La pace che sembrava tornata nel mondo fatato di Earthsea dopo la riconquista da parte di Ged della metà mancante dell’anello magico di Erreth-Akbe nei labirinti oscuri delle tombe di Atuan, è di nuovo in pericolo: Arren, il giovane principe di Enlad, la più antica casata di Earthsea, viene personalmente all’isola di Roke per avvertire l’Arcimago Ged, ormai maturo e famoso in tutto il mondo, che la magia va scomparendo in tutte le terre del Nord. Nessuno sa il perché, ma gli antichi incantesimi non funzionano più ed i maghi vanno perdendo la conoscenza della “lingua antica” che era alla base della loro forza.

Così, per scoprire da dove provenga questa minaccia che allarga con tanta rapidità la sua sfera d’influenza, Ged ed Arren, l’uomo saggio ed il fanciullo inesperto, partono per un viaggio che sarà una vera e propria odissea: un lungo vagabondare attraverso le isolette e le genti di Earthsea che li porterà ad affrontare pericoli di tutti i generi (briganti, mercanti di schiavi, traversate avventurose in mari burrascosi), fino a giungere all’ultima spiaggia, a Selidor, l’isola all’estremità del mondo, dove risiedono i draghi, ed ancora più oltre, in un luogo desolato da cui nessuno fa mai ritorno.

La spiaggia più lontana conclude il ciclo di Ged, un ciclo di rara bellezza letteraria e di grande coerenza interna, che accoppia ad una poetica narrazione di eroiche gesta, un’allegorica riflessione sull’equilibrio cosmico e sull’essenza della vita.

Ursula Le Guin

La spiaggia più lontana

Solo nel silenzio la parola,
solo nella tenebra la luce,
solo nella morte è vita;
fulgido è il volo del falco
nel cielo deserto.

La creazione di Éa

L’ALBERO DI ROWAN

Nel Cortile della Fontana il sole di marzo splendeva attraverso le giovani fronde dei frassini e degli olmi, e l’acqua zampillava e ricadeva nell’ombra e nella luce chiara. Il cortile scoperto era cinto da quattro alti muri di pietra. E oltre quei muri c’erano stanze e cortili, passaggi, corridoi, torri, e poi le mura di cinta della Grande Casa di Roke, capaci di resistere all’assalto della guerra o del terremoto o dello stesso mare, poiché erano costruite non solo di pietra ma anche di magia invincibile. Perché Roke è l’Isola dei Saggi, e vi viene insegnata l’arte magica; e la Grande Casa è la scuola e il centro della magia; è il luogo centrale della Casa è quel piccolo cortile, racchiuso tra i muri, dove zampilla la fontana e gli alberi stanno impavidi nella pioggia o nel sole o nella luce delle stelle.

L’albero più vicino alla fontana, un rowan poderoso, aveva aggobbito e screpolato la pavimentazione di marmo con le sue radici. Vene di muschio verde-vivo colmavano quelle crepe, diffondendosi dall’area erbosa intorno alla vasca. C’era un ragazzo, seduto lì su quella bassa gibbosità di marmo e di muschio, e seguiva con lo sguardo la caduta dello zampillo centrale della fontana. Era quasi un uomo, e tuttavia era ancora un ragazzo; snello, e vestito riccamente. Il suo volto sembrava fuso nel bronzo dorato, tanto era ben modellato e immobile.

Dietro di lui, a una quindicina di passi di distanza, sotto gli alberi all’estremità opposta del prato centrale, stava ritto un uomo: o almeno, tale appariva. Era difficile esserne certi, in quel mutevole fremito di ombre e di calda luce. Senza dubbio era presente: un uomo biancovestito, ritto e immobile. Mentre il ragazzo guardava la fontana, l’uomo guardava il ragazzo. Non c’erano suoni o movimenti: solo il gioco delle fronde e il gioco dell’acqua, e il suo canto incessante.

L’uomo avanzò. Un refolo di vento scosse l’albero di rowan, agitando le foglie appena dischiuse. Il ragazzo balzò in piedi, agile e sorpreso. Si voltò verso l’uomo e s’inchinò. — Mio signore arcimago — disse.

L’uomo si fermò davanti a lui: una figura non troppo alta, eretta, vigorosa, in un manto di lana bianca con cappuccio. Al di sopra delle pieghe del cappuccio abbassato, il suo volto grifagno, bruno-rossicico, con una guancia sfigurata da vecchie cicatrici. Gli occhi erano vividi e ardenti, fierissimi. Tuttavia parlò in tono gentile. — È un luogo piacevole per sostare, il Cortile della Fontana — disse; e poi, prevenendo le parole di scusa del ragazzo: — Tu hai compiuto un lungo viaggio e non hai riposato. Torna a sederti.

S’inginocchiò sul candido bordo della vasca e protese la mano verso il cerchio di gocce scintillanti che cadevano dalla conca più alta della fontana, lasciandosi scorrere l’acqua tra le dita. Il ragazzo si sedette di nuovo sulle piastrelle aggobbite, e per un attimo nessuno dei due parlò.

— Tu sei il figlio del principe di Enlad e delle Enlades — disse l’arcimago, — erede del principato di Morred. Non esiste un’eredità più antica, in tutto Earthsea, né più bella. Ho visto i frutteti di Enlad in primavera e gli aurei tetti di Berila… Come ti chiami?

— Mi chiamo Arren.

— Dev’essere una parola del dialetto della tua terra. Cosa significa, nella nostra lingua comune?

Il ragazzo disse: — Spada.

L’arcimago annuì. Ci fu di nuovo un silenzio, e poi il ragazzo disse, senza baldanza ma senza timidezza: — Pensavo che l’arcimago conoscesse tutte le lingue.

L’uomo scosse il capo, guardando la fontana.

— E tutti i nomi…

— Tutti i nomi? Soltanto Segoy, che pronunciò la Prima Parola facendo sorgere tutte le isole dal profondo del mare, conosceva tutti i nomi. — Lo sguardo vivido e ardente si fissò sul volto di Arren. — Certo, se mi fosse necessario conoscere il tuo nome lo conoscerei. Ma non è necessario. Ti chiamerò Arren; e io sono Sparviero. Dimmi, com’è stato il viaggio che ti ha condotto qui?

— Troppo lungo.

— I venti erano contrari?

— I venti erano propizi, mio signore Sparviero, ma le notizie che porto sono nefaste.

— E allora dille — invitò in tono grave l’arcimago, ma come se accondiscendesse all’impazienza di un bambino; e mentre Arren parlava, guardò ancora il velo cristallino di gocciole d’acqua che cadevano dalla vasca superiore a quella inferiore, non già come se non ascoltasse ma come se ascoltasse qualcosa di più delle parole del ragazzo.

— Tu sai, mio signore, che il principe mio padre è un mago, poiché appartiene alla stirpe di Morred e in gioventù ha trascorso un anno qui a Roke. Possiede un certo potere e una certa conoscenza, sebbene usi raramente le sue arti poiché è troppo preso dal governo del suo reame, delle città e del commercio. Le flotte delle nostre isole si avventurano verso l’orizzonte fino allo Stretto Occidentale, per acquistare zaffiri e pelli di bue e stagno, e all’inizio dell’inverno un capitano è ritornato alla nostra città, Berila, e ha raccontato in giro una storia che è giunta fino agli orecchi di mio padre; e lui l’ha mandato a chiamare perché gliela ripetesse. — Il ragazzo parlava rapidamente, in tono sicuro. Era stato educato tra genti civili e raffinate, e non aveva la solita timidezza vergognosa dei giovani.

— Il capitano ha detto che sull’isola di Narveduen, situata all’incirca a cinquecento miglia da noi, verso occidente, sulle rotte delle navi, non c’è più magia. Gli incantesimi non vi avevano potere, ha detto, e le parole dell’arte erano state dimenticate. Mio padre ha chiesto se tutti gli incantatori e le streghe avevano abbandonato l’isola, e quello ha risposto di no: c’erano alcuni che erano stati incantatori, ma non gettavano più sortilegi, neppure i più modesti, per riparare le brocche o ritrovare un ago perduto. E mio padre ha domandato se la popolazione di Narveduen non era sconfortata. E il capitano ha risposto nuovamente di no: sembrava che non se ne curassero. E in verità, ha riferito, tra loro c’erano molte infermità, e il raccolto autunnale era stato molto scarso, eppure sembrava che non si curassero neppure di questo. Ha detto (io ero presente, quando ha parlato al principe): «Erano come malati; come un uomo cui è stato detto che deve morire entro l’anno ma pensa che la profezia non è vera e che vivrà in eterno. Se ne vanno in giro», ha detto, «senza guardare il mondo». Quando hanno fatto ritorno altri due mercanti, hanno confermato che Narveduen era divenuta una terra povera e aveva perso l’arte della magia. Ma erano soltanto le dicerie dello Stretto Occidentale, che sono sempre state strane; e mio padre è stato l’unico a darsene veramente pensiero.

«Poi, nell’Anno Nuovo, alla Festa degli Agnelli che si celebra a Enlad, quando le mogli dei pastori vengono in città portando i primi nati del gregge, mio padre ha designato l’incantatore Radice perché pronunciasse sugli agnelli le formule magiche della crescita. Ma Radice è tornato al nostro palazzo con aria depressa, ha deposto il bastone e ha detto: "Mio signore, non posso recitare gli incantesimi". Mio padre l’ha interrogato, ma quello ha saputo rispondere soltanto: "Ho dimenticato le parole e lo schema". Allora mio padre si è recato sulla piazza del mercato e ha recitato personalmente gli incantesimi, e la festa si è compiuta. Ma quella sera io l’ho visto rientrare nel palazzo; ed era incupito e stanco, e mi ha detto: "Ho pronunciato le parole, ma non so se avessero un significato". E in verità ci sono stati guai nelle greggi, questa primavera: molte pecore sono morte di parto, e molti agnelli sono nati morti, e alcuni sono… deformi. — La voce ferma e diligente del ragazzo si abbassò; rabbrividì nel pronunciare quella parola, e deglutì. — Ne ho visto qualcuno — disse. Ci fu una pausa.

«Mio padre ritiene che questo episodio, e la storia di quanto è avvenuto a Narveduen, dimostrino la presenza di qualche forza malefica all’opera nella nostra parte del mondo. E desidera il consiglio del Saggio.

— Il fatto che abbia inviato te dimostra che il suo desiderio è assillante — disse l’arcimago. — Tu sei il suo unico figlio, e il viaggio da Enlad a Roke non è breve. C’è altro da aggiungere?

— Solo le storie di certe vecchie comari, venute dalle colline.

— E cosa dicono le vecchie comari?

— Che tutte le predizioni lette dalle streghe nel fumo e nelle pozze d’acqua parlano di mali, e che i loro filtri d’amore sono inefficaci. Ma si tratta di gente che non conosce la vera magia.

— Le predizioni della sorte e i filtri d’amore non hanno grande importanza, ma è opportuno ascoltare ciò che dicono le vecchie. Ebbene, il tuo messaggio verrà discusso dai Maestri di Roke. Ma io non so, Arren, quale consiglio potranno dare a tuo padre. Perché Enlad non è la prima terra da cui giungono simili notizie.

La spedizione che Arren aveva compiuto dal nord, oltre la grande isola di Havnor e attraverso il Mare Interno fino a Roke, era il suo primo viaggio per mare. Solo in quelle ultime settimane aveva visto terre che non appartenevano alla sua patria, e s’era reso conto della distanza e della diversità, e aveva compreso che esisteva un mondo grandissimo, oltre le colline amene di Enlad, e che era popolato da molte genti. Non si era ancora abituato a pensare in grande; perciò impiegò qualche istante a capire. — E dove altro? — chiese allora, un po’ sbigottito. Perché aveva sperato di poter portare a Enlad un pronto rimedio.

— Nello Stretto Meridionale, all’inizio. Ultimamente, perfino nel sud dell’arcipelago, a Wathort. Gli uomini dicono che a Wathort non si compiono più magie. È difficile averne la certezza. Da molto tempo quella terra è in mano a ribelli e pirati; e ascoltare un mercante meridionale è ascoltare una menzogna, come si dice. Eppure la storia non cambia mai: le sorgenti della magia si sono inaridite.

— Ma qui, su Roke…

— Qui su Roke non ne abbiamo risentito. Siamo protetti contro le tempeste e i mutamenti e la malasorte. Fin troppo protetti, forse. Principe, ora cosa farai?

— Ritornerò a Enlad, quando potrò portare a mio padre una risposta chiara sulla natura di questo male e sul rimedio.

L’arcimago lo guardò di nuovo: e stavolta, nonostante il suo addestramento, Arren distolse lo sguardo. Non sapeva perché: non c’era nulla di scostante nell’espressione di quegli occhi scuri. Erano imparziali, sereni, pietosi.

Tutti, a Enlad, guardavano con rispetto suo padre, e lui era il figlio di suo padre. Nessuno l’aveva mai guardato in quel modo: non già come Arren, principe di Enlad, figlio del sovrano regnante, ma come Arren e basta. Non voleva pensare che temeva lo sguardo dell’arcimago, e tuttavia non sapeva sostenerlo. Sembrava che ingrandisse ancor più il mondo intorno a lui; e adesso non soltanto Enlad diventava insignificante, ma lo diveniva anche lui, e agli occhi dell’arcimago era solo una figura piccola, molto piccola, in un immenso scenario di terra cinta dal mare su cui aleggiava l’oscurità.

Rimase seduto, a strappare piccoli ciuffi del muschio che cresceva nelle crepe del lastricato, e dopo qualche istante parlò; e sentì la propria voce, divenuta profonda solo in quegli ultimi due anni, risuonare sottile e rauca: — E farò quello che mi comanderai.

— Hai il dovere di ubbidire a tuo padre, non a me — disse l’arcimago.

Teneva ancora gli occhi fissi su Arren, e in quel momento il ragazzo alzò la testa. Nel compiere quell’atto di sottomissione aveva dimenticato ogni cosa, ma adesso vedeva l’arcimago: il più grande incantatore di tutto Earthsea, l’uomo che aveva tappato il Nero Pozzo di Fundaur e aveva strappato l’Anello di Erreth-Akbe alle Tombe di Atuan e aveva costruito la possente diga marina di Nepp; il navigatore che conosceva tutti i mari da Astowell a Selidor; l’unico Signore dei Draghi vivente. E adesso stava lì, inginocchiato accanto a una fontana: un uomo non più giovane, di statura modesta, dalla voce quieta e dagli occhi profondi come la sera.

In tutta fretta, Arren si alzò e si inginocchiò secondo la consuetudine. — Mio signore — disse, balbettando, — permetti che io ti serva!

Tutta la sua sicurezza era svanita: aveva il volto avvampato, e la sua voce tremava.

Al fianco portava una spada, entro un fodero di cuoio istoriato a intarsi rossi e oro; ma la spada era semplicissima, con l’elsa consunta di bronzo argentato. La sguainò prontissimo, e ne presentò l’elsa all’arcimago, come un vassallo al suo principe.

L’arcimago non tese la mano per toccare l’impugnatura della spada. Guardò l’arma, e poi guardò Arren. — È tua, non mia — disse. — E tu non sei il servitore di nessuno.

— Ma mio padre ha detto che potevo restare su Roke fino a quando avessi appreso cos’è questo maleficio, e magari un po’ dell’arte: non ho esperienza, non credo di avere del potere, ma tra i miei antenati c’erano alcuni maghi… Se potessi imparare, in un modo o nell’altro, a rendermi utile a te…

— I tuoi antenati — disse l’arcimago, — erano re prima di essere maghi.

Si alzò, e a passi silenziosi ed energici si accostò ad Arren, gli prese la mano e lo fece alzare. — Ti ringrazio per la tua offerta di servirmi; e sebbene non l’accetti in questo momento, forse lo farò dopo che avremo tenuto consiglio sul problema. Non si può rifiutare a cuor leggero l’offerta di uno spirito generoso. E non si può respingere la spada del figlio di Morred così avventatamente. Ora va’. Il ragazzo che ti ha condotto qui provvederà perché tu possa mangiare, fare un bagno e riposarti. Va’. — E sospinse Arren, gentilmente, con una mano tra le scapole. Era una familiarità che nessuno si era mai permesso, e che da parte di chiunque altro avrebbe destato il risentimento del giovane principe; ma lui sentì il contatto dell’arcimago come un fremito di esaltazione. Perché si era innamorato.

Era sempre stato un ragazzo molto attivo, che amava gli svaghi e trovava piacere e orgoglio nella destrezza del corpo e della mente, ed eseguiva con diligenza i suoi doveri cerimoniali e di rappresentanza, che non erano né lievi né semplici. Tuttavia non si era mai votato interamente a qualcosa. Aveva avuto tutto, e aveva fatto tutto facilmente: era stato tutto un gioco, e lui aveva giocato ad amare. Ma adesso i suoi sentimenti più profondi erano stati risvegliati, e non da un gioco o da un sogno ma dall’onore e dal pericolo e dalla saggezza, da un volto sfigurato e da una voce quieta e da una mano scura che stringeva — noncurante del proprio potere — il bastone di tasso che accanto all’impugnatura intarsiata in argento sul legno nero portava la Runa Perduta dei Re.

Così il primo passo di chi abbandona la fanciullezza si compie all’improvviso, senza guardare né avanti né indietro, senza prudenza e senza riserve.

Dimenticando ogni commiato cerimonioso Arren si avviò svelto verso la porta, impacciato, radioso, ubbidiente. E Ged l’arcimago lo seguì con lo sguardo mentre usciva.

Ged rimase ancora per qualche tempo accanto alla fontana, sotto il frassino, poi levò il volto verso il cielo inondato di sole. — Un messaggero gentile per un triste annuncio — disse, a mezza voce, quasi parlasse alla fontana. La fontana non l’ascoltò, e continuò a parlare con la sua lingua argentea, e Ged rimase in ascolto per lunghi istanti. Poi, avviandosi verso un’altra porta che Arren non aveva visto, e che in verità ben pochi occhi avrebbero scorto per quanto scrutassero attentamente, disse: — Maestro Portinaio.

Apparve un ometto d’età indefinibile. Non era giovane, e veniva istintivo chiamarlo vecchio, ma quella parola non gli si addiceva. Il suo volto era asciutto e del colore dell’avorio, e aveva un sorriso simpatico che tracciava lunghe curve sulle sue guance. — Cosa c’è, Ged? — chiese.

Infatti erano soli, e lui era una delle sette persone al mondo che conoscevano il nome dell’arcimago. Le altre erano il Maestro dei Nomi di Roke; e Ogion il Taciturno, il mago di Re Albi che molto tempo addietro, sulla montagna di Gont, aveva dato a Ged quel nome; e la Bianca Signora di Gont, Tenar dell’Anello; e un incantatore di un villaggio di Iffish, chiamato Veccia; e ancora a Iffish la moglie di un carpentiere, madre di tre figlie, che ignorava la magia ma era sapiente in altre cose, e che era chiamata Millefoglie; e infine, dall’altra parte di Earthsea, all’estremo occidente, due draghi: Orm Embar e Kalessin.

— Dovremo riunirci, questa sera — disse l’arcimago. — Io andrò dal Maestro degli Schemi. E manderò a chiamare Kurremkarmerruk, perché riponga gli elenchi e lasci riposare i suoi discepoli per una serata e venga da noi, anche se non in persona. Tu provvederai agli altri?

— Sì — rispose il Portinaio, sorridendo, e se ne andò; e anche l’arcimago se ne andò; e la fontana continuò a parlare a se stessa, serenamente, incessantemente, nel sole dell’inizio di primavera.

In qualche luogo, a ovest della Grande Casa di Roke e spesso un po’ a sud, si vede di solito il Bosco Immanente. Non appare sulle mappe e non c’è modo di penetrarvi, se non per coloro che ne conoscono il modo e la strada. Ma anche i novizi e i contadini e gli abitanti delle città possono vederlo, sempre da una certa distanza: un bosco d’alberi molto alti, le cui foglie hanno una sfumatura dorata nel loro verdeggiare, perfino in primavera. E tutti — i novizi, i contadini, gli abitanti delle città — pensano che il Bosco si muova in modo enigmatico e sconcertante. Ma s’ingannano, perché il Bosco non si muove. Le sue radici sono le radici dell’essere. È tutto il resto, a muoversi.

Ged aveva lasciato la Grande Casa e camminava tra i campi. Si tolse il mantello bianco, perché il sole era al meriggio. Un contadino che stava arando le brune pendici di un colle levò la mano in atto di saluto, e Ged rispose con un gesto uguale. Stormi di uccellini s’innalzarono nell’aria, cantando. L’erba scintilla stava incominciando a fiorire nei prati e lungo le strade. A grande altezza, un falco tracciò un ampio arco nel cielo. Ged lo guardò, e levò di nuovo la mano. Il falco si tuffò, in un fremito di piume gonfie di vento, e si posò sul polso proteso, stringendolo con i gialli artigli. Non era uno sparviero, bensì un grande falcone di Ender, un falco pescatore screziato di bianco e di bruno. Guardò in tralice l’arcimago con un tondo occhio d’oro fulgido, poi sbatté il becco adunco e lo fissò con entrambi gli occhi dorati. — Intrepido — gli disse l’arcimago nella lingua della Creazione.

Il grosso falco sbatté le ali e strinse più forte gli artigli, guardandolo.

— Va’, dunque, fratello intrepido.

Il contadino, lontano sulla collina sotto il cielo luminoso, si era soffermato a guardare. Una volta, l’autunno precedente, aveva visto l’arcimago farsi discendere sul polso un uccello selvatico: e dopo un attimo non aveva più visto l’uomo, ma due falchi che ascendevano nel vento.

Questa volta si separarono, mentre il contadino stava a osservare: l’uccello s’involò nell’aria, l’uomo riprese a camminare attraverso i campi fangosi.

Ged raggiunse il sentiero che conduceva al Bosco Immanente, un sentiero che procedeva sempre diritto anche se il tempo e il mondo gli si aggiravano intorno tortuosamente: e percorrendolo giunse presto sotto l’ombra degli alberi.

Alcuni di quegli alberi avevano un tronco immane. Quando li si guardava, si poteva credere finalmente che il Bosco non si muovesse mai: erano come torri esistenti da tempo immemorabile e ingrigite dagli anni; le loro radici erano come le radici delle montagne. Eppure erano i più antichi, e alcuni avevano le fronde già rade e qualche ramo morto. Non erano immortali. In mezzo ai giganti crescevano arboscelli, alti e vigorosi, con chiome di fogliame vivido, e pianticelle ancora più giovani, esili fuscelli fronzuti non più alti di una bambina.

Il suolo ai piedi degli alberi era soffice, arricchito dalle foglie imputridite di tanti anni. Vi crescevano felci e piccole piante dei boschi; ma c’era un’unica specie di albero, che non aveva nome nella lingua hardese di Earthsea. Sotto le fronde l’aria aveva un fresco profumo di terra, e un sapore come di viva acqua di sorgente.

In una radura aperta molti anni prima dalla caduta di un enorme albero, Ged incontrò il Maestro degli Schemi, che viveva nel Bosco e non ne usciva mai o quasi mai. Aveva i capelli gialli come il burro: non era originario dell’arcipelago. Dopo il ritorno dell’Anello di Erreth-Akbe, i barbari di Kargad avevano smesso le incursioni instaurando rapporti di pacifico commercio con le Terre Interne. Non erano tipi amichevoli, e si tenevano in disparte. Ma di tanto in tanto un giovane guerriero o il figlio di un mercante si spingeva tutto solo verso ovest, attirato dall’amore per l’avventura o dal desiderio di apprendere la magia. E così era giunto dieci anni prima il Maestro degli Schemi: un giovane selvaggio di Karego-At, con la spada alla cintura e un pennacchio rosso sulla testa, arrivato a Gont in un mattino di pioggia; aveva detto al Portinaio, in hardese stentato e imperioso: — Io vengo per imparare! — E adesso stava sotto gli alberi, nella luce verde-dorata, alto e bello, con i lunghi capelli chiari e gli strani occhi verdi, il Maestro degli Schemi di Earthsea.

Forse conosceva anche lui il nome di Ged; ma se anche lo conosceva, non lo pronunciava mai. Si scambiarono un saluto in silenzio.

— Cosa stai osservando? — chiese l’arcimago, e l’altro gli rispose: — Un ragno.

Tra due alti fili d’erba, nella radura, un ragno aveva intessuto una ragnatela, un cerchio delicatamente sospeso. Gli argentei fili riflettevano la luce del sole. Al centro attendeva il tessitore, una cosettina nero-grigia non più grande di una pupilla.

— Anche quello è un maestro di schemi — disse Ged, studiando l’ingegnosa ragnatela.

— Che cos’è il male? — chiese l’uomo più giovane.

La ragnatela rotonda, con il suo centro nero, sembrava osservarli entrambi.

— Una ragnatela intessuta da noi uomini — rispose Ged.

In quel bosco non c’erano uccelli che cantassero. Era silente e caldissimo, nella luce del meriggio. Intorno a loro stavano gli alberi e le ombre.

— Sono giunte notizie da Narveduen e da Enlad: identiche.

— Sud e sudovest. Nord e nordovest — disse il Maestro degli Schemi, senza distogliere lo sguardo dalla tela rotonda.

— Verremo qui, questa sera. È il luogo più indicato per tenervi consiglio.

— Io non ho consigli da dare. — Il Maestro degli Schemi posò lo sguardo su Ged, e i suoi occhi verdi erano freddi. — Ho paura — disse. — C’è paura. Paura delle radici.

— Sì — replicò Ged. — Dobbiamo cercare le sorgenti più profonde, credo. Abbiamo goduto troppo a lungo della luce del sole, crogiolandoci nella pace apportata dall’Anello, realizzando piccole cose, pescando nei bassi fondali. Questa notte dobbiamo interrogare gli abissi. — E lasciò solo il Maestro degli Schemi, che continuava a fissare il ragno tra l’erba assolata.

Al limitare del Bosco, dove le fronde dei grandi alberi si protendevano all’esterno, sul terreno normale, si sedette con la schiena appoggiata a una radice possente e col bastone sulle ginocchia. Chiuse gli occhi, come se riposasse, e trasmise un messaggio del suo spirito oltre le colline e i campi di Roke, verso nord, verso il promontorio assediato dal mare dove sorgeva la Torre Isolata.

— Kurremkarmerruk — disse in spirito; e il Maestro dei Nomi alzò la testa dal grosso volume dei nomi di radici e erbe e foglie e semi e petali che stava leggendo ai suoi allievi, e disse: — Sono qui, mio signore.

Poi ascoltò (era un uomo alto e magro, con i capelli canuti sotto il cappuccio scuro), e gli studenti seduti agli scrittoi nella stanza della torre lo guardarono e si scambiarono occhiate.

— Verrò — disse Kurremkarmerruk, e chinò di nuovo la testa sul libro, dicendo: — Ora, il petalo del fiore del moli ha un nome, che è iebera, e anche il sepalo ha un nome, che è partonath; e anche stelo e foglia e radice hanno il loro nome…

Ma sotto il suo albero l’arcimago Ged, che conosceva tutti i nomi dell’erba moli, ritrasse il pensiero; e, tese più comodamente le gambe e tenendo chiusi gli occhi, poco dopo si addormentò nella luce del sole maculata dal fogliame.

I MAESTRI DI ROKE

La Scuola di Roke è il luogo dove i ragazzi che si dimostrano promettenti nel campo della magia vengono inviati da tutte le Terre Interne di Earthsea ad apprendere le più alte forme di quell’arte. Là divengono esperti in ogni tipo d’incantesimi, e imparano nomi e simboli e facoltà e sortilegi, e ciò che deve e ciò che non deve essere fatto, e perché. E là, dopo lunghi esercizi, e se la mano e la mente e lo spirito procedono insieme, possono essere nominati incantatori, e ricevono il bastone del potere. Solo su Roke si fanno i veri incantatori.

Poiché vi sono fattucchieri e streghe su tutte le isole, e l’uso della magia è necessario al popolo quanto il pane, e delizioso come la musica, la Scuola di Magia è un luogo tenuto in grande onore. I nove maghi che sono Maestri della Scuola vengono considerati pari ai grandi principi dell’arcipelago. Il loro capo, il Custode di Roke, l’arcimago, non è tenuto a rispondere a nessun altro eccettuato il Re di Tutte le Isole: e solo per un atto di fedeltà, per un dono del cuore, poiché neppure un re può costringere un mago così grande a servire la legge comune, se la sua volontà è diversa. Eppure, anche durante i secoli senza re, gli arcimaghi di Roke avevano serbato la fedeltà e avevano servito la legge comune. A Roke tutto procedeva come avveniva da molte centinaia d’anni: era un luogo che sembrava al riparo da ogni tipo di angustie, e le risate dei ragazzi risuonavano nei cortili echeggianti e negli ampi e freddi corridoi della Grande Casa.

Colui che guidava Arren nella scuola era un ragazzo robusto: portava il mantello trattenuto al collo da un fermaglio d’argento, poiché aveva superato il noviziato e ormai era un incantatore riconosciuto, e studiava per guadagnarsi il bastone. Veniva chiamato Azzardo «perché», diceva, «i miei genitori avevano sei figlie, e secondo mio padre il settimo figlio era una puntata d’azzardo contro il fato». Era un compagno simpatico, pronto di mente e di lingua. In un altro momento, Arren avrebbe apprezzato il suo spirito; ma quel giorno era troppo assorto. Non gli prestava grande attenzione, in verità. E Azzardo, che provava un desiderio naturale di essere giudicato importante, cominciò ad approfittare della distrazione dell’ospite. Gli raccontò strani fatti a proposito della Scuola, e poi gli disse strane menzogne, e ogni volta Arren replicava «Oh, sì», oppure «Capisco», tanto che alla fine Azzardo lo giudicò un principesco imbecille.

— Naturalmente, qui non cucinano — disse, conducendolo oltre le immense cucine di pietra, animate dal luccichio dei paioli di rame e dal tintinnio dei coltelli per affettare e dall’acre odore delle cipolle, che faceva lacrimare gli occhi. — È solo per fare scena. Noi andiamo al refettorio e ciascuno fa apparire con incantesimi ciò che preferisce mangiare. Così ci si risparmia anche la fatica di lavare i piatti.

— Sì, capisco — disse educatamente Arren.

— Naturalmente i novizi che non hanno ancora imparato i sortilegi dimagriscono spesso, durante i primi mesi trascorsi qui; ma poi imparano. C’è un ragazzo di Havnor che cerca sempre di far apparire un pollo arrosto ma non ottiene mai altro che una pappa di miglio. Sembra che non riesca a progredire. Ieri ha fatto apparire anche un merluzzo secco. — Azzardo stava diventando rauco per lo sforzo di indurre l’ospite all’incredulità. Poi desistette e smise di parlare.

— Dove… da quale terra viene l’arcimago? — chiese l’ospite, senza neppure guardare l’imponente galleria che stavano percorrendo e che aveva le pareti e il soffito a volta ornati dall’Albero dalle Mille Foglie.

— Gont — rispose Azzardo. — Era capraio in un villaggio.

Di fronte a quel fatto semplice e ben noto, il ragazzo venuto da Enlad si voltò a guardare con incredula disapprovazione il suo accompagnatore. — Un capraio?

— Lo sono quasi tutti gli abitanti di Gont, a meno che siano pirati o incantatori. Non ho detto che sia un capraio adesso, sai!

— Ma com’è possibile che un capraio diventi arcimago?

— Come può diventarlo un principe! Venendo a Roke e superando tutti i Maestri, rubando l’anello di Atuan, navigando nello Stretto dei Draghi, dimostrandosi il mago più grande che sia mai vissuto dopo Erreth-Akbe… E come, se no?

Uscirono dalla galleria, alla porta settentrionale. Il tardo pomeriggio splendeva caldo sulle rugose colline e sui tetti di Città Thwil e sulla baia. Si fermarono a parlare. Azzardo disse: — Naturalmente, questo appartiene ormai al passato. Non ha fatto molto, da quando è stato nominato arcimago. Non fanno mai molto. Se ne stanno tranquilli a Roke e sorvegliano l’Equilibrio, immagino. E ormai è molto vecchio.

— Vecchio? Vecchio quanto?

— Oh, quaranta o cinquant’anni.

— L’hai visto?

— Certo, che l’ho visto — rispose brusco Azzardo. Il principesco imbecille, a quanto sembrava, era anche un principesco presuntuoso.

— Spesso?

— No. Vive molto solo. Ma appena arrivai a Roke lo vidi, nel Cortile della Fontana.

— È stato là che ho parlato con lui, oggi — disse Arren.

Il suo tono indusse Azzardo a guardarlo, e poi a replicare: — È stato tre anni fa. Ed ero tanto impaurito che per la verità non lo guardai neppure. Ero molto giovane, certo. Ma è difficile vedere chiaramente le cose, là dentro. Ricordo soprattutto la sua voce, e l’acqua che scorreva dalla fontana. — Dopo un momento aggiunse: — Ha l’accento di Gont.

— Se potessi parlare ai draghi nella loro lingua — disse Arren, — non mi preoccuperei del mio accento.

A quelle parole, Azzardo lo guardò con una sfumatura d’approvazione e chiese: — Sei venuto qui per entrare nella scuola, principe?

— No. Ho portato all’arcimago un messaggio da parte di mio padre.

— Enlad è uno dei principati del regno, no?

— Enlad, Ilien e Way. Havnor e Ea, un tempo: ma in quelle terre la dinastia discesa dai re si è estinta. Ilien discende da Gemal, Nato dal Mare, tramite Maharion, che fu re di tutte le isole. Way, da Akambar e dalla Casa di Shelieth. Enlad, che è il casato più antico, da Morred, tramite suo figlio Serriadh e la Casa di Enlad.

Arren recitò le genealogie con aria sognante, come uno scolaro ben istruito che pensa ad altro.

— Credi che vedremo di nuovo un re in Havnor, nel corso della nostra vita?

— Non me ne sono mai dato molto pensiero.

— In Ark, il luogo da cui vengo io, la gente ci pensa. Adesso facciamo parte del principato di Ilien, vedi, da quando è stata conclusa la pace. Quanto tempo è trascorso, diciassette anni o diciotto, da quando l’Anello della Runa del Re fu riportato alla Torre dei Re, in Havnor? Per qualche tempo le cose andarono meglio, ma adesso è peggio che mai. È tempo che ci sia di nuovo un re sul trono di Earthsea, un re che impugni il Segno della Pace. La gente è stanca di guerre e di scorrerie, e di mercanti che impongono prezzi eccessivi e di principi che pretendono tasse esose, e della confusione dei potenti indisciplinati. Roke è una guida, ma non può governare. Qui sta l’Equilibrio, ma il Potere dovrebbe essere nelle mani del re.

Azzardo parlava con interesse sincero, abbandonando ogni scherzo, e finalmente aveva attirato l’attenzione di Arren. — Enlad è una terra ricca e pacifica — disse lentamente. — Non si è mai immischiata in queste rivalità. Sentiamo parlare delle difficoltà di altre terre. Ma non c’è più stato un re sul trono di Havnor da quando morì Maharion: ottocento anni. Credi che le terre accetterebbero davvero un re?

— Sì, se venisse in pace e in forza; se Roke e Havnor riconoscessero le sue rivendicazioni.

— E c’è una profezia che dev’essere realizzata, non è così? Maharion disse che il prossimo re sarebbe stato un mago.

— Il Maestro Cantore è un havnoriano e s’interessa a questi argomenti, e da tre anni non fa che ripeterci quelle parole. Maharion disse: Erediterà il mio trono colui che ha attraversato vivo la terra tenebrosa ed è giunto alle lontane spiagge del giorno.

— Quindi un mago.

— Sì, poiché solo un mago o un incantatore può andare tra i morti nella terra tenebrosa e farne ritorno. Comunque, non la si attraversa. Almeno, ne parlano sempre come se avesse un unico confine, oltre il quale si estende all’infinito. E poi, cosa sono le lontane spiagge del giorno? Ma così dice la profezia dell’Ultimo Re, e perciò un giorno nascerà qualcuno che la realizzerà. E Roke lo riconoscerà, e le flotte e gli eserciti e le nazioni accorreranno a lui. E allora ci sarà di nuovo la maestà al centro del mondo, nella Torre dei Re, in Havnor. Io accorrerei volentieri a uno come lui; servirei un vero re con tutto il mio cuore e tutta la mia arte — disse Azzardo, e poi rise e scrollò le spalle, perché Arren non pensasse che si lasciava trasportare dall’emozione. Ma Arren lo guardò amichevolmente, pensando lui proverebbe per il re quello che io provo per l’arcimago. A voce alta disse: — Un re avrebbe bisogno di circondarsi di uomini come te.

Rimasero lì, immersi ognuno nei propri pensieri e tuttavia con spirito cameratesco, fino a quando un gong risuonò echeggiante nella Grande Casa, dietro di loro.

— Ecco! — disse Azzardo. — Lenticchie e cipolle per cena, questa sera. Vieni.

— Mi sembrava di aver capito che non cucinano — osservò Arren in tono sognante, seguendolo.

— Oh, qualche volta… per sbaglio…

Non c’era magia, in quel pasto, ma c’era molta sostanza. Poi uscirono per i campi, nel tenero azzurro del crepuscolo. — Questo è il colle Roke — disse Azzardo, mentre incominciavano a salire un’altura tondeggiante. L’erba rugiadosa sfiorava loro le gambe, e in basso, vicino al ruscello paludoso Thwil, c’era un coro di rospetti che salutava il primo tepore e le notti stellate sempre più brevi.

C’era un mistero, in quel luogo. Azzardo disse a bassa voce: — Questa collina fu la prima a emergere dal mare, quando venne pronunciata la Prima Parola.

— E sarà l’ultima che sprofonderà quando tutte le cose verranno disfatte — aggiunse Arren.

— Quindi è un posto sicuro — replicò Azzardo, scrollandosi da dosso il timore reverenziale; ma poi gridò, intimidito: — Guarda! Il Bosco!

A sud del colle brillava una grande luce sopra la terra, come il sorgere della luna; tuttavia l’esile luna stava già scendendo verso occidente, sopra la cima dell’altura; e in quel fulgore c’era un fremito guizzante, come l’agitarsi di fronde nel vento.

— Che cos’è?

— Proviene dal Bosco: devono esserci i Maestri. Dicono che ardeva così, di una luce simile al chiaro di luna, per tutta la notte, quando si radunarono cinque anni orsono per scegliere l’arcimago. Ma perché si sono riuniti ora? Per la notizia che tu hai portato?

— Può darsi — rispose Arren.

Azzardo, agitato e inquieto, volle ritornare alla Grande Casa, per scoprire cosa si diceva a proposito del Consiglio dei Maestri. Arren andò con lui, ma si voltò indietro più volte a guardare la strana luminosità, fino a quando il pendio la nascose e rimasero soltanto la luna nuova che tramontava e le stelle primaverili.

Solo, nell’oscurità della cella di pietra che gli era stata assegnata, Arren stava sdraiato a occhi aperti. Aveva dormito in un letto per tutta la sua vita, sotto pellicce morbide; anche a bordo della galea a venti remi con cui era giunto da Enlad gli avevano fornito un giaciglio più comodo di quello: un pagliericcio sul pavimento nudo, e una lacera coperta di feltro. Ma Arren non se ne accorgeva neppure. Sono al centro del mondo, pensava. I Maestri stanno parlando nel luogo sacro. Cosa faranno? Opereranno una grande magia per salvare la magia? Possibile che l’arte magica si stia davvero estinguendo in tutto il mondo? C’è un pericolo che minaccia perfino Roke? Io rimarrò qui. Non ritornerò in patria. Preferirei spazzare la sua stanza piuttosto che essere un principe in Enlad. Mi permetterà di rimanere come novizio? Ma forse non ci sarà più l’insegnamento dell’arte magica, nessuno apprenderà più i veri nomi delle cose. Mio padre ha il dono della magia, ma io no: forse si sta spegnendo davvero in tutto il mondo. Eppure vorrei restare accanto a lui, anche se perdesse il suo potere e la sua arte. Anche se non lo vedessi mai. Anche se non mi rivolgesse mai più la parola. Ma l’immaginazione ardente lo trascinò, e lui vide se stesso a faccia a faccia con l’arcimago, ancora una volta, nel cortile sotto l’albero di rowan; e il cielo era buio e l’albero spoglio, e la fontana muta; e lui diceva: — Mio signore, la tempesta sta per investirci, tuttavia io resterò con te e ti servirò… — E l’arcimago gli sorrideva. Ma a questo punto l’immaginazione diveniva impotente, perché lui non aveva visto sorridere quel volto scuro.

Al mattino si alzò: sentiva che, se il giorno innanzi era stato un ragazzo, adesso era un uomo. Era pronto a tutto. Ma quando arrivò l’annuncio, rimase a bocca aperta. — L’arcimago vuole parlare con te, principe Arren — disse un giovanissimo novizio, dalla soglia della cella, e poi attese un istante e scappò via prima che Arren si riprendesse abbastanza per rispondere.

Scese la scala della torre e si avviò per i corridoi di pietra, verso il Cortile della Fontana, senza sapere dove andare. Un vecchio lo incontrò: sorrideva, e rughe profonde gli incidevano le guance dal naso al mento. Era lo stesso che l’aveva ricevuto il giorno innanzi sulla porta della Grande Casa, quando lui era giunto dal porto, e gli aveva imposto di dire il suo vero nome, prima di lasciarlo entrare. Vieni da questa parte — disse il Maestro Portinaio.

Le gallerie e i corridoi di quella parte dell’edificio erano silenziosi: non c’era il chiasso dei ragazzi che animava gli altri punti. Lì si sentiva l’immensa antichità di quelle mura. L’incantesimo da cui erano protette le antiche pietre era palpabile. A intervalli, sulle pareti erano incise rune profondamente intagliate; alcune erano intarsiate in argento. Arren aveva appreso le Rune dell’hardese da suo padre: ma quelle lì erano ignote, anche se gli sembrava che alcune avessero un significato che lui quasi conosceva, o che aveva conosciuto e che non ricordava esattamente.

— Sei arrivato, ragazzo — disse il Portinaio, senza usare titoli come «signore» o «principe». Arren lo seguì in una camera lunga e bassa: da un lato, un fuoco ardeva in un camino di pietra, e le fiamme si riflettevano sul pavimento di quercia, e sul lato opposto le finestre a sesto acuto lasciavano entrare la luce fredda e smorzata dalla nebbia. Davanti al focolare stava un gruppo di uomini. Tutti lo guardarono, al suo ingresso: ma tra tutti, Arren ne vide soltanto uno, l’arcimago. Si fermò e s’inchinò, poi rimase muto.

— Questi sono i Maestri di Roke, Arren — disse l’arcimago. — Sette dei Nove. Il Maestro degli Schemi non lascia il suo Bosco, e il Maestro dei Nomi è nella sua torre, trenta miglia più a nord. Tutti conoscono la ragione che ti ha condotto qui. Signori, questo è il figlio di Morred.

Quella frase non suscitò l’orgoglio nell’animo di Arren, ma solo una specie di timore. Era fiero della sua discendenza, ma si considerava soltanto un erede dei principi, un membro della Casa di Enlad. Morred, il capostipite della dinastia, era morto da duemila anni. Le sue imprese erano leggendarie, e non appartenevano alla realtà presente del mondo. Era come se l’arcimago l’avesse chiamato figlio di un mito, erede dei sogni.

Non osò alzare gli occhi verso i volti degli otto maghi. Fissò il puntale di ferro del bastone dell’arcimago, e si sentì il sangue rombare negli orecchi.

— Vieni, facciamo colazione insieme — disse l’arcimago, e precedette gli altri verso un tavolo, sotto le finestre. C’erano latte e birra acida, pane, burro fresco e formaggio. Arren si sedette insieme ai maghi, e mangiò.

Per tutta la vita aveva frequentato nobili e proprietari terrieri e ricchi mercanti. Affollavano il palazzo di suo padre, a Berila: uomini che possedevano molto, che acquistavano e vendevano molte cose, che erano ricchi delle ricchezze del mondo. Mangiavano carne e bevevano vino e parlavano rumorosamente: molti discutevano, molti adulavano, quasi tutti cercavano di ottenere qualcosa. Benché assai giovane, Arren aveva imparato tante cose sulle consuetudini e le ipocrisie dell’umanità. Ma non si era mai trovato fra uomini come quelli. Mangiavano pane e parlavano poco, e i loro volti avevano espressioni serene. Se aspiravano a qualcosa, non era certo per loro stessi. E tuttavia erano uomini di grande potere: Arren si rendeva conto anche di questo.

Sparviero, l’arcimago, era seduto a capotavola; sembrava che ascoltasse quanto veniva detto, e tuttavia c’era un silenzio intorno a lui, e nessuno gli parlava. Anche Arren veniva lasciato a se stesso; e così aveva avuto il tempo di riprendersi. Alla sua sinistra stava il Portinaio, alla sua destra un uomo dai capelli grigi e dall’espressione benevola, che alla fine gli disse: — Siamo compatrioti, principe Arren. Sono nato nella parte orientale di Enlad, presso la foresta di Aol.

— Sono stato a caccia, in quella foresta — replicò Arren; parlarono un po’ dei boschi e della città dell’isola dei Miti, e Arren si sentì confortato dal ricordo della patria.

Al termine del pasto tornarono a raccogliersi tutti davanti al camino, alcuni in piedi e altri seduti. E ci fu un breve silenzio.

— Questa notte — esordì l’arcimago, — ci siamo riuniti in consiglio. Abbiamo parlato a lungo, ma non siamo pervenuti a una decisione. Ora vorrei sentire la vostra opinione alla luce del giorno, e sapere se confermate o modificate il vostro giudizio.

— Il fatto che non siamo pervenuti a una decisione — disse il Maestro Erborista, un uomo robusto dalla carnagione scura e dagli occhi sereni, — è di per sé un giudizio. Nel Bosco si trovano gli schemi; ma noi non vi abbiamo trovato altro che dissensi.

— Solo perché non siamo riusciti a vedere con chiarezza lo schema — replicò il mago dai capelli grigi originario di Enlad, il Maestro delle Metamorfosi. — Non ne sappiamo abbastanza. Voci da Wathort; notizie da Enlad. Strane notizie, che meritano di essere prese in considerazione. Ma non è il caso di suscitare una grande paura su fondamenta tanto fragili. Il nostro potere non è minacciato solo perché alcuni incantatori hanno dimenticato le formule magiche.

— È quello che dico io — ribatté un uomo magro dagli occhi penetranti, il Maestro della Chiave dei Venti. — Non abbiamo ancora tutti i nostri poteri? Gli alberi del Bosco non crescono e non mettono foglie? Le tempeste del cielo non ubbidiscono alla nostra parola? Chi può temere per l’arte della magia, che è la più antica tra tutte le arti dell’uomo?

— Nessun uomo — disse il Maestro Evocatore, giovane e alto, con la voce profonda e il volto scuro e nobile, — nessun uomo e nessun potere possono legare l’azione della magia e spegnere le parole del potere: perché sono le stesse parole della Creazione, e chiunque potesse farle tacere potrebbe annientare il mondo.

— Sì: e chi fosse in grado di farlo non si troverebbe certo su Wathort o Narveduen — aggiunse il Maestro delle Metamorfosi. — Sarebbe qui, alle porte di Roke, e la fine del mondo sarebbe prossima. Non siamo ancora giunti a tanto.

— Tuttavia c’è qualcosa d’inquietante — osservò un altro, e tutti lo guardarono: solido come uno scrigno di quercia, col petto ampio, sedeva accanto al fuoco, e la sua voce risuonava bassa e pura come la nota di una grande campana. Era il Maestro Cantore. — Dov’è il re che dovrebbe risiedere in Havnor? Roke non è il cuore del mondo. Lo è invece la torre su cui sta la spada di Erreth-Akbe e dove c’è il trono di Serriadh, di Akambar, di Maharion. Da ottocento anni il cuore del mondo è vuoto! Abbiamo la corona, ma non il re che deve portarla. Abbiamo la Runa Perduta, la Runa del Re, la Runa della Pace, che ci è stata restituita: ma abbiamo la pace? Sieda un re sul trono, e allora avremo la pace, e perfino negli stretti più lontani gli incantatori useranno le loro arti con mente serena, e ci saranno ordine e una giusta stagione per tutte le cose.

— Sì — disse il Maestro delle Mani, un uomo esile e svelto, dal portamento modesto ma dagli occhi limpidi e attenti. — Sono d’accordo con te, Cantore. C’è da stupirsi se la magia si smarrisce, quando si smarrisce ogni altra cosa? Se tutto il gregge vaga, la nostra pecora nera resterà presso l’ovile?

A quelle parole il Portinaio rise, ma non disse nulla.

— Quindi — osservò l’arcimago, — siete tutti convinti che non c’è nulla di veramente grave; o che, se c’è, sta nel fatto che le nostre terre sono governate male, o non sono governate affatto, e quindi tutte le arti e le capacità degli uomini risentono dell’abbandono e della negligenza. Su questo sono d’accordo. Infatti, è appunto perché il sud è quasi completamente perduto al commercio pacifico che noi dobbiamo affidarci alle dicerie; e chi ha saputo qualcosa di preciso dallo Stretto Occidentale, se non ciò che ci è giunto da Narveduen? Se le navi andassero e venissero senza pericoli, come un tempo, se le isole di Earthsea fossero unite, potremmo sapere come stanno le cose nei luoghi più remoti, e perciò potremmo agire. E io credo che agiremmo! Infatti, miei signori, quando il principe di Enlad ci dice di aver pronunciato le parole della Creazione in un incantesimo e di non averne compreso il significato mentre le recitava, e quando il Maestro degli Schemi dice che c’è paura alle radici e rifiuta di aggiungere altro, vi sembra che ci siano scarsi motivi di preoccupazione? All’inizio, ogni tempesta è solo una piccola nube all’orizzonte.

— Tu hai una speciale sensibilità per le cose tenebrose, Sparviero — disse il Portinaio. — L’hai sempre avuta. Rivelaci che cosa non va, secondo te.

— Non so. C’è indebolimento del potere. C’è una mancanza di decisione. Il sole si sta affievolendo. Io sento, miei signori… ho la sensazione che tutti noi siamo mortalmente feriti, e che mentre continuiamo a parlare il nostro sangue ci defluisca a poco a poco dalle vene…

— E tu vorresti alzarti e agire.

— Lo vorrei — disse l’arcimago.

— Ebbene — concluse il Portinaio, — i gufi possono forse impedire al falco di volare?

— Ma dove vorresti andare? — chiese il Maestro delle Metamorfosi, e il Cantore gli rispose: — A cercare il nostro re e a condurlo sul suo trono.

L’arcimago lanciò al Cantore un’occhiata penetrante, ma si limitò a replicare: — Io vorrei andare dove stanno le difficoltà.

— A sud o a ovest — disse il Maestro della Chiave del Vento.

— E a nord e a est, se è necessario — aggiunse il Portinaio.

— Ma la tua presenza è necessaria qui, mio signore — osservò il Maestro delle Metamorfosi. — Anziché andare in cerca, alla cieca, tra popoli ostili, su mari sconosciuti, non sarebbe più saggio rimanere qui, dove la magia è forte, e scoprire con le tue arti cos’è questo maleficio o questa perturbazione?

— Le mie arti non mi servono a nulla — rispose l’arcimago. Il tono della sua voce indusse tutti gli altri a fissarlo, seri e irrequieti. — Io sono il Custode di Roke. Non posso lasciare Roke a cuor leggero. Vorrei che la vostra opinione e la mia concordassero: ma per ora, questo non posso sperarlo. Devo essere io, a decidere; e devo andare.

— Ci inchiniamo al tuo giudizio — disse l’Evocatore.

— E andrò solo. Voi siete il Consiglio di Roke, e il Consiglio non deve dividersi. Tuttavia condurrò con me qualcuno, se vorrà venire. — L’arcimago guardò Arren. — Ieri mi hai offerto i tuoi servigi. Questa notte il Maestro degli Schemi ha detto: «Nessun uomo giunge per caso sulle spiagge di Roke. Non è un caso se un figlio di Morred è il latore di questa notizia». E non ci ha detto altro, per tutta la notte. Perciò io ti domando, Arren: vuoi venire con me?

— Sì, mio signore — rispose Arren, con la gola arida.

— Il principe tuo padre, senza dubbio, non vorrebbe che ti avventurassi tra i pericoli — osservò il Maestro delle Metamorfosi, in tono piuttosto brusco; e quindi, rivolgendosi all’arcimago, aggiunse: — Il ragazzo è troppo giovane, e non è stato istruito nella magia.

— Io ho abbastanza anni e incantesimi da bastare per entrambi — disse Sparviero, in tono asciutto. — Arren, cosa ne penserebbe tuo padre?

— Mi lascerebbe andare.

— Come puoi saperlo? — chiese l’Evocatore.

Arren non sapeva dove gli veniva chiesto di andare, né quando, né perché. Era frastornato e intimidito da quegli uomini seri, onesti, terribili. Ma non aveva avuto il tempo di riflettere, e l’arcimago gli aveva chiesto «Vuoi venire con me?».

— Quando mio padre mi ha mandato qui, mi ha detto: «Temo che per il mondo stia arrivando un tempo oscuro, un tempo di pericolo. Perciò invio te, anziché un altro messaggero, perché tu potrai giudicare se dobbiamo chiedere l’aiuto dell’isola dei Saggi, o se dobbiamo offrire loro l’aiuto di Enlad». Quindi, se c’è bisogno di me, io sono qui.

E allora vide l’arcimago sorridere. C’era una grande dolcezza in quel sorriso, sebbene fosse breve. — Capite? — chiese ai sette maghi. — L’età e la magia potrebbero forse aggiungere qualcosa?

Allora Arren sentì che lo stavano guardando con aria di approvazione, e tuttavia con un’espressione pensierosa o stupita. L’Evocatore parlò, distendendo in un cipiglio dubbioso le sopracciglia arcuate. — Non comprendo, mio signore. Che tu sia deciso ad andare, sì. Sei rimasto ingabbiato qui per cinque anni. Ma prima sei sempre stato solo; hai sempre viaggiato solo. Perché adesso decidi di sceglierti un compagno?

— Prima non avevo mai avuto bisogno di aiuto — rispose Sparviero, con una sfumatura di minaccia o d’ironia nella voce. — E ho trovato un degno compagno. — C’era un alone di pericolosità, intorno a lui, e l’Evocatore non gli rivolse altre domande, sebbene rimanesse ancora accigliato.

Ma il Maestro Erborista, con gli occhi sereni come un bue saggio e paziente, si levò dal seggio, alto e monumentale. — Va’, mio signore — disse, — e porta con te il ragazzo. E tutta la nostra fiducia ti accompagna.

A uno a uno, gli altri diedero il loro assenso, quietamente, e poi si ritirarono, finché rimase soltanto l’Evocatore. — Sparviero — iniziò, — non intendo porre in discussione il tuo giudizio. Dico soltanto questo: se tu hai ragione, se c’è uno squilibrio, se c’è pericolo di un grande male, allora andare a Wathort, o nello Stretto Occidentale, o alla fine del mondo, non sarà sufficiente. Dovunque dovrai andare, puoi portare con te questo compagno? È giusto, nei suoi confronti?

Erano un po’ in disparte da Arren, e l’Evocatore aveva abbassato la voce, ma l’arcimago parlò apertamente: — È giusto.

— Tu non mi stai dicendo tutto quello che sai — obiettò l’Evocatore.

— Se sapessi, parlerei. Non so nulla. Intuisco molte cose.

— Permettimi di venire con te.

— Qualcuno deve difendere le porte.

— A questo provvede il Portinaio…

— Non soltanto le porte di Roke. Rimani qui, e osserva il levar del sole, per vedere se è fulgido, e veglia al muro di pietre, per vedere coloro che lo varcano e dove tengono rivolta la faccia. C’è una breccia, Thorion, c’è una breccia, una ferita: ed è questa, che io andrò a cercare. Se mi perderò, forse allora la scoprirete. Ma attendi. Ti chiedo di attendermi. — Adesso l’arcimago parlava nella Vecchia Lingua, il linguaggio della Creazione, che serve a gettare tutti i veri incantesimi e su cui si basano tutti i grandi atti della magia, ma raramente viene usata per conversare, se non fra i draghi. L’Evocatore non discusse più, non protestò, ma chinò la testa per congedarsi dall’arcimago e da Arren, e uscì.

Il fuoco crepitava nel camino. Non c’erano altri suoni. Oltre le finestre si addensava la nebbia, fosca e informe.

L’arcimago fissò le fiamme, come se avesse dimenticato la presenza di Arren. Il ragazzo stava a una certa distanza dal focolare; e non sapeva se doveva accomiatarsi o attendere di essere congedato: indeciso e un po’ mesto, si sentiva una figura minuscola in un vertiginoso spazio cupo e sconfinato.

— Andremo anzitutto a Città Hort — disse Sparviero, voltando le spalle al fuoco. — Là giungono notizie da tutto lo Stretto Meridionale, e potremo trovare un indizio. La tua nave attende ancora nella baia. Parla al capitano: digli di portare l’annuncio a tuo padre. Credo che dovremo partire al più presto possibile. Domani, allo spuntar del giorno. Vieni alla scalinata della darsena coperta.

— Mio signore, che cosa… — La voce de ragazzo s’inceppò per un momento. — Che cosa cerchi?

— Non lo so, Arren.

— Allora…

— Allora come lo cercherò? Non so neppure questo. Forse sarà quella cosa sconosciuta, a cercare me. — L’arcimago rivolse ad Arren un lieve sorriso ironico, ma alla grigia luce delle finestre il suo volto sembrava modellato nel ferro.

— Mio signore — disse Arren, e adesso il suo tono era fermo, — è vero che io discendo dalla dinastia di Morred, se si può prestar fede a una genealogia tanto antica. E se potrò servirti, lo riterrò il più grande onore della mia vita, e non c’è nulla che potrebbe essermi più gradito. Ma temo che tu mi attribuisca assai più importanza di quanta ne merito.

— Forse.

— Io non possiedo grandi doni o grandi facoltà. So tirare di scherma con la spada corta e con la spada nobile. So governare una barca. Conosco le danze di corte e i balli campagnoli. So sedare un litigio tra cortigiani. Conosco la lotta. Sono un arciere mediocre, e sono abile nel gioco della pallarete. So cantare e suonare l’arpa e il liuto. Ed è tutto. Non c’è altro. Come potrò esserti utile? Il Maestro Evocatore ha ragione…

— Ah, te ne sei accorto, non è vero? È ingelosito. Vanta il privilegio di una devozione più antica.

— E ben altre capacità, mio signore.

— Allora preferiresti che fosse lui ad accompagnarmi, e che io ti lasciassi qui?

— No! Ma terno…

— Che cosa temi?

Gli occhi del ragazzo s’inondarono di lacrime. — Temo di deluderti.

L’arcimago si girò di nuovo verso il fuoco. — Siediti, Arren — disse, e il ragazzo andò a mettersi sul sedile di pietra all’angolo del camino. — Non ti ho scambiato per un mago o un guerriero, o per qualcosa di compiuto. Non lo so cosa sei, ma sono lieto di sapere che sai governare una barca… Ciò che sarai in avvenire, nessuno lo sa. Ma so questo: tu sei il figlio di Morred e di Serriadh.

Arren tacque a lungo. — È vero, mio signore — disse infine. — Ma… — L’arcimago rimase in silenzio, e lui fu costretto a terminare la frase: — Ma io non sono Morred. Sono soltanto me stesso.

— Non sei fiero della tua discendenza?

— Sì, ne sono fiero… perché fa di me un principe; è una responsabilità, qualcosa di cui devo essere degno…

L’arcimago annuì, bruscamente. — È appunto ciò che intendevo. Negare il passato è negare il futuro. Un uomo non può creare il proprio destino: lo accetta o lo rinnega. Se le radici del rowan sono poco profonde, non ha una chioma fronzuta. — A questo punto Arren alzò gli occhi, stupito, perché il suo vero nome, Lebannen, era quello dell’albero di rowan. Ma l’arcimago non aveva detto il suo nome. — Le tue radici sono profonde — proseguì. — Possiedi forza, e devi avere spazio, molto spazio per crescere. Perciò, invece di un tranquillo viaggio di ritorno a Enlad, ti offro un viaggio insicuro, verso una meta sconosciuta. Non è necessario che tu venga: la scelta spetta a te. Ma io te la offro. Perché sono stanco di luoghi sicuri, e di tetti e di muri che mi imprigionano. — S’interruppe bruscamente, guardandosi intorno con gli occhi penetranti come se non vedesse nulla. Arren lesse la sua inquietudine profonda, e ne ebbe paura. Tuttavia la paura acuisce l’esaltazione: e con un tuffo al cuore disse: — Mio signore, scelgo di venire con te.

Arren lasciò la Grande Casa col cuore e la mente colmi di stupore. Si ripeteva che era felice, ma gli sembrava che quella non fosse la parola più adatta. Si ripeteva che l’arcimago aveva visto in lui un uomo forte, un uomo del destino, e che lui era orgoglioso di quella lode. Perché no? Il mago più potente del mondo gli aveva detto «Domani salperemo per giungere alla fine del mondo», e lui aveva annuito e accettato: non doveva provare un senso di fierezza? E invece non la provava: provava solo stupore.

Scese le ripide e tortuose vie di Città Thwil, trovò al molo il capitano della sua nave e gli disse: — Domani partirò con l’arcimago, per recarmi a Wathort e allo Stretto Meridionale. Di’ al principe mio padre che quando avrò terminato questo servizio tornerò a casa, a Berila.

Il capitano della nave si oscurò in volto. Sapeva come sarebbe stato ricevuto dal principe di Enlad il latore di quella notizia. — È necessario che io abbia un messaggio scritto di tuo pugno, principe — disse. Arren riconobbe che la richiesta era giusta, e si affrettò ad allontanarsi poiché sentiva che doveva provvedere a tutto con sollecitudine. Trovò uno strano negozietto dove acquistò un pezzo d’inchiostro solido, un pennello, e un foglio di carta morbida, spessa come il feltro; poi ritornò subito al molo, e si sedette su un pontile a scrivere ai genitori. Quando pensò a sua madre che stringeva quel pezzo di carta e leggeva le sue parole, si sentì prendere dalla tristezza. Lei era una donna calma e paziente, ma Arren sapeva di essere lui la base della sua serenità, sapeva che attendeva con ansia il ritorno del figlio. Non immaginava come avrebbe potuto consolarla per la lunga assenza. La missiva era breve e asciutta. Firmò con la runa della spada, sigillò la lettera con un po’ di pece presa da un calderone vicino, e la consegnò al capitano della nave. Poi gli disse «Aspetta!», come se la nave fosse pronta a salpare in quell’istante, e tornò di corsa per le viuzze selciate fino alla strana botteguccia. Stentò a trovarla, perché le vie di Thwil sembravano dotate di un bizzarro carattere mutevole: quasi gli pareva che le svolte fossero sempre diverse. Finalmente trovò la strada giusta ed entrò svelto nel negozio, passando sotto i fili di perle d’argilla rossa che ne ornavano l’ingresso. Quando era andato lì ad acquistare carta e inchiostro aveva notato, su un vassoio di fibbie e di spille, una spilla d’argento che aveva la forma di una rosa selvatica: e sua madre si chiamava Rosa. — La compro — disse, con quel suo fare sbrigativo e principesco.

— È opera di antichi argentieri dell’isola di O. Vedo che sei un intenditore — replicò il mercante, guardando l’elsa (ma non il bellissimo fodero) della sua spada. — Costa quattro pezzi d’avorio.

Arren pagò senza discutere quel prezzo piuttosto alto: aveva nella borsa parecchi dei contrassegni d’avorio che nelle Terre Interne vengono usati come monete. L’idea d’inviare un dono a sua madre gli piaceva; l’atto di acquistarlo lo soddisfece; e quando uscì dalla bottega si portò la mano sul pomo della spada, con aria un po’ baldanzosa.

Suo padre gli aveva dato quella spada alla vigilia della partenza da Enlad. Arren l’aveva ricevuta solennemente e l’aveva portata perfino a bordo della nave, come se fosse stato un dovere. Era orgoglioso di sentirne il peso alla cintura, e di sentire nello spirito il peso della grande antichità di quell’arma. Perché quella era la spada di Serriadh, figlio di Morred e Elfarran: non ce n’era al mondo un’altra più antica eccettuata la spada di Erreth-Akbe, collocata al culmine della Torre dei Re, a Havnor. La spada di Serriadh non era mai stata riposta o rinchiusa in una stanza del tesoro; era sempre stata portata; tuttavia non era rimasta intaccata dall’usura dei secoli, né indebolita poiché era stata forgiata con un grande potere d’incantamento. La sua storia narrava che non era mai stata sguainata, e che non si poteva sguainarla se non al servizio della vita. Non si sarebbe lasciata impugnare per uno scopo ispirato dalla sete di sangue o dalla vendetta o dall’avidità, o in una guerra che avesse fini di lucro. Arren doveva il proprio nome abituale a quell’arma, che era il tesoro della sua famiglia: da bambino era stato chiamato Arrendek, «piccola spada».

Non aveva mai usato la spada, né l’aveva usata suo padre, né il padre di suo padre. Da molto tempo c’era pace, a Enlad.

E adesso, nella via della città sconosciuta dell’isola dei Maghi, l’impugnatura della spada gli sembrò estranea, quando la toccò. Era un impaccio per la sua mano, e fredda. L’arma pesante gli intralciava il passo, lo faceva rallentare. E lo stupore che aveva provato era ancora in lui, ma si era raffreddato. Ritornò al molo, consegnò al capitano la spilla per sua madre, lo salutò e gli augurò un felice viaggio di ritorno. Quando si girò per allontanarsi coprì col mantello il fodero che racchiudeva l’antica arma, la lama mortale da lui ereditata. Non si sentiva più baldanzoso. — Che cosa sto facendo? — si chiese, mentre saliva per le strette viuzze, senza più affrettarsi, diretto verso la fortezza della Grande Casa, torreggiante al di sopra della città. — Perché non faccio ritorno in patria? Perché vado in cerca di qualcosa che non comprendo, in compagnia di un uomo che non conosco?

E non sapeva quali risposte dare a quegli interrogativi.

CITTÀ HORT

Nell’oscurità che precede l’alba, Arren indossò gli abiti che gli erano stati consegnati (indumenti da marinaio, lisi ma puliti) e percorse a passo svelto i silenziosi corridoi della Grande Casa fino alla porta orientale, scolpita nel corno e nei denti di drago. Il Portinaio lo lasciò uscire e gli indicò la strada che doveva prendere, con un lieve sorriso. Arren seguì la più alta via della città, e poi un sentiero che conduceva alle darsene coperte della Scuola, a sud, lungo la riva della baia, oltre i moli di Thwil. Riusciva appena a distinguere il cammino. Gli alberi, i tetti, i colli grandeggiavano come masse indistinte nell’oscurità; l’aria buia era immobile e molto fredda; ogni cosa taceva, e sembrava tenersi isolata e nascosta. Solo sopra il mare scuro, verso oriente, c’era una fioca linea di chiarore: l’orizzonte, che s’inclinava fuggevolmente verso l’invisibile sole.

Arren raggiunse la scalinata della darsena coperta. Non c’era nessuno, niente si muoveva. Stava abbastanza caldo, nell’ingombrante giubba da marinaio e nel berretto di lana; ma rabbrividì mentre attendeva, sui gradini di pietra, nell’oscurità.

Le darsene coperte spiccavano nere sopra l’acqua nera: e all’improvviso ne venne un suono cupo e cavernoso, un tonfo tonante, ripetuta tre volte. Arren si sentì rizzare i capelli in testa. Una lunga ombra scivolò silenziosa sull’acqua. Era una barca, che avanzava verso il pontile senza far rumore. Arren scese di corsa i gradini fino al molo e saltò a bordo.

— Prendi il timone — disse l’arcimago, una figura agile e buia a prora. — E tieni salda la barca, mentre io alzo la vela.

Erano già fuori, sull’acqua, e la vela si apriva dall’albero come un’ala bianca, cogliendo la luce via via più viva. — Un vento dell’ovest per risparmiarci la fatica di uscire a remi dalla baia: è il dono di commiato del Maestro della Chiave dei Venti, senza dubbio. Sta’ attento, ragazzo: la barca è leggera, e vira facilmente. Così. Un vento dell’ovest e un’aurora serena per il Giorno dell’Equilibrio di primavera.

— Questa barca è la famosa Vistacuta? — Arren aveva sentito parlare della barca dell’arcimago, in canti e leggende.

— Sì — rispose l’altro, trafficando con le sartie. La barca sgroppava e virava, mentre il vento si rinforzava; Arren strinse i denti e cercò di tenerla in rotta.

— Vira facilmente, mio signore, ma sembra animata da una volontà propria.

L’arcimago rise. — Lasciala fare: anche lei è saggia. Ascolta, Arren — disse, e s’interruppe, inginocchiandosi e fissando Arren. — Adesso io non sono un signore, e tu non sei un principe. Io sono un mercante, di nome Falco, e tu sei mio nipote, di nome Arren, e viaggi con me per imparare a navigare; e veniamo da Enlad. Da quale città? Una piuttosto grande, nell’eventualità che incontriamo un concittadino.

— Temere, sulla costa meridionale? I suoi abitanti commerciano in tutti gli stretti.

L’arcimago annuì.

— Ma — disse cautamente Arren, — tu non hai l’accento di Enlad.

— Lo so. Ho l’accento di Gont — replicò il suo compagno; e rise, alzando gli occhi verso l’oriente che si rischiarava. — Ma credo di poter prendere a prestito da te ciò che mi serve. Dunque, noi veniamo da Temere, con la nostra barca, Delfino, e io non sono un signore né un mago né Sparviero, ma… come mi chiamo?

— Falco, mio signore.

Poi Arren si morse la lingua.

— Pratica, nipote — disse l’arcimago. — Ci vuole pratica. Tu non sei mai stato altro che un principe. Io, invece, sono stato molte cose, e per ultima, forse la meno importante, anche arcimago… Andiamo a sud, a cercare pietre emmel, quelle cose azzurre da cui si ricavano amuleti. So che in Enlad le pagano bene. Ne ricavano talismani contro i reumatismi, le slogature, i torcicollo e gli inceppamenti della lingua.

Dopo un istante Arren rise; e quando alzò la testa, la barca si sollevò su un’onda lunga e lui vide l’orlo del sole contro l’orlo dell’oceano: un bagliore dorato e improvviso, davanti a loro.

Sparviero stava ritto, con una mano sull’albero, perché la piccola barca balzava sulle onde convulse, e salmodiò rivolgendosi all’aurora dell’equinozio di primavera. Arren non conosceva la Vecchia Lingua, la lingua dei maghi e dei draghi: ma udiva lodi ed esultanza in quelle parole, che avevano un ritmo grandioso come quello delle maree o dell’equilibrio dei giorni e delle notti in eterna successione. I gabbiani gridavano nel vento, e le spiagge della baia di Thwil scivolavano via a destra e a sinistra: si addentrarono sulle lunghe onde luminose del mare Interno.

Da Roke a Città Hort non è un gran tragitto; ma trascorsero tre notti in mare. L’arcimago aveva dimostrato una gran fretta di partire, ma adesso era più che paziente. I venti divennero contrari appena loro si allontanarono dalla cerchia di clima incantato che attorniava Roke; ma lui non evocò un vento magico nella loro vela, come avrebbe fatto qualunque incantatore; invece, per ore e ore, insegnò ad Arren come guidare la barca in un vento avverso e costante, nel mare irto di scogli a est di Issel. La seconda notte cadde la fredda e sferzante pioggia di marzo, ma lui non recitò incantesimi per tenerla lontana. La notte seguente, mentre stavano all’esterno dell’entrata di Porto Hort, in una calma oscurità fredda e nebbiosa, Arren rifletté e notò che l’arcimago, nel breve tempo trascorso da quando l’aveva incontrato, non aveva compiuto nessuna magia.

Tuttavia era un marinaio impareggiabile. In quei tre giorni di navigazione insieme a lui, Arren aveva imparato di più che nei dieci anni di gare e di svaghi sulla baia di Berila. E mago e marinaio, in fondo, non sono poi tanto diversi: entrambi operano con i poteri del cielo e del mare, e usano i grandi venti per avvicinare ciò che è remoto. Arcimago, o Falco il mercante del mare: era più o meno la stessa cosa.

Era un uomo piuttosto taciturno, sebbene si mostrasse sempre cordiale e bonario. Le goffaggini di Arren non l’irritavano; era cameratesco, e sarebbe stato impossibile immaginare un compagno migliore, pensava Arren. Ma l’arcimago sprofondava nei suoi pensieri, e taceva per ore e ore, e poi, quando parlava, aveva una certa asprezza nella voce e guardava Arren come se non lo vedesse. Questo non smorzava l’affetto che il ragazzo provava per lui, ma forse ne sminuiva un po’ la simpatia: gli incuteva un certo timore. Forse anche Sparviero se ne rendeva conto, perché in quella notte di nebbia, al largo delle rive di Wathort, cominciò a parlare con Arren di se stesso, a frasi spezzate. — Non voglio andare tra gli uomini, domani — disse. — Ho finto di essere libero… Ho finto di credere che nel mondo non ci sia nulla d’insolito; che io non sono l’arcimago, e neppure un incantatore. Che sono Falco di Temere, senza responsabilità né privilegi, e che non devo niente a nessuno… — S’interruppe; dopo una lunga pausa, continuò: — Cerca di scegliere con cura, Arren, quando è necessario compiere le grandi scelte. Quando ero giovane, dovetti scegliere tra la vita dell’essere e la vita del fare. E mi avventai su quest’ultima, come una trota su una mosca. Ma ogni azione che compi, ogni atto, ti lega a sé e alle sue conseguenze, e ti costringe ad agire e ad agire ancora. E allora, solo raramente incontri la paura, un tempo come questo, tra un’azione e l’altra, quando puoi fermarti e limitarti a essere. O a domandarti chi sei, dopotutto.

Come poteva un uomo come quello, si chiese Arren, avere dubbi su chi era e cos’era? Aveva pensato che dubbi simili fossero riservati ai giovani che ancora non avevano fatto nulla.

La barca ondeggiava nella grande oscurità fresca.

— Per questo mi piace il mare — disse nel buio la voce di Sparviero.

Arren lo comprendeva; ma i suoi pensieri correvano lontano, com’era sempre avvenuto in quei tre giorni e in quelle tre notti, verso la loro ricerca, lo scopo del loro viaggio. E poiché, finalmente, il suo compagno sembrava disposto a parlare, chiese: — Credi che a Città Hort troveremo ciò che cerchiamo?

Sparviero scrollò la testa, forse per rispondere di no o forse per indicare che non lo sapeva.

— Non potrebbe essere una specie di pestilenza, un’epidemia, che passa di terra in terra devastando le messi e gli armenti e gli spiriti degli uomini?

— Una pestilenza è un movimento del grande equilibrio: questo è diverso. Ha in sé il lezzo del male. Forse ne soffriremo, quando l’equilibrio delle cose si ristabilirà; ma non perdiamo la speranza, non rinunciamo all’arte e non dimentichiamo le parole della Creazione. La natura non è innaturale. Questo non è un assestamento dell’equilibrio, bensì una perturbazione. C’è una sola specie di esseri che può farlo.

— Un uomo? — chiese incerto Arren.

— Noi uomini.

— In che modo?

— Con uno smisurato desiderio di vita.

— Di vita? Ma cosa c’è di male nel desiderio di vivere?

— Nulla. Ma quando aspiriamo al potere sulla vita, a ricchezze infinite, sicurezza inattaccabile, immortalità… allora il desiderio diventa avidità. E se la conoscenza si allea alla cupidigia, sopravviene il male. Allora l’equilibrio del mondo è turbato, e la rovina piomba sui piatti della bilancia.

Arren rifletté per qualche istante, e poi chiese: — Allora tu credi che sia un uomo, quello che cerchiamo?

— Un uomo e un mago. Sì.

— Ma avevo pensato, in base a quanto mi avevano insegnato mio padre e i miei maestri, che le grandi arti della magia dipendessero dall’Equilibrio delle cose e perciò non si potessero usare per scopi malefici.

— Questa — disse Sparviero, in tono piuttosto ironico, — è un’affermazione discutibile. Infinite sono le discussioni dei maghi… Ogni isola di Earthsea conosce streghe che gettano sortilegi immondi, incantatori che usano la loro arte per ottenere ricchezze. Ma c’è di più. Il Signore del Fuoco, che cercò di sconfiggere la tenebra e di arrestare il sole al meriggio, era un grande mago; perfino Erreth-Akbe avrebbe incontrato difficoltà a sconfiggerlo. Anche il Nemico di Morred era così. Dovunque andasse, intere città si prosternavano davanti a lui; per lui combattevano gli eserciti. L’incantesimo che intessé contro Morred era così potente che non fu possibile arrestarlo neppure quando lui venne ucciso e l’isola di Soléa fu sopraffatta dal mare e tutto ciò che vi si trovava perì. Quelli furono uomini in cui la grande forza e la grande sapienza servivano il male e se ne alimentavano. Non sappiamo se la magia al servizio del bene possa sempre rivelarsi più forte. Ci limitiamo a sperarlo.

È piuttosto avvilente trovare la speranza quando ci si attende la certezza. Arren non era disposto a rimanere a lungo su quelle vette gelide. Dopo un po’ disse: — Capisco perché tu affermi che solo gli uomini operano il male. Perfino gli squali sono innocenti: uccidono perché devono farlo.

— È per questo che null’altro può resisterci. Una sola cosa al mondo può opporsi a un uomo dal cuore malvagio: ed è un altro uomo. Nella nostra vergogna sta la nostra gloria. Solo il nostro spirito, che è capace di creare il male, è capace di sconfiggerlo.

— Ma i draghi — disse Arren, — non operano grandi mali. Anche loro sono innocenti?

— I draghi! I draghi sono avidi, insaziabili, infidi, spietati, privi di scrupoli. Ma sono malvagi? Chi sono, io, per poter giudicare le azioni dei draghi?… Sono più sapienti degli uomini. In un certo senso sono come i sogni, Arren. Noi uomini facciamo sogni, operiamo la magia, compiamo il bene, compiamo il male. I draghi non sognano. Sono sogni loro stessi. Non operano la magia: è la loro sostanza, la loro essenza. I draghi non fanno: sono.

— A Serilune — disse Arren, — c’è la pelle di Bar Oth, ucciso da Keor, principe di Enlad, trecento anni orsono. Da quel giorno, nessun drago si è più avventurato fino a Enlad. Ho visto la pelle di Bar Oth. È pesante come ferro, e così grande che, spiegata, coprirebbe l’intera piazza del mercato di Serilune, a quanto dicono. I denti sono lunghi quanto il mio avambraccio. Eppure dicono che Bar Oth era un drago giovane e non aveva ancora finito di crescere.

— Tu desideri vedere i draghi.

— Sì.

— Hanno il sangue freddo e velenoso. Non devi guardarli negli occhi. Sono più antichi dell’umanità… — Sparviero rimase in silenzio per lunghi istanti, e poi proseguì: — E anche se giungessi a dimenticare tutto ciò che ho fatto, o a pentirmene, ricorderei comunque che una volta ho visto i draghi in volo nel vento, al tramonto, sopra le isole occidentali, e ne sarei contento.

Tacquero, e non ci fu altro suono che il mormorio dell’acqua contro la chiglia della barca; e non c’era luce. E così finalmente, là sulle acque profonde, dormirono.

Nella luminosa foschia del mattino entrarono in Porto Hort, dove cento imbarcazioni stavano ammarrate o si accingevano a partire: pescherecci, barche per la raccolta dei granchi o la pesca a strascico, mercantili, due galee a venti remi, una grande galea a sessanta remi in pessime condizioni, e alcune agili e lunghe navi dalle alte vele triangolari, ideate per cogliere il vento nelle afose bonacce dello Stretto Meridionale: — Quella è una nave da guerra? — chiese Arren mentre incrociavano una delle galee a venti remi, e il suo compagno rispose: — Una nave di mercanti di schiavi, a giudicare dalle catene nella stiva. Vendono uomini nello Stretto Meridionale.

Arren rifletté un attimo, poi andò alla cassa degli attrezzi e ne estrasse la spada, che la mattina della partenza aveva riposto dopo averla avviluppata con cura. La scoprì; poi rimase indeciso, con la lama inguainata nelle mani e la cintura penzoloni.

— Non è una spada da mercante — disse. — Il fodero è troppo lussuoso.

Sparviero, occupato a governare il timone, gli lanciò un’occhiata. — Portala, se vuoi.

— Pensavo che fosse più saggio.

— Anche quella spada è saggia — disse l’arcimago, con gli occhi fissi sui varchi che si aprivano nella baia affollata. — Non è forse vero che non ama essere usata?

Arren annuì. — Così dicono. Eppure ha ucciso. Ha ucciso uomini. — Abbassò lo sguardo sull’elsa sottile e un po’ consunta. — Ma io no. Mi fa sentire molto sciocco. È troppo più vecchia di me… Prenderò il mio coltello — concluse. Avvolse di nuovo la spada e la ripose nella cassa. Aveva un’espressione perplessa e irata. Sparviero non disse nulla, per qualche istante, poi chiese: — Adesso vuoi prendere i remi, ragazzo? Siamo diretti verso il pontile, là vicino alla scala.

Città Hort, uno dei sette grandi porti dell’arcipelago, saliva dai moli rumorosi su per le pendici di tre ripide colline, in un groviglio di colori. Le case erano d’argilla e intonacate di rosso, arancione, giallo e bianco; i tetti erano di tegole purpuree; gli alberi di pendick in fiore formavano masse rossoscure lungo le strade più alte. Tendoni a strisce vivaci si stendevano da un tetto all’altro, ombreggiando le strette piazze del mercato. I moli erano illuminati dal sole; le vie che si allontanavano dal porto erano fenditure buie, piene di ombre e di gente e di chiasso.

Quando ebbero ammarrato la barca, Sparviero si chinò a fianco di Arren, come per controllare il nodo, e disse: — Arren, a Wathort c’è gente che mi conosce piuttosto bene; perciò guardami, in modo da potermi riconoscere. — Quando si raddrizzò, la sua guancia non era più sfigurata dalla cicatrice. Aveva i capelli grigi, il naso grosso e piuttosto rincagnato; e invece di un bastone di tasso alto quanto lui, portava una bacchetta d’avorio, che nascose dentro la camicia. — Mi riconosci? — chiese ad Arren con un ampio sorriso, parlando con l’accento di Enlad. — Avevi mai visto tuo zio così?

Arren aveva visto molti incantatori, alla corte di Berila, mutare volto quando mimavano le Gesta di Morred, e sapeva che era soltanto illusione; non perse la calma e riuscì a rispondere: — Oh, sì, zio Falco!

Ma mentre il mago contrattava con un guardiano del porto la tariffa per l’attracco e la custodia della barca, Arren continuava a guardarlo per essere sicuro di riconoscerlo. E mentre lo guardava, la metamorfosi lo turbava di più, non di meno. Era troppo completa: quello non era l’arcimago, non era un capo, una saggia guida… La tariffa pretesa dal guardiano era alta, e Sparviero pagò borbottando e si allontanò con Arren continuando a borbottare. — Una dura prova per la mia pazienza — disse. — Pagare quel ladro per custodire la mia barca quando mezzo incantesimo avrebbe fatto molto meglio! Bene, questo è il prezzo del travestimento… E ho dimenticato il dovuto linguaggio, non è vero, nipote?

Stavano camminando per un’affollata via colorata e puzzolente, fiancheggiata da botteghe poco più grandi di chioschetti; i proprietari stavano sulle soglie tra mucchi e festoni di mercanzie, proclamando a gran voce la bellezza e la convenienza di pentole, calze, cappelli, badili, spilloni, borse, bricchi, canestri, attizzatoi, coltelli, corde, catenacci, lenzuola, e ogni altro tipo di merce.

— È una fiera?

— Eh? — chiese l’uomo dal naso rincagnato, piegando la grigia testa.

— È una fiera, zio?

— Una fiera? No, no. C’è mercato tutto l’anno, qui. Tieniti pure le focacce di pesce, padrona, ho già fatto colazione! — E Arren cercò di togliersi di torno un uomo con un vassoio carico di vasetti d’ottone che lo seguiva piagnucolando: — Compra, prova, bel padroncino, non ti deluderanno, un alito dolce come le rose di Numima, attirerà le donne, prova, giovane signore del mare, giovane principe…

Subito Sparviero si mise di mezzo fra Arren e il venditore ambulante, chiedendo: — Che amuleti sono?

— Non sono amuleti! — gemette l’uomo, arretrando. — Io non vendo amuleti, signore del mare! Soltanto sciroppi che addolciscono l’alito dopo le bevande e le racidi di hazia… soltanto sciroppi, grande principe! — Si rannicchiò sul lastricato, e il vassoio con i vasetti tintinnò, e alcuni dei minuscoli recipienti s’inclinarono facendo traboccare dall’orlo un po’ del contenuto: una sostanza viscosa, rosea o purpurea.

Sparviero gli voltò le spalle senza pronunciare una parola e proseguì insieme ad Arren. Ben presto la folla si diradò e le bottegucce divennero sempre più povere e squallide, simili a canili: si esibivano come mercanzie una manciata di chiodi storti, un pestello rotto, un vecchio pettine da cardatore. Quella miseria infastidiva Arren assai meno del resto; all’estremità più ricca della strada si era sentito soffocato e nauseato dalla pressione degli oggetti in vendita e dalle voci che gli gridavano di comprare. E l’abiezione del venditore ambulante l’aveva sconvolto. Pensò alle strade fresche e luminose della sua città nordica. A Berila, pensò, nessuno si sarebbe umiliato in quel modo davanti a uno straniero. — È un popolo immondo! — disse.

— Da questa parte, nipote — fu l’unica replica del suo compagno. Svoltarono in un vicolo tra alti muri rossi, senza finestre, che correva lungo il fianco della collina e passava attraverso un arco inghirlandato da striscioni putrefatti, per uscire di nuovo nel sole su una piazza in forte pendenza: un altro mercato, affollato di chioschi e baracchette e brulicante di gente e di mosche.

Intorno alla piazza c’erano uomini e donne in gran numero, seduti o sdraiati, immobili. Le bocche erano stranamente nerastre, come illividite da percosse, e intorno alle labbra le mosche sciamavano come grappoli di ribes secco.

— Quanti sono! — disse la voce di Sparviero, bassa e concitata come se anche lui fosse turbato da quello spettacolo; ma quando Arren lo guardò, vide solo la faccia ottusa e placida del gioviale mercante Falco, per nulla preoccupata.

— Cos’ha quella gente?

— Hazia. Acquieta e intorpidisce, e libera il corpo dalla mente. E la mente vaga, senza intralci. Ma quando ritorna al corpo, ha bisogno di altra hazia… e il bisogno cresce, e la vita si abbrevia, perché quella roba è veleno. Dapprima viene il tremito, e poi la paralisi, e infine sopravviene la morte.

Arren guardò una donna, seduta col dorso appoggiato a un muro caldo di sole: aveva levato la mano come per scacciare le mosche dalla faccia, ma quella mano compiva nell’aria un movimento circolare e sussultante come se lei l’avesse dimenticata e la muovesse solo per slancio della paralisi o del tremito dei muscoli. Il gesto era come un incantesimo svuotato da ogni intenzione, un sortilegio privo di significato.

Falco la stava guardando, impassibile. — Vieni via! — disse.

Attraversò la piazza del mercato, dirigendosi verso un chiosco ombreggiato da un telone. Strisce di luce solare colorate di verde, d’arancione, di limone, di cremisi e di celeste cadevano sulle stoffe e gli scialli e le cinture messi in mostra, e danzavano moltiplicandosi nei minuscoli specchi incastonati nell’alto copricapo impennacchiato della venditrice. Questa era grande e grossa e cantilenava con voce sonora: — Sete, rasi, tele, pellicce, feltri, lane, coperte di Gont, veli di Showl, sete di Lorbanery! Ehi, nordici, toglietevi quelle giubbe: non vedete che splende il sole? questo non vi sembra adatto a portare in dono a una ragazza della lontana Havnor? Guardate: seta del sud, fine come l’ala di una libellula! — Aveva spiegato con mosse esperte una pezza di seta trasparente, rosea e tramata di fili d’argento.

— No, padrona, le nostre mogli non sono regine — disse Falco, e la voce della donna si levò in un barrito: — Allora di cosa vestite le vostre donne? Di tela da sacco o da vela? Avaracci che non volete comprare un po’ di seta per una povera donna gelata e tremante nelle eterni nevi del nord! Allora cosa ne dite di questo: uno scialle di Gont, per tenerla calda nelle notti d’inverno! — Gettò sul banco un grande quadrato bianco e bruno, intessuto del pelame argenteo delle capre delle isole nordorientali. Il finto mercante tese la mano per tastarlo, e sorrise.

— Sei davvero di Gont? — disse la voce squillante: e lo scialle, ondeggiando, lanciò mille punti colorati in un turbinio, sul tendone e sulle stoffe.

— Questo è un lavoro di Andrad, vedi? Ci sono soltanto quattro fili di trama sull’ampiezza di un dito. A Gont ne mettono sei o più. Ma spiegami perché hai abbandonato la magia per metterti a vendere cianfrusaglie. Quando sono venuto qui, anni orsono, ti ho vista estrarre fiamme dagli orecchi degli uomini, e poi trasformare quelle fiamme in uccelli e campanellini dorati: ed era un mestiere certamente migliore di questo.

— Non era un mestiere — ribatté il donnone; e per un momento Arren sentì i suoi occhi, duri e freddi come agate, che fissavano lui e Falco tra l’irrequieto brillio delle piume ondeggianti e degli specchietti.

— Era molto grazioso, quel trucco: estrarre il fuoco dagli orecchi — proseguì Falco, in tono triste ma sincero. — Speravo di poterlo mostrare a mio nipote.

— Be’, vedi — disse la donna, in tono meno aspro, appoggiando sul banco le grosse braccia brune e l’ingombrante seno. — Sono trucchi che non facciamo più. La gente non vuole saperne. Ha capito come facciamo. Questi specchi… ecco, vedo che ti ricordi dei miei specchi. — Scosse la testa, e i punti riflessi di luce colorata turbinarono intorno a loro, vertiginosamente. — Bene, si può stordire un uomo col lampeggiare degli specchietti e con le parole e altri trucchi che non ti spiegherò, finché quello crede di vedere ciò che non vede, cose che non ci sono. Come le fiamme e i campanellini d’oro, o le vesti con cui bardavo i marinai, tessuto d’oro con diamanti grossi come albicocche, e quelli se ne andavano pavoneggiandosi come il Re di Tutte le Isole… Ma erano soltanto trucchi. È facile ingannare gli uomini. Sono come i polli affascinati da un serpente, o da un dito tenuto fisso davanti a loro. Gli uomini sono come polli. Ma alla fine capiscono di essere stati raggirati e ingannati: allora si arrabbiano, e non trovano più piacere in queste cose. Perciò mi sono data a questo commercio, e forse non tutte le sete sono sete e non tutte le lane sono di Gont, ma ad ogni modo si consumeranno: si consumeranno! Sono vere, non menzogne e aria come gli abiti di stoffa d’oro.

— Bene, bene — replicò Falco, — allora in tutta Città Hort non è rimasto nessuno che tragga fiamme dagli orecchi o compia magie come facevano un tempo?

A queste ultime parole, la donna aggrottò la fronte; poi si raddrizzò e incominciò a ripiegare con cura la coperta. — Quelli che vogliono menzogne e visioni masticano hazia — disse. — Va’ a parlare con loro, se vui! — e indicò con un cenno del capo le figure immobili tutt’intorno alla piazza.

— Ma c’erano i maghi, quelli che incantavano i venti per i marinai e gettavano sortilegi della buona fortuna sui loro carichi. Anche loro si sono dati ad altri mestieri?

Ma la donna, in preda a una furia improvvisa, si mise a barrire più forte di Falco. — C’è un incantatore, se è quello che cerchi: un grande mago col bastone e tutto il resto. Lo vedi, laggiù? Ha navigato con Egre, creando i venti e scoprendo ricche galee, così dice lui; ma erano tutte menzogne, e alla fine il capitano Egre l’ha ricompensato come meritava: gli ha mozzato la mano destra. E adesso se ne sta là, come vedi, con la bocca piena di hazia e il ventre pieno d’aria. Aria e menzogne! Aria e menzogne! Non c’è nient’altro nella sua magia, capitan Caprone!

— Bene, bene, padrona — disse Falco, con insistente mitezza. — Volevo solo sapere. — Lei gli voltò l’ampia schiena in un grande vortice di specchietti abbaglianti, e Falco si allontanò con Arren al fianco.

Ma quella sua camminata aveva uno scopo preciso: li portò nei pressi dell’uomo indicato dalla mercantessa. Sedeva appoggiato a un muro, e guardava nel vuoto: il volto scuro e barbuto era stato molto bello, un tempo. Il raggrinzito moncherino del polso giaceva sulle pietre del lastricato, nella calda luce del sole: una vista orribile.

Ci fu un certo movimento tra i chioschetti, dietro di loro, ma Arren non riuscì a distogliere gli occhi da quell’uomo: era prigioniero di un fascino inorridito. — Era davvero un mago? — domandò, a voce molto bassa.

— Forse è quello che veniva chiamato Lepre e che dominava il maltempo per conto del pirata Egre. Erano predoni famosi… Scostati! — Per poco un uomo che veniva correndo a precipizio dai chioschetti non li investì entrambi. Un altro arrivò al trotto, curvo sotto il peso di un grande banchetto pieghevole carico di galloni e di pizzi. Un baracchino cadde con uno schianto rumoroso; i tendoni venivano spinti da parte o smontati in tutta fretta; gruppi di persone si spingevano o lottavano attraverso la piazza del mercato, le voci si levavano in grida e urla. Più forte di tutto echeggiava il barrito della donna dal copricapo di specchietti. Arren l’intravide mentre brandiva una specie di bastone o di pertica contro un gruppo di uomini, scacciandoli a grandi fendenti, come uno schermitore. Era impossibile capire se si trattava di una rissa generalizzata o dell’assalto di una banda di ladri o di una zuffa tra due fazioni rivali di venditori ambulanti. Molti passavano di corsa, con le braccia cariche di merci che potevano essere bottino oppure la loro legittima proprietà salvata dai saccheggiatori. C’erano lotte a coltellate e a pugni, e risse in tutta la piazza. — Da quella parte — disse Arren, indicando una strada secondaria lì vicino. Si avviò in quella direzione, poiché era evidente che dovevano andarsene al più presto; ma il suo compagno l’afferrò per il braccio. Si voltò indietro e vide che l’uomo chiamato Lepre si stava alzando faticosamente. Quando fu in piedi, barcollò per un istante e poi, senza guardarsi intorno, s’incamminò al limitare della piazza, sfiorando con l’unica mano i muri delle case come per guidarsi o sostenersi. — Non perderlo di vista — disse Sparviero, e presero a seguirlo. Nessuno li molestò, né loro due né l’uomo che pedinavano; e in pochi istanti lasciarono la piazza del mercato e iniziarono a scendere la collina nel silenzio di una viuzza tortuosa.

In alto, le soffitte delle case quasi s’incontravano, bloccando la luce; i ciottoli del selciato erano viscidi per l’acqua e i rifiuti. Lepre procedeva a passo svelto, sebbene continuasse a strascicare la mano lungo i muri come un cieco. Dovevano stargli molto vicino, per non perderlo di vista a un crocicchio. All’improvviso, Arren si sentì invadere dall’eccitazione della caccia: tutti i suoi sensi erano all’erta, come durante una caccia al cervo nelle foreste di Enlad: vedeva nitidamente ogni faccia che incontrava, e aspirava il lezzo dolciastro della città, un odore misto di spazzatura, d’incenso, di carogne e di fiori. Mentre attraversavano un’ampia strada affollata, udì rullare un tamburo e vide una fila di donne e di uomini nudi, incatenati l’uno all’altro ai polsi e alla cintura, con i capelli arruffati che ricadevano sui volti: solo un’occhiata e poi scomparvero, mentre lui seguiva Lepre giù per una scalinata e in una stretta piazza, dove c’erano soltanto alcune donne che spettegolavano accanto alla fontana.

Sparviero raggiunse Lepre e gli posò una mano sulla spalla; e Lepre si scostò, come se l’avesse scottato, si ritrasse rabbrividendo e arretrò entro un portone massiccio. Poi si fermò, tremando, e li guardò con gli occhi ciechi di un animale braccato.

— Sei tu, l’uomo che chiamano Lepre? — chiese Sparviero; parlava con la sua vera voce, che era aspra ma aveva un’intonazione gentile. L’uomo non disse nulla: sembrava che non ascoltasse. — Voglio qualcosa da te — proseguì Sparviero. Neppure questa volta ottenne una risposta. — Sono disposto a pagare.

Una lenta reazione: — Avorio o oro?

— Oro.

— Quanto?

— Il mago conosce il valore dell’incantesimo.

La faccia di Lepre fremette e cambiò: si animò per un istante, così fuggevolmente che parve illuminarsi di un guizzo, e poi si rannuvolò di nuovo nell’apatia. — È tutto finito — disse. — Tutto finito. — Un attacco di tosse lo fece piegare su se stesso; sputò saliva nera. Quando si raddrizzò rimase passivo, tremante, come se avesse dimenticato ciò di cui stavano parlando.

Ancora una volta Arren lo scrutò, affascinato. L’angolo in cui si era incuneato era formato da due statue gigantesche che fiancheggiavano un portone, telamoni col collo piegato sotto il peso dell’architrave, col corpo muscoloso che emergeva solo in parte dal muro, come se avessero tentato di liberarsi dalla pietra per prendere vita e avessero fallito a metà del tentativo. La porta che sorvegliavano era imputridita sui cardini; l’edificio, che un tempo era stato un palazzo, era semidiroccato. Le facce, tetre e gonfie, erano scheggiate e incrostate di licheni. In mezzo a quelle figure poderose l’uomo chiamato Lepre stava inerte e fragile, con gli occhi bui come le finestre di una casa abbandonata. Alzò il braccio mutilato, parandolo tra sé e Sparviero, e piagnucolò: — Padrone, fa’ la carità a un povero invalido…

Il mago fece una smorfia di sofferenza o di vergogna; Arren intuì che l’uomo aveva intravisto il suo vero volto per un attimo, nonostante il camuffamento. Sparviero posò di nuovo la mano sulla spalla di Lepre e disse alcune parole, sottovoce, nella lingua dei maghi che Arren non comprendeva.

Ma Lepre comprese. Si aggrappò a Sparviero con l’unica mano e balbettò: — Tu puoi ancora parlare… parlare… Vieni con me, vieni…

Il mago rivolse una rapida occhiata ad Arren, poi annuì.

Scesero per le ripide viuzze in una delle valli, al di là dei tre colli di Città Hort. Le strade divennero più strette e buie e silenziose, via via che scendevano. Il cielo era una striscia pallida tra le gronde sporgenti, e i muri delle case che le fiancheggiavano erano umidi. In fondo alla gola scorreva un fiumiciattolo che puzzava come una fogna scoperta; tra le arcate dei ponti, le case si affollavano lungo le rive. Lepre svoltò nel buio androne di una di quelle case, e svanì come la fiamma di una candela. Lo seguirono.

Le scale, prive d’illuminazione, scricchiolavano e cedevano sotto i loro piedi. Arrivato in cima, Lepre spalancò una porta, e allora poterono vedere dov’erano: una stanza vuota, con un pagliericcio in un angolo e una finestra senza vetri dalle cui imposte filtrava un po’ di luce polverosa.

Lepre si girò verso Sparviero e gli afferrò di nuovo il braccio. Mosse le labbra. Infine disse, balbettando: — Drago… drago…

Sparviero ricambiò con fermezza il suo sguardo, senza dir nulla.

— Non posso parlare — aggiunse Lepre; lasciò il braccio di Sparviero e si accovacciò sul nudo pavimento, piangendo.

Il mago s’inginocchiò accanto a lui e gli parlò sottovoce nella Vecchia Lingua. Arren era rimasto in piedi accanto alla porta chiusa, con la mano sull’impugnatura del coltello. La luce grigia e la stanza polverosa, quelle due figure inginocchiate, lo strano suono sommesso della voce del mago che parlava nella lingua dei draghi: tutto si fondeva come in un sogno che non ha rapporti con quanto accade nella realtà e col trascorrere del tempo.

Lentamente, Lepre si rialzò. Si spolverò le ginocchia con l’unica mano, e nascose dietro la schiena il braccio mutilato. Si guardò intorno, guardò Arren: adesso i suoi occhi vedevano. Quasi subito distolse lo sguardo e si sedette sul pagliericcio. Arren rimase in piedi, di guardia; invece Sparviero, con la semplicità di coloro che hanno vissuto l’infanzia in una casa priva di mobili, si sedette a gambe incrociate sul nudo pavimento. — Dimmi come hai perso la tua arte e il linguaggio della tua arte.

Per lunghi istanti, Lepre non gli rispose. Cominciò a battersi il braccio mutilato sulla coscia, con un movimento inquieto e convulso, e infine disse, a raffiche di parole: — Mi hanno tagliato la mano. Non posso intessere incantesimi. Mi hanno tagliato la mano. Il sangue è sgorgato, si è coagulato.

— Ma questo è avvenuto dopo che avevi perso il potere, altrimenti non avrebbero potuto farlo.

— Il potere…

— Il potere sui venti e sulle onde e sugli uomini. Tu li chiamavi con i loro nomi e loro ti ubbidivano.

— Sì, ricordo che ero vivo — replicò Lepre, con voce bassa e rauca. — E conoscevo le parole e i nomi.

— E ora sei morto?

— No. Vivo. Vivo. Ma un tempo ero un drago… Non sono morto. Talvolta dormo. Il sonno è molto simile alla morte, tutti lo sanno. I morti camminano nei sogni, tutti lo sanno. Vengono da te vivi, e ti dicono tante cose. Escono dalla morte, nei sogni. C’è un modo. E se ti spingi abbastanza lontano, c’è sempre una via per ritornare. Puoi trovarla, se sai dove cercare. E se sei disposto a pagarne il prezzo.

— Qual è il prezzo? — La voce di Sparviero fluttuò nell’aria semibuia come l’ombra di una foglia cadente.

— La vita… Cos’altro, se no? Con cosa puoi comprare la vita, se non con la vita? — Lepre si dondolava avanti e indietro sul pagliericcio, con uno strano brillio astuto negli occhi. — Vedi — disse, — loro possono tagliarmi la mano. Possono tagliarmi la testa. Non ha importanza. Io so trovare la via del ritorno. So dove cercare. Là possono andare solo gli uomini del potere.

— I maghi, vuoi dire?

— Sì. — Lepre esitò: sembrò che tentasse di pronunciare la parola ma non ci riuscisse. — Uomini del potere — ripeté. — E devono… e devono rinunciare. Pagare.

Poi ammutolì, incupendosi, come se la parola «pagare» avesse finalmente suscitato in lui un’associazione di idee e si fosse accorto che stava regalando informazioni invece di venderle. Non sarebbe stato possibile ottenere altro da lui, neppure i balbettii e gli accenni alla «strada del ritorno», che Sparviero sembrava giudicare significativi; e poco dopo, il mago si alzò. — Ebbene, una mezza risposta non è migliore di una risposta completa — disse. — E lo stesso vale per il pagamento. — Con la sveltezza di un prestigiatore, gettò un pezzo d’oro sul pagliericcio, davanti a Lepre.

Lepre lo prese. Guardò l’oro, e Sparviero, e Arren, muovendo la testa a scatti. — Aspetta — balbettò. Appena la situazione cambiava, ne perdeva il controllo; e adesso brancolava disperato, alla ricerca di quanto avrebbe voluto dire. — Aspetta. Questa notte. Ho l’hazia.

— Non ne ho bisogno.

— Per mostrarti… Per mostrarti la via. Stanotte. Ti condurrò io. Te la mostrerò. Tu puoi arrivarci, perché tu… perché tu sei… — Cercò a tentoni la parola, finché Sparviero disse: — Io sono un mago.

— Sì! Quindi possiamo… possiamo giungervi. Alla via. Quando sogno. Nel sogno. Capisci? Ti condurrò io. Verrai con me, alla… alla via.

Sparviero stava immobile, pensieroso, al centro della stanza. — Forse — replicò infine. — Se verremo, saremo qui all’imbrunire. — Poi si girò verso Arren il quale si affrettò ad aprire la porta, impaziente di andarsene.

La strada umida e ombrosa sembrava luminosa come un giardino, dopo la stanza di Lepre. S’incamminarono verso la parte più alta della città, lungo la via più breve, una ripida scalinata di pietra fra muri grondanti di edera. Arren aspirava ed espirava come un leone marino. — Uff!… Hai intenzione di ritornarci?

— Sì, se non riuscirò a ottenere le stesse informazioni da una fonte meno pericolosa. Molto probabilmente, quello ci tenderà un’imboscata.

— Ma tu non sei protetto contro i predoni e così via?

— Protetto? Cosa intendi dire? Credi che io me ne vada in giro avviluppato in incantesimi come una vecchia timorosa dei reumatismi? Non ne ho il tempo. Nascondo la faccia per tener celata la nostra ricerca: ecco tutto. Possiamo difenderci a vicenda. Ma in verità, durante questo viaggio non potremo tenerci fuori dai pericoli.

— È naturale — disse Arren, irrigidendosi, irritato, offeso nel suo orgoglio. — Non è questo, che io cerco di fare.

— Tanto meglio — replicò il mago, inflessibile, e tuttavia con un certo buonumore che placò l’irritazione di Arren. In realtà, il ragazzo era stupito della propria collera: non aveva mai pensato di parlare in quel tono all’arcimago. Ma del resto, quello era l’arcimago e non lo era, quel Falco dal naso rincagnato e dalle guance squadrate e mal rasate, e dalla voce che talora era quella di uno e talvolta di un altro: un estraneo, di nessun affidamento.

— Ha un significato, quello che lui ti ha detto? — gli chiese, perché non era entusiasta della prospettiva di ritornare in quella stanza semibuia, affacciata sul fiume maleodorante. — Tutte quelle storie, essere vivo e essere morto, e ritornare anche con la testa tagliata?

— Non so se ha un significato. Volevo parlare con un mago che avesse perso il suo potere. Lui ha detto che non l’ha perso ma l’ha dato… in cambio di qualcosa. Di cosa? Vita per vita, ha detto. Potere per potere. No, non lo comprendo; tuttavia, vale la pena di ascoltarlo.

La ferma ragionevolezza di Sparviero acuì ancora di più la vergogna di Arren. Sentiva di essere petulante e nervoso come un bambino. Lepre l’aveva affascinato; ma adesso che l’incantesimo era rotto provava nausea e disgusto, come se avesse mangiato qualcosa di ripugnante. Decise di non parlare più, fino a quando avesse riacquistato l’autocontrollo. Un attimo dopo, mise un piede in fallo sugli scalini consunti e viscidi, scivoltò, e recuperò l’equilibrio graffiandosi le mani sulle pietre. — Oh, maledetta questa sudicia città! — proruppe, rabbiosamente. E il mago replicò, in tono asciutto: — Non è necessario maledirla, credo.

C’era davvero qualcosa di strano e fuori posto, nella città di Hort e nell’aria stessa; e si poteva credere veramente che fosse oppressa da una maledizione: eppure non si trattava di una presenza ma piuttosto di un’assenza, di un indebolimento di tutte le qualità, come un morbo che contagiasse ben presto lo spirito di ogni visitatore. Perfino il calore del sole pomeridiano era malsano: un caldo troppo pesante per il mese di marzo. Le piazze e le strade brulicavano di attività e di movimento, ma non c’erano né ordine né prosperità. Le merci erano scadenti, i prezzi alti, e i mercati erano malsicuri per i venditori e gli acquirenti, pieni di ladri e di bande vaganti. Non c’erano molte donne per le vie, e quelle poche uscivano quasi sempre in gruppi. Era una città senza legge, senza governo. Parlando con la gente, Arren e Sparviero scoprirono infatti che a Città Hort non c’era più un consiglio, un sindaco o un signore. Alcuni di coloro che un tempo governavano la città erano morti, e altri si erano dimessi, e altri ancora erano stati assassinati; vari capi signoreggiavano sui diversi quartieri, le guardie dominavano il porto e s’impinguavano le tasche, e via discorrendo.

La città non aveva più un centro. La gente, nonostante la sua attività irrequieta, sembrava priva di scopo. Gli artigiani, a quanto pareva, non avevano voglia di lavorare bene; perfino i ladri rubavano soltanto perché era l’unica cosa che sapevano fare. C’era tutta la chiassosa vivacità di una grande città portuale, in superficie, ma intorno stavano seduti immobili i mangiatori di hazia. E sotto la superficie, le cose non sembravano interamente reali: neppure i volti, i suoni, gli odori. Sbiadivano, di tanto in tanto, in quel lungo pomeriggio caldo, mentre Sparviero e Arren camminavano per le vie e parlavano con questo e con quello. Si dissolvevano rapidamente. I tendoni a strisce, i ciottoli sporchi, i muri colorati e tutta la vividezza dell’esistenza sparivano, lasciando la città mutata in una città di sogno, svuotata e squallida nella luce nebbiosa del sole.

Solo nella parte più alta, dove si recarono a riposare un poco nel tardo pomeriggio, quella malsana atmosfera di fantasticheria s’interruppe per qualche tempo. «Non è una città fortunata», aveva detto Sparviero qualche ora prima; e adesso, dopo ore di vagabondaggi senza meta e inutili conversazioni con numerosi sconosciuti, appariva stanco e tetro. Il camuffamento si andava attenuando un poco: una certa durezza si lasciava scorgere attraverso il volto burbero del mercante. Arren non era riuscito a liberarsi dall’irritazione di quel mattino. Si sedettero sull’erba ruvida, in cima alla collina, sotto le fronde di un boschetto di alberi di pendick, con le foglie scure e tempestate di boccioli rossi, alcuni già aperti. Da lassù non vedevano nulla della città, tranne i tetti di tegole che digradavano verso il mare. La baia spalancava le braccia, azzurra come l’ardesia sotto la foschia primaverile, e si protendeva fino all’orizzonte. Non c’erano linee nette di demarcazione. Rimasero a guardare quell’immenso spazio azzurro. La mente di Arren si schiarì, si schiuse per accogliere e celebrare il mondo.

Quando andarono a bere a un ruscelletto vicino che scorreva limpido sulle pietre brune, sgorgando dalla sorgente nascosta in qualche giardino principesco sulla collina alle loro spalle, bevve profondamente e immerse la testa nell’acqua fredda. Poi si alzò e declamò due versi delle Gesta di Morred:

Sono lodate le Fontane di Shelieth, l’arpa argentina delle acque,

Ma benedetto per sempre nel mio nome questo ruscello che ha placato la mia sete!

Sparviero rise, ascoltandolo, e anche Arren rise. Scrollò la testa come un cane, e gli spruzzi finissimi volarono nell’ultima aurea luce del sole.

Dovettero lasciare il boschetto e ridiscendere nelle strade; e quando ebbero cenato in un chiosco che vendeva untuose focacce di pesce, la notte scese pesante nell’aria. L’oscurità calò rapida nelle strette vie. — Sarà bene che andiamo, ragazzo — disse Sparviero, e Arren chiese: — Alla barca? — Ma sapeva che non sarebbero andati alla barca bensì alla casa sul fiume, alla stanza vuota e polverosa e terribile.

Lepre li stava aspettando sul portone.

Accese una lampada a olio per illuminare la buia scala. La minuscola fiamma tremolava senza sosta mentre lui la reggeva, e gettava sui muri ombre enormi e fuggevoli.

Lepre si era procurato un altro sacco di paglia per far sedere gli ospiti, ma Arren andò a sistemarsi sul pavimento nudo, accanto alla porta. L’uscio si apriva verso l’interno, e per sorvegliarlo avrebbe dovuto sedersi all’esterno; ma quel corridoio nero come la pece gli era insopportabile, e voleva tener d’occhio Lepre. L’attenzione di Sparviero, e forse anche i suoi poteri, si sarebbero concentrati su ciò che Lepre gli avrebbe detto o mostrato: toccava a lui, Arren, stare in guardia contro un eventuale tradimento.

Lepre stava più eretto, e tremava meno del solito; si era ripulito la bocca e i denti; e all’inizio parlò con lucidità, sebbene in tono eccitato. Nella luce della lampada i suoi occhi erano così scuri che la sclerotica non si vedeva, come negli occhi degli animali. Discusse concitatamente con Sparviero, esortandolo a mangiare l’hazia. — Voglio condurti con me. Dobbiamo percorrere la stessa strada. Tra poco io andrò, che tu sia pronto o no. Devi prendere l’hazia, per seguirmi.

— Credo di poterti seguire.

— Non dove andrò io. Questo non è… un incantesimo. — Sembrava incapace di pronunciare le parole «mago» e «magia». — Io so che tu puoi giungere nel… nel luogo: lo sai, al muro. Ma non è là. È una strada diversa.

— Se tu andrai, potrò seguirti.

Lepre scosse la testa. Il bel volto devastato era soffuso di rossore; spesso girava gli occhi per guardare Arren, includendo anche lui sebbene parlasse soltanto a Sparviero. — Ascolta: ci sono due specie di uomini, no? La nostra specie, e gli altri. I… i draghi e gli altri. Gli umani senza potere sono vivi soltanto a metà. Non contano. Non sanno cosa sognano; hanno paura dell’oscurità. Ma gli altri, i signori degli uomini, non hanno paura di addentrarsi nella tenebra. Noi abbiamo la forza.

— Purché conosciamo i nomi delle cose.

— Ma là i nomi non hanno importanza: è questo il punto, è questo il punto! Non si ha bisogno di quello che si fa, di quello che si sa. Gli incantesimi sono inutili. Si deve dimenticare tutto questo: si deve lasciar perdere. Mangiare hazia serve appunto a questo: si dimenticano i nomi, si lascia andare la forma delle cose, e si va dritto alla realtà. Tra poco io vi andrò: se vuoi scoprire dove vado, dovrai fare ciò che ti dico. Io dico ciò che lui dice. Per essere signori della vita si deve essere signori degli uomini. Si deve scoprire il segreto. Io potrei dirtene il nome, ma cos’è un nome? Un nome non è reale, non è la realtà eterna. I draghi non possono andarvi. I draghi muoiono. Tutti muoiono. Stanotte ne ho presa tanta, di hazia, che non potrai mai raggiungermi. Non c’è neppure una macchia, su di me. Dove mi smarrirò, tu potrai guidarmi. Ricordi qual è il segreto? Ricordi? Niente morte. Niente morte… no! Niente letto sudato, niente bara putrefatta, mai più, mai più. Il sangue si prosciuga come un fiume in secca, e scompare. Niente paura. Niente morte. I nomi svaniscono, e svaniscono anche le parole e la paura. Mostrami dove mi smarrisco: mostramelo, mio signore…

E continuò così, in una soffocata estasi di parole che era come il salmodiare di un incantesimo e che tuttavia non formava un incantesimo, un tutto unico, un senso. Arren ascoltava, ascoltava, sforzandosi di comprendere. Se almeno fosse riuscito a capire! Sparviero doveva fare ciò che l’altro diceva, e prendere la droga, per quella volta, per poter scoprire di cosa stava parlando Lepre, il mistero di cui non voleva o non poteva parlare. Perché erano venuti lì, altrimenti? Ma del resto (Arren distolse lo sguardo dal volto estatico di Lepre per fissare l’altro profilo), forse il mago aveva già compreso… Era duro come la roccia, quel profilo. Dov’erano il naso rincagnato e l’espressione blanda? Falco, il mercante, era scomparso, dimenticato. Lì stava il mago, l’arcimago.

La voce di Lepre era divenuta un borbottio ritmico; e il suo corpo oscillava, seduto a gambe incrociate. Il volto era scavato, la bocca socchiusa. Di fronte a lui, nella piccola luce ferma della lampada a olio posata sul pavimento, l’altro non parlava mai; ma aveva teso il braccio e aveva preso la mano di Lepre. Arren non l’aveva visto compiere quel gesto. C’erano lacune nell’ordine degli eventi, lacune d’inesistenza… Doveva essere torpore. Senza dubbio erano trascorse alcune ore: poteva essere quasi mezzanotte. Se si addormentava, sarebbe riuscito a seguire anche lui Lepre nel sogno e giungere a quel luogo, alla vita segreta? Forse sì. Adesso gli sembrava possibile. Ma doveva sorvegliare la porta. Lui e Sparviero non ne avevano quasi parlato; ma entrambi erano consapevoli che facendoli tornare di notte a casa sua Lepre poteva aver progettato un’imboscata: era stato un pirata, conosceva molti predoni. Non avevano detto nulla, ma Arren sapeva che doveva stare in guardia perché, mentre il mago compiva quello strano viaggio dello spirito, era indifeso. Ma, scioccamente, aveva lasciato la spada a bordo della barca; e a cosa sarebbe servito il suo coltello, se quella porta si fosse aperta improvvisamente dietro di lui? Ma questo non sarebbe accaduto: lui poteva ascoltare e udire. Lepre non parlava più. I due uomini tacevano; tutta la casa taceva. Nessuno poteva salire quelle scale malferme senza far rumore. Lui avrebbe potuto parlare, se avesse udito un suono; avrebbe gridato, e la trance si sarebbe spezzata, e Sparviero si sarebbe voltato e avrebbe difeso se stesso e lui con tutte le folgori vendicative della furia di un incantatore… Quando lui si era seduto sul pavimento, Sparviero l’aveva guardato: un’occhiata sola, di approvazione; approvazione e fiducia. Lui era la sentinella. Non ci sarebbero stati pericoli, se lui montava di guardia. Ma era difficile continuare a osservare quei due volti, con la minuscola perla della lampada che stava tra loro sul pavimento, adesso che entrambi tacevano e stavano immobili, con gli occhi aperti che non vedevano la luce né la stanza polverosa, non vedevano il mondo, bensì qualche altro mondo del sogno o della morte: osservarli e non cercare di seguirli…

Là, nell’immensa oscurità asciutta, c’era qualcuno che lo chiamava a cenni. Vieni, disse l’alto signore delle ombre. Nella mano reggeva una minuscola fiamma, non più grande di una perla: la protendeva verso di lui, offrendo la vita. Lentamente, Arren mosse un passo nella sua direzione, per seguirlo.

LUCE INCANTATA

Aveva la bocca secca, e piena di un sapore di polvere. Le sue labbra erano coperte di polvere.

Senza sollevare la testa dal pavimento, osservò il gioco delle ombre. C’erano le ombre grandissime che si muovevano e si piegavano, ingrandivano e rimpicciolivano; e altre, più fioche, che correvano svelte intorno alle pareti e al soffitto, irridendo quelle più grandi. C’erano un’ombra nell’angolo e un’ombra sul pavimento, e nessuna delle due si muoveva.

La nuca incominciava a dolergli. E nello stesso tempo, ciò che vedeva gli appariva chiarissimo, nella mente, in un unico bagliore cristallizzato in un istante: Lepre accasciato in un angolo, con la testa sulle ginocchia, Sparviero lungo disteso, riverso, e un uomo stava inginocchiato accanto a lui, e un altro gettava pezzi d’oro in una borsa, e un altro ancora stava in piedi e osservava. Il terzo uomo stringeva una lanterna in una mano e un pugnale nell’altra: il pugnale di Arren.

Anche se parlavano, lui non li udiva. Udiva soltanto i propri pensieri, che gli dettarono immediatamente, senza esitazioni, ciò che doveva fare. Subito eseguì. Si trascinò in avanti per un mezzo braccio con estrema lentezza, protese di scatto la mano sinistra e afferrò la borsa del bottino, balzò in piedi e si lanciò verso la scala con un grido rauco. Si precipitò giù per i gradini, nella cieca oscurità, senza mettere i piedi in fallo, come se stesse volando. Irruppe nella strada e corse via, a tutta velocità, nel buio.

Le case erano masse scure contro lo sfondo delle stelle. La fievole luce del cielo brillava sulla sua destra, e sebbene lui non potesse vedere dove conducevano le strade, riusciva a scorgere i crocicchi, e perciò poteva svoltare e ritornare indietro. Gli sconosciuti l’avevano seguito: li sentiva dietro di sé, non molto lontano. Erano scalzi, e il loro respiro ansimante era più rumoroso dei loro passi. Arren avrebbe riso, se ne avesse avuto il tempo: finalmente sapeva cosa si prova quando si è la selvaggina anziché il cacciatore, la preda anziché il capo della muta. Significa essere soli, e liberi. Deviò verso destra e corse, tenendosi chino, attraverso un ponte dal parapetto alto; s’infilò in una strada laterale, svoltò a un angolo, ritornò sul lungofiume e lo percorse per un tratto, poi attraversò un altro ponte. Le sue scarpe risuonavano rumorosamente sui ciottoli, ed era l’unico suono in tutta la città. Si fermò al riparo del ponte per slacciarle: ma le stringhe si erano ingarbugliate, e gli inseguitori non avevano perso le sue tracce. La lanterna scintillò, oltre il fiume; i passi pesanti e rapidi si avvicinarono. Non riusciva a liberarsene. Poteva soltanto distanziarli, continuare a correre, per condurli più lontano dalla stanza polverosa, sempre più lontano…

Gli avevano tolto la giubba, insieme al pugnale: era in maniche di camicia, leggero e accaldato, e gli girava la testa, e il dolore alla nuca diventava sempre più acuto a ogni passo, e lui correva e correva… La borsa lo intralciava. All’improvviso la gettò a terra, e un pezzo d’oro schizzò fuori e urtò le pietre con un tintinnio. — Ecco il vostro denaro! — gridò lui, con voce roca e ansimante. Continuò a correre. E all’improvviso la strada finì. Davanti a lui non c’erano né strade traverse né stelle: un vicolo cieco. Senza indugiare, girò su se stesso e corse incontro ai suoi inseguitori. La lanterna dondolava furiosamente davanti ai suoi occhi, e lui si avventò con un urlo di sfida.

C’era una lanterna che oscillava avanti e indietro, una fioca chiazza di luce in un grande grigiore in movimento. La guardò a lungo. Si affievolì, e finalmente un’ombra le passò davanti, e quando l’ombra sparì anche la luce era scomparsa. Lui se ne rammaricò, un poco; o forse si rammaricava per se stesso, perché sapeva che adesso doveva svegliarsi.

La lanterna, spenta, dondolava ancora dall’albero cui era agganciata. Tutt’intorno, il mare s’illuminava all’avvento del sole. Un tamburo rullava. I remi scricchiolavano pesantemente, regolarmente; il fasciame della nave strideva con cento piccole voci; un uomo, lassù, a prua, gridò qualcosa ai marinai che gli stavano dietro. Gli uomini incatenati insieme ad Arren nella stiva di poppa tacevano tutti. Ognuno portava una banda di ferro intorno alla vita, e manette ai polsi, collegati da una catena corta e pesante ai ceppi dell’uomo accanto; e la cintura di ferro era incatenata anche a una chiavarda fissata al ponte, in modo che l’uomo potesse stare seduto o accovacciato ma non alzarsi in piedi. Erano troppo vicini per sdraiarsi, stretti nella stiva poco spaziosa. Arren era nell’angolo anteriore di babordo. Se alzava la testa, i suoi occhi si trovavano all’altezza del ponte tra la stiva e il parapetto, che era largo mezzo braccio.

Non ricordava molto della notte precedente, dopo che era giunto nel vicolo cieco. Si era battuto ed era stato messo fuori combattimento, e legato e portato via. Aveva parlato un uomo dalla strana voce sussurrante; c’era stato un luogo che sembrava una fucina, col rosso e guizzante fuoco di una forgia… Non riusciva a rammentarlo. Ma sapeva che quella era una nave di razziatori di schiavi, e che l’avevano catturato per venderlo.

Tutto questo non significava molto, per lui. Aveva troppa sete. Era indolenzito in tutto il corpo, e gli faceva male la testa. Quando sorse il sole, la luce inviò lance di sofferenza nei suoi occhi.

A metà mattina ciascuno ebbe un quarto di pagnotta e una lunga sorsata da una borraccia di cuoio, accostata alle labbra da un uomo che aveva una faccia dura e spigolosa. Aveva il collo cinto da un’alta striscia di pelle borchiata come il collare di un cane, e quando Arren lo sentì parlare riconobbe la strana voce fievole e fischiante.

La bevanda e il cibo alleviarono per un poco la debolezza fisica e gli schiarirono la mente. Per la prima volta guardò in faccia i suoi compagni di schiavitù: tre nella sua fila e quattro più indietro. Alcuni stavano seduti, con la testa appoggiata alle ginocchia; uno era accasciato, sofferente o in preda all’effetto della droga. Quello al suo fianco era un giovane sulla ventina, con la faccia larga e piatta. — Dove ci portano? — gli chiese Arren.

Il giovane lo guardò — le loro facce distavano l’una dall’altra poco più di una spanna — e sogghignò scrollando le spalle, e Arren ritenne che intendesse far capire che non lo sapeva; ma poi agitò le mani incatenate, gesticolando, e aprì la bocca ancora sogghignante, mostrando una radice nera al posto della lingua.

— A Showl — disse uno, dietro Arren; e un altro: — Oppure al Mercato di Amrun. — E subito l’uomo dal collare, che sembrava onnipresente, si chinò sulla stiva sibilando: — Tacete, se non volete finire in pasto agli squali. — E tutti tacquero.

Arren cercò d’immaginare quei luoghi: Showl, il Mercato di Amrun. Là si vendevano schiavi. Li schieravano davanti ai compratori, senza dubbio, come i buoi o gli arieti in vendita sulla Piazza del Mercato di Berila. E lui sarebbe stato là, incatenato. Qualcuno l’avrebbe comprato e portato a casa e gli avrebbe dato un ordine, e lui avrebbe rifiutato di ubbidire. Oppure avrebbe ubbidito, e avrebbe tentato la fuga. E sarebbe stato ucciso, in un modo o nell’altro. La sua anima non si ribellava all’idea della schiavitù: era troppo sofferente e frastornato, per farlo. Semplicemente, sapeva di non poterlo fare; entro una settimana o due sarebbe morto, o sarebbe stato ucciso. Sebbene lo capisse e vi si rassegnasse, l’idea lo spaventava; perciò smise di pensare al futuro. Abbassò lo sguardo sul sudicio fasciame nero della stiva, tra i suoi piedi, e sentì il calore del sole sulle spalle nude, sentì la sete che gli inaridiva di nuovo la bocca e gli stringeva la gola.

Il sole tramontò. Venne la notte, serena e fredda. Le stelle si affacciarono, nitide. Il tamburo batteva come un cuore lento, ritmando i colpi dei remi, perché non c’era alito di vento. Il freddo diventò il tormento peggiore. La schiena di Arren assorbiva un po’ di tepore dalle gambe dell’uomo che gli stava dietro, il suo fianco sinistro dal muto che gli sedeva accanto, aggobbito, canticchiando un motivo borbottante, su una nota sola. I rematori cambiarono turno; il tamburo riprese a rullare. Arren aveva desiderato l’oscurità, ma non poteva dormire. Gli dolevano le ossa, e non poteva cambiare posizione. Restò seduto, dolorante e tremante, assetato, guardando le stelle che sobbalzavano nel cielo a ogni colpo di remi, scivolavano di nuovo al loro posto, restavano immote, sobbalzavano di nuovo, scivolavano, si soffermavano…

L’uomo con il collare e un altro stavano fra la stiva di poppa e l’albero maestro: la piccola lanterna oscillante appesa all’albero gettava bagliori in mezzo a loro e ne profilava le teste e le spalle. — Nebbia, vescica di porco — disse la voce debole e odiosa dell’uomo dal collare. — Cosa ci fa la nebbia nello Stretto Meridionale in questa stagione? Maledetta sfortuna!

Il tamburo rullava. Le stelle sussultavano, scivolavano, si soffermavano. Accanto ad Arren, l’uomo senza lingua rabbrividì all’improvviso e alzò la testa lanciando un urlo d’incubo, un suono terribile e informe. — Zitto, là! — ruggì il secondo uomo accanto all’albero. Il muto rabbrividì ancora e tacque, muovendo le mascelle come se masticasse.

Furtivamente, le stelle scivolarono avanti, nel nulla.

L’albero fremette e svanì. Una fredda coltre grigia sembrò cadere sul dorso di Arren. Il tamburo mancò un colpo e poi riprese il ritmo, ma più lento.

Nella nebbia non c’era la sensazione del movimento in avanti, solo il dondolio e la strappata dei remi. Il ritmo del tamburo si era smorzato. Era freddo e umido. La nebbia, condensandosi nei capelli di Arren, gli scorreva negli occhi: lui cercò di afferrare le gocce con la lingua e respirò l’aria umida con la bocca aperta, tentando di placare la sete. Ma gli battevano i denti. Il freddo metallo di una catena gli dondolava contro le cosce, e al contatto bruciava come fuoco. Il tamburo batté, e batté, e tacque.

Silenzio.

— Continua a suonare! Cosa succede? — ruggì la voce roca e bisbigliante dalla prua. Nessuna risposta.

La nave rollava leggermente sul mare tranquillo. Al di là degli indistinti parapetti non c’era nulla: il vuoto. Qualcosa stridette contro la fiancata della nave. Il rumore echeggiò in quel silenzio strano e morto, in quell’oscurità. — Abbiamo toccato fondo — mormorò uno dei prigionieri, ma il silenzio si chiuse sulla sua voce.

La nebbia divenne luminosa, come se vi fiorisse una luce. Arren vide chiaramente le teste degli uomini incatenati accanto a lui, le minuscole gocce di umidità che luccicavano nei loro capelli. La nave ondeggiò di nuovo, e Arren si alzò per quanto glielo permettevano le catene, allungando il collo per vedere più avanti. La nebbia risplendeva sul ponte, come la luna dietro nuvole sottili, fredda e radiosa. I rematori erano seduti, immobili come statue. I membri della ciurma erano nella parte centrale della nave, e i loro occhi scintillavano lievemente. Solo, a babordo, stava un uomo: ed era da lui che s’irradiava la luce, dal volto e dalle mani e dal bastone che ardevano come argento fuso.

Ai piedi dell’uomo risplendente stava accovacciata una forma scura.

Arren tentò di parlare, senza riuscirvi. Abbigliato della maestà della luce, l’arcimago gli si avvicinò e s’inginocchiò sul ponte. Arren sentì il tocco della sua mano, udì la sua voce. Sentì le strisce di ferro ai polsi e alla vita cedere: in tutta la stiva vi fu un tintinnio di catene. Ma nessuno si mosse. Soltanto Arren cercò di alzarsi; ma non vi riuscì, intorpidito com’era dalla lunga immobilità. La forte mano dell’arcimago gli strinse il braccio; con quell’aiuto, uscì dalla stiva e si rannicchiò sul ponte.

L’arcimago si allontanò da lui, e lo splendore nebuloso brillò sulle immobili facce dei rematori. Si arrestò accanto all’uomo che stava accovacciato vicino al parapetto di babordo.

— Io non punisco — disse la voce chiara e dura, fredda come la fredda luce incantata nella nebbia. — Ma in nome della giustizia, Egre, io mi assumo questa responsabilità: comando alla tua voce di tacere fino al giorno in cui troverai una parola degna di essere pronunciata.

Ritornò da Arren e l’aiutò ad alzarsi in piedi. — Adesso vieni, ragazzo — disse; e Arren, sorretto da lui, riuscì ad avanzare barcollando e a lasciarsi cadere nella barca che ondeggiava sotto la fiancata della nave: la Vistacuta, con la vela che spiccava nella nebbia come l’ala di una falena.

Nello stesso silenzio, nella stessa calma morta, la luce si estinse, e la barca virò e si allontanò dalla fiancata della nave. Quasi immediatamente la galea, la fioca lanterna appesa all’albero maestro, i rematori immobili, la nera fiancata incombente, scomparvero. Arren credette di udire voci che prorompevano in grida, ma era un suono troppo esile e subito si perse. Dopo un poco, la nebbia cominciò a diradarsi e a disperdersi nel buio. Emersero le stelle; e silenziosa come una farfalla, la Vistacuta volò nella notte chiara, sul mare.

Sparviero aveva avviluppato Arren nelle coperte e gli aveva dato acqua da bere; era seduto, con la mano sulla spalla del ragazzo, quando quest’ultimo scoppiò improvvisamente a piangere. Sparviero non disse nulla, ma c’era una gentile fermezza nel contatto della sua mano. Lentamente, Arren si sentì confortato: il calore, il leggero movimento della barca, la serenità del cuore.

Alzò gli occhi verso il compagno. Non c’era più il fulgore ultraterreno intorno al volto scuro. Riusciva a malapena a distinguerlo contro lo sfondo delle stelle.

La barca continuava a volare, guidata dall’incantesimo. Le onde mormoravano contro le sue fiancate, quasi stupite.

— Chi è l’uomo dal collare?

— Sta’ calmo. Un predone del mare, Egre. Porta quel collare per nascondere una cicatrice, un taglio alla gola. Sembra che abbia cambiato mestiere, passando dalla pirateria al commercio degli schiavi. Ma questa volta ha catturato il cucciolo d’orso. — C’era un’eco di soddisfazione nella voce quieta e asciutta.

— Come mi hai trovato?

— Magia, corruzione… Ho perso tempo. Non volevo che si risapesse che l’arcimago, il Custode di Roke, si aggirava come un furetto tra le catapecchie di Città Hort. Avrei voluto conservare ancora il mio travestimento. Ma dovevo rintracciare quest’uomo e quello, e quando finalmente ho scoperto che il mercante di schiavi era salpato prima del levar del sole ho perso la calma. Ho preso la Vistacuta e ho pronunciato la parola che ha portato il vento nella sua vela, con la bonaccia, e ho inchiodato agli scalmi i remi di tutte le navi in quella baia: per un po’, almeno. Come lo spiegheranno, se la magia è solo aria e menzogna, è affar loro. Ma nella fretta e nella collera ho superato la nave di Egre senza vederla: si era spinta a sudest per evitare gli scogli. Non ho fatto altro che sbagliare per tutta la giornata. Non c’è fortuna, a Città Hort… Be’, alla fine ho lanciato un incantesimo di ritrovamento, e così mi sono avvicinato alla nave nell’oscurità. Ma adesso non sarebbe meglio che tu dormissi?

— No, adesso mi sento molto meglio. — Una febbre leggera aveva preso il posto del freddo, e adesso Arren si sentiva veramente bene; fisicamente era illanguidito, ma la sua mente sfrecciava rapida da un pensiero all’altro. — Quando ti sei svegliato? Che fine ha fatto Lepre?

— Mi sono svegliato allo spuntar del giorno: e fortuna che ho la testa dura: dietro l’orecchio ho un bernoccolo e un taglio come un cocomero spaccato. Ho lasciato Lepre immerso nel sonno della droga.

— Non ho fatto la guardia come dovevo…

— Ma non perché ti eri addormentato.

— No. — Arren esitò. — Era… ero…

— Mi avevi preceduto: ti ho visto — disse stranamente Sparviero. — E così quelli sono entrati e ci hanno colpiti alla testa come agnelli, hanno preso l’oro, gli abiti buoni, lo schiavo vendibile, e se ne sono andati. È te che volevano, ragazzo. Avresti spuntato il prezzo di una fattoria, al Mercato di Amrun.

— Non mi hanno dato una botta abbastanza forte. Mi sono svegliato. Li ho costretti a inseguirmi. Ho sparpagliato il loro bottino per la strada, prima che mi bloccassero. — Gli occhi di Arren scintillavano.

— Ti sei svegliato mentre c’erano loro… e sei fuggito? Perché?

— Per allontanarli da te. — Lo stupore del tono di Sparviero colpì Arren nel suo orgoglio; aggiunse, risentito: — Pensavo che cercassero te. Pensavo che intendessero ucciderti. Ho afferrato la loro borsa, perché m’inseguissero, e sono fuggito. E loro mi hanno seguito.

— Sì… era logico che lo facessero. — Sparviero non disse altro: non una parola di elogio, sebbene rimanesse seduto a riflettere per qualche istante. — Non hai pensato che io potevo essere già morto?

— No.

— Prima uccidi e poi ruba: è il sistema più sicuro.

— Non ci avevo pensato. Ho pensato soltanto ad allontanarli da te.

— Perché?

— Perché tu avresti potuto difenderci entrambi, tirarci fuori dai guai, se avessi avuto il tempo di svegliarti. O almeno, tirar fuori dai guai te stesso. Io ero di guardia, e non ho fatto il mio dovere. Così, ho cercato di rimediare. Eri tu, quello che dovevo proteggere. Tu sei l’unico che conta. Ti accompagno per difenderti, o per servirti secondo le tue necessità: sei tu a guidarci, sei tu quello che può giungere dove dobbiamo andare e raddrizzare ciò che non va.

— Davvero? — ribatté il mago. — Anch’io la pensavo così, fino all’altra notte. Pensavo di avere un seguace, ma invece ho seguito te. — Il suo tono era sereno, forse un po’ ironico. Arren non seppe ribattere. Era completamente confuso. Aveva pensato che difficilmente la sua colpa di essersi abbandonato al sonno o alla trance mentre stava di guardia sarebbe stata espiata dalla prodezza con cui aveva allontanato i predoni da Sparviero; ma adesso sembrava che il suo fosse stato un gesto sciocco, mentre andare in trance al momento sbagliato era stato straordinariamente opportuno.

— Mi dispiace, mio signore — disse infine, con le labbra irrigidite, dominando a stento l’impulso di piangere. — Ti ho deluso. E tu mi hai salvato la vita…

— E tu, forse, hai salvato la vita a me — replicò il mago, bruscamente. — Chissà? Forse mi avrebbero tagliato la gola, dopo aver finito. Non parliamone più, Arren. Sono lieto di averti con me.

Poi andò alla cassa, accese la piccola stufa a carbone dolce, e cominciò a darsi da fare. Arren rimase sdraiato a guardare le stelle; e le sue emozioni si placarono, la sua mente smise di turbinare. E allora comprese che quanto aveva fatto e non aveva fatto non sarebbe stato giudicato da Sparviero. L’aveva fatto: Sparviero l’accettava come realtà. «Io non punisco» aveva detto a Egre, con voce fredda. E non ricompensava. Ma era venuto in tutta fretta a cercarlo attraverso il mare, scatenando il potere della sua magia per salvarlo; e l’avrebbe fatto ancora. Meritava tutto l’amore che Arren provava per lui, e tutta la fiducia. Perché si era fidato di Arren. Ciò che Arren faceva, era giusto.

Poi l’arcimago ritornò e gli porse una ciotola di vino fumante. — Forse questo ti farà dormire. Sta’ attento, se no ti scotti la lingua.

— Da dove viene? A bordo non ho mai visto un solo otre di vino…

— Sulla Vistacuta c’è molto più di quanto si vede — disse Sparviero, sedendosi di nuovo accanto a lui; e Arren lo sentì ridere, brevemente e quasi silenziosamente, nell’oscurità.

Si levò a sedere, per bere il vino. Era delizioso, e ristorava il corpo e lo spirito. Arren chiese: — Adesso dove andiamo?

— Verso occidente.

— Dove sei andato, con Lepre?

— Nella tenebra. Io non l’ho mai perso, ma lui era perduto. Vagava ai confini esterni, nell’interminabile deserto del delirio e dell’incubo. La sua anima pigolava come un uccello in quei luoghi squallidi, come un gabbiano che grida lontano dal mare. Lui non è una guida: è sempre stato perduto. Nonostante la sua arte magica, non ha mai visto la via davanti a sé: vedeva solo se stesso.

Arren non comprendeva completamente quelle parole, e adesso non voleva neanche capire. Era stato attirato per un breve tratto in quella «tenebra» di cui parlavano i maghi, e non voleva ricordarla: non aveva nulla in comune con lui. E non voleva dormire, per non rivederla in sogno, per non scorgere quella figura cupa, quell’ombra che protendeva una perla e sussurrava «Vieni».

— Mio signore — cominciò, mentre la sua mente virava rapida verso un altro pensiero, — perché…

— Dormi! — disse Sparviero, con blanda esasperazione.

— Non posso dormire, mio signore. Mi sto chiedendo perché non hai liberato gli altri schiavi.

— L’ho fatto. Non ho lasciato nessuno incatenato, a bordo di quella nave.

— Ma gli uomini di Egre erano armati. Se avessi incatenato loro…

— Sì, se li avessi incatenati? Erano soltanto sei. I rematori erano schiavi alla catena, come te. A quest’ora Egre e i suoi uomini possono essere morti, o incatenati dagli altri per finire venduti come schiavi: ma li ho lasciati liberi di combattere o di mercanteggiare. Io non faccio schiavi.

— Ma sapevi che erano uomini malvagi…

— E perciò dovevo comportarmi come loro? Lasciare che le loro azioni condizionassero le mie? Non sarò io a scegliere per loro, e non permetterò che scelgano per me!

Arren rimase in silenzio, riflettendo su quelle parole. Dopo un po’, il mago disse, con voce lieve: — Vedi, Arren: contrariamente a quanto pensano i giovani, un’azione non è un sasso che si raccoglie e si scaglia e che colpisce il bersaglio o lo manca e tutto finisce lì. Quando quel sasso viene sollevato, la terra è più leggera; la mano che lo stringe è più pesante. Quando viene lanciato, i circuiti delle stelle reagiscono, e dove colpisce o cade, l’universo cambia. Da ogni azione dipende l’equilibrio del tutto. I venti e i mari, le potenze dell’acqua e della terra e della luce, tutto ciò che loro fanno e tutto ciò che fanno le bestie e le piante, è ben fatto, e fatto giustamente. Tutti agiscono nell’ambito dell’Equilibrio. Dall’uragano, dall’immersione di una grande balena, fino alla caduta di una foglia secca e al volo di un moscerino, tutto ciò che viene fatto viene fatto nell’ambito dell’equilibrio del tutto. Ma noi, poiché abbiamo potere sul mondo e l’uno sull’altro, dobbiamo imparare a fare ciò che la foglia e la balena e il vento fanno per loro natura. Dobbiamo imparare a mantenere l’equilibrio. Poiché abbiamo l’intelligenza, non dobbiamo agire nell’ignoranza. Poiché possiamo scegliere, non possiamo agire senza responsabilità. Chi sono io, anche se ho il potere di farlo, per punire e ricompensare, giocando col destino degli uomini?

— Ma allora — disse il ragazzo, guardando le stelle con la fronte aggrondata, — l’equilibrio si conserva non facendo nulla? Senza dubbio, un uomo deve agire, anche se non conosce tutte le conseguenze del suo atto, se si deve fare qualcosa.

— Non temere. Per gli uomini, agire è assai più facile che astenersi dall’azione. Continueremo a fare il bene e a fare il male… Ma se ci fosse di nuovo un re, al di sopra di tutti noi, e se chiedesse il consiglio di un mago come avveniva nell’antichità, e io fossi quel mago, gli direi: mio signore, non fare mai qualcosa perché è giusto o lodevole o generoso farlo; non fare qualcosa perché ti sembra bene farlo; fa’ solo ciò che devi fare, e che non puoi fare in altro modo.

Il tono di voce indusse Arren a voltarsi a scrutarlo, mentre parlava. Gli parve che lo splendore della luce s’irradiasse di nuovo da quel volto: vide il naso aquilino, la guancia sfregiata, gli occhi scuri e ardenti. E lo guardò con amore ma anche con paura, pensando: è troppo al di sopra di me. Eppure, mentre lo guardava, si accorgeva finalmente che sulle linee e sui piani del volto di quell’uomo non c’era la luce incantata, non c’era il freddo splendore della magia, ma c’era la luce stessa: il mattino, la normale luce del giorno. C’era un potere più grande di quello del mago. E gli anni non erano stati generosi con Sparviero più che con qualunque altro uomo. Il suo volto recava i segni dell’età, e aveva l’aria stanca, via via che la luce si rafforzava. Arren sbadigliò…

E così, mentre guardava e rifletteva, finalmente si addormentò. Ma Sparviero restò seduto accanto a lui, a guardare l’alba che spuntava e il sole che sorgeva, come se scrutasse un tesoro alla ricerca di qualche oggetto smarrito, una gemma difettosa, un bambino malato.

SOGNI SUL MARE

A mattino inoltrato, Sparviero tolse dalla vela il vento magico e lasciò che la barca procedesse spinta dal vento del mondo, che spirava dolce da sudovest. Lontano, sulla destra, le colline della distante Wathort slittavano via e rimanevano indietro, diventando azzurre e minuscole, come onde nebbiose al di sopra delle onde.

Arren si svegliò. Il mare si crogiolava nel caldo meriggio dorato, acqua infinita sotto una luce infinita. A poppa, Sparviero sedeva nudo: portava solo un perizoma e una specie di turbante fatto con tela da vele. Canterellava a mezza voce, accarezzando la fiancata come se fosse un tamburo, in un ritmo lieve e monotono. Il suo canto non era un incantesimo magico, né narrava le gesta degli eroi o dei re, ma una nenia di parole prive di senso, come potrebbe cantilenare un ragazzo mentre bada alle capre in un lungo pomeriggio d’estate, da solo sulle alte colline di Gont.

Dalla superficie del mare balzò un pesce, che planò nell’aria per molte braccia tendendo le pinne rigide e scintillanti, simili ad ali di libellula.

— Siamo nello Stretto Meridionale — disse Sparviero, quando ebbe concluso il canto. — Una parte molto strana del mondo, dove i pesci volano e i delfini cantano, si dice. Ma l’acqua è tiepida, per nuotare, e io ho un’intesa con gli squali. Fa’ il bagno, per toglierti da dosso il contatto dei mercanti di schiavi.

Arren aveva tutti i muscoli intormentiti, e avrebbe preferito non muoversi. Inoltre non era un nuotatore esperto, perché i mari di Enlad sono turbolenti e bisogna lottare con le acque anziché nuotarvi, e ci si sfinisce presto. Quel mare più azzurro era freddo, al primo momento, ma poi diventò delizioso. L’indolenzimento l’abbandonò. Arren sguazzò accanto alla fiancata della Vistacuta come un giovane serpente di mare. Gli spruzzi zampillavano come fontane. Sparviero lo raggiunse, nuotando a bracciate più decise. Docile e protettiva, la Vistacuta li attendeva, con la sua ala bianca sull’acqua lucente. Un pesce balzò in aria dal mare: Arren l’inseguì; il pesce si tuffò e balzò di nuovo fuori, nuotando nell’aria, volando nel mare, inseguendo lui.

Agile e dorato, il ragazzo giocò e si crogiolò nell’acqua e nella luce fino a quando il sole toccò il mare. E, scuro e magro, con l’economia di gesti e la sobria forza dell’età, l’uomo nuotò, e tenne in rotta la barca, e montò un tendone di tela da vele, e guardò con imparziale tenerezza il ragazzo che nuotava e il pesce volante.

— Dove siamo diretti? — chiese Arren nel crepuscolo inoltrato, dopo un abbondante pasto di carne salata e di pane duro, di nuovo insonnolito.

— Lorbanery — rispose Sparviero, e quelle sillabe morbide formarono l’ultima parola che Arren udì quella notte, e i suoi sogni, all’inizio, vennero a intessersi intorno a quel nome. Sognò di camminare tra refoli di sostanza soffice e pallida, fili e frammenti rosa e aurei e celesti, e provò un piacere infantile; qualcuno gli disse: — Questi sono i serici campi di Lorbanery, dove non viene mai buio. — Ma più tardi, verso la fine della notte, quando le stelle dell’autunno brillarono nel cielo di primavera, sognò di trovarsi in una casa in rovina. Lì l’aria era asciutta. Tutto era polveroso, festonato di ragnatele lacere. Arren aveva le gambe aggrovigliate nelle ragnatele, che gli fluttuavano anche sulla bocca e sulle narici arrestandogli il respiro. E la cosa più atroce era di sapere che quella grande stanza in rovina era quella dove aveva fatto colazione insieme ai Maestri, nella Grande Casa di Roke.

Si svegliò sgomento, col cuore che gli batteva forte e le gambe strette e indolenzite contro la fiancata. Si levò a sedere, cercando di liberarsi dal sogno malefico. A oriente non c’era ancora la luce, ma solo un attenuarsi dell’oscurità. L’albero scricchiolava; la vela, ancora tesa dalla brezza di nordest, luccicava alta e indistinta sopra di lui. A poppa, il suo compagno dormiva profondamente, in silenzio. Si sdraiò di nuovo e si assopì, fino a quando lo destò il giorno fatto.

Quel giorno il mare era più azzurro e calmo di quanto lui avesse mai immaginato, e l’acqua era così tiepida e limpida che nuotare era un po’ come fluttuare nell’aria: era strano, quasi come un sogno.

A mezzogiorno chiese: — I maghi attribuiscono molta importanza ai sogni?

Sparviero stava pescando. Osservava attentamente la lenza. Dopo un lungo silenzio replicò: — Perché?

— Mi chiedevo se contengono qualche verità.

— Sicuramente.

— Predicono il futuro?

Ma un pesce aveva abboccato; e dieci minuti più tardi, quando il mago ebbe tirato a bordo il loro pranzo, uno splendido persico di mare, azzurro-argento, la domanda era ormai dimenticata.

Nel pomeriggio, mentre oziavano, sotto il tendone teso per ripararli dal sole imperioso, Arren chiese: — Cosa cerchiamo, a Lorbanery?

— Quello che cerchiamo — rispose Sparviero.

— A Enlad — disse Arren, dopo un po’, — si racconta la storia di un bambino che aveva per maestro di scuola un sasso.

— Sì?… E cos’aveva imparato?

— A non fare domande.

Sparviero sbuffò, come per reprimere una risata, e si levò a sedere. — Molto bene! — esclamò. — Tuttavia, preferisco non parlare fino a quando non so cosa devo dire. Perché non c’è più magia a Città Hort e a Narveduen e forse in tutti gli stretti? È questo che cerchiamo di scoprire, no?

— Sì.

— Conosci la vecchia massima «le regole cambiano, negli stretti»? La usano i marinai, ma è una massima dei maghi, e significa che perfino la magia dipende dai luoghi. Un vero incantesimo su Roke, su Iffish può essere solo parole vane. La lingua della Creazione non è ricordata dovunque: qui una parola, là un’altra. E perfino la tessitura degli incantesimi è tramata dalla terra e dall’acqua, dai venti e dal modo in cui scende la luce nel luogo dove vengono gettati. Una volta mi sono spinto nell’estremo oriente, così lontano che il vento e l’acqua non ubbidivano al mio comando perché ignoravano i loro veri nomi; o più probabilmente l’ignorante ero io.

«Il mondo è molto grande, il mare aperto si stende assai più lontano di quanto si conosca; e ci sono altri mondi, oltre il mondo. Su quegli abissi di spazio, e nella lunga estensione del tempo, non credo che esista una parola capace di portare, dovunque e per sempre, il peso del suo significato e il suo potere; a meno che sia la Prima Parola che pronunciò Segoy, e che non è più stata detta e non verrà più detta fino a quando tutte le cose verranno annientate… Quindi, anche in questo mondo del nostro Earthsea, tra le piccole isole a noi note, ci sono diversità e misteri e mutamenti. E il luogo meno noto, e più carico di misteri, è lo Stretto Meridionale. Pochi maghi delle Terre Interne sono giunti fra quelle genti. Là non gradiscono gli incantatori, poiché possiedono (così si crede) una loro magia. Ma sono dicerie vaghe, e forse l’arte magica non è mai stata ben conosciuta, là, né veramente compresa. In tal caso potrebbe essere annullata agevolmente da chi decidesse di annullarla, e s’indebolirebbe più facilmente della nostra magia delle Terre Interne. E allora potremmo sentir parlare della decadenza della magia nel sud.

«Perché la disciplina è il canale in cui le nostre azioni scorrono forti e profonde; là dove non c’è direzione, gli atti degli uomini sono superficiali, e vagano e si sprecano. Così, quella donna grassa bardata di specchietti ha perso la sua arte ed è convinta di non averla mai posseduta. Così Lepre prende l’hazia e crede di essersi spinto più lontano di tutti i maghi più grandi, mentre è entrato a malapena nei campi del sogno e già si è perduto… Ma dove crede di andare? Che cosa cerca? Che cosa ha ingoiato la sua magia? Ne abbiamo avuto abbastanza di Città Hort, credo, perciò ci spingiamo più a sud, a Lorbanery, per vedere cosa vi fanno gli incantatori, per scoprire cos’è che dobbiamo scoprire… Ti basta, come risposta?»

— Sì, ma…

— Allora lascia che il sasso rimanga per un poco in silenzio — disse il mago. E stette accanto all’albero, nell’ombra giallastra e chiara del tendone, e guardò il mare, verso occidente, mentre la barca veleggiava dolcemente verso il sud, nel sole del pomeriggio. Stava seduto eretto, taciturno e immobile. Trascorsero le ore. Arren si tuffò un paio di volte per nuotare, scivolando quietamente nell’acqua dalla poppa perché non voleva attraversare la linea dello sguardo di quegli occhi scuri, rivolto verso occidente, sopra il mare, come se vedesse lontano, al di là del luminoso orizzonte, al di là dell’azzurro dell’aria e dei confini della luce.

Sparviero riemerse infine dal suo silenzio e riprese a parlare, anche se la sua conversazione si limitò a una o due parole per volta. L’educazione ricevuta aveva reso Arren capace d’intuire prontamente gli umori mascherati dalla cortesia e dalla riservatezza; sapeva che il suo compagno aveva il cuore pesante. Non gli fece altre domande; venuta sera, chiese: — Se canto, disturbo i tuoi pensieri? — Sparviero rispose, sforzandosi di assumere un tono scherzoso: — Dipende dal modo in cui canti.

Arren si sedette, con le spalle appoggiate all’albero, e cantò. La sua voce non era acuta e dolce come quando il maestro di musica del palazzo di Berila l’aveva educata, anni addietro, traendo armonie dalla grande arpa; adesso i toni più alti erano robusti e quelli profondi avevano la risonanza di una viola, scuri e chiari. Cantò il Lamento per l’incantatore bianco, la trenodia che Elfarran aveva composto quando aveva saputo della morte di Morred e attendeva la propria. È un canto che non viene cantato di frequente o alla leggera. Sparviero ascoltò quella voce giovanile, forte e sicura, e mesta tra il cielo rosseggiante e il mare, e le lacrime gli riempirono gli occhi, accecanti.

Arren rimase in silenzio piuttosto a lungo, dopo quel canto; poi prese a intonare melodie meno importanti e più lievi, a bassa voce, attenuando la grande monotonia dell’aria senza vento e del mare ondeggiante e della luce che si affievoliva nell’appressarsi della notte.

Quando smise di cantare, tutto era silenzioso; il vento era caduto, le onde erano piccole, e il legno e le cime scricchiolavano appena. Il mare taceva, e a una a una spuntavano le stelle. A sud, vivida e penetrante, apparve una luce gialla, che gettò sull’acqua una pioggia di schegge d’oro.

— Guarda! Un faro! — Poi, dopo un minuto: — Possibile che sia una stella?

Sparviero la contemplò per lunghi istanti, e infine disse: — Credo che sia la stella Gobardon. La si può vedere soltanto dallo Stretto Meridionale. Gobardon significa Corona. Kurremkarmerruk ci insegnò che, navigando ancora più a sud, si scoprono altre otto stelle una dopo l’altra, tra l’orizzonte e Gobardon, che formano una grande costellazione: alcuni dicono che rappresenta un uomo in corsa, altri la Runa Agnen. La Runa della Fine.

Guardarono la stella che sorgeva dall’inquieto orizzonte del mare e brillava di luce costante.

— Hai cantato il lamento di Elfarran — disse Sparviero, — come se tu conoscessi la sua angoscia e la facessi conoscere anche a me… Tra tutte le storie di Earthsea, mi ha sempre affascinato più di ogni altra. Il grande coraggio di Morred, in lotta contro la disperazione; e Serriadh che nacque al di là della disperazione, il re dolce. E lei, Elfarran. Quando io commisi il male più grande che abbia mai commesso, credevo di rivolgermi alla sua bellezza; e la vidi… Per un momento, vidi Elfarran.

Un brivido freddo corse lungo la schiena di Arren. Lui deglutì e rimase in silenzio, guardando la bellissima stella minacciosa, gialla come un topazio.

— Qual è il tuo eroe preferito? — chiese il mago; e Arren rispose, con una leggera esitazione: — Erreth-Akbe.

— Perché era il più grande?

— Perché avrebbe potuto governare su tutto Earthsea ma scelse di non farlo e se ne andò da solo e morì solo, combattendo contro il drago Orm sulla spiaggia di Selidor.

Restarono così per un poco, ognuno immerso nei propri pensieri; poi Arren domandò, senza distogliere gli occhi dalla gialla Gobardon: — È vero, dunque, che i morti possono essere riportati in vita dalla magia e possono parlare alle anime viventi?

— Mediante gli incantesimi dell’Evocazione. È un nostro potere. Ma questo viene fatto molto di rado, e dubito che farlo sia saggio. In questo, il Maestro Evocatore è pienamente d’accordo con me: lui non usa e non insegna la Tradizione di Paln, che racchiude quegli incantesimi. Il più grande di tutti venne ideato da colui che è chiamato Mago Grigio di Paln, mille anni orsono. Evocava gli spiriti degli eroi e dei maghi, e perfino quello di Erreth-Akbe, per consigliare i signori di Paln nelle guerre e nel governo. Ma per Paln vennero tempi duri; e il Mago Grigio venne scacciato: morì senza nome.

— Quindi è una cosa malvagia?

— Direi piuttosto che si tratta di un equivoco. Un equivoco sulla vita. Morte e vita sono la stessa cosa… come i due lati della mia mano, il palmo e il dorso. Eppure il palmo e il dorso non sono la stessa cosa… Non è possibile separarli né confonderli.

— Allora nessuno usa più quegli incantesimi?

— Ho conosciuto soltanto un uomo che li usava spensieratamente, senza tener conto dei rischi. Perché sono rischiosi, più pericolosi di qualunque altra magia. La morte e la vita sono come i due lati della mia mano, ho detto, ma in verità noi non sappiamo cosa sia la vita né cosa sia la morte. Rivendicare il potere su ciò che non comprendi non è saggio, ed è difficile che il risultato sia benefico.

— Chi era l’uomo che li usava? — chiese Arren. Sparviero non si era mai mostrato disposto a rispondere alle domande come adesso, in quell’atmosfera tranquilla e pensierosa: entrambi trovavano consolazione in quel colloquio, anche se l’argomento che trattavano era tenebroso.

— Viveva in Havnor. Lo consideravano un semplice incantatore ma era un grande mago, per il suo potere innato, istintivo. Guadagnava denaro, con la sua arte; mostrava a chi lo pagava lo spirito che quello desiderava vedere, la moglie morta, o il marito o il figlio defunto, e riempiva la sua casa di ombre irrequiete dei secoli antichi, le belle donne dei tempi dei re. Io gli ho visto evocare dalla Terra Arida il mio vecchio maestro, che era stato arcimago durante la mia giovinezza, Nemmerle: e l’aveva fatto solo per divertire un gruppo di sfaccendati. E quella grande anima accorse al suo richiamo, come un cane ubbidiente. Mi infuriai, e lo sfidai (non ero arcimago, allora) dicendo: «Tu costringi i morti a venire nella tua casa: sei disposto a venire con me nella loro?». E lo costrinsi a venire con me nella Terra Arida, sebbene si opponesse con tutta la sua forza di volontà e mutasse forma e piangesse a voce alta, quando si accorse che tutto il resto era inutile.

— E allora l’hai ucciso? — bisbigliò Arren, affascinato.

— No! Lo costrinsi a seguirmi nella terra dei morti, e a ritornarne insieme a me. Aveva paura. Lui che chiamava a sé i morti con tanta disinvoltura aveva paura della morte, della propria morte, più di qualunque altro uomo che io abbia mai conosciuto. Al muro di pietre… Ma ti sto dicendo più di quanto sia lecito sapere a un novizio. E tu non sei neppure un novizio. — Nel crepuscolo, gli occhi acuti ricambiarono per un momento lo sguardo di Arren, suscitando in lui un senso di timidezza e di vergogna. — Non importa — disse l’arcimago. — C’è un muro di pietre, dunque, in un certo luogo, al confine. Lo spirito lo varca e va alla morte, e l’uomo vivo può varcarlo e ritornare, se è un mago… Accanto al muro di pietre, quell’uomo si accovacciò, dalla parte dei vivi, e cercò di resistere alla mia volontà, ma non poté. Si aggrappava con le mani alle pietre, e imprecava e urlava. Non ho mai visto una simile paura: la sua nausea nauseava anche me. E questo avrebbe dovuto farmi comprendere che sbagliavo. Ero in preda all’ira e alla vanità. Perché lui era fortissimo, e io smaniavo dal desiderio di dimostrare che ero ancora più forte.

— E dopo cos’ha fatto, quando siete ritornati?

— Si umiliò, e giurò di non usare mai più la Tradizione di Paln; mi baciò la mano, e mi avrebbe ucciso, se avesse osato farlo. Lasciò Havnor e se ne andò in occidente, forse a Paln: anni dopo venni a sapere che era morto. Aveva già i capelli canuti quando lo conobbi, sebbene avesse le braccia lunghe e fosse agile come un lottatore. Che cosa mi ha indotto a parlare di lui? Non riesco neppure a rammentare il suo nome.

— Il suo vero nome?

— No! Quello lo ricordo… — Sparviero s’interruppe, e per lo spazio di tre battiti di cuore restò immobile, in silenzio.

— Lo chiamavano Pannocchia, a Havnor — disse con voce mutata, guardinga. Si era fatto troppo buio perché fosse possibile scorgere la sua espressione. Arren lo vide voltarsi a scrutare la stella gialla, che adesso era più alta sulle onde e gettava sull’acqua una scia spezzata d’oro, sottile come un filo di ragno. Dopo un lungo silenzio disse: — Non è solo nei sogni, capisci, che ci troviamo di fronte a ciò che deve ancora essere in ciò che è dimenticato da molto tempo, e diciamo cose che sembrano assurde perché non ne comprendiamo il significato.

LORBANERY

Vista attraverso dieci miglia d’acqua illuminata dal sole, Lorbanery era verde, verde come il muschio brillante sull’orlo di una fontana. Da vicino si frammentava in fronde, e tronchi d’albero e ombre e strade e case, e volti e indumenti di esseri umani, e polvere, e tutto ciò che compone un’isola abitata dagli uomini. Eppure, nel complesso, era ancora verde: perché ogni acro che non era coperto da case o da strade era lasciato ai bassi e tondeggianti alberi di hurbah, delle cui foglie si nutrono i piccoli bachi che filano la seta, tessuta poi dagli uomini e dalle donne e dai bambini di Lorbanery. Al crepuscolo, l’aria si riempie di piccoli pipistrelli grigi che si nutrono di quei bachi. Ne divorano molti, ma i tessitori di seta li lasciano fare e non li uccidono, e anzi considerano di malaugurio l’uccisione dei pipistrelli dalle ali grige. Perché, dicono, se gli esseri umani vivono dei bachi, anche le piccole nottole hanno il diritto di farlo.

Le case erano strane, con le finestrelle situate a casaccio e i tetti di ramoscelli di hurbah, tutti verdi di muschio e di licheni. Era stata un’isola ricca, per quanto lo sono le isole dello stretto, e lo si poteva vedere tuttora nelle case ben dipinte e ben arredate, nei grandi arcolai e telai delle casette e degli opifici, e nei pontili di pietra del piccolo porto di Sosara, dove potevano attraccare parecchie grandi galee. Ma non c’erano galee, nel porto. Il colore delle case era sbiadito, non c’erano mobili nuovi, e quasi tutti gli arcolai e telai erano fermi, coperti di polvere, e c’erano ragnatele tra un pedale e l’altro, fra intelaiatura e ordito.

— Incantatori? — disse il sindaco del villaggio di Sosara, un ometto dalla faccia dura e brunita come le piante dei suoi piedi scalzi. — Non ci sono incantatori, a Lorbanery. Non ci sono mai stati.

— Chi l’avrebbe mai pensato? — esclamò Sparviero in tono d’ammirazione. Stava seduto in compagnia di otto o nove abitanti del villaggio, e beveva vino di bacche di hurbah, un’annata mediocre e dal sapore amaro. Aveva dovuto dire che si era spinto nello Stretto Meridionale in cerca di pietre emmel, ma non aveva camuffato se stesso né il suo compagno: solo, Arren aveva lasciato la sua spada nascosta a bordo della barca, come al solito; e se Sparviero aveva con sé il suo bastone, non si vedeva. Gli abitanti del villaggio, all’inizio, si erano mostrati cupi e ostili, ed erano pronti a ridiventare ostili e cupi da un momento all’altro: solo l’abilità e l’autorità di Sparviero li aveva costretti ad accettarli, sia pure di malavoglia. — Dovete avere uomini meravigliosamente esperti nella cura degli alberi — disse. — Cosa fanno, quando una gelata in ritardo colpisce le piantagioni?

— Niente — rispose un uomo scarno, in fondo alla fila. Erano seduti così, tutti in fila, con la schiena appoggiata al muro della locanda, sotto la sporgenza del tetto di fronde. A poca distanza dai loro piedi scalzi, le grandi e dolci gocce della pioggia d’aprile battevano sul terreno.

— Il pericolo è la pioggia, non il gelo — disse il sindaco. — Fa marcire i bozzoli. Nessuno può impedire alla pioggia di cadere. Nessuno c’è mai riuscito. — Era bellicoso, quando sentiva parlare di maghi e di magia; alcuni degli altri sembravano più immalinconiti. — Un tempo non pioveva mai, in questa stagione — aggiunse un altro. — Quando era ancora vivo il vecchio.

— Chi? Il vecchio Mildi? Be’, non è più vivo. È morto — osservò il sindaco.

— Lo chiamavano Piantatore — disse l’uomo magro. — Sì. Lo chiamavano Piantatore — confermò un altro. Scese un silenzio, come la pioggia.

Arren sedeva nella nicchia della finestra della locanda, che aveva un’unica stanza. Aveva trovato un vecchio liuto appeso a una parete, un liuto allungato, a tre corde, come si usano nell’isola della Seta, e adesso lo suonava, imparando a trarne una musica, non molto più forte del ritmo della pioggia sul tetto di fronde.

— Nei mercati di Città Hort — disse Sparviero, — ho visto vendere stoffe presentate come seta di Lorbanery. Alcune erano seta: ma nessuna era vera seta di Lorbanery.

— Le stagioni vanno male — commentò l’uomo magro. — Da quattro o cinque anni, ormai.

— Sono cinque anni, dalla Vigilia dell’Aratura — precisò un vecchio, in tono borbottante, soddisfatto di sé, — da quando è morto il vecchio Mildi; sì, è morto, e non aveva neppure l’età che io ho adesso. È morto alla Vigilia dell’Aratura.

— La scarsità ha fatto alzare i prezzi — disse il sindaco. — Per una pezza di seta semifina tinta d’azzurro, adesso incassiamo quello che una volta si otteneva per tre pezze.

— Quando ci riusciamo. Dove sono le navi? E l’azzurro è falso — ribatté l’uomo magro, provocando così una discussione di mezz’ora sulla qualità delle tinture che venivano usate nei grandi opifici.

— Chi prepara le tinture? — chiese Sparviero, e si scatenò un’altra polemica. Risultò così che i procedimenti della tintura erano stati affidati alla supervisione di una famiglia che, per la verità, affermava di avere poteri magici; ma se quelli erano mai stati davvero maghi avevano perso la loro arte, e nessun altro l’aveva più scoperta, come osservò in tono acido l’uomo magro. Perché tutti, tranne il sindaco, erano d’accordo nel riconoscere che le famose tinte azzurre di Lorbanery e l’impareggiabile cremisi, il «fuoco di drago» portato molto tempo prima dalle regine di Havnor, adesso non erano più quelli di un tempo. Avevano perso qualcosa. La colpa era delle piogge intempestive, o delle terre delle tinte, o dei raffinatori. — Oppure degli occhi degli uomini — disse l’uomo magro, — che non saprebbero distinguere il vero azzurro dal fango blu. — E lanciò un’occhiataccia al sindaco. Il sindaco non raccolse la frecciata, e tutti ripiombarono nel loro mutismo.

Il vino fiacco sembrava inacidire il loro umore: avevano tutti la faccia cupa. Adesso non c’erano altri suoni che il fruscio della pioggia sulle innumerevoli foglie dei frutteti della valle, e il mormorio del mare giù in fondo alla strada, e il sussurro del liuto nell’oscurità della locanda.

— Sa cantare, quel tuo ragazzo dall’aria di fanciulla? — domandò il sindaco.

— Sì, sa cantare. Arren! Cantaci qualcosa, ragazzo.

— Non riesco a far suonare a questo liuto qualcosa che non sia in tono minore — disse Arren dalla finestra, sorridendo. — Vuole piangere. Cosa gradireste ascoltare, miei anfitrioni?

— Qualcosa di nuovo — borbottò il sindaco.

Il liuto trillò un poco: Arren aveva imparato a conoscerlo. — Questa potrebbe essere nuova, qui — disse. Poi cantò.

Per il bianco stretto di Soléa

e i rossi rami piegati

che protendono i loro fiori

sulla sua testa china, appesantita

dall’angoscia per l’amante perduto,

per il ramo rosso e il ramo bianco

e la pena incessante,

io giuro, Serriadh,

figlio di mia madre e di Morred,

di ricordare il torto subito,

per sempre, per sempre.

Tutti tacevano, immobili: i volti amareggiati e quelli stizziti, le mani affaticate e i corpi. Sedevano in silenzio nel caldo crepuscolo piovoso del sud, e ascoltavano quel canto, come il grido del cigno grigio dei mari freddi di Éa, doloroso e disperato. Per un poco, dopo la fine del canto, continuarono a tacere.

— È una strana musica — disse uno, in tono incerto.

Un altro, sicuro che l’isola di Lorbanery fosse il centro assoluto del tempo e dello spazio, osservò: — La musica forestiera è sempre strana e tetra.

— Fateci sentire la vostra — propose Sparviero. — Mi piacerebbe udire qualcosa di gaio. Il ragazzo vuole sempre cantare gli antichi eroi morti.

— Lo farò io — disse l’ultimo che aveva parlato; indugiò un poco, e cominciò a cantare di un robusto e fidato barile di vino e ehi, oh, andiamocene in giro! Ma nessuno gli fece eco nel coro, e l’uomo stonò su «ehi, oh».

— Non si canta più come si deve — disse, irritato. — È colpa dei giovani, che cambiano sempre il modo di fare le cose e non imparano le vecchie canzoni.

— Non è questo — replicò l’uomo magro. — Non c’è più niente che vada bene. Più niente.

— Sì, sì, è vero — piagnucolò il più vecchio. — La buona fortuna è finita. Ecco. La buona fortuna è finita.

Poi non ci fu molto altro da dire. Gli abitanti del villaggio se ne andarono, a due o tre insieme, e Sparviero rimase solo davanti alla finestra, e Arren nella nicchia. E poi Sparviero rise. Ma non era una risata gaia.

La timidissima moglie del locandiere venne a preparare i letti sul pavimento e uscì, e i due si sdraiarono per dormire. Ma le alte travi della stanza erano dimora dei pipistrelli. Per tutta la notte, entrarono e uscirono dalla finestra senza vetri, stridendo con voci acutissime. Solo all’alba ritornarono tutti e si misero tranquilli: ognuno si compose in un minuscolo e ordinato involto grigio, appeso capovolto a una trave.

Forse fu l’inquietudine dei pipistrelli a turbare il sonno di Arren. Erano passate molte notti da quando aveva dormito a terra per l’ultima volta: il suo corpo non era più abituato all’immobilità della terraferma, e mentre si addormentava gli diceva che dondolava, dondolava… e allora il mondo veniva meno sotto di lui, e si svegliava con un grande sussulto. Quando finalmente si addormentò, sognò di essere incatenato nella stiva della nave dei mercanti di schiavi; altri erano incatenati insieme a lui, ma erano tutti morti. Si destò più volte da quel sogno dibattendosi e lottando per liberarsene; ma quando si riassopiva tornava a immergervisi. Alla fine gli parve di essere solo sulla nave ma ancora incatenato, e di non potersi muovere. Poi una strana voce lenta gli parlò all’orecchio. — Sciogli le tue catene — disse. — Sciogli le tue catene. — Allora tentò di muoversi, e si mosse: si alzò. Adesso era in un’immensa brughiera semibuia, sotto un cielo pesante. C’era orrore nella terra e nell’aria densa: un’enormità di orrore. Quel luogo era la paura, la paura stessa; e lui era lì, e non c’erano sentieri. Doveva trovare la via, ma non c’erano sentieri, e lui era piccolo come un bambino, come una formica, e quel luogo era immenso, infinito. Cercò di camminare, incespicò e si svegliò.

La paura era dentro di lui, adesso che era desto: non era più lui a essere dentro la paura. Tuttavia questa era ugualmente enorme e sconfinata. Si sentiva soffocato dalla nera oscurità della camera, cercò le stelle nell’indistinto riquadro della finestra, ma sebbene la pioggia fosse cessata le stelle non c’erano. Rimase a giacere, sveglio, impaurito, e i pipistrelli entravano e uscivano a volo con le silenziose ali coriacee. Talvolta sentiva le loro strida acutissime, al limite dell’udibilità.

Il mattino spuntò luminoso; e si alzarono di buon’ora. Sparviero cominciò a cercare con impegno le pietre emmel. Sebbene nessuno, tra gli abitanti del villaggio, sapesse cos’era la pietra emmel, tutti avevano teorie in proposito, e litigavano; e lui ascoltava, anche se in realtà cercava ben altre notizie che quelle sulla pietra emmel. Alla fine lui e Arren si avviarono per la strada indicata dal sindaco, verso le cave dove veniva estratta la terra azzurra per le tinture. Ma lungo il percorso, Sparviero deviò.

— La casa dev’essere quella — annunciò. — Hanno detto che quella famiglia di tintori e di maghi screditati vive su questa strada.

— Servirà a qualcosa, parlare con loro? — chiese Arren, che ricordava fin troppo bene Lepre.

— Questa malasorte ha un centro — disse il mago, in tono aspro. — C’è un luogo dove la fortuna si esaurisce. Ho bisogno di una guida per giungervi! — E proseguì, e Arren dovette seguirlo.

La casa stava in disparte, tra le sue piantagioni; era un bell’edificio di pietra, ma appariva trascurata da molto tempo, come tutte le piantagioni circostanti. I bozzoli non raccolti dei bachi da seta pendevano scoloriti tra i rami sfrangiati, e il terreno era coperto da uno strato di bachi e di farfalle morti, sottili come carta. Tutt’intorno alla casa, sotto i fitti alberi, aleggiava un odore di putredine, e quando si avvicinarono Arren ricordò all’improvviso l’orrore che l’aveva assalito nella notte.

Prima che giungessero alla porta, quella si spalancò. Ne uscì a precipizio una donna dai capelli grigi che roteava gli occhi arrossati e gridava: — Via, maledetti, ladri, calunniatori, idioti, bugiardi, sciocchi bastardi! Andate via, via! La malasorte vi accompagni per sempre!

Sparviero si fermò, con aria piuttosto sorpresa, e poi levò in fretta la mano in uno strano gesto. Pronunciò una sola parola: — Indietro!

La donna smise di gridare. Lo fissò.

— Perché l’hai fatto?

— Per allontanare la tua maledizione.

La donna lo guardò ancora per qualche istante e poi disse, con voce rauca: — Forestieri?

— Del nord.

La donna si fece avanti. In un primo momento, Arren aveva provato l’impulso di ridere di quella vecchia che urlava sulla soglia della sua casa; ma adesso che le era vicino provava soltanto un senso di vergogna. Era sporca e malvestita, e il suo alito era fetido, e nei suoi occhi c’era una terribile espressione di sofferenza.

— Non ho il potere di maledire — mormorò. — Nessun potere. — Imitò il gesto di Sparviero. — Lo fanno ancora, nel luogo da dove venite?

Il mago annuì. La scrutò con fermezza, e lei ricambiò lo sguardo. Dopo un poco, il volto della donna incominciò a cambiare espressione. Chiese: — Dov’è il tuo bastone?

— Non lo mostrerò qui, sorella.

— No, non devi farlo. Ti terrà lontano dalla vita. Come il mio potere: mi teneva lontana dalla vita. Quindi l’ho perso. Ho perso tutte le cose che conoscevo, tutte le parole e tutti i nomi. Uscivano in fili sottili come ragnatele, dai miei occhi e dalla mia bocca. C’è una breccia nel mondo, e ne esce la luce. E le parole se ne vanno insieme alla luce. Lo sapevi? Mio figlio sta cercando tutto il giorno al buio, con lo sguardo fisso, cercando la breccia nel mondo. Dice che vedrebbe meglio se fosse cieco. Ha perso la sua abilità di tintore. Noi eravamo i Tintori di Lorbanery. Guarda! — Agitò davanti a loro le braccia magre e muscolose, macchiate fino alla spalla da una mistura striata e sbiadita di tinture indelebili. — Non si stacca mai dalla pelle — disse. — Ma la mente si ripulisce. Non trattiene i colori. Chi siete?

Sparviero non rispose. I suoi occhi fissavano di nuovo quelli della donna; e Arren, che si teneva un po’ in disparte, osservava inquieto.

All’improvviso, lei tremò e disse, in un bisbiglio: — Io ti conosco…

— Sì. Ogni simile conosce il suo simile, sorella.

Stranamente, la donna si scostò dal mago, atterrita, come se volesse sfuggirgli, e nello stesso tempo sembrava ansiosa di accostarsi, come per inginocchiarsi ai suoi piedi.

Sparviero le prese la mano e la trattenne. — Vorresti riavere il tuo potere, l’arte, i nomi? Io posso ridarteli.

— Tu sei il Grande Uomo — mormorò lei. — Tu sei il Re delle Ombre, il Signore del Luogo Tenebroso…

— No. Non sono un re. Sono un uomo, un mortale, tuo fratello e tuo simile.

— Ma non morirai?

— Morirò.

— Ma ritornerai e vivrai in eterno.

— No. Né io né nessun altro.

— Allora tu non sei… non sei il Grande della tenebra — disse la donna, aggrottando la fronte e guardandolo un po’ di sottecchi, con minore paura. — Tuttavia, tu sei un Grande. Ce ne sono due? Qual è il tuo nome?

Il severo volto del mago si addolcì un momento. — Non posso dirtelo — rispose gentilmente.

— Ti dirò un segreto — fece la donna. Adesso stava più eretta, di fronte a lui, e nella sua voce e nel suo portamento c’era un’eco della sua antica dignità. — Non voglio vivere e vivere e vivere per sempre. Preferirei riavere i nomi delle cose. Ma sono tutti svaniti. I nomi non hanno più importanza. Vuoi conoscere il mio nome? — I suoi occhi si riempirono di luce; strinse i pugni e si protese verso Sparviero, mormorando: — Il mio nome e Akaren. — Poi gridò. — Akaren! Akaren! Il mio nome è Akaren! Adesso tutti conoscono il mio nome segreto, il mio vero nome, e non ci sono segreti, e non c’è la verità, e non c’è la morte… la morte… la morte! — Gridò quella parola singhiozzando, e la saliva le volò dalle labbra.

— Taci, Akaren!

La donna tacque. Le lacrime le scorrevano sul volto sudicio, invaso dalle ciocche spettinate dei capelli grigi.

Sparviero prese tra le mani quel volto grinzoso e striato dal pianto e delicatamente, teneramente, la baciò sugli occhi. La donna restò immobile, a occhi chiusi. Poi, accostatele le labbra all’orecchio, lui pronunciò qualche parola nella Vecchia Lingua, la baciò di nuovo, e la lasciò andare.

La donna aprì i limpidi occhi e lo guardò per qualche istante con un’espressione pensierosa e stupita. È così che un neonato guarda la madre e che una madre guarda il figlio. Si girò lentamente, si diresse alla porta, entrò, e la chiuse dietro di sé: sempre in silenzio, e sempre con quell’espressione di stupore.

In silenzio, il mago si voltò e s’incamminò per raggiungere la strada. Arren lo seguì. Non osò fargli domande. Dopo un po’, il mago si fermò, lì nella piantagione devastata, e disse: — Le ho preso il suo nome e gliene ho dato uno nuovo. E così, in un certo senso, è una rinascita. Non c’era altro aiuto, altra speranza che potessi darle.

La sua voce era forzata, soffocata.

— Era una donna del potere — continuò. — Non una semplice strega o una fattucchiera, ma una donna dotata di arte e di abilità, che usava le sue capacità per creare il bello: una donna fiera e onorevole. Quella era la sua vita. Ed è tutto sprecato. — Si voltò, bruscamente, si avviò tra i filari della piantagione, e si fermò accanto a un albero, voltando le spalle ad Arren.

Arren l’attese nella luce afosa, screziata dalle fronde. Sapeva che Sparviero si vergognava di opprimerlo con le sue emozioni: e in verità lui non poteva dire nulla o fare nulla. Ma il suo cuore volò verso il suo compagno, non più con quell’ardente adorazione iniziale e romantica ma con dolore, come se si fosse creato tra loro un legame infrangibile. Perché in quell’amore che provava adesso c’era compassione; e senza quella compassione l’amore non è temprato, e non è completo, e non dura.

Dopo un po’, Sparviero ritornò accanto a lui attraverso la verde ombra della piantagione. Nessuno dei due parlò; procedettero a fianco a fianco. Era già molto caldo; la pioggia della notte precedente si era prosciugata, e la polvere si sollevava dalla strada sotto i loro passi. Prima, quel giorno era parso squallido e insulso ad Arren, quasi fosse contagiato dai suoi sogni: ma adesso trovava piacere nel morso della luce del sole e nel sollievo dell’ombra, e si compiaceva di camminare senza chiedersi quale fosse la loro destinazione.

E fu bene che fosse così, perché non conclusero nulla. Il pomeriggio venne impiegato a discorrere con gli uomini che lavoravano nelle cave delle argille colorate, e a mercanteggiare l’acquisto di pezzetti di quella che veniva presentata come pietra emmel. Mentre tornavano lentamente verso Sosara, col sole del tardo pomeriggio che batteva loro sulla testa e sul collo, Sparviero osservò: — È malachite azzurra: ma credo che neppure a Sosara capiranno la differenza.

— Sono molto strani, qui — disse Arren. — È sempre così con tutto: non conoscono la differenza. Come ciò che uno di loro ha detto al sindaco, ieri sera: «Non sapresti riconoscere il vero azzurro dal fango blu…». Si lagnano dei tempi grami, ma non sanno quando hanno avuto inizio; non conoscono neppure la differenza fra un artigiano e un incantatore, tra i manufatti e la magia. È come se non avessero in mente una netta distinzione tra le linee e i colori e le cose. Per loro, è tutto uguale: è tutto grigio.

— Sì — disse il mago, pensieroso. Continuò a camminare per un po’, con la testa aggobbita tra le spalle, come un falco; sebbene fosse basso di statura, camminava a lunghi passi. — Cos’è che gli manca?

Arren rispose, senza esitazioni: — La gioia della vita.

— Sì — disse di nuovo Sparviero, accettando l’affermazione di Arren e considerandola per lunghi istanti. — Sono lieto — disse alla fine, — che tu sappia pensare per me, ragazzo… Mi sento stanco e intontito. Ho il cuore stretto fin da stamattina, quando abbiamo parlato con la donna che era Akaren. Non mi piacciono gli sprechi e la distruzione. Non voglio un nemico. Se devo avere un nemico, non voglio cercarlo e trovarlo e incontrarlo… Se si deve andare in cerca di qualcosa, il premio dev’essere un tesoro, non qualcosa di detestabile.

— Un nemico, mio signore? — chiese Arren.

Sparviero annuì.

— Quando quella donna ha parlato del Grande Uomo, del Re delle Ombre…?

Sparviero annuì di nuovo. — Credo di sì — disse. — Credo che dovremo trovare non soltanto un luogo ma una persona. Ciò che avviene su quest’isola è malefico, malefico: questa perdita dell’arte e dell’orgoglio, questa assenza di gioia, questo spreco. È l’opera di una volontà maligna. Ma è una volontà che neppure si cura di tutto questo, che non si accorge neppure di Akaren o di Lorbanery. La pista che cerchiamo è una pista di devastazione, come se seguissimo un carro sfuggito al controllo, giù lungo il declivio di una montagna, e lo vedessimo dare l’avvio a una valanga.

— Lei… Akaren… potrebbe dirti qualcosa di più di questo nemico… chi è e dov’è, o che cosa è?

— Adesso no, ragazzo — rispose il mago, con voce sommessa ma piuttosto amara. — Senza dubbio avrebbe potuto farlo. Nella sua demenza c’era ancora un po’ di magia. Anzi, la sua demenza era la sua magia. Ma non potevo costringerla a rispondermi. Soffriva troppo.

E proseguì, con la testa aggobbita tra le spalle, come se lui stesso soffrisse e desiderasse evitare quel dolore.

Arren si voltò udendo uno scalpiccio di piedi sulla strada, dietro di loro. C’era un uomo che li stava rincorrendo: era molto lontano, ma guadagnava rapidamente terreno. La polvere della strada e i lunghi capelli ispidi formavano aureole rosse intorno a lui, nella luce del tramonto, e la sua lunga ombra spiccava balzi fantastici lungo i tronchi e i filari delle piantagioni che fiancheggiavano la strada. — Ascoltate! — gridò. — Fermatevi! Ho trovato! Ho trovato!

Li raggiunse, correndo. La mano di Arren volò di scatto dove avrebbe dovuto esserci l’elsa della spada, e poi dove avrebbe dovuto esserci il pugnale perduto, e quindi si strinse a pugno, in un mezzo secondo. Con una smorfia, si fece avanti. L’uomo era di tutta la testa più alto di Sparviero, e aveva le spalle ampie: un pazzo ansimante e delirante, con gli occhi stralunati. — Ho trovato! — continuava a ripetere, mentre Arren, cercando d’intimidirlo con un tono e un atteggiamento severi e minacciosi, diceva: — Cosa vuoi? — L’uomo tentò di girargli intorno per avvicinarsi a Sparviero; Arren gli si parò di nuovo davanti.

— Tu sei il Tintore di Lorbanery — disse Sparviero.

Allora Arren si rese conto che da parte sua era stata una sciocchezza tentare di proteggere il compagno: e si scostò, togliendosi di mezzo. Perché, a quelle sei parole del mago, il pazzo smise di ansimare e di contrarre le grossi mani macchiate: i suoi occhi si acquietarono. Chinò il capo in segno di assenso.

— Ero il tintore — disse. — Ma ora non so più tingere. — Poi guardò di sottecchi Sparviero e sogghignò; scosse la testa dagli irti capelli rossi e e impolverati. — Tu hai portato via il nome a mia madre — disse. — Adesso io non la conosco, e lei non conosce me. Mi vuole ancora abbastanza bene, ma mi ha lasciato. È morta.

Arren si sentì stringere il cuore, ma vide che Sparviero si limitava a scuotere leggermente la testa. — No, no — disse il mago. — Non è morta.

— Ma morirà. Morirà.

— Sì. È una conseguenza del fatto di essere vivi — osservò il mago. Il Tintore parve riflettere per lunghi istanti su quel concetto; poi si avvicinò allo Sparviero, l’afferrò per le spalle e si chinò su di lui. Si mosse con tanta rapidità che Arren non riuscì a impedirglielo: ma si accostò, e perciò lo sentì mormorare: — Ho trovato la breccia nella tenebra. Ci stava il re. La vigila: la governa. Aveva in mano una piccola fiamma, una minuscola candela. Vi ha soffiato sopra, e si è spenta. Poi vi ha soffiato sopra di nuovo, e si è riaccesa. Si è riaccesa!

Sparviero non protestò per il modo in cui l’uomo lo teneva stretto, mormorando. Chiese, semplicemente: — Dov’eri, quando l’hai visto?

— A letto.

— Sognavi?

— No.

— Oltre il muro?

— No — disse il Tintore, in tono improvvisamente sobrio, e come se si sentisse a disagio. Lasciò andare il mago, e indietreggiò di un passo. — No, io… Non so dov’è. L’ho trovato. Ma non so dov’è.

— È quello che vorrei sapere — disse Sparviero.

— Io posso aiutarti.

— Come?

— Tu hai una barca. Ti è servita per venire qui, e proseguirai. Andrai a occidente? Quella è la strada. La strada verso il luogo da dove lui è venuto. Dev’esserci un luogo, un luogo qui, perché lui è vivo… non solo gli spiriti, gli spettri, che vengono oltre il muro, non così… non si può portare null’altro che le anime oltre il muro: ma quello è un corpo, è la carne immortale. Ho visto la fiamma sorgere nell’oscurità al suo soffio, la fiamma che si era spenta. L’ho vista. — Il volto dell’uomo era trasfigurato, e aveva una bellezza selvaggia nella lunga luce rosso-oro. — So che ha sconfitto la morte. Lo so. Ho dato la mia magia per saperlo. Ero un incantatore, una volta! E tu lo sai, e andrai là. Conducimi con te.

La stessa luce risplendeva sul volto di Sparviero, ma lo lasciava impassibile e duro. — Sto cercando di andarci — disse.

— Lascia che venga con te!

Sparviero annuì, sobriamente. — Se sarai pronto quando salperemo — disse, con la stessa freddezza.

Il Tintore indietreggiò di un altro passo e si fermò a scrutarlo. L’esaltazione si rannuvolò lentamente, fino a essere sostituita da un’espressione strana, pesante: si sarebbe detto che il pensiero razionale cercasse di erompere attraverso la tempesta di parole e di sentimenti e di visioni che lo confondevano. Infine girò su se stesso senza pronunciare una parola e riprese a correre lungo la strada, nella nube di polvere che non era ancora ricaduta. Arren tirò un lungo respiro di sollievo.

Anche Sparviero sospirò, ma non sembrava che si sentisse il cuore più leggero. — Bene — disse. — Le vie strane hanno strane guide. Andiamo.

Arren si avviò al suo fianco. — Non vorrai condurlo con noi, vero?

— Spetta a lui decidere.

In un lampo di collera, Arren pensò: spetta anche a me. Ma non disse nulla; e proseguirono insieme, in silenzio.

Non furono ben accolti, al loro ritorno a Sosara. Su una piccola isola come Lorbanery, tutto viene risaputo subito, e senza dubbio li avevano visti deviare verso la Casa dei Tintori, e parlare col pazzo lungo la strada. Il locandiere li servì sgarbatamente, e sua moglie si comportò come se avesse una paura terribile di loro. La sera, quando gli uomini del villaggio vennero a sedersi sotto la tettoia della locanda, evitarono ostentatamente di parlare con i forestieri e si sforzarono di conversare tra loro con spiritosa gaiezza. Ma non avevano molte spiritosaggini da scambiarsi, e ben presto esaurirono tutta l’allegria. Rimasero seduti a lungo in silenzio, e infine il sindaco chiese a Sparviero: — Hai trovato le tue pietre azzurre?

— Ho trovato alcune pietre azzurre — rispose educatamente il mago.

— Sopli ti ha mostrato dove trovarle, senza dubbio.

— Ah, ah, ah — fecero gli altri uomini, di fronte a quel capolavoro d’ironia.

— Sopli sarebbe l’uomo dai capelli rossi?

— Il pazzo. Avete fatto visita a sua madre, questa mattina.

— Io stavo cercando un mago — disse Sparviero.

L’uomo magro, che sedeva più vicino a lui, sputò nell’oscurità. — Perché?

— Credevo che avrei potuto scoprire quello che cerco.

— La gente viene a Lorbanery per acquistare la seta — disse il sindaco. — Non viene in cerca di pietre. E neppure in cerca d’incantesimi. O di gesti e di frasi senza senso e di trucchi da incantatori. Qui vivono persone oneste, che fanno un lavoro onesto.

— È vero. Ha ragione — dissero altri.

— E non vogliamo nessun altro, qui, individui che vengono da terre straniere per curiosare e impicciarsi degli affari nostri.

— È vero. Ha ragione — ripeterono gli altri, in coro.

— Se qui ci fosse qualche incantatore che non fosse pazzo, gli daremmo un lavoro onesto negli opifici: ma quelli non sanno neppure fare un lavoro onesto.

— Potrebbero saperlo, se ce ne fossero — disse Sparviero. — Gli opifici sono vuoti, le piantagioni sono abbandonate, la seta nei vostri magazzini è stata tutta tessuta anni addietro. Cosa fate, qui a Lorbanery?

— Badiamo agli affari nostri — rispose aspramente il sindaco, ma l’uomo magro s’intromise in tono eccitato: — Perché non vengono, le navi? Diccelo tu! Cosa fanno a Città Hort? Forse perché il nostro lavoro è scadente? — Venne interrotto da smentite rabbiose. Gli uomini si scambiarono grida, balzarono in piedi, il sindaco agitò il pugno in direzione di Sparviero, un altro sfoderò un coltello. Erano infuriati. Arren scattò in piedi, prontamente. Guardò Sparviero, aspettandosi di vederlo cinto all’improvviso dal fulgore della luce magica, pronto ad ammutolirli con la rivelazione del suo potere. Ma quello non lo fece. Rimase seduto a guardare gli uomini e ad ascoltare le loro minacce. E a poco a poco quelli si azzittirono, come se non sapessero alimentare la loro collera più di quanto sapessero alimentare l’allegria. Il coltello fu rinfoderato; le minacce si mutarono in sbuffi sprezzanti. Cominciarono ad allontanarsi come cani dopo una zuffa, alcuni baldanzosi, altri con fare furtivo.

Quando i due rimasero soli, Sparviero si alzò, entrò nella locanda, e bevve una lunga sorsata d’acqua, dalla brocca accanto alla porta. — Vieni, ragazzo — disse. — Ne ho avuto abbastanza.

— Andiamo alla barca?

— Sì. — Posò due pezzi d’argento sul davanzale della finestra, per pagare il vitto e l’alloggio, e si caricò sulle spalle il leggero involto dei loro indumenti. Arren era stanco e insonnolito, ma girò lo sguardo sulla stanza squallida e soffocante, che adesso era tutta un fremito di pipistrelli inquieti, fra le travi; pensò alla notte che vi aveva trascorso e fu ben lieto di seguire Sparviero. E mentre percorrevano l’unica e buia strada di Sosara, pensò che andandosene adesso avrebbe lasciato lì il pazzo. Ma quando giunsero al porto, Sopli li stava aspettando sul pontile.

— Eccoti qui — disse il mago. — Sali a bordo, se vuoi venire con noi.

Senza pronunciare una parola, Sopli si calò nella barca e si rannicchiò accanto all’albero, come un grosso cane irsuto. Arren si ribellò. — Mio signore! — disse. Sparviero si voltò: si guardarono, faccia a faccia, sul pontile.

— Su quest’isola sono tutti pazzi, ma credevo che tu non lo fossi. Perché lo porti con noi?

— Come guida.

— Una guida… verso altre pazzie? Verso la morte per annegamento, o per una coltellata nella schiena?

— Verso la morte, ma non so per quale strada.

Arren aveva parlato accalorandosi, e sebbene Sparviero rispondesse quietamente, nella sua voce c’era una nota di risentimento. Non era abituato a simili contestazioni. Ma sempre, da quando Arren aveva cercato di difenderlo dal pazzo quel pomeriggio, per la strada, e si era accorto che la sua protezione era vana e inutile, aveva provato un senso di amarezza, e tutto lo slancio di devozione che aveva sentito al mattino era rovinato e sprecato. Non era in grado di proteggere Sparviero: non gli era consentito prendere decisioni; non poteva neppure comprendere il carattere della loro ricerca, o non gli era permesso. Veniva semplicemente trascinato, inutile come un bambino. Ma non era un bambino.

— Non vorrei litigare con te, mio signore — disse, con tutta la possibile freddezza. — Ma questo… questo è irragionevole.

— È irragionevole. Noi stiamo andando dove la ragione non può condurci. Vuoi venire o non vuoi venire?

Gli occhi di Arren si riempirono di lacrime di rabbia. — Ho detto che sarei venuto con te e che ti avrei servito. Non verrò meno alla mia parola.

— Bene — disse cupamente il mago, e fece l’atto di voltarsi. Poi si girò di nuovo verso Arren. — Ho bisogno di te, e tu hai bisogno di me. Perché, ti dico ora, credo che la strada che ci accingiamo a percorrere sia la tua, e dovrai seguirla: non per ubbidienza o devozione nei miei confronti, ma perché era la tua prima ancora che tu mi vedessi, prima ancora che mettessi piede su Roke, prima che salpassi da Enlad. Non puoi voltarle le spalle.

La sua voce non si era addolcita. Arren gli rispose, altrettanto torvo: — E come potrei voltarle le spalle, se non ho una barca e sono all’orlo del mondo?

— Questo è l’orlo del mondo? No, quello è molto più lontano. Forse ci arriveremo.

Arren annuì e balzò nella barca. Sparviero sciolse l’ormeggio e chiamò nella vela un vento leggero. Quando si furono allontanati dai deserti moli di Lorbanery, l’aria prese a spirare fresca e pulita dal buio del nord e la luna eruppe argentea dal mare lucente davanti a loro e veleggiò sulla loro sinistra quando virarono verso sud per costeggiare l’isola.

IL PAZZO

Il pazzo, il Tintore di Lorbanery, stava raggomitolato contro l’albero maestro, con le braccia strette intorno alle ginocchia e la testa china. La massa dei capelli irsuti sembrava nera, nel chiaro di luna. Sparviero si era avvolto in una coperta e si era addormentato a poppa. Nessuno dei due si muoveva. Arren stava seduto a prua: aveva giurato a se stesso di vegliare durante l’intera notte. Se il mago aveva deciso di credere che il passeggero demente non avrebbe aggredito né lui né Arren nel corso della notte, era liberissimo di farlo; ma Arren avrebbe continuato a pensare come voleva, e si sarebbe assunto le proprie responsabilità.

Ma la notte fu lunghissima e molto tranquilla. La luce della luna scendeva immutabile. Rannicchiato accanto all’albero, Sopli russava, con un suono lungo e sommesso. La barca procedeva dolcemente; dolcemente, Arren scivolò nel sonno. Si svegliò con un sussulto, dopo un po’, e vide che la luna era di poco più alta; rinunciò alla decisione di montare di guardia, si assestò più comodamente, e si addormentò.

Sognò ancora, come sembrava che sognasse sempre durante quel viaggio, e all’inizio i sogni furono frammentari ma stranamente dolci e rassicuranti. Al posto dell’albero maestro della Vistacuta cresceva una grande pianta, con i rami arcuati e carichi di foglie; c’erano cigni che guidavano la barca, volando sulle forti ali; lontano, più avanti, sul mare verde come berillo, splendeva una città dalle torri bianche. Poi si trovò in una di quelle torri: saliva la scala a spirale, correndo a passi leggeri e impazienti. Quelle scene cambiavano e ritornavano e portavano ad altre, che passavano senza lasciare tracce; ma all’improvviso Arren fu nel cupo e terrificante crepuscolo della brughiera, e l’orrore crebbe dentro di lui fino a impedirgli di respirare. Ma lui avanzava, perché doveva avanzare. Dopo molto tempo s’accorse che lì avanzare significava procedere in cerchio e ritornare sulle proprie tracce. Eppure doveva andarsene, doveva andare via. L’impulso diventò più incalzante. Si mise a correre. Via via che correva, i cerchi si restringevano e il terreno diventava inclinato. Nell’oscurità sempre più fitta Arren correva sempre più veloce, intorno al ciglio interno di un abisso, un gorgo enorme che sprofondava nella tenebra: e quando se ne accorse, scivolò e cadde.

— Cosa ti succede, Arren?

Sparviero gli aveva parlato dalla poppa della barca. La grigia alba teneva immobili il mare e il cielo.

— Niente.

— L’incubo?

— Niente.

Arren aveva freddo, e il suo braccio destro era intorpidito perché gli stava sdraiato sopra. Chiuse di nuovo gli occhi, di fronte alla luce che diventava più intensa, e pensò: Lui allude a questo e a quello, ma non mi dice mai chiaramente dove stiamo andando o perché, e neppure perché io devo andarci. E adesso si trascina dietro questo pazzo. Ma chi è più demente, il pazzo oppure io che vado con lui? Forse loro due possono intendersi: adesso i maghi sono pazzi, ha detto Sopli. Io potrei essere di nuovo in patria, a casa mia, nel palazzo di Berila, nella mia stanza dalle pareti scolpite, con i tappeti rossi sul pavimento e il fuoco acceso nel camino, e mi sveglierei per andare insieme a mio padre a caccia con i falchi. Perché sono venuto con lui? Perché mi ha condotto con sé? Perché è la mia strada, dice: ma questi sono discorsi da mago, che fanno sembrare le cose più grandi con grandi parole. Ma il significato delle parole è sempre altrove. Se ho una strada da seguire, è quella che conduce alla mia patria, e non a vagare senza ragione attraverso gli stretti. Ho doveri da compiere, in patria, e li sto evitando. Se lui pensa veramente che c’è all’opera un nemico della magia, perché è partito solo, con me? Avrebbe potuto condurre un altro mago che l’aiutasse… o cento maghi. Avrebbe potuto portare un esercito di guerrieri, un’intera flotta. È così che si deve affrontare un grande pericolo, mandando un vecchio e un ragazzo a bordo di una barca? È una follia. Anche lui è pazzo: è come ha detto, cerca la morte. Cerca la morte, e vuole portarmi con sé. Ma io non sono pazzo e non sono vecchio; non voglio morire; non voglio andare con lui.

Si sollevò, puntellandosi sul gomito, e guardò avanti. La luna, che era sorta davanti a loro quando avevano lasciato la baia di Sosara, era di nuovo dinanzi a loro, e stava tramontando. Dietro, a oriente, il giorno spuntava pallido. Non c’erano nubi, ma una lieve foschia malsana. Poi, il sole divenne caldo ma rimase velato, privo di splendore.

Per tutto quel giorno costeggiarono Lorbanery, bassa e verdeggiante sulla loro destra. Un vento leggero spirava dalla terra e gonfiava la vela. Verso sera doppiarono l’ultimo capo, e la brezza cadde. Sparviero chiamò nella vela il vento magico: come un falcone lanciato dal polso del cacciatore, la Vistacuta balzò e volò rapida, lasciandosi indietro l’isola della Seta.

Sopli il Tintore era rimasto per tutto il giorno rannicchiato al suo posto: evidentemente aveva paura della barca e del mare, soffriva il mal di mare ed era intristito e preoccupato. Adesso parlò, con voce rauca: — Stiamo andando verso occidente?

Aveva il tramonto proprio in faccia; ma Sparviero, paziente anche di fronte alle sue domande più stupide, annuì.

— A Obehol?

— Obehol è a ovest di Lorbanery.

— Molto più a ovest. Forse il posto è là.

— Com’è, quel posto?

— Come posso saperlo? Come potevo vederlo? Non è a Lorbanery? L’ho cercato per anni, quattro anni, cinque anni, nel buio, la notte, chiudendo gli occhi, e sempre lui chiamava «Vieni, vieni», ma io non potevo andare. Io non sono un signore dei maghi, capace di riconoscere le vie nell’oscurità. Ma c’è un luogo dove si può giungere nella luce, sotto il sole. È questo che mia madre e Mildi non volevano capire. Continuavano a guardare nell’oscurità. Poi il vecchio Mildi è morto, e mia madre ha perso il senno. Ha dimenticato gli incantesimi che usavamo per tingere, e questo ha menomato la sua mente. Voleva morire, ma io le ho detto di attendere. Di attendere fino a quando io avessi trovato quel posto. Deve esserci. Se i morti possono tornare alla vita nel mondo, dev’esserci nel mondo un posto dove succede.

— I morti ritornano alla vita?

— Credevo che tu le sapessi, queste cose — disse Sopli, dopo una pausa, guardando Sparviero di sottecchi.

— Cerco di saperle.

Sopli non replicò. Il mago lo guardò all’improvviso con uno sguardo diretto ed energico, sebbene il suo tono fosse gentile. — Stai cercando una via per vivere in eterno?

Sopli ricambiò lo sguardo per un momento; poi nascose tra le braccia l’irsuta testa bruno-rossiccia, intrecciando le mani sulle caviglie, e si dondolò avanti e indietro. Sembrava che assumesse quella posizione quando era Impaurito; e quando l’assumeva, allora non parlava, non mostrava di accorgersi di ciò che gli veniva detto. Arren gli voltò le spalle, disgustato e disperato. Come avrebbero potuto resistere insieme a Sopli, per giorni e settimane, a bordo di una nave lunga sei braccia? Era come condividere un corpo con un’anima malata…

Sparviero raggiunse Arren a prua e appoggiò un ginocchio sulla fiancata, guardando nella sera olivastra. Disse: — Quell’uomo ha uno spirito gentile.

Arren non rispose. Chiese invece, freddamente: — Cos’è Obehol? È un nome che non ho mai sentito.

— Conosco il nome e la sua ubicazione sulle carte, nient’altro… Guarda là: le compagne di Gobardon!

La grande stella color topazio era più alta, adesso; e sotto di lei, appena al di sopra del mare scuro, brillavano una stella bianca a sinistra e una biancazzurra a destra, formando un triangolo.

— Hanno nomi?

— Il Maestro dei Nomi non li conosceva. Forse gli uomini di Obehol e di Wellogy hanno dato loro un nome. Non so. Ci addentriamo in mari sconosciuti, Arren, sotto il Segno della Fine.

Il ragazzo non replicò, guardando con una specie di ripugnanza le fulgide stelle senza nome sopra le acque infinite.

Mentre navigavano verso occidente, un giorno dopo l’altro, il tepore della primavera meridionale si stendeva sulle acque, e il cielo era sereno. Tuttavia, ad Arren sembrava che la luce fosse offuscata, come se scendesse obliqua attraverso un vetro. Il mare era tiepido, quando s’immergeva per nuotare, e gli dava scarso ristoro. I viveri salati non avevano sapore. Non c’era nulla di fresco e di vivido tranne la notte, quando le stelle ardevano con uno splendore più intenso di quanto lui avesse mai visto. Si sdraiava e le guardava fino a quando si addormentava. E quando dormiva, sognava: era sempre il sogno della brughiera o del baratro o di una valle circondata da strapiombi o di una lunga strada che scendeva sotto un cielo basso; e sempre la luce fioca e l’orrore che l’invadeva, e l’inutile tentativo di fuggire.

Non ne parlava a Sparviero, mai. Non parlava di nulla che fosse importante per lui, ma solo dei piccoli incidenti quotidiani della navigazione; e Sparviero, al quale era sempre stato difficile strappare qualche parola, adesso taceva abitualmente.

Arren si rendeva conto, adesso, di essere stato sciocco ad affidarsi corpo e anima a quell’uomo inquieto e misterioso, che si lasciava guidare dall’impulso e non cercava di tenere in pugno la propria vita e neppure di salvarla. Perché adesso sembrava impazzito; era così, pensava Arren, perché non osava affrontare il suo fallimento… il fallimento della magia quale grande potere al cospetto degli uomini.

Ormai era evidente che, per quanti conoscevano i segreti, non c’erano molti segreti nell’arte magica da cui Sparviero e tutte le generazioni d’incantatori e di maghi avevano acquisito tanta fama e tanta potenza. Non era molto di più dell’uso del vento e delle intemperie, la conoscenza delle erbe medicamentose, e un abile sfoggio di illusioni come nebbie e luci e metamorfosi, che potevano incutere soggezione agli ignoranti ma che erano soltanto trucchi. La realtà restava immutata. Non c’era nulla, nella magia, che assicurasse a un uomo un vero potere sugli altri uomini; ed era inutile contro la morte. I maghi non vivevano più a lungo degli uomini comuni. Tutte le loro parole segrete non potevano procrastinare neppure di un’ora la venuta della loro morte.

Neanche nelle piccole cose valeva la pena di far conto sulla magia. Sparviero era sempre avaro delle sue arti: viaggiavano spinti dal vento del mondo quand’era possibile, pescavano per procurarsi da mangiare, e razionavano l’acqua come tutti i marinai. Dopo quattro giorni di bordeggi interminabili in un vento contrario che arrivava a raffiche convulse, Arren gli domandò se non poteva chiamare un vento favorevole nella vela; e quando il mago scosse la testa, lui disse: — Perché no?

— Non chiederei mai a un uomo malato di partecipare a una gara di corsa — rispose Sparviero, — né aggiungerei una pietra a un dorso già troppo carico. — Era impossibile capire se parlava di se stesso o del mondo in generale. Le sue risposte erano sempre burbere, e difficili da comprendere. Quello, pensò Arren, era il vero cuore della magia: alludere a significati grandiosi mentre non si diceva nulla, e far sì che l’inazione apparisse come il supremo coronamento della saggezza.

Arren si era sforzato d’ignorare Sopli, ma era impossibile: comunque, ben presto si trovò legato al pazzo da una specie di alleanza. Sopli non era pazzo, o almeno non così semplicemente come lo facevano sembrare quei suoi capelli scarmigliati e il suo eloquio frammentario. In verità, l’aspetto più folle del suo carattere era forse il terrore che provava per l’acqua. Per salire su una barca aveva dovuto attingere a un coraggio disperato, e non era mai riuscito a smussare la paura: teneva la testa bassa per non dover vedere l’acqua che si gonfiava e lambiva intorno a lui. Stare in piedi gli dava le vertigini: si aggrappava all’albero. La prima volta che Arren decise di nuotare un po’ e si tuffò dalla prua, Sopli lanciò grida d’orrore; quando il ragazzo risalì a bordo, il poveraccio era verde. — Credevo che volessi annegarti — disse, e Arren dovette ridere.

Quel pomeriggio, mentre Sparviero stava seduto a meditare e sembrava che non vedesse nulla e non si curasse di nulla, Sopli si trascinò cautamente verso Arren. Chiese, a voce bassa: — Tu non vuoi morire, vero?

— Certo che no.

— Lui sì — disse Sopli, indicando Sparviero con un piccolo movimento della mandibila.

— Perché dici questo?

Arren aveva assunto un tono di principesca alterezza che per la verità gli veniva naturale; e Sopli l’accettò con la stessa naturalezza, sebbene avesse dieci o quindici anni più di lui. Rispose prontamente e con cortesia, anche se in quel suo solito modo frammentario. — Lui vuole andare nel luogo segreto. Ma non so perché. Lui non vuole… Non crede nella… nella promessa.

— Quale promessa?

Sopli alzò bruscamente gli occhi verso Arren, con un’espressione di umanità devastata; ma la volontà di Arren era più forte. Rispose, a voce molto bassa: — Lo sai. La vita. La vita eterna.

Un grande gelo invase le membra di Arren. Ricordò i suoi sogni: la brughiera, il gorgo, gli strapiombi, la luce fosca. Quella era la morte; quello era l’orrore della morte. Doveva sottrarsi alla morte, trovare la via. E sulla soglia stava la figura incoronata d’ombra, che protendeva una luce minuscola, non più grande di una perla, lo scintillio della vita immortale.

Arren incontrò per la prima volta gli occhi di Sopli: erano castani, molto chiari. E in quegli occhi vide che lui aveva finalmente compreso e che Sopli condivideva la sua conoscenza.

— Lui — disse il Tintore, indicando di nuovo Sparviero con un movimento della mandibola — non vuole rinunciare al suo nome. Nessuno può portare al di là il suo nome. La via è troppo stretta.

— Tu l’hai vista?

— Nella tenebra, nella mia mente. Non basta. Voglio arrivarci: voglio vederla. Nel mondo, con i miei occhi. E se… e se morissi, e non riuscissi a trovare la via, il posto? Molti non possono trovarlo: non sanno neppure che esiste. Solo alcuni di noi hanno il potere. Ma è difficile, perché si deve rinunciare al potere per arrivarci… Niente più parole. Niente più nomi. È troppo difficile farlo nella mente. E quando uno… muore, la sua mente… muore. — Ogni volta, s’impuntò sulla parola. — Io voglio sapere che potrò tornare. Voglio andare là. Dalla parte della vita. Voglio vivere, essere al sicuro. Odio… odio quest’acqua…

Il Tintore rattrappì le membra come fa un ragno quando cade, e ritrasse la testa fulva e ispida tra le spalle, per escludere la vista del mare.

Ma dopo quella volta Arren non evitò più di conversare con lui, poiché sapeva che Sopli non condivideva soltanto la sua visione ma anche la sua paura; e che, se si fosse arrivati al peggio, forse avrebbe potuto aiutarlo contro Sparviero.

Continuavano ad avanzare lentamente, tra le bonacce e le brezze irregolari, verso occidente, dove Sparviero affermava che Sopli li stava guidando. Ma Sopli non li guidava affatto: non sapeva nulla del mare, non aveva mai visto una carta nautica, non era mai salito su una barca, temeva l’acqua con un terrore morboso. Era il mago, a guidarli, e li conduceva volutamente fuori strada. Adesso Arren se ne rendeva conto, e ne capiva la ragione. L’arcimago sapeva che loro, e altri come loro, cercavano la vita eterna: ne avevano ricevuto la promessa, ne venivano attratti, e avrebbero potuto trovarla. Nel suo orgoglio, il suo schiacciante orgoglio di arcimago, temeva che la trovassero: li invidiava, e li temeva, e non voleva permettere che un altro uomo diventasse più grande di lui. Aveva intenzione di spingersi nel mare aperto, al di là di tutte le terre, finché si fossero perduti completamente e non potessero più ritornare nel mondo; e allora sarebbero morti di sete. Perché era disposto a morire anche lui, pur d’impedire loro di raggiungere la vita eterna.

Di tanto in tanto veniva il momento in cui Sparviero parlava ad Arren di piccole cose relative al governo della barca, o nuotava insieme a lui nel caldo mare, e gli augurava la buonanotte, sotto le grandi stelle: e al ragazzo, allora, tutte quelle idee sembravano completamente assurde. Guardava il suo compagno e vedeva quel volto duro, aspro, paziente e pensava: questo è il mio signore e amico. E gli pareva incredibile di aver dubitato. Ma poco dopo dubitava ancora, e lui e Sopli si scambiavano occhiate per mettersi reciprocamente in guardia contro il nemico comune.

Ogni giorno il sole splendeva ardente, e tuttavia opaco. La sua luce era come una patina invetriata sulle lente onde del mare. L’acqua era azzurra e il cielo era azzurro, senza mutamenti, senza sfumature. Le brezze spiravano e cadevano, e loro giravano la vela per sfruttarle e avanzavano lentamente, senza una meta.

Un pomeriggio, finalmente, incontrarono un leggero vento propizio; e Sparviero tese il braccio in direzione del tramonto, dicendo: — Guarda. — In alto, sopra l’albero, una fila di oche marine tremolava come una runa nera tracciata attraverso il cielo. Le oche volavano verso occidente; e, seguendole, il giorno successivo la Vistacuta giunse nei pressi di una grande isola.

— Eccola — disse Sopli. — Quella terra. È là, che dobbiamo andare.

— Il luogo che cerchi è là?

— Sì. Dobbiamo sbarcare. Non possiamo andare oltre.

— Quella terra dev’essere Obehol. Più oltre, nello Stretto Meridionale, c’è un’altra isola, Wellogy. E nello Stretto Occidentale ci sono isole ancora più a ovest di Wellogy. Ne sei certo?

Il Tintore di Lorbanery s’incollerì, e l’espressione agghiacciante riapparve nei suoi occhi; ma non parlò da pazzo, pensò Arren, come invece aveva fatto quando avevano parlato per la prima volta con lui, molti giorni prima, a Lorbanery. — Sì. Dobbiamo sbarcare qui. Siamo andati abbastanza lontano. Il posto che cerchiamo è qui. Devo giurare che lo so? Vuoi che giuri sul mio nome?

— Non puoi — disse Sparviero, con voce dura, levando lo sguardo verso Sopli, che era più alto di lui: Sopli si era alzato, aggrappandosi all’albero, per guardare l’isola davanti a loro. — Non tentare di farlo, Sopli.

Il Tintore fece una smorfia, di sofferenza o di rabbia. Guardò le montagne inazzurrate dalla distanza, davanti alla barca, sulla tremula pianura delle acque, e disse: — Tu mi hai preso come guida. Il luogo è questo. È qui, che dobbiamo sbarcare.

— Sbarcheremo comunque; abbiamo bisogno d’acqua dolce — replicò Sparviero, e andò al timone. Sopli si sedette al suo solito posto, borbottando. Arren lo sentì dire: — Lo giuro sul mio nome. Sul mio nome. — Lo ripeté molte volte; e ogni volta che lo diceva, faceva di nuovo una smorfia, come se soffrisse.

Si avvicinarono all’isola, sospinti da un vento che soffiava dal nord, e la costeggiarono cercando una baia o una spiaggia per sbarcare, ma i frangenti battevano tuonando nel caldo sole lungo tutta la costa settentrionale. Nell’entroterra, le verdi montagne cuocevano in quella luce, ammantate d’alberi fino alle vette.

Doppiarono un capo, e giunsero finalmente in vista di una profonda baia a forma di mezzaluna, con spiagge di sabbia bianca. Lì le onde arrivavano quiete, smorzate dal promontorio, e una barca poteva toccare la riva. Non si scorgeva traccia di presenza umana, sul lido o nelle foreste; non avevano visto una barca, o un tetto, o un filo di fumo. La leggera brezza cadde appena la Vistacuta entrò nella baia. C’erano silenzio, immobilità, afa. Arren prese i remi, Sparviero si mise al timone. Lo scricchiolio dei remi negli scalmi era l’unico suono. Le verdi vette torreggiavano sopra la baia, cingendola. Il sole stendeva sull’acqua drappi di luce incandescente. Arren si sentiva il sangue rombare negli orecchi. Sopli aveva abbandonato il sostegno dell’albero e si era accovacciato a prua, aggrappandosi alla frisata, guardando la terra e protendendosi in avanti. Il volto scuro e sfigurato di Sparviero luccicava di sudore, come se fosse unto di olio; il suo sguardo andava continuamente dai bassi frangenti alle alture schermate dal fogliame.

— Ora — disse ad Arren e alla barca. Arren diede tre grandi colpi di remi, e la Vistacuta salì leggera sulla sabbia. Sparviero balzò fuori per spingere avanti la barca, sull’ultimo slancio delle onde. Quando tese le mani per spingere, incespicò e quasi cadde, afferrandosi alla prua. Con uno sforzo poderoso trascinò la barca indietro, nell’acqua, nel deflusso dell’onda, e scavalcò la frisata mentre la Vistacuta stava sospesa fra mare e spiaggia. — Rema! — ansimò, e si acquattò carponi, sgocciolante d’acqua, cercando di riprendere fiato. Stringeva una lancia, una lancia dalla punta di bronzo, lunga mezzo braccio. Dove l’aveva presa? Un’altra lancia apparve mentre Arren indugiava frastornato sui remi; colpì di taglio un sedile, scheggiando il legno, e rimbalzò. Sulle basse alture sopra la spiaggia, sotto gli alberi, c’erano figure che si muovevano, correvano e si chinavano. Nell’aria c’erano lievi sibili ronzanti. All’improvviso Arren ritrasse la testa tra le spalle, piegò la schiena e remò a bracciate poderose: due per uscire dalle acque basse, tre per far virare la barca, e via.

Sopli, che stava a prua, dietro le spalle di Arren, cominciò a gridare. Il ragazzo si sentì afferrare bruscamente le braccia, e i remi uscirono fulminei dall’acqua. Uno lo colpì alla bocca dello stomaco, e per un attimo lui restò accecato, ansimante. — Torna indietro! Torna indietro! — gridava Sopli. La barca balzò all’improvviso nell’acqua, e ondeggiò. Arren si voltò, furioso, appena ebbe riafferrato i remi. Sopli non era a bordo.

Intorno a loro, la profonda acqua della baia ondeggiava e scintillava abbagliante nel sole.

Stordito, Arren guardò di nuovo indietro, poi guardò Sparviero, accovacciato a poppa. — Là — disse il mago, tendendo il braccio: ma non c’era nulla, solo il mare e i barbagli del sole. Una lancia cadde a poche braccia dalla barca, entrò nell’acqua senza far rumore, e svanì. Arren remò, dieci o dodici bracciate energiche, poi si fermò per guardare di nuovo Sparviero.

Aveva il braccio sinistro e le mani insanguinati, e si teneva contro la spalla un pezzo di tela da vela. La lancia dalla punta di bronzo giaceva sul fondo della barca. Non era esatto dire che lui la tenesse in mano, quando Arren l’aveva vista per la prima volta: gli si era piantata nell’incavo della spalla. Sparviero scrutava l’acqua tra loro e la bianca spiaggia, dove alcune figure minuscole saltavano e ondeggiavano nel confuso bagliore del caldo. Infine disse: — Va’.

— Sopli…

— Non è riemerso.

— È annegato? — chiese Arren, incredulo.

Sparviero annuì.

Arren continuò a remare fino a quando la spiaggia fu soltanto una linea bianca sotto le foreste e le grandi vette verdi. Sparviero sedeva accanto al timone, premendosi il tampone di tela contro la spalla ma senza curarsi della ferita.

— È stato colpito da una lancia?

— Si è buttato.

— Ma… non sapeva nuotare. Aveva paura dell’acqua.

— Sì. Una paura mortale. Voleva… voleva andare a terra.

— Perché ci hanno attaccati? Chi sono?

— Devono averci creduto nemici. Ti dispiace… darmi una mano, un momento? — Arren vide che la tela premuta contro la spalla era intrisa di sangue.

La lancia aveva colpito tra la giuntura della spalla e la clavicola, lacerando una delle grandi vene, e la ferita sanguinava abbondantemente. Seguendo le istruzioni di Sparviero, Arren strappò a strisce una camicia di lino e fasciò la ferita. Sparviero gli chiese la lancia: quando Arren gliela posò sulle ginocchia, mise la mano destra sulla punta, lunga e sottile come una foglia di salice, di bronzo rozzamente martellato; sembrò sul punto di parlare, ma dopo un attimo scosse la testa. — Non ho forza per un incantesimo — disse. — Più tardi. Guarirà. Puoi portarci fuori dalla baia?

In silenzio, il ragazzo ritornò ai remi. Piegò la schiena con impegno, e ben presto, poiché in quel suo corpo agile c’era una grande forza, portò la Vistacuta fuori dalla baia a mezzaluna, nel mare aperto. Regnava la lunga bonaccia meridiana, e la vela pendeva inerte. Il sole sfolgorava attraverso un velo di foschia, e le verdi vette sembravano tremolare e pulsare nel calore. Sparviero si era sdraiato sul fondo della barca, con la testa appoggiata al sedile, accanto al timone; era immobile, con le labbra e le palpebre socchiuse. Arren preferiva non guardarlo in faccia, e fissava oltre la poppa della barca. La foschia tremolava sull’acqua, come se veli di ragnatela s’intessessero nel cielo. Gli tremavano le braccia per la fatica, ma continuava a remare.

— Dove ci stai portando? — chiese Sparviero con voce rauca, sollevandosi un po’. Voltatosi, Arren vide che la baia incurvava di nuovo le verdi braccia intorno alla barca, e la bianca linea della spiaggia stava davanti a loro, e le montagne si ergevano nell’aria. Aveva girato la barca senza accorgersene.

— Non posso più remare — disse, ritirando i remi, e andò ad accovacciarsi a prua. Continuava ad avere la sensazione che Sopli fosse dietro di lui, a bordo, accanto all’albero. Avevano vissuto insieme molti giorni, e la sua morte era stata troppo improvvisa e immotivata perché lui potesse comprenderla. Tutto era incomprensibile.

La barca si dondolava sull’acqua, con la vela afflosciata. La marea, che incominciava a entrare nella baia, girò lentamente la Vistacuta di traverso rispetto alla corrente e la spinse avanti a piccoli colpetti verso la lontana linea bianca della spiaggia.

— Vistacuta - disse il mago in tono carezzevole, e aggiunse una o due parole nella Vecchia Lingua; e dolcemente la barca ondeggiò e girò la prua verso il mare, scivolando sull’acqua sfolgorante, lontano dalle braccia della baia.

Ma altrettanto dolcemente, dopo meno di un’ora, smise di avanzare, e la vela si afflosciò di nuovo. Arren si voltò indietro e vide che il suo compagno era sdraiato come prima; ma la testa era leggermente ripiegata all’indietro, e gli occhi erano chiusi.

Fino a quel momento Arren aveva provato un orrore pesante e morboso che cresceva e gli impediva di agire, come se avvolgesse il suo corpo e la sua mente in fili sottilissimi. Non trovava il coraggio di combattere contro quella paura: c’era solo una specie di cupo risentimento contro la sua sorte.

Non doveva lasciare che la barca andasse alla deriva verso le spiagge rocciose di un’isola i cui abitanti attaccavano i forestieri: questo era chiaro, nella sua mente, ma non significava molto. Cosa doveva fare, invece? Remare fino a Roke? Era perduto, irreparabilmente perduto senza speranza, nell’immensità dello stretto. Non avrebbe mai potuto riportare la barca verso una terra amichevole, con un viaggio di settimane. Poteva riuscirci solo con la guida del mago, e Sparviero era stato ferito e immobilizzato, all’improvviso e insensatamente, così com’era morto Sopli. Il suo volto era mutato, giallastro e inerte: forse stava morendo. Arren pensò che doveva portarlo sotto il tendone per ripararlo dal sole e dargli un po’ d’acqua: chi ha perso sangue deve bere. Ma da giorni era a corto d’acqua: il barile era quasi vuoto. Che importanza aveva? Tutto era inutile. La buona sorte li aveva abbandonati.

Le ore trascorsero, e il sole continuava a picchiare, e il calore grigiastro avviluppava Arren. E lui stava seduto immobile.

Un alito di frescura gli passò sulla fronte. Alzò la testa. Era sera: il sole era tramontato, e l’occaso era rosso-cupo. La Vistacuta si muoveva lentamente, spinta da una lieve brezza che veniva dall’est aggirando le scoscese coste boscose di Obehol.

Arren si mosse e si prese cura del suo compagno, sistemando un pagliericcio sotto il tendone e facendogli bere un po’ d’acqua. Fece tutte queste cose in fretta, distogliendo gli occhi dalla fasciatura, che doveva essere cambiata perché la ferita non aveva smesso completamente di sanguinare. Sparviero, illanguidito dalla debolezza, non parlava; mentre beveva avidamente chiuse gli occhi e scivolò di nuovo nel sonno, che era la sua sete più grande. Giaceva in silenzio; e quando, nell’oscurità, la brezza cadde, non venne un vento magico a sostituirla, e la barca si dondolò di nuovo pigramente sulle onde lunghe. Ma adesso le montagne che incombevano sulla destra spiccavano nere contro un cielo fulgido di stelle, e Arren restò a lungo a guardarle. I contorni delle costellazioni gli sembravano familiari, come se li avesse già visti, come se li avesse sempre conosciuti.

Quando si sdraiò per dormire si girò verso sud: e là, alta nel cielo sopra il mare vuoto, ardeva la stella Gobardon. Più sotto c’erano le due che formavano un triangolo, e sotto queste ne erano sorte tre, in linea retta, formando un triangolo ancora più grande. Poi, liberandosi dalle liquide pianure nere e argentee, ne seguirono altre due, con l’avanzare della notte; erano gialle come Gobardon, sebbene più fioche, e inclinate da destra verso sinistra alla base del triangolo. Dunque erano otto delle nove stelle che, si diceva, formavano la figura di un uomo, o la runa hardese Agnen. Agli occhi di Arren quella costellazione non sembrava affatto un uomo, a meno che fosse stranamente distorto, come avviene sempre nelle figure formate dalle stelle; ma la runa era nitida, con l’uncino e il tratto trasversale, e per completarla mancava solo l’ultimo tratto, la base, la stella che non era ancora sorta.

E mentre la cercava con lo sguardo, attendendola, Arren si addormentò.

Quando si svegliò, all’alba, la Vistacuta era stata spinta dalla deriva ancora più lontano da Obehol. La nebbia nascondeva le spiagge, rivelando solo le vette delle montagne, e si diradava in una foschia sopra le acque violette del sud, affievolendo le ultime stelle.

Arren guardò il suo compagno. Sparviero aveva il respiro irregolare, come avviene quando la sofferenza serpeggia sotto la superficie del sonno senza infrangerla. Il suo volto era vecchio e segnato, nella fredda luce senza ombre. Mentre lo guardava, Arren vide un uomo al quale non restavano più potere né magia né forza, e neppure la giovinezza: più nulla. Non aveva salvato Sopli, non aveva distolto da sé la lancia. Li aveva portati fra i pericoli e non li aveva salvati. Adesso Sopli era morto, e Sparviero era moribondo, e Arren sarebbe morto: tutto a causa di quell’uomo, e invano, per niente.

Perciò Arren lo guardava con i limpidi occhi della disperazione e non vedeva nulla.

Non rammentava più la fontana sotto l’albero di rowan, o la bianca luce incantata nella nebbia, a bordo della nave dei razziatori di schiavi, o le piantagioni esauste della Casa dei tintori. Né si ridestava in lui l’orgoglio o l’ostinazione della volontà. Guardò l’alba ascendere sul mare tranquillo, dove le onde lunghe e basse correvano, colorate di pallido ametista, ed era tutto come un sogno, sbiadito, senza la presa e il vigore della realtà. E nel profondo del sogno e del mare c’era il nulla… una lacuna, un vuoto. La profondità non c’era.

La barca si muoveva lenta, irregolarmente, seguendo l’umore capriccioso del vento. Più indietro, i picchi di Obehol rimpicciolirono, neri contro il sole che sorgeva; e da quella direzione veniva il vento, che portava la barca lontano dall’isola, lontano dal mondo, fuori, sul mare aperto.

I FIGLI DEL MARE APERTO

Verso la metà di quel giorno, Sparviero si mosse e chiese acqua. Quando ebbe bevuto, domandò: — Dove siamo diretti? — Perché la vela era tesa sopra di lui, e la barca si tuffava come una rondine sulle onde lunghe.

— Verso ovest o nordovest.

— Ho freddo — disse Sparviero. Il sole sfolgorava, e riempiva di calore la barca.

Arren non disse nulla.

— Cerca di mantenere la rotta verso ovest. Wellogy, a ovest di Obehol. Sbarca là. Abbiamo bisogno di acqua.

Il ragazzo guardò avanti, sul mare deserto.

— Cosa c’è, Arren?

Lui non disse nulla.

Sparviero cercò di levarsi a sedere, non vi riuscì, e allora tentò di raggiungere il bastone che stava accanto alla cassa degli attrezzi; ma era fuori dalla sua portata, e quando riprovò a parlare, le parole si arrestarono sulle sue labbra secche. Il sangue sgorgò di nuovo sotto la fasciatura incrostata, formando un esile filamento cremisi sulla pelle scura del suo petto. Lui tirò un brusco respiro e chiuse gli occhi.

Arren lo scrutò, ma apaticamente, e non a lungo. Andò a prua e tornò ad accovacciarsi, guardando avanti. Aveva la bocca inaridita. Adesso il vento dell’est spirava costante sul mare aperto, ed era secco come il vento del deserto. Nel barile c’erano solo due o tre pinte d’acqua; e Arren aveva deciso di serbarle per Sparviero, non per sé; non aveva mai pensato di bere quell’acqua. Aveva calato le lenze perché da quando avevano lasciato Lorbanery aveva imparato che il pesce crudo placa anche la sete, non soltanto la fame; ma non abboccava mai niente. Non aveva importanza. La barca continuava a procedere sul deserto d’acqua. Lentamente, anche il sole si muoveva da est a ovest, e alla fine vinceva la gara di tutta l’ampiezza del cielo.

A un certo momento Arren credette di scorgere una vetta azzurra, a sud, che poteva essere una terra o una nube; da ore la barca correva un po’ verso nordovest. Non cercò di bordeggiare e di virare: lasciò che andasse dove voleva. Quella terra poteva essere reale e poteva non esserlo: non importava. Per lui tutto l’immenso e fiammeggiante fulgore del vento e della luce e dell’oceano era offuscato e falso.

Venne l’oscurità, e poi di nuovo la luce, e poi l’oscurità, e la luce, come rulli di tamburo sul tesissimo telone del cielo.

Arren immerse la mano nell’acqua, sporgendosi dalla fiancata della barca. Per un istante la vide, vividamente: la sua mano verdepallida sotto l’acqua viva. Si piegò e succhiò le gocce dalle dita. Erano amare, e gli bruciavano dolorosamente le labbra, ma lui lo fece di nuovo. Poi fu preso dalla nausea, e si accosciò vomitando: ma era solo un po’ di bile che gli bruciava la gola. Non aveva più acqua da dare a Sparviero, e aveva paura di avvicinarglisi. Si sdraiò, rabbrividendo nonostante il caldo. Era tutto silente, asciutto e luminoso: terribilmente luminoso. Si riparò gli occhi dalla luce.

Stavano sulla barca, ed erano tre, esili come steli e angolosi, con gli occhi grandi, come strani aironi scuri, o gru. Le loro voci erano sottili, come quelle degli uccelli. Lui non li capiva. Uno s’inginocchiò sopra di lui, reggendo sul braccio una vescica scura, e l’inclinò verso la sua bocca: era acqua. Arren bevve avidamente, tossì perché un po’ gliene era andata di traverso, e bevve ancora fino a vuotare il recipiente. Poi si guardò intorno e si alzò, faticosamente, chiedendo: — Dov’è, dov’è? — perché con lui, a bordo della Vistacuta, c’erano soltanto quei tre uomini strani e sottili.

E quelli lo guardarono senza comprendere.

— L’altro uomo — gracchiò Arren, e la gola dolorante e le labbra incrostate stentavano a formare le parole. — Il mio amico…

Uno dei tre comprese la sua angoscia, se non le sue parole, e posandogli sul braccio una mano sottile tese l’altra a indicare. — Là — disse, rassicurante.

Arren guardò. E vide, a nord della barca, tante zattere, alcune radunate vicino e altre sfilate lontano, attraverso il mare: tante zattere che sembravano foglie d’autunno in uno stagno. Ciascuna, bassa sull’acqua, aveva al centro una o due cabine o capanne, e molte avevano anche alberi montati. Galleggiavano come foglie, sollevandosi e riabbassandosi lievemente quando le immense onde lunghe dell’oceano occidentale passavano sotto di loro. In mezzo, le fasce d’acqua brillavano come argento; e in cielo torreggiavano grandi nembi violetti e dorati, carichi di pioggia, che oscuravano l’ovest.

— Là — disse l’uomo, additando una grande zattera accanto alla Vistacuta.

— Vivo?

Tutti lo guardarono, e finalmente uno comprese. — Vivo. È vivo. — Allora Arren cominciò a piangere, a singulti secchi, e uno degli uomini gli prese il polso nella mano sottile e forte e lo trascinò dalla Vistacuta alla zattera cui era legata la barca. La zattera era così grande e leggera che non s’inclinò neppure lievemente sotto il loro peso. L’uomo guidò Arren avanti, mentre uno degli altri protendeva un pesante grappino munito di un dente ricurvo di squalo-balena e tirava più vicina un’altra zattera per poter superare il varco. L’uomo condusse Arren alla cabina, che era aperta su un lato e chiusa sugli altri tre da pannelli intrecciati. — Sdraiati — disse. E Arren non ricordò altro.

Era sdraiato sul dorso, e guardava un rozzo tetto verde screziato da minuscoli punti di luce. Credette di essere nei meleti di Semermine, dove i principi di Enlad trascorrono l’estate, nelle colline dietro Berila; credette di essere adagiato sulla folta erba di Semermine, a guardare il cielo attraverso i rami dei meli.

Dopo un po’ udì lo sciabordio dell’acqua nelle cavità inferiori della zattera, e le sottili voci degli uomini: parlavano una lingua che era il comune hardese dell’arcipelago, ma tanto cambiato nei suoni e nei ritmi che era difficile comprenderlo; e allora seppe dov’era: lontano, oltre l’arcipelago, oltre il mare e tutte le isole, perduto nell’oceano aperto. Eppure rimase impassibile, e continuò a giacere comodamente, come se fosse sull’erba, nei frutteti della sua patria.

Dopo un poco pensò che doveva alzarsi, e lo fece. Scoprì che il suo corpo era scarno e bruciato, e che le gambe gli tremavano pur reggendolo ancora. Scostò il pannello intrecciato che formava le pareti della cabina e uscì nel pomeriggio. Aveva piovuto, mentre lui dormiva. Il legno della zattera — grossi tronchi levigati e squadrati, accostati e calafatati — era scurito dall’umidità, e i capelli di quegli esseri esili e seminudi erano neri e intrisi di pioggia. Ma metà del cielo era sgombra, dove il sole scendeva verso occidente; e adesso le nubi correvano lontano, verso nordest, in ammassi d’argento.

Uno degli uomini si accostò ad Arren, cautamente, e si fermò a qualche passo da lui. Era sottile e piccolo di statura, non più alto di un ragazzo di dodici anni: i suoi occhi erano grandi, allungati e scuri. Impugnava una lancia dalla punta d’avorio uncinata.

Arren gli disse: — Devo la vita a te e alla tua gente.

L’uomo annuì.

— Vuoi condurmi dal mio compagno?

L’uomo della zattera gli voltò le spalle e levò la voce in un grido acuto, penetrante come il richiamo di un uccello marino. Poi si accosciò sui talloni, come per attendere, e Arren lo imitò.

Le zattere erano dotate di alberi, sebbene l’albero di quella su cui si trovava non fosse montato. Vi si potevano issare le vele, che erano piuttosto piccole in confronto all’ampiezza delle zattere. Le vele erano di una stoffa bruna, che non era tela ma una sostanza fibrosa: non intessuta ma compressa, come il feltro. Una zattera, lontana un quarto di miglio, abbassò dal pennone la bruna vela e avanzò lentamente, manovrando con i grappini e le pertiche in mezzo alle altre fino ad affiancarsi a quella su cui stava Arren. Quando tra le due ci fu solo un varco inferiore a un braccio, l’uomo accanto ad Arren si alzò e lo scavalcò con un balzo disinvolto. Arren fece altrettanto e atterrò goffamente, carponi: le sue ginocchia avevano perso l’elasticità. Si rialzò e vide che l’ometto lo guardava, non con aria divertita ma con approvazione: evidentemente la sua compostezza ne aveva conquistato il rispetto.

Quella zattera era più grande, e più alta sull’acqua, di tutte le altre; era fatta di tronchi lunghi dodici braccia e larghi più di un braccio, anneriti e levigati dall’usura e dalle intemperie. Statue di legno stranamente scolpite sorgevano intorno alle numerose cabine e ai quattro angoli si ergevano pali che portavano ciuffi di penne d’uccelli marini. La sua guida lo condusse al più piccolo dei ripari, e là Arren vide Sparviero che giaceva immerso nel sonno.

Arren si sedette entro quella specie di cabina. La sua guida tornò all’altra zattera, e nessuno venne a disturbarlo. Dopo circa un’ora, una donna gli portò da mangiare: una zuppa di pesce freddo in cui galleggiavano pezzetti di una sostanza verde e trasparente, salata ma buona; e una tazzina d’acqua stantia, che aveva il sapore della pece con cui era stato impermeabilizzato il barile. Dal modo in cui lei gli porse l’acqua, Arren comprese che gli offriva un tesoro, una cosa da onorare. La bevve rispettosamente e non ne chiese altra, sebbene desiderasse ingollarne dieci volte di più.

La spalla di Sparviero era stata bendata con cura; e lui dormiva profondamente, serenamente. Quando si svegliò, aveva gli occhi limpidi. Guardò Arren e sorrise, quel sorriso dolce e gaio che era sempre sorprendente sul suo volto duro. All’improvviso, Arren provò di nuovo l’impulso di piangere. Posò la mano sulla mano di Sparviero e non disse nulla.

Uno degli uomini della zattera si avvicinò e si accovacciò nell’ombra del grande riparo vicino: sembrava una specie di tempio, con un grande motivo ornamentale molto complesso sopra l’entrata, e gli stipiti di tronchi scolpiti in forma di balene grige in immersione. L’uomo era piccolo ed esile come gli altri, fanciullesco, ma il suo volto era forte e segnato dagli anni. Portava soltanto un perizoma, ma era ammantato di dignità. — Deve dormire — disse; e Arren lasciò Sparviero e si accostò a lui.

— Tu sei il capo di questo popolo — disse: sapeva riconoscere un principe.

— Sì — fece l’uomo, con un cenno del capo. Arren rimase ritto davanti a lui, senza muoversi. Dopo qualche istante, gli scuri occhi dell’uomo incontrarono fuggevolmente i suoi. — Anche tu sei un capo — osservò.

— Sì — ammise Arren. Gli sarebbe piaciuto sapere come mai l’uomo della zattera l’aveva capito, ma restò impassibile. — Tuttavia servo il mio signore, che è là.

Il capo del popolo delle zattere disse qualcosa che Arren non capì: erano parole mutate fino a diventare irriconoscibili, oppure nomi che lui non conosceva; quindi disse: — Perché siete venuti in Balatran?

— Siamo venuti a cercare…

Ma Arren non sapeva cosa dire, e fino a che punto confidarsi. Tutto ciò che era accaduto, e la causa della loro ricerca, sembravano lontani e confusi, nella sua mente. Infine disse: — Eravamo andati a Obehol. Ci hanno attaccati quando abbiamo cercato di sbarcare. Il mio signore è stato ferito.

— E tu?

— Non sono stato ferito — disse Arren, e il freddo autocontrollo che aveva imparato nell’infanzia, a corte, gli tornò utile. — Ma c’era… c’era una specie di follia. Uno che era con noi si è annegato. C’era una paura… — S’interruppe e tacque.

Il capo lo scrutò con gli opachi occhi neri. Poi disse: — Dunque siete venuti qui per caso.

— Sì. Siamo ancora nello Stretto Meridionale?

— Lo stretto? No. Le isole… — Il capo descrisse un arco con la sottile mano nera, non più di un quarto di cerchio, da nord a est. — Le isole sono là — disse. — Tutte le isole. — Poi, indicando il mare immerso nella sera, davanti a loro, da nord a sud, attraverso l’ovest, disse: — L’oceano.

— Da quale terra vieni, mio signore?

— Nessuna terra. Noi siamo i Figli del Mare Aperto.

Arren scrutò quel volto aguzzo, poi girò lo sguardo sulla grande zattera, con il tempio e gli idoli eretti, ognuno dei quali era ricavato da un solo tronco d’albero, grandi statue divine che erano un miscuglio di delfino, pesce, uomo e uccello marino; osservò la gente intenta al lavoro, a tessere, a scolpire, a pescare, a cucinare su piattaforme rialzate, a curare i bambini piccoli; e le altre zattere, circa settanta, sparse sull’acqua in un grande cerchio di almeno un miglio di diametro. Era una città: sottili fili di fumo salivano dalle case lontane, e le voci dei bambini risuonavano acute nel vento. Era una città, e sotto i suoi pavimenti c’era l’abisso.

— Non andate mai, a terra? — chiese il ragazzo, a voce bassa.

— Una volta l’anno. Andiamo alla Lunga Duna. Là tagliamo gli alberi e provvediamo alla manutenzione delle zattere. Ci andiamo in autunno, dopo aver seguito le balene grige verso nord. D’inverno ci separiamo: ogni zattera se ne va da sola. In primavera andiamo a Balatran e ci incontriamo. Allora si va da una zattera all’altra, e si celebrano i matrimoni, e c’è la Lunga Danza. Queste sono le Strade di Balatran; da qui, la grande corrente porta a sud. D’estate andiamo verso sud, alla deriva sulla corrente, fino a quando vediamo le Grandi, le balene grige, che si dirigono verso nord. Allora le seguiamo, e ritorniamo così alle spiagge di Emah, sulla Lunga Duna, e sostiamo per qualche tempo.

— È meraviglioso, mio signore — disse Arren. — Non avevo mai sentito parlare di un popolo come il tuo. La mia patria è molto lontana da qui. Eppure anche là, sull’isola di Enlad, danziamo la Lunga Danza alla vigilia del Solstizio d’Estate.

— Voi battete i piedi sulla terra per renderla sicura — disse in tono asciutto il capo. — Noi danziamo sul mare profondo.

Dopo qualche istante chiese: — Come si chiama, il tuo signore?

— Sparviero — rispose Arren. Il capo ripeté quelle sillabe, ma era evidente che per lui non avevano significato. E questo, più di ogni altra cosa, fece comprendere ad Arren che la sua storia era vera, che costoro vivevano sempre sul mare, sul mare aperto al di là di ogni terra e dell’odore della terra, al di là del volo degli uccelli terricoli, al di fuori della conoscenza dell’uomo.

— C’era morte, in lui — disse il capo. — Deve dormire. Tu ritorna alla zattera di Astro; ti manderò a chiamare. — Si alzò. Sebbene fosse perfettamente sicuro di sé, era chiaro che non sapeva bene cosa fosse Arren: non sapeva se doveva trattarlo come un suo pari o come un ragazzo. In quella situazione Arren preferiva essere trattato da ragazzo, e accettò il congedo: ma poi si trovò alle prese con un problema. Le zattere si erano allontanate di nuovo, e cento braccia di acqua serica le separavano.

Il capo dei Figli del Mare Aperto gli parlò di nuovo, laconicamente: — A nuoto — disse.

Arren si calò impacciato nell’acqua. La frescura era piacevole, sulla sua pelle bruciata dal sole. Compì la traversata a nuoto e si issò sull’altra zattera: trovò un gruppo di cinque o sei bambini e giovani che l’osservavano con evidente interesse. Una bambinetta disse: — Tu nuoti come un pesce preso all’amo.

— Come dovrei nuotare? — chiese Arren, un po’ mortificato ma in tono cortese: in verità, non avrebbe mai saputo mostrarsi sgarbato verso un essere umano così piccolo. La bimba sembrava una statuina di mogano lucido, fragile e squisita. — Così! — esclamò lei, e si tuffò come una foca nel bagliore e nell’ondeggiare liquido delle acque. Solo dopo molto tempo, e da una distanza inverosimile, Arren udì il suo grido acuto, e vide la testolina nera e lucida affiorare alla superficie.

— Vieni — disse un ragazzo che aveva probabilmente la stessa età di Arren, sebbene non dimostrasse più di dodici anni: aveva l’aria seria, e un tatuaggio — un granchio azzurro — gli copriva il dorso. Si tuffò, e tutti si tuffarono, perfino un bimbetto di tre anni; perciò anche Arren dovette tuffarsi, cercando di non sollevare troppi spruzzi.

— Come un’anguilla — disse il ragazzo, riemergendo accanto alla sua spalla.

— Come un delfino — disse una graziosa fanciulla dal sorriso garbato, e sparì nelle profondità dell’acqua.

— Come me! — strillò il bimbetto di tre anni, ballonzolando sull’acqua come una bottiglia.

E così quella sera, fino a quando venne buio, e per tutto il lungo giorno dorato che seguì, e nei giorni successivi, Arren nuotò e parlò e lavorò con i giovani della zattera di Astro. E tra tutti gli eventi del viaggio, da quel mattino dell’equinozio in cui lui e Sparviero avevano lasciato Roke, quello gli sembrava il più strano, in un certo senso: perché non aveva nulla in comune con tutto ciò che era accaduto prima, nel viaggio o in tutta la sua vita; e meno ancora aveva un nesso con quanto doveva ancora venire. La notte, quando si sdraiava per dormire in mezzo agli altri, sotto le stelle, pensava: è come se fossi morto; e questa è una vita nell’aldilà, così, nel sole, oltre l’orlo del mondo, tra i figli e le figlie del mare…

Prima di addormentarsi guardava lontano, a sud, cercando con lo sguardo la stella gialla e la costellazione della Runa della Fine, e vedeva sempre Gobardon e il triangolo più piccolo, e quello più grande: ma adesso sorgevano più tardi, e lui non riusciva a tenere aperti gli occhi fino a quando l’intera figura emergeva libera dall’orizzonte. Di notte e di giorno le zattere andavano alla deriva verso sud, ma il mare non cambiava mai perché ciò che muta sempre è immutabile; i temporali di maggio passavano, e di notte brillavano le stelle, e tutto il giorno splendeva il sole.

Arren sapeva che la vita dei Figli del Mare Aperto non poteva essere sempre vissuta in quella serenità di sogno. Chiese dell’inverno, e gli parlarono delle lunghe piogge e delle onde possenti, delle zattere che vagavano separate e andavano alla deriva nel grigiore e nell’oscurità, per settimane e settimane. L’inverno precedente, durante una tempesta di un mese, avevano scorto onde così grandi che parevano «nuvoloni», dicevano, perché non avevano mai visto le montagne. Dal dorso di un’onda si poteva vedere quella successiva, immensa, a miglia e miglia di distanza, che si precipitava verso di loro. Le zattere potevano navigare in un mare simile?, chiese Arren, e quelli risposero che sì, potevano farlo, ma non sempre. In primavera, quando si radunavano alle Strade di Baltran, mancavano due zattere, o tre, o sei…

Si sposavano giovanissimi. Granchio Azzurro, il ragazzo che portava tatuato il simbolo del suo nome, e la ragazza graziosa, Albatros, erano marito e moglie, sebbene lui avesse appena diciassette anni e lei addirittura due di meno; c’erano molti matrimoni come il loro, tra il popolo delle zattere. Molti bimbetti camminavano carponi qua e là, legati a lunghi guinzagli fissati ai quattro pali dei ripari centrali, e tutti vi rientravano nelle ore più calde, e dormivano in mucchi frementi. I bambini grandicelli badavano ai più piccoli, e gli uomini e le donne si spartivano tutto il lavoro. Tutti facevano a turno per raccogliere le grandi alghe dalle foglie brune, i nilgu delle Strade, frangiati come felci e lunghi venti o trenta braccia. Tutti lavoravano insieme, battendo il nilgu per ricavarne stoffe o intrecciandone le fibre grezze per ricavare funi e reti; pescavano e seccavano il pesce, e fabbricavano utensili con avorio di balena, e insieme sbrigavano tutte le varie mansioni. Ma c’era sempre tempo per nuotare e chiacchierare, e non c’era mai un termine fisso per ultimare un lavoro. Le ore non esistevano: c’erano soltanto notti e giorni. Dopo pochissimo tempo, Arren ebbe l’impressione di vivere sulla zattera da un periodo incalcolabile; e che Obehol fosse un sogno, e che più indietro ci fossero sogni ancora più sbiaditi, e un altro mondo nel quale lui era vissuto sulla terraferma ed era stato un principe di Enlad.

Quando, finalmente, venne convocato alla zattera del capo, Sparviero lo scrutò per qualche istante e disse: — Mi sembri l’Arren che ho visto nel Cortile della Fontana: agile come una foca dorata. Mi sembra che ti trovi bene, qui.

— Sì, mio signore.

— Ma dov’è, «qui»? Abbiamo lasciato dietro di noi i luoghi della terra. Abbiamo navigato fino a uscire dalle mappe… Molto tempo fa ho sentito parlare del Popolo delle Zattere: ma credevo che fosse solo una delle tante leggende dello Stretto Meridionale, una fantasia inconsistente. Eppure siamo stati salvati da quella fantasia: le nostre vite sono state salvate da un mito.

Parlava sorridendo, come se partecipasse alla serenità atemporale di quella vita nella luce dell’estate; ma il suo volto era scavato, e nei suoi occhi c’era una tenebra. Arren se ne accorse, e l’affrontò.

— Ho tradito… — disse, e s’interruppe. — Ho tradito la tua fiducia in me.

— In che modo?

— Là… a Obehol. Quando, per una volta, tu hai avuto bisogno di me. Eri ferito, e avevi bisogno del mio aiuto. Io non ho fatto nulla. La barca andava alla deriva, e io la lasciavo andare. Tu soffrivi, e io non ho fatto nulla per te. Ho visto la terraferma… ho visto la terraferma, e non ho neppure tentato di far virare la barca…

— Taci, ragazzo — disse il mago, con tanta fermezza che Arren ubbidì. E poi: — Dimmi cosa pensavi, allora.

— Nulla, mio signore… nulla! Pensavo che fosse inutile fare qualunque cosa. Pensavo che la tua magia fosse svanita… no, che non fosse esistita mai. Che tu mi avessi ingannato. — Il sudore sgorgò sul volto di Arren: dovette farsi forza, per continuare a parlare. — Avevo paura di te. Avevo paura della morte. Ne avevo tanta paura che non ti guardavo, perché potevi essere moribondo. Non riuscivo a pensare a nulla, se non che c’era… che per me c’era un modo per non morire, se fossi riuscito a trovarlo. Ma la vita scorreva via, come se ci fosse stata una grande ferita e ne sgorgasse il sangue… come la tua ferita. Ma questa era in ogni cosa. E io non facevo nulla, nulla: cercavo solo di nascondermi all’orrore della morte.

Arren s’interruppe, perché dire a voce alta la verità era insopportabile. Non era la vergogna a farlo tacere, ma la paura, la stessa paura. Adesso sapeva perché quella vita tranquilla fra mare e sole, a bordo delle zattere, gli sembrava l’aldilà o un sogno irreale. Perché in cuor suo sapeva che la realtà era vuota, priva di vita e di calore e di colore e di suono, priva di significato. Non c’erano altezza né profondità. Tutto quell’incantevole gioco di forme e luci e colori sul mare e negli occhi degli uomini non era altro che un gioco d’illusioni sul vuoto superficiale.

E tutto passava, e restavano soltanto il freddo e l’assenza di forme: nient’altro.

Sparviero lo stava scrutando, e lui aveva abbassato gli occhi per evitare quello sguardo. Ma inaspettatamente, nell’animo di Arren parlò una voce esile, la voce del coraggio o del sarcasmo; era arrogante e spietata, e diceva: — Vigliacco! Vigliacco! Vuoi gettar via perfino questo?

E allora alzò la testa, con un tremendo sforzo di volontà, e incontrò gli occhi del suo compagno.

Sparviero tese il braccio e gli prese la mano in una stretta dura: adesso tra loro c’era il contatto degli occhi e della carne. Disse il vero nome di Arren, che non aveva mai pronunciato: — Lebannen. — Lo ripeté: — Lebannen, tutto questo è. E tu sei. Non c’è sicurezza, e non c’è fine. La parola dev’essere udita nel silenzio; dev’esserci l’oscurità, perché si possano vedere le stelle. La danza viene sempre danzata sopra la cavità, sopra il terribile abisso.

Arren contrasse le mani e chinò la fronte, fino a premerla contro la mano di Sparviero. — Ti ho deluso — disse. — Ti deluderò ancora e deluderò me stesso. Non ho abbastanza forza!

— Tu hai abbastanza forza. — La voce del mago era tenera, ma sotto la tenerezza c’era la durezza che era emersa dalle profondità della vergogna di Arren e che adesso lo irrideva. — Ciò che tu ami, amerai. Ciò che intraprendi, lo completerai. Tu sei un realizzatore della speranza: su di te si può fare assegnamento. Ma diciassette anni non offrono una robusta armatura contro la disperazione… Rifletti, Arren. Rifiutare la morte è rifiutare la vita.

— Ma ho cercato la morte… per te e per me! — Arren alzò la testa e fissò Sparviero. — Come Sopli, che si è annegato…

— Sopli non cercava la morte. Cercava di fuggire dalla morte e dalla vita. Cercava la sicurezza: la fine della paura… la paura della morte.

— Ma c’è… c’è una via. C’è una via al di là della morte. Il ritorno alla vita. È questo… ciò che cercano. Lepre e Sopli, coloro che erano incantatori. È quello che noi cerchiamo. Tu… tu più di ogni altro devi sapere… devi conoscere quella via…

La forte mano del mago era ancora posata sulla sua. — Non la conosco — disse Sparviero. — Sì, so ciò che credono di cercare. Ma so che è una menzogna. Ascoltami, Arren. Tu morirai. Non vivrai in eterno. Nessun uomo, nessuna cosa vivrà in eterno. Non c’è nulla d’immortale. Ma solo a noi è dato sapere che dobbiamo morire. Ed è un grande dono: il dono dell’io. Perché noi abbiamo solo ciò che sappiamo di dover perdere, ciò che siamo disposti a perdere… Quell’io che è il nostro tormento, e il nostro tesoro e la nostra umanità, non dura. Cambia; sparisce, come un’onda sul mare. Vorresti che il mare diventasse immobile, che le maree cessassero, solo per salvare un’onda, per salvare te stesso? Vorresti rinunciare all’abilità delle tue mani, e alla passione del tuo cuore, e alla luce dell’aurora e del tramonto, per comprare la sicurezza per te stesso, la sicurezza eterna? È quanto cercano di fare a Wathort e a Lorbanery e altrove. Questo è il messaggio udito da coloro che sanno udire: negando la vita puoi negare la morte e vivere per sempre! E io non odo questo messaggio, Arren, perché non voglio udirlo. Non ascolterò il consiglio della disperazione. Sono sordo; sono cieco. Tu sei la mia guida. Tu, con la tua innocenza e il tuo coraggio, con la tua mancanza di sapienza e la tua lealtà, tu sei la mia guida… il bambino che invio davanti a me nell’oscurità. Ciò che io seguo è la tua paura, la tua sofferenza. Tu mi hai giudicato duro nei tuoi confronti, ma non hai mai saputo fino a che punto lo sono stato. Uso il tuo amore come un uomo che brucia una candela, e la consuma, per illuminarsi il cammino. E dobbiamo andare avanti. Dobbiamo andare avanti. Dobbiamo arrivare fino in fondo. Dobbiamo giungere al luogo dove il mare s’inaridisce e s’inaridisce la gioia, il luogo verso il quale ti attrae il tuo terrore mortale.

— Dov’è, mio signore?

— Non lo so.

— Non posso condurti là. Ma verrò con te,

Lo sguardo del mago, fisso su di lui, era cupo, insondabile.

— Se dovessi deluderti di nuovo, tradirti…

— Mi fiderò di te, figlio di Morred.

Poi tacquero entrambi.

Sopra di loro, gli alti idoli scolpiti ondeggiavano lievemente contro l’azzurro cielo meridionale: corpi di delfini, ali di gabbiani ripiegate, volti umani che avevano occhi spalancati, formati da conchìglie.

Sparviero si alzò, irrigidito perché non era ancora guarito dalla ferita. — Sono stanco di starmene seduto — disse. — Ingrasserò, nell’ozio. — Cominciò a camminare avanti e indietro, sulla zattera, e Arren l’accompagnò. Parlarono un poco mentre camminavano; Arren disse a Sparviero come trascorreva le giornate, e chi erano i suoi amici tra il popolo delle zattere. L’inquietudine di Sparviero era più grande della sua forza, che ben presto l’abbandonò. Si fermò accanto a una ragazza che intesseva il nilgu al telaio, dietro la Casa dei Grandi, e la pregò di cercare il capo; poi ritornò al suo riparo. Poco dopo sopraggiunse il capo del popolo delle zattere, salutandolo con una cortesia che il mago ricambiò; tutti e tre si sedettero sui tappeti di pelle di foca maculata.

— Ho pensato — incominciò il capo, lentamente e in tono solenne, — alle cose che mi hai detto. Agli uomini che credono di ritornare dalla morte nei loro corpi, e che cercando di far questo dimenticano la venerazione dovuta agli dèi e trascurano la propria persona e impazziscono. È un grande male e una grande follia. Ma ho anche pensato: questo ci riguarda? Noi non abbiamo nulla da spartire con gli altri uomini, le loro isole e i loro costumi, le loro azioni e distruzioni. Noi viviamo sul mare e le nostre vite appartengono al mare. Noi non speriamo di salvarle, non cerchiamo di perderle. Qui la follia non giunge. Noi non andiamo alla terraferma, e la gente della terraferma non viene da noi. Quando ero giovane, talvolta parlavamo con uomini che venivano con le barche alla Lunga Duna, quando noi vi andavamo a tagliare i tronchi per le zattere e per costruire i ripari per l’inverno. Spesso vedevamo le vele che provenivano da Ohol e Welway [così lui chiamava Obehol e Wellogy], seguendo le balene grige in autunno. Spesso seguivano le nostre zattere da lontano, perché noi conosciamo le strade e i luoghi di raduno dei Grandi, nel mare. Ma io non ho mai visto altra gente della terraferma, e adesso non vengono più. Forse sono tutti impazziti e hanno preso a combattersi tra loro. Due anni fa, sulla Lunga Duna, guardando a nord verso Welway, abbiamo visto per tre giorni il fumo di un grande incendio. E se anche è così, che importanza ha per noi? Noi siamo i Figli del Mare Aperto. Noi andiamo per le vie del mare.

— Eppure, quando avete visto alla deriva la barca di un uomo della terraferma, vi siete avvicinati — osservò il mago.

— Alcuni di noi hanno detto che non era prudente farlo, e avrebbero voluto lasciare che la barca andasse alla deriva fino alla fine del mare — replicò il capo con quella sua voce alta e impassibile.

— Tu non eri tra quelli.

— No. Ho detto: anche se sono abitanti della terraferma, li aiuteremo; e così è stato fatto. Ma non c’entriamo con le tue iniziative. Se c’è la follia tra la gente della terraferma, allora è la gente della terraferma che deve occuparsene. Noi seguiamo la strada dei Grandi. Non possiamo aiutarvi nella vostra ricerca. Finché vorrete restare con noi, sarete i benvenuti. Non mancano molti giorni alla Lunga Danza; dopo ritorneremo verso nord, seguendo la corrente orientale che alla fine dell’estate ci porterà di nuovo ai mari presso la Lunga Duna. Se resterai con noi e guarirai dalla tua ferita, per noi andrà bene. Se prenderai la tua barca e te ne andrai per la tua strada, anche questo ci andrà bene.

Il mago lo ringraziò; e il capo si alzò, esile e impettito come un airone, e li lasciò soli.

— Nell’innocenza non c’è forza contro il male — disse Sparviero, in tono un po’ ironico, — ma c’è la forza per il bene… Resteremo con loro per qualche tempo, credo, fino a quando mi sarò ripreso da questa debolezza.

— È una decisione saggia — commentò Arren. La fragilità fisica di Sparviero l’aveva turbato e commosso: era deciso a proteggere quell’uomo contro la sua energia e la sua impazienza, a insistere perché attendessero un po’, fino a quando la sofferenza l’avesse abbandonato, prima di proseguire.

Il mago lo guardò, un po’ sorpreso da quel complimento.

— Qui sono generosi — continuò Arren, senza accorgersene. — Sembra che non siano afflitti dalla malattia dell’anima che avevano a Città Hort e sulle altre isole. Forse non esiste un’isola dove saremmo stati aiutati e accettati, come ha fatto questo popolo perduto.

— Forse hai ragione.

— E d’estate, costoro vivono una vita piacevole…

— È vero. Anche se mangiare pesce freddo per tutta la vita, e non vedere mai un pero fiorito o non assaporare mai l’acqua di una sorgente, alla fine dev’essere noioso!

Così Arren ritornò alla zattera di Astro, e lavorò e nuotò e si crogiolò al sole insieme agli altri giovani, e parlò con Sparviero nella frescura serotina, e dormì sotto le stelle. E i giorni passavano, verso la Lunga Danza della vigilia del solstizio d’estate, e le grandi zattere andavano lentamente verso il sud, portate dalle correnti del mare aperto.

ORM EMBAR

Per tutta la notte, la notte più corta dell’anno, le torce bruciarono sulle zattere, raccolte in un grande cerchio sotto il cielo tempestato di stelle, così che un anello di fiamme brillava sul mare. Gli abitanti delle zattere danzavano, senza usare tamburi o flauti o altra musica che il ritmo dei piedi nudi sulle grandi zattere ondeggianti; e le sottili voci dei cantori risuonavano lamentose nell’immensità del mare che era la loro dimora. Non c’era la luna, quella notte, e le figure dei danzatori erano indistinte nella luce delle stelle e delle torce. Di tanto in tanto qualcuno balenava come un pesce che balza dall’acqua, un giovane che volteggiava da una zattera all’altra in salti lunghi e alti; e facevano a gara tra loro, cercando di compiere il giro dell’intero cerchio di zattere e di danzare su ognuna, per ritornare al punto di partenza prima dello spuntar del giorno.

Arren danzò con loro, perché la Lunga Danza è una consuetudine di tutte le isole dell’arcipelago, anche se i passi e i canti possono variare. Ma mentre la notte avanzava, e molti danzatori si fermavano e si sedevano a osservare o sonnecchiare, e le voci dei cantori diventavano roche, arrivò insieme a un gruppo di ragazzi alla zattera del capo: lui si fermò, e gli altri proseguirono.

Sparviero era seduto accanto al tempio, in compagnia del capo e delle sue tre mogli. Tra le balene scolpite che fiancheggiavano l’entrata sedeva un cantore, la cui voce acuta non si era mai affievolita per tutta la notte. Cantava instancabile, battendo le mani sui tronchi per tenere il tempo.

— Di cosa canta? — chiese Arren al mago, perché non riusciva a seguire le parole, che erano tutte strascicate, con trilli e strani indugi sulle note.

— Delle balene grige e degli albatri e delle tempeste… Loro non conoscono i canti degli eroi e dei re. Non conoscono il nome di Erreth-Akbe. Prima ha cantato di Segoy, e di come creò le terre in mezzo al mare: è tutto ciò che ricordano delle tradizioni degli uomini. Ma tutti gli altri canti parlano del mare.

Arren ascoltò: udì il cantore imitare il grido fischiante del delfino, e intessere la melodia intorno a quel suono. Scrutò il profilo di Sparviero contro lo sfondo della luce delle torce, nero e saldo come una roccia; vide il liquido brillio negli occhi delle mogli del capo mentre chiacchieravano sottovoce; sentì il lungo e lento ondeggiare della zattera sul mare tranquillo, e scivolò gradualmente verso il sonno.

Si ridestò di colpo: il cantore era ammutolito. E non solo quello che sedeva accanto a loro, ma anche tutti gli altri, sulle zattere vicine e lontane. Le sottili voci si erano spente, come il pigolio di uccelli marini, e c’era silenzio.

Arren girò la testa verso oriente, aspettando l’alba. Ma c’era solo la vecchia luna, che stava sorgendo allora, aurea tra le stelle dell’estate.

Poi, guardando verso sud, vide altissima la gialla Gobardon, e più sotto le sue otto compagne, fino all’ultima: la Runa della Fine brillava nitida e ardente sopra il mare. Voltatosi verso Sparviero, vide che il volto scuro era girato verso quelle stelle.

— Perché hai smesso? — stava chiedendo il capo al cantore. — Non è l’aurora: non è neppure l’alba.

L’uomo balbettò e disse: — Non lo so.

— Continua a cantare! La Lunga Danza non è finita.

— Non so le parole — replicò l’altro, e la sua voce divenne più acuta, come il terrore. — Non so cantare. Ho dimenticato il canto.

— Allora cantane un altro!

— Non ci sono più canti. È finito — gridò il cantore, e si piegò in avanti, rannicchiandosi sul ponte; e il capo lo fissò con immenso stupore.

Le zattere ondeggiavano sotto le torce scoppiettanti, nel silenzio. Il silenzio dell’oceano racchiuse quel piccolo fremito di vita e la sua luce, e l’inghiottì. Nessuno dei danzatori si mosse.

Allora Arren ebbe la sensazione che lo splendore delle stelle si fosse affievolito, sebbene a oriente non fosse spuntato il chiarore del giorno. L’invase l’orrore, e pensò: Non ci sarà l’aurora. Non ci sarà il giorno.

Il mago si alzò. In quell’istante una luce fioca, bianca e veloce, corse lungo il suo bastone, e brillò più chiara nella runa argentea incastonata nel legno. — La danza non è finita — disse. — E neppure la notte. Arren, canta.

Arren avrebbe voluto dire: «Non posso, mio signore!». Ma invece guardò le nove stelle a sud, fece un respiro profondo, e cantò. La sua voce era bassa e roca, all’inizio, ma divenne più forte via via che cantava: ed era il canto antichissimo che parlava della Creazione di Éa, e dell’equilibrio tra la tenebra e la luce, e della formazione delle terre verdi a opera di colui che aveva pronunciato la prima parola, il Signore Più Antico, Segoy.

Prima che il canto avesse termine, il cielo era impallidito in un azzurro-grigio e vi brillavano ancora soltanto la luna e Gobardon. Le torce sibilavano nel vento dell’alba. Poi, concluso il canto, Arren tacque; i danzatori, che si erano radunati per ascoltare, ritornarono senza chiasso di zattera in zattera, mentre la luce si ravvivava a oriente.

— È un bel canto — disse il capo. Aveva un tono incerto, sebbene si sforzasse di essere impassibile. — Non sarebbe stato bene terminare la Lunga Danza prima che fosse completa. Farò frustare i cantori pigri con corde di nilgu.

— Consolati, piuttosto — disse Sparviero. Era ancora in piedi, e il suo tono era imperioso. — Nessun cantore sceglie il silenzio. Vieni con me, Arren.

Si voltò per andare al riparo, e Arren lo seguì. Ma le stranezze di quell’alba non erano ancora finite, perché proprio allora, mentre l’orlo orientale del mare diventava bianco, venne in volo dal nord un grande uccello, così in alto che le sue ali riflettevano la luce del sole non ancora spuntato sul mondo, e battevano in lampi d’oro nell’aria. Arren gridò, tendendo il braccio per indicarlo. Il mago alzò la testa, stupito. Poi il suo volto diventò ardente ed esultante, e lui gridò a gran voce «Nam hietha arw Ged arkvaissa!», che nella Lingua della Creazione significa: se cerchi Ged lo troverai qui.

E come un piombo dorato, con le ali alte e protese, immense e tonanti nell’aria, con gli artigli che avrebbero potuto afferrare un bue come se fosse un topolino, con una spira di fiamma fumante che usciva dalle lunghe narici, il drago si avventò in picchiata come un falcone sopra la zattera ondeggiante.

La gente delle zattere lanciò grida; alcuni si rannicchiarono, alcuni saltarono in mare, e altri restarono immobili a osservare, con una meraviglia che vinceva anche la paura.

Il drago restò librato sopra di loro. Le immense ali membranose avevano un’apertura di trenta braccia, forse, da un’estremità all’altra, e splendevano nella luce del nuovo sole come fumo screziato d’oro; e il suo corpo non era meno lungo, ma snello, arcuato come quello di un levriero, con artigli di lucertola e squame di serpente. Lungo la spina dorsale correva una fila di creste irregolari, simili nella forma alle spine dei rosai, ma alla gobba del dorso erano alte un braccio, e diminuivano gradatamente, così che l’ultima, alla punta della coda, non era più lunga della lama di un coltellino. Le spine erano grige, e le squame erano grigio-ferro, ma avevano un baluginio d’oro. Gli occhi erano verdi, con sottili pupille verticali.

Spinto dalla paura per la sua gente a dimenticare la paura per se stesso, il capo del popolo delle zattere uscì dal riparo con un arpione, di quelli che venivano usati nella caccia alle balene: era più lungo di lui, e aveva una grande punta uncinata d’avorio. Reggendolo sul piccolo braccio muscoloso, corse avanti per acquisire lo slancio e scagliarlo contro il ventre del drago che incombeva sopra la zattera.

Arren si scosse dallo stupore, lo vide, e si precipitò: l’afferrò per il braccio e cadde insieme a lui e all’arpione, in un mucchio. — Vuoi farlo infuriare con quel tuo stupido spillo? — ansimò. — Lascia parlare prima il Signore dei Draghi!

Il capo, col fiato mozzo, guardò istupidito Arren e il mago e il drago.

Ma non disse nulla. E poi il drago parlò.

Soltanto Ged, al quale stava parlando, poteva comprenderlo, perché i draghi usano soltanto la Vecchia Lingua, che è la loro favella. La voce era bassa e sibilante, quasi come quella di un gatto quando grida sommesso il proprio furore, ma era immane, e aveva una sua terribile musicalità.

Chiunque udiva quella voce s’immobilizzava per ascoltare.

Il mago rispose, brevemente, e il drago parlò di nuovo, restando sospeso sopra di lui, con le ali che si muovevano lievemente: sembrava, pensò Arren, una libellula librata nell’aria.

Poi il mago rispose con una sola parola: «Memeas», verrò; e alzò il bastone di legno di tasso. Le fauci del drago si aprirono, e ne uscì una voluta di fumo in un lungo arabesco. Le ali dorate sbatterono come un tuono, creando un gran vento che odorava di bruciato; e il drago volteggiò e volò immenso verso il nord.

C’era silenzio, sulle zattere, un silenzio rotto solo dal pigolante piagnucolio dei bambini e dalle voci delle donne che li consolavano. Gli uomini risalirono dal mare con espressioni vergognose; e le torce dimenticate bruciavano nei primi raggi del sole.

Il mago si rivolse ad Arren. Aveva sul volto una luce che poteva essere gioia o collera, ma parlò quietamente: — Adesso dobbiamo andare, ragazzo. Saluta i tuoi amici e vieni. — Si voltò per ringraziare il capo del popolo delle zattere e dirgli addio, e poi passarono dalla grande zattera, attraverso altre tre, poiché erano ancora accostate per la danza, finché giunsero a quella cui stava legata la Vistacuta. La barca aveva seguito così la città di zattere nella lunga e lenta deriva verso il sud, ondeggiando vuota; ma i Figli del Mare Aperto avevano riempito il barile con la preziosa acqua piovana e l’avevano rifornita di provviste per onorare gli ospiti, perché molti di loro credevano che Sparviero fosse uno dei Grandi e che avesse assunto la forma di uomo anziché quella di balena. Quando Arren lo raggiunse, aveva già alzato la vela. Arren sciolse l’ormeggio e balzò nella barca, e in quell’istante la Vistacuta virò, scostandosi dalla zattera, e la sua vela si tese come per un gran vento, sebbene spirasse soltanto la brezza dell’aurora. Virò e corse verso nord, sulle tracce del drago, leggera come una foglia portata dal vento.

Quando Arren si voltò indietro, vide la città di zattere come una manciata di fuscelli e di schegge di legno che galleggiavano minuscoli sull’acqua: le capanne e i pali reggitorcia. Ben presto anche quelli si persero nei barbagli della luce del sole sulle onde. La Vistacuta correva veloce. Quando la sua prua mordeva le acque s’innalzava un finissimo pulviscolo cristallino, e il vento della sua corsa ributtava all’indietro i capelli di Arren e lo costringeva a socchiudere gli occhi.

Nessun vento del mondo avrebbe potuto far navigare così rapida la piccola imbarcazione, se non quello della tempesta; ma in quel caso sarebbe affondata tra le onde del fortunale. Quello non era un vento del mondo: erano la parola e il potere del mago, a farla volare così.

Sparviero rimase a lungo ritto accanto all’albero, con gli occhi fissi. Infine si sedette come al solito accanto al timone, e vi appoggiò una mano, e guardò Arren.

— Era Orm Embar — disse, — il Drago di Selidor, parente del grande Orm che uccise Erreth-Akbe e fu ucciso da lui.

— Era a caccia, mio signore? — chiese Arren; perché non sapeva se il mago avesse parlato al drago con parole di benvenuto oppure di minaccia.

— Dava la caccia a me. Quello che i draghi cercano, lo trovano. È venuto a chiedere il mio aiuto. — Sparviero rise, brevemente. — Ed è una cosa che non crederei, se qualcuno me lo dicesse: un drago che si rivolge a un uomo per chiedere aiuto. E tra tutti, proprio quello! Non è il più vecchio, sebbene sia vecchissimo, ma è il più possente della sua specie. Non nasconde il proprio nome, come devono fare uomini e draghi. Non ha paura che qualcuno possa acquisire potere su di lui. E non inganna, secondo la tradizione della sua razza. Molto tempo fa, su Selidor, mi lasciò vivere, e mi rivelò una grande verità: mi disse come si poteva ritrovare la Runa dei Re. È a lui che devo l’Anello di Erreth-Akbe. Ma non avrei mai pensato di ripagare un simile debito, e a un simile creditore!

— Cosa ti ha chiesto?

— Di mostrarmi la via che cerco — rispose il mago, incupendosi. Poi, dopo una pausa: — Ha detto: «A occidente c’è un altro Signore dei Draghi: opera la distruzione tra noi, e il suo potere è più grande del nostro». Io ho chiesto: «Anche del tuo, Orm Embar?». E lui ha detto: «Anche del mio. Ho bisogno di te: seguimi in fretta». E io ho ubbidito al suo comando.

— Non sai altro?

— Presto saprò di più.

Arren arrotolò il cavo d’ormeggio, lo ripose, e sbrigò le altre piccole mansioni di bordo, ma la tensione dell’eccitamento cantava dentro di lui come la corda tesa di un arco; e quando infine lui parlò, la tensione cantò anche nella sua voce. — Questa — disse, — è una guida migliore delle altre!

Sparviero lo guardò e rise. — Sì. Questa volta non ci smarriremo, credo.

Così i due incominciarono la grande corsa attraverso l’oceano. Erano mille miglia e più, dai mari inesplorati del popolo delle zattere fino all’isola di Selidor, che è la più occidentale di tutte le terre di Earthsea. Uno dopo l’altro, i giorni sorgevano splendenti dal sereno orizzonte e discendevano nel rosseggiante occaso; e sotto l’arco d’oro del sole e l’argenteo volteggiare delle stelle la barca correva verso nord, tutta sola sul mare.

Talvolta i nembi temporaleschi dell’estate si ammassavano in lontananza, gettando ombre purpuree sull’orizzonte: allora Arren restava a guardare mentre il mago si alzava e con la voce e la mano chiamava quelle nubi perché venissero verso di loro e lasciassero cadere la pioggia sulla barca. Il lampo guizzava tra le nuvole, e il tuono muggiva. E il mago rimaneva ritto, con la mano levata, fino a quando la pioggia cadeva su di lui e su Arren e nei recipienti che avevano preparato, e nella barca e sul mare, appiattendo le onde con la sua violenza. Il mago e Arren sorridevano di piacere perché avevano cibo a sufficienza, se non in abbondanza, ma avevano bisogno d’acqua dolce. E il furioso splendore del temporale che ubbidiva al mago li deliziava.

Arren si stupiva del potere che adesso il suo compagno usava con tanta disinvoltura, e una volta disse: — Quando abbiamo incominciato il viaggio, tu non operavi incantesimi.

— La prima lezione, a Roke, e l’ultima, è: fa ciò che è necessario, niente di più.

— E le lezioni di mezzo, quindi, devono consistere nell’imparare ciò che è necessario.

— Infatti. Bisogna tener presente l’Equilibrio. Ma quando lo stesso Equilibrio è infranto… allora si considerano altre cose. Soprattutto, la necessità di affrettarsi.

— Ma come mai tutti i maghi del sud, e delle altre terre, ormai, e perfino i cantori delle zattere, hanno perso tutta la loro arte ma tu hai conservato la tua?

— Perché io non desidero nulla oltre alla mia arte — rispose Sparviero.

Dopo qualche istante aggiunse, più allegramente: — E se presto dovrò perderla, cercherò di sfruttarla finché dura.

Adesso c’era veramente in lui una specie di spensieratezza, un senso di piacere per le sue facoltà, che Arren, vedendolo sempre così cauto, non aveva immaginato. La mente del mago si rallegra dei trucchi: un mago è anche un prestigiatore. Il camuffamento di Sparviero a Città Hort, che aveva tanto turbato Arren, per lui era stato un gioco: un gioco di poco conto, per uno che poteva trasformare a volontà non soltanto il volto e la voce ma anche il corpo e l’intero essere e così diventare un pesce, un delfino o un falco, come preferiva. E una volta disse: — Guarda, Arren: ti mostrerò Gont. — E gli disse di guardare la superficie del barile dell’acqua, che aveva scoperchiato e che era pieno fino all’orlo. Molti semplici incantatori sanno far apparire un’immagine nello specchio dell’acqua, e così aveva fatto anche lui: una grande montagna inghirlandata di nubi, che sorgeva dal mare grigio. Poi l’immagine cambiò, e Arren vide chiaramente uno strapiombo, su quell’isola. Gli sembrava di essere un uccello, gabbiano o falcone, librato nel vento a una certa distanza dalla riva, e di guardare attraverso il vento il precipizio che saliva torreggiando dai frangenti per seicento braccia. In alto, sul ciglio, c’era una casetta. — Quello è Re Albi — disse Sparviero, — e là vive il mio maestro Ogion, che molto tempo fa arrestò un terremoto. Bada alle sue capre, e raccoglie erba, e tace. Mi chiedo se vaga ancora sulla montagna: ormai è molto vecchio. Ma lo saprei, lo saprei sicuramente, anche ora, se Ogion morisse… — Non c’era certezza, nella sua voce; per un momento l’immagine tremolò, come se l’immensa parete di roccia precipitasse. Poi l’immagine si schiarì, e si schiarì anche la sua voce. — Andava solo tra le foreste, nella tarda estate e in autunno. Fu così che m’incontrò per la prima volta, quando ero un bambinetto di un villaggio di montagna, e mi diede il mio nome. E con il nome, la vita. — L’immagine mostrata dallo specchio d’acqua appariva adesso come se l’osservatore fosse un uccello tra i rami della foresta e scrutasse i prati digradanti e assolati sotto la roccia e la neve della vetta, lungo una strada scoscesa che scendeva in un’oscurità verde screziata d’oro. — Non esiste un silenzio come il silenzio di quelle foreste — disse Sparviero, in tono di nostalgia.

L’immagine sbiadì, e rimase soltanto l’abbacinante disco del sole meridiano riflesso nell’acqua del barile.

— Là — disse Sparviero, e rivolse ad Arren uno sguardo strano e ironico, — là, se mai potessi ritornarvi, neppure tu potresti seguirmi.

Davanti a loro c’era la terra, bassa e azzurra nel pomeriggio come un banco di nebbia. — È Selidor? — chiese Arren, e il suo cuore batté più rapido; ma il mago rispose: — Obb, credo, o Jessage. Non siamo ancora a metà strada, ragazzo.

Quella notte attraversarono lo stretto fra le due isole. Non videro neppure una luce, ma nell’aria c’era un odore di fumo, così pesante da bruciare i polmoni. Quando venne il giorno, e si voltarono a guardare, l’isola orientale, Jessage, appariva annerita e bruciata fin dove potevano vedere nell’entroterra, e sopra vi aleggiava una foschia azzurra e opaca.

— Hanno bruciato i campi — disse Arren.

— Sì. E i villaggi. Ho già sentito l’odore di quel fumo.

— Sono selvaggi, qui in occidente?

Sparviero scosse la testa. — Contadini; cittadini.

Arren fissò la nera terra devastata e gli scarni alberi dei frutteti contro lo sfondo del cielo; e il suo volto era duro. — Che male gli hanno fatto, gli alberi? — chiese. — Devono punire l’erba per le loro colpe? Sono selvaggi, gli uomini che incendiano una terra perché hanno motivi di dissidio con altri uomini.

— Non hanno una guida — disse Sparviero. — Non hanno un re; e i potenti e i maghi, dimentichi di tutto e rinchiusi ciascuno nella propria mente, stanno cercando la porta che conduce oltre la morte. Era così nel sud, e penso che sia così anche qui.

— E tutto questo è opera di un uomo solo, quello di cui ha parlato il drago? Non mi sembra possibile.

— Perché no? Se ci fosse un Re delle Isole, sarebbe un uomo solo. E regnerebbe. Un uomo può distruggere con la stessa facilità con cui può governare: può essere re o antiré.

Nella voce di Sparviero c’era di nuovo quel tono di sarcasmo o di sfida che irritava Arren.

— Un re ha servi, soldati, messaggeri, luogotenenti. Governa per mezzo dei suoi servitori. Dove sono i servitori di questo… antiré?

— Nelle nostre menti, ragazzo. Nelle nostre menti. Il traditore è l’io: l’io che grida Voglio vivere; bruci pure il mondo, purché io viva! La piccola anima traditrice dentro di noi, nell’oscurità, come il verme nella mela. Lui parla a tutti noi. Ma soltanto alcuni lo comprendono. I maghi e gli incantatori. I cantori, i creatori. E gli eroi, coloro che cercano di essere se stessi. E essere se stessi è una cosa rara e grande. Essere se stessi per sempre: non è ancora meglio?

Arren guardò in faccia Sparviero. — Tu mi diresti che non è meglio. Ma spiegami il perché. Ero un bambino quando ho incominciato questo viaggio, un bambino che non credeva nella morte. Tu mi ritieni ancora un bambino, ma ho imparato qualcosa; forse non molto, ma qualcosa; ho imparato che la morte esiste e che dovrò morire. Ma non ho imparato a rallegrarmi di questa certezza, ad accogliere con gioia la mia morte o la tua. Se amo la vita, non devo odiarne la fine? Perché non dovrei desiderare l’immortalità?

Il maestro di scherma di Arren, a Berila, era stato un uomo sulla sessantina, basso e calvo e freddo. Arren l’aveva detestato per anni, sebbene sapesse che era uno spadaccino eccezionale. Ma un giorno, durante un’esercitazione, l’aveva colto alla sprovvista e quasi l’aveva disarmato; e in seguito non aveva mai dimenticato l’incredula e incongrua felicità che era apparsa all’improvviso sul freddo volto del maestro, la speranza, la gioia: un suo pari, finalmente un suo pari! A partire da quel momento il maestro di scherma l’aveva addestrato spietatamente; e ogni volta che si esercitavano, lo stesso sorriso implacabile riappariva sul volto del vecchio e si ravvivava quando Arren lo incalzava. E adesso la stessa espressione era sul volto di Sparviero, il bagliore dell’acciaio nel sole.

— Perché non dovresti desiderare l’immortalità? Come potresti non desiderarla? Ogni anima vi aspira, e la sua salute è nella forza del desiderio… Ma sta’ in guardia: tu sei uno che potrebbe realizzare quell’aspirazione.

— E allora?

— E allora, ecco: un falso re che governa, le arti dell’uomo dimenticate, il cantore ammutolito, l’occhio cieco. Questo! Questa desolazione e questa pestilenza sulle terre, questa piaga che stiamo cercando di risanare. Sono due le cose, Arren, due le cose che ne fanno una: il mondo e l’ombra, la luce e la tenebra. I due poli dell’Equilibrio. La vita sorge dalla morte, la morte sorge dalla vita: essendo contrapposte aspirano l’una all’altra, l’una genera l’altra e rinascono in eterno. E con loro tutto rinasce: il fiore del melo, la luce delle stelle. Nella vita c’è la morte. Nella morte c’è la rinascita. Cos’è la vita, senza la morte? La vita immutabile, incessante, eterna? Cos’è se non la morte… la morte senza rinascita?

— Se ne dipendono tante cose, mio signore, se la vita di un uomo può bastare a rovinare l’Equilibrio del Tutto, senza dubbio non è possibile… non sarebbe permesso… — Arren s’interruppe, confuso.

— Chi permette? Chi proibisce?

— Non lo so.

— Neppure io. Ma so quanto male può fare un uomo, una vita. Lo so fin troppo bene. Lo so perché io l’ho fatto. Ho compiuto lo stesso male, la stessa follia dell’orgoglio. Ho aperto la porta tra i mondi, l’ho socchiusa appena, solo per mostrare che ero più forte della morte… Ero giovane, e non avevo incontrato la morte… come te… Fu necessaria la forza dell’arcimago Nemmerle, e chiudere quella porta gli costò la maestria e la vita. Puoi vedere sulla mia faccia il segno che lasciò su di me quella notte: ma uccise Nemmerle. Oh, la porta tra la luce e la tenebra si può aprire, Arren: occorre molta forza, ma si può fare. Quanto a richiuderla… è tutta un’altra storia.

— Ma, mio signore, ciò di cui stai parlando non è sicuramente molto diverso da questo…

— Perché? Perché io sono un uomo buono? — La freddezza dell’acciaio, dell’occhio del falco, era riapparsa nello sguardo di Sparviero. — Cos’è un uomo buono, Arren? È un uomo buono colui che non farebbe il male, che non aprirebbe la porta verso la tenebra, che non ha la tenebra dentro di sé? Guarda ancora, ragazzo. Guarda un poco più avanti: avrai bisogno di ciò che impari, per andare dove dobbiamo andare. Guarda in te stesso! Non hai udito una voce dire Vieni? Non l’hai seguita?

— Sì. Io… non ho dimenticato. Ma pensavo… pensavo che quella voce fosse… la sua.

— Sì, era la sua. Ed era la tua. Come poteva parlarti, attraverso i mari, se non con la tua voce? Perché chiama coloro che sanno ascoltare, i maghi e i creatori e i cercatori, che ascoltano la voce interiore? Perché non chiama me? Perché io non ascolterò: non udrò mai più quella voce. Tu sei nato per il potere, come me; il potere sugli uomini, sulle anime degli uomini; e cos’è, questo, se non il potere sulla vita e la morte? Tu sei giovane, e stai sui confini della possibilità, nella terra dell’ombra, nel reame dei sogni, e odi la voce che dice Vieni. Ma io, che sono vecchio, che ho fatto ciò che dovevo fare, che sto nella luce del giorno, in faccia alla mia morte, alla fine di ogni possibilità, so che c’è un solo potere reale, il solo che valga la pena di possedere. E non è il potere di prendere, ma quello di accettare.

— Quindi io sono il suo servitore — disse Arren.

— Lo sei. E io sono il tuo.

— Ma chi è, dunque? Che cos’è?

— Un uomo, credo… come te e me.

— L’uomo di cui hai parlato una volta… il mago di Havnor che evocava i morti? È lui?

— Può darsi. Aveva un grande potere, ed era votato alla negazione della morte. E conosceva i grandi incantesimi della tradizione di Paln. Io ero giovane e sciocco quando usai quella scienza, e attirai su di me la rovina. Ma se la usasse un uomo vecchio e forte, noncurante delle conseguenze, potrebbe attirare la rovina su tutti noi.

— Non ti avevano detto che quell’uomo era morto?

— Sì — rispose Sparviero. — Me l’avevano detto.

E non parlarono più.

Quella notte il mare fu pieno di fuoco. Le onde brusche sollevate dalla prua della Vistacuta e il movimento di ogni pesce nell’acqua della superficie erano vivi di luce. Arren sedeva col braccio appoggiato alla frisata e la testa china sul braccio, e guardava quelle curve e quelle spirali di splendore argenteo. Immerse la mano nell’acqua e la ritrasse, e la luce defluì lieve dalle sue dita. — Guarda — disse, — anch’io sono un mago.

— È un dono che non possiedi — replicò il suo compagno.

— Ti sarò molto utile, se non lo possiedo — osservò Arren, guardando l’irrequieto scintillio delle onde, — quando incontreremo il nostro nemico.

Perché aveva sperato — l’aveva sperato fin dal primo momento — che la ragione per cui l’arcimago aveva scelto lui, e lui solo, per quel viaggio, fosse un potere innato in lui, ereditato dal suo antenato Morred e destinato a rivelarsi nell’estremo bisogno e nell’ora più nera, cosicché avrebbe potuto salvare se stesso e il suo signore e il mondo intero dalla minaccia del nemico. Ma in quegli ultimi tempi aveva riconsiderato quella speranza, ed era stato come se la vedesse da molto lontano: era come ricordare che da piccolo aveva provato il bruciante desiderio d’infilarsi la corona di suo padre, e aveva pianto quando gli era stato proibito. Quella speranza era altrettanto intempestiva e puerile. Non c’era magia, in lui. Non ci sarebbe mai stata.

In realtà sarebbe venuto il momento in cui avrebbe potuto e dovuto mettere la corona di suo padre e governare come principe di Enlad. Ma adesso gli sembrava una cosa di poco conto, e la sua patria pareva piccola e remota. Non c’era slealtà, in quel pensiero. La sua lealtà era diventata più grande, si era rivolta verso un modello più grande e una più grande speranza. Aveva imparato anche a conoscere la propria debolezza, e a servirsene per misurare la propria forza; e sapeva di essere forte. Ma a cosa serviva la forza se non aveva nessun dono, se non aveva da offrire al suo signore altro che il proprio servizio e il proprio amore costante? Sarebbero stati sufficienti, là dove stavano andando?

Sparviero disse soltanto: — Per vedere la luce di una candela è necessario portarla in un luogo buio. — Arren cercò di trovare conforto in quelle parole: ma non gli sembravano molto consolanti.

Il mattino dopo, quando si svegliarono, l’aria era grigia, e l’acqua era grigia. Sopra l’albero, il cielo si ravvivò assumendo l’azzurro di un opale, perché la coltre di nebbia era bassa. Per gli uomini del nord, come Arren di Enlad e Sparviero di Gont, la nebbia era gradita, come una vecchia amica. Cingeva dolcemente la barca, e loro non potevano vedere lontano; e per loro era come trovarsi in una stanza nota, dopo molte settimane di spazio luminoso e deserto e di vento fortissimo. Stavano ritornando al loro clima, e ormai, forse, erano alla stessa latitudine di Roke.

Settecento miglia a est delle acque ammantate di nebbia dove navigava la Vistacuta, la chiara luce del sole brillava sulle foglie degli alberi del Bosco Immanente, sulla verde corona del Colle di Roke, e sugli alti tetti d’ardesia della Grande Casa.

In una stanza della torre meridionale, un laboratorio dei maghi ingombro di storte e alambicchi e grandi bottiglie panciute dal collo ritorto, di fornaci dalle pareti robuste e di minuscoli fornelli, di tenaglie, mantici, supporti, pinze, provette, mille cassette e fiale e barattoli con etichette scritte in hardese o in rune più segrete, e tutti gli altri attrezzi dell’alchimia, della vetreria, della metallurgia e delle arti della medicina, in quella stanza, fra i tavoli e i banchi ingombri, stavano il Maestro delle Metamorfosi e il Maestro Evocatore di Roke.

Il Maestro delle Metamorfosi, che aveva i capelli grigi, teneva tra le mani una grande pietra simile a un diamante grezzo. Era un cristallo di rocca, e all’interno era lievemente colorato d’ametista e di rosa ma limpido come l’acqua. Eppure, quando l’occhio guardava quella chiarità, vi trovava l’assenza della chiarezza, e non vi scorgeva i riflessi e le immagini di ciò che stava intorno ma soltanto piani e profondità sempre più remoti, fino a quando veniva guidato nel sogno e non trovava più una via d’uscita. Era la Pietra di Shelieth. Per molto tempo era rimasta in possesso dei principi di Way, talvolta come un semplice gingillo del loro tesoro, talvolta come un talismano contro l’insonnia, talvolta per uno scopo ben più terribile: perché coloro che guardavano troppo a lungo e senza comprensione nell’infinita profondità del cristallo potevano impazzire. L’arcimago Gensher di Way, quando era venuto a Roke, aveva portato con sé la Pietra di Shelieth, perché nelle mani di un mago rivelava la verità.

Eppure la verità varia con l’uomo.

Perciò il Maestro delle Metamorfosi, reggendo nelle mani la pietra e scrutando nelle infinite profondità pallide e scintillanti attraverso la superficie irregolare, parlava a voce alta dicendo ciò che vedeva: — Vedo la terra, come se fossi sul monte Onn al centro del mondo e la scorgessi tutta ai miei piedi, fino alla più lontana isola dello stretto più lontano, e anche oltre. E tutto è chiaro. Vedo navi nei canali di Ilien, e i fuochi di Torheven, e i tetti della torre dove stiamo ora. Ma al di là di Roke, non vedo nulla. A sud non ci sono terre. A ovest non ci sono terre. Non riesco a scorgere Wathort dove dovrebbe essere, né una sola delle isole dello Stretto Occidentale, neppure quelle vicine come Pendor. E Osskil e Ebosskil, dove sono? C’è una nebbia su Enlad, un grigiore, come una ragnatela. Ogni volta che guardo, altre isole sono scomparse e il mare dove stavano è vuoto e ininterrotto com’era prima della Creazione… — E la sua voce s’impuntò sull’ultima parola, come se gli salisse con difficoltà alle labbra.

Depose la pietra sul sostegno d’avorio e si scostò. Il suo volto mite era teso. Chiese: — Dimmi cosa vedi tu.

Il Maestro Evocatore prese tra le mani il cristallo e lo rigirò lentamente, come se cercasse sulla ruvida superficie vitrea un varco per vedere all’interno. Lo rigirò a lungo, con espressione intenta. Alla fine lo posò e disse: — Maestro delle Metamorfosi, vedo ben poco. Frammenti che non formano un tutto.

Il Maestro dai capelli grigi contrasse le mani. — E questo non è strano?

— Perché?

— I tuoi occhi sono spesso ciechi? — gridò il Maestro delle Metamorfosi, come se fosse incollerito. — Non vedi che c’è… — Balbettò parecchie volte, prima di poter parlare. — Non vedi che c’è una mano sopra i tuoi occhi, come c’è una mano sulla mia bocca?

L’Evocatore disse: — Sei troppo agitato, mio signore.

— Chiama la Presenza della Pietra — replicò il Maestro delle Metamorfosi, dominandosi ma parlando con voce piuttosto soffocata.

— Perché?

— Perché te lo chiedo io.

— Su, Maestro delle Metamorfosi, mi stai sfidando… come se fossimo due ragazzi davanti alla tana dell’orso? Siamo forse due bambini?

— Sì! Di fronte a ciò che vedo nella Pietra di Shelieth, io sono un bambino… un bambino impaurito. Chiama la Presenza della Pietra. Devo implorarti, mio signore?

— No — disse l’alto Maestro, ma aggrottò la fronte e voltò le spalle all’uomo più vecchio. Poi, spalancando le braccia nel grande gesto che dà inizio agli incantesimi della sua arte, levò la testa e pronunciò le sillabe dell’invocazione. Mentre parlava, una luce si accese entro la Pietra di Shelieth. Intorno, la stanza si oscurò e le ombre si addensarono. Quando le ombre furono cupe e la pietra lucentissima, il mago giunse le mani, alzò il cristallo davanti alla faccia e ne scrutò lo splendore.

Tacque per lunghi istanti e poi parlò. — Vedo la Fontana di Shelieth — disse a bassa voce. — Le vasche e i bacini e le cascate, le grotte sgocciolanti dalle cortine argentee, dove le felci crescono su banchi di muschio, le sabbie increspate, gli zampilli delle acque e il loro scorrere, lo sgorgare delle fonti dalle profondità della terra, il mistero e la dolcezza della sorgente, la fonte… — Tacque di nuovo, e rimase in silenzio per qualche tempo, e nella luce della pietra il suo volto era pallido come l’argento. Poi lanciò un grido inarticolato, lasciò cadere con uno schianto il cristallo e piombò in ginocchio, nascondendosi la faccia tra le mani.

Non c’erano ombre. Il sole dell’estate riempiva la stanza ingombra. La grande pietra stava sotto un tavolo, tra la polvere, indenne.

L’Evocatore protese le braccia, ciecamente, afferrando la mano dell’altro, come un bambino. Tirò un profondo respiro. Infine si rialzò, appoggiandosi un po’ al Maestro delle Metamorfosi, e disse, con labbra tremanti, sforzandosi di sorridere: — Non accetterò mai più le tue sfide, mio signore.

— Cos’hai visto, Thorion?

— Ho visto le fontane. Le ho viste sprofondare, e i ruscelli inaridirsi, e gli orli dell’acqua ritirarsi. E sotto era tutto nero e arido. Tu hai visto il mare prima della Creazione, ma io ho visto… ciò che viene dopo: ho visto l’Annientamento. — Si umettò le labbra. — Vorrei che l’arcimago fosse qui — aggiunse.

— Io vorrei che fossimo là insieme a lui.

— Dove? Ormai nessuno può trovarlo. — L’Evocatore alzò lo sguardo verso le finestre, che mostravano il cielo azzurro e tranquillo. — Nessun messaggio può raggiungerlo, nessun richiamo può arrivare fino a lui. È là dove tu hai visto il mare vuoto. Sta per giungere al luogo dove le fonti s’inaridiscono. È là dove le nostre arti non servono a nulla… Eppure, forse ancora adesso ci sono incantesimi che potrebbero raggiungerlo: alcuni di quelli che sono contenuti nella tradizione di Paln.

— Ma sono incantesimi che servono a riportare i morti tra i vivi.

— Alcuni portano i vivi tra i morti.

— Non lo credi morto?

— Io credo che vada verso la morte, che ne sia attratto. E così è per tutti noi. Il nostro potere ci abbandona, e anche la nostra forza, e la speranza e la fortuna. Le fonti s’inaridiscono.

Il Maestro delle Metamorfosi lo guardò a lungo, con aria turbata. — Non cercare di inviargli un messaggio — disse infine. — Sapeva ciò che cercava, molto prima che lo sapessimo noi. Per lui il mondo è come questa Pietra di Shelieth: guarda e vede ciò che è e ciò che deve essere… Non possiamo aiutarlo. I grandi incantesimi sono divenuti molto pericolosi, e tra tutti il pericolo più grande sta nella tradizione di cui hai parlato. Dobbiamo resistere, come lui ci ha ordinato, e proteggere le mura di Roke e il ricordo dei Nomi.

— Sì — replicò l’Evocatore. — Ma io devo andare a riflettere su tutto questo. — E lasciò la stanza della torre, camminando a passo rigido e tenendo alta la nobile testa bruna.

Il mattino dopo, il Maestro delle Metamorfosi andò a cercarlo. Entrò nella sua stanza dopo aver bussato invano, e lo trovò disteso sul pavimento di pietra, come se fosse stato scagliato all’indietro da un colpo fortissimo. Le sue braccia erano spalancate, come nel gesto dell’invocazione, ma le sue mani erano fredde e gli occhi spalancati non vedevano. Sebbene il Maestro delle Metamorfosi s’inginocchiasse accanto a lui e lo chiamasse con l’autorità di un mago, pronunciando il suo nome, per tre volte, Thorion continuò a restare immoto. Non era morto: ma c’era in lui solo abbastanza vita per far battere il suo cuore molto lentamente e per mantenere un po’ di respiro nei suoi polmoni. Il Maestro delle Metamorfosi gli prese le mani e, stringendole, mormorò: — Oh, Thorion, io ti ho costretto a guardare nella Pietra. Questa è opera mia! — Poi, uscito in fretta dalla camera, gridò a tutti coloro che incontrava, Maestri e discepoli: — Il nemico è penetrato fra noi, in Roke così ben difesa, e ha colpito al cuore la nostra forza! — Sebbene fosse un uomo mite, appariva tanto folle e gelido che quanti lo vedevano ne avevano paura. — Prendetevi cura del Maestro Evocatore — disse. — Tuttavia, chi richiamerà il suo spirito, dato che lui, il maestro della sua arte, non c’è più?

Si diresse verso la propria camera, e tutti si ritrassero per lasciarlo passare.

Venne mandato a chiamare il Maestro Guaritore. Questo ordinò di mettere Thorion a letto e di coprirlo bene; ma non preparò filtri con erbe risanatrici, non salmodiò nessuno dei canti che aiutano il corpo malato e la mente turbata. C’era con lui uno dei suoi allievi, un ragazzo che non era ancora diventato incantatore ma che prometteva bene nell’arte della guarigione; e chiese: — Maestro, non si può far nulla per lui?

— No, da questa parte del muro — rispose il Maestro Guaritore. Poi, ricordandosi a chi parlava, disse: — Non è malato, ragazzo; ma anche se questa fosse una febbre o un’infermità del corpo, non so se le nostre arti servirebbero a molto. Sembra che da qualche tempo le mie erbe non abbiano più sapore; e sebbene io pronunci le parole dei nostri incantesimi, non hanno più virtù.

— È ciò che ha detto ieri il Maestro Cantore. Si è interrotto a metà di un canto che ci stava insegnando, e ha detto: «Non so cosa significhi questo canto». Ed è uscito dall’aula. Alcuni ragazzi hanno riso, ma io ho avuto l’impressione di sprofondare.

Il Guaritore scrutò il volto franco e intelligente del ragazzo, e poi abbassò lo sguardo su quello dell’Evocatore, freddo e rigido. — Ritornerà a noi — disse. — I canti non verranno dimenticati. Quella notte, il Maestro delle Metamorfosi se ne andò da Roke.

Nessuno lo vide partire. Dormiva in una camera con una finestra affacciata sul giardino; e alla mattina la finestra era aperta, e lui non c’era più. Pensarono che si fosse trasformato, mediante la sua arte, in un uccello o un quadrupede, o forse in una nebbia o in un vento, perché non c’era forma o sostanza che non potesse assumere, e che avesse lasciato Roke, forse per andare in cerca dell’arcimago. Alcuni, sapendo che chi opera metamorfosi può restare prigioniero dei suoi stessi incantesimi se vengono meno la volontà o l’abilità, temettero per lui, ma non confidarono le loro paure.

E così, il Consiglio dei Saggi perse tre Maestri. Via via che i giorni passavano e non giungevano notizie dell’arcimago, e l’Evocatore giaceva come morto, e il Maestro delle Metamorfosi non ritornava, la tristezza e il gelo crebbero nella Grande Casa. I ragazzi bisbigliavano tra loro, e alcuni parlavano di lasciare Roke, poiché non veniva insegnato loro ciò che erano venuti a imparare. — Forse — disse uno, — erano menzogne fin dall’inizio, queste arti segrete, questi poteri. Tra tutti i Maestri, solo il Maestro delle Mani esegue ancora i suoi trucchi: e quelli, lo sappiamo, sono illusioni dichiarate. E adesso gli altri si nascondono, o rifiutano di fare qualunque cosa, perché i loro trucchi sono stati scoperti. — Un altro, che l’aveva ascoltato, replicò: — Ebbene, cos’è la magia? Cos’è quest’arte, se non un gioco di apparenze? Ha mai salvato un uomo dalla morte, o gli ha dato la longevità? Senza dubbio, se i maghi avessero il potere che affermano di possedere vivrebbero tutti in eterno! — E lui e l’altro ragazzo cominciarono a raccontare le morti dei grandi maghi, e come Morred era stato ucciso in battaglia, e Nereger dal Mago Grigio, e Erreth-Akbe da un drago, e Gensher, l’ultimo arcimago, da una malattia, nel suo letto, come un uomo qualunque. Alcuni degli altri ragazzi ascoltavano lieti, poiché avevano l’invidia nel cuore; ma altri, ascoltando, si rattristarono.

E per tutto quel tempo, il Maestro degli Schemi rimase solo nel Bosco Immanente, e non lasciò che nessuno vi penetrasse.

Ma il Portinaio, sebbene si mostrasse di rado, non era cambiato. Non c’erano ombre, nei suoi occhi. Sorrideva, e teneva pronte le porte della Grande Casa per il ritorno del suo signore.

LO STRETTO DEI DRAGHI

Sulle acque esterne dello Stretto Occidentale, il signore dell’isola dei Saggi, svegliandosi intorpidito e rigido a bordo di una piccola barca in un freddo mattino luminoso, si levò a sedere e sbadigliò. E dopo un momento, tendendo il braccio verso nord, disse al compagno, che sbadigliava a sua volta: — Là! Quelle due isole, le vedi? Sono le isole più meridionali dello Stretto dei Draghi.

— Tu hai occhi d’aquila, mio signore — commentò Arren, scrutando il mare con gli occhi assonnati, senza scorgere nulla.

— Io sono lo Sparviero — disse il mago; era ancora gaio, e sembrava che scacciasse da sé ogni triste presentimento. — Non riesci a vederle?

— Vedo i gabbiani — rispose Arren dopo essersi stropicciato gli occhi, scrutando l’orizzonte azzurro-grigio davanti alla barca.

Il mago rise. — Neppure un falco potrebbe vedere i gabbiani a una distanza di venti miglia.

Quando il sole si ravvivò sopra le nebbie a oriente, i minuscoli punti volteggianti che Arren osservava parvero scintillare, come polvere d’oro scossa nell’acqua o particelle di polvere in un raggio di sole. E allora Arren si accorse che erano draghi.

Mentre la Vistacuta si avvicinava alle isole, Arren vide i draghi che volavano in cerchio e planavano sul vento mattutino, e il cuore gli balzò di gioia, la gioia dell’esaudimento che quasi sembrava sofferenza. Tutta la gloria della mortalità era nel loro volo. La loro bellezza era fatta di forza terribile, scatenata e selvaggia, e dell’eleganza della ragione. Perché erano creature pensanti, dotate di eloquio e di un’antica saggezza: nelle trame del loro volo c’era una fiera e voluta concordia.

Arren non disse nulla, ma pensò: non m’importa ciò che verrà poi; ho visto i draghi nel vento del mattino.

Talvolta le trame diventavano scomposte, e i cerchi si spezzavano, e spesso, nel volo, un drago eruttava dalle narici un lungo getto di fiamma che s’incurvava e restava librato nell’aria per un momento, ripetendo la curva e il fulgore del lungo corpo arcuato del drago. Nel vederlo, il mago disse: — Sono irati. Danzano sfogando la loro collera nel vento.

E poi disse: — Ormai siamo nel nido dei calabroni. — Perché i draghi avevano visto la piccola vela sulle onde, e prima uno e poi un altro si staccarono dal vortice della danza e discesero, protesi nell’aria, remigando con le grandi ali verso la barca.

Il mago guardò Arren, che stava seduto al timone poiché le onde erano agitate e contrarie. Il ragazzo lo teneva saldo con mano ferma, sebbene i suoi occhi seguissero il battito di quelle ali. Sparviero tornò a voltarsi, come se fosse soddisfatto, e lasciò che il vento magico abbandonasse la vela. Alzò il bastone e parlò a voce alta.

Al suono di quella voce, alle parole della vecchia Lingua, alcuni draghi volteggiarono in volo, disperdendosi, e ritornarono alle isole. Altri si fermarono e rimasero librati nell’aria, con gli artigli simili a spade protesi ma trattenuti. Uno, scendendo più basso sull’acqua, volò lentamente verso di loro: con due colpi d’ala giunse sopra la barca. Il ventre corazzato sfiorò la cima dell’albero. Arren vide la pelle rugosa e priva di squame tra la giuntura interna della spalla e il petto, che, insieme all’occhio, è l’unica parte vulnerabile del drago, a meno che la lancia che lo colpisce sia dotata di un incantesimo possente. Il fumo che usciva a volute dalla lunga bocca dentata lo soffocava; e insieme al fumo veniva un lezzo di carogna che lo fece rabbrividire e l’assalì provocando conati di vomito.

L’ombra passò. Ritornò, bassa come prima, e questa volta Arren sentì il rovente soffio di fornace dell’alito che precedeva il fumo. Udì la voce di Sparviero, chiara e intensa. Il drago passò oltre. Poi tutti si allontanarono, ritornando verso le isole come lapilli ardenti portati da una raffica di vento.

Arren trattenne il respiro e si terse la fronte, coperta di sudore freddo. Guardò il suo compagno, e vide che la chioma gli si era sbiancata: l’alito del drago aveva bruciato e increspato la punta dei capelli. E la pesante vela era strinata e brunita da un lato.

— Hai la testa un po’ bruciacchiata, ragazzo.

— Anche tu, mio signore.

Sparviero si passò la mano sui capelli, sorpreso. — È vero… È stata un’insolenza: ma non cerco un dissidio con questi esseri. Mi sembrano furiosi o frastornati. Non hanno parlato. Non ho mai incontrato un drago che non parlasse prima di attaccare, se non altro per tormentare la sua preda… Ora dobbiamo andare avanti. Non guardarli negli occhi: distogli la faccia, se è necessario. Procederemo col vento del mondo: soffia propizio da sud, e forse avrò bisogno della mia arte per altre cose. Reggi la barca.

La Vistacuta avanzò e ben presto ebbe sulla sinistra un’isola lontana, e sulla destra le isolette gemelle che avevano avvistato per prime. Queste si ergevano in basse scogliere, e tutta la roccia scabra era imbiancata dallo sterco dei draghi e dalle piccole sterne a testa nera che facevano il nido, intrepide, fra loro.

I draghi si erano innalzati in volo e volteggiavano negli strati superiori dell’aria, come avvoltoi. Nessuno ridiscese in picchiata verso la barca. Talvolta si scambiavano grida, alte e aspre attraverso gli abissi aerei, ma se c’erano parole in quelle grida, Arren non le distingueva.

La barca aggirò un piccolo promontorio, e il ragazzo vide sulla spiaggia qualcosa che per un momento gli sembrò una fortezza diroccata. Era un drago. Teneva un’ala nera ripiegata e l’altra protesa, immensa, sopra la sabbia e nell’acqua, così che il movimento delle onde l’agitava un poco, in una parodia del volo. Il lungo corpo serpentino era disteso sulla roccia e la sabbia. Era mutilato di una zampa anteriore, la corazza e la carne erano strappate dal grande arco delle costole, e il ventre era squarciato, e tutt’intorno per metri e metri la sabbia era annerita dal sangue velenoso. Tuttavia, l’essere era ancora vivo. La vita è così possente, nei draghi, che soltanto un potere magico equivalente può ucciderli in modo rapido. Gli occhi verde-oro erano aperti; e quando la barca passò oltre, l’enorme testa scarna si mosse un poco e un vapore misto a spruzzi di sangue eruttò dalle narici con un sibilo rumoroso.

La spiaggia, tra il drago morente e la battigia, era segnata dalle impronte delle zampe e dei pesanti corpi dei suoi simili, e le sue viscere calpestate erano affondate nella sabbia.

Arren e Sparviero non parlarono fino a quando furono lontani dall’isola, attraverso l’inquieto canale dello stretto dei Draghi, irto di scogli e guglie e sagome di roccia, verso le isole settentrionali di quella doppia catena. Allora Sparviero disse: — Era uno spettacolo atroce. — E la sua voce era dura e fredda.

— Si… divorano tra loro?

— No. Non più di quanto facciamo noi. Sono impazziti. Gli è stata sottratta la favella. Loro che parlavano prima degli uomini, che sono più vecchi di ogni creatura vivente, i Figli di Segoy… sono stati sospinti verso il muto terrore delle bestie. Ah, Kalessin! Dove ti hanno portato le tue ali? Sei vissuto per vedere disonorata la tua razza? — La sua voce echeggiava come ferro percosso; e guardava in alto, scrutando il cielo. Ma i draghi erano indietro, e ora volteggiavano più bassi, sopra le isole rocciose e la spiaggia macchiata di sangue, e lassù non c’era altro che il cielo azzurro e il sole meridiano.

Non c’era al mondo nessun vivente, eccettuato l’arcimago, che avesse navigato nello Stretto dei Draghi o l’avesse visto. Vent’anni prima, o più, l’aveva navigato interamente da est a ovest, e l’aveva ripercorso al ritorno. Era un incubo e una meraviglia, per un marinaio. L’acqua era un labirinto di canali azzurri e di bassi fondali verdi; e adesso, con la mano e con la parola e con cura vigile, Sparviero e Arren vi guidavano la barca, tra le scogliere e le rocce. Alcune erano basse, coperte o semicoperte dallo sciacquio delle onde, rivestite di anemoni e cirripedi e felci marine sottili come nastri: sembravano mostri acquatici sinuosi o rivestiti di un guscio. Altre si ergevano ripide dal mare, in pareti e guglie, e c’erano archi e semiarchi, torri scolpite, forme fantastiche di animali, dorsi di cinghiali e teste di serpenti, tutti enormi, deformati, indistinti, come se la vita fremesse semiconscia nella pietra. Le onde del mare vi battevano con un suono che pareva un respiro, e loro erano bagnate dall’amara spuma lucente. In una di quelle rocce, da sud, si scorgevano chiaramente le spalle incurvate e la testa nobile e pesante di un uomo, chino e pensieroso sopra il mare; ma quando la barca l’ebbe superata, guardandola da nord, l’aspetto umano era sparito, e le rocce massicce rivelavano una grotta in cui il mare entrava e usciva creando un tuono cavernoso e risonante. Sembrava che in quel suono ci fosse una parola, una sillaba. Mentre procedevano, gli echi si attutirono e la sillaba giunse più chiara; perciò Arren chiese: — C’è una voce, nella grotta?

— La voce del mare.

— Ma pronuncia una parola.

Sparviero ascoltò; guardò Arren e poi guardò di nuovo la grotta. — Come la intendi?

— Mi sembra il suono ahm.

— Nella Vecchia Lingua significa il principio, oppure tanto tempo fa. Ma io la sento come ohb, che è un modo per indicare la fine… Attento, là avanti! — esclamò di colpo, mentre anche Arren lanciava un avvertimento. — Fondali bassi! — E sebbene la Vistacuta scegliesse la strada come un gatto in mezzo ai pericoli, per qualche tempo furono occupati a governarla, e lentamente la grotta che tuonava incessante la sua parola enigmatica rimase indietro.

Le acque diventarono più profonde, e la barca uscì dalla fantasmagoria di rocce. Davanti a loro incombeva un’isola simile a una torre. Le sue pareti erano nere, formate da molti cilindri o giganteschi pilastri compressi insieme, con spigoli diritti e superfici piane, che s’innalzavano dall’acqua, a perpendicolo, per cento braccia.

— Quello è il Forte di Kalessin — disse il mago. — Così mi dissero i draghi, quando venni qui molto tempo fa.

— Chi è Kalessin?

— Il più vecchio…

— È stato lui a costruire questo luogo?

— Non lo so. Non so neppure se fu costruito. E non so quanto sia vecchio Kalessin. Uso il maschile per parlare di lui, ma non so neppure se è maschio o femmina… In confronto a Kalessin, Orm Embar è quasi un cucciolo. E io e te siamo come mosche di maggio. — Scrutò quelle palizzate tremende, e Arren alzò lo sguardo, inquieto, pensando che un drago poteva lanciarsi da quel lontano orlo nero e piombare su di loro quasi contemporaneamente alla sua ombra. Ma non apparve nessun drago. Passarono lentamente tra le acque immobili, sopravvento alla roccia, e non udirono altro che il fruscio e lo sciacquio delle onde in ombra contro le colonne di basalto. Lì l’acqua era profonda, senza scogli: Arren governava la barca, e Sparviero stava ritto a prua e osservava gli strapiombi e il cielo fulgido, più avanti.

La barca uscì finalmente dall’ombra del Forte di Kalessin alla luce solare del pomeriggio inoltrato. Avevano attraversato lo stretto dei Draghi. Il mago alzò la testa, come uno che vede finalmente quello che cerca; e attraverso quell’immenso spazio d’oro, davanti a loro, venne sulle auree ali il drago Orm Embar.

Arren udì Sparviero gridargli: Aro Kalessin? Intuì il significato della domanda, ma non riuscì a comprendere la risposta del drago. Eppure, quando ascoltava la Vecchia Lingua, aveva sempre la sensazione di essere sul punto di comprenderla: come se fosse un linguaggio che aveva dimenticato, non uno che non aveva mai conosciuto. Quando il mago lo parlava, la sua voce era assai più chiara di quando parlava hardese, e sembrava che creasse intorno a sé una specie di silenzio come fa il rintocco più sommesso di una grande campana. Ma la voce del drago era come un gong, profonda e fremente, o come il sibilante ritmo dei cembali.

Arren guardava il suo compagno ritto sulla sottile prua, intento a parlare con l’essere mostruoso librato sopra di lui, che riempiva metà del cielo: e una specie di orgoglio compiaciuto invase il suo cuore nel vedere quanto è piccolo e fragile e terribile un uomo. Perché il drago avrebbe potuto strappare la testa all’uomo con un sol colpo delle sue zampe unghiute, avrebbe potuto stritolare e affondare la barca come una pietra affonda una foglia galleggiante, se fossero state soltanto le dimensioni ad avere importanza. Ma Sparviero era pericoloso quanto Orm Embar, e il drago lo sapeva.

Il mago girò la testa. — Lebannen — disse; e il ragazzo si alzò e avanzò, sebbene non desiderasse avvicinarsi di un passo a quelle fauci lunghe cinque braccia, a quegli occhi lunghi, gialloverdi, dalle pupille verticali, che lo guardavano brucianti dall’aria.

Sparviero non gli disse nulla, ma gli posò una mano sulla spalla e parlò di nuovo al drago, brevemente.

— Lebannen — disse la voce immane, spassionata. — Agni Lebannen!

Arren alzò la testa: poi la pressione della mano del mago gli rammentò il monito, e lui evitò lo sguardo degli occhi verde-oro.

Non sapeva parlare la Vecchia Lingua, ma non era ammutolito. — Io ti saluto, Orm Embar, nobile drago — disse con voce chiara, come si conviene a un principe che ne incontra un altro.

Poi ci fu silenzio, e il cuore di Arren batté convulsamente, faticosamente. Ma Sparviero, ritto accanto a lui, sorrise.

Il drago riprese a parlare, e Sparviero rispose: ad Arren quel dialogo parve lungo. Alla fine terminò all’improvviso. Il drago s’innalzò con un colpo d’ala che per poco non rovesciò la barca, e si allontanò. Arren guardò il sole; e gli parve che non fosse più vicino al tramonto. Il dialogo, in realtà, non era stato lungo. Ma il volto del mago aveva il colore della cenere bagnata, e gli brillavano gli occhi, quando li voltò verso Arren. Si sedette.

— Ben fatto, ragazzo — disse con voce rauca. — Non è facile… parlare ai draghi.

Arren preparò un po’ di cibo, perché non avevano mangiato per tutto il giorno; e il mago non disse altro fino a quando ebbero mangiato e bevuto. Ormai il sole era basso sull’orizzonte, sebbene a quelle latitudini settentrionali, non molto tempo dopo la metà dell’estate, la notte giungesse tardi e lentamente.

— Bene — cominciò Sparviero, — Orm Embar, a modo suo, mi ha detto molto. Afferma che colui che cerchiamo è e non è su Selidor… È difficile, per un drago, parlare chiaramente. Non hanno una mentalità semplice. E anche quando uno di loro vuol dire la verità a un uomo (il che avviene di rado), non sa come appare all’uomo la verità. Perciò gli ho chiesto: «Così come tuo padre Orm è a Selidor?». Perché, come tu sai, è stato là che Orm e Erreth-Akbe morirono combattendo l’uno contro l’altro. E lui ha risposto: «No e sì. Lo troverai a Selidor, ma non a Selidor». — Sparviero s’interruppe e rifletté, masticando un tozzo di pane duro. — Forse intendeva dire che, sebbene l’uomo non sia a Selidor, è là che dobbiamo andare per raggiungerlo. Forse…

«Poi gli ho chiesto degli altri draghi. Ha detto che quest’uomo è andato tra loro, perché non li teme: anche se viene ucciso ritorna dalla morte vivo, nel suo corpo. Perciò hanno paura di lui, come di un essere al di fuori della natura. Il loro timore permette alla sua magia di dominarli; e lui toglie loro la Lingua della Creazione, lasciandoli preda della loro indole selvaggia. Perciò si divorano a vicenda, o si tolgono la vita buttandosi in mare… una morte odiosa per il serpente di fuoco, la belva del fuoco e del vento. Allora ho chiesto: "Dov’è il tuo signore, Kalessin?". E la sua unica risposta è stata: "È a occidente". E questo può significare che Kalessin è volato verso le altre terre, più lontano di quanto si siano mai spinte le navi, secondo i draghi; oppure può significare qualcosa di diverso.

«Allora non ho fatto altre domande, e lui ha formulato la sua, dicendo: "Ho sorvolato Kaltuel, tornando a nord, e le Toringate. A Kaltuel ho visto gli abitanti di un villaggio uccidere un neonato sulla pietra di un altare, e a Ingat ho visto un incantatore ucciso dai suoi compaesani a colpi di pietre. Ged, credi che divoreranno il bambino? L’incantatore tornerà dalla morte e scaglierà pietre contro i suoi compaesani?". Ho pensato che si burlasse di me, e stavo per rispondergli irosamente: ma non mi stava deridendo. Ha detto: "Le cose hanno perso ogni senso. C’è una breccia nel mondo, e il mare ne defluisce. La luce ne defluisce. Rimarremo nella terra arida. Non si parlerà più e non si morirà più". E così, finalmente, ho compreso ciò che intendeva dirmi.

Arren non lo comprese; e inoltre, era dolorosamente turbato. Perché Sparviero, ripetendo le parole del drago, aveva inequivocabilmente chiamato se stesso col suo vero nome. E questo richiamò alla mente di Arren il triste ricordo della donna sofferente di Lorbanery che gridava «il mio nome è Akaren!». Se i poteri della magia e della musica, e del linguaggio e della fiducia, si andavano indebolendo e avvizzendo tra gli uomini, se la follia della paura li prendeva, cosicché, come i draghi orbati della ragione, si scagliavano l’uno contro l’altro per distruggersi… se era così, come poteva salvarsi il suo signore? Era abbastanza forte?

Non appariva forte, seduto con le spalle curve sulla cena di pane e di pesce affumicato, con i capelli ingrigiti e strinati dal fuoco, e le mani sottili, e il volto stanco.

Eppure il drago lo temeva.

— Cosa ti affligge, ragazzo?

Con lui, si poteva dire solo la verità.

— Mio signore, tu hai pronunciato il tuo nome.

— Oh, sì. Dimenticavo: non l’avevo mai fatto, prima. Avrai bisogno del mio vero nome, se andremo dove dobbiamo andare. — Sparviero alzò gli occhi verso Arren, masticando. — Pensavi che fossi rimbambito e che me ne andassi in giro a barbugliare il mio nome, come i vecchi stolti che hanno dimenticato il buonsenso e la dignità? Non ancora, ragazzo!

— No — disse Arren, così confuso che non seppe aggiungere altro. Era stanchissimo: la giornata era stata lunga, e piena di draghi. E la via davanti a lui diventava sempre più tenebrosa.

— Arren — riprese il mago. — No: Lebannen. Dove stiamo andando, è impossibile nascondersi. Là tutti portano il loro vero nome.

— I morti non possono soffrire — replicò Arren, tristemente.

— Non è soltanto là, non solo nella morte, che gli uomini prendono il loro nome. Coloro che possono rimanere feriti di più, i più vulnerabili: coloro che hanno dato amore e non l’hanno ricevuto, pronunciano l’uno il nome dell’altro. Coloro che hanno cuore fedele, i datori di vita… Sei esausto, ragazzo. Sdraiati e dormi. Non c’è nulla da fare, ormai, se non mantenere la rotta per tutta la notte. E domattina vedremo l’ultima isola del mondo.

Nella voce di Sparviero c’era una gentilezza insuperabile. Arren si raggomitolò a prua, e il sonno venne subito a lui. Udì il mago incominciare una nenia sommessa, quasi mormorante, non in hardese ma nelle parole della Creazione: e mentre incominciava finalmente a comprendere e a ricordare il significato di quelle parole, un attimo prima di capirle si addormentò.

In silenzio, il mago ripose il pane e il pesce, controllò le lenze, rimise ordine sulla barca; poi, presa la cima che guidava la vela e sedutosi, suscitò un forte vento magico. Instancabile, la Vistacuta corse veloce verso nord, come una freccia sul mare.

Ged abbassò lo sguardo su Arren. Il volto del ragazzo addormentato era illuminato dall’oro rosso del lungo tramonto, i capelli scomposti erano agitati dal vento. L’aspetto delicato, disinvolto, principesco del ragazzo che si era seduto accanto alla fontana della Grande Casa pochi mesi prima era scomparso: quel volto era più magro e più duro, e molto più forte. Ma non era meno bello.

— Non ho trovato nessuno da seguire, sulla mia via — disse a voce alta Ged l’arcimago al ragazzo addormentato o al vento vuoto. — Nessun altro che te. E tu devi andare per la tua strada, non per la mia. Eppure il tuo regno sarà in parte mio. Perché io ti ho conosciuto prima. Ti ho conosciuto prima! Mi loderanno per questo, in futuro, più che per quanto ho fatto nell’ambito della magia… Se ci sarà un futuro. Perché prima noi due dobbiamo porci al punto d’equilibrio, al fulcro stesso del mondo. E se io cadrò, tu cadrai, e tutto il resto… Per un poco, per un poco. Nessuna tenebra dura in eterno. E anche allora ci sono le stelle… Oh, ma vorrei vederti incoronato in Havnor, col sole che brilla sulla Torre della Spada e sull’Anello che io e Tenar portammo da Atuan, dalle buie tombe, prima ancora che tu nascessi!

Poi rise e si voltò verso il nord, dicendo a se stesso nella lingua comune: — Un capraio per portare al trono l’erede di Morred! Non imparerò mai?

Dopo, mentre sedeva con la cima nella mano e guardava la gonfia vela tendersi arrossata nell’ultima luce dell’occaso, parlò di nuovo, a bassa voce. — Non vorrei essere a Havnor, né a Roke. È tempo di finirla, col potere. Abbandonare i vecchi giocattoli e andare avanti. È tempo che io ritorni a casa. Vorrei vedere Tenar. Vorrei vedere Ogion, e parlare con lui prima che muoia, nella casa sullo strapiombo di Re Albi. Agogno di camminare sulla montagna, la montagna di Gont, nelle foreste, in autunno, quando le foglie hanno colori vivaci. Non esiste un regno che uguagli le foreste. È tempo che io vi faccia ritorno, in silenzio, e solo. E forse allora imparerei ciò che nessun atto e nessuna arte e nessun potere può insegnarmi, ciò che non ho imparato mai.

Tutto l’occidente sfolgorava in una furia, una gloria rosseggiante, così che il mare appariva cremisi e la vela aveva il colore del sangue; e poi venne quietamente la notte. Per tutta quella notte il ragazzo dormì e l’uomo vegliò, scrutando continuamente davanti a sé nell’oscurità. Non c’erano stelle.

SELIDOR

Destandosi al mattino, Arren vide davanti alla barca, indistinte e basse lungo l’azzurro orizzonte occidentale, le spiagge di Selidor.

Nel palazzo di Berila c’erano vecchie mappe che erano state eseguite ai tempi dei re, quando i mercanti e gli esploratori salpavano dalle Terre Interne e gli stretti erano meglio conosciuti. Una grande mappa del nord e dell’ovest era tracciata in mosaico su due pareti della sala del trono del principe, con l’isola di Enlad in oro e grigio al di sopra del seggio. Arren la vedeva con l’occhio della mente, come l’aveva vista mille volte nella sua infanzia. A nord di Enlad c’era Osskil, e a ovest di questa Ebosskil, e a sud di quest’ultima Semel e Paln. Là finivano le Terre Interne, e non c’era altro che il pallido mosaico verdazzurro del mare vuoto, e qua e là un minuscolo delfino o una balena. Poi, alla fine, dopo l’angolo dove la parete nord incontrava la parete ovest, c’era Narveduen, e più oltre tre isole più piccole. E poi ancora il mare vuoto, all’infinito: fino a quando, al limite della parete e all’estremità della mappa, c’era Selidor: e oltre Selidor non c’era più nulla.

La ricordava chiaramente, con la sua forma ricurva, e una grande baia al centro che si apriva verso est, senza allargarsi molto. Non erano giunti tanto a nord, ma adesso stavano virando verso una cala profonda nel capo più meridionale dell’isola: e là, mentre il sole era ancora basso nella foschia del mattino, sbarcarono.

Così ebbe fine la grande corsa dalle Strade di Balatran all’Isola Occidentale. Il silenzio parve loro strano, quando ebbero tirato in secco la Vistacuta e dopo tanto tempo rimisero piede sulla terraferma.

Ged salì su una duna bassa, incoronata d’erba, con la cresta che sporgeva sul ripido declivio, legata a cornicioni dalle dure radici dell’erba. Quando raggiunse la sommità restò immobile, a guardare verso ovest e verso nord. Arren si fermò accanto alla barca, per calzare le scarpe, che non portava da molti giorni, ed estrasse la spada dalla cassa e la cinse: e questa volta non si chiese se doveva o non doveva farlo. Poi salì sulla duna, accanto a Ged, per guardare quella terra.

Le dune procedevano verso l’interno, basse ed erbose, per circa mezzo miglio; e poi c’erano lagune, fitte di carici e di canne d’acqua salmastra; e più oltre colline basse, giallo-brune e vuote, fino a perdita d’occhio. Selidor era bella e desolata. Non c’era traccia della presenza dell’uomo e delle sue opere. Non si vedevano bestie, e i laghi fitti di giunchi non ospitavano stormi di gabbiani o di oche selvatiche o di altri uccelli.

Tra la duna più esterna e quella successiva c’era una depressione di sabbia pulita, riparata: il sole del mattino splendeva caldo sul pendio occidentale. — Lebannen — disse il mago, che adesso usava il vero nome di Arren, — questa notte non ho potuto dormire, e ora devo farlo. Resta con me, e monta di guardia. — Si sdraiò al sole, perché all’ombra faceva freddo; si coprì gli occhi col braccio, sospirò e si addormentò. Arren gli si sedette accanto. Non vedeva null’altro che i bianchi pendii della depressione, e l’erba delle dune che s’inchinava alla sommità contro l’azzurro nebbioso del cielo, e il giallo sole. Non c’era altro suono che lo smorzato mormorio della risacca; e talvolta il vento, spirando a refoli, smuoveva leggermente le particelle di sabbia con un lieve fruscio.

Arren vide qualcosa che poteva essere un’aquila, altissima nel cielo: ma non era un’aquila. Volteggiò e si tuffò, discese con quel rombo e quell’acuto sibilo delle auree ali spiegate. Atterrò con gli enormi artigli sulla sommità della duna. Controsole, la grande testa era nera e aveva baluginii di fuoco.

Il drago strisciò per un breve tratto giù per il pendio, e parlò. — Agni Lebannen — disse.

Arren, che stava fra il drago e Ged, rispose: — Orm Embar. — E tenne in mano la spada snudata.

Adesso non la sentiva pesante. L’elsa levigata e consunta si adattava bene alla sua mano. La lama era uscita dal fodero agevolmente, quasi con impazienza. Il potere e l’antichità della spada erano dalla sua parte, perché adesso sapeva come farne uso. Era la sua spada.

Il drago parlò di nuovo, ma Arren non poteva comprenderlo. Girò la testa a guardare il compagno addormentato, che non si era svegliato a quel rombo tonante, e disse al drago: — Il mio signore è stanco: dorme.

A quelle parole Orm Embar scese ad avvolgersi sul fondo della depressione. Era pesante, al suolo, non più libero e agile come quando volava, ma c’era un’eleganza sinistra nel modo in cui posava lentamente le grandi zampe unghiute e la curva della coda spinosa. Quando giunse sul fondo piegò le zampe, eresse l’enorme testa e restò immobile, come un drago scolpito sull’elmo di un guerriero. Arren vedeva il suo occhio giallo, a meno di tre braccia da lui, e sentiva il lieve odore di bruciato che gli aleggiava intorno. Non era un fetore di carogna: era asciutto e metallico, e si armonizzava con i fievoli odori del mare e della sabbia salata: un odore pulito e selvatico.

Il sole, levandosi ancora più in alto, investì i fianchi di Orm Embar, che sfolgorò come un drago forgiato di ferro e d’oro.

Ged dormiva ancora, abbandonato, e non faceva caso al drago più di quanto un contadino addormentato badi al suo cane.

Trascorse un’ora; e poi Arren, con un sussulto, si accorse che il mago si era levato a sedere accanto a lui.

— Ti sei abituato ai draghi al punto di addormentarti tra le loro zampe? — chiese Ged, e rise sbadigliando. Poi si alzò e parlò a Orm Embar nella lingua dei draghi.

Prima di rispondere, anche Orm Embar sbadigliò (forse per il sonno, forse per spirito di rivalità). Era uno spettacolo che ben pochi possono vantare di aver visto: le file dei denti bianco-gialli lunghi e affilati come spade, la rossa lingua biforcuta lunga il doppio della statura di un uomo, la fumante caverna della gola.

Orm Embar parlò, e Ged stava per rispondere quando entrambi si voltarono a guardare Arren. Avevano udito, nitido nel silenzio, il cavernoso fruscio dell’acciaio nel fodero. Arren stava guardando il ciglio della duna, dietro la testa del mago, e teneva la spada in pugno.

E là, illuminato dal sole, stava un uomo: il vento leggero gli agitava le vesti. Era immobile come una statua, eccettuato quel lieve svolazzare dell’orlo e del cappuccio del mantello. La sua chioma era lunga e nera, e cadeva in una massa di riccioli lucenti; aveva le spalle ampie, ed era alto. Un uomo forte e bello. I suoi occhi sembravano guardare oltre loro, verso il mare. Sorrideva.

— Conosco Orm Embar — disse. — E conosco anche te, Sparviero, sebbene tu sia invecchiato dall’ultima volta che ti ho visto. Adesso sei arcimago, mi dicono. Sei diventato grande, non soltanto vecchio. E hai con te un giovane servitore: un apprendista mago, senza dubbio, uno di coloro che imparano la saggezza sull’isola dei Saggi. Cosa fate, qui, tanto lontano da Roke e dalle mura invulnerabili che proteggono i Maestri da ogni male?

— C’è una breccia in mura anche più grandi — disse Ged, stringendo il bastone con entrambe le mani e levando lo sguardo verso l’uomo. — Ma non vuoi venire a noi in carne e ossa, in modo che possiamo salutare colui che abbiamo cercato a lungo?

— In carne e ossa? — ripeté l’uomo, e sorrise di nuovo. — Il corpo, la carne da macello, ha dunque tanta importanza tra due maghi? No, incontriamoci mente a mente, arcimago.

— Questo, credo, non possiamo farlo. Ragazzo, riponi la spada. Questa è soltanto un’apparizione, non un uomo vero. Tanto varrebbe sguainare la spada contro il vento. A Havnor, quando avevi i capelli bianchi, tu eri chiamato Pannocchia. Ma era soltanto un nome d’uso. Come dovremo chiamarti, quando t’incontreremo?

— Mi chiamerete Signore — disse l’alta figura sul ciglio della duna.

— Sì, e cos’altro?

— Re e Maestro.

A quelle parole Orm Embar sibilò, un suono fortissimo e tremendo, e i suoi grandi occhi brillarono; tuttavia distolse la testa dall’uomo e si acquattò, come se non riuscisse a muoversi.

— E dove verremo a te, e quando?

— Nel mio regno, e a mio piacere.

— Molto bene — disse Ged; alzò il bastone, lo spostò un poco verso l’uomo… e l’uomo sparì, come la fiamma di una candela che viene spenta.

Arren sbarrò gli occhi, e il drago si sollevò poderosamente sulle quattro zampe arcuate, e la corazza tintinnò e le labbra si aggricciarono scoprendo i denti. Ma il mago si appoggiò di nuovo al bastone.

— Era solo un’immagine trasmessa da quell’uomo. Può parlare e udire ma non ha potere, tranne quello che le prestano le nostre paure. Non corrisponde neppure al suo vero aspetto, a meno che così voglia colui che l’invia. Non abbiamo visto ciò che è adesso, credo.

— Pensi che sia vicino?

— Queste immagini non varcano l’acqua. È su Selidor. Ma Selidor è una grande isola: più larga di Roke e di Gont, e lunga quasi quanto Enlad. Forse dovremo cercarlo a lungo.

Allora parlò il drago. Ged ascoltò, poi si rivolse ad Arren. — Così dice il Signore di Selidor: «Io sono ritornato alla mia terra, e non la lascerò. Troverò il Distruttore e vi condurrò a lui, affinché insieme possiamo annientarlo». E non ho forse detto che un drago trova sempre ciò che cerca?

Poi piegò il ginocchio davanti al grande essere, come un vassallo davanti a un re, e lo ringraziò nella sua lingua. L’alito del drago, così vicino, era rovente sulla sua testa china.

Orm Embar trascinò il corpo squamoso su per la duna, batté le ali e prese il volo.

Ged si spolverò la sabbia dalle vesti e disse ad Arren: — Ora mi hai visto inginocchiato. E forse mi vedrai inginocchiarmi di nuovo, prima della fine.

Arren non chiese cosa volesse dire: nella lunga frequentazione, aveva imparato che il riserbo del mago aveva sempre un motivo. Eppure gli sembrava che quelle fossero parole di malaugurio.

Attraversarono la duna e tornarono sulla spiaggia, per assicurarsi che la barca fosse più in alto di dove potevano giungere la marea o la tempesta, e per prendere i mantelli per la notte e il cibo avanzato. Ged indugiò un attimo accanto alla sottile prua che li aveva portati su mari sconosciuti, così a lungo, così lontano: vi posò la mano ma non gettò incantesimi e non disse una parola. Poi si avviarono di nuovo nell’entroterra, verso le colline.

Camminarono tutto il giorno, e a sera si accamparono in riva a un ruscello che si snodava verso i laghi e le paludi intasati dalle canne. Sebbene fosse piena estate, il vento era gelido: veniva dall’ovest, dalle infinite distese senza terre del mare aperto. La nebbia velava il cielo, e neppure una stella brillava sopra le colline, dove non c’era mai stato il bagliore di un focolare o di una finestra illuminata.

Arren si svegliò nell’oscurità. Il loro fuocherello si era spento, ma la luna che scendeva verso occidente illuminava la terra di una luce grigia e vaporosa. Nella valle del ruscello e sulle colline circostanti c’era una moltitudine di gente: e tutti erano immobili e silenziosi, con la faccia rivolta verso Ged e Arren. I loro occhi non riflettevano la luce della luna.

Arren non osò parlare, ma posò la mano sul braccio di Ged. Il mago si scosse e si levò a sedere chiedendo: — Cosa succede? — Seguì lo sguardo del ragazzo e vide la gente silenziosa.

Erano tutti abbigliati di scuro, uomini e donne. I loro volti non si scorgevano chiaramente nella luce fioca, ma ad Arren sembrava che, tra coloro che stavano più vicini, nella valle al di là del ruscello, ci fossero alcuni che conosceva, anche se non avrebbe saputo dire i loro nomi.

Ged si alzò, e il mantello gli cadde da dosso. Il volto e i capelli e la camicia erano pallidi e argentei, come se la luce della luna si raccogliesse su di lui. Tese le braccia in un ampio gesto e disse, a voce alta: — O voi che avete vissuto, andate liberi! Io infrango il vincolo che vi trattiene: anvassa mane harw pennodathe!

Per un momento la moltitudine di figure silenziose rimase immobile. Poi si voltarono lentamente, parvero allontanarsi nella grigia oscurità, e scomparvero.

Ged si sedette. Tirò un profondo respiro. Guardò Arren e gli posò la mano sulla spalla, e quel tocco era caldo e deciso. — Non c’è nulla da temere, Lebannen — disse gentilmente, con ironia. — Erano solo i morti.

Arren annuì, sebbene gli battessero i denti e si sentisse gelato fino alle ossa. — Come… — incominciò: ma la mandibola e le labbra non gli ubbidivano ancora.

Ged lo comprese. — Sono venuti al suo comando. Questo è ciò che promette: la vita eterna. A una sua parola, possono ritornare. Al suo ordine, devono camminare sulle colline della vita, sebbene non possano smuovere neppure un filo d’erba.

— È… Dunque anche lui è morto?

Ged scosse la testa, pensieroso. — I morti non possono richiamare nel mondo i morti. No, ha i poteri di un uomo vivo, e anche di più… Ma se qualcuno ha pensato di seguirlo, lui l’ha ingannato. Serba il potere per se stesso. Gioca al re dei morti: e non dei morti soltanto… Ma quelle erano solo ombre.

— Non so perché ho tanta paura di loro — disse Arren, pieno di vergogna.

— Li temi perché temi la morte, e a ragione: perché la morte è terribile e va temuta. — Il mago gettò altra legna nel fuoco e soffiò sulle braci sotto la cenere. Un piccolo bagliore fiorì sui ramoscelli, una luce gradita ad Arren. — E anche la vita è terribile — aggiunse Ged. — E va temuta e lodata.

Si sedettero, avviluppandosi nei mantelli. Rimasero in silenzio per qualche tempo. Poi Ged parlò, in tono grave. — Lebannen, non so per quanto potrà provocarci con immagini e ombre. Ma tu sai dove andrà, alla fine.

— Nella terra tenebrosa.

— Sì. Tra loro.

— Ora li ho visti. Verrò con te.

— È la fede in me, che ti anima? Puoi fidarti del mio amore, ma non devi fidarti della mia forza. Perché credo di aver incontrato il mio degno avversario.

— Verrò con te.

— Ma se sarò sconfitto, se il mio potere o la mia vita finissero, non potrò guidarti sulla via del ritorno: e da solo non potrai ritornare.

— Ritornerò con te.

Allora Ged disse: — Tu entri nella vita di adulto davanti alla porta della morte. — E poi, a voce molto bassa, pronunciò la parola o il nome con cui il drago aveva chiamato per due volte Arren: — Agni… Agni Lebannen.

Non parlarono più, e poco dopo il sonno ritornò a loro, e si sdraiarono accanto al piccolo fuoco, che aveva ripreso a divampare per breve tempo.

La mattina seguente si rimisero in cammino, verso nordovest: questa era la decisione di Arren, e non di Ged, il quale disse: — Scegli tu la nostra strada, ragazzo: tutte le vie sono uguali, per me. — Non si affrettavano, perché non avevano una meta e attendevano un segnale di Orm Embar. Seguirono la catena estrema di colline, la più bassa, quasi sempre in vista dell’oceano. L’erba era arida e corta, perennemente agitata dal vento. Le colline si ergevano auree e desolate alla loro destra, e sulla sinistra si stendevano le paludi salmastre e il mare occidentale. Una volta videro alcuni cigni in volo, lontano, verso il sud. Per tutto quel giorno non scorsero altri esseri viventi. E per tutto il giorno una specie di stanchezza — la stanchezza del timore, dell’attesa del peggio — crebbe nell’animo di Arren; e vennero l’impazienza e una collera cupa. Osservò, dopo ore di silenzio: — Questa terra è morta, come la terra stessa della morte.

— Non dirlo — gli ingiunse seccamente il mago. Continuò a camminare per un po’, e quindi continuò, con voce mutata: — Guarda questa terra; guardati intorno. Questo è il tuo regno, il regno della vita. Questa è la tua immortalità. Guarda le colline, le colline mortali. Non durano in eterno. Le colline coperte di erba viva, e con i ruscelli che scorrono… In tutto il mondo, in tutti i mondi, nell’immensità del tempo, non c’è un altro ruscello uguale a questi, che scaturiscono freddi dalla terra dove nessun occhio li vede, e corrono verso il mare, attraverso il sole e l’oscurità. Profonde sono le sorgenti dell’essere, più profonde della vita e della morte.

Si fermò: ma nei suoi occhi, mentre guardava Arren e le assolate colline, c’era un grande amore, muto e doloroso. E Arren lo vide, e vedendolo vide Ged per la prima volta com’era in realtà.

— Non saprei spiegare cosa intendo — mormorò Ged, tristemente.

Ma Arren pensò a quella prima ora nel Cortile della Fontana, all’uomo che si era inginocchiato accanto all’acqua corrente; e in lui sgorgò una gioia limpida come il ricordo di quell’acqua. Guardò il suo compagno e disse: — Ho dato il mio amore a ciò che è degno d’amore. Non è questo, il regno e la sorgente imperitura?

— Sì, ragazzo — rispose Ged, gentilmente, dolorosamente.

Proseguirono in silenzio. Ma adesso Arren vedeva il mondo con gli occhi del compagno, e vedeva lo splendore vivente rivelato intorno a loro nella terra silente e desolata, come per un potere d’incantamento che trascendesse ogni altro, in ogni filo d’erba piegato dal vento, in ogni ombra e in ogni pietra. Come quando uno sta per l’ultima volta in un luogo amato, prima di un viaggio senza ritorno, e lo vede tutto, integralmente, reale e caro, come non l’ha mai visto prima e come non lo rivedrà mai più.

Quando venne la sera, linee dentellate di nubi salirono da occidente, portate dal mare sui grandi venti, e arsero fiammeggianti dinanzi al sole, arrossandolo mentre tramontava. Intento a raccogliere fascine per accendere il fuoco nella valle di un ruscello, in quella luce rossa, Arren alzò gli occhi e vide un uomo a meno di tre braccia da lui. Il volto di quell’uomo era indistinto e strano: ma Arren lo riconobbe. Era il Tintore di Lorbanery, Sopli, che era morto.

Dietro di lui stavano altri, e tutti avevano un volto immobile e triste. Sembrava che parlassero, ma Arren non riusciva a udire le loro parole: soltanto una specie di mormorio che il vento d’occidente portava via. Alcuni avanzarono lentamente.

Si alzò e li guardò, e poi guardò di nuovo Sopli: quindi voltò loro le spalle, si chinò e raccolse un altro ramoscello, sebbene gli tremassero le mani. L’aggiunse al carico, e poi ne raccolse un altro e un altro ancora. Infine si raddrizzò e si voltò indietro. Non c’era nessuno nella valle, solo la luce rossa che ardeva sull’erba. Ritornò da Ged e depose il carico di legna, ma non parlò di ciò che aveva visto.

Per tutta la notte, nell’oscurità nebbiosa di quella terra priva di anime viventi, ogni volta che si svegliava dal sonno irrequieto udiva intorno a sé i mormoni delle anime dei morti. Con uno sforzo di volontà, non li ascoltava e tornava ad addormentarsi.

Si svegliarono tardi, quando il sole, già alto di una spanna sopra le colline, si liberò finalmente dalla nebbia e rischiarò la fredda terra. Mentre consumavano il modesto pasto mattutino giunse il drago, volteggiando nell’aria sopra di loro. Dalle sue fauci scaturiva il fuoco, e fumo e scintille eruttavano dalle rosse narici: i denti luccicavano come lame d’avorio in quel bagliore livido. Ma non disse nulla, sebbene Ged lo salutasse e gridasse nella sua lingua: — L’hai trovato, Orm Embar?

Il drago ributtò all’indietro la testa e inarcò stranamente il corpo, graffiando il vento con gli artigli acuminati. Poi riprese a volare rapido, verso ovest, voltandosi a guardarli.

Ged strinse il bastone e lo batté al suolo. — Non può parlare — disse. — Non può parlare! Le parole della Creazione gli sono state sottratte, ed è rimasto come una vipera, come un verme senza lingua, e la sua sapienza è muta. Eppure può guidarci, e noi possiamo seguirlo! — Issatisi sulle spalle i leggeri zaini, si avviarono verso ovest, attraverso le colline, nella direzione in cui si era involato Orm Embar.

Proseguirono per otto miglia o più, senza rallentare quell’andatura svelta e costante. Adesso il mare stava a destra e a sinistra, e loro procedevano su un lungo crinale che finiva col discendere tra canne aride e letti tortuosi di ruscelli verso una spiaggia sabbiosa e curvilinea, color avorio. Era il capo più occidentale di tutte le isole, la fine della terra.

Orm Embar stava acquattato su quella sabbia eburnea, con la testa abbassata come un gatto infuriato e il respiro che gli usciva dalle fauci in sbuffi di fuoco. Un poco più avanti, fra il drago e i lunghi e bassi frangenti del mare, stava una specie di rifugio o di capanna, bianco, come costruito di legno gettato a riva dal mare e sbiancato dal tempo. Ma non c’era legno gettato su quella spiaggia, che non era rivolta verso altre terre. Quando si avvicinarono, Arren vide che quelle pareti malferme erano formate da grandi ossa: ossa di balena, pensò in un primo momento, e poi vide i triangoli bianchi, affilati come coltelli, e comprese che erano ossa di drago.

Giunsero in quel luogo. La luce del sole riflessa dal mare scintillava nelle fenditure tra le ossa. L’architrave della porta era un femore più lungo di un uomo: sopra stava un teschio umano, che fissava con le vuote occhiaie le colline di Selidor.

Si fermarono; e mentre guardavano il teschio un uomo uscì dalla porta. Aveva un’armatura di bronzo dorato e di foggia antica: era lacerata, come da colpi d’ascia, e il fodero ingemmato della spada era vuoto. Il suo volto era severo, con le sopracciglia nere e arcuate e il naso sottile; gli occhi erano scuri, acuti e dolorosi. C’erano ferite sulle sue braccia e sulla gola e sui fianchi: non sanguinavano più, ma erano ferite mortali. Rimase eretto, immobile, a guardarli.

Ged mosse un passo verso di lui. Quasi si somigliavano, così faccia a faccia.

— Tu sei Erreth-Akbe — disse Ged. L’altro lo fissò con fermezza e annuì, ma non parlò.

— Perfino tu, perfino tu devi fare il suo volere. — C’era furore, nella voce di Ged. — Oh mio signore, il più valoroso e il migliore di tutti noi, riposa nel tuo onore e nella morte! — Levate le mani, le riabbassò in un gesto solenne, ripetendo le parole che aveva rivolto alle moltitudini dei morti. Le sue mani lasciarono nell’aria, per un momento, un’ampia scia lucente. Quando questa scomparve, l’uomo in armatura non c’era più, e soltanto il sole brillava abbagliante sulla sabbia.

Ged batté col bastone sulla casa d’ossa, e la casa cadde e svanì. Non rimase nulla, tranne una grande costola che spuntava dalla rena.

Il mago si girò verso Orm Embar. — È qui, Orm Embar? È questo, il luogo?

Il drago aprì le fauci ed emise un immane sibilo ansimante.

— Qui, sull’ultima spiaggia del mondo. Bene! — Poi, impugnando nella mano sinistra il nero bastone di tasso, Ged spalancò le braccia nel gesto dell’invocazione e parlò. Sebbene parlasse nella lingua della Creazione, Arren comprese, finalmente, come devono comprendere tutti coloro che odono quell’invocazione, perché ha potere su tutti: — Ora io ti chiamo qui, mio nemico, davanti ai miei occhi e in persona, e ti lego con la parola che non verrà pronunciata fino alla fine del tempo, e ti comando di venire!

Ma dove avrebbe dovuto pronunciare il nome di colui che chiamava, Ged, disse soltanto: mio nemico.

Seguì un silenzio, come se il suono del mare si fosse dileguato. Ad Arren parve che il sole si offuscasse e si affievolisse, sebbene fosse alto nel cielo sereno. Un’oscurità si stese sulla spiaggia, come se si fossero messi a guardare attraverso un vetro affumicato: direttamente davanti a Ged l’oscurità divenne più intensa, ed era difficile vedere cosa c’era. Era come se non ci fosse nulla, nulla su cui potesse cadere la luce, un’assenza di forma.

E ne uscì un uomo, all’improvviso. Era lo stesso che avevano visto sulla duna, con i capelli neri e le braccia lunghe, alto e snello. Adesso impugnava una lunga verga, o una canna d’acciaio, interamente intarsiata di rune, e la protese verso Ged mentre si girava nella sua direzione. Ma c’era qualcosa di strano nell’espressione dei suoi occhi, come se fossero abbagliati dal sole e non potessero vedere.

— Io vengo — disse, — di mia libera scelta, e a modo mio. Tu non puoi chiamarmi, arcimago. Non sono un’ombra. Sono vivo. Io solo sono vivo! Tu credi di esserlo, ma stai morendo, morendo. Sai cosa impugno? È il bastone del Mago Grigio, colui che ridusse al silenzio Nereger; il Maestro della mia arte. Ma ora sono io, il Maestro. E ne ho abbastanza di giocare con te. — Con queste parole protese di scatto la lama d’acciaio per toccare Ged, che stava immobile come se non potesse muoversi né parlare. Arren era un passo più indietro, e tutta la sua volontà gli imponeva di muoversi: ma non poteva, non poteva neppure portare la mano sull’elsa della spada, e la voce gli si era arrestata nella gola.

Ma al di sopra di Ged e di Arren, al di sopra delle loro teste, immenso e fiammeggiante, il grande corpo del drago balzò, fremendo, e piombò con violenza sull’altro, così che la lama d’acciaio incantata penetrò in tutta la sua lunghezza nel petto corazzato del drago; ma l’uomo venne travolto dal suo peso, schiacciato e bruciato.

Rialzandosi dalla sabbia, inarcando il dorso e battendo le ali, Orm Embar vomitò sprazzi di fuoco e urlò. Tentò di volare, ma non vi riuscì. Freddo e maligno, il metallo gli era entrato nel cuore. Si accovacciò, e il sangue gli sgorgò a fiotti dalle fauci, nero e velenoso e fumante, e il fuoco si spense nelle sue narici finché divennero simili a fosse di cenere. Appoggiò la grande testa sulla sabbia.

Così morì Orm Embar, dov’era morto il suo progenitore Orm, sulle ossa di Orm sepolte nella sabbia.

Ma dove Orm aveva gettato a terra il suo nemico, giaceva qualcosa di orrendo e raggrinzito, come il corpo di un ragno enorme disseccato nella sua tela. Era stato bruciato dall’alito del drago e schiacciato dalle sue zampe artigliate. Eppure, mentre Arren lo guardava, si mosse. Si trascinò via, un po’ lontano dal drago.

La faccia si levò verso di loro. Non vi rimaneva più ombra di bellezza ma solo la rovina, la vecchiaia sopravvissuta alla vecchiaia. La bocca era incartapecorita. Le occhiaie erano vuote, e lo erano da molto tempo. Così Ged e Arren videro il volto vivo del loro nemico.

Si girò. Le braccia arse e annerite si tesero e vi si addensò una tenebra, la stessa oscurità informe che offuscava la luce del sole. Tra le braccia del Distruttore c’era come un’arcata o una porta, indistinta, senza contorni: e oltre quella non c’erano la pallida sabbia e l’oceano ma un lungo pendio di tenebra che scendeva nel buio.

Là entrò la figura sfracellata e strisciante, e quando passò nella tenebra parve improvvisamente alzarsi e muoversi in fretta: e scomparve.

— Vieni, Lebannen — disse Ged, posando la mano destra sul braccio del ragazzo: e avanzarono nella terra arida.

LA TERRA ARIDA

Il bastone di legno di tasso, nella mano del mago, splendeva nell’opaca oscurità con un brillio argenteo. Un altro lieve movimento luminescente attirò lo sguardo di Arren: un guizzo di luce lungo la lama della spada che stringeva sguainata in pugno. Quando l’azione del drago e la sua morte avevano infranto il sortilegio che lo legava, aveva estratto la spada, là sulla spiaggia di Selidor. E lì, sebbene non fosse più di un’ombra, era un’ombra vivente, e portava l’ombra della sua spada.

Non c’era altro chiarore. Era come il crepuscolo inoltrato, sotto le nubi, alla fine di novembre, un’atmosfera cupa e opaca e fredda in cui si poteva vedere ma non chiaramente e non lontano. Arren conosceva quel luogo, le brughiere e i tratti spogli dei suoi sogni disperati; ma gli sembrava di essere più lontano, immensamente più lontano di quanto fosse mai giunto in sogno. Non riusciva a distinguere nulla: vedeva solo che lui e il suo compagno stavano sul pendio di una collina e che davanti a loro c’era un basso muro di pietre, non più alto del ginocchio di un uomo.

Ged gli teneva ancora la mano destra sul braccio. Avanzò, e Arren avanzò insieme a lui: e scavalcarono il muro di pietre.

Informe, il lungo pendio scendeva davanti a loro, digradando nell’oscurità.

Ma lassù, dove Arren aveva creduto di scorgere una pesante coltre di nubi, il cielo era nero, e c’erano le stelle. Le guardò, e gli parve che il cuore gli si rattrappisse, agghiacciato. Erano stelle che non aveva mai visto. Splendevano immote, senza palpiti. Erano le stelle che non sorgono e non tramontano, che non sono mai nascoste dalle nubi e non si affievoliscono mai all’alba. Immobili e minuscole, brillano sulla terra arida.

Ged prese a scendere l’altro versante della collina dell’essere, e passo per passo Arren andò con lui. Il terrore lo invadeva, eppure il suo cuore era così deciso e la sua volontà così ferma che la paura non lo dominava, e non ne era neppure completamente consapevole. Era solo come se qualcosa di profondo, dentro di lui, soffrisse, come un animale chiuso in una stanza e incatenato.

Gli parve che scendessero a lungo quel declivio, ma forse era solo un breve tratto: perché non c’era il trascorrere del tempo, là dove non spiravano i venti e dove le stelle non si muovevano. Poi giunsero nelle vie di una delle città che si trovano in quel luogo, e Arren vide le case con le finestre che non s’illuminavano mai, e su certe soglie stavano i morti, col volto quieto e le mani vuote.

Le piazze del mercato erano deserte. Lì non si vendeva e non si acquistava, non si guadagnava e non si spendeva. Non veniva usato nulla, e nulla veniva fabbricato. Ged e Arren percorrevano soli le vie strette, sebbene talvolta scorgessero una figura all’angolo di un’altra strada, lontana e appena distinguibile nell’oscurità. Quando vide la prima di quelle figure, Arren trasalì e tese la spada per indicarla, ma Ged scosse la testa e proseguì. Poi il ragazzo vide che era una donna e che camminava lentamente, non fuggiva davanti a loro.

Tutti coloro che videro — non molti perché, sebbene i morti siano molti, quella terra è assai grande — stavano immoti o si muovevano lentamente, senza una meta o uno scopo. Nessuno di loro aveva ferite, come le aveva avute la sembianza di Erreth-Akbe, evocata nella luce del sole sul luogo della sua morte. Non mostravano segni di infermità. Erano integri e risanati. Erano guariti dalla sofferenza e dalla vita. Non erano ripugnanti come aveva temuto Arren, e non erano spaventosi nel senso che aveva immaginato. I loro volti erano quieti, liberi dall’ira e dal desiderio, e nei loro occhi bui non c’era speranza.

Invece della paura, allora, una grande pietà sorse nel cuore di Arren; e se sotto la pietà c’era paura, non era per se stesso ma per tutti. Perché vedeva la madre e il figlio che erano morti insieme ed erano insieme nella terra tenebrosa: ma il bambino non correva e non piangeva, e la madre non l’abbracciava, non lo guardava neppure. E coloro che erano morti per amore s’incrociavano per le vie senza scambiarsi un’occhiata.

La ruota del vasaio era ferma, il telaio vuoto, la stufa fredda. Nessuna voce cantava mai.

Le strade buie, tra le case scure, continuavano e continuavano, e loro le percorrevano. Il suono dei loro passi era l’unico suono. Era freddo. Arren non aveva notato subito quel freddo, ma gli si insinuava nello spirito, che lì era anche il suo corpo. Si sentiva esausto. Dovevano aver percorso molta strada. Perché proseguire?, pensò, e i suoi passi rallentarono un poco.

All’improvviso Ged si fermò, voltandosi verso un uomo che stava all’incrocio di due strade. Era snello e alto, e Arren pensava di aver già visto il suo volto sebbene non ricordasse dove. Ged gli parlò, e nessun’altra voce aveva infranto il silenzio da quando avevano scavalcato il muro di pietre: — Thorion, amico mio, come sei giunto qui?

E tese le mani verso l’Evocatore di Roke.

Thorion non rispose a quel gesto. Stava immobile, e il suo volto era immobile: ma la luce argentea del bastone di Ged colpì a fondo i suoi occhi velati d’ombra, suscitandovi un lieve chiarore o rivelandolo. Ged prese la mano che non gli veniva tesa e disse ancora: — Cosa fai, qui? Tu non appartieni ancora a questo regno. Torna indietro!

— Seguivo l’immortale. Ho perso la strada. — La voce dell’Evocatore era sommessa e opaca, come quella di un uomo che parla nel sonno.

— Su, verso l’alto; verso il muro — disse Ged, indicando la direzione da cui erano venuti lui e Arren, la lunga via buia in discesa. E ci fu un tremito sul volto di Thorion, quasi una speranza fosse penetrata in lui come una spada, come una sofferenza intollerabile.

— Non riesco a trovare la via. Mio signore, non riesco a trovare la via.

— Forse la troverai — disse Ged, e l’abbracciò; e poi proseguirono. Thorion era rimasto fermo al crocicchio, dietro di loro.

Mentre camminavano, Arren ebbe la sensazione che in quell’oscurità senza tempo non ci fossero in realtà né avanti né indietro, né est né ovest, nessuna direzione in cui andare. C’era una via d’uscita? Pensò a com’erano scesi dalla collina, sempre in discesa per quanto svoltassero; e anche nella buia città le vie erano in discesa. e per tornare al muro di pietre bastava che risalissero: l’avrebbero trovato alla sommità del declivio. Ma non tornarono indietro. Proseguirono, a fianco a fianco. E lui seguiva Ged? Oppure lo guidava?

Uscirono dalla città. La campagna degli innumerevoli morti era deserta. Dalla terra pietrosa, sotto le stelle che non tramontavano mai, non cresceva un albero, un roveto, neppure un filo d’erba.

Non c’era un orizzonte, perché l’occhio non poteva spingersi lontano nel buio: ma davanti a loro le piccole stelle immote erano assenti dal cielo per un lungo tratto, sopra il suolo, e quello spazio privo di stelle era dentato e inclinato come una catena di montagne. Mentre procedevano, i contorni divennero più distinti: alte vette, mai logorate dal vento o dalla pioggia. Su quei picchi non c’era neve che luccicasse sotto le stelle. Erano neri. La loro vista colmò di desolazione il cuore di Arren. Ne distolse lo sguardo. Ma li conosceva; li riconosceva; i suoi occhi ne furono attratti di nuovo. Ogni volta che guardava quelle vette sentiva un freddo peso nel petto, e quasi gli veniva meno il coraggio. Eppure continuava a camminare, sempre in discesa perché il terreno digradava declinando verso la base delle montagne. Infine chiese: — Mio signore, che cosa sono… — Additò le montagne, perché non poteva continuare a parlare: aveva la gola secca.

— Confinano col mondo della luce — rispose Ged. — Come il muro di pietre. Non hanno altro nome che Dolore. C’è una strada che le attraversa: è proibita ai morti. Non è lunga, ma è una strada amara.

— Ho sete — disse Arren, e il suo compagno replicò: — Qui bevono polvere.

Proseguirono.

Ad Arren sembrava che l’andatura del suo compagno fosse rallentata un poco e che qualche volta esitasse. Ma lui non provava più esitazioni, sebbene la stanchezza non smettesse di crescere in lui. Dovevano scendere; dovevano proseguire. Proseguirono.

Talvolta attraversavano altre città dei morti, dove i tetti scuri disegnavano angoli contro le stelle, che restavano sempre nello stesso posto sopra di loro. Dopo ogni città c’era di nuovo la terra vuota, dove non cresceva nulla. Appena uscivano da una città, quella si perdeva nella tenebra. Non si vedeva nulla, né più avanti né più indietro, tranne le montagne che erano sempre più vicine e torreggiavano di fronte a loro. Sulla destra l’informe pendio continuava a digradare come quando (quanto tempo prima?) avevano attraversato il muro di pietre. — Cosa c’è da quella parte? — mormorò Arren a Ged, perché aveva bisogno di udire il suono di una voce; ma il mago scrollò il capo. — Non lo so. Può essere una via senza fine.

Nella direzione in cui procedevano, il pendio sembrava attenuarsi gradualmente. Il terreno, sotto i loro piedi, emetteva uno stridore aspro, come polvere di lava. Continuavano a procedere; e adesso Arren non pensava più al ritorno, e non si chiedeva come avrebbero potuto tornare. Non pensava neppure a fermarsi, sebbene fosse stanchissimo. A un certo momento tentò di fugare l’oscurità e la stanchezza e l’orrore pensando alla sua patria: ma non riusciva a ricordare com’era la luce del sole o il volto di sua madre. Non c’era altro da fare che proseguire. E proseguì.

Sentì il terreno diventare pianeggiante, sotto i suoi piedi; al suo fianco, Ged esitò. Poi si fermò a sua volta. La lunga discesa era finita: era impossibile proseguire, e non era necessario.

Erano nella valle direttamente alla base delle montagne del Dolore. C’erano sassi sotto i loro piedi e macigni tutt’intorno, ruvidi al tatto come scorie. Quella stretta valle sembrava il letto asciutto di un fiume d’acqua, ormai inaridito, o di un fiume di fuoco, raffreddato da tempo, disceso dai vulcani che ergevano lassù le cime nere e spietate.

Arren si fermò, nella stretta valle buia, e Ged stette immobile al suo fianco. Stavano come i morti, senza uno scopo, guardando nel vuoto, silenziosi. Arren pensò, con un po’ di paura: siamo giunti troppo lontano.

Non gli sembrava che avesse molta importanza.

Come se esprimesse lo stesso pensiero, Ged disse: — Ci siamo spinti troppo lontano per tornare indietro. — La sua voce era bassa, ma il suono non era smorzato completamente dalla grande e tetra cavernosità che li attorniava; e a quel suono Arren si riscosse un poco. Non erano venuti lì per incontrare colui che cercavano?

Una voce nell’oscurità disse: — Vi siete spinti troppo lontano.

Arren replicò: — Solo troppo lontano è lontano abbastanza.

— Siete giunti al Fiume Asciutto — disse la voce. — Non potete tornare al muro di pietre. Non potete ritornare alla vita.

— Non per quella via — replicò Ged, parlando nel buio. Arren lo scorgeva appena, sebbene fossero fianco a fianco, perché le montagne sotto cui stavano nascondevano metà della luce delle stelle, e sembrava che la corrente del Fiume Asciutto fosse tenebra. — Ma vorremmo imparare la tua via.

Non ebbe risposta.

— Qui ci affrontiamo da pari a pari. Se tu sei cieco, Pannocchia, anche noi siamo nell’oscurità.

Non ci fu risposta.

— Qui non possiamo farti del male; non possiamo ucciderti. Cosa c’è da temere?

— Io non ho paura — rispose la voce nell’oscurità. Poi, lentamente, baluginando un poco come se fosse fatto della stessa luce che talvolta risplendeva sul bastone di Ged, l’uomo apparve, un poco più a monte di loro due, tra le grandi masse indistinte dei macigni. Era alto, con le spalle ampie e le braccia lunghe, come la figura apparsa sulla duna e sulla spiaggia di Selidor; ma era più vecchio. I capelli erano bianchi, e arruffati sulla fronte alta. Così appariva in spirito, nel regno della morte, non bruciato dal fuoco del drago, non deturpato; e tuttavia non era integro. Le occhiaie erano vuote.

— Io non ho paura — disse. — Cosa dovrebbe temere, un morto? — Rise. Il suono della sua risata era strano e falso, nella stretta valle pietrosa ai piedi delle montagne, e per un momento Arren si sentì mancare il respiro. Ma strinse più forte la spada e ascoltò.

— Io non so cosa dovrebbe temere un morto — rispose Ged. — Non la morte, no? Eppure sembra che tu la tema, anche se hai trovato la via per sfuggirle.

— L’ho trovata. Io vivo; il mio corpo vive.

— Non molto bene — osservò il mago, in tono asciutto. — L’illusione potrebbe nascondere la vecchiaia; ma Orm Embar non è stato molto delicato, con quel corpo.

— Posso ripararlo. Conosco i segreti della guarigione e della giovinezza, e non sono illusioni. Chi credi che io sia? Solo perché sei chiamato arcimago mi scambi per un incantatore di villaggio? lo, l’unico tra tutti i maghi ad aver trovato la Via dell’Immortalità, che nessun altro ha mai scoperto!

— Forse non l’abbiamo cercata — disse Ged.

— L’avete cercata. Tutti voi. L’avete cercata e non avete potuto trovarla, e perciò avete fabbricato sagge parole di accettazione e avete parlato dell’equilibrio tra la vita e la morte. Ma erano parole… menzogne per mascherare il vostro insuccesso… per nascondere la vostra paura della morte! Quale uomo non vorrebbe vivere per sempre, se potesse? E io lo posso. Sono immortale. Ho fatto ciò che tu non potevi fare, e perciò sono il tuo padrone: e tu lo sai. Ti piacerebbe sapere come ho fatto, arcimago?

— Mi piacerebbe.

Pannocchia si avvicinò di un passo. Arren notò che, sebbene quell’uomo non avesse gli occhi, i suoi movimenti non erano quelli di un cieco: sembrava che sapesse esattamente dove stavano Ged e Arren e fosse conscio della presenza di entrambi, benché non voltasse mai la testa verso Arren. Forse possedeva una magica seconda vista, come l’udito e la vista che avevano le immagini e i presentimenti: qualcosa che gli dava una consapevolezza, anche se non poteva essere la vera vista.

— Andai a Paln — disse a Ged, — dopo che tu, nel tuo orgoglio, credevi di avermi umiliato e di avermi dato una lezione. Oh, in verità una lezione me l’hai insegnata, ma non quella che intendevi tu! E là mi dissi: Ora ho visto la morte, e non l’accetto. La stupida natura può continuare il suo stupido corso, ma io sono un uomo, migliore della natura, al di sopra della natura. Non seguirò quella strada, non smetterò di essere me stesso! E dopo questa decisione, presi di nuovo la tradizione di Paln ma vi trovai soltanto accenni e frammenti di ciò che cercavo. Allora tornai a intesserla, e la ricostruii, e feci un incantesimo… l’incantesimo più grande che mai sia stato compiuto. Il più grande, e l’ultimo!

— E operando quell’incantesimo, sei morto.

— Sì. Morii. Ebbi il coraggio di morire, per trovare ciò che voi codardi non potreste mai scoprire: la via del ritorno dalla morte. Aprii la porta che era chiusa fin dall’inizio del tempo. E ora vengo liberamente in questo luogo, e liberamente ritorno al mondo dei vivi. Io solo, tra tutti gli uomini di tutti i tempi, sono Signore delle Due Terre. E la porta aperta da me è aperta non soltanto qui ma nelle menti dei vivi, nelle sconosciute profondità del loro essere, dove siamo tutti uno nell’oscurità. Loro lo sanno, e vengono a me. E anche i morti devono venire a me, tutti, perché non ho perso la magia dei viventi: devono scavalcare il muro di pietre quando io lo comando, tutte le anime, i nobili, i maghi, le donne orgogliose: avanti e indietro dalla vita alla morte, al mio ordine. Tutti devono venire a me, i vivi e i morti, a me che morii e vivo!

— Dove vengono a te, Pannocchia? Dove sei, tu?

— Tra i mondi.

— Ma non è né vita né morte. Che cos’è la vita, Pannocchia?

— Potere.

— Che cos’è l’amore?

— Potere — ripeté pesantemente il cieco, aggobbendo le spalle.

— Che cos’è la luce?

— Tenebra!

— Qual è il tuo nome?

— Io non ho nome.

— Tutti, in questa terra, portano il loro vero nome.

— Dimmi il tuo, allora!

— Io mi chiamo Ged. E tu?

Il cieco esitò e disse: — Pannocchia.

— Quello era il tuo nome d’uso, non il tuo vero nome. Dov’è il tuo nome? Dov’è la tua verità? L’hai lasciata a Paln quando sei morto? Hai dimenticato molte cose, Signore delle Due Terre. Hai dimenticato la luce, e l’amore, e il tuo nome.

— Adesso ho il tuo nome e ho potere su di te, Ged l’arcimago… Ged, che eri arcimago quand’eri vivo!

— Il mio nome non ti serve a nulla — disse Ged. — Tu non hai nessun potere su di me. Io sono vivo; il mio corpo giace sulla spiaggia di Selidor, sotto il sole, sulla terra che gira sul suo asse. E quando quel corpo morirà, io sarò qui: ma solo nel nome, nel nome solo, nell’ombra. Non capisci? Non hai mai capito, tu che hai evocato tante ombre dal regno dei morti, che hai chiamato tutte le schiere dei defunti, e perfino il sovrano Erreth-Akbe, il più sapiente di tutti noi? Non hai capito che perfino lui è soltanto un’ombra e un nome? La sua morte non aveva sminuito la vita. E non aveva sminuito lui. Lui è là… , non qui! Qui non c’è nulla, soltanto polvere e ombre. Là, lui è la terra e la luce del sole, le foglie degli alberi, il volo dell’aquila. È vivo. E tutti coloro che sono morti, vivono: rinascono e non hanno fine, e non ci sarà mai una fine. Per tutti, eccettuato te. Perché tu non volevi la morte. Hai perso la morte, hai perso la vita, per salvare te stesso. Te stesso! Il tuo io immortale! Che cos’è? Chi sei?

— Io sono me stesso. Il mio corpo non imputridirà e non morirà…

— Un corpo vivo soffre, Pannocchia; un corpo vivo invecchia e muore. La morte è il prezzo che paghiamo per la nostra vita e per la vita intera.

— Io non lo pago! Io non posso morire e in quello stesso momento rivivere! Io non posso venire ucciso: sono immortale. Soltanto io sono me stesso in eterno.

— Chi sei, dunque?

— L’Immortale.

— Di’ il tuo nome.

— Il Re.

— Di’ il mio nome. Te l’ho detto soltanto un minuto fa. Di’ il mio nome!

— Tu non sei reale. Tu non hai nome. Io solo esisto.

— Tu esisti: senza nome, senza forma. Non puoi vedere la luce del giorno; non puoi vedere l’oscurità. Hai venduto la verde terra e il sole e le stelle per salvare te stesso. Ma non hai un io. Tutto ciò che hai venduto, quello eri tu. Hai dato tutto per nulla. E perciò adesso cerchi di attirare il mondo a te, tutta la luce e la vita che hai perduto, per colmare il tuo nulla. Ma non è possibile colmarlo. Neppure tutti i canti della terra, neppure tutte le stelle del cielo potrebbero colmare il tuo vuoto.

La voce di Ged aveva un suono ferreo, nella fredda valle ai piedi delle montagne; e il cieco si ritrasse da lui, timoroso. Levò la faccia, e la fioca luce delle stelle l’investì: sembrava che piangesse, ma non aveva lacrime poiché non aveva occhi. La sua bocca si apriva e si chiudeva, piena di tenebra, ma non ne usciva neppure una parola: soltanto un gemito. Infine disse una parola, formandola appena con le labbra contorte, e quella parola era «Vita».

— Ti darei la vita se potessi, Pannocchia. Ma non posso. Tu sei morto. Ma posso darti la morte.

— No! — urlò il cieco, e poi disse «No, no» e si accovacciò singhiozzando, sebbene le sue guance fossero asciutte come il letto sassoso del fiume dove scorreva soltanto la notte, non l’acqua. — Non puoi. Nessuno potrà mai liberarmi. Ho aperto la porta tra i mondi e non posso chiuderla. Nessuno può chiuderla. Non verrà mai richiusa. Mi attira, mi attira. Devo ritornare a quella porta. Devo varcarla e ritornare qui, nella polvere, nel freddo e nel silenzio. Mi risucchia. Non posso lasciarla. Non posso chiuderla. Risucchierà tutta la luce del mondo, alla fine. Tutti i fiumi diventeranno come il Fiume Inaridito. Non esiste un potere che possa chiudere la porta aperta da me!

Era stranissimo, il miscuglio di disperazione e di orgoglio vendicativo, di terrore e di vanità nelle sue parole e nella sua voce.

Ged disse soltanto: — Dov’è?

— Da quella parte. Non lontano. Puoi andarci. Ma non puoi far nulla. Non puoi chiuderla. Anche se esaurissi tutto il tuo potere in quell’atto, non basterebbe. Non c’è nulla che possa bastare.

— Forse — replicò Ged. — Sebbene tu abbia scelto la disperazione, ricorda che noi non l’abbiamo ancora fatto. Portaci là.

Il cieco levò il volto, in cui lottavano visibilmente la paura e l’odio. L’odio trionfò. — No — disse.

A quella risposta, Arren si fece avanti e disse: — Lo farai.

Il cieco restò immoto e muto. Il freddo silenzio e l’oscurità del regno dei morti li circondavano, circondavano le loro parole.

— Tu chi sei?

— Il mio nome e Lebannen.

Ged parlò: — Tu che ti proclami Re, non sai chi è costui?

Pannocchia restò di nuovo in silenzio. Poi disse, ansimando un poco: — Ma è morto… Siete morti. Non potete tornare indietro. Non esiste una via d’uscita. Siete prigionieri qui! — Mentre parlava, il barlume di luce l’abbandonò; e l’udirono voltarsi nella tenebra e allontanarsi da loro, in fretta. — Fammi luce, mio signore! — gridò Arren, e Ged levò il bastone alto sopra la testa, e la bianca luce squarciò quella vecchia tenebra piena di pietre e di ombre, tra le quali l’alta figura curva del cieco si affrettava, schivando gli ostacoli, risalendo il letto del fiume con una strana andatura senza esitazioni. Arren l’inseguì, con la spaga in pugno; e dietro di lui veniva Ged.

Ben presto Arren distanziò il suo compagno; la luce era molto fioca, interrotta dai macigni e dalle tortuosità del letto del fiume, ma il suono dell’andare di Pannocchia e il senso della sua presenza erano una guida sufficiente. Arren si avvicinò lentamente, poiché il terreno diventava più scosceso. Stavano salendo in una gola ripida, intasata dalle pietre; il Fiume Inaridito, restringendosi verso la sorgente, si snodava tra rive a strapiombo. I sassi tintinnavano rotolando sotto i loro piedi e sotto le loro mani, perché dovevano inerpicarsi. Arren sentì le rive restringersi, e con un balzo raggiunse Pannocchia e gli afferrò il braccio, trattenendolo. Erano davanti a una specie di bacino di roccia, largo poco più di un braccio e mezzo, che avrebbe potuto essere una polla se mai ci fosse stata l’acqua; e sopra quello c’era una caotica parete di roccia e scorie. In quella parete c’era una breccia nera, la sorgente del Fiume Inaridito.

Pannocchia non tentò di svincolarsi. Stava immobile, mentre la luce di Ged che si andava avvicinando si ravvivava sulla sua faccia priva di occhi. L’aveva rivolta verso Arren. — Il luogo è questo — disse infine, e una specie di sorriso si formò sulle sue labbra. — Questo è il luogo che cerchi. Lo vedi? Là puoi rinascere. Basta che tu mi segua. Vivrai immortale. Saremo re insieme.

Arren guardò quella scura fonte inaridita, la bocca di polvere, il luogo dove un’anima morta, trascinandosi nella terra e nella tenebra, rinasceva morta: e gli parve abominevole, e disse con voce aspra, lottando contro una nausea mortale: — Si chiuda!

— Si chiuderà — disse Ged, arrivando accanto a loro; e adesso la luce sfolgorava dalle sue mani e dal suo volto come se fosse stata una stella precipitata sulla terra in quella notte interminabile. Davanti a lui la fonte inaridita, la porta, stava spalancata. Era larga e cavernosa, ma era impossibile capire se fosse o no profonda. Non c’era nulla su cui potesse cadere la luce, nulla che l’occhio potesse vedere. Era vuota. Non lasciava passare luce né tenebre, né vita né morte. Non era nulla. Era una via che non conduceva in nessun posto.

Ged alzò le mani e parlò.

Arren stringeva ancora il braccio di Pannocchia; il cieco aveva appoggiato la mano libera sulle rocce della parete. Entrambi stavano muti e immobili, presi dal potere dell’incantesimo.

Con tutte le facoltà della sua arte e con tutta la forza del suo cuore ardente, Ged si sforzò di chiudere quella porta, di rendere nuovamente integro il mondo. E alla sua voce, al comando delle sue mani che plasmavano, le rocce si accostarono, faticosamente, cercando d’incontrarsi, di reintegrarsi. Ma contemporaneamente la luce si affievoliva, si affievoliva, svanendo dalle sue mani e dal suo volto, estinguendosi dal bastone di tasso, finché rimase soltanto un minuscolo barlume. In quella luce fievole, Arren vide che la porta era ormai quasi chiusa.

Il cieco sentì le rocce muoversi sotto le sue mani, le sentì unirsi; e sentì anche l’arte e il potere che si esaurivano… E all’improvviso urlò «No!», si svincolò dalla stretta di Arren, si avventò, e afferrò Ged nella sua stretta cieca e possente. Trascinatolo al suolo sotto il proprio peso, gli serrò le mani intorno alla gola per strangolarlo.

Arren brandì alta la spada di Serriadh e abbatté la lama, con un colpo duro e deciso, sul collo piegato sotto il groviglio dei capelli.

Lo spirito vivente ha un peso nel mondo dei morti, e l’ombra della sua spada ha un filo tagliente. La lama aprì una grande ferita, tranciando la spina dorsale di Pannocchia. Un sangue nero sgorgò a fiotti, illuminato dalla luce della spada.

Ma è inutile uccidere un morto: e Pannocchia era morto, morto da molti anni. La ferita si richiuse, inghiottendo il sangue. Il cieco si erse, altissimo, tendendo le mani brancolanti verso Arren, col volto contratto dal furore e dall’odio come se avesse percepito solo in quel momento chi era il suo vero nemico e rivale.

Era così orribile vedere quella guarigione da un colpo mortale, quell’incapacità di morire, più orribile di ogni morte, che una rabbia di odio crebbe nell’animo di Arren, una furia frenetica: alzata la spada colpì di nuovo, un colpo tremendo, pieno, dall’alto in basso. Pannocchia si accasciò col cranio spaccato e la faccia mutata in una maschera di sangue; tuttavia Arren si avventò subito su di lui e colpì di nuovo prima che la ferita si richiudesse, colpì e colpì per uccidere.

Accanto a lui Ged, sollevandosi faticosamente sulle ginocchia, pronunciò una parola.

Al suono della sua voce Arren si arrestò, come se una mano gli avesse afferrato il braccio che reggeva la spada. Il cieco, che stava incominciando ad alzarsi, restò immobile. Ged si levò in piedi: barcollava un poco. Quando riuscì a tenersi eretto, si voltò verso la parete di roccia.

— Reintegrati! — disse con voce chiara, e col bastone tracciò in linee di fuoco, attraverso la porta di pietre, una figura: la runa Agnen, la Runa della Fine, che chiude le strade e che viene incisa sui coperchi delle bare. E tra i macigni non ci fu più un varco o un vuoto. La porta era chiusa.

Il suolo della Terra Arida tremò sotto i loro piedi, e attraverso l’immutabile cielo vuoto corse un lungo rombo rotolante di tuono e si perse in lontananza.

— Per la parola che non verrà pronunciata fino alla fine del tempo io ti ho chiamato. Per la parola che venne pronunciata alla creazione delle cose, ora ti lascio andare. Vai libero! — E, piegatosi sul cieco inginocchiato, Ged gli mormorò all’orecchio, tra i capelli bianchi e scarmigliati.

Pannocchia si alzò. Si guardò intorno, lentamente, con occhi che vedevano. Guardò Arren e poi Ged. Non disse una parola, ma li guardò con occhi cupi. Non c’era ira sul suo volto, né odio, né angoscia. Lentamente si voltò, si allontanò lungo il letto del Fiume Inaridito, e ben presto scomparve.

Non c’era più luce sul bastone di Ged o sul suo volto. Stava nella tenebra. Quando Arren gli si avvicinò, si afferrò al suo braccio per sorreggersi. Per un momento, un singhiozzo convulso lo squassò. — È fatto — disse. — È tutto finito.

— È fatto, mio amato signore. Dobbiamo andare.

— Sì. Dobbiamo andare a casa.

Ged appariva frastornato o esausto. Seguì Arren lungo il letto del fiume, lentamente, incespicando, procedendo a fatica tra le pietre e i macigni. Arren non lo lasciò. Quando le rive del Fiume Inaridito divennero più basse e il suolo meno scosceso, si voltò nella direzione da cui erano venuti, il lungo declivio informe che conduceva in alto, nell’oscurità. Poi si girò di nuovo.

Ged non disse nulla. Appena si erano fermati, si era lasciato cadere su un macigno di lava, sfinito, a testa bassa.

Arren sapeva che la strada da cui erano venuti era chiusa, per loro. Potevano soltanto andare avanti. Dovevano percorrere l’intera strada. Troppo lontano non è lontano abbastanza, pensò. Alzò gli occhi verso i neri picchi, freddi e silenti sotto le immobili stelle terrificanti; e ancora una volta l’ironica e beffarda voce della sua volontà parlò dentro di lui, implacabile: — Intendi fermarti a metà strada, Lebannen?

Si accostò a Ged e disse, dolcemente: — Dobbiamo proseguire, mio signore.

Ged non disse nulla, ma si alzò.

— Dobbiamo passare tra le montagne, credo.

— Tu conosci la strada, ragazzo — replicò Ged, con un bisbiglio rauco. — Aiutami.

Perciò si avviarono su per i pendii di polvere e di scorie, tra le montagne, e Arren aiutò il suo compagno come poteva. Era buio, nelle gole, e lui doveva cercare la strada a tentoni, ed era difficile, nel contempo, sostenere Ged. Camminare era faticoso; ma quando dovevano inerpicarsi, via via che i declivi diventavano più erti, era addirittura penoso. Le rocce erano scabre, e scottavano le mani come ferro fuso. Eppure faceva freddo, sempre più freddo, via via che salivano. Il contatto di quella terra era un tormento. Scottava come carboni ardenti: un fuoco bruciava entro le montagne. Ma l’aria era sempre fredda e sempre buia. Non si udiva il minimo suono, e non spirava alito di vento. Le rocce aguzze si sgretolavano sotto le loro mani, cedevano sotto i loro piedi. Neri e ripidi, gli speroni e gli abissi salivano davanti a loro e discendevano accanto a loro nella tenebra. Più indietro, laggiù, il regno dei morti era invisibile. Più avanti, lassù, i picchi e le rocce si stagliavano contro le stelle. E nulla si muoveva in tutta la lunghezza e l’ampiezza di quelle montagne nere, eccettuate le due anime mortali.

Spesso Ged inciampava o metteva il piede in fallo, per la stanchezza. Respirava sempre più a fatica, e quando le sue mani urtavano contro le rocce soffocava gemiti di dolore. Sentirlo lamentarsi era un tormento, per il cuore di Arren. Lui cercava d’impedire che cadesse: ma spesso la via era troppo stretta perché potessero procedere affiancati, oppure lui doveva andare avanti per cercare appigli sicuri. E alla fine, su un alto pendio che saliva verso le stelle, Ged scivolò e cadde carponi, e non si rialzò.

— Mio signore — disse Arren, inginocchiandosi accanto a lui, e poi pronunciò il suo nome: — Ged.

L’altro non si mosse, non rispose.

Arren lo raccolse tra le braccia e lo portò su per quell’alto pendio. Alla sommità c’era un breve tratto di terreno pianeggiante. Arren adagiò il fardello e si lasciò cadere al suolo accanto a lui, sfinito e sofferente, senza speranza. Era la sommità del passo tra i due picchi neri, verso il quale si era diretto faticosamente. Non si poteva procedere: all’estremità del tratto pianeggiante c’era il ciglio di un precipizio. Più oltre la tenebra si stendeva all’infinito, e le minuscole stelle pendevano immobili nel nero abisso del cielo.

La resistenza può durare più a lungo della speranza. Arren si trascinò avanti, ostinatamente, quando riuscì a farlo. Guardò oltre il ciglio della tenebra. E sotto di sé, poco più in basso, vide la spiaggia di sabbia eburnea; le onde bianche e color ambra vi si frangevano tra la spuma, e dall’altra parte del mare il sole stava tramontando in una foschia dorata.

Arren si voltò verso la tenebra. Tornò indietro. Sollevò Ged come poteva e si trascinò finché non poté più andare avanti. Là tutte le cose cessarono di esistere: la sete, e la sofferenza, e l’oscurità, e la luce del sole, e il suono delle onde che si frangevano.

LA PIETRA DEL DOLORE

Quando Arren si svegliò, una nebbia grigia nascondeva il mare e le dune e le colline di Selidor. I frangenti uscivano dalla nebbia mormorando in un rombo smorzato, e mormorando vi si ritraevano. C’era l’alta marea, e la spiaggia era molto più stretta di quando vi erano giunti; le ultime piccole linee di spuma delle onde avanzavano fino a lambire la mano sinistra protesa di Ged, che giaceva prostrato sulla rena. Aveva le vesti e i capelli bagnati, e gli abiti di Arren aderivano gelidi al suo corpo come se il mare li avesse investiti. Non c’era traccia del cadavere di Pannocchia. Forse le onde l’avevano trascinato via, verso il largo. Ma dietro di sé, quando girò la testa, Arren scorse, immerso e indistinto nella nebbia, il grigio corpo di Orm Embar, simile a una torre diroccata.

Si alzò, rabbrividendo per il freddo: stentava a reggersi in piedi, per il gelo e l’intorpidimento e la debolezza che gli dava le vertigini, la debolezza di chi è rimasto disteso troppo a lungo senza muoversi. Barcollava come un ubriaco. Appena tornò padrone dei propri movimenti, si accostò a Ged e riuscì a trascinarlo un po’ più in alto, sulla sabbia, fuori dalla portata delle onde: ma fu tutto quello che poté fare. Ged gli sembrava molto freddo e molto pesante: l’aveva portato oltre il confine fra la morte e la vita, ma forse invano. Accostò l’orecchio al petto di Ged, ma non riuscì a dominare il tremito delle membra e il battito dei denti per poter captare le pulsazioni del cuore. Si alzò di nuovo e cercò di pestare i piedi per riscaldarsi un po’ le gambe; e alla fine, tremando e trascinandosi come un vecchio, andò in cerca dei loro zaini. Li avevano lasciati cadere in riva a un ruscelletto che scendeva dalla cresta delle colline, molto tempo prima, quando erano giunti alla casa di ossa. Era il ruscello che lui cercava, perché non riusciva a pensare ad altro che all’acqua, l’acqua pura.

Prima di quanto si aspettasse incontrò il ruscello, che calava sulla spiaggia e si snodava tortuoso diramandosi come un albero d’argento al limite del mare. Si gettò al suolo e bevve, con la faccia e le mani immerse nell’acqua, aspirando quell’acqua nella bocca e nello spirito.

Infine si levò a sedere, e così vide, sull’altra sponda del ruscello, un drago immenso.

La testa color ferro, chiazzata dalla rossa ruggine delle narici e delle occhiaie e delle guance, era sospesa davanti a lui, quasi sopra di lui. Gli artigli affondavano nella sabbia bagnata e molle, sul bordo del corso d’acqua. Le ali, ripiegate, erano parzialmente visibili, come vele, ma il lungo corpo scuro si perdeva nella nebbia.

Non si muoveva. Era come se stesse acquattato là da ore, o da anni, o da secoli. Era scolpito nel ferro, modellato nella roccia… ma gli occhi, gli occhi in cui Arren non osava guardare, gli occhi simili a olio che spiraleggia sull’acqua, simili a un fumo giallo dietro un vetro, i profondi occhi gialli e opachi lo scrutavano.

Lui non poteva far nulla; quindi si alzò. Se il drago intendeva ucciderlo, l’avrebbe fatto; e se non l’uccideva, lui avrebbe cercato di aiutare Ged, se era possibile aiutarlo. S’incamminò lungo il ruscelletto, per cercare gli zaini.

Il drago non fece nulla. Restò acquattato, immobile, a osservare. Arren trovò gli zaini, riempì le borracce di cuoio nel ruscello, e tornò verso Ged. Dopo pochi passi, il drago si perse nella densa nebbia.

Fece bere Ged, ma non riuscì a svegliarlo. Giaceva inerte e freddo, e la sua testa era pesante sul braccio di Arren. Il volto era cinereo, e il naso e gli zigomi e la vecchia cicatrice spiccavano nitidi. Perfino il suo corpo appariva scarno e riarso, semiconsumato.

Arren restò seduto sulla sabbia umida, reggendo sulle ginocchia la testa del compagno. La nebbia formava intorno a loro una sfera vaga e morbida, più rada verso l’alto. Chissà dove, in quella nebbia, c’erano Orm Embar, il drago morto, e il drago vivo in attesa in riva al ruscello. E chissà dove, dall’altra parte di Selidor, su un’altra spiaggia, stava la Vistacuta, senza provviste. C’erano circa trecento miglia per arrivare a un’altra terra dello Stretto Occidentale; e mille miglia fino al Mare Interno. «Lontano come Selidor», usavano dire a Enlad. Le vecchie storie narrate ai bambini, i miti, incominciavano: «In un tempo lontano come l’eternità, e in un luogo lontano come Selidor, viveva un principe…».

Lui era il principe. Ma nelle vecchie storie, questo era l’inizio: e quella, invece, sembrava la fine.

Non era depresso. Sebbene fosse stanchissimo, e angosciato per il suo compagno, non provava amarezza o rimpianto. Solo, non c’era più nulla che lui potesse fare. Tutto era stato compiuto.

Quando avesse recuperato le forze, pensava, avrebbe cercato di pescare nella risacca con la lenza che aveva nello zaino: perché adesso che la sete si era placata cominciava a sentire i morsi della fame, e non avevano più viveri tranne un pacchetto di pane duro. L’avrebbe conservato, perché se l’inzuppava nell’acqua poteva farne mangiare un po’ a Ged.

Ed era tutto ciò che restava da fare. Oltre questo, non vedeva nulla: la nebbia era tutt’intorno a lui.

Si frugò nelle tasche, mentre stava seduto, insieme a Ged, nella nebbia, per vedere se aveva qualcosa di utile. Nella tasca della tunica c’era un oggetto duro e aguzzo. L’estrasse e lo guardò, sconcertato. Era una piccola pietra, nera, porosa, dura. Fece per gettarla via. Poi ne tastò gli spigoli, li sentì ruvidi e brucianti, e sentì il peso, e comprese cos’era: un frammento di roccia delle montagne del Dolore. Era rimasto impigliato nella sua tasca mentre lui si arrampicava, o mentre si trascinava verso il ciglio del passo portando Ged. La tenne nella mano, quella cosa immutabile, la pietra del dolore. La strinse. E allora sorrise, un sorriso che era insieme mesto e gioioso, conoscendo per la prima volta in vita sua, solo e senza lodi e alla fine del mondo, la vittoria.

Le nebbie si diradarono e si mossero. Lontano, attraverso quelle spire, Arren vide la luce del sole sul mare aperto. Le dune e le colline apparivano e sparivano, incolori, ingrandite dai veli di nebbia. La luce del sole investiva, fulgida, il corpo di Orm Embar, magnifico nella morte.

Il drago nero come il ferro stava accovacciato, immoto, sull’altra riva del ruscello.

Dopo mezzogiorno il sole divenne chiaro e caldo, e bruciò nell’aria l’ultimo confuso vapore della nebbia. Arren si spogliò degli abiti fradici e li lasciò asciugare, rimanendo nudo: portava solo la cintura e la spada. Lasciò che il sole asciugasse le vesti di Ged; ma sebbene il grande flusso benefico e risanatore del calore e della luce si riversasse su Ged, lui restava immobile.

Ci fu un rumore di metallo soffregato contro il metallo, il mormorio raschiante di spade incrociate. Il drago color ferro si era sollevato sulle zampe arcuate. Si mosse e varcò il ruscelletto, con uno smorzato suono sibilante mentre trascinava il lungo corpo sulla sabbia. Arren vide le grinze alle giunture delle spalle, la corazza sui fianchi sfregiata come l’armatura di Erreth-Akbe, e i lunghi denti ingialliti e smussati. In tutto questo, e nei suoi movimenti pesanti e sicuri, e nella sua calma profonda e spaventosa, Arren vide i segni della vecchiaia: un’antichità immensa, di anni incalcolabili. Perciò, quando il drago si fermò a pochi passi dal punto dove giaceva Ged, e Arren si alzò, mettendosi tra i due, chiese, in hardese perché non conosceva la Vecchia Lingua: — Tu sei Kalessin?

Il drago non disse una parola, ma parve sorridere. Poi, abbassando l’immane testa e protendendo il collo, guardò Ged e ne pronunciò il nome.

La sua voce era immensa, e bassa, e aveva l’odore della forgia di un fabbro.

Chiamò ancora, e ancora: e la terza volta Ged aprì gli occhi. Dopo un po’ tentò di levarsi a sedere, ma non ci riuscì. Arren gli s’inginocchiò accanto e lo sostenne. Poi Ged parlò. — Kalessin — disse — senvanissai’n ar Roke! - Dopo che ebbe parlato, non gli rimase più forza: appoggiò la testa sulla spalla di Arren e chiuse gli occhi.

Il drago non rispose. Si accovacciò, come prima, senza muoversi. La nebbia stava ritornando, e offuscava il sole che discendeva verso il mare.

Arren si vestì e avviluppò Ged nel mantello. La marea, che si era ritratta lontano, stava risalendo, e il ragazzo pensò di portare il suo compagno verso il terreno più asciutto, sulle dune, ora che si sentiva ritornare le forze.

Ma quando si chinò per sollevare Ged, il drago protese un’enorme zampa corazzata, quasi sfiorandolo. Gli artigli erano quattro, con uno sperone dietro, come la zampa di un gallo: ma quelli erano speroni d’acciaio, e lunghi come lame di falce.

— Sobriost - disse il drago, e fu come un vento di gennaio che spirasse tra le canne gelate.

— Lascia in pace il mio signore. Ci ha salvati tutti, e così facendo ha esaurito le forze e forse anche la vita. Lascialo stare!

Arren parlò rabbiosamente, in tono di comando. Per troppo tempo si era lasciato intimidire e impaurire, e ne aveva abbastanza della paura, se ne era stancato e non voleva più saperne. Era irritato col drago, per la sua forza bruta e per le sue dimensioni enormi, per il suo ingiusto vantaggio. Lui aveva visto la morte, aveva assaporato la morte, e nessuna minaccia aveva più potere su di lui. Il vecchio drago, Kalessin, lo guardò con un lungo occhio dorato e terribile. C’erano eoni ed eoni, nelle profondità di quell’occhio: e c’era il mattino del mondo. Sebbene Arren non lo guardasse, sentiva che lo stava scrutando con profonda e blanda ilarità.

— Arw sobriost - disse il drago, e le rugginose narici si dilatarono, lasciando scintillare il fuoco coperto e represso che ardeva all’interno.

Arren teneva il braccio sotto le spalle di Ged, poiché stava per sollevarlo quando il movimento di Kalessin l’aveva arrestato; e adesso sentì la testa del mago girarsi leggermente e udì la sua voce: — Vuol dire: monta qui.

Per un po’, Arren non si mosse. Era una follia. Ma davanti a lui c’era la grande zampa unghiuta, a un passo; e sopra la zampa, l’incavo della giuntura del gomito; e più sopra, la spalla sporgente e la muscolatura dell’ala che spuntava dalla scapola: quattro gradini, una scala. E davanti alle ali e alla prima spina di ferro della cresta dorsale, nella cavità del collo c’era un punto dove poteva sedere a cavalcioni un uomo, o due uomini… se erano impazziti, disperati e disposti a qualunque follia.

— Monta! — disse Kalessin nel linguaggio della Creazione.

E così Arren si alzò e aiutò il suo compagno a rimettersi in piedi. Ged, con la testa eretta e guidato dalle braccia di Arren, salì quegli strani scalini. Si sedettero a cavalcioni, nella cavità corazzata del collo del drago: Arren dietro, pronto a sostenere Ged se fosse stato necessario. Si sentirono pervadere da un calore gradito, come il calore del sole, dove toccavano la pelle del drago: la vita ardeva come un fuoco sotto la corazza di ferro.

Arren vide che avevano dimenticato il bastone di tasso del mago semisepolto nella sabbia: il mare avanzava furtivo ed era sul punto di appropriarsene. Fece per scendere e per andare a prenderlo, ma Ged lo trattenne. — Lascialo. Ho esaurito tutta la magia a quella fonte inaridita, Lebannen. Ora non sono più un mago.

Kalessin girò la testa e li guardò di sottecchi: l’antica ilarità brillava nel suo occhio. Nessuno sapeva se Kalessin era maschio o femmina; nessuno sapeva cosa pensasse. Lentamente, le ali si sollevarono e si spiegarono. Non erano d’oro come quelle di Orm Embar ma rosse, rossocupe, scure come la ruggine o il sangue o la seta cremisi di Lorbanery. Il drago alzò le ali delicatamente, per non disarcionare i suoi minuscoli passeggeri. Delicatamente si raccolse nello slancio delle grandi anche, e balzò nell’aria come un gatto, e le ali batterono e li portarono al di sopra della nebbia che aleggiava su Selidor.

Remigando con quelle ali cremisi nell’aria della sera, Kalessin volteggiò verso il mare aperto, si voltò verso l’oriente, e s’involò.

Nei giorni della piena estate, sull’isola di Ully un grande drago venne visto volare basso, e in seguito fu avvistato a Usidero e nella parte settentrionale di Ontuego. Sebbene i draghi siano temuti nello Stretto Occidentale, dove la gente li conosce troppo bene, dopo che quello fu passato oltre e gli abitanti dei villaggi furono usciti dai nascondigli, coloro che l’avevano visto dissero: — Non tutti i draghi sono morti come credevamo. Forse anche non tutti i maghi sono morti. Certo, c’era un grande splendore in quel volo: forse era l’Antichissimo.

Nessuno vide dove Kalessin era atterrato. In quelle isole lontane ci sono foreste e colline selvagge, dove gli uomini vanno raramente e dove perfino la discesa di un drago può passare inosservata.

Ma nelle Novanta Isole ci furono grida e tumulti. Gli uomini remarono verso occidente, fra le isolette, gridando: — Nascondetevi! Nascondetevi! Il drago di Pendor ha violato la sua parola! L’arcimago è perito, e il drago è venuto a divorarci!

Senza atterrare, senza guardare in basso, il grande rettile color ferro sorvolò le isolette e le cittadine e le fattorie, senza degnarle neppure di un rutto di fuoco. Così sorvolò Geath e Serd, e attraversò gli stretti del Mare Interno, e giunse in vista di Roke.

Mai, a memoria d’uomo, e quasi neppure nella memoria delle leggende, un drago aveva sfidato le mura visibili e invisibili della ben difesa isola. Tuttavia quello non esitò, ma continuò a volare sulle ali poderose, sopra la spiaggia occidentale di Roke, sopra i villaggi e i campi, sulle verdi colline che si ergevano dietro Città Thwil. E là, infine, discese dolcemente verso terra, alzò le rosse ali e le ripiegò, e si accovacciò sulla sommità del Colle di Roke.

I ragazzi uscirono di corsa dalla Grande Casa. Niente avrebbe potuto trattenerli. Ma nonostante la loro giovinezza furono più lenti dei loro Maestri, e giunsero per secondi al Colle. Quando vi arrivarono, c’era il Maestro degli Schemi, giunto dal Bosco Immanente, con i capelli biondi che splendevano nel sole. Con lui c’era il Maestro delle Metamorfosi, che era ritornato due notti prima, nella forma di una grande procellaria, con le ali storpiate, e sfinito: era rimasto imprigionato a lungo in quella forma dai suoi incantesimi, e non aveva potuto riacquistare il suo aspetto fino a quando era giunto nel Bosco, la notte in cui l’Equilibrio era stato ristabilito e ciò che era infranto si era reintegrato. L’Evocatore, che si era alzato dal letto solo il giorno innanzi, sparuto e fragile, era accorso; e accanto a lui stava il Portinaio. E c’erano gli altri Maestri dell’isola dei Saggi.

Videro i cavalieri smontare, aiutandosi a vicenda. Li videro guardarsi intorno con una strana espressione di contentezza, di cupezza e di stupore. Il drago stava immobile come se fosse di pietra, mentre i due smontavano dal suo dorso e gli si fermavano accanto. Girò leggermente la testa mentre l’arcimago gli parlava, e gli rispose brevemente. Coloro che l’osservavano videro lo sguardo obliquo dell’occhio giallo, freddo e pieno d’ilarità. Coloro che comprendevano udirono il drago dire: — Ho portato il giovane re al suo regno, e il vecchio alla sua casa.

— Ancora un poco più oltre, Kalessin — replicò Ged. — Non sono giunto dove devo andare. — Guardò i tetti e le torri della Grande Casa, nella luce del sole, e parve sorridere un poco. Poi si rivolse ad Arren, che stava ritto, alto e snello negli abiti lisi, un po’ malfermo sulle gambe per la stanchezza del lungo volo e lo sbalordimento di tutto ciò che era accaduto. E, di fronte a tutti, Ged s’inginocchiò davanti a lui e piegò la testa grigia.

Poi si rialzò, e baciò il giovane sulla guancia, e disse: — Quando giungerai al tuo trono in Havnor, mio signore e caro compagno, regna a lungo e saggiamente.

Guardò di nuovo i Maestri e i giovani incantatori e i ragazzi e gli abitanti della città raccolti sulle pendici e ai piedi del Colle. Il suo volto era sereno, e nei suoi occhi c’era qualcosa che somigliava all’ilarità degli occhi di Kalessin. Voltò le spalle a tutti, e montò di nuovo sulla zampa e sulla spalla del drago, sedendosi tra i grandi picchi delle ali, senza redini, sul collo dell’enorme creatura. Le rosse ali s’alzarono con un frastuono tambureggiante, e Kalessin l’Antichissimo balzò nell’aria. Il fuoco scaturì dalle sue fauci, e fumo e tuono e vento di tempesta erano nel battito delle sue ali. Volteggiò in cerchio sopra la collina e si allontanò verso nordest, verso quella parte di Earthsea dove sorge l’isola-montagna di Gont.

Il Portinaio, sorridendo, disse: — Ora ha finito di agire. Sta andando a casa.

E tutti guardarono il drago volare tra la luce del sole e il mare, finché lo persero di vista.

Le Gesta di Ged narrano che colui che era stato arcimago andò all’incoronazione del Re di Tutte le Isole, nella Torre della Spada in Havnor, nel cuore del mondo. Il canto narra che quando la cerimonia dell’incoronazione ebbe termine e incominciò la festa, lasciò tutti e scese solo al porto di Havnor. Là stava sull’acqua una barca, consunta e logorata dalle tempeste e dalle intemperie e dagli anni: non aveva la vela alzata, ed era vuota. Ged chiamò la sua barca per nome, Vistacuta, e quella venne a lui. Sceso sulla barca dal pontile, Ged voltò le spalle alla terra, e l’imbarcazione si mosse senza vento né vela né remi: lo portò fuori dalla baia, verso ovest tra le isole, verso ovest sul mare; e di lui non si sa altro.

Ma nell’isola di Gont raccontano la storia in modo diverso. Dicono che fu il giovane re, Lebannen, ad andare in cerca di Ged per condurlo all’incoronazione. Ma non lo trovò al Porto di Gont, né a Re Albi. Nessuno seppe dirgli dov’era, ma solo che si era avviato a piedi tra le foreste della montagna. Lo faceva spesso, dissero, e non ritornava per molti mesi, e nessuno conosceva le strade della sua solitudine. Alcuni si offrirono di cercarlo, ma il re lo proibì dicendo: — Lui regna su un regno più grande del mio. — E così lasciò la montagna, e s’imbarcò, e ritornò a Havnor per farsi incoronare.

FINE