A cura di Paolo Pinto e Giuseppe Grasso Edizione integrale • Dalla parte di Swann • All’ombra delle fanciulle in fiore • I Guermantes • Sodoma e Gomorra • La Prigioniera • Albertine scomparsa • Il Tempo ritrovato Alla ricerca del tempo perduto è uno dei grandi capolavori della letteratura del Novecento. Attraverso le pagine di quest’opera monumentale, articolata in sette romanzi (Dalla parte di Swann, All’ombra delle fanciulle in fiore, I Guermantes, Sodoma e Gomorra, La Prigioniera, Albertine scomparsa e Il Tempo ritrovato), ci viene rivelata un’intera società, nell’arco di tempo che va dal 1880 al 1920. Protagonista assoluta è l’aristocrazia, colta nel momento in cui si conclude la sua splendida parabola. Tutti i personaggi sono sostanzialmente dei vinti, a ognuno il tempo ha sottratto qualcosa. Soltanto la memoria sembra sopravvivere alla sua tirannia e solo nell’arte è possibile trovare un compenso al disordine del mondo. Marcel Proust nacque a Parigi nel 1871 da famiglia borghese. Esordì come scrittore su alcune riviste legate al simbolismo. Nel 1893 il poeta Robert de Montesquiou lo introdusse nell’ambiente aristocratico che gli fornì molti modelli per i suoi personaggi. Si interessò di architettura, pittura, scultura. Nel 1902 morì il padre; quando, nel 1905 perse la madre, cui era legato da tenerezza morbosa, l’asma da fieno di cui soffriva fin da bambino divenne cronica. Nel 1906 si trasferì in un appartamento di boulevard Haussmann, dove fece applicare alle pareti della stanza un rivestimento di sughero per proteggersi dal rumore: qui, isolato dal mondo, scrisse Alla ricerca del tempo perduto, il monumentale ciclo di sette romanzi cui lavorò fino agli ultimi giorni della sua vita.

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Dodici anni dopo la pubblicazione di Perché siamo antipatici? Luca Ricolfi torna sui temi che hanno fatto unanimemente apprezzare la sua ricerca, ripercorrendo i cambiamenti sociopolitici degli ultimi quarant’anni, dalle origini della globalizzazione alla crisi delle economie avanzate, per arrivare a una dolorosa, stringente riflessione: ovunque in Occidente il popolo cerca protezione dalle conseguenze della crisi e dalle fragilità dello scenario globale, ma la sinistra inevitabilmente impegna le sue energie per sminuire i problemi che gli elettori percepiscono come principali: disoccupazione, politiche di austerità, immigrazione, terrorismo. Se dunque, al di qua quanto al di là dell’Atlantico, i cittadini alzano aggressivamente la testa nei confronti di una sinistra impotente quando non addirittura cieca di fronte all’onda montante di paura che li travolge, non è così strano che il populismo si proponga come risposta, per quanto sommaria e inadeguata, alle angosce del presente.

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Questa è una storia d’amore. Si tratta dell’amore più antico e più forte, forse il più puro che esista in natura: quello che unisce una madre e un figlio. Lei è malata, ha poco tempo, e lui, Mattia – sapendo che non potrà salvarla, eppure ostinandosi contro tutto e tutti – dà il via a un’avventura privatissima e universale: non sprecare nemmeno un istante. Ma in una situazione simile non è facile superare gli ostacoli della quotidianità. La provincia in cui Mattia abita, il lavoro in videoteca che manda avanti senza troppa convinzione, il rapporto con la fidanzata e con il padre: ogni aspetto della sua vita per nulla eccezionale è ridisegnato dal tempo immobile della malattia. Un rifugio sicuro sembrano essere i ricordi: provare a riavvolgere come in un film la memoria di ciò che è stato diventa un esercizio che gli permette di sopportare il presente. Ma è davvero possibile sfuggire a se stessi? In questo viaggio dove tutto è scandalosamente fuori posto, è sempre il rapporto con la madre a far immergere Mattia nella dimensione più segreta e preziosa in cui sente di essere mai stato. Raccontando di questo everyman, grazie al coraggio della grande letteratura, Marco Peano ridà senso all’aspetto più inaccettabile dell’esperienza umana: imparare a dire addio a ciò che amiamo.

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Il tema di questo libro è "l'empatia estetica", un costrutto teorico che ha avuto uno sviluppo rigoglioso fra Ottocento e Novecento, e che oggi, grazie ai neuroni specchio ("le cellule del cervello più famose di tutte"), è ritornato di grande attualità. Così, per il fascino del prefisso "neuro", l'empatia si è imposta come un fatto scientifico incontrovertibile. Ma lo è? La gioia e la tristezza sono passioni invisibili? La leggerezza e la pesantezza sono qualità dell'oggetto o del soggetto? Passioni e qualità espressive le percepiamo o le empatizziamo? I neuroni specchio sono il correlato neuronale dell'empatia? Quel che senti si incarna nel tuo corpo o nel mio cervello? Sono queste le domande brucianti alle quali l'autrice dà qui risposte limpidamente argomentate.

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Dai paesaggi incontaminati della Scozia allo splendore assolato della Spagna, il quinto magico episodio della saga bestseller delle Sette Sorelle.
Sono trascorsi ormai sei mesi dalla morte di Pa’ Salt, e Tiggy, la quinta delle sorelle D’Aplièse, accetta un lavoro nella riserva naturale di Kinnaird. In questo luogo selvaggio e completamente isolato nelle Highlands scozzesi, si dovrà occupare di una razza felina a rischio di estinzione per conto di Charlie, l’affascinante proprietario della tenuta. Qui Tiggy incontra Cal, il guardacaccia e coinquilino, che presto diventerà un caro amico; Zara, la figlia adolescente e un po’ ribelle di Charlie e Zed Eszu, corteggiatore insistente nonché ex fidanzato di una delle sorelle. Ma soprattutto incontra Chilly, un vecchio gitano che sembra conoscere molti dettagli del suo passato e di quello di sua nonna: la famosa ballerina di flamenco Lucía Amaya Albaycín. Davvero una strana coincidenza, ma Tiggy ha sempre avuto un intuito particolare, una connessione profonda con la natura. Questo incontro non è casuale, è parte del suo destino e, quando sarà pronta, non dovrà fare altro che seguire le indicazioni di Pa’ Salt e bussare a una porticina azzurra nel Cortijo del Aire, a Granada.

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I politici, anche onesti, vogliono almeno essere rieletti. Cercano quindi di spendere il più possibile e in tutti i modi possibili. E, se possibile, in modo che gli elettori percepiscano chiaramente chi devono ringraziare per i benefici che arrivano loro da queste spese. E che cosa è meglio delle grandi infrastrutture a questo fine? Si vedono, si inaugurano con grandi cerimonie mediatiche, fanno contenti i costruttori, gli utenti (anche se quelli reali sono relativamente pochi) e i politici locali. Occupano gente e non attirano la concorrenza di imprese straniere, le opere pubbliche infatti sono molto «locali». È così ovunque nel mondo. Il fatto che spesso possano essere soldi sprecati, cioè che generino molti più costi che benefici per la collettività, interessa pochissimo, e misurare questo scarto è pericoloso. Proprio in termini di consenso...

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