12.
Fin dall’inizio Antonella ha registrato «in diretta» quanto sgorgava dal silenzio, raccogliendolo in piccoli quaderni che ha conservato. Alcuni li ha ritrascritti; è un lavoro che può fare solo lei. Ha pubblicato alcuni libri, e molti altri sono ancora lí, in attesa di emergere da quelle pagine.
– Avrei avuto bisogno di ascolto, d’incoraggiamento. Non è stato facile andare avanti, ma alla fine ho capito che io stessa dovevo appropriarmi di quel contenuto prima di poterlo comunicare.
– Posso vedere i quaderni?
– Certo, seguimi.
Dalla cucina ci spostiamo. Il corridoio è inondato di luce. Ci accomodiamo sul divano, di fronte alla finestra. L’armadietto verniciato di bianco è lí accanto, alto non piú di un metro e mezzo e largo meno di uno, chiuso da piccole ante.
Dentro riposano le parole raccolte in piú di trent’anni di solitudine. Mi avvicino con cautela. È lei ad aprirlo. Pressati l’uno accanto all’altro, compaiono un centinaio di quaderni. Alcuni hanno copertine di cartone rigido, altri flessibile. Variano anche la misura e i colori: rosso, blu, verde, nero. Ognuno rappresenta una tappa della sua vita.
Antonella li estrae con cura, ben consapevole di quale pezzo di passato, di volta in volta, stia ripescando. Sono raggruppati in pile legate con un nastro.
Ne prende alcune: – Questi sono quelli scritti durante il viaggio nel deserto, – mi dice sicura. – Questi altri, invece, sono piú recenti. Contengono meditazioni ancora da rivedere. Questi raccolgono le parole che ho sentito da mia madre dopo la sua morte...
Sfoglio le pagine, alcune sono ingiallite. L’inchiostro è vergato con impeto sulla carta. A volte cambia colore. Solo la grafia non cambia. È sempre la medesima: fitta, decisa.
Questa specie di viaggio a ritroso sulle tracce del silenzio mi fa intuire che devo scavare piú a fondo nella storia di cui, pezzo dopo pezzo, sto cercando di ritessere la trama.
Antonella e io ci siamo incontrati ormai varie volte, ho raccolto molti suoi racconti, nella cucina. Ogni tanto siamo entrati in pustinia per intensi momenti di silenzio. Ho vissuto i miei tempi di deserto, e di ciascuno ho un ricordo preciso: ne sono sempre uscito con una nuova serenità, spesso con qualche intuizione. Cose semplici, ma profonde, utili per la mia vita.
Non sono però ancora riuscito a farmi un’idea di cosa viva lei quando si immerge nel silenzio. Lo so, di certe esperienze nulla si può dire. A volte, mentre parla, non riesco a seguirla fino in fondo. C’è sempre la fatica di dover passare a un altro registro. Quando cerca di comunicare qualcosa, dà per scontato un codice che a volte un po’ sconcerta, non è subito chiaro.
Cerco di farle presente questa difficoltà. Mi risponde: – È un po’ come apprendere una lingua. All’inizio ci risulta estranea, poi piano piano ne acquisiamo i vocaboli, la sintassi, familiarizziamo con essa. L’importante è immergersi, lasciarsi attraversare, non chiudersi.
L’esempio è calzante. Bisogna cedere, abbandonarsi, ma spesso la mente costituisce un ostacolo. Le chiedo di provare a raccontare.
– Su questi quaderni è registrata la memoria del tuo viaggio solitario. Potresti cercare di descrivere in breve cosa vivi nel silenzio, spiegare in sintesi quali sono le tappe, quali gli ostacoli che incontri?
– Vedi, la mia esperienza non si basa su una tecnica. Non sapevo niente della meditazione e di cose di questo genere. Ho già parlato di come ho scoperto il silenzio e di come si sia insinuato con forza nella mia vita, divenendo il centro intorno a cui tutto ha preso a ruotare. Non sapevo niente dello stato in cui mi immergevo. Solo col tempo ho capito che quel lasciarmi avvolgere dal silenzio era una preghiera di abbandono. Stavo lí, dove effettivamente ero, in contatto con la mia verità profonda, che sentivo anche se sfuggiva alla mia comprensione. Stavo lí, nel qui e ora. Da allora è sempre stato cosí. Quando mi siedo, non faccio altro che stare lí. Il primo punto, la chiave di tutto, è stare lí. L’unica volontà necessaria è decidere di stare lí. Non come forzatura, ma come bisogno urgente. Stare lí è accettare di ascoltare lo struggimento interiore che non ascoltiamo mai. È seguire l’anelito piú intimo dell’anima, vivo, pulsante, che chiama, anzi che grida perché non accolto.
– Io ho sempre pensato che per la meditazione la posizione fosse importante. Riuscire a stare in un certo modo può aiutare a concentrarsi, non credi?
– Sí, ma per me non è un fatto di posizione, bensí di disponibilità a un atto di amore verso sé stessi. Spesso la prima cosa che sento in chi viene qui è un grido soffocato. A volte è un pianto. C’è un pianto rappreso che subito affiora. Il pianto di un neonato nudo, disarmato. Puro, vero. Solo ciò che è vero rifulge della piú tersa bellezza, come gli occhi persi di un vecchio che brillano di luce invisibile, o come lo sguardo immobile di un moribondo, già assorto in un altrove. La bellezza lí si accende di tutta la sua luce, l’essere profondo inaspettatamente compare.
Queste parole mi toccano, non me le aspettavo. Ho un moto di commozione, forse anch’io, d’improvviso, sento il mio pianto interiore. Le lancio uno sguardo smarrito e lei lo ricambia come se avesse compreso. Continua.
– Stare lí è l’imperativo categorico di chi ha imparato ad ascoltare quel grido. Non come atto imposto dalla volontà, ma come cedimento verso il divino amore che si risveglia nell’umanità proprio quando il grido si fa percepire. Il grido, come una freccia, fende tutti gli strati di detriti accumulati dal tempo e apre un sottile canale attraverso cui l’ordine divino irrompe e la volontà che lo governa fa presa. Imprimendosi con suggello indelebile, divenendo attiva dentro la nostra volontà che invece recalcitra, trova tutte le scuse per svicolare. Quel suggello contiene in sé la vitalità di una forza soprannaturale che senza alcuno sforzo tiene lí, dolcemente, con tutta la tenerezza dell’amore gratuito che niente chiede.
Sono parole forti. Sorgono da un fondale misterioso per rivelarsi, ma c’è un punto che non mi è chiaro. La interrompo: – Non capisco. La volontà vuole o non vuole?
– Lo stare lí tiene per forza propria. Come un perno, un cardine che argina la nostra volontà, la quale alla fine accetta e si quieta. Cede a sé stessa. Lo stare lí permette di sentire quanto di noi non vogliamo ascoltare: le sofferenze, i desideri profondi, i sensi di colpa, le paure. Permette di conoscere tutto ciò che passa, in diretta, senza piú veli. Consapevolmente. È come guardare il film di noi stessi, quello vero però, senza maschere. Non siamo piú identificati con quello che ci circonda, assorbiti nelle mille cose, ma vigili, attenti. Scorrono fiumane di pensieri, si accavallano nella mente. Fluiscono le emozioni. Lasciamole andare. Sgorgano dal profondo in cui sono annidate. Le guardiamo con tenerezza, senza giudizio, sentendone l’impatto. Non siamo piú identificati con esse, posseduti, ma distaccati. Piú stiamo lí, vigili, piú diveniamo come un occhio esterno in grado di vedere quello che passa. Insieme siamo in grado di sentirlo, soffrirlo, gioirlo mentre affiora. Se è dentro di noi, è bene che venga fuori per farsi conoscere. Ciò di cui prendiamo consapevolezza possiamo riattraversarlo anche se è accaduto in un tempo lontano. Un dolore rifiutato, rimasto inabissato, diviene un peso che oscura ogni interiore vitalità.
Mentre parla, il sole inonda il divano dove siamo seduti, le ore scorrono e il giorno arriva al suo culmine. Tante domande si affollano nella mia testa, ma non la interrompo.
– La radice della vita divina è nel profondo. È la scintilla che un sottilissimo filo sempre mantiene unita all’origine. Come nella realtà fisica il cordone ombelicale viene reciso appena nasciamo per essere ritessuto a un altro livello di relazione che, seppure diversa, non è inferiore per intensità, cosí è per la realtà spirituale. Ciò che ci fa dire io, non ci separa dalla matrice profonda che è Dio, la vita divina in noi. Proveniamo dalla sostanza divina e di questa viviamo. Centrarsi nel qui e ora significa partecipare dell’eterno presente, della vita divina a cui apparteniamo. Aderire a quello che è, senza piú veli. Quando anche l’ultimo strato che divide è consumato, avviene l’immersione. Il diaframma scompare. L’attimo che dissolve l’identificazione con l’io, non elimina la distinzione. L’universale non elimina il particolare. Tutto partecipa del perfetto equilibrio che governa la misura e fa sí che la bellezza sia. È l’amore. Nell’umanità di Gesú il Dio unico diviene trino, il piccolo io diviene Io Sono. Coscienza consapevole di un’infinita relazione di amore.
Mi sembra di essere dentro un vortice. Le parole mi trascinano, appena intuisco qualcosa il fondo si apre di nuovo mostrandomi che altro ancora ho da ascoltare, da capire. Non posso piú frenarmi, le chiedo: – Torniamo allo stare lí. Poi cosa accade? Qual è la tappa successiva?
– Lo smascheramento spazza via l’ingombro piú superficiale che impedisce il contatto con la nuda verità. Stare lí prepara la discesa, o la salita, che è lo stesso. Si comincia a percepire la distanza. C’è un territorio che separa da quel luogo intimo che si è fatto sentire. Come la notte che separa dalla luce del sole. Ma piú si percepisce la distanza, piú lo struggimento per quella luce diviene vivo facendosi spazio nel cuore tanto da smorzare ogni altro desiderio. Questo dà la fermezza di stato. Permette di stare lí immobili senza nessuna forzatura della volontà che, presa da una forza superiore che la tiene buona, diviene mansueta come un cagnolino addomesticato. Stare lí tiene ferma la luce nella notte dell’anima. Tiene fermo il luogo vivido del cuore. Si mette in moto un immenso lavoro che richiede assoluta immobilità. Non è un fatto di posizione, né di volontà che si impone, bensí di cedimento interiore. Piú quel luogo intimo si fa sentire come sostanza tersa e viva, piú quella sostanza tracima, sale su, come l’alta marea che pian piano inonda tutto. È lo Spirito Santo, la sostanza creatrice da cui si formano i mondi visibili e invisibili e che pervade ogni corpo creato, ne è il succo profondo, la scintilla originaria.
Mi viene subito in mente la parabola della vite e dei tralci. Le immagini evocate prendono corpo, assumono il sapore di una realtà vissuta che comincia a risuonare in me, a portarmi dentro quell’esperienza, a rendermi partecipe. Antonella continua.
– Si mette in moto una corrente che si fa percepire. La piccola luce sul fondo si tende verso l’alto, anela. La grande luce emanante allora discende per raggiungerla. Tutta la distanza che separa si fa sentire come una massa oscura indistinta, ma lentamente prende forma mostrando, pezzo dopo pezzo, quello che nasconde. Emergono ferite, ricordi, dolori nel corpo, pesantezze. La luce tutto intorno lambisce quei pesi, scava come acqua che, scorrendo, s’imbatte in pietre e macigni che non possono frenarne il corso, anche se lo rallentano. Stare lí è accettare di farsi assorbire nell’opera creatrice. Il peso resta e opprime. Nel cuore e nella testa si avverte un macigno. Sentirne l’impatto fa bene, fa capire quello che c’è, lo fa rivivere mentre la luce lo consuma. Entrare nel silenzio porta lí, diciamo, dove il dente duole. Il dolore diviene possibile perché sostenuto dalla luce come se le appartenesse e fosse con essa un corpo solo. Bisogna lasciarsi scavare, sciogliere. A un certo punto non si sente piú nulla, decade ogni pensiero, la memoria si oblia. Scompare ogni distanza, quel luogo anelato diviene un nulla di pienezza che assimila completamente in sé facendo scomparire a sé stessi.
Ascoltandola mi sento attraversato, toccato da un sorta di inquietudine. La interrompo. – Ti dico la verità, quanto dici mi provoca un certo turbamento, un timore. Avverto come un pericolo. E se questo scomparire a sé stessi provocasse un qualche dissesto? Può accadere che si tocchi un limite irreversibile che mina l’equilibrio psicofisico?
– Posso solo parlare della mia esperienza. In realtà è il contrario. La riemersione da lí rivela proprio quanto non si può dire. Levità, pace, beatitudine fanno comprendere che è accaduto qualcosa di psicofisico, che c’è stata un’esperienza viva, concreta. Non c’è piú peso, ma infinita leggerezza. Anche lo struggimento è placato, scomparso. Sono attimi che portano rigenerazione. La bellezza creata compare piú che mai accesa e tersa nell’occhio che la vede cosí meravigliosa. Si avverte una forza nuova nel corpo, una maggiore vitalità che subito spinge ad amare di un amore che non si può contenere. Va da sé, porta, conduce. Finché nuovamente si esaurisce e allora tutto ritorna faticoso, pesante, quasi le forze venissero meno. C’è di nuovo da attingere, da rientrare dentro, da tornare a casa dov’è rigenerazione, ristoro. Sí, il silenzio è un tornare a casa, al luogo dell’origine dove tutto resta e aspetta.