Jason Taverner, popolarissimo conduttore di uno show televisivo, si trova all’improvviso senza identità. Nessuno si ricorda più di lui e il suo nome sembra scomparso dagli archivi informatici. L’uomo comincia così un viaggio alla ricerca di qualche traccia della propria esistenza nei bassifondi di una città ipertecnologica e crudele.

Philip K. Dick

Scorrete lacrime, disse il poliziotto

L’amore in questo romanzo è per Tessa, e anche l’amore in me è per lei.

Tessa è la mia piccola canzone.

Parte prima

Scorrete mie lacrime, dalla vostra fonte sgorgate!
Per sempre esiliato, lasciatemi gemere;
dove il nero uccello della notte
la triste infamia di lei canta,
lì lasciatemi vivere sconsolato.

1

Martedì, 11 ottobre 1988. Il Jason Taverner Show durò trenta secondi meno del solito. Un tecnico che stava osservando dalla cabina di regia bloccò i titoli di coda sul video, poi puntò l’indice su Jason Taverner, che stava per lasciare la scena. Il tecnico si batté un dito sul polso e indicò la propria bocca.

In tono suadente, Jason disse nella giraffa: — Continuate a spedirci cartoline e lettere, amici. E restate sintonizzati per seguire Le avventure di Scotty, cane straordinario.

Il tecnico sorrise. Jason fece altrettanto, e audio e video vennero spenti. Il programma di musica e varietà, che durava un’ora ed era al secondo posto negli indici di gradimento dei migliori show televisivi dell’anno, era finito. Era tutto okay.

— Dove abbiamo perso mezzo minuto? — chiese Jason alla sua ospite d’onore della serata, Heather Hart. Era perplesso. Teneva molto ai tempi dei suoi show.

Heather Hart rispose: — Passerotto, è tutto a posto. — Passò le mani fresche sulla fronte un po’ sudata di Jason, gli accarezzò affettuosamente i capelli color sabbia.

— Ma ti rendi conto del potere che hai? — disse Al Bliss, il loro agente, avvicinandosi a Jason. Avvicinandosi troppo, come sempre. — Stasera, trenta milioni di persone ti hanno visto chiudere la lampo dei calzoni. In un certo senso, è un record.

— Io mi chiudo la lampo tutte le settimane — rispose Jason. — È il mio marchio. O tu non guardi lo show?

— Ma trenta milioni… — disse Al. Il suo viso rotondo, florido, era imperlato di sudore. — Pensaci. E poi ci sono i diritti sulle repliche.

Jason rispose seccamente: — Io sarò morto prima che ci sia da guadagnare qualcosa con le repliche di questo show. Grazie a Dio.

— Probabilmente morirai stasera — commentò Heather — con tutti quei fan accalcati qua fuori. Aspettano solo di farti a pezzettini. Quadratini grossi come francobolli.

— Alcuni sono fan suoi, signorina Hart — disse Al Bliss, con quella sua voce da cane ansimante.

— Dio li maledica. — Il tono di Heather era duro. — Perché non se ne vanno? Non infrangono per caso qualche legge? Vagabondaggio o qualcosa di simile?

Jason le prese una mano e la strinse forte, attirando la sua accigliata attenzione. Non aveva mai capito l’astio di Heather per i fan; per lui, erano la linfa vitale della sua esistenza pubblica. E il suo ruolo di intrattenitore del mondo intero era per l’appunto tutta la sua vita. — Non dovresti lavorare nello spettacolo — disse a Heather, — se è questa la tua reazione. Lascia stare. Fai l’assistente sociale in un campo di lavori forzati.

— C’è gente anche lì — rispose Heather, cupa.

Due agenti della polizia speciale si fecero strada fino a Jason Taverner e a Heather. — Il corridoio è abbastanza sgombro — ansimò il più grasso dei due. — Andiamocene adesso, signor Taverner Prima che il pubblico dello studio si riversi alle uscite laterali. — Fece un cenno agli altri tre agenti, che avanzarono immediatamente verso il corridoio caldo e già in parte affollato che portava alla strada immersa nella sera. Fuori era parcheggiata l’aerauto Rolls, in tutto il suo fulgido splendore, con i razzi di coda che pulsavano pigri. “Come un cuore meccanico” pensò Jason. Un cuore che batteva soltanto per lui, lui che era la star. A dire il vero, pulsavano anche per Heather.

Che se lo meritava: aveva cantato bene, quella sera. Quasi quanto… Jason sorrise tra sé, in segreto. “Al diavolo, ammettiamolo” pensò. “Non accendono tutti quei televisori 3-D per vedere l’ospite d’onore. Ci sono mille ospiti d’onore sulla faccia della Terra, e qualche altro nelle colonie marziane. Accendono il televisore per vedere me. E io ci sono sempre. Jason Taverner non ha mai deluso i suoi fan e mai li deluderà. A prescindere da quello che Heather prova per loro.”

— Non ti piacciono — disse Jason mentre avanzavano contorcendosi, tirando gomitate e abbassando la testa nel corridoio troppo riscaldato, saturo dell’afrore dei colpi sudati — perché tu non ti piaci. Sei convinta che abbiano cattivo gusto.

— Sono stupidi — grugnì Heather, e imprecò sottovoce quando il grosso cappello a torta le cadde dalla testa e scomparve per sempre nel ventre della balena rappresentato dalla massa dei fan.

— Sono degli Ordinari — disse Jason. Aveva le labbra accostate all’orecchio di lei, in parte sommerso dalla rigogliosa giungla dei lucidi capelli rossi di Heather. La famosa cascata di capelli, copiata in maniera accurata ed esperta nei saloni di bellezza di tutta la Terra.

Heather ringhiò: — Non pronunciare quella parola.

— Sono degli Ordinari… e idioti. Perché… — Le mordicchiò il lobo dell’orecchio. — Perché è questo che significa essere Ordinari. No?

Lei sospirò. — Dio, essere sull’aerauto che vola nel vuoto. È questo che desidero: un vuoto infinito. Senza voci umane, odori umani, mascelle umane che masticano chewing-gum di plastica in nove colori iridescenti.

— Tu li odi davvero — aggiunse lui.

— Sì. — Lei annuì decisa. — E li odi anche tu. — Si fermò per un istante, voltandosi a fissarlo. — Sai che la tua voce se n’è andata, ormai. Sai che vivi di rendita dei tuoi giorni di gloria, che non torneranno più. — Gli sorrise. Calorosamente. — Stiamo invecchiando? — chiese, alzando la voce sopra gli strilli dei fan. — Assieme? Come marito e moglie?

Jason disse: — I Sei non invecchiano.

— Oh, sì — disse Heather. — Oh, sì che invecchiano. — Alzò una mano a sfiorare i capelli ondulati di Jason. — Da quanto li tingi, amore? Un anno? Tre?

— Sali sull’aerauto — rispose bruscamente lui, spingendola davanti a sé, fuori dall’edificio, sull’Hollywood Boulevard.

— Salirò — disse Heather — se mi farai sentire un si naturale acuto. Ricordi quando hai…

Lui la spinse di peso sulla Rolls, vi si infilò dopo di lei, si voltò per aiutare Al Bliss a chiudere la portiera e poco dopo si alzavano nel cielo della sera cosparso di nubi cariche di pioggia. Il grande cielo scintillante di Los Angeles era luminoso come se fosse mezzogiorno. “E per te e per me è mezzogiorno” pensò lui. “Per noi due, in tutti i tempi a venire. Sarà sempre com’è adesso, perché siamo Sei. Tutti e due. Che loro lo sappiano o no.

“E non lo sanno” pensò acido, godendosi lo humour nero della situazione. La consapevolezza che loro due avevano, la consapevolezza non condivisa. Perché così doveva essere. E così era sempre stato… anche adesso che tutto era finito nel peggiore dei modi. Peggiore, perlomeno, agli occhi dei pianificatori. Dei grandi dotti che avevano tirato a indovinare e si erano sbagliati. Quarantacinque splendidi anni prima, quando il mondo era giovane e goccioline di pioggia erano ancora posate sui ciliegi giapponesi di Washington D.C. ormai scomparsi. E il profumo della primavera che si spandeva sopra il nobile esperimento. Almeno per un po’.

— Andiamo a Zurigo — disse.

— Sono troppo stanca — rispose Heather. — E poi quel posto mi annoia.

— Ti annoia la casa? — Jason era incredulo. L’aveva scelta lei per loro due, e per anni erano corsi a rifugiarsi lì, soprattutto per sfuggire ai fan che Heather odiava tanto.

Lei sospirò. — La casa. Gli orologi svizzeri. Il pane. I ciottoli. La neve sulle colline.

— Le montagne — disse lui, offeso. — Be’, al diavolo, ci andrò senza di te.

— E ti troverai un’altra?

Lui proprio non riusciva a capire. — Tu vuoi che io porti lì un’altra donna? — domandò.

— Tu e il tuo magnetismo. Il tuo fascino. In quel grande letto di ottone potresti far entrare qualunque ragazza del mondo. Non che tu sia poi un granché, una volta a letto.

— Dio — disse lui, disgustato. — Ancora quella storia. E le lamentele che sono solo tue fantasie… È a quelle che ti attacchi sul serio.

Heather si girò verso lui. Il suo tono era molto sincero. — Sai benissimo quale sia il tuo aspetto, anche adesso, all’età che hai. Sei bello. Trenta milioni di persone ti fanno gli occhi dolci un’ora alla settimana. Non è il tuo modo di cantare a interessarli. È la tua intramontabile bellezza fisica.

— Lo stesso si può dire di te — ribatté lui, caustico. Era stanco, desiderava la privacy e l’isolamento che lo aspettavano alla periferia di Zurigo. Ed era come se la casa volesse che loro restassero, non per una notte o una settimana, ma per sempre.

— Io non dimostro la mia età — disse Heather.

Lui le lanciò un’occhiata, poi la studiò. Una massa di capelli rossi, la carnagione pallida con qualche lentiggine, un deciso naso aquilino. Grandi occhi viola infossati nelle orbite. Heather aveva ragione, non dimostrava la sua età. Ovviamente, non si collegava mai alla rete telefonica transex, come faceva lui. A dire il vero, poche volte. Non era un drogato, e non c’erano stati, nel suo caso, danni cerebrali o invecchiamento precoce.

— Sei tremendamente bella — ammise a malincuore.

— E tu? — chiese Heather.

Jason rifiutava di lasciarsi scuotere. Sapeva di possedere ancora il suo carisma, la forza che gli avevano inciso nei cromosomi quarantadue anni prima. Vero, i capelli gli erano diventati in buona parte grigi, e li tingeva. E qualche ruga era apparsa qua e là. Però…

— Finché avrò la mia voce — disse, — sarò okay. Avrò quello che voglio. Ti sbagli su di me. Colpa della tua freddezza da Sei, della tua cosiddetta individualità alla quale tieni tanto. D’accordo, se non vuoi andare a Zurigo, dove vuoi andare? A casa tua? A casa mia?

— Voglio sposarti — rispose Heather. — Così non si tratterebbe più di casa tua o di casa mia, ma di casa nostra. E smetterò di cantare e avrò tre figli, tutti identici a te.

— Anche le bambine?

Heather disse: — Saranno tutti maschi.

Lui si chinò a baciarla sul naso. Lei sorrise, gli prese una mano, la accarezzò con affetto. — Stasera possiamo andare ovunque — le sussurrò lui, a voce bassa, controllata, e con un tono quasi paterno: di solito funzionava con Heather, a differenza di tutto il resto. “A meno che” pensò lui “io non me ne vada.”

Lei lo temeva. A volte, durante i loro litigi, specialmente nella casa di Zurigo dove nessuno poteva vederli o interferire, Jason aveva scorto quella paura sul viso di Heather. L’idea di restare sola la terrorizzava; lui lo sapeva; e anche lei; la paura faceva parte della loro vita in comune. Non della vita pubblica: su quella, da veri professionisti quali erano, avevano un controllo completo, razionale. Per quanto potessero arrivare a sentirsi rabbiosi e quasi degli estranei, sarebbero stati una coppia perfetta agli occhi adoranti degli spettatori, della gente che scriveva lettere, dei fan rumoreggianti. Nemmeno l’odio più puro poteva trapelare.

Anche se, in realtà, non poteva esserci odio tra loro. Avevano troppo in comune. Ricevevano così tanto l’uno dall’altro. Anche il semplice contatto fisico, come il fatto di trovarsi insieme sulla Rolls, li rendeva felici. Perlomeno, finché durava.

Jason infilò la mano in una tasca interna del suo vestito da sartoria di pura seta (forse nel mondo intero ne esistevano dieci) ed estrasse una mazzetta di banconote emesse dal governo. Tante banconote compresse in un nutrito mucchietto.

— Non dovresti portare addosso tanto denaro — gli disse acida Heather, nel tono che lui odiava a morte: quello della madre piena di pregiudizi.

Lui disse: — Con questi… — sventolò la mazzetta —… possiamo comperarci l’accesso a qualunque…

— Se qualche studente non registrato che è scappato ieri sera da un campus, magari scavando una galleria, non ti taglia la mano all’altezza del polso e scappa con tutto quanto. La tua mano e il tuo denaro vistoso. Tu sei sempre stato vistoso. Sgargiante ed eccessivo. Guarda la tua cravatta. Guardala! — Adesso Heather aveva alzato la voce. Sembrava arrabbiata sul serio.

— La vita è breve — disse Jason. — E la prosperità ancora di più. — Ma rimise la mazzetta nella tasca interna della giacca, lisciando la protuberanza che creava nel suo abito per il resto impeccabile. — Volevo comperarti qualcosa con quei soldi. — In realtà, l’idea gli era venuta lì per lì. Quel che aveva avuto intenzione di fare con il denaro era qualcosa di un po’ diverso: voleva portarselo a Las Vegas, ai tavoli del Black-jack. Come Sei, poteva vincere sempre a Black-jack: era in vantaggio su tutti, anche sul banco. “Anche” pensò perfidamente “sul boss del casinò.”

— Stai mentendo — disse Heather. — Non volevi comperarmi qualcosa. Non lo fai mai. Sei così egoista, pensi sempre a te stesso. Quelli sono soldi per una scopata. Ti comprerai una bionda pettoruta e ci andrai a letto. Probabilmente nella nostra casa di Zurigo, che, come sai, io ormai non vedo da quattro mesi. Potrei anche essere incinta.

A Jason parve strano che lei dicesse una cosa simile, fra tutte le accuse che potevano affacciarsi alla parte cosciente della sua mente. Ma in Heather c’erano molte cose che lui non capiva: Heather le teneva per sé, con lui come con i suoi fan.

Però con gli anni aveva imparato molto sul suo conto. Sapeva, per esempio, che sei anni prima lei aveva avuto un aborto, un altro segreto ben custodito. Sapeva che in un certo momento era stata illegalmente sposata con il leader di una comune di studenti, e che per un anno aveva vissuto nelle conigliere della Columbia University assieme agli studenti barbuti e puzzolenti che pol e naz costringevano a restare nel sottosuolo per tutta la vita. Polizia e guardia nazionale circondavano ogni campus, impedivano agli studenti di riversarsi al di fuori come ratti neri in fuga da una nave che imbarcasse acqua.

E sapeva che un anno prima Heather era stata arrestata per possesso di droga. Solo la sua famiglia, ricca e potente, era riuscita a tirarla fuori da quel guaio: soldi e carisma e fama non avevano funzionato quando si era trovata a faccia a faccia con la polizia.

Heather si era procurata qualche cicatrice, ma lui sapeva che adesso stava bene. Come tutti i Sei, possedeva enormi capacità di recupero. Una dote meticolosamente inserita in ognuno di loro. Assieme a molto, molto altro. Nemmeno lui, a quarantadue anni, sapeva tutto delle loro doti. E anche a lui erano successe molte cose. Più che altro aveva lasciato dietro di sé alcuni cadaveri: i resti di altri uomini di spettacolo che aveva calpestato nella sua lunga scalata verso la vetta.

— Queste cravatte “vistose”… — cominciò, ma poi ronzò il telefono dell’aerauto. Afferrò il ricevitore. Probabilmente era Al Bliss con i dati di ascolto dello show.

Invece no. Gli giunse la voce di una ragazza, acuta e stridula, all’orecchio. — Jason?

— Sì — rispose lui. Mise la mano sul microfono dell’apparecchio e disse a Heather: — È Marilyn Mason. Perché diavolo le ho dato il numero della mia aerauto?

— Chi diamine è Marilyn Mason? — chiese Heather.

— Te lo dico dopo. — Jason tolse la mano dal microfono. — Sì, tesoro, sono proprio Jason, nel suo vero corpo reincarnato. Cosa c’è? Mi sembri a pezzi. Ti sfrattano un’altra volta? — Strizzò l’occhio a Heather, sorridendo di sbieco.

— Scaricala — disse Heather.

Coprendo di nuovo il microfono con la mano, Jason le disse: — Ma certo. Ci sto provando, non vedi? — Poi tornò a parlare al telefono. — Okay, Marilyn. Vomita tutto. Sono qui per questo.

Marilyn Mason era stata la sua protégée, per così dire, per due anni. Lei voleva diventare una cantante, essere famosa, ricca e amata come lui. Un giorno si era avventurata nello studio, durante le prove, e lui l’aveva notata. Visino teso e preoccupato, gambe corte, gonna troppo corta: com’era sua abitudine, Jason aveva catalogato tutto alla prima occhiata. E, una settimana più tardi, le aveva procurato un’audizione alla Columbia Records, con il direttore del settore a r, “Artisti e Repertorio”.

Quella settimana erano successe molte cose, che però non avevano nulla a che vedere con il canto.

Marilyn gli strillò all’orecchio: — Devo vederti. Se no mi uccido, e tu resterai col senso di colpa. Per il resto della vita. E racconterò a quella tizia, quella Heather Hart, che andiamo a letto insieme da sempre.

Jason sospirò tra sé. All’inferno, era già stanco, logorato dall’ora del suo show, tutto sorrisi, sorrisi, sorrisi. — Passerò il resto della notte in Svizzera — disse deciso, come se stesse parlando con una bambina isterica. Di solito, quando Marilyn era in uno dei suoi stati d’animo accusatori e semiparanoidi, funzionava. Ma, naturalmente, quella volta non fu così.

— Ti ci vorranno cinque minuti per arrivare qui, con la tua Rolls da un milione di dollari — gridò Marilyn al suo orecchio. — Voglio solo parlarti per cinque secondi. Ho qualcosa di molto importante da dirti.

“Probabilmente è incinta” pensò Jason. “Forse si è dimenticata di prendere la pillola, o magari l’ha fatto apposta.”

— Cosa puoi dirmi in cinque secondi che io non sappia già? — ribatté secco. — Parla adesso.

— Ti voglio qui con me — rispose Marilyn, con la sua consueta, totale mancanza di discrezione. — Devi venire. Non ti vedo da sei mesi, e in questo periodo ho pensato molto a te. E in particolare a quell’ultima audizione.

— Okay. — Jason si sentiva amareggiato e risentito. Ecco la ricompensa per avere cercato di far fare camera a una senza talento. Riappese rabbioso, si girò verso Heather e disse: — Sono contento che tu non l’abbia mai incontrata. È una vera…

— Stronzate — scattò Heather. — Io non l’ho “mai incontrata” perché tu hai fatto in modo che questo non succedesse.

— Comunque — disse lui, virando a dritta con l’aerauto, — le ho procurato non una ma due audizioni, e ha fatto cilecca. E, per non perdere la propria autostima, deve dare la colpa a me. In un modo o nell’altro, sono stato io a farle fare fiasco. Hai presente il quadro, no?

— Ha due belle tette? — chiese Heather.

— Be’, effettivamente… — Jason sorrise e Heather rise a gola spiegata. — Conosci il mio punto debole. Però la mia parte l’ho fatta. Le ho procurato un’audizione. Due. L’ultima è stata sei mesi fa e so benissimo che lei ci sta ancora rimuginando sopra. Chissà cos’ha dirmi.

Impostò sul modulo di comando una rotta automatica per il condominio di Marilyn, con il suo tetto piccolo ma sufficiente per l’atterraggio.

— Probabilmente è innamorata di te — aggiunse Heather, mentre Jason eseguiva le manovre di atterraggio. Poi fece scendere la scaletta.

— Come altri trenta milioni di donne — disse allegramente Jason.

Heather si mise comoda sul sedile ribaltabile della Rolls.

— Non stare via troppo altrimenti, te lo giuro, decollo senza di te.

— E mi lasceresti nelle grinfie di Marilyn? — Risero tutti e due. — Torno subito. — Jason attraversò lo spiazzo libero fino all’ascensore e premette il pulsante.

Quando entrò nell’appartamento, capì immediatamente che Marilyn era fuori di sé. Il suo viso era contratto e devastato dall’ira; il corpo si era talmente raggrinzito da dare l’impressione che stesse cercando di divorare se stessa. E gli occhi. Erano ben poche le cose di una donna che potevano mettere a disagio Jason, ma quei due occhi ci riuscirono. Perfettamente rotondi, con le pupille dilatate, lo trafiggevano mentre lei se ne stava lì a fissarlo a braccia conserte. Tutto in lei era duro e freddo come l’acciaio.

— Forza, sentiamo — disse Jason, e si mise subito a cercare una posizione di vantaggio. Di solito, anzi praticamente sempre, riusciva a controllare una situazione nella quale fosse coinvolta una donna; in effetti, era la sua specialità. Ma adesso… si sentiva a disagio. E lei continuava a non aprir bocca. Il viso, sotto il trucco, era completamente esangue, come se Marilyn fosse stata un cadavere rianimato. — Vuoi un’altra audizione? — chiese. — È questo?

Marilyn scosse la testa facendo segno di no.

— Okay. Dimmi di cosa si tratta. — Jason era stanco ma irrequieto. Però escluse l’inquietudine dalla voce; era troppo astuto, troppo pratico del mondo per permettere a Marilyn di fiutare la sua incertezza. “In un confronto diretto con una donna quasi il novanta per cento è bluff, per entrambe le parti. Dipende tutto da come, non da cosa.”

— Ho una sorpresa per te. — Marilyn si girò, scomparve in cucina. Lui la seguì.

— Tu dai ancora la colpa a me perché non hai avuto successo nelle due… — cominciò.

— Ecco qua. — Marilyn sollevò una borsa di plastica dallo scolapiatti, la tenne in mano per un attimo, con il viso ancora esangue e duro, gli occhi fissi e sbarrati; poi aprì la borsa, la fece ruotare nell’aria, si avvicinò velocissima a lui.

Accadde tutto in fretta. Jason indietreggiò d’istinto, ma troppo lentamente e troppo tardi. La spugna avvolgente di Callisto, una specie di massa gelatinosa, lo avviluppò con i suoi cinquanta tubi di suzione, si ancorò al suo petto. E lui sentì subito i tubi penetrargli dentro.

Balzò verso gli armadietti pensili, afferrò una bottiglia di scotch piena a metà, svitò il tappo con dita rapidissime e versò il liquido ambrato sulla creatura gelatinosa. I suoi pensieri erano diventati lucidi, addirittura brillanti. Non si lasciò prendere dal panico, ma restò lì a versare il liquore sulla creatura.

Per un momento non accadde nulla. Jason riuscì a mantenere la calma e a non abbandonarsi al terrore. Poi la cosa si riempì di bitorzoli, si raggrinzì, si staccò dal suo petto, cadde sul pavimento. Era morta.

Debolissimo, si sedette al tavolo di cucina. Si trovò a lottare per contrastare lo svenimento: alcuni dei tubi di suzione gli erano rimasti dentro, ed erano ancora vivi. — Non male — riuscì a dire. — Mi hai quasi fregato, piccola barbona fottuta.

— Non quasi — ribatté Marilyn Mason in tono piatto, privo di emozione. — Qualche tubo di suzione ti è rimasto dentro, e tu lo sai. Te lo leggo in faccia. E una bottiglia di scotch non li farà uscire. Niente li farà uscire.

A quel punto, Jason svenne. Intravide il pavimento grigioverde corrergli incontro ad abbracciarlo, poi ci fu il vuoto. Un vuoto che non conteneva più nemmeno lui.

Dolore. Aprì gli occhi, si toccò il petto con un gesto automatico. Il suo vestito di seta da sartoria era svanito. Indossava un pigiama di cotone da ospedale ed era sdraiato su una barella. — Dio — disse con le labbra contratte, mentre i due infermieri spingevano il lettino nel corridoio dell’ospedale in tutta fretta.

Heather Hart era china su di lui, ansiosa; ma, come Jason, perfettamente padrona di sé. — Ho capito che qualcosa non andava — gli disse in fretta, mentre gli infermieri lo portavano dentro una stanza. — Non ti ho aspettato sull’aerauto. Sono scesa a cercarti.

— Probabilmente pensavi che fossimo a letto assieme — disse lui debolmente.

— Il dottore — continuò Heather — ha detto che, se fossero trascorsi altri quindici secondi, saresti rimasto vittima della violazione somatica, come la chiama lui. L’ingresso di quella cosa nel tuo corpo.

— La cosa l’ho sistemata — rispose Jason. — Ma non sono riuscito a eliminare tutti i tubi di suzione. Era troppo tardi.

— Lo so. Me l’ha detto il medico. Ti opereranno al più presto. Forse riusciranno a fare qualcosa, se i tubi non sono penetrati troppo in profondità.

— Sono stato bravo nel momento cruciale — sussurrò Jason. Chiuse gli occhi e sopportò il dolore. — Ma non abbastanza. Non del tutto. — Riaprì gli occhi e vide che Heather stava piangendo. — La situazione è così drammatica? — le chiese. Alzò una mano e prese quella di lei. Sentì tutto il suo amore quando Heather gli strinse le dita, e poi ci fu il nulla. A parte il dolore. Ma nient’altro: né Heather, né l’ospedale, né gli infermieri, né le luci. E nessun suono. Era un momento eterno.

2

La luce riprese a filtrare, come attraverso una membrana di luminescenza rossa. Aprì gli occhi e alzò la testa per guardarsi attorno. In cerca di Heather o del medico.

Era solo nella stanza. Nessun altro. Un cassettone con uno specchio venato da crepe. Vecchie, orribili applique che sporgevano dalle pareti sporche di grasso. E da qualche parte, nelle vicinanze, il suono di un televisore.

Non era in un ospedale.

E Heather non era con lui. Jason sperimentò la sua assenza, il vuoto totale di tutto senza di lei.

“Dio” pensò, “cos’è successo?”

Il dolore al petto era svanito, assieme a tante altre cose. Scosso, scostò la lercia coperta di lana, si mise a sedere, si grattò pensieroso la testa, chiamò a raccolta la sua vitalità.

Si rese conto di essere in una camera d’hotel. Uno schifoso hotel da due soldi, un posto per ubriaconi infestato dalle pulci. Niente tende, niente bagno. Il tipo di albergo in cui aveva vissuto anni addietro, all’inizio della sua carriera. Quando era uno sconosciuto e non aveva soldi. I giorni bui che scacciava sempre dalla memoria come meglio poteva.

Soldi. Si tastò, scoprì di non indossare più il pigiama da ospedale: portava di nuovo il vestito di seta, tutto spiegazzato. E, nella tasca interna della giacca, la mazzetta di banconote di grosso taglio, il denaro che avrebbe voluto giocarsi a Las Vegas.

Se non altro, aveva quello.

Cercò freneticamente con gli occhi un telefono. Ovviamente non c’era. Però, nell’atrio… Ma chi chiamare? Heather? Al Bliss, il suo agente? Mory Mann, il produttore del suo show televisivo? Il suo avvocato, Bill Wolfer? Oppure tutti quanti, e al più presto?

Tremante, riuscì in qualche modo ad alzarsi. Restò a ondeggiare sui talloni, imprecando per ragioni che non capiva. Era prigioniero di un istinto animale. Si preparò, preparò il suo forte corpo di Sei alla lotta. Ma non sapeva distinguere l’antagonista, e questo lo spaventava. Per la prima volta da quanto riuscisse a ricordare, avvertì il panico.

“È passato molto tempo?” si chiese. Non sapeva dirlo. Sembrava averne perso il senso. Era giorno. Trabi che guizzavano e strepitavano in cielo, oltre il vetro lurido della sua finestra. Guardò l’orologio. Segnava le dieci e trenta. E con ciò? Potevano essere passati mille anni, per quel che ne sapeva. L’orologio non era in grado di aiutarlo.

Ma il telefono gli sarebbe servito. Uscì nel corridoio polveroso, trovò le scale, scese lentamente un gradino dopo l’altro, aggrappandosi al corrimano, finché non si trovò nell’atrio deprimente, deserto, con le vecchie, traballanti poltrone imbottite.

Per fortuna aveva qualche moneta. Infilò un pezzo d’oro da un dollaro nella fessura e fece il numero di Al Bliss.

— Agenzia artistica Bliss — gli rispose la voce di Al.

— Senti — disse Jason, — non so dove mi trovo. Per amor di Dio, vieni a prendermi. Tirami fuori di qui. Hai capito, Al?

Silenzio. Poi, in tono remoto, distaccato, Al Bliss chiese: — Con chi parlo?

Lui ringhiò la risposta.

— Non la conosco, signor Jason Taverner — disse Al Bliss, ancora con la sua voce più neutra. — È sicuro di avere fatto il numero giusto? Con chi voleva parlare?

— Con te. Al. Al Bliss, il mio agente. Cose successo all’ospedale? Come ho fatto a finire qui? Non lo sai? — La marea del panico salì, e Jason lottò per imporsi l’autocontrollo. Costrinse le proprie parole ad assumere un tono pacato. — Puoi metterti in contatto con Heather per me?

— La signorina Hart ? — disse Al, e ridacchiò.

— Tu — disse Jason, furibondo — hai finito di essere il mio agente. Punto. Qualunque sia la situazione. Sei fuori.

Al Bliss ridacchiò un’altra volta, e poi, con un clic, la comunicazione si interruppe. Al Bliss aveva riappeso.

“Ucciderò quel figlio di puttana” si disse Jason. “Ridurrò in pezzettini minuscoli quel bastardo di un grassone calvo.

“Cosa sta cercando di farmi? Non capisco. Cos’ha contro di me, cosi, all’improvviso? Che diavolo gli ho fatto, Cristo santo? È mio amico e mio agente da diciannove anni. E una cosa del genere non è mai successa.

“Proverò con Bill Wolfer” decise. “È sempre in ufficio o comunque reperibile. Riuscirò a raggiungerlo e scoprirò cosa accidente ci sia sotto.” Infilò una seconda moneta da un dollaro nella fessura e, a memoria, compose un altro numero.

— Studio legale Wolfer Blaine — gli risuonò all’orecchio la voce di un’impiegata.

— Passami Bill — disse Jason. — Sono Jason Taverner. Hai capito bene chi.

L’impiegata disse: — Oggi il signor Wolfer è in aula. Preferisce parlare col signor Blaine, oppure devo farla richiamare dal signor Wolfer quando rientrerà in ufficio, nel pomeriggio?

— Ma sai chi sono? — chiese Jason. — Sai chi è Jason Taverner? Guardi la tivù? — A quel punto perse quasi il controllo della propria voce; la sentì spezzarsi e salire a un livello acuto. Se ne riappropriò con uno sforzo enorme, ma non riuscì a fermare il tremito delle mani. In realtà, tutto il suo corpo stava tremando.

— Mi spiace, signor Taverner — disse l’impiegata. — Proprio non posso parlare a nome del signor Wolfer o…

— Guardi la tivù?

— Sì.

— E non hai mai sentito parlare di me? Del Jason Taverner Show, alle nove di sera del martedì?

— Mi spiace, signor Taverner. Lei deve conferire direttamente col signor Wolfer. Mi lasci il suo numero di telefono e la farò richiamare in giornata.

Jason riappese.

“Sono impazzito” pensò. “Oppure è impazzita lei. Lei e Al Bliss, quel figlio di puttana. Dio!” Si allontanò distrutto dal telefono, si buttò su una delle poltrone consunte. Stare seduto era una bella sensazione. Chiuse gli occhi e inspirò lentamente, profondamente. E rifletté.

“Ho cinquemila dollari in banconote del governo di grosso taglio” si disse. “Quindi non sono del tutto inerme. E quella cosa è scomparsa dal mio petto, assieme ai suoi tubi di suzione. All’ospedale devono essere riusciti a rimuoverli chirurgicamente. Quindi, se non altro, sono vivo; di questo posso rallegrarmi. C’è stato un salto temporale? Dov’è un giornale?”

Trovò una copia del “Los Angeles Times” su un divano lì vicino, lesse la data: 12 ottobre 1988. Nessun salto temporale. Era il giorno dopo il suo ultimo show. Il giorno dopo il suo ingresso in ospedale, moribondo per colpa di Marilyn.

Gli venne un’idea. Sfogliò il quotidiano finché non trovò la pagina degli spettacoli. Da tre settimane si esibiva tutte le sere nella Sala Persiana dell’Hollywood Hilton. Tranne ovviamente il martedì, per lo show televisivo.

Sulla pagina non c’era la locandina pubblicitaria che la direzione dell’hotel pubblicava dalla metà di settembre. Stordito, pensò che poteva essere stata spostata da un’altra parte. Così passò al setaccio tutta quanta la sezione degli spettacoli. Era piena zeppa di locandine di altri spettacoli, ma del suo non c’era traccia. E la sua faccia compariva sulle pagine di spettacolo dei giornali da dieci anni. Senza soste.

“Farò un altro tentativo” decise. “Proverò con Mory Mann.”

Tirò fuori il portafogli e cercò l’appunto con il numero di Mory.

Il suo portafogli era più sottile del solito.

Tutte le sue tessere d’identità erano scomparse. Tessere che gli permettevano di restare in vita. Tessere che gli facevano superare le barricate di pol e naz senza che gli sparassero o lo sbattessero in un campo di lavori forzati.

“Non riuscirò a vivere due ore senza le mie tessere” si disse. “Non oso nemmeno uscire dall’atrio di questo hotel scalcinato e raggiungere il marciapiede. Penseranno che sono uno studente o un insegnante fuggito da uno dei campus. Passerò il resto della vita da schiavo, a fare massacranti lavori manuali. Sono quella che chiamano una ‘nonpersona’.

“Quindi il mio primo dovere è di restare vivo. Al diavolo Jason Taverner lo show-man. Di questo mi preoccuperò più tardi.”

Sentiva che nel suo cervello i potenti componenti-Sei si stavano già mettendo in moto. “Io non sono come gli altri” si disse. “Ne uscirò, di qualunque cosa si tratti. In un modo o nell’altro.

“Per esempio, con tutti i soldi che ho con me posso fare un salto a Watts e comperarmi delle tessere d’identità false. Tante da riempire il portafogli. Devono esserci almeno un centinaio di piccoli falsari che tirano avanti con attività del genere, da quanto ho sentito. Ma non avrei mai pensato di dovermi servire di uno di loro. Non Jason Taverner. Non una star televisiva con un pubblico di trenta milioni di persone.

“Fra di loro” si chiese “non ce n’è nemmeno una che si ricordi di me? Se ‘ricordare’ è il termine esatto. Sto parlando come se fosse trascorsa un’infinità di tempo, come se fossi un vecchio, una celebrità tramontata che vive di ricordi. E non è questo che sta accadendo.”

Tornato al telefono, cercò il numero dell’anagrafe centrale dello Iowa. Con diverse monete d’oro, dopo una lunga attesa, riuscì finalmente ad avere la comunicazione.

— Mi chiamo Jason Taverner — disse all’impiegato. — Sono nato a Chicago, al Memorial Hospital, il 16 dicembre 19 46. Vuole per favore darmi conferma e preparare una copia del mio certificato di nascita? Mi serve per una domanda di lavoro.

— Sì, signore. — L’impiegato lo lasciò in linea. Jason aspettò.

— Il signor Jason Taverner, nato il 16 dicembre 19 46 nella contea di Cook?

— Sì.

— Qui non risulta nulla per quella persona, in quella data e in quel luogo. È assolutamente sicuro dei dati, signore?

— Mi sta chiedendo se so come mi chiamo e dove e quando sono nato? — La voce sfuggì di nuovo al suo controllo, ma questa volta si lasciò andare. Stava annegando nel panico. — Grazie. — Riappese. Adesso tremava visibilmente. Nel corpo e nella mente.

“lo non esisto” si disse. “Non c’è nessun Jason Taverner. Non c’è mai stato ne mai ci sarà. Al diavolo la carriera. Voglio semplicemente vivere. Se qualcuno o qualcosa vuole fregarmi la carriera, okay, faccia pure. Ma non mi si permette nemmeno di esistere? Non sono mai nato?”

Qualcosa gli si mosse nel petto. Terrorizzato, pensò: “Non hanno estratto del tutto i tubi di suzione Ce n’è ancora qualcuno che cresce e si nutre dentro di me. Quella maledetta senza alcun talento. Spero che finisca a battere per due dollari a botta.

“Dopo quello che ho fatto per lei. Dopo che le ho procurato due audizioni con gli uomini del settore a r. Ma che diavolo, me la sono portata a letto tante volte! Probabilmente siamo pari.”

Risalito in camera, si guardò a lungo nello specchio incrostato di cacche di mosca. Il suo aspetto non era cambiato, a parte il fatto che doveva radersi. Non era più vecchio di prima. Non c’erano nuove rughe o capelli grigi visibili. Le solite spalle robuste, i bicipiti forti. La vita snella che gli permetteva di portare i vestiti aderenti tanto di moda.

“Ed è un dato importante per la tua immagine” si disse. “Il tipo di abito che sei in grado di indossare, specialmente quelli con la vita stretta. Devo averne una cinquantina. O li avevo. Adesso dove saranno? ‘L’uccello è scappato, e in quale radura canta ora?’” Parole uscite dal suo passato, dai giorni di scuola. Che sino a quel momento aveva dimenticato. “È strano” rifletté “quel che ti viene in mente quando ti trovi in una situazione inusuale e spaventosa: a volte le cose più banali che si possano immaginare.

“‘Se i desideri fossero cavalli, i mendicanti potrebbero volare.’ Roba del genere. Da impazzire.”

Si chiese quanti punti di controllo pol e naz esistessero tra quell’hotel miserabile e il più vicino falsario di Watts. Dieci? Tredici? Due? “Per quel che mi concerne” pensò, “ne basta uno. Un controllo casuale eseguito da un veicolo con tre uomini a bordo. Con quella stramaledetta ricetrasmittente che li collega alla centrale dati di Kansas City. Dove tengono i dossier.”

Arrotolò la manica della camicia e studiò l’avambraccio. Sì, eccolo lì: il tatuaggio del suo numero di identità. La sua targa somatica, che doveva portarsi appresso per l’intera vita, che alla fine sarebbe stata sepolta con lui nella tomba.

Quindi, pol e naz del centro mobile di controllo avrebbero comunicato il suo numero d’identità a Kansas City, dopo di che… Cosa? Il suo dossier era ancora lì o era scomparso come il certificato di nascita? E, se non ci fosse stato, cosa ne avrebbero dedotto i burocrati della polizia?

“L’errore di un impiegato. Qualcuno ha sistemato nel posto sbagliato il pacchetto di microfilm che formano il dossier. Salterà fuori. Un giorno o l’altro, quando non avrà più importanza, quando io avrò trascorso dieci anni della mia vita in una miniera lunare, con un piccone in mano. Se il dossier non c’è, presumeranno che io sia uno studente in fuga, perché solo gli studenti non hanno un dossier pol-naz; e persino alcuni di loro, quelli importanti, i leader, ne hanno uno.

“Sono sul fondo del barile della vita. E non posso nemmeno risalire, arrampicarmi di nuovo fino alla semplice esistenza fisica. Io, un uomo che ieri aveva un pubblico di trenta milioni di persone. Un giorno, in qualche modo, troverò la strada che mi riporterà a loro. Ma non ora. Altre cose adesso sono più importanti. Il nudo scheletro dell’esistenza fornito a chiunque all’atto della nascita: io non ho nemmeno quello. Ma l’avrò. Un Sei non è un Ordinario. Nessun Ordinario sarebbe riuscito a sopravvivere, a livello fisico o psicologico, a quello che è successo a me. Specialmente all’incertezza.

“Un Sei, a prescindere dalle circostanze esterne, se la caverà sempre. Perché siamo stati definiti in questo modo a livello genetico.”

Lasciò di nuovo la camera, scese a pianterreno e andò al bureau. Un uomo di mezza età, con i baffetti sottili, stava leggendo una copia di “Box”. Senza alzare la testa, disse: — Sì, signore.

Jason tirò fuori la sua mazzetta di dollari emessi dal governo, mise una banconota da cinquecento dollari sul banco, davanti al portiere. L’uomo diede un’occhiata, poi guardò meglio, questa volta a occhi sgranati. Quindi alzò uno sguardo cauto e perplesso sul viso di Jason.

— Mi hanno rubato le tessere d’identità — disse questi. — Quei cinquecento dollari sono suoi se mi porta da qualcuno che le possa sostituire. Se ha intenzione di farlo, si sbrighi. Non aspetterò. — “Non aspetterò di essere arrestato da un pol o da un naz” pensò. “Bloccato in questo schifo di hotel scalcinato.”

— O sul marciapiede di fronte all’ingresso — disse il portiere. — Ho qualche capacità telepatica. So che questo hotel non è un granché, però non abbiamo pulci. Una volta abbiamo avuto quelle marziane della sabbia, ma niente di più. — Prese il biglietto da cinquecento dollari. — La porterò da uno che può aiutarla — disse. Studiò con aria attenta il viso di Jason, si concesse una pausa, poi aggiunse: — Lei crede di essere famoso. Be’, qui ne vediamo di tutti i tipi.

— Andiamo — mormorò con voce roca Jason. — Subito.

— Immediatamente — disse il portiere, e afferrò la sua smagliante giacca di plastica.

3

Alla guida del suo vecchio, lento e rumoroso trabi, il portiere, con aria indifferente, disse a Jason che sedeva al suo fianco: — Sto captando molte stranezze nella sua mente.

— Esca dalla mia mente — ribatté brusco Jason, con un senso di repulsione. Non gli erano mai piaciuti i telepati impiccioni, spinti solo dalla curiosità, e quel tipo non faceva eccezione. — Esca dalla mia mente — ripeté — e mi porti dalla persona che mi può aiutare. Ed eviti gli sbarramenti pol-naz. Se si aspetta di uscirne vivo.

Il portiere gli rispose calmo: — Non c’è bisogno che me lo dica. So cosa le succederebbe se ci fermassero. Non è la prima volta, per me. L’ho già fatto. Per gli studenti. Ma lei non è uno studente. È un uomo famoso, ed è ricco. Però al tempo stesso non lo è. Al tempo stesso non è nessuno. Lei non esiste nemmeno, parlando in termini legali. — Fece una risatina effeminata, gli occhi puntati sul traffico che aveva davanti, sulla strada. Guidava come una vecchia, notò Jason. Teneva tutte e due le mani attaccate al volante.

Erano entrati negli slum di Watts. Negozietti bui sui due lati della via intasata, bidoni traboccanti di spazzatura, fondo stradale disseminato di frammenti di bottiglie rotte, insegne grigiastre che reclamizzavano la Coca-Cola a grandi lettere e il nome del negozio in piccole. A un incrocio, un nero molto anziano attraversò a passi esitanti, cauti, come se fosse cieco. Vedendolo, Jason provò una strana emozione. Ormai c’erano pochissimi neri vivi, dopo la famosa Legge Tidman sulla sterilizzazione approvata dal Congresso nei terribili giorni dell’Insurrezione. Il portiere rallentò sino a fermare il veicolo, per non creare problemi al vecchio che indossava un vestito marrone spiegazzato, costellato di rammendi sdruciti. Evidentemente stava provando anche lui la stessa sensazione.

— Si rende conto — chiese a Jason — che se lo investissi per me significherebbe la pena di morte?

— Mi pare giusto — disse Jason.

— È come se fosse l’ultimo stormo di gru del Nordamerica. — Il portiere ripartì, visto che il nero aveva raggiunto l’altro lato della strada. — Protetti da mille leggi. Non puoi prenderli in giro. Non puoi fare a cazzotti con uno di loro senza rischiare un’accusa di reato di primo grado: dieci anni di prigione. Eppure li stiamo facendo estinguere. È quello che voleva Tidman, e probabilmente anche la maggioranza dei Silenziosi, però… — Gesticolò, staccando per la prima volta una mano dal volante. — Mi mancano i bambini. Ricordo ancora quando avevo dieci anni e un ragazzino nero come compagno di giochi. Non lontano da qui, a dire il vero. Senz’altro, ormai lo avranno sterilizzato.

— Però avrà avuto un figlio — fece notare Jason. — Sua moglie avrà dovuto restituire il coupon di parto dopo la nascita del loro unico figlio… quello l’hanno avuto. La legge lo consente. E c’è un milione di norme per proteggere la loro sicurezza.

— Due adulti, un bambino — disse il portiere. — Così la popolazione nera si dimezza a ogni generazione. Ingegnoso. Bisogna darne atto a Tidman. Ha risolto il problema razziale, come no.

— Bisognava fare qualcosa. — Jason se ne stava rigido sul suo sedile, scrutava la strada davanti a loro, in cerca di segni di un punto di controllo o di una barricata pol-naz. Non vedeva niente, ma per quanto tempo dovevano continuare a viaggiare?

— Siamo quasi arrivati — gli disse il portiere, calmo. Girò la testa a guardare Jason. — Non mi piacciono i suoi pregiudizi razzisti. Anche se mi sta pagando cinquecento dollari.

— Per i miei gusti, ci sono neri in vita più che a sufficienza — rispose Jason.

— E quando morirà l’ultimo?

— Lei può leggermi nella mente — disse Jason. — Non c’è bisogno che le risponda.

— Cristo — disse il portiere, e tornò a concentrarsi sul traffico.

Svoltarono a destra e infilarono un vicolo stretto. Sui due lati, porte in legno chiuse a chiave, sbarrate. Nessuna insegna, lì. Solo il silenzio totale. E cumuli di vecchi detriti.

— Cosa c’è dietro quelle porte? — chiese Jason.

— Gente come lei. Persone che non possono uscire allo scoperto. Però sono diverse da lei, per un verso. Non hanno cinquecento dollari… e molto altro, se la leggo bene.

— Mi costerà una montagna di soldi ottenere le tessere d’identità — disse Jason acido. — Probabilmente tutto quello che ho.

— Non le farà pagare un prezzo esorbitante. — Il portiere fermò il trabi, invadendo per metà il marciapiede. Jason scrutò fuori, vide un ristorante abbandonato, chiuso con assi di legno, con le finestre fracassate. Dentro, buio totale. Il posto gli ispirava disgusto, ma, a quanto sembrava, era la loro destinazione. Viste le sue necessità, doveva prendere le cose come venivano; non poteva fare lo schizzinoso.

E lungo la strada avevano evitato tutti i punti di controllo e le barricate; il portiere aveva scelto un buon percorso. Quindi, tutto sommato, Jason aveva ben poco da lamentarsi.

Assieme, si avvicinarono alla porta rotta del ristorante, che penzolava sui cardini. Nessuno dei due parlò. Si concentrarono sul problema di schivare i chiodi arrugginiti che sporgevano dai fogli di compensato, inchiodati lì probabilmente per proteggere la vetrina.

— Si tenga attaccato alla mia mano — disse il portiere, tendendogli la destra nella penombra che li circondava. — Conosco la strada, e qui c’è buio. Hanno tolto l’elettricità a tutto l’isolato tre anni fa. Per cercare di spingere la gente a evacuare gli edifici. Così li avrebbero bruciati. — Aggiunse: — Ma sono rimasti quasi tutti.

La mano fredda e sudaticcia del portiere guidò Jason oltre quelli che dovevano essere tavoli e sedie, ammucchiati in cumuli irregolari di gambe e piani, decorati da ragnatele e depositi granulari di sporcizia. Alla fine, andarono a sbattere contro una parete nera, solida. Il portiere si fermò lì, lasciò andare la mano di Jason, armeggiò con qualcosa nel buio.

— Non posso aprire — disse mentre si stava dando da fare. — Si può solo dall’altro lato. Il suo lato. Le sto soltanto segnalando che siamo qui.

Una sezione di parete, cigolando, scivolò da una parte. Jason sbirciò e riuscì a vedere solo altra tenebra. E desolazione.

— Entri da qui — disse il portiere, e lo spinse avanti. La parete, dopo un attimo, si richiuse alle loro spalle.

Si accesero delle luci. Momentaneamente accecato, Jason si schermò gli occhi, poi passò in rassegna il laboratorio.

Era piccolo. Però vide parecchie macchine dall’aria molto complessa e di alta tecnologia. Sul lato opposto del locale, un banco da lavoro. Centinaia di utensili, tutti sistemati in bell’ordine lungo le pareti della stanza. Sotto il banco, grandi cartoni che probabilmente contenevano carte e documenti di ogni tipo. E una piccola macchina tipografica alimentata da un generatore autonomo.

E la ragazza. Sedeva su uno sgabello molto alto. Stava sistemando a mano una riga di caratteri tipografici. Jason notò i capelli biondo chiaro, molto lunghi ma sottili, che dalla nuca scendevano sulla camicia da lavoro di cotone. Portava i jeans, e i piedi, minuscoli, erano nudi. Dimostrava, a prima vista, quindici o sedici anni. Praticamente non aveva seno, ma le gambe erano lunghe e snelle. Come piacevano a lui. L’assenza totale di trucco conferiva al viso un colorito bianco pastello.

— Ciao — disse lei.

— Io vado — interloquì il portiere dell’hotel. — Cercherò di non spendere i cinquecento dollari tutti in una volta. — Premette un pulsante e la sezione mobile di parete scivolò di lato. Contemporaneamente le luci in laboratorio si spensero, lasciandoli di nuovo nel buio più completo.

Dal suo sgabello, la ragazza disse: — Io sono Kathy.

— Jason — rispose lui. La parete si richiuse, e le luci si riaccesero. “È proprio molto carina” pensò Jason. A parte il fatto che aveva un che di passivo, di indifferente. “Come se” pensò lui “per lei nulla abbia una vera importanza. Apatia? No” decise. Era timida. Ecco la spiegazione.

— Gli hai dato cinquecento dollari per portarti qui? — Il tono di Kathy era meravigliato. Studiò Jason con aria critica, nel tentativo di valutarlo basandosi sul suo aspetto.

— Di solito i miei abiti non sono così spiegazzati — disse Jason.

— È un bel vestito. Seta?

Lui annuì.

— Sei uno studente? — chiese Kathy, continuando a scrutarlo. — No, no. Non hai quel colorito cereo di chi vive nel sottosuolo. A questo punto, resta una sola possibilità.

— Che io sia un criminale — disse Jason. — Che stia cercando di cambiare la mia identità prima che pol e naz mi prendano.

— È così? — Kathy non diede il minimo segno di nervosismo. Era una domanda semplice, neutra.

— No. — Jason non volle insistere. Non in quel momento. Magari più tardi.

Kathy disse: — Secondo te, tanti di quei naz sono robot, non vere persone? Portano sempre le maschere antigas. È difficile capirlo sul serio.

— Mi accontento di non amarli — rispose Jason. — Senza indagare oltre.

— Che documenti ti servono? Patente? Tessera per l’archivio di polizia? Un attestato di lavoro legale?

— Tutto. Compresa la tessera d’iscrizione alla sezione Dodici del Sindacato musicisti.

— Ah, sei un musicista. — Lei lo guardò con maggiore interesse.

— Sono un cantante — disse lui. — Conduco uno show televisivo di un’ora, al martedì sera. Magari l’hai visto. Il Jason Taverner Show.

— Non ho più un televisore — disse la ragazza. — Quindi, non saprei riconoscerti. È un lavoro divertente?

— A volte. Si conosce tanta gente del mondo dello spettacolo, ed è splendido, se è questo che ti piace. Io ho scoperto che, per la maggior parte, sono persone come tutte le altre. Hanno le loro paure. Non sono perfette. Alcune sono molto divertenti, in scena e fuori.

— Mio marito mi ripeteva sempre che io non ho il senso dell’umorismo — disse la ragazza. — A lui pareva tutto divertente. Ha trovato divertente persino essere arruolato nei naz.

— E rideva ancora quando l’hanno congedato? — chiese Jason.

— Non si è mai congedato. È rimasto ucciso in un attacco a sorpresa degli studenti. Ma non è stata colpa loro. Gli ha sparato un altro naz.

— Quanto mi costerà il set completo di tessere d’identità?— chiese Jason. — Sarà meglio che tu me lo dica adesso, prima di cominciare.

— Faccio pagare quello che i clienti possono permettersi. — Kathy ricominciò a sistemare i suoi caratteri tipografici. — A te chiederò molto perché è ovvio che sei ricco. Un po’ perché hai dato cinquecento dollari a Eddy per portarti qui, un po’ per il vestito. Okay? — Si girò a lanciargli un’occhiata veloce. — O mi sbaglio? Dimmi.

— Ho con me cinquemila dollari — rispose Jason. — Cioè, cinquemila meno cinquecento. Sono un artista famoso in tutto il mondo. Una volta al mese lavoro anche al Sands. A dire il vero, mi esibisco in una quantità di club di prima qualità, quando riesco a trovare un buco nei miei numerosi impegni televisivi.

— Gesù! Mi piacerebbe tanto avere sentito parlare di te. Almeno potrei sentirmi colpita.

Lui rise.

— Ho detto qualcosa di stupido? — chiese Kathy, timidamente.

— No. Kathy, quanti anni hai?

— Diciannove. Li compio a dicembre. Ne ho quasi venti. Tu che età mi dai?

— Sui sedici.

La bocca della ragazza si piegò in una smorfia imbronciata da bambina. — È quello che dicono tutti — commentò a bassa voce. — È perché non ho seno. Se avessi seno, ne dimostrerei ventuno. E tu quanti anni hai? — Smise di armeggiare con i caratteri tipografici e fissò attentamente Jason. — Sui cinquanta, direi.

Lui fu invaso dall’ira. E dalla depressione.

— Hai l’aria di uno ferito nel suo amor proprio — disse Kathy.

— Ho quarantadue anni — rispose Jason a denti stretti.

— Be’, che differenza fa? Insomma, sono sempre…

— Veniamo al sodo — l’interruppe lui. — Dammi una penna e un pezzo di carta e ti scriverò quello che mi serve e i dati che voglio su ogni tessera. Tutto dev’essere fatto alla perfezione. Ti converrà dimostrarti in gamba.

— Ti ho fatto arrabbiare — disse Kathy — dicendo che dimostri cinquant’anni. A guardarli meglio, mi sembra di no. Ne dimostri una trentina. — Passò carta e penna a Jason, con un sorriso impacciato. Un sorriso che chiedeva scusa.

— Lasciamo perdere. —Jason le diede una pacca sulla spalla.

— Preferisco che non mi tocchino. — Kathy si ritrasse.

“Come un cerbiatto nel bosco” pensò lui. “Strano: ha paura di essere toccata, anche solo sfiorata, e non ha paura di falsificare documenti, un reato che potrebbe costarle vent’anni di carcere. Forse nessuno si è mai preso il disturbo di dirle che è contro la legge. Forse non lo sa.”

Una macchia di luce e colore sulla parete di fronte attirò la sua attenzione. Andò a esaminarla. Un manoscritto medievale sotto una sorgente di luce. O meglio, una sola pagina. Aveva letto da qualche parte della loro esistenza, ma prima di allora non gliene era mai capitato uno sotto gli occhi.

— È prezioso? — chiese.

— Se fosse l’originale, potrebbe valere un centinaio di dollari — rispose Kathy. — Ma non lo è. L’ho fatto io anni fa, quando frequentavo le medie al North American Aviation. Ho copiato l’originale dieci volte prima di ottenere il risultato giusto. Mi piace la calligrafia. Mi piaceva anche da bambina. Forse perché mio padre disegnava copertine di libri. Hai presente?

— Questo foglio ingannerebbe un esperto?

Kathy lo fissò intensamente per un attimo. Poi annuì.

— Non se ne accorgerebbe dalla carta?

— È pergamena, ed è di quel periodo. Si usa la stessa tecnica per falsificare i francobolli. Ci si procura un vecchio francobollo privo di valore, si cancella la stampa, poi… — Una pausa. — Tu non vedi l’ora che io mi metta al lavoro sui tuoi documenti.

— Sì. — Jason le passò il foglio sul quale aveva scritto i dati. Per la maggior parte si trattava delle autorizzazioni standard pol-naz per la circolazione dopo il coprifuoco, con impronte digitali e fotografie e firme olografe, il tutto con date di scadenza a breve termine. Nel giro di tre mesi avrebbe dovuto procurarsi una nuova serie di documenti falsi.

— Duemila dollari — disse Kathy, studiando la lista.

A Jason venne voglia di chiedere: “Per quella cifra ho anche il diritto di venire a letto con te?”. Invece disse: — Quanto ci vorrà? Ore? Giorni? E, se si tratta di giorni, allora quanto devo…

— Ore — rispose Kathy.

Lui fu colto da un’ondata di sollievo.

— Siediti. Tienimi compagnia. — Kathy indicò uno sgabello a tre gambe su un lato del banco da lavoro. — Puoi raccontarmi della tua carriera di star televisiva. Dev’essere affascinante. Tutti i cadaveri sui quali bisogna passare per arrivare in cima. O no?

— Sì — disse lui seccamente. — Ma non ci sono cadaveri. È un mito. La carriera si costruisce col talento, e solo col talento, non con quello che fai o dici ad altra gente al di sopra o al di sotto di te. E bisogna lavorare sodo. Non basta presentarsi e fare due passi di danza per firmare un contratto con la NBC o la cbs. Quelli sono uomini d’affari duri, con un sacco d’esperienza. Specialmente quelli dell’A R. Sono loro a decidere chi mettere sotto contratto. Sto parlando delle case discografiche. È da lì che devi cominciare per arrivare a livello nazionale. Naturalmente puoi continuare a esibirti nei club, dappertutto, finché…

— Ecco qui la tua patente — disse Kathy. Gli passò una tesserina nera. — Adesso mi metto al lavoro sul documento del tuo servizio militare. È un po’ più difficile per le fotografie di fronte e di profilo, ma sistemerò tutto là. — Gli indicò un paravento bianco. Di fronte c’era un treppiede sul quale era montata una macchina fotografica, con il flash a fianco.

— Hai tutte le attrezzature. — Jason si irrigidì davanti al paravento. Nell’arco della sua carriera gli avevano scattato tante foto che sapeva sempre esattamente dove mettersi e quale espressione assumere.

Ma, a quanto sembrava, quella volta aveva sbagliato qualcosa. Kathy lo scrutava con espressione severa.

— Sei radioso — disse come parlando tra sé. — Di una radiosità fasulla.

— Foto promozionali — rispose Jason. — Istantanee venti per venticinque…

— Non è il nostro caso. Queste devono servire a tenerti fuori da un campo di lavori forzati per il resto della vita. Non sorridere.

Lui obbedì.

— Bene. — Kathy estrasse le fotografie dalla macchina, le portò con cautela al banco da lavoro, sventolandole nell’aria per farle asciugare. — Le maledette foto animate in 3-D che vogliono sui documenti del servizio militare… Quella macchina fotografica mi è costata mille dollari e mi serve solo per questo e nient’altro… Ma devo averla. — Lo scrutò. — Ti costerà caro.

— Sì — disse lui, rigido. Se n’era già reso conto.

Kathy lavoricchiò per un po’, poi si girò di colpo verso di lui. — Chi sei, realmente? Sei abituato a metterti in posa. L’ho visto. Ti ho visto immobilizzarti con quel sorriso contento sulle labbra e quegli occhi radiosi.

— Te l’ho detto. Sono Jason Taverner. La star della televisione. Vado in onda tutti i martedì sera.

— No. — Kathy scosse la testa. — Ma non sono affari miei. Scusa. Non avrei dovuto fare domande. — Però continuò a fissarlo. Pareva quasi esasperata. — Stai facendo tutto alla rovescia. Sei davvero una celebrità. Quel tuo modo di metterti in posa è stato un riflesso automatico. Però non sei una celebrità. Non esiste un Jason Taverner che abbia qualche importanza, che sia qualcuno. Allora chi sei? Uno che si fa fotografare di continuo anche se è uno sconosciuto?

Jason rispose: — Mi sto comportando come farebbe una qualunque celebrità del tutto sconosciuta.

Lei lo scrutò per un attimo, poi rise. — Vedo. Be’, grande. Davvero grande. Me lo dovrò ricordare. — Riportò l’attenzione sul documento che stava falsificando. — Non voglio conoscere le persone per le quali lavoro. Però… — Alzò gli occhi. — Credo che mi piacerebbe conoscere te. Sei strano. Ho visto gente di tutti i tipi, centinaia, forse, ma nessuno come te. Lo sai cosa penso?

— Pensi che io sia pazzo.

— Sì. — Kathy annuì. — Clinicamente, legalmente, quello che vuoi. Sei psicotico. Hai una personalità sdoppiata. Il signor Nessuno e il signor Tutti. Come hai fatto a sopravvivere fino ad oggi?

Lui non rispose. Era impossibile da spiegare.

— Okay — disse Kathy. Uno dopo l’altro, con esperienza ed efficienza, falsificò i documenti necessari.

Eddy, il portiere dell’hotel, spuntò di nuovo sul fondo della stanza. Stava fumando un falso Avana. Non aveva niente da dire o da fare, ma per qualche oscura ragione restava lì. “Vorrei che se ne andasse” pensò Jason. “Mi piacerebbe parlare un po’ di più con Kathy…”

— Vieni con me — gli disse all’improvviso lei. Scese dallo sgabello e gli indicò una porta in legno sulla destra del banco da lavoro. — Voglio cinque copie della tua firma, ognuna un po’ diversa dall’altra, in modo che non si possano sovrapporre. È qui che tanti documentatori… — Sorrise mentre apriva la porta. — Noi ci chiamiamo così… È qui che tanti di noi mandano tutto a puttane. Si procurano una sola firma e la trasferiscono su tutti i documenti. Afferri?

— Sì — rispose lui, entrando con Kathy nella stanzetta umida di muffa che sembrava un ripostiglio.

Lei chiuse la porta, fece una pausa, poi disse: — Eddy è una spia della polizia.

Lui la fissò. — Perché?

— Perché? Perché cosa? Perché è una spia della polizia? Per i soldi. Per lo stesso motivo per cui lo sono anch’io.

— Dio vi stramaledica! — Jason la afferrò per il polso destro, la attirò a sé. Lei fece una smorfia sotto la presa della dita. — E ha già…

— Eddy non ha ancora fatto niente — ansimò lei, cercando di liberare il polso. — Mi fai male. Senti, calmati e ti farò vedere. Okay?

Riluttante, con il cuore che gli martellava nel petto, Jason la lasciò andare. Kathy accese una piccola lampada molto luminosa e spostò tre dei documenti falsificati nel fascio di luce. — Una chiazza color porpora sui margini — disse, e indicò i cerchietti quasi invisibili. — Un microtrasmettitore. Emetterai un bip ogni cinque secondi. Vanno in cerca di cospiratori. Vogliono la gente che sta con te.

Jason ribatté con voce roca: — Io non sto con nessuno.

— Ma loro non lo sanno. — Kathy si massaggiò il polso con una smorfia da ragazzina imbronciata. — Certo che voi celebrità televisive del tutto sconosciute avete i riflessi rapidi — mormorò.

— Perché me l’hai detto? — chiese Jason. — Dopo avere falsificato i documenti, dopo…

— Voglio che tu riesca a scappare — rispose lei con semplicità.

— Perché? — Lui continuava a non capire.

— Perché, per la miseria, tu hai qualcosa di magnetico. Me ne sono accorta appena sei entrato. Sei… — Kathy cercò la parola. — Sexy. Anche alla tua età.

— La mia presenza.

— Sì. — Lei annuì. — L’ho già visto in altri personaggi pubblici, da lontano, ma mai tanto da vicino. Capisco benissimo perché immagini di essere una star televisiva. Lo sembri sul serio.

— E come faccio a scappare? — chiese lui. — Me lo dici tu? O mi costerà anche questo?

— Dio, come sei cinico.

Lui rise, la afferrò di nuovo per il polso.

— Ma non credo di avercela con te. — Kathy scosse la testa, assunse un’espressione da maschera impenetrabile. — Per prima cosa potresti comperare Eddy. Altri cinquecento dollari dovrebbero bastare. In quanto a me, non dovrai comperarmi. Se, e solo se, e non scherzo, se resterai con me per un po’. Sei… seducente, come un buon profumo. Reagisco alla tua presenza, ed è una cosa che non mi capita mai con gli uomini.

— Con le donne, allora? — chiese Jason, acido.

Kathy ignorò la frase. — Resterai?

— Al diavolo — disse lui. — Me ne andrò. — Tese la mano, aprì la porta alle spalle di Kathy, la superò e tornò in laboratorio. Lei lo seguì immediatamente.

Lo raggiunse, tra le ombre vuote e indecifrabili del ristorante abbandonato. Lo guardò dritto in faccia nella tenebra. Ansimava. — Ti hanno già messo addosso un trasmettitore.

— Ne dubito.

— È vero. È stato Eddy.

— Stronzate — disse lui, e si allontanò verso la luce della porta rotta, penzolante, del ristorante.

Kathy gli tenne dietro come un erbivoro lesto di piedi. Ansimò: — Ma supponi che sia vero. Potrebbe essere. — Sull’ingresso, praticabile solo a metà, si interpose tra Jason e la libertà. Si fermò a mani levate, come per schivare un colpo, e disse: — Resta con me una sola notte. Vieni a letto con me. Okay? Basterà, te lo prometto. Lo farai, per una sola notte?

Lui pensò: “Una parte delle mie capacità, delle mie supposte e ben note doti, è ancora con me. Si è trasferita in questo strano mondo nel quale vivo ora. In questo posto dove io non esisto, se non su documenti falsificati da un’informatrice della polizia. Inquietante” e rabbrividì. “Tessere d’identità fornite di microtrasmettitori per tradirmi, per consegnare me e tutti quelli che stanno con me ai pol. Non me la sto cavando molto bene, qui. A parte il fatto che sono seducente, come dice lei. Gesù. E la capacità di seduzione è l’unica cosa che stia tra me e un campo di lavori forzati.”

— Okay — disse allora. Gli sembrava la scelta più saggia, di gran lunga.

— Vai a pagare Eddy — disse Kathy. — Chiudi la faccenda con lui. Fallo sparire da qui.

— Mi chiedevo perché si trattenesse ancora nei paraggi. Ha fiutato altro denaro?

— Probabilmente sì — rispose lei.

— Voi due lo fate sempre — disse Jason, mentre tirava fuori le banconote. pos: Procedura Operativa Standard. E lui si era lasciato infinocchiare.

Kathy rispose allegramente: — Eddy è psionico.

4

A due isolati di distanza, all’ultimo piano di un edificio con una facciata un tempo verniciata di bianco e ora completamente scrostata, Kathy aveva un monolocale con un piccolo angolo cottura che era appena sufficiente per preparare da mangiare a una sola persona.

Jason si guardò attorno. Una stanza da ragazza: il letto, una specie di brandina, aveva una coperta fatta a mano, file su file di pompon verdi. “Quasi un cimitero militare” pensò lui lugubre, mentre si aggirava nel locale. Si sentiva oppresso dalle dimensioni minuscole della stanza.

Su un tavolino di vimini c’era una copia di Alla ricerca del tempo perduto di Proust.

— Fin dove sei arrivata? — le chiese.

All’ombra delle fanciulle in fiore. — Kathy diede due giri di chiave e attivò una specie di congegno elettronico. Jason non capì di cosa si trattava.

— Non è molto — le disse.

Lei si tolse la giacca di plastica. — E tu dove sei arrivato? — Appese la giacca in un armadietto, assieme a quella di Jason.

— Non l’ho mai letto — rispose lui. — Ma nel mio show abbiamo fatto la riduzione televisiva di una scena. Non so quale. Sono arrivate un sacco di lettere di complimenti, ma non abbiamo mai ripetuto l’esperimento. Con cose del genere bisogna stare attenti a non esagerare. Altrimenti, si tagliano le gambe a tutti gli altri, a tutte le reti, per il resto dell’anno. — Si aggirò, per quel che era possibile, nella stanza. Studiò un libro qui, una videocassetta là, una microrivista. Kathy aveva persino un giocattolo parlante. “Come una bambina” pensò lui. “Non è una vera adulta.” Incuriosito, accese il giocattolo parlante.

— Ciao! — disse quello. — Sono Charley l’Allegrone e sono sintonizzato sulla tua lunghezza d’onda cerebrale.

— Nessuno che si chiami Charley l’Allegrone è sintonizzato sulla mia lunghezza d’onda cerebrale — disse Jason. Fece per spegnerlo, ma il giocattolo protestò. — Scusa — disse Jason, — ma ti metto a tacere, piccolo farabutto.

— Ma io ti amo! — si lamentò con voce esile Charley l’Allegrone.

Lui fermò il dito che stava per premere il pulsante. — Allora dimostramelo — rispose Jason. Nel suo show aveva fatto promozioni pubblicitarie per spazzatura come quella. Tutti prodotti che odiava. Senza discriminazioni. — Dammi dei soldi.

— So come puoi riavere il tuo nome, la fama e la bella vita — lo informò Charley l’Allegrone. — Va bene per cominciare?

— Sicuro.

Charley l’Allegrone piagnucolò: — Vai a trovare la tua ragazza.

— Di chi stai parlando? — chiese lui, cauto.

— Di Heather Hart — trillò Charley l’Allegrone.

— Fuochino. — Jason premette la lingua contro gli incisivi superiori. Annuì. — Altri consigli?

— Ho sentito parlare di Heather Hart. — Kathy prese dall’armadietto frigorifero appeso alla parete una bottiglia di succo d’arancia. Era già vuota per tre quarti. Kathy la agitò, versò lo schiumoso surrogato istantaneo in due bicchieri di plastica. — È molto bella. Ha quei lunghi capelli rossi. È davvero la tua ragazza? Ha ragione Charley?

— Lo sanno tutti — rispose Jason — che Charley l’Allegrone ha sempre ragione.

— Già. Suppongo che sia vero. — Kathy versò del pessimo gin, il Mountbatten’s Privy Seal Finest, nel succo d’arancia. — Screwdriver — annunciò, fiera di sé.

— No, grazie — disse lui. — Non a quest’ora. — “Nemmeno se ci fosse dello scotch b l imbottigliato in Inghilterra” pensò. “Questa maledetta stanza così piccola… Ma lei non guadagna niente falsificando documenti e facendo la spia per la polizia? È davvero un’informatrice come dichiara? Strano. Magari fa tutte e due le cose. Magari nessuna.”

— Chiedi! — cinguettò Charley l’Allegrone. — Vedo che hai in mente qualcosa, mister. Tu, bastardone. Proprio tu.

Lui lo ignorò. — Questa ragazza… — cominciò, ma Kathy gli strappò all’istante Charley l’Allegrone e lo tenne stretto in mano. Aveva le narici dilatate per l’indignazione.

— Col cavolo che chiederai delle informazioni su di me al mio Charley l’Allegrone — disse. Inarcò un solo sopracciglio. “Come un uccello selvatico” pensò lui “che si muove in danze complicate per proteggere il nido.” Rise.

— Cosa c’è di tanto divertente? — domandò Kathy.

— Quei giocattoli parlanti sono più d’impiccio che d’aiuto. Dovrebbero proibirli. — Jason si allontanò da Kathy, si spostò al portatelevisore. Il piano era coperto di posta. Distrattamente, si mise a frugare tra le buste, e notò che nessuna di quelle che contenevano bollette o fatture era stata aperta.

— È roba mia — disse Kathy sulla difensiva, scrutandolo.

— Ricevi parecchie fatture — disse lui — per una che vive in uno schifo di monolocale. Comperi i vestiti, o che altro, da Metter’s? Interessante.

— Ho… una taglia difficile da trovare.

— E scarpe di Sax Crombie.

— Nel mio lavoro… — cominciò lei, ma lui l’interruppe con un cenno nervoso della mano.

— Risparmia il fiato — grugnì.

— Guarda nel mio armadio. Non ci troverai molto. Niente di straordinario, però quel che ho è di buona qualità. Preferisco avere poche cose belle… — Kathy tacque un istante. — Insomma, hai capito. Piuttosto che quintali di robaccia.

Jason disse: — Hai un altro appartamento.

Colpì il bersaglio. Gli occhi di Kathy guizzarono, e lei guardò dentro se stessa in cerca di una risposta. Il che, per lui, non era poco.

— Andiamo là — disse. Ne aveva abbastanza di quella stanzetta senza spazio per muoversi.

— Non ti ci posso portare — rispose Kathy — perché lo divido con altre due ragazze, e, in base ai turni che abbiamo stabilito, oggi tocca a…

— è chiaro che non volevi fare colpo su di me. — La cosa lo divertiva. Però lo irritava anche: si sentiva svilito, anche se in maniera confusa.

— Ti ci avrei portato, se oggi fosse stato il mio giorno — disse Kathy. — È per questo che non posso lasciare il monolocale. Devo pur andare da qualche parte quando non è il mio giorno. Il mio prossimo turno sarà venerdì. Da mezzogiorno in poi. — Il suo tono era diventato sincero, come se le stesse molto a cuore convincere Jason. Probabilmente, rifletté lui, era proprio così. Ma l’intera situazione lo irritava. Lei e tutta quanta la sua vita. Aveva la sensazione di essere stato afferrato da qualcosa che lo stava trascinando verso abissi a lui sconosciuti, forse persino verso i suoi vecchi orribili tempi. E non gli piaceva.

All’improvviso desiderò trovarsi fuori di lì. L’animale in trappola era lui.

— Non guardarmi in quel modo — disse Kathy, sorseggiando il suo Screwdriver.

Tra sé e sé, ma ad alta voce, Jason disse: — Hai spalancato la porta della vita con la tua grande, ottusa testa. E ora non si può più richiudere.

— Da dove l’hai presa? — chiese Kathy.

— È roba mia.

— Ma sembra una poesia.

— Se guardassi il mio show, sapresti che ho spesso delle uscite poetiche di questo genere.

Kathy lo soppesò con calma. — Adesso guardo i programmi televisivi e vedo se ci sei. — Appoggiò sulla cucina lo Screwdriver e frugò tra i vecchi giornali ammucchiati ai piedi del tavolino di vimini.

— Io non sono nemmeno nato — disse lui. — Ho controllato.

— E non c’è traccia del tuo show. — Kathy piegò la pagina degli spettacoli e studiò i programmi televisivi.

— Esatto — aggiunse Jason. — Così adesso hai tutte le risposte sul mio conto. — Batté la mano sulla tasca del panciotto che conteneva le tessere falsificate. — Comprese queste. Con i loro microtrasmettitori, se è vero.

— Ridammi i documenti — disse Kathy — e toglierò i microtrasmettitorì. Ci vorrà solo un secondo. — Tese la mano.

Lui le restituì le tessere.

— Non ti interessa che lo faccia? — chiese Kathy.

Lui rispose, in tutta sincerità: —No. In effetti, no. Ho perso la capacità di capire cosa sia bene o male, vero o falso. Se vuoi togliere quella roba, accomodati pure. Se ti fa piacere.

Un attimo dopo lei gli restituì le tessere, con quel suo sorriso caliginoso da sedicenne.

Scrutando la sua giovinezza, la sua innata radiosità, lui disse: — “Mi sento vecchio come quell’olmo laggiù.”

Finnegans Wake — disse Kathy, contenta. — Quando le vecchie lavandaie al tramonto si confondono con alberi e rocce.

— Hai letto Finnegans Wake? — Jason era sorpreso.

— Ho visto il film. Quattro volte. Mi piace Hazeltine. Penso che sia il miglior regista vivente.

— È stato ospite del mio show. Vuoi sapere com’è nella vita reale?

— No — rispose Kathy.

— Forse dovresti.

— No — ripeté lei, scuotendo la testa. La sua voce era salita di tono. — E non cercare di dirmelo, okay? Crederò quello che voglio, e tu credi quel che ti pare. Va bene?

— Ma certo. — Jason provò un moto di simpatia. La verità, aveva spesso riflettuto, è sopravvalutata come virtù. Nella maggioranza dei casi, una bugia comprensiva ottiene risultati migliori ed è più misericordiosa. Soprattutto tra uomo e donna. Anzi, tutte le volte che c’è di mezzo una donna.

Ovviamente, a voler essere precisi, quella non era una donna ma una ragazza. Quindi Jason decise che la bugia pietosa era ancora più necessaria.

— È uno studioso e un artista — disse.

— Sul serio? — Lei lo guardò speranzosa.

— Sì.

Kathy sospirò di sollievo.

— Allora credi — disse lui, affondando il colpo — che io abbia conosciuto Michael Hazeltine, il miglior regista cinematografico vivente, come hai detto tu stessa. Quindi credi che io sia un Sei… — Si interruppe. Non era quello che intendeva dire.

— Un Sei — gli fece eco Kathy. Corrugò la fronte come se stesse cercando di ricordare. — Ne ho letto su “Time”. Ma non sono tutti morti? Il governo non li ha fatti fucilare dopo che quel tizio, il loro leader… Come si chiamava…? Teagarden. Sì, esatto. William Teagarden. Be’, ha cercato di mettere in piedi, come si dice?, un colpo di Stato contro i naz federali. Ha cercato di fare sciogliere il corpo perché era un’organizzazione parimutuale illegale…

— Paramilitare — la corresse Jason.

— Non t’interessa niente di quel che sto dicendo.

— Sì che m’interessa — rispose lui, sincero. Aspettò. La ragazza non andò avanti. — Cristo! — abbaiò lui. — Finisci quello che stavi dicendo!

— Mi pare — disse alla fine Kathy — che siano stati i Sette a far fallire il colpo di Stato.

Jason pensò: “Sette”. In vita sua, non aveva mai sentito parlare dei Sette. Nulla avrebbe potuto scioccarlo di più. “Che fortuna” pensò “che mi sia scappato quel lapsus linguae. Ho imparato qualcosa di nuovo. Finalmente. In questo labirinto di confusione e di mezza realtà.”

Una piccola sezione di parete si socchiuse cigolando, e nella stanza entrò un gatto, bianco e nero e molto giovane. Kathy lo raccolse subito dal pavimento. Si illuminò in volto.

— La filosofia di Dinman — disse Jason. — Il gatto obbligatorio. — Conosceva quel punto di vista; anzi, aveva presentato Dinman al pubblico televisivo in uno dei suoi special autunnali.

— No. È solo che lo amo. — Con occhi che brillavano, Kathy porse il gatto a Jason per farglielo esaminare.

— Però credi — disse lui accarezzando la testolina del gatto — che possedere un animale aumenti l’empatia di una persona…

— Ma figuriamoci! — Kathy stringeva il gatto alla gola come se fosse una bimba di cinque anni con il suo primo animaletto. L’adorata cavia di un progetto di ricerca per la scuola. — Ti presento Domenico — disse.

— In onore di Domenico Scarlatti? — chiese lui.

— No. In onore del Domenico’s Market in fondo alla strada. Ci siamo passati davanti venendo qui. Quando sto nell’appartamento più piccolo, questa stanza, faccio spesa lì. Domenico Scarlatti è un musicista? Mi pare di averne sentito parlare.

Jason disse: — L’insegnante di inglese di Abramo Lincoln alle superiori.

— Oh… — Lei annuì distrattamente e si mise a cullare il gatto.

— Ti sto prendendo in giro — disse lui, — ed è una cattiveria. Mi spiace.

Kathy, continuando a stringere il gatto, alzò su Jason due occhioni ingenui. — Non riesco mai ad accorgermi della differenza — mormorò.

— Ecco perché è una cattiveria.

— Perché? Se non me ne rendo nemmeno conto, be’, significa solo che sono un’idiota. No?

— Tu non sei un’idiota. Hai solo poca esperienza. — Jason calcolò, a spanne, la differenza d’età fra loro due. — Ho vissuto più del doppio di te — le fece notare. — E negli ultimi dieci anni mi sono trovato in una posizione che mi ha permesso di entrare in contatto con alcune delle più famose persone del pianeta. E…

— E — disse Kathy — sei un Sei.

Non aveva scordato il lapsus dì Jason. Ovvio. Lui poteva raccontarle un milione di cose, e lei le avrebbe dimenticate tutte nel giro di dieci minuti, tranne quell’unico vero sbaglio. Così va il mondo. Con gli anni, Jason si era abituato; era uno dei tratti che si acquisivano arrivando alla sua età, così lontana da quella di Kathy.

— Cosa significa Domenico per te? — Jason cambiò discorso. Si rese conto che era una crudeltà, ma proseguì lo stesso. — Cosa ti dà di più degli esseri umani?

Lei aggrottò la fronte, divenne pensosa. — Ha sempre da fare. È sempre impegnato in qualche progetto. Come seguire un insetto. È bravissimo con le mosche. Ha imparato a prenderle e a mangiarle. — Un sorriso disarmante. — E con lui non devo chiedermi se denunciarlo al signor McNulty. McNulty è il mio contatto nei pol. Gli passo i ricevitori analogici per i microtrasmettitori, quei puntini che ti ho fatto vedere…

— E lui ti paga.

Lei annuì.

— Eppure guarda come vivi.

— Non… — Kathy andò in cerca di una risposta. — Non mi capitano molti clienti.

— Idiozie. Sei in gamba. Ti ho vista lavorare. Hai esperienza.

— Un talento naturale.

— Un talento allenato.

— Okay. Tutti i soldi finiscono nell’appartamento dei quartieri alti. Il mio appartamento grande. — Kathy strinse i denti. Non le piacevano gli interrogatori.

— No. — Jason non ci credeva.

Kathy fece una pausa. Poi: — Mio marito è vivo. È in un campo di lavori forzati in Alaska. Sto cercando di comperargli la libertà passando informazioni al signor McNulty. Tra un anno… — Scrollò le spalle. Adesso la sua espressione era malinconica, da introversa. — Lui dice che Jack potrà uscire. E tornare qua.

“E così” pensò lui “tu spedisci altra gente nei campi per tirare fuori tuo marito. Il tipico accordo degno della polizia. Probabilmente è vero.”

— Un affare fantastico per loro — disse. — Perdono un uomo e ne guadagnano… Quanti diresti di averne fregati per conto loro? Decine? Centinaia?

Lei rifletté. — Forse centocinquanta.

— È una malvagità — disse lui.

— Davvero? — Kathy lo scrutò con occhi nervosi, stringendo Domenico al seno piatto. Poi, lentamente, andò in collera. Glielo si poteva leggere in volto, e dalla stretta feroce sul gatto contro il petto. — Un accidente! — ribatté decisa, scuotendo la testa. — Io amo Jack e lui ama me. Mi scrive di continuo.

Lui fu crudele. — Lettere falsificate. Certamente da qualcuno dei pol.

Dagli occhi di Kathy sgorgarono lacrime in quantità sorprendente. Le offuscarono lo sguardo. — Credi? A volte lo penso anch’io. Vuoi guardarle? Riusciresti ad accorgertene?

— È probabile che non siano false. È più economico e semplice tenerlo in vita e lasciargli scrivere le lettere. — Jason sperò che quella risposta la facesse sentire meglio, ed evidentemente fu così. Le lacrime si fermarono.

— Non ci avevo pensato. — Lei annuì, ma continuò a non sorridere. Fissò lo sguardo nel vuoto, cullando automaticamente il gattino.

— Se tuo marito è vivo… — Jason, adesso, ci andò cauto. — Pensi che sia il caso che tu vada a letto con altri uomini, per esempio con me?

— Ma certo. Jack non ha mai fatto obiezioni. Anche prima che lo arrestassero. E sono sicura che non le farà adesso. A dire il vero, me ne ha parlato in una lettera. Vediamo, dev’essere stato forse sei mesi fa. Credo che dovrei riuscire a trovarla. Le ho tutte su microfilm. In laboratorio.

— Perché?

— A volte ne faccio leggere qualcuna ai clienti. Così poi potranno capire perché ho fatto quel che ho fatto.

A quel punto, Jason francamente non sapeva più quali emozioni provasse per lei, o quali dovesse provare. Gradualmente, con gli anni, Kathy era stata coinvolta in una situazione dalla quale non poteva più uscire. E nemmeno lui vedeva altre vie di fuga per lei; la faccenda era andata avanti per troppo tempo. I semi del male erano stati gettati e lasciati crescere.

— Non puoi più tornare indietro. — Lo sapeva, e sapeva che lei lo sapeva. — Ascolta — le disse in tono dolce. Le appoggiò una mano sulla spalla, ma Kathy, come prima, si ritrasse immediatamente. — Di’ ai pol che lo vuoi libero subito, e che non gli consegnerai altre persone.

— Lo libererebbero, se dicessi questo?

— Provaci. — Di certo quel tentativo non avrebbe potuto produrre delle gravi conseguenze. Però poteva immaginare McNulty, e come apparisse agli occhi della ragazza. Non sarebbe mai riuscita ad affrontarlo; i McNulty del mondo intero non si lasciano affrontare da nessuno. Tranne quando succede qualcosa di molto strano.

— Lo sai cosa sei? — disse Kathy. — Sei una persona molto buona.

Lui scrollò le spalle. Come tante verità, era questione d’opinioni. Forse era proprio così. In quella situazione, perlomeno. Non in altre. Ma Kathy non lo sapeva.

— Siediti — le disse. — Coccola il gatto e bevi il tuo Screwdriver. Non pensare a niente. Ci riesci? Sei capace di svuotare la mente per un po’? Provaci. — Le portò una sedia; e lei, obbediente, sedette.

— Lo faccio sempre — disse con voce vacua, cupa.

— Ma fallo in modo positivo.

— Cosa vorresti dire?

— Fallo per un vero scopo, non solo per cercare di sfuggire a verità sgradevoli. Fallo perché ami tuo marito e lo vuoi riavere. Perché vuoi che tutto torni a essere come prima.

— Sì — convenne lei. — Ma adesso ho incontrato te.

— E questo cosa significa? — Jason tornò a essere più cauto. Quella risposta lo lasciava perplesso.

— Sei più magnetico di Jack. È magnetico anche lui, ma tu lo sei molto di più. Magari, dopo avere conosciuto te, non riuscirò più ad amarlo sul serio. O tu pensi che si possano amare due persone con la stessa intensità ma in modi diversi? Il conduttore del mio gruppo di terapia dice di no. Dice che devo scegliere. Dice che è uno degli aspetti basilari della vita. Il fatto è che è già successo. Ho incontrato diversi uomini più magnetici di Jack… Però nessuno quanto te. Adesso non so proprio cosa fare. È molto difficile decidere su cose simili perché non ne puoi parlare con nessuno. Nessuno capisce. Bisogna cavarsela da soli, e a volte si fanno le scelte sbagliate. Per esempio, come se io scegliessi te al posto di Jack e poi lui tornasse e a me non fregasse più niente di lui: cosa succederebbe? Cosa proverebbe lui? È importante, ma è importante anche quello che provo io. Se tu, o qualcun altro come te, mi piace più di lui, devo dare via libera a quel che sento, questo almeno secondo il mio gruppo di terapia. Lo sapevi che sono stata in un ospedale psichiatrico per otto settimane? Il Morningside Mental Hygiene Relations di Atherton. Me l’hanno pagato i miei. È costato una fortuna, perché non avevano diritto alle sovvenzioni federali. Comunque, là ho imparato tante cose su di me e mi sono fatta un sacco di amici. La maggior parte della gente che conosco davvero l’ho incontrata al Morningside. Certo, quando li ho visti per la prima volta ero convinta che fossero gente famosa, come Mickey Quinn e Arlene Howe. Insomma, celebrità. Come te.

Lui disse: — Conosco sia Quinn che la Howe. Non ti sei persa niente.

Kathy lo scrutò. — Forse non sei una celebrità. Forse sono regredita al mio periodo delle illusioni. Hanno detto che probabilmente mi sarebbe successo, prima o poi. Ora è capitato.

— Il che — fece notare Jason — mi renderebbe una tua allucinazione. Sforzati di più. Non mi sento del tutto reale.

Lei rise. Ma il suo umore restò piuttosto cupo. — Non sarebbe strano se ti avessi inventato io, come hai appena detto? Se guarissi del tutto, tu scompariresti.

— Non scomparirei. Però smetterei di essere una celebrità.

— Hai già smesso di esserlo. — Kathy alzò la testa e lo fissò senza timori. — Ecco perché, forse. Ecco perché sei una celebrità che nessuno ha mai sentito nominare. Ti ho creato io. Sei un prodotto della mia mente in preda alle illusioni, e adesso sto recuperando la sanità mentale.

— Una visione solipsistica dell’universo…

— Per favore, lo sai che non ho idea di cosa significhino parole come quella. Che razza di persona credi che io sia? Non sono famosa e potente come te. Sono solo una che fa un lavoro orribile, mostruoso, e fa finire della gente in prigione perché amo Jack più di tutto il resto della specie umana. Stai a sentire. — Il tono di Kathy diventò deciso, fermo. — L’unica cosa che mi abbia riportata alla normalità è stato il fatto di amare Jack più di Mickey Quinn. Io pensavo che quel ragazzo, quel David, fosse Mickey Quinn, e che fosse un gran segreto che Mickey Quinn fosse uscito di testa e si fosse fatto ricoverare in quell’ospedale per rimettersi in forma, e nessuno doveva saperne niente perché avrebbe rovinato la sua immagine. Così lui faceva finta di chiamarsi David. Però io sapevo. O piuttosto, credevo di sapere. E il dottor Scott ha detto che dovevo scegliere tra Jack e David, o Jack e Mickey Quinn, qualunque cosa pensassi. E ho scelto Jack. Così ne sono uscita. Magari… — Ebbe un attimo di instabilità sulle gambe. Le tremò il mento. — Magari adesso riesci a capire perché devo credere che Jack sia più importante di tutto e di tutti, o comunque di tanta altra gente. Lo capisci?

Jason capiva. Annuì.

— Anche di uomini come te — disse Kathy. — Uomini che sono più magnetici di lui. Nemmeno voi potete strapparmi da Jack.

— Ma io non voglio farlo. — Gli parve una buona idea chiarire quel punto.

— Sì. Sì che vuoi. È una competizione.

— Per me — disse lui, — tu sei solo una ragazzina in una stanzetta di un piccolo edificio. Per me, l’intero mondo è mio, con tutti quelli che ci vivono.

— Non se ti trovi in un campo di lavori forzati.

Dovette darle ragione. Kathy aveva l’irritante abitudine di far sparare a salve le armi della retorica.

— Adesso cominci a capire, vero? — chiese lei. — Di me e di Jack, e del perché posso venire a letto con te senza fare un torto a Jack. Sono andata a letto con David quando eravamo al Morningside, ma Jack ha capito. Sapeva che dovevo farlo. Tu avresti capito?

— Se eri dissociata…

— No, non per quello. Perché era destino andare a letto con Mickey Quinn. Bisognava farlo. Io stavo svolgendo il mio ruolo cosmico. È chiaro?

— Okay — rispose lui dolcemente.

— Credo di essere ubriaca. — Kathy guardò il suo Screwdriver. — Hai ragione, è troppo presto per bere uno di questi. — Mise giù il bicchiere mezzo vuoto. — Jack ha capito. O comunque ha detto di avere capito. Avrebbe potuto mentire? Per non perdermi? Perché se avessi dovuto scegliere tra lui e Mickey Quinn… — Una pausa. — Ma ho scelto Jack. Lo sceglierei sempre. Però ho dovuto andare a letto lo stesso con David. Volevo dire, con Mickey Quinn.

“Mi trovo coinvolto in questa situazione con una creatura complicata, affetta da problemi molto bizzarri” si disse Jason Taverner. “Conciata male come Heather Hart. Anzi, peggio. L’essere umano più disturbato che io abbia incontrato in quarantadue anni. Ma come faccio a liberarmene senza che McNulty ne sappia qualcosa? Cristo. Magari non me ne libererò mai. Magari lei continuerà a giocare con me finché non si sentirà annoiata, poi chiamerà i pol. E io resterò fregato.”

— Tu pensi che ti denuncerò, dopo che sarai venuto a letto con me — disse Kathy.

Non voleva ancora arrivare a quel punto. Però l’ipotesi, in linea generale, era proprio quella. Quindi, scegliendo le parole con cautela, lui le rispose: — Credo che tu, con questo tuo modo di fare sincero, innocente, da diciannovenne, abbia imparato a usare la gente. Il che mi pare orribile. E quando hai cominciato, non riesci più fermarti. Non ti rendi nemmeno conto di farlo.

— Non ti consegnerei mai ai pol. Io ti amo.

— Mi conosci da cinque ore. Anzi, nemmeno.

— Ma capisco sempre quando m’innamoro. — Il tono e l’espressione di Kathy erano decisi. E solenni.

— Non sai nemmeno di preciso chi io sia!

Lei disse: — Non so mai chi sia chiunque.

Su questo, evidentemente, non c’era da discutere. Così Jason tentò un altro approccio. — Senti, tu sei una strana combinazione di innocente romantica e… — Si interruppe. Gli era venuto in mente il termine “traditrice”, ma lo scartò subito. — … E di sottile manipolatrice. Una che sa fare i suoi calcoli. — “Sei” pensò “una prostituta mentale. Perché è la tua mente a prostituirsi. Anche se non lo ammetteresti mai. E, se lo ammettessi, sosterresti di esserci stata costretta. Già, costretta, ma da chi? Da Jack? Da David? No, da te stessa. Perché vuoi avere due uomini contemporaneamente, e ci riesci.

“Povero Jack” pensò. “Povero stronzo. Te ne stai a spalare merda in un campo di lavori forzati in Alaska e aspetti che questo relitto umano dai percorsi cerebrali tanto contorti ti salvi.”

Quella sera, senza convinzione, cenò con Kathy in una specie di ristorante italiano, a un isolato di distanza dal monolocale. A quanto pareva, lei conosceva il proprietario e i camerieri, anche se molto superficialmente; comunque, loro la salutarono e lei rispose con aria assente, come se li avesse uditi appena. O come se avesse solo una consapevolezza approssimativa di dove si trovasse.

“Ragazzina” si chiese, “a cosa stai pensando realmente?” — Le lasagne sono ottime — disse Kathy, senza guardare il menu. Adesso pareva lontanissima. Si stava allontanando sempre di più, attimo dopo attimo. Jason intuì che era prossima a una crisi. Ma non conosceva Kathy a sufficienza; non sapeva in quale modo si sarebbe manifestata. E quell’idea non gli piaceva.

— Quando ti viene una crisi — chiese improvvisamente, nel tentativo di coglierla alla sprovvista, — cosa fai?

— Oh… — La voce di lei era incolore. — Mi butto sul pavimento e urlo. Oppure tiro calci. A chiunque tenti di fermarmi. A chi interferisce con la mia libertà.

— Credi di volerlo fare adesso?

Lei alzò la testa. — Sì. — Il suo viso, notò Jason, era diventato una maschera dai tratti distorti. Ma gli occhi restavano perfettamente asciutti. Quella volta non ci sarebbero state lacrime. — Non ho preso le mie medicine: venti milligrammi di Actozine al giorno.

— Perché? — Non le prendevano mai. Jason aveva notato quel comportamento molte volte.

— Mi annebbiano la mente. — Kathy si toccò il naso con l’indice, come impegnata in un complesso rituale che doveva essere eseguito in modo assolutamente perfetto.

— Ma se ti…

Lei lo interruppe in modo secco. — Non possono combinare casini con la mia mente. Non permetto a nessuno psicofarmaco di agire su di me. Lo sai cos’è uno psicofarmaco?

— L’hai appena detto tu. — Jason rispose in tono calmo e pacato, mantenendo la concentrazione su di lei. Come se stesse cercando di trattenerla lì, di non far disgregare la sua mente.

Arrivò il cibo. Era disgustoso.

— Non è meravigliosamente italiano? — chiese Kathy, arrotolando gli spaghetti sulla forchetta con maestria.

— Sì — rispose lui senza convinzione.

— Tu pensi che stia per venirmi una crisi. E non vuoi restarne coinvolto.

— Esatto.

— Allora vattene.

— Tu… — Jason esitò. — Tu mi piaci. Voglio assicurarmi che non ti succeda niente di male. — Una bugia benevola, del tipo che lui approvava. Gli sembrava meglio che dire: “Se me ne vado di qui, tra venti secondi tu telefonerai a McNulty”. Il che, in effetti, era esattamente la situazione in cui si trovava.

— Andrà tutto bene. Mi porteranno a casa. — Con un cenno vago della mano, Kathy indicò all’intorno i clienti, i camerieri, la cassiera. Il cuoco che sudava nella cucina surriscaldata e poco ventilata. Un ubriaco al banco, che giocherellava con il bicchiere di birra Olympia.

Jason, dopo un puntuale calcolo mentale, ragionevolmente certo di fare la cosa giusta disse: — Tu non ti assumi mai delle responsabilità.

— Per chi? Non mi assumo responsabilità per la tua vita. Se è questo che intendi. È compito tuo. Non scaricarlo sulle mie spalle.

— Responsabilità — disse lui — per le conseguenze che i tuoi atti avranno su altri. Da un punto di vista etico, tu vai alla deriva. Stabilisci un contatto qui, uno là, poi torni in immersione. Come se nulla fosse successo. E lasci che siano gli altri a dover rimettere insieme i pezzi.

Kathy alzò la testa di nuovo e lo fissò negli occhi. — Ti ho fatto del male? Ti ho salvato dai pol. Ecco cos’ho fatto per te. Ho sbagliato? È così? — La sua voce si alzò di tono. Fissava Jason senza misericordia, a occhi sbarrati, con la forchettata di spaghetti ancora in mano.

Lui sospirò. Non c’era via d’uscita. — No. Non hai sbagliato. Grazie. Te ne sono grato. — E, mentre lo diceva, provò un’ondata di odio per Kathy. Che lo aveva messo in trappola in quel modo. Una stupida Ordinaria di diciannove anni che chiudeva in angolo un Sei adulto come lui: era tutto così improbabile da sembrare assurdo. Avrebbe avuto quasi voglia di ridere. Ma non era il caso.

— Stai reagendo al mio calore umano? — chiese lei.

— Sì.

— Senti arrivarti il mio amore, vero? Ascolta. Lo puoi quasi udire. — Kathy si concentrò. — Il mio amore sta crescendo, ed è un giovane virgulto.

Jason fece un cenno al cameriere. — Cos’avete da offrire? — chiese in tono brusco. — Solo birra e vino?

— Ed erba, signore. Acapulco Gold della migliore qualità. E hashish. Eccellente.

— Ma niente superalcolici.

— No, signore.

Lui congedò il cameriere.

— L’hai trattato da servo — disse Kathy.

— Già. — Jason emise un gemito. Chiuse gli occhi e si massaggiò il naso. Tanto valeva andare sino in fondo; dopo tutto, era già riuscito a innescare l’ira di Kathy. — Il cameriere è penoso, e questo è un ristorante indecente. Usciamo.

La voce di Kathy era acida. — Oh, ecco cosa significa essere una celebrità. Capisco. — Mise giù, con calma, la forchetta.

— Cosa pensi di avere capito? — ribatté lui, senza più argini. Ormai il suo ruolo di conciliatore era finito a gambe all’aria. E non lo avrebbe più ritrovato. Si alzò, afferrò la giacca. — Io me ne vado — informò Kathy.

— Dio. — Lei chiuse gli occhi. La sua bocca, in una smorfia innaturale, restò spalancata. — Dio. No. Cos’hai fatto? Lo sai cos’hai fatto? Lo capisci? Riesci ad afferrare l’enormità della cosa? — E poi, a occhi chiusi e a pugni stretti, abbassò la testa e cominciò a urlare. Jason non aveva mai sentito niente del genere. Restò paralizzato da quel suono, e dalla vista del viso contratto di Kathy. Si sentì sopraffatto, travolto. “Urla psicotiche” si disse. “Escono dall’inconscio collettivo.

Non da un singolo ma dalla più profonda radice della nostra specie.”

Saperlo non gli era d’aiuto.

Il proprietario e due camerieri, con i menu ancora in mano, corsero al loro tavolo. Jason notò dei particolari che gli si impressero stranamente nella mente. Sembrava che tutto, alle urla di Kathy, si fosse congelato. Paralizzato. I clienti che sollevavano le forchette, abbassavano i cucchiai, masticavano… Tutto si fermò, e restò solo quel terribile suono.

E lei stava pronunciando delle parole. Parole crude, di quelle che si trovano scritte sui muri. Parole brevi, distruttive, che colpirono nel profondo tutte le persone presenti nel ristorante, lui compreso. Soprattutto lui.

Il proprietario, con i baffi che vibravano, annuì ai due camerieri, che sollevarono Kathy di peso dalla sedia. La presero per le spalle, la tennero sospesa in aria, poi, a un cenno del proprietario, la trascinarono lontano dal séparé, attraversando tutto il locale, fino alla strada.

Jason pagò il conto e corse fuori.

All’ingresso, però, il proprietario lo fermò. Tese la mano. — Trecento dollari — disse.

— Perché? — chiese Jason. — Per averla portata fuori?

— Per non chiamare i pol — rispose quello. Jason pagò, con una smorfia truce.

I camerieri l’avevano depositata sulla strada, a ridosso del marciapiede. Kathy adesso era muta. Con le dita premute sugli occhi, ondeggiava avanti e indietro, e la sua bocca si muoveva senza più produrre suoni. I camerieri la scrutarono, a quanto sembrava per decidere se avrebbe provocato o no altri guai. Poi tornarono dentro di corsa lasciando Jason e Kathy lì sulla strada, assieme, sotto l’insegna al neon rossa e bianca.

Lui si inginocchiò a fianco di Kathy, le mise una mano su una spalla. Questa volta lei non cercò di scostarsi. — Mi spiace — le disse. Ed era sincero. — Mi spiace di averti spinta fino a questo punto. — “Ho pensato che il tuo fosse un bluff” pensò, “ma non lo era. Okay, hai vinto. Mi arrendo. D’ora in poi, le cose andranno come vuoi tu. Basta che me lo chieda. Però fai in fretta, per amor di Dio. Lasciami libero prima che si può.”

L’intuito però gli disse che non sarebbe successo troppo presto.

5

Mano nella mano, passeggiarono sul marciapiede immerso nella sera, superando lagune di colore in gara tra loro, lampeggianti, intermittenti, create dalle insegne rotanti, pulsanti, dondolanti. A Jason non piaceva quel tipo di ambiente; l’aveva visto un milione di volte, duplicato dappertutto sulla faccia della Terra. Era da luoghi come quello che era fuggito, in tempi remoti della sua vita; aveva usato le sue qualità di Sei come via d’uscita. E adesso era tornato indietro.

Non gli dava fastidio la gente, gli Ordinari che vedeva intrappolati lì, persone che senza colpa erano costrette a restare. Non avevano inventato loro tutto ciò; non lo amavano; lo sopportavano, mentre a lui era stato concesso di evadere. In effetti, si sentiva in colpa di fronte a quei visi cupi, a quelle smorfie su bocche contratte, infelici.

— Sì — disse Kathy alla fine, — credo proprio che mi stia innamorando di te. Ma è colpa tua. È quel potente campo magnetico che emani. Sai che riesco a vederlo?

— Accidenti — rispose lui, automaticamente.

— È viola scuro, vellutato. — Kathy gli afferrò una mano con dita sorprendentemente forti. — Molto intenso. Tu riesci a vedere il mio? La mia aura magnetica?

— No.

— Mi sorprende. Avrei pensato che ci riuscissi. — Adesso Kathy sembrava calma; le urla esplosive avevano lasciato il posto a una relativa stabilità. “Una personalità quasi pseudoe-pilettoide” congetturò lui. “Giorno per giorno può portare a…” Lei si intromise nei suoi pensieri. — La mia aura è di un bel rosso acceso. Il colore della passione.

— Fantastico.

Kathy si fermò bruscamente e si voltò a scrutarlo in viso. Per decifrare la sua espressione. Jason si augurò che fosse adeguatamente opaca. — Sei arrabbiato perché ho perso le staffe? — chiese lei.

— No.

— Però sembri arrabbiato. Secondo me, lo sei. Be’, probabilmente solo Jack capisce. E Mickey.

— Mickey Quinn — disse lui, pensieroso.

— Non è una persona notevole?

— Molto. — Jason avrebbe potuto raccontarle tante cose su Quinn, ma sarebbe stato inutile. In realtà, Kathy non voleva sapere. Credeva di capire già.

“E cos’altro credi, ragazzina” si chiese lui, “per esempio di me? Quel poco che sai di Mickey Quinn e di Arlene Howe e di tutti gli altri che, per te, in realtà non esistono? Pensa a quello che potrei dirti se, per un momento, tu fossi capace di ascoltare. Ma non ne sei in grado. Quel che potresti sentire ti spaventerebbe. E, comunque, sai già tutto.”

— Che effetto fa — le chiese — essere andata a letto con tanta gente famosa?

A quella frase, Kathy si bloccò. — Credi che sia andata a letto con loro perché erano famosi? Credi che io sia una fc, una fotticelebrità? È questo che pensi veramente di me?

“È come la carta moschicida” rifletté Jason. Kathy lo invischiava con ogni parola che pronunciava. Non poteva vincere.

— Penso — rispose — che tu abbia avuto un’esistenza interessante. Sei una persona interessante.

— E importante — aggiunse lei.

— Sì. Anche importante. Da un certo punto di vista, la persona più importante che io abbia mai incontrato. Un’esperienza eccitante.

— Dici sul serio?

— Sì — rispose lui, dando grande enfasi alla propria affermazione. E, in un modo bizzarro e maledettamente contorto, era vero. Nessuno, nemmeno Heather, era mai riuscito a legarlo in maniera così totale. Non sopportava quel che gli stava accadendo e non poteva liberarsene. Gli sembrava di trovarsi al volante del suo trabi fuori serie, costruito solo per lui, e di essere davanti a un semaforo contemporaneamente verde, rosso e giallo: nessuna risposta razionale era possibile. Grazie all’irrazionalità di Kathy. Il terribile potere dell’illogicità. Degli archetipi. Che entravano in azione dai desolati abissi dell’inconscio collettivo, collegando lui, e lei, e tutti gli altri in un insieme indistinto. In un nodo impossibile da sciogliere, finché fossero rimasti in vita.

“Non mi meraviglia” pensò “che certa gente, tanta gente, desideri la morte.”

— Vuoi andare a vedere un film col Capitano Kirk? — chiese Kathy.

— Come desideri — rispose laconicamente lui.

— Ce n’è uno bello al cinema Dodici. È ambientato su un pianeta del sistema di Betelgeuse, molto simile al pianeta di Tarberg, quello del sistema di Proxima. Solo che nel film del Capitano Kirk è abitato dagli schiavi di un invisibile…

— L’ho visto. — In realtà, un anno prima aveva avuto ospite del suo show Jeff Pomeroy, che interpretava il Capitano Kirk nel film. Ne avevano persino trasmesso un breve spezzone: la solita promozione pubblicitaria, la promessa di una sua visita allo studio di Pomeroy. Non gli era piaciuto allora e dubitava che potesse piacergli adesso. E, inoltre, detestava Jeff Pomeroy.

— Non vale proprio niente? — domandò Kathy, fiduciosa.

— Jeff Pomeroy, per quel che mi riguarda, è la quintessenza dell’idiozia. Lui e quelli come lui. I suoi imitatori.

Kathy disse: — Per un po’ è stato al Morningside. Non l’ho conosciuto proprio bene, ma c’era.

— Non mi è difficile crederlo — rispose Jason. Ma non ne era convinto.

— Lo sai cosa mi ha detto una volta?

— Conoscendolo — cominciò lui, — direi…

— Mi ha detto che sono la persona più docile che abbia mai incontrato. Non è fantastico? E mi ha vista entrare in uno dei miei stati mistici, insomma quando mi butto per terra e urlo, eppure l’ha detto. Secondo me, è una persona molto sensibile. Lo penso proprio. Tu, no?

— Sì — rispose lui.

— Allora adesso torniamo alla mia stanza? E scopiamo come ricci?

Jason emise un grugnito incredulo. Kathy aveva davvero detto una cosa simile? Si girò, cercò di decifrare il suo viso, ma erano finiti in una zona d’ombra tra le insegne: tutto era buio, in quel momento. “Gesù” si disse, “devo tirarmi fuori di qui. Devo ritrovare la strada per il mio mondo!”

— La mia onestà ti turba? — chiese lei.

— No — rispose lui, cupo. — L’onestà non mi turba mai. Come celebrità, devi essere capace di affrontarla. — “Anche questo” pensò. — Qualunque tipo di onestà. Soprattutto il tuo.

— Che tipo è il mio?

— Onestà onesta.

— Allora mi capisci davvero.

— Sì. — Lui annuì. — Ti capisco davvero.

— E non mi guardi dall’alto in basso? Non mi vedi come una piccola persona insignificante che dovrebbe essere morta?

— No. Tu sei una persona molto importante. E anche molto onesta. Uno degli esseri più onesti e sinceri che io abbia mai conosciuto. Lo penso sul serio. Lo giuro su Dio.

Kathy gli diede una pacca cordiale sul braccio. — Non fare l’esagerato. Lascia che ti venga naturale.

— Mi viene naturale — le assicurò lui. — Davvero.

— Bene. — Il tono di Kathy era felice. Evidentemente Jason era riuscito a dissipare le sue preoccupazioni; si sentiva sicura di lui. E da quello dipendeva la sua vita… O no? Non stava capitolando davanti alla logica psicopatica di lei? Al momento, non ne era affatto sicuro.

— Senti — le disse incerto, — sto per dirti qualcosa, e voglio che tu mi ascolti attentamente: tu dovresti stare in un carcere per malati di mente.

Lei non reagì. Non aprì bocca. Ma il silenzio che si era creato era spaventoso.

— E — continuò lui — io metterò tutta la distanza possibile fra te e me. — Strappò la mano dalla stretta di Kathy, girò sui tacchi e si avviò nella direzione opposta. Si perse tra gli Ordinari che si affollavano su entrambi i marciapiedi scalcinati, illuminati al neon, di quella sudicia parte della città.

“L’ho persa” pensò. “E, perdendo lei, ho probabilmente perso anche la mia vita.

“E adesso?” Si fermò, si guardò attorno. “Ho addosso un microtrasmettitore, come dice lei? Mi sto tradendo a ogni passo che faccio?

“Charley l’Allegrone” pensò “mi ha detto di andare da Heather Hart. E, come sanno tutti a tivulandia, Charley l’Allegrone non sbaglia mai. Ma vivrò abbastanza a lungo per arrivare da lei? E se avessi davvero addosso una pulce, non scatenerei anche su di lei la mia sorte avversa? E se Al Bliss e Bill Wolfer non mi conoscono, perché dovrebbe conoscermi Heather Hart? Ma Heather è una Sei, come me. Forse sarà questo a fare la differenza.”

Trovò una cabina telefonica, entrò, chiuse la porta isolandosi dai rumori del traffico e infilò nella fessura una moneta d’oro da cinque dollari.

Heather Hart disponeva di parecchi numeri che non comparivano sull’elenco. Alcuni per gli affari, altri per gli amici; uno, poi, per gli amanti. Jason, ovviamente, conosceva quel numero, visto ciò che era stato per lei e che sperava di essere ancora.

Lo schermo si illuminò. Dalle forme cangianti, Jason dedusse che Heather stava rispondendo dall’automobile.

— Ciao — le disse.

Heather si schermò gli occhi per decifrare il viso di lui.

— Chi diavolo sei? — I suoi occhi viola emettevano lampi. I capelli rossi erano abbacinanti.

— Jason.

— Non conosco nessun Jason. Come hai fatto ad avere questo numero? — Il tono era preoccupato, ma anche duro. — Sparisci dal mio videotelefono! — Lo scrutò con aria corrucciata dallo schermo. — Chi ti ha dato questo numero? Voglio il nome.

Jason rispose: — Me l’hai dato tu sei mesi fa. Quando te lo sei fatta assegnare. La “più privata delle tue linee private”, giusto? Non l’hai definita così?

— Chi te l’ha detto?

— Tu. Eravamo a Madrid. Tu eri lì per lavoro, e io mi sono preso sei giorni di ferie. Stavo a mezzo chilometro dal tuo hotel. Venivi da me sulla tua Rolls verso le tre del pomeriggio. Giusto?

Heather chiese con un tono che voleva mascherare indifferenza: — Sei di qualche rivista?

— No, Sono il tuo amore numero uno.

— Il mio cosa?

— Il tuo amante.

— Sei un fan? Sei un fan, un maledetto aborto di fan! Se non sparisci subito, ti uccido. — Audio e video si spensero. Heather aveva riappeso.

Jason infilò un’altra moneta da cinque e compose di nuovo il numero.

— Ancora quell’aborto di fan — rispose Heather. Adesso sembrava più padrona di sé. O era solo rassegnazione?

— Hai un dente finto — le disse Jason. — Quando sei con uno dei tuoi amanti te lo fissi con una resina speciale che comperi da Harney. Però con me a volte te lo togli e lo metti in un bicchiere con il disinfettante del dottor Sloom. È il prodotto per la pulizia dei denti che preferisci. Perché, dici sempre, ti ricorda i giorni in cui il Bromo Seltzer era legale, non la roba da mercato nero che oggi si produce illegalmente in cantina con tutti e tre i bromuri che la Bromo Seltzer ha smesso di usare anni fa, quando…

— Come hai fatto — lo interruppe Heather — ad avere queste informazioni? — La sua espressione era dura, le frasi secche, decise. Il tono… Jason l’aveva già sentito altre volte. Heather lo usava con la gente che detestava.

— Non usare quel tono da non-me-ne-frega-niente con me — le disse rabbioso. — Il tuo dente finto è un molare. Lo chiami Andy. Giusto?

— Un aborto di fan sa tutte queste cose su di me! Dio. La conferma dei miei peggiori timori. Come si chiama il tuo club, e quanti sono gli iscritti, e tu da dove vieni, e come, Dio ti stramaledica!, come hai fatto a scoprire particolari della mia vita privata che non hai nessunissimo diritto di conoscere? Guarda che quello che stai facendo è illegale. Violazione della privacy. Se mi richiami, ti metto alle calcagna i pol. — Fece per riappendere.

— Io sono un Sei — disse Jason.

— Un cosa? Un Sei cosa? Hai sei gambe, è così? O, più probabilmente, sei teste.

— Sei una Sei anche tu. È questo che ci ha tenuto legati per tanto tempo.

— Mi farai crepare. — Heather, adesso, era terrea. Jason poteva vedere, anche nella penombra del trabi, quanto fosse cambiato il colorito del suo viso. — Quanto mi costerà convincerti a lasciarmi in pace? Ho sempre saputo che prima o poi un aborto di fan sarebbe…

— Smettila di chiamarmi “un aborto di fan” — ribatté secco Jason. Quella definizione lo faceva letteralmente infuriare. Gli pareva l’insulto più spregevole. O magari una presa per i fondelli.

— Cosa vuoi? — chiese Heather.

— Vederti da Altrocci.

— Già. Ovviamente sai anche questo. L’unico posto dove io possa andare senza che ci sia qualche demente a starmi addosso. Qualcuno che vuole la mia firma su un menu che non è nemmeno suo. — Heather sospirò disfatta. — Be’, addio anche a quello. Non ti incontrerò da Altrocci né da nessun’altra parte. Stai alla larga da me o ti farò tagliare le palle dai miei pol privati e…

— Tu hai un pol privato — l’interruppe lui. — Ha sessantadue anni e si chiama Fred. Era tiratore scelto dei Volontari della contea di Orange. Faceva fuori gli sbarbatelli della California University. All’epoca era in gamba, ma oggi non fa più paura a nessuno.

— Com’è vero — disse Heather.

— Okay. Adesso ti dirò un’altra cosa che proprio non capirai come io possa sapere: ti ricordi di Constance Ellar?

— Sì. Quella starlet insignificante, quella nullità che sembrava Barbie, a parte il fatto che aveva una testa troppo piccola e un corpo che sembrava gonfiato con una bombola di anidride carbonica. Troppo gonfiato. — Heather piegò il labbro in una smorfia di disprezzo. — Era completamente scema.

— Infatti — convenne lui. — Completamente scema. Definizione perfetta. Ricordi cosa le abbiamo fatto nel mio show? Alla sua prima apparizione a livello mondiale, perché me l’avevano imposta in coppia con qualcun altro? Ricordi cosa le abbiamo fatto, tu e io?

Silenzio.

Jason continuò: — Per farcela accettare nello show, il suo agente ha acconsentito a utilizzare la sua immagine per uno dei nostri sponsor da due soldi. Noi ci siamo incuriositi sul prodotto, così, prima che la signorina Ellar si facesse viva, abbiamo aperto il sacchetto di carta e scoperto che si trattava di una crema per la depilazione delle gambe. Dio, Heather, ti devi…

— Sto ascoltando — interloquì Heather.

— Abbiamo tolto lo spray per le gambe e l’abbiamo sostituito con uno per l’igiene intima femminile, lasciando lo stesso foglietto di istruzioni della pubblicità. Diceva: “Dare una dimostrazione dell’uso del prodotto con un’espressione di contentezza e soddisfazione”. Dopo di che abbiamo tagliato la corda e ci siamo messi ad aspettare.

— Uhm.

— Alla fine, la signorina Ellar è arrivata, è entrata nel suo camerino, ha aperto il sacchetto, e poi… Questa è la parte che mi fa ancora piegare in due dalle risate… Si è presentata da me, assolutamente seria, e mi ha detto: “Signor Taverner, scusi se la disturbo, ma per dare una dimostrazione di questo spray per l’igiene intima femminile dovrò togliermi gonna e mutandine davanti alle telecamere”. “E con ciò?” le ho risposto io. “Qual è il problema?” E la signorina Ellar ha detto: “Mi servirà un tavolino per appoggiare i miei vestiti. Non posso buttarli per terra. Non starebbe bene. Mi spruzzerò quella roba sulla vagina davanti a sessanta milioni di spettatori, e se fai una cosa del genere non puoi lasciare i vestiti sparsi sul pavimento. Non è elegante”. E l’avrebbe fatto sul serio, in diretta, se Al Bliss non…

— Una storia di cattivo gusto.

— Però a te è sembrata piuttosto divertente. Quella ragazza completamente scema, alla sua prima grande occasione, pronta a fare una cosa simile. “Dare una dimostrazione dell’uso del prodotto con un’espressione di contentezza e…”

Heather riappese.

“Come faccio a farle capire?” si chiese rabbiosamente lui. Strinse i denti, e quasi si fece saltare un’otturazione. Odiava quella sensazione: masticare un pezzo di otturazione. Divorare il proprio corpo, costretto all’impotenza. “Ma non si rende conto che il fatto che io sappia tutto di lei significa qualcosa di impossibile?” si domandò. Chi poteva sapere questi particolari? Solo qualcuno che le era stato molto vicino per parecchio tempo. Non poteva esserci altra spiegazione, eppure Heather ne aveva inventata un’altra, così complessa da impedire a lui di far filtrare il messaggio. E aveva la nuda verità davanti agli occhi. Ai suoi occhi di Sei.

Infilò un’altra moneta e richiamò.

— Ciao di nuovo — disse, quando finalmente Heather si decise ad alzare il ricevitore. — Ecco un’altra cosa che so di te: non sei capace di lasciare squillare un telefono. È per questo che hai dieci numeri privati, ognuno per uno scopo ben preciso.

— Ne ho tre — disse Heather. — Quindi tu non sai tutto.

— Volevo solo…

— Quanto? — chiese lei.

— Per oggi ne ho avuto abbastanza — rispose Jason, ed era sincero. — Non puoi comperarmi perché non è questo che voglio. Io voglio… stammi a sentire, Heather… voglio scoprire perché nessuno mi conosce. Soprattutto tu. E, siccome sei una Sei, credevo che me lo potessi spiegare. Hai qualche ricordo di me? Guardami sullo schermo. Guardami!

Lei lo scrutò, con un solo sopracciglio inarcato. — Sei giovane, ma non troppo. Sei bello. Hai una voce autorevole e non ti fai scrupolo di rompermi le scatole in questo modo. Hai esattamente l’aspetto, il tono e il comportamento di un aborto di fan. Okay, sei soddisfatto?

— Sono nei guai — rispose Jason. Era del tutto irrazionale farle una confessione simile, visto che Heather non aveva il più pallido ricordo di lui. Ma con gli anni si era abituato a esporle i propri problemi e ad ascoltare i suoi, e quell’abitudine non era certo venuta meno. La forza dell’abitudine se ne infischiava della sua percezione della realtà, andava avanti alimentata dalla propria energia.

— Che peccato — commentò Heather.

— Nessuno si ricorda di me — disse lui. — E non ho un certificato di nascita. Non sono mai nemmeno nato! Per cui, ovviamente, non ho documenti d’identità, a parte quelli falsi che ho comperato da un’informatrice dei pol per duemila dollari, più altri mille per il mio contatto. Adesso li porto con me, ma potrebbero contenere dei microtrasmettitori. Anche sapendolo, li devo avere con me. Tu sai perché. Anche tu che sei sulla vetta, anche tu sai come funziona questa società. Ieri avevo trenta milioni di spettatori che si sarebbero messi a strillare fino a farsi scoppiare la testa se solo un pol o un naz avessero osato toccarmi. Adesso la mia unica prospettiva è un CLF.

— Cos’è un CLF?

— Un campo di lavori forzati. — Jason ringhiò la risposta. Sperava di riuscire a bloccarla, e poi a inchiodarla. — La puttanella perversa che ha falsificato i miei documenti mi ha costretto a portarla in uno schifo di ristorante, dimenticato da Dio, e mentre ce ne stavamo lì a parlare si è buttata sul pavimento, urlando. Urla psicotiche. È una reduce del Morningside, per sua stessa ammissione. La cosa mi è costata altri trecento dollari, e a questo punto, chi lo sa? Probabilmente mi ha sguinzagliato dietro pol e naz. — Spinse ancora un po’ più in là l’autocommiserazione. — È probabile che in questo stesso momento stiano tenendo sotto controllo il telefono.

— Cristo, no! — strillò Heather, e riappese di nuovo. Jason non aveva più monete da cinque dollari. Sicché rinunciò. Aveva commesso una grossa stupidaggine, si rese conto: dire del telefono controllato. Chiunque avrebbe riappeso. “Mi sono strangolato con la rete delle mie stesse parole. Mi ci sono strozzato dentro, mi ci sono incastrato fino alla vita. Metà dentro, metà fuori. Come se fossi finito in un grande buco di culo artificiale.”

Spinse di lato la porta della cabina telefonica e tornò sul marciapiede affollato. “Eccomi qui a Slumville. Dove si aggirano gli informatori dei pol. Che spettacolo fantastico, come diceva quel classico spot pubblicitario che abbiamo studiato a scuola. Sarebbe divertente se succedesse a qualcun altro. Ma sta capitando a me. No, non sarebbe divertente in nessun caso. Perché a passare il tempo dietro le quinte, in attesa, ci sono vere sofferenze e vera morte. Pronte a entrare in scena da un momento all’altro.

“Mi sarebbe piaciuto filmare la telefonata, più tutto quello che ho detto a Kathy e quello che lei ha detto a me. A colori e in tre dimensioni, su videonastro: sarebbe un bel pezzo per il mio show, magari verso il finale, quando a volte restiamo a corto di materiale. A volte un cavolo. Quasi sempre. Sempre.”

Poteva quasi sentire la sua voce fuori campo che introduceva il servizio: — Cosa può succedere a un uomo, un brav’uomo senza precedenti penali, un uomo che un giorno, all’improvviso, perde tutti i suoi documenti e si trova a fronteggiare… — Eccetera. Li avrebbe incollati allo schermo, tutti e trenta i milioni di spettatori. Perché era quello che ognuno di loro temeva. — Un uomo invisibile — avrebbe proseguito, — eppure un uomo persino troppo appariscente. Invisibile nella legalità, appariscente nell’illegalità. Cosa ne sarà di un uomo come lui, se non riuscirà a rimpiazzare… — Eccetera eccetera. Al diavolo. Non tutto quello che faceva o diceva o gli capitava finiva nello show; sarebbe stato così anche quella volta. Un altro perdente fra tanti. “Molti sono i chiamati” si disse, “ma pochi gli eletti. Ecco cosa significa essere un professionista. Ecco come riesco a mandare avanti la mia vita, nel pubblico e nel privato: riduci le perdite al minimo e scappa quando è il caso di farlo.” Citava se stesso dai vecchi tempi in cui il suo primo show mondiale era stato mandato in onda dalla rete satellitare.

“Troverò un altro falsificatore” si disse, “uno che non sia un informatore dei pol, e mi procurerò un altro set di documenti senza microtrasmettitori. Dopo di che, avrò bisogno di una pistola. Avrei dovuto pensarci già quando mi sono risvegliato in quella camera d’hotel.”

Una volta, anni addietro, quando gli uomini di Reynolds avevano tentato di infiltrarsi nel suo show, aveva imparato a usare la pistola, e la portava sempre con sé: una Barber’s Hoop con una portata di tre chilometri, senza la minima deviazione dalla traiettoria fino agli ultimi trecento metri.

La “trance mistica” di Kathy, la sua crisi di urla… Nel sonoro ci sarebbe stata anche una voce maschile, matura, sovrapposta alle urla in sottofondo: — Ecco cosa significa essere psicotici. Essere psicotici è soffrire, soffrire oltre… — Eccetera. Inspirò una lunga boccata d’aria della sera, fino a riempirsi i polmoni. Rabbrividì, si unì al mare di persone sul marciapiede, con le mani infilate nelle tasche dei calzoni.

E si trovò di fronte una fila di tre metri, ferma a un punto di controllo dei pol. In fondo alla fila c’era un poliziotto in uniforme grigia. Se ne stava lì per assicurarsi che nessuno tagliasse la corda nella direzione opposta.

— Non puoi superare il controllo, amico? — chiese il pol a Jason, quando lui, involontariamente, fece per andarsene.

— Certo che posso — rispose Jason.

— Ottimo — disse il pol, di buonumore. — Perché siamo qui a controllare da stamattina e non abbiamo ancora raggiunto la nostra quota.

6

Due pol in uniforme grigia ben piantati, alle prese con l’uomo che precedeva Jason, dissero all’unisono: — Questi sono stati falsificati un’ora fa. Sono ancora umidi. Vedi? L’inchiostro cola sotto il calore. Okay. — Annuirono. L’uomo, afferrato da quattro pol dall’aria truce, scomparve nel trabifurgone parcheggiato lì nei pressi, minacciosamente grigio e nero: i colori della polizia.

— Okay — disse allegramente uno dei pol robusti rivolgendosi a Jason. — Vediamo dove sono state stampate le tue tessere.

— Le ho da anni — rispose Jason. Porse ai pol il portafogli con le sette tessere d’identità.

— Controlla le firme — disse il pol più anziano al collega. — Vedi se si sovrappongono.

Kathy aveva ragione.

— No. — Il pol più giovane mise via lo scanner. — Non si sovrappongono. Però questo documento, quello del servizio militare, doveva avere un punto tras che è stato grattato via. E da mani molto esperte. Bisogna guardarlo con l’ingranditore. — Spostò la lente e la lampada, illuminando i particolari nel crudo fulgore bianco della luce. — Visto?

— Quando lei è stato congedato — chiese a Jason il pol più anziano, — questo documento aveva un punto elettronico? Se lo ricorda? — I due poliziotti, mentre attendevano la risposta, restarono a scrutare Jason.

“Che diavolo devo dire?” si chiese lui. — Non lo so — rispose. — Non so nemmeno come sia un… — Stava per dire “microtrasmettitore a punto”, ma si corresse in fretta. Abbastanza in fretta, sperò. — Un punto elettronico.

— È un semplice punto, amico — lo informò il pol più giovane. — Non ci sta ascoltando? È sotto l’effetto di qualche droga? Qui, sulla tessera della sua situazione droghe, non risulta niente, almeno per quanto riguarda lo scorso anno.

Intervenne uno dei pol dall’aria truce. — Però questo dimostra che i documenti sono autentici. Chi farebbe falsificare un reato su una tessera d’identità? Soltanto un idiota.

— Già — disse Jason.

— Be’, non è roba di nostra competenza. — Il poliziotto più giovane restituì le tessere a Jason. — Dovrà vedersela con quelli della narcotici. Si muova. — Spinse via Jason con il manganello e si protese ad afferrare i documenti dell’uomo che si trovava dietro di lui.

— Finito? — chiese Jason ai pol dall’aria truce. Non poteva crederci. “Non darlo a vedere” si disse. “Muoviti!”

Fece qualche passo.

Dall’ombra una mano lo toccò. Lui si immobilizzò a quel contatto; si sentì trasformare in ghiaccio, a partire dal cuore. — Cosa pensi di me, adesso? — chiese Kathy. — Del mio lavoro, di quello che ho fatto per te?

— Ha funzionato — rispose lui, riprendendosi solo in parte.

— Non ti consegnerò ai pol, anche se mi hai insultata e abbandonata. Però stanotte devi restare con me come hai promesso. Capito?

Fu costretto ad ammirarla. Acquattandosi nelle vicinanze del punto di controllo, Kathy aveva ottenuto una testimonianza diretta della qualità dei suoi documenti falsi, che gli avevano permesso di farla franca con i pol. Così, di colpo, la situazione tra loro due si era rovesciata: adesso era lui a trovarsi in debito. Non era più la vittima di cui lei approfittava. Adesso Kathy aveva dei diritti su di lui. Prima il bastone: la minaccia di denunciarlo ai pol. Poi la carota: le tessere d’identità falsificate perfettamente. La ragazza lo teneva in pugno. Jason doveva ammetterlo, con lei e con se stesso.

— Sarei riuscito a farti passare in ogni caso — disse Kathy. Alzò il braccio destro e indicò una parte della manica. — Ho lì una targhetta grigia d’identificazione della polizia. Sotto le loro macrolenti si vede. Serve a non farmi arrestare per sbaglio. Avrei detto…

— Finiamola — la interruppe lui con voce rauca. — Non voglio sapere altro. — Si allontanò. La ragazza lo seguì, sfiorando appena il terreno con i piedi, come un uccello aggraziato che sta per spiccare il volo.

— Vuoi tornare al mio monolocale? — chiese Kathy.

— Quella maledette stanza deprimente. — “Io ho una casa aerea a Malibù” pensò lui, “con otto camere da letto, sei bagni rotanti e un soggiorno quadridimensionale col soffitto a infinito. E, per colpa di qualcosa che non capisco e che non posso controllare, devo trascorrere il tempo in questo modo. A visitare posti insignificanti, in rovina. Ristoranti schifosi, laboratori ancora più schifosi, monolocali schifosissimi. Sto pagando per una colpa che ho commesso? Qualcosa che non so o che non ricordo? Ma nessuno paga. L’ho imparato tanto tempo fa: non devi pagare per il male o per il bene che fai. Alla fine, non si è mai in pari.”

— Immagina un po’ cosa c’è in cima alla mia lista della spesa per domani — stava dicendo Kathy. — Mosche morte. Sai perché?

— Sono ricche di proteine.

— Sì, ma non è questo il punto. Non le compero per me. Ne prendo un sacchetto tutte le settimane per Bill, la mia tartaruga.

— Non ho visto nessuna tartaruga.

— Vive nel mio appartamento più grande. Non avrai pensato sul serio che comperi mosche morte per me, eh?

De gustibus non disputandum est — citò lui.

— Vediamo. I gusti non si discutono. Giusto?

— Esatto. E questo significa che, se vuoi mangiare mosche morte, fai pure. Mangiale.

— Bill le mangia. Gli piacciono. È una di quelle tartarughine verdi. Non una grossa tartaruga terrestre. Hai mai visto come ingoiano di scatto il cibo, come per esempio una mosca che galleggia sull’acqua? Un animaletto piccolo così, ma è terribile. Un secondo prima la mosca c’è, e un secondo dopo, glunk, è dentro la tartaruga. — Kathy rise. — Viene digerita. C’è una lezione da imparare in tutto questo.

— Quale? — Jason anticipò la risposta. — Che, quando mordi, o prendi tutto oppure niente, e mai una sola parte.

— È così.

— E tu cosa prendi? — chiese lui. — Tutto o niente?

— Non lo so. Buona domanda. Be’, non ho Jack. Ma forse non lo voglio più. È passato tanto di quel fottuto tempo. Probabilmente ho ancora bisogno di lui. Ma ho più bisogno di te.

Jason disse: — Credevo che tu fossi il tipo capace di amare due uomini nello stesso modo.

— Io ho detto una cosa simile? — Kathy rifletté mentre camminavano. — Quello che intendevo è che questo è l’ideale, ma nella vita reale si può arrivare solo a un’approssimazione… Capisci? Riesci a seguire il mio ragionamento?

— Sì e anche a vedere dove porta: a un temporaneo abbandono di Jack finché ci sarò io in circolazione, e poi a un ritorno a lui quando me ne sarò andato. Fai sempre così?

— Non lo lascio mai — rispose lei seccamente. Proseguirono in silenzio finché non raggiunsero il suo grande, vecchio condominio, con la foresta di antenne televisive in disuso che spuntavano da ogni parte del tetto. Kathy frugò nella borsetta, trovò la chiave, e quindi aprì la porta della sua stanza.

Le luci erano accese. E, seduto sul divano ammuffito di fronte a loro, c’era un uomo di mezza età, con i capelli grigi e vestito di grigio. Un uomo robusto ma impeccabile, con il viso perfettamente rasato. Il suo aspetto era curato nei minimi particolari; sulla sua testa, ogni singolo capello pareva occupare il posto giusto.

Kathy balbettò: — Signor McNulty.

L’uomo si alzò e porse la destra a Jason. Jason, automaticamente, fece per stringerla.

— No — disse l’uomo. — Non voglio stringerle la mano. Voglio vedere i suoi documenti, quelli che lei ha falsificato. Me li dia.

Senza una parola, Jason gli passò il portafogli.

— Non li ha fatti lei — disse McNulty, dopo una breve ispezione. — A meno che non stia migliorando di brutto.

Jason rispose: — Alcune di quelle tessere le ho da anni.

— Ma no — mormorò McNulty. Restituì portafogli e documenti a Jason. — Chi gli ha messo addosso il microtras? Lei? — Si girò verso Kathy. — Ed?

— Ed — rispose Kathy.

— Dunque, dunque: vediamo cosa abbiamo qui — McNulty si mise a scrutare Jason come se gli stesse prendendo le misure per la bara. — Un uomo sulla quarantina, ben vestito, abito di taglio moderno. Scarpe costose, di vera pelle… Giusto, signor Tavern?

— È pelle di vacca — disse Jason.

— I documenti la identificano come musicista. Suona uno strumento?

— Canto.

— Allora canti qualcosa per noi — disse McNulty.

— Vada all’inferno — ribatté Jason, e riuscì a controllare il ritmo del respiro. Le parole uscirono esattamente con il tono che voleva.

McNulty disse a Kathy: — Non sembra spaventato. Sa chi sono?

— Sì — rispose Kathy. — Gliel’ho detto.

— Gli ha detto di Jack? — McNulty poi si rivolse a Jason. — Non c’è nessun Jack. Lei ne è convinta, ma è un’illusione psicotica. Suo marito è morto tre anni fa in un incidente con il trabi. Non è mai stato in un campo di lavori forzati.

— Jack è ancora vivo — disse Kathy.

— Visto? — continuò McNulty rivolgendosi a Jason. — Si è adattata piuttosto bene al mondo esterno, a parte questa idea fissa che non la lascerà mai. Se la porterà dietro per il resto della vita. — Scrollò le spalle. — È un’idea innocua e serve benissimo ai nostri scopi. Quindi non abbiamo neanche provato a farla curare.

Kathy si era messa a piangere, in silenzio. Grandi lacrime le scendevano dalle guance e cadevano a goccioloni sulla camicetta. Delle macchie apparvero qua e là, erano dei grossi cerchi scuri.

— Tra un paio di giorni parlerò con Ed Pracim — disse McNulty. — Gli chiederò perché le ha messo addosso un microtras. Ha delle intuizioni felici, a volte. — Rifletté. — Tenga presente che i documenti nel suo portafogli sono riproduzioni di originali archiviati in diverse banche dati centrali su tutto il pianeta. Sono copie a posto, ma forse mi verrà voglia di controllare gli originali. Speriamo siano in ordine come le copie che lei ha con sé.

Kathy disse, con un filo di voce: — Ma è una procedura insolita. Statisticamente…

— In questo caso — rispose McNulty, — penso che valga la pena tentare.

— Perché? — chiese Kathy.

— Perché non pensiamo che lei ci consegni tutti quanti.

Mezz’ora fa, questo signor Tavern ha superato un punto mobile di controllo. L’abbiamo seguito servendoci del microtras. E i suoi documenti mi sembrano in ordine. Ma Ed dice…

— Ed beve — intervenne Kathy.

— Ma su di lui possiamo fare affidamento. — McNulty sorrise: un raggio di sole professionale nella stanza squallida. — Su di lei, invece, no. Non del tutto.

Jason prese la sua tessera del servizio militare, accarezzò la piccola foto quadridimensionale del suo profilo. E la foto disse, pronunciando le parole con voce metallica: — E adesso, vacca miseria?

— Come si può falsificare una cosa del genere? — chiese Jason. — È il tono di voce che avevo dieci anni fa, quando ho fatto il naz di leva.

— Ne dubito. — McNulty controllò l’orologio. — Le devo qualcosa, signorina Nelson? O per questa settimana siamo a posto?

— A posto — rispose Kathy, con uno sforzo. Poi, a voce bassa, insicura, quasi sussurrò: — Quando Jack sarà fuori, non potrete più contare su di me.

— Per lei — disse allegramente McNulty, — Jack non sarà mai fuori. — Strizzò l’occhio a Jason. Jason lo ricambiò. Due volte. Capiva McNulty. L’uomo si nutriva delle debolezze altrui; probabilmente Kathy aveva imparato da lui il particolare modo di fare che aveva. E dai suoi pittoreschi, allegri compagni.

Adesso si rendeva conto del modo in cui lei fosse diventata ciò che era. Il tradimento era un evento quotidiano; il rifiuto di tradire, come nel suo caso, miracoloso. Poteva solo meravigliarsene e provare un vago senso di gratitudine.

“Viviamo nel tradimento” si rese conto. “Quando ero una celebrità, ne ero immune. Adesso sono come tutti gli altri; devo affrontare le loro difficoltà. E quel che ho già passato anch’io ai vecchi tempi, quel che ho già vissuto e poi cancellato dalla memoria. Perché era troppo stressante da credere… Ho avuto la possibilità di scegliere, e ho scelto di non credere.”

McNulty appoggiò la mano carnosa, chiazzata di rosso, sulla spalla di Jason e disse: — Venga con me.

— Dove? — domandò Jason, scostandosi da McNulty esattamente come Kathy si era scostata da lui. Anche quello l’aveva imparato dai McNulty di questo mondo.

— Non può accusarlo di niente! — disse Kathy con voce roca e stringendo i pugni.

McNulty ribatté, tranquillo: — Ma non l’accuso di nulla. Voglio solo le sue impronte digitali e vocali, quelle dei piedi e il tracciato dell’elettroencefalogramma. D’accordo, signor Tavern?

Jason cominciò a dire: — Non mi piace correggere un funzionario di polizia… — Poi s’interruppe all’occhiata d’avvertimento di Kathy. — … Che sta facendo il suo dovere — concluse, — quindi verrò con lei. — Magari Kathy non aveva tutti i torti; magari poteva essere un bene che il funzionario pol sbagliasse il cognome di Jason. Chi poteva saperlo? Solo il tempo l’avrebbe detto.

— Signor Tavern — disse pigramente McNulty, spingendo Jason verso la porta della stanza. — Il suo nome suggerisce l’idea di birra e calore e posticini intimi, no? — Si girò a guardare Kathy e chiese in tono secco: — No?

— Il signor Tavern è un uomo caldo — rispose Kathy a denti stretti. La porta si chiuse alle loro spalle, e McNulty spinse con garbo Jason in corridoio, verso le scale, respirando l’odore di cipolla e sugo che giungeva da ogni dove.

Alla stazione di polizia del distretto 469, Jason Taverner si trovò sperso tra una moltitudine di uomini e donne che si muovevano senza uno scopo, che aspettavano di entrare, aspettavano di uscire, aspettavano informazioni, aspettavano di sentirsi dire cosa fare. McNulty aveva messo sul bavero di Jason una targhetta colorata; solo Dio e la polizia sapevano cosa significasse.

Era chiaro che qualcosa voleva dire. Un agente in uniforme, seduto a una scrivania che andava da parete a parete, gli fece cenno di avvicinarsi.

— Okay — disse il pol. — L’ispettore McNulty ha compilato una parte del suo modulo J-2. Jason Tavern. Indirizzo: Vine Street, 2048.

Jason si chiese dove diavolo McNulty l’avesse scoperto. Vine Street. Poi si rese conto che era l’indirizzo di Kathy. McNulty aveva dato per scontato che vivessero insieme. Oberato di lavoro come tutti i pol, aveva scritto il dato che richiedeva il minimo sforzo. Una legge di natura: un oggetto, o una creatura vivente, sceglie la via più breve tra due punti. Jason compilò il resto del modulo.

— Metta la mano in quella fessura — disse l’agente, indicando una macchina per il rilevamento delle impronte. Jason obbedì. — Adesso — continuò l’agente — si tolga una scarpa. La destra o la sinistra. E il calzino. Può sedersi qui. — Fece ruotare una sezione della scrivania. Apparve un’apertura e, dietro, una sedia.

— Grazie. — Jason sedette.

Dopo che gli ebbero preso l’impronta del piede, recitò la frase: — Ambarabà ciccì coccò, tre civette sul comò, che facevano l’amore con la figlia del dottore. — Serviva per le impronte vocali. Poi, di nuovo seduto, si lasciò piazzare degli elettrodi sulla testa. La macchina sputò un metro di foglio coperto di ghiribizzi, e quello fu tutto. L’elettroencefalogramma. I test erano finiti.

McNulty apparve alla scrivania, allegro. Nell’impietosa luce bianca che scendeva dal soffitto, la barba ricresciuta nella giornata si vedeva benissimo sul mento, sul labbro superiore, sulla parte alta del collo. — Come va col signor Tavern? — chiese.

L’agente rispose: — Siamo pronti per il controllo anagrafico.

— Perfetto — disse McNulty. — Resto qui a vedere cosa salta fuori.

L’agente in uniforme infilò in una fessura il modulo che Jason aveva compilato e premette dei pulsanti contrassegnati da varie lettere, tutti verdi. Per qualche motivo, Jason lo notò. E le lettere erano maiuscole.

Da un’apertura simile a una bocca sulla lunga scrivania emerse una fotocopia, che cadde in un cestino di metallo.

— Jason Tavern — disse l’agente, studiando il documento.

— Di Kememmer, nel Wyoming. Età: trentanove anni. Meccanico di motori diesel. — Diede un’occhiata alla fotografia.

— Foto scattata quindici anni fa.

— Precedenti penali? — chiese McNulty.

— Niente di niente — rispose l’agente.

— Non ci sono altri Jason Tavern registrati al centro dati pol? — domandò McNulty. L’agente premette un pulsante, poi scosse la testa. — Okay. È lui. — McNulty scrutò Jason.

— Lei non ha l’aria di un meccanico di motori diesel.

— Non lo sono più — disse Jason. — Adesso sono nel ramo vendite. Macchine agricole. Vuole il mio biglietto da visita? — Un bluff. Fece per estrarre qualcosa con la mano nella tasca destra interna della giacca. McNulty scosse la testa. Era fatta: con i loro soliti metodi burocratici, avevano pescato per lui il fascicolo sbagliato. E, nella fretta, l’avevano preso per buono.

Jason pensò: “Sia lodato Iddio per le debolezze interne di questo grande, complicato, involuto apparato che domina il mondo intero. Troppi uomini, troppe macchine. L’errore è iniziato con un ispettore pol e si è fatto strada fino alla centrale dati di Memphis, nel Tennessee. È probabile che non riusciranno a correggerlo nemmeno con le impronte delle mani, dei piedi, quelle vocali e l’elettroencefalogramma. Non adesso. Non dopo che il mio modulo è stato archiviato”.

— Devo metterlo dentro? — chiese a McNulty l’agente in uniforme.

— E per cosa? Perché è un meccanico di motori diesel? — McNulty diede a Jason una pacca sulla schiena. — Lei può tornare a casa, signor Tavern. Dal suo amore col faccino da bambina. Dalla sua verginella. — Con un sorriso, si mischiò alla folla di ansiosi che vagava lì intorno.

— Lei può andare, signore — disse l’agente a Jason.

Con un cenno della testa, Jason uscì dalla stazione del distretto 469. Emerse sulla strada, nella sera, per unirsi alle persone libere che vivevano in quel quartiere.

“Ma prima o poi mi prenderanno” pensò. “Confronteranno le impronte. Però… Se la fotografia è vecchia di quindici anni, magari sono passati quindici anni anche da quando gli hanno rilevato le impronte vocali e gli hanno fatto l’elettroencefalogramma.”

Ma restavano sempre le impronte digitali e quelle dei piedi. Che non potevano cambiare.

Pensò: “Magari getteranno la fotocopia del fascicolo in un tritadocumenti, e sarà finita lì. E trasmetteranno i dati che hanno ottenuto a Memphis, per incorporarli nel mio — o meglio, nel supposto mio — dossier permanente. Nel dossier di Jason Tavern, per l’esattezza”.

Grazie a Dio, Jason Tavern, meccanico di motori diesel, non aveva mai infranto la legge, non aveva mai avuto a che fare con pol o naz. Buon per lui.

Un flipflap della polizia apparve in cielo. Proiettava il fascio rosso di un riflettore, e dai suoi altoparlanti si udì un messaggio. — Signor Jason Tavern, rientri immediatamente nella stazione di polizia del distretto 469. È un ordine. Signor Jason Tavern… — Le frasi continuarono a ripetersi. Jason si sentì trafitto. Se n’erano già accorti. Non nel giro di ore, giorni o settimane, ma di minuti.

Tornò alla stazione di polizia, salì le scale di stryaplex, superò la porta a fotocellula, si immerse di nuovo nel gorgo di infelici, raggiunse l’agente in uniforme che si era occupato del suo caso. C’era anche McNulty. I due stavano confabulando tra loro con aria accigliata.

— Oh — disse McNulty, alzando la testa, — ecco qui il nostro signor Tavern. Come mai è tornato, signor Tavern?

— Il flipflap della polizia — cominciò Jason, ma McNulty lo interruppe.

— Un’iniziativa non autorizzata. Abbiamo solo diramato un avviso di ricerca, e qualche idiota l’ha fatto arrivare a livello flipflap. Ma, visto che è qui… — McNulty gli mise sotto il naso la foto che aveva in mano, in modo che Jason potesse vederla bene. — Era questo l’aspetto che aveva quindici anni fa?

— Penso di sì — rispose Jason. La foto ritraeva un uomo dal viso olivastro, con un pomo d’Adamo sporgente, denti in pessime condizioni e occhi insignificanti puntati dritti sul nulla. I capelli, ricci e color granturco, scendevano su un paio di orecchie a sventola.

— Si è fatto fare la plastica facciale — suggerì McNulty.

— Sì — rispose Jason.

— Perché?

— Chi vorrebbe avere quell’aspetto?

— Quindi non c’è da meravigliarsi che lei sia così bello oggi — disse McNulty. — Così imponente. Così… — Cercò le parole. — Così autorevole. È davvero difficile credere che abbiano potuto fare a questo… — Batté l’indice sulla foto vecchia di quindici anni. — … Qualcosa per trasformarla in questo. — Diede una pacca cordiale al braccio di Jason. — Ma dove ha preso i soldi?

Mentre McNulty parlava, Jason si era messo a leggere in tutta fretta i dati stampati sul documento. Jason Tavern era nato a Cicero, nell’Illinois. Suo padre era un tornitore; suo nonno possedeva una catena di negozi che vendevano attrezzature agricole: una fortunata coincidenza, visto ciò che aveva appena raccontato a McNulty sulla sua attuale carriera.

— Da Windslow — rispose Jason. — Mi scusi. È che io penso sempre a lui con quel nome, e dimentico che gli altri non possono farlo. — Le sue capacità professionali l’avevano aiutato. Aveva letto e imparato a memoria quasi tutta la pagina mentre McNulty gli parlava. — Mio nonno. Aveva parecchi soldi, e io ero il suo prediletto. Ero l’unico nipote maschio, capisce?

McNulty studiò il documento e annuì.

— Avevo l’aspetto dello zotico di campagna — continuò Jason. — L’aspetto di quello che non ero: un contadino. Il lavoro migliore che fossi riuscito a trovare era riparare motori diesel, ma volevo arrivare più in alto. Così ho preso i soldi che Windslow mi ha lasciato e sono andato a Chicago…

— Okay. — McNulty stava ancora annuendo. — Collima tutto. Sappiamo che operazioni di chirurgia plastica così radicali sono possibili, e il costo non è poi eccessivo. Ma di solito vengono eseguite su nonpersone o gente fuggita dai campi di lavori forzati. Teniamo sotto controllo tutte le botteghe di rappezzo, come le chiamiamo noi.

— Ma guardi com’ero brutto — disse Jason.

McNulty rise. Una risata piena, di gola. — Lo era sul serio, signor Tavern. Okay, scusi se l’ho disturbata. Vada pure. — Fece un cenno, e Jason cominciò a fendere la folla di gente che aveva davanti. — Ehi! — urlò McNulty, gesticolando. — Un’altra… — La sua frase, disturbata dal brusio generale, non arrivò per intero a Jason. Così, con il cuore raggelato, tornò indietro.

“Se si accorgono di te” pensò, “non chiudono mai completamente il fascicolo. Non puoi riavere mai più il tuo anonimato. La cosa vitale è non farsi mai notare. Ma a me è successo.”

— Cosa c’è? — chiese a McNulty. Era alla disperazione. Stavano giocando con lui, per farlo crollare. Sentiva cuore, sangue, tutte le sue parti vitali vacillare nei loro processi biologici. Anche la superba fisiologia di un Sei si arrendeva di fronte a questa tortura.

McNulty tese la mano. — I suoi documenti. Voglio sottoporli a qualche esame di laboratorio. Se sono a posto, li riavrà domani l’altro.

Jason protestò: — Ma se un punto di controllo mobile…

— Le daremo un pass di polizia — rispose McNulty. Annuì a un agente sulla sua destra, un uomo anziano con una pancia enorme. — Fagli una foto quadridimensionale e preparagli un pass universale.

— Sì, ispettore — disse quell’ammasso di trippa. E allungò una zampa iperimbottita verso l’apparecchiatura fotografica.

Dieci minuti più tardi, Jason Taverner si ritrovò sul marciapiede, ora quasi deserto, e questa volta con un vero pass della polizia. Che era certo meglio di qualsiasi falso di Kathy, a parte il fatto che era valido una sola settimana. Ma comunque…

Per una settimana poteva permettersi di non preoccuparsi. E dopo…

Era riuscito nell’impossibile: aveva barattato un portafogli pieno di documenti falsi con un vero pass della polizia. Studiandolo alla luce dei lampioni, vide che la data di scadenza era olografica, e c’era spazio per inserire un altro numero. Sette. Poteva farla modificare da Kathy in settantacinque o novantasette, o in qualunque cifra le risultasse più facile.

Poi gli venne in mente che, non appena il laboratorio dei pol avesse accertato che i suoi documenti erano falsi, il numero del suo pass, il suo nome e la sua foto sarebbero stati trasmessi a ogni punto di controllo del pianeta.

Ma, finché questo non fosse successo, era al sicuro.

Parte seconda

Spegnetevi, vane luci, più non brillate!
Non v’è notte nera a sufficienza per chi,
in preda alla disperazione, piange la persa fortuna.
La luce altro non fa che svelare la vergogna.

7

Nel grigiore della sera sopravveniente, prima che sui marciapiedi di cemento fiorisse la vita notturna, il generale di polizia Felix Buckman atterrò con il suo lussuoso trabi sul tetto della sede dell’accademia di polizia di Los Angeles. Restò seduto a bordo per un po’, a leggere gli articoli di prima pagina dell’unico quotidiano della sera; poi, ripiegato con cura il giornale, lo mise sul sedile posteriore del trabi, aprì la portiera e scese.

Nessuna attività sotto di lui. Un turno aveva cominciato ad andarsene, l’altro non era ancora arrivato.

Gli piaceva quel momento della giornata: il grande edificio sembrava appartenere a lui solo. — E lascia il mondo alla tenebra e a me — disse, ricordando un verso dell’Elegia di Thomas Gray. Un autore che amava da molto fin dall’infanzia.

Con la chiave che gli spettava in virtù della propria carica, aprì il tubo di discesa rapida e nel giro di pochi secondi si trovò al suo piano, il tredicesimo. Dove aveva lavorato per la maggior parte della sua esistenza.

Scrivanie senza personale, file su file. Solo che, sul fondo della stanza centrale, un agente era ancora chino a scrivere un laborioso rapporto. E al distributore del caffè c’era una agente che beveva dalla sua tazza Dixie.

— Buonasera — le disse Buckman. Non la conosceva, ma non importava: lei, come chiunque altro nell’intero edificio, conosceva lui.

— Buonasera, signor Buckman. — L’agente raddrizzò le spalle e si mise quasi sull’attenti.

— Deve essere stanca — disse Buckman.

— Prego, signore?

— Vada a casa. — Buckman la lasciò, superò la fila posteriore di scrivanie, la serie di forme quadrate di metallo grigio sulle quali venivano espletati i compiti di quella sezione della polizia mondiale.

Quasi tutti i ripiani erano sgombri. Gli uomini avevano completato il loro lavoro prima di andarsene. Ma sulla scrivania 37 c’erano parecchie carte. Il signor Chissà Chi lavorava fino a tardi, pensò Buckman. Si chinò a leggere il nome sulla targhetta.

L’ispettore McNulty. Ovvio. Il ragazzo prodigio dell’accademia. Sempre preso a immaginarsi complotti e tradimenti… Buckman sorrise, si accomodò sulla poltroncina girevole e raccolse le carte.

TAVERNER, JASON. CODICE BLU

Un documento in fotocopia uscito dagli archivi della polizia. Riesumato dall’oblio da un ispettore McNulty troppo zelante, e decisamente in sovrappeso. Una nota a matita: “Taverner non esiste”.

“Strano” pensò Buckman. E incominciò a sfogliare le carte.

— Buonasera, signor Buckman. — Il suo assistente, Herbert Maime, giovane e scaltro, in impeccabili abiti borghesi: un privilegio al quale teneva molto, come Buckman.

— Pare che McNulty stia lavorando sul dossier di qualcuno che non esiste — disse Buckman.

— In quale distretto non esiste? — chiese Maime, e risero tutti e due. Non amavano troppo McNulty, ma la polizia in uniforme grigia aveva bisogno di uomini di quel tipo. Tutto sarebbe andato bene, almeno finché i McNulty dell’accademia non fossero arrivati ai livelli di chi stabiliva le procedure. Per fortuna, questo accadeva di rado. E di certo non sarebbe successo finché lui avesse potuto impedirlo.

Il soggetto ha dato il nome falso di Jason Tavern. Recuperato file errato di Jason Tavern di Kememmer, Wyoming, meccanico di motori diesel. Il soggetto sostiene di essere Tavern dopo una chirurgia plastica. I documenti lo identificano come Taverner, Jason, ma non esiste un dossier.

“Interessante” pensò Buckman, mentre leggeva gli appunti di McNulty. Nessun fascicolo sull’individuo. Terminò di leggere.

Ben vestito. Questo fatto fa presumere che disponga di soldi, forse dell’influenza necessaria per far sparire il suo dossier dalla banca dati. Indagare sui suoi rapporti con Katharine Nelson, contatto pol della zona. Lei sa chi sia l’uomo? Ha tentato di non segnalarcelo, ma il contatto 1659bd gli ha messo addosso un microtras. Soggetto al momento su un taxi. Settore n8823b. Procede in direzione est, verso Las Vegas. 12/10, ore 22.00, tempo dell’accademia. Prossimo rapporto previsto per ore 14.40, tempo dell’accademia.

Katharine Nelson. Buckman l’aveva incontrata una volta, a un corso di orientamento per informatori della polizia. Era la ragazza che segnalava solo le persone che non le piacevano. In una maniera strana e contorta, la ammirava. Dopo tutto, se non fosse intervenuto lui, l’8 aprile del 1982 lei sarebbe stata spedita in un campo di lavori forzati in Colombia.

Disse a Herb Maime: — Chiamami McNulty al telefono. Penso che sia meglio parlare con lui della cosa.

Un istante dopo, Maime gli passò il ricevitore. Sul piccolo schermo grigio apparve il volto di McNulty. Era disfatto, come il suo soggiorno: minuscoli e in disordine tutti e due.

— Sì, signor Buckman. — McNulty puntò lo sguardo su Buckman e si concentrò, si irrigidì, per quanto stanco fosse. Nonostante la spossatezza e quello che doveva essersi iniettato, McNulty sapeva esattamente come comportarsi di fronte ai superiori.

Buckman disse: — Mi faccia un rapporto veloce e sintetico su questo Jason Taverner. Non riesco a ricostruire l’intera storia dai suoi appunti.

— Il soggetto ha preso una camera d’albergo al 453 di Eye Street. Ha avvicinato il contatto pol 1659bd, noto come Ed, e ha chiesto di essere accompagnato da un falsificatore di documenti. Ed gli ha messo addosso un microtras, poi l’ha portato dal contatto pol 1980cc, Kathy.

— Katharine Nelson — disse Buckman.

— Sì, signore. Lei deve avere fatto un lavoro insolitamente accurato. Ho fatto eseguire dei test preliminari di laboratorio e risultano quasi perfetti. Evidentemente Kathy voleva che ci sfuggisse.

— Ha contattato Katharine Nelson?

— Mi sono incontrato con tutti e due nella stanza in cui vive lei. Nessuno dei due ha collaborato. Ho esaminato i documenti del soggetto, ma…

— Sembravano veri — interruppe Buckman.

— Sì, signore.

— Lei pensa ancora di potere stabilire questa cosa a occhio nudo.

— Sì, signor Buckman. Comunque, sono serviti a fargli superare un punto di controllo mobile. Documenti eccellenti.

— Buon per lui.

McNulty riprese a raccontare. — Gli ho sequestrato i documenti e gli ho dato un pass valido sette giorni, soggetto a revoca. Poi l’ho portato alla stazione del distretto 469, nel mio ufficio, e ho fatto richiamare il suo file… Il dossier di Jason Tavern. Il soggetto è stato brillante a proposito della chirurgia plastica. Sembrava plausibile, così l’abbiamo lasciato andare. No, aspetti un momento. Gli ho rilasciato il pass solo dopo…

— In parole povere — lo interruppe Buckman, — cosa sta combinando? Chi è?

— Lo stiamo seguendo col microtras. Stiamo cercando di recuperare dei dati su di lui. Ma, come ha letto nei miei appunti, credo che sia riuscito a far sparire il suo dossier da tutte le banche dati. Non c’è, anche se dovrebbe esserci, perché noi abbiamo un file su tutti, come sa ogni bambino delle elementari. È la legge. Dobbiamo avere un file.

— Ma non lo abbiamo — disse Buckman.

— Lo so, signor Buckman. Ma quando un file non c’è, deve esserci una ragione. Non è successo per caso. Qualcuno l’ha fatto sparare.

— Sparire — corresse Buckman, divertito.

— L’ha rubato, trafugato. — McNulty era sconcertato.— Ho appena cominciato a indagare, signor Buckman. Tra ventiquattr’ore ne saprò di più. Al diavolo, possiamo arrestarlo quando vogliamo! Non credo che sia una cosa importante. È solo un tizio pieno di soldi, con le conoscenze giuste per riuscire a far sparire il suo dossier da…

— Va bene. Vada a letto. — Buckman riappese, restò lì un attimo, poi si avviò in direzione del suo ufficio. Riflettendo.

Là, addormentata sul divano, c’era sua sorella Alys. Che indossava, scoprì Felix Buckman con grande dispiacere, calzoni neri iperaderenti, una camicia da uomo in pelle, orecchini ad anello e una cintura a maglie di catena con una fibbia in ferro battuto. Aveva chiaramente fatto uso di droghe. E, com’era già successo tante altre volte, era riuscita a mettere le mani su una delle chiavi del fratello.

— Dio ti maledica! — le disse lui. Chiuse la porta dell’ufficio prima che Herb Maime potesse vedere Alys.

Lei si mosse nel sonno. Il suo viso da gatta fece una smorfia di irritazione. La mano destra annaspò nell’aria per spegnere la luce fluorescente che Buckman aveva acceso.

Lui afferrò la sorella per le spalle, scoprì quanto fossero irrigiditi i muscoli, la mise a sedere. — Cos’hai usato questa volta? — chiese. — Termalina?

— No. — Ovviamente, aveva la lingua impastata. — Idrosolfato di esofenofrenina. Non tagliato. Sottocutaneo. — Spalancò i grandi occhi chiari e lo fissò con un’aria sfrontata da ribelle.

Buckman chiese: — Perché diavolo vieni sempre qui? — Tutte le volte che Alys si concedeva i piaceri del feticismo o della droga finiva nell’ufficio di suo fratello. Lui non sapeva perché, e lei non gliel’aveva mai detto. Una volta aveva borbottato qualcosa a proposito dell’“occhio del ciclone”, come a dire che lì, negli uffici dell’accademia di polizia, si sentiva al sicuro da un arresto. Grazie, ovviamente, alla posizione di lui.

— Feticisti!—ringhiò Buckman, furibondo. — Sistemiamo cento casi come il tuo al giorno. Tu e le tue camicie di pelle e le catene e i peni artificiali! Dio! — Ansimava. Si sentiva tremare.

Con uno sbadiglio, Alys scivolò giù dal divano, si alzò e stirò le braccia lunghe e snelle. — Mi fa piacere che sia sera — disse serena, a occhi chiusi. — Adesso posso tornare a casa e mettermi a letto.

— E come pensi di uscire di qui? — chiese lui. Ma lo sapeva già. Ogni volta era la stessa storia: usavano il tubo di salita per i prigionieri politici “in isolamento”; collegava il suo ufficio, all’estrema ala nord del palazzo, con il tetto, e quindi con il campo d’atterraggio dei trabi. Alys entrava e usciva da lì, grazie alle chiavi del fratello. — Un giorno o l’altro — le disse lui, minaccioso, — uno dei miei uomini userà il tubo di discesa per motivi di servizio e ti vedrà.

— E cosa potrebbe farmi? — Alys gli accarezzò i capelli grigi, tagliati a spazzola. — Me lo dica lei, signore. Mi costringerà a pentirmi, ad ansimare sotto i suoi colpi?

— Basta dare un’occhiata alla tua faccia, a quell’espressione da stravolta…

— Sanno che sono tua sorella.

Buckman disse con un tono di voce duro: — Lo sanno perché continui a intrufolarti qui.

Dopo essersi appollaiata sull’orlo di una scrivania vicina, con le ginocchia chiuse tra le braccia, Alys lo studiò grave. — Ti dà proprio fastidio.

— Sì, mi dà proprio fastidio.

— Che io venga qui e metta a repentaglio il tuo posto di lavoro.

— Tu non puoi mettere a repentaglio il mio posto di lavoro — ribatté Buckman. — Ci sono solo cinque uomini al di sopra di me, escluso il direttore, e tutti e cinque sanno di te e non possono farci niente. — Dopo di che, uscì furibondo dall’ufficio dell’ala nord, percorse il corridoio ed entrò nella suite più grande, dove svolgeva il grosso del proprio lavoro. Cercò di non guardare la sorella.

— Però hai chiuso subito la porta — disse Alys, saltellandogli dietro. — Per impedire che quell’Herbert Blame o Mame o Maine o quel che è mi vedesse.

— Sì — disse Buckman. — Per un uomo normale, tu sei ripugnante.

— Maime è normale? Tu come fai a saperlo? Te lo sei scopato?

— Se non te ne vai di qui — disse lui, calmo, scrutandola da dietro due scrivanie, — ti faccio ammazzare. Dio mi aiuti.

Lei scrollò le spalle tornite. E sorrise.

— Non c’è niente che ti spaventi — la accusò lui. — Dopo l’operazione al cervello. Ti sei fatta togliere apposta tutti i centri nervosi di umanità. Adesso sei un… — Si sforzò di trovare le parole: Alys lo paralizzava sempre in quel modo, riusciva addirittura a mettere fuori uso le sue capacità verbali. — Sei — riprese, con voce strozzata — una macchina che agisce di riflesso, che ripete le proprie azioni all’infinito, come un topo in un esperimento. Sei collegata al centro del piacere del tuo cervello e premi l’interruttore cinquemila volte all’ora, tutti i giorni della tua vita. Quando non dormi. Per me resta un mistero capire perché ti prenda il disturbo di dormire. Perché non continui a godere ventiquattr’ore su ventiquattro?

Aspettò una risposta, ma Alys non aprì bocca.

— Un giorno o l’altro — disse lui, — uno di noi due morirà.

— Sì? — Alys inarcò un sottile sopracciglio verde.

— Uno di noi — disse Buckman — sopravviverà all’altro. E chi resterà avrà di che stare allegro.

Il telefono sulla scrivania più grande ronzò. Buckman, automaticamente, sollevò il ricevitore. Sullo schermo apparve il viso disfatto di McNulty, che doveva essere in preda a una qualche droga. — Scusi se la disturbo, signor Buckman, ma mi ha appena chiamato un uomo del mio staff. A Omaha non risulta che sia mai esistito un certificato di nascita per Jason Taverner.

Pazientemente, Buckman replicò:— Allora è un nome falso.

— Gli abbiamo preso le impronte digitali, vocali, dei piedi, e gli abbiamo fatto l’elettroencefalogramma. Abbiamo mandato tutto alla Centrale Uno, alla banca dati globale di Detroit. Nessun riscontro. Tutte quelle impronte non esistono in nessuna banca dati del pianeta. — McNulty si tirò su alla meglio e sussurrò, in tono di scusa: — Jason Taverner non esiste.

8

Jason Taverner non desiderava, al momento, tornare da Kathy. E decise che non voleva nemmeno ritentare con Heather Hart. Controllò nella tasca della giacca: aveva ancora i soldi, e grazie al pass della polizia si sentiva libero di andare ovunque. Un pass dei pol era un passaporto per l’intero pianeta; finché non avessero emesso un avviso di ricerca per lui, poteva spostarsi dappertutto, comprese le aree non urbanizzate come certe particolari isole del Pacifico meridionale ancora infestate dalla giungla. Era possibile che lì non riuscissero a trovarlo per mesi, con tutto quello che il denaro gli avrebbe permesso di comperare in una zona tanto primitiva. “Ho tre cose che giocano a mio favore” si disse. “I soldi, un bell’aspetto e la personalità. Anzi, quattro: anche quarantadue anni di esperienza come Sei.”

Un appartamento.

“Ma” pensò “se affitto un appartamento, l’amministratore sarà tenuto per legge a prendermi le impronte digitali, che poi saranno spedite, come procedura standard, alla centrale dati dei pol… E quando la polizia avrà scoperto che i miei documenti sono falsi, avrà contemporaneamente un contatto diretto con me. Niente da fare.

“Devo trovare qualcuno che abbia già un appartamento. Intestato a suo nome, con le sue impronte digitali.

“Il che significa un’altra ragazza.

“Dove la trovo?” si chiese, e aveva già la risposta sulla punta della lingua: in una sala cocktail d’alto bordo. Il tipo di posto dove vanno tante donne e dove c’è un gruppo di tre uomini, preferibilmente neri, ben vestiti, che suonano similjazz.

“Ma sono ancora presentabile?” si domandò, e si mise a studiare il vestito di seta alla luce bianca e rossa di una grande insegna dell’AAMCO. Non era l’abito migliore che possedesse, ma quasi… Però era spiegazzato. Be’, nella penombra di una sala cocktail non si sarebbe notato.

Fermò un taxi e si trovò a viaggiare verso i quartieri rispettabili della città, la zona alla quale era abituato; o, perlomeno, a cui era stato abituato negli ultimi anni della sua vita, della sua carriera. Quando aveva raggiunto la vetta.

“Un club” pensò “dove mi sono esibito. Un club che conosco. Dove so chi siano il direttore di sala, la guardarobiera, la fiorista… A meno che anche loro, come me, non siano in qualche modo cambiati.”

Però, a quanto sembrava, nulla era mutato, a parte lui. A parte la sua situazione.

La Blue Fox Room dell’Hayette Hotel, a Reno. Aveva cantato lì parecchie volte; conosceva il posto, e il personale, piuttosto a fondo.

Disse al taxi: — Reno.

Con una virata elegante, il taxi tracciò un ampio arco a dritta. Jason si sentì parte integrante di quel moto, e ne provò piacere. Il taxi acquistò velocità: erano entrati in un corridoio aereo praticamente inutilizzato, e il limite massimo di velocità arrivava forse a duecento chilometri orari.

— Vorrei usare il telefono — disse Jason.

La fiancata sinistra del taxi si aprì e comparve un videotelefono con il cavo attorcigliato in un ghirigoro barocco.

Conosceva a memoria il numero della Blue Fox Room. Lo compose e aspettò. Ci fu un clic. Una matura voce maschile rispose: — Blue Fox Room, dove Freddy Hydrocephalic si esibisce tutte le sere in due spettacoli, alle venti e alle ventiquattro. Solo trenta dollari d’ingresso, e ragazze per tenere compagnia. Posso esserle utile?

— È il caro vecchio Jumpy Mike? — chiese Jason. — Il caro vecchio Jumpy Mike in persona?

— Sì, certo. — La voce perse il tono formale. — Con chi sto parlando, se posso chiederlo? — Una risatina calorosa.

Jason inspirò a pieni polmoni. — Sono Jason Taverner.

— Mi spiace, signor Taverner. — Jumpy Mike sembrava perplesso. — Al momento non riesco…

— è passato molto tempo — lo interruppe Jason. — Può fissarmi un tavolo nelle prime file del locale…?

— La Blue Fox Room è completamente prenotata, signor Taverner — borbottò Jumpy Mike con quel suo vocione. — Sono davvero spiacente.

— Nessun tavolo? A nessun prezzo?

— Mi spiace, signor Taverner. Niente. — La voce si perse in direzioni remote. — Riprovi tra un paio di settimane. — Il caro vecchio Jumpy Mike riappese.

Silenzio.

“Merda” si disse Jason. — Dio! — disse ad alta voce. — Miseriaccia fottuta. — Aveva i denti serrati. Fitte di dolore gli correvano nel trigemino.

— Nuove istruzioni, signore? — chiese in tono incolore il taxi.

— Facciamo Las Vegas — grugnì Jason. “Proverò alla Nellie Melba Room del Drakes Arms” decise. Non molto tempo prima, aveva avuto un bel colpo di fortuna lì, quando Heather Hart era impegnata in una tournée in Svezia. Una quantità ragionevole di pollastre di classe piuttosto alta bazzicavano il locale. Giocavano d’azzardo, bevevano, ascoltavano i cantanti e se la spassavano. Valeva la pena di tentare, se la Blue Fox Room, e altri posti di quel calibro gli erano vietati. Dopo tutto, cos’aveva da perdere?

Mezz’ora più tardi il taxi lo depositò sul tetto del Drake’s Arms. Rabbrividendo nella gelida aria della sera, Jason raggiunse lo sfolgorante tappeto mobile. Pochi istanti dopo si trovava nel calore-colore-luci-movimento della Nellie Melba Room.

L’ora: le sette e mezzo. Il primo spettacolo sarebbe iniziato di lì a poco. Guardò il cartellone: Freddy Hydrocephalic si esibiva anche lì, ma per uno show più modesto, a prezzi più modesti. “Magari si ricorderà di me” pensò Jason. “Probabilmente no.” E poi, riflettendoci più a fondo, concluse: “È impossibile”.

Se Heather Hart non si ricordava di lui, nessuno sarebbe stato in grado di farlo.

Sedette al banco sovraffollato, sull’unico sgabello libero e, quando finalmente il barista si accorse di lui, ordinò scotch e miele shakerati. Nel bicchiere galleggiava un panetto di burro.

— Sono tre dollari — disse il barista.

— Li metta sul mio… — cominciò Jason, ma si fermò subito. Tirò fuori un biglietto da cinque.

Poi la notò.

A diversi sgabelli di distanza. Era stata la sua amante anni prima; non la vedeva da un sacco di tempo. Però aveva ancora un bel corpo, anche se era molto invecchiata. Ruth Rae. Di tutte le persone…

Una qualità di Ruth Rae: era tanto furba da non abbronzarsi mai troppo. Niente invecchia la pelle più in fretta dell’abbronzatura, e ben poche donne lo sanno. In una della sua età (ormai doveva avere trentotto anni o trentanove), l’abbronzatura avrebbe trasformato la pelle in cuoio incartapecorito.

E vestiva bene. Sapeva mettere in mostra il suo splendido fisico. Se solo il tempo avesse annullato la sua implacabile serie di appuntamenti con il viso di Ruth… Comunque, aveva ancora splendidi capelli neri, raccolti a crocchia sulla nuca. Ciglia di piumoplastica, brillanti striature violacee sulle guance, come se fosse stata graffiata dagli artigli di una tigre psichedelica.

Vestita di un sari multicolore, a piedi nudi (come al solito doveva essersi liberata delle scarpe dai tacchi alti) e senza occhiali, non sembrava affatto brutta.

“Ruth Rae. Si cuce i vestiti da sé. Occhiali a lenti bifocali che non porta mai quando c’è altra gente… escluso me. Legge ancora i volumi che le manda il Club del Libro del Mese? Quegli interminabili, noiosissimi romanzi sulle malefatte sessuali che succedono nelle piccole, bizzarre, ma apparentemente normali città del Midwest?”

Era il punto debole di Ruth Rae: la sua ossessione per il sesso. Un anno, a quanto ricordava Jason, era andata a letto con sessanta uomini, escluso lui; lui era arrivato prima, quando le statistiche non avevano ancora raggiunto quei livelli.

E gli era sempre piaciuta la sua musica. Ruth Rae amava i cantanti sexy, le ballate pop e gli sdolcinati, troppo sdolcinati, brani per archi. Una volta aveva installato nel suo appartamento di New York un enorme impianto quadrifonico e aveva praticamente vissuto all’interno dell’impianto, mangiando panini dietetici e bevendo surrogati di bibite. Ascoltando per quarantotto ore di fila, album dopo album, i Purple People Strings, che Jason odiava.

Visto che i gusti di Ruth gli facevano schifo, lo irritava sapere di essere in cima alla sua lista di preferenze. Un’anomalia che non era mai riuscito a sottoporre a una vera analisi.

Che altro ricordava di lei? Cucchiaiate di un liquido giallo, oleoso, tutte le mattine: la vitamina E. Strano a dirsi, nel suo caso sembrava che funzionasse; il suo livello di energia erotica cresceva a ogni cucchiaiata. Praticamente trasudava sesso.

E, rammentò, odiava gli animali. Il che gli fece pensare a Kathy e al gatto Domenico. Ruth e Kathy non si sarebbero mai piaciute, no di certo. Ma la cosa non aveva importanza. Non si sarebbero mai incontrate.

Scese dallo sgabello, si spostò lungo il banco con il suo drink fino a trovarsi di fronte a Ruth Rae. Non si aspettava che lei lo riconoscesse, ma, un tempo, l’aveva trovato irresistibile… Perché non doveva essere così anche adesso? Nessuno sapeva valutare un’occasione sessuale meglio di lei.

— Ciao — le disse.

Con la vista annebbiata, dato che non portava gli occhiali, Ruth Rae sollevò la testa e lo scrutò. — Ciao — rispose con la voce roca per il troppo bourbon tracannato. — Chi sei?

— Ci siamo conosciuti qualche anno fa a New York. Avevo una parte in un episodio dello Scopatore fantasma. Se ricordo bene, tu eri la costumista.

— L’episodio — gracchiò Ruth Rae — in cui lo Scopatore fantasma cade nella trappola di pirati omosessuali provenienti da un altro tempo. — Gli sorrise. — Come ti chiami? — chiese, facendo sobbalzare i seni nudi, sostenuti da un balconcino di metallo.

— Jason Taverner.

— Ricordi il mio nome?

— Oh, sì. Ruth Rae.

— Adesso è Ruth Gomen — sussurrò lei. — Siediti. — Si guardò attorno, ma non vide sgabelli liberi. — Quel tavolo là. — Scese con grande lentezza da dove sedeva e ondeggiò in direzione di un tavolo vuoto; lui la prese sottobraccio e la guidò. Dopo un attimo di difficile navigazione, riuscì a metterla a sedere e si accomodò al suo fianco.

— Sei bella proprio come… — cominciò, ma lei lo interruppe.

— Sono vecchia — gracchiò. — Trentanove anni.

— Be’? Io ne ho quarantadue.

— Vanno benissimo per un uomo. Non per una donna. — Ruth Rae, con occhi miopi, scrutò il bicchiere di Martini sollevato a metà. — Lo sai cosa fa Bob? Bob Gomen? Alleva cani. Grossi cani pelosi che fanno un fracasso del diavolo. E il pelo finisce sempre in frigorifero. — Sorseggiò malinconica il Martini; poi, all’improvviso, il suo volto si illuminò. Si girò verso Jason e disse: — Tu non dimostri quarantadue anni. Hai un aspetto perfetto! Lo sai cosa penso? Dovresti lavorare nel cinema o in televisione.

Jason rispose cauto: — In tivù ci sono stato. Per un po’.

— Già. Per esempio nello Scopatore fantasma. — Lei annuì. — Dài, ammettiamolo. Nessuno dei due ce l’ha fatta.

— Ci berrò su — disse lui, ironicamente divertito. Bevve il suo cocktail di scotch e miele. Il panetto di burro si era sciolto.

— Mi sembra proprio di ricordarti — disse Ruth Rae. — Non avevi il progetto di ritirarti in una casa sul Pacifico, a un migliaio di chilometri dall’Australia? Eri tu?

— Ero io — mentì lui.

— E guidavi un’aerauto Rolls-Royce.

— Sì. — Questo era vero.

Ruth Rae sorrise. — Lo sai cosa ci faccio qui? Ne hai la più pallida idea? Sto cercando di riuscire a incontrare Freddy Hydrocephalic. Ne sono innamorata. — Esplose in una di quelle risate di gola che lui ricordava dai vecchi tempi. — Gli mando di continuo bigliettini che dicono: “Ti amo” e lui mi risponde con biglietti scritti a macchina che dicono: “Non voglio lasciarmi coinvolgere. Ho problemi personali”. — Rise di nuovo, e finì il suo drink.

— Un altro? — chiese Jason, alzandosi.

— No. — Ruth Rae scosse la testa. — Non bevo più. C’è stato un periodo… — Fece una pausa. Aveva un’espressione turbata. — Mi chiedo se a te sia mai successo qualcosa del genere. Guardandoti, direi di no.

— Successo cosa?

Ruth Rae si mise a giocherellare con il bicchiere vuoto.—Bevevo sempre. A partire dalle nove di mattina. E lo sai che effetto mi faceva? Mi faceva sembrare più vecchia. Dimostravo cinquant’anni. Maledetto alcol. Se hai paura che ti succeda qualcosa, l’alcol la farà accadere. Secondo me, l’alcol è il più grande nemico della vita. Sei d’accordo?

— Non ne sono certo — rispose Jason. — Io credo che la vita abbia nemici peggiori dell’alcol.

— Probabile. Come i campi di lavori forzati. Lo sai che l’anno scorso hanno cercato di mandarmici? Ho passato un periodo davvero tenibile. Non avevo soldi, non avevo ancora conosciuto Bob Gomen e lavoravo in una finanziaria. Un giorno arrivò un deposito in contanti. Tre o quattro biglietti da cinquanta dollari. — Ruth Rae fece una pausa. — Be’, ho preso i soldi e ho buttato busta e ricevuta del versamento nel tritadocumenti. Ma mi hanno scoperta. Era un trucco, una trappola.

— Oh…

— Però avevo una relazione col mio boss. I pol volevano sbattermi in un campo di lavori forzati in Georgia, dove sarei stata violentata e picchiata a morte da quei buzzurri, ma lui mi ha protetta. Non so ancora come abbia fatto, però mi hanno lasciata libera. Devo moltissimo a quell’uomo, e non l’ho mai più rivisto. Non rivedi mai la gente che ti ama e ti aiuta sul serio. Finisci sempre per trovarti coinvolto con estranei.

— Mi consideri un estraneo? — chiese Jason. Pensò: “Io ricordo un’altra cosa di te, Ruth Rae”. Lei aveva sempre un appartamento terribilmente costoso. Con chiunque fosse sposata, viveva sempre alla grande.

Ruth Rae lo scrutò con aria interrogativa. — No. Ti considero un amico.

— Grazie. — Jason le prese la mano dalla pelle secca, la tenne stretta per un secondo. Poi la lasciò andare proprio al momento giusto.

9

Il lusso dell’appartamento di Ruth Rae lasciò Jason Taverner a bocca aperta. Doveva costarle, calcolò, come minimo quattrocento dollari al giorno. Si disse che Bob Gomen doveva essere messo bene in quanto a soldi. O comunque doveva esserlo stato in passato.

— Non era necessario che prendessi quella bottiglia di Vat 69 — disse Ruth Rae. Afferrò la giacca di Jason, la sistemò assieme alla propria in un armadio ad apertura automatica. — Ho qui del Cutty Sark e del bourbon Hiram Walkers…

Lei aveva imparato molte cose dall’ultima volta che erano stati a letto assieme, era vero. Esausto, sdraiato nudo sulle lenzuola del letto ad acqua, Jason si massaggiava un punto contuso sul naso. Ruth Rae, o meglio la signora Ruth Gomen, sedeva sulla moquette e fumava una Pall Mall. Nessuno dei due parlava da un po’. Nella stanza era calato il silenzio. “La camera si è svuotata come sono svuotato io” pensò lui. “Non c’è una legge della termodinamica che dice che il calore non si può distruggere, ma solo trasmettere? Però c’è anche l’entropia.

“In questo momento sento il peso dell’entropia su di me. Mi sono scaricato nel vuoto, e non riavrò mai quello che ho dato. È un processo a senso unico. Sì. Sono certo che questa sia una delle leggi fondamentali della termodinamica.”

— Hai una macchina enciclopedica? — chiese alla donna.

— Diavolo, no. — Sul viso da prugna secca di lei apparve la preoccupazione. Da prugna secca… Jason si corresse mentalmente. Non era giusto. Il suo viso avvizzito, decise. Si avvicinava di più alla realtà.

— Cosa stai pensando? — le chiese.

— Dimmi cosa stai tu pensando — ribatté Ruth. — Cosa passa in quel tuo grande cervello supersegreto tipo coscienza alfa?

— Ti ricordi una ragazza che si chiamava Monica Buff? — chiese Jason.

— Se la ricordo?! Monica Buff è stata mia cognata per sei anni. In tutto quel tempo non si è lavata i capelli una sola volta. Un cespuglio disordinato di pelo canino castano scuro che le scendeva sulla faccia pallida e sul collo lurido.

— Non avevo capito che non ti piacesse.

— Jason, rubava. Se lasciavi la borsetta in giro, ti fregava tutto fino all’ultimo centesimo. Non solo le banconote, anche le monetine. Aveva il cervello di una gazza e la voce di un corvo, anche se per fortuna non parlava spesso. Lo sai che era capace di andare avanti per sei o sette giorni di fila, una volta persino otto, senza dire una sola parola? Se ne stava raggomitolata in un angolo come un ragno ferito a strimpellare su quella chitarra da cinque dollari che aveva. E non era mai riuscita a imparare un solo accordo. Okay, era carina, in quel suo modo disordinato e sporco. Te lo concedo. Se ti piacciono gli articoli dozzinali.

— Come tirava avanti? — chiese Jason. Aveva conosciuto Monica Buff solo superficialmente, attraverso Ruth. Ma in quel periodo aveva avuto con lei una veloce, incredibile relazione.

— Rubava nei negozi. Aveva quella grossa borsa di vimini che aveva trovato a Baja California. La riempiva di roba e poi usciva dal negozio con la borsa gonfia, enorme.

— Com’è che non l’hanno mai beccata?

— Sì che la beccavano. Le davano una multa e arrivava suo fratello con i soldi, così lei tornava in circolazione. Ricominciava a camminare a piedi nudi, dico sul serio!, per la Shewsbury Avenue di Boston e a fregare tutte le pesche nei reparti di frutta e verdura dei supermercati. Dedicava dieci ore al giorno a quello che chiamava “shopping”. — Ruth lo scrutò con occhi di fuoco. — Lo sai cosa ha continuato a fare senza essere mai scoperta? — Abbassò la voce. — Dava da mangiare agli studenti in fuga.

— E per questo fatto non l’hanno mai arrestata? — Sfamare o ospitare uno studente fuggito dal campus significava due anni in un clf, la prima volta. La seconda, la condanna era di cinque anni.

— No, mai. Se pensava che i pol stessero per eseguire un controllo a sorpresa, telefonava a una centrale e raccontava che un uomo stava cercando di introdursi in casa sua. Poi faceva uscire lo studente e lo chiudeva fuori. I pol arrivavano e trovavano qualcuno che stava prendendo a pugni la porta, proprio come aveva detto lei. Così quelli portavano via lo studente e lasciavano libera lei. — Ruth ridacchiò. — Una volta l’ho sentita fare una di queste telefonate ai pol. Da come l’aveva messa lei, l’uomo…

Jason disse: — Monica è stata la mia donna per tre settimane. Cinque anni fa, all’incirca.

— L’hai mai vista lavarsi i capelli?

— No — ammise lui.

— E non portava le mutandine — aggiunse Ruth. — Perché mai a un bell’uomo come te dovrebbe interessare una relazione con un mostriciattolo sporco, scalcinato e rognoso come Monica Buff? Non potevi portarla da nessuna parte. Puzzava. Non si lavava mai.

— Ebefrenia — disse Jason.

— Sì. — Ruth annuì. — La diagnosi era questa. Non so se lo sai, ma è scomparsa. È uscita per uno dei suoi shopping e non è più ritornata. Non l’abbiamo più rivista. Probabilmente a quest’ora sarà morta. E stringerà ancora tra le braccia quella borsa di vimini trovata a Baja. È stato il grande momento della sua vita, quel viaggio in Messico. Per l’occasione si è fatta il bagno, e io le ho sistemato i capelli, dopo averli lavati cinque o sei volte. Cosa ci hai trovato? Come potevi sopportarla?

— Mi piaceva il suo senso dell’umorismo — rispose Jason. “Non è giusto” pensò “paragonare Ruth Rae a una ragazza di diciannove anni. Nemmeno a Monica Buff. Però il confronto era continuamente presente nella sua mente. E gli rendeva impossibile sentirsi attratto da Ruth Rae. Per quanto a letto fosse brava, e ora anche molto esperta.

“La sto usando” pensò. “Come Kathy ha usato me. Come McNulty ha usato Kathy.

“McNulty: ma non è che io ho addosso un microtrasmettitore?”

Jason Taverner afferrò di corsa i vestiti e li portò in bagno. Seduto sull’orlo della vasca, cominciò a ispezionarli minuziosamente.

Gli ci volle mezz’ora. Ma alla fine riuscì a individuarlo. Per quanto minuscolo fosse. Lo gettò nel water e tirò l’acqua. Scosso, tornò in camera da letto. “Così sanno dove mi trovo” si rese conto. “Non posso restare qui.

“E ho messo a rischio la vita di Ruth per niente.”

— Aspetta — disse.

— Sì? — Ruth se ne stava appoggiata, stanca, alla parete del bagno, con le braccia conserte sotto il seno.

— I microtrasmettitori — disse adagio Jason — danno solo delle indicazioni approssimative. A meno che non ci sia un apparecchio sintonizzato sul loro segnale a rintracciare la posizione esatta. Prima di allora…

Non poteva esserne sicuro. Dopo tutto, McNulty lo aveva aspettato nell’appartamento di Kathy. Ma si era recato lì grazie al segnale del microtrasmettitore o perché sapeva che Kathy ci viveva? Stordito da troppa ansietà, sesso e scotch, non riusciva a ricordare. Seduto sull’orlo della vasca, massaggiandosi la fronte, si sforzò di pensare, di ricordare esattamente cosa avesse detto McNulty quando lui e Kathy, rientrati nella stanza, l’avevano trovato ad aspettarli.

“Ed” pensò. “Hanno detto che è stato Ed a mettermi addosso il microtras che mi ha fatto individuare. Però…”

Però poteva sempre darsi che avesse indicato loro solo l’area in generale. E che i pol avessero dedotto, correttamente, che doveva trattarsi dell’appartamento di Kathy.

Con la voce rotta, disse a Ruth Rae: — Porca miseria, spero di non averti messo i pol alle calcagna. Sarebbe troppo. — Scosse la testa, nel tentativo di schiarirsi le idee. — Hai del caffè bollente?

— Vado a schiacciare qualche pulsante in cucina. — Ruth Rae, a piedi nudi, vestita solo di un braccialetto di legno, si trasferì dal bagno in cucina. Un attimo dopo tornò con una grossa tazza di plastica. Sopra c’era stampata la scritta dacci dentro. Lui la prese e bevve il caffè fumante.

— Non posso restare qui — disse. — E, comunque, tu sei troppo vecchia.

Lei lo fissò con un’espressione grottesca, da bambola fracassata, calpestata. Poi scappò in cucina. “Perché l’ho detto?” si chiese Jason. “La tensione, le mie paure.” La seguì.

Ruth apparve sulla soglia. Aveva in mano un piatto di ceramica con la scritta souvenir della knotts berry farm. Si scagliò addosso a Jason e gli scaraventò il piatto sulla testa. La sua bocca si contorceva come una creaturina appena nata, viva da pochi istanti. All’ultimo momento, Jason riuscì a sollevare il gomito sinistro. Venne colpito lì. Il piatto si frantumò in tre pezzi dai contorni frastagliati, e dal suo gomito schizzò del sangue. Lui guardò il sangue, i frammenti del piatto sulla moquette, poi Ruth.

— Mi spiace — mormorò lei in un debole sussurro. Le parole parevano mute. I serpenti nati da poco si contorcevano di continuo, chiedendo scusa.

Jason disse: — Spiace a me.

— Ti metto un cerotto. — Lei fece per andare in bagno.

— No — la fermò lui. — Me ne vado. Il taglio è pulito. Non si infetterà.

— Perché me l’hai detto? — chiese Ruth, rauca.

— È stata la mia paura di invecchiare. Mi sta prosciugando. Non mi rimane quasi più energia. Nemmeno per un orgasmo.

— Però te la sei cavata molto bene, prima.

— Ma è stato l’ultimo. — Jason tornò in bagno. Lavò via il sangue dal braccio, continuò a lasciare scendere acqua fredda sul taglio finché non cominciò la coagulazione. Cinque minuti, cinquanta; non avrebbe saputo dirlo. Restò lì, con il gomito sotto il rubinetto. Ruth Rae era scomparsa. Dio sapeva dove. Probabilmente a spifferare tutto ai pol, si disse Jason, stancamente. Era troppo esausto per preoccuparsene.

“Al diavolo!” pensò. “Dopo quello che le ho detto, non potrei biasimarla.”

10

— No — disse il generale di polizia Felix Buckman, scuotendo la testa. — Jason Taverner esiste. In qualche modo è riuscito a far sparire i dati da tutte le banche in cui sono depositate le matrici. — Rifletté. — È sicuro di potergli mettere le mani addosso, se fosse necessario?

— Purtroppo ci sono delle brutte notizie, signor Buckman — rispose McNulty. — Ha trovato il microtras e l’ha tolto di mezzo. Quindi non sappiamo se sia ancora a Las Vegas. Se ha un po’ di buonsenso, avrà tagliato la corda. E quasi certamente è così.

— Sarà meglio che lei venga qui. Se Taverner è in grado di sottrarre dei dati dalle nostre banche, materiale che viene direttamente dalle fonti di base, deve presumibilmente essere coinvolto in attività di importanza enorme. Fino a che punto erano precisi i rilevamenti sulla sua posizione?

— Si trova, o si trovava, in uno degli ottantacinque appartamenti di un’ala di un complesso residenziale di seicento unità. Tutti interni lussuosi nel distretto di West Fireflash. Il complesso si chiama Copperfield II.

— Sarà meglio chiedere a Las Vegas di controllare tutti e ottantacinque gli appartamenti finché non lo trovano. E, quando l’avranno in pugno, lo faccia spedire direttamente a me per via aerea. Ma la voglio in ufficio. Si prenda un paio di stimolanti, lasci perdere il suo sonnellino drogato e venga qui.

— Sì, signor Buckman. — Nella voce di McNulty si avvertiva il disappunto. Fece una smorfia.

— Lei non crede che lo troveremo a Las Vegas, vero? — domandò Buckman.

— No, signore.

— Ma forse ci riusciremo. Adesso che ha eliminato il microtras, potrebbe pensare di essere al sicuro.

— Mi permetto di dissentire. Trovandolo, avrà capito che l’abbiamo tenuto sotto controllo da qui a West Fireflash. Per cui se la darà a gambe. In tutta fretta.

— Lo farebbe se il comportamento degli esseri umani fosse razionale. Ma non lo è. O lei non se n’è accorto, McNulty? Quasi tutti agiscono in maniera illogica. — “Il che” pensò Buckman “torna parecchio utile a noi. La gente è prevedibile.”

— Mi sono accorto che…

— Si presenti in ufficio tra mezz’ora. — Buckman chiuse la comunicazione. La pedante affettazione di McNulty e la letargia nebulosa prodotta dalla roba che si iniettava al calare del buio lo irritavano sempre.

Alys aveva osservato tutto. — Un uomo che è diventato inesistente. È mai successo prima?

— No — rispose Buckman. — E non è successo nemmeno questa volta. Da qualche parte, in chissà quale oscuro posto, avrà trascurato un microdocumento di importanza secondaria. Continueremo a cercare finché non lo troveremo. Prima o poi, rintracceremo l’impronta vocale o il tracciato cerebrale giusti, e allora sapremo chi è.

— Forse è proprio chi dice di essere. — Alys aveva studiato i grotteschi appunti di McNulty. — Il soggetto è iscritto al Sindacato musicisti. Dice di essere un cantante. Forse un’impronta vocale sarebbe la…

— Vattene dal mio ufficio — le disse Buckman.

— Sto solo facendo delle ipotesi. Forse ha inciso quel nuovo successo pornoaudio, Sdraiati Mosè, che…

— Ti dico io cosa devi fare: vai a casa e guarda nello studio. In una busta di pergamena trasparente, nel cassetto centrale della mia scrivania d’acero. Troverai una copia in condizioni perfette, con un annullo leggerissimo, dell’unico esemplare di Dollaro Nero emesso dal Trans-Mississippi. L’ho comperato per la mia collezione, ma puoi tenerlo tu per la tua. Io mi procurerò un’altra rarità. Vai, prendi quel maledetto francobollo, mettilo nel tuo album e chiudilo nella tua cassaforte per l’eternità. Non dovrai più nemmeno guardarlo. Ti basterà averlo. E lasciami lavorare in pace. Affare fatto?

— Gesù. — Gli occhi di Alys si illuminarono. — Dove l’hai trovato?

— L’ho avuto da un prigioniero politico in viaggio per un campo di lavori forzati. L’ha barattato con la libertà. Mi è sembrato uno scambio equo. Non pare anche a te?

Alys disse: — Il più bel francobollo che sia mai stato emesso. In tutti i tempi.

— Lo vuoi?

— Sì. — Alys uscì dall’ufficio e infilò il corridoio. — Ci vediamo domani. Ma non sei tenuto a farmi un regalo simile per convincermi ad andarmene. Voglio tornare a casa e fare una doccia; cambiarmi d’abito e mettermi a letto per qualche ora. D’altra parte, se vuoi…

— Voglio — disse Buckman. E aggiunse tra sé: “Perché ho questa fottuta paura di te? Perché sono così spaventato da tutto ciò che ti riguarda, persino dalla tua voglia di andartene? Persino di quella ho paura!

“Perché?” si chiese, guardandola mentre si dirigeva verso il tubo di salita riservato ai prigionieri, al lato opposto dell’ufficio suite. “La conoscevo da bambina e ne avevo paura anche allora. Perché, in qualche modo che non sono in grado di comprendere, lei non agisce in base alle regole. Abbiamo tutti delle regole; differiscono tra loro, ma tutti ne seguiamo alcune. Per esempio, non uccidiamo un uomo che ci ha appena fatto un favore. Nemmeno in questo Stato di polizia. Persino noi osserviamo questa regola. E non distruggiamo deliberatamente degli oggetti che per noi sono preziosi. Ma Alys è capace di tornare a casa, trovare il Dollaro Nero e dargli fuoco con la sigaretta. Lo so, eppure gliel’ho regalato. Prego ancora che col tempo torni tra noi e ricominci a giocare a biglie come facciamo tutti.

“Ma non lo farà mai.

“E se le ho offerto il Dollaro Nero è solo perché speravo di allettarla, di cercare di farla ritornare a regole che noi possiamo capire. La sto corrompendo, ed è uno spreco di tempo, se non molto di più: lo so io e lo sa lei. Sì. Probabilmente darà fuoco al Dollaro Nero, il francobollo più bello mai emesso, una rarità filatelica che in vita mia non avevo mai trovato in vendita. Nemmeno alle aste. E stasera, quando tornerò a casa, mi farà vedere la cenere. Forse ne lascerà un angolo intatto, per dimostrarmi di averlo fatto veramente.

“E io le crederò. E avrò ancora più paura.”

Depresso, Buckman aprì il terzo cassetto della grande scrivania e inserì un nastro nel piccolo registratore che teneva lì. Le arie di Dowland per quattro voci… Restò ad ascoltare quella che gli piaceva più di tutte, fra le canzoni per liuto di Dowland.

… poiché ora, abbandonato e derelitto,
io seggo, sospiro, piango, svengo, muoio
in mortale dolore e immensa tristezza.

“Il primo” rifletté Buckman “a scrivere un brano di musica ‘astratta’.” Tolse il nastro, inserì la prima cassetta dei brani per liuto, e rimase ad ascoltare la Lachrimae Antiquae Pavana. “Da questo” si disse “sono nati, col tempo, gli ultimi quartetti di Beethoven. E tutto il resto. Tranne Wagner.”

Detestava Wagner. Wagner e quelli come lui, per esempio Berlioz, avevano fatto tornare la musica indietro di tre secoli. Finché Karlheinz Stockhausen, con Gesang der Jünglinge, non l’aveva di nuovo aggiornata.

In piedi davanti alla scrivania, esaminò per un attimo la recente foto quadridimensionale di Jason Taverner, quella scattata da Katharine Nelson. “Che bell’uomo” pensò. “Di una bellezza quasi artefatta. Be’, è un cantante. Logico. Lavora nello show-business.”

Sfiorò la foto, la ascoltò che diceva: — E adesso, vacca miseria? — E sorrise. Poi, riprendendo ad ascoltare la Lachrimae Antiquae Pavana, pensò:

Scorrete, mie lacrime…

“Ho davvero il karma del poliziotto?” si chiese. “Con tutto il mio amore per la poesia e per la musica? Sì. Io sono un pol superbo perché non penso da pol. Non penso, per esempio, come un McNulty, che sarà sempre… com’è che si usava dire? un porco per tutta la vita. Io penso non come le persone che cerchiamo di arrestare, ma come le persone importanti che cerchiamo di arrestare. Come quest’uomo, questo Jason Taverner. Ho il sospetto, un’intuizione irrazionale ma fantastica, che si trovi ancora a Las Vegas. Lo intrappoleremo lì, e non dove pensa McNulty. Non altrove, come sarebbe più razionale, più logico.

“Io sono come Byron, che ha lottato per la libertà, che ha dato la vita per la Grecia. Solo che io non lotto per la libertà, ma per una società più giusta.

“È proprio vero? È per questo che faccio questo mestiere? Per avere ordine e armonia nel mondo? Regole. Sì. Le regole sono troppo importanti per me, ed è per questo che mi sento minacciato da Alys; è per questo che riesco ad affrontare tanti altri ostacoli, ma non lei.

“Grazie a Dio, non tutti sono come lei. Grazie a Dio, lei è un esemplare unico.”

Premette un pulsante del citofono interno. — Herb, vuoi venire qui, per favore?

Herbert Maime entrò in ufficio. Aveva tra le mani un fascio di stampate del computer. Pareva preoccupato.

— Vuoi fare una scommessa, Herb? — gli chiese Buckman. — Scommettiamo che Jason Taverner è ancora a Las Vegas?

— Perché si prende tanto a cuore una faccenducola così insignificante? — chiese Herb. — È roba al livello di McNulty, non al suo.

Buckman sedette alla scrivania e cominciò a giocare oziosamente con i colori evocati dai tasti del videotelefono; ricreò le bandiere di diverse nazioni scomparse. — Guarda cos’ha fatto quest’uomo. In qualche modo è riuscito a far sparire tutti i dati sul suo conto da ogni banca dati del pianeta e delle colonie lunari e marziane… McNulty ha provato anche là. Pensa per un attimo a cosa occorre per riuscire a tanto. Soldi? Somme enormi. Bustarelle astronomiche. Se Taverner ha speso cifre del genere, ha in ballo qualcosa di grosso. Potere personale? Stesse conclusioni. Ha un potere enorme e dobbiamo considerarlo una figura di primo piano. È quello che rappresenta a preoccuparmi di più. Penso che, da qualche parte sul pianeta, ci sia un gruppo che lo sostiene, ma non ho idea del perché, né dei loro obiettivi. D’accordo, azzerano tutti i dati che lo riguardano. Jason Taverner è l’uomo che non esiste. Ma, una volta fatto questo, cos’hanno concluso?

Herb rifletté.

— Non riesco a capire — continuò Buckman. — Non ha senso. Ma, se fanno una cosa del genere, deve significare qualcosa. Se no, non spenderebbero così tanto… — Ebbe uno scatto nervoso delle mani. — Qualunque sia stato il loro investimento. Soldi, tempo, potere: quel che è. Forse tutte e tre le cose.

— Certo. — Herb annuì.

— A volte — disse Buckman, — prendere all’amo un pesce piccolo significa pescarne poi di più grossi. È questo un incerto del nostro mestiere. Il prossimo pesce piccolo che prenderai sarà il trait d’union con qualcosa di gigantesco o… — Scrollò le spalle. — O soltanto con un altro pesciolino insignificante da gettare nella padella dei campi di lavoro? E forse Jason Taverner è proprio questo. Potrei sbagliarmi completamente. Però sono interessato a questo caso.

— Il che — concluse Herb — è una vera rogna per Taverner.

— Sì. — Buckman annuì. — Ora rifletti su questo. — Fece un attimo di pausa per una scorreggia silenziosa, poi continuò: — Taverner si è presentato da una falsificatrice di documenti, una normalissima falsificatrice che lavora in un ristorante abbandonato. Non aveva alcun contatto. Dio santo, si è servito del portiere dell’hotel dove alloggiava. Quindi doveva avere un bisogno disperato di documenti d’identità. D’accordo, e allora dove stavano i suoi potenti sostenitori? Perché non sono stati in grado di fornirgli delle eccellenti tessere false se sono riusciti a fare tutto il resto? Buon Dio, l’hanno gettato sulla strada, nella fogna della giungla urbana, dritto nelle braccia di un informatore della polizia. Hanno messo a rischio tutto!

— Sì. — Herb annuì di nuovo. — Qualcosa è andato per il verso sbagliato.

— Esatto. é successo qualcosa. Lui si è ritrovato all’improvviso in città senza un solo documento. Tutti quelli che aveva sono stati falsificati da Kathy Nelson. Come mai? Come hanno fatto a mandare tutto a puttane e costringere Taverner a una disperata ricerca di documenti falsi per poter percorrere tre o quattro isolati senza problemi? Capisci il mio ragionamento?

— Ma è così che li prendiamo.

— Prego? — chiese Buckman. E abbassò il volume del registratore.

— Se non commettessero errori del genere, non avremmo una sola possibilità. Per noi resterebbero un’entità metafisica, nemmeno mai intravista. Sono errori simili che ci fanno andare avanti. A me non pare importante perché commettono un errore; l’unica cosa che conti è che lo commettano. E dovremmo esserne felici.

“Io lo sono” pensò Buckman. Si protese sulla scrivania e compose il numero interno di McNulty. Non ci fu risposta. McNulty non era ancora rientrato. Buckman consultò l’orologio. Ancora un quarto d’ora e avrebbe saputo qualcosa.

Chiamò la centrale operativa Blu. — Come vanno le cose con l’operazione nel distretto Fireflash di Las Vegas? — chiese alle ragazze che, sedute su alti sgabelli, spostavano segnalini di plastica sulla mappa con lunghe stecche da biliardo. — La retata per l’uomo che si fa chiamare Jason Taverner.

Un ronzio, un ticchettio di computer, mentre l’operatrice premeva dei pulsanti. — La collego col capitano incaricato dell’operazione. — Sul video di Buckman apparve un uomo in uniforme. Aveva un’aria placidamente idiota. — Sì, signor Buckman?

— Avete preso Taverner?

— Non ancora, signore. Abbiamo già controllato una trentina circa degli appartamenti di…

— Quando lo prenderete — disse Buckman, — chiami direttamente me. — Diede al pol dall’aria un po’ idiota il numero del suo interno. Si sentiva vagamente sconfitto.

— Ci vuole tempo — disse Herb.

— Come per la buona birra — mormorò Buckman, fissando il nulla, con il cervello in funzione. Ma stava lavorando senza ottenere risultati.

— Lei e le sue intuizioni junghiane — disse Herb. — Ecco cos’è lei nella tipologia junghiana: una personalità intuitiva, con lampi di genio che sono il suo modo principale di procedere e pensare…

— Balle. — Buckman accartocciò uno dei fogli degli appunti di McNulty e lo gettò nel tritadocumenti.

— Non ha letto Jung?

— Sicuro. Quando ho fatto il master a Berkeley. Tutti dovevano leggere Jung, al corso di scienze politiche. Ho imparato tutto quel che hai imparato tu, e molto di più. — Buckman udì il tono d’irritazione nella propria voce, e non gli piacque. — Probabilmente staranno conducendo l’operazione come se fossero degli spazzini, tra fragori e strepiti… Taverner li sentirà molto prima che arrivino all’appartamento nel quale si trova.

— Pensa di prendere in trappola anche qualcun altro, oltre a Taverner? Qualcuno più in alto nella…

— Non può essere in compagnia di gente importante. Non con i suoi documenti sotto chiave in una stazione di polizia. Non con noi che gli stiamo alle calcagna, come sa benissimo. Non mi aspetto niente. A parte Taverner.

Herb disse: — Scommetterò con lei.

— Okay.

— Cinque pezzi d’oro da cinque dollari che, quando lo prenderà, si ritroverà con un pugno di mosche in mano.

Buckman, stupefatto, si rizzò sulla schiena. Pareva il suo stesso tipo di intuizione: nessun fatto concreto, nessun dato su cui basarsi. Solo l’intuito.

— Vuole scommettere? — chiese Herb.

— Ti dirò cosa farò. — Buckman tirò fuori il portafogli e contò il denaro. — Scommetto mille dollari in banconote che, quando prenderemo Taverner, entreremo in uno dei giri più importanti con cui abbiamo mai avuto a che fare.

Herb disse: — Non scommetto cifre simili.

— Pensi che io abbia ragione?

Il telefono ronzò. Buckman alzò il ricevitore. Sullo schermo apparve il viso del capitano idiota di Las Vegas. — Il nostro termoradex indica un maschio dell’altezza, del peso e della struttura fisica di Taverner in uno degli appartamenti nei quali non siamo ancora entrati. Ci stiamo muovendo con molta cautela. Stiamo facendo sgomberare tutti dagli interni vicini.

— Non uccidetelo — disse Buckman.

— Certo che no, signor Buckman.

— Rimanga in linea con me. Voglio assistere a tutto, da questo momento stesso.

— Sì, signore.

Buckman disse a Herb Maime: — L’hanno già preso. — E sorrise, deliziato.

11

Quando Jason Taverner andò a riprendere i vestiti, trovò Ruth Rae seduta, nella penombra della camera da letto, sul letto disfatto, ancora caldo. Si era rivestita e fumava una delle sue solite sigarette di tabacco. La luce grigia della notte filtrava dalle finestre. La brace della sigaretta ardeva incandescente.

— Quella roba lì ti ucciderà — disse lui. — C’è un motivo se hanno deciso di razionarle a un pacchetto settimanale a testa.

— Vaffanculo — rispose Ruth Rae, e continuò a fumare.

— Però tu te le procuri al mercato nero — disse Jason. Una volta era andato con lei a comperarne un’intera stecca. Nonostante quello che guadagnava, il prezzo gli aveva fatto impressione. Ma lei non ci aveva nemmeno fatto caso. Era chiaro che se l’aspettava: conosceva il costo del vizio.

— Le trovo. — Lei spense la sigaretta appena iniziata in un posacenere di ceramica a forma di polmone.

— La stai sprecando.

— Amavi Monica Buff? — chiese Ruth.

— Ma certo.

— Non vedo come tu abbia potuto. Jason disse: — Ci sono diversi tipi d’amore.

— Come per il coniglio di Emily Fusselman. — Ruth alzò lo sguardo su Jason. — Una donna che conoscevo, sposata, con tre figli. Aveva due gattini, poi si è comperata uno di quei grossi conigli belgi, quei conigli grigi che saltellano come matti sulle zampe posteriori. Il primo mese, il coniglio aveva paura di uscire dalla gabbia. Era un maschio, almeno da quello che siamo riusciti a capire. Dopo un mese usciva dalla gabbia e zampettava in giro per il soggiorno. Dopo due mesi aveva imparato a salire le scale e a grattare alla porta della camera da letto di Emily per svegliarla. Ha cominciato a giocare con i gatti, e lì sono iniziati i guai, perché non era furbo come un gatto.

— I conigli hanno cervelli più piccoli — disse Jason.

Ruth Rae continuò: — Vero. Comunque, adorava i gatti e cercava di fare tutto quello che facevano loro. Ha persino imparato a usare quasi sempre la cassetta della sabbia. Strappandosi dei ciuffi di pelo dal petto ha costruito un nido sotto il divano, e voleva che i gattini ci andassero. Ma a quelli l’idea non piaceva. E poi è quasi stata la fine quando ha cercato di giocare a Prendimi con un pastore tedesco che una tizia aveva portato con sé. Il coniglio aveva imparato a giocare coi gatti, con Emily Fusselman e coi bambini. Si nascondeva dietro il divano, poi usciva a razzo, si metteva a correre velocissimo in cerchio, e tutti cercavano di prenderlo; ma di solito non ci riuscivano, e allora lui tornava a mettersi al sicuro dietro il divano, dove nessuno aveva il diritto di seguirlo. Però il cane non conosceva quelle regole, e quando il coniglio è scappato dietro il divano l’ha seguito e l’ha azzannato alle chiappe. Emily è riuscita a staccare il cane, ma il coniglio era conciato male. Si è ripreso, però da allora è rimasto terrorizzato dai cani. Scappava se ne vedeva uno anche solo dalla finestra. E teneva nascosta dietro le tende la parte del corpo morsicata dal cane perché non aveva più peli e si vergognava. Ma la cosa più toccante in lui era lo sforzo di superare i limiti della sua… come la chiameresti?… fisiologia? I suoi limiti di coniglio, tentando di diventare una forma più evoluta, come i gatti. Ha sempre desiderato stare e giocare con loro da pari a pari. E la morale è tutta qui. I gatti non volevano stare nel nido che lui aveva preparato per loro e il cane non conosceva le regole e l’ha azzannato. È vissuto parecchi anni. Ma chi avrebbe pensato che un coniglio potesse sviluppare un comportamento tanto complesso? E, se c’era qualcuno seduto sul divano e lui voleva che quello scendesse per potersi sdraiare, prima dava dei colpetti col muso, poi, se non succedeva niente, mordeva. Ma considera le aspirazioni di quel coniglio e poi il suo fallimento. Una piccola vita che compie degli sforzi. Senza avere la benché minima speranza. Ma il coniglio non lo sapeva. Oppure lo sapeva e ci tentava lo stesso. Però, secondo me, non capiva. Solo lo desiderava tantissimo. Era tutta la sua vita, perché amava i gatti.

— Credevo che non ti piacessero gli animali — disse Jason.

— Non più. Non dopo tante sconfitte e tante morti. Come il coniglio: alla fine, ovviamente, è morto, ed Emily Fusselman ha pianto per giorni. Per una settimana. Ho visto che dolore le aveva procurato quella morte e non ho più voluto degli animali.

— Ma smettere completamente di amare gli animali per poter…

— Le loro vite sono così brevi. Così dannatamente brevi. Okay, certa gente perde una creatura amata e tira dritto e sposta il proprio affetto su un’altra. Ma è doloroso, troppo doloroso.

— Allora perché l’amore è così bello? — Jason ci aveva riflettuto sopra, nel corso delle sue numerose relazioni, durante tutta la sua vita di adulto. In quel momento lo fece in modo particolarmente profondo. Riandando col pensiero da quello che gli era accaduto di recente al coniglio di Emily Fusselman. A quel momento di dolore. — Ami qualcuno, e se ne va. Un giorno torna a casa e comincia a mettere le sue cose in valigia e tu chiedi: “Cosa succede?”, e ti senti rispondere: “Ho avuto un’offerta migliore da un’altra parte”. E se ne va, esce per sempre dalla tua vita, dopo di che, fino alla morte, ti porterai dietro questo fardello, e non hai nessuno con cui condividerne il peso. E se trovi qualcun altro, succede di nuovo la stessa cosa. Oppure un giorno chiami quel qualcuno al telefono, gli dici: “Sono Jason”, e ti senti dire: “Chi?”, e allora capisci che è finita. L’altro non sa più chi diavolo sei. Quindi probabilmente non l’ha mai saputo. In realtà, non hai mai veramente “avuto” nessuno.

Ruth disse: — L’amore non è solo volere un’altra persona allo stesso modo in cui vuoi impossessarti di un oggetto che vedi in una vetrina. Quello è solo desiderio. Vuoi avere l’oggetto tutto per te, portarlo a casa e metterlo da qualche parte nel tuo appartamento. Una lampada, o altro… L’amore è… — Fece una pausa. Rifletté. — Per esempio, un padre che salva i figli dalla casa in fiamme. Li porta fuori e muore. Quando ami, smetti di vivere per te stesso. Vivi per un’altra persona.

— E questo è bene? — A lui non sembrava tanto.

— Supera l’istinto. L’istinto ci spinge a lottare per la sopravvivenza. Come quando i pol accerchiano i campus. La sopravvivenza di noi stessi a spese di altri. Ognuno di noi si apre la via con gli artigli. Posso farti un buon esempio: il mio ventunesimo marito, Frank. Siamo rimasti sposati sei mesi. In quel periodo lui ha smesso di amarmi ed è diventato terribilmente infelice. Io lo amavo ancora. Avrei voluto restare con lui, ma lui soffriva. Così l’ho lasciato andare. Capisci? È stato meglio per lui, e siccome io lo amavo, era quella l’unica cosa importante. Capisci?

— Ma perché è bene andare contro l’istinto di sopravvivenza? — chiese Jason.

— Tu credi che io non ti sappia rispondere, vero?

— Infatti.

— Perché alla fine l’istinto di sopravvivenza è perdente. In ogni creatura vivente: sia essa una talpa, un pipistrello, un essere umano o un rospo. Persino i rospi che fumano sigari e giocano a scacchi. Non riuscirai mai a fare quello che è nelle intenzioni dell’istinto di sopravvivenza, per cui tutti i tuoi tentativi falliranno, soccomberai alla morte, e sarà finita lì. Ma se ami, puoi svanire e osservare…

— Io non sono pronto a svanire — disse Jason.

— Puoi svanire e osservare con felicità, e con una fresca, armoniosa gioia di tipo alfa, la più alta forma di gioia, la vita di quelli che ami che continua.

— Ma muoiono anche loro.

— Vero. — Ruth Rae si mordicchiò il labbro.

— È meglio non amare, così non sperimenterai mai nessuna morte. Anche un animale — un cane o un gatto, come hai detto tu — puoi amarlo, e poi muore. Se la morte di un coniglio è dolorosa… — Jason ebbe, in quel momento, una specie di visione orrorifica: le ossa frantumate e i capelli di una ragazza che grondava sangue, prigioniera delle fauci di un nemico appena intravisto, più grande di…

— Ma puoi soffrire. — Ruth scrutò con ansia il viso di lui. — Jason! La sofferenza è l’emozione più forte che un uomo o un bambino o un animale possano provare. È una buona sensazione.

— E sapresti dirmi, per favore, in che modo? — rispose lui con voce roca.

— La sofferenza ti spinge a lasciare te stesso. Esci dal tuo piccolo e limitato guscio. E non puoi soffrire se prima non hai amato. La sofferenza è l’esito finale dell’amore, perché è amore perduto. Tu capisci, lo so. Però non vuoi pensarci. È il completamento del ciclo dell’amore: amare, perdere, soffrire, lasciare e lasciarsi, poi amare di nuovo. Jason, soffrire è la consapevolezza che dovrai essere solo, e al di là di questo non c’è nulla, perché essere solo è il destino ultimo, definitivo di ogni creatura vivente. Ecco cos’è la morte: la grande solitudine. Ricordo la prima volta che ho fumato erba da una pipa ad acqua, invece del solito spinello. Il fumo era fresco, e non mi sono resa conto di averne inalato troppo. All’improvviso, sono morta. Per un breve istante, ma che dev’essere durato diversi secondi. Il mondo, ogni sensazione, persino la consapevolezza del mio corpo, del fatto stesso di avere un corpo, sono svaniti. E non mi sono trovata isolata nel solito senso, perché quando sei sola nel solito senso continui a ricevere dati, anche magari soltanto dal tuo corpo. Ma anche l’oscurità è scomparsa. Tutto ha cessato di esistere. Silenzio. Nulla. Sola.

— Devono aver bagnato l’erba dentro una di quelle merde tossiche. Tanta gente si è fritta il cervello così, a quei tempi.

— Sì, sono stata fortunata a tornare in me. Un caso, un incidente. Avevo già fumato erba un’infinità di volte e non era mai successo. Per questo, dopo quel giorno, fumo solo tabacco. Comunque, non è stato come svenire. Non ho avuto la sensazione di cadere perché non avevo nulla con cui cadere, non avevo un corpo… e non c’era un giù verso il quale cadere. Tutto, compresa me stessa, era semplicemente… — Ruth gesticolò. — Andato. Come l’ultimo goccio che esce da una bottiglia. Poi, dopo un po’, hanno ricominciato a proiettare il film. La pellicola che chiamiamo realtà. — Fece una pausa, aspirò dalla sigaretta. — Non l’avevo mai raccontato a nessuno.

— Ti sei spaventata?

Lei annuì. — La coscienza della mancanza di coscienza, se mi segui. Quando moriremo non ce ne accorgeremo, perché morire è perdere tutto quanto. Così io non ho più paura di morire, per niente, dopo quel brutto viaggio con l’erba. Ma soffrire è morire ed essere vivi allo stesso tempo. L’esperienza più assoluta, più totale che si possa provare. La forza. A volte giurerei che non siamo stati creati per superare un ostacolo simile. È troppo. Il corpo arriva quasi a distruggersi, con tutti quei sussulti, quelle contorsioni. Ma io voglio provare dolore. Versare lacrime.

— Perché? — Jason non riusciva a capirlo; per lui era una cosa da evitare. Appena cominciava a provarla, se la dava a gambe.

Ruth disse: — La sofferenza ti unisce di nuovo a ciò che hai perso. è una fusione. Te ne vai anche tu con la cosa o la persona amata che scompare. In un certo senso, ti dividi da te stesso e l’accompagni, fai con lei una parte del viaggio. La segui sin dove ti è concesso spingerti. Ricordo che una volta avevo un cane che amavo. Avevo diciassette o diciott’anni. Ero quasi maggiorenne, per quel che rammento. Il cane si ammalò e lo portammo dal veterinario. Dissero che aveva ingerito del veleno per topi e che ormai i suoi visceri erano solo un sacco di sangue e che le ventiquattro ore successive avrebbero stabilito se sarebbe sopravvissuto o no. Io tornai a casa e aspettai, poi verso le undici di sera crollai. Il veterinario doveva telefonarmi al mattino, appena rientrato in clinica, per dirmi se Hank aveva superato la notte. Io mi alzai alle otto e mezzo e cercai di rimettere ordine nella mia testa, in attesa della telefonata. Andai in bagno, volevo lavarmi i denti, e vidi Hank nell’angolo in fondo a sinistra. Con molta dignità e contegno, stava salendo lentamente una scala invisibile. Lo guardai salire in diagonale e poi, nell’angolo in alto a destra del bagno, scomparve, proseguendo su per la scala. Non si girò una sola volta. Capii che era morto. Poi il telefono squillò e il veterinario mi disse che Hank non ce l’aveva fatta. Ma io l’avevo visto salire. E, ovviamente, provai un dolore orribile, devastante, e patendo quella sofferenza mi persi e salii con lui quelle dannate scale.

Tutti e due rimasero in silenzio per un po’.

— Ma alla fine — proseguì Ruth, schiarendosi la gola — la sofferenza se ne va e tu torni in sintonia col mondo. Senza l’altro.

— E tu riesci ad accettarlo.

— Che scelta abbiamo? Piangi, continui a piangere, perché non torni mai del tutto indietro dal posto in cui sei andato con l’altro. Un frammento che si è staccato dal tuo cuore pulsante è ancora là. C’è una lesione. Una ferita che non guarisce mai. E se ti succede una volta e un’altra e un’altra ancora nella vita, col tempo se ne va una parte troppo grande del tuo cuore e non riesci più a soffrire. E allora tu stesso sei pronto a morire. Salirai la scala in diagonale e qualcun altro resterà indietro a soffrire per te.

— Non ci sono tagli nel mio cuore — disse Jason.

— Se te ne vai adesso — rispose Ruth, rauca, ma con una compostezza insolita in lei —, è così che mi sentirò io.

— Resterò fino a domani — rispose lui. Occorreva come minimo quell’intervallo di tempo perché il laboratorio della polizia scoprisse che i suoi documenti erano falsi.

“Kathy mi ha salvato?” si chiese. “O mi ha rovinato?” Proprio non lo sapeva. “Kathy, che mi ha usato, che a diciannove anni ne sa più di te e di me messi assieme. Più di quanto scopriremo nell’intero corso della nostra vita.”

Come un abile moderatore di una tavola rotonda, lo aveva demolito. E perché? Per ricostruirlo, più forte di prima? Ne dubitava. Ma restava una possibilità. Non doveva dimenticarla. Provava nei confronti di Kathy una certa fiducia, strana e cinica, a un tempo assoluta e poco convinta; metà del suo cervello la riteneva affidabile al di là dei propri poteri di comprensione, e l’altra metà la vedeva come una persona svilita, in vendita, pronta a darsi a chiunque. Non poteva fare convergere quelle percezioni. Le due immagini di Kathy restavano sovrapposte nella sua testa.

“Magari potrei districare le mie due opinioni parallele di Kathy prima di andarmene da qui” pensò. Prima del mattino. Ma forse poteva fermarsi anche un altro giorno, anche se avrebbe significato tirare troppo la corda. “Fino a che punto è in gamba la polizia?” si chiese. “Sono riusciti a sbagliarsi sul mio cognome; hanno ripescato il dossier errato. È possibile che riescano a mandare tutto a puttane sul serio? Forse. E forse no.”

Aveva idee assolutamente opposte tra loro anche sulla polizia. E non era in grado di risolvere nemmeno quel dilemma. E così, come un coniglio, come il coniglio di Emily Fusselman, si fermò dove si trovava. Sperando che tutti conoscessero le regole: non si distrugge una creatura che non sa cosa fare.

12

I quattro pol in uniforme grigia si erano radunati in corridoio sotto la luce dell’applique in ferro battuto a forma di candela. Il cono di quella fiamma falsa e perennemente luminosa tremolava nel buio della notte.

— Ne restano solo due — disse il sergente, quasi senza farsi udire. Lasciò che parlassero per lui le dita che stava facendo scorrere sull’elenco degli inquilini. — Una certa signora Ruth Gomen al 211 e un certo Allen Mufi al 212. Quale per primo?

— Mufi — rispose uno degli agenti in uniforme. Nella penombra si batté sul palmo della mano il manganello in plastica e piombo, ansioso di farla finita adesso che si cominciava a intravedere la meta.

— Allora il 212 — disse il sergente, e fece per suonare il campanello. Poi gli venne in mente di provare prima la maniglia.

Aperta. Una possibilità su moltissime contrarie, una coincidenza remota, ma improvvisamente favorevole. La porta non era chiusa a chiave. Fece cenno di fare silenzio, si concesse un sorrisetto, poi spalancò la porta.

Apparve un soggiorno buio, con calici per il vino vuoti e semivuoti sparsi in giro, alcuni anche sul pavimento. E una grande quantità di posacenere stracolmi di pacchetti di sigarette accartocciati e mozziconi spenti.

Un sigaretta-party, decise il sergente. Arrivato al capolinea. Adesso, tutti sarebbero tornati a casa. A eccezione forse del signor Mufi.

Entrò, puntò qua e là il fascio di luce della torcia elettrica. Infine lo diresse sulla porta che immetteva nelle altre stanze di quell’appartamento costosissimo. Nessun suono. Nessun movimento. Tranne il chiacchiericcio lontano, distante, smorzato, di un talk-show radiofonico a volume molto basso.

Camminò sul tappeto da parete a parete che raffigurava, in color oro, l’ascesa di Richard Nixon in paradiso, tra gioiosi canti in cielo e gemiti di dolore in terra. Arrivato alla porta di fronte, posò i piedi su Dio, che sorrideva radioso nel riaccogliere nel proprio seno il suo secondo figlio unigenito. Il sergente spalancò la porta della camera da letto.

Sul grande, morbidissimo letto matrimoniale dormiva un uomo, con spalle e braccia nude. I suoi vestiti erano ammucchiati su una sedia lì vicino. Il signor Allen Mufi, ovviamente. Sano e salvo nel suo letto. Però non era solo, in quel suo talamo così lussuoso. C’era un’altra forma indistinta, raggomitolata tra le lenzuola e le coperte dai toni pastello. La signora Mufi, pensò il sergente, e le puntò addosso la luce della torcia, con curiosità tutta maschile.

Di colpo, Allen Mufi, ammesso che fosse lui, si mosse. Aprì gli occhi. E si rizzò a sedere all’istante, fissando i pol. E la luce della torcia elettrica.

— Cosa? — disse, e ansimò di paura: una profonda, convulsa, tremante emissione di respiro. — No. — Dopo di che, fece per afferrare qualcosa sul comodino; frugò nelle tenebre, pallido e peloso e nudo, in cerca di qualcosa d’invisibile che per lui doveva essere molto prezioso. Disperatamente. Poi si rizzò a sedere sul letto, ansante, stringendo l’oggetto: un paio di forbici.

— A cosa le servono? — chiese il sergente, puntando il fascio di luce sul riflesso metallico delle forbici.

— Mi ucciderò — disse Mufi. — Se non se ne va e non… ci lascia in pace. — Premette le forbici, chiuse, contro il petto coperto di peli, all’altezza del cuore.

— Allora non è la signora Mufi — disse il sergente. Spostò il fascio di luce sull’altra forma raggomitolata, nascosta dalle coperte. — Eh? Una roba tipo una botta e via, grazie tante signorina? Ha trasformato il suo appartamento di lusso in un motel? — Il sergente raggiunse il letto, afferrò lenzuola e coperte, e tirò.

Nel letto, a fianco del signor Mufi, c’era un ragazzino nudo, magro, con lunghi capelli biondi.

— Mi venisse un accidente! — esclamò il sergente.

Uno dei suoi uomini disse: — Gli ho preso le forbici. — Le gettò a terra, davanti al piede destro del sergente.

Il signor Mufi se ne stava seduto, tremante, gli occhi colmi di un terrore stupefatto. Il sergente gli chiese: — Quanti anni ha il ragazzo?

L’adolescente si era svegliato. Teneva gli occhi fissi al soffitto, ma non si muoveva. Non c’era alcuna espressione sul suo viso tenero, dai contorni solo accennati.

— Tredici — rispose con voce rotta, quasi implorante, Mufi. — L’età per il libero consenso sessuale.

Il sergente chiese al ragazzo: — Lo puoi dimostrare? — Ora provava disgusto. Una forte sensazione di repulsione che gli faceva quasi venire voglia di vomitare. Sul letto c’erano delle chiazze umide, non ancora del tutto asciutte, di sudore e liquido seminale.

— La tessera d’identità — ansimò Mufi. — Nel suo portafogli. I pantaloni sulla sedia.

Uno degli uomini chiese al sergente: — Sarebbe a dire che se questo qui ha tredici anni non è stato commesso nessun reato?

— Al diavolo! — fece un altro agente, indignato. — È chiaro che si tratta di un reato. Perversione. Portiamoli dentro tutti e due.

— Aspettate un minuto, okay? — Il sergente prese i calzoni del ragazzo, frugò, trovò il portafogli, lo tirò fuori, studiò il documento. E come no: tredici anni. Chiuse il portafogli e lo rimise nella tasca. — No — disse. Si stava ancora godendo a metà la situazione. Lo divertiva il nudo imbarazzo di Mufi, ma si sentiva sempre più disgustato, di attimo in attimo, dal vigliacco orrore dell’uomo all’idea di essere stato scoperto. — Il nuovo testo rivisto del codice penale, articolo 640.3, dice che a dodici anni un minorenne è legalmente autorizzato a praticare attività sessuali o con un altro giovane di entrambi i sessi o con un adulto di entrambi i sessi, però con un solo partner per volta.

— Ma è disgustoso — protestò uno degli uomini.

— Questa è la sua opinione — ribatté Mufi. Adesso aveva un tono meno pavido.

— Perché non li sbattiamo dentro? Non sarebbe un bel colpo? — insistettero i pol raccolti attorno a lui.

— Stanno sistematicamente eliminando tutti i reati senza vittime — rispose il sergente. — È un processo che va avanti da dieci anni.

Questo? Questo sarebbe un reato senza vittime?

Il sergente chiese a Mufi: — Cos’è che le piace nei ragazzini? Me lo spieghi. Mi sono sempre domandato cosa provino i sodo come lei.

Sodo — fece eco Mufi, storcendo la bocca in una smorfia di fastidio. — Ecco cosa sono, allora.

— È una categoria. Gli individui che sfruttano i minori a scopi omosessuali. Un comportamento legale, ma ancora aborrito. Lei cosa fa nella vita?

— Vendo trabi usati.

— Se i suoi datori di lavoro sapessero che è un sodo, non le lascerebbero toccare i loro trabi. Non dopo quello che le sue mani esangui e pelose hanno fatto nel tempo libero. Giusto, signor Mufi? Nemmeno un venditore di trabi usati la può passare liscia, se è un sodo. Anche se il reato, in quanto tale, non esiste più.

Mufi disse: — È colpa di mia madre. Dominava mio padre, che era un uomo debole.

— Quanti ragazzini ha convinto a venire a letto con lei negli ultimi dodici mesi? — chiese il sergente. — Guardi che parlo sul serio. E poi saranno certo tutte storie di una sola notte, giusto?

— Io amo Ben. — Mufi teneva gli occhi fissi sul pol. La sua bocca si muoveva appena. — Col tempo, quando la mia situazione economica migliorerà e potrò permettermi di mantenerlo, lo sposerò.

Il sergente domandò a Ben: — Vuoi che ti portiamo via di qui? Dai tuoi?

— Vive qui. — Mufi accennò un sorrisetto.

— Sì, resto qui — rispose imbronciato il ragazzo. Poi rabbrividì. — Mostri, mi volete ridare le coperte? — Irritato, allungò una mano verso il lenzuolo.

— Cerchiamo di mantenere basso il livello di rumore qui dentro. — Il sergente cominciò a indietreggiare, depresso. — Cristo! E l’hanno depenalizzato.

— Probabilmente — continuò Mufi, molto più sicuro di sé adesso che i pol avevano iniziato a sgomberare — perché qualcuno di quei vecchi comandanti di polizia, uno di quei grassoni, si scopa anche lui i ragazzini e non vuole finire dentro. Non reggerebbe lo scandalo. — Il suo sorriso si allargò in un ghigno insinuante.

— Spero — disse il sergente — che un giorno o l’altro lei commetta qualche infrazione alla legge e la portino dentro, e ci sia io di servizio. Per avere l’onore di sbatterla in cella di persona. — Si raschiò la gola, poi sputò su Mufi. Sul suo viso senza espressione.

In silenzio, il gruppo di pol ripercorse il soggiorno ingombro di mozziconi di sigarette, cenere, pacchetti accartocciati, bicchieri vuoti a metà. Tornò in corridoio, sotto il portico. Il sergente chiuse con un colpo deciso la porta, rabbrividì, e per un attimo rimase ad ascoltare il buio nella propria mente, del tutto lontana dal luogo in cui si trovava. Poi disse: — 211 : Ruth Gomen. Dove l’uomo che stiamo cercando, Taverner, dovrebbe trovarsi, visto che è l’ultimo appartamento rimasto. Ammesso che lui sia davvero qui. — “Finalmente” pensò.

Bussò alla porta del 211. E restò in attesa, pronto a colpire col suo manganello di plastica e piombo; e d’un tratto non gli importò più nulla del suo lavoro. — Abbiamo visto Mufi — disse tra sé e sé, o quasi. — Adesso vediamo com’è la signora Gomen. Secondo voi, sarà meglio? Speriamo. Per stanotte ne ho avuto abbastanza.

— Qualunque cosa sarebbe meglio — disse, serio, uno dei pol al suo fianco. Annuirono tutti e si misero in posizione, nell’attesa di udire dei passi lenti dietro la porta.

13

Nel soggiorno del nuovo e lussuoso appartamento di Ruth Rae nel distretto Fireflash di Las Vegas, Jason Taverner disse: — Sono abbastanza sicuro di poter contare su quarantotto ore all’esterno e ventiquattro ore qui dentro. Per cui penso di non dovermene andare immediatamente. — “E se questo nostro nuovo, rivoluzionario principio è esatto” pensò, “è ovvio che la situazione ne risulterà modificata a mio beneficio. Sarò al sicuro.”

LA TEORIA CAMBIA…

— Sono lieta — disse senza il minimo entusiasmo Ruth — che tu possa restare qui con me in maniera civile. Così potremo chiacchierare ancora un po’. Vuoi qualcos’altro da bere? Scotch e Coca, magari?

LA TEORIA CAMBIA LA REALTÀ CHE DESCRIVE. — No — rispose lui, e si aggirò nel soggiorno, ascoltando… Non sapeva cosa. Forse l’assenza di suoni. Nessun televisore acceso, nessun rumore di passi sul pavimento sopra le loro teste. Nemmeno una pornocanzone da qualche parte, sparata a tutto volume da un impianto quadrifonico. — Le pareti di questi appartamenti sono molto spesse? — chiese a Ruth.

— Io non sento mai niente.

— Non noti qualcosa di strano? Niente fuori dell’ordinario?

— No. — Ruth scosse la testa.

— Stupida maledetta stronza! — Il tono di Jason era furioso. Lei lo fissò a bocca aperta, offesa, perplessa. — So — ringhiò lui — che mi hanno incastrato. Adesso. Qui. In questa stanza.

Squillò il campanello.

— Facciamo finta di niente — balbettò Ruth, impaurita. — Io voglio solo starmene qui a chiacchierare con te delle cose più gustose della vita, di quello che vuoi e non hai ancora ottenuto… — La sua voce si spense nel silenzio. Jason andò alla porta. — “Probabilmente sarà quello del piano di sopra. Ruba. Ruba cose strane. Come due quinti di una cipolla.”

Jason aprì la porta. Tre pol in uniforme grigia occupavano l’ingresso, con le pistole a tubo puntate su di lui. — Il signor Taverner? — chiese il pol con i gradi.

— Sì.

— Lei è in custodia di protezione, quindi la preghiamo di seguirci e non allontanarsi o perdere in alcun modo il contatto fisico con noi. I suoi effetti personali, se ne possiede, verranno recuperati più tardi e le saranno consegnati ovunque lei verrà trasferito.

— Okay — disse lui. Non provava quasi nulla.

Alle sue spalle, Ruth Rae emise uno strillo soffocato.

— Anche lei, signora — disse il poliziotto con i gradi, accennando a Ruth col manganello.

— Posso prendere il cappotto? — chiese timidamente lei.

— Andiamo. — Il poliziotto superò di scatto Jason, afferrò Ruth Rae per un braccio e la trascinò fuori dall’appartamento, in corridoio.

— Fai quello che ti dice — le consigliò Jason sottovoce.

Ruth piagnucolò: — Mi metteranno in un campo di lavori forzati.

— No — disse Jason. — Probabilmente ti uccideranno.

— Lei è proprio un uomo simpatico — commentò uno dei pol, mentre lui e i suoi colleghi trascinavano Jason e Ruth Rae giù per la scala con il corrimano in ferro battuto fino a pianterreno. Nel parcheggio c’era un trabifurgone della polizia; tutt’attorno, diversi pol armati. Avevano un’aria passiva e annoiata.

— Mi faccia vedere la sua tessera d’identità — disse a Jason il pol con i gradi. Tese la destra e aspettò.

— Ho un pass della polizia valido sette giorni. — Con mani tremanti, Jason lo tirò fuori, lo mostrò all’altro.

Studiando il pass, il pol chiese: — Lei ammette liberamente, di sua spontanea volontà, di essere Jason Taverner?

— Sì.

Due pol lo perquisirono con mani esperte, in cerca di armi. Lui lasciò fare in silenzio, ancora stordito, assente. L’unica cosa che provasse era un vago rimpianto perché non aveva fatto quel che sapeva che avrebbe dovuto: andarsene. Lasciare Las Vegas. Sparire in un luogo qualunque.

— Signor Taverner — disse il pol con i gradi, — l’ufficio di polizia di Los Angeles ci ha chiesto di prenderla in custodia di protezione e di trasferirla, con la dovuta sollecitudine e cura, alla sede dell’accademia di polizia nel centro di Los Angeles. La procedura ha già avuto inizio. Ha qualche lamentela da fare sul trattamento che le è stato riservato?

— No — rispose Jason. — Non ancora.

— Salga nella parte posteriore del trabifurgone — disse il poliziotto, indicando il portellone spalancato.

Jason obbedì.

Ruth Rae, salita al suo fianco, cominciò a mugolare tra sé, nel buio, dopo che il portellone venne richiuso. Lui le cinse una spalla col braccio e la baciò sulla fronte. — Cos’hai fatto? — gemette lei, con la voce roca per il bourbon. — Perché vogliono ucciderci?

Un agente si trasferì dall’abitacolo sul retro, insieme a loro. Disse: — Non la faremo fuori, signora. Portiamo solo tutti e due a Los Angeles. Nient’altro. Si calmi.

— Non mi piace Los Angeles — piagnucolò Ruth Rae. — Non ci vado da anni. Odio Los Angeles. — Si guardò attorno con occhi che tradivano tutta la sua angoscia.

— Anch’io. — L’agente chiuse il divisorio tra cabina di guida e retro del furgone e lasciò cadere la chiave in una feritoia, per passarla agli uomini in cabina. — Ma dobbiamo imparare a conviverci. Esiste.

— Probabilmente staranno passando al setaccio tutto il mio appartamento — si lamentò Ruth Rae. — Guarderanno dentro ogni cosa, romperanno tutto.

— Non c’è dubbio — disse Jason in tono incolore. Adesso gli faceva male la testa e si sentiva la nausea. Era stanco. — Da chi ci porteranno? — chiese all’agente. — Dall’ispettore McNulty?

— Probabilmente no — rispose affabile il pol, mentre il trabifurgone si alzava con fragore nell’aria. — “Parlan di me gli sfaccendati in piazza, mi canzonano pure i bevoni”, e stando a loro è i1 generale di polizia Felix Buckman che vuole interrogarla. — Spiegò: — La citazione era dal Salmo 69, versetto 13. Io sono qui con voi come testimone di Geova. “Ecco dunque ch’io sto per crear cieli nuovi ed una terra nuova. Non si ricorderanno più le cose passate, non torneranno più in mente”: Isaia, 65,17.

— Un generale di polizia? — chiese Jason, incredulo.

— Così si dice — rispose il cordiale e fanatico pol testimone di Geova. — Non so cosa abbiate combinato voialtri, ma di certo l’avete fatta grossa.

Ruth Rae singhiozzò nel buio.

— Ogni carne è come erba — intonò il fanatico della religione. — Come maria giovanna di bassa qualità, probabilmente. Poiché un bambino ci è nato, un successo ci è stato donato. Gli storpi saranno raddrizzati, i dritti piegati.

— Ha uno spinello? — gli chiese Jason.

— No. Li ho finiti. — Il pol fanatico religioso batté con le dita sul divisorio di metallo. — Ehi, Ralf, potresti passare uno spino a questo fratello?

— Ecco qua. — Dalla feritoia spuntò un braccio coperto da una manica grigia, una mano che stringeva un pacchetto spiegazzato di Goldies.

— Grazie — disse Jason, accendendo. — Ne vuoi uno? — chiese a Ruth Rae.

— Io voglio Bob — gemette lei. — Voglio mio marito.

Chino in avanti, muto, Jason fumò e meditò.

— Non smetta di sperare — disse nel buio il poliziotto stretto al suo fianco.

— E perché dovrei avere delle speranze? — chiese Jason.

— I campi di lavori forzati non sono poi così male. Ce ne hanno fatto visitare uno al corso di addestramento di base. Ci sono le docce, e letti con i materassi, e attività ricreative come la pallavolo. Attività artistiche. Si possono coltivare hobby come l’artigianato, ha presente? Per esempio, fare candele. A mano. E i familiari possono mandare pacchi, e una volta al mese loro o gli amici possono venire a trovarla. — Aggiunse: — E si può professare la propria fede nella propria chiesa preferita.

Jason disse, sardonico: — La mia chiesa preferita è il mondo libero, all’aperto.

Dopo di che cadde il silenzio. A parte i rumorosi scoppiettii del motore del trabifurgone e il pianto sommesso di Ruth Rae.

14

Venti minuti più tardi, il trabifurgone atterrò sul tetto dell’accademia di polizia di Los Angeles.

Jason Taverner, tutto intirizzito, scese, si guardò attorno, fiutò l’aria satura di smog, vide di nuovo, sopra di sé, il cielo giallastro della più grande città del Nordamerica. Si voltò per aiutare Ruth Rae a scendere, ma il giovane e cordiale poliziotto con le manie religiose aveva già provveduto.

Attorno a loro si raccolse un gruppo di pol di Los Angeles, molto interessati ai nuovi venuti. Parevano rilassati e allegri. Jason non vide cattiveria in nessuno di loro, e pensò: “Quando ti hanno preso, diventano gentili. È solo quando devono chiuderti nella rete che sono crudeli. Perché è ancora possibile che tu riesca a scappare. Mentre qui, adesso, questa possibilità non esiste”.

— Ha tentato il suicidio? — chiese un sergente di Los Angeles al pol fanatico religioso.

— No, signore.

Allora era per questo che l’avevano portato lì.

Quell’idea non aveva mai sfiorato Jason, e probabilmente nemmeno Ruth Rae… Tranne magari solo come una pura ipotesi: compiere un gesto estremo, concepito in teoria ma mai preso in seria considerazione per…

— Okay — disse il sergente di Los Angeles agli uomini di Las Vegas. — Da questo momento assumiamo formalmente la custodia dei due sospetti.

I pol di Las Vegas tornarono a bordo del trabifurgone, che si alzò in volo per rientrare in Nevada.

— Da questa parte — disse il sergente, con un cenno deciso della mano in direzione del tubo di discesa. I pol di Los Angeles sembravano a Jason un po’ più rozzi, un po’ più duri e anziani di quelli di Las Vegas. O forse era la sua immaginazione. Forse si trattava solo delle sue paure che aumentavano.

“Cosa si dice a un generale di polizia?” si chiese. “Specialmente quando tutte le spiegazioni che puoi dare non reggono, quando non sai niente, non credi in niente, e il resto è buio. Ma che se ne vada al diavolo!” decise esausto. E si lasciò cadere, praticamente a peso morto, nel tubo di discesa assieme a Ruth Rae e ai pol.

E al tredicesimo piano uscirono dal tubo.

Di fronte a loro c’era un uomo ben vestito. Portava occhiali con la montatura a giorno, il soprabito sul braccio, scarpe di pelle con la punta, e Jason notò che aveva due capsule d’oro in bocca. Un uomo, gli parve, più o meno della sua stessa età. Alto, grigio di capelli, con un’espressione di autentico calore umano sul viso aristocratico, dai lineamenti quasi perfetti. Non sembrava un pol.

— Lei è Jason Taverner? — chiese l’uomo. Porse la mano. Jason la strinse solo per un riflesso automatico. A Ruth, il generale di polizia disse: — Lei può scendere ai piani inferiori. La interrogherò più tardi. Per adesso voglio parlare col signor Taverner.

I pol portarono via Ruth. Jason la sentì che continuava a lamentarsi finché non scomparve. Dopo di che, si trovò davanti solo il generale di polizia, e nessun altro. Nessun uomo armato.

— Sono Felix Buckman — disse il generale di polizia. Indicò la porta aperta e il corridoio alle sue spalle. — Venga nel mio ufficio. — Girò sui tacchi e guidò con garbo Jason davanti a sé, in una grande suite con le pareti tinte in toni pastello blu e grigi. Jason sgranò gli occhi: non aveva mai visto prima un ufficio di polizia. Non aveva mai immaginato che potesse essere tanto elegante.

Incredulo, un istante più tardi si trovò seduto su una poltrona in pelle, con la morbidezza dello styroflex dietro la schiena. Buckman, comunque, non si accomodò alla scrivania in quercia, così alta e imponente da incutere timore. Aprì invece un armadio per riporre il soprabito.

— Sarei venuto ad accoglierla sul tetto — spiegò. — Ma, a quest’ora, là sopra il vento Santana soffia troppo forte. È un problema per la mia sinusite. — A quel punto, si voltò a guardare Jason. — Vedo in lei qualcosa che non risulta dalle sue foto quadridimensionali. Non si vede mai. È sempre una sorpresa, almeno per me. Lei è un Sei, giusto?

Improvvisamente all’erta, Jason si rizzò sulla schiena. — È un Sei anche lei, generale?

Con un grande sorriso, mettendo in mostra i denti incapsulati in oro, Felix Buckman alzò sette dita.

15

Nella sua carriera di ufficiale della polizia, Felix Buckman aveva usato quel trucchetto ogni volta che si era trovato di fronte un Sei. Vi faceva affidamento soprattutto quando, come in quel caso, l’incontro risultava imprevisto. Ne aveva conosciuti quattro. Alla fine, tutti quanti gli avevano creduto. Lo trovava divertente. I Sei, esperimenti genetici, per di più segreti, parevano insolitamente creduloni di fronte all’asserzione che fosse stato portato a termine un ulteriore progetto genetico, segreto quanto il loro.

Senza quella bugia, per un Sei lui sarebbe stato semplicemente un Ordinario. Una posizione di svantaggio dalla quale non avrebbe potuto trattare con un Sei nel migliore dei modi. Quindi, l’inganno. Grazie al quale il suo rapporto con un Sei si capovolgeva. E, in quelle condizioni artefatte, poteva gestire con successo un essere umano che, diversamente, sarebbe sfuggito al suo controllo.

Una volta, in un momento di relax, aveva detto ad Alys:

— Riesco a pensare meglio di un Sei all’incirca dai dieci ai quindici minuti. Ma se la cosa va avanti… — Aveva fatto un cenno con la mano, accartocciando un pacchetto di sigarette acquistate al mercato nero. Ne conteneva ancora due.

— Dopo quel periodo, le loro facoltà iperamplificate hanno il sopravvento. Quello che mi occorre è un grimaldello per aprire quelle loro boriose, stramaledette menti. — E, col tempo, l’aveva trovato.

— Perché un Sette? — aveva chiesto Alys. — Se imbrogli, perché non dire che sei un Otto o un Trentotto?

— Il peccato della vanagloria. L’esagerazione. — Buckman non voleva commettere quell’errore. — Dirò loro — aveva confessato a sua sorella — qualcosa che, secondo me, crederanno. — E, alla fine, la sua ipotesi si era dimostrata giusta.

— Non la berranno — aveva detto Alys.

— Oh, diavolo se la berranno! — aveva ribattuto lui. — È la loro paura segreta, la loro bestia nera. Sono al sesto posto in una serie di sistemi di ricostruzione del dna e sanno che, se è stato possibile farlo a loro, potrebbe essere fatto anche ad altri, con tecniche più avanzate.

Alys, indifferente, aveva commentato distratta: — Tu dovresti andare in televisione a vendere saponette. — Questa era stata l’unica sua reazione. Se ad Alys non interessava qualcosa, quel qualcosa, per lei, smetteva di esistere. Probabilmente non avrebbe dovuto farla franca con quell’atteggiamento per tutto quel tempo… “Ma, una volta o l’altra” aveva spesso pensato lui, “arriverà la giusta punizione: la realtà negata tornerà per la persecuzione. Si impossesserà senza preavviso dell’individuo che la nega e lo porterà alla follia.”

E Alys, aveva pensato molte volte, era un caso patologico davvero strano, un caso clinico del tutto bizzarro.

Buckman aveva questa intuizione senza riuscire a definirla con esattezza. Comunque, molte delle sue intuizioni avevano queste caratteristiche. L’idea non lo turbava, per quanto amasse sua sorella. Sapeva di avere ragione.

E ora, di fronte a Jason Taverner, profuse tutto il suo impegno nel trucchetto che aveva già funzionato altre volte.

— Eravamo in pochissimi — disse, sedendosi alla gigantesca scrivania di quercia. — Quattro in tutto. Uno è già morto, quindi restiamo in tre. Non ho la più pallida idea di dove siano gli altri. Manteniamo tra noi contatti ancora più ridotti di quanto facciate voi Sei. E già voi ne avete ben pochi.

— Chi era il suo mutatore? — chiese Jason.

— Dill-Temko. Lo stesso vostro. Si è occupato dei gruppi dal Cinque al Sette, poi è andato in pensione. Come lei saprà senz’altro, adesso è morto.

— Sì — disse Jason. — È stato uno shock per tutti.

— Anche per noi. — Buckman fece ricorso al suo tono più grave. — Dill-Temko era il nostro genitore. Il nostro unico genitore. Lo sapeva che al momento della morte aveva cominciato a preparare il progetto del gruppo Otto?

— Come sarebbero stati?

— Solo Dill-Temko lo sapeva — rispose Buckman, e sentì crescere la propria superiorità sul Sei. Eppure, quanto era fragile il suo vantaggio psicologico. Un solo sbaglio, una semplice frase di troppo, e sarebbe svanito. Una volta perso, non l’avrebbe più recuperato.

Era proprio questo il rischio che correva. Ma gli piaceva: gli era sempre piaciuto scommettere contro le proprie possibilità, giocare d’azzardo al buio. In momenti come quello, avvertiva quasi sensibilmente tutta la sua abilità. E non riteneva che fosse solo un prodotto della sua immaginazione, a dispetto di ciò che avrebbe detto un Sei al corrente della sua natura di Ordinario. La cosa non gli dava il minimo fastidio.

Premette un pulsante. — Peggy, portaci una caraffa di caffè con la panna e il resto. Grazie. — Poi si appoggiò all’indietro sulla poltrona con studiata noncuranza. E scrutò Jason Taverner.

Chiunque avesse già incontrato un Sei avrebbe riconosciuto la vera natura di Taverner. Il petto robusto, la struttura massiccia di braccia e schiena. La testa forte, da ariete. Ma la maggioranza degli Ordinari non si sarebbero mai resi conto di avere a che fare con un Sei. Non avevano l’esperienza di Buckman. Le conoscenze sul conto dei Sei che lui aveva mentalmente archiviato con tanta cura.

Una volta aveva detto ad Alys: — Non si impadroniranno mai del potere. Non governeranno il mio mondo.

— Tu non hai un mondo. Tu hai un ufficio. A quel punto, lui aveva chiuso il discorso.

— Signor Taverner — disse a bruciapelo, — com’è riuscito a far sparire dalle banche dati dell’intero pianeta documenti, tessere, microfilm, persino dossier completi? Ho tentato di immaginare come abbia potuto fare, ma alla fine mi sono dovuto arrendere. — Si concentrò con lo sguardo sul viso, bello ma ormai sulla via dell’invecchiamento, del Sei, e aspettò.

16

“Cosa posso dirgli?” si chiese Jason Taverner, mentre sedeva in silenzio davanti al generale di polizia. “Raccontargli esattamente tutto quello che è successo, per filo e per segno? Non mi crederebbe, perché in realtà quasi quasi non ci credo nemmeno io.

“Ma forse un Sette potrebbe…” Solo Dio sapeva cosa poteva fare. “Cercherò di dargli” decise “una spiegazione plausibile.”

Ma quando fece per rispondere, qualcosa gli fermò le parole sulla punta della lingua. “Non voglio raccontargli niente. Non esiste un limite a quello che potrebbe farmi. È un generale, ha un potere enorme e, se è un Sette, per lui questo limite potrebbe essere il cielo. Devo partire da questo presupposto se voglio salvarmi.”

— Il fatto che lei sia un Sei — disse Buckman, dopo un attimo di silenzio — mi porta a considerare la situazione sotto una luce diversa. Lei sta lavorando con altri Sei, vero? — Tenne gli occhi puntati su Jason, che trovò questo fatto sgradevole e sconcertante. — Secondo me — continuò Buckman, — ci troviamo di fronte alla prima prova concreta del fatto che i Sei stanno…

— No — disse Jason.

— No? — Buckman continuò a fissarlo. — Lei non è in combutta con altri Sei in questa faccenda?

— Conosco un solo altro Sei — disse Jason. — Heather Hart. E lei mi considera un “aborto di fan”. — Pronunciò quelle parole con il più amaro dei toni di voce.

Buckman trovò il dato interessante. Non sapeva che la celebre cantante Heather Hart fosse un Sei. Ma, ripensandoci, era più che ragionevole. Comunque, nel corso della sua intera carriera non si era mai trovato di fronte a un Sei femmina; i suoi contatti con i Sei erano tutt’altro che frequenti.

— Se la signorina Hart è un Sei — disse, — forse dovremmo chiedere anche a lei di presentarsi qui per un colloquio. — Un eufemismo classico della polizia che gli uscì con estrema facilità dalle labbra.

— Faccia pure — disse Jason. — La metta pure sotto torchio. — Il suo tono era diventato furibondo. — L’arresti. La sbatta in un campo di lavori forzati.

“Voi Sei” si disse Buckman “siete davvero poco leali gli uni con gli altri.” L’aveva già scoperto, ma era un fatto che non mancava mai di sorprenderlo. Un gruppo d’élite, creato da vecchi circoli aristocratici per ristabilire e far rispettare la moralità nel mondo, si era praticamente volatilizzato, ridotto a nulla, perché i suoi membri non si sopportavano tra loro. Rise tra sé; lasciò che in volto trapelasse quel sorriso.

— Si sta divertendo? — chiese Jason. — Non mi crede?

— Non ha importanza. — Buckman prese da un cassetto della scrivania una scatola di sigari Cuesta Rey e usò il suo coltellino per tagliarne la punta a uno. Il coltellino d’acciaio serviva a quell’unico scopo.

Jason Taverner lo scrutava affascinato.

— Un sigaro? — Buckman tese la scatola a Jason.

— Non ho mai fumato un buon sigaro. Se si fosse sparsa la voce che io… — Jason si interruppe.

— Se si fosse sparsa la voce? — Le orecchie di Buckman si drizzarono. — Cioè se la voce fosse arrivata a chi? Alla polizia?

Jason non aprì bocca. Ma aveva stretto il pugno, e il suo respiro si era fatto affannoso.

— Esistono dei gruppi sociali all’interno dei quali lei è molto conosciuto? — chiese Buckman. — Per esempio, gli intellettuali chiusi nei campi di lavori forzati? Sa, quelli che fanno circolare manoscritti ciclostilati.

— No.

— Negli ambienti musicali, allora? Jason rispose a denti stretti: — Non più.

— Lei ha mai inciso dischi?

— Non qui.

Buckman continuò a fissarlo senza batter ciglio, una tecnica che aveva perfezionato in lunghi anni. — Allora dove? — chiese, con una voce appena al di sopra della soglia dell’udibile. Un effetto deliberato, voluto: un tono che cullava, che interferiva con la capacità di capire appieno il significato delle parole.

Ma Jason Taverner lo lasciò cadere nel nulla, non rispose. “Maledetti bastardi di Sei!” pensò Buckman, rabbioso soprattutto con se stesso. “Non posso fare i miei soliti giochetti con un Sei. Non funzionano. E, da un momento all’altro, questo potrebbe cancellare dalla mente la mia asserzione, la mia pretesa di possedere un patrimonio genetico superiore al suo.”

Premette un pulsante del citofono interno. — Fai portare qui la signorina Katharine Nelson — ordinò a Herb Maime. — Un’informatrice della polizia che vive nel distretto di Watts, l’ex zona dei neri. Ho bisogno di parlare con lei.

— Mezz’ora.

— Grazie.

Jason Taverner chiese: — Perché mettere in mezzo anche lei?

— Ha falsificato i suoi documenti.

— Di me sa soltanto quello che le ho fatto scrivere sulle tessere.

— Ed erano dati falsi?

Dopo una pausa, Jason scosse la testa.

— Allora lei esiste.

— Non… qui.

— Dove?

— Non lo so.

— Mi spieghi com’è riuscito a cancellare quei dati da tutte le banche.

— Non l’ho mai fatto.

A quella risposta, Buckman si sentì afferrare da un’intuizione grandiosa, che lo strinse con artigli d’acciaio. — Lei non ha tolto informazioni dalle banche dati. Ha cercato di inserirle. Non ci sono mai stati dati su di lei nelle banche.

Finalmente, Jason Taverner annuì.

— Okay. — Buckman sentiva ardere dentro la fiamma della scoperta; gli si stava svelando nel fulgore della comprensione. — Però dev’esserci una ragione, se i suoi dati non sono mai esistiti. Perché? Lo sa?

— Sì. — Jason Taverner abbassò gli occhi sulla scrivania. Il suo viso si era trasformato in uno specchio deformante. — Io non esisto.

— Però, una volta esisteva.

— Sì. — Taverner annuì a malincuore, con il dolore che gli affiorava nella voce.

— Dove?

— Non lo so!

“Si torna sempre allo stesso punto” pensò Buckman. “ ‘Non lo so.’ Be’, forse non lo sa sul serio. Però si è spostato da Los Angeles a Las Vegas; è andato a letto con quella tizia magra e rugosa che i pol di Las Vegas hanno caricato sul trabifurgone con lui. Forse potrei ricavare qualcosa da lei.” Ma l’intuito gli diceva di no.

— Ha cenato? — chiese.

— Sì.

— Però mi terrà compagnia. Faccio portare qualcosa per tutti e due. — Attivò di nuovo il citofono interno. — Peggy, è così tardi… Ordina due pasti a quel nuovo locale in fondo alla strada. Non quello dove andavamo prima. Quello nuovo, con l’insegna del cane con la testa da ragazza. Barfy.

— Sì, signor Buckman — rispose Peggy, e chiuse la comunicazione.

— Perché non la chiamano generale? — chiese Jason Taverner.

— Quando lo fanno — rispose Buckman, — ho l’impressione che avrei dovuto scrivere un libro su come invadere la Francia senza trovarmi coinvolto in una guerra su due fronti.

— Allora lei è un semplice “signore”.

— Esatto.

— E loro glielo permettono?

— Per me — disse Buckman, — non esistono “loro”. A parte i cinque marescialli di polizia sparsi qua e là per il mondo, e anche loro si fanno chiamare “signore”. — “E quanto sarebbero felici di farmi retrocedere di grado ancora di più” pensò. “Per tutto quello che ho fatto.”

— Però c’è il direttore.

— Il direttore non mi ha mai visto. Non mi vedrà mai. Non vedrà nemmeno lei, signor Taverner. Anche se, in realtà, nessuno può vederla perché, come lei stesso ha osservato, lei non esiste.

Una agente di polizia in uniforme grigia entrò in ufficio, reggendo un vassoio. — Quello che lei ordina di solito a quest’ora — disse, depositandolo sulla scrivania di Buckman. — Panini caldi con prosciutto e panini caldi con salsiccia.

— Lei cosa preferisce? — chiese Buckman a Jason Taverner.

— La salsiccia è ben cotta? — Jason Taverner si protese in avanti a sbirciare. — Mi pare di sì. Prendo quella.

— Sono dieci dollari e una moneta d’oro da cinque — disse la pol. — Chi paga?

Buckman si frugò in tasca e tirò fuori la banconota e la moneta. — Grazie. — L’agente uscì. — Lei ha figli? — chiese Buckman a Taverner.

— No.

— Io ne ho uno. Adesso le mostro una sua foto tridimensionale che ho appena ricevuto. — Il generale Buckman si chinò verso i cassetti ed estrasse un palpitante quadrato di colori tridimensionali ma immobili. Jason prese la fotografia, la alzò secondo l’angolatura giusta di luce e vide il ritratto statico di un bambino in calzoni corti e maglione, a piedi nudi. Stava correndo su un campo col filo di un aquilone in una mano. Come il generale, aveva corti capelli chiari e una mascella forte, imponente. Già a quell’età.

— Bello — disse Jason. Restituì la fotografia.

Buckman continuò: — Non è mai riuscito a far volare l’aquilone. Forse è troppo giovane. O ha troppa paura. Il nostro ragazzo è pieno di ansietà. Penso che sia perché vede così poco me e sua madre. Sta in una scuola in Florida e noi siamo qui, e non è una bella cosa. Lei ha detto di non avere figli?

— Non che io sappia.

— Non che lei sappia? — Buckman inarcò un sopracciglio. — Il che significa che non ha mai indagato sulla questione? Non ha mai cercato di scoprirlo? Fosse anche solo per via della legge, lo deve sapere: se lei è il padre, è tenuto a provvedere al mantenimento dei figli, che sia sposato oppure no.

Jason annuì.

— Be’ — disse il generale Buckman, risistemando la foto in un cassetto, — ognuno fa a modo suo. Ma rifletta su quello che ha escluso dalla sua vita. Non ha mai amato un bambino? Colpisce dritto al cuore, nella parte più intima di una persona, dove è così facile morire.

— Non lo sapevo.

— Oh, sì. Mia moglie dice che si può dimenticare qualsiasi amore, tranne quello per i bambini. Scorre a senso unico, non torna mai indietro. E se qualcosa si frappone tra noi e un bambino, per esempio la morte o una terribile calamità come un divorzio, non si riesce mai a riprendersi.

— Oh, be’, allora… — Jason gesticolò con la forchetta su cui era infilzata la salsiccia. — Allora sarebbe meglio non provare quel tipo d’amore.

— Non sono d’accordo — rispose Buckman. — Bisognerebbe sempre amare, e soprattutto un bambino, perché è questo l’amore più forte.

— Capisco — disse Jason.

— No, lei non capisce. I Sei non capiscono. Non vale la pena discuterne. — Spostò un fascio di carte sulla scrivania, accigliato, perplesso e irritato. Ma poco per volta si calmò, riacquistò la sua consueta freddezza. Però non riusciva a comprendere l’atteggiamento di Jason Taverner. Per lui, suo figlio era la cosa più importante; oltre, ovviamente, all’amore per la madre del bambino. Erano quelli i cardini della sua vita.

Per un po’ mangiarono in silenzio. All’improvviso, non c’era più un ponte che li collegasse.

— In questo palazzo c’è una tavola calda — disse alla fine Buckman, bevendo un bicchiere di pseudo Tang. — Ma serve cibi avvelenati. Tutto il personale deve avere parenti nei campi di lavori forzati. Si vendicano su di noi. — Rise. Jason Taverner non lo imitò. — Signor Taverner… — Buckman si passò il tovagliolo sulla bocca. — La lascio andare. Non la trattengo.

Jason lo fissò. — Perché?

— Perché lei non ha fatto niente.

Jason disse con voce roca: — Procurarsi documenti d’identità falsi è reato.

— La mia autorità mi permette di far annullare tutte le imputazioni che voglio — disse Buckman. — Ritengo che lei sia stato costretto a procurarsi dei documenti falsi a causa di una situazione nella quale è venuto a trovarsi, una situazione di cui rifiuta di parlarmi ma che io sono riuscito a intuire.

Dopo una pausa, Jason disse: — Grazie.

— Però — proseguì Buckman — sarà tenuto sotto sorveglianza elettronica ovunque vada. Non sarà mai solo, fatta eccezione per i pensieri nella sua mente, e forse nemmeno per quelli. Prima o poi, tutti coloro che raggiungerà o incontrerà o vedrà saranno portati qui per essere interrogati… come stiamo per fare adesso con la Nelson. — Si protese verso Jason Taverner, sillabando con lentezza ogni singola parola, in modo che Taverner ascoltasse attentamente. — Ritengo che lei non abbia sottratto alcun dato da nessuna banca, pubblica o privata. Ritengo che lei stesso non capisca quale sia con esattezza la sua situazione attuale. Però… — Lasciò salire in modo molto chiaro il tono della voce. — Prima o poi la capirà, e, quando accadrà, noi vogliamo esserne informati. Quindi saremo sempre con lei. Le pare corretto?

Jason Taverner si alzò. — Tutti voi Sette pensate in questo modo?

— Quale modo?

— Siete capaci di prendere decisioni estreme e vitali all’istante come fa lei? Il suo modo di fare domande e ascoltare… Dio, come ascolta…! Per poi arrivare a una decisione definitiva.

Buckman, in tutta sincerità, rispose: — Non lo so, perché non ho praticamente contatti con gli altri Sette.

— Grazie. — Jason tese la mano. Buckman gliela strinse. — Grazie per la cena. — Adesso sembrava calmo. Padrone di sé. E molto, molto sollevato. — Esco di qui ed è finita? Come arrivo alla strada?

— Dovremo trattenerla fino a domattina — rispose Buckman. — È la prassi. Non rilasciamo mai i sospetti durante la notte. Col buio, in strada succede di tutto. Le daremo una brandina e una stanza. Dovrà dormire vestito… E domattina alle otto la farò scortare da Peggy all’ingresso principale dell’accademia. — Attivò il citofono interno. — Peg, per ora porta il signor Taverner nell’area detentiva. Alle otto in punto di domattina riaccompagnalo fuori. Chiaro?

— Sì, signor Buckman.

Il generale Buckman aprì le mani a ventaglio e sorrise. — Questo è tutto. Non c’è altro.

17

— Signor Taverner, — stava dicendo Peggy, in tono insistente — venga con me. Si vesta e mi raggiunga nell’ufficio esterno. L’aspetto lì. Passi per la porta azzurra e bianca.

Tenendosi in disparte, il generale Buckman ascoltò la voce della ragazza, gradevole e fresca. A lui sembrava bellissima, e probabilmente doveva sembrarlo anche a Taverner.

— Un’altra cosa. — Buckman fermò Taverner, insonnolito, con gli abiti spiegazzati, mentre si avviava verso la porta azzurra e bianca. — Non potrò rinnovare il suo pass se qualcun altro dei miei colleghi opporrà un veto. Lo capisce? Quel che deve fare è richiederci, seguendo l’esatta procedura legale, una serie completa di documenti. Il che significherà sottoporsi a un interrogatorio intensivo, ma… — Batté la mano sul braccio di Taverner. — Un Sei ce la può fare.

— Okay. — Jason Taverner lasciò l’ufficio e chiuse alle proprie spalle la porta azzurra e bianca.

Buckman attivò il citofono interno. — Herb, fagli mettere addosso un microtras e una testata eterostatica di classe Ottanta. Per poterlo seguire e, se dovesse essere necessario, eliminare in qualunque momento.

— Magari anche una pulce vocale? — chiese Herb.

— Sì, se riesci a sistemargliela sulla gola senza che se ne accorga.

— Farò provvedere da Peg — disse Herb, e chiuse la comunicazione.

“Se, diciamo, McNulty e io avessimo giocato al poliziotto buono e a quello cattivo saremmo riusciti a strappargli più informazioni?” si chiese Buckman. “No” decise. “Semplicemente perché lui stesso non sa altro. Quel che dobbiamo fare è aspettare che capisca… ed essere lì con lui, o di persona o a livello elettronico, quando accadrà. Come in effetti gli ho detto.

“Però continuo a sospettare che potremmo esserci imbattuti in qualcosa che i Sei potrebbero fare collettivamente, nonostante la loro solita animosità reciproca.”

Premette di nuovo il pulsante del citofono. — Herb, fai mettere sotto sorveglianza ventiquattr’ore su ventiquattro quella cantante pop, Heather Hart o come diavolo si fa chiamare. E chiedi alla centrale dati tutti i dossier sui Sei. Hai capito?

— Esistono schede specifiche per questa categoria? — chiese Herb.

— Probabilmente no — rispose Buckman, fosco. — Probabilmente nessuno ha pensato di prepararle dieci anni fa, quando Dill-Temko era vivo e progettava nuove forme di vita ancora più bizzarre da creare. — “Come noi Sette” pensò caustico. — E di certo nessuno lo farebbe al giorno d’oggi, dopo il fallimento politico dei Sei. Ne convieni?

— Ne convengo — rispose Herb. — Comunque tenterò lo stesso.

Buckman disse: — Se esistono delle schede specifiche, voglio una sorveglianza ventiquattr’ore su ventiquattro su tutti i Sei. E anche se non riusciamo a scovarli tutti, se non altro possiamo mettere sotto controllo quelli di cui ci è nota l’identità.

— Sarà fatto, signor Buckman. — Herb chiuse la comunicazione.

18

— Addio e buona fortuna, signor Taverner — gli disse l’agente di polizia Peg, nell’ampio ingresso del palazzo dell’accademia.

— Grazie — rispose Jason. Inspirò forte l’aria mattutina, per quanto fosse molto inquinata. “Ne sono uscito” si disse. “Avrebbero potuto inchiodarmi con mille imputazioni, ma non l’hanno fatto.”

Una voce femminile, molto di gola, disse al suo fianco: — E adesso, omettino?

In vita sua, non si era mai sentito chiamare “omettino”; era alto più di un metro e ottanta. Si girò, fece per ribattere qualcosa, poi vide chi gli aveva rivolto la parola.

Anche lei era un metro e ottanta abbondanti; in quello, erano alla pari. Ma, a differenza di lui, la donna indossava calzoni neri aderenti, una camicia in pelle rossa con le frange, orecchini d’oro ad anello e una cintura a maglie di catena. E scarpe con i tacchi a spillo. “Gesù Cristo!” pensò Jason, esterrefatto. “Dov’è la frusta?”

— Stava parlando con me? — chiese.

— Sì. — Lei sorrise, mettendo in mostra denti intarsiati con i simboli zodiacali in oro. — Le hanno messo addosso tre aggeggi, prima di lasciarla uscire. Pensavo che dovesse saperlo.

— Lo so. — Jason si domandò chi o che cosa fosse quella donna.

— Uno dei tre — disse lei — è una bomba H miniaturizzata. Può esplodere se riceve un segnale radio emesso da questo edificio. Sapeva anche questo?

— No. Non lo sapevo.

— È il suo modo di fare — disse la donna. — Mio fratello… Fa il dolce, il carino, il civile. Poi ordina a qualcuno del suo staff, e ha uno staff molto numeroso, di metterle addosso quello schifo prima che lei possa uscire dalle porte del palazzo.

— Suo fratello — disse Jason. — Il generale Buckman. — Adesso notava le somiglianze tra i due. Il naso lungo e sottile, gli zigomi alti, il collo elegantemente affusolato, degno di un Modigliani. Un viso patrizio. Si sentiva estremamente colpito da tutti e due.

“Quindi dev’essere una Sette anche lei” si disse. Si mise di nuovo in guardia. Avvertiva come una sensazione di bruciore intenso al collo.

— Glieli tolgo io — disse lei. Come il generale Buckman, sfoggiava denti incapsulati in oro.

— Molto bene.

— Venga sul mio trabi. — Lei si avviò a passi lievi; lui la seguì zampettando goffo.

Un attimo dopo erano sui sedili anteriori di un trabi.

— Io mi chiamo Alys.

— Io sono Jason Taverner — rispose lui. — Cantante e star televisiva.

— Sul serio? Non guardo un programma televisivo da quando avevo nove anni.

— Non si è persa molto. — Jason non capì se l’avesse detto in maniera ironica. “Francamente” pensò, “sono troppo stanco perché me ne freghi qualcosa.”

— Questa piccola bomba è grande come un seme — disse Alys. — Ed è affondata nella sua pelle come una zecca. Con mezzi normali, se anche lei sapesse di averla addosso, non riuscirebbe mai a individuarla. Ma io ho rubato questo all’accademia. — Gli mostrò una torcia elettrica tascabile a forma di tubo. — Si accende quando c’è una bomba-seme nelle vicinanze. — Cominciò subito, in modo molto efficiente, quasi professionale, a passargli sul corpo la piccola torcia. La luce si accese sopra il polso sinistro di Jason.

— Ho anche il kit che usano per rimuovere le bombe-seme. — Estrasse dalla borsa una scatoletta di latta, che aprì subito. — Prima gliela tolgo, meglio è — disse, prendendo una specie di bisturi dalla scatola.

Armeggiò con mano esperta per un paio di minuti, continuando a spruzzare un analgesico sulla ferita. E alla fine estrasse la bomba. Come aveva detto lei, aveva le dimensioni di un seme.

— Grazie — disse Jason. — Grazie di avermi tolto la spina dalla zampa.

Alys rise allegra. Rimise il bisturi nella scatola, chiuse il coperchio e poi ripose la scatola nella grande borsa. — Vede, non lo fa mai lui di persona. Provvede sempre qualcuno del suo staff. In modo che lui possa continuare a bearsi del suo distacco, come se non c’entrasse per niente. Credo che sia la cosa che odio di più in lui. — Rifletté. — Lo odio sul serio.

— C’è qualcos’altro che può togliermi? — chiese Jason.

— Hanno cercato… ci ha provato Peg, che è un tecnico della polizia esperto in queste cose… di metterle una spia vocale sulla gola. Ma non mi pare che sia riuscita a farla aderire. — Alys esplorò con cautela il collo di Jason. — No, non ha fatto presa. È caduta. Ottimo. Quella è sistemata. Lei ha addosso da qualche parte un microtras. Occorre una luce stroboscopica per individuarne il fascio. — Frugò nel cassetto del cruscotto e pescò un disco stroboscopico a batteria. — Penso di poterlo individuare — disse, e mise in funzione il dispositivo che teneva in mano.

Si scoprì che il microtras era sistemato nel polsino della manica sinistra. Alys lo perforò con un ago.

— C’è nient’altro? — domandò Jason.

— Forse una minicamera. Una telecamera piccolissima che trasmette un’immagine televisiva ai monitor dell’accademia. Ma non li ho visti mettergliene addosso una. Penso che possiamo correre il rischio e lasciar perdere. — A quel punto, Alys si girò a scrutare Jason. — Lei chi è, fra parentesi? — chiese.

— Una nonpersona.

— Il che significa?

— Significa che non esisto.

— Fisicamente?

— Non lo so — rispose lui, in tutta sincerità. “Forse” pensò, “se fossi stato più aperto con suo fratello, il generale di polizia, magari lui sarebbe riuscito a capire.” Dopo tutto, Felix Buckman era un Sette. Qualunque cosa questo significasse.

In ogni caso, Buckman aveva sondato nella direzione giusta, aveva portato molte cose allo scoperto. E in un arco brevissimo di tempo: quanto era bastato per mangiare un boccone e fumare un sigaro.

La donna disse: — Allora lei è Jason Taverner. L’uomo che McNulty ha cercato di incastrare senza riuscirci. L’uomo sul quale non esistono dati nel mondo intero. Non c’è un certificato di nascita, un curriculum scolastico, un…

— Come mai sa tutte queste cose? — la interruppe Jason.

— Ho letto il rapporto di McNulty. — Il tono di Alys era allegro. — Nell’ufficio di Felix. Mi interessava.

— Allora perché mi ha chiesto chi sono?

— Mi domandavo se lei lo sapesse. Avevo sentito la versione di McNulty e volevo la sua. Il lato antipol, come lo chiamano.

— Non sono in grado di aggiungere niente a ciò che sa McNulty — disse Jason.

— Non è vero. — Adesso lei aveva cominciato a interrogarlo, nello stesso identico modo usato poco prima da suo fratello. Un tono di voce basso, colloquiale, come se si stesse discutendo di qualcosa che non aveva importanza; poi l’intensa concentrazione sul viso di Jason, gli aggraziati movimenti di braccia e mani, come se, parlando con lui, Alys stesse anche un poco danzando. Con se stessa. “La bellezza che danza con la bellezza” pensò lui. La trovava fisicamente, sessualmente eccitante. E Dio sapeva se non ne avesse avuto abbastanza di sesso per parecchi giorni.

— Okay — aggiunse. — Ne so di più.

— Più di quanto ha detto a Felix?

Lui esitò. E, così facendo, le rispose.

— Sì — disse Alys.

Jason scrollò le spalle. Ormai era ovvio.

— Senta una cosa. — Il tono di Alys era deciso. — Le piacerebbe vedere come vive un generale di polizia? La sua casa? Il suo castello da un miliardo di dollari?

— Lei mi ci lascerebbe entrare? — Jason era incredulo. — Se lui lo scoprisse… — Si fermò. “Dove mi sta portando questa donna?” si chiese. In un pericolo terribile: tutto in lui glielo faceva presagire, ogni singolo particolare lo metteva all’erta. Sentiva la propria astuzia pulsargli dentro, riversarsi in ogni parte del suo io somatico. Il suo corpo sapeva che in quel momento, più che in ogni altra occasione della sua vita, doveva stare attento. — Ha accesso legale alla sua casa? — chiese. Si calmò, rese la propria voce naturale, priva di tensioni.

— E che diavolo! Ci vivo — rispose Alys. — Siamo gemelli. Siamo molto intimi. Incestuosamente intimi.

— Non voglio finire in una trappola architettata da lei e dal generale Buckman.

— Una trappola architettata da Felix e da me? — Lei scoppiò a ridere. — Felix e io non riusciremmo a collaborare nemmeno per dipingere uova pasquali. Facciamo un salto a casa nostra. Fra tutti e due abbiamo accumulato diversi oggetti interessanti. Scacchiere medievali in legno, antiche tazze di porcellana inglese. Alcuni stupendi esemplari di vecchi francobolli emessi negli Stati Uniti dalla National Banknote Company. Le interessano i francobolli?

— No — disse Jason.

— Le armi?

Lui esitò. — Fino a un certo punto. — Ricordò la propria pistola. Era la seconda volta in ventiquattro ore che gli ritornava in mente.

Alys lo scrutò. — Per essere un omettino non è poi brutto. Ed è più vecchio di quel che piace a me… ma non troppo. Lei è un Sei, giusto?

Lui annuì.

— Allora? — disse Alys. — Vuol vedere il castello di un generale di polizia?

— Okay — rispose Jason. L’avrebbero trovato ovunque andasse, in qualunque momento. Con o senza un microtras sul suo polsino.

Alys Buckman accese il motore del trabi, sterzò, premette sull’acceleratore. Il trabi schizzò in su a un angolo di novanta gradi rispetto alla strada. “Un modello della polizia” osservò Jason. “Con una potenza doppia rispetto ai modelli normali.”

— C’è una cosa — disse Alys, manovrando nel traffico — che voglio che lei si ficchi bene in mente. — Si girò a guardarlo per assicurarsi che lui stesse ascoltando. — Non mi faccia delle avance. Se lo farà, la ucciderò. — Si batté una mano sulla cintura, e Jason vide, infilata sotto la catena, una pistola a tubo del tipo in dotazione alla polizia. Luccicava, blu e nera, nel sole del mattino.

— Ricevuto e preso nota — rispose lui, e si sentì a disagio. Già non gli piaceva l’abbigliamento di Alys in pelle e metallo: sottintendeva forti propensioni feticistiche, che non lo avevano mai interessato. E adesso, quell’ultimatum. Quali erano le inclinazioni sessuali della donna? Erano di tipo lesbico? Era così?

In risposta alla sua muta domanda, Alys disse, calma: — Tutta la mia libido e la mia sessualità sono dipendenti da Felix.

— Da suo fratello? — Jason avvertì una gelida incredulità che accrebbe la sua ansia. — Come mai?

— Abbiamo una relazione incestuosa da cinque anni — rispose Alys, destreggiandosi abilmente col trabi nell’intenso traffico del mattino di Los Angeles. — Abbiamo un figlio di tre anni. Sta con una governante e una bambinaia a Key West, in Florida. Si chiama Barney.

— E perché racconta queste cose a me? — Jason era stupefatto al di là del credibile. — A uno che nemmeno conosce?

— Oh, io la conosco molto bene, Jason Taverner. — Alys spostò il trabi su di una corsia di volo più alta e accelerò. Il traffico era diminuito; stavano uscendo dalla Grande Los Angeles. — Sono stata una sua fan, una fan del suo show del martedì sera per anni. E ho i suoi dischi, e una volta l’ho sentita cantare nella Orchid Room dell’hotel St Francis, a San Francisco. — Gli fece un sorriso veloce. — Felix e io siamo collezionisti, tutti e due… E una delle cose che io colleziono sono i dischi di Jason Taverner. — Il sorriso guizzante, frenetico, si aprì ancora di più. — Con gli anni, sono riuscita a recuperarli tutti e nove.

La voce di Jason era roca, tremante. — Dieci. Io ho inciso dieci album. Gli ultimi con effetti di proiezione luminosa.

— Allora me n’è sfuggito uno — disse Alys con un tono sereno di voce. — Forza, si volti e guardi sul sedile posteriore.

Girando la testa, Jason vide il suo primo album, Taverner and the Blue, Blue Blues. — Sì — disse. Lo afferrò, se lo mise sulle ginocchia.

— Ce n’è anche un altro — continuò Alys. — Il mio preferito in assoluto.

Guardando meglio, lui riuscì a vedere una copia, con la copertina sgualcita, di There’ll Be a Good Time with Taverner Tonight. — Sì — ripeté. — È il migliore che abbia mai inciso.

— Visto? — disse Alys. Il trabi cominciò a scendere a spirale verso un gruppo di grandi ville, circondate da alberi ed erba. — Siamo a casa.

19

Con le pale ora verticali, il trabi atterrò su uno spiazzo in asfalto al centro del grande prato. Jason notò solo distrattamente la casa: tre piani, architettura in stile spagnolo con ringhiere in ferro ai balconi, tetto a tegole rosse, pareti a mattoni oppure stuccate, non capiva bene. Una grande casa, circondata da splendide querce; una casa costruita in armonia col paesaggio, senza violarlo. Si fondeva con alberi ed erba, ne sembrava parte integrante, un’estensione della natura nel regno delle cose create dall’uomo.

Alys spense il motore e aprì con un calcio una portiera recalcitrante. — Lascia i dischi in macchina e vieni con me — disse a Jason, che stava per appoggiare i piedi sul prato.

A malincuore, lui rimise i dischi sul sedile posteriore e seguì Alys, accelerando il passo per raggiungerla. La donna si avvicinò velocemente al grande cancello d’ingresso.

— Abbiamo persino pezzi di vetro cementati in cima ai muri. Per tenere lontani i delinquenti… di questi tempi. Nella nostra epoca. La casa un tempo apparteneva al grande Ernie Till, l’attore dei western. — Alys premette un pulsante sul cancello di fronte alla casa e apparve un pol privato in uniforme grigia. Scrutò la donna, annuì e fece scivolare di lato il cancello.

— Tu cosa sai? — chiese Jason ad Alys. — Sai che sono…

— Sei favoloso — rispose lei, sicura di sé. — Lo so da anni.

— Ma tu sei stata nel luogo da cui provengo. Dove sono sempre stato. Non qui.

Prendendolo per il braccio, Alys lo guidò in un corridoio costruito in mattoni e ardesia. Poi, scesi cinque scalini, sbucarono in un soggiorno al di sotto del livello del suolo, fuori moda per quei tempi, ma bellissimo.

A lui, comunque, non importava proprio niente; voleva parlare con lei, scoprire cosa sapesse. E cosa significasse tutto quel che stava accadendo.

— Ricordi questo posto? — chiese Alys.

— No.

— Dovresti. Ci sei già stato.

— No — disse lui sulla difensiva. Ormai non se la sentiva più di mettere in dubbio anche una sola sillaba di quello che Alys gli diceva, dopo avere visto quei due dischi. “Devo averli” si disse Jason. “Per mostrarli a… già, a chi? Al generale Buckman? E se glieli faccio vedere, cosa ne ricaverò?”

— Una capsula di mescalina? — Alys si spostò davanti al mobile dove teneva le droghe, un grosso armadietto in noce lucido in fondo al banco in cuoio e ottone, al lato opposto del soggiorno.

— Solo una — rispose lui. Restò sorpreso della propria risposta. Sbatté le palpebre. — Voglio mantenermi lucido — spiegò.

Lei gli portò un vassoietto smaltato con un bicchiere di cristallo pieno d’acqua e una capsula bianca. — Roba ottima. Gialla Numero Uno di Harvey, importata all’ingrosso dalla Svizzera e confezionata in capsule a Bond Street. — Aggiunse: — E per niente forte. Altera la percezione dei colori.

— Grazie. — Jason accettò il bicchiere e la capsula. Mandò giù la mescalina con l’acqua e rimise il bicchiere sul vassoio. — Tu non ne prendi? — chiese, sentendosi, troppo tardi, sul chi vive.

— Sono già fatta — disse giuliva Alys, sfoggiando quel suo sorriso dai denti d’oro. — Non te n’eri accorto? Probabilmente no. Non mi hai mai vista in nessun altro stato.

— Sapevi che mi avrebbero portato all’accademia di polizia? — chiese lui. “Dovevi saperlo” pensò, “perché avevi con te i miei due dischi. Se non l’avessi saputo, le probabilità che ti portassi in giro quei dischi sarebbero state nulle.”

— Ho monitorato alcune delle loro trasmissioni. — Alys si voltò e si allontanò irrequieta, tamburellando con l’unghia lunghissima sul vassoietto laccato. — Ho intercettato le comunicazioni ufficiali tra Las Vegas e Felix. Ogni tanto mi diverte ascoltarlo, quando è in servizio. Non sempre, ma… — Indicò una stanza dietro un corridoio, sul lato della parete più vicino a lei. — Voglio vedere una cosa. La mostrerò anche a te, se è bella come dice Felix.

Lui la seguì, con la mente invasa dal mormorio delle domande che lo assillavano. “Se lei riesce a passare dall’altra parte” pensò, “a spostarsi avanti e indietro come sembra che abbia fatto…”

— Ha parlato del cassetto centrale della sua scrivania d’acero — disse meditabonda Alys, ferma al centro della biblioteca della casa: volumi rilegati in pelle su scaffali fissati all’alto soffitto della stanza. Diverse scrivanie, una vetrinetta con piccole tazze, alcune scacchiere antiche, due vecchi mazzi di tarocchi. Alys si avvicinò a una scrivania in stile New England, aprì un cassetto e vi sbirciò dentro. — Ah! — esclamò, ed estrasse una bustina di pergamena trasparente.

— Alys… — cominciò Jason, ma lei lo interruppe con un brusco schioccare di dita.

— Stai zitto intanto che guardo. — Prese dal piano della scrivania una grossa lente d’ingrandimento e studiò la bustina. — Un francobollo — spiegò, alzando la testa. — Lo tiro fuori, così puoi vederlo. — Trovò un paio di pinzette per filatelia, estrasse il francobollo con estrema cura e lo depositò sul tappetino in feltro della scrivania.

Obbediente, Jason guardò con la lente d’ingrandimento. A lui pareva un francobollo come tutti gli altri, a parte il fatto che, a differenza di quelli moderni, era stampato in un solo colore.

— Guarda gli animali — disse Alys. — Il branco di cavalli. Un’incisione assolutamente perfetta. Ogni linea è esatta. Questo francobollo non è mai stato… — Fermò la mano di Jason che stava per toccare il francobollo. — No, no. Mai toccare un francobollo con le dita. Bisogna sempre usare le pinzette.

— Allora è prezioso?

— Non esattamente. Però esemplari come questo non si trovano quasi mai in vendita. Un giorno ti spiegherò. È un regalo di Felix per me, perché mi ama. Perché, dice, sono brava a letto.

— Un bel francobollo — disse Jason, sconcertato. Restituì alla donna la lente d’ingrandimento.

— Felix mi ha detto la verità. È un bell’esemplare. Perfettamente centrato, annullo leggero che non deturpa il disegno centrale e… — Con le pinzette girò il francobollo sul retro e lo rimise sul tappetino capovolto. La sua espressione cambiò all’improvviso. Si imporporò in viso e disse: — Figlio di puttana.

— Cosa c’è? — chiese Jason.

— Un punto rovinato. — Alys toccò con le pinzette un angolo del rovescio del francobollo. — Be’, dal diritto non si vede. Ma è tipico di Felix. Al diavolo, probabilmente è falso. Solo che Felix, in un modo o nell’altro, riesce sempre a non farsi fregare. Okay, Felix. Un punto per te. — Pensosa, aggiunse: — Chissà se ne ha un altro nella sua collezione. Potrei sostituirlo con questo. — Si spostò a una cassaforte a parete, armeggiò per un po’ con la manopola, aprì la cassaforte e prese un album grosso e pesante che portò alla scrivania. — Felix non sa che conosco la combinazione di quella cassaforte. Quindi, non dirglielo. — Girò con cautela le spesse pagine, si fermò su una con quattro francobolli. — Nessun Dollaro Nero — disse. — Ma potrebbe averlo nascosto da qualche altra parte. Potrebbe persino tenerlo all’accademia. — Chiuse l’album e lo ripose nella cassaforte.

— La mescalina — disse Jason — sta cominciando a farsi sentire. — Avvertiva un dolore alle gambe: per lui quello era sempre il segno dell’inizio degli effetti della mescalina. — Mi siedo. — Riuscì a trovare una poltrona in pelle prima che le gambe gli cedessero. O che dessero l’impressione di cedergli. In realtà, era solo un’illusione provocata dalla droga. Ma sembrava comunque molto reale.

— Ti piacerebbe vedere una collezione di tabacchiere riccamente decorate? — chiese Alys. — Felix ha una collezione bellissima. Tutti pezzi d’antiquariato in oro, argento, leghe, con incisioni a cammeo, scene di caccia… No? — Sedette di fronte a lui, accavallando le lunghe gambe inguainate di nero. Le scarpe con i tacchi alti dondolavano avanti e indietro. — Una volta Felix ha comperato una vecchia tabacchiera a un’asta, l’ha pagata una cifra enorme. L’ha portata a casa e l’ha ripulita dai vecchi residui di tabacco e ha trovato una levetta a molla sul fondo, o quello che sembrava il fondo. La leva agiva se si faceva ruotare una minuscola vite. Gli è occorso tutto il giorno per trovare un cacciavite abbastanza piccolo. Ma alla fine ci è riuscito. — Rise.

— Cos’è successo?

— Il fondo era falso. Sotto era nascosta una placchetta in rame. Felix l’ha tirata fuori. — Alys rise di nuovo, facendo luccicare i suoi denti con gli intarsi in oro. — Era un’incisione pornografica vecchia di duecento anni. Una donna che copulava con un pony Shetland. Era anche dipinta, a otto colori. Valeva, diciamo, cinquemila dollari. Non molto, ma ci ha proprio deliziato. Il tipo che gli aveva venduto la tabacchiera, ovviamente, non sapeva che ci fosse la placca.

— Capisco — disse Jason.

— Le tabacchiere non t’interessano — commentò Alys, continuando a sorridere.

— Mi piacerebbe vederla — disse lui. E poi: — Alys, tu sai di me. Sai chi sono. Perché nessun altro lo sa?

— Perché non sono mai stati là.

Dove?

Alys si massaggiò le tempie, schioccò la lingua, fissò gli occhi nel vuoto, come persa nei propri pensieri. Come se riuscisse a stento a udire Jason. — Lo sai — rispose. Pareva annoiata e un poco irritabile. — Cristo, ci hai vissuto per quarantadue anni! Cosa posso raccontarti di quel posto che tu già non sappia? — Rialzò la testa, e le sue labbra forti si piegarono in un sorriso malizioso.

— Come ho fatto ad arrivare qui? — chiese lui.

— Ti… — Lei esitò. — Non sono certa di dovertelo dire.

E perché no? — La voce di Jason si era alzata di tono.

— Ogni cosa a suo tempo. — Alys lasciò cadere la mano. — A suo tempo, a suo tempo. Senti, te ne sono già successe tante. Sei quasi stato spedito a un campo di lavori forzati, e tu sai cosa siano, al giorno d’oggi. Grazie a quello stronzo di McNulty e al mio caro fratellino. Mio fratello, il generale di polizia. — Il viso di Alys era come stravolto dal disgusto, ma poi ritrovò quel suo sorriso provocatore. Quel sorriso pigro, invitante, incastonato di denti d’oro.

Jason disse: — Voglio sapere dove mi trovo.

— Sei nel mio studio, a casa mia. Sei al sicuro. Ti ho tolto di dosso tutte le microspie. E nessuno farà irruzione qui. — Poi balzò su dalla sedia, saltò in piedi come un animale straordinariamente agile. Jason, con un gesto istintivo, si ritrasse. — L’hai mai fatto per telefono? — chiese Alys, eccitata, con occhi raggianti.

— Fatto cosa?

— La rete. Non conosci la rete telefonica?

— No — rispose lui. Anche se non era vero.

— Le tue inclinazioni sessuali, o quelle di chiunque, vengono collegate elettronicamente e amplificate fino ai limiti di sopportazione. È una cosa che dà assuefazione, per via dell’amplificazione elettronica. Certa gente finisce in un’immersione così profonda da non riuscire più a riemergerne. Le loro vite cominciano a dipendere dal collegamento settimanale, o magari addirittura quotidiano, con la rete telefonica. Si usano normali videotelefoni, attivati con la carta di credito, per cui sul momento non si paga. I gestori mandano una bolletta mensile e, se non arriva il denaro, si viene esclusi dalla rete.

— Quante persone si collegano?

— Migliaia.

— Migliaia per volta?

Alys annuì. — Molti di loro lo fanno da due o tre anni. E hanno subito un deterioramento fisico e mentale. Perché la parte di cervello che prova l’orgasmo finisce gradualmente col bruciarsi. Ma non farti dei pregiudizi su queste persone. In rete si trovano alcune delle menti più brillanti e sensibili del pianeta. Per loro si tratta di una sacra comunione. A parte il fatto che puoi individuare subito un retaiolo, se lo vedi. Sono tutti disfatti, invecchiati, grassi, irrequieti… Irrequieti solo tra un collegamento in rete e l’altro, ovviamente.

— E tu lo fai? — Alys non sembrava affatto disfatta, invecchiata, grassa o irrequieta.

— Ogni tanto. Ma non mi lascio mai agganciare. Mi scollego appena in tempo. Vuoi provarci?

— No.

— Okay. — Il tono di Alys era molto pacato e sereno. — Cosa ti piacerebbe fare? Abbiamo una buona collezione di Rilke e Brecht su disco, con traduzioni interlineari. L’altro giorno Felix è tornato a casa con l’edizione completa delle sette sinfonie di Sibelius in quadrifonia, con effetti luminosi. Bellissima. Emma preparerà per cena zampe di rana… A Felix piacciono le zampe di rana e le lumache. Di solito mangia fuori, nei migliori ristoranti francesi e baschi, ma stasera…

— Voglio sapere — la interruppe Jason — dove mi trovo.

— Non puoi cercare di essere felice e basta?

Lui si alzò in piedi, con una certa difficoltà, e fissò Alys. In silenzio.

20

La mescalina aveva cominciato a fargli un effetto potentissimo. La stanza si illuminò di colori, e la prospettiva si alterò: il soffitto sembrava alto due milioni di chilometri. E, guardando Alys, Jason vide i suoi capelli prendere vita. Come quelli di Medusa, pensò, ed ebbe paura.

Alys lo ignorò. — A Felix piace soprattutto la cucina basca, ma è talmente ricca di burro che gli dà spasmi al piloro. Ha anche una bella collezione di Weird Tales, e adora il baseball. E… Vediamo. — Si scostò da lui, battendo l’indice sulle labbra mentre rifletteva. — Gli interessa l’occulto. Tu…

— Sento qualcosa — disse Jason.

— Cosa?

— Non me ne posso andare da qui.

— È la mescalina. Stai calmo.

— lo… — Rifletté. Un peso enorme gli gravava sul cervello, ma negli interstizi di quel peso brillavano qua e là lampi di luce, di illuminazione degna di un satori.

— Quello che colleziono io — disse Alys — si trova nella stanza qui accanto. Quella che chiamiamo “la biblioteca”. Questo è lo studio. Felix tiene in biblioteca tutti i suoi testi di legge… Lo sapevi che è avvocato, oltre che generale di polizia? E ha compiuto alcune buone azioni, devo ammetterlo. Lo sai cos’ha fatto una volta?

Jason non riusciva a rispondere. Poteva solo starsene lì, inerte, a udire il suono delle parole di lei. Ma senza comprenderne il significato.

— Per un anno, Felix ha avuto sulle sue spalle la responsabilità di un quarto dei campi di lavori forzati di tutta la Terra. Ha scoperto che, in forza di una legge quasi dimenticata, approvata anni addietro quando i campi di lavori forzati erano più che altro campi della morte, con moltissimi prigionieri di colore… Be’, ha scoperto che quella legge permetteva l’esistenza dei campi solo durante la seconda guerra civile. E di avere il potere di chiudere qualunque campo, nel momento che gli sembrasse più opportuno per l’interesse pubblico. E i neri e gli studenti che erano stati prigionieri nei campi erano diventati robusti dopo tutti quegli anni di pesante lavoro manuale. Non erano come gli studenti fiacchi e svogliati che vivono nelle aree dei campus. Poi ha fatto delle ricerche e ha scoperto un’altra legge ormai in disuso: un campo di lavori forzati che non produca profitto deve, o meglio doveva, essere chiuso. Così Felix ha aumentato lo stipendio, bassissimo ovviamente, versato ai detenuti. Gli è bastato far questo, dimostrare che i libri contabili erano in rosso e, bam!, si è trovato nella posizione di potere chiudere i campi. — Alys rise.

Lui tentò di parlare, ma non ci riuscì. La sua mente rotolava come una palla di gomma ridotta a brandelli, saliva e scendeva, rallentava, accelerava, sbiadiva e poi avvampava sfolgorante. I dardi di luce lo passavano da parte a parte, trafiggevano ogni atomo del suo corpo.

— Ma la cosa più sensazionale che ha fatto Felix — continuò Alys — riguarda i kibbutz degli studenti nei campus bruciati. Molti di loro hanno un bisogno disperato di cibo e acqua. E allora, cosa succede? Gli studenti cercano di introdursi in città per procurarsi dei viveri. Rubano e saccheggiano. Be’, la polizia ha un sacco di agenti infiltrati tra gli studenti. Fanno gli agitatori, cercano di provocare uno scontro decisivo con la polizia… un evento che pol e naz aspettano con grandi speranze. Riesci ad afferrare la situazione?

— Quello che afferro — rispose lui — è un cappello.

— Ma Felix ha sempre cercato di evitare lo scontro. Però, per riuscirci, doveva procurare dei viveri agli studenti. Mi segui?

— Il cappello è rosso — disse Jason. — Come le tue orecchie.

— Grazie alla sua posizione di maresciallo nella gerarchia della polizia, Felix aveva accesso ai rapporti degli informatori sulle condizioni di ogni kibbutz studentesco. Sapeva quali stessero andando a rotoli e quali funzionassero. Era suo compito estrarre dal calderone dei dati i fatti essenziali, importanti: quali kibbutz stessero andando in rovina e quali no. Dopo avere compilato un elenco dei kibbutz fallimentari, si incontrò con altri ufficiali ai massimi livelli per decidere le tattiche migliori per esercitare pressioni capaci di portare al tracollo definitivo. Sommosse scatenate dagli infiltrati della polizia, sabotaggio delle riserve di cibo e acqua. Sortite disperate, al di fuori dei confini universitari in cerca d’aiuto. Per esempio, alla Columbia a un certo momento avevano deciso di raggiungere il campo di lavoro Harry S. Truman, liberare i prigionieri e armarli, e lì persino Felix è stato costretto a dare l’ordine di intervenire. Comunque, spettava a lui decidere la tattica per ogni singolo kibbutz. Molte, moltissime volte ha consigliato di rinunciare a qualunque tipo di azione. Per questo, ovviamente, i reazionari più accaniti l’hanno criticato, hanno chiesto che venisse rimosso dal suo grado. — Alys fece una pausa. — All’epoca era maresciallo di polizia, devi rendertene conto.

— Il tuo rosso — disse Jason — è fantidoloso.

— Lo so. — Alys fece una smorfia. — Non sei capace di reggere la droga, amico? Sto cercando di dirti qualcosa. Felix è stato degradato, da maresciallo a generale di polizia, perché, quando ha potuto, ha fatto in modo che nei kibbutz gli studenti venissero lavati, nutriti, forniti di medicinali e di brandine. Proprio come ha fatto con i campi di lavori forzati sotto la sua giurisdizione. Così adesso è un semplice generale. Però lo lasciano in pace. Hanno già fatto tutto il possibile per punirlo, e lui ha ancora un grado elevato.

— Ma il vostro incesto… — disse Jason. — E se? — Si fermò. Non riusciva a ricordare il resto della frase. — Se — disse, e quello fu quanto. Provò un ardente calore interno, dovuto al fatto di essere riuscito a trasmettere ad Alys il proprio messaggio. — Se — ripeté, e il fulgore avvampò di furibonda gioia. Emise un’esclamazione.

— Vuoi dire: e se i marescialli sapessero che Felix e io abbiamo un figlio? Cosa farebbero?

— Farebbero — disse Jason. — Non potremmo ascoltare un po’ di musica? Oppure dammi… — Le sue parole si interruppero; non ne affluirono altre al suo cervello. — Gesù — disse. — Mia madre non sarebbe comunque qui. Morte.

Alys inspirò forte l’aria e poi sospirò. — Okay, Jason — disse. — La smetterò di cercare di chiacchierare con te. Finché non sarai tornato lucido.

— Parla.

— Vuoi vedere i miei fumetti sado?

— Cosa sono? — chiese lui.

— Disegni, molto stilizzati, di donne legate e uomini…

— Posso sdraiarmi? Non mi funzionano più le gambe. Mi pare che la destra arrivi fino alla Luna. In altre parole… — Jason rifletté. — Me la sono rotta stando in piedi.

— Vieni qui. — Passo dopo passo, Alys lo guidò fuori dallo studio, lo portò di nuovo in soggiorno. — Stenditi sul divano. — Con straziante lentezza, lui obbedì. — Vado a prenderti della Torazina. Annullerà gli effetti della mescalina.

— È tutto un disastro — disse lui.

— Vediamo. Dove diavolo l’ho messa? Ho bisogno di usarla solo di rado, anzi praticamente mai, però ne tengo sempre nel caso succeda qualcosa del genere… Porca miseria, non riesci a prendere una sola capsula di mescalina e continuare a essere te stesso? Io ne prendo cinque per volta.

— Ma tu sei gigantesca — disse Jason.

— Torno subito. Vado di sopra. — Alys si diresse verso una porta parecchio lontana. Per un lungo, lunghissimo tempo lui restò a guardarla rimpicciolirsi: come ci riusciva? Era incredibile che potesse restringersi praticamente fino a ridursi a zero. Poi sparì. A quel punto, lui provò una paura terribile. Sapeva di essere ormai solo. “Chi mi aiuterà?” si chiese. “Devo andarmene da questi francobolli e tazzine e tabacchiere e fumetti sado e reti telefoniche e zampe di rana devo arrivare a quel trabi devo volare via e tornare ai posti che conosco tornare in città magari da Ruth Rae se l’hanno lasciata andare o persino da Kathy Nelson questa donna è troppo per me come del resto suo fratello loro e il loro figlio incestuoso che sta in Florida e si chiama come?”

Si alzò ondeggiando, avanzò a fatica su un tappeto che gli proiettava addosso milioni di scie di pigmento allo stato puro mentre lui lo percorreva, mentre lo schiacciava con le sue possenti scarpe, e poi, finalmente, sbatté contro la porta d’ingresso di quella stanza instabile.

La luce del sole. Era uscito.

Il trabi.

Avanzò barcollando in quella direzione.

Salito, sedette al posto di guida, annichilito dalle legioni di interruttori, leve, ruote, pedali, quadranti. — Perché non parte? — disse. — Parti! — ordinò, cullandosi avanti e indietro sul sedile. — Alys non mi lascerà mai andare? — chiese al trabi.

Le chiavi. Ovviamente non poteva decollare senza chiavi.

La giacca di Alys sul sedile posteriore; l’aveva vista. E anche la sua grande borsa. Ecco dov’erano, le chiavi. Ecco dove. Nella borsa.

I due album. Taverner and the Blue, Blue Blues. E il migliore di tutti: There’ll Be a Good Time. Armeggiò sul retro del trabi, riuscì in qualche modo ad afferrare tutti e due gli album, a trasferirli sul sedile vuoto al suo fianco. “Ho le prove” si rese conto. “Sono qui nei dischi e qui in casa sua. Con lei. Devo trovarle qui, se voglio. Trovarle. Qui e da nessun’altra parte. Nemmeno il signor generale Felix comesichiama le troverà. Non sa. Proprio come me.”

Portando con sé i giganteschi album, tornò di corsa verso la casa. Attorno a lui fiorivano snelli, alti organismi simili ad alberi che ingurgitavano aria dal dolce cielo azzurro, organismi che assorbivano acqua e luce, divoravano il colore del cielo… Raggiunse il cancello, spinse. Il cancello non si mosse. Il pulsante.

Non lo trovò.

Passo dopo passo. Tastare ogni centimetro con le dita. Come se fosse al buio. “Sì” pensò, “sono al buio.” Mise giù gli album enormemente grandi, si appoggiò al muro a fianco del cancello, massaggiò lentamente la superficie gommosa del muro. Niente. Niente.

Il pulsante.

Lo premette, abbrancò gli album, restò in piedi davanti al cancello che incredibilmente, lentamente, si aprì, gracchiando una sua rumorosa protesta.

Apparve un uomo in uniforme marrone, armato. Jason disse: — Sono dovuto tornare a prendere una cosa che avevo scordato sul trabi.

— È tutto a posto, signore — disse l’uomo con l’uniforme marrone. — L’ho vista uscire e sapevo che sarebbe tornato.

— La donna è pazza? — gli chiese Jason.

— Non sono nella posizione per poterle dare una risposta, signore — rispose l’uomo con l’uniforme marrone, e indietreggiò, sfiorando con la mano la visiera del berretto.

La porta d’ingresso della casa era ancora aperta, come l’aveva lasciata lui. Jason rientrò, scese gli scalini di mattoni, si ritrovò in quel soggiorno del tutto irregolare, con il soffitto alto due milioni di chilometri. — Alys! — disse. Lei era nella stanza? Scrutò con cura meticolosa in ogni direzione, come aveva fatto per cercare il pulsante. Spostò lo sguardo su ogni centimetro visibile della stanza. Il banco all’estremità, con quel bel mobile in noce per le droghe. Divano, poltrone. Quadri alle pareti. Il viso di uno dei quadri si stava facendo beffe di lui, ma a Jason non importava: non poteva lasciare la parete. Il giradischi quadrifonico…

I suoi dischi. Ascoltarli.

Tentò di sollevare il coperchio del giradischi, ma non voleva muoversi. Perché? Era chiuso a chiave? No, bisognava spingerlo di lato. Jason lo spinse, e il coperchio si mosse con un rumore terribile, come se fosse stato distrutto. Il braccio. Il perno. Estrasse dalla busta uno dei suoi album e lo sistemò sul piatto. “Questi aggeggi li so far funzionare” si disse, e accese l’amplificatore, regolandolo sulla posizione “phono”. Il pulsante che accendeva il giradischi. Lo premette. Il braccio si sollevò; il piatto cominciò a girare, con una lentezza straziante. Che diavolo succedeva? Era sbagliata la velocità? No. Controllò; era a posto. Trentatré giri e un terzo. Il meccanismo ebbe un sussulto, e il disco scese sul piatto.

Il rumore forte della puntina che si appoggiava sui solchi iniziali. I crepitii della polvere. Ticchettii. Tipico dei vecchi album quadrifonici. Non ci voleva niente per danneggiarli: bastava respirarci sopra.

Suoni di fondo. Altri crepitii.

Nessuna musica.

Jason sollevò il braccio, lo spostò più avanti. Un forte ruggito quando la puntina si appoggiò sulla superficie. Lui fece una smorfia, cercò il comando per abbassare il volume. Ma ancora non c’era musica. Non c’era il suono della sua voce che cantava.

La morsa della mescalina cominciava a diminuire. Si sentiva freddamente, lucidamente sobrio. L’altro disco. Lo estrasse in fretta dalla copertina, lo mise sul perno, lo fece scendere sul piatto.

Il suono della puntina che toccava la superficie plastica. Suoni di sottofondo, e gli inevitabili crepitii. Ma niente musica.

Sui dischi non era inciso nulla.

Parte terza

Mai potranno i miei affanni essere placati,
poiché la pietà è fuggita;
e lacrime e sospiri e gemiti i miei stanchi giorni
di ogni gioia hanno privato.

21

— Alys! — urlò Jason Taverner. Non ci fu risposta. “È la mescalina?” si chiese. Goffo e impacciato, si spostò dal giradischi alla porta dietro cui era scomparsa Alys. Un lungo corridoio, uno spesso tappeto di lana. In fondo, scale con una ringhiera in ferro battuto, nero, che portavano al primo piano.

Percorse il corridoio alla massima velocità che gli era possibile, raggiunse le scale, le salì.

Il primo piano. Un atrio con un antico tavolo Hepplewhite in un angolo, ingombro di numeri della rivista “Box”. Stranamente, quel particolare attirò la sua attenzione: chi leggeva una rivista pornografica di basso livello e di ampia diffusione come “Box”? Felix o Alys? O tutti e due? Andò avanti, continuando a notare minimi particolari, senza dubbio a causa della mescalina. Il bagno. L’avrebbe trovata lì.

— Alys — disse truce. Il sudore gli colava dalla fronte su naso e guance; le ascelle si erano intrise di umidità per colpa delle emozioni che gli percorrevano a cascata il corpo. — Dio ti maledica! — disse, parlando con lei anche se non la vedeva. — Non c’è niente su quei dischi. Non ci sono io. Sono falsi, vero? — “O sarà solo un effetto della mescalina?” si chiese. — Devo saperlo! Fammeli sentire, se sono veri. È rotto il giradischi, per caso? La puntina si è spezzata? — “Succede” pensò. “Magari passa sopra i solchi senza leggerli.”

Una porta socchiusa. La spalancò. Una camera da letto, col letto sfatto. E, sul pavimento, un materasso con un sacco a pelo. Un mucchietto di articoli per uomo: crema da barba, deodorante, rasoio, dopobarba, pettine… “Un ospite” pensò Jason. “È stato qui, ma se n’è andato.”

— C’è qualcuno? — urlò. Silenzio.

Più avanti c’era il bagno. Dietro la porta socchiusa intravide una vasca sorprendentemente vecchia, che poggiava su zampe di leone verniciate. “Un pezzo d’antiquariato” pensò. “Persino la vasca.” Percorse a passi incerti il corridoio, superò altre porte. Arrivò al bagno e spalancò l’uscio.

E vide, sul pavimento, uno scheletro.

Indossava calzoni neri, una camicia di pelle rossa, una cintura a maglie di catena con la fibbia in ferro battuto. Le ossa dei piedi si erano liberate delle scarpe dai tacchi alti. Qualche ciuffo di capelli era ancora attaccato al cranio, ma, oltre a quelli, non restava nulla: erano scomparsi gli occhi, tutta la carne. E lo scheletro si era già ingiallito.

— Dio. — Jason barcollò. Vacillò, e la sua percezione della gravità si frantumò. Il suo orecchio medio, sottoposto a pressioni, si mise a fluttuare, e la stanza prese a ruotargli attorno, nel silenzio di una danza perpetua. Come una ruota panoramica in un luna park.

Chiuse gli occhi, si appoggiò al muro, poi, alla fine, guardò di nuovo.

“È morta” pensò. “Ma quando? Centomila anni fa? Un minuto fa?”

“Perché è morta?

“È un effetto della mescalina che ho preso? È reale?”

Era reale.

Si chinò a toccare la camicia con le frange. La pelle era morbida, soffice; non si era decomposta. Il tempo non aveva toccato i vestiti. Il che significava qualcosa, ma lui non era in grado di capirlo. “Soltanto lei” pensò. “Tutto il resto, in questa casa, è com’era prima. Quindi non può essere colpa dell’effetto della mescalina. Però non posso esserne certo. “Devo scendere al piano di sotto. Andarmene da qui.” Ripercorse a zigzag il corridoio. Non aveva ancora ritrovato del tutto la posizione eretta, per cui corse piegato in due, come una scimmia di una specie insolita. Si aggrappò alla ringhiera in ferro nero, scese due, tre scalini alla volta, inciampò e cadde, si tirò su, si rimise in piedi. Nel petto, il suo cuore batteva affannosamente, e i polmoni, sottoposti a uno sforzo eccessivo, si riempivano e si svuotavano come mantici.

In un attimo aveva attraversato il soggiorno, era alla porta d’ingresso. Poi, per ragioni che gli erano oscure ma che in qualche modo gli erano parse importanti, prese i due album dal giradischi, li infilò nelle copertine, li portò con sé quando uscì dalla casa, nel sole caldo e luminoso della mattina già avanzata.

— Se ne va, signore? — chiese il pol privato con l’uniforme marrone, quando lo vide apparire ansante.

— Non mi sento bene — rispose Jason.

— Mi spiace, signore. Posso esserle d’aiuto?

— Le chiavi del trabi.

— Di solito la signorina Buckman lascia le chiavi nel cruscotto — disse il pol.

— Le ho già cercate — ansimò Jason.

Il pol disse: — Vado a chiederle alla signorina Buckman.

— No — ribatté Jason. Poi pensò: “Ma se è solo effetto della mescalina, è tutto a posto, giusto?”.

— No? — ripeté il pol, e di colpo la sua espressione cambiò. — Resti lì dov’è — disse. — Non si avvicini al trabi. — Girò sui tacchi e schizzò verso la casa.

Jason corse sull’erba, in direzione dello spiazzo d’asfalto e del trabi. Le chiavi. Erano nel cruscotto? No. Nella borsa. La afferrò, rovesciò l’intero contenuto sui sedili. Mille oggetti ma le chiavi non c’erano. Poi, a trafiggerlo, un urlo rauco.

Il pol apparve al cancello della casa, con un’espressione stravolta. Si spostò di lato, con più calma. Alzò la pistola, la tenne stretta con entrambe le mani, e sparò a Jason. Ma l’arma sussultò; il pol tremava troppo.

Jason strisciò fuori dall’altra portiera del trabi, si gettò sul prato alto e umido, corse verso le querce.

Il pol sparò un’altra volta. E mancò di nuovo il bersaglio. Jason lo sentì bestemmiare. Il pol cominciò a correre verso di lui, per raggiungerlo; poi, all’improvviso, fece dietrofront e ripartì a tutta velocità verso la casa.

Jason arrivò agli alberi. Si infilò tra gli arbusti, tra i rami che gli sferzavano di continuo il volto. Un alto muro di mattoni… e cosa aveva detto Alys? Frammenti di vetro cementati in cima? Strisciò lungo la base del muro, combattendo con i folti arbusti, poi di colpo si trovò davanti una porta in legno: era socchiusa, e dietro si vedevano degli altri alberi e una strada.

Non era l’effetto della mescalina. Anche il poliziotto l’aveva visto. Il corpo di Alys. Quel vecchio scheletro. Di qualcuno morto da tanti anni.

Sul lato opposto della via, una donna, con le braccia cariche di pacchi, stava aprendo la portiera del suo flipflap.

Jason attraversò la strada. Costrinse la propria mente a rimettersi al lavoro, a scacciare i postumi della mescalina. — Signora…— ansimò.

La donna, stupefatta, alzò gli occhi. Giovane, di corporatura robusta, ma con bellissimi capelli biondo rame. — Sì? — chiese nervosa, scrutandolo.

— Mi è stata somministrata una dose tossica di qualche droga — disse Jason, cercando di mantenere calma la voce. — Mi accompagna a un ospedale?

Silenzio. Lei continuò a fissarlo con occhi sgranati; lui non disse niente, restò lì ad aspettare, ansimando. Sì o no: o una cosa, o l’altra.

La ragazza con i capelli biondo rame disse: — Non… non sono una grande autista. Ho preso la patente la settimana scorsa.

— Guido io — disse Jason.

— Però io non vengo. — La ragazza indietreggiò, stringendo al petto i pacchi avvolti in carta marrone. Probabilmente stava andando all’ufficio postale.

— Posso avere le chiavi? — Jason tese la mano e aspettò.

— Ma lei potrebbe svenire, e il mio flipflap…

— Allora venga con me.

Lei gli diede le chiavi e si sistemò sul sedile posteriore. Jason, con il cuore che pulsava di sollievo, si mise alla cloche, inserì la chiave nel cruscotto, e un istante dopo il flipflap si alzò in cielo, alla sua velocità massima di quaranta nodi orari. Per qualche bizzarra ragione, notò che era un modello non costoso, un Ford Greyhound. Molto economico. E nemmeno nuovo.

— Soffre molto? — gli chiese la ragazza, ansiosa. Il suo viso, nello specchietto retrovisore, mostrava ancora nervosismo, quasi panico. La situazione era troppo insolita per lei.

— No — le rispose Jason.

— Che droga era?

— Non me l’hanno detto. — La mescalina aveva praticamente esaurito il suo effetto. Per fortuna, la fisiologia da Sei di Jason possedeva tutta la forza necessaria per combatterlo. Non gli sarebbe affatto piaciuta l’idea di pilotare un flipflap così lento nel traffico mattutino di Los Angeles mentre era imbottito di mescalina. Di una dose molto forte. Nonostante quel che aveva detto lei.

Lei. Alys. “Perché non c’è inciso niente sui dischi?” si chiese. I dischi. Dov’erano? Si guardò attorno, frenetico. Oh, sul sedile al suo fianco. Li aveva caricati a bordo senza nemmeno rendersene conto. “Quindi, sono in salvo. Posso provare ad ascoltarli su un altro giradischi.”

— L’ospedale più vicino — disse la ragazza — è il St Martin, fra la Trentacinquesima e la Webster. È piccolo, però io ci sono stata per farmi togliere un porro dalla mano, e mi sono sembrati molto coscienziosi e gentili.

— Andremo lì — disse Jason.

— Si sente meglio o peggio?

— Meglio.

— È uscito dalla casa dei Buckman?

Lui annuì. — Sì.

La ragazza disse: — È vero che il signore e la signora Buckman sono fratello e sorella? Cioè…

— Gemelli.

— È quello che mi risulta — disse la ragazza. — Però, sa, è strano. Vedendoli assieme, sembrano marito e moglie. Si baciano e si tengono per mano, e lui tratta lei con molta gentilezza, e poi a volte fanno delle litigate tremende. — Restò in silenzio per un attimo, poi si protese in avanti e disse: — Io mi chiamo Mary Anne Dominic. E lei?

— Jason Taverner — rispose lui. Non che significasse qualcosa. A conti fatti. Dopo quello che gli era parso per un istante… Poi la voce della ragazza spezzò il corso dei suoi pensieri.

— Sono una vasaia. — Il tono era timido. — Questi sono vasi che porto all’ufficio postale, per spedirli a negozi della California settentrionale. Soprattutto Gump’s a San Francisco e Frazer’s a Berkeley.

— Lavora bene? — chiese lui. Quasi tutta la sua mente, le sue facoltà, si erano fermate nel tempo, fissate nell’istante in cui aveva aperto la porta del bagno e visto Alys, quella cosa, sul pavimento. La voce della signorina Dominic gli giungeva remota.

— Ci provo. Ma non si sa mai. Comunque, vendo.

— Ha due mani forti — commentò lui, in mancanza di meglio da dire. Le parole continuavano a uscire dalle sue labbra quasi per automatismo, come se le stesse formulando solo con un frammento della mente.

— Grazie — disse Mary Anne Dominic. Silenzio.

— Ha superato l’ospedale — disse Mary Anne Dominic. — È un po’ più indietro, sulla sinistra. — L’ansietà dei primi attimi era tornata a insinuarsi nella sua voce. — Vuole davvero andarci, oppure è solo…

— Non abbia paura — le rispose Jason, e questa volta prestò attenzione a ciò che diceva. Utilizzò tutte le sue doti per assumere un tono gentile e rassicurante. — Non sono uno studente in fuga. E non sono nemmeno scappato da un campo di lavori forzati. — Girò la testa, fissò la ragazza in viso. — Però sono nei guai.

— Allora lei non ha assunto una droga tossica. — La voce della ragazza tremò. Era come se si fosse finalmente verificata la cosa che aveva sempre temuto di più in vita sua.

— Adesso atterro — disse Jason. — Per rassicurarla. A me sta bene. La prego, non si agiti. Non le farò del male. — Ma la ragazza era rigida, immobile. Stava aspettando… Nessuno dei due sapeva cosa.

A un incrocio, molto affollato, Jason atterrò sul marciapiede e aprì la portiera. Poi, d’impulso, restò a bordo del flipflap per un altro attimo. Si girò di nuovo verso la ragazza.

— Per favore, scenda — implorò lei. — Non vorrei essere scortese, ma ho molta paura. Girano di continuo voci sugli studenti affamati che in un modo o nell’altro riescono a superare le barricate attorno ai campus…

— Mi stia a sentire — la interruppe lui, seccamente, interrompendo il fiume delle parole di Mary Anne Dominic.

— Okay. — La ragazza si ricompose, appoggiò le mani sui pacchi che aveva in grembo, in un’attesa rispettosa e carica di timore.

— Non dovrebbe lasciarsi spaventare così facilmente. Se no la vita sarà sempre troppo stressante per lei.

— Certo. — Lei annuì, poi si dispose ad ascoltare come se fosse a scuola.

— Ha sempre paura degli sconosciuti? — le chiese Jason.

— Sì. — Lei annuì di nuovo. Quella volta tenne la testa bassa, come se lui l’avesse rimproverata. E, in un certo senso, l’aveva fatto.

— La paura può portare a commettere più errori dell’odio o dell’invidia. Se hai paura, non ti butterai mai completamente tra le braccia della vita. La paura ti spinge sempre a frenarti in qualcosa.

— Credo di capire — disse Mary Anne Dominic. — Un giorno, più o meno un anno fa, qualcuno ha bussato freneticamente alla mia porta, e io sono corsa in bagno e mi sono chiusa dentro a chiave e ho fatto finta di non esserci, perché credevo che stessero cercando di introdursi in casa mia… E più tardi ho saputo che la signora del piano di sopra era rimasta con una mano imprigionata nello scarico del lavandino. Ha uno di quei tritarifiuti, ha presente? C’era finito dentro un coltello, e lei aveva infilato la mano e non riusciva più a tirarla fuori. Era suo figlio che bussava alla porta…

— Allora lei capisce cosa intendo dire — disse Jason.

— Sì. Vorrei non essere fatta così. Sul serio. Ma purtroppo… Jason chiese: — Quanti anni ha?

— Trentadue.

Ne fu sorpreso. Mary Anne Dominic gli sembrava molto più giovane. Evidentemente, non era mai cresciuta. Provò un’ondata di simpatia per lei: doveva esserle stato difficilissimo lasciargli il comando del suo flipflap. E le sue paure erano giustificate, in un certo senso. I motivi che lui aveva addotto per chiederle aiuto erano falsi.

Le disse: — Lei è bellissima.

— Grazie — rispose la ragazza con umiltà.

— Lo vede quel caffè? — chiese Jason, indicandole un locale nuovo, all’apparenza ben frequentato. — Andiamo a sederci là. Voglio parlare con lei. — “Devo parlare con qualcuno” pensò. “Con chiunque. Se no, Sei o non Sei, impazzirò.”

— Ma — protestò lei, ansiosa — devo consegnare i miei pacchi all’ufficio postale prima delle due. Per farli partire nel primo pomeriggio per la zona della Baia.

— Allora provvederemo subito. — Jason si girò verso il cruscotto, tolse le chiavi, la restituì a Mary Anne Dominic. — Guidi lei. In tutta calma.

— Signor Taverner — rispose la ragazza, — io voglio solo essere lasciata in pace. Starmene da sola.

— No. Lei non deve stare da sola. È una cosa che la sta uccidendo. La sta minando. Ogni giorno, sempre, lei dovrebbe essere in compagnia di altra gente.

Silenzio. Poi Mary Anne disse: — L’ufficio postale è tra la Quarantanovesima e la Fulton. Guida lei? Io sono un po’ nervosa.

A Jason parve una grande vittoria morale. Se ne compiacque.

Si fece restituire le chiavi e, poco dopo, erano in volo verso l’incrocio tra la Quarantanovesima e la Fulton.

22

Più tardi sedevano in un séparé del caffè, un locale pulito e molto carino, con cameriere giovani e una clientela piuttosto tranquilla. Dal juke-box uscivano le note di Memory of Your Nose di Louis Panda. Jason ordinò soltanto caffè; la signorina Dominic, macedonia di frutta e tè freddo.

— Cosa sono quei due dischi? — chiese lei.

Jason glieli passò.

— Ehi, ma li ha incisi lei. Se è Jason Taverner. Lo è sul serio?

— Sì — rispose lui. Di quello, perlomeno, era certo.

— Non credo di averla mai sentita — disse Mary Anne Dominic. — Mi piacerebbe moltissimo, ma in genere non amo la musica pop. Mi piacciono i grandi cantanti folk del passato, come Buffy St Marie. Oggi non c’è più nessuno che sia capace di cantare come Buffy.

— Sono d’accordo — convenne lui, serio. La sua mente tornava di continuo alla casa, al bagno, alla fuga dal pol privato. “Non è stato un effetto della mescalina” si ripeté un’altra volta. “Perché l’ha visto anche il pol.

“O comunque, ha visto qualcosa.”

— Forse non ha visto quel che ho visto io — disse a voce alta. — Forse l’ha solo vista riversa sul pavimento. Magari è caduta. Magari… — Pensò: “Magari dovrei tornare là”.

— Chi non ha visto cosa? — chiese Mary Anne Dominic, poi arrossì. — Non volevo immischiarmi nei suoi affari. Lei mi ha detto di essere nei guai, e vedo che la sua mente è ossessionata da qualcosa di angoscioso.

— Devo capire che cos’è successo. È tutto là, in quella casa. — “E su questi dischi” pensò Jason.

“Alys Buckman sapeva del mio programma televisivo. Sapeva dei miei album. Sapeva quale ha venduto più di tutti. Ne aveva una copia. Però…”

Sui dischi non era inciso niente. Puntina spezzata un accidente: si sarebbe dovuto sentire qualcosa, magari anche solo dei suoni distorti. Aveva avuto a che fare con dischi e giradischi per troppo tempo per non saperlo.

— Lei è una persona malinconica — disse Mary Anne Dominic. Aveva estratto dalla borsetta di stoffa un paio di occhiali e si mise a leggere con attenzione le note biografiche riportate sul retro delle copertine dei dischi.

— È stato quello che mi è successo a rendermi malinconico — spiegò Jason in breve.

— Qui dice che lei conduce un programma televisivo.

— Esatto. — Annuì. — Alle nove di sera del martedì. Sulla NBC.

— Allora è proprio famoso. Me ne sto seduta qui a parlare con una persona famosa che dovrei conoscere. Che sensazione le dà… Cos’ha provato quando ha visto che io non la riconoscevo, dopo che mi ha detto il suo nome?

Jason scrollò le spalle. Era un’ironia quasi divertente.

— Nel juke-box ci sarà qualche disco con uno dei suoi pezzi? — La ragazza indicò la struttura gotico-babilonese, multicolore, all’angolo opposto della sala.

— Può darsi — rispose lui. “Una buona domanda.”

— Vado a vedere. — La signorina Dominic pescò dalla tasca una moneta da due dollari e mezzo, lasciò il séparé, attraversò il locale, si mise a leggere titoli e nomi dei cantanti nel juke-box.

“Quando tornerà, non si sentirà più troppo colpita dalla mia presenza” rifletté Jason. Conosceva l’effetto anche di un’unica mancanza: se non fosse riuscito a essere presente ovunque, in ogni radio e giradischi, juke-box e negozio di articoli musicali, in ogni televisore dell’universo, l’incantesimo sarebbe svanito.

Lei tornò con il sorriso sulle labbra. — Nowhere Nuthin’ Fuck-up — disse, rimettendosi a sedere. E Jason si accorse che non aveva più la moneta. — Dovrebbe essere il prossimo brano.

Lui schizzò in piedi all’istante e corse attraverso il locale precipitandosi al juke-box.

Mary Anne Dominic aveva ragione. Il brano B4. Il successo più recente di Jason, Nowhere Nuthin’ Fuck-up, un pezzo sentimentale. E il meccanismo del juke-box aveva già cominciato a far scendere il disco.

Un attimo dopo, la sua voce, resa più morbida dalla tecnologia quadrifonica e dall’uso dell’eco, riempì il locale.

Esterrefatto, tornò al séparé.

— Lei è supermeraviglioso! — disse Mary Anne, forse per pura cortesia, visti i suoi gusti, quando la canzone terminò.

— Grazie. — La voce era davvero la sua. I solchi di quel disco non erano vuoti.

— Lei è davvero fantastico! — Mary Anne, entusiasta, era tutta sorrisi e sfolgorio di lenti.

— Sono un vecchio professionista — rispose semplicemente Jason. I complimenti gli sembravano sinceri.

— Le ha dato fastidio che io non la conoscessi?

— No. — Lui scosse la testa, ancora stordito. Di certo la ragazza non era l’unica a non avere mai sentito il suo nome, come avevano dimostrato gli eventi degli ultimi due giorni. Due giorni? Solo?

— Posso ordinare qualcosa d’altro? — Mary Anne esitò. — Ho speso tutti i soldi che avevo per i francobolli. Non…

— Offro io.

— Secondo lei, come sarà la torta di formaggio alle fragole?

— Eccezionale — rispose lui, divertito dalla ragazza. La sua onestà, l’ansietà… “Avrà un ragazzo?” si chiese. Probabilmente no. Viveva in un mondo di vasi, ceramica, carta marrone per pacchi, problemi con il suo piccolo Ford Greyhound; e, sullo sfondo, le voci solo stereo delle grandi del passato: Judy Collins e Joan Baez.

— Mai sentita Heather Hart? — le domandò dolcemente. Mary Anne aggrottò la fronte. — Non… non sono certa di ricordarmene. È una cantante folk o… — La sua voce si spense. Il suo viso aveva un’aria triste, come se lei intuisse di non essere all’altezza della situazione, di non sapere quello che chiunque avrebbe dovuto sapere. Lui provò un’ondata di tenerezza.

— Canzoni melodiche — le disse. — Come le mie.

— Possiamo risentire il suo pezzo?

Lui tornò al juke-box, programmò di nuovo il suo brano. Questa volta non sembrò che piacesse a Mary Anne.

— Cosa c’è? — le chiese Jason.

— Oh, mi dico sempre che sono un tipo creativo. Faccio vasi eccetera. Però non so se siano davvero belli. Non riesco a capirlo. La gente mi dice…

— La gente può dirti di tutto. Che non vali niente, oppure che sei impagabile. Le cose peggiori e quelle migliori. Riesci sempre a toccare qualcuno qui… — Jason batté le dita sul portasale. — E non tocchi qualcun altro qui. — Tamburellò sulla ciotola della macedonia di frutta.

— Ma dev’esserci un modo…

— Ci sono gli esperti. Puoi starli ad ascoltare. Sentire le loro teorie. Quelli hanno sempre delle teorie da sciorinare. Scrivono lunghi articoli e discutono della tua produzione tornando indietro fino al primo disco che hai inciso, diciannove anni prima. Stabiliscono paragoni tra pezzi che non ricordi nemmeno di avere cantato. E i critici televisivi…

— Ma essere famosi… — Di nuovo, per un attimo, gli occhi della ragazza brillarono.

— Chiedo scusa. — Jason si alzò di nuovo. Non poteva aspettare oltre. — Devo fare una telefonata. Se tutto va bene, tornerò subito. Se no… — Mise una mano sulla spalla di Mary Anne, sul maglione bianco che probabilmente lei si era fatta da sola. — È stato un piacere conoscerla.

Perplessa, con quel suo modo di fare timoroso e obbediente, lei lo guardò mentre andava in fondo al locale e raggiungeva il telefono pubblico.

Jason si chiuse in cabina. Trovò il numero dell’accademia di polizia di Los Angeles sull’elenco dei numeri d’emergenza. Inserì una moneta nella fessura e chiamò.

— Vorrei parlare con il generale Felix Buckman — disse, e non lo sorprese scoprire che gli tremava la voce. “Psicologicamente, sono al tappeto” si rese conto. “Tutto quello che è successo, fino al disco nel juke-box, è troppo per me. Ho una paura del diavolo. E sono disorientato. Quindi, forse l’effetto della mescalina non è del tutto finito, a conti fatti. Però sono riuscito a pilotare il flipflap senza problemi: questo deve significare qualcosa. Fottuta droga! Riesci sempre a capire quando comincia a fare effetto, ma mai quando smette, ammesso che smetta. Ti taglia le gambe per sempre, o così pensi. Non puoi mai essere sicuro. Magari non esce mai dal tuo corpo. E ti dicono: ‘Ehi, tu, ti sei bruciato il cervello’, e tu rispondi: ‘Può darsi’. Non puoi esserne certo. E tutto perché hai mandato giù una capsula, o una capsula di troppo, quando qualcuno ti ha detto: ‘Questa ti tirerà su’.”

— Sono la signorina Beason — disse al suo orecchio una voce femminile. — L’assistente del signor Buckman. Posso aiutarla?

— Peggy Beason. — Jason inspirò tremante una boccata d’aria. — Sono Jason Taverner.

— Oh, sì, signor Taverner. Cosa voleva? Ha dimenticato qualcosa qui?

— Voglio parlare con il generale Buckman.

— Temo che il signor Buckman…

— Si tratta di Alys — disse lui.

Silenzio. Poi: — Un momento per favore, signor Taverner — rispose Peggy Beason. — Chiamo il signor Buckman e vedo se riesce a liberarsi un attimo.

Ticchettii. Una pausa. Altro silenzio. Poi lo misero in comunicazione con qualcuno.

— Signor Taverner? — Non era il generale Buckman. — Sono Herbert Maime, alle dirette dipendenze del signor Buckman. Mi risulta che lei abbia detto alla signorina Beason che si tratta della sorella del signor Buckman, Alys Buckman. Francamente vorrei chiederle in seguito a quali circostanze lei sia giunto a conoscere la signorina…

Jason riappese. E tornò alla cieca al séparé, dove Mary Anne Dominic stava mangiando la sua torta di formaggio alle fragole.

— Allora è tornato — disse lei, allegra.

— Com’è la torta? — chiese lui.

— Un po’ troppo sostanziosa. — La ragazza aggiunse: — Però è buona.

Lui si rimise a sedere, rabbioso. Aveva fatto del suo meglio per contattare Felix Buckman. Per dirgli di Alys. Ma cosa sarebbe riuscito a raccontargli, in definitiva? L’inutilità di tutto, la perpetua impotenza dei suoi sforzi e delle sue intenzioni… “Ancora più indebolite” pensò “da quello che mi ha dato lei. Dalla capsula di mescalina.”

Se era davvero mescalina.

Il che rappresentava una nuova possibilità. Non aveva alcuna prova, proprio nessuna, che Alys gli avesse realmente dato della mescalina. Poteva essere di tutto. Per esempio, perché mai la mescalina doveva arrivare dalla Svizzera? Non aveva senso. Questo fatto suggeriva l’idea che si trattasse di qualcosa di sintetico. Un prodotto chimico. Magari una nuova droga alla moda composta di vari ingredienti. O qualcosa rubato dai laboratori della polizia.

Il disco con Nowhere Nuthin’ Fuck-up. Se fosse stata la droga a farglielo sentire? E a fargli vedere l’elenco di titoli nel juke-box? Ma anche Mary Anne Dominic aveva sentito il pezzo; anzi, l’aveva scoperto lei.

Ma i due album non incisi…

Mentre stava lì a riflettere, un adolescente in jeans e maglietta si chinò verso di lui e gli disse: — Ehi, lei è Jason Taverner, vero? — Gli tese una biro e un pezzo di carta. — Posso avere il suo autografo, signore?

Alle sue spalle, una ragazzina dai capelli rossi, molto graziosa, senza reggiseno e con gli short bianchi, sorrise eccitata. — La guardiamo sempre, il martedì sera. Lei è fantastico. E visto dal vivo, be’, è esattamente uguale a com’è sullo schermo, solo che dal vivo è più, come dire, abbronzato. — I suoi cordiali capezzoli sussultarono.

Senza rendersene conto, per abitudine, Jason firmò il foglio. — Grazie, ragazzi — disse. Adesso i suoi fan erano quattro.

Chiacchierando tra loro, se ne andarono. Agli altri séparé, i clienti scrutavano Jason e parlottavano eccitati. “Come sempre” si disse lui. Era così che stavano le cose fino all’altro giorno. “La mia realtà sta tornando.” Provava un’allegria incontenibile, frenetica. Era quello il mondo che conosceva; era il suo stile di vita. Lo aveva perso per un breve periodo, ma ora, finalmente, stava cominciando a riaverlo.

Heather Hart. Pensò: “Adesso la posso chiamare. E riuscirò a parlarle. Non mi prenderà per un ‘aborto di fan’.

“Forse esisto solo se prendo la droga. Quella droga che mi ha dato Alys, qualunque cosa sia.

“Ma allora la mia carriera, questi vent’anni sono soltanto un’allucinazione retroattiva creata dalla droga.”

“Quello che è successo” pensò Jason Taverner “è che la droga ha smesso di fare effetto. Lei o qualcun altro hanno smesso di darmela, e io mi sono risvegliato nella realtà, in quella stanza d’hotel scalcinata e cadente, con lo specchio crepato e il materasso infestato di pulci. E sono rimasto in quello stato sino ad ora, finché Alys non mi ha dato un’altra dose.”

Pensò: “Era ovvio che sapesse di me, del mio show televisivo del martedì sera. L’ha creato lei con la droga. E quei due album… Involucri vuoti che teneva con sé per dare più credibilità all’allucinazione.

“Gesù Cristo, è proprio così?

“Ma i soldi che avevo in tasca quando mi sono svegliato nella camera d’hotel, allora? Tutto quel malloppo?” Si batté una mano sul petto, avvertì la spessa presenza del denaro, ancora lì. “Se nella vita reale trascorro i miei giorni in hotel infestati da pulci a Watts, da dove saltano fuori questi soldi?

“E inoltre sarei stato presente negli archivi della polizia, e in tutte le altre banche dati del pianeta. Non come un famoso cantante, ma come un barbone che non ha mai concluso niente. Uno che, per andare su di giri, può al massimo imbottirsi di pasticche. Solo Dio sa per quanto tempo. è possibile che io mi droghi da anni.

“Alys” ricordò “ha detto che ero già stato a casa sua.

“E, a quanto sembra” decise, “è vero. Dovevo andarci. Per prendere la mia dose.

“Forse sono soltanto uno tra molti che vivono esistenze sintetiche fatte di popolarità, denaro e potere grazie a una pasticca. Mentre in realtà vivono in vecchie e schifose camere d’hotel infestate dalle pulci. Nel ghetto. Derelitti, nullità. Zero. Che però, intanto, sognano.”

— Certo che lei dev’essere proprio immerso in profonde riflessioni — disse Mary Anne. Aveva finito la torta. Mostrava un’aria soddisfatta. E contenta.

— Ma — le disse — nel juke-box c’è davvero il mio disco?

Lei sgranò gli occhi nel tentativo di capire. — Come sarebbe a dire? L’abbiamo ascoltato. E c’è scritto il titolo su uno di quei cartellini. I juke-box non sbagliano mai.

Jason tirò fuori una moneta. — Me lo faccia risentire. Tre volte.

Obbediente, lei si alzò dal séparé, percorse il locale, si chinò sul juke-box. I capelli, lunghi e bellissimi, le scendevano sulle spalle forti. Dopo un po’, Jason sentì il disco. Sentì la sua canzone da hit parade. E la gente, nei séparé e al banco, annuiva e gli sorrideva, perché l’aveva riconosciuto. Sapevano che era lui a cantare. Erano il suo pubblico.

Quando il brano terminò, i clienti del caffè si misero ad applaudire. Jason rispose con il suo sorriso più automatico, più professionale, per ringraziarli di essere stato riconosciuto e di godere del loro favore.

— C’è — disse, quando la canzone ricominciò. Strinse il pugno, assestò un colpo robusto al tavolo di plastica che lo separava da Mary Anne Dominic. — Per Dio, c’è!

Mossa da uno di quei bizzarri, profondi, intuitivi desideri femminili di portare aiuto, Mary Anne disse: — E ci sono anch’io.

— Non mi trovo in una scalcinata stanza d’hotel, sdraiato su una brandina a sognare — disse lui.

— No, certo che no. — Il tono della ragazza era tenero, ansioso. Era ovvio che si preoccupava per lui. Per la sua apprensione.

— Sono di nuovo reale — disse Jason. — Ma se è potuto succedere una volta, per due giorni… Andare e venire in quel modo, svanire e riapparire…

— Forse è meglio uscire — disse Mary Anne, preoccupata.

Quella frase schiarì la mente a Jason. — Mi scusi — disse, ansioso di rassicurarla.

— È solo che qui la gente sta ascoltando.

— Non gli farà male. Lasci che ascoltino. Lasci che vedano che anche una star famosa in tutto il mondo ha comunque dei problemi e delle preoccupazioni. — Poi si alzò. — Dove vuole andare? — chiese a Mary Anne. — A casa sua? — Significava tornare indietro, ma si sentiva tanto ottimista da correre il rischio.

— A casa mia? — balbettò lei.

— Pensa che potrei farle del male?

Per un breve intervallo, lei restò a riflettere nervosamente. — N… No — rispose alla fine.

— Ha un giradischi — le chiese lui — a casa?

— Sì, ma non dei migliori. È soltanto stereo. Però funziona.

— Okay. — Jason la prese per mano e l’accompagnò verso la cassa. — Andiamo.

23

Mary Anne Dominic aveva dipinto da sé le pareti e il soffitto. Colori bellissimi, forti, pieni. Jason si guardò attorno, colpito. E i pochi oggetti d’arte nel soggiorno avevano una loro potente bellezza. Pezzi di ceramica. Jason prese in mano un delizioso vaso azzurro verniciato a vetro e lo studiò.

— L’ho fatto io — disse Mary Anne.

— Questo vaso apparirà nel mio show.

Mary Anne lo fissò meravigliata.

— Lo userò molto presto. Per la precisione… — Se lo immaginava già. — Un bel numero con effetti speciali. Io che emergo dal vaso cantando, come un genio. — Alzò il vaso in aria, lo fece ruotare su una mano. — Nowhere Nuthin’ Fuck-up — disse. — E la sua carriera decollerà.

— Forse è meglio se lo regge con tutte e due le mani — disse Mary Anne un po’ nervosa.

Nowhere Nuthin’ Fuck-up. La canzone che ci ha dato più soddisfazioni… — Il vaso scivolò dalle dita di Jason e cadde. Mary Anne balzò in avanti, ma troppo tardi. Il vaso si ruppe in tre pezzi ai piedi di Jason. Gli orli non verniciati, sbiaditi e frastagliati, non avevano più la minima attrattiva.

Ci fu un lungo silenzio.

— Penso di poterlo aggiustare — disse Mary Anne. A lui non venne in mente niente che potesse dire.

— La cosa più imbarazzante che mi sia mai successa — continuò Mary Anne — mi è accaduta una volta con mia madre. Lei aveva una malattia progressiva ai reni, il morbo di Bright. Andava di continuo in ospedale, quando io ero piccola, e in tutte le conversazioni riusciva sempre a dire che sarebbe morta di quello e che io ne avrei sofferto un mondo, come se fosse stata colpa mia. E io le credevo sul serio, credevo che un giorno sarebbe morta. Però poi sono diventata adulta, ho lasciato casa nostra, e mia madre non era ancora morta. E io, quasi, mi sono dimenticata di lei. Avevo la mia vita, le mie cose da fare. Quindi, ovviamente, ho scordato la sua maledetta malattia renale. Poi un giorno lei è venuta a trovarmi, non qui, nell’appartamento che avevo prima, e ha continuato a tormentarmi con il racconto dei suoi dolori e con le sue lamentele eccetera eccetera… Alla fine le ho detto: “Devo andare a fare la spesa per la cena”, e sono uscita. Mia madre è venuta con me, camminando come poteva. Lungo la strada mi ha informata che ormai tutti e due i reni erano ridotti in condizioni tali che glieli dovevano togliere, che sarebbe stata ricoverata per l’operazione, che avrebbero cercato di trapiantarle un rene artificiale ma che, probabilmente, non avrebbe funzionato. Stava per morire sul serio, come aveva sempre detto… E all’improvviso io ho alzato gli occhi e mi sono resa conto di essere nel supermarket, al banco della carne, e quel commesso così carino che mi piaceva tanto si era avvicinato a salutare, e poi mi ha chiesto: “Cosa posso darle oggi, signorina?”. E io gli ho risposto: “Stasera a cena vorrei un timballo di rognoni”. Era imbarazzante. “Un grosso timballo di rognoni” gli ho detto, “croccante e tenero e ripieno di un buon sugo.” “Per quante persone?” ha chiesto lui. Mia madre continuava a fissarmi con un’espressione stravolta. Mi ero ficcata in quella situazione e non sapevo più come venirne fuori. Alla fine ho comperato un timballo di rognoni, ma ho dovuto andare al reparto gastronomia. Era in scatola, veniva dall’Inghilterra. L’ho pagato mi pare quattro dollari. Era ottimo.

— Le pagherò il vaso — disse Jason. — Quanto vuole?

Lei esitò. — Be’, a lei dovrei fare il prezzo al minuto perché non è un negoziante, e quindi…

Lui tirò fuori i soldi. — Prezzo al minuto.

— Venti dollari.

— Potrei presentarla nel mio show in un altro modo — disse Jason. — Basta trovare il modo giusto. Senta: possiamo mostrare al pubblico un vaso antico di valore inestimabile, diciamo un vaso cinese del V secolo. Ci sarà l’esperto di un museo a garantirne l’autenticità. Poi arriverà lei. Modellerà un vaso direttamente sotto gli occhi del pubblico, e noi dimostreremo che il suo vaso è migliore.

— Impossibile. Gli antichi vasi cinesi sono…

— Ma noi lo dimostreremo. Glielo faremo credere. Conosco il mio pubblico. Quei trenta milioni di persone si fanno le loro opinioni sulla base di quello che io gli dico. Faremo un primo piano sul mio viso, in modo che si veda la mia ammirazione per il suo vaso.

Mary Anne abbassò la voce. — Non posso presentarmi in televisione, con tutte quelle telecamere puntate su di me. Sono… troppo grassa. La gente riderebbe.

— Sarebbe una pubblicità enorme. Pensi a quanto potrebbe vendere. Musei e negozi conosceranno il suo nome, i suoi manufatti. Spunteranno acquirenti da ogni parte.

— Mi lasci in pace, per favore. — Il tono di Mary Anne era pacato. — Io sono felice così. Sono una buona vasaia. So che i negozi, quelli di qualità, apprezzano il mio lavoro. Non posso vivere la mia piccola vita come preferisco? — Fissò Jason con occhi intensi. La sua voce era solo un mormorio. — Non vedo cosa abbia fatto per lei tutta la sua celebrità. La fama. Nel caffè mi ha chiesto se nel juke-box ci fosse davvero il suo disco. Aveva paura che non fosse così. Era molto più insicuro di quanto sarò mai io.

— A proposito, vorrei sentire questi due album sul suo giradischi. Prima di andarmene.

— Lasci fare a me — disse Mary Anne. — Il mio impianto è scassato. — Prese i due dischi, e i venti dollari. Jason restò immobile dov’era, accanto ai tre pezzi di vaso.

Dopo un po’, sentì una musica familiare. Il suo album che aveva venduto di più. I solchi del disco non erano più vuoti.

— Può tenere gli album — disse. — Io vado. — “Adesso” pensò “non ne ho più bisogno. Probabilmente potrò comperarli in qualunque negozio di dischi.”

— Non è il tipo di musica che mi piace… Non credo che li ascolterei molto.

— Glieli lascio lo stesso.

Mary Anne disse: — Le darò un altro vaso per i suoi venti dollari. Un momento. — Corse nell’altra stanza. Jason udì rumore di carta, di cose spostate. La ragazza tornò con un altro vaso azzurro verniciato a vetro. Aveva qualcosa in più dell’altro. Jason intuì che lei lo considerava una delle sue migliori opere.

— Grazie — le disse.

— Glielo incarto e lo metto in una scatola, così non si romperà come l’altro. — Mary Anne si mise al lavoro con un’intensità febbrile e allo stesso tempo con estrema cura. — Trovo molto eccitante — disse, porgendogli la scatola — avere fatto colazione con un uomo famoso. Sono molto felice di averla incontrata e me ne ricorderò. E spero che i suoi problemi si risolvano.

Jason Taverner infilò la mano nella tasca interna della giacca, estrasse il piccolo portatessere di cuoio con le sue iniziali. Prese uno dei biglietti da visita multicolori e lo porse a Mary Anne. — Mi chiami allo studio quando vuole. Se cambiasse idea e volesse partecipare al mio programma. Sono sicuro che riusciremo a inserirla in scaletta. Qui c’è anche il mio numero privato.

— Addio. — Mary Anne gli aprì la porta.

— Addio. — Jason avrebbe voluto aggiungere qualcosa di più. Ma non restava altro da dire. — Abbiamo fallito — disse alla fine. — Tutti e due.

Lei sbatté le palpebre. — Cosa vorrebbe dire?

— Abbia cura di sé. — Jason uscì dall’appartamento, emerse sul marciapiede, nella luce del pomeriggio. Sotto il sole caldo del giorno.

24

Il medico legale, inginocchiato accanto al cadavere di Alys Buckman, disse: — Al momento posso dirle solo che è morta per un’overdose di una droga tossica o semitossica. Occorreranno ventiquattro ore per poter stabilire esattamente di che cosa si tratti.

Felix Buckman rispose: — Doveva succedere. Prima o poi. — Con sua grande sorpresa, non provava una forte emozione. Anzi, in un certo senso, avere saputo da Tim Chancer, la loro guardia privata, che Alys era stata trovata morta nel bagno del primo piano gli aveva procurato un profondo sollievo.

— Ho pensato che quel Taverner le avesse fatto del male — continuava a ripetere Chancer, nel tentativo di attirare l’attenzione di Buckman. — Il suo comportamento era strano. Ho capito che era successo qualcosa. Gli ho sparato un paio di volte, ma è riuscito a fuggire. Probabilmente è meglio che non l’abbia colpito, se è innocente. O magari si sentiva in colpa per avere spinto Alys a prendere la droga. È possibile?

— Nessuno doveva costringere Alys a prendere droga — rispose acido Buckman. Uscì dal bagno in corridoio. I pol in uniforme grigia erano sull’attenti. Aspettavano ordini. — Non aveva bisogno né di Taverner né di altri per drogarsi. — Adesso Buckman si sentiva male. “Dio” pensò, “come la prenderà Barney ?” Sarebbe stato straziante dirgli cos’era successo. Per motivi che gli erano oscuri, il figlio adorava la madre. “Be’” pensò, “nessuno riesce a capire i gusti degli altri.”

Eppure, la amava anche lui. “Alys possedeva una sua peculiare forza. Mi mancherà.” Alys aveva riempito molto del suo spazio.

E buona parte della sua vita. Nel bene o nel male.

Terreo in volto, Herbert Maime salì i gradini a due a due, gli occhi fissi su Buckman. — Sono arrivato il più in fretta possibile — disse, porgendo la mano a Buckman. Che gliela strinse. — Cos’è stato? — Herb abbassò la voce. — Un’overdose?

— A quanto sembra — rispose Buckman.

— Qualche ora fa mi è arrivata una telefonata da Taverner — disse Herb. — Voleva parlare con lei. Ha detto che si trattava di Alys.

— Voleva informarmi della morte di Alys. Era qui quando è successo.

— Perché? Come mai la conosceva?

— Non lo so — rispose Buckman. Comunque, al momento la cosa non gli sembrava molto importante. Non c’era motivo di incolpare Taverner dell’accaduto. Dato il temperamento e le abitudini di Alys, probabilmente era stata lei a trascinarlo lì. Forse, quando Taverner aveva lasciato il palazzo dell’accademia, lei l’aveva fermato e l’aveva caricato sul suo trabi truccato. E portato lì. Dopo tutto, Taverner era un Sei. E ad Alys piacevano i Sei. I maschi come le femmine.

Soprattutto le femmine.

— Potrebbe esserci stata un’orgia — disse.

— Con loro due soli? O sta dicendo che c’era altra gente?

— Non c’era nessun altro. Chancer lo saprebbe. Volevo dire che potrebbero avere fatto un’orgia via telefono. Alys è arrivata così vicino tante di quelle volte a bruciarsi il cervello con quelle fottute orge telefoniche… Quanto mi piacerebbe riuscire a pizzicare i nuovi gestori, quelli che sono subentrati dopo che abbiamo fatto fuori Bill e Carol e Fred e Jill. Degenerati. — Con dita tremanti, portò alle labbra una sigaretta e aspirò avidamente il fumo. — Mi viene in mente una cosa che ha detto una volta Alys. Una battuta involontaria. Stava parlando di organizzare un’orgia e si chiedeva se dovesse spedire degli inviti formali. “Forse è meglio” ha detto, “se no non verranno tutti contemporaneamente.” — Rise.

— Me l’aveva già raccontato — commentò Herb.

— È morta sul serio. Morta stecchita. — Buckman spense la sigaretta in un posacenere. — Mia moglie — disse a Herb Maime. — Era mia moglie.

Herb scosse la testa, indicò i due agenti in uniforme grigia immobili sull’attenti.

— E con ciò? — chiese Buckman. — Non hanno letto il libretto di Die Walküre? — Tremante, accese un’altra sigaretta. — Sigmund e Siglinde. Schwester und Braut. Sorella e sposa. E al diavolo Hunding. — Buttò la sigaretta sul tappeto. La guardò bruciare, cominciare ad appiccare il fuoco alla lana. Poi, con il tacco dello stivale, la spense.

— Dovrebbe mettersi a sedere — disse Herb. — O sdraiarsi. Ha un aspetto terribile.

— È orrendo — disse Buckman. — Davvero. C’erano tante cose in lei che non mi piacevano, ma Cristo!, com’era vitale. Era sempre pronta a provare tutte le novità. È stato questo a ucciderla. Probabilmente una nuova droga che lei e le sue amiche streghe hanno preparato nei loro miserabili laboratori, in qualche cantina. Qualcosa che conteneva liquido per lo sviluppo fotografico o Drano o anche di peggio.

— Penso che dovremmo parlare con Taverner — disse Herb.

— Okay. Portalo dentro. Ha addosso quel microtras, no?

— A quanto pare, no. Tutte le microspie che gli abbiamo messo addosso quando è uscito dall’accademia hanno smesso di funzionare. Tranne forse la bomba-seme. Ma non abbiamo motivo di attivarla.

— Taverner è un bastardo furbo — disse Buckman. — Oppure l’hanno aiutato. Una o più d’una delle persone con le quali lavora. Non prenderti il disturbo di far detonare la bomba-seme. Senza dubbio qualche suo zelante collega gliel’ha tolta dalla pelle. — “Oppure è stata Alys” pensò. “La mia servizievole sorellina. Sempre pronta ad assistere la polizia in ogni occasione. Splendido.”

— Sarà meglio che lei lasci la casa per un po’ — disse Herb. — Intanto che lo staff del coroner completa il suo lavoro.

— Riportami all’accademia. Non credo di riuscire a guidare. Tremo troppo. — Buckman sentì qualcosa sul viso. Si toccò e scoprì di avere il mento bagnato. — Che cos’è? — chiese stupefatto.

— Sta piangendo — rispose Herb.

— Riportami all’accademia. Finirò quello che devo fare prima di passare tutto nelle tue mani. Poi voglio tornare qui. — “Forse Taverner le ha dato qualcosa” si disse Buckman. “Ma Taverner è una nullità. È stata lei. Eppure…”

— Andiamo. — Herb lo prese per il braccio e lo guidò giù per la scala.

Mentre scendevano, Buckman chiese: — Avresti mai pensato di vedermi piangere in questo cazzo di mondo?

— No — rispose Herb. — Ma è comprensibile. Voi due eravate molto uniti.

— Puoi dirlo forte. — Buckman fu invaso da un’ira improvvisa, tremenda. — Dio la maledica! Gliel’avevo detto che prima o poi le sarebbe successo. Qualcuno dei suoi amici ha preparato quella roba e ha usato lei come cavia.

— Non si sforzi di lavorare troppo in ufficio — disse Herb. Dal soggiorno raggiunsero l’uscita. Fuori erano parcheggiati i loro due trabi. — Faccia solo il minimo indispensabile per poter passare il lavoro a me.

— Gliel’avevo detto. Nessuno mi dà mai ascolto, cazzo!

Herb gli diede una pacca sulla spalla e non parlò. I due attraversarono il prato in silenzio.

Durante il volo di ritorno all’accademia, Herb, che guidava, disse: — Ho delle sigarette nella giacca. — Era la prima frase che uno dei due pronunciasse da quando erano saliti sul trabi.

— Grazie. — Buckman aveva finito la sua razione settimanale di tabacco.

— Voglio discutere di una cosa con lei — aggiunse Herb. — Vorrei poterla rimandare, ma non si può.

— Non puoi aspettare finché saremo in ufficio?

— Quando torneremo, potrebbe esserci altro personale ad alto livello. Oppure anche solo altra gente. Il mio staff, per esempio.

— Io non ho niente da dire che…

— Mi stia a sentire — lo interruppe Herb. — Si tratta di Alys. Del suo matrimonio con lei. Con sua sorella.

— Il mio incesto — disse Buckman con voce rauca.

— Alcuni dei marescialli potrebbero esserne informati. Alys ne ha parlato con troppa gente. Sa come la pensava.

— Ne era orgogliosa. — Buckman accese una sigaretta con una certa difficoltà. Non riusciva ancora a togliersi dalla mente il fatto di essersi messo a piangere. “Dovevo amarla sul serio” si disse. “E invece mi sembrava di provare solo paura e disgusto. E l’attrazione sessuale. Quante volte ne abbiamo discusso prima di farlo. Per tutti quegli anni.” — Io l’ho detto soltanto a te.

— Ma Alys…

— Okay. D’accordo, forse alcuni dei marescialli lo sanno. E magari il direttore, se la cosa può essere di qualche interesse per lui.

— I marescialli che le sono nemici — disse Herb — e che sanno del… — Esitò. — Dell’incesto… Diranno che si è suicidata. Per la vergogna. Se lo può aspettare. E faranno filtrare la notizia ai media.

— Tu credi? — Buckman si disse che sarebbe stata una bella storia. Il matrimonio di un generale di polizia con la sorella, benedetto dalla nascita di un bambino nascosto in Florida. Il generale e la sorella che si presentano come marito e moglie in Florida, quando sono con il figlio. E il bambino: il frutto di quello che dev’essere un patrimonio genetico segnato da tare.

— Quello che vorrei farle capire — disse Herb, — e temo che dovrà riflettere sulla cosa proprio adesso, che non è certo il momento ideale data la morte di Alys…

— È il nostro coroner. È un uomo nostro, dell’accademia. — Buckman non capiva dove volesse arrivare Herb. — Dirà che si è trattato di un’overdose di una droga semitossica, come ci ha già anticipato.

— Ma ingerita deliberatamente. Una dose da suicidio.

— Cosa vuoi che faccia?

Herb rispose: — Lo costringa a compilare un referto di omicidio. Glielo ordini.

E Buckman capì. Col tempo, superata l’ondata di dolore, ci sarebbe arrivato anche lui. Ma Herb Maime aveva ragione: la questione andava affrontata subito. Ancora prima di tornare all’accademia.

— Così — disse Herb — potremo dire che…

— Che gli uomini della gerarchia della polizia ostili alla mia politica nei confronti dei campus e dei campi di lavoro si sono vendicati uccidendo mia sorella — concluse a denti stretti Buckman. Gli si raggelava il sangue all’idea di avere già cominciato a pensare a una cosa simile. Ma…

— Qualcosa del genere — disse Herb. — Senza fare nomi in particolare. Nessun nome di alti ufficiali. Basterà lasciar capire che loro hanno pagato qualcuno per farlo. O hanno dato l’ordine a qualche giovane funzionario ansioso di far carriera. Non crede che io abbia ragione? E bisogna agire in fretta, fare una dichiarazione immediata. Non appena rientreremo all’accademia lei dovrebbe spedire un comunicato di questo tenore a tutti i marescialli e al direttore.

“Devo trasformare una terribile tragedia personale in un vantaggio” si rese conto Buckman. “Sfruttare la morte accidentale di mia sorella. Se è stata accidentale.”

— Magari è vero — disse. Per esempio, forse l’omicidio poteva essere stato organizzato dal maresciallo Holbein, che lo odiava a morte.

— No — disse Herb. — Non è vero. Ma apra un’inchiesta. E deve trovare qualcuno da accusare. Deve esserci un processo.

— Sì — convenne lui, cupo. Un processo coi fiocchi. Che si concludesse con un’esecuzione capitale. Coi media che strepitavano truci, che parlavano del coinvolgimento di “autorità superiori” intoccabili grazie alla loro posizione. E il direttore, se tutto fosse filato liscio, avrebbe espresso ufficialmente il suo cordoglio per la tragedia unitamente alla speranza che i colpevoli venissero identificati e puniti.

— Mi spiace di avergliene dovuto parlare così presto — disse Herb. — Ma l’hanno già degradata da maresciallo a generale. Se la storia dell’incesto diventasse di dominio pubblico, potrebbero riuscire a costringerla ad andare in pensione. Ovviamente, se prendiamo noi l’iniziativa, potrebbero diffondere la storia dell’incesto. Speriamo che lei sia coperto a sufficienza.

— Ho fatto tutto il possibile — disse Buckman.

— Chi dobbiamo incolpare?

— Il maresciallo Holbein e il maresciallo Ackers. — L’odio di Buckman per i due era grande quanto il loro per lui: cinque anni prima, avevano massacrato più di diecimila studenti della Stanford University: l’ultimo, e del tutto superfluo, atroce bagno di sangue dell’atrocità suprema rappresentata dalla seconda guerra civile.

— Non alludevo ai mandanti dell’omicidio — disse Herb. — Holbein e Ackers e gli altri. Parlavo di chi ha materialmente somministrato la droga.

— Il pesce piccolo. Qualche prigioniero politico di uno dei campi di lavori forzati. — Non aveva la minima importanza. Sarebbe andato benissimo uno dei milioni di prigionieri dei campi, o uno studente che vivesse in un kibbutz destinato al fallimento.

— Io incriminerei qualcuno più in alto — disse Herb.

— Perché? — Buckman non riusciva a seguire la logica del suo sottoposto. — Si è sempre fatto così: l’apparato sceglie uno sconosciuto, un insignificante…

— Incastriamo uno degli amici di Alys. Qualcuno che potesse starle alla pari. Anzi, qualcuno molto noto. Anzi, qualcuno dell’ambiente artistico di questa zona. Alys era una fotticelebrità.

— Perché qualcuno d’importante?

— Per poter collegare Holbein e Ackers a quei degenerati, ai fanatici delle orge telefoniche che Alys frequentava. — Adesso Herb sembrava veramente arrabbiato. Buckman gli lanciò un’occhiata perplessa. — Quelli che l’hanno effettivamente uccisa. I suoi amici di queste porcate alla moda. Scelga qualcuno che stia il più in alto possibile. A quel punto, avrà davvero qualcosa di grosso da scaricare sui marescialli. Pensi allo scandalo che ne nascerà. Holbein coinvolto nelle orge via telefono.

Buckman spense la sigaretta e ne accese subito un’altra. Intanto continuava a pensare. “Quel che devo fare è batterli sul terreno dello scandalo. La mia storia dev’essere più schifosa della loro.”

Sarebbe occorsa una storia molto forte.

25

Nella sua suite ufficio, nel palazzo dell’accademia di polizia di Los Angeles, Felix Buckman si mise al lavoro sui messaggi, le lettere e i documenti che trovò sulla scrivania. Selezionò quelli da sottoporre all’attenzione di Herb Maime e accantonò quelli che potevano aspettare. Lavorò frettolosamente, senza impegno. Mentre lui studiava le varie carte, Herb, nel proprio ufficio, cominciò a scrivere la prima bozza del comunicato sulla morte di Alys che Buckman avrebbe reso di dominio pubblico.

Finirono tutti e due in poco tempo e si riunirono nell’ufficio di Buckman, dove il generale lavorava alle questioni cruciali.

Seduto all’enorme scrivania di quercia, lesse la prima stesura preparata da Herb. — Dobbiamo proprio farlo? — chiese quando ebbe finito.

— Sì. Se lei non fosse così ottenebrato dal dolore, sarebbe il primo ad ammetterlo. È stata la sua lungimiranza su opportunità come queste a mantenerla ai massimi livelli. Se non avesse avuto questa abilità, cinque anni fa l’avrebbero degradata a maggiore e sbattuta in una scuola d’addestramento.

— Allora dirama subito il comunicato — disse Buckman. — Aspetta. — Fece cenno a Herb di tornare indietro. — Hai citato il coroner. I media non supporranno che non può avere completato i suoi esami così in fretta?

— Ho retrodatato la morte. Ho scritto che si è verificata ieri. Proprio per questo motivo.

— È necessario?

Herb rispose semplicemente: — La nostra dichiarazione deve arrivare prima della loro. E loro non aspetteranno che il coroner finisca i suoi esami.

— Va bene. Procedi pure.

Peggy Beason entrò nell’ufficio di Buckman. Aveva con sé diversi memorandum e una cartella gialla. — Signor Buckman, non vorrei disturbarla in un momento simile, ma questi…

— Gli darò un’occhiata — disse Buckman. “Ma niente di più” pensò. “Poi tornerò a casa.”

Peggy disse: — Sapevo che stava cercando questo fascicolo. Come l’ispettore McNulty. È appena arrivato. Una decina di minuti fa, dalla centrale dati. — Mise la cartella davanti al generale, sulla scrivania. — Il fascicolo di Jason Taverner.

Buckman, stupefatto, disse: — Ma non esiste un fascicolo su Jason Taverner.

— Pare che l’avesse preso in consultazione qualcun altro. Comunque, ce l’hanno appena trasmesso, quindi dev’essere stato restituito. Non ci sono note esplicative. La centrale dati ha solo…

— Vattene. Lo esaminerò.

Peggy Beason uscì in silenzio dall’ufficio e chiuse la porta alle proprie spalle.

— Non avrei dovuto parlarle in quel modo — disse Buckman a Herb Maime.

— è un momento particolare…

Buckman aprì il fascicolo di Jason Taverner e si trovò di fronte una foto pubblicitaria, venti centimetri per dodici. Il foglietto graffettato alla fotografia diceva: “Per gentile concessione del Jason Taverner Show, ogni martedì sera alle 21.00, sulla nbc”.

— Mio Dio! — esclamò Buckman. “Gli dei” pensò “stanno giocando con noi. Ci tarpano le ali.”

Herb allungò il collo per guardare. Assieme, muti, i due osservarono la fotografia pubblicitaria. Alla fine, fu Herb a dire: — Vediamo che altro c’è.

Buckman tolse la foto col foglietto e lesse la prima pagina del dossier.

— Quanti spettatori? — chiese Herb.

— Trenta milioni. — Buckman attivò il citofono interno. — Peggy, chiama la consociata della nbc qui a Los Angeles. La knbc o come si chiama. Fammi parlare con uno dei dirigenti. Un pezzo grosso. Il più grosso che puoi. Di’ che è la polizia.

— Sì, signor Buckman.

Un attimo dopo, un viso dall’aria autorevole si materializzò sullo schermo del videotelefono, e una voce disse a Buckman: — Sì, signore? Cosa possiamo fare per lei?

— Trasmettete voi il Jason Taverner Show?

— Tutti i martedì sera, da tre anni. Alle ventuno in punto.

— Lo mandate in onda già da tre anni?

— Sì, generale.

Buckman riappese.

— Allora — chiese Herb Maime — come mai Taverner è andato a procurarsi dei documenti d’identità falsi a Watts?

— Non avevamo trovato nemmeno il suo certificato di nascita — disse Buckman. — Abbiamo provato con tutte le banche dati, tutti gli archivi di giornale. Tu hai mai sentito parlare del Jason Taverner Show del martedì sera?

— No. — Il tono di Herb era cauto, esitante.

— Non ne sei certo?

— Abbiamo parlato così tanto di Taverner…

— Io non l’ho mai sentito. E guardo la televisione tutte le sere, per due ore. Dalle otto alle dieci. — Buckman passò al foglio successivo. Lanciò via il primo, che cadde sul pavimento. Herb si chinò a raccoglierlo.

Sulla seconda pagina c’era un elenco dei dischi che Jason Taverner aveva inciso nel corso degli anni con titolo, numero di serie e data. Buckman rimase a fissare il foglio. L’elenco iniziava diciannove anni prima.

— Ci ha detto di essere un cantante — commentò Herb. — E da uno dei documenti risultava iscritto al Sindacato musicisti. Quindi la sua versione era vera.

— È tutto vero — disse Buckman. Passò alla terza pagina, che illustrava la situazione finanziaria di Jason Taverner, le fonti e l’ammontare del suo reddito.

— Molto più di quanto guadagni io come generale di polizia. Più di quello che guadagniamo tu e io messi assieme.

— È pieno di soldi. E ne ha dati parecchi a Kathy Nelson. Ricorda?

— Sì. Kathy l’ha detto a McNulty. Ricordo bene di averlo letto nel suo rapporto. — Buckman rifletté. Si mise a fare le orecchie al foglio fotocopiato, automaticamente. Poi si fermò. Di colpo.

— Cosa c’è? — chiese Herb.

— Questa è una fotocopia. I dossier originali non escono mai dalla centrale dati. Vengono inviate solo delle copie.

— Però bisogna estrarre l’originale dall’archivio per poterlo fotocopiare.

— Un arco di tempo di cinque secondi — disse Buckman.

— Non lo so. Non mi chieda spiegazioni. Non so quanto tempo occorra.

— Sì che lo sai. Lo sappiamo tutti. L’abbiamo visto fare un milione di volte. Succede tutti i giorni.

— Allora il computer ha sbagliato.

— Okay. Non ha mai avuto affiliazioni politiche. È assolutamente pulito. Buon per lui. — Buckman continuò a sfogliare il dossier. — Per un po’ ha avuto a che fare con il crimine organizzato. Andava in giro armato di pistola, ma aveva il porto d’armi. Due anni fa gli ha fatto causa uno spettatore. Diceva che l’avevano preso in giro in una scenetta comica del programma. Un certo Artemus Franks che vive a Des Moines. Hanno vinto gli avvocati di Taverner. — Lesse qua e là, senza cercare nulla in particolare, stupendosi a ogni notizia. — Il suo quarantacinque giri Nowhere Nuthin ‘ Fuck-up, l’ultimo che ha inciso, ha venduto più di due milioni di copie. Ne hai mai sentito parlare?

— Non so — rispose Herb.

Buckman lo fissò per qualche istante. — Io, mai. È questa la differenza tra te e me, Maime. Tu non sei sicuro. Io lo sono sempre.

— Ha ragione. Però, a questo punto, non ho più certezze. Trovo molto sconcertante l’intera faccenda, e abbiamo altre cose da sistemare. Dobbiamo pensare ad Alys e al rapporto del coroner. Dovremmo parlargli al più presto possibile. Probabilmente è ancora a casa sua. Lo chiamo e lei potrebbe…

— Taverner — disse Buckman — era con Alys quando è morta.

— Sì, lo sappiamo. L’ha detto Chancer. Lei ha deciso che non era importante. Però, secondo me, solo per amore di completezza, dovremmo farlo portare qui e parlargli. Sentire cos’ha da dire.

— È possibile che Alys lo conoscesse già da prima? — Buckman si mise a riflettere. Sì, le erano sempre piaciuti i Sei, specialmente quelli che lavoravano nel campo dello spettacolo. Come Heather Hart. L’anno precedente, Alys e la Hart avevano avuto una storia che era durata tre mesi… “Una relazione della quale ho rischiato di rimanere all’oscuro. Sono state bravissime a nasconderla. Una delle poche volte in cui Alys ha tenuto la bocca chiusa.”

E, in quel momento, Buckman vide nel dossier di Jason Taverner un accenno a Heather Hart. Studiò le frasi, pensando alla cantante. Heather Hart era l’amante di Taverner da circa un anno.

— Dopo tutto — disse, — sono entrambi Sei.

— Taverner e chi?

— Heather Hart. La cantante. Il dossier è aggiornato. Dice che Heather Hart ha partecipato allo show di Jason Taverner questa settimana. Come ospite speciale. — Buckman allontanò il dossier e frugò nella giacca in cerca di sigarette.

— Tenga. — Herb gli passò il suo pacchetto. Buckman si grattò il mento. — Vediamo di convocare anche la Hart. Assieme a Taverner.

— Okay. — Herb annuì e prese un appunto sul taccuino che portava sempre nel taschino del panciotto.

— È stato Jason Taverner — disse in tono sommesso Buckman, come parlando a se stesso — a uccidere Alys. Era geloso di Heather Hart. Ha saputo della relazione tra le due.

Herb Maime sbatté le palpebre.

— Non va bene? — Buckman scrutò Herb Maime con intensità.

— Okay — rispose dopo un po’ Herb Maime.

— Movente. Occasione. Un testimone: Chancer, che può giurare che Taverner è uscito di corsa da casa mia, stravolto, e ha cercato di impossessarsi delle chiavi del trabi di Alys. Poi, quando Chancer si è insospettito ed è entrato in casa a controllare, Taverner è fuggito. Con Chancer che sparava dei colpi in aria a scopo intimidatorio e gli urlava di fermarsi.

Herb annuì. Muto.

— È fatta — disse Buckman.

— Vuole che lo arrestiamo subito?

— Al più presto.

— Avvertiremo tutti i punti di controllo. Dirameremo un mandato di cattura. Se Taverner è ancora a Los Angeles, potremmo riuscire a rintracciarlo facendo proiettare il suo elettroencefalogramma da un elicottero. Un confronto di onde cerebrali, come stanno cominciando a fare a New York. Volendo, possiamo richiedere un elicottero a New York proprio per questo.

— Ottimo.

— Diremo che Taverner era coinvolto nelle orge di Alys?

— Non c’è stata nessuna orgia — disse Buckman.

— Holbein e i suoi alleati faranno…

— Che si provino a dimostrarlo. Qui, in un tribunale della California. Nella nostra giurisdizione.

— Perché Taverner? — chiese Herb.

— Qualcuno dev’essere stato — rispose Buckman, quasi tra sé. Intrecciò le dita sul piano della grande, antica scrivania di quercia. Premette un dito contro l’altro, in una spinta convulsa, facendo ricorso a tutta la forza che possedeva. — È sempre, sempre — disse — qualcuno. E Taverner è qualcuno d’importante. Proprio il tipo di persona che Alys amava. In effetti, lui era a casa mia proprio per questo. È il tipo di celebrità che lei preferiva. E… — Alzò lo sguardo. — Perché no? Andrà benissimo.

“Già, perché no?” pensò. E continuò, cupo, a premere le dita l’una contro l’altra, sempre più forte, sulla scrivania.

26

Mentre camminava sul marciapiede allontanandosi dall’appartamento di Mary Anne Dominic, Jason Taverner si disse: “La ruota della fortuna è girata. Mi è stato restituito tutto, tutto quello che avevo perso. Sia ringraziato Dio!

“Sono l’uomo più felice di questo fottuto mondo. È il giorno più bello della mia vita. Non sei mai in grado di apprezzare ciò che hai finché non lo perdi, finché all’improvviso non l’hai più. Be’, per due giorni ho perso il mio mondo, e ora l’ho ritrovato, e adesso lo apprezzo di più.”

Stringendo a sé la scatola con il vaso di Mary Anne, corse in strada a fermare un taxi che stava passando.

— Dove andiamo, signore? — chiese il taxi aprendo la portiera.

Col fiatone per la stanchezza, Jason salì a bordo e chiuse manualmente la portiera. — Northern Lane, 803. Beverly Hills. — L’indirizzo di Heather Hart. Finalmente sarebbe tornato da lei.

Il taxi schizzò in cielo e lui si adagiò, sollevato, sul sedile. Si sentiva ancora più stanco di quanto fosse nell’appartamento di Mary Anne. Erano successe tante cose. “E Alys Buckman?” si chiese. “Dovrei tentare di nuovo di contattare il generale Buckman? Ma ormai, con ogni probabilità, sarà già stato informato dei fatti. E io dovrei tenermi fuori da questa storia.

Una star della televisione e della canzone non deve restare coinvolta in faccende come questa. La stampa scandalistica è sempre pronta a sfruttare sino in fondo occasioni simili.

“Però sono in debito con lei. È stata Alys a togliere i congegni elettronici che mi hanno messo addosso prima che lasciassi l’accademia di polizia.

“Ma adesso non mi cercheranno più. Ho di nuovo i miei documenti; sono conosciuto nel mondo intero. Trenta milioni di spettatori possono testimoniare la mia esistenza.

“Non dovrò mai più avere paura di un punto di controllo” si disse. Chiuse gli occhi e si appisolò.

— Ci siamo, signore — disse all’improvviso il taxi. Jason riaprì gli occhi e si tirò su. Già arrivati? Guardò fuori dal finestrino e vide il condominio dove Heather aveva il suo nascondiglio sulla West Coast.

— Okay. — Si frugò in tasca, in cerca del denaro. — Grazie. — Pagò il taxi, che aprì la portiera per lasciarlo scendere. Nuovamente di buonumore, Jason chiese: — Se non avessi i soldi per la corsa, mi lasceresti uscire?

Il taxi non rispose. Non era programmato per quella domanda. Ma, del resto, a lui che diavolo importava? I soldi li aveva.

Si avviò sul marciapiede, poi imboccò il sentiero lastricato ad assi di sequoia che portava all’atrio d’ingresso del lussuoso edificio: dieci piani che galleggiavano, su cuscini di aria compressa, a un paio di metri dal suolo. Il fluttuare del condominio dava agli inquilini la continua sensazione di venire dolcemente cullati, come se fossero attaccati al petto di una madre gigantesca. A Jason era sempre piaciuto. Sulla East Coast non aveva preso piede, ma lì, all’Ovest, era una delle mode più costose.

Suonò il campanello dell’appartamento di Heather. Teneva la scatola del vaso sulle punte delle dita della mano destra. “Meglio di no” decise. “Potrebbe cadermi anche questo, come mi è già successo con l’altro. Però adesso non mi tremano più le mani.

“Regalerò il vaso a Heather” decise. “Un dono che ho scelto per lei perché conosco bene i suoi gusti raffinati.”

Si accese lo schermo del videocitofono dell’appartamento di Heather. Apparve un viso femminile che lo scrutò: Susie, la cameriera di Heather.

— Oh, signor Taverner — disse, e fece subito scattare la serratura della porta: tutto comandato a distanza, dal regno della massima sicurezza. — Entri. Heather è uscita ma…

— Aspetterò. — Jason attraversò l’atrio, entrò in ascensore, premette il pulsante di salita e aspettò.

Un attimo dopo, Susie teneva aperta per lui la porta dell’appartamento di Heather. Scura di carnagione, minuta e carina, lo salutò come faceva sempre: con molto calore. E con familiarità.

— Ciao — le disse Jason, ed entrò.

— Come le dicevo, Heather è uscita a fare shopping, ma dovrebbe rientrare per le otto. Oggi ha un sacco di tempo libero e mi ha detto che vuole sfruttarlo al meglio, perché per il fine settimana ha in programma una lunga seduta di registrazione con la RCA.

— Non ho fretta — rispose in tutta sincerità lui. Passò in soggiorno e mise la scatola con il vaso sul tavolino da caffè, esattamente al centro, dove Heather non avrebbe potuto fare a meno di vederla. — Ascolterò un po’ di musica — disse. — Se per te va bene.

— Non lo fa sempre? — ribatté Susie. — E poi devo uscire anch’io. Ho un appuntamento con il dentista alle quattro e un quarto, e sta dall’altra parte di Hollywood.

Lui le circondò il corpo con un braccio e strinse il sodo seno destro.

— Oggi siamo eccitati, eh? — disse Susie, compiaciuta.

— Diamoci da fare.

— Lei è troppo alto per me. — Susie tornò alle sue solite occupazioni.

Raggiunto il giradischi, Jason si mise a studiare una pila di dischi che erano stati ascoltati di recente. Non ce n’era uno solo che gli interessasse, così si chinò a guardare i dorsi degli altri album. Ne scelse diversi di Heather, e un paio dei suoi. Li sistemò tutti sul perno cambiadischi e accese l’apparecchio. La puntina scese sul primo, e la musica di The Heart of Hart, uno dei suoi brani preferiti, riecheggiò nel grande soggiorno. Gli splendidi tendaggi rendevano ancora più morbidi gli accordi musicali diffusi dalle casse quadrifoniche sapientemente sparse nel locale.

Si sdraiò sul divano, si tolse le scarpe e si mise comodo. “Heather ha fatto un lavoro davvero buono quando ha inciso questo disco” si disse. “E io sono più esausto di quanto lo sia mai stato in vita mia. La mescalina mi fa sempre questo effetto. Potrei dormire per una settimana. Magari lo farò. Dormirò al suono della voce di Heather e della mia. Perché non abbiamo mai inciso un album assieme? Sarebbe una buona idea. Venderebbe bene.” Chiuse gli occhi. “Vendite doppie, e Al potrebbe farci ottenere una grossa promozione dalla RCA. Però io sono sotto contratto con la Reprise. Be’, si può trovare un accordo. Ci sarà da lavorarci su. Parecchio. Ma ne vale la pena.”

A occhi chiusi, disse: — E ora, la voce di Jason Taverner. — Il perno fece scendere il disco successivo. Di già? Si rizzò a sedere, guardò l’orologio. Aveva dormicchiato mentre The Heart of Hart girava sul piatto. Non l’aveva praticamente sentito. Si sdraiò e chiuse di nuovo gli occhi. “Dormire” pensò “al suono del mio canto.” La sua voce, esaltata da due piste di chitarre e archi, gli risuonava attorno.

Buio. Riaprì gli occhi e si mise a sedere. Si rese conto che era passato molto tempo.

Silenzio. Tutti i dischi che aveva messo sul perno automatico erano stati suonati. Era trascorso un sacco di tempo. Che ora era?

A tentoni trovò una lampada che gli era familiare. Individuò l’interruttore e l’accese.

Il suo orologio segnava le dieci e mezzo. Aveva freddo, e fame. “Dov’è Heather?” si chiese, armeggiando con le scarpe. “Ho i piedi freddi e umidi e lo stomaco vuoto. Magari potrei…”

La porta d’ingresso si spalancò. Apparve Heather, con il suo cappotto leggero. Aveva in mano una copia del “Los Angeles Times”. Il suo viso grigio, livido, scrutò Jason come una maschera funebre.

— Cosa c’è? — chiese lui terrorizzato.

Lei gli si avvicinò e gli tese il giornale. In silenzio. In silenzio, lui lo prese. Lesse.

DIVO TELEVISIVO RICERCATO PERCHÉ COINVOLTO NELL’OMICIDIO DELLA SORELLA DI UN GENERALE DI POLIZIA

— Hai ucciso tu Alys Buckman? — chiese Heather con un tono ansioso di voce.

— No.

Jason lesse l’articolo.

La polizia di Los Angeles ritiene che il popolare divo televisivo Jason Taverner, star dello show di varietà che porta il suo nome, sia coinvolto in quello che le autorità giudicano un omicidio perpetrato a scopo di vendetta e preparato con ogni cura. L’ha annunciato oggi l’accademia di polizia. Taverner, quarantadue anni, è ricercato sia…

Lui smise di leggere e accartocciò furiosamente il giornale. — Merda — disse. Inspirò a fondo e rabbrividì.

— Qui scrivono che Alys aveva trentasette anni — disse Heather. — Io so per certo che ne ha, ne aveva di più.

— Ero presente quando è morta — disse Jason. — Mi trovavo a casa sua.

— Non sapevo che la conoscessi.

— L’avevo appena incontrata. Oggi.

— Oggi? Soltanto oggi? Ne dubito.

— È vero. Il generale Buckman mi ha interrogato all’accademia di polizia e lei mi ha fermato quando sono uscito. Mi avevano messo addosso tutta una serie di apparecchi elettronici, compresa…

— Lo fanno solo agli studenti — disse Heather.

— E lei me li ha tolti — concluse lui. — Poi mi ha invitato a casa loro.

— Ed è morta.

— Sì. — Jason annuì. — Ho visto il suo corpo come se fosse uno scheletro ingiallito dal tempo e mi sono spaventato. Maledizione se mi sono spaventato! Ho tagliato la corda il più in fretta possibile. Non l’avresti fatto anche tu?

— Perché l’hai vista come se fosse uno scheletro? Avevate preso qualche droga? Lei ne prendeva sempre, così immagino che l’abbia fatto anche tu.

— Mescalina. O così mi ha detto lei, ma non credo che lo fosse. — “Vorrei tanto sapere che roba era” si disse Jason, il cuore ancora stretto nella morsa della paura. “E questa che sto vivendo è un’allucinazione provocata sempre da quella schifezza, come lo era lo scheletro? Sto vivendo tutto realmente oppure mi trovo in quella stanza di motel infestata dalle pulci? Buon Dio, cosa faccio adesso?”

— Ti conviene costituirti — disse Heather.

— Non possono addossare la colpa a me — ribatté lui. Ma sapeva che non era vero. Negli ultimi due giorni aveva imparato parecchie cose sul conto della polizia che dominava il loro mondo. L’eredità della seconda guerra civile, pensò. Dai porci ai pol. In un solo balzo.

— Se non hai fatto niente, non ti incrimineranno. I pol sono giusti. Non hai alle calcagna i naz.

Jason riaprì il giornale e lesse qualche altra riga.

… ritiene si sia trattato di un’overdose di un composto tossico somministrato da Taverner mentre la signorina Buckman dormiva oppure si trovava in stato…

— Qui dicono che l’omicidio è avvenuto ieri — disse Heather. — Tu dov’eri, ieri? Ho chiamato il tuo appartamento e non ho avuto risposta. E mi hai appena detto…

— Non è stato ieri. È successo stamattina. — Tutto era diventato irreale. Jason si sentiva privo di peso, come se stesse fluttuando, assieme all’appartamento, verso un cielo sterminato. Il cielo dell’oblio. — Hanno retrodatato la morte. Una volta ho avuto ospite del mio show un tecnico dei laboratori di polizia, e dietro le quinte mi ha spiegato come…

— Chiudi il becco! — ordinò Heather, secca.

Lui smise di parlare. E restò lì. Inerme. In attesa.

— Nell’articolo c’è anche qualcosa su di me — disse Heather a denti stretti. — Vai all’ultima pagina.

Obbediente, lui passò all’ultima pagina, dove l’articolo continuava.

Come ipotesi, i funzionari di polizia hanno proposto la tesi che la relazione tra Heather Hart, a sua volta una figura molto popolare della televisione e dell’industria discografica, e Alys Buckman abbia scatenato il desiderio di vendetta di Taverner, che…

— Che tipo di relazione avevi con Alys? — chiese Jason. — Conoscendola…

— Ma hai detto di non conoscerla. Hai detto di averla incontrata solo oggi.

— Era un tipo strano. Francamente, penso che fosse lesbica. Voi due avete avuto una relazione sessuale? — Jason sentì aumentare il volume della propria voce. Non riusciva a controllarlo. — È questo che l’articolo lascia intendere. Giusto o no?

La forza dello schiaffo gli fece bruciare il volto. Jason indietreggiò automaticamente e alzò le mani per difendersi. Nessuno l’aveva mai schiaffeggiato in quel modo. Faceva un male del diavolo. Gli rimbombavano le orecchie.

— Okay — sussurrò Heather. — Restituiscimi il colpo.

Lui alzò il braccio, strinse la mano a pugno, poi lasciò ricadere il braccio e riaprì le dita. — Non ci riesco — disse. — Anche se mi piacerebbe. Sei fortunata.

— È probabile. Se hai ucciso lei, potresti uccidere anche me. Cos’hai da perdere? Ti manderanno comunque nella camera a gas.

— Tu non mi credi. Non credi che non sia stato io.

— Questo non ha importanza. Loro pensano che sia tu il colpevole. Anche se ne verrai fuori, sarà la fine della tua carriera. E della mia, tra l’altro. Siamo finiti. Lo capisci? Ti rendi conto di cosa hai fatto? — Adesso Heather stava urlando. Jason, spaventato, le si avvicinò, poi si allontanò di nuovo, quando il volume della voce di lei si alzò. Era completamente confuso.

— Se potessi parlare con il generale Buckman — le disse, — forse riuscirei a…

— Suo fratello? Vuoi chiedere aiuto a lui? — Heather si piazzò di fronte a Jason. Le sue dita si contraevano come artigli. — È il capo della commissione che sta indagando sul delitto. Non appena il coroner ha stabilito che si è trattato di omicidio, il generale Buckman ha annunciato che si sarebbe occupato personalmente della cosa. Ma non riesci nemmeno a leggere l’articolo per intero? Io l’ho letto dieci volte mentre tornavo a casa. Ho comperato il giornale a Bel Air, dopo avere ritirato la mia nuova veletta, quella che mi avevano ordinato in Belgio. Era arrivata, finalmente. E adesso… Che importanza può più avere?

Jason tentò di prenderla tra le braccia. Lei si sottrasse all’abbraccio, rigida.

— Non mi costituirò — disse lui.

— Fai quello che vuoi. — La voce di Heather si era ridotta a un sussurro. — Non m’interessa. Basta che te ne vada. Non voglio avere più niente a che fare con te. Vorrei che foste morti tutti e due, tu e lei. Quella puttana pelle e ossa. Più che guai non ha saputo darmi. Alla fine l’ho dovuta buttare fuori di peso. Mi si era attaccata come una sanguisuga.

— Era brava a letto? — chiese Jason, e schizzò all’indietro quando le dita di Heather scattarono verso i suoi occhi.

Per un po’, nessuno dei due parlò. Erano vicinissimi. Jason udiva il respiro di lei, e del proprio: rapidi, rumorosi spostamenti d’aria. Dentro e fuori, dentro e fuori. Chiuse gli occhi.

— Tu fai quello che vuoi — disse alla fine Heather. — Io mi presento all’accademia.

— Vogliono anche te?

— Ma non riesci proprio a leggere tutto l’articolo? Non puoi fare almeno questo? Vogliono la mia testimonianza. Su quello che provavi per la mia relazione con Alys. Era di dominio pubblico il fatto che all’epoca tu e io andassimo a letto assieme, Cristo santo!

— Io non sapevo della vostra storia.

— Glielo dirò. Quando… — Heather esitò, poi continuò: — Quando l’hai scoperto?

— L’ho saputo da quel giornale. Adesso.

— Non lo sapevi ieri, quando lei è stata uccisa?

A quel punto, lui si arrese. “È inutile” si disse. “È come vivere in un mondo fatto di gomma. Tutto rimbalza. Tutto cambia forma appena viene sfiorato o anche solo guardato.”

— Oggi, allora — disse Heather. — Se è questo che credi. Tu più di chiunque altro dovresti saperlo.

— Addio. — Jason andò a sedersi, pescò le scarpe da sotto il divano, le infilò, allacciò le stringhe e si alzò. Poi tese le mani e sollevò la scatola di cartone dal tavolino da caffè. — Per te — disse, e lanciò la scatola. Heather cercò di afferrarla. La scatola la colpì al petto e cadde sul pavimento.

— Cos’è? — chiese lei.

— Ormai me lo sono dimenticato.

Heather si inginocchiò, raccolse la scatola, la aprì, tirò fuori i fogli di giornale che servivano per l’imballo e il vaso verniciato in azzurro. Non si era rotto. — Oh — mormorò. Si rialzò, lo studiò, lo sollevò alla luce. — È incredibilmente bello — disse. — Grazie.

Jason disse: — Non ho ucciso quella donna.

Heather si allontanò da lui, sistemò il vaso su uno scaffale in alto, pieno di ninnoli. Non aprì bocca.

— Cosa posso fare, a parte andarmene? — chiese lui. Aspettò, ma Heather continuava a stare zitta. — Non sai più parlare?

— Chiamali — rispose lei. — E di’ loro che sei qui.

Jason alzò il ricevitore del telefono e fece il numero del centralino. — Voglio parlare con l’accademia di polizia di Los Angeles — disse al centralinista. — Con il generale Felix Buckman. Gli dica che è Jason Taverner. — Il centralinista rimase muto. — Pronto? — disse Jason.

— Lei può chiamare quel numero direttamente, signore.

— Voglio che lo chiami lei.

— Ma signore…

— Per favore — disse Jason.

27

Phil Westerburg, il capo coroner della polizia di Los Angeles, disse al generale Felix Buckman, suo superiore: — Cercherò di spiegarle nel modo più chiaro cosa sia questa droga. Lei non ne ha mai sentito parlare perché non è ancora in uso. Sua sorella deve averla rubata dal laboratorio dei progetti speciali della polizia. — Tracciò uno schizzo su un pezzo di carta. — Il senso del tempo è una funzione del cervello. È una strutturazione di percezione e orientamento.

— Cosa l’ha uccisa? — chiese Buckman. Era tardi e gli faceva male la testa. Avrebbe voluto che quel giorno finisse. Avrebbe voluto che tutti se ne andassero. — Un’overdose?

— Non abbiamo ancora modo di determinare cosa costituisca un’overdose di kr-3. Lo stiamo testando su prigionieri del campo di lavori forzati di San Bernardino che si sono offerti volontari, ma per il momento… — Westerburg continuò a disegnare. — Comunque, come le stavo dicendo, il senso del tempo è una funzione del cervello. Si verifica finché il cervello riceve degli input. Ora, sappiamo che il cervello non può funzionare se non è in grado di strutturare anche lo spazio. Però non sappiamo ancora perché. Probabilmente sono processi legati all’istinto di stabilizzare la realtà in maniera tale da poter ordinare le sequenze in termini di prima e dopo, per quanto riguarda il tempo, e, cosa ancora più importante, in termini di occupazione dello spazio. In parole povere, la differenza che corre tra un oggetto tridimensionale e, diciamo, il disegno di quell’oggetto.

Mostrò a Buckman il suo schizzo. Per Buckman non aveva alcun senso. Lo fissò senza capire e si chiese dove potesse procurarsi del Darvon per il suo mal di testa, a quell’ora. Alys ne teneva in casa? Era stata una collezionista fanatica di pillole.

Westerburg continuò: — Ora, un aspetto dello spazio è che una sua data unità esclude tutte le altre unità date: se una cosa sta qua, non può stare là. Esattamente come con il tempo: se un evento viene prima, non può venire anche dopo.

Buckman chiese: — Non potremmo rimandare a domani? Stamattina mi ha detto che le sarebbero occorse ventiquattro ore per stendere un rapporto sulla tossina che ha determinato la morte. Ventiquattro ore per me vanno bene.

— Ma lei ci ha chiesto di accelerare l’analisi — fece presente Westerburg. — Voleva che l’autopsia iniziasse immediatamente. Alle due e dieci di oggi pomeriggio, quando mi ha fatto convocare ufficialmente.

— Davvero? — “Sì” pensò Buckman, “è vero. Gliel’ho chiesto io. Per agire prima che i marescialli potessero mettere assieme la loro storia.” — Per favore, non disegni — disse. — Ho mal di testa. Parli e basta.

— Abbiamo scoperto che l’esclusività dello spazio è solo una funzione del cervello per gestire le percezioni. Ordina i dati in termini di unità spaziali che si escludono reciprocamente. A milioni. Anzi, in teoria a trilioni. Ma, di per sé, lo spazio non è esclusivo. In effetti, di per sé lo spazio non esiste affatto.

— Il che significa?

Westerburg frenò l’impulso di disegnare. — Una droga come il KR-3 annulla la capacità del cervello di escludere un’unità spaziale da un’altra. Quindi, nel processo di gestione delle percezioni, i concetti di “qui” e “là” scompaiono. Il cervello non è più in grado di capire se un oggetto non c’è più o c’è ancora. Quando questo accade, il cervello non può più escludere i vettori spaziali alternativi. Spalanca l’intero spettro di varianti spaziali. Non è più capace di dire quali oggetti esistano e quali siano solo possibilità latenti, non spaziali. Il risultato è che si aprono corridoi alternativi. Il sistema percettivo alterato vi entra e il cervello percepisce un intero nuovo universo in via di creazione.

— Capisco — disse Buckman. In realtà non capiva, e non gliene importava niente. “Voglio solo andare a casa” pensò. “E dimenticare tutto.”

— È una cosa molto importante — continuò Westerburg, entusiasta. — Il kr-3 è una scoperta straordinaria. Chiunque ne subisca gli effetti è costretto a percepire universi irreali, lo voglia o no. Come dicevo, in teoria trilioni di possibilità diventano improvvisamente reali. Entra in gioco il caso, e il sistema percettivo della persona sceglie una possibilità fra tutte quelle che gli si presentano. Deve scegliere, perché, se non lo facesse, gli universi alternativi si sovrapporrebbero e svanirebbe il concetto stesso di spazio. Mi segue?

Herb Maime sedeva poco lontano dai due, alla propria scrivania. Disse: — Sta dicendo che il cervello sceglie l’universo spaziale più a portata di mano.

— Sì — confermò Westerburg. — Lei ha letto il rapporto sul kr-3, vero, signor Maime?

— L’ho letto poco più di un’ora fa — rispose Maime. — In buona parte era troppo tecnico per me. Però ho notato che gli effetti sono transitori. Alla fine, il cervello torna a prendere contatto con i veri oggetti spazio-temporali che percepiva in precedenza.

— Esatto. — Westerburg annuì. — Ma, nell’intervallo in cui la droga è attiva, il soggetto esiste, o pensa di esistere…

— Non c’è alcuna differenza — disse Herb — tra i due universi. È il modo di agire della droga: abolisce le distinzioni.

— Tecnicamente — disse Westerburg. — Ma il soggetto si sente parte di un ambiente reale, un ambiente alieno a quello che ha sempre sperimentato, e agisce come se fosse entrato in un nuovo mondo. Un mondo con dei cambiamenti… L’entità di tali cambiamenti è determinata dalla distanza, per così dire, tra il mondo spazio-temporale che il soggetto percepiva prima e quello nuovo nel quale si trova costretto ad agire.

— Io vado a casa — disse Buckman. — Non ce la faccio più. — Si alzò. — Grazie, Westerburg. — Tese automaticamente la destra al suo capo coroner Si strinsero la mano. — Preparami un rapporto riepilogativo — disse a Maime. — Lo leggerò domattina. — Si incamminò, con il soprabito grigio sul braccio. Come sempre.

— Sa cos’è successo a Taverner? — chiese Herb.

Buckman si fermò. — No.

— Si è trasferito in un universo nel quale non esisteva. E noi ci siamo trasferiti con lui perché siamo oggetti del suo sistema percettivo. Poi, quando l’effetto della droga è finito, si è trasferito di nuovo qui. A riportarlo qui non è stato qualcosa che ha assunto ma la morte di Alys. Dopo di che, com’è ovvio, dalla centrale dati ci è arrivato il suo dossier.

— Buonanotte — disse Buckman. Lasciò l’ufficio, attraversò la grande, muta sala con le immacolate scrivanie di metallo, tutte identiche, tutte in perfetto ordine al termine della giornata, compresa quella di McNulty; e finalmente si trovò nel tubo di salita, diretto al tetto.

L’aria della notte, fredda e tersa, portò il mal di testa a un livello terribile. Chiuse gli occhi e strinse i denti. Poi pensò: “Potrei farmi dare un analgesico da Phil Westerburg. Ce ne saranno probabilmente una cinquantina di tipi diversi nella farmacia dell’accademia. E Westerburg ha le chiavi”.

Ridiscese al tredicesimo piano, tornò nella sua suite ufficio, dove Herb Maime e Westerburg stavano ancora parlando.

Herb gli disse: ·.— Vorrei spiegarle una cosa che ho detto. Il fatto che noi siamo oggetti del sistema percettivo di Taverner.

— Non lo siamo — replicò Buckman.

— Lo siamo e non lo siamo — continuò Herb. — Non è stato Taverner a prendere il kr-3. L’ha preso Alys. Taverner, come tutti noi, è diventato un dato del sistema percettivo di sua sorella ed è stato trascinato nell’insieme alternativo di coordinate nel quale è finita Alys. Evidentemente sua sorella vedeva in Taverner un potente catalizzatore, la realizzazione concreta dei suoi desideri nei confronti degli artisti, e da un po’ di tempo cullava la fantasia di poterlo conoscere di persona. Ma, anche se è riuscita a realizzarla prendendo la droga, Taverner e noi siamo rimasti, allo stesso tempo, nel nostro universo. Abbiamo occupato due corridoi spaziali contemporaneamente: uno reale, l’altro irreale. Uno è una realtà. L’altro è una possibilità latente tra molte, concretizzata momentaneamente dal kr-3. Ma solo momentaneamente. Per due giorni circa.

— Quanto basta — disse Westerburg — per provocare un enorme danno fisico al cervello del soggetto. Il cervello di sua sorella, signor Buckman, probabilmente non è stato distrutto dalla tossicità ma da un sovraccarico elevatissimo e continuo. Potremmo scoprire che la causa scatenante della morte sono stati i danni irreversibili ai tessuti corticali, un’accelerazione del normale decadimento neurologico. Il suo cervello, per così dire, è morto di vecchiaia in un intervallo di due giorni.

— Potrebbe darmi del Darvon? — domandò Buckman a Westerburg.

— La farmacia è chiusa.

— Ma lei ha la chiave.

— Non sono autorizzato a servirmene quando il farmacista non è in servizio.

— Faccia un’eccezione — disse Buckman, secco. — Per questa volta.

Westerburg si allontanò, frugando tra le sue chiavi.

— Se ci fosse il farmacista — disse Buckman dopo un po’, — non avrebbe bisogno della chiave.

— L’intero pianeta — disse Herb — è in mano a burocrati. — Scrutò Buckman. — Lei è a pezzi. Non sta più in piedi. Dopo avere preso il Darvon, torni a casa.

— Non sto male. Però non mi sento troppo bene.

— Comunque, non resti qui. Penso io a finire il lavoro. Lei sta sempre per andarsene, e poi torna indietro.

— Sono come un animale — disse Buckman. — Un topo da laboratorio.

Il telefono sulla grande scrivania di quercia ronzò.

— C’è qualche possibilità che sia uno dei marescialli? — chiese Buckman. — Stanotte non sono in grado di parlare con loro. Dovrò rimandare.

Herb andò ad alzare il ricevitore. Ascoltò. Poi mise la mano sul microfono e disse: — È Taverner. Jason Taverner.

— Gli parlo io. — Buckman prese il ricevitore dalla mano di Herb Maime. — Pronto? Taverner, è tardi.

La voce sottile di Taverner rispose: — Voglio costituirmi. Sono nell’appartamento di Heather Hart. Stiamo aspettando assieme.

— Vuole costituirsi — disse Buckman a Herb Maime.

— Gli dica di venire qui — rispose Herb.

— Venga qui — disse Buckman nel telefono. — Perché vuole costituirsi? La uccideremo, miserabile figlio di puttana. Omicida. E lei lo sa. Perché non scappa?

— Dove? — strillò Taverner.

— In uno dei campus. Vada alla Columbia. Per un po’ avranno acqua e cibo.

— Non voglio che continuiate a darmi la caccia.

— Vivere è essere cacciati — ansimò Buckman. — Okay, Taverner, venga qui e la chiuderemo in cella. Porti anche la Hart. Vogliamo sentire cos’ha da dire. — “Maledetto idiota” pensò, “costituirti!” — Già che c’è, si tagli anche i testicoli, stupido bastardo! — Gli tremava la voce.

— Voglio provare la mia innocenza — mormorò all’orecchio di Buckman la voce esile di Taverner.

— Quando arriverà qui — disse Buckman, — la ucciderò io stesso, con la mia pistola. Resistenza all’arresto, degenerato che non è altro. O qualunque cosa decideremo di dire. Diremo quello che ci parrà meglio. Qualunque cosa. — Riappese. — Sta venendo qui a farsi uccidere — disse a Herb Maime.

— L’ha scelto lei come capro espiatorio. Può lasciarlo andare, se vuole. Lasciar cadere le accuse. Rimandarlo ai suoi dischi e al suo stupido show televisivo.

— No. — Buckman scosse la testa.

Westerburg riapparve con due capsule rosa e un bicchiere di carta pieno d’acqua. — Darvon — disse, porgendo il tutto a Buckman.

— Grazie. — Buckman mandò giù le capsule, bevve l’acqua, accartocciò il bicchiere di carta e lo gettò nel suo tritarifiuti. I denti del meccanismo macinarono ronzando piano, poi si fermarono. Silenzio.

— Vada a casa — disse Herb. — O, meglio ancora, vada in un motel a passare la notte. Un buon motel del centro. Domattina dorma fino a tardi. Penserò io ai marescialli, quando chiameranno.

— Devo vedere Taverner.

— No. Me ne posso occupare io. Oppure uno dei sergenti di turno. Come per qualsiasi altro criminale.

— Herb — disse Buckman, — io voglio ucciderlo. Come ho detto al telefono. — Andò alla scrivania, aprì il cassetto più in basso, prese una scatola di legno di cedro e la mise sul piano. L’aprì e tirò fuori una Derringer a un solo colpo, calibro 22. La caricò con una pallottola a punta concava, armò il cane, tenendo la canna puntata verso il soffitto. Per sicurezza. Per abitudine.

— Me la faccia vedere — disse Herb.

Buckman gli passò l’arma. — Fabbricata dalla Colt. La Colt ha acquistato gli stampi e i brevetti. Non ricordo più quando.

— È una bella pistola. — Herb la soppesò nella mano. — Una splendida pistola. — La restituì. — Ma una pallottola calibro 22 è troppo piccola. Dovrebbe centrarlo esattamente in mezzo alla fronte. Dovrebbe stargli davanti. — Mise una mano sulla spalla di Buckman. — Usi una 38 special o una 45. Okay? Lo farà?

— Sai di chi è questa pistola? — chiese Buckman. — Di Alys. La teneva qui perché diceva che, se l’avesse avuta a casa, avrebbe potuto spararmi durante una delle nostre discussioni, oppure a notte fonda, quando si sente… quando si sentiva depressa. Però non è una pistola da donna. Derringer faceva delle pistole da donna, ma questa non lo è.

— Gliel’ha comperata lei?

— No. Alys l’ha trovata in un monte di pietà a Watts. L’ha pagata venticinque dollari. Non un cattivo prezzo, considerate le condizioni dell’arma. — Alzò la testa, guardò Herb in faccia. — Dobbiamo proprio ucciderlo. I marescialli mi crocifiggeranno, se non scarichiamo la colpa su Taverner. E io devo restare a galla.

— Ci penso io — rispose Herb.

— Okay. — Buckman annuì. — Vado a casa. — Rimise la pistola nella scatola, appoggiata sul velluto rosso, chiuse la scatola, la riaprì e tolse dalla canna la pallottola calibro 22. Herb Maime e Phil Westerburg restarono a guardarlo. — La canna si apre di lato, in questo modello — disse. — È insolito.

— Sarà meglio che si faccia accompagnare a casa da un agente — disse Herb. — Con la stanchezza che ha addosso dopo tutto quello che è successo, non dovrebbe guidare.

— Posso guidare benissimo. Posso sempre guidare. Quello che non riesco a fare per bene è uccidere un uomo che mi sta di fronte con una pallottola calibro 22. Deve farlo qualcun altro per me.

— Buonanotte — disse sottovoce Herb.

— Buonanotte. — Buckman li lasciò, attraversò i diversi uffici, le suite e le camere deserte dell’accademia, di nuovo diretto al tubo di salita. Il Darvon aveva già cominciato ad alleviare il dolore alla testa; provava un grande sollievo. “Adesso potrò respirare l’aria della notte” pensò. “Senza soffrire.”

La porta del tubo di salita si aprì. Dietro apparve Jason Taverner. E, con lui, una donna attraente. Erano entrambi spaventati e pallidissimi. Due persone belle, alte e nervose. Palesemente Sei. Sei sconfitti.

— Siete in arresto — disse Buckman. — I vostri diritti sono questi: tutto ciò che direte potrà essere usato contro di voi; avete diritto all’assistenza legale e, se non potete permettervi un avvocato, ve ne sarà fornito uno d’ufficio; avete il diritto di essere processati da una giuria, oppure potete rinunciare a questo diritto ed essere processati da un giudice scelto dall’accademia di polizia della città e della contea di Los Angeles. Avete capito quello che ho appena detto?

— Sono venuto qui per provare la mia innocenza — disse Jason Taverner.

— Il mio staff prenderà le vostre deposizioni — disse Buckman. — Andate negli uffici azzurri lì dietro, dove lei, Taverner, è già stato. — Indicò con la mano. — Lo vede là dentro? L’uomo con la giacca monopetto e la cravatta gialla?

— Posso chiarire la mia posizione? — chiese Jason Taverner. — Ammetto di essermi trovato a casa sua quando Alys è morta, ma io non ho avuto nulla a che fare con il suo decesso. Sono salito al primo piano e l’ho trovata in bagno. Era andata a prendermi la Torazina. Per controbilanciare gli effetti della mescalina che mi aveva dato.

— L’ha vista sotto forma di uno scheletro — disse la donna, che evidentemente doveva essere Heather Hart. — Per colpa della mescalina. Non può essere scagionato, visto che si trovava sotto l’effetto di un potente allucinogeno? Questo non lo scagiona legalmente? Non aveva il controllo di ciò che faceva, e io non ho avuto niente a che fare con tutto questo. Non sapevo nemmeno che Alys fosse morta prima di leggerlo sul giornale.

— In alcuni Stati potrebbe bastare a scagionarlo — disse Buckman.

— Ma non qui — sussurrò la donna. Che aveva capito.

Herb Maime emerse dall’ufficio, valutò la situazione e disse: — Lo registro io e prendo le testimonianze di tutti e due, signor Buckman. Lei vada a casa.

— Grazie. Dov’è il mio soprabito? — Buckman si guardò attorno. — Dio, che freddo. Di notte spengono il riscaldamento — spiegò a Taverner e alla Hart. — Mi spiace.

— Buonanotte — gli disse Herb.

Buckman entrò nel tubo di salita e premette il pulsante che chiudeva la porta. Non aveva trovato il soprabito. “Magari dovrei farmi accompagnare da un agente” si disse. “Trovare un pivello appena uscito dall’accademia ansioso di riportarmi a casa, o magari, come ha detto Herb, a uno dei migliori motel in centro. O a uno di quei nuovi hotel a isolamento acustico totale dalle parti dell’aeroporto. Però il mio trabi resterebbe qui, e domattina non lo avrei per arrivare in ufficio.”

L’aria fredda e l’umidità sul tetto lo fecero rabbrividire. “Nemmeno il Darvon riesce ad aiutarmi” pensò. “Non del tutto. Sento ancora il freddo.”

Aprì la portiera del trabi, salì e richiuse. “Qui dentro fa più freddo che fuori” pensò. “Gesù!” Mise in moto e accese il riscaldamento. Un vento gelido gli soffiò addosso dalle ventole sul tettuccio. Buckman cominciò a tremare. “Mi sentirò meglio appena arrivato a casa” pensò. Guardò l’orologio e scoprì che erano le due e mezzo. “C’è poco da meravigliarsi se fa così freddo.

“Perché ho scelto proprio Taverner?” si chiese. “Su un pianeta con sei miliardi di persone, questo particolare individuo che non ha mai fatto del male a nessuno, non ha mai fatto niente di niente, se non lasciare che il suo dossier attirasse l’attenzione delle autorità. È questo il nocciolo della questione” si disse. “Jason Taverner è entrato nelle maglie della giustizia e, come dicono, una volta che hai attirato l’attenzione delle autorità, non verrai mai del tutto dimenticato.

“Ma posso scagionarlo, come mi ha fatto notare Herb.

“No. Assolutamente no. Il dado era tratto sin dall’inizio. Prima ancora che qualcuno di noi l’avesse in mano. Taverner, tu eri condannato sin dal primo momento. Da quando hai compiuto il tuo primo atto per arrivare alla vetta.

“Noi interpretiamo delle parti” pensò Buckman. “Occupiamo delle posizioni: alcune piccole, altre grandi. Alcune normali, altre strane. Alcune inconsuete e bizzarre. Alcune visibili, alcune oscure o del tutto invisibili. La parte di Jason Taverner ha finito con l’essere importante, e bisognava prendere una decisione. Se fosse riuscito a rimanere ciò che era all’inizio: un ometto insignificante senza veri documenti d’identità, uno che viveva in un hotel scalcinato, infestato dai topi, nel ghetto… Se fosse rimasto quello, forse se la sarebbe cavata. O, nella peggiore delle ipotesi, sarebbe finito in un campo di lavori forzati. Ma Taverner non aveva scelto così.

“Un’irrazionale spinta interiore gli ispirava il desiderio di apparire, di essere visibile, di essere conosciuto. D’accordo, Jason Taverner, adesso sei di nuovo noto come prima; però adesso lo sei in un modo diverso. Un modo che serve fini superiori, fini dei quali tu non sai nulla. Ma devi accettarli senza capirli. Quando scenderai nella tomba, la tua bocca sarà ancora aperta a ripetere la stessa domanda: ‘Cos’ho fatto?’. Sarai sepolto così, con la bocca ancora aperta.

“E io non potrei mai spiegartelo. Potrei solo dirti: ‘Non entrare nelle maglie della giustizia. Fa’ in modo che non ci occupiamo mai di te, per nessun motivo. Non spingerci a volerne sapere di più sul tuo conto’.

“Un giorno la tua storia, la vicenda della tua caduta, potrebbe essere resa di dominio pubblico, in un remoto futuro, quando non avrà più importanza. Quando non ci saranno più campi di lavori forzati e campus circondati da uomini della polizia armati di mitragliatrici, con maschere antigas che li fanno somigliare a roditori dal grande muso e dagli occhi enormi, come se fossero esseri viventi di una classe inferiore. Un giorno potrebbe esserci un’inchiesta post mortem e si scoprirà che in realtà tu non hai fatto niente di male; che non hai fatto proprio niente, però ti sei fatto notare.

“L’ultima, vera verità è che, nonostante la tua fama e il grande pubblico che ti segue, tu sei sacrificabile. E io no. È questa la differenza tra noi due. Quindi tu te ne devi andare e io devo restare.”

Il suo trabi si alzò in cielo, verso la stellata notturna. E Buckman si mise a cantare fra sé. Cercò di guardare più in là, di vedere nel tempo a venire: il mondo della sua casa, della musica e delle idee e dell’amore, dei libri, delle tabacchiere decorate e dei francobolli rari. Della scomparsa, per un attimo, del vento che correva davanti al suo velivolo, un punticino quasi perso nella notte.

“Esiste una bellezza che non andrà mai persa” disse a se stesso. “La preserverò io: sono uno di coloro che la amano. E sono fedele. E questo, in ultima analisi, è tutto ciò che conta.”

Canticchiò tra sé un motivetto qualunque. E cominciò finalmente a sentire un po’ di caldo quando, sul trabi che era un modello standard della polizia, l’impianto di riscaldamento sotto i suoi piedi iniziò a funzionare.

Qualcosa gli cadde dal naso sul tessuto della giacca. “Mio Dio” pensò orripilato. “Sto ancora piangendo.” Sollevò una mano e asciugò dagli occhi quel liquido che aveva qualcosa di viscoso. “Per chi?” si chiese. “Per Alys? Per Taverner? Per la Hart? O per tutti loro?

“No” pensò. “È una risposta fisiologica alla stanchezza e alla preoccupazione. Non significa niente. Perché piange un uomo?” si chiese. “Non come una donna; non per quello. Non per sentimento. Un uomo piange per la perdita di qualcosa, qualcosa di vivo. Un uomo può piangere su un animale malato se sa che non ce la farà. La morte di un bambino: un uomo può piangere per quello. Ma non perché la situazione generale è triste.

“Un uomo non piange per il futuro o per il passato, ma per il presente. E qual è il presente, ora? All’accademia di polizia stanno incriminando Jason Taverner e lui sta raccontando la sua storia. Come chiunque, ha una sua versione dei fatti, una spiegazione che possa provare la sua innocenza. Jason Taverner, mentre io sono in volo, in questo stesso momento sta cercando di salvarsi.”

Sterzò e fece percorrere al trabi una lunga traiettoria che terminò con un’inversione di rotta. Fece tornare indietro il veicolo, verso la direzione dalla quale era venuto, senza aumentare né diminuire la velocità. Si mise a volare nella direzione opposta. Per tornare all’accademia.

Continuava a piangere. Le sue lacrime diventavano più grandi e dolorose di momento in momento. “Sto andando nella direzione sbagliata” pensò. “Herb ha ragione: devo allontanarmi dall’accademia. Adesso, l’unica cosa che potrei fare lì sarebbe assistere a qualcosa che non sono più in grado di controllare. Vivo all’interno di un dipinto, di un affresco. Esisto in due sole dimensioni. Io e Jason Taverner siamo figure di un vecchio disegno infantile. Persi nella polvere.”

Premette il piede sull’acceleratore e diede un’altra sterzata al volante. Il motore sputacchiò e perse colpi. “La valvola automatica dell’aria è ancora chiusa” si disse Buckman. “Avrei dovuto scaldare il motore per un po’. È freddo.” Cambiò di nuovo direzione.

Stremato dal dolore e dalla stanchezza, alla fine inserì la scheda con la rotta per casa sua nella torretta della sezione di guida e mise in funzione il pilota automatico. “Devo riposare” si disse. Alzò una mano e attivò il circuito ipnoinducente che aveva sopra la testa. Il meccanismo ronzò e lui chiuse gli occhi.

Come sempre, il sonno artificialmente indotto lo ghermì all’istante. Buckman sentì la propria coscienza precipitare a spirale, e ne fu lieto. Ma poi, sfuggendo al controllo del congegno, arrivò un sogno. Era molto chiaro. Lui non lo voleva, ma non poteva fermarlo.

La campagna, bruna e arida nell’estate, dove aveva vissuto da bambino. Stava cavalcando, e alla sua sinistra un gruppo di cavalli si avvicinava lentamente. Su di essi, uomini in lunghe vesti sgargianti, tutte di colore diverso. Gli uomini portavano elmetti a punta che brillavano alla luce del sole. I lenti, solenni cavalieri lo superarono, e quando lo incrociarono lui riuscì a vedere il viso di uno di loro: un antico volto di marmo, un uomo vecchissimo, con una lunga barba bianca che gli scendeva a cascata dal mento. Aveva un naso forte. Tratti del viso nobilissimi. Così stanco, così serio, così al di là dei comuni mortali. Era palesemente un re.

Felix Buckman li lasciò passare; non rivolse loro la parola, e loro non gli dissero nulla. Unito, il gruppo procedette verso la casa dalla quale era venuto lui. Un uomo si era chiuso in quella casa, un uomo solo, Jason Taverner, nel silenzio e nel buio, senza finestre, solo da quel momento in poi, per l’eternità. Si limitava a esistere, inerte. Felix Buckman proseguì, raggiunse l’aperta campagna. E poi udì, alle proprie spalle, un unico terribile grido. Avevano ucciso Taverner e, vedendoli entrare, intuendo la loro presenza nel buio che lo circondava, sapendo cosa avevano intenzione di fare di lui, Taverner aveva urlato.

Felix Buckman provò un dolore totale, la desolazione più completa. Ma nel sogno non tornò indietro, non si voltò a guardare. Non si poteva fare niente. Nessuno avrebbe potuto fermare l’orda di uomini dalle vesti multicolori; non era possibile opporre loro resistenza alcuna. E comunque, era finita. Taverner era morto.

Il suo cervello esagitato riuscì a spedire un segnale al circuito del sonno, servendosi di minuscoli relè. Un interruttore di tensione si aprì, e un suono continuo, irritante, risvegliò Buckman interrompendo il sogno.

“Dio” pensò, e rabbrividì. Come faceva freddo. Come si sentiva vuoto e solo.

Il grande dolore interiore lasciato dal sogno vagava nel suo petto, continuava a turbarlo. “Devo atterrare” si disse. “Vedere qualcuno. Parlare con qualcuno. Non posso restare solo. Se anche soltanto per un secondo riuscissi a…”

Escluse il pilota automatico e fece rotta verso un quadrato di luci fluorescenti sotto di lui: una stazione di servizio aperta tutta la notte.

Un attimo più tardi atterrò davanti alle pompe di benzina della stazione. Si fermò a lato di un altro trabi, deserto, abbandonato. A bordo non c’era nessuno.

Al bagliore delle luci distinse la forma di un nero di mezza età. Portava il soprabito, aveva una bella cravatta colorata, e il suo viso era aristocratico; ogni suo lineamento spiccava netto. Camminava avanti e indietro sul cemento chiazzato d’olio, le braccia incrociate sul petto, un’espressione assente in viso. Evidentemente stava aspettando che il roboinserviente finisse di fare il pieno al suo velivolo. Non era né impaziente né rassegnato; semplicemente, esisteva, remoto e isolato e splendido, forte nel corpo, diritto. Non vedeva nulla perché non c’era nulla che valesse la pena di vedere.

Felix Buckman parcheggiò il trabi, spense il motore, attivò il comando che apriva la portiera e scese rigido nella fredda aria della notte. Si incamminò verso il nero.

Quello non lo guardò neanche. Mantenne le distanze. Continuò a passeggiare calmo. Non parlò.

Felix Buckman affondò le dita intirizzite nella tasca della giacca; trovò la penna a sfera, la tirò fuori, cercò in tasca un pezzo di carta, forse un foglio di un taccuino. Dopo averlo trovato, l’appoggiò sul cofano del trabi del nero. Nella luce bianca, cruda, della stazione di servizio, Buckman disegnò sul foglio un cuore trafitto da una freccia. Tremante di freddo, si voltò verso il nero che passeggiava e gli tese il foglio con il disegno.

Con un guizzo di sorpresa negli occhi, il nero grugnì, accettò il foglio, lo alzò alla luce, lo studiò. Buckman aspettò. Il nero rigirò il foglio, non vide niente sul retro, tornò a esaminare il cuore e la freccia che lo trafiggeva. Aggrottò la fronte, scrollò le spalle, poi restituì il foglio a Buckman e si rimise in movimento, le braccia ancora conserte sul petto. Girò la possente schiena al generale. Il foglio di carta volò via, si perse.

Felix Buckman, in silenzio, tornò al suo trabi, aprì la portiera e si mise al volante. Accese il motore, richiuse la portiera e si alzò nel cielo notturno. Le spie che segnalavano il decollo lampeggiavano rosse davanti e dietro di lui. Poi si spensero, automaticamente, e lui si mise in volo sulla linea dell’orizzonte, con la mente sgombra di pensieri.

Tornarono le lacrime.

All’improvviso, Buckman fece una sterzata. Il trabi sussultò violentemente, diede un forte sobbalzo, si stabilizzò su una traiettoria di discesa. Qualche attimo dopo, si posò di nuovo, nella luce abbagliante, a fianco del trabi vuoto del nero che passeggiava avanti e indietro, delle pompe di benzina. Buckman frenò, spense il motore, scese.

Il nero lo stava guardando.

Buckman si avviò verso di lui. Il nero non indietreggiò, restò fermo dov’era. Buckman lo raggiunse, tese le braccia, le usò per stringere il nero a sé. Quello grugnì di sorpresa. E sgomento. Nessuno dei due parlò. Rimasero abbracciati per un istante, poi Buckman lasciò andare il nero, girò sui tacchi, tornò su gambe tremanti al suo trabi.

— Aspetti — disse il nero. Buckman si girò a guardarlo.

Il nero esitò, scosso da brividi. Poi disse: — Sa come arrivare a Ventura? Sulla rotta aerea Trenta? — Aspettò. Buckman non rispose. — È un’ottantina di chilometri a nord di qui — disse il nero. Buckman continuò a non parlare. — Ha una carta di questa zona?

— No. Mi spiace.

— Chiederò alla stazione di servizio. — Il nero accennò un sorriso esile. Timido. — È stato… un piacere conoscerla. Come si chiama? — Aspettò un lungo momento. — Non me lo vuole dire?

— Io non ho un nome — rispose Buckman. — Non al momento. — Non sopportava proprio l’idea di pensarci.

— È un funzionario pubblico? Organizza cerimonie ufficiali? O magari lavora per la Camera di commercio di Los Angeles? Ho avuto a che fare con loro. Sono persone per bene.

— No — disse Buckman. — Sono un semplice individuo. Come lei.

— Be’, io ho un nome. — Il nero infilò la mano nella tasca interna della giacca, estrasse un piccolo biglietto da visita che porse a Buckman. — Montgomery L. Hopkins. Dia un’occhiata al biglietto. Non è uno splendido lavoro di stampa? Mi piacciono le lettere in rilievo. Mi sono costati cinquanta dollari al migliaio. Mi hanno fatto un prezzo speciale grazie a un’offerta promozionale che non si ripeterà. — Sul biglietto erano stampate splendide lettere nere in rilievo. — Io produco auricolari di biofeedback di basso costo, di tipo analogico. Sono venduti al dettaglio per meno di cento dollari.

— Mi venga a trovare — disse Buckman.

— Mi chiami. — In tono fermo, pacato, ma a voce piuttosto alta, il nero disse: — Questi posti, queste stazioni di rifornimento robotizzate, sono deprimenti, a notte fonda. Un’altra volta potremo parlare di più. In un posto accogliente. Mi rendo conto. Capisco come ci si sente quando succede che un posto del genere ti butti giù di morale. Tante volte io faccio rifornimento appena uscito dalla mia fabbrica, per non essere costretto a fermarmi più tardi. Ma mi succede spesso di uscire per chiamate notturne, per tanti motivi. Sì, capisco benissimo che lei si senta giù di corda. Insomma, depresso. Per questo mi ha passato quel foglietto che temo di non avere compreso al momento, ma adesso capisco, e poi ha voluto abbracciarmi, e l’ha fatto, come farebbe un bambino, per un secondo. Ho provato quel tipo di desiderio, o forse sarebbe meglio chiamarlo impulso, di tanto in tanto in vita mia. Oggi ho quarantasette anni. Capisco. Lei non vuole trovarsi solo a notte fonda, specialmente quando fa un freddo tremendo come ora. Sì, sono d’accordo con lei, e ora lei non sa di preciso cosa dire perché ha fatto un gesto improvviso, irrazionale, senza riflettere sulle sue conseguenze. Ma non c’è problema. Ho capito. Non si preoccupi. Lei deve proprio fare un salto da me. Le piacerà casa mia. È molto accogliente. Conoscerà mia moglie e nostro figlio.

— Verrò —disse Buckman. — Terrò il suo biglietto da visita. — Estrasse il portafogli, vi ripose il biglietto del nero. — Grazie.

— Vedo che il mio trabi è pronto — disse il nero. — Mi mancava anche l’olio. — Esitò, fece per andarsene, poi tornò indietro e porse la mano. Buckman gliela strinse. — Addio — disse il nero.

Buckman restò fermo a guardare. Il nero pagò la stazione di servizio, salì sul suo trabi un po’ ammaccato, accese il motore e decollò verso il buio. Quando passò sopra Buckman, staccò la destra dal volante e fece un cenno di saluto.

“Buonanotte” pensò Buckman, rispondendogli con dita morse dal gelo. Poi risalì sul suo trabi, esitò incerto, aspettò; quindi, visto che non accadeva nulla, richiuse di colpo la portiera e avviò il motore. Un attimo dopo era in volo.

“Scorrete, mie lacrime” pensò. “Il primo brano di musica astratta mai scritto. John Dowland nel suo secondo libro di composizioni per liuto, nel 1600. Lo ascolterò sul mio nuovo impianto quadrifonico, appena sarò a casa. Così potrà ricordarmi Alys e tutti gli altri. E ci saranno una sinfonia e un fuoco e tutto sarà calore.

“Andrò a prendere il mio bambino. Domattina presto volerò in Florida da Barney. Da domani in poi lo terrò con me. Noi due assieme. Quali che possano essere le conseguenze. Ma non ce ne saranno. È tutto finito. Siamo al sicuro. Per sempre.”

Il suo trabi volava nel cielo notturno. Come un insetto ferito, lo riportava a casa.

Parte quarta

Udite! Voi, ombre che nella tenebra dimorate,
imparate a spregiare la luce.
Felici, felici coloro che all’inferno
non sentono il disprezzo del mondo.

Epilogo

Il processo a Jason Taverner per l’omicidio di primo grado di Alys Buckman fu un misterioso fallimento. Si concluse con un verdetto di non colpevolezza, dovuto in parte all’eccellente assistenza legale fornita dalla nbc e da Bill Wolfer, ma anche al fatto che Taverner non aveva commesso alcun crimine. In realtà, non c’era stato un delitto, e il referto del coroner venne smentito; dopo di che ci furono le dimissioni del coroner, sostituito da un medico più giovane. Gli indici di gradimento di Jason Taverner, che erano scesi a livelli minimi nel corso del processo, risalirono dopo l’assoluzione, e Taverner si trovò con un pubblico di trentacinque milioni di persone, anziché trenta.

La casa di proprietà di Felix Buckman e di sua sorella Alys, dove i due avevano vissuto, per diversi anni rimase senza un vero proprietario. Alys aveva lasciato in eredità la sua parte a un’organizzazione di lesbiche, le Figlie di Caribron, che aveva il suo quartier generale a Lee’s Summit, nel Missouri, e l’associazione voleva trasformare la casa in un ritiro per le sue numerose sante. Nel marzo del 2003 Buckman vendette la propria parte della casa alle Figlie di Caribron, e con il ricavato si trasferì, assieme a tutti i pezzi delle sue molte collezioni, in Borneo, dove il costo della vita era basso e la polizia cordiale.

Gli esperimenti con la droga kr-3 a inclusione spaziale multipla vennero abbandonati alla fine del 1992, a causa delle sue proprietà tossiche. Comunque, la polizia continuò a sperimentarla in segreto per parecchi anni sui prigionieri dei campi di lavori forzati. Ma alla fine, considerati i molteplici rischi comportati dalla droga, il direttore ordinò di abbandonare la sperimentazione.

Kathy Nelson apprese, un anno dopo, che suo marito Jack era morto da parecchio tempo, come le aveva detto McNulty. Questo fatto le provocò una fortissima crisi psicotica, e venne ricoverata di nuovo, questa volta per sempre, in un ospedale molto meno lussuoso del Morningside.

Ruth Rae si sposò per la cinquantunesima e ultima volta della sua vita. Contrasse quel definitivo matrimonio con un uomo anziano, ricco e panciuto, che faceva l’importatore di armi nel sud del New Jersey operando ai limiti della legalità. Nella primavera del 1994, Ruth Rae morì per un’ingestione eccessiva di alcol e di un nuovo tranquillante, la Frenozina, che funge da sedativo del sistema nervoso centrale oltre che del nervo vago. All’epoca della morte pesava quarantacinque chili per via dei suoi cronici problemi psicologici. Non fu mai possibile accertare in modo definitivo se si fosse trattato di un incidente o di suicidio: dopo tutto, il farmaco era relativamente nuovo. Il marito, Jake Mongo, all’epoca della morte di Ruth era gravato da grossi debiti e le sopravvisse di poco più di un anno. Jason Taverner partecipò al funerale, e al cimitero incontrò un’amica di Ruth, Fay Krankheit, con la quale iniziò una relazione che durò due anni. Da lei seppe che Ruth Rae aveva l’abitudine di collegarsi regolarmente alla sessorete telefonica; capì allora come mai Ruth si fosse ridotta nello stato in cui era quando si erano rivisti a Las Vegas.

Cinica e ormai sulla via del declino psicofisico, Heather Hart abbandonò gradualmente la carriera di cantante e scomparve. Dopo qualche tentativo di rintracciarla, Jason Taverner si arrese. La sua storia con lei era stata una delle cose più belle della sua vita, nonostante l’orribile epilogo.

Gli arrivò anche notizia che Mary Anne Dominic aveva vinto un prestigioso premio internazionale per le sue ceramiche, ma non si prese mai il disturbo di contattarla. Monica Buff, invece, riapparve nella sua vita verso la fine del 1998, sporca e in disordine come sempre, ma ancora attraente, a modo suo. Jason uscì con lei un paio di volte, poi la scaricò. Per mesi, lei gli scrisse lunghe, strane lettere, con simboli indecifrabili sopra le parole; ma alla fine anche le lettere smisero di arrivare, e lui ne fu lieto.

Nelle conigliere sotto le rovine delle grandi università, la popolazione degli studenti rinunciò poco per volta all’inutile tentativo di continuare a condurre quello stile di vita. Per la maggior parte accettarono volontariamente di entrare nei campi di lavori forzati. Quindi gli strascichi della seconda guerra civile si spensero gradualmente, e nel 2004, come progetto pilota, venne ricostruita la Columbia University. Un sano corpo studentesco fu autorizzato a seguirne i corsi, con la supervisione della polizia.

Verso la fine dei suoi giorni, il generale di polizia in pensione Felix Buckman, che viveva da anni in Borneo, scrisse un’autobiografia nella quale denunciava l’apparato che dominava il mondo. Il libro cominciò ben presto a circolare, anche se illegalmente, nelle maggiori città del pianeta. A causa di quel libro il generale Buckman venne ucciso a colpi di pistola nell’estate del 2017 da un killer che non fu mai identificato. Non ci fu nessun arresto per quell’omicidio. Il libro, Lo spirito della legge e dell’ordine, continuò a circolare clandestinamente per anni anche dopo la sua morte, ma finì con l’essere dimenticato. I campi di lavori forzati diminuirono e col tempo scomparvero del tutto. Gradualmente, con il trascorrere dei decenni, l’apparato di polizia divenne troppo burocraticamente complesso per sembrare minaccioso, e nel 2136 il grado di maresciallo venne abolito.

Alcuni dei fumetti sado che Alys Buckman aveva collezionato nel corso della sua vita trovarono la strada di musei che ospitavano i reperti di culture popolari ormai tramontate. Alla fine, il “Librarian’s Journal Quarterly” la definì ufficialmente la più grande collezionista nel campo dell’arte sadomaso della fine del XX secolo. Il Dollaro Nero del TransMississippi che Felix Buckman le aveva regalato venne comperato a un’asta da un acquirente polacco, di Varsavia, nel 1999. Dopo di che scomparve nell’oscuro mondo della filatelia e non se ne ebbe più notizia.

Barney Buckman, il figlio di Felix e Alys Buckman, crebbe tra non poche difficoltà. Entrò nella polizia di New York, e durante il suo secondo anno di servizio come agente cadde da una scala antincendio non regolamentare. Si trovava lì in seguito alla segnalazione di un furto in un palazzo un tempo abitato da persone di colore molto ricche. Paralizzato dalla vita in giù a ventitré anni, cominciò a interessarsi di vecchi spot pubblicitari televisivi, e nel giro di poco tempo entrò in possesso di un’imponente raccolta degli spot più vecchi e ricercati, che acquistava vendeva e scambiava con un grande senso degli affari. Visse a lungo, conservando solo un vago ricordo del padre e nessunissimo di Alys. Barney Buckman non si lamentò mai della propria vita, e continuò a dedicare il proprio tempo in particolare alle vecchie pubblicità dell’Alka-Seltzer, la sua specialità in quella messe di auree stupidaggini.

All’accademia di polizia di Los Angeles qualcuno rubò la Derringer calibro 22 che Felix Buckman teneva nella scrivania, e la pistola sparì per sempre. Ormai le armi a pallottole di piombo erano praticamente scomparse, sopravvivevano solo come pezzi da collezione; e l’impiegato dell’accademia che aveva il compito di controllare la Derringer concluse, saggiamente, che fosse entrata a far parte dell’arredo da scapolo di qualche funzionario di rango inferiore, e chiuse le indagini.

Nel 2047, Jason Taverner, che aveva lasciato ormai da tempo il mondo dello spettacolo, morì in una lussuosa casa di cura di fibrosi acolica, una malattia che i terrestri contraevano in diverse colonie marziane private, tenute in vita esclusivamente per i discutibili piaceri di persone molto ricche. I suoi beni consistevano in una casa con cinque camere da letto a Des Moines, piena più che altro di trofei della sua camera, e in molte azioni di una società che aveva tentato, senza riuscirci, di creare un servizio di shuttle con Proxima Centauri. La sua morte non ebbe una grande eco sulla stampa, anche se apparvero brevi necrologi su quasi tutti i principali quotidiani delle metropoli terrestri. I notiziari televisivi la ignorarono completamente. Non la ignorò invece Mary Anne Dominic che, ormai ottantenne, continuava a ritenere Jason Taverner una celebrità, e l’incontro che aveva avuto con lui una pietra miliare della sua lunga e felice vita.

Il vaso azzurro fatto da Mary Anne Dominic e comperato da Jason Taverner come regalo per Heather Hart finì in una collezione privata. È lì ancora oggi, ed è considerato un prezioso tesoro. E, in effetti, molti esperti di ceramiche artistiche lo ritengono un vero capolavoro. E lo amano.

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