’“Antropos” è tornato – ed è tornato per vendicarsi – grazie all’ingrato lavoro empirico di coloro dei quali gli intellettuali amano disprezzare la mancanza di cultura, trattandoli come semplici “naturalisti”. Ciò che i diversi campi delle scienze umane, malgrado il loro carattere sofisticato – ossessionati dalla difesa della “dimensione umana” contro l’“invasione illegittima” della scienza e i rischi di una “naturalizzazione” eccessiva –, non potevano rilevare è che è agli storici della natura che spetta il merito di averlo portato alla luce15. Conferendo una dimensione totalmente nuova alla nozione stessa di “dimensione umana”, sono loro che propongono il termine più radicale per porre fine all’antropocentrismo come alle antiche forme di naturalismo, ricomponendo così per intero il ruolo dell’agente umano. La rivista “The Economist” aveva perfettamente ragione a utilizzare in copertina, nel 2011, lo slogan Welcome to the Anthropocene16!

Alla luce di questo avanzamento concettuale, è doveroso rendere rispettoso omaggio a tutti gli geoscienziati. Questa professione merita a ragione il suo motto, “Mente et Malleo”, poiché è maneggiando in maniera intelligente questo martello che abbiamo cominciato a prendere coscienza del fatto che i nostri valori più preziosi, quando picchiavamo su questi ultimi con delicatezza, restituivano un suono piuttosto cavo! Non mi stupisco più del fatto che Deleuze e Guattari, fini conoscitori del “filosofo col martello”, abbiano avuto la prescienza di tracciare una “geologia della morale17”.

Inutile dire che questo terremoto nelle definizioni stesse delle categorie meglio marcate è stato subito frainteso. E per la stessa ragione per cui gli sforzi di Lovelock di estrarre la sua Gaia dall’antica idea di “natura” sono stati sommersi dal sarcasmo. Il format Natura/Cultura è così potente che ci si è affrettati a interpretare l’Antropocene come la semplice sovrapposizione – o persino la riconciliazione dialettica – della “natura” e dell’“umanità”, ciascuna presa in blocco; o anche come un vasto complotto degli scienziati per “naturalizzare” l’umanità metamorfizzandola in una statua di pietra; o, all’inverso, come una politicizzazione indebita della Scienza18. Mi sembra più interessante cercare di accogliere questa innovazione che proviene dagli scienziati, invece di seppellirla subito sotto la critica anemica della naturalizzazione, rischiando così di perdere anche l’occasione di comprendere il Nuovo regime climatico.

Per combinazione, anche la grande rivista scientifica “Nature”, quattro anni dopo “The Economist”, realizza la sua copertina sull’Antropocene19. Uno dei disegni che propone nel suo dossier offre la grande opportunità di scoprire se siamo capaci o meno di mettere del vino nuovo in nuove botti. L’illustrazione di uno degli articoli utilizza il principio di figurazione ben noto come “effetto Arcimboldo20”, in cui le scienze della Terra forniscono dei temi per ridisegnare un viso, ancora ben riconoscibile.


Figura 4
.1 © Jessica Fortner, in “Nature”, 11 marzo 2015.

Possiamo servirci di questa immagine come test della personalità; vi vedete la pietrificazione di un viso umano o, al contrario, un’antropizzazione della Natura? A prima vista, ha l’aspetto di un ibrido. Tuttavia, a uno sguardo più attento, non c’è nulla di coerente nella distribuzione molto più confusa dei tratti: si tratta di bende da mummia, di scarificazioni, di pittura del viso per rituali di guerra, di tatuaggi, di stratificazioni del suolo o piuttosto di un miscuglio di Carte du Tendre21 e inventario geologico, volto a dare forma a un gigante colossale che si prepara a torcerci le mani per invitarci a un nuovo, mortale festino di pietra? La rivista “Nature” dimostra efficacemente di non avere colto l’essenza, poiché intitola il suo dossier The Human Epoch (L’era dell’Umano), quando si tratta invece, com’è evidente, di annunciare a colpi di fanfara la sua scomparsa! Per quanto mi riguarda, vi scorgo piuttosto l’attrazione che esercita su giornalisti e illustratori questa zona metamorfica che abbiamo imparato a riconoscere e che ci conduce gradualmente al di sotto e al di là delle figurazioni superficiali, a una redistribuzione radicalmente nuova delle forme accordate agli umani, ai collettivi, ai non umani o alle divinità.

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Anche se nessun voto delle istituzioni competenti dell’Associazione internazionale di geologia finirà col sancire che l’Antropocene è l’epoca ufficiale in cui viviamo, vale davvero la pena approfittare dell’occasione per seguire il lavoro di disaggregazione progressiva di tutti gli ingredienti che partecipavano, nell’Antico regime climatico, alla figurazione congiunta di umani e cose.

Una cosa è certa: l’antico ruolo della “natura” deve essere completamente ridefinito. L’Antropocene volge la nostra attenzione verso qualcosa che è assai più di una “riconciliazione” di natura e società, in un sistema più grande che sarebbe unificato dall’una o dall’altra. Per operare una tale riconciliazione dialettica, bisognerebbe avere accettato la linea di demarcazione fra il sociale e il naturale – il Mr. Hyde e il Dr. Jekyll della storia moderna (lascio a voi la scelta su quale sia Hyde e quale Jekyll…). L’Antropocene, tuttavia, non “supera” questa demarcazione: l’aggira del tutto. Le forze geostoriche non coincidono più con le forze geologiche a partire dal momento in cui si sono fuse in molteplici punti con l’azione umana. Laddove un tempo avevamo a che fare con un fenomeno “naturale”, incontriamo ora l’“Antropos” – almeno nella regione sublunare che è la nostra – e, ovunque seguiamo le orme dell’umano, scopriamo modi di relazione con le cose che erano stati collocati in passato nel campo della natura. Per esempio, seguendo il ciclo dell’azoto, dove andremo a collocare la biografia di Franz Haber e la chimica dei batteri delle piante22? Tracciando il ciclo del carbonio, chi sarebbe in grado di dire quando Joseph Black entri in scena e quando i chimici abbandonino questa giostra23? Persino seguendo il corso dei fiumi, troverete ovunque l’influenza umana24. E se, nelle Hawaii, cadeste su delle rocce composte in parte di lava e in parte di una nuova sostanza, la plastica, come traccereste la linea di demarcazione fra uomo e natura25?

Per ciascuno degli un tempo oggetti del mondo naturale, simili cicli obbligano piuttosto a sentire l’effetto del dito che percorre il nastro di Möbius. Siamo costretti a poco a poco a redistribuire interamente ciò che era un tempo chiamato “naturale” e ciò che era detto “sociale” o “simbolico”. Ricordate il divario ritenuto incolmabile fra la geografia “fisica” e la geografia “umana”, o quello fra l’antropologia “fisica” e l’antropologia “culturale”? La distinzione fra scienze sociali e scienze naturali è totalmente confusa. Né la natura né la società possono fare il loro ingresso, intatti, nell’Antropocene, in attesa di essere serenamente “riconciliati”. Sta accadendo alla Terra intera quel che è accaduto, nei secoli precedenti, al paesaggio: la sua artificializzazione progressiva rende la nozione di “natura” altrettanto obsoleta di quella di “wilderness26”.

Ma la disaggregazione è ancora più radicale dal lato degli un tempo umani. Risiede qui tutta l’ironia del conferire il volto tradizionale dell’Antropos a una figurazione tanto nuova27. Sarebbe assurdo in effetti concepire l’esistenza di un essere collettivo, la società umana, che costituirebbe il nuovo agente della geostoria, come lo fu in un’altra epoca il proletariato. Di fronte all’antica natura – essa stessa ricomposta –, non c’è letteralmente nessuno di cui ella si possa dire responsabile. Perché? Perché non c’è alcun modo di unificare l’Antropos come attore dotato di una qualsivoglia consistenza morale o politica, al punto di incaricarlo del ruolo di personaggio in grado di recitare su questa nuova scena globale28. Nessun personaggio antropomorfo può partecipare all’Antropocene ed è qui tutto l’interesse della nozione.

Parlare dell’“origine antropica” del riscaldamento climatico globale non ha alcun senso, in effetti, se si intende per “antropico” qualcosa come la “specie umana”. Chi può sostenere di parlare a nome dell’umano in generale, senza suscitare immediatamente mille proteste? Voci indignate si leveranno per dire che non si ritengono in alcun modo responsabili di queste azioni su scala geologica – e avranno ragione! Le popolazioni amerindie nel cuore della foresta amazzonica non hanno nulla a che vedere con l’“origine antropica” del cambiamento climatico – almeno fino a quando politici in campagna elettorale non hanno distribuito loro delle motoseghe. Lo stesso si può dire dei poveri delle bidonville di Bombay che non possono fare altro che sognare di avere un’impronta di carbonio più significativa del nerofumo rilasciato dai loro focolari improvvisati29. Lo stesso si può dire dell’operaia obbligata a fare lunghi tragitti in auto perché non ha potuto trovare un alloggio economico nei pressi della fabbrica in cui lavora: chi oserebbe farla vergognare delle sue emissioni di anidride carbonica?

Ecco perché l’Antropocene, malgrado il nome, non è una estensione smodata dell’antropocentrismo, come se potessimo inorgoglirci di esserci trasformati definitivamente in una sorta di Superman volante in costume rosso e blu. È piuttosto l’umano come agente unitario, come mera entità politica virtuale, come concetto universale, che deve essere scomposto in diversi popoli distinti, dotati di interessi contraddittori, di territori in lotta, e convocati sotto gli auspici di entità in guerra – per non dire di divinità in guerra. L’Antropos dell’Antropocene? È Babele dopo la caduta della grande torre. Alla fine, l’umano non è più unificabile! Alla fine, non è più fuori, disgiunto, dalla terra! Alla fine, non è più fuori dalla storia terrestre!

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Quel che ci impedisce di trarre vantaggio da questa disgregazione delle figure tradizionali è un’immagine del pensiero che era rimasta intatta nell’intera storia della filosofia, l’idea di una Sfera che potesse consentire a chiunque di “pensare globalmente” e di sostenere sulle sue spalle il peso totale del Globo – questa strana ossessione occidentale, che è il vero “fardello dell’uomo bianco”. In altri termini, dobbiamo porre fine a quel che potremmo chiamare la “maledizione di Atlante”. Ricordiamo che Atlante è uno dei Titani, uno dei numerosi mostri generati dal sangue di coloro che Gaia aveva progettato di assassinare (intendo la Gaia mitologica che abbiamo incontrato nella conferenza precedente, quella di cui Esiodo ha tracciato un quadro provocatorio, la dea più antica di tutti gli dèi olimpici30).

Per alleggerirci del peso eccessivo che portiamo sulle nostre spalle dobbiamo abbandonarci a un pizzico di sferologia, questa disciplina affascinante inventata di sana pianta da Peter Sloterdijk nel suo studio imponente in tre volumi sugli involucri indispensabili alla perpetuazione della vita31. Sloterdijk ha generalizzato la nozione dell’Umwelt introdotta da Von Uexküll32 a tutte le bolle, tutti gli involucri, tutti i contenitori che gli agenti hanno dovuto inventare per differenziare il loro interno dal loro esterno. Per accettare una simile estensione, bisogna quindi ritenere tutte le questioni filosofiche nonché scientifiche sollevate come facenti parte di una definizione molto allargata di immunologia, considerata da Sloterdijk né una scienza umana né una scienza naturale, ma piuttosto la prima disciplina antropocenica!

Sloterdijk è un pensatore che prende le metafore sul serio e sente tutto il loro peso sulla realtà – in un centinaio di pagine, se necessario, da buon tedesco qual è! Il suo problema immunologico è individuare come una entità, quale che sia, si difenda dalla distruzione costruendo una sorta di milieu interiore ben controllato che gli permetta di creare attorno a essa una membrana di protezione. Pone la questione a ogni livello con una ostinazione implacabile. Ivi compreso quando mette maliziosamente in difficoltà il suo maestro Heidegger per avere omesso di rispondere alle seguenti domande: “Quando dite che il Dasein è ‘gettato nel’ mondo, ‘in’ cosa è realmente gettato? Qual è la composizione dell’aria che vi si respira? Com’è controllata la temperatura? Di che materiale sono fatti i muri che proteggono il Dasein dal soffocamento? Per farla breve, qual è il clima di una tale condizione atmosferica?”. Sono esattamente le domande scomode ed essenziali a cui filosofi e scienziati di ogni orientamento e specie non hanno mai accettato, dopo di lui, di rispondere con sufficiente precisione.

Per Sloterdijk la singolarità della filosofia, della scienza, della teologia e della politica dell’Occidente risiede nell’avere investito tutti i propri sforzi nella figura di un Globo – con la G maiuscola –, senza prestare la minima attenzione al modo in cui poteva essere costruito, sostenuto, mantenuto e abitato. Il Globo dovrebbe includere tutto ciò che è vero e bello, anche se è una bizzarria architettonica che crollerà non appena consideriate seriamente come e dove sia eretto e soprattutto come lo si attraversa.

Sloterdijk pone una questione architetturale molto semplice, molto umile, una questione tanto materiale quanto quella dei geologi con il loro martello: “Dove risiedete quando dite che avete una ‘visione globale’ dell’universo? Come siete protetti dall’annichilimento? Cosa vedete? Quale aria respirate? Come vi riscaldate, vi vestite, vi nutrite? E, se non potete soddisfare questi bisogni fondamentali della vita, in che modo potete continuare a sostenere di parlare del vero e del bello, come se occupaste un gradino più alto di una scala morale?”. Se non siete in grado di specificarne la climatologia, i valori che state cercando di difendere risultano probabilmente già morti, come piante tenute all’interno di una serra, sovraesposte al sole. Nelle mani di Sloterdijk, ancor più che in quelle di Lovelock, le nozioni di omeostasi e di controllo climatico acquisiscono una dimensione sempre più metafisica. Ecco quel che si dice prendere l’atmosfera sul serio! Anche questo è il Nuovo regime climatico.

Non appena si pongono questioni così elementari, si prende coscienza dell’improbabilità che si riesca effettivamente a vedere qualcosa da Sirio. Nessuno ha mai vissuto nell’universo infinito. E ancora, nessuno ha mai vissuto “nella Natura”. Coloro che si spaventano all’idea di aggirarsi per l’universo infinito stanno sempre, in realtà, con lo sguardo fisso a un piccolo globo di una superficie di appena due o tre metri quadri, nel tepore del loro studio terrestre, alla luce confortevole di una lampada33. Invece di dire: “Il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi spaventa”, Pascal avrebbe dovuto rassicurarsi: “Il mormorio degli strumenti confinati in questi spazi limitati mi tranquillizza fin tanto che mi istruisce”. Quando gli epistemologi affermano che possiamo vivere “nella Natura”, quel che stanno realmente facendo è compiere ciò che Sloterdijk equipara a un atto criminale di distruzione: rompere tutti gli involucri protettivi necessari alla funzione immunologica della vita (e la vita, per lui, è tanto la biologia e la sociologia, quanto la politica).

Ogni pensiero, ogni concetto, ogni progetto che ignori la necessità dei fragili involucri che rendono possibile l’esistenza equivale a una contradictio in terminis. O, piuttosto, una contraddizione nell’architettura e nel disegno [dessin]: non ha più le condizioni atmosferiche, climatiche, che possano renderla sostenibile. Cercare di vivere in una tale utopia sarebbe come cercare di salvare tutti i vostri preziosi dati nella Nuvola – scusate, nel Cloud senza avere preventivamente investito nel cluster e in torri di raffreddamento34. Se intendete continuare a utilizzare le parole “razionali” e “razionalisti”, fate pure, ma allora impegnatevi anche nel lavoro di progettazione di spazi completamente attrezzati in cui coloro che dovrebbero abitarli possano respirare, sopravvivere, equipaggiarsi al meglio e riprodursi. Un materialismo che ignori i dispositivi di controllo del clima è solo un’altra forma di idealismo.

E così, pagina dopo pagina, Sloterdijk rimaterializza in modo totalmente nuovo la questione di cosa significhi essere nello spazio, su questa Terra, offrendoci la prima filosofia che risponde direttamente all’esigenza dell’Antropocene di riportarci sulla Terra. Quel che mi interessa particolarmente è che, nel cuore del suo secondo volume, l’autore consacra un centinaio di pagine a una meditazione che intitola Deus sive Sphaera, cioè Dio, o la Sfera. Il punto è delicato ma, come vedremo in seguito, consente di rimuovere la principale difficoltà comune alle scienze e all’umanistica quando affrontano la questione del superorganismo.

La piccola crepa che Sloterdijk, a mio avviso, è il primo a segnalare risulta dal bifocalismo non risolto dell’immaginario cristiano dell’epoca precopernicana, quello che abbiamo già incontrato con Galileo35. Quel che sembra un semplice difetto tecnico nel disegno destabilizza di fatto l’intera architettura della cosmologia occidentale. Malgrado l’impossibilità pratica di disegnarli insieme, i teologi si sono sforzati di fare coincidere due tipi di globi: l’uno teocentrico, l’altro geocentrico. Quando Dio è collocato al centro, è inevitabile che la Terra sia relegata alla periferia e che giri intorno a Lui. A prima vista non sembrerebbe troppo strano, considerato che si assegna così al nostro pianeta un ruolo modesto e, opportunamente, periferico. Ma il problema si complica se posizioniamo la Terra al centro, con l’Inferno in mezzo, sotto il mondo sublunare: allora è Dio a essere relegato alla periferia. Questo posizionamento è più difficile da fare accettare: Dio, per la teologia razionale, non può essere periferico! Come, chiede Sloterdijk, potete costruire tutta una cosmologia, con due centri contraddittori, l’uno che ruota intorno a Dio, l’altro invece intorno alla Terra?

Per due millenni, spiega Sloterdijk, questo piccolo difetto di costruzione non costituisce apparentemente un problema né per i teologi né per gli artisti o i mistici:

È stato il prezzo di quella libertà medievale di pensiero, impossibile solo come licenza teorica nei limiti del dogma, che doveva mantenere latente il bifocalismo dell’“immagine del mondo” e che doveva fare in modo che non si potesse condurre nessun dialogo esplicito a proposito delle contraddizioni tra il punto di proiezione geocentrico e quello teocentrico nella bolla illusoria della philosophia perennis.36

È forse eterna, questa filosofia, ma assolutamente vuota nella sua sfera di non esistenza. La maledizione del Globo è così potente che i teologi hanno disegnato un dio cosmico nella forma di due sfere instabili senza preoccuparsi della sua inattendibilità architettonica. Da Dante a Nicola Cusano, da Robert Fludd ad Athanasius Kircher, fino agli illustratori moderni come Gustave Doré, la discrepanza rimane insieme palese e costantemente negata. Pur visualmente impossibile, la dolce emanazione della grazia di Dio alla Terra umana non è mai stata messa in discussione, anche se nessuno poteva letteralmente disegnare i suoi raggi mistici con linee continue lungo tutta la faglia che divideva i due sistemi. Ecco perché non c’è storia – e ancora meno geostoria: non appena la filosofia crede di pensare globalmente, diviene incapace di concepire tanto il tempo quanto lo spazio.

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Potreste obiettare che non abbiamo alcuna ragione di accordare importanza a questo difetto di costruzione della teologia cristiana. Dopo tutto, la coerenza non è il punto forte delle menti religiose e una faglia in più nella loro operazione ha poche possibilità di essere sanata. Ma ciò che mi affascina in questa scoperta è che la stessa incoerenza si applica esattamente all’architettura grazie alla quale la razionalità è stata costruita.

Ciò che Sloterdijk ha individuato nell’immaginario cristiano, la storia delle scienze l’ha rilevato altrettanto chiaramente negli scritti scientifici. Nulla di sorprendente in ciò: è lo stesso problema ripetuto due volte – la prima nella storia della religione, la seconda nella storia della Scienza, grazie a questa translatio imperii di cui esistono tanti esempi e su cui tornerò più avanti. È tanto impossibile situare la Terra quanto stabilizzare il centro attorno al quale l’altra entità dovrebbe ruotare. Ricordiamo quanto sia sempre stata precaria la “rivoluzione copernicana” che Kant pretendeva di avere introdotto nella filosofia: com’è riuscito a farci credere che fare ruotare l’Oggetto intorno al Soggetto umano potesse valere come un abbandono dell’antropocentrismo? La metafora è così inadeguata da aver catapultato ogni definizione dell’“uomo in natura” in oscillazioni che danno il capogiro – e ad alcuni la nausea. Per recuperare il primo significato della parola “rivoluzione”, è come se non ci fosse mai stato un centro stabile intorno a cui la Terra possa rivolvere.

Quando si tratta di scienza così com’è praticata, di scienza in azione, i ricercatori devono mettersi di punto in bianco a parlare della loro vita di laboratorio. Gli stessi scienziati che levitavano da Sirio sono ricondotti nei corpi terrestri di carne e sangue, in luoghi strettamente situati. Quando i fisici celebrano i grandi eroi della scienza, non esitano a fissare una targa a muro con, per esempio, un testo come quello ritrovato a Cambridge, e che trovo particolarmente delizioso: “Qui, nel 1897, nell’antico laboratorio Cavendish, J.J. Thomson scoprì l’elettrone riconosciuto successivamente come la prima particella fondamentale della fisica e la base dei legami chimici, dell’elettronica e dell’informatica37.

È difficile immaginare una conoscenza più situata di questa: a partire da questo luogo perfettamente determinato della Free School Lane (divenuta il tempio della storia delle scienze38), fra le mani di un grande scienziato, gli elettroni sono destinati a diffondersi con successo per popolare tutti i legami chimici e tutti i computer! Ma, un minuto dopo, questi stessi fisici non si creeranno alcuno scrupolo a spiegarvi come la mente di Stephen Hawking vaghi attraverso il cosmo intero in intimo dialogo con il Creatore, ignorando ingenuamente che la mente di Hawking non beneficia soltanto di un cervello ma anche di un “corpo collettivo”, composto di una vasta rete di computer, di sedie, di strumenti, di infermieri, di aiuti e di sintetizzatori vocali necessari al dispiegamento progressivo delle sue equazioni39. Questa concezione bifocale della scienza non permette di riconciliare lo “sguardo da nessun luogo [vision de nulle part]” con quei luoghi molto particolari che sono le aule, gli uffici, i tavoli di laboratorio, le centrali informatiche, le sale riunioni, le spedizioni e le stazioni di campo, là dove gli scienziati devono posizionarsi quando intendono veramente ottenere dei dati o realmente scrivere i loro articoli.

Le due immagini del mondo nella teologia cristiana sono altrettanto irriconciliabili delle immagini che rappresenterebbero, per esempio, la fisica dell’elettrone situandola ovunque nel mondo, pur essendo collocata in sicurezza nel laboratorio Cavendish di J.J. Thomson. La stessa negazione di una tale impossibilità si ritrova fra gli scienziati e i filosofi, esattamente come fra i teologi e i mistici. Parafrasando Sloterdijk, potrei dire:

La “bolla illusoria” della philosophia perennis mantiene nella latenza le contraddizioni fra la Natura – incentrata sui cosmi – e l’altra Natura nota alle scienze incentrate sul laboratorio. Questa contraddizione rende ogni dialogo esplicito fra le due visioni altrettanto impossibile della riconciliazione fra le “immagini del mondo” geocentrica e teocentrica della cosmologia medievale.

Seguendo l’esame dell’architettura della Ragione svolto da Sloterdijk, realizziamo che il Globo non è ciò di cui il mondo è fatto, ma piuttosto una ossessione platonica trasferita nella teologia cristiana, poi depositata nell’epistemologia politica per dare un volto – ma un volto impossibile da tratteggiare – al sogno di una conoscenza totale e completa40. Una strana fatalità è qui all’opera. Ogni volta che pensate la conoscenza in uno spazio senza gravità – ed è proprio qui che gli epistemologi sognano di risiedere –, essa assume inevitabilmente la forma di una sfera trasparente che potrebbe essere ispezionata da un corpo-non corpo (e quindi disincarnato) a partire da un luogo-non luogo [lieu de nulle part]. Ma, una volta ristabilito il campo gravitazionale, la conoscenza perde immediatamente questa mistica forma sferica ereditata dalla filosofia platonica e dalla teologia cristiana41. I dati affluiscono di nuovo nella forma originale di frammenti, in attesa di una trasposizione narrativa.

In ragione di questo bifocalismo, i due ritratti di Atlante sono egualmente inverosimili: l’Atlante che dovrebbe sostenere il mondo sulle sue spalle (senza essere capace di guardarlo, come sottolinea Sloterdijk) nonché quello inventato da Mercatore, l’emblema perfetto della rivoluzione scientifica – un Atlante che dovrebbe sostenere il cosmo tutto intero fra le sue mani come fosse un pallone da football42. Fondendo insieme l’immagine del saggio con la metafora assai più antica della mano di Dio, Mercatore gli ha dato una forma umana, quella di un autentico Superman in grado di tenere tutto sul suo palmo. Ma se effettivamente il globo è tenuto in mano da qualche umano di stazza media, allora, inevitabilmente, dev’essere una mappa, un modello, un globo nel senso molto modesto e molto locale del piccolo strumento di cartapesta che tanti di voi, ne sono sicuro, amano fare ruotare con un movimento delle dita43.

Figura 4.2 © Foto B. L.
Frontespizio di
Atlas sive Cosmographicae Meditationes de Fabrica Mundi
et Fabricati Figura
di Mercatore, 1609, 2a edizione

Costruire un globo è sempre riattivare un tema teologico, anche quando si tratta di nobili luoghi pedagogici, un panorama, un geode, un parco di attrazioni, inventati da capaci compilatori per dare una forma popolare alla conoscenza enciclopedica che hanno accumulato. È quanto è emerso chiaramente quando Patrick Geddes, direttore dell’Outlook Tower44 di Edimburgo, ha dovuto comporre l’elogio funebre del suo amico, il famosissimo Élisée Reclus, geografo anarchico che gli aveva proposto di collaborare al disegno progettuale del globo gigante in scala 1:100000 che intendeva costruire per l’esposizione universale di Parigi del 190045. L’edificio avrebbe all’incirca eguagliato l’altezza della Tour Eiffel ma sarebbe costato cinque volte di più e avrebbe proiettato la sua ombra immensa oltre la riva destra della Senna.

Ben più di un semplice modello scientifico in un istituto, questo globo terrestre è l’immagine stessa, il tempio del pianeta madre, e il suo creatore non è semplicemente un professore moderno che siede su una cattedra ma un grande sacerdote druida che officia nel suo cerchio di pietre imponenti, al pari di un mago orientale che inizia ai misteri cosmici […]. Il mondo nella sua unità ha ormai la sua base e il suo simbolo della fraternità degli uomini che lo popolano; la scienza è un’arte, la geografia e il duro lavoro si sono fusi in un regno di pace e di buona volontà.46

Tutte le parole contano qui, in questa relazione fra il macrocosmo e il microcosmo, non soltanto lo strano slittamento da “modello” scientifico a “tempio del pianeta madre” ma anche da “professore” a “grande sacerdote druida”, dalla geografia alla profezia attraverso la mediazione della poesia. E com’è strano per noi, a distanza di un secolo, sentire celebrare la “fraternità umana” e l’“unità del mondo” grazie alla costruzione di un modello ridotto, una miniatura fac-simile, un Atlante di ferro e gesso. Una cosa è certa, oggi come ieri sorge la stessa domanda: come si può sfuggire al fardello eccessivo del Globo?

Per porre fine alla fatalità del Globo – quella che ho chiamato la maledizione di Atlante –, bisogna attenersi alla storia delle scienze o alla sferologia di Sloterdijk, sottolineando che “globale” è un aggettivo che può, di certo, descrivere la forma di un dispositivo locale suscettibile di essere ispezionato da un gruppo di umani che lo guardano, ma mai il mondo stesso in cui ogni cosa dovrebbe essere inclusa. Per quanto immense possano essere le galassie, la mappa di quelle disperse dopo il Big Bang non è più grande dello schermo su cui i flussi di dati provenienti dal telescopio di Hubble risultano pixellati e colorati. Contrariamente alla formula “pensare globalmente, agire localmente”, nessuno ha mai potuto pensare globalmente la Natura – e ancora meno Gaia. Il globale, quando non è l’attenta analisi di un modello ridotto, non è mai altro che un tessuto di globalle [globalivernes o, in inglese, globabble].

*

Che si tratti dell’idea di Antropocene, della teoria di Gaia, della nozione di un attore storico come l’Umanità o della Natura assunta come un tutto, il pericolo è sempre lo stesso: la figura del Globo autorizza a saltare prematuramente a un livello superiore confondendo le figure della connessione con quelle della totalità. Questo pericoloso slittamento non è soltanto la preoccupazione di filosofi47, politici, pensatori militari48 o teologi49. Ossessiona anche gli scienziati che vogliono comprendere l’Antropocene. Non posso resistere alla tentazione di dimostrarvelo con un caso esemplare che ci permetterà di misurare, ancora una volta, la china che devono risalire autori come Lovelock o Zalasiewicz quando cercano di cogliere in che senso la Terra retroagisce alle azioni umane.

Ci sono libri ammirevoli per l’ostinazione con cui fraintendono il loro oggetto: uno di questi, la cui incomprensione è evidente fin dal titolo, è On Gaia: A Critical Investigation of the Relationship between Life and Hearth (A proposito di Gaia. Un’indagine critica delle relazioni fra Vita e Terra50). Quel che rende il caso di Toby Tyrrell – professore di Scienze del sistema Terra all’università di Southampton – così notevole è che sostiene di confutare punto per punto e in maniera “strettamente scientifica” la teoria di Gaia. Ora Tyrrell non può presentare l’ipotesi di Lovelock senza fare subito di questo essere qualcosa di superiore che circonderebbe la Terra. Cosa buffa: senza dubitare un solo secondo, tutti i fantasmi teologici che Patrick Geddes attribuiva a Élisée Reclus riappaiono prontamente nelle parole di Tyrrell!

Ogni capitolo riassume in modo piuttosto didascalico i risultati delle discipline attraversate dalla teoria di Gaia e termina sistematicamente con l’argomentazione che non è possibile discernere l’esistenza di una totalità che garantisca la stabilità del sistema. La tesi dell’autore è che Lovelock si sbaglia di grosso poiché nulla può assicurare che Gaia protegga la vita sulla Terra, mentre invece dovrebbe consacrarvisi se avesse davvero le virtù di quella Provvidenza che Lovelock, secondo la lettura di Tyrrell, sembra promuovere. Ritroviamo il problema che abbiamo già incontrato nella conferenza precedente: dall’inizio alla fine, Tyrrell imputa a Lovelock l’idea che Gaia sia un sistema superiore alle forme di vita che manipola. Neppure per un istante si rende conto che l’innovazione di Lovelock consiste proprio nel non lasciarsi intrappolare da questo tropo abituale del Tutto e delle parti.

Anche se l’argomento è tecnico, vale la pena seguire il modo in cui un tema politico ancestrale – amalgama della favola delle api51 e della Provvidenza divina – contamina totalmente la prosa di un ricercatore che avrebbe altrimenti ragioni molto rispettabili per opporsi alla teoria di Gaia – se solo fosse davvero quella di Lovelock52! Il paradosso è che, all’inizio, accoglie la tesi principale:

Lovelock sostiene che la vita modifichi l’ambiente. La vita non è soltanto un passeggero passivo all’interno di un ambiente determinato da processi fisici e geologici sui quali non avrebbe alcun controllo. I bioti non hanno semplicemente vissuto e utilizzato l’ambiente terrestre ma, in aggiunta – questo è il motivo della mia presa di posizione –, hanno plasmato questo ambiente nel corso del tempo. […] Non v’è dubbio che Lovelock abbia ragione e pochissimi ricercatori sarebbero in disaccordo con lui.53

Prima di affermare verso la fine del libro: “Per queste ragioni possiamo concludere che la durata ininterrotta delle condizioni favorevoli alla vita non prova l’esistenza di un Termostato Onnipotente e dunque non prova l’esistenza di Gaia”54.

Conosciamo bene l’ostinazione dei teologi a provare l’esistenza di un Dio onnipotente, ma perché diamine attribuire a Lovelock l’idea che stia cercando la prova “dell’esistenza di un Termostato Onnipotente”?! Non v’è alcun dubbio: Tyrrell si è lasciato prendere dal Globo. Certo, l’abbiamo visto, Lovelock parla sì, anche lui, di sistema di controllo, ma si mostra subito diffidente delle connotazioni pericolose che la metafora tecnica implicherebbe. Evidenziamo qui tutti i rischi che derivano per un autore scientifico dal restare insensibile ai tropismi della prosa. È tuttavia a questo livello che la regolazione delle agency si rivela al meglio. Come di fatto Lovelock dice:

Considero Gaia come un sistema di controllo per la Terra – un sistema autoregolatore simile a un normale termostato di un ferro da stiro o di un forno da cucina. Io sono un inventore; mi risulta facile inventare un dispositivo autoregolatore prefigurandolo nella mia mente. Il modello mentale viene quindi usato per costruire un prototipo, e questo viene perfezionato per tentativi ed errori, finché il sistema viene realizzato nella pratica. In un certo senso anche Gaia, come un’invenzione, è difficile da descrivere.55

Per Lovelock, Gaia non possiede alcuna onnipotenza: è un “modello mentale”, una comoda convenzione, una similitudine, create nel tentativo di concettualizzare, alla maniera di un inventore – più dotato, secondo lui, di uno scienziato56 –, qualcosa che riconosce sin dall’inizio come “difficile da descrivere”. Tyrrell resta totalmente insensibile a tutte queste esitazioni del linguaggio. Ora, è proprio attraverso tutte queste esitazioni che sorge la differenza fra una visione ingenuamente teologica – sebbene Tyrrell la definisca “scientifica” – e la versione profana, terrestre, innovativa di un Lovelock che cerchi di catturare, tra le pieghe della sua goffa prosa, qualcosa che sta cercando la sua strada, come la vita sulla terra stessa: ciò che produce ordine a valle, senza tuttavia dipendere da un ordine prestabilito a monte. La teoria di Gaia proviene da un inventore che parla di una invenzione difficile da descrivere.

Al massimo, posso affermare che Gaia è un sistema in evoluzione, costituito da tutto ciò che vive e dal suo ambiente di superficie, dagli oceani, dall’atmosfera e dalle rocce terrestri, e questi due elementi sono strettamente legati tra loro e indivisibili. Si tratta di un “dominio emergente” – cioè un sistema emerso dall’evoluzione reciproca di organismi e del loro ambiente nel corso della vita sulla Terra. In questo sistema, la regolazione del clima e la composizione chimica sono completamente automatiche; l’autoregolazione compare man mano che il sistema si evolve: non c’è preveggenza, pianificazione o teleologia (indizio di un disegno o di un fine nella natura).57

Difficile essere più chiari sull’assenza di Provvidenza. E tuttavia Tyrrell resta sordo a simili sfumature. Mentre tutto lo sforzo di Lovelock consiste nell’evitare per quanto possibile la distinzione in due livelli – l’uno per le connessioni, l’altro per la totalità regolatrice –, il suo avversario si butta a capofitto nella peggiore metafora cibernetica che esista.

L’ipotesi Gaia è quantomeno azzardata e provocatoria. Propone l’esistenza di una regolazione planetaria da e per i bioti, laddove per “biota” si intende l’insieme di tutta la vita. Suggerisce che la vita ha cospirato per regolare l’ambiente globale, in modo da mantenere le condizioni più favorevoli.58

Mentre l’uno esita, l’altro non tentenna affatto, credendo di potere dare, con questa assenza di incertezze, una lezione di metodo scientifico all’altro! Se esistesse una regolazione planetaria, l’ipotesi Gaia sarebbe assai poco “azzardata e provocatoria”, in ogni caso non meriterebbe una pubblicazione: Dio, il Creatore, colui che ha da sempre la forma di una Sfera, has been there before! Lovelock cerca di non separare i due livelli che Tyrrell impone come una evidenza sin dall’inizio: “Lovelock suggerisce che la vita abbia tenuto la mano sulla barra di controllo dell’ambiente. E che l’intervento della vita sulla regolazione del pianeta sia stato tale da aver promosso la stabilità e permesso le condizioni favorevoli alla vita59”.

L’errore di interpretazione è clamoroso, poiché è precisamente perché non vi è alcun timone e quindi alcun timoniere, né maestro, né capitano, né ingegnere, né Dio, che Gaia è un’invenzione che tutte le sottigliezze della scienza devono puntare a spiegare. Ma la cosa più strana è che Tyrrell obietti a Gaia il solo fatto di volere affidare il timone a un altro timoniere, un altro capitano, un altro Dio provvidenziale: l’Evoluzione! Mentre Lovelock cerca di coniugare l’ambiente e l’evoluzione – confondendo definitivamente la distinzione fra i due, poiché gli organismi definiscono anche in parte il loro ambiente –, Tyrrell crede possibile opporre Gaia e l’Evoluzione: “Di fatto, il fit perfetto tra gli organismi e il loro habitat è più una testimonianza del potere trasformatore onnipotente dell’evoluzione capace di modellare gli organismi che del potere degli organismi di rendere il loro ambiente più confortevole60”.

Ecco un caso felice di inversione delle figure della Totalità: l’Evoluzione Onnipotente è in apparenza pienamente naturale, Gaia pericolosamente provvidenziale… Tyrrell non si è accorto neppure per un secondo che queste due figure sono esattamente interscambiabili l’una con l’altra. Mentre pensa di scrivere in termini scientifici, ci troviamo qui in piena Teogonia: le “potenze” dell’Evoluzione in lotta per la supremazia contro le “potenze” di Gaia! O, piuttosto, in piena Teodicea, poiché si tratta di scoprire cosa protegga meglio dal Male sulla Terra: è il Termostato Onnipotente o l’Evoluzione darwiniana a privilegiare sommamente coloro che le sono fedeli? Tyrrell si spinge fino al punto di ordinare a Lovelock di fare uno sforzo, come Leibniz ha fatto, e provare che il suo Dio non ha colpe per i disordini che ha introdotto quaggiù61. L’obiezione è divertente, considerato che proviene da un autore che utilizza senza la minima esitazione il modello neodarwiniano, esso stesso preso in prestito alla Mano Invisibile del Mercato!

Sto spaccando il capello in quattro, accusando il povero Tyrrell di essere un teologo sotto mentite spoglie? Sì, certamente, poiché tutto dipende proprio dal filo che la prosa narrativa consente sia di seguire, sia di recidere. Certo, Lovelock non è né filosofo né poeta né romanziere né storico, ma si batte contro qualcosa che resiste al pensiero. Se coglie la capacità narrativa della geostoria è perché esita e si riprende. Tyrrell manda giù così facilmente le metafore che non può criticarne una se non facendo affidamento su un’altra, mentre Lovelock diffida delle metafore che maneggia con precauzione come il solo mezzo per evitarle a poco a poco:

All’inizio spiegammo l’ipotesi di Gaia con definizioni quali “La vita, o la biosfera, regola o mantiene il clima e la composizione atmosferica ad uno stato per sé ottimale”; si trattava certamente di una definizione imprecisa, ma né Lynn Margulis né io abbiamo mai insinuato che l’autoregolazione del pianeta debba avere un fine. […] Pochi scienziati condividono la nostra visione della Terra; la maggior parte tende a respingere le nostre idee definendole fantasiose e metaforiche. Per loro, il termine metafora sembra indicare qualcosa di peggiorativo, di inesatto e perciò non scientifico; in realtà, la vera scienza è piena di metafore.62

Sono ingiusto a prendermela con un naturalista mentre i fautori delle scienze sociali, lo so bene, non fanno di meglio e saltano a piè pari, senza esitare un solo istante, al livello globale della società, non appena si richieda loro di spiegare una qualsivoglia connessione. Quando parlano dell’“insieme della società”, del “contesto sociale”, della “mondializzazione”, tracciano una forma con le mani che non è mai stata più grossa di una zucca di dimensioni medie! Ma il fatto è che il problema è lo stesso, che si parli della Natura, della Terra, del Globale, del Capitalismo o di Dio. Ogni volta stiamo supponendo l’esistenza di un superorganismo63. Il sentiero delle connessioni è immediatamente sostituito da una relazione fra le parti e il Tutto di cui si dice, senza pensarci, che è necessariamente superiore alla somma delle parti, mentre invece è sempre necessariamente inferiore64. Superiore non significa inglobante, ma maggiormente connesso. Non si è mai così provinciali come quando si sostiene di avere una “visione globale”… La scala non è ottenuta per mezzo di incastri successivi di sfere di diametro differente – come nel caso delle matrioske – ma dalla capacità di stabilire delle relazioni più o meno numerose e soprattutto reciproche. La dura lezione dell’attore-rete secondo cui non c’è alcuna ragione di confondere una località ben connessa con l’utopia del Globo vale per tutte le associazioni di viventi.

La ragione per cui la rilocalizzazione del globale è divenuta così importante è che la Terra stessa non può più essere afferrata globalmente da nessuno. È la lezione fondamentale dell’Antropocene. Non appena la si unifichi in una sfera terracquea, la geostoria si riduce ai limiti dell’antico formato della teologia medievale, trasportata nell’epistemologia della Natura del XIX secolo, poi di nuovo riversata nello stampo del complesso militare-industriale del XX65 – anche se si è professore di Scienza del sistema Terra all’università di Southampton… Nonostante l’entusiasmo unanime suscitato, l’assai celebre “pianeta blu” ha avvelenato costantemente il pensiero. È un’immagine composita, in cui si mescolano la cosmologia antica delle divinità greche, l’antica forma medievale conferita al Dio cristiano e la complessa rete di acquisizione dei dati della NASA, prima di essere proiettata all’interno del panorama diffratto dei media66. Quel che è certo è che gli abitanti di Gaia non sono coloro che considerano il pianeta blu un Globo.

Deve comunque essere possibile, oggi, sfuggire al fascino che l’immagine della Sfera ha esercitato a partire da Platone: la forma sferica arrotonda la conoscenza in un volume continuo, completo, trasparente, onnipresente, che maschera il compito straordinariamente difficile di aggregare i punti di dati che provengono da tutti gli strumenti e tutte le discipline. Una sfera non ha storia, né inizio, né fine, né buchi, né discontinuità di alcuna sorta. Non è soltanto un’idea, ma l’ideale stesso delle idee. Chi si vanta di pensare globalmente non sfuggirà mai alla maledizione di Atlante: Orbis terrarum sive Sphaera sive Deus, sive Natura.

*

Per dirla ancora in altre parole, colui che guarda alla Terra come a un Globo scambia sempre se stesso per un Dio. Se la Sfera è ciò che si desidera passivamente contemplare quando si è stufi della storia, come riuscire a tracciare le connessioni della Terra evitando di disegnare una sfera? Con un movimento che ritorna su se stesso, in forma di anello. È il solo modo di tracciare un sentiero fra le agency, senza passare dalle nozioni di parti e di Tutto che solo la presenza di un Ingegnere onnipotente – Provvidenza, Evoluzione o Termostato – avrebbe potuto mettere a punto. È il solo modo di divenire profano nella scienza così come nella teologia. Ma non affrettiamoci a identificare questo movimento, ciò che ho chiamato nella conferenza precedente onde di azione, con gli anelli di retroazione nel senso della cibernetica: ritorneremmo improvvisamente al modello con un timone di governo [gouvernail], un governatore [gouverneur] e un governo [gouvernement] mondiale67!

Cominciamo con questo strano anello di riflessività che gli storici dell’ambiente hanno di recente sottolineato con forza: parlare di ecologia oggi è ripetere quasi, parola per parola, ciò che si diceva nel 1970, nel 1950, o ancora nel 1855 o nel 176068 per protestare contro le devastazioni inflitte alla natura dall’industrializzazione. Questo tema ce lo rimpalliamo sin dall’inizio stesso dell’Antropocene, annata 178069. Ciò non vuol dire tuttavia che gli storici stiano indulgendo nel loro innocuo vizietto di dissotterrare sempre, per ogni novità, una moltitudine di precursori più o meno sconosciuti. È come se ogni autore ecologista fosse davvero portato a scoprire che c’è qualcosa “di nuovo sotto il sole”, ma modellando il suo punto di vista su termini che riprendono così fedelmente idee precedenti da dare l’impressione, nonostante tutto che, sul lungo termine, non vi sia invece nulla di nuovo sotto il sole70. Niente di così di impressionante, poiché è al vocabolario del sempiterno Globo che affidiamo le nostre angosce come le nostre speranze. Quando facciamo appello al pianeta blu, non possiamo che girarci intorno!

Se gli storici hanno ragione di criticare coloro che sostengono, ogni volta con lo stesso entusiasmo, che stiamo per entrare in un periodo radicalmente differente71, hanno però torto nel non vedere che questa ripetizione fa parte del fenomeno di cui bisogna rendere conto: per definizione, la geostoria non si lascia mai concettualizzare nella forma di una Sfera di cui avremmo scoperto la dimensione inglobante una volta per tutte. Ecco perché è proprio una storia e non una “natura”. La storia, per parte sua, sorprende e obbliga a ricominciare da capo ogni volta. L’impressione di ripetere la stessa cosa proviene dalla forma del Globo con cui ognuno cerca di raffigurare ciò che di nuovo gli accade. Per contro, invece, la scoperta, ogni volta sconvolgente, di una connessione nuova e drammatica fra agency fin qui sconosciute, e su scale sempre più distanti, a un ritmo sempre più frenetico, questa sì che è davvero nuova. Poiché dissolve il pensiero stesso del Globo osservato da lontano, l’Antropocene riporta la storia al centro dell’attenzione72. In questo senso, malgrado la critica degli storici, c’è stato davvero – a partire dal 1760, a partire dal 1945, a partire dal 1970 – qualcosa di nuovo sotto il sole73. Se gli anelli di riflessività si somigliano nella forma, il loro contenuto, il loro ritmo e la loro estensione sono sempre differenti. Eccola, l’insistenza di Gaia!

Le nozioni di globo e di pensiero globale contengono l’immenso pericolo di unificare troppo in fretta ciò che deve essere innanzitutto composto. Questo problema è, sopra ogni cosa, di ordine materiale: bisogna disegnare un cerchio prima di essere capaci di generare una sfera. È anche un problema empirico: è solo perché la barca di Magellano ha fatto ritorno che i suoi contemporanei hanno potuto fissare nelle loro menti l’immagine di una terra sferica che conoscevano già. Ma è anche un problema di ordine morale: è solo quando sentite che la vostra azione vi si ritorce contro che comprendete fino a che punto ne siete responsabili. Come ha sottolineato Sloterdijk, è solo quando gli umani vedono l’inquinamento soffermarsi su di loro che cominciano davvero a sentire che la Terra è di fatto rotonda74. O, piuttosto, questa rotondità della Terra, nota fin dai tempi più antichi – ma sempre in maniera superficiale –, diviene sempre più verosimile in funzione e nella misura in cui aumenta il numero dei cerchi con cui si può gradualmente circoscriverla. Così l’anello che è necessario per disegnare ogni sfera è pragmatico nel senso di John Dewey: dovete sentire le conseguenze delle vostre azioni prima di essere in grado di rappresentarvi ciò che avete realmente fatto e di prendere atto del tenore del mondo che ha resistito al vostro operato75.

È la ragione per cui è così importante passare dal Globo agli anelli che indefessamente lo disegnano in un modo sempre più ampio e denso. Senza l’osservatorio di Charles Keeling a Mauna Loa e gli strumenti che rilevano il ciclo di diossido di carbonio, sapremmo meno76, intendo dire che sentiremmo in maniera meno forte che la Terra può essere arrotondata dalla nostra propria azione. E, prima ancora, abbiamo dovuto sentire il buco nell’ozono grazie alla campagna di strumenti di Dobson77, così come abbiamo dovuto imparare a sentire la possibilità dell’inverno nucleare grazie ai nuovi modelli di circolazione atmosferica promossi, all’epoca dell’olocausto nucleare virtuale, da Carl Sagan e i suoi colleghi78.

Questa è la posta in gioco nell’Antropocene. Non è che, all’improvviso, la piccola mente umana debba essere teletrasportata in una sfera globale che, in ogni caso, sarebbe sin troppo vasta per la sua piccola scala. È piuttosto che dobbiamo intrufolarci, avvolgerci in un gran numero di anelli, di modo che, progressivamente, passo dopo passo, la conoscenza del luogo in cui abitiamo e dei requisiti della nostra condizione atmosferica possa acquisire maggiore rilievo ed essere esperita come più urgente. Una lenta operazione che consiste nell’essere avvolto in circuiti di sensori in forma di anelli: ecco ciò che significa “essere di questa Terra”. Ma ognuno deve impararlo da sé, ogni volta da capo. E non ha nulla a che vedere con l’essere un umano-nella-Natura o un umano-su-un-Globo. È piuttosto una fusione lenta e progressiva di virtù cognitive, emozionali ed estetiche, grazie alle quali gli anelli sono resi sempre più visibili. Di anello in anello, diveniamo più sensibili e più reattivi ai fragili involucri che abitiamo79.

Quanti anelli supplementari dobbiamo tracciare intorno alla Terra prima che la “conoscenza” sia sufficientemente ricettiva, perché questo Antropos informe divenga un agente reale della storia e un attore politico un minimo credibile? Non serve a niente sostenere che lo sapevamo già e che altri prima di noi l’hanno detto. Quanti anelli alcuni di voi hanno dovuto seguire prima di smettere di fumare? È possibile che abbiate “sempre saputo” che le sigarette provocano il cancro, ma c’è un abisso fra questo “sapere” e smettere davvero di fumare. “Sapere e non agire equivale a non sapere.” Prima di valutare cosa sia sapere che non bisogna fumare, non si deve presentire il dolore nella propria carne, come tentando di prefigurare quelle immagini terrificanti sui pacchetti di sigarette? Allo stesso modo, in questo caso, sono necessarie istituzioni complesse e burocrazie ben dotate perché arriviate a presentire le conseguenze delle vostre azioni su voi stessi. Analogamente, quanti anelli bisogna percorrere per sentire sul serio la rotondità della Terra? Quante istituzioni supplementari, quante burocrazie reclamate, voi personalmente, per dimostrarvi capaci di rispondere a un fenomeno, di primo acchito così distante, come la composizione chimica dell’atmosfera? Soprattutto se altri lavorano, per parte loro, a rendervi insensibili producendo deliberatamente ignoranza80 (non è un caso che le stesse lobby che finanziano i clima-scettici abbiano lavorato così a lungo per nascondere il collegamento fra le sigarette e i vostri polmoni81).

Ma c’è un’altra ragione definitiva e più convincente per cui dovremmo essere estremamente diffidenti verso ogni visione globale: Gaia non è del tutto una Sfera. Gaia occupa solo una piccola membrana, poco più di qualche chilometro di spessore, l’involucro delicato delle zone critiche. Non è dunque globale nel senso che funzionerebbe come un sistema azionato da una sala di controllo, occupata da qualche Distributore Supremo che sorveglia e domina il tutto. Gaia non è una macchina cibernetica controllata da anelli di retroazione, ma una serie di eventi storici ciascuno dei quali si diffonde un po’ più in là – oppure no. Comprendere l’intreccio delle connessioni contraddittorie e conflittuali non è un’operazione che possa essere eseguita saltando a un livello “globale” superiore per vederle agire come un tutto unico; si può solo fare intersecare i loro percorsi potenziali con più strumenti possibili, per avere una chance di rilevare come queste agency siano connesse fra loro. Ancora una volta, il globale, il naturale e l’universale operano come tanti veleni pericolosi che oscurano la difficoltà di mettere a punto le reti di dotazione che renderebbero visibili le conseguenze delle azioni a tutte le agency.

Ecco cosa significa vivere nell’Antropocene: la “sensibilità” è un termine che si applica a tutti gli attanti capaci di diffondere i loro sensori un po’ più in là e fare sentire ad altri che le conseguenze delle loro azioni ricadranno su di loro e li perseguiteranno. Se il dizionario definisce “sensibile” “ciò che riconosce o reagisce rapidamente ai minimi cambiamenti, segnali o influenze”, allora possiamo applicare quest’aggettivo sia a Gaia sia all’Antropos – ma soltanto se dotato a sufficienza di recettori per avvertire le retroazioni. Di Gaia Isabelle Stengers dice spesso che è una potenza divenuta suscettibile82. La Natura, la Natura di un tempo, può sì essere stata indifferente, dominatrice, una matrigna crudele, ma, sicuramente, non era suscettibile! La sua completa mancanza di sensibilità era al contrario la fonte di innumerevoli poemi e ciò che le permetteva di innescare per contrasto la sensazione del sublime: noi, gli umani – e non la Natura –, eravamo sensibili, responsabili ed altamente morali.

Gaia, per contro, sembra essere eccessivamente sensibile alla nostra azione e sembra reagire in maniera estremamente rapida a ciò che sente e rileva. Nessuna immunologia – nel senso inteso da Sloterdijk – è possibile senza imparare a divenire sensibili a questi anelli multipli, controversi, intrecciati. Coloro che non sono in grado di “rilevare e rispondere rapidamente ai minimi cambiamenti” sono condannati. E coloro che, per qualche ragione, interrompono, cancellano, trascurano, sminuiscono, indeboliscono, negano, oscurano, discriminano o disconnettono questi anelli non sono solamente insensibili o non ricettivi. Come vedremo nelle conferenze successive, sono probabilmente, se non criminali, in ogni caso nostri nemici. Ecco perché ha senso chiamare “negazionisti” coloro che, negando la nostra sensibilità così come quella di Gaia, affermano con sicurezza che la Terra non saprebbe in alcun caso reagire alle nostre azioni.

*

Seguire gli anelli per evitare la totalità è ovviamente anche avvicinarsi alla politica. Con il concetto di Antropocene, i due grandi principi unificatori – la Natura e l’Umano – diventano sempre più inverosimili. E non è l’intrusione di Gaia che andrà a unificare ciò che si sta disgregando sotto i nostri occhi. Inutile sperare che l’urgenza della minaccia sia talmente grande e la sua espansione talmente “globale” che la Terra agirà misteriosamente come un magnete unificatore, per fare di tutti i popoli sparsi un solo attore politico impegnato a ricostruire la torre di Babele della Natura. Gaia non è una figura gentile dell’unificazione. Era la “natura” a essere universale, stratificata, indiscutibile, sistematica, disanimata, globale e indifferente al nostro destino. Ma non Gaia, che non è altro che il nome proposto per tutte le conseguenze interrelate e imprevedibili delle agency, ognuna delle quali persegue il proprio interesse manipolando il proprio ambiente.

Gli organismi multicellulari che producono ossigeno e gli umani che emettono diossido di carbonio si moltiplicheranno o meno in base al loro successo e assumeranno esattamente la dimensione che sono in grado di assumere. Né più né meno. Non fate affidamento su un sistema inglobante e preordinato di retroazione per richiamarli all’ordine. È impossibile appellarsi all’“equilibrio della natura”, o alla “saggezza di Gaia”, o persino al suo passato relativamente stabile, in quanto forza in grado di ripristinare l’ordine ogniqualvolta la politica avrebbe diviso eccessivamente questi popoli sparsi. Nell’epoca dell’Antropocene sono svaniti tutti i sogni, coltivati da ecologisti convinti, di vedere gli umani guariti dalle loro dispute politiche grazie esclusivamente alla loro conversione alla cura della Natura. Siamo entrati di fatto in un periodo postnaturale.

Com’è ovvio, dietro i sogni di unificazione globale, c’era, c’è, sempre la Scienza. Non potremmo trovare in essa un principio unificatore, in ultima istanza, che metta tutti d’accordo e che possa guidare schiere di umani verso indiscutibili programmi di azione? Diventiamo tutti scienziati – in alternativa, diffondiamo ovunque la scienza attraverso l’istruzione – e potremo agire di concerto. “Fatti di tutti i paesi, unitevi!” Sfortunatamente (avrei detto fortunatamente), questa soluzione è resa impraticabile non soltanto dalla pseudo-controversia condotta dai clima-scettici, come abbiamo visto nella conferenza I83, ma anche dalla singolarità stessa di tutte queste discipline che dipendono da una distribuzione di strumenti, di modelli, di convenzioni internazionali, di burocrazia, di standardizzazione e di istituzioni la cui “gigantesca macchina”84, secondo il titolo del libro di Paul Edwards, non è mai stata presentata in una luce positiva alla coscienza pubblica. Le scienze del sistema Terra e i climatologi sono stati trascinati in una situazione postepistemologica, che è così sorprendente per loro quanto per il grande pubblico – entrambi i gruppi si trovano come scagliati “fuori dalla natura”.

Se non vi è unità né nella Natura né nella Scienza, vuol dire che l’universalità che cerchiamo deve essere in ogni caso tessuta anello dopo anello, riflessività dopo riflessività, strumento dopo strumento. È per rendere questa composizione perlomeno pensabile che ho proposto, nella conferenza I, di definire i collettivi – termine, ricordiamolo, che non è sinonimo di società – attraverso la distribuzione delle agency e la scelta delle connessioni che collegano queste forme di azione85. È ciò che ho chiamato una metafisica o una cosmologia, e che può consentirci di sottrarci sul serio al format Natura/Cultura, conducendoci verso qualcosa di simile al mondo. Questi collettivi – ed è ciò che fa la differenza – non sono culture, come lo erano per l’antropologia tradizionale; non sono unificati dal fatto di essere, dopo tutto, “figli della Natura”, com’era il caso delle scienze naturali di un tempo; né lo sono, ovviamente, perché avrebbero un po’ di entrambi – come nei sogni inesaudibili di riconciliazione o di dialettica86. La vera bellezza del termine Antropocene è di avvicinarci sempre all’antropologia e renderci meno inverosimile il confronto dei collettivi, finalmente liberi dall’obbligo di situarsi tutti gli uni in rapporto agli altri, in base al solo schema della natura e delle culture: unità da un lato, molteplicità dall’altro. Alla fine, la molteplicità è ovunque! La politica può ricominciare.

Dinanzi all’Antropocene, una volta scartata la tentazione di vedervi semplicemente un nuovo avatar dello schema “Uomo vs Natura”, non c’è probabilmente soluzione migliore che perseguire la disgregazione delle figurazioni abituali, fino a pervenire a una nuova distribuzione degli agenti della geostoria – nuovi popoli per i quali il termine “umano” non ha necessariamente significato e la cui scala, forma, territorio e cosmologia devono essere ridisegnati. Vivere all’epoca dell’Antropocene è sforzarsi di ridefinire il compito politico per eccellenza: quale popolo formate, con quale cosmologia e su quale territorio? Una cosa è certa: questi attori che stanno facendo il loro debutto sulla scena non hanno mai rivestito in precedenza alcun ruolo in una trama intricata così densa e così enigmatica. Dobbiamo farci l’abitudine, siamo entrati irreversibilmente in un’epoca insieme postnaturale, postumana e postepistemologica! Ciò comporta un sacco di “post”? Sì, ma il fatto è che tutto è cambiato intorno a noi. Non siamo più appunto umani moderni vecchio stile; non viviamo più all’epoca dell’Olocene!

La redistribuzione delle agency – quelle che, fino a poco tempo fa, chiamavamo ancora le “questioni ambientali”! – non è un modo di riunire pacificamente le parti in causa; essa divide più efficacemente di tutte le passioni politiche del passato – l’ha sempre fatto. Se Gaia potesse parlare, si esprimerebbe come Gesù: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra: sono venuto a portare non pace, ma spada!” (Mt 10,34). O, con ancora maggiore violenza, come nel Vangelo apocrifo di Tommaso: “Ho appiccato fuoco al mondo, e guardate, lo curo finché attecchisce87”.

*

Concludo questa conferenza con una interpretazione inconsueta della collisione dei pianeti alla fine del celebre film di Lars von Trier88. La trama riguarda in parte un pianeta errante, dal nome Melancholia, che minaccia di colpire la Terra, minaccia che rivela a ciascuno dei protagonisti, isolati dal resto del mondo nella loro casa padronale, il modo in cui reagiranno alla catastrofe. Senza rovinare la suspense a chi fra voi non l’ha visto, diciamo che non finirà bene… Il precario rifugio di rami costruito dalla protagonista per proteggere sua sorella e il suo sposo non sembra essere abbastanza. O è possibile che la lezione di questa metafora sia del tutto diversa: non sarebbe la Terra a essere distrutta in un lampo apocalittico finale e sublime da un pianeta errante; sarebbe il nostro Globo, il globale stesso, la nostra idea ideale del Globo che deve essere distrutta affinché emerga un’opera d’arte, una estetica89. A condizione che accettiate di inglobare nella parola “estetica” il suo antico senso di capacità di “percepire” ed essere “coinvolto”, in altre parole, una capacità di rendersi sensibili che precede ogni distinzione fra gli strumenti della scienza, della politica, dell’arte e della religione.

Con una delle sue numerose innovazioni linguistiche Sloterdijk ha suggerito che dovremmo passare dal monoteismo, con la sua vecchia ossessione della forma del Globo, al monogeismo90. I monogeisti sono coloro che non hanno un pianeta di riserva, che hanno una sola Terra, ma che non conoscono la Sua forma meglio di quanto conoscano il volto del loro Dio di un tempo – e che si trovano quindi a dover fronteggiare ciò che si potrebbe chiamare un genere interamente nuovo di teologia geopolitica. Una volta distrutto il Globo, la storia si rimette in moto.

1* Una traduzione di questa conferenza è presente anche nel volume edito nel novembre dello scorso anno – a cura di Nicola Manghi, Essere di questa terra, Rosenberg & Sellier, Torino 2019 [N.d.T.].

Una versione differente di questa conferenza è apparsa in É. Hache (éd.), De l’univers clos au monde infini, cit.

2 C. Bonneuil, J.-B. Fressoz, La terra, la storia e noi, cit. Utilizzo il termine “epoca” in senso non tecnico. I geologi distinguono il tempo per segmenti di ordine decrescente: in eoni, ere, periodi, epoche ed età.

3 L’importanza capitale dell’Antropocene risiede nel fatto che attribuisce una verità pratica, ossia stratigrafica, alla nozione di epoca studiata approfonditamente da uno storico – ma non da un geostorico. Cfr. H. Blumenberg, Die Legitimität der Neuzeit, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1966; tr. it. di C. Marelli, La legittimità dell’età moderna, Marietti, Genova 1992. Il Medioevo non si riconosceva come medio, più di quanto l’antichità non si riconoscesse come antica. Ma quando l’età moderna si è definita essa stessa, esplicitamente, come età moderna, non sapeva che avrebbe finito con l’essere determinata specificamente da una Sottocomissione sulla stratigrafia. Nell’intitolare il suo libro L’archeologia della conoscenza (1966) Michel Foucault non aveva previsto che il concetto di archeologia sarebbe stato preso alla lettera! Questo è un altro esempio della grande legge universale della storia in base alla quale il figurativo tende a divenire letterale.

4 Relazione redatta nel corso del Congresso dell’Unione Internazionale per la Ricerca sul Quaternario (INQUA), a Berna, in Svizzera, 21-27 luglio 2011, corsivo mio.

5 La scelta di datazioni lunghe – dalla comparsa dell’homo faber –, brevi – dopo la rivoluzione industriale – o molto brevi – dal dopoguerra – interseca differenze profonde, politiche e insieme morali. Più la data è remota, meno le forme attuali di capitalismo sono in discussione e più le responsabilità sono di conseguenza diluite. Ci si accontenta di dire: “Là dove c’è l’uomo, c’è l’influenza umana [hommerie]”. La frase, attribuita a Saint François de Sales, “Là où il y a de l’homme, il y a del l’hommerie”, contiene il termine hommerie, pressoché intraducibile in italiano, se non con una circonlocuzione che non rende la pienezza della sonorità della parola stessa, intesa come caricatura di humanité. L’umanità, ovvero l’essenza dell’essere umano, deprivata di ogni aspetto positivo, diviene hommerie, espressione in cui si concentra tutta la bassezza, la corruzione e l’egoismo dell’essere umano [N.d.T.].

6 L’articolo di P.J. Crutzen, E.F. Stoermer, The “Anthropocene”, in “Global Change Newsletter”, vol. XLI, 2000, pp. 17-18, ha innescato un’enorme fioritura letteraria e la creazione di diverse riviste specializzate: “Anthropocene”, “The Anthropocene Review”, “Elementa: Science of the Anthropocene” ecc. In Francia l’eccellente collana di Seuil diretta da C. Bonneuil e J.-B. Fressoz ha reso accessibile il concetto di Antropocene e le relative critiche a esso.

7 Un recente articolo conferma la data del 16 luglio 1945, data delle prime esplosioni nucleari, senza prendere posizione sul principio alla base, ma semplicemente sottolineando la comodità di identificare la transizione geologica, ovunque nel mondo, grazie alla firma lasciata dalla radioattività artificiale di recente introduzione. Cfr. J. Zalasiewicz, M. Walker, P. Gibbard, J. Lowe, When did the Anthropocene Begin?, in “Quaternary International”, n. 383, 2015.

8 Cfr. l’appassionante progetto The Anthropocene Project, guidato dalla Haus der Kulturen der Welt (HKW) a Berlino (hkw.de), che include video dei principali autori all’origine di questo concetto. Cfr. anche le numerose interviste sul portale “Humanités environnementales” in humanitesenvironnementales.fr/fr/les-ressources/les-grands-entretiens.

9 Oliver Morton stima che 17 tw sia l’energia istantanea della civiltà umana. Se l’intero pianeta vivesse “all’americana”, ciò comporterebbe un dispendio di 90 tw. L’energia rilasciata dalla tettonica delle placche (calore e movimento) si attesta, in confronto, sui 40 tw, mentre l’energia primaria – di origine biologica sulla Terra e negli oceani – si attesta sui 130 tw. Tutto questo è evidentemente irrilevante in confronto ai 130000 tw di energia disponibile sulla Terra grazie alla sola azione del Sole. Cfr. O. Morton, Eating the Sun, Fourth Estate, London 2007.

10 Il libro di J. Zalasiewicz, The Earth After Us, Oxford University Press, Oxford-New York 2008, che ha come sottotitolo What Legacy Will Humans Leave on the Rocks? (Quali tracce lasceranno gli umani sulle rocce?), descrive magistralmente questa scena immaginaria.

11 J. Zalasiewicz, M. Walker, P. Gibbard, J. Lowe, When did the Anthropocene Begin?, cit.

12 La lunga storia dell’estensione del tempo viene così ricostruita a opera di geologi, archeologi, esegeti ed eruditi nel corso dei secoli XVIII e XIX, come riporta M. Rudwick, Earth’s Deep History, University of Chicago Press, Chicago 2014.

13 È questo incrocio di storicità fin qui totalmente incompatibili che ha innanzitutto attirato l’attenzione di D. Chakrabarty, The Climate of History, cit.

14 Ritenuta comparabile all’erosione prodotta dalle forze della natura! Cfr. J.R. Ford, S.J. Price, A.H. Cooper, C.N. Waters, An Assessment of Lithostratigraphy for an Anthropogenic Deposits, in “Geological Society London”, n. 395, Special Publications, 2014.

15 L’antico e venerabile termine “storia naturale” che era servito da etichetta a numerosi “naturalisti” nel corso dei secoli, da Plinio a Darwin passando per Buffon, assume ora tutt’altro senso allorquando sottolineiamo la parola “storia” rapportandola alla storia umana. Gli scienziati sono effettivamente diventati gli storici della natura.

16 Copertina del dossier del 26 maggio 2011.

17 Capitolo ben noto di G. Deleuze, F. Guattari, Mille Plateaux, Les Éditions de Minuit, Paris 1980; tr. it. Mille piani, a cura di M. Guareschi, Castelvecchi, Roma 2006, capitolo 6 La geologia della morale (Cosa ne pensa la Terra?).

18 Se l’etichetta è finalmente rigettata sarà probabilmente a causa dell’eccesso di interesse di intellettuali, filosofi, artisti e attivisti per un termine che i geologi, per definizione, non riescono a tenere per sé, a causa dell’antropos che vi hanno introdotto. Non conosco artisti o attivisti che si mobilitino per il Proterozoico!

19 Copertina del dossier dell’edizione dell’11 marzo 2015.

20 Ricordiamo la mostra Effetto Arcimboldo allestita nel 1987 a Palazzo Grassi a Venezia. Cfr. S. Alfons, J. Clair, M. Cacciari et al., Effetto Arcimboldo, Bompiani, Milano 1987.

21 Mappa allegorica francese del XVII secolo di una terra immaginaria chiamata “Tendre, prodotta a più mani. Apparsa come incisione nella prima parte del romanzo di Madeleine de Scudéry del 1654-1961, Clélie, la “mappa del cuore” rappresenta il percorso verso l’amore nei barocchismi tipici dell’epoca [N.d.T.].

22 B. Bensaude-Vincent, I. Stengers, Histoire de la chimie, cit.

23 D. Archer, The Global Carbon Cycle, Princeton University Press, Princeton (N. J.) 2010.

24 M. Williams, J. Zalasiewicz, N. Davies, I. Mazzini, J.-P. Goiran, S. Kane, Humans as the Third Evolutionary Stage of Biosphere Engineering of Rivers, in “Anthropocene”, n. 7, marzo 2015, dx.doi.org/10.1016/j.ancene.2015.03.003.

25 news.sciencemag.org/earth/2014/06/rocks-made-plastic-found-hawaiian-
beach.

26 W. Cronon (ed.), Uncommon Ground, cit.; B. Szerszynski, The End of the End of Nature, in “The Oxford Literary Review”, vol. LXXIV, n. 2, 2012, pp. 165-184.

27 Come si può vedere nello straordinario libro (su un fungo champignon!) di A.L. Tsing, The Mushroom at the End of the World, Princeton University Press, Princeton (N. J.) 2015.

28 È la tesi di Chakrabarty: “Non esiste ‘umanità’ che possa agire come un attore cosciente di sé. Poiché la crisi del cambiamento climatico si trova sparsa in tutte le ‘differenze antropologiche’, ciò può voler dire soltanto che, anche se il riscaldamento globale è antropogeno per sua origine, non esiste ‘umanità’ corrispondente che possa agire nella sua unità come agente politico”. D. Chakrabarty, Postcolonial Studies and the Challenge of Climate Change, in “New Literary History”, vol. XLIII, n. 1, 2012, p. 15.

29 Il ruolo ricoperto dal particolato nell’incremento del riscaldamento globale sembra essere stato trascurato. J. Tollefson, Soot a Major Contributor to Climate Change, in “Nature”, 15 gennaio 2013.

30 Supra, pp. 126 ss.

31 P. Sloterdijk, Sphären, bdd. I-III, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1998-2004; tr. it. di G. Bonaiuti, S. Rodeschini, Sfere, 3 voll., a cura di G. Bonaiuti, Raffaello Cortina, Milano 2014-2015. Cfr. in particolare P. Sloterdijk, Sphären II. Globen, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1999; tr. it. di S. Rodeschini, Sfere II. Globi, a cura di G. Bonaiuti, Raffaello Cortina, Milano 2014.

32 J. Von Uexküll, Streifzüge durch die Umwelten von Tieren und Menschen, Julius Spinger, Berlin 1934; tr. it. Ambienti animali e ambienti umani, a cura di M. Mazzeo, Quodlibet, Macerata 2010.

33 Vedi l’affascinante catalogo della mostra dedicata al Whole Earth Catalog a cura di D. Diederichsen, A. Franke, The Whole Earth, Haus der Kulturen der Welt, Berlin 2013. Sull’inattendibilità del Globo come figura della Terra cfr. le ricerche di K. Olwig, The Earth is not a Globe, in “Landscape Research”, vol. XXXVI, n. 4, 2011, pp. 401-415. Sulla storia della forma recente del Globo cfr. S.-V. Grevsmühl, La Terre vue d’en haut, Éditions du Seuil, Paris 2014. Il sottotitolo di quest’opera – L’invention de l’environnement global (L’invenzione dell’ambiente globale) – si adatta perfettamente alla tesi di Sloterdijk.

34 Cfr. l’appassionante sito che tenta di mappare l’infrastruttura materiale di quel che chiamiamo il virtuale: formandenergy.xyz/new-cloud-atlas.

35 Supra, p. 120.

36 P. Sloterdijk, Sfere II. Globi, cit., p. 428.

37 Here in 1897 at the old Cavendish Laboratory J.J. THOMSON discovered the electron subsequently recognised as the first fundamental particle of physics and the basics of chemical bonding electronics and computing”, targa apposta alla Free School Lane.

38 È qui in effetti che Simon Schaffer e i suoi colleghi hanno stabilito la loro base; gli storici delle scienze hanno finito con l’occupare, dopo un po’, gli uffici degli scienziati che si sono successivamente trasferiti più lontano, seguendo i loro strumenti sempre più ingombranti.

39 H. Mialet, À la recherche de Stephen Hawking, Odile Jacob, Paris 2014.

40 Sulla costituzione di questa “epistemologia politica” cfr. B. Latour, Pandora’s Hope, Harvard University Press, London 2001.

41 I lettori di Tintin avranno riconosciuto in questa metafora l’avventura del capitano Haddock in Uomini sulla Luna: quando, per errore, i Dupont fanno scomparire la gravità artificiale del razzo, il whisky si trasforma in bolle che fluttuano nella cabina…

42 Frontespizio del primo Atlante di Mercatore, vedi figura 4.2.

43 La letteratura sugli usi del globo è immensa, cfr. in particolare due opere: F. Farinelli, Geografia, Einaudi, Torino 2003 e l’assai utile panoramica di J. Brotton, A History of the World in Twelve Maps, Allen Lane, London 2012, tr. it. di V.B. Sala, La storia del mondo in dodici mappe, Feltrinelli, Milano 2013.

44 Questa torre, sorta di Palazzo della Scoperta e cupola geodetica, è uno dei luoghi più visitati di Edimburgo e si trova a qualche centinaio di metri dall’aula in cui si tenevano le conferenze Gifford. Ringrazio Pierre Chabard per avermi fatto conoscere questo incredibile personaggio. Cfr. P. Chabard, L’Outlook Tower, anamorphose du monde, in “Le Visiteur”, n. 7, 2001, pp. 64-89.

45 Sulla storia di questo progetto cfr. l’Introduzione di N. Jankovic a É. Reclus, Projet de globe terrestre au 100000e, Éditions B2, Paris 2011, da cui è tratta la citazione. Jankovic aggiunge: “La questione non è intrattenere ma meravigliarsi dell’Umanità e favorire la Comunione con la Terra” (p. 39).

46 Ivi, p. 34, corsivo mio.

47 Particolarmente impressionante nel caso di Michael Ruse, che non sembra dubitare nemmeno per un istante che Lovelock stia tentando di comporre Gaia e non, invece, che ne stia deducendo la forma sulla base di un Globo preesistente. Cfr. M. Ruse, The Gaia Hypothesis, University of Chicago Press, Chicago 2013.

48 In La Terre vue d’en haut S.-V. Grevsmühl persegue l’archeologia di questa ossessione.

49 In Dio è anche giardiniere Boureux parte dal principio che esista una totalità avente un’origine comune (divina) e che la sua composizione iniziale non ponga alcun problema particolare. Cfr. C. Boureux, Dieu est aussi jardinier, Le Cerf, Paris 2014; tr. it. di G. Romagnoli, Dio è anche giardiniere, Queriniana, Brescia 2016.

50 T. Tyrrell, On Gaia, Princeton University Press, Princeton (N. J.) 2013.

51 Il libro di B. Mandeville, La favola delle api [1714], il cui sottotitolo è molto eloquente – Vizi privati e pubbliche virtù –, è uno dei numerosi antenati di quei modelli animali che consentono di spiegare l’emergere dell’optimum – di fatto il Mercato – a partire dallo scontro aperto di interessi individuali.

52 Tyrrell si preoccupa a ragione del fatto che, se Gaia fosse pensata come un’amabile e benevola Provvidenza, gli umani si lascerebbero andare alla violenza, sicuri che Gaia perdonerebbe loro ogni errore. Al contrario, “poiché il sistema climatico della Terra è traspirato [transpired], in opposizione a evoluto, non vi è alcuna ragione di sperare che sia particolarmente solido o al riparo da guasti” (T. Tyrrell, op. cit., p. 216).

53 Ivi, p. 113, corsivo mio.

54 Ivi, p. 198.

55 J. Lovelock, Gaia: manuale di medicina planetaria, cit., pp. 10-11, corsivo mio.

56 Nelle interviste Lovelock insiste spesso sul suo essere, innanzitutto, un inventore di strumenti molto sensibili (in particolare il famoso rivelatore a cattura di elettroni – ECD) e sostiene che invenzioni simili lo hanno reso sensibile all’animazione della Terra poiché era in grado di rilevare la presenza di sostanze chimiche (agli albori delle sue ricerche sull’inquinamento) su lunghe distanze.

57 J. Lovelock, Gaia, cit., p. 11, corsivo mio.

58 T. Tyrrell, op. cit., p. 3.

59 Ivi, p. 4.

60 Ivi, p. 48.

61 Di qui il seguente passo incredibile: “Nella mia mente questo paradosso della fame di azoto in un mondo immerso nell’azoto è uno degli argomenti più potenti contro l’idea di Gaia che la biosfera sia mantenuta confortevole a beneficio della vita che l’abita” (ivi, p. 111). Sembra di leggere Voltaire prendersi gioco delle prove dell’esistenza di Dio tratte dall’armonia della natura!

62 J. Lovelock, Gaia, cit., p. 11, corsivo mio.

63 B. Latour, Reassembling the Social, Oxford University Press, Oxford-New York 2005. È affascinante vedere che il problema è sempre lo stesso a qualsiasi scala, che si tratti di Gaia o di formiche, come in D.M. Gordon, Ant Encounters, Princeton University Press, Princeton (N. J.) 2010. È il problema che Tarde aveva posto al centro delle scienze sociali e che è stato inghiottito dall’idea di livelli distinti che vanno dall’individuo al collettivo. Cfr. G. Tarde, Les lois sociales, F. Alcan, Paris 1898; tr. it. Le leggi sociali, a cura di S. Prinzi, artstudiopaparo, Napoli 2014.

64 B. Latour, P. Jensen, T. Venturini, S. Grauwin, D. Boullier, The Whole is Always Smaller than its Parts, in “British Journal of Sociology”, vol. LXIII, n. 4, 2012, pp. 590-615.

65 Non bisogna mai dimenticare che le preoccupazioni ambientali sono innanzitutto militari e che la guerra totale attraverso le modificazioni del clima precede di parecchie dozzine di anni la guerra contro le mutazioni del clima. Cfr. su questo punto R.E. Doel, Constituting the Postwar Earth Sciences, in “Social Studies of Science”, vol. XXXIII, n. 5, 2003, pp. 635-666.

66 Come mostra Grevsmühl, in La Terre vue d’en haut, l’immagine canonica è di fatto una composizione fatta pixel per pixel e non ha nulla, tecnicamente, di una immagine “globale”.

67 A. Pickering, The Cybernetic Brain, University of Chicago Press, Chicago 2010.

68 La tesi di C. Bonneuil e J.-B. Fressoz, contenuta in La terra, la storia e noi, è difficilmente confutabile: i nostri predecessori non hanno mai smesso di deplorare in termini identici la stessa catastrofe e di allertarci sulle stesse minacce, che si tratti di S. Toulmin o di B. Ward e R. Dubos, o ancora del Club di Roma o di E. Huzar o delle campagne contro la vaccinazione nel 1760. Cfr. S. Toulmin, Cosmopolis, University of Chicago Press, Chicago 1990, tr. it. di P. Adamo, Cosmopolis, Rizzoli, Milano 1991; B. Ward, R. Dubos, Una sola Terra, cit.; E. Vieille-Blanchard, Les limites à la croissance dans un monde global (thèse), EHESS, Paris 2011; E. Huzar, La fin du monde par la science, Librairie de E. Dentu, Paris 1855.

69 J.-B. Fressoz, L’apocalypse joyeuse, cit.

70 Cfr. il contributo di C. Hamilton, J. Grinevald, Was the Anthropocene Anticipated?, cit.

71 Mi dichiaro colpevole, ovviamente, con la leggera attenuante che, poiché non siamo mai stati moderni (e ciò lo abbiamo sempre sospettato), non ci sono mai state in effetti cesure nette, fratture ben evidenti a cui potersi aggrappare, anche se i moderni, per ragioni che incontreremo nella conferenza VI, non possono vivere se non sostenuti da una rottura radicale.

72 Questo ritorno della storia è assai ben marcato dalla moltiplicazione delle alternative proposte per l’Antropocene: l’“Anglocene” (il contributo combinato dell’Inghilterra e degli Stati Uniti alle emissioni di CO2 resta ancora superiore a quello dei paesi emergenti), il “capitalocene” (jasonwmoore.com), senza dimenticare il delizioso “Cthulhucene” proposto da D.J. Haraway, Staying with the Trouble, cit.

73 Al momento, l’alternativa più seria è quella del “Plantatiocene” proposta da A.L. Tsing, The Mushroom at the End of the World, cit., per descrivere un regime preindustriale di conquista della terra, che marca l’inizio di questo grande “scambio colombiano” (C.C. Mann, 1493, Alfred A. Knopf, New York 2011; tr. it. di C. Lazzari, 1493, Mondadori, Milano 2013), un ideale “chiodo d’oro” per l’inizio della Grande divergenza analizzata da R. Grove, Green Imperialism, Cambridge University Press, Cambridge 1995.

74 P. Sloterdijk, Der Kristallpalast, in Id., Im Weltinnenraum des Kapitals, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2005; tr. it. di S. Rodeschini, Il palazzo di cristallo, in Il mondo dentro il capitale, a cura di G. Bonaiuti, Meltemi, Roma 2005, pp. 220-228.

75 J. Dewey, Logic, Allen & Unwin, London 1938; tr. it. di A. Visalberghi, Logica, teoria dell’indagine, Einaudi, Torino 1949.

76 C.D. Keeling, Rewards and Penalties of Recording the Earth, cit., incontrato già alle pp. 58 e 66.

77 Capitolo VI di S.-V. Grevsmühl, La Terre vue d’en haut, cit.

78 Sul legame fra la guerra nucleare e il Nuovo regime climatico cfr. P.N. Edwards, Entangled Histories, in “Bulletin of Atomic Scientist”, vol. LXVIII, n. 4, 2012, pp. 28-40, e M. Dörries, The Politics of Atmospheric Sciences, in “Osiris”, vol. XXVI, n. 1, 2011, pp. 198-223.

79 D. Abram, The Spell of the Sensuous, Vintage Books, New York 1996.

80 R.N. Proctor, Golden Holocaust, University of California Press, Berkeley 2011.

81 Cfr. le testimonianze di A. Gore, The Assault on Reason, Penguin Press, New York 2007, tr. it. di A. Oliveri, L’assalto alla ragione, Feltrinelli, Milano 2007, nonché l’opera più accurata di J. Hoggan, Climate Cover-Up, Greystone Books, Vancouver 2009.

82 I. Stengers, Au temps des catastrophes, La Découverte, Paris 2009.

83 E. Zaccai, F. Gemenne, J.-M. Decroly (éds.), Controverses climatiques, sciences et politiques, cit.

84 P.N. Edwards, A Vast Machine, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2010.

85 P. Descola, Oltre natura e cultura, cit.

86 B. Latour, Politiche della natura, cit.

87 Vangelo apocrifo attribuito a Tommaso, loggione 10.

88 Melancholia di L. von Trier, 2011.

89 “Ecco perché Gaia somiglia molto più al pianeta Melancholia che alla Terra da esso colpita; Melancholia è un’immagine della trascendenza titanica ed enigmatica di Gaia, entità che si abbatte distruttivamente sul nostro mondo improvvisamente troppo umano” (D. Danowski, E. Viveiros de Castro, L’arrêt de monde, in E. Hache (éd.), De l’univers clos au monde infini, cit., pp. 251-252).

90 Da non confondere con il monogenismo, teoria dell’origine unica dell’uomo! “Le prove dell’esistenza di Dio portano inevitabilmente il segno del loro fallimento, mentre le prove dell’esistenza del globo terrestre hanno dalla loro parte un flusso ininterrotto di evidenze” (P. Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, cit., p. 34).