Andando in cerca di luoghi del silenzio, Antonella giunse a Cerbaiolo. Un’amica le aveva parlato di un eremo arroccato in cima a una montagna dove dal 1975, con un gregge di capre, viveva Chiara, una suora laica oggi scomparsa.

Anche Chiara, fin dalla giovinezza, aveva sentito un richiamo al silenzio. Aveva pensato subito alla clausura, ma troppi segni contrari l’avevano dissuasa e capí presto di doversi arrendere. Continuò a restare consacrata nel mondo, ma non smise di sentirsi inquieta. Desiderava trovare una «casaccia» dove poter vivere l’amore di Dio in piena sintonia con tutte le creature.

«Vorrei vivere in un luogo solitario ma non chiuso, senza altra regola che quella di amare il Signore in tutte le cose», cosí, all’età di quindici anni, aveva scritto su un foglietto al sacerdote che le chiese di descrivere il senso della sua vocazione. Quando poi, a metà degli anni Sessanta, scoprí Cerbaiolo, riconobbe il luogo sempre cercato. Antico monastero benedettino dell’VIII secolo situato su un’alta rupe davanti alla Verna, era poi passato ai francescani, finché nel Settecento era divenuto sede parrocchiale. Durante l’ultima guerra era stato bombardato dai tedeschi in ritirata. Quando Chiara lo vide era solo un ammasso di macerie, ma lei non si scoraggiò. Nessun ostacolo poté dissuaderla e con tenacia, mettendo in moto diocesi e sovraintendenze, in circa dieci anni riuscí a farne terminare la ricostruzione. All’inizio si era sistemata in una stanza alla meno peggio, poi, ultimati i lavori, vi si trasferí definitivamente fino alla fine dei suoi giorni, realizzando quanto da sempre aveva desiderato. Visse con le sue capre fra cani, gatti e un barbagianni, accogliendo con semplicità chiunque avesse bisogno di silenzio e solitudine.

Antonella raggiunse Cerbaiolo a piedi una mattina del 1980. L’autista della corriera diretta a Pieve Santo Stefano la fece scendere prima di entrare in paese, all’imbocco della strada sterrata che porta all’eremo inerpicandosi tra boschi e prati. Salendo, d’un tratto Cerbaiolo le apparve bianco, lassú sulla cima. Antonella arrivò che era ora di pranzo. Entrò nel chiostro e da lí in una grande cucina. Chiara stava dietro ai fornelli. Appena la vide, le disse che la stava aspettando, mettendola subito a suo agio.

– C’era di tutto dentro quell’enorme cucina. Era un mondo fuori dal mondo. Nel grande camino ardeva un bel fuoco con i suoi scoppiettii e il suo profumo. Per terra vidi una capretta e numerosi gatti sdraiati, impoltroniti, un po’ spelacchiati. Tutto era semplice, vero, proprio quello che piú desideravo, senza alcuna formalità né ipocrisia. Presto nacque con Chiara una certa intesa. Era una donna forte, schietta, una roccia come quelle su cui l’eremo era costruito.

Antonella cominciò a recarsi sempre piú spesso a Cerbaiolo, ogni volta che si sentiva satura, oppressa e avvertiva un bisogno urgente di immergersi nel silenzio senza essere disturbata da niente e da nessuno. Quel luogo è stato per lei una vera scuola di vita.

– Fin dal primo incontro, appena Chiara mi sentí parlare di silenzio e solitudine dimostrò subito una particolare attenzione per me. Con gli anni il nostro è divenuto un rapporto stabile. Era una maestra dello Spirito, ma soprattutto una maestra di vita. Non si possono scindere i due piani. Per lei tutto era in sintonia. Vedeva tra gli intarsi. Si faceva guidare dalla luce interiore, sapeva cogliere i segni nelle cose quotidiane. Tutto era importante, andava fatto bene. Da vera francescana amava le creature e la creazione standoci dentro, sporcandosi le mani. Attenta, premurosa. Madre nuda, austera, severa, ma anche tenera, a volte.

Era sempre occupata dietro a mille faccende, soprattutto dietro alle capre. All’inizio ne aveva poche, poi aumentarono velocemente. I capretti doveva darli via, ma le femmine le teneva tutte. Alla fine erano quasi duecento. Richiedevano un lavoro massacrante. I parti, le malattie, il lupo che ogni tanto faceva razzia. Chiara aveva sempre un bel daffare, portava avanti una vita povera, dura.

– A Cerbaiolo ormai ero una di casa. Chiara conosceva le mie abitudini e lasciava che mi organizzassi da sola. I primi giorni, al mattino presto, andavo sulla cima del monte, dove l’orizzonte si apriva a trecentosessanta gradi. Alle spalle avevo solo boschi folti e fruscianti. Davanti si distendeva la valle con i suoi teneri colori che sfumavano fino a rarefarsi lontano nel chiarore che avvolgeva le propaggini degli Appennini. Nei giorni successivi, appena mi ero ambientata, scendevo giú, nella cappella di Sant’Antonio in mezzo al bosco. Da lí era passato san Francesco, e sant’Antonio vi era rimasto in romitaggio negli ultimi anni di vita. Sotto la cappella, aggrappato allo sperone della roccia, era stato costruito un romitorio. Vi si accedeva da una porticina stretta, chiusa con una grossa catena. Un androne oscuro, attraverso una scaletta, dava accesso a una stanza per un lato incuneata dentro la roccia e per l’altro lato sorretta da una parete in muratura su cui si aprivano due belle finestre. C’erano un tavolo, un letto, una vera pustinia. Allora non c’erano né acqua né luce elettrica. I primi tempi vi ho trascorso alcuni giorni, poi ho preferito restarvi soltanto fino a sera. Quel silenzio prolungato mi assorbiva ripulendomi di tutti i pensieri, di tutti i pesi. Li stanava da dove si erano annidati. Come per osmosi li risucchiava in sé portandoli via. Quel luogo era il nido dell’anima.

Quando la sera rientrava all’eremo Antonella aiutava in cucina. C’era sempre qualcosa da fare. Lavare l’insalata, tagliare il pane, apparecchiare. A volte si tratteneva un po’ intorno al lungo tavolo di marmo, a pulire verdura e frutta che portavano i contadini del luogo o gli ospiti e che servivano per preparare confetture. Se trovava Chiara da sola e non c’erano altri ospiti, le capitava spesso di confidarsi con lei.

– Ci ritrovavamo a parlare come attratte da un’onda che fluiva e ci portava in un mare aperto dove tutto era luminoso, leggero. Eravamo molto in sintonia. Chiara mi capiva, mi sosteneva, mi incoraggiava. Era decisa, forte, io molto piú fragile e insicura. Mi proteggeva con la fiducia che mi dava. Sentivo la sua considerazione, la sua stima. A volte però si arrabbiava. Mi strillava dietro quando vedeva tentennamenti. Da lei accettavo tutto.

Poco dopo Cerbaiolo, Antonella ebbe modo di scoprire l’eremo di San Pietro alle Stinche, situato al confine tra le province di Firenze e di Siena. Era stato fondato negli anni Sessanta da padre Giovanni Vannucci, frate dell’ordine dei Servi di Maria del convento della Santissima Annunziata di Firenze, dove risiedeva anche padre David Maria Turoldo. Chiamato al silenzio, padre Vannucci da tempo maturava il desiderio di ritirarsi in un eremo. Vero uomo dello Spirito, aperto al confronto con tutte le tradizioni, presto divenne un punto di riferimento per credenti, non credenti, appartenenti ad altre culture e religioni. La sua lettura mistica delle Scritture spaziava dando loro un grande respiro, come bene documentano i suoi libri. Per molti anni Antonella trascorreva lí il sabato e la domenica. Prendeva la corriera fino a Panzano, poi continuava a piedi attraversando una strada sterrata in mezzo a olivi e vigneti. Circa una mezz’oretta di strada.

Purtroppo fece appena in tempo a conoscere il padre e ad assistere alla celebrazione di una sua messa di cui conserva uno speciale ricordo.

La prima volta che raggiunse l’eremo lo vide in giardino seduto in quieto abbandono sulla panca con il suo cane accovacciato ai piedi.

– Non ebbi il coraggio di avvicinarmi per parlargli. Fui come pervasa da un timore reverenziale, mi dispiaceva turbare quella quiete. Pensavo che in fondo ci sarebbero state tante altre occasioni. Niente di piú sbagliato. Quando tornai, il padre era mancato. Un infarto. In due giorni se n’era andato lasciando tutti nello sconforto e nel dolore. Anche per me fu una scossa, non me l’aspettavo. Quella perdita ha inciso molto nella mia vita. La possibilità di un confronto con lui mi avrebbe risparmiato dubbi e fatica. Ci sono stati i suoi libri, le tracce lasciate in quel luogo che trasudava della sua intensa esperienza umana e spirituale, le persone che lo avevano seguito per tanti anni e che avevano attinto da lui come da una fonte, ma il contatto diretto avrebbe aggiunto qualcosa di essenziale per me, ne sono certa. Speravo, infatti, di stabilire con lui un rapporto, di potermi aprire, raccontare quella esperienza che ancora custodivo in grande solitudine.