Gaia è il sistema di vita planetaria che comprende tutto ciò da cui viene influenzato e che influenza il biota. Il sistema di Gaia condivide con tutti gli organismi viventi la capacità di omeostasi, cioè la regolazione dell’ambiente fisico e chimico ad un livello prossimo a quello favorevole alla vita.62
“Sistema”, “omeostasi”, “regolazione”, “livelli favorevoli”: ecco termini assai pericolosi. Ci sarebbe quindi un ordine superiore? Il lettore, per quanto caritatevole, avrà difficoltà a trovare la sua strada nelle numerose versioni proposte da Lovelock. Come dobbiamo interpretare l’enunciato seguente, in cui afferma allo stesso tempo che la Terra è e non è un tutto unitario?
Quando, nel 1785, James Hutton definì la Terra un superorganismo, sono assolutamente persuaso che non avesse in mente una divinità o qualche essere sensibile. Penso invece che stesse usando l’unico linguaggio allora disponibile per esprimere la propria intuizione – quella che la Terra si comportava come un sistema autoregolatore e che la scienza più appropriata ai fini del suo studio era la fisiologia.63
Ma se non è una “divinità”, perché chiamarla Gaia? E quale differenza c’è per un “superorganismo” fra un “essere sensibile” e un “sistema autoregolatore”? Significa fare sostenere un pesante fardello al povero, piccolo avverbio “come”, incaricato tutto da solo di impedire che si scambi davvero Gaia per un Tutto. E tuttavia, se sostengo che Lovelock giri intorno a qualcosa di altrettanto originale del microbo anti-Liebig e anti-Pouchet di Pasteur, è perché anche lui si batterà per impedire di affidare a un livello superiore, quello della totalità, tutte le agency che ha individuato.
Per comprendere perché ha tanta difficoltà a esprimersi, bisogna ricordare che sociologia e biologia non hanno mai smesso di scambiarsi le metafore e che è quindi estremamente complesso inventare una nuova soluzione al problema dell’organizzazione64. Tutte le scienze naturali o sociali sono ossessionate dallo spettro dell’“organismo” che diviene sempre, più o meno surrettiziamente, un “superorganismo”, ossia un dispatcher, un’unità centrale, un centralino, a cui è affidato il compito – o piuttosto il sacro mistero – di garantire il coordinamento fra le parti65. Ora, il problema che Lovelock ha visto chiaramente è che, in senso proprio, negli oggetti che studia non esistono parti né tutto.
Non appena immaginate parti che “ricoprono una funzione” all’interno di un tutto, siete inevitabilmente tenuti a immaginare anche un ingegnere che proceda al loro assemblaggio. Non c’è in effetti, se non nei sistemi tecnici, la possibilità di distinguere le parti da un tutto66. È proprio la definizione dell’atto tecnico: a partire da un progetto potete anticipare i ruoli che saranno occupati dagli elementi in funzione di uno scopo. Si può ovviamente estendere la metafora tecnica a un corpo, una cellula, una molecola, facendo come se le funzioni “obbedissero” a un piano. Questo tecno-morfismo è stato molto utile alla biologia, in special modo allo studio delle società animali67. Ma come fare se intendiamo parlare della Terra nella sua interezza? La metafora dell’organismo – questo strano amalgama di teoria sociale, concezione dello Stato e meccanicismo – non ha alcun senso su questa scala, a meno di immaginare un Ingegnere generale, maschera goffa della Provvidenza, capace di conferire l’agency a ciascuno di questi attori per il bene superiore di tutti.
Ora è evidente che non possiamo applicare metafore tecniche alla Terra in modo permanente: non è stata fabbricata; nessuno ne cura la manutenzione; anche se ci fosse un’“astronave” – paragone contro cui Lovelock lotta senza tregua68 –, non avrebbe pilota. La Terra ha una storia, ma non è stata concepita per questo. È perché non c’è ingegnere all’opera, né orologiaio divino, che non si può sostenere una concezione olistica di Gaia. E poiché Gaia non può essere comparata a una macchina, non può essere soggetta a un qualsiasi re-engineering69. Come dicono gli attivisti: “Non c’è un pianeta B”. Non potete fare affidamento su nessuna NASA a cui un equipaggiamento in difficoltà potrebbe rivolgersi, in caso di catastrofe, chiedendo soccorso via radio al grido di “Houston, we have a problem!70”.
Tutta l’originalità – e, sì, lo riconosco, tutta la difficoltà – dell’impresa di Lovelock risiede nel fatto che si è tuffato a capofitto in una questione impossibile: ottenere effetti di connessione fra agency senza per questo fare affidamento su una concezione insostenibile della totalità. Egli aveva intuito che l’estensione della metafora dell’organismo alla Terra non aveva alcun senso e che, tuttavia, i microagenti cospiravano davvero a far esistere in maniera duratura questa zona critica all’interno della quale si combinano tutti i viventi. Se si contraddice costantemente è perché si dibatte come un diavolo per evitare i due scogli, cercando di tracciare le connessioni senza prendere la strada della Totalità. È a questo genere di battaglie che riconosciamo la grandezza di scienziati come Pasteur o Lovelock.
Tanto più che è forse il primo a porsi una simile domanda. Infatti, coloro contro cui combatte non hanno alcuna difficoltà, per parte loro, a considerare la Terra un sistema a priori sempre già unitario: sia che la considerino nella sua versione disanimata – tutte le parti “obbediscono passivamente alle leggi della natura71” – che nella sua versione sovranimata – le parti operano a maggior gloria della Vita, il curioso amalgama di anima, spirito, governo e dio. Il problema con cui Lovelock si confronta sfugge loro totalmente: come seguire le connessioni senza essere per questo olista? È in questo senso che la sua versione del sistema Terra è antisistemica: “C’è solo una Gaia, ma Gaia non è una72”.
Al pari di Pasteur, deve inventare una nuova messa a punto delle agency che popolano il mondo, ma con questa difficoltà ulteriore: deve trovare il modo di comporre includendo, senza unificarli preventivamente, tutti i viventi entro i limiti di questo involucro fragile che chiama Gaia. Tutti retroagiscono “come” un superorganismo, ma la loro unità non può essere affidata ad alcuna figura di Governatore. E questo malgrado l’attrattiva delle metafore tecniche, come quella del termostato o della cibernetica a cui, tuttavia – vi tornerò nella conferenza successiva –, Lovelock non smette di ricorrere. Come risolve il problema? Abbandonando l’idea delle parti! È questa la sua intuizione fondamentale, è questa quindi che dobbiamo comprendere73.
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Se, in qualità di geofisiologo, Lovelock si schiera contro i geochimici, combatte altrettanto i darwiniani per i quali gli organismi si limitano ad “adattarsi” al loro ambiente, senza prendere in considerazione il fatto che adattano allo stesso modo l’ambiente a loro. Per Lovelock, ogni organismo preso come punto di partenza di una reazione biochimica non si sviluppa “in” un ambiente, ma lo adatta, lo piega intorno a sé, per così dire, per meglio svilupparsi. In questo senso, ogni organismo manipola intenzionalmente quel che lo circonda “nel proprio interesse” – l’intera questione risiede, certo, nel definire questo interesse74.
È in questo senso che non ci possono essere, a rigor di termini, parti. Nessun agente sulla Terra è semplicemente sovrapposto a un altro come un mattone giustapposto a un altro. Su un pianeta morto, i pezzi sarebbero posti partes extra partes, non così sulla Terra. Ogni agency modifica le sue vicine, seppur molto leggermente, per rendere la propria sopravvivenza un po’ meno improbabile. È qui che risiede la differenza fra geochimica e geofisiologia. Ciò non significa che Gaia possieda una sorta di “grande anima sensibile”, ma che il concetto di Gaia catturi l’intenzionalità distribuita di tutti gli agenti, ciascuno dei quali modifica il suo ambiente a suo piacimento.
Fin qui, nulla di straordinario. È solo se si spinge al limite questa idea, come fa quel testardo di Lovelock, che diviene davvero feconda. Tutti gli storici riconoscono che gli umani hanno adattato il loro ambiente per soddisfare i loro bisogni: la natura in cui vivono è artificiale da parte a parte. Lovelock – un inventore, non bisogna dimenticarlo – non fa altro che estendere questa capacità di trasformazione a ogni agente, per quanto piccolo sia. Non sono soltanto i castori, gli uccelli, le formiche o le termiti che piegano l’ambiente intorno a loro per renderlo più favorevole, ma anche gli alberi, i funghi, le alghe, i batteri e i virus. C’è qui un rischio di antropomorfismo? Certamente, è proprio qui che risiede tutta l’astuzia del ragionamento: la capacità degli umani di riorganizzare tutto intorno a loro è una proprietà generale dei viventi. Su questa Terra nessuno è passivo: le conseguenze selezionano, per così dire, le cause che agiranno su esse.
È a questo punto che bisogna concentrarsi maggiormente sulla distribuzione delle agency. Cosa succede, infatti, se estendete l’intenzionalità a tutti gli agenti75? Paradossalmente, una tale estensione cancella in fretta ogni traccia di antropomorfismo poiché introduce a ogni livello la possibilità di retroazioni non intenzionali. In effetti, quel che è vero per un attore preso come punto di partenza dell’analisi è ugualmente vero per tutti i suoi vicini. Se A modifica B, C, D e X a vantaggio della sua sopravvivenza, è altrettanto vero che B, C, D e X modificano A a loro volta. Immediatamente, l’animazione si propaga in tutti i punti. Supponete di assumere, da buoni darwiniani, l’interesse o il profitto come causa finale di ciascun organismo in lotta per la propria sopravvivenza: cosa può voler dire “causa finale” se non è più finale, ma interrotta in ciascun punto dall’interposizione delle intenzioni e degli interessi, altrettanto vigorosi, di altri organismi?
Più generalizzate la nozione di intenzionalità a tutti gli attori, meno scoprirete intenzionalità nella totalità, anche se potete osservare sempre maggiori retroazioni positive o negative, tutte così poco intenzionali, sia le une che le altre76! Sembra che i moralisti non abbiano mai soppesato davvero seriamente le conseguenze della regola d’oro: se “ognuno fa agli altri quel che vorrebbe che gli altri facessero a lui”, il risultato non è né la cooperazione né l’egoismo, ma la storia caotica che conosciamo molto bene dato che viviamo all’interno di essa77! Potete seguire le ondulazioni di una pietra scagliata in uno stagno, ma non le onde prodotte da centinaia di cormorani che si immergono contemporaneamente per afferrare un pesce. Con Gaia, Lovelock non ci chiede di credere a una sola Provvidenza, ma a tante Provvidenze quanti sono gli organismi sulla Terra. Generalizzando la Provvidenza a ogni agente, si assicura che gli interessi e i profitti di ogni attore saranno controbilanciati da numerosi altri programmi. L’idea stessa di Provvidenza diviene sfumata, pixellata e finisce per svanire. Il semplice risultato di una tale distribuzione di cause finali non è l’emergere di una Causa finale suprema, ma un bel pasticcio. Questo pasticcio è Gaia.
Anche qui il parallelo con Pasteur è sorprendente perché la sua scoperta non è stata tanto l’esistenza di microbi, quanto l’interazione complessa dei microbi col terreno che influenzavano e che, a sua volta, influenzava il loro sviluppo78. È soltanto perché Pasteur era riuscito a mostrare che poteva fare variare la virulenza delle malattie facendo passare i microbi attraverso differenti specie – conigli, polli, cani e cavalli – che poté finalmente persuadere i medici a riconoscere ai microbi un ruolo ben definito nello sviluppo delle malattie79. Anche in questo caso, il riduzionismo non si definisce attraverso la natura disanimata dell’agente introdotto nella storia ma attraverso il numero degli altri agenti che concorrono all’azione.
In senso stretto, per Lovelock e ancora più chiaramente per Lynn Margulis, non esiste più ambiente a cui potersi adattare. Poiché tutti gli agenti viventi seguono costantemente le loro intenzioni, modificando i loro vicini quanto più possibile, è del tutto inconcepibile discernere quale sia l’ambiente a cui l’organismo si adatta e quale sia il punto in cui la sua azione cominci. Come Timothy Lenton, collaboratore di Lovelock, sottolinea in una delle sue recensioni:
La teoria di Gaia mira a essere compatibile con la biologia evoluzionista e considera l’evoluzione degli organismi e del loro ambiente materiale talmente embricata da formare un processo unico e indivisibile. Gli organismi possiedono proprietà che alterano l’ambiente perché il beneficio che queste proprietà apportano (alla sostenibilità dell’organismo) supera il costo in energia nell’individuo.80
Ma, attenzione, “unico e indivisibile” si applica al processo di embricazione, non ai risultati! Tale è l’origine del fascino particolare che emana dalla prosa di Lovelock e Margulis. L’interno e l’esterno di tutte le frontiere sono sovvertiti. Non perché tutto sarebbe connesso in una “grande catena dell’essere”, non perché esisterebbe da qualche parte un piano globale che ordinerebbe la concatenazione degli agenti, ma perché l’interazione fra un vicino che manipola attivamente i suoi vicini e tutti gli altri che lo manipolano definisce quelle che potremmo chiamare onde di azione che non rispettano alcuna frontiera e, più importante ancora, non rispettano mai alcuna scala fissa81. Queste onde che si sovrappongono sono i veri attori che dovrebbero essere seguiti fino in fondo, quale che sia il luogo in cui conducono, senza attaccarsi alla frontiera interna di un agente isolato, considerato un individuo “all’interno” di un ambiente “a cui” si adatterebbe82. Il termine è approssimativo, non è quello di Lovelock, e tuttavia queste onde di azione sono le vere e proprie pennellate con cui spera di dipingere il volto di Gaia.
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Fin qui l’argomentazione di Lovelock è totalmente incompatibile con i racconti darwiniani, poiché ogni agente lavora per se stesso senza che gli si richieda di abbandonare il proprio interesse “a vantaggio di un tutto superiore”, quel che ci si aspetterebbe, evidentemente, se ci fosse un dispatcher gigante che distribuisce le funzioni a tutte le parti. Senza elogio del sacrosanto egoismo, nessun darwinismo è pensabile83. Ma Lovelock inizierà ad aggiungere qualcosa all’argomentazione consueta nel momento in cui chiederà cosa significhi davvero per un agente “calcolare il suo interesse”.
Gli evoluzionisti hanno criticato molto Lovelock opponendogli l’argomentazione, a prima vista irrefutabile, che nessuno può dire come l’organismo Terra riesca a sopravvivere in seno a una popolazione di pianeti, ognuno in lotta per la propria sopravvivenza – il format tipico dei racconti di evoluzione84. Hanno quindi rigettato con indignazione l’idea di un “pianeta vivente”. Ma questo perché attribuivano a Lovelock l’idea di un pianeta unitario, un superorganismo, idea che egli non smetteva appunto di combattere. Ora, per Lovelock, non c’è affatto bisogno del formato standard per rilevare l’azione ordinaria dell’evoluzione. La difficoltà che si leva contro di lui è quindi tutta immaginaria. Dipende interamente dalla scena primaria dell’evoluzionismo che si basa, da una parte, sull’idea che si possano assegnare dei limiti all’organismo le cui possibilità di sopravvivenza si sostiene di poter calcolare e, dall’altra, sulla funzione di arbitro ultimo conferita all’ambiente incaricato della selezione. Ora, per Lovelock, non c’è limite all’organismo che renderebbe la sua sopravvivenza “calcolabile” e neppure arbitro, poiché cerca di fare a meno di entrambi i concetti, quello dell’organismo isolato che calcola il suo interesse e quello di totalità inerte a cui si adatterebbe. Lungi dal cedere alla critica dei neodarwiniani, Lovelock inverte il loro paradigma: se c’è una vestigia di Provvidenza, è fra i darwiniani che è più probabile trovarla85.
Anche se si prestasse di buon grado all’esercizio obbligatorio di mostrare, grazie al modello Daisy86, che gli organismi in lotta potrebbero ottenere effetti di omeostasi senza un piano prestabilito – cosa che era piuttosto evidente –, è proprio il modo in cui i biologi intendono l’adattamento a un ambiente che Lovelock ha attaccato. Questo limite è chiaramente quello della teoria economica impiegata come modello per la biologia, teoria in virtù della quale si potrebbe distinguere l’esterno dall’interno di un agente. Secondo questa teoria, dovete sempre scegliere fra l’individuo egoista e il sistema integrato – dilemma che i biologi hanno preso in prestito dalle scienze sociali87. Ma quel che è inverosimile nell’idea del “gene egoista” non è che i geni siano egoisti – ogni agente persegue il proprio interesse fino alla sua triste fine –, ma che si possa calcolare la sua “sostenibilità” esternalizzando tutti gli altri attori in quello che costituirebbe, per un attore dato, il suo “ambiente”. In altre parole, il problema del gene egoista88 è la definizione dell’ego. Ciò non vuol dire che si debba mobilitare un superorganismo a cui gli attori sarebbero costretti a sacrificare il loro ben-essere, ma solamente che la vita è più caotica di quel che gli economisti e i darwiniani avevano immaginato, poiché ogni scopo egoistico è sommerso dagli scopi egoistici di tutti gli altri. Le narrazioni basate sulla selezione naturale offrono un quadro eccessivamente idilliaco della storia naturale. Comparata al pasticcio di Gaia, la lotta impietosa per la vita appare per quel che è: una forma addomesticata e razionalizzata della religione naturale89.
La ragione per cui l’intuizione profana di Darwin è stata così spesso oggetto di caricatura, configurandosi come una versione a malapena mascherata della Provvidenza, è che i neodarwiniani hanno finto di dimenticare che, se un tale calcolo funziona nell’economia umana, è in ragione della pressione continua di procedure di calcolo che hanno lo scopo di fare funzionare – il termine tecnico è di performare – la distinzione fra ciò che un agente dato deve letteralmente prendere in considerazione e ciò di cui deve decidere di non tenere conto90. Senza queste procedure contabili, sarebbe impossibile calcolare il profitto e più ancora portarlo fuori dal suo cosiddetto “ambiente”. Non appena si estenda il darwinismo a tutti i viventi, e quindi a quel che ciascuno fa a tutti gli altri da cui dipende, il calcolo dell’ottimizzazione diviene semplicemente impossibile91. Né l’internalizzazione né l’esternalizzazione hanno qui senso. Quel che si ottiene al loro posto sono occasioni, coincidenze, anelli di retroazione, rumore e, sì, la storia. Se non c’è gene egoista è perché, letteralmente, l’ego non ha limiti!
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Gli evoluzionisti, in altre parole, si sono affrettati a trattare Gaia come un tutto, senza neppure cercare di comprendere quel che Lovelock esplorava. Hanno rivelato dunque in tal modo il loro attaccamento inveterato all’opposizione classica fra l’individuo e la totalità, l’attore e il sistema – ossessione politica, sociologica e religiosa –, ma senza praticamente relazione alcuna con quel che ci si può aspettare dai viventi nel mondo. Un po’ lo sospettavamo: l’economia della natura non è quella degli umani. Ritornerò su questo attaccamento nella conferenza successiva, ma vorrei, per concludere questa, segnalare l’altra conseguenza del tentativo di Lovelock: se fa a meno dell’idea di parte per spiegare l’organismo, fa a meno anche dell’idea di totalità per rendere conto delle differenze di scala.
Non appena abbandoniamo le frontiere fra l’esterno e l’interno di un agente, seguendo queste onde di azione, cominciamo a modificare la scala dei fenomeni considerati. Non è che cambieremmo livello o passeremmo con un brusco salto dall’individuo al “sistema”: si tratta semplicemente di abbandonare i due punti di vista in quanto egualmente inefficaci. È qui tutta l’importanza del ruolo di Margulis. Del resto, il collegamento tra i due autori avrebbe dovuto allertare i critici, poiché Margulis capovolge la comprensione dei minuscoli organismi così come Lovelock quella della Terra92. Ciò dimostra che sono le nozioni di organismo, di scala, di parti e di tutto che attaccavano congiuntamente. Tutti e due stavano cercando di fare completamente a meno della nozione di livello.
Un esempio di una tale onda di azione ha assunto carattere emblematico nella saga di Lovelock: la comparsa progressiva dell’ossigeno alla fine dell’Archeano. L’ossigeno che respiriamo è “superiore” alla nostra scala individuale? Siamo “nell’atmosfera”? Non esattamente, perché questo veleno pericoloso è esso stesso la conseguenza inaspettata dell’azione di microrganismi che hanno dato ad altri attori – da cui discendiamo – l’opportunità di svilupparsi. In altre parole, l’atmosfera siamo noi. L’ossigeno è una novità relativa, un grave esempio di inquinante che è stato colto da nuove forme di vita come una occasione d’oro, dopo avere annichilito miliardi di forme di vita precedenti:
L’ossigeno è tossico, mutageno e probabilmente cancerogeno, e per questo fissa un limite alla durata della vita. Ma la sua presenza apre anche grandi e nuove opportunità agli organismi. Alla fine dell’Archeano, la comparsa di un po’ di ossigeno libero avrebbe fatto miracoli per i primi ecosistemi di allora. […] L’ossigeno avrebbe modificato la chimica dell’ambiente. Sarebbe aumentata l’ossidazione dell’azoto atmosferico trasformato in nitrato, così pure l’erosione di molte rocce, in particolare sulle superfici terrestri: ciò avrebbe reso disponibili sostanze nutritive precedentemente scarse, consentendo così un aumento della presenza di organismi viventi.93
Se viviamo ora in un’atmosfera dominata dall’ossigeno, non è in ragione di un anello di retroazione preordinato. È perché gli organismi che hanno trasformato questo veleno mortale in formidabile acceleratore del loro metabolismo si sono moltiplicati. L’ossigeno non è qui semplicemente una componente dell’ambiente ma la conseguenza prolungata di un evento prolungato fino a oggi dalla proliferazione degli organismi. Allo stesso modo, è soltanto a partire dall’invenzione della fotosintesi che il Sole è giunto a ricoprire un suo ruolo nello sviluppo della vita. I due fenomeni sono la conseguenza di eventi storici che non dureranno più delle creature che li subiscono. E, come mostra la citazione, ogni evento apre, per altre creature, “nuove opportunità”.
Il punto cruciale è che la scala non interviene nel passaggio da un livello locale a un punto di vista superiore. Se l’ossigeno non si fosse diffuso, sarebbe rimasto un pericoloso inquinante nelle vicinanze degli archeobatteri. La scala è stata qui generata dal successo delle forme viventi. Se c’è un clima per la vita, non è perché esiste una res extensa all’interno della quale tutte le creature risiedono passivamente. Il clima è il risultato storico di connessioni reciproche, che interferiscono le une con le altre, fra tutte le creature in fase di sviluppo. Si diffonde, diminuisce o muore con esse94. Nella concezione classica la “natura” aveva livelli, strati, e si poteva passare di livello in livello secondo un processo continuo ben ordinato95 di “zoom”. Gaia sovverte i livelli. Non c’è nulla di inerte, nulla di benevolente, nulla di esterno a lei. Se il clima e la vita sono evoluti insieme, lo spazio non è una cornice, né tantomeno un contesto: lo spazio è la progenie del tempo. Esattamente l’inverso di quello che Galileo aveva cominciato a dispiegare: estendere lo spazio a ogni cosa per posizionarvi ciascun attore all’interno, partes extra partes. Per Lovelock un tale spazio non ha più alcuna specie di significazione: lo spazio in cui abitiamo, quello della zona critica, è lo stesso in cui cospiriamo; si estende fino a noi; noi duriamo fin tanto che queste entità ci fanno respirare.
È in questo senso che Gaia non è un organismo e che non le si può applicare un modello tecnico o religioso. Ella ha forse un ordine, ma non una gerarchia; non è ordinata per livelli, ma non è neppure disordinata. Tutti gli effetti di scala sono il risultato dell’espansione di un agente particolarmente opportunista che coglie sul campo le occasioni per svilupparsi: è questo a rendere totalmente profana la Gaia di Lovelock. Se è un’opera lirica, dipende da una improvvisazione costante che non ha partizione né epilogo e che non è mai eseguita due volte sulla stessa scena. Se non c’è alcuna cornice, né scopo, né direzione, dobbiamo considerare Gaia come il nome del processo attraverso cui occasioni variabili e contingenti hanno avuto l’opportunità di rendere gli eventi successivi più probabili. In questo senso, Gaia non è una creatura del caso più di quanto non lo sia della necessità. Ciò significa che somiglia molto a quel che abbiamo finito col considerare come la storia stessa.
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Abbiamo finalmente abbozzato il volto di Gaia? No, certo che no. Spero almeno di avere detto abbastanza per convincervi che ricercare il posto dell’“Uomo nella Natura” – per ricorrere a una espressione desueta – non equivale al compito di partecipare alla geostoria del pianeta. Portando in primo piano tutto ciò che prima rimaneva confinato sullo sfondo, non stiamo sperando di vivere infine “in armonia con la natura”. Non c’è armonia in questa cascata contingente di eventi imprevisti e non c’è alcuna “natura” – almeno non in questo regno sublunare che è il nostro. Di conseguenza, apprendere come situare l’azione umana in questa geostoria non equivale più a “naturalizzare” gli umani. Nessuna unità, nessuna universalità, nessuna indiscutibilità, nessuna indefettibilità può essere invocata per semplificare questa geostoria in cui gli umani si trovano immersi.
Il dramma è che l’intrusione di Gaia sta avendo luogo in un momento in cui la figura dell’umano non è mai apparsa così inadatta a tenerne conto. Mentre bisognerebbe avere tante definizioni dell’umanità quanti sono i modi di appartenere al mondo, questo è proprio il momento in cui siamo alfine riusciti a universalizzare su tutta la superficie della Terra lo stesso umanoide economizzatore e calcolatore. Sotto il nome di globalizzazione o mondializzazione, la cultura di questo strano OGM – il cui nome latino è homo œconomicus – si è diffusa dappertutto… E proprio nel momento in cui abbiamo un disperato bisogno di altre forme di omodiversità! Che sfortuna, davvero: dobbiamo affrontare il mondo con un umano ridotto a un numero limitato di competenze intellettuali, dotato di un cervello capace di fare semplici calcoli di capitalizzazione e consumo, a cui attribuiamo un numero limitato di desideri e che siamo riusciti a convincere alfine a credersi sul serio un individuo, nel senso atomico del termine. Nel momento stesso in cui dovremmo rifare la politica, non abbiamo più a nostra disposizione altro se non le risorse patetiche del “management” e della “governance”. Mai una definizione più provinciale dell’umanità è stata trasformata in uno standard universale di comportamento96. Nel momento stesso in cui dovremmo allentare la morsa della prima Natura, la seconda Natura dell’Economia sta imponendo la sua gabbia di ferro, più rigorosa che mai.
È probabilmente da questo scollamento fra le antiche definizioni dell’umanità e ciò a cui gli umani devono far fronte che proviene l’impressione sconcertante che la storia, o piuttosto la storicità, abbia cambiato schieramento. Fin tanto che il modernismo ha mantenuto la sua presa, gli “umani” erano felici di vivere divisi fra, da un lato, il “regno della necessità” – la concatenazione di cause e conseguenze – e, dall’altro, il “regno della libertà” – le creazioni del diritto, della moralità, della libertà e dell’arte. Stavano scambiando la necessità vincolante della Natura per la proliferazione delle culture. “Mono-naturalismo” da un lato, “multi-culturalismo” dall’altro97. Ora, l’evento geostorico che sto cercando di definire ha ribaltato questa divisione da cima a fondo. Il potere di invenzione e sorpresa si è spostato dagli umani ai non umani, come sottolinea la battuta arguta di Frederick Jameson secondo cui: “Ai giorni nostri, sembra più facile immaginare la fine del mondo piuttosto che la fine del capitalismo!98”.
Vi ricordate la quantità di energia investita dalle scienze sociali per combattere i pericoli del riduzionismo biologico e della naturalizzazione? Oggi sembra difficile stabilire se guadagniamo più libertà di movimento volgendoci alla natura o alla cultura. Quel che è certo è che i ghiacciai sembrano ridursi più velocemente, il ghiaccio sciogliersi più rapidamente, le specie scomparire a un ritmo più veloce dei maestosi processi della politica, della coscienza e della sensibilità. Shelley farebbe fatica oggi a cantare:
L’incessante universo delle cose
scorre attraverso la mente, e rotolando muove le sue rapide [onde,
ora scure – ora luccicanti – ora riflettenti l’oscurità –
ora splendori che si prestano, dove da sorgenti segrete
la fonte del pensiero umano porta il suo tributo
di acqua – con un suono suo solo per metà,
come un esile fiume assumerà
nelle foreste selvagge, tra le montagne solitarie,
dove le cascate intorno zampillano eternamente,
dove i boschi e i venti disputano, e un ampio fiume
irrompe incessantemente sulle sue rocce ed è entusiasta.99
“L’incessante universo delle cose”? Non possiamo più farvi affidamento! Abbiamo smesso di credere che le cascate “zampillano eternamente” e che “un ampio fiume irrompe incessantemente sulle sue rocce ed è entusiasta”. Se c’è sempre un chiasmo a nutrire il miscuglio di “melanconia” e “splendore” che accompagna il sentimento del sublime non è perché vediamo poveri umani effimeri agitarsi sulla scena di una natura perpetua, ma perché siamo costretti a vedere umani ostinatamente sordi e impassibilmente assisi, immobili, mentre il passato scenario dei loro antichi intrighi scompare a una velocità spaventosa! Sublime o tragico, lo ignoro, ma una cosa è certa: non è più uno spettacolo che possiamo goderci a una certa distanza. Siamo parte di esso.
Curiosamente, si tratta ora di sapere se gli umani possono ritrovare un senso della storia che è stato loro sottratto da quel che avevano scambiato finora per una mera cornice svuotata di ogni capacità di reazione. La biforcazione della Natura che Whitehead aveva tanto criticato si trova ora capovolta nel modo più inatteso, le “qualità primarie” sono ormai caratterizzate da sensibilità, attività, reazione e incertezza; le “qualità secondarie” da indifferenza, insensibilità e torpore. A tal punto che si potrebbe rovesciare la celebre osservazione di Whitehead: “Cosicché, il processo [della storia umana] è concepito semplicemente come il complesso di vicende della materia nella sua avventura attraverso lo spazio100”.
Potreste lamentare il fatto che questa versione geostorica manifesti una dose eccessiva di antropomorfismo. Lo spero bene! Certamente non nel senso antico per cui “proietterebbe valori umani su un mondo inerte di oggetti muti”, ma, al contrario, nel senso che “conferisce una forma agli umani” o, meglio, che comincia a morfizzare gli umani in una immagine più realistica. Si potevano lamentare i pericoli dell’antropomorfismo solo nell’era in cui gli umani ricoprivano sulla scena un ruolo ben distinto dallo scenario dinanzi al quale si pavoneggiavano. I ruoli di tutti gli antichi personaggi del dramma sono in procinto di essere redistribuiti. A ogni modo, come evitare le trappole dell’antropomorfismo, se è vero che viviamo ormai nell’era dell’Antropocene?
1 A. Koestler, I sonnambuli, cit.
2 Il Museo delle Scienze di Londra, a cui Lovelock ha lasciato in eredità tutte le sue carte, gli ha dedicato un’esposizione dal titolo Unlocking Lovelock: Scientist, Inventor, Maverick.
3 J. Lovelock, D. Hitchcock, Life Detection by Atmospheric Analysis, in “Icarus. International Journal of the Solar System”, vol. VII, n. 2, 1967, pp. 149-159.
4 L’episodio è stato spesso riportato e impreziosito; cfr., per esempio, J. Gribbin, M. Gribbin, James Lovelock, Princeton University Press, Princeton (N. J.) 2009.
5 Cfr. E. Panofsky, Galileo as a Critic of the Arts, M. Nijhoff, L’Aja 1954; tr. it. di R. Micheli e L. Tongiorgi Tomasi, Galileo critico d’arte, Quasar, Roma 1982. Cfr. anche, sulla qualità particolare dei disegni, un articolo di H. Bredekamp, in I. Brückle, O. Hahn (eds.), Galileo’s Sidereus Nuncius, Akademie Verlag, Berlin 2011.
6 Sono i personaggi delegati descritti da G. Deleuze, F. Guattari, Qu’est-ce que la philosophie?, Éditions de Minuit, Paris 1991; tr. it. di A. De Lorenzis, Che cos’è la filosofia?, a cura di C. Arcuri, Einaudi, Torino 1996. Personaggi resi più concreti da F. Aït-Touati, Contes de la Lune, cit.
7 Lo sguardo da nessun luogo è il titolo dell’opera di Thomas Nagel sui cruciali interrogativi etici che emergono a partire dalla riflessione sullo statuto della soggettività e dell’oggettività. Lo “sguardo da nessun luogo” rappresenta appunto la prospettiva oggettiva, il punto di vista impersonale, svincolato dai limiti della soggettività, che possiamo adottare su noi e sul mondo e deve garantire, oltre alla verità oggettiva della conoscenza, la verità del comportamento morale. Cfr. T. Nagel, The View from Nowhere, Oxford University Press, Oxford-New York 1986; tr. it. Lo sguardo da nessun luogo, a cura di S. Veca, Mimesis, Milano-Udine 2018 [N.d.T.].
8 Questa distinzione fra qualità primarie e qualità secondarie, operata per ragioni pratiche da Galileo, acquisirà, nel corso del tempo, un sempre maggiore peso filosofico, fino ad assumere le sembianze di una “biforcazione della natura” fra due mondi incommensurabili. Cfr. A.N. Whitehead, Il concetto di natura, cit.
9 La res extensa non è un dominio del mondo in opposizione alla res cogitans, ma la metà di un concetto unico che organizza, a partire da Descartes, la trasformazione del mondo in “natura”. Questo tema appartiene tanto alla storia della pittura quanto alla storia della scienza e alla filosofia. È quel che si può chiamare l’idealismo della materia.
10 A. Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito, cit.
11 Riportato da Lovelock stesso in J. Lovelock, La rivolta di Gaia, cit., p. 36.
12 L’espressione, riconducibile a Renan e presente anche nell’opera di Camus Il mito di Sisifo, indica un esercizio di distacco, di allontanamento, destinato a insegnarci a vedere le cose con imparzialità e obiettività; una presa di coscienza del proprio essere all’interno del Tutto, come un minuscolo punto di debole durata, ma capace di dilatarsi nel campo immenso dello spazio infinito e di afferrare la totalità della realtà [N.d.T.].
13 La particolarità del cosmo antico – tornerò su questo punto nella conferenza successiva – è di avere l’Inferno al suo centro, come vediamo nella Divina Commedia. Galileo ha inoltre dedicato un testo straordinario alle dimensioni di quell’Inferno: cfr. G. Galilei, Due lezioni all’Accademia fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante [1588], a cura di L. Negri, Chiantore, Torino 1925.
14 La fragilità del sistema è un altro modo per sottolineare la sua storicità. Con l’ipotesi Medea P.D. Ward mostra che nulla protegge Gaia dalla distruzione. Cfr. P.D. Ward, The Medea Hypothesis, Princeton University Press, Princeton (N. J.) 2009. Si tratta dello stesso tema dell’articolo di J. Lovelock, M. Whitfield, Life Span of the Biosphere, in “Nature”, vol. CCXCVI, 1982, pp. 561-563.
15 I. Stengers, L’invention des sciences modernes, cit., p. 98. È nel dispositivo del piano inclinato che si inverte il rapporto fra passato e futuro: d’ora innanzi, il tempo galileiano discenderà dalla causa passata alle sue conseguenze.
16 Vedi la conferenza precedente, a p. 90.
17 S. Freud, Eine Schwierigkeit der Psychoanalyse [1916], in Gessammelte Werke, bd. XII, S. Fischer, Frankfurt am Main 1986; tr. it. Una difficoltà della psicoanalisi [1916], in Opere, vol. VIII, a cura di C.L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1976, pp. 653-664.
18 S. Shapin, The Scientific Revolution, University of Chicago Press, Chicago 1996; tr. it. di M. Visentin, La rivoluzione scientifica, Einaudi, Torino 1998.
19 B. Brecht, Vita di Galileo, cit., atto I, scena I, pp. 18-19.
20 Mi riferisco a due film per il grande pubblico le cui mitologie condividono le preoccupazioni dei planetologi: Gravity di A. Cuarón, 2013, e Avatar di J. Cameron, 2009.
21 W. Golding, Lord of the Flies, Perigee Books, New York 1954; tr. it. di F. Donini, Il signore delle mosche, Aldo Martello, Firenze 1958.
22 Episodio sovente riportato da J. Lovelock nella sua autobiografia e in numerose interviste. Cfr. J. Lovelock, Homage to Gaia, Oxford University Press, Oxford-New York 2000; tr. it. di I.C. Blum, Omaggio a Gaia, Bollati Boringhieri, Torino 2002.
23 M. Detienne, Apollon le couteau à la main, Gallimard, Paris 1998; tr. it. di F. Tissoni, Apollo con il coltello in mano, Adelphi, Milano 2002, p. 216.
24 Esiodo, Teogonia, tr. it. di G. Arrighetti, Rizzoli, Milano 1984, pp. 70-73.
25 È con questo modo di ricostruire pezzo dopo pezzo il campo semantico, i rituali, le testimonianze archeologiche dei personaggi divini e dei concetti, senza interessarsi alla loro sostanza ideale, che i grandi esegeti della scuola francese hanno potuto strappare l’antropologia della Grecia antica allo sterile accademismo. Ciò che vale per l’antica Gaia della mitologia vale ancora di più per la Gaia scientifica.
26 B. Taylor, Dark Green Religion, University of California Press, Berkeley 2010; J. Galinier, A. Molinié, Les néo-indiens, Odile Jacob, Paris 2006.
27 Cfr. Prefazione in Esiodo, Teogonia, a cura di J.-P. Vernant, Rivages, Paris 1981.
28 M. Detienne, Apollo con il coltello in mano, cit., p. 211.
29 Ivi, p. 216.
30 Ivi, p. 217.
31 Ivi, pp. 218-219.
32 Per una presentazione in inglese di Lovelock cfr. Doomsday Pending?, puntata di The Hour, Canadian Television, youtube.com/watch?v=sRQ-NqaYFzs.
33 Nella conferenza VI tornerò su questa data del 1610. Sulla ricezione di questo testo cfr. M. Biagioli, Galileo Courtier, University of Chicago Press, Chicago 1993.
34 Il groviglio di politica, religione, diplomazia e competizione accademica è studiato approfonditamente in relazione alla scienza nascente dell’economia in M. Biagioli, Galileo’s Instruments of Credit, University of Chicago Press, Chicago 2006.
35 È il significato che ha dato al termine E. Husserl in Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie [1936], bd. VI, hrsg von W. Biemel, M. Nijhoff, L’Aia 1954; tr. it. di E. Filippini, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, a cura di W. Biemel, il Saggiatore, Milano 1972.
36 Un ottimo recupero recente di questa storia è presente in D. Debaise, L’appât des possibles, cit.
37 Cfr. A.N. Whitehead, Il concetto di natura, cit., e gli indispensabili commentari di I. Stengers, Penser avec Whitehead, Éditions du Seuil, Paris 2002.
38 Riprenderò la questione del “sistema Terra” nelle sue due accezioni opposte – connessione o totalità – alla fine della conferenza successiva.
39 M. Serres, Hermès III. La traduction, cit., p. 259.
40 G. Galilei, Dialogo sui massimi sistemi [1632], a cura di F. Brunetti, Laterza, Roma-Bari 1963.
41 Sfortunatamente, come vedremo nella conferenza VI, il “secolare” è come una birra analcolica, è il religioso senza la religione. Ora, Gaia va oltre. “Mondano” sarebbe un bel termine, ma se l’inglese ha mantenuto “mundane”, a fianco di “earthly”, noi associamo piuttosto “mondano” a “mondanità”.
42 Come mi ha fatto notare Oliver Morton (comunicazione personale del 21 giugno 2015), è quel che collega Lovelock alla tradizione di A.G. Tansley, The Use and Abuse of Vegetational Concepts and Terms, in “Ecology”, vol. XVI, n. 3, 1935, pp. 284-307. Per l’ideatore della nozione di “ecosistema”, allo stesso modo, la sequela sistematica delle connessioni non implica alcun olismo.
43 J. Lovelock, Gaïa. Une médecine pour la planète, Sang de la terre, Paris 2001 [tit. or. Gaia: The Practical Science of Planetary Medecine, Gaia Books, London 1991]; tr. it. di S. Peressini, Gaia: manuale di medicina planetaria, Zanichelli, Bologna 1992.
44 Ivi, l’ultimo capitolo dal titolo Gli esseri umani: una calamità per Gaia.
45 B. Latour, Les microbes, A.M. Métailié, Paris 1984; tr. it. di A. Notarianni, I microbi, Editori Riuniti, Roma 1991. Cfr. anche la superba biografia di Pasteur che moltiplica le connessioni con la crisi ecologica: R. Dubos, Louis Pasteur, Little, Brown & Co., Boston 1950. Dubos è anche l’autore di uno dei primi libri, destinati al grande pubblico, sulla Terra come mondo comune e unitario: B. Ward, R. Dubos, Only One Earth, Norton & Co., New York 1972; tr. it. di G. Barnabé Bosisio, E. Capriolo, Una sola Terra, Mondadori, Milano 1972.
46 È il sottotitolo della traduzione francese di Gaïa. Une médecine pour la planète: Géophysiologie, nouvelle science de la terre.
47 G. Geison, J.A. Secord, Pasteur and the Process of Discovery, in “Isis”, vol. LXXIX, n. 1, 1988, pp. 6-36.
48 B. Bensaude-Vincent, I. Stengers, Histoire de la chimie, La Découverte, Paris 1993, e, sul caso specifico, cfr. B. Latour, Les objets ont-ils une histoire?, in I. Stengers (éd.), L’effet Whitehead, Vrin, Paris 1994, pp. 197-217.
49 L. Pasteur, Mémoire sur la fermentation appelée lactique, in Œuvres complètes, t. II, Masson et Cie éditeurs, Paris 1922, pp. 3-13; tr. it. Memoria sulla fermentazione chiamata lattica, in Opere, a cura di O. Verona, UTET, Torino 1972, pp. 167-168, corsivo mio.
50 Ho tentato di stilare, sulla base del testo inglese di questo stesso articolo, un inventario semiotico il più possibile esaustivo. Il testo è accessibile su bruno-latour.fr/node/257.
51 B. Latour, Pasteur et Pouchet, in M. Serres (éd.), Éléments d’histoire des sciences, Bordas, Paris 1989, pp. 423-445.
52 S. Van Damme, Descartes, Presses de Sciences Po, Paris 2002.
53 La sfumatura fra i due termini è stata introdotta alla fine della conferenza I, a p. 57, per dare un’apertura alle domande che la nozione di “natura” non può che chiudere.
54 Il collegamento con il tema del katekon, ciò che ritarda la catastrofe nell’immaginario apocalittico, non è dopotutto incongruo. Vi torneremo nella conferenza VII.
55 J. Lovelock, Gaia: manuale di medicina planetaria, cit., pp. 108-111, corsivo mio.
56 Ivi, p. 128, corsivo mio.
57 Ivi, p. 119, corsivo mio.
58 L. Margulis, D. Sagan, Microcosmos, Allen & Unwin, Sydney 1987, tr. it. di L. Maldacea, Microcosmo, Mondadori, Milano 1989; cfr. anche il capitolo Gaia in L. Margulis, Symbiotic Planet, Basic Books, New York 1998.
59 R.J. Charlson, J.E. Lovelock, M.O. Andreate, S.G. Warren, Oceanic Phytoplankton, Atmospheric Sulphur, Cloud Albedo and Climate, in “Nature”, vol. CCCXVI, 16 aprile 1987, pp. 655-661. Una breve presentazione aggiornata di molte intuizioni di Lovelock è presente in T. Lenton, Earth System Science, Oxford University Press, Oxford-New York 2016.
60 Introdotti nella conferenza precedente, a p. 112, i due termini consentono di porre l’attenzione sull’agency attribuita ai personaggi di una narrazione.
61 S.L. Brantley, M.B. Goldhaber, K. Vala Ragnarsdottir, Crossing Disciplines and Scales to Understand the Critical Zone, cit.
62 J. Lovelock, Gaia, cit., p. 56, corsivo mio.
63 Ivi, p. 57, corsivo mio.
64 Insieme a molti autori, in particolare D. Gamboni, ho esplorato questa continua intersezione in B. Latour, P. Weibel (eds.), Making Things Public, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2005, pp. 162-195. Questo scambio di erronee procedure non ha mai smesso di stupirmi, a partire dal lavoro con S. Strum, Human Social Origins, in “Journal of Social and Biological Structures”, n. 9, 1986, pp. 169-187.
65 Il rifiuto di concettualizzare l’organizzazione su due livelli è il punto cruciale della teoria dell’attore-rete, sempre di così difficile comprensione per le scienze sociali, ma anche per le scienze biologiche che prendono in prestito dalla teoria politica gli stessi schemi della sociologia. Cfr. B. Latour, Reassembling the Social, Oxford University Press, New York 2005, e il saggio più tecnico in B. Latour, P. Jensen, T. Venturini, S. Grauwin, D. Boullier, Le tout est toujours plus petit que ses parties, in “Réseaux”, vol. XXXI, n. 1, 2013, pp. 199-233.
66 È il punto fondamentale e sempre frainteso sviluppato da R. Ruyer, Néo-finalisme, PUF, Paris 1952; tr. it. Neofinalismo, a cura di V. Cavedagna, U. Ugazio, G. Vissio, Mimesis, Milano-Udine 2017. Cosa assai interessante: considerato nel suo progetto e non nel suo risultato, un sistema tecnico non può più essere spiegato da una metafora tecnicista! Sull’intera questione del limite delle metafore tecniche per spiegare la tecnica cfr. B. Latour, Aramis ou l’amour des techniques, La Découverte, Paris 1992.
67 Sull’impossibilità di utilizzare le nozioni di parti e di tutto per le cellule cfr. J.-J. Kupiec, P. Sonigo, Ni Dieu ni gène, Éditions du Seuil, Paris 2000 (ripreso, in forma più accessibile, in P. Sonigo, I. Stengers, L’évolution, EDP Sciences, Les Ulis 2003); sulle società di scimmie cfr. S.S. Strum, Darwin’s Monkey, in “Yearbook of Physical Anthropology”, vol. CXLIX, n. 55, 2012, pp. 3-23; sulle formiche cfr. D.M. Gordon, Ants at Work, Free Press, New York 1999.
68 J. Lovelock, La rivolta di Gaia, cit., p. 36. La metafora tecnica dell’“astronave” è tanto più goffa in quanto ci si è resi conto, in occasione di catastrofi, fino a che punto l’unità del sistema tecnico non corrisponda alla pratica. Cfr., per esempio, D. Vaughan, The Challenger Launch Decision, University of Chicago Press, Chicago 1996.
69 Punto che vale la pena sottolineare in un’epoca in cui i sogni della geoingegneria pretendono di riportarla sul binario giusto. Cfr. C. Hamilton, Earthmasters, cit.
70 Allusione al film di Ron Howard, Apollo 13, 1995.
71 Coloro che accusano Lovelock di pensare la Terra come un Tutto unitario omettono di dire che adottano, anche loro, un unificatore straordinariamente potente, poiché hanno affidato alle leggi della natura – in pratica alle equazioni – il compito di farsi obbedire ovunque, in ogni punto. Il problema è fare a meno del tutto del tema dell’obbedienza.
72 “There is only one Gaia, but Gaia is not One”: cfr. P. Conway, Back down to Earth, in “Global Discourse”, 2015, pp. 43-71.
73 Il problema dipende a sua volta da un’altra ipotesi più fondamentale, quella filosofica, sulla penetrabilità delle entità, ipotesi avanzata da Whitehead, ma che conferisce interesse anche alla nozione della monade rinnovata da G. Tarde, Monadologie et sociologie [1893], Institut Synthélabo pour le progrès de la connaissance, Le Plessis-Robinson 1999; tr. it. Monadologia e sociologia, a cura di F. Domenicali, ombre corte, Verona 2013.
74 “Interesse” è qui inteso nel senso etimologico di ciò che si situa “fra due” entità. Senza dimenticare che l’intenzionalità, la volontà, il desiderio, il bisogno, la funzione, la forza sono solo figurazioni differenti che si collocano lungo un gradiente, esprimendo una stessa agency – come ho già mostrato nella conferenza II.
75 Il termine “semiotica” è utilizzato, per esempio, per descrivere i sistemi viventi dal naturalista J. Von Uexküll, Streifzüge durch die Umwelten von Tieren und Menschen, Julius Spinger, Berlin 1934; tr. it. Ambienti animali e ambienti umani, a cura di M. Mazzeo, Quodlibet, Macerata 2010. Per lui, come per Lovelock, non si tratta di aggiungere significato a qualcosa che sarebbe “strettamente materiale”, ma di non sottrarre significato all’intreccio di interesse reciproco degli organismi viventi gli uni per gli altri, al fine, appunto, di renderli comprensibili. È il metodo stesso di V. Despret, Penser comme un rat, Éditions Quae, Versailles 2009. Cfr. anche Id., Que diraient les animaux si on leur posait les bonnes questions?, La Découverte, Paris 2014; tr. it. di M. Correggia, Che cosa rispondono gli animali se facciamo le domande giuste?, Sonda, Casale Monferrato 2018.
76 Haraway ha ben riassunto la soluzione di Margulis: “La ricchezza inesauribile delle nuove conoscenze in biologia” non può più essere assorbita “dall’idea di individui limitati [bounded] a cui si aggiungerebbe un contesto, in altre parole l’idea di un-organismo-più-un-ambiente”. Bisogna piuttosto pensare, dice, “a interazioni complesse e non lineari fra processi che compongono e sostengono sottosistemi imbricati ma che non si sommano gli uni agli altri formando un tutto parzialmente coerente” (D.J. Haraway, Staying with the Trouble, cit.).
77 Ecco la splendida espressione di John Dewey: “Non c’è alcun mistero sul fatto dell’associazione” (J. Dewey, The Public and its Problems, Henry Holt & Co., New York 1927; tr. it. di P. Vittorelli, P. Paduano, Comunità e potere, La nuova Italia, Firenze 1971).
78 È esattamente questo punto che consente a René Dubos di collegare la microbiologia di Pasteur all’ecologia, nel suo Louis Pasteur, cit.
79 B. Latour, I microbi, cit.
80 T. Lenton, Gaia and Natural Selection, in “Nature”, vol. CXCIV, 30 luglio 1998, pp. 439-447.
81 Pur non esistendo un vocabolo generico che lo riassuma, il fenomeno è ben riconoscibile nel termine “monade” di Tarde; nel “sorvolo assoluto” di R. Ruyer, Neofinalismo, cit.; nella “creode” di C.H. Waddington, Biological Processes in Living Systems, IV, Aldine Transactions reprint, Edinburgh 2012; ed è stato oggetto di numerose ricerche al fine di affrancarlo dal paradigma consolidato, comune alla sociologia e alla biologia, che non coglie le entità se non come parti di un tutto – partes extra partes. Cfr., per esempio, D.M. Gordon, The Ecology of Collective Behavior, in “PLOS Biology”, vol. XII, n. 3, 2014, pp. 1-4.
82 È l’argomento della “simbiogenesi” in Margulis, che si ritrova anche in S.F. Gilbert, D. Epel, Ecological Developmental Biology, Sinauer Associates, Sunderland (Mass.) 2009; tr. it. Eco-devo. Ambiente e Biologia dello sviluppo, a cura di D. Rubolini, A. Romano, C. Bandi, Piccin, Padova 2018.
83 Ritroveremo la stessa questione del calcolo dell’interesse egoistico nella conferenza VIII, ma stavolta per delimitare la sovranità degli Stati.
84 Che l’evoluzione sia sempre innanzitutto una forma di racconto l’abbiamo appreso da quel cantastorie straordinario che era S.J. Gould, Wonderful Life, Norton & Co., New York 1989; tr. it. di L. Sosio, La vita meravigliosa, Feltrinelli, Milano 1990.
85 L’evoluzione, per così dire, di Edward O. Wilson, che passa dall’idea di superorganismo alla sociobiologia e poi da lì di nuovo al superorganismo, è una buona testimonianza del fallimento totale della nozione di “kin selection” che ha fatto la sua comparsa innanzitutto come principio biologico, prima di realizzare che si trattava soltanto di estendere l’economizzazione al vivente. La biologia non si è mai tirata fuori del tutto dalla Provvidenza; al pari dell’economia, ha sempre bisogno del miracolo della coordinazione. Cfr. B. Hölldobler, E.O. Wilson, The Superorganism, Norton & Co., New York 2008; tr. it. di I.C. Blum, Il superorganismo, Adelphi, Milano 2011.
86 Modello all’inizio assai semplice, ma divenuto poi sempre più complesso, per mostrare che l’omeostasi fra organismi distinti e in competizione era possibile. L’utilità di questa dimostrazione è stata più metaforica che esplicativa, ma Lovelock vi ha attribuito molta importanza. Cfr. S.H. Schneider, J.R. Miller, E. Crist, P.J. Boston (eds.), Scientists Debate Gaia, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2008, nonché la voce “Daisyworld” di Wikipedia per le referenze, inclusi numerosi film.
87 A partire da La favola delle api di B. Mandeville si sono verificati infiniti prestiti, nel tentativo di “naturalizzare” una versione molto particolare dell’economia. Cfr. B. Mandeville, La fable des abeilles [1714], Vrin, Paris 1992, tr. it. di M. Goretti, La favola delle api, Le Monnier, Firenze 1969; K. Polanyi, The Great Transformation, Farrar & Rinehart, New York 1944, tr. it. di R. Vigevani, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.
88 Allusione al titolo del famoso libro di R. Dawkins, The Selfish Gene, Oxford University Press, Oxford 1976; tr. it. di D. Conti, T. Imbastaro, Il gene egoista, Zanichelli, Bologna 1979.
89 Non è il riduzionismo a essere sconcertante nei racconti neodarwiniani, ma l’assenza di riduzionismo e il costante appello all’equilibrio della natura e al benessere degli organismi. Dietro la selezione naturale, la mano benevola del Creatore è riconoscibile in Darwin come nei suoi successori. Cfr. D. Ospovat, The Development of Darwin’s Theory, Cambridge University Press, Cambridge 1995.
90 È il principio di analisi dell’economizzazione dei collettivi perseguita da M. Callon (ed.), The Laws of the Markets, Blackwell, Oxford 1998; D. MacKenzie, Material Markets, Oxford University Press, Oxford-New York 2009; e da numerosi colleghi. Cfr. M. Callon (éd.), Sociologie des agencements marchands, Presses de l’École nationale des mines, Paris 2013; e, per il legame con la teologia, D. Pestre, Néolibéralisme et gouvernement, in D. Pestre (éd.), Le gouvernement des technosciences, La Découverte, Paris 2014.
91 L’implausibilità del calcolo tramite la ripartizione dell’interno e dell’esterno è all’origine della rinascita della nozione di “commons” da parte di E. Ostrom, Governing the Commons, Cambridge University Press, Cambridge 1990.
92 E mostra fino a che punto l’organismo cellulare stesso, lungi dall’essere un atomo indivisibile, sia al contrario il risultato di una vasta composizione di organismi reclutati nel corso di una storia molto lunga, cfr. L. Margulis, D. Sagan, Microcosmi, cit. Senza Margulis è probabile che l’ipotesi Gaia non sarebbe uscita dalla metafora cibernetica.
93 J. Lovelock, Gaia, cit., p. 114, corsivo mio.
94 Nel suo bel capitolo su Tarde, Pierre Montebello dimostra che lo stesso discorso vale per l’estensione e la “riuscita” delle monadi. “[Tarde] concepiva la riuscita di una invenzione come una contaminazione capace di conquistare a poco a poco i confini di un territorio immenso. È quello che è accaduto con la materia, poiché atomi trionfanti sono riusciti a diffondere la loro influenza attrattiva su tutte le nebulose. Hanno modellato questo milieu fisico che si estende nell’infinito dello spazio, spezzato l’equilibrio primitivo delle cose, imposto ovunque la legge dell’attrazione. Lo strato fisico è il risultato di una dominazione politica, della supremazia di un desiderio su tutte le monadi. […] L’immagine del politico supplisce qui il teologico.” (P. Montebello, L’autre métaphysique, Desclée de Brouwer, Paris 2003, p. 152, corsivo mio).
95 L’ordine delle entità secondo la loro dimensione all’interno di una res extensa non corrisponde ad alcuna esperienza reale, sebbene abbia finito col confondersi con l’immagine scientifica del mondo grazie a film come Potenze di dieci (tratto dal libro di P. Morrison, P. Morrison, The Powers of Ten, W.H. Freeman & Co., New York 1982; tr. it. di L. Sosio, Potenze di dieci, Zanichelli, Bologna 1986).
96 Al punto che è l’idea di “commons” a sembrare oggi una bizzarra novità! P. Dardot, C. Laval, Commun, La Découverte, Paris 2014; tr. it. di A. Ciervo, L. Coccoli, F. Zappino, Del comune, DeriveApprodi, Roma 2015. Sulla storia di questa, in effetti, tragica perdita di punti di riferimento, cfr. l’eccellente articolo di F. Locher, Les pâturages de la Guerre froide. Garrett Hardin et la “Tragédie des communs”, in “Revue d’histoire moderne et contemporaine”, vol. LX, n. 1, 2013, pp. 7-36.
97 B. Latour, Le rappel de la modernité, in ethnographiques.org/2004/Latour, n. 6, 2004.
98 La citazione esatta è la seguente: “Someone once said that it is easier to imagine the end of the world than to imagine the end of capitalism. We can now revise that and witness the attempt to imagine capitalism by way of imagining the end of the world” (“Una volta, qualcuno ha detto che è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Possiamo ora riformulare la frase e testimoniare il tentativo di immaginare il capitalismo attraverso l’immaginazione della fine del mondo”). Cfr. F. Jameson, Future City, in “New Left Review”, n. 21, maggio-giugno 2003.
99 P.B. Shelley, Monte Bianco. Versi scritti nella valle di Chamonix [1817], composto nel corso del famoso soggiorno in cui Mary Shelley scrisse Frankenstein. È un piacere constatare che, se l’assai celebre coppia è stata tanto prolifica nel corso del soggiorno, è anche perché l’eruzione del vulcano del monte Tambora aveva guastato le loro vacanze del 1816.
100 La frase originaria è: “So that the course of nature is conceived as being merely the fortunes of matter in its adventures through space” (“Cosicché il processo della natura è concepito semplicemente come il complesso di vicende della materia nella sua avventura attraverso lo spazio”). Cfr. A.N. Whitehead, Il concetto di natura, cit., p. 33. È fra materia e materialità, lo ricordiamo, che bisogna operare una scelta.