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“Il Bene Ostinato” di Paolo Rumiz è un libro sull’ostinazione di perseguire il bene, facendolo in prima persona, contro ogni statistica e calcolo economico o di marketing. Fare del bene per stare meglio tutti. Solidarietà sociale per aiutarsi l’un l’altro a essere più umani e prendersi cura del corpo, rispettandolo e proteggendolo. Proteggendolo dagli estremismi religiosi e dalle leggi ingiuste, agendo come medici per cercare di curarne le ferite, visibili e invisibili, mortali o curabili. Senza distinzione, perché di fare del bene si tratta. E si tratta di farlo a tutti, per tutti e per noi, anche. Senza che sia visto dai cinici metropolitani in cravatta solamente come un atto egoista, fare del bene agli altri fa bene a chi lo fa, a chi ci riesce. Scriverlo, o pensarlo e dirlo è importante. Così ha fatto l’autore, che dopo essere entrato in contatto con il Collegio Universitario Aspiranti Medici Missionari Medici con L'Africa, più conosciuto con la sigla di C.U.A.M.M., è partito con loro e li ha seguiti in Africa per osservarne da vicino l’azione e capirne l’importanza enorme. Il C.U.A.M.M., organizzazione non governativa nata 1950 per formare e preparare medici che possano operare nei paesi in via di sviluppo, oggi è un'associazione che si interessa alle problematiche legate alla salute e alla medicina nei paesi più poveri del mondo. Inoltre svolge attività di formazione sia in Italia che in Africa, e realizza progetti di cooperazione e dibattiti per una maggiore conoscenza e diffusione dei problemi che affliggono Angola, Etiopia, Kenya, Mozambico, Tanzania, Uganda e Sudan, i paesi nei quali attualmente sono impegnati per rafforzare il diritto umano alla salute e per estendere l'accesso ai servizi sanitari delle popolazioni locali, spesso abbandonate dalle autorità. Lo scrittore e viaggiatore Paolo Rumiz ne “Il Bene Ostinato” racconta però soprattutto delle persone implicate ostinatamente a fare del bene, soffermandosi sulle azioni precise e ferme di uomini e donne, dalle vite intense e spesso rocambolesche, ma fiere, e sui loro sguardi sul mondo e sulle loro scelte che li hanno portai e li portano ad affrontare situazioni pericolose e drammatiche, e confrontarsi con l’orrore quotidiano del non poter fare di più, facendo tutto quello che si riesce, per curare chi sta male. Lontani da casa e dagli affetti, lontani dai divani comodi e dai grattacieli, lontani dagli ospedali ben attrezzati e dalle operazioni in ambienti sterili. Ostinatamente, per restare collegati anche agli altri uomini e donne lontani che noi chiamiamo stranieri, ed aiutarli. A stare bene.<

“Tutto il Mediterraneo era diventato frontiera.”

Una lunga permanenza dentro l’occhio di un faro-ciclope in mezzo all’Adriatico sulla rotta che lega Occidente e Oriente. È la scoperta della solitudine, del vivere con poco, della confidenza con il cielo, con il ritmo della luce, con la propria interiorità.

Paolo Rumiz sceglie per il quotidiano “la Repubblica” una destinazione singolare: un’isola uncinata al cielo con le sue rocce chiare, attracco difficile, fuori dal tracciato turistico della Dalmazia, dove spicca il bianco puntuto di un faro tuttora decisivo per le rotte dei porti veneto-istriani. Rumiz divide lo spazio con l’uomo del faro, con i suoi animali domestici, si attiene alle consuetudini di tanta operosa solitudine, spia l’orizzonte, legge la volta celeste.
Capita di ascoltare notizie dal mondo e sono notizie che spogliano l’eremo dei suoi privilegi e fanno del mare, anche di quel mare apparentemente felice, una frontiera, una trincea. Il faro sembra fondersi con il passato mitologico, si leva austero ciclope monocolo, veglia nella notte, agita l’intimità della memoria (come non leggere la presenza famigliare della lanterna di Trieste), richiama – sommando in sé il “gesto” comune delle lighthouse che in tutto il mondo hanno continuato a segnare la via – le dinastie dei guardiani e delle loro mogli (il governo dei mari è storicamente legato all’anima corsara delle donne), ma soprattutto apre le porte della percezione. Nell’isola del faro si impara a decrittare l’arrivo di una tempesta, ad ascoltare il vento, a convivere con gli uccelli, a discorrere di abissi, a riconoscere le mappe smemoranti del nuovo turismo da crociera e i segni allarmanti dei nuovi migranti, a trovare la fraternità silenziosa di un risotto cucinato alla meglio.
Rumiz ci porta con sé davanti al ciclope, dentro il ciclope, per dirci l’inquietante meraviglia del mondo.

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Patricia Westerford – detta Patty-la-Pianta – comincia a parlare all’età di tre anni. Quando finalmente le parole iniziano a fluire, assomigliano piuttosto a un farfugliare incomprensibile. L’unico che sembra capire il mondo di Patricia, sin da piccola innamorata di qualsiasi cosa avesse dei ramoscelli, è suo padre – “la sua aria e la sua acqua” – che la porta con sé nei viaggi attraverso i boschi e le foreste d’America, a scoprire la misteriosa e stupefacente varietà degli alberi.

Cresciuta, dottorata ribelle in botanica, Patty-la-Pianta fa una scoperta sensazionale che potrebbe rappresentare il disvelamento del mistero del mondo, il compimento di una vita spesa a guardare e ascoltare la natura: le piante comunicano fra loro tramite un codice segreto.

Ma questo è solo l’inizio di una storia che si dipana come per anelli concentrici: intorno a Patty-la-Pianta si intrecciano infatti i destini di nove indimenticabili personaggi che a poco a poco convergono in California, dove una sequoia gigante rischia di essere abbattuta.

Il sussurro del mondo è un’opera immensa, un appassionato atto di resistenza e impegno, un inno d’amore alla letteratura, al potere delle storie, alla grandiosità della natura.

Dalla motivazione del Premio Pulitzer 2019 per la Narrativa: “Un romanzo dalla costruzione geniale, rigoglioso e ramificato come gli alberi di cui racconta: la meraviglia della loro interazione Immagine in copertina: evoca quella degli uomini che vi vivono accanto.”

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Che uomini erano quelli. Riuscirono a salvare l’Europa con la sola forza della fede. Con l’efficacia di una formula semplicissima, ora et labora. Lo fecero nel momento peggiore, negli anni di violenza e anarchia che seguirono la caduta dell’Impero romano, quando le invasioni erano una cosa seria, non una migrazione di diseredati. Ondate violente, spietate, pagane. Li cristianizzarono e li resero europei con la sola forza dell’esempio. Salvarono una cultura millenaria, rimisero in ordine un territorio devastato e in preda all’abbandono. Costruirono, con i monasteri, dei formidabili presidi di resistenza alla dissoluzione. Sono i discepoli di Benedetto da Norcia, il santo protettore d’Europa. Paolo Rumiz li ha cercati nelle loro abbazie, dall’Atlantico fino alle sponde del Danubio. Luoghi più forti delle invasioni e delle guerre. Gli uomini che le abitano vivono secondo una “regola” più che mai valida oggi, in un momento in cui i seminatori di zizzania cercano di fare a pezzi l’utopia dei loro padri: quelle nere tonache ci dicono che l’Europa è, prima di tutto, uno spazio millenario di migrazioni. Una terra “lavorata”, dove – a differenza dell’Asia o dell’Africa – è quasi impossibile distinguere fra l’opera della natura e quella dell’uomo. Una terra benedetta che è insensato blindare. Da dove se non dall’Appennino, un mondo duro, abituato da millenni a risorgere dopo ogni terremoto, poteva venire questa formidabile spinta alla ricostruzione dell’Europa? Quanto c’è ancora di autenticamente cristiano in un Occidente travolto dal materialismo? Sapremo risollevarci senza bisogno di altre guerre e catastrofi? All’urgenza di questi interrogativi Rumiz cerca una risposta nei luoghi e tra le persone che continuano a tenere il filo dei valori perduti, in un viaggio che è prima di tutto una navigazione interiore.<

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"Per una volta, ladies and gentlemen, non allacciatevi le cinture. Don't fasten your seat belts. Si parte in treno, la Cenerentola dei trasporti. Si fa l'Italia in seconda classe, per linee dimenticate. Buttate dunque a mare duty free, gate, flight, hostess e check-in. Lasciate le salette business a parlamentari e commendatur. Questo è un viaggio hard, fatto di scambi, pulegge, turbocompressori e carbone. E noi lo faremo, anche a costo di farci sbattere da una squinternata vagona baldracca, un glorioso rudere che cigola e scoreggia sulla rete di ferro, in attesa di rottamazione. "In tasca, un'idea corsara. Percorrere 7480 chilometri, come la Transiberiana dagli Urali a Viadivostok. Una distanza leggendaria, un gomitolo lungo come l'Asia da srotolare dentro la Penisola. Non sappiamo ancora dove andremo e in quanto tempo consumeremo questo buono chilometrico che nessun biglietto può contenere. Sappiamo solo che il nostro è un conto alla rovescia che ci obbligherà a scendere al chilometro zero. Il treno, non l'aereo, ha fatto l'Italia. Un piccolo treno come questo che arranca tra praterie e fichi d'India. Siamo in ballo. Il viaggio comincia."<

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Paolo Rumiz scommette sulla forza delle grandi storie e si affida al ritmo del verso, della ballata. Ne esce un romanzo-canzone singolare, fascinoso, avvolgente come una storia narrata intorno al fuoco. Racconta di Max e Maša, e del loro amore. Maximilian von Altenberg, ingegnere austriaco, viene mandato a Sarajevo per un sopralluogo nell’inverno del ’97. Un amico gli presenta la misteriosa Maša Dizdarevic´, “occhio tartaro e femori lunghi”, austera e selvaggia, splendida e inaccessibile, vedova e divorziata, due figlie che vivono lontane da lei. Scatta qualcosa. Un’attrazione potente che però non ha il tempo di concretizzarsi. Max torna in patria e, per quanto faccia, prima di ritrovarla passano tre anni. Sono i tre anni fatidici di cui parlava La gialla cotogna di Istanbul, la canzone d’amore che Maša gli ha cantato. Maša ora è malata, ma l’amore finalmente si accende. Da lì in poi si leva un vento che muove le anime e i sensi, che strappa lacrime e sogni. Da lì in poi comincia un’avventura che porta Max nei luoghi magici di Maša, in un viaggio che è rito, scoperta e resurrezione.<

Un viaggio di settemila chilometri che cavalca la gobba montuosa della balena-Italia lungo Alpi e Appennini, dal Golfo del Quarnaro (Fiume) a Capo Sud (punto più meridionale della Penisola). Parte dal mare, arriva sul mare, naviga come un transatlantico con due murate affacciate sulle onde ed evoca metafore marine, come di chi veleggia - o forse vola - in un immenso arcipelago emerso. Trovi valli dove non esiste l'elettricità, incontri grandi vecchi come Bonatti o Rigoni Stern, scivoli accanto a ferrovie abitate da mufloni e case cantoniere che emergono da un tempo lontanissimo, conosci bivacchi in fondo a caverne e santuari dove divinità pre-romane sbucano continuamente dietro ai santi del calendario. E poi ancora ti imbatti in parroci bracconieri, custodi di rifugi leggendari, musicanti in cerca di radici come Francesco Guccini o Vinicio Capossela. Un'Italia di quota, poco visibile e poco raccontata. Le due parti - o forse i due "libri", alla maniera latina - del racconto, Alpi e Appennini, hanno andatura e metrica diverse. Le Alpi sono pilastri visibili, famosi; sono fatte di monoliti ben illuminati e percorse da grandi strade. Gli Appennini no: sono arcani, spopolati, dimenticati, nonostante in essi si annidi l'identità profonda della nazione. Questo possente racconto di "monti naviganti" è cominciato sul quotidiano "la Repubblica" ed è diventato quello che oggi è, un poema di uomini e luoghi, impreziosito da una storia "per immagini" della fotografa Monika Bulaj, che ha seguito Paolo Rumiz in alcune tappe di questa avventura.<

Ma questa fantomatica "Padania" esiste davvero? Un viaggio fra nebbia e musica, alle radici di un fenomeno politico e sociale che si scontra con la "riserva indiana" della Bassa.<

Un reportage esemplare capace di svelare i veri meccanismi della guerra balcanica dietro i fraintendimenti e le mistificazioni. "La guerra mette a nudo la verità degli uomini e insieme la deforma. Ci sono tanti aspetti di questa verità; uno di essi è la cecità generale - cecità delle vittime, degli spettatori (i servizi d'informazione occidentale, oscillanti tra esasperazione, ignoranza o rimozione dell'orrore e fra cinismo e sentimentalismo) e della 'grande politica', che nel libro di Rumiz fa una figura grottesca." (Claudio Magris)<

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