Alvin Miller è venuto al mondo in un’America in cui bianchi e indiani vivono in pace e George Washington è stato decapitato dagli inglesi. Magie, incantesimi e misteriose potenze negative sono presenze quotidiane e normali in questo “mondo alternativo” Ma Alvin è protetto da tutte le energie positive del Creato, perché, secondo un’antica profezia, “il settimo figlio di un settimo figlio avrà in sé poteri tali da far tremare il mondo”.

Orson Scott Card

Il settimo figlio

A Emily Jan,

che non resterà mai

a corto d’incantesimi

I

MARIA LA SANGUINARIA

Quando doveva raccogliere le uova, la piccola Peggy agiva con estrema cautela. Rovistava nella paglia con la mano finché le sue dita non s’imbattevano in qualcosa di duro e pesante. Gli escrementi di pollo non la preoccupavano. In fin dei conti, quando alla locanda alloggiavano famiglie con bambini piccoli, la mamma non si faceva né in qua né in là nemmeno dinanzi ai pannolini più spettacolosi. Anche quando gli escrementi di pollo erano bagnati e filamentosi e le appiccicavano insieme le dita, la piccola Peggy non se ne dava per inteso, ma si limitava a farsi strada nella paglia, a chiudere le dita sull’uovo e a tirarlo fuori dal nido di legno. Tutto questo in punta di piedi su uno sgabello traballante, protendendo la mano in alto sopra la testa. La mamma diceva sempre che era troppo piccina per andare a prendere le uova, ma la piccola Peggy teneva a dimostrarle che non era vero. Tutti i giorni frugava in tutti i nidi e riportava a casa tutte le uova, senza lasciarne neanche uno. Sissignori, proprio così.

Tutti, si ripeteva mentalmente. Devo frugare in tutti quanti.

Poi la piccola Peggy tornò a guardare nell’angolo di nord-est, l’angolo più buio di tutto il pollaio, ed ecco lì Maria la Sanguinaria accovacciata nel suo nido, più brutta di un incubo di Satana, che con quegli occhiacci maligni scintillanti d’odio le diceva: vieni qui bambina e lasciati beccare. Voglio beccarti sul pollice e su tutte le altre dita, e se ti avvicini abbastanza e cerchi di prendermi l’uovo, ti beccherò anche in un occhio.

La maggior parte degli animali non possedeva una gran fiamma vitale, ma quella di Maria la Sanguinaria era bella forte e produceva fumo avvelenato. Nessun altro poteva vederla, ma la piccola Peggy sì. Maria la Sanguinaria sognava la morte di tutti gli esseri umani, e in particolar modo quella di una certa bambina di cinque anni; la piccola Peggy aveva sulle dita i segni che lo dimostravano. Uno, per lo meno, e sebbene papà sostenesse di non vederlo, la piccola Peggy ricordava come se lo era procurato, e nessuno poteva fargliene una colpa se qualche volta si scordava di mettere la mano nel nido di Maria la Sanguinaria, accovacciata lassù come un bandito di strada che aspetta di far fuori il primo che soltanto prova a passare da quelle parti. Nessuno si sarebbe arrabbiato se lei ogni tanto si scordava di andarci a guardare.

Me ne sono scordata. Ho guardato in tutti i nidi, in tutti, e se ne ho saltato uno è perché me ne sono scordata, scordata, scordata.

Tutti sapevano che Maria la Sanguinaria era una gallina assolutamente odiosa, e che comunque era troppo cattiva per deporre uova che non fossero marce.

Me ne sono scordata.

Quando entrò in casa col cestino delle uova, la mamma non aveva ancora finito di preparare il fuoco. La mamma ne fu così soddisfatta che permise alla piccola Peggy di mettere le uova una alla volta nell’acqua fredda; poi appese la pentola al gancio, che fece ruotare in modo da portarlo direttamente sul fuoco. Per bollire le uova non importa aspettare che la legna diventi brace, è una cosa che si può fare col fumo e tutto.

«Peg» disse papà.

Così si chiamava la mamma, ma papà non aveva pronunciato quel nome con la voce con cui di solito si rivolgeva alla mamma. L’aveva pronunciato con la voce alla piccola-Peggy-sei-nei-pasticci, e la piccola Peggy capì di essere stata scoperta, assolutamente scoperta, perciò si voltò di scatto e urlò quello che fin dall’inizio si era proposta di dire.

«Me ne sono scordata, papà!»

La mamma si voltò a guardare sorpresa la piccola Peggy. Ma papà non sembrò sorpreso, e si limitò a sollevare un sopracciglio. Aveva una mano dietro la schiena, e la piccola Peggy capì che in quella mano c’era un uovo. Lo schifosissimo uovo di Maria la Sanguinaria.

«Di che ti sei scordata, piccola Peggy?» chiese sommessamente papà.

In quel preciso istante la piccola Peggy pensò di essere la bambina più stupida mai comparsa sulla faccia della terra. Eccola lì che si metteva a negare prima ancora di essere accusata di qualcosa.

Ma non era disposta a cedere, almeno non così, non subito. Non riusciva a sopportare che si arrabbiassero con lei, e avrebbe tanto voluto che la lasciassero andare a vivere in Inghilterra. Perciò assunse la sua espressione più innocente e disse: «Non lo so, papà».

Si figurava che l’Inghilterra fosse il miglior posto in cui andare a vivere perché l’Inghilterra aveva un Lord Protettore. Da ciò che scorgeva nello sguardo di papà, un Lord Protettore era esattamente ciò di cui avrebbe avuto bisogno in quel momento.

«Di che ti sei scordata?» chiese di nuovo papà.

«Dillo e falla finita, Horace» disse mamma. «Se ha sbagliato, ha sbagliato».

«Me ne sono scordata una volta soltanto» disse la piccola Peggy. «È una vecchia gallinaccia cattiva, e non mi può vedere».

«Una volta soltanto» ripeté papà scandendo sommessamente le parole.

Poi tirò fuori la mano da dietro la schiena. E in quella mano non c’era un uovo soltanto, ma un intero cestino. E quel cestino conteneva un ammasso di paglia — probabilmente tutta la paglia del nido di Maria la Sanguinaria — e la paglia era appiccicata in un unico blocco, con pezzi di guscio e tuorli e chiare essiccate e i cadaverini mangiucchiati di tre o quattro pulcini.

«Era proprio necessario portarmi in casa questa roba prima di colazione, Horace?» chiese la mamma.

«Non so che cosa mi faccia arrabbiare di più» disse papà. «Se il malestro che ha combinato, o la bugia che è andata ad inventarsi».

«Non mi sono inventata nulla e non ho detto bugie!» strillò la piccola Peggy. O se non altro ci provò. Quello che venne fuori somigliava stranamente al pianto, sebbene solo il giorno prima la piccola Peggy avesse deciso che non si sarebbe più lasciata sfuggire una sola lacrima per il resto dei suoi giorni.

«Visto?» disse la mamma. «Già le dispiace».

«Le dispiace di essere stata sbugiardata» replicò papà. «Sei troppo tenera con lei, Peg. È portata a mentire. Non voglio che diventi cattiva. Preferirei vederla morta come le sue sorelline, piuttosto che vederla diventare cattiva».

La piccola Peggy vide la fiamma vitale di mamma incendiarsi di ricordi, e davanti a sé scorse un neonato graziosamente composto in una piccola bara, e poi un altro, solo che questo non era così grazioso perché era la seconda bambina, Missy, quella che siccome era morta di vaiolo nessuno la voleva toccare tranne sua madre, che a sua volta era ancora così debole per la malattia che non aveva potuto fare granché. La piccola Peggy vide quella scena e capì che papà aveva commesso un errore nel dire quel che aveva detto, perché l’espressione di mamma si era fatta di gelo anche se la sua fiamma vitale continuava a divampare.

«Questa è la cosa più cattiva che qualcuno abbia mai detto in mia presenza» disse la mamma. Poi prese dal tavolo quel cestino colmo di corruzione e uscì di casa.

«Maria la Sanguinaria mi becca la mano» si difese la piccola Peggy.

«Adesso vedremo se c’è qualcosa che becca ancora di più» disse papà. «Per aver lasciato le uova ti darò una sola frustata, perché capisco che a una ranocchietta come te quella vecchia gallina lunatica possa anche fare paura. Ma per le bugie che hai raccontato te ne darò altre dieci».

A questa notizia, la piccola Peggy pianse a dirotto. Papà era scrupoloso e imparziale in tutto, specialmente per quanto riguardava le frustate.

Papà prese la verga di nocciolo dallo scaffale più alto. La teneva lassù da quando la piccola Peggy aveva buttato quella vecchia nel fuoco, riducendola in cenere.

«Da te, figlia mia, preferirei udire mille amare e dure verità piuttosto che una sola innocua e gradevole menzogna» disse, e poi si chinò e cominciò a percuoterle le cosce con la verga di nocciolo. Zip zip zip, la piccola Peggy le contò una per una, e ciascuna la feriva fino al cuore da quant’erano piene di rabbia. Peggio che mai, sapeva che tutto ciò era profondamente ingiusto, poiché anche stavolta la fiamma vitale di suo padre divampava per un motivo completamente diverso. Quel suo odio per la malvagità scaturiva sempre dal suo ricordo più segreto. La piccola Peggy non ci capiva molto, perché era tutto così contorto e confuso, e nemmeno papà se lo ricordava molto bene. Tutto ciò che la piccola Peggy riusciva a vedere con chiarezza era che c’entrava una signora, e che quella signora non era la mamma. Ogni volta che qualcosa andava storto, papà pensava a quella signora. Quando la piccola Missy era morta senza alcun motivo, e poi anche l’altra bambina che si chiamava Missy pure lei era morta di vaiolo, e poi la volta che il fienile era andato a fuoco e una vacca era morta, tutto quello che andava storto lo faceva pensare a quella signora e lui cominciava a dire quanto detestasse la malvagità, e la verga di nocciolo volava ch’era un piacere.

Preferirei udire mille amare e dure verità, questo aveva detto, ma la piccola Peggy sapeva che esisteva una verità che egli non avrebbe mai voluto sentirsi dire, e che lei non gli avrebbe mai urlato in viso a costo di fargli spezzare la verga di nocciolo, perché ogni volta che pensava di accennare a quella signora continuava a vedersi davanti suo padre morto, e questa era una cosa che lei sperava di non veder mai succedere. Oltre a ciò, la signora che ossessionava la fiamma vitale di papà non aveva vestiti, e la piccola Peggy sapeva che se avesse parlato di gente nuda sarebbe stata frustata di sicuro.

Perciò si prese le frustate e pianse fino a sentirsi il moccio in gola. Subito dopo papà uscì dalla stanza, e la mamma rientrò a preparare la colazione per il fabbro, gli ospiti e gli uomini di fatica, ma nessuno le rivolse la parola, come se niente fosse accaduto. Per un minuto pianse ancora più forte, ma senza risultato. Alla fine prese il suo Bugy dal cestino del cucito e a gambe rigide andò alla capanna del nonno e lo svegliò.

Come sempre, il nonno ascoltò attentamente il suo racconto.

«La conosco, quella Maria la Sanguinaria» commentò alla fine, «e a tuo padre gliel’avrò detto cinquanta volte, mica una, di tirargli il collo, a quella gallina, e farla finita. È una bestiaccia lunatica. Più o meno una volta la settimana le prende la pazzia e rompe tutte le uova che ha nel nido, anche quelle pronte a schiudersi. Ammazza i suoi stessi pulcini. E chi uccide i propri figli può essere solo un pazzo».

«A momenti papà ammazzava me» disse la piccola Peggy.

«Se riesci ancora a camminare, non può essere poi così grave».

«Non è che cammini granché bene».

«Certo, è possibile che tu rimanga storpia per sempre» osservò il nonno. «Ma capisci, per come la vedo io, tuo padre e tua madre adesso non ce l’hanno tanto con te, quanto l’uno con l’altra. Perché non te la svigni per un paio d’ore?»

«Vorrei potermi trasformare in uccello e volare via».

«Ma se non puoi farlo, la cosa migliore è andare in un posto segreto dove a nessuno venga in mente di venirti a cercare» le consigliò il nonno. «Tu ce l’hai un posto così? No, non dirmelo… se lo riveli a qualcuno, anche a una persona sola, sciupi tutto. Vai in quel posto per un po’. Purché sia un posto sicuro, non là fuori nella foresta, dove qualche Rosso possa prendersi per ricordo i tuoi bei capelli, e non troppo in alto, da dove tu possa cadere, e non troppo stretto, dove tu possa restare incastrata».

«È grande e in basso e non è nella foresta» disse la piccola Peggy.

«E allora vacci, Maggie».

La piccola Peggy fece la faccia che faceva sempre quando il nonno la chiamava in quel modo. Alzò Bugy e con la vocetta stridula di Bugy disse: «Si chiama Peggy».

«Vacci, Piggy, se preferisci essere chiamata così…».

La piccola Peggy sbatté Bugy sul ginocchio del nonno.

«Un giorno o l’altro Bugy lo farà una volta di troppo, si sventrerà e morirà» disse il nonno.

Ma Bugy continuò a ballonzolargli imperterrito sul viso insistendo: «Non Piggy, Peggy!».

«D’accordo, Puggy, va’ in quel posto segreto e se qualcuno dirà che bisogna trovare quella bambina, io dirò che so dov’è e che tornerà quando si sentirà pronta».

La piccola Peggy corse alla porta della capanna, poi si fermò e si voltò. «Nonno, sei l’adulto più buono del mondo».

«Tuo padre non la pensa così, ma credo dipenda da un’altra verga di nocciolo alla quale ho dato mano un po’ troppo spesso. E adesso fila».

La piccola Peggy si fermò di nuovo un istante prima di chiudere la porta. «Sei l’unico adulto buono!» Lo urlò proprio forte, quasi sperando che la potessero udire fin da dentro la casa. E poi se ne andò di corsa, attraverso il giardino, laggiù oltre il prato sul quale pascolavano le mucche, e poi su per il pendio boscoso, fino ad arrivare sul sentiero che portava al deposito costruito sulla sorgente.

II

LA GENTE DEL CARRO

Aveva buon carro, quella gente, e due buoni cavalli per trainarlo. Si sarebbe addirittura potuta ritenere gente prosperosa, considerando che c’erano sei figli maschi già grandi che andavano dall’uomo fatto a due gemelli i quali, a forza di fare alla lotta, erano diventati parecchio più robusti dei loro dodici anni o giù di lì. Senza contare una figlia grande e un numero imprecisato di bambine. Una bella famiglia. E prosperosa, sì, se uno non avesse saputo che nemmeno un anno prima erano stati proprietari di un mulino e avevano vissuto in una grande casa sulla riva di un fiume nella parte occidentale del Nuovo Hampshire. Da allora avevano fatto un bel po’ di strada in discesa, e quel carro era tutto ciò che gli era rimasto al mondo. Ma, pieni di speranza, avevano intrapreso quel viaggio lento e faticoso verso ovest, lungo le piste che, dopo avere attraversato il fiume Hio, si dirigevano verso terre vergini a disposizione di chiunque volesse prendersele. E per una famiglia con abbondanza di schiene forti e mani industriose, poteva essere anche terra buona, purché il clima si mostrasse benevolo, i Rossi non si facessero venire idee bellicose, e avvocati e banchieri se ne restassero nella Nuova Inghilterra.

Il padre era un omone con una certa tendenza alla pinguedine, il che non doveva sorprendere dato che il lavoro del mugnaio consiste per lo più nello starsene lì a guardare quel che succede. Ma in una fattoria tra i boschi quel po’ di pancia non sarebbe durata neanche un anno. Lui, del resto, non se ne preoccupava più di tanto; il lavoro duro non gli faceva paura. Quel che oggi lo preoccupava era Faith, sua moglie. Ormai il tempo del bambino era giunto alla fine, e lui lo sapeva. Non che lei gliene avesse mai parlato direttamente. Le donne non parlano di queste cose con gli uomini. Ma lui sapeva quanto fosse ingrossata e quanti mesi fossero trascorsi. E poi alla sosta di metà giornata lei gli aveva mormorato: «Alvin Miller, se lungo la strada troviamo una locanda, o anche solo una capanna abbandonata, penso che non mi dispiacerebbe riposare un po’». Non serviva la testa di un filosofo per capire. E dopo sei figli maschi e sei femmine, avrebbe dovuto avere un mattone al posto del cervello per non intuire che cosa bollisse in pentola.

Perciò mandò avanti Vigor, il più grande dei suoi figli, a perlustrare il terreno lungo la pista.

I Miller venivano dalla Nuova Inghilterra, e lo si vide dal fatto che il ragazzo non prese con sé un fucile. Se ci fosse stato un bandito, non lo avrebbero più rivisto; che fosse tornato indietro con tutti i capelli in testa costituiva prova lampante del fatto che nessun Rosso lo aveva avvistato. I francesi di Detroit pagavano in liquore ogni scalpo d’inglese, e se un Rosso avesse visto un uomo bianco solo nella foresta e senza fucile, lo scalpo di quell’uomo bianco sarebbe stato suo. Si sarebbe dunque potuto pensare che finalmente un po’ di fortuna fosse toccata anche a loro. Ma siccome quegli yankee non sospettavano nemmeno lontanamente che la pista potesse non essere sicura, Alvin Miller non considerò nemmeno per un istante la propria buona sorte.

Vigor tornò dicendo che tre miglia più avanti c’era una locanda. Come notizia era buona, tranne che fra loro e quella locanda scorreva un fiume. Come fiume non era granché, e l’acqua al guado era bassa, ma Alvin Miller aveva imparato a non fidarsi dell’acqua. Per quanto possa sembrare tranquilla, puoi star sicuro che prima o poi allunga gli artigli e cerca di agguantarti. Aveva una mezza idea di dire a Faith che avrebbero trascorso la notte da questa parte del fiume, ma proprio in quel momento lei emise un lamento quasi impercettibile, e lui si rese conto che non sarebbe assolutamente stato possibile. Faith gli aveva dato dodici figli vivi, ma erano ormai trascorsi quattro anni dall’ultima volta, e molte si trovavano male ad avere un figlio così tardi. Molte morivano. Una buona locanda significava donne in grado di dare una mano per il parto; perciò avrebbero dovuto rischiare l’attraversamento del guado.

E poi Vigor aveva detto che come fiume non era granché.

III

IL DEPOSITO SULLA SORGENTE

Nel deposito l’aria era fresca e greve, buia e umida. Qualche volta, quando la piccola Peggy andava lì dentro a fare un sonnellino, si svegliava boccheggiando come se tutto quel posto si fosse trovato sott’acqua. Qualche volta sognava l’acqua anche quando non si trovava lì… e questo era uno dei motivi che inducevano alcuni a sospettare che non fosse una fiaccola, bensì una stilla. Ma quando la piccola Peggy sognava fuori di lì, sapeva sempre che stava sognando. Lì invece l’acqua era vera.

Vera nelle gocce che si condensavano come sudore sui recipienti per il latte immersi per metà nel ruscello. Vera nella fredda, umida argilla del pavimento. Vera nel rumore gorgogliante del ruscello che scorreva in mezzo al locale.

Il deposito veniva mantenuto fresco per tutta l’estate da quell’acqua gelida che, sgorgando dal fianco della collina, andava a finire lì dentro, ombreggiata in tutto il suo corso da alberi così venerandi che la luna si faceva un dovere di passare attraverso i loro rami solo per ascoltare qualche buona, vecchia storia. Ecco perché la piccola Peggy ci veniva sempre, anche quando papà non la odiava. Non per quell’aria umida, della quale avrebbe potuto benissimo fare a meno. Era per come la fiamma le si spegneva dentro, e lei non era più costretta a essere fiaccola, a scrutare negli angoli bui dove la gente andava a nascondersi.

Da lei, si nascondevano, come se avesse potuto servirgli a qualcosa. Ciò che meno gli piaceva di se stessi, loro cercavano di rimpiattarlo in qualche oscuro recesso, senza sapere che agli occhi della piccola Peggy quell’oscurità era come illuminata a giorno. Persino quand’era così piccola da sputare la farinata di granturco nella speranza di un supplemento di poppa, era già a conoscenza di tutte le storie che la gente intorno a lei cercava di nasconderle. La piccola Peggy infatti era in grado di scorgere quei frammenti del loro passato che più desideravano di poter seppellire, e quei frammenti del loro futuro dei quali avevano più paura.

Ecco perché aveva cominciato a venire nel deposito sulla sorgente. Qui non era più costretta a vedere nulla. Nemmeno la signora nei ricordi di papà. Qui non c’era altro che l’aria pesante, umida, buia, fresca, capace di estinguere la fiamma e abbassare la luce, così che lei potesse essere — anche solo per pochi minuti nell’arco di una giornata — una bambina di cinque anni con un bambolotto di paglia chiamato Bugy, e non dovesse nemmeno pensare ai segreti degli adulti.

Non sono cattiva, si disse. Continuò a ripeterselo, ma non funzionò, perché sapeva di esserlo.

Benissimo allora, si disse, sono cattiva. Ma non sarò più cattiva. Dirò la verità come vuole papà, oppure non dirò nulla.

Persino a cinque anni, la piccola Peggy sapeva che se avesse mantenuto quel giuramento, avrebbe fatto molto meglio a non dire nulla.

Perciò non disse nulla, nemmeno a se stessa, limitandosi a restare distesa su una tavola di legno umido e ricoperto di muschio, stringendo Bugy nel pugno così forte da stritolarlo.

Bing, bing, bing.

La piccola Peggy si svegliò e per qualche istante si arrabbiò moltissimo.

Bing, bing, bing.

Si arrabbiò perché nessuno le aveva detto: piccola Peggy, non ti dispiace se permettiamo a questo giovane fabbro di venire a stare qui da noi, vero?

Per niente, papà, avrebbe detto, se glielo avessero chiesto. Sapeva bene che cosa significava avere una fucina di fabbro. Significava che il villaggio sarebbe prosperato e sarebbe arrivata gente da altri posti, e quando fosse arrivata ci sarebbero stati scambi e commerci, e con gli scambi e i commerci la grande casa di suo padre sarebbe potuta diventare una locanda, e se ci fosse stata una locanda allora tutte le strade in qualche modo avrebbero fatto una piccola deviazione solo per passare di lì, se non era troppo fuori mano… La piccola Peggy tutto questo lo sapeva bene, esattamente come i bambini dei contadini conoscono i ritmi della fattoria. Una locanda accanto a una fucina di fabbro era una locanda sicura di prosperare. Perciò la piccola Peggy avrebbe detto: certo, lasciatelo venire qui, concedetegli un pezzo di terra, regalategli i mattoni per il camino, nutritelo gratis, dategli il mio letto in modo che io sia costretta a dormire in quello del cugino Peter che cerca sempre di sbirciarmi sotto la camicia da notte, mi adatterò a tutto… purché non me lo mettiate vicino al deposito sulla sorgente, cosicché anche quando vorrei restarmene da sola con l’acqua si senta in continuazione quel bing bang barn hiss, rumore in continuazione, e il fuoco che divampa fino in cielo tanto da farlo diventare nero, e il puzzo del carbone che brucia. Tutto questo era più che sufficiente a far sì che una desiderasse risalire il ruscello fin dentro la montagna, solo per starsene un poco in pace.

Ovviamente il ruscello era il posto più indicato per metterci il fabbro. Se non fosse stato per l’acqua, avrebbe potuto costruire la sua fucina assolutamente ovunque. Il ferro gli arrivava col carro del corriere direttamente dalla Nuova Olanda, e il carbone… be’, non mancavano certo i contadini disposti a barattare del carbone di legna con un buon ferro da cavallo. Ma l’acqua, ecco qualcosa di cui il fabbro aveva assoluto bisogno e che nessuno gli poteva portare, e così ovviamente l’avevano messo proprio sotto il deposito sulla sorgente, dove il suo bing bing bing potesse svegliarla facendo nuovamente divampare la fiamma dentro di lei, proprio nell’unico posto in cui sino a quel momento era riuscita a smorzarla fin quasi a farla diventare cenere fredda e bagnata.

Un rombo di tuono.

In un attimo fu sulla soglia. Doveva vedere il fulmine. Ne colse solo l’ultimo baluginio, ma. sapeva che ne sarebbero caduti altri. Sicuramente mezzogiorno non era trascorso da molto… o aveva dormito tutta la giornata? Con quelle nubi nere e basse era difficile dirlo; sarebbero potuti essere anche gli ultimi momenti del crepuscolo. Nell’aria avvertiva il pizzicore del fulmine che non vedeva l’ora di avventarsi. La piccola Peggy conosceva quella sensazione: significava che il fulmine sarebbe caduto vicino.

Abbassò lo sguardo per vedere se nel recinto del fabbro c’erano ancora i cavalli. Sì, era così. Il lavoro di ferratura non era ancora terminato, la strada si sarebbe trasformata in viscida fanghiglia, e il contadino di West Fork e i suoi due figli sarebbero stati costretti a restare lì. Assolutamente impensabile che riprendessero la via di casa sotto quel finimondo, col fulmine che da un momento all’altro poteva dar fuoco al bosco, o fargli crollare un albero addosso, oppure semplicemente mollargli una sventola di quelle buone e lasciarli tutti morti stecchiti in cerchio come quei cinque quaccheri di cui ancora si raccontava, eppure era successo anni prima, nel ’90, quando i primi bianchi erano venuti a stabilirsi da quelle parti. La gente ancora parlava del Cerchio dei Cinque e roba del genere: alcuni si chiedevano se Dio non si fosse deciso a fulminare quei quaccheri per farli star zitti, visto che altri sistemi non ne aveva trovati; altri invece si domandavano se Dio non se li fosse portati in cielo come il primo Lord Protettore, Oliver Cromwell, che era stato colpito dal fulmine all’età di novantasette anni scomparendo senza lasciar traccia.

No, quel contadino e i suoi ragazzoni sarebbero rimasti alla locanda una notte in più. La piccola Peggy non era forse figlia di un locandiere? I piccoli pellerossa imparavano a cacciare, i piccoli negri imparavano a portare pesi, i figli dei contadini imparavano a prevedere il tempo, e la figlia di un locandiere imparava a capire chi sarebbe rimasto per la notte, prima ancora che la persona in questione se ne rendesse conto.

I cavalli fremevano nel recinto, sbuffando e avvertendosi a vicenda del temporale in arrivo. In ogni gruppo di cavalli, rifletté la piccola Peggy, dev’essercene uno particolarmente stupido, al quale gli altri debbono continuamente spiegare che cosa sta succedendo. Un temporale coi fiocchi, si dicevano. Ci bagneremo fino alle ossa, se il fulmine non c’incenerisce prima. E il cavallo stupido continuava a nitrire dicendo: che cos’è questo rumore, che cos’è questo rumore?

Poi il cielo di colpo si squarciò, cominciando a rovesciare acqua sulla superficie della terra con tale violenza da strappare le foglie dagli alberi. La pioggia cadeva così fitta che per qualche momento la piccola Peggy non riuscì nemmeno più a vedere la fucina, e pensò che forse, era stata trascinata via dal torrente. Il nonno le aveva spiegato che quel torrente andava a finire nel fiume Hatrack, l’Hatrack si riversava nell’Hio, e l’Hio si scaraventava attraverso i boschi fino al Mizzipy, che a sua volta scendeva fino al mare; e il nonno aggiungeva che il mare beveva tanta di quell’acqua da farsi venire l’indigestione, e poi faceva i più immensi rutti che si potessero immaginare, e da quei rutti venivano fuori le nuvole. Rutti dal mare, e adesso la fucina avrebbe navigato fin laggiù, sarebbe stata inghiottita e poi ributtata fuori con un rutto, e un bel giorno lei se ne sarebbe andata a passeggio pensando ai fatti propri e qualche nuvola si sarebbe aperta e, plop!, la fucina sarebbe caduta giù tutt’intera con il vecchio Makepeace Smith intento a martellare sulla sua incudine come se nulla fosse accaduto.

Poi la pioggia diminuì appena, e quando la piccola Peggy tornò a rivolgere lo sguardo verso il basso la fucina era di nuovo al suo posto. Ma non fu questo ciò che vide. No, ciò che vide erano le faville che brillavano laggiù nella foresta, sull’Hatrack, là dove si trovava il guado, solo che oggi con quella pioggia nessuno avrebbe potuto attraversarlo. Faville, tante faville, e la piccola Peggy sapeva che ciascuna era una persona. Ormai non doveva nemmeno più pensarci, le veniva fatto, le bastava vederne la fiamma vitale per avvicinarsi e guardare dentro. Forse il futuro, forse il passato, in quella fiamma coesistevano tutte le visioni.

L’immagine che scorse in quel momento era la stessa in ogni cuore. Un carro in mezzo all’Hatrack con l’acqua che saliva, e su quel carro c’era tutto ciò che essi possedevano al mondo.

La piccola Peggy non era una gran chiacchierona, ma tutti sapevano ch’era una fiaccola, e di conseguenza quando annunciava guai le davano subito ascolto. Specialmente quel genere di guai. Da quelle parti i primi insediamenti risalivano a parecchi anni addietro, molto prima che nascesse la piccola Peggy, ma nessuno di coloro che vi abitavano aveva ancora dimenticato che un carro trascinato via da una piena, a chiunque appartenesse, rappresentava una perdita per tutti.

La piccola Peggy quasi volò per la discesa erbosa, saltando le buche degli scoiattoli terricoli e lasciandosi scivolare giù per i tratti più ripidi, così che non erano passati più di venti secondi dal momento in cui aveva visto quelle lontane fiamme vitali, quando la piccola Peggy parlò con voce chiara e forte nel bel mezzo della bottega del fabbro. Sulle prime il contadino di West Fork avrebbe voluto farle aspettare che lui avesse finito di raccontare di certi temporali in mezzo ai quali gli era capitato di trovarsi, a sentir lui ben peggiori di quello. Ma Makepeace, che conosceva bene la piccola Peggy, le prestò immediatamente ascolto, e poi ordinò ai ragazzi di sellare quei cavalli, ferri o non ferri, c’era gente in mezzo al guado dell’Hatrack e non era il momento di perdersi in sciocchezze. La piccola Peggy non ebbe neanche il tempo di vederli partire: Makepeace l’aveva già spedita alla casa grande a chiamare suo padre, la servitù, gli uomini di fatica, tutti insomma. C’era forse uno solo di loro che una volta nella vita non avesse caricato su un carro tutto ciò che possedeva e non si fosse avventurato per quelle piste di montagna fino ad arrivare alla foresta? C’era forse uno solo di loro che non avesse sentito il carro tremare sotto l’impeto dell’acqua di un fiume che cercava di portarglielo via? Nessuno di loro perse un istante. Ecco come andavano le cose a quei tempi. Quando qualcuno si trovava nei guai, tutti si comportavano esattamente come se in quei guai ci fossero stati loro.

IV

IL FIUME HATRACK

Vigor e gli altri ragazzi si misero dietro il carro a spingere, mentre Eleanor a cassetta incitava i cavalli. Alvin Miller, intanto, era impegnato nel tentativo di portare le bambine una alla volta al sicuro sull’altra sponda. La corrente era un diavolo che lo artigliava mormorando: mi prenderò le tue bambine, me le prenderò tutte, ma Alvin disse di no con ogni muscolo del suo corpo mentre avanzava faticosamente verso la riva, disse di no a quel mormorio, finché le bambine non furono sulla sponda, inzuppate da capo a piedi, con la pioggia che rigava loro il viso come le lacrime di tutto il dolore del mondo.

Avrebbe portato sulla riva anche Faith, col pancione e tutto, ma lei non volle sentir ragioni. Seduta dentro il carro, si aggrappava ai bauli e ai mobili mentre il fragile veicolo tremava e beccheggiava. Un fulmine cadde con un fragore assordante, spezzando alcuni rami; uno di questi cadendo strappò il telone del carro, e l’acqua cominciò a riversarsi all’interno, ma Faith, con le nocche sbiancate e gli occhi sbarrati, non volle saperne di mollare la presa. Da quel suo sguardo Alvin capì che non avrebbe potuto convincerla in nessun modo a lasciar perdere. C’era un solo modo per far uscire Faith e il nascituro da quel fiume, e cioè tirare il carro fuori di lì.

«I cavalli non riescono a trovare un punto d’appoggio, papà» urlò Vigor. «Non fanno che inciampare, e prima o poi uno di loro si romperà una gamba».

«Be’, non possiamo venirne fuori senza i cavalli!»

«I cavalli sono pur sempre qualcosa, papà. Se continuiamo a tenerli attaccati, perdiamo loro e il carro!»

«Tua madre non vuole scendere».

Negli occhi di Vigor, Alvin Miller scorse un lampo di comprensione. Non valeva la pena di rischiare la vita per le cose che il carro trasportava. Ma per la mamma, sì.

«Però dalla riva i cavalli potrebbero fare forza» disse Vigor. «Qui in acqua non servono a niente».

«Di’ ai ragazzi che li stacchino. Ma prima lega una corda a un albero per trattenere il carro!»

Nel giro di due minuti i gemelli Wastenot e Wantnot (Nonspreco e Nonvoglio) erano sulla sponda e assicuravano la fune a un grosso albero. David e Measure legavano un’altra corda all’attacco dei cavalli, mentre Calm tagliava i finimenti che li univano al carro. Bravi ragazzi, che facevano esattamente quel che veniva loro richiesto. Adesso era Vigor che urlava gli ordini, mentre Alvin poteva solo guardale, impotente, dal retro del carro, volgendo lo sguardo ora verso Faith che cercava di non partorire, ora verso il fiume Hatrack che cercava di spedirli tutti quanti all’inferno.

Come fiume non era granché, così aveva detto Vigor, ma poi le nubi si erano infittite e la pioggia aveva cominciato a cadere, e alla fine anche lo Hatrack si era trasformato in qualcosa di cui tener conto. Eppure quando c’erano arrivati gli era sembrato di poterlo attraversare. I cavalli erano entrati in acqua senza esitare, e Alvin aveva appena aperto bocca per dire a Calm, che teneva le redini: «Be’, ce l’abbiamo fatta proprio per un pelo», quando il fiume era impazzito. In un istante la corrente era raddoppiata in forza e velocità, e i cavalli, presi dal panico, avevano perso il senso della direzione e avevano cominciato a tirare in direzioni opposte. I ragazzi erano saltati tutti quanti in acqua per cercare di guidarli verso riva, ma ormai il carro aveva perso l’abbrivio e le ruote erano affondate nel fango fino a bloccarsi. Sembrava quasi che il fiume sapesse che stavano arrivando, e avesse tenuto in serbo il massimo della furia per il momento in cui loro si fossero trovati in mezzo al guado, senza possibilità di scampo.

«Attenti! Attenti!» urlò Measure dalla sponda.

Alvin guardò a monte per vedere quale diavoleria il fiume stesse loro preparando, e vide un intero albero correre sul filo della corrente, orientato per il lungo come un ariete da assedio, le radici dirette verso il centro del carro, proprio dove era seduta Faith, col suo bambino sul punto di venire al mondo. Alvin non riuscì a pensare a niente, non riuscì a pensare affatto, si limitò a urlare il nome di sua moglie con quanto fiato aveva in gola. Forse in cuor suo pensava, tenendo il suo nome sulle labbra, di poterla mantenere in vita, ma non c’era da sperarlo, neanche per idea.

Vigor però non sapeva che non c’erano più speranze. Vigor si slanciò dalla sponda del carro quando l’albero era a non più di una pertica di distanza, finendo proprio sopra la radice. L’impeto del salto spostò leggermente il tronco, poi lo fece girare su se stesso, quindi girare ancora, allontanandolo dal carro. Vigor naturalmente girò insieme al tronco, finendo subito sott’acqua — ma funzionò: le radici mancarono completamente il carro, e il tronco lo urtò solo di lato.

Il tronco rimbalzò attraverso il fiume, andandosi a schiantare contro un macigno sulla riva. Alvin era a cinque pertiche di distanza, ma da quel momento in poi nella sua memoria rivide sempre quella scena come se si fosse trovato proprio lì. L’albero che sbatteva violentemente contro il macigno, con Vigor nel mezzo. Solo una frazione di secondo lunga un’eternità, gli occhi di Vigor sgranati dalla sorpresa, il sangue che già gli usciva a fiotti dalla bocca, imbrattando l’albero che lo aveva ucciso. Vigor scivolò sott’acqua con tutto il corpo, tranne un braccio, rimasto impigliato nelle radici che si drizzavano in aria proprio come un vicino che ti saluta con la mano dopo una visita.

Alvin era così intento a guardare il figlio morente che non si accorse nemmeno di ciò che stava accadendo a lui. L’impatto dell’albero era stato sufficiente a sbloccare le ruote affondate nel fango, e la corrente, impadronitasi del carro, lo spinse a valle, con Alvin aggrappato alla ribalta posteriore, Faith che piangeva all’interno, Eleanor che urlava a più non posso dalla cassetta, e i ragazzi che dalla sponda gridavano: «Reggi! Reggi! Reggi!».

E la fune resse, legata per un capo a un albero, per l’altro al carro; sì, resse. Il fiume non riuscì a trascinare il carro a valle; lo fece soltanto girare lentamente verso riva, come un bambino che fa dondolare un sasso appeso a uno spago, e quando il carro scricchiolando si arrestò, questo avvenne proprio contro la sponda, col timone girato verso monte.

«Ha retto!» esclamarono i ragazzi.

«Sia ringraziato il Signore!» gridò Eleanor.

«Il bambino sta venendo» sussurrò Faith.

Ma tutto ciò che Alvin riusciva a udire era quell’unico grido soffocato, l’ultimo suono uscito dalla gola del suo primogenito; tutto ciò che riusciva a vedere era il suo ragazzo aggrappato all’albero che capitombolava nell’acqua; e tutto ciò che poté dire fu una sola parola, un unico ordine. «Vivi» sussurrò. Fino a quel momento, Vigor gli aveva sempre obbedito. Gran lavoratore, compagno volonteroso, più amico o fratello che figlio. Ma stavolta Alvin sapeva che il figlio gli avrebbe disobbedito. Eppure lo sussurrò ugualmente. «Vivi».

«Siamo salvi?» chiese Faith con voce tremante.

Alvin si voltò per affrontarla, cercando di cancellare l’angoscia dal proprio viso. Non avrebbe avuto senso farle sapere il prezzo che Vigor aveva pagato per salvare lei e il bambino. Per questo ci sarebbe stato tempo a sufficienza dopo la nascita del piccolo. «Sei in grado di scendere dal carro?»

«Che cos’è successo?» chiese Faith, scrutandolo.

«Mi sono preso una gran paura. Quell’albero avrebbe potuto ammazzarci. Sei in grado di scendere, adesso che siamo a riva?»

Eleanor si sporse verso di loro dalla cassetta. «David e Calm sono a riva, e possono aiutarti a scendere. Per adesso la fune regge, mamma, ma chi può dire per quanto?»

«Forza, mamma, un passo e ci sei» la incitò Alvin. «Sapendoti al sicuro sulla sponda, ce la caveremo meglio anche col carro».

«Il bambino sta venendo» disse Faith.

«Meglio a riva che qui» disse Alvin seccamente. «Scendi adesso».

Faith si tirò in piedi, arrancando goffamente verso la parte anteriore del carro. Alvin la seguì, pronto ad aiutarla se fosse inciampata. Persino lui si accorse di come la pancia le fosse scesa. Probabilmente il bambino stava già cercando di prendere fiato.

Sulla riva adesso non c’erano più soltanto David e Calm. C’erano degli sconosciuti, tutti uomini grandi e grossi, e alcuni cavalli. Ma la vista più gradita fu certamente quella di un piccolo carro. Alvin non aveva la minima idea di chi fossero quegli uomini, o di come avessero saputo che c’era da dare una mano, ma non era certo il caso di perdere tempo nelle presentazioni. «Ehi, voi! In quella locanda c’è per caso una levatrice?»

«Comare Guester sa farli nascere, i bambini» disse uno degli sconosciuti, un omaccione con due braccia che parevano le cosce di un bue. Un fabbro, sicuramente.

«Potreste portare mia moglie da lei, con quel carro? Non c’è un momento da perdere». Alvin sapeva che per un uomo era disdicevole parlare con tanta franchezza del parto davanti alla donna che stava per dare alla luce un bambino. Ma Faith non era una stupida, sapeva che cosa contava veramente, e giungere dove ci fossero un letto e una levatrice competente era più importante che girare in punta di piedi intorno alla questione.

David e Calm aiutarono premurosamente la madre ad arrivare al carro in attesa. Faith barcollava dal dolore. Sicuramente scendere dal sedile di un carro alla sponda di un fiume non era l’esercizio più indicato per una donna in travaglio. Eleanor le stava alle spalle, e aveva preso in mano la situazione come se non fosse stata più piccola di tutti i suoi fratelli maschi, tranne i gemelli. «Measure! Raduna le bambine. Verranno sul carro con noi. Anche voi, Wantnot e Wastenot! So che potete aiutare i grandi, ma ho bisogno che badiate alle piccole mentre io sto con la mamma». Eleanor non era mai stata un tipo da prendere alla leggera, e la gravità della situazione era tale che nell’obbedire non si azzardarono nemmeno a chiamarla Eleonora d’Aquitania. Persino le bambine smisero quasi completamente di bisticciare e si affrettarono a salire sul carro.

Sulla sponda, Eleanor si voltò a guardare suo padre, seduto a cassetta. Gettò un’occhiata a valle, poi tornò a guardarlo con aria interrogativa. Alvin comprese la domanda, e col capo fece cenno di no. Faith non doveva venire a sapere del sacrificio di Vigor. Nonostante cercasse di controllarsi, negli occhi di Alvin spuntarono le lacrime. Ma non in quelli di Eleanor. Eleanor aveva solo quattordici anni, ma quando non voleva piangere, non piangeva.

Wastenot diede una voce al cavallo, e il piccolo carro si mosse bruscamente in avanti. Faith trasalì sotto la pioggia battente, mentre le figlie le davano affettuosi colpetti sulle spalle. Lo sguardo della donna era malinconico come quello di una mucca, e altrettanto incurante di ciò che la circondava, mentre si volgeva a guardare il marito e il fiume. In momenti come quello del parto, pensò Alvin, la donna si trasforma in una bestia; la mente s’intorpidisce, e il corpo prende il sopravvento mentre compie il suo dovere. Come avrebbe potuto sopportare tanto dolore, altrimenti? Era come se l’anima stessa della terra avesse preso possesso di lei nello stesso modo in cui possiede l’anima degli animali, rendendola parte del flusso universale della vita, liberandola dalla famiglia, dal marito, da tutti i legami ai quali la razza umana è soggetta, per condurla nella valle della maturazione, del raccolto, della mietitura, del sangue e della morte.

«Presto sarà al sicuro» disse il fabbro. «E qui abbiamo cavalli robusti con cui tirar fuori il vostro carro».

«Sta diminuendo» disse Measure. «La pioggia si è diradata, e anche la corrente è meno violenta».

«Non appena vostra moglie ha messo piede sulla riva, il temporale ha cominciato a calmarsi» disse un tale dall’aspetto da contadino. «E sta smettendo di piovere, questo è certo».

«Il peggio l’avete preso voi in mezzo al guado» disse il fabbro. «Ma vi è andata bene. Forza, amico, fatevi animo che c’è da lavorare».

Solo allora Alvin riprese il controllo di se stesso al punto di accorgersi che stava piangendo. C’era da lavorare, giusto, fatti animo, Alvin Miller. Non sei uno smidollato capace solo di frignare come un bambino. Altri uomini hanno perso una dozzina di figli e hanno continuato a vivere. Tu ne hai avuti dodici, e Vigor è vissuto sino a farsi uomo, anche se non è arrivato a sposarsi e ad avere a sua volta dei figli. Forse Alvin piangeva perché Vigor era morto così nobilmente; o forse perché tutto era accaduto così all’improvviso.

David toccò il braccio del fabbro. «Lasciamolo da solo per un momento» disse a voce bassa. «Nostro fratello maggiore è stato portato via dal fiume non più di dieci minuti fa. È rimasto impigliato in un albero trascinato dalla corrente».

«Non è rimasto impigliato» disse Alvin seccamente. «È saltato sull’albero e ha salvato il nostro carro, e tua madre che c’era dentro! Il fiume si è vendicato, ecco cos’è successo, l’ha voluto punire!»

Calm si rivolse pacatamente agli uomini del posto. «L’albero lo ha trascinato contro quel macigno laggiù». Tutti guardarono. Sulla pietra non c’era traccia di sangue. A vederla adesso, sembrava così innocente.

«Lo Hatrack è un fiume traditore» disse il fabbro, «ma non l’avevo mai visto così infuriato. Mi dispiace per il vostro ragazzo. Più a valle c’è un tratto di acqua bassa e lenta. Sicuramente lo ritroverete laggiù. Tutto quello che il fiume si prende, va a finire in quel posto. Quando il temporale si calma, possiamo scendere e andare a riprendere il… e andare a riprendere vostro figlio».

Alvin si asciugò gli occhi sulla manica, ma siccome questa era fradicia ciò non gli servì a molto. «Concedetemi qualche istante, e sarò in grado di fare la mia parte» disse.

Attaccarono altri due cavalli, e le quattro bestie non ebbero difficoltà a tirare fuori il carro dalla corrente, adesso molto meno impetuosa. Quando il carro fu di nuovo sulla pista e in condizione di riprendere il cammino, tra le nuvole faceva addirittura capolino il sole.

«E chi ci capisce nulla» disse il fabbro. «Da queste parti, se per caso non ti piace il tempo che fa, basta fare uno scongiuro e quello cambia».

«Non in questo caso» ribatté Alvin. «Questo temporale stava proprio aspettando noi».

Il fabbro gli mise un braccio sulle spalle e gli si rivolse con grande gentilezza. «Senza offesa, amico, ma sono discorsi che non stanno né in cielo né in terra».

Alvin si staccò da lui con un’alzata di spalle. «Quel temporale e quel fiume volevano proprio noi».

«Papà» disse David. «Sei stanco e addolorato. Meglio starsene tranquilli finché non arriviamo alla locanda e non vediamo come sta mamma».

«Quel bambino sarà un maschio» disse Alvin Miller. «Vedrete. Sarebbe stato il settimo figlio maschio d’un settimo figlio maschio».

Queste parole attirarono immediatamente l’attenzione del fabbro e del resto della compagnia. Che un settimo figlio avesse certi poteri era risaputo, ma il settimo figlio di un settimo figlio era sicuramente un caso straordinario, dal quale c’era d’aspettarsi di tutto.

«Questo cambia le cose» disse il fabbro. «Sarebbe stato sicuramente un rabdomante nato, e l’acqua li odia, i rabdomanti».

«L’acqua l’ha avuta vinta» mormorò Alvin. «L’ha avuta vinta, e basta. Se avesse potuto, avrebbe ucciso Faith e il bambino. Ma siccome non ci è riuscita, ebbene, ha ucciso il mio ragazzo, Vigor. E adesso quando il bambino nascerà sarà solo il sesto, perché di figli maschi me ne sono restati cinque».

«C’è chi. dice che non importa se i primi sei sono vivi oppure no» disse un contadino.

Alvin rimase in silenzio. Ma sapeva benissimo che importava, eccome. Aveva creduto che quel bambino potesse diventare un essere straordinario, ma il fiume aveva trovato il modo di occuparsene per primo. Prima o poi, l’acqua trovava sempre il modo di fermarti. Non avrebbe dovuto sperare in un figlio miracoloso. Il prezzo era stato troppo alto. Tutto ciò che i suoi occhi riuscirono a vedere, sulla strada della locanda, fu Vigor sballottato in mezzo alle radici, Vigor che capitombolava nella corrente come una foglia catturata da un mulinello di vento, col sangue che gli sgorgava a fiotti dalla bocca per placare la sete omicida dello Hatrack.

V

IL CAPPUCCIO

In piedi davanti alla finestra, la piccola Peggy guardava il temporale. Riusciva ancora a vedere tutte le fiamme vitali, e specialmente una, che a guardarla era luminosa come il sole. Ma tutt’intorno c’era solo il buio. No, nemmeno il buio… il nulla, come una parte dell’universo che Dio non fosse riuscito a finire, e che adesso turbinava intorno a quelle luci come per allontanarle a forza una dall’altra, trascinandole via, inghiottendole. La piccola Peggy sapeva che cos’era quel nulla. Le volte che i suoi occhi scorgevano quelle calde fiamme gialle, c’erano anche altri tre colori. L’intenso, scuro arancio della terra. Il pallido grigio dell’aria. E il nero e profondo vuoto dell’acqua. Adesso era l’acqua che cercava di portarseli via. Il fiume… il fiume, che lei non aveva mai visto così nero, così impetuoso, così terribile. E quelle fiammelle erano talmente minuscole, nel buio della notte.

«Che cosa vedi, bambina mia?» chiese il nonno.

«Il fiume sta per portarseli via» disse la piccola Peggy.

«Speriamo di no».

La piccola Peggy si mise a piangere.

«Su, su, bambina mia» disse il nonno. «In fin dei conti, non è sempre una fortuna poter vedere così lontano, eh?»

La piccola Peggy scosse la testa.

«Ma forse finirà meglio di come pensi».

In quel preciso istante, Peggy scorse una delle fiammelle staccarsi dalle altre e turbinare via nell’oscurità. «Oh!» esclamò, tendendo la mano come per afferrare quella luce e rimetterla a posto. Ma non poteva, si capisce. Se il suo sguardo vedeva chiaro e lontano, il suo braccio arrivava molto più vicino.

«Sono perduti?» chiese il nonno.

«Uno» mormorò la piccola Peggy.

«Makepeace e gli altri non sono ancora arrivati?»

«In questo istante» disse la piccola Peggy. «La fune ha tenuto. Adesso sono al sicuro».

Il nonno non le chiese come facesse a saperlo, o che cosa vedesse. Si limitò a darle degli affettuosi colpetti sulla spalla. «Perché gliel’hai detto tu. Ricordatelo sempre, Margaret. Uno è perduto, ma se tu non li avessi visti e non avessi mandato qualcuno ad aiutarli, sarebbero potuti morire tutti quanti».

La piccola Peggy scosse la testa. «Avrei dovuto mandarli prima, nonno, ma’ mi ero addormentata».

«E te ne fai una colpa?»

«Avrei dovuto lasciare che Maria la Sanguinaria mi beccasse, e allora papà non si sarebbe arrabbiato, e non me ne sarei andata nel deposito sulla sorgente, e non mi sarei addormentata, e avrei potuto mandargli qualcuno prima…».

«Tutti quanti potremmo attaccare le colpe una in fila all’altra come margherite, Maggie. Ma non ha senso».

Lei però sapeva che un senso ce l’aveva, eccome. Non puoi dare a un cieco la colpa di non averti avvertito se stavi per pestare un serpente… ma a uno che ci vede e non ti dice niente, sicuramente sì. E lei sapeva quale fosse il suo dovere sin dalla prima volta che si era resa conto che gli altri non potevano vedere tutto quello che lei vedeva. Dio le aveva donato occhi speciali, e quando gli altri erano in pericolo lei doveva avvertirli, o il diavolo si sarebbe preso la sua anima. Il diavolo, o i neri abissi del mare.

«Non ha nessun senso» mormorò il nonno. Poi, come se qualcuno gli avesse sferrato un colpo d’ariete nel didietro, si drizzò all’improvviso esclamando: «Il deposito sulla sorgente! Ma certo, il deposito sulla sorgente!». Se la tirò vicina. «Ascoltami bene, piccola Peggy. Non è stata colpa tua, ed è la pura verità. La stessa acqua che scorre nello Hatrack scorre anche nel ruscello che attraversa il deposito. È sempre la stessa acqua, in tutto il mondo. La stessa acqua che li voleva morti sapeva che avresti dato l’allarme e avresti mandato qualcuno ad aiutarli. Così ti ha cantato la ninnananna finché non ti sei addormentata».

La cosa le parve sensata, eccome. «E com’è possibile, nonno?»

«Oh, è nella sua natura, tutto qui. L’intero universo è composto di quattro tipi soltanto di sostanze, piccola Peggy, e ciascuna di queste sostanze vuole fare a modo suo». Peggy pensò ai quattro colori che distingueva quando vedeva ardere le fiamme vitali, e capì subito che cosa il nonno intendesse. «Il fuoco rende le cose calde e luminose, e le consuma. L’aria le rende fresche, e s’insinua dappertutto. La terra le rende solide e compatte, in modo che durino. Ma l’acqua distrugge tutto, cade dal cielo e trascina via tutto quello che può, e se lo porta fino al mare. Se l’acqua potesse fare a modo suo, il mondo intero ora sarebbe liscio, un unico immenso oceano in cui niente sarebbe fuori della sua portata. Tutto sarebbe morto e liscio. Ecco perché ti ha fatto dormire. L’acqua voleva portarsi via quegli stranieri, voleva portarseli via e ucciderli. È un miracolo che tu ti sia svegliata».

«È stato il martello del fabbro a svegliarmi» disse la piccola Peggy.

«Allora è proprio come ti ho detto io, capisci? Il fabbro stava lavorando il ferro, la più dura delle terre, col violento getto d’aria del mantice e con un fuoco così rovente da bruciare l’erba fuori del camino. Non potendo toccarlo, l’acqua non è riuscita a fermarlo».

La piccola Peggy trovava difficile crederlo, ma non c’erano altre spiegazioni possibili. Era stato il fabbro a destarla da quel sonno acquatico. Il fabbro l’aveva aiutata. Be’, c’era proprio da farci su una bella risata, sapendo che stavolta il fabbro era stato suo amico.

Dalla veranda al piano di sotto si udirono delle grida, e un rumore di porte che si aprivano e si chiudevano. «Qualcuno è già qui» disse il nonno.

La piccola Peggy vide al piano di sotto le fiamme vitali, e subito riconobbe quella in cui erano più forti la paura e il dolore. «È la madre» disse la piccola Peggy. «Sta per partorire».

«Guarda un po’ se non è una fortuna. Perdi un figlio, ed ecco che ne arriva un altro a sostituire la morte con la vita». Con la sua andatura dinoccolata, il nonno uscì dalla stanza per scendere a dare una mano.

La piccola Peggy invece restò dov’era, a guardare la scena in corso sul fiume. Subito si avvide che la fiamma perduta non era affatto perduta. La scorgeva ardere in lontananza, nonostante l’oscurità del fiume cercasse di coprirla. Non era morto, l’acqua l’aveva solo portato via, e forse qualcuno avrebbe potuto aiutarlo. Allora corse fuori, e superando di gran carriera il nonno si precipitò giù per le scale.

Sua madre l’afferrò per un braccio proprio mentre stava per fare irruzione nella sala grande. «Una donna sta per partorire» disse la mamma, «e abbiamo bisogno di te».

«Ma mamma, quello che è stato portato via dal fiume è ancora vivo!»

«Peggy, non abbiamo il tempo di…».

Due ragazzi dai visi identici s’intromisero nella conversazione. «Quello che è stato portato via dal fiume!» esclamò il primo.

«Ancora vivo!» esclamò il secondo.

«Come fai a saperlo?»

«Non è possibile!»

Poiché parlavano tutti e due insieme, per capire quel che dicevano la mamma dovette prima zittirli. «Era Vigor, il nostro fratello maggiore, è stato trascinato via…».

«Ebbene, è ancora vivo» disse la piccola Peggy, «ma il fiume se l’è preso».

I gemelli guardarono sua madre in cerca di conferma. «Possiamo fidarci di lei, comare Guester?»

La mamma annuì, e i ragazzi corsero verso la porta urlando: «È vivo! È ancora vivo!».

«Sei sicura?» chiese ferocemente la mamma. «Se non fosse vero, sarebbe una vera crudeltà risvegliare la speranza nei loro cuori».

Gli occhi lampeggianti della mamma spaventarono la piccola Peggy, che non riuscì a spiccicar parola.

Ma a quel punto alle sue spalle era sopraggiunto il nonno. «Suvvia, Peg» disse, «come faceva a sapere che uno di loro era stato portato via dal fiume, se non l’avesse visto?»

«Lo so, lo so» disse la mamma. «Ma questa donna ha aspettato anche troppo a partorire, e sono in pensiero per il bambino, perciò adesso, piccola Peggy, vieni con me, perché ho bisogno che tu mi dica che cosa vedi».

La mamma condusse la piccola Peggy nella camera da letto accanto alla cucina, quella dove dormivano papà e mamma quando in casa c’erano ospiti. La donna era distesa sul letto e stringeva forte la mano di una ragazza alta dallo sguardo profondo e solenne. La piccola Peggy non conosceva i loro volti, ma ne riconobbe le fiamme vitali, specialmente quella impaurita e sofferente della madre.

«Qualcuno ha gridato» mormorò quest’ultima.

«Non parlate, adesso» disse la mamma.

«Ha detto che era ancora vivo».

La ragazza dallo sguardo solenne aggrottò la fronte nella direzione della mamma di Peggy.

«È vero, comare Guester?»

«Mia figlia è una fiaccola. Ecco perché l’ho portata qui. Perché vedesse il bambino».

«Ha per caso visto il mio ragazzo? È vivo?»

«Credevo che tu non gliel’avessi detto, Eleanor» disse la mamma di Peggy.

La ragazza dallo sguardo solenne scosse la testa.

«L’ho visto dal carro. È vivo?»

«Diglielo, Margaret» disse la mamma.

La piccola Peggy si voltò in direzione del fiume per cercare la fiamma vitale. Quando ricorreva a quel genere di vista, per lei non esistevano più pareti. La fiamma ardeva ancora, sebbene ormai lontanissima. Questa volta, però, la piccola Peggy le si avvicinò alla sua maniera per osservarla meglio.

«È nell’acqua. È impigliato nelle radici».

«Vigor!» esclamò la donna distesa sul letto.

«Il fiume lo vuole. Muori, muori, dice il fiume».

La mamma toccò il braccio della donna. «I gemelli sono andati a dirlo agli altri. Andranno a cercarlo».

«Al buio!» mormorò incredula la donna.

La piccola Peggy riprese a parlare. «Penso che stia recitando una preghiera. Sta dicendo… settimo figlio».

«Settimo figlio» sussurrò Eleanor.

«Che cosa significa?» chiese la mamma.

«Se questo bambino è maschio» disse Eleanor, «e nasce mentre Vigor è ancora in vita, allora sarà il settimo figlio d’un settimo figlio, e tutti quanti vivi».

La mamma restò senza fiato per la sorpresa. «Non c’è da stupirsi se il fiume…» disse. Non era necessario che finisse la frase. Prese invece la piccola Peggy per mano e la condusse davanti alla donna distesa. «Guarda il bambino, e dimmi quel che vedi».

Per la piccola Peggy non era la prima volta, si capisce. Era così che le fiaccole in genere si rendevano utili, guardando il bambino non ancora nato al momento del parto. Sì, anche per vedere come era messo, ma soprattutto perché qualche volta la fiaccola riusciva a scorgere chi era quel bambino, che cosa sarebbe diventato, e poteva raccontare storie di un tempo di là da venire. Ancor prima di sfiorare il ventre della donna, la piccola Peggy scorse la fiamma vitale del bambino. Era quella che aveva visto anche prima, quella che ardeva così calda e luminosa che paragonarla a quella della madre era come paragonare il sole alla luna. «È un maschio» disse.

«E allora che io partorisca questo bambino» disse la madre. «Che egli respiri mentre Vigor respira ancora!»

«Com’è messo?» chiese la mamma.

«Come dev’essere» disse la piccola Peggy.

«A testa in avanti? Con la faccia in basso?»

La piccola Peggy annuì.

«E allora perché non esce?» chiese la mamma.

«È lei che gli sta dicendo di non uscire» disse la piccola Peggy, rivolgendo lo sguardo alla donna.

«Nel carro» disse quest’ultima. «Stava per uscire, e allora gli ho fatto una fattura».

«Avreste dovuto dirmelo subito» la rimproverò la mamma. «Mi chiedete di aiutarvi, e neanche mi dite che ha addosso una fattura. Tu, ragazza!»

In piedi contro il muro c’erano diverse ragazzine che la guardavano a occhi sgranati, senza capire a chi di loro volesse riferirsi.

«Una qualsiasi di voi! Ho bisogno di quella chiave di ferro appesa al muro, quella con l’anello».

La più grande staccò in modo maldestro la chiave dal gancio e gliela portò, anello e tutto.

La mamma fece oscillare il grosso anello con la chiave sopra la pancia della donna, salmodiando a bassa voce:

Ecco il cerchio spalancato
e la chiave dell’uscita
sia ferro la terra, la fiamma sia chiara
orsù, cadi dall’acqua nell’aria.

La donna gridò, improvvisamente attraversata da una fitta lancinante. La mamma gettò la chiave, tirò via il lenzuolo, alzò le ginocchia della donna e selvaggiamente ordinò alla piccola Peggy di vedere.

La piccola Peggy toccò il ventre gonfio della donna. La mente del bambino era vuota, salvo per una sensazione di pressione e di freddo incipiente al contatto con l’aria. Ma quel suo stesso vuoto mentale le permetteva di vedere cose che mai più sarebbero state visibili con altrettanta chiarezza. I possibili sentieri della sua esistenza gli si spalancavano dinanzi a miliardi, in attesa che egli facesse le sue prime scelte, che i primi cambiamenti nel mondo intorno a lui eliminassero a ogni istante un milione di futuri. Ogni persona aveva dentro di sé il proprio futuro, fuggevole ombra che la piccola Peggy riusciva a scorgere solo in rare occasioni, e mai chiaramente, sempre celata dietro i pensieri dell’attimo presente; ma adesso, per pochi preziosi momenti, la piccola Peggy riusciva a scorgerlo con estrema chiarezza.

E vide la morte in fondo a ogni sentiero. Annegare, annegare, ogni sentiero del suo futuro portava quel bambino verso una morte nell’acqua.

«Perché lo odi tanto!» esclamò la piccola Peggy.

«Che cosa?» domandò Eleanor.

«Zitta» disse la mamma. «Lasciatela guardare».

«Tiratelo fuori e fatelo respirare!» gridò la piccola Peggy.

A costo di provocare nuovo strazio, la mamma mise dentro una mano, e le sue forti dita agguantarono il bambino per il mento, cominciando a estrarlo.

In quel momento, mentre nella mente del bambino quell’acqua tenebrosa rifluiva, e un istante prima ch’egli cominciasse a respirare, la piccola Peggy vide sparire dieci milioni di morti causate dall’acqua. Adesso, per la prima volta, gli si erano schiusi alcuni sentieri che lo conducevano verso un futuro abbagliante. E tutti i sentieri che non si concludevano con una morte prematura avevano qualcosa in comune. In tutti quei sentieri la piccola Peggy scorse se stessa compiere una semplice azione.

La piccola Peggy non esitò. Tolse le mani dal ventre che si andava sgonfiando, e s’insinuò sotto il braccio della donna. La testa del bambino era appena comparsa, coperta da una sorta di cappuccio insanguinato, parte del sacco di morbida pelle nel quale aveva fluttuato nel ventre di sua madre. La bocca spalancata succhiava il sacco in dentro, ma il sacco non si rompeva, e il bambino non riusciva a prendere fiato.

Allora la piccola Peggy fece ciò che si era vista fare nel futuro del bambino. Allungò la mano, prese il cappuccio da sotto il mento del bambino e glielo staccò dal viso. Venne via tutto intero, in un unico pezzo bagnato, e nello stesso istante in cui veniva via e la bocca del bambino fu libera, lui inspirò profondamente e poi lanciò quel grido miagolante che all’udito della partoriente suona come il canto stesso della vita.

La piccola Peggy piegò il cappuccio, la mente ancora presa dalle visioni che aveva scorto lungo i sentieri della vita del bambino. Non sapeva ancora che cosa quelle visioni potessero significare, ma nella sua mente le immagini erano così vivide e precise che seppe che non le avrebbe mai dimenticate. Ne ebbe paura, perché tante cose sarebbero dipese proprio da lei, e da come avrebbe usato il cappuccio ancora caldo che ora stringeva tra le mani.

«Un maschio» disse la mamma.

«È…» mormorò la madre. «È il settimo figlio?»

Occupata a legare il cordone ombelicale, la mamma non aveva il tempo materiale di voltarsi verso la piccola Peggy. «Guarda» sussurrò.

La piccola Peggy andò in cerca di quell’unica fiammella sul fiume lontano. «Sì» disse, perché la fiamma vitale bruciava ancora.

Ma proprio mentre la guardava, la fiamma vacillò e si spense.

«Adesso se n’è andato» disse la piccola Peggy.

La donna sul letto pianse amaramente. Il corpo provato dal parto era scosso dai singhiozzi.

«Affliggersi in occasione della nascita di un figlio» disse la mamma. «Che cosa tremenda».

«Zitta» sussurrò Eleanor rivolta a sua madre. «Mostrati gioiosa, o il bambino ne sarà rabbuiato per tutta la vita!»

«Vigor» mormorò la donna.

«Piuttosto che le lacrime, meglio niente» disse la mamma. Sollevò il bambino che piangeva a perdifiato, ed Eleanor lo prese con mani competenti; evidentemente non era il primo bambino che cullava. La mamma andò al tavolo d’angolo e ne prese una sciarpa di lana tinta prima della tessitura d’un nero uniforme e profondo come la notte. La fece scivolare lentamente sul volto della donna in lacrime dicendo: «Dormi, madre, dormi».

Quando la sciarpa le fu tolta dal viso, il pianto era cessato e la donna dormiva, svuotata di ogni energia.

«Porta il bambino fuori dalla stanza» disse la mamma.

«Non dovrebbe cominciare a poppare?» chiese Eleanor.

«È meglio che lei questo bambino non lo allatti proprio» disse la mamma. «A meno che insieme al latte non vogliate fargli succhiare anche l’odio di sua madre».

«Non può odiarlo» disse Eleanor. «Non è stata colpa sua».

«Penso che il latte questo non lo sappia» disse la mamma. «Non è vero, piccola Peggy? A quale poppa si attaccherà il bambino?»

«A quella di sua madre» disse la piccola Peggy.

La mamma le rivolse uno sguardo penetrante. «Ne sei sicura?»

La bambina annuì.

«Bene, allora le porteremo il bambino quando si sveglierà. Per questa notte non avrebbe comunque bisogno di latte».

Così Eleanor portò il bambino nella sala grande, dove il fuoco scoppiettava per asciugare gli abiti degli uomini, che smisero di scambiarsi storie di piogge e alluvioni di quel tanto che bastava per ammirare il neonato.

In camera, tuttavia, la mamma prese la piccola Peggy per il mento e la fissò a lungo negli occhi. «Adesso devi dirmi la verità, Margaret. È grave che un bambino si nutra d’odio col latte di sua madre».

«Non è lei a odiarlo, mamma» disse la piccola Peggy.

«Che cos’hai visto?»

La piccola Peggy avrebbe voluto rispondere, ma non possedeva le parole per raccontare la maggior parte delle cose che aveva visto. Così abbassò lo sguardo sul pavimento. Dal modo in cui la mamma riprendeva fiato capì ch’era sul punto di darle una bella strigliata. Ma la mamma aspettò, e poi la sua mano scese lieve a carezzare la guancia della piccola Peggy. «Ah, bambina, che giornata hai avuto. Il piccolo sarebbe potuto morire, se tu non mi avessi detto di tirarlo fuori. Sei perfino andata ad aprirgli la bocca… è questo che hai fatto, non è vero?»

La piccola Peggy annuì.

«Per essere una bambina così piccola, mi pare che per oggi tu ne abbia passate anche troppe». La mamma si rivolse alle altre bambine, quelle coi vestiti bagnati, ancora addossate al muro. «Anche voi per oggi ne avete avuto abbastanza. Uscite di qui, lasciate dormire vostra madre, venite ad asciugarvi al fuoco. Vi preparerò la cena».

Ma in cucina si stava già dando da fare il nonno, il quale non volle assolutamente che la mamma alzasse un dito. La mamma allora uscì dalla stanza, e poco dopo era di ritorno col neonato; aveva cacciato fuori gli uomini per poterlo addormentare, e lo cullava facendogli succhiare una delle proprie dita.

Dopo un po’ la piccola Peggy pensò che nessuno avrebbe sentito la sua mancanza, perciò sgattaiolò al piano di sopra fino alla scala a pioli che portava in soffitta, e la salì ratta ratta fino a trovarsi in quell’ampio spazio senza luce che odorava di muffa e di rinchiuso. I ragni non la infastidivano più di tanto, e i topi erano generalmente tenuti a bada dai gatti, per cui non aveva paura. Subito si rimpiattò nel suo nascondiglio segreto, e tirò fuori la scatola di legno intagliato regalatale dal nonno, il quale le aveva raccontato che era appartenuta al bisnonno, che se l’era portata dietro dall’Irlanda del Nord. La scatola era piena dei piccoli tesori dell’infanzia — pietruzze, spaghi, bottoni — ma ora la piccola Peggy sapeva che quegli oggetti non erano niente in confronto all’opera che l’avrebbe impegnata per il resto dei suoi giorni. Vuotò completamente la scatola e ne soffiò via la polvere. Quindi vi depose il cappuccio piegato e chiuse il coperchio.

Sapeva che in futuro avrebbe aperto quella scatola una dozzina di dozzine di volte. Che la scatola l’avrebbe chiamata imperiosamente a sé, l’avrebbe svegliata nel cuore della notte, l’avrebbe strappata agli amici, le avrebbe sottratto i suoi sogni. Tutto perché quel neonato che dormiva dabbasso non aveva alcun futuro tranne la morte nelle acque tenebrose, a meno che lei non avesse usato quel cappuccio per proteggerlo, così come esso lo aveva protetto nel grembo di sua madre.

Per un istante provò uno scatto d’ira all’idea che la sua vita venisse sconvolta in quel modo. Era peggio dell’arrivo del fabbro, sì, peggio di papà e della verga di nocciolo con cui la frustava, peggio della mamma quando la guardava rabbuiata in viso. D’allora in poi tutto sarebbe stato diverso, e questo non era giusto. Tutto per un bambino che non aveva mai invitato, al quale non aveva mai chiesto di venire; che gliene importava, a lei, di quell’accidente di bambino?

Allungò la mano e aprì la scatola, con l’idea di prendere il cappuccio e di gettarlo in un angolo buio della soffitta. Ma anche nell’oscurità scorse un luogo dove il buio era ancora più fitto: presso la propria fiamma vitale, dove il nulla di quel profondo fiume tenebroso stava tramando per trasformarla in un’assassina.

Non lo farò, disse all’acqua. Tu non sei parte di me.

Sì che lo sono, sussurrò l’acqua. Sono dentro di te, e senza di me ti prosciugheresti e moriresti.

Ma non mi puoi comandare, ribatté la piccola Peggy.

Chiuse di nuovo il coperchio e si lasciò scivolare giù per la scala a pioli. Papà diceva sempre che in quel modo si sarebbe beccata qualche scheggia nel sedere. Stavolta ebbe ragione. Il fondoschiena le faceva un male cane, e per arrivare in cucina dal nonno fu costretta a camminare tutta di sbieco. Lui, si capisce, abbandonò i fornelli per toglierle le schegge una per una.

«Non ho più gli occhi per un lavoro del genere, Maggie» protestò lui.

«Ma se hai la vista di un’aquila. L’ha detto papà».

Il nonno ridacchiò. «Ma davvero?»

«Cosa c’è per cena?»

«Vedrai che ti piacerà, Maggie».

La piccola Peggy arricciò il naso. «Dall’odore sembra pollo».

«Hai indovinato».

«Non mi piace il brodo di pollo».

«Non c’è solo il brodo, Maggie. L’ho fatto arrosto, tranne il collo e le ali».

«Mi fa schifo anche il pollo arrosto».

«Il nonno ti ha mai detto una bugia?»

«Naah».

«E allora fai meglio a credermi se ti dico che questo pollo ti farà felice. Prova a indovinare. Perché mai mangiare per cena un certo pollo dovrebbe renderti felice?»

La piccola Peggy ci pensò su a lungo, poi sorrise.

«Maria la Sanguinaria?»

Il nonno le strizzò l’occhio. «L’ho sempre detto che quella gallina era nata per il tegame».

La piccola Peggy lo abbracciò così forte che lui cominciò a emettere suoni strozzati, e poi risero entrambi fino ad avere le lacrime agli occhi.

Più tardi quella stessa notte, molto dopo che la piccola Peggy era andata a letto, riportarono a casa il corpo di Vigor, e papà e Makepeace cominciarono a fabbricare la bara. Alvin Miller sembrava più morto che vivo, anche quando Eleanor gli fece vedere il bambino. Ma poi quest’ultima gli disse: «Quella bambina, la fiaccola. Ha detto che questo bambino è il settimo figlio d’un settimo figlio».

Alvin si guardò intorno in cerca di qualcuno che gli confermasse la notizia.

«Sì, di lei vi potete fidare» disse comare Guester.

Negli occhi di Alvin ricomparvero le lacrime. «Quel ragazzo ha tenuto duro» disse. «Laggiù nell’acqua ha tenuto duro quel tanto che bastava».

«Sapeva quanto fosse importante per te» disse Eleanor.

Poi Alvin prese il bambino, lo strinse a sé e lo guardò negli occhi. «Nessuno gli ha ancora dato un nome, vero?» chiese.

«Certo che no» disse Eleanor. «Il nome di tutti i miei fratelli l’ha scelto la mamma, ma tu hai sempre detto che il settimo figlio si sarebbe chiamato…».

«Come me. Alvin. Settimo figlio maschio d’un settimo figlio maschio, con lo stesso nome di suo padre. Alvin Junior». Si guardò intorno, quindi si volse verso il fiume che scorreva in lontananza attraverso la foresta immersa nell’oscurità. «Mi hai sentito, Hatrack? Si chiamerà Alvin, e nonostante tutto non sei riuscito a ucciderlo!»

Poco dopo gli altri portarono dentro la bara e vi composero il corpo di Vigor, con le candele accese a simboleggiare la fiamma della vita che lo aveva abbandonato. Alvin sollevò il bambino sopra il feretro. «Guarda tuo fratello» sussurrò al neonato.

«Il bambino non può ancora vedere nulla, papà» disse David.

«Questo non è vero, David» disse Alvin. «Non sa cosa vede, ma i suoi occhi possono vedere. E quando sarà abbastanza grande da ascoltare la storia della sua nascita, gli racconterò che ha visto coi suoi stessi occhi suo fratello Vigor, che ha sacrificato la vita per lui».

Prima che Faith fosse di nuovo in condizione di viaggiare trascorsero due settimane. Ma Alvin Miller fece in modo che lui e i ragazzi si guadagnassero il vitto e l’alloggio. Insieme disboscarono un bel tratto di terreno, spaccarono la legna per l’inverno, costruirono alcune carbonaie per Makepeace Smith e allargarono la strada. Quindi abbatterono quattro grandi alberi e costruirono un solido ponte attraverso il fiume Hatrack: un ponte coperto, in modo che anche sotto un temporale la gente potesse attraversare il fiume senza essere bagnata da una sola goccia d’acqua.

La tomba di Vigor era la terza del piccolo cimitero, accanto a quelle delle due sorelline di Peggy. Il giorno della partenza i suoi familiari andarono a salutarlo e a recitare una preghiera. Poi salirono sul carro e si diressero verso ovest. «Ma qui lasciamo per sempre una parte di noi stessi» disse Faith, e Alvin annuì.

La piccola Peggy li guardò partire, poi corse in soffitta, aprì la scatola e strinse il cappuccio del piccolo Alvin. Il bambino non era in pericolo… per il momento, almeno. Per adesso era al sicuro. Rimise il cappuccio nella scatola e chiuse il coperchio. Meglio che ti affretti a diventare qualcuno, piccolo Alvin, pensò, o avrai causato un sacco di scompiglio per nulla.

VI

LA TRAVE DI COLMO

Colpi di scure echeggiavano, uomini robusti levavano inni alla propria fatica, e la struttura della nuova chiesa del reverendo Philadelphia Thrower s’innalzava sopra i pascoli comuni della cittadina di Vigor. Tutto stava accadendo molto più in fretta di quanto il reverendo Thrower avrebbe creduto possibile. Non era ancora stato eretto il primo muro dell’edificio, che quel Rosso ubriacone e orbo da un occhio era capitato lì e si era fatto battezzare, come se la semplice vista della chiesa fosse stata il fulcro sul quale Thrower aveva potuto far leva per elevarlo alla civiltà e alla vera religione. Se perfino un Rosso ignorante come Lolla-Wossiky era giunto a Gesù, quali altre miracolose conversioni si sarebbero potute compiere in quella regione selvaggia quando la chiesa fosse stata finita e il ministero di Thrower avesse acquistato maggiore slancio?

Il reverendo Thrower non era del tutto soddisfatto, tuttavia, perché esistevano nemici della civiltà ben più potenti di quei Rossi miscredenti e barbari, e i segni non erano tutti così promettenti come quando Lolla-Wossiky aveva indossato per la prima volta abiti da bianco. Ciò che in particolare offuscava quella giornata altrimenti così luminosa era che tra coloro i quali davano mano alla costruzione della chiesa non vi fosse anche Alvin Miller. E le scuse addotte dalla moglie per giustificare la sua assenza si erano esaurite. Prima il viaggio d’esplorazione alla ricerca di una cava per la macina del mulino; poi un giorno intero per riposare. Oggi, a rigore, avrebbe dovuto esserci.

«Ebbene, è forse malato?» chiese Thrower.

Faith strinse le labbra. «Quando dico che non verrà, reverendo Thrower, non è per dire che non può venire».

Ciò confermò i precedenti sospetti di Thrower. «Gli ho forse recato offesa senza accorgermene?»

Faith sospirò e distolse lo sguardo dal pastore, verso i pali e le travi della futura chiesa. «Non voi personalmente, reverendo, non come quando, per intenderci, qualcuno pesta i piedi a un altro». Qualcosa richiamò all’improvviso la sua attenzione. «Che cosa succede?»

A fianco dell’edificio, la maggior parte degli uomini era occupata a legare delle corde a una delle due metà della trave di colmo in modo da poterla sollevare al suo posto. Era un lavoro delicato, reso ancora più difficile da due ragazzini sui sei anni che si azzuffavano nella polvere proprio tra i piedi degli uomini. Erano stati proprio i due piccoli lottatori ad attirare lo sguardo di Faith. «Al!» gridò. «Alvin Junior, lascialo andare immediatamente!». Così dicendo, fece due passi verso la nuvola di polvere che oscurava l’eroica lotta dei due monelli.

Il reverendo Thrower non aveva nessuna intenzione di lasciarsela sfuggire così facilmente. «Signora Faith» le disse seccamente. «Alvin Miller è stato il primo a stabilirsi da queste parti, e la gente lo tiene in grande considerazione. Se per qualche motivo si è messo contro di me, questo può danneggiare grandemente il mio ministero. Per lo meno potreste dirmi che cosa ho fatto per recargli offesa».

Faith lo guardò diritto negli occhi, come per calcolare se l’uomo fosse in grado di sopportare la verità. «È stato quel vostro ridicolo sermone, reverendo» disse.

«Ridicolo?»

«Forse non potevate rendervene conto, venendo dall’Inghilterra, ma…».

«Dalla Scozia, signora Faith».

«Ma visto che siete stato educato in scuole in cui a quanto pare regna l’ignoranza a proposito di…».

«L’Università di Edimburgo! E secondo voi vi regnerebbe…».

«A proposito di amuleti, rabdomanzia, incantesimi e cose del genere».

«Io so soltanto che in tutti i paesi soggetti all’autorità del Lord Protettore la pretesa di disporre di simili oscuri e invisibili poteri costituisce un crimine punito col rogo, signora Faith, anche se per clemenza egli si limita a bandire coloro che…».

«Ecco, vedete che mi date ragione» disse Faith trionfante. «Non è così facile che queste cose ve le insegnino all’università, allora, non è vero? Ma noi qui viviamo alla nostra maniera, e chiamarla superstizione…».

«L’ho chiamata isteria…».

«Questo non cambia il fatto che funziona».

«Capisco che crediate che funzioni» disse pazientemente Thrower. «Ma tutto ciò che esiste al mondo o è scienza o è miracolo. Nell’antichità Dio ha operato dei miracoli, ma quei tempi sono passati. Oggi, se vogliamo cambiare il mondo, non è la magia, ma la scienza, a offrirci i suoi strumenti».

Dall’espressione risoluta del viso di Faith, Thrower capì che i propri argomenti non le facevano molta impressione.

«La scienza» disse Faith. «Per esempio tastare i bernoccoli?»

Thrower dubitò che Faith facesse grandi sforzi per celare il suo disprezzo. «La frenologia è una scienza ai primi passi» disse freddamente, «che presenta ancora grandi lacune, ma sto tentando di scoprire…».

Faith rise… una risata da ragazzina che la fece sembrare molto più giovane di una donna che aveva partorito quattordici figli. «Mi rincresce, reverendo Thrower, ma mi è appena tornato in mente che Measure la definisce ‘rabdomanzia dei cervelli’, e dice sempre che da queste parti le vostre ricerche non avranno molta fortuna».

Parole sante, pensò il reverendo Thrower, ma fu abbastanza accorto da non dirlo a voce alta. «Signora Faith, mi sono espresso in quel modo per far capire alla gente che al giorno d’oggi esistono altri e più elevati modi di pensare, e non è più necessario sentirci vincolati alle illusioni della…».

Niente da fare. Faith aveva esaurito la propria scorta di pazienza. «Se non la smette di fare a botte, mio figlio finirà per prendersi una trave in testa. Vogliate scusarmi, reverendo, ma debbo proprio andare». Detto fatto, Faith piombò addosso a Alvin, sei anni, e Calvin, tre anni, come la vendetta del Signore. Quando c’era da dare una lavata di capo a qualcuno, nessuno poteva starle alla pari. Dal punto in cui si trovava, Thrower poté udire i suoi rimproveri perfino con la brezza che spirava in senso contrario.

Quanta ignoranza, si disse Thrower. In questo luogo io sono necessario, non solo come uomo di Dio fra i miscredenti, ma anche come uomo di scienza tra i superstiziosi. Un tale borbotta una maledizione, e poi sei mesi dopo al destinatario capita qualche disgrazia — è inevitabile, un paio di disgrazie all’anno capitano a tutti — e questa viene presa come una prova che la maledizione ha sortito il suo effetto. Post hoc ergo propter hoc.

In Inghilterra gli studenti imparano a evitare simili errori di logica elementare quando ancora studiano il Trivio. Qui erano una regola di vita. In Inghilterra il Lord Protettore aveva tutte le ragioni di punire chi praticava le arti magiche, anche sé Thrower avrebbe preferito che l’accusa non fosse di eresia, ma di stupidità. Considerarla un’eresia significava darle troppa importanza, quasi fosse una cosa da temere, e non da disprezzare.

Tre anni prima, subito dopo la laurea in teologia, Thrower aveva cominciato a capire quali danni il Lord Protettore stesse in realtà arrecando. Lo ricordava come il momento di svolta della sua esistenza; non risaliva a quel periodo anche la prima visita del Messo? Era successo nella sua celletta nel rettorato della chiesa di San Giacomo a Belfast, dove era viceparroco, il suo primo incarico dopo l’ordinazione. Stava studiando un planisfero, quando lo sguardo gli era caduto casualmente sull’America, laddove la Pennsylvania, i cui confini orientali con le colonie olandesi e svedesi erano chiaramente delineati, si estendeva verso occidente finché ogni linea di confine svaniva negli oscuri territori oltre il Mizzipy. In quel momento la carta geografica aveva come preso vita davanti ai suoi occhi, e Thrower aveva visto una fiumana di gente giungere nel Nuovo Mondo. Integerrimi puritani, gente di chiesa e solidi uomini d’affari andavano tutti nella Nuova Inghilterra; papisti, realisti e avventurieri nelle regioni inquiete e schiaviste di Virginia, Carolina e Jacobia, le cosiddette Colonie della Corona. In ambedue i casi si trattava del genere di persona che, una volta trovato il posto adatto, vi resta per sempre.

Ma quelli che andavano in Pennsylvania erano di ben altro stampo: tedeschi, olandesi, svedesi e ugonotti in fuga dai loro paesi d’origine, che avevano trasformato la colonia di Pennsylvania in una sentina piena della più fetente feccia umana del continente. E a peggiorare le cose, non volevano saperne di star calmi. Quegli stupidi zoticoni sbarcavano a Filadelfia, scoprivano che le regioni già colonizzate (Thrower non le avrebbe definite ‘civilizzate’) erano troppo affollate per i loro gusti, e immediatamente si dirigevano a ovest, nei territori dei Rossi, dove disboscavano un pezzo di foresta e si mettevano a coltivare la terra. Questo senza curarsi minimamente del fatto che il Lord Protettore aveva loro espressamente proibito di stabilirvisi. Che rispetto potevano avere per la legge quei pagani? La terra, ecco che cosa volevano, come se il semplice possesso di un pugno di polvere potesse trasformare lo zotico in un signore.

Poi la visione di Thrower da fosca si fece tenebrosa. Col nuovo secolo vide la guerra giungere in America. Vide il re di Francia inviare in Canada quel pestilenziale colonnello corso, quel Bonaparte, e dalla città fortificata francese di Detroit i suoi tirapiedi incitare i Rossi alla ribellione. I Rossi avrebbero assalito i coloni, annientandoli; per quanto marmaglia, in maggioranza si trattava pur sempre di marmaglia inglese, e di fronte alle efferatezze dei Rossi Thrower si sentì invadere dall’orrore.

Eppure, anche se gli inglesi avessero vinto, il risultato finale sarebbe stato lo stesso. L’America a ovest degli Appalachi non sarebbe mai diventata terra cristiana. O se la sarebbero presi quei maledetti papisti dei francesi e degli spagnoli, o se la sarebbero tenuta quei non meno maledetti infedeli dei Rossi, oppure vi avrebbe attecchito e prosperato la più depravata genìa britannica, pronta a prendersi beffe di Cristo come del Lord Protettore. Un altro continente sarebbe stato perduto alla parola del Signore. Era una visione così spaventosa che Thrower si lasciò sfuggire un grido, convinto che nessuno l’avrebbe udito oltre gli angusti confini della cella.

Ma qualcuno lo aveva udito. «Ecco una missione a cui un uomo di Dio può dedicare una vita» disse una voce alle sue spalle. Thrower si voltò di scatto, stupito; ma la voce era calda e affabile, il volto autorevole e benevolo, e lo spavento di Thrower non durò più di un istante, nonostante porta e finestre fossero sbarrate, e quella che era entrata nella cella non potesse essere una creatura in carne e ossa.

Certo che l’uomo fosse parte della visione di cui era appena stato spettatore, Thrower gli si rivolse con reverenza. «Chiunque voi siate, signore, ho appena visto il futuro del Nordamerica, e mi è sembrato di scorgervi la vittoria del demonio».

«Il demonio coglie le sue vittorie» ribatté l’altro, «ogni volta che gli uomini di Dio si scoraggiano abbandonandogli il campo».

Poi l’uomo scomparve.

In quell’istante Thrower aveva capito quale sarebbe stata la missione della sua vita. Recarsi nelle selvagge terre americane, edificare una chiesa, e battersi col demonio nella sua stessa terra. Per raccogliere i fondi necessari gli ci erano voluti tre anni e il permesso dei suoi superiori della Chiesa Scozzese, ma adesso era lì, le travi e i montanti della sua chiesa s’innalzavano verso il cielo, e quel legno bianco e spoglio era come un luminoso rimprovero all’oscura foresta della barbarie nella quale la scure lo aveva abbattuto.

Naturalmente il diavolo non poteva non accorgersi che era in corso un’opera di tale magnificenza. Ed era evidente che il miglior discepolo di Satana nella cittadina di Vigor era proprio Alvin Miller. Anche se tutti i suoi figli erano presenti e davano il loro contributo alla costruzione della chiesa, Thrower sapeva che era stata Faith a mandarveli. Quella donna aveva perfino ammesso che, pur essendo nata nel Massachusetts, in cuor suo si sentiva vicina al rito scozzese; la sua adesione avrebbe significato che Thrower poteva riporre fondate speranze in una congregazione numerosa… ammesso che si potesse impedire ad Alvin Miller di mandare tutto a monte.

E certamente quelle erano le sue intenzioni. Un conto sarebbe stato se Alvin fosse stato offeso da qualcosa che Thrower aveva fatto o detto involontariamente. Ma se pomo della discordia era fin dall’inizio la credenza nella stregoneria… be’, era un conflitto dal quale non c’era modo di evadere. La divisione delle forze in campo era ormai evidente. Thrower combatteva dalla parte della scienza e del cristianesimo; dall’altra, erano schierate le potenze delle tenebre e della superstizione in stretta alleanza con la natura bestiale, carnale dell’uomo, e Alvin Miller era il loro campione. Sono solo all’inizio del mio torneo per il Signore, pensò Thrower. Se non riesco a sconfiggere il primo avversario, non giungerò mai alla vittoria.

«Reverendo Thrower!» urlò David, il maggiore dei figli di Alvin. «Siamo pronti a tirar su la trave di colmo!»

Thrower partì verso di loro al piccolo trotto, poi si ricordò della propria dignità e il resto della distanza lo percorse a passo lento e misurato. Nei Vangeli niente poteva far pensare che il Signore si fosse mai messo a correre… solo camminare, come si addiceva alla sua posizione. Sì, certo, san Paolo aveva detto qualcosa a proposito di una corsa, ma era soltanto un’allegoria. Un ministro del culto doveva essere come l’ombra di Gesù Cristo, seguendo da vicino i Suoi passi e rappresentandone l’immagine agli occhi dei fedeli. Per loro, vedere la sua persona era quanto di più vicino potesse esistere alla contemplazione della maestà divina. Era dunque dovere del reverendo Thrower reprimere la vitalità della sua giovinezza e procedere col passo lento di un vecchio anche se aveva solo ventiquattro anni.

«Volevate benedire la trave, no?» chiese uno dei contadini. Era Ole, uno svedese originario della valle del Delaware, e quindi luterano fino al midollo; nonostante questo, aveva voluto dare anche lui una mano a costruire una chiesa presbiteriana qui nella valle del Wobbish, visto che altrimenti la chiesa più vicina sarebbe stata la cattedrale papista di Detroit.

«Certo» disse Thrower. Posò la mano sulla pesante trave segnata dai colpi d’ascia.

«Reverendo Thrower!» Era una voce di bambino alle sue spalle, forte e acuta come può essere solo una voce infantile. «Benedire un pezzo di legno non è una specie d’incantesimo?»

Thrower si voltò e vide che Faith Miller gli aveva già chiuso la bocca con la mano. Alvin Junior aveva solo sei anni, ma evidentemente si stava già avviando a diventare un piantagrane come suo padre. Forse ancora peggio… Alvin Senior aveva per lo meno avuto la buona grazia di starsene lontano dal luogo dove veniva edificata la chiesa.

«Procedete pure» disse Faith. «Non preoccupatevi di lui. Non gli ho ancora insegnato quand’è il momento di parlare e quando invece di stare zitto».

Anche con la mano della madre serrata sulla bocca, lo sguardo del bambino puntava diritto su di lui. E quando Thrower si voltò di nuovo dall’altra parte, scoprì che anche gli adulti lo stavano guardando con l’aria di chi si aspetta qualcosa. La domanda del bambino era una sfida alla quale doveva rispondere, o sarebbe stato bollato come un ipocrita o uno sciocco di fronte a quella stessa gente ch’era venuto a convertire.

«Certo, se pensate che la mia benedizione possa realmente mutare la natura della trave» disse, «la si potrebbe considerare una sorta di stregoneria. Ma la verità è che la trave di per sé è soltanto un’occasione. In realtà quella che io sto benedicendo è la congregazione dei cristiani che si raccoglierà sotto questo tetto. E in questo non vi è nulla di magico. Sono la potenza e l’amore di Dio che stiamo invocando, non una cura per le verruche o un incantesimo contro il malocchio».

«Che peccato» mormorò uno degli uomini. «Una cura per le verruche mi avrebbe proprio fatto comodo».

Tutti risero, ma il pericolo era scongiurato. Quando le funi si fossero tese, tirar su quella trave sarebbe stato un atto cristiano e non pagano.

Thrower eseguì la benedizione, stando bene attento a modificare la formula abituale in modo da non conferire alla trave alcuna proprietà fuori del comune. Poi gli uomini fecero forza sulle funi, e Thrower intonò a pieni polmoni con la sua magnifica voce di baritono l’inno «O Signore che sul mare in burrasca», per dare ritmo e ispirazione ai loro sforzi.

Nel frattempo, tuttavia, era acutamente consapevole della presenza del piccolo Alvin Junior. Non era soltanto a causa dell’imbarazzante sfida lanciatagli dal piccolo qualche istante prima. Quel bambino era ingenuo come la maggior parte dei suoi coetanei, e Thrower non aveva motivo per credere che l’avesse fatto con malizia. Ciò che attirava la sua attenzione era qualcosa di completamente diverso. Ma non era niente ch’egli potesse attribuire al bambino stesso; era piuttosto qualcosa nelle persone che lo circondavano. Pareva che lo tenessero d’occhio in continuazione. Non che lo guardassero: sempre in movimento com’era, uno avrebbe dovuto dedicargli tutto il suo tempo. No, era piuttosto come se fossero sempre consapevoli della sua presenza, un po’ come il cuoco del collegio era sempre consapevole della presenza del cane in cucina e, anche se non gli rivolgeva mai la parola, gli passava sopra e accanto senza interrompere il proprio lavoro per un solo istante.

Non erano solo i suoi familiari a riservargli quel genere d’attenzione. Si comportavano tutti nello stesso modo: tedeschi, scandinavi, inglesi, nuovi venuti o veterani che fossero. Quasi che tirar su quel bambino fosse un compito che riguardava l’intera comunità, come la costruzione di una chiesa o d’un ponte.

«Piano, piano, piano!» urlò Wastenot, appollaiato in alto accanto al montante, da dove poteva guidare la pesante trave al suo posto. Essa infatti doveva appoggiarsi proprio alla sommità del montante, in modo che i travicelli potessero poi essere sistemati a intervalli regolari per garantire al tetto la massima solidità.

«È troppo dalla tua parte!» urlò Measure, in piedi sull’impalcatura sopra la trave trasversale sulla quale poggiava il corto montante che avrebbe sostenuto le due travi di colmo dove queste si sarebbero incontrate al centro della struttura. Quello era il punto critico del tetto, e il più difficile da montare con precisione; le estremità di due pesanti travi dovevano infatti essere collocate sulla sommità di un montante non più largo di due palmi. Ecco perché Measure si trovava lassù: nel crescere infatti non era venuto meno al suo nome, un tipo misurato e preciso e con un gran colpo d’occhio.

«Bene così!» urlò Measure. «Ancora!»

«Adesso dalla mia parte!» urlò Wastenot.

«Fermi così!» urlò Measure.

«Ci siamo!» urlò Wastenot.

Poi si udì un: «Ci siamo!» anche da Measure, e gli uomini a terra rilassarono la tensione sulle funi. E mentre le corde si allentavano lanciarono un urrà, perché la trave di colmo adesso percorreva metà della lunghezza della chiesa. Non era certo una cattedrale, ma era pur sempre una bella impresa per quelle regioni di frontiera, la struttura più imponente che nessuno avesse mai osato immaginare nel raggio di cento miglia. Il semplice fatto di averla innalzata equivaleva a una dichiarazione che i coloni erano intenzionati a rimanere. Né francesi, né spagnoli, né realisti, né yankee, nemmeno i selvaggi Rossi con le loro frecce incendiarie, nessuno sarebbe mai riuscito a scacciarli di lì.

Perciò naturalmente il reverendo Thrower si affrettò a farvi ingresso, imitato da tutti gli altri, per vedere il cielo attraversato per la prima volta da una trave di colmo lunga non meno di quaranta piedi… e per adesso era solo la metà di quella che doveva diventare. La mia chiesa, pensò Thrower, ed è già più bella della maggior parte di quelle che ho visto nella stessa Filadelfia.

In alto, sulla fragile impalcatura, Measure stava conficcando a colpi di mazzuolo un cavicchio di legno che, passando nella scanalatura praticata in testa alla trave, andava a inserirsi nel foro del montante. Wastenot, naturalmente, stava facendo lo stesso dall’altra parte. I cavicchi avrebbero tenuto la trave in posizione fino alla messa in opera dei travicelli. A quel punto la trave di colmo sarebbe stata così robusta che si sarebbe quasi potuta eliminare la trave orizzontale, se questa non fosse stata necessaria per il candelabro che di notte avrebbe illuminato la chiesa. Di notte, in modo che le vetrate colorate potessero splendere nell’oscurità. Ecco la grandiosità dell’edificio che il reverendo Thrower aveva in mente. Affinché vedendolo le menti semplici di quella gente si colmassero di timore reverenziale e riflettessero sulla maestà di Dio.

Di questo genere erano i suoi pensieri, quando Measure gettò un grido e tutti quanti videro, al colmo dell’orrore, che sotto i colpi del mazzuolo il montante centrale si era improvvisamente schiantato, facendo rimbalzare in aria di cinque o sei piedi l’enorme, pesantissima trave. Il colpo strappò l’altra estremità della trave alla presa di Wastenot, fracassando l’impalcatura quasi fosse fatta di fuscelli. Per un istante la trave di colmo parve librarsi in aria, perfettamente orizzontale, quindi piombò giù come se il piede stesso del Signore le avesse dato un violento pestone.

E senza bisogno di guardare il reverendo Thrower seppe che proprio lì sotto ci sarebbe stato qualcuno, che si sarebbe trovato precisamente al centro della trave al momento in cui questa sarebbe piombata sul pavimento. Lo seppe perché era consapevole del bambino, di come si fosse messo a correre esattamente nella direzione sbagliata, di come il suo stesso grido: «Alvin!» l’avesse fatto arrestare esattamente nel posto sbagliato.

E quando guardò, era esattamente come s’era aspettato: il piccolo Al che ritto in piedi, la testa gettata all’indietro, fissava l’albero scortecciato che l’avrebbe spiaccicato sul pavimento della chiesa. Nient’altro sarebbe stato danneggiato, poiché la trave era orizzontale e l’impatto si sarebbe distribuito sull’intero pavimento. Il bambino era troppo piccolo anche solo per rallentarne la caduta. La trave l’avrebbe letteralmente frantumato, e il suo sangue sarebbe sprizzato sul legno bianco del pavimento della chiesa. Una macchia che non riuscirò mai a lavare, pensò Thrower… un pensiero demente, ma uno non poteva certo controllare i propri pensieri nell’istante in cui si trovava di fronte alla morte.

Thrower vide l’impatto come un lampo di luce accecante. Udì lo schianto del legno sul legno. Udì le urla. Poi la vista gli si schiarì, e vide la trave sul pavimento, un’estremità esattamente dove avrebbe dovuto essere, l’altra pure, ma nel mezzo la trave si era spaccata in due, e tra le due parti era ritto in piedi il piccolo Alvin, la faccia bianca dal terrore.

Illeso. Il bambino era illeso.

Thrower non capiva né il tedesco né lo svedese, ma capì che cosa significasse il borbottio vicino a lui, lo capì alla perfezione. Che bestemmino pure; io debbo capire che cos’è successo, pensò Thrower. Si avvicinò al bambino e gli posò la mano sulla testa, in cerca di lesioni. Non un capello fuori posto, ma la testa del bambino era calda, caldissima, come se fosse stata vicino al fuoco. Poi Thrower s’inginocchiò per osservare meglio la trave. Era tranciata di netto, come se il legno fosse cresciuto in quel modo, dividendosi giusto di quel tanto che bastava a mancare il ragazzo.

Un istante dopo arrivò anche la madre del piccolo Al, che lo sollevò tra le braccia singhiozzando e pronunciando incomprensibili parole di sollievo. Anche il piccolo Alvin scoppiò in lacrime. Ma Thrower doveva pensare ad altro. Era pur sempre un uomo di scienza, e niente di ciò che aveva visto accadere era scientificamente possibile. Chiese agli uomini di misurare nuovamente con i passi la lunghezza della trave. Lo spazio che occupava sul pavimento era esattamente lo stesso di prima; le estremità distavano una dall’altra né più né meno quanto prima. Quel pezzo centrale a misura di ragazzo era semplicemente scomparso. Scomparso in una fiammata istantanea che aveva lasciato la testa di Alvin e i due tronconi caldi come tizzoni, ma senza bruciarli o segnarli in nessun modo.

Poi Measure cominciò a urlare, appeso con le braccia alla trave orizzontale alla quale era riuscito ad aggrapparsi dopo il crollo dell’impalcatura. Wantnot e Calm si arrampicarono sulla struttura e lo riportarono giù sano e salvo. Il reverendo Thrower quasi non se ne accorse. Era troppo occupato a pensare a un ragazzino di sei anni che poteva starsene sotto una trave di quaranta piedi che precipitava a terra, e alla trave che si spezzava in modo da lasciargli spazio. Come il Mar Rosso quando si era aperto davanti a Mosè, a destra e a sinistra.

«Settimo figlio» mormorò Wastenot. Il ragazzo era seduto a cavalcioni della trave caduta, proprio accanto alla frattura.

«Che cosa?» chiese il reverendo Thrower.

«Niente» disse il giovane.

«Hai detto ‘settimo figlio’» disse Thrower. «Ma il settimo di voi è il piccolo Calvin».

Wastenot scosse la testa. «Avevamo un altro fratello. È morto un paio di minuti dopo la nascita di Al». Wastenot scosse di nuovo la testa. «Settimo figlio d’un settimo figlio».

«Ma questo lo rende progenie del diavolo» disse Thrower, sbalordito.

Wastenot lo guardò con aria sprezzante. «Può darsi che in Inghilterra la pensiate così, ma da queste parti un individuo del genere ci si aspetta che diventi un guaritore, o magari un rabdomante, e parecchio in gamba per giunta, qualunque cosa decida di fare». Poi a Wastenot tornò in mente qualcosa, e sorrise. «’Progenie del diavolo’» ripeté, assaporando maliziosamente le parole. «La direi proprio una forma di isteria».

Furioso, Thrower uscì a lunghi passi dalla chiesa.

Trovò Faith seduta su uno sgabello col piccolo Alvin in grembo, intenta a cullarlo mentre lui continuava a singhiozzare. Intanto, lo rimproverava gentilmente. «Te l’avevo detto di non correre senza guardare dove vai, sempre tra i piedi, non riesci a startene fermo un attimo, c’è da diventare pazzi a starti dietro…».

Poi scorse Thrower in piedi davanti a lei, e tacque.

«Non preoccupatevi» disse. «D’ora in avanti lo terrò lontano da qui».

«Sono felice che non gli sia accaduto nulla» disse Thrower. «Piuttosto che pensare che la mia chiesa fosse stata edificata al prezzo della vita d’un fanciullo, avrei preferito predicare all’aria aperta per il resto dei miei giorni».

Faith lo guardò attentamente e vide che lo diceva con tutto il cuore. «Non è colpa vostra» disse. «È sempre stato così sbadato. A quanto pare, riesce a sopravvivere a disastri che annienterebbero qualsiasi altro bambino».

«Vorrei… vorrei capire come può essere accaduto».

«Il montante è andato in pezzi, si capisce» disse Faith. «Succede, alle volte».

«Volevo dire… com’è stato possibile che lo abbia mancato. La trave si è spaccata… prima di toccare la sua testa. Vorrei palpargli la testa, se mi consentite di…».

«Nemmeno un graffio» disse Faith.

«Lo so. Volevo palpargliela per vedere se…».

Faith alzò gli occhi al cielo borbottando: «Rabdomanzia del cervello», ma allo stesso tempo scostò le mani in modo che Thrower potesse palpare la testa del bambino. Lentamente, stavolta, e con la massima attenzione, cercando di determinare la mappa del cranio, di leggere le creste e i bernoccoli, i canali e le depressioni. Non aveva bisogno di consultare un libro. I libri erano comunque pieni di sciocchezze. Aveva fatto in fretta ad accorgersene… non ce n’era uno che non sputasse farneticanti generalizzazioni quali: ‘Il Rosso avrà sempre un bernoccolo proprio sopra l’orecchio, segno di barbarie e cannibalismo’, mentre ovviamente i crani dei Rossi mostravano altrettanta varietà di quelli dei bianchi. No, Thrower non riponeva la minima fiducia in quei libri… ma a proposito delle persone dotate di particolari talenti e dei bernoccoli che esse avevano in comune, qualcosa l’aveva imparato ugualmente. Col tempo aveva acquisito una certa capacità di comprensione, una mappa delle forme dei crani umani; così, mentre le sue mani passavano sulla testa di Al, sapeva che cosa cercare.

Niente di particolare, ecco che cosa trovò. Nessun tratto che prendesse il sopravvento sugli altri. Sulla media. Quanto di più medio ci potesse essere. Così totalmente medio che avrebbe potuto essere un esempio da manuale di normalità, se fossero esistiti manuali che valeva la pena di leggere. Staccò le dita dalla testa del bambino, e quest’ultimo — che sotto le sue mani aveva smesso di piangere — si torse in grembo alla madre per guardarlo. «Reverendo Thrower» disse, «le vostre mani sono così fredde che mi sono quasi congelato». Poi si divincolò dall’abbraccio della madre e corse via, gridando il nome di uno dei bambini tedeschi, quello con cui poco prima stava lottando con tanto accanimento.

Faith rise mestamente. «Vedete come fanno presto a dimenticare?»

«Anche voi» disse Thrower.

Lei scosse il capo. «No» disse. «Io non dimentico niente».

«State già sorridendo».

«Tiro avanti, reverendo Thrower. Mi limito a tirare avanti. Non è la stessa cosa che dimenticare».

Thrower annuì.

«Allora… ditemi che cos’avete scoperto» disse la donna.

«Scoperto?»

«Tastandogli i bernoccoli. Esercitando la vostra rabdomanzia del cervello. Allora, che cosa c’è là dentro?»

«Normale. Perfettamente normale. Nella sua testa non c’è assolutamente nulla d’insolito».

Faith grugnì. «Nulla d’insolito?»

«Precisamente».

«Be’, se volete il mio parere, è un fatto abbastanza insolito, ammesso che uno sia abbastanza. sveglio da rendersene conto». Così dicendo, raccolse lo sgabello e se ne andò, chiamando Al e Cally.

Un istante dopo il reverendo Thrower si rese conto che Faith aveva ragione. Nessuno era così perfettamente nella media. Tutti avevano qualche tratto più forte degli altri. Non era normale che Al fosse così equilibrato. Che possedesse ogni possibile talento e che li possedesse tutti in proporzioni esattamente uguali. Lungi dall’essere nella media, si trattava di un caso straordinario, anche se Thrower non aveva la minima idea di ciò che avrebbe potuto significare nella vita del ragazzo. Sarebbe stato uno che conosceva tutti i mestieri senza essere maestro in nessuno? O sarebbe stato maestro in tutti?

Superstizione o no, Thrower si scoprì a fantasticare. Il settimo figlio d’un settimo figlio, una testa sconcertante, e il miracolo — non riusciva a trovare un’altra parola — della trave di colmo. Un bambino normale quel giorno sarebbe morto. Lo esigevano le leggi di natura. Ma qualcuno o qualcosa lo stava proteggendo, e le leggi di natura erano state sospese a suo beneficio.

Una volta che le chiacchiere si furono sedate, gli uomini ripresero il lavoro interrotto. La trave caduta era ovviamente inutilizzabile, e i due tronconi furono portati fuori dall’edificio. Dopo ciò che era accaduto, non avevano la minima intenzione di utilizzarli. Così ricominciarono da capo, e a metà pomeriggio avevano preparato un’altra trave e avevano ricostruito le impalcature; al tramonto, le due travi di colmo erano a posto. Nessuno parlò più dell’incidente della trave, per lo meno non alla presenza di Thrower. E quando questi andò in cerca del montante andato in frantumi, non ne trovò la minima traccia.

VII

L’ ALTARE

Quando vide cadere la trave Alvin Junior non si spaventò; né si spaventò quando essa piombò sul pavimento con un rumore assordante, con lui nel mezzo. Ma quando gli adulti cominciarono a comportarsi come se fosse successo chissà che cosa, stringendolo tra le braccia e parlandogli sottovoce, allora che si prese paura. Gli adulti si mettevano sempre in agitazione senza nessun motivo.

Come adesso papà che si era messo al lavoro sul pavimento davanti al camino acceso, e da ore non faceva altro che studiare i frammenti del montante che aveva ceduto all’improvviso, quel pezzo di legno che non aveva resistito al peso della trave di colmo e ne aveva causato il crollo. Quando la mamma era in sé, nessuno, nemmeno papà, avrebbe potuto portarle in casa quei pezzi di legno tutti sporchi. Ma oggi la mamma non era meno fuori di sé di papà, e quando lui era arrivato carico di quelle grosse schegge di legno stagionato, lei non aveva fatto altro che arrotolare il tappeto e togliersi di mezzo.

Be’, chiunque non avesse capito che quando papà aveva quell’espressione era meglio togliersi di mezzo, era troppo stupido per vivere. David e Calm erano ben fortunati a potersi rifugiare in casa propria, sulle terre che avevano disboscato, dove le loro mogli avevano già preparato la cena, e potevano scegliere se essere fuori di testa o no. Gli altri non erano altrettanto fortunati. Visto che papà e mamma erano fuori di sé, doveva esserlo anche il resto della famiglia. Le femmine non si erano nemmeno sognate di litigare tra loro, e tutte quante avevano aiutato a preparare la cena e a sparecchiare senza la minima protesta. Wastenot e Wantnot erano usciti a spaccare la legna e a mungere le bestie senza scambiarsi neanche uno spintone, figuriamoci poi fare la lotta, il che per Alvin Junior era stato una vera delusione visto che poi toccava a lui fare la lotta con chi aveva perso, e quegli incontri erano proprio il massimo, perché i gemelli a diciott’anni erano degli ossi duri, nemmeno da paragonare ai ragazzini con cui si azzuffava di solito. E Measure, quello là se ne stava seduto davanti al fuoco a intagliare un grosso cucchiaio di legno per il pentolone di mamma, senza neanche alzare gli occhi… aspettava, aspettava e basta, proprio come gli altri, che papà tornasse in sé e cominciasse a inveire contro qualcuno di loro.

L’unica persona normale della casa era Calvin, che aveva tre anni. Il guaio era che per lui ‘normale’ significava stare alle costole di Alvin Junior come un gattino che ha fiutato il topo. Non si avvicinava mai al punto di giocare con Alvin, o di toccarlo, o di rivolgergli la parola, o qualsiasi altra cosa che avesse un senso. Era lì e basta, sempre lì ai margini delle cose, cosicché quando Alvin alzava lo sguardo vedeva che Calvin l’aveva appena puntato da un’altra parte, o coglieva una fugace visione della sua camicia che scompariva dietro una porta, o qualche volta nel cuore della notte avvertiva il lieve rumore d’un respiro più vicino di quanto avrebbe dovuto essere, e da questo capiva che Calvin non era nel suo letto, ma era in piedi accanto a lui e lo guardava. Ma nessuno sembrava accorgersene. Era trascorso più di un anno da quando Alvin aveva rinunciato al tentativo di farlo smettere. Se Alvin Junior osava dire: «Mamma, Cally mi dà noia», la mamma si limitava a dire: «Al Junior, non ha aperto bocca, non ti ha toccato, e se non ti piace che lui se ne stia fermo e buono come più non si potrebbe, peggio per te, perché a me va benissimo. Non sarebbe male che anche qualcun altro imparasse a stare altrettanto fermo». Alvin pensò che quella sera non era Calvin a essere normale; era piuttosto il resto della famiglia a essersi adeguato al suo normale livello d’agitazione.

Papà non faceva altro che fissare i pezzi di legno. Di tanto in tanto li accostava nella disposizione originale. Una volta parlò, a voce bassissima. «Measure, sei sicuro di averli presi tutti, i pezzi?»

«Assolutamente tutti, papà» disse Measure. «Non ne avrei potuti raccogliere di più neanche con una scopa. Non ne avrei potuti raccogliere di più neanche se mi fossi chinato a leccarli come un cane».

La mamma ascoltava, si capisce. Papà una volta aveva detto che quando la mamma si concentrava, avrebbe potuto udire uno scoiattolo scoreggiare nel bosco a mezzo miglio di distanza nel bel mezzo di un temporale mentre le ragazze lavavano i piatti e i ragazzi spaccavano la legna. Alvin Junior a volte si chiedeva se ciò non significava che la mamma era più addentro alle arti segrete di quanto non volesse far intendere, perché una volta nel bosco era rimasto seduto per più di un’ora a non più di tre metri di distanza da uno scoiattolo, e non aveva sentito neanche un ruttino.

Stasera comunque la mamma si trovava in casa, e naturalmente udì ciò che papà aveva chiesto, e udì ciò che Measure gli rispose, ed essendo non meno fuori di sé di papà, era saltata su come se Measure avesse appena pronunciato a sproposito il nome del Signore. «Sta’ attento a come parli, giovanotto, perché sulla montagna il Signore disse a Mosè: onora tuo padre e tua madre, affinché siano prolungati i tuoi giorni sopra la terra che il Signore Iddio tuo ti ha concesso, e quando ti rivolgi a tuo padre in maniera insolente non fai altro che sottrarre giorni e settimane e addirittura anni alla tua stessa vita, e la tua anima non è in condizioni tali da far sì che tu possa accogliere serenamente una visita prematura al tribunale nel quale incontrerai il tuo Salvatore e lo udrai pronunciare il suo verdetto per l’eternità!»

Più che per il proprio destino nell’aldilà, Measure era preoccupato dal fatto che sua madre se la prendesse proprio con lui. Non cercò di ribattere che non voleva fare il furbo o essere sfacciato… solo uno stupido l’avrebbe fatto quando la mamma era così su di giri. Cominciò semplicemente a mostrarsi contrito e a implorare il suo perdono, per non parlare del perdono di papà e dell’infinita compassione del Signore. Quando lei ebbe finito di strigliarlo, il povero Measure aveva già chiesto scusa una mezza dozzina di volte, così che alla fine la mamma si decise a tornare brontolando al suo cucito.

Poi Measure guardò Alvin Junior e gli strizzò l’occhio.

«Ti ho visto» disse la mamma, «e se non vai direttamente all’inferno, Measure, inoltrerò una speciale supplica a san Pietro perché ti ci mandi lui».

«La firmerei io stesso» disse Measure, con l’aria contrita di un cucciolo che ha appena fatto pipì sulla scarpa del padrone.

«Fai bene a dire così» proseguì lei, «e la firmeresti col tuo sangue, perché quando avrò finito con te avrai abbastanza ferite aperte da tenere dieci impiegati riforniti di inchiostro scarlatto per un anno intero».

Alvin Junior lottò per trattenersi. Quella tremenda minaccia gli sembrò improvvisamente buffissima. E, pur sapendo che stava scherzando col fuoco, aprì la bocca per ridere. Sapeva che, se l’avesse fatto, la mamma l’avrebbe picchiato sulla testa col ditale, o gli avrebbe dato uno schiaffo su un orecchio, o addirittura gli avrebbe dato con la sua scarpetta un tremendo pestone sul piede nudo, come aveva fatto una volta con David quando questi le aveva detto che avrebbe dovuto abituarsi alla parola no un po’ prima di ritrovarsi tredici bocche da servire in tavola.

Era questione di vita o di morte. Era peggio della trave. Dopo tutto questa non l’aveva neanche sfiorato, cosa che non si sarebbe potuta dire della mamma. Perciò trattenne la risata prima che accadesse l’irreparabile, trasformandola nella prima cosa che gli venne in mente.

«Mamma» disse, «Measure non potrebbe firmare nessuna petizione col suo sangue, perché sarebbe già morto, e i morti non firmano».

La mamma lo guardò diritto negli occhi, poi, scandendo lentamente le sillabe, disse: «Quando glielo dico io, sì».

Be’, fu la goccia che fece traboccare il vaso. Alvin scoppiò a ridere. E questo fece sì che anche metà delle bambine si mettessero a ridere. Il che fece ridere Measure. E finalmente si mise a ridere anche la mamma. Tutti quanti risero, risero fino a non poterne più, fino ad avere le lacrime agli occhi, e la mamma cominciò ad avviare tutti quanti verso il letto, Alvin Junior compreso.

Con tutte quelle emozioni, Alvin Junior adesso si sentiva parecchio su di giri, e ancora non aveva capito che qualche volta tutta quell’eccitazione avrebbe fatto meglio a tenerla sottochiave. Il caso volle che Matilda, la quale a sedici anni si considerava una gran dama, salisse le scale proprio davanti a lui. Tutti detestavano trovarsi in coda dietro Matilda, in qualsiasi circostanza, con quei passetti delicati da damigella. Measure diceva sempre che in una fila avrebbe preferito trovarsi dietro la luna, perché sicuramente sarebbe andata più in fretta. Adesso il viso di Al Junior si trovava proprio all’altezza del fondoschiena di Matilda che ondeggiava a destra e a sinistra, e pensò a quel che Measure aveva detto della luna, e pensò che il fondoschiena di Matilda era rotondo quasi come la luna, e poi gli capitò di chiedersi come sarebbe stato a toccarla, la luna, se sarebbe stata dura come il dorso di uno scarabeo o viscida come una lumaca. E quando a un ragazzino di sei anni che già si sente su di giri salta in testa un’idea del genere, non passano neanche due secondi prima che il suo dito indice affondi in quelle tenere carni.

Matilda era una grande urlatrice.

Al avrebbe potuto prendersi un ceffone e sarebbe finita lì, solo che Wastenot e Wantnot, che salivano le scale subito dopo di lui, videro tutta la scena e presero talmente in giro Matilda che lei scoppiò in lacrime e corse su per le scale due gradini alla volta, rinunciando di colpo al suo contegno da gran dama. Wastenot e Wantnot portarono Alvin di peso su per le scale, tenendolo così in alto che gli vennero anche un po’ di vertigini, e intonando la vecchia canzone di san Giorgio che uccide il drago, solo che per l’occasione invece di san Giorgio si parlava di sant’Alvin, e quando la canzone parlava d’infilzare il vecchio drago mille volte e di quella spada che non si scioglieva nemmeno tra le fiamme, loro cambiarono spada con dito, e questo fece ridere persino Measure.

«Che canzone schifosa, proprio schifosa!» strillò Mary, che aveva dieci anni e stava di guardia fuori della porta delle ragazze più grandi.

«Meglio smettere di cantare quella roba» disse Measure, «prima che vi senta la mamma».

Alvin Junior non era mai riuscito a capire perché alla mamma quella canzone non piacesse, ma era pur vero che i ragazzi non la cantavano mai se lei si trovava a portata d’orecchio. I gemelli smisero di cantare e si arrampicarono su per la scala a pioli che portava al sottotetto. In quell’istante la porta delle ragazze più grandi si spalancò di colpo e Matilda, con gli occhi rossi di pianto, cacciò fuori la testa urlando: «Ve ne pentirete!».

«Ooh, quanto mi dispiace, quanto mi dispiace» fece Wantnot in falsetto.

Solo allora Alvin si ricordò che quando le ragazze si mettevano in mente di prendersi una rivincita, la vittima designata era proprio lui. Calvin era ancora considerato un bambinetto, per cui era relativamente al sicuro, mentre i gemelli erano più grandi e più forti, ed erano pur sempre in due. Perciò quando le ragazze si arrabbiavano, Alvin era quello su cui si abbatteva regolarmente la loro ira funesta. Matilda aveva sedici anni, Beatrice quindici, Elizabeth quattordici, Anne dodici, Mary dieci, e per tutte loro dar fastidio ad Alvin era un divertimento di gran lunga superiore a qualsiasi altro fra quelli consentiti dalla Bibbia. Una volta che Alvin era stato tormentato oltre ogni capacità di sopportazione, e solo le forti braccia di Measure gli avevano impedito di macchiarsi di omicidio a sangue caldo con un forcone da fieno, Measure aveva affermato che le pene dell’inferno probabilmente consistevano nell’abitare nella stessa casa con cinque donne le cui dimensioni erano praticamente il doppio delle tue. Da allora Alvin si era chiesto quale peccato avesse commesso prima della nascita per renderlo meritevole di crescere già dannato a metà.

Alvin si rifugiò nella cameretta che divideva con Calvin, e lì rimase in attesa che Matilda venisse a ucciderlo. Ma, per quanto aspettasse, Matilda non arrivò, e lui si rese conto che probabilmente stava aspettando che tutte le candele fossero spente, in modo che nessuno venisse a sapere quale delle sue sorelle era entrata in camera sua per farlo fuori. Dio solo sapeva se anche solo negli ultimi due mesi non aveva dato loro motivi sufficienti per volerlo morto. Si stava appunto chiedendo se l’avrebbero soffocato col cuscino di piume d’oca di Matilda — e sarebbe stata la prima volta che gli avrebbero permesso di toccarlo — o se sarebbe morto con le preziose forbici da cucito di Beatrice conficcate nel cuore, quando a un tratto si rese conto che, se non fosse uscito di casa per andare al gabinetto entro venticinque secondi, se la sarebbe fatta direttamente nei calzoni.

Il gabinetto naturalmente era occupato, e Alvin rimase lì fuori a strillare e saltare su e giù per tre minuti buoni senza che nessuno si decidesse a uscire. Gli venne da pensare che probabilmente era una delle ragazze, nel qual caso quello sarebbe stato il piano più diabolico che avessero mai escogitato: tenerlo fuori dal gabinetto sapendo quanto fosse terrorizzato dall’idea di andare a farla nel bosco di notte. Una vendetta terribile. Se si fosse sporcato, la vergogna sarebbe stata tale che probabilmente avrebbe dovuto cambiar nome e scappare di casa, e questo sarebbe sicuramente stato molto peggio di un dito nel fondoschiena. L’iniquità della cosa lo faceva infuriare più di un bisonte costipato.

Alla fine la sua rabbia montò al punto da fargli lanciare la minaccia definitiva: «Se non esci subito, la farò proprio qui davanti, così quando esci ci metterai un piede dentro!».

Aspettò, ma chiunque fosse lì dentro non ribatté: «Se lo fai, poi mi pulisci la scarpa con la lingua», e siccome la risposta abituale era quella, Al si rese conto per la prima volta che la persona che occupava il gabinetto poteva anche non essere una delle sue sorelle. Sicuramente non era uno dei ragazzi. E questo lasciava solo due possibilità, una più minacciosa dell’altra. Al era così arrabbiato con se stesso che si tirò un pugno in testa. Ma non per questo si sentì meglio. Papà probabilmente gliele avrebbe suonate, ma la mamma sarebbe stata ancora peggio. Avrebbe potuto dargli una bella lavata di capo, e questa sarebbe già stata una brutta cosa; ma se fosse stata veramente di cattivo umore, avrebbe potuto assumere quell’espressione gelida e dirgli con un soffio di voce: «Alvin Junior, avevo sperato che almeno uno dei miei figli potesse diventare un gentiluomo, ma adesso mi accorgo che la mia vita è stata sprecata», il che lo precipitava sempre in un tale avvilimento che di lì a morire c’era solo un passo.

Perciò fu quasi sollevato quando la porta si aprì e sulla soglia comparve papà che, abbottonandosi i calzoni, lo guardò con un’aria per niente soddisfatta. «Siamo sicuri che posso uscire senza pericolo?» chiese freddamente.

«Sì, certo» disse Alvin Junior.

«Come hai detto?»

«Sissignore».

«Siamo proprio sicuri? Da queste parti girano strani animali a cui sembra una gran pensata lasciare qualche ricordo fuori dalla porta del gabinetto. Ti assicuro che se ci fosse un animale del genere, una di queste sere metto una trappola e lo acchiappo per il fondoschiena. E al mattino, quando lo trovo, prima gli cucio il buco del culo, e poi lo lascio libero nel bosco perché si gonfi fino a schiattare».

«Scusami, papà».

Papà scosse la testa e si incamminò verso casa. «Devi averci qualcosa che non va coll’intestino, ragazzo mio» disse. «Prima non hai bisogno di andare di corpo, e un istante dopo sei lì lì per morire».

«Be’, basterebbe che tu costruissi un altro gabinetto e tutto si risolverebbe» bofonchiò Al Junior. Papà però non lo udì, perché Alvin in realtà non aprì bocca che dopo aver richiuso la porta del gabinetto, quando papà era ormai rientrato in casa; e nemmeno allora lo disse a voce molto alta.

Alvin si lavò a lungo le mani sotto la pompa, perché temeva ciò che lo attendeva una volta rientrato in casa. Ma poi, fuori da solo al buio, cominciò ad avere paura per un altro motivo. Tutti dicevano che nessun bianco potesse udire un Rosso che camminava nella foresta, e i suoi fratelli maggiori si divertivano a raccontare ad Alvin che quando lui era fuori da solo, specialmente di notte, nella foresta c’erano i Rossi che lo guardavano, giocherellando con i loro tomahawk dalla lama di pietra, e non vedevano l’ora di scalparlo. Alla luce del giorno, Al non ci credeva; ma quella notte, con le mani raggelate dall’acqua, un brivido gli corse lungo la schiena, e credette anche di sapere dove quel Rosso potesse trovarsi. Proprio alle sue spalle, laggiù, vicino allo stabbiolo dei maiali, e si muoveva così silenziosamente che i maiali non grugnivano e i cani non abbaiavano né niente. E poi avrebbero trovato il cadavere di Al, tutto insanguinato e senza capelli, e allora sarebbe stato troppo tardi. Per cattive che fossero le sue sorelle — e cattive lo erano di sicuro — Al pensò che fossero sempre preferibili alla morte con la scure di un Rosso conficcata nel cranio. Quasi volò dalla pompa alla porta di casa, e non si guardò indietro per vedere se quel Rosso ci fosse davvero.

Non appena la porta si chiuse alle sue spalle, dimenticò tutte le sue paure dei Rossi invisibili e silenziosi. In casa tutto era tranquillo, e già questo risvegliò i suoi sospetti. Di solito la sera le ragazze non si decidevano a mettersi zitte prima che papà urlasse loro almeno tre volte di far silenzio. Così Alvin salì le scale con la massima cautela, stando bene attento a dove posava il piede e guardandosi alle spalle così di frequente da farsi quasi venire il torcicollo. Quando finalmente fu in camera sua, con la porta ben chiusa, era così agitato che quasi sperò che facessero quello che avevano in mente, di qualunque cosa si trattasse, e la facessero finita.

Ma per quanto aspettasse, non successe assolutamente niente. Con la candela in mano fece il giro della stanza, rivoltò il materasso, guardò in ogni angolino, ma non trovò nulla. Calvin dormiva col pollice in bocca, il che significava che se davvero erano venute a ficcare il naso in camera sua, doveva essere accaduto qualche tempo prima. Cominciò a chiedersi se per caso, una volta tanto, le ragazze non avessero deciso di lasciarlo in pace, o addirittura di combinare i loro sporchi tiri ai gemelli… Se le ragazze avessero cominciato a essere gentili con lui, per Alvin sarebbe iniziata una vita nuova e meravigliosa. Come se fosse arrivato un angelo per innalzarlo dal profondo dell’inferno.

Si spogliò più in fretta che poté, poi piegò i suoi vestiti e li posò sullo sgabello accanto al letto, in modo che la mattina non fossero pieni di scarafaggi. Con gli scarafaggi aveva stipulato una specie d’accordo. Era loro concesso d’infilarsi in tutto quello che trovavano sul pavimento, ma non dovevano salire sul letto di Calvin o su quello di Alvin, e nemmeno dovevano salire sugli sgabelli. In cambio, Alvin non li pestava mai. La camera di Alvin era diventata di conseguenza il rifugio degli scarafaggi di casa, ma poiché rispettavano i patti, lui e Calvin erano gli unici a non svegliarsi urlando perché qualche scarafaggio gli si era infilato nel letto.

Alvin prese la camicia da notte appesa al piolo e se la infilò dalla testa.

Qualcosa lo morse sotto il braccio. Alvin strillò per il dolore. Qualcos’altro lo morse sulla spalla. Qualunque cosa fosse, la camicia da notte ne era piena, e mentre lui cercava disperatamente di strapparsela di dosso, quel qualcosa continuava a pungerlo da tutte le parti. Finalmente riuscì a togliersela, e nudo come un verme cominciò a percuotersi e a stropicciarsi con le mani per cercare di togliersi di dosso quegli insetti o qualsiasi cosa fossero.

Poi si chinò cautamente a raccogliere la camicia da notte. Non riuscì a vedere niente che ne scappasse zampettando, e perfino quando la scosse con forza non ne uscì neanche un insetto. Ne uscì qualcos’altro. Scintillò per un istante alla luce della candela e cadde sul pavimento con un lievissimo tintinnio metallico.

Solo allora Alvin si accorse delle risatine soffocate provenienti dalla camera accanto. Sì, l’avevano fregato, l’avevano proprio fregato. Seduto sul bordo del letto, cominciò a sfilare gli spilli dalla camicia da notte, infilandoli nell’orlo della coperta. Chi avrebbe mai creduto che quelle là avrebbero corso il rischio di perdere qualcuno dei preziosi spilli d’acciaio della mamma, solo per fargliela pagare? Ma avrebbe dovuto aspettarselo. Le femmine non erano come i maschi, non rispettavano le regole. Se facendo la lotta un ragazzo ti buttava a terra, i casi erano due: o ti saltava addosso o aspettava che ti fossi rialzato; in ogni caso eravate pari: tutt’e due in piedi o tutt’e due a terra. Al aveva dovuto imparare a proprie spese che le femmine invece approfittavano del fatto che tu fossi a terra per prenderti a calci, e facevano lega contro di te ogni volta che ne avevano l’occasione. Quando si battevano, si battevano in modo da concludere l’incontro prima possibile. Così non c’era più divertimento.

Proprio come quella sera. Non era leale, lui le aveva dato solo una ditata, e loro lo avevano riempito di spilli. In qualche punto sanguinava ancora, da quanto s’erano conficcati a fondo. E Alvin avrebbe scommesso che Matilda non aveva neanche un livido, anche se gliel’avrebbe augurato di tutto cuore.

Alvin Junior non era cattivo, nossignore. Ma, mentre se ne stava seduto sul bordo del letto a sfilare spilli dalla camicia da notte, non poté fare a meno di notare gli scarafaggi che andavano per i fatti loro nelle fessure del pavimento, e non poté fare a meno d’immaginare come sarebbe stato se tutti quegli scarafaggi fossero per caso andati a fare una visitina in una certa stanza dove in quel momento si stava ridacchiando a più non posso.

Così s’inginocchiò sul pavimento, posando la candela accanto a sé, e si rivolse bisbigliando agli scarafaggi proprio come aveva fatto la sera che aveva stipulato con loro il trattato di pace. Cominciò a raccontar loro di quelle belle lenzuola lisce e di quelle belle carni umidicce sulle quali avrebbero potuto zampettare, e soprattutto della federa di satin che ricopriva il cuscino di piuma d’oca di Matilda. Ma loro non parvero darsene per inteso. La fame, ecco l’unica cosa che a loro interessa, pensò Alvin. A loro interessa soltanto il cibo, il cibo e la paura. Così cominciò a parlare loro di cibo, del cibo più squisito che avrebbero mai potuto gustare in vita loro. Gli scarafaggi rizzarono subito le antenne e si avvicinarono ad ascoltare, anche se nemmeno uno di loro gli salì addosso, in scrupolosa osservanza dei patti. Tutto il cibo che uno potrebbe desiderare, tutto su quella morbida pelle rosea. Ed è perfettamente sicuro, neanche un briciolo di pericolo, niente di cui preoccuparsi, basta andare là dentro e troverete il cibo su quella pelle morbida, rosea, liscia e umidiccia.

E come c’era da aspettarsi, alcuni scarafaggi zampettarono via infilandosi sotto la porta di Alvin, poi altri, poi altri ancora, e finalmente l’intera banda partì in un’unica tumultuosa carica di cavalleria sotto la porta, attraverso la parete, con le corazze lucide e scintillanti alla luce della candela, guidati dalla loro fame eterna e insaziabile, impavidi perché Al aveva assicurato loro che non c’era niente da temere.

Non erano ancora trascorsi dieci secondi che dalla stanza accanto si levò il primo urlo. E nel giro di un minuto l’intera casa era diventata un tale pandemonio da far pensare che fosse scoppiato un incendio. Femmine che strillavano, maschi che urlavano, e il calpestio dei pesanti scarponi di papà che saliva di corsa le scale per schiacciare scarafaggi. Al era praticamente al settimo cielo.

Finalmente nella stanza accanto le cose accennarono a calmarsi. Presto sarebbero arrivati a vedere cosa facevano lui e Calvin, così Al soffiò sulla candela, s’infilò sotto le coperte e bisbigliò agli scarafaggi di nascondersi. Come aveva previsto, udì i passi della mamma nel corridoio. All’ultimissimo momento Alvin Junior si ricordò di non essersi rinfilato la camicia da notte. Cacciò fuori la mano, afferrò la camicia e la tirò sotto le coperte proprio mentre la porta si apriva. Poi si concentrò per dare al proprio respiro un ritmo calmo e regolare.

Mamma e papà entrarono, ciascuno con una candela in mano. Alvin li udì scostare le coperte di Calvin per controllare che non gli fosse entrato nel letto qualche scarafaggio, e temette che potessero scostare anche le sue. Che vergogna sarebbe stata, se l’avessero scoperto a dormire come un animale, senza uno straccio indosso. Ma le ragazze, le quali sapevano che era impossibile che fosse già addormentato dopo tutte quelle punture di spillo, avevano naturalmente una gran paura di ciò che Alvin avrebbe potuto dire a mamma e papà, così trovarono il modo di farli uscire in fretta e furia dalla stanza prima che essi potessero fare qualcosa di più che illuminare con la candela il viso di Alvin per accertarsi che dormisse. Alvin mantenne il viso perfettamente immobile, senza neanche far tremare le palpebre. La candela si allontanò, la porta si chiuse senza far rumore.

Ciò nonostante, restò in attesa, e come si era aspettato la porta si aprì di nuovo. Udì uno scalpiccio di piedi nudi sul pavimento. Poi avvertì il respiro di Anne sul viso, e la udì sussurrargli nell’orecchio: «Non sappiamo come hai fatto, Alvin Junior, ma sappiamo che sei stato tu a mandarci quegli scarafaggi».

Alvin finse di non sentire nulla. Cominciò perfino a russare lievemente.

«Non mi freghi, Alvin Junior. Stanotte è meglio che tu non dorma, perché se ti addormenti non ti sveglierai mai più, hai capito?»

Fuori della stanza, papà stava dicendo: «Dov’è finita Anne?».

È qui, papà, che minaccia di uccidermi, pensò Alvin. Ma non lo disse ad alta voce, si capisce. E poi Anne stava solo cercando di spaventarlo.

«Faremo in modo che sembri un incidente» disse Anne. «Tu di incidenti ne hai in continuazione, nessuno penserà a un delitto».

Alvin stava cominciando a crederle.

«Porteremo fuori il tuo cadavere e lo ficcheremo giù per il buco del cesso, e tutti penseranno che sei andato a fare un bisogno e ci sei cascato dentro».

Potrebbe anche funzionare, pensò Alvin. Anne era proprio tipo da pensare a qualcosa di così diabolicamente astuto, visto che era la più brava in assoluto a darti un pizzicotto di nascosto e poi trovarsi a tre metri buoni di distanza prima ancora che tu cominciassi a strillare. Ecco perché teneva le unghie così lunghe e appuntite. Anche in quel momento Alvin avvertì una di quelle unghie appuntite graffiargli lentamente la guancia.

La fessura della porta si allargò. «Anne» bisbigliò la mamma, «esci immediatamente da lì».

L’unghia si fermò. «Volevo solo esser sicura che il piccolo Alvin stesse bene». I suoi piedi nudi scalpicciarono fuori dalla stanza.

Ben presto tutte le porte furono nuovamente chiuse, e Alvin udì papà e mamma scendere rumorosamente le scale.

Sapeva che, a rigore, avrebbe dovuto essere spaventato a morte dalle minacce di Anne, ma così non era. Aveva vinto la sua battaglia. S’immaginò gli scarafaggi brulicare addosso alle ragazze, e si mise a ridere. Be’, meglio di no. Doveva soffocare le risate e respirare con la massima calma. Tutto il suo corpo fu scosso dal tentativo di trattenere le risate.

Nella stanza c’era qualcuno.

Non si udiva alcun rumore, e quando aprì gli occhi non riuscì a vedere nulla. Ma sapeva che lì dentro c’era qualcuno. E siccome non era entrato dalla porta, doveva essere entrato dalla finestra. Che stupidaggine, si disse Alvin, qui non può essere entrata anima viva. Ma restò immobile, senza più ridere adesso, perché poteva sentirlo, qualcuno in piedi davanti a lui. No, è un incubo, ecco tutto, sono ancora spaventato da prima, quando ho pensato che là fuori ci fosse qualche Rosso che mi spiava, o forse per via delle minacce di Anne, dev’essere proprio così, basta che resti qui fermo con gli occhi chiusi e se ne andrà.

Il buio all’interno delle palpebre di Al si tinse di rosa. Nella stanza era comparsa una luce. Una luce capace d’illuminarla a giorno. Al mondo non c’era candela, no, e nemmeno lanterna, che potesse emettere una luce così forte. Al aprì gli occhi, e la sua paura si trasformò in terrore, perché adesso vide che ciò che temeva si era avverato.

Ai piedi del suo letto c’era un uomo, un uomo che splendeva come se fosse fatto di luce. Il chiarore che illuminava la stanza proveniva dalla sua pelle, dal suo torace là dove la camicia era strappata, dal suo viso e dalle sue mani. E in una di quelle mani l’uomo stringeva un coltello, un affilato coltello d’acciaio. Sto per morire, pensò Al. Proprio come Anne aveva minacciato, solo che era assolutamente impossibile che fossero state le sue sorelle a creare un’apparizione così spaventosa. Quell’Uomo Luminoso era venuto da solo, questo era certo, e aveva intenzione di uccidere Alvin Junior per punirlo dei suoi peccati, e non perché qualcun altro lo avesse incaricato di farlo.

Poi fu come se la luce proveniente dall’uomo avesse attraversato la pelle di Alvin penetrandogli dentro, e la sua paura all’improvviso scomparve. Sì, l’Uomo Luminoso poteva avere un coltello, e poteva essersi insinuato nella stanza senza neanche aprire la porta, ma non aveva nessuna intenzione di fargli del male. Così Alvin si tranquillizzò un pochino e dimenandosi si tirò all’indietro finché non si trovò quasi seduto, con la schiena appoggiata alla parete, a guardare l’Uomo Luminoso, in attesa di vedere che cosa avrebbe fatto.

L’Uomo Luminoso sollevò il lucente coltello d’acciaio, si appoggiò la lama sul palmo dell’altra mano… e tagliò. Alvin scorse il sangue color rosso brillante scorrere dalla ferita nella mano dell’Uomo Luminoso, ruscellargli lungo l’avambraccio, e dal gomito gocciolare sul pavimento. Ma non ne aveva ancora viste cadere quattro gocce che ebbe una visione. Si trovava nella camera delle sue sorelle; quel posto lo conosceva bene, ma adesso era tutto diverso. I letti erano altissimi, e le sue sorelle erano gigantesse, tanto che poteva distinguere bene solo piedi enormi e gambe che s’innalzavano verso il soffitto… Allora capì che stava vedendo la stanza dal punto di vista di una creatura molto piccola. Dal punto di vista di uno scarafaggio. Nella visione, zampettava avanti, spinto da una fame divorante, senza provare la minima paura, sapendo che se fosse riuscito a salire su uno di quei piedi, su una di quelle gambe, avrebbe avuto tutto il cibo che desiderava. Così correva, zampettava, si arrampicava, cercava. Ma del cibo non c’era traccia, e poi immense mani scendevano verso di lui e lo spazzavano via, e poi un’immensa ombra nera gli incombeva addosso e lui provava il lancinante, tremendo, schiacciante, acutissimo dolore della morte.

Questo non avvenne una volta sola, ma molte decine: la speranza del cibo, la sicurezza che niente di male avrebbe potuto accadergli; poi la delusione — niente da mangiare, assolutamente niente — e infine il terrore e la sofferenza e la morte. Ciascuna di. quelle piccole vite fiduciose, tradita sopraffatta, schiacciata.

E poi nella visione divenne uno scarafaggio che era riuscito a sopravvivere, uno che era riuscito a sfuggire ai colpi di quelle enormi scarpe incombenti, sotto il letto, nelle fessure delle pareti. Fuggiva dalla stanza della morte, ma non nel vecchio posto, non nella stanza sicura, perché adesso non era più sicura. Era da lì ch’erano venute le bugie. Quello era il covo del traditore, del mentitore, dell’assassino che li aveva mandati in quel luogo a morire. Nella visione non c’erano parole, naturalmente. Nel cervello di uno scarafaggio non potevano esservi parole, né chiarezza di pensiero. Ma Al aveva parole e pensieri, e sapeva meglio di qualsiasi scarafaggio che cosa essi avessero imparato. Gli era stato promesso qualcosa riguardo al mondo circostante, ne erano stati convinti, e invece era tutta una menzogna. La morte era una cosa tremenda, sì, e bisognava fuggire da quella stanza; ma nella stanza accanto c’era qualcosa di peggiore della morte… lì il mondo era impazzito, era un luogo dove poteva accadere qualsiasi cosa, dove non si poteva credere più a nulla, dove nulla era sicuro. Un luogo terribile. Il peggiore.

Poi la visione svanì. Alvin restò seduto con le mani sugli occhi, singhiozzando disperatamente. Hanno sofferto, gridò in silenzio, hanno sofferto e sono stato io a farli soffrire, sono stato io a tradirli. Ecco cos’ha voluto mostrarmi l’Uomo Luminoso. Ho fatto in modo che gli scarafaggi si fidassero di me, e poi li ho ingannati e li ho mandati a morire. Ho commesso un assassinio.

No, un assassinio no! Chi ha mai sentito dire che ammazzare degli scarafaggi sia un assassinio? Nessuno al mondo potrebbe chiamarlo così.

Ma quello che ne pensavano gli altri non aveva nessuna importanza, Al lo sapeva bene. L’Uomo Luminoso era venuto a mostrargli che l’assassinio era assassinio.

E adesso l’Uomo Luminoso non c’era più. La luce che aveva illuminato la stanza era scomparsa, e quando Al aprì gli occhi nella stanza non c’era nessuno tranne Cally, che dormiva come un sasso. Era troppo tardi anche solo per implorare perdono. Al colmo della disperazione, Al Junior chiuse gli occhi e pianse.

Quanto tempo era passato? Qualche secondo? O Alvin si era assopito e non si era accorto del trascorrere del tempo? Comunque fosse… la luce era ricomparsa. Di nuovo gli penetrò dentro, non solo attraverso gli occhi, ma trapassandolo fino al cuore, sussurrandogli, calmandolo. Di nuovo Alvin aprì gli occhi e guardò in viso l’Uomo Luminoso, attendendo che parlasse. Poiché ciò non avvenne, Alvin pensò che adesso toccasse a lui e così balbettò faticosamente alcune parole, così inadeguate in confronto a ciò che provava. «Mi dispiace, non lo farò più, io…».

Stava farfugliando, se ne rendeva conto. Da quanto era sconvolto non riusciva neanche a sentirsi parlare. Ma per un istante la luce si fece più intensa, e nella sua mente udì una domanda. Non una parola venne pronunciata, nemmeno una, ma Alvin capì che l’Uomo Luminoso voleva che dicesse di che cosa si stava scusando.

E quando ci pensò, Alvin non riuscì più a capire in che cosa esattamente avesse sbagliato. Sicuramente non era per l’atto di uccidere in sé; si poteva anche morire di fame se ogni tanto non si ammazzava un maiale, e quando la donnola ammazzava un topo non lo si poteva certo definire un assassinio, no?

Poi la luce si fece di nuovo più intensa, e Alvin ebbe un’altra visione. Stavolta non c’erano scarafaggi. Stavolta vide l’immagine di un Rosso che, in ginocchio davanti a un cervo, Io invitava ad avvicinarglisi e a morire; e il cervo si avvicinava, tutto tremante, con gli occhi spalancati, come fanno i cervi quando hanno paura. Sapeva che stava per morire. Il Rosso scoccava una freccia, che si conficcava vibrante nel fianco del cervo. L’animale vacillava e cadeva. E Alvin capì che in quella visione non c’era peccato, perché morire e uccidere erano semplicemente parte della vita. Il Rosso faceva una cosa giusta, e così il cervo; ambedue agivano in base alle proprie leggi naturali.

Se dunque la colpa di cui si era macchiato non era la morte degli scarafaggi, che cos’era? Forse i suoi poteri? Il dono di far andare le cose proprio dove voleva lui, di farle rompere proprio nel posto giusto, di capire come le cose sarebbero dovute essere e aiutarle a diventare tali? Vivendo in campagna, quel dono gli era riuscito utile nel costruire e aggiustare tante piccole cose. Se il manico di una zappa si rompeva, lui sapeva giuntare i due pezzi così perfettamente da tenerli insieme per sempre senza colla né chiodi… Per unire i due pezzi di una cinghia di cuoio strappata non aveva neanche bisogno di cucirli; e quando annodava due pezzi di spago o di corda, si poteva star sicuri che il nodo non si sarebbe sciolto mai più. Era lo stesso dono che aveva usato con gli scarafaggi. Aveva spiegato agli scarafaggi come le cose sarebbero dovute essere, e quelli avevano fatto ciò che lui voleva. Era forse quello il suo peccato? Il suo dono?

L’Uomo Luminoso udì la sua domanda ancor prima che Alvin trovasse le parole per formularla. Di nuovo la luce, ed ecco un’altra visione. Stavolta si vide premere con le mani su un macigno, e il macigno si scioglieva sotto le sue mani come burro, assumendo esattamente la forma da lui desiderata. Liscio e intero si staccava dal fianco della montagna e rotolava giù, una palla perfetta, una sfera perfetta, che cresceva in continuazione fino a diventare un mondo intero, formato esattamente come le sue mani l’avevano creato, con alberi ed erba che scaturivano dalla superficie, e animali che correvano e saltavano e volavano e nuotavano e strisciavano e si scavavano tane, sopra e in alto e all’interno della palla di pietra che aveva creato. No, non era un potere malefico, era un potere meraviglioso, se solo avesse saputo come impiegarlo.

Be’, se non è la morte e se non è il dono, che cosa ho fatto di male?

Stavolta l’Uomo Luminoso non gli mostrò assolutamente nulla. Stavolta Alvin non scorse lampi di luce, né ebbe visioni. La risposta stavolta non provenne dall’Uomo Luminoso, ma dall’interno della sua persona. Un momento prima si era sentito troppo stupido per capire la sua stessa cattiveria, e un momento dopo la vide con straordinaria chiarezza.

Non era la morte degli scarafaggi, e non era perché lui stesso ve li avesse spinti. Era perché l’aveva fatto solo per soddisfare un suo ghiribizzo. Alvin aveva detto agli scarafaggi che era per il loro bene, ma non era così, era esclusivamente a suo vantaggio. Più che agli scarafaggi, aveva voluto far del male alle sue sorelle, solo per starsene poi disteso a letto a ridere sotto i baffi perché adesso lui e le sorelle erano pari…

L’Uomo Luminoso udì i pensieri di Alvin, sissignore, e Al Junior scorse una fiammata scaturire da quegli occhi balenanti e colpirlo diritto al cuore. Aveva indovinato. Aveva visto giusto.

Così Alvin, in quel preciso momento, pronunciò la promessa più solenne della sua vita. Aveva un dono, e l’avrebbe usato, ma quel genere di cose doveva sottostare a delle regole, regole alle quali d’ora in avanti si sarebbe attenuto anche a costo della sua stessa vita. «Non lo userò mai più a mio vantaggio» disse Alvin Junior. E nel pronunciare queste parole, ebbe l’impressione che il suo cuore andasse a fuoco, da come gli bruciava dentro.

L’Uomo Luminoso sparì di nuovo.

Alvin si abbandonò, lasciandosi scivolare nuovamente sotto il lenzuolo, esausto dopo tanto piangere, sfinito dal sollievo. Aveva fatto una brutta cosa, questo era sicuro. Ma purché avesse mantenuto il giuramento, purché avesse usato il suo dono solo per aiutare gli altri e non a proprio vantaggio, ebbene allora sarebbe stato un bravo ragazzo e non avrebbe avuto nulla di cui vergognarsi. Si sentiva stordito come dopo un accesso di febbre, e in qualche modo era proprio così, era stato guarito dalla malvagità che per qualche tempo gli era cresciuta dentro come una malattia. Ripensò a quando si era messo a ridere dopo aver causato la morte degli scarafaggi per il proprio piacere, e se ne vergognò, ma quella vergogna era come temperata, ammorbidita, perché sapeva che non sarebbe accaduto mai più.

Mentre se ne stava lì disteso, Alvin avvertì ancora una volta la luce farsi più intensa nella stanza. Ma stavolta non proveniva da un’unica sorgente. No, non proveniva affatto dall’Uomo Luminoso. Stavolta, quando aprì gli occhi, si rese conto che la luce proveniva dal suo stesso corpo. Le sue mani risplendevano, anche il suo viso doveva risplendere come in precedenza quello dell’Uomo Luminoso. Si strappò le coperte di dosso e vide che tutto il suo corpo splendeva di un chiarore così accecante che quasi non riusciva a guardarsi, a parte il fatto che non riusciva a guardare neanche altrove. Sono proprio io, questo? pensò.

No, non sono io. Risplendo così perché anch’io debbo fare qualcosa. Come l’Uomo Luminoso ha fatto qualcosa per me, anch’io debbo fare qualcosa. Ma per chi dovrei farlo?

Ed ecco l’Uomo Luminoso, nuovamente visibile ai piedi del letto. Adesso però non risplendeva più. E in quel momento Al Junior si rese conto di conoscerlo. Era Lolla-Wossiky, il Rosso ubriacone e orbo da un occhio che si era fatto battezzare qualche giorno prima, e che ancora indossava i vestiti da uomo bianco che gli avevano dato quando era diventato cristiano. Grazie alla luce che adesso gli risplendeva dentro, Alvin scorgeva tutto con chiarezza molto maggiore. Vide così che non era stato il liquore ad avvelenare quel povero pellerossa, e che non era stata la perdita di un occhio a renderlo invalido. Era qualcosa di molto più oscuro, qualcosa che gli cresceva come una muffa dentro la testa.

Il Rosso fece tre passi avanti e s’inginocchiò accanto al letto, col viso vicinissimo agli occhi di Alvin. Che cosa vuoi da me? Che cosa debbo fare?

Per la prima volta, l’uomo aprì gli occhi e parlò. «Rendi intera ogni cosa» disse. Un istante dopo, Al Junior si rese conto che l’uomo aveva pronunciato quelle parole nella propria lingua… lo Shawnee, ricordò, da ciò che gli adulti avevano detto quando era stato battezzato. Ma Al l’aveva capito con altrettanta chiarezza che se fosse stato detto nel più puro inglese del Lord Protettore. Rendi intera ogni cosa.

Be’, era proprio il dono di Al, no? Aggiustare le cose, fare in modo che le cose fossero come dovevano essere. Il problema era che lui stesso non sapeva bene come faceva, e sicuramente non aveva la minima idea di come aggiustare qualcosa di vivo.

Forse, pensò, non c’era nulla da capire. Forse doveva soltanto agire. Così alzò il braccio e lo allungò con la massima cautela fino a toccare la guancia di Lolla-Wossiky, proprio sotto l’occhio martoriato. No, così non andava bene. Sollevò il dito fino a sfiorare la palpebra floscia dove avrebbe dovuto esserci l’altro occhio. Sì, pensò. Sii intero.

L’aria sfrigolò. Si sprigionarono scintille. Col fiato mozzo, Al ritirò la mano.

Ogni luce era scomparsa dalla stanza. C’era solo il chiarore lunare che adesso entrava dalla finestra. Di tutto quello splendore non restava nemmeno un pallido riflesso. Come se si fosse svegliato da un sogno, il sogno più realistico che avesse mai fatto in vita sua.

Trascorse un minuto buono prima che gli occhi di Alvin si abituassero al buio e lui tornasse a vedere. Non era un sogno, questo era certo. Perché il pellerossa che in precedenza gli era comparso nell’aspetto dell’Uomo Luminoso si trovava ancora nella stanza. Era impossibile che fosse un sogno, quando ti ritrovavi un Rosso inginocchiato accanto al letto, con le lacrime che gli sgorgavano dall’occhio buono, mentre l’altro occhio, dove l’avevi appena toccato…

La palpebra era sempre floscia, abbassata sul vuoto. L’occhio non era stato guarito. «Non ha funzionato» sussurrò Alvin. «Mi dispiace».

Era una vergogna, che l’Uomo Luminoso lo avesse salvato dall’abominio della malvagità, e lui non fosse stato capace di ricambiarlo. Ma il Rosso non disse una sola parola di rimprovero. Protese le braccia, prese ambedue le spalle nude di Alvin nelle sue mani grandi e forti, lo attirò a sé, lo baciò con forza e calore sulla fronte, come un padre con un figlio, come un fratello col fratello, come un amico con l’amico più caro il giorno prima di morire. Quel bacio e tutto ciò che racchiudeva — speranza perdono amore — che io non me ne dimentichi mai più, disse Alvin silenziosamente.

Lolla-Wossiky balzò in piedi con l’agilità di un ragazzo. Non era più un ubriacone barcollante. Per cambiare, era cambiato, e ad Alvin venne da pensare che forse qualcosa era riuscito a guarire, qualcosa era riuscito a mettere a posto, qualcosa di più profondo dei suoi occhi. Forse l’aveva guarito dalla sua smania per il whisky.

Ma se era così, Alvin sapeva che non era stato lui a farlo. Era stata, la luce che per qualche momento si era accesa in lui. Il fuoco che l’aveva riscaldato senza bruciare.

Il pellerossa corse alla finestra, oltrepassò d’un balzo il davanzale, restò appeso per un istante con le mani, quindi scomparve. Da come si muoveva silenziosamente, Alvin non lo udì nemmeno toccare terra coi piedi. Come un gatto nel fienile.

Quanto tempo era passato? Ore e ore? Era quasi l’alba? O erano trascorsi solo pochi secondi da quando Anne era venuta a sussurrargli all’orecchio le sue minacce, e poi era sceso il silenzio?

Non aveva molta importanza. Alvin non avrebbe potuto addormentarsi, non adesso, non con tutto quello che era appena accaduto. Perché il pellerossa era venuto da lui? Che cosa significava tutto quanto, la luce che si era sprigionata da Lolla-Wossiky e poi era venuta a colmare anche lui? Emozionato com’era, non poteva certo restarsene a letto. Perciò si alzò, s’infilò in fretta e furia la camicia da notte e scivolò fuori dalla stanza.

Adesso che si trovava nel corridoio, sentì qualcuno parlare al piano di sotto. Papà e mamma erano ancora alzati. Sulle prime ebbe l’impulso di correre giù e raccontare che cosa gli era accaduto. Ma poi udì il tono delle voci. Rabbia, paura: sembravano sconvolti. Non era proprio il momento di andargli a raccontare un sogno. Sì, anche se Alvin sapeva che non era stato affatto un sogno, che era accaduto davvero, loro l’avrebbero considerato un sogno. E adesso che ricominciava a riordinare i propri pensieri, capì che quella storia non poteva raccontargliela affatto. Raccontare che aveva mandato gli scarafaggi in camera delle sue sorelle? Gli spilli, il dito nel sedere di sua sorella, le minacce? Sarebbe inevitabilmente venuto fuori tutto quanto, anche se ad Alvin sembrava che fosse accaduto mesi, anni prima. Niente di tutto questo aveva più importanza, adesso, in confronto al giuramento che aveva pronunciato e al futuro che gli si era spalancato davanti… ma a papà e mamma sarebbe importato, eccome.

Così percorse in punta di piedi il corridoio, e sempre in punta di piedi scese le scale fino a dove poteva udire quel che dicevano senza farsi vedere.

Pochi minuti dopo, tuttavia, non si preoccupò più di restare nascosto. Scivolò più avanti finché poté vedere ciò che accadeva nella sala grande. Papà sedeva sul pavimento, circondato dai frammenti di legno. Al restò stupito nel vedere che papà era ancora lì, anche dopo essere venuto di sopra a schiacciare gli scarafaggi, anche dopo ch’era trascorso tutto quel tempo. Adesso era chino in avanti, il viso nascosto fra le mani. La mamma era inginocchiata davanti a lui. In mezzo a loro, i pezzi di legno più grossi.

«È vivo, Alvin» disse la mamma. «Su tutto il resto non vale la pena di rompersi la testa».

Papà sollevò il capo e la guardò. «L’acqua è penetrata nel tronco dell’albero, si è gelata e poi si è sciolta, e questo molto tempo prima che noi lo abbattessimo. E guarda caso, l’abbiamo segato in modo tale che il difetto non venisse alla luce. Ma dentro era spaccato in tre direzioni, come se non aspettasse altro che il peso della trave di colmo. È stata l’acqua a farlo».

«L’acqua» disse la mamma, e nella sua voce c’era un tono lievemente canzonatorio.

«Con questa, è la quattordicesima volta che l’acqua tenta di ucciderlo».

«I bambini rischiano la pelle in continuazione».

«La volta che lo tenevi in braccio e sei scivolata sul pavimento bagnato. La volta che David ha fatto cadere il pentolone dell’acqua bollente. Le tre volte che si è perso e l’abbiamo trovato sulla riva del fiume. L’inverno scorso, quando il ghiaccio si è rotto sul fiume Tippy-Canoe…».

«Pensi che sia stato il primo bambino a cascare in acqua?»

«L’acqua avvelenata che gli ha fatto vomitare sangue. Il bisonte coperto di fango che l’ha caricato in quel prato…».

«Coperto di fango! Tutti sanno che i bisonti si rotolano nel fango come maiali. In quel caso l’acqua non c’entrava per niente».

Papà diede una manata sul pavimento. Il rumore echeggiò nella casa come una fucilata. La mamma sobbalzò, e naturalmente alzò lo sguardo verso le scale, là dove i bambini dormivano. Alvin Junior sgattaiolò su in fretta e furia, e una volta fuori vista attese che sua madre gli ordinasse di tornare a letto. Ma lei non doveva averlo visto, perché non gridò niente, e nessuno gli venne dietro.

Quando in punta di piedi ridiscese, erano ancora impegnati nella discussione, solo a voce un po’ più bassa.

Papà sussurrava, ma nel suo sguardo si era acceso uno strano bagliore. «Se pensi che in questo l’acqua non c’entri per niente, sei tu la pazza».

La mamma adesso si era fatta di ghiaccio. Alvin Junior conosceva bene quello sguardo… significava che la furia in lei era giunta al massimo. In quei casi non c’erano schiaffi, né lavate di capo. Solo gelo e silenzio, e chiunque dei suoi figli ricevesse quel trattamento cominciava a desiderare la morte e i tormenti dell’inferno, perché se non altro là sotto avrebbe fatto un po’ più caldo.

Con papà non restò in silenzio, ma la sua voce era tremendamente gelida. «Persino il Salvatore bevve l’acqua dal pozzo della Samaritana».

«Non mi risulta però che ci sia caduto dentro» disse papà.

Alvin Junior si rivide precipitare nell’oscurità aggrappato al secchio, finché la corda si era incastrata nella carrucola e il secchio si era arrestato di colpo proprio sopra il pelo dell’acqua, nella quale sarebbe sicuramente annegato. Gli avevano raccontato che all’epoca non aveva ancora due anni, ma lui qualche volta ancora sognava le pietre all’interno del pozzo diventare sempre più scure mentre lui precipitava e precipitava. Nel sogno, il pozzo era profondo dieci miglia, e lui cadeva per un’eternità prima di svegliarsi.

«E allora rifletti su questo, Alvin Miller, dato che pensi di conoscere la Scrittura».

Papà cominciò a protestare che non aveva voluto dire niente del genere…

«Satana in persona disse al Signore nel deserto che gli angeli lo avrebbero portato con le loro mani perché non urtasse il piede contro una pietra».

«Non capisco che cosa c’entri questo con l’acqua…».

«Se ti ho sposato per la tua intelligenza, evidentemente sono stata imbrogliata».

Papà si fece rosso in viso. «Non darmi del rimbambito, Faith. Io so quello che so, e…».

«Il bambino ha un angelo custode, Alvin Miller. Ha qualcuno che lo protegge».

«Tu e le tue Scritture. Tu e i tuoi angeli».

«Allora spiegami com’è possibile che abbia avuto quattordici incidenti e ne sia sempre uscito senza un graffio. Quanti altri ragazzi arrivano a sei anni senza farsi mai male?»

A queste parole papà assunse una strana espressione, un po’ contorta, come se parlare gli risultasse difficile. «Ti dico che qualcosa lo vuole morto. Lo so».

«Tu non sai proprio niente».

Papà parlò ancora più lentamente, pronunciando le parole tra i denti come se ciascuna lo facesse soffrire. «Lo so».

Parlare gli era così difficile che la mamma non lo stette nemmeno ad ascoltare, ma tirò diritto. «Se c’è qualche complotto diabolico per ucciderlo — e non ne sono affatto convinta, Alvin — allora c’è un piano celeste ancora più potente per proteggerlo».

Poi ad un tratto papà non ebbe più difficoltà a parlare. Aveva semplicemente smesso di sforzarsi di dire ciò che non riusciva a dire, e Alvin Junior si sentì tradito, come quando qualcuno si dichiarava sconfitto ancor prima di essere atterrato. Ma non appena ebbe formulato dentro di sé questo pensiero, capì che suo padre non avrebbe mai ceduto in quel modo a meno che non ci fosse qualche terribile forza che gl’impediva di esprimersi. Papà era un uomo forte, nessuno avrebbe potuto tacciarlo di vigliaccheria. E nel vederlo sconfitto in quel modo, be’, il piccolo Alvin ebbe paura. Sapeva che papà e mamma stavano parlando di lui, e sebbene non capisse nemmeno metà di quel che dicevano, sapeva che papà stava dicendo che qualcuno voleva morto proprio lui, Alvin Junior, e quando papà aveva cercato di rivelare la prova decisiva, quella che faceva sì che lui sapesse, qualcosa gli aveva chiuso la bocca, paralizzandolo.

Senza bisogno che nessuno glielo dicesse, Alvin Junior capì che ciò che aveva chiuso la bocca a papà, qualsiasi cosa fosse, era l’esatto contrario di quella fulgida luce che quella notte aveva colmato Alvin e l’Uomo Luminoso. C’era qualcosa che lo voleva forte e buono. E c’era qualcos’altro che lo voleva morto. E la cosa buona, di qualsiasi cosa si trattasse, poteva mostrargli delle visioni, poteva fargli capire di quale nefanda colpa si fosse macchiato e insegnargli a mantenersene lontano per sempre. La cosa cattiva, invece, aveva il potere di chiudere la bocca a papà, di sconfiggere l’uomo più forte e coraggioso che Alvin avesse mai conosciuto. E questo lo spaventava a morte.

Quando papà riprese la discussione, il suo settimo figlio capì che aveva rinunciato a usare la prova decisiva. «Non si tratta di diavoli né di angeli» disse papà, «ma degli elementi dell’universo. Non vedi che quel bambino è un’offesa alla natura? In lui si cela un potere che né tu né io possiamo nemmeno immaginare. Un potere tale che una parte della natura non può tollerarlo… un potere tale che riesce a proteggersi anche senza rendersene conto».

«Se essere settimo figlio d’un settimo figlio assicura un simile potere, allora dove sono i tuoi poteri, Alvin Miller? Anche tu sei un settimo figlio… niente in confronto a lui, certo, ma non ti ho mai visto fare il rabdomante, o…».

«Tu non sai che cosa io sappia fare…».

«So che cosa non sai fare. So che tu non credi…».

«Io credo in ogni verità…».

«So che tutti gli altri uomini sono laggiù a costruire una chiesa di cui noi tutti andremo orgogliosi, mentre tu…».

«Quel pastore è un idiota…».

«Non ti capita mai di pensare che forse Dio sta usando il tuo prezioso settimo figlio per aprirti gli occhi inducendoti al pentimento?»

«Ah, è questo il Dio in cui tu credi? Un Dio che cerca di uccidere un bambino perché suo padre vada in chiesa?»

«Il Signore ha salvato il tuo bambino, per darti un saggio della Sua natura amorevole e pietosa…».

«Quell’amore e quella pietà che hanno lasciato morire il mio Vigor…».

«Ma prima o poi la Sua pazienza si esaurirà…».

«E allora ammazzerà un altro dei miei figli».

Allora Faith lo schiaffeggiò. Alvin Junior lo vide accadere con i suoi stessi occhi. E non era uno di quegli scappellotti che Faith somministrava ai suoi figli quando parlavano sottovoce o perdevano tempo. Fu un manrovescio che quasi gli portò via la faccia e lo fece ruzzolare sul pavimento.

«Ascoltami bene, Alvin Miller». La voce della mamma era così gelida da scottare. «Se quella chiesa sarà finita senza che tu abbia dato il tuo contributo, allora smetterai di essere mio marito, e io smetterò di essere tua moglie».

Se vi furono altre parole, Alvin Junior non le udì. Si era ficcato a letto, tutto tremante all’idea che un pensiero del genere potesse essere concepito, figuriamoci pronunciato a voce alta. Quanti spaventi si era preso quella notte: aveva avuto paura del dolore, paura di morire quando Anne gli aveva sussurrato le sue minacce, e soprattutto aveva avuto paura quando l’Uomo Luminoso gli era comparso davanti e aveva dato un nome al suo peccato. Ma questa era un’altra paura. Sentir parlare la mamma così, sentirle dire che avrebbe potuto lasciare papà, quella era la fine dell’universo, la fine di ogni certezza. Alvin Junior si rincantucciò nel letto con pensieri d’ogni genere che gli danzavano nella testa così in fretta che lui non riusciva ad acchiapparne neanche uno, e finalmente in tutta quella confusione non gli restò altro che dormire.

Il mattino seguente pensò che forse era stato tutto un sogno, doveva essere stato un sogno. Ma sul pavimento ai piedi del letto, là dove era gocciolato il sangue dell’Uomo Luminoso, c’erano delle nuove macchie. Non era stato un sogno, dunque. E la lite tra i suoi genitori, nemmeno quella era stata un sogno. Dopo colazione papà lo fermò e gli disse: «Oggi resti qui con me, Al».

L’espressione sul viso della mamma rendeva chiaro come la luce del sole che le parole della sera prima non erano state dimenticate.

«Voglio andare ad aiutare laggiù alla chiesa» disse Alvin Junior. «Non ho paura delle travi».

«Oggi stai con me. Devi aiutarmi a costruire una cosa». Papà deglutì, facendo un visibile sforzo per non guardare la mamma. «Quella chiesa avrà bisogno di un altare, e ho pensato che ne potremmo costruire uno da metterci dentro non appena il tetto sarà a posto e le pareti saranno finite». Papà guardò la mamma con un sorriso che fece correre un brivido lungo la schiena di Alvin Junior. «Pensi che al pastore piacerà?»

Era evidente che la mamma era stata colta di sorpresa. Ma Alvin Junior sapeva bene che non era tipo da rinunciare alla lotta solo perché l’avversario era riuscito ad atterrarla. «Che aiuto potrà darti il bambino?» chiese. «Come falegname non è granché».

«Ha occhio» disse papà. «Se è capace di lavorare il cuoio e di aggiustarlo, può disegnare qualche croce sull’altare. Qualche decorazione».

«A intagliare il legno è più bravo Measure» disse la mamma.

«E allora quelle croci gliele farò incidere a fuoco». Papà posò la mano sulla testa di Alvin Junior. «E poi il bambino può anche starsene seduto tutto il giorno a leggere la Bibbia. Quel ch’è certo è che non metterà piede in quella chiesa finché non ci avranno portato l’ultima panca».

La voce di papà era abbastanza dura da incidere le sue parole nella pietra. La mamma guardò Alvin Junior, quindi Alvin Senior. Dopodiché voltò loro le spalle e cominciò a riempire il cestino di provviste per quelli che andavano a lavorare alla chiesa.

Alvin Junior uscì di casa e andò dove Measure stava attaccando i cavalli, e Wastenot e Wantnot stavano caricando sul carro le assicelle di copertura per il tetto.

«Vuoi venire a fare un’altra visitina alla chiesa?» chiese Wantnot.

«Noi potremmo buttarti addosso dei tronchi, e tu potresti spaccarli con la testa in modo da farne assicelle per il tetto» disse Wantnot.

«Non vengo» disse Alvin Junior.

Wastenot e Wantnot si scambiarono identici sguardi d’intesa.

«Be’, peccato» disse Measure. «Ma quando mamma e papà si raffreddano, c’è da vedere l’intera valle del Wobbish coprirsi di neve». E fece l’occhiolino ad Alvin Junior proprio come la sera prima, quando questo gli aveva procurato tanti guai.

Quella strizzata d’occhio fece sì che Alvin pensasse di poter rivolgere a Measure una domanda che normalmente non avrebbe osato esprimere a parole. Gli si avvicinò in modo che la sua voce non potesse arrivare fino agli altri. Measure capì al volo, e si accovacciò accanto alla ruota del carro per ascoltare ciò che Alvin aveva da dirgli.

«Measure, se la mamma crede in Dio e papà no, come faccio a sapere chi ha ragione?»

«Io penso che papà ci creda, in Dio» disse Measure.

«Ma se non ci credesse? È questo che voglio sapere. Come faccio a capirci qualcosa, se la mamma dice una cosa e papà ne dice un’altra?»

Measure fu lì lì per cavarsela con una battuta, ma s’interruppe… Alvin poté leggergli in viso che aveva deciso di rispondergli seriamente. Di dirgli la verità. «Al, te lo confesso, vorrei saperlo anch’io. Qualche volta penso che nessuno sappia nulla».

«Papà dice che uno conosce quel che vede con i propri occhi. La mamma dice che uno conosce quel che sente nel cuore».

«E tu? Che cosa ne pensi?»

«Cosa vuoi che ne pensi, Measure? Ho solo sei anni».

«Io ne ho ventidue, Alvin, sono un uomo fatto, eppure non lo so ancora. Penso che non lo sappiano neanche papà e mamma».

«E allora, se non lo sanno, come mai si scaldano tanto?»

«Oh, essere sposati vuol dire proprio questo. Litighi in continuazione, ma non litighi mai per quello che pensi».

«E allora per che cosa stanno litigando, veramente?»

Stavolta Alvin lo vide fare esattamente il contrario di prima. Measure pensò di dire la verità, ma poi cambiò idea. Si tirò in piedi e scompigliò con la mano i capelli di Alvin. Per Al Junior questo era un indizio sicuro del fatto che un adulto stava per raccontargli una bugia, come sempre facevano con i bambini, quasi che i bambini non fossero abbastanza degni di fiducia perché si potesse dire loro la verità. «Ecco, penso che litighino tanto per ascoltarsi parlare».

Il più delle volte Alvin si limitava ad ascoltare le bugie degli adulti senza commentare, ma questa volta si trattava di Measure, e non gli piaceva affatto che fosse Measure a mentirgli.

«Quanti anni dovrò avere perché tu mi dica le cose come stanno?» chiese Alvin.

Lo sguardo di Measure lampeggiò d’ira per un istante — a nessuno piace sentirsi dare del bugiardo — ma poi sorrise, e il suo sguardo si accese di comprensione. «Abbastanza da poter indovinare la risposta da solo» disse, «ma non tanti da far sì che non ti serva più a niente».

Alvin era su tutte le furie, e non fece nulla per nasconderlo.

«Non prendertela così, fratellino. Certe cose non posso dirtele perché nemmeno io conosco me stesso, e questo non significa mentire. Ma puoi star sicuro di una cosa. Se potrò dirtelo, te lo dirò, e se non potrò te lo farò sapere senza complimenti».

Era la cosa più onesta che un adulto gli avesse mai detto, tanto che gli occhi di Alvin si riempirono di lacrime. «Manterrai questa promessa, Measure?»

«La manterrò fino alla morte, puoi contarci».

«Non lo dimenticherò, sai». Alvin si ricordò del giuramento che aveva fatto all’Uomo Luminoso la sera prima. «Anch’io so mantenere le promesse».

Measure rise e attirò Alvin a sé, stringendoselo forte contro la spalla. «Sei peggio della mamma» disse. «Non molli mai, eh?»

«Non posso farci niente» disse Alvin. «Se comincio a crederti, come faccio a sapere quando devo smettere?»

«Non smettere» disse Measure.

Qualche momento dopo Calm li raggiunse a cavallo della sua vecchia giumenta, e la mamma uscì di casa col cestino del pranzo, e tutti quelli che dovevano andare, andarono. Papà portò Alvin Junior al fienile, e in men che non si dica Alvin stava aiutandolo a praticare gl’incastri tra un’asse e l’altra, e i suoi pezzi combaciavano come quelli di papà. Anzi, a dire il vero combaciavano anche di più, perché Al poteva usare il suo dono per questo, no? Quell’altare era per tutti quanti, perciò poteva fare in modo che gl’incastri combaciassero così perfettamente da non separarsi mai più, né alle giunzioni né da nessun’altra parte. A un certo punto pensò anche di aiutare papà a fare incastri altrettanto solidi, ma quando provò si accorse che anche papà aveva un certo geniaccio. I diversi elementi non si univano in modo da formare un unico pezzo continuo, come riusciva a fare Alvin… ma combaciavano abbastanza bene da far sì che Alvin non avesse nessun bisogno d’impicciarsi.

Papà non disse granché. Non ne aveva bisogno. Ambedue sapevano che Alvin Junior aveva il dono di far stare le cose insieme. Sul far della sera l’altare era finito e dipinto con una mano di mordente. Lo lasciarono lì ad asciugare, e quando entrarono in casa la mano di papà era posata con fermezza sulla spalla di Alvin. Camminavano insieme con la stessa facilità e la stessa armonia che se fossero stati parte dello stesso corpo, come se la mano di papà fosse spuntata direttamente dal collo di Alvin. Alvin poteva sentire il sangue pulsare nelle dita di papà, e quelle pulsazioni andavano perfettamente a tempo con quelle del sangue che gli batteva nella gola.

Quando fecero il loro ingresso, la mamma stava lavorando davanti al fuoco. Si voltò a guardarli. «Com’è venuto?» chiese.

«Più bello di così non poteva venire» disse Alvin Junior.

«Oggi alla chiesa non è capitato il minimo incidente» disse la mamma.

«Anche qui è andato tutto benissimo» disse papà…

Alvin Junior non riuscì assolutamente a capire come mai le parole della mamma suonassero come: «Non vado da nessuna parte», e perché le parole di papà suonassero come: «Resta con me per sempre». Ma sapeva di non essere pazzo a pensarlo, perché in quel preciso momento Measure alzò lo sguardo da dove se ne stava spaparanzato davanti al fuoco e fece l’occhiolino in modo che solo Alvin Junior potesse vederlo.

VIII

IL MESSO

Il reverendo Thrower si concedeva pochi vizi. Tra questi, le cene del venerdì sera dai Weaver. Più che di cene si sarebbe dovuto parlare di festini, perché i Weaver avevano bottega e laboratorio, e a mezzogiorno si concedevano solo un rapido spuntino. Ma ciò che riconduceva Thrower da loro un venerdì dopo l’altro non era tanto la quantità, quanto la qualità. In giro si diceva che Eleanor Weaver poteva prendere un vecchio ceppo e trasformarlo in modo da farlo sembrare uno squisito coniglio in umido. E d’altra parte non era soltanto questione di cibo, perché Armor-of-God — ‘Corazza-di-Dio’ — Weaver era un uomo che andava in chiesa e conosceva la Bibbia a menadito, e la conversazione con lui poteva svolgersi su un piano superiore. Non così elevato come in una conversazione tra ecclesiastici colti, ma senz’altro il meglio che si potesse avere in quelle terre selvagge e arretrate.

I padroni di casa e l’ospite consumavano il pasto nel retrobottega, che fungeva insieme da cucina, laboratorio e biblioteca. Ogni tanto Eleanor andava a rimestare nei tegami, e il profumo del pane appena infornato e della cacciagione che cuoceva a fuoco lento si mescolava con gli odori provenienti dal casotto esterno in cui i Weaver facevano il sapone, e a quello del sego con cui in quella stessa cucina fabbricavano candele.

«Vedete, noi siamo un po’ di tutto» aveva detto Armor la prima volta che il reverendo Thrower era stato da loro. «Sì, produciamo cose che ogni contadino dei dintorni è in grado di produrre da sé… ma le facciamo meglio, e quando le comprano da noi risparmiano ore e ore di lavoro, che possono utilizzare per disboscare, arare e coltivare altra terra».

Le pareti della bottega affacciata sulla strada erano piene di scaffali fino al soffitto, e gli scaffali erano pieni di mercanzie giunte fin lì sui carri coperti provenienti dall’Est. Tessuti di cotone prodotti dai filatoi e dai telai a vapore dell’Irrakwa, piatti di peltro, pentole e stufe di ferro prodotte dalle fonderie della Pennsylvania e di Suskwahenny, raffinate ceramiche, cofanetti e stipi fabbricati dagli ebanisti della Nuova Inghilterra, e persino qualche prezioso sacchetto di spezie giunto a Nuova Amsterdam dal lontano Oriente. Armor Weaver aveva una volta confessato che per riempire quella bottega aveva dato fondo ai risparmi di una vita, e non era affatto sicuro che in quella regione scarsamente popolata il suo azzardo si rivelasse vincente. Ma il reverendo Thrower aveva notato il costante afflusso di carri provenienti dalla bassa valle del Wobbish, dall’alto Tippy-Canoe o addirittura dal bacino del fiume Noisy, oltre cento miglia più a ovest.

Ora, mentre attendevano che Eleanor annunciasse che la selvaggina in umido era pronta, il reverendo Thrower rivolse ad Armor una domanda che lo tormentava da qualche tempo.

«Ho visto i carichi che fanno» disse, «e non riesco assolutamente a immaginare con cosa vi paghino. Da queste parti nessuno riscuote denaro contante, e non molto di ciò che possono offrire in cambio può interessare ai mercati dell’Est».

«Pagano in lardo, carbone, cenere e legname da costruzione, e naturalmente provviste per Eleanor e me e… per chiunque altro possa arrivare». Solo uno sciocco non si sarebbe accorto che Eleanor era ingrossata tanto da far pensare che ormai il suo tempo fosse agli sgoccioli. «Ma più che altro» disse Armor, «pagano a credito».

«Credito! E voi fate credito a contadini i cui scalpi l’inverno prossimo potrebbero essere barattati a Fort Detroit con moschetti o liquore?»

«Scalpi? Sì, se ne parla parecchio, ma sono soprattutto chiacchiere» disse Armor. «I Rossi di queste parti non sono degli stupidi. Sanno degli Irrakwa, e che i loro rappresentanti siedono accanto a quelli dei Bianchi nel Congresso di Filadelfia, e che hanno moschetti, cavalli, fattorie, campi e città proprio come se ne vedono in Pennsylvania, sul Suskwahenny o a Nuovo Orange. Sanno del popolo Cherriky degli Appalachi, che coltiva la terra e combatte a fianco dei ribelli bianchi di Tom Jefferson per difendere l’indipendenza del suo paese contro il re e i suoi tirapiedi».

«Può anche darsi che abbiano notato il costante flusso di chiatte lungo il fiume Hio, e i carri che vengono all’Ovest, e gli alberi che vengono abbattuti mentre si alzano le case di tronchi» osservò Thrower.

«Penso che in parte abbiate ragione, reverendo» disse Armor. «Penso che i Rossi abbiano davanti due strade: possono cercare di sterminarci, o possono cercare di diventare sedentari e vivere in mezzo a noi. Per loro non sarebbe la cosa più facile del mondo… non sono abituati alla vita di città, che per i Bianchi è il modo di vivere più naturale. Ma mettersi contro di noi sarebbe peggio, perché se ci provano finiranno con l’essere sterminati. Potrebbero anche pensare che uccidendo qualche Bianco sia possibile spaventare gli altri e tenerli lontani da qui. Ma non sanno come vanno le cose in Europa, come il sogno di possedere un pezzo di terra possa spingere la gente a fare un viaggio di cinquemila miglia e a lavorare come non ha mai lavorato in vita sua e a seppellire figli che in patria sarebbero magari sopravvissuti, e a rischiare di trovarsi un tomahawk piantato nel cervello, perché essere padroni di se stessi è meglio che servire sotto qualcun altro, chiunque egli sia. Tranne il Signore Iddio».

«Anche per voi è lo stesso?» chiese Thrower. «Rischiare tutto, in cambio della terra?»

Armor guardò sua moglie Eleanor e sorrise. Lei non ricambiò il sorriso, notò Thrower; ma allo stesso tempo il pastore notò la bellezza e la profondità del suo sguardo, come se Eleanor conoscesse segreti tali da costringerla a restare solenne anche quando il suo cuore traboccava di gioia.

«Non la terra nel senso in cui vuole possederla un agricoltore» disse Armor. «Io non sono un contadino, ve lo assicuro. Esistono altre maniere di possedere la terra. Vedete, reverendo Thrower, io oggi concedo loro credito perché credo in questo paese. Quando vengono da me a fare acquisti, mi faccio dire i nomi di tutti i loro vicini, e chiedo loro di disegnarmi rozze mappe delle loro fattorie e dei fiumi presso i quali vivono, e delle strade e dei corsi d’acqua che hanno attraversato per giungere fin qui. Chiedo loro di recapitare lettere scritte da altri, e scrivo lettere per loro e le rispedisco a est, a quelli che si sono lasciati alle spalle. So tutto di tutti nell’intera regione tra il Wobbish e il Noisy, e so come si fa ad arrivarci».

Il reverendo Thrower sorrise socchiudendo gli occhi. «In altre parole, fratello Armor, voi qui siete il governo».

«Per adesso, diciamo che se dovesse arrivare il giorno in cui un governo possa tornar comodo, io sarò pronto a prendere servizio» disse Armor. «E nel giro di due o tre anni, quando arriverà altra gente, e anche altri cominceranno a produrre mattoni, pentole, stoviglie, armadietti e botti, birra e formaggio e foraggio, be’, dove credete che verranno a vendere e comprare? Alla bottega che ha fatto loro credito quando le loro mogli morivano dalla voglia di un po’ di stoffa per farsi un vestito, o quando avevano bisogno di una pentola di ferro o di una stufa per tener fuori di casa il gelo dell’inverno».

Philadelphia Thrower aveva un po’ meno fiducia nella possibilità che per pura gratitudine quella gente si mantenesse fedele a Corazza-di-Dio Weaver, ma preferì non insistere. D’altra parte, pensò, potrei anche sbagliarmi. Il Salvatore non ha forse detto che dobbiamo gettare il nostro pane sulle acque? E anche se Thrower non riuscirà a realizzare il suo sogno, avrà pur sempre compiuto un’opera meritoria, contribuendo ad aprire queste terre alla civiltà.

La cena era pronta. Eleanor mise in tavola la carne in umido. Quando gli venne posta davanti un’elegante scodella bianca, Thrower fu quasi costretto a sorridere. «Dovete essere veramente orgogliosa di vostro marito e di tutto quello che sta facendo».

Invece di sorridere modestamente come Thrower si era aspettato, Eleanor quasi scoppiò a ridere. Corazza-di-Dio non si sognò nemmeno di mostrare altrettanta delicatezza. Sghignazzò proprio. «Reverendo Thrower, siete proprio una sagoma» disse. «Quando ho le braccia fino ai gomiti nel sego da candele, Eleanor ha le sue nel sapone. Quando scrivo una lettera per conto di qualcun altro e trovo il modo di farla recapitare, Eleanor disegna mappe e annota nomi per il nostro piccolo censimento. Non c’è cosa che io faccia senza che Eleanor sia al mio fianco, e non c’è cosa che lei faccia senza che io sia al suo fianco. Tranne forse il suo orticello di erbe odorose e medicinali, che interessa soprattutto lei. E la lettura della Bibbia, che interessa soprattutto me».

«È un bene che la moglie sia la più fedele collaboratrice del marito» sentenziò il reverendo Thrower.

«Noi collaboriamo a vicenda» ribatté Corazza-di-Dio. «Non dimenticatevene».

Lo disse con un sorriso che il reverendo Thrower restituì; ma il pastore restò un po’ deluso dal fatto che Armor fosse così sottomesso alla moglie da dover ammettere apertamente di non avere l’ultima parola non solo nella bottega, ma addirittura in casa. Che cosa ci si poteva aspettare, del resto, sapendo che Eleanor era cresciuta in quella strana famiglia Miller? Dalla figlia maggiore di Alvin e Faith Miller non ci si poteva certo aspettare che si piegasse ai voleri del marito come il Signore aveva stabilito.

La selvaggina in umido, comunque, era la migliore che Thrower avesse mai assaggiato. «Non sa assolutamente di selvatico» disse. «Non avrei mai creduto che il cervo potesse avere questo sapore».

«Eleanor toglie tutto il grasso» spiegò Armor, «e ci mette un po’ di pollo».

«Adesso che me lo dite» disse Thrower, «lo sento anch’io, nel sugo».

«Del grasso di cervo facciamo sapone» disse Armor. «Non gettiamo mai via nulla, se riusciamo a trovare il modo di utilizzarlo».

«Proprio secondo la volontà del Signore» disse Thrower. Poi si dedicò al cibo. Aveva già attaccato la seconda scodella di umido e la terza fetta di pane, quando fece un commento che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere scherzoso. «Signora Weaver, i piatti che cucinate sono così prelibati da farmi quasi credere nella stregoneria».

Thrower si aspettava al massimo una risatina. Eleanor invece abbassò sul tavolo uno sguardo talmente vergognoso da far pensare che l’avesse accusata di adulterio. E Corazza-di-Dio s’irrigidì sulla sedia. «Vi ringrazierei se non voleste toccare questo argomento in casa nostra» disse.

Il reverendo Thrower cercò di scusarsi. «Non parlavo seriamente» disse. «Forse che tra cristiani dotati di raziocinio cose simili sono da prendersi sul serio? Sappiamo bene che si tratta solo di un cumulo di superstizioni, e io…».

Eleanor si alzò di scatto e uscì dalla stanza.

«Che cosa ho detto?» chiese Thrower.

Armor sospirò. «Oh, non potevate certo saperlo» disse. «È una discussione che va avanti da prima che ci sposassimo, da quando arrivai da queste parti. La conobbi quando venne coi suoi fratelli ad aiutarmi a costruire la mia prima capanna… quello che ora è il casotto dove facciamo il sapone. Lei cominciò a spargere sul pavimento delle foglie di menta selvatica e a recitare una specie di filastrocca, e io le urlai di piantarla e uscire immediatamente da casa mia. Le citai la Bibbia, dove è scritto: ‘Non permetterai a una strega di vivere’. Vi lascio immaginare se quello che seguì non fu un brutto quarto d’ora».

«Le avete dato della strega, e lei vi ha sposato?»

«Nell’intervallo tra le due cose abbiamo avuto qualche spiegazione».

«Così ora non crede più a quel genere di cose, no?»

Armor aggrottò le sopracciglia. «Non è questione di credere, reverendo, ma di fare. E lei non lo fa più. Né qui né altrove. E quando voi in qualche maniera l’avete accusata di farlo ancora, be’, l’avete sconvolta. Perché me l’ha promesso, capite».

«Ma quando le ho chiesto scusa, perché…».

«Be’, il punto è proprio questo. Voi avete il vostro modo di pensare, ma non potete dirle che fatture, erbe e incantesimi non servono a nulla, perché lei ha visto coi suoi stessi occhi cose che non si lasciano spiegare tanto facilmente».

«Ma certamente un uomo come voi, con la vostra conoscenza delle Scritture e la vostra esperienza del mondo, potrà certamente convincere la propria moglie a rinunciare alle superstizioni dell’infanzia».

Armor posò gentilmente la mano sul polso del reverendo Thrower. «Reverendo, mi costringete a dirvi qualcosa che non avrei mai creduto di dover dire a un adulto. Un buon cristiano si rifiuta di lasciar posto nella propria vita a questo genere di cose non perché non funzionino, ma perché l’unico modo giusto per accedere alle potenze occulte è attraverso la preghiera e la grazia del Signore Gesù».

«Ma certo che non funzionano» disse Thrower. «Le potenze celesti sono qualcosa di reale, come le visioni e le visite degli angeli, e tutti i miracoli attestati dalle Scritture. Ma le potenze celesti non hanno niente a che vedere con l’innamoramento, o con il mal di gola, o con le galline che non depongono le uova, o con tutte le altre sciocchezze che la gente comune nella sua ignoranza cerca di ottenere con le cosiddette ‘arti segrete’. Non c’è niente di tutto quello che si può ottenere con la rabdomanzia, con le fatture o simili, che non possa essere spiegato da una semplice indagine scientifica».

Per un lunghissimo intervallo, Armor tacque. Il silenzio cominciò a mettere Thrower a disagio, ma il pastore non aveva la minima idea di che cosa aggiungere. Prima d’allora non gli era mai capitato di pensare che Armor potesse davvero credere a quel genere di cose. Era una prospettiva sconcertante. Una cosa era stare alla larga dalla stregoneria perché era un’assurdità; tutt’altra cosa era crederci e astenersene perché era peccato. A Thrower venne da pensare che in realtà la seconda posizione era ben più nobile della prima: per lui disprezzare la stregoneria era una questione di puro e semplice buon senso; per Armor ed Eleanor, invece, era un duro sacrificio.

Prima che il pastore trovasse il modo di esprimere questo concetto, però, Armor si appoggiò allo schienale della sedia e cambiò bruscamente argomento.

«La vostra chiesa dev’essere ormai quasi finita».

Sollevato, il reverendo Thrower lo seguì su quel più sicuro terreno. «Il tetto è stato terminato ieri. Oggi hanno finito d’inchiodare le tavole delle pareti. Domani, quando avranno sistemato le imposte, non vi entrerà più un goccio d’acqua, e quando avremo montato le porte e le vetrate non ci passerà nemmeno un filo d’aria».

«Le vetrate le sto facendo arrivare per via d’acqua» disse Armor. Poi ammiccò. «Ho risolto il problema della navigazione sul lago Canada».

«Come ci siete riuscito? In questo periodo i francesi affondano un’imbarcazione su tre, persino quelle provenienti dall’Irrakwa».

«Semplice. Ho ordinato le vetrate a Montreal».

«Vetrate francesi per le finestre di una chiesa inglese?»

«Americana» lo corresse Armor. «E anche Montreal si trova in America. A ogni modo, anche se i francesi stanno tentando di liberarsi di noi, nel frattempo noi continuiamo a costituire un mercato per i prodotti delle loro manifatture, perciò al marchese de la Fayette, il governatore, non dispiace affatto se, finché ci troviamo ancora qui, la sua gente può ricavare un profitto dagli scambi commerciali con noi. Così le vetrate faranno tutto il viaggio per via d’acqua, prima giù per il lago Mizogan, poi su per il St. Joseph con una chiatta, e infine giù di nuovo lungo il Tippy-Canoe».

«Ce la faranno ad arrivare fin qui prima della brutta stagione?»

«Penso di sì» replicò Armor, «o non saranno pagati».

«Siete un uomo sorprendente» disse Thrower. «Ma mi stupisce la vostra mancanza di attaccamento al Protettorato inglese».

«Be’, vedete, è così che vanno le cose» disse Armor. «Voi siete cresciuto sotto il Protettorato, e pensate ancora come un inglese».

«Scozzese, prego».

«Britannico, comunque. Nel vostro paese, chiunque venga anche solo sospettato di praticare le arti segrete viene immediatamente esiliato, senza che nemmeno ci si preoccupi di fargli il processo: non è vero?»

«Cerchiamo di essere giusti… ma i tribunali ecclesiastici agiscono con rapidità, e senza possibilità di appello».

«Bene, e adesso seguite il mio ragionamento. Se chiunque avesse un dono per le arti segrete è stato spedito nelle colonie americane, non vi sembra logico che là dove siete cresciuto non vi sia più traccia visibile di stregoneria?»

«Non ce n’è traccia perché cose del genere non esistono».

«Non esistono in Inghilterra. Ma sono la maledizione dei buoni cristiani d’America, perché qui — tra fiaccole, stille, rabdomanti, fattucchiere e incantesimi vari — ci siamo dentro fino al collo, e un bambino non può arrivare a quattro spanne senza andare a sbattere il naso contro la rete invisibile che qualcuno ha gettato intorno al proprio frutteto, o senza restare catturato dall’incantesimo scioglilingua gettato da qualche burlone, così che comincia a dire tutto quello che gli passa per la mente e offende ogni cristiano nel giro di dieci miglia».

«Un incantesimo scioglilingua! Fratello Armor, vi rendete sicuramente conto che una buona sorsata di liquore può sortire il medesimo effetto».

«Non nel caso di un ragazzo di dodici anni che non abbia mai toccato un goccio di liquore in vita sua».

Era evidente che Armor si riferiva a episodi di cui era stato personalmente testimone, ma questo non mutava i termini della questione. «Esiste sempre un’altra spiegazione».

«Certo, di spiegazioni se ne possono sempre trovare a bizzeffe» disse Armor. «Ma voglio dirvi una cosa. Predicate pure contro la magia, e continuerete ad avere una congregazione. Ma se continuate a sostenere che la magia non funziona, ebbene, penso che la maggior parte delle persone si chiederanno perché mai hanno fatto tanta strada per andare in chiesa a sentire le prediche di un perfetto imbecille».

«Come pastore, sono tenuto a dire la verità» disse Thrower.

«Certo, si può benissimo dire che ci sono dei bottegai che imbrogliano sul peso, ma non se ne possono mica fare i nomi dal pulpito, no? Nossignore, bisogna continuare ad ammannire prediche sull’onestà, nella speranza che prima o poi il messaggio venga raccolto».

«State dicendo che dovrei usare un approccio indiretto».

«Voi state costruendo una bellissima chiesa, reverendo Thrower, e non sarebbe altrettanto bella se non fosse per il vostro sogno di come dovrebbe essere. Ma la gente di qui pensa che quella sia la sua chiesa. Loro hanno abbattuto gli alberi, loro l’hanno costruita, sorge sulle terre comuni. E sarebbe una vera vergogna se voi foste così ostinato da costringerli a offrire il vostro pulpito a qualche altro pastore».

Il reverendo Thrower contemplò a lungo gli avanzi della cena. Pensò alla chiesa, non di legno grezzo com’era in quel momento, ma finita, con le panche a posto, il pulpito che svettava e la navata piena di luce proveniente dalle vetrate multicolori. Non è solo per l’edificio, si disse, ma per ciò che qui posso realizzare. Se lasciassi cadere questo posto nelle mani di gente ignorante e superstiziosa come Alvin Miller e, a quanto pare, tutta la sua famiglia, mancherei al mio dovere di cristiano. Se la mia missione consiste nel distruggere il male e la superstizione, debbo risiedere tra gli ignoranti e i superstiziosi. A poco a poco li condurrò alla verità. E se non riesco a convincere i genitori, col tempo riuscirò a convertire i figli. È una missione che può richiedere una vita, e allora perché dovrei gettarla via tanto per togliermi il gusto di dire la verità?

«Siete un uomo assennato, fratello Armor».

«Anche voi lo siete, reverendo Thrower. In fin dei conti, anche se possiamo trovarci in disaccordo su qualche particolare, penso che tutti e due vogliamo la stessa cosa. Vogliamo che questo paese diventi civile e cristiano. E a nessuno di noi dispiacerebbe se Vigor diventasse una vera città e questa città diventasse capitale dell’intero territorio del Wobbish. Laggiù a Filadelfia si discute persino se invitare il territorio dell’Hio a costituirsi in Stato e unirsi alla Confederazione, e sicuramente faranno la stessa offerta anche agli Appalachi. E perché non il Wobbish, prima o poi? Perché non pensare a una grande nazione che si estenda da un oceano all’altro, in cui Bianchi e Rossi possano convivere pacificamente, ciascuno libero di votare per un governo che faccia leggi alle quali essere lieti di obbedire?»

Era uno splendido sogno. E in quel sogno Thrower poteva vedersi svolgere una splendida parte. L’uomo che aveva il pulpito della più grande chiesa della più grande città del territorio sarebbe divenuto capo spirituale d’un intero popolo. Per qualche momento credette a quel sogno con tale intensità che, quando ringraziò calorosamente Armor per la cena e uscì all’aperto, restò senza fiato nel vedere che per adesso la città di Vigor consisteva esclusivamente nella bottega di Armor con gli edifici annessi, in un prato comune recintato sul quale brucavano una decina di pecore, e nel grande guscio di legno grezzo di una nuova chiesa.

Eppure la chiesa era abbastanza reale. Era quasi pronta, le pareti c’erano, il tetto era a posto. Thrower era un uomo razionale. Prima di credere a un sogno aveva bisogno di vedere qualcosa di solido, ma la chiesa era ormai sufficientemente solida, e insieme lui e Armor avrebbero potuto trasformare in realtà anche la parte rimanente del sogno. Richiamare qui la gente, fare di questo posto il centro dell’intero territorio. La chiesa era sufficientemente spaziosa per tenervi non solo funzioni religiose, ma assemblee cittadine. E durante la settimana? Thrower avrebbe sprecato l’educazione ricevuta se non avesse fondato una scuola per i bambini dei dintorni. Insegnar loro a leggere, a scrivere, a far di conto, e soprattutto a pensare: estirpare dalla loro mente ogni superstizione, non lasciandovi altro che conoscenza pura e fede nel Salvatore.

Assorbito com’era da questi pensieri, non si accorse di non essersi avviato verso la fattoria di Peter McCoy, un po’ più a valle, dove in una casetta di tronchi lo attendeva il suo letto, ma su per la salita che portava alla chiesa. Solo dopo avere acceso due candele si rese conto che in realtà aveva già deciso di trascorrervi la notte. Quelle pareti di legno spoglio erano casa sua come nessun altro posto al mondo. L’odore resinoso che gli giungeva alle narici lo inebriava, gl’infondeva il desiderio di cantare inni mai uditi prima d’allora, e canticchiando fra sé si mise a sedere sfogliando le pagine del Vecchio Testamento senza nemmeno accorgersi che su quelle pagine fossero stampate delle parole.

Non li udì finché non misero piede sul pavimento di legno. Allora Thrower alzò lo sguardo e scorse, con sua grande sorpresa, Faith con una lanterna in mano, seguita dai gemelli diciottenni Wastenot e Wantnot. Questi ultimi trasportavano una grande cassa di legno. A Thrower ci volle un momento per capire che la cassa in realtà voleva essere un altare. Un bell’altare, a dire il vero: gli incastri non erano meno precisi di quelli che avrebbe potuto eseguire un maestro ebanista, il legno era trattato col mordente in modo da far risaltare la grana, e incise a fuoco lungo il bordo superiore c’erano due file di croci.

«Dove lo volete?» chiese Wastenot.

«Papà ha detto che dovevamo portarvelo stasera, visto che il tetto e le pareti sono a posto».

«Papà?» ripeté Thrower.

«L’ha fatto appositamente per voi» disse Wastenot. «E il piccolo Al ha inciso le croci, visto che non gli è più permesso di venire qui».

In piedi davanti a loro, Thrower vide che l’altare era stato costruito con grande cura. Era l’ultima cosa che si sarebbe aspettato da Alvin Miller. E le croci perfettamente allineate non sembravano davvero opera di un bambino di sei anni.

«Qui» disse guidandoli nel punto in cui aveva pensato di collocare l’altare. Sarebbe stato l’unico arredo di quel luogo di culto, ed essendo stato trattato col mordente era più scuro delle pareti e del pavimento di legno grezzo. Era perfetto, e Thrower si sentì venire le lacrime agli occhi. «Dite loro che è bellissimo».

Faith e i gemelli sorrisero calorosamente. «Lo vedete che non è vostro nemico» disse Faith, e Thrower non poté che assentire.

«Nemmeno io gli sono nemico» disse. Non aggiunse: lo conquisterò con l’amore e la pazienza, ma alla fine lo conquisterò, e questo altare è segno inequivocabile che in cuor suo egli segretamente brama d’esser liberato dalle tenebre dell’ignoranza.

Senza trattenersi oltre, Faith e i gemelli s’incamminarono di buon passo verso casa, scomparendo nel buio. Thrower collocò la candela sul pavimento vicino all’altare — mai sopra, avrebbe puzzato di papista — e s’inginocchiò per recitare una preghiera di ringraziamento. La chiesa quasi completamente edificata, e un bellissimo altare già al suo posto, costruito proprio dall’uomo che più aveva temuto, le croci incise col fuoco da quello strano bambino che più di ogni altro simboleggiava la superstizione radicata in quella gente ignorante.

«Quanto orgoglio vive in te» disse una voce alle sue spalle.

Thrower si voltò, con il sorriso già sulle labbra, perché ogni visita del Messo lo rendeva felice.

Ma il Messo non sorrideva. «Quanto orgoglio!»

«Perdonami» disse Thrower. «Già me ne pento. Eppure come posso fare a meno di rallegrarmi per la grande opera che qui è stata iniziata?»

Il Messo sfiorò delicatamente l’altare, seguendo con le dita il contorno delle croci. «L’ha fatto lui, non è vero?»

«Alvin Miller».

«E il ragazzo?»

«Le croci. Temevo che fossero servitori del demonio, e invece…».

Il Messo gli lanciò uno sguardo penetrante. «Siccome hanno costruito un altare, questo dimostrerebbe che non lo sono?»

Thrower si sentì attraversare da un brivido di paura, e sussurrò: «Non pensavo che il diavolo potesse usare il simbolo della croce…».

«Tu non sei meno superstizioso di loro» disse freddamente il Messo. «I papisti si fanno in continuazione il segno della croce. La ritieni forse un amuleto, capace di respingere il demonio?»

«E allora come faccio a saperlo?» chiese Thrower. «Se il diavolo può costruire altari e disegnare croci…».

«No, no. Thrower, figlio mio diletto, nessuno dei due è un diavolo. Quando vedrai il diavolo lo riconoscerai. Mentre gli uomini sulla testa hanno i capelli, il diavolo ha le corna d’un toro. Mentre gli uomini hanno due piedi, il diavolo ha gli zoccoli fessi d’un caprone. Mentre gli uomini hanno due mani, il diavolo ha enormi zampe da orso. E d’una cosa puoi essere certo: quando verrà da te, non costruirà altari». Poi il Messo posò ambedue le mani sull’altare. «Adesso questo altare è mio» disse. «Chiunque l’abbia costruito, posso volgerlo ai miei scopi».

Thrower pianse di sollievo. «Ora è consacrato, tu l’hai reso sacro». E tese una mano per toccarlo.

«Fermati!» sussurrò il Messo. Ma anche pronunciato a bassa voce, quel suo comando fece tremare le pareti. «Ascoltami, prima» disse.

«Sono sempre pronto ad ascoltarti» disse Thrower. «Anche se non riesco a capire perché tu abbia scelto un miserabile verme come me».

«Persino un verme può essere reso grande da un tocco del dito di Dio» disse il Messo. «No, non fraintendermi… io non sono il Signore degli Eserciti. Non devi adorarmi».

Ma Thrower non riuscì a trattenersi, e pianse di devozione, genuflettendosi di fronte a quell’angelo così savio e potente. Sì, un angelo, Thrower non ne dubitava, sebbene il Messo non avesse ali e indossasse un abito intero del genere che ci si sarebbe aspettati di vedere addosso a un parlamentare.

«L’uomo che l’ha costruito è in preda alla confusione, ma cova in cuor suo una rabbia omicida, che, se egli verrà provocato quanto basta, non mancherà di scatenarsi. E il bambino che ha tracciato queste croci… sì, è straordinario come tu immagini. Ma non è ancora dato sapere se la sua sarà una vita di bene o di male. Ambedue le vie gli sono ancora aperte, ed egli può essere influenzato. Mi capisci?»

«È questa l’opera che mi attende?» chiese Thrower. «Debbo forse trascurare ogni altra cosa, e dedicarmi soltanto a guidare il ragazzo sulla retta via?»

«Se tu apparissi troppo zelante, i suoi genitori ti respingerebbero. No, è meglio che tu eserciti il tuo ministero come hai fatto finora. Ma in cuor tuo rivolgerai ogni sforzo verso quello straordinario fanciullo, per conquistarlo alla mia causa. Perché se all’età di quattordici anni non sarà diventato mio servitore, io lo ucciderò».

Il solo pensiero di Alvin Junior ferito o ucciso era per Thrower intollerabile. Tale era il senso di perdita da cui si sentiva colmare, che un padre o addirittura una madre non avrebbero potuto provarne uno più acuto. «Farò tutto ciò che un debole mortale può fare per salvarlo» esclamò, la voce quasi trasformata in urlo dalla sofferenza.

Il Messo annuì, gli rivolse quel suo meraviglioso e amabile sorriso, e tese la mano verso di lui. «Ho fiducia in te» disse pacatamente. «So che agirai per il meglio. E per quanto riguarda il diavolo, non devi provare alcun timore a causa sua».

Thrower fece per afferrare la mano protesa, per coprirla di baci; ma dove avrebbe dovuto toccare la carne, non trovò che il vuoto, e in quello stesso istante il Messo scomparve.

IX

SCAMBIASTORIE

In quella parte del paese, Scambiastorie se lo ricordava bene, c’era stato un tempo in cui avrebbe potuto arrampicarsi su un albero e spingere lo sguardo su cento miglia quadrate di foresta assolutamente intatta. Un tempo in cui le querce vivevano un secolo o più, con tronchi che s’ingrossavano fino a diventare vere e proprie montagne di legno. Un tempo in cui le chiome degli alberi erano così fitte che il terreno restava spoglio per mancanza di luce.

Quel mondo immerso in un eterno crepuscolo adesso andava scomparendo. Esistevano ancora tratti di foresta primordiale in cui i pellerossa si aggiravano più silenziosi dei cervi, e Scambiastorie aveva la sensazione di trovarsi nella cattedrale di un Dio al quale nessuna opera umana avrebbe potuto rendere omaggio più elevato. Ma simili momenti erano stati rari in quell’ultimo anno di vagabondaggio; non c’era stato un solo giorno in cui Scambiastorie si fosse potuto arrampicare su un albero senza scorgere interruzioni nel tetto della foresta. Tutta la regione tra l’Hio e il Wobbish si andava popolando in maniera rada ma regolare, e anche adesso, dalla cima di un salice che cresceva sulla sommità d’un piccolo rilievo, Scambiastorie poteva scorgere almeno una trentina di comignoli inviare verticalmente le loro colonne di fumò nella fredda aria invernale. E in ogni direzione larghe strisce di foresta erano state disboscate, il terreno era stato arato, le messi erano state seminate, sarchiate e raccolte, e dove una volta alberi giganteschi avevano riparato il terreno dagli sguardi del cielo, adesso il terreno irto di stoppie era nudo, in attesa che l’inverno coprisse le sue vergogne.

Scambiastorie ricordò la sua visione di Noè ubriaco. Ne aveva tratto un’incisione per un’edizione della Genesi destinata alle scuole di catechismo di rito scozzese. Noè, nudo, con la bocca spalancata, una ciotola mezza vuota ancora stretta fra le dita contratte; Cam, non lontano, che rideva beffardo; e Jafet e Sem che, camminando all’indietro per non guardarlo, andavano a gettare un mantello addosso al padre, per coprire ciò che egli aveva esibito nella sua ebbrezza. Con un brivido elettrizzante, Scambiastorie si rese conto che quel profetico momento gli aveva preannunciato proprio la scena che adesso gli si spalancava davanti agli occhi. Che lui, Scambiastorie, appollaiato in cima a un albero, in quel momento scorgeva la terra nuda e stordita, in attesa della pudica copertura dell’inverno. Era una profezia che si realizzava, qualcosa che uno poteva sperare, ma non certo aspettarsi con sicurezza nell’arco della propria vita.

Oppure, la storia di Noè ebbro poteva non essere affatto la rappresentazione figurata di quel momento. Perché non l’inverso? Perché non la terra disboscata e dissodata come rappresentazione figurata del Noè ubriaco?

Quando rimise piede a terra, Scambiastorie era di pessimo umore. Pensò e ripensò, cercando di aprire la propria mente per scorgere qualche visione, per essere un vero profeta. Ogni volta che s’illudeva di esserci arrivato, di stringere in mano qualcosa, quel qualcosa cambiava, si trasformava. Un pensiero di troppo, e l’intero tessuto si disfaceva e lui veniva rigettato nella più completa incertezza.

Ai piedi dell’albero aprì lo zaino. Ne trasse il Libro delle Storie, quello che aveva inaugurato col vecchio Ben anni addietro, nell’85. Slacciò con delicatezza la fibbia che racchiudeva la parte segreta, quindi chiuse gli occhi e ne scorse rapidamente le pagine. Quando riaprì gli occhi, vide che le sue dita riposavano tra i Proverbi dell’Inferno. C’era da aspettarselo, in un momento come quello. L’indice toccava due proverbi, ambedue scritti di sua mano. Il primo non gli disse nulla. Il secondo invece gli parve più appropriato. «Lo sciocco non vede lo stesso albero del saggio».

Eppure più cercava di estrarne il significato in riferimento a quel preciso momento, meno collegamenti’ scorgeva, tranne il riferimento agli alberi. Perso per perso, decise di provare il primo. «Se lo sciocco persistesse nella sua follia, diventerebbe saggio».

Ah. Questo cominciava a dirgli qualcosa. Era la voce della profezia, registrata quando ancora viveva a Filadelfia, prima d’iniziare i suoi vagabondaggi, una sera in cui il Libro dei Proverbi aveva preso vita dinanzi a lui, ed egli aveva visto quasi fossero scritte a lettere di fuoco le parole che avrebbero dovuto esservi contenute. Quella notte era rimasto sveglio finché le prime luci dell’alba non avevano spento il fuoco della pagina. Quando il vecchio Ben era sceso dabbasso col suo passo pesante per affrontare le fatiche della colazione, si era fermato di colpo fiutando l’aria. «Fumo» aveva detto. «Non è che per caso hai cercato di dar fuoco alla casa, Bill?»

«Nossignore» aveva risposto Scambiastorie. «Ma ho avuto una visione di ciò che Dio avrebbe voluto che il Libro dei Proverbi dicesse, e ho scritto tutto quanto».

«Sei ossessionato dalle visioni» aveva detto il vecchio Ben. «L’unica vera visione non proviene da Dio, ma dai più intimi recessi dell’animo umano. Metti anche questo fra i tuoi proverbi, se vuoi. È un po’ troppo agnostico per inserirlo nell’Almanacco del Povero Richard».

«Guarda qui» aveva detto Scambiastorie.

Il vecchio Ben aveva guardato, e aveva visto estinguersi le ultime fiammelle. «Be’, ecco, è il più bel giochetto che abbia mai visto fare. E mi avevi assicurato di non essere un mago!»

«Non lo sono, infatti. È stato Dio a inviarmi questo dono».

«Dio o il diavolo? Quando sei circondato dalla luce, Bill, come fai a sapere se è la gloria di Dio o la fornace infernale?»

«Non lo so, infatti» aveva ammesso Scambiastorie, incerto. Giovane com’era — non aveva ancora compiuto trent’anni — si sentiva spesso in soggezione al cospetto del grand’uomo.

«O forse, visto che desideravi così ardentemente la verità, te la sei procurata da solo». Il vecchio Ben aveva inclinato all’indietro la testa per esaminare le pagine dei Proverbi attraverso la metà inferiore delle lenti bifocali. «Queste lettere sono state scritte a fuoco. Non è curioso che io, che non sono un mago, venga definito tale, mentre tu che lo. sei rifiuti di ammetterlo?»

«Io sono un profeta. O… vorrei esserlo».

«Se una sola delle tue profezie si avvererà, Bill Blake, allora ci crederò. Ma non prima».

Negli anni trascorsi da allora, Scambiastorie era andato in cerca della realizzazione di qualcuna delle sue profezie. Eppure ogni volta che pensava di esserci arrivato, udiva in un angolino della mente la voce del vecchio Ben che forniva una spiegazione alternativa, e lo derideva per aver pensato che vi potesse essere un vero legame tra profezia e realtà.

«Vero, mai e poi mai» avrebbe detto il vecchio Ben. «Utile… può darsi. Sì, può darsi che la tua mente riesca a stabilire un collegamento utile. Ma vero è un’altra faccenda. Vero significherebbe che hai trovato un collegamento che esiste indipendentemente dal fatto che tu l’abbia colto, che esisterebbe anche se tu non te ne fossi accorto. E debbo dire che in vita mia un simile collegamento non l’ho mai trovato. Certe volte sospetto che collegamenti del genere non esistano, che tutti i legami, i vincoli, i rapporti e simili siano solo creature del pensiero prive d’ogni sostanza».

«E allora perché il terreno non si dissolve sotto i nostri piedi?» gli aveva chiesto una volta Scambiastorie.

«Perché siamo riusciti a persuaderlo a non lasciar passare i nostri corpi. Forse è stato Sir Isaac Newton. Era un tipo così persuasivo. Mentre gli esseri umani possono dubitare delle sue affermazioni, il terreno ne è rimasto convinto, quindi resiste». Il vecchio Ben aveva riso. Con lui, tutto si volgeva in burla. Non riusciva a prendere sul serio nemmeno il proprio scetticismo.

Adesso, seduto ai piedi dell’albero, a occhi chiusi, Scambiastorie stabilì un altro collegamento. La storia di Noè e il vecchio Ben. Il vecchio Ben era Cam, che vedeva la nuda verità, pendula e oscena, e ne rideva, mentre i figli devoti della Chiesa e dell’Università camminavano all’indietro per coprirla. Così il mondo, non avendo mai veduto la verità in un momento di debolezza, avrebbe continuato a crederla salda e orgogliosa.

Ecco un vero collegamento, pensò Scambiastorie. Ecco il vero significato della storia. Ecco la realizzazione della profezia. Quando scorgiamo la verità, essa ci appare ridicola; se vogliamo adorarla, non dobbiamo mai permetterci di vederla.

In preda all’eccitazione, Scambiastorie balzò in piedi. Doveva trovare immediatamente qualcuno a cui comunicare la sua grande scoperta finché ancora ci credeva. Come diceva uno dei suoi stessi proverbi: «La cisterna trattiene, la fonte dilaga». Se non avesse raccontato la sua storia, questa si sarebbe raffreddata, irrancidita e rattrappita dentro di lui, mentre, a raccontarla, sarebbe restata fresca e vigorosa.

Da che parte? Il sentiero nella foresta, a non più di tre pertiche di distanza, conduceva verso una grande chiesa bianca con un campanile alto come una quercia. L’aveva vista, a non più d’un miglio, dal suo osservatorio arboreo. Era l’edificio più grande che Scambiastorie avesse visto dall’ultima volta che era stato a Filadelfia. Un edificio così grande significava che gli abitanti della zona ritenevano opportuno avere spazio in abbondanza per i nuovi arrivi. Buon segno per un narratore ambulante di storie, che per vivere doveva affidarsi alla generosità degli estranei che lo alloggiavano e lo nutrivano, mentre lui non aveva altro da offrire in cambio che il suo libro, la sua memoria, due buone braccia e gambe robuste che lo avevano portato per diecimila miglia e gli sarebbero durate per altre cinquemila almeno.

La strada era profondamente solcata dalle ruote dei carri, il che significava che veniva usata di frequente; nei punti più bassi era rinforzata da traversine in modo che i carri non s’impantanassero nel terreno fradicio di pioggia. Così quella si avviava a diventare una città, eh? Una chiesa così grande poteva non significare affatto generosità, bensì ambizione. Ecco il pericolo insito nel giudicare, pensò Scambiastorie. Esistono cento possibili cause per ogni effetto, e cento possibili effetti per ogni causa. Questo pensiero pensò di metterlo per iscritto, ma subito lasciò perdere. Non recava alcuna traccia, tranne quelle della sua stessa anima; né i segni del paradiso né quelli dell’inferno. Da questo capì che non gli era stato inviato. Si era solo costretto a pensarlo. Perciò non poteva essere una profezia, e non poteva essere vero.

La strada terminava in un pascolo comune, non lontano da un fiume. Scambiastorie lo capì dall’odore dell’acqua corrente. Aveva sempre avuto buon naso, lui. Intorno al pascolo comune erano sparsi diversi edifici, ma il più grande di tutti era una costruzione di legno a due piani dipinta di bianco con una piccola insegna che recava scritto: Weaver’s.

Orbene, Scambiastorie sapeva che quando su una casa c’era un’insegna, ciò generalmente significava che i proprietari volevano che gli altri riconoscessero il posto anche se non c’erano mai stati prima, il che equivaleva a dire che la casa era aperta agli estranei. Perciò Scambiastorie si avvicinò alla porta e bussò senza esitare.

«Un attimo!» gridò qualcuno dall’interno. Scambiastorie attese sulla veranda. A un’estremità di quest’ultima erano appesi diversi cesti pieni di terra dai quali pendevano le lunghe foglie di varie erbe medicinali. Scambiastorie ne riconobbe alcune, utilizzate in arti quali guarire, trovare, sigillare e ricordare. Si avvide inoltre che i cesti erano disposti in modo che, guardandoli da un punto situato vicino alla base della porta, formassero un perfetto talismano. L’effetto era anzi così pronunciato che per vedere meglio Scambiastorie prima si accovacciò, poi si distese sul pavimento della veranda. I colori applicati sulle ceste esattamente nei punti giusti dimostravano che non si trattava d’un caso. Era un perfetto talismano protettivo, orientato verso la soglia.

Scambiastorie si chiese perché qualcuno avesse sentito il bisogno di creare un talismano così potente, e allo stesso tempo di mimetizzarlo. D’altra parte lui era probabilmente l’unica persona da quelle parti in grado di percepire il fremito proveniente da qualcosa di passivo come un talismano, tanto da essere indotto a notarne la presenza. Era ancora disteso sul pavimento, intento a meditare sulla questione, quando la porta si aprì e una voce d’uomo gli chiese: «Così stanco siete, straniero?».

Scambiastorie balzò in piedi. «Stavo ammirando la vostra composizione di erbe. Un interessante giardino pensile, signore».

«È di mia moglie» disse l’uomo. «Praticamente non pensa ad altro. E non vuole assolutamente che glielo si tocchi».

Quell’uomo stava forse mentendo? No, si disse Scambiastorie. Non stava cercando di nascondere il fatto che quei cesti costituissero un talismano, e che le foglie pendule fossero intrecciate in modo da unirli in un unico disegno. Semplicemente, non lo sapeva. Qualcuno — probabilmente sua moglie, visto che il giardino era suo — l’aveva collocato lì a protezione della casa, e il marito non ne aveva il minimo sentore.

«A me sembra che vada benissimo così» disse Scambiastorie.

«Mi ero chiesto com’era possibile che fosse arrivato qualcuno e io non avessi udito né un carro né un cavallo. Ma dal vostro aspetto immagino che siate arrivato a piedi».

«È così, signore» disse Scambiastorie.

«E il vostro zaino non sembra così pieno da contenere articoli da offrire in vendita».

«Io non vendo oggetti, signore» disse Scambiastorie.

«E che cosa, allora? Che altro si può vendere, se non oggetti?»

«Il proprio lavoro, tanto per cominciare» disse Scambiastorie. «Offro il mio lavoro in cambio di vitto e alloggio».

«Mi sembrate un po’ troppo anziano per fare la vita del vagabondo».

«Sono nato nel cinquantasette, perciò mi restano diciassette anni buoni prima di avere esaurito i miei settanta. E poi ho qualche piccolo talento».

Sull’istante l’uomo parve rattrappirsi. Non nel corpo. Fu il suo sguardo ad allontanarsi, mentre diceva: «Io e mia moglie ci occupiamo di tutto, visto che i nostri figli sono ancora molto piccoli. Non abbiamo bisogno di aiuto».

Alle sue spalle adesso c’era una donna, o meglio una ragazza il cui viso, nonostante l’espressione solenne, non era ancora stato segnato e indurito dal trascorrere degli anni. La donna si rivolse al marito. «Armor, non siamo così poveri da non poterci permettere un ospite per cena…».

A queste parole l’espressione del marito si fece dura e ostinata. «Mia moglie è più generosa di me, straniero. Voglio dirvelo apertamente. Avete detto di avere qualche piccolo talento, e secondo la mia esperienza ciò significa che pretendete di possedere poteri nascosti. E in una casa cristiana non vi è posto per simili ciarlatanerie».

Scambiastorie lo guardò fissamente, quindi rivolse alla moglie uno sguardo un po’ più affabile. Dunque era così che stavano le cose: lei praticava tranquillamente le arti magiche senza darlo a vedere al marito, mentre lui ne respingeva energicamente ogni minima manifestazione. Scambiastorie si chiese che cosa sarebbe accaduto alla moglie se lui si fosse reso conto di quel che faceva. L’uomo — Armor? — non sembrava tipo da abbandonarsi a furie omicide, ma d’altra parte non c’era modo di sapere quale violenza si sarebbe potuta scatenare nelle vene d’un uomo se il torrente dell’ira avesse rotto gli argini.

«Comprendo la vostra cautela, signore» disse Scambiastorie.

«Immagino che abbiate addosso qualche amuleto protettivo» disse Armor. «Come avreste fatto altrimenti ad arrivare fin qui, a piedi, da solo, attraverso regioni selvagge? Il solo fatto che abbiate ancora i capelli in testa dimostra che avete tenuto a bada i Rossi con qualche incantesimo».

Scambiastorie sorrise e si tolse di testa il berretto, mettendo in mostra la propria calvizie. «Vi sembra forse un incantesimo, accecarli con lo sfolgorante riflesso del sole?» chiese. «Per il mio scalpo, non potrebbero rivendicare nessuna ricompensa».

«A dire il vero» ammise Armor, «i Rossi di questa zona sono più pacifici degli altri. Quel Profeta orbo ha costruito sull’altra sponda del Wobbish una città in cui insegna ai Rossi a non bere alcolici».

«Ottimo consiglio per chiunque» mormorò Scambiastorie. E pensò: un Rosso che si definisce profeta. «Prima di lasciare questi luoghi mi piacerebbe incontrarlo e scambiare qualche parola con lui».

«Impossibile» disse Armor. «A meno che non riusciate a cambiare colore alla vostra pelle. Non ha più rivolto la parola a un bianco da quando ha avuto la sua prima visione, qualche anno fa».

«Se ci provassi mi ucciderebbe?»

«Improbabile. Alla sua gente insegna anche a non uccidere gli uomini bianchi».

«Anche questo un ottimo consiglio» disse Scambiastorie.

«Ottimo per gli uomini bianchi, ma per i Rossi potrebbe rivelarsi controproducente. C’è gente come il cosiddetto governatore Harrison, giù a Carthage City, che verso i Rossi, pacifici o bellicosi che siano, nutre solo cattive intenzioni». L’espressione truce non era ancora scomparsa dal viso di Armor, ma questi stava pur sempre parlando, e col cuore in mano. Scambiastorie riponeva grandissima fiducia in colui che diceva sempre quel che pensava, persino a un estraneo, persino a un nemico. «Del resto» proseguì Armor, «non tutti i Rossi danno retta alle parole di pace del Profeta. I seguaci di Ta-Kumsaw stanno dando parecchie noie giù dalle parti dell’Hio, e un sacco di gente si sta trasferendo a nord verso il corso superiore del Wobbish. Non vi mancheranno dunque le case disposte ad ospitare un mendicante… anche di questo dovete ringraziare i Rossi».

«Non sono un mendicante, signore» disse Scambiastorie. «Come vi ho detto, sono disposto a lavorare».

«Con i vostri piccoli doni e i vostri talenti nascosti, senza dubbio».

L’ostilità dimostratagli dall’uomo era l’esatto contrario dell’atteggiamento benevolo e accogliente della moglie. «E quale sarebbe il vostro talento, signore?» chiese quest’ultima. «Dal vostro modo di parlare, si direbbe che abbiate studiato. Non sarete per caso un maestro di scuola?»

«Il mio dono è espresso dal nome che porto» le spiegò. «Mi chiamo Scambiastorie. Ho il talento delle storie».

«Volete dire che le inventate? Da queste parti le chiamiamo menzogne». Più la moglie cercava di mostrarsi gentile, più il marito si faceva scostante.

«Ho il dono di ricordarle. Ma racconto solo quelle della cui verità sono convinto, signore, e vi assicuro che convincermi non è facile. Se mi raccontate le vostre storie, io vi racconterò le mie, e da questo scambio usciremo tutt’e due arricchiti, poiché nessuno dei due avrà perso ciò che aveva all’inizio».

«Non ho storie da raccontarvi» disse Armor, anche se ne aveva già raccontate due, quella del Profeta e quella di Ta-Kumsaw.

«Ciò mi rattrista, e se è davvero così, allora ho bussato alla porta sbagliata». Adesso Scambiastorie vedeva chiaramente che quella casa non faceva per lui. Anche se Armor si fosse rabbonito e l’avesse lasciato entrare, Scambiastorie sarebbe stato circondato dal sospetto, e lui non poteva vivere dove la gente lo guardava in continuazione con aria sospettosa. «Buona giornata a voi».

Ma Armor non era disposto a lasciarlo andare così facilmente. Le parole di Scambiastorie avevano avuto su di lui l’effetto di una sfida. «Vi rattrista? E perché? Io conduco una vita normale, del tutto tranquilla».

«Nessuno considera normale la propria vita» lo contraddisse Scambiastorie, «e se dice altrimenti, allora è una storia di quelle che io mi guardo bene dal raccontare».

«Mi state dando del bugiardo?» domandò Armor.

«Vi sto chiedendo se conoscete un luogo in cui il mio talento possa trovare buona accoglienza».

Scambiastorie si avvide, a differenza di Armor, che con le dita della mano destra la moglie aveva lanciato al marito un incantesimo tranquillizzante, mentre con la sinistra gli aveva afferrato il polso. L’aveva fatto con grande abilità, e il marito doveva esserci abituato, perché si rilassò visibilmente mentre lei faceva un piccolo passo avanti per rispondere.

«Amico» disse, «se prendete il sentiero dietro quella collinetta e lo seguite sino in fondo superando due ruscelli, ambedue varcati da un ponte, giungerete alla casa di Alvin Miller. Sono sicura che lui vi accoglierà».

«Bella roba» disse Armor.

«Grazie» disse Scambiastorie. «Ma come fate a saperlo con tanta certezza?»

«Vi ospiteranno per tutto il tempo che vorrete rimanere, e non vi metteranno mai fuori della porta, purché vi mostriate disponibile a dare una mano».

«Disponibile lo sarò sempre, signora» disse Scambiastorie.

«Sempre disponibile?» chiese Armor. «Nessuno è sempre disponibile. Pensavo che non diceste mai bugie».

«Io dico solo ciò di cui sono convinto. Che sia anche vero, non posso dirlo con maggiore certezza di chiunque altro».

«E allora perché mi chiamate ‘signore’, se non sono un cavaliere, e mia moglie la chiamate ‘signora’, quando non ha più sangue nobile di me?»

«Ebbene, io non credo ai cavalieri nominati dal re, ecco perché. Il re deve un favore a un tale e lo nomina ‘cavaliere’, che questi si comporti come tale oppure no. E tutte le sue amanti vengono chiamate ‘signora’ per ciò che fanno tra le regali lenzuola. Ecco come vengono usate le parole dai realisti… menzogne la metà delle volte. Ma vostra moglie, signore, si è comportata con vera nobiltà, mostrandosi benevola e ospitale. E voi, signore, vi siete comportato come un vero cavaliere, che protegge la propria casa dai pericoli che egli più teme».

Armor scoppiò in una risata. «Parlate in modo così suadente che per togliervi il dolce dalla bocca scommetto che dovete succhiare sale per mezz’ora».

«È il mio dono» disse Scambiastorie. «Ma conosco altri modi di parlare, e non altrettanto amabili, quand’è il momento. Buon pomeriggio a voi, a vostra moglie, ai vostri figli, e alla vostra cristiana dimora».

Scambiastorie s’incamminò sull’erba del pascolo comune. Le mucche non lo degnarono di un’occhiata, perché un amuleto ce l’aveva, sì, anche se non del genere che Armor conosceva. Scambiastorie si mise seduto al sole per qualche tempo, per riscaldarsi il cervello e vedere se ne veniva fuori qualche pensiero. Ma non funzionò. Dopo mezzogiorno non gli venivano quasi mai pensieri che valesse la pena di ricordare. Come diceva il proverbio: «Al mattino pensa, a mezzodì agisci, la sera mangia e la notte dormi». Adesso era troppo tardi per pensare, e troppo presto per mangiare.

S’incamminò sul sentiero in salita che portava alla chiesa. Questa sorgeva a una certa distanza dal pascolo comune, in cima a una collina. Se fossi un vero profeta, pensò, saprei già tutto. Saprei se rimarrò qui per un giorno, una settimana o un mese. Saprei se Armor diventerà mio amico, come spero, o mio nemico, come temo. Saprei se sua moglie prima o poi riuscirà a imporsi e a usare apertamente i suoi poteri. Saprei se riuscirò davvero a incontrare di persona il Profeta Rosso.

Ma sapeva che erano tutte assurdità. Per questo genere di visione ci sarebbe voluta una fiaccola… l’aveva visto fare in varie occasioni, a più d’una, e la cosa l’aveva riempito di sgomento perché sapeva che per un uomo era meglio non conoscere troppo bene ciò che lo attendeva sul cammino della vita. No, il dono che avrebbe voluto possedere era quello della profezia, per scorgere non le piccole azioni degli uomini e delle donne nei loro cantucci di mondo, ma piuttosto la grande, impetuosa marea degli eventi così come veniva diretta dalla volontà del Signore. O di Satana… Scambiastorie non si sarebbe fatto troppi scrupoli, poiché ambedue avevano un’idea ben chiara dei loro progetti per il mondo, e di conseguenza ciascuno dei due avrebbe potuto conoscere diverse cosette a proposito del futuro. Certo, probabilmente sarebbe stato più piacevole avere notizie da Dio. I segni del demonio che fino a quel momento aveva avuto occasione di sperimentare si erano dimostrati tutti molto sgradevoli, ciascuno a modo suo.

Era una tiepida giornata d’autunno e il portale della chiesa era spalancato. Scambiastorie entrò senza esitare, accompagnato dal ronzio delle mosche. All’interno l’edificio non era meno elegante che all’esterno. La chiesa era evidentemente di rito scozzese, quindi priva di ogni decorazione, ma ciò la rendeva ancora più accogliente, un ambiente pieno d’aria e di luce, dalle pareti dipinte di bianco e con finestre dalle vetrate colorate. Persino i banchi e il pulpito erano di legno chiaro. L’unico oggetto scuro era l’altare. Naturale quindi che il suo sguardo ne venisse attratto. E siccome aveva un dono per questo genere di cose, scorse immediatamente sulla sua superficie qualcosa di liquido.

Avanzò lentamente verso l’altare. Verso l’altare, perché doveva accertarsi di ciò che gli era parso di vedere; lentamente, perché quel genere di cosa non avrebbe dovuto esistere in una chiesa cristiana. Anche da vicino, tuttavia, non c’era modo di sbagliarsi. Era la stessa traccia che aveva visto sul viso dell’uomo di Dekane che aveva torturato a morte i propri figli, per poi darne la colpa ai Rossi. La stessa traccia che aveva visto indugiare sulla spada che aveva decapitato George Washington. Era come un velo sottilissimo di acqua sporca, invisibile a meno che non lo si guardasse da una certa angolazione, con una certa luce. Ma per Scambiastorie, che ormai vi aveva fatto l’occhio, era sempre visibile.

Allungò cautamente la mano fino a posare l’indice sulla traccia più evidente. Il bruciore fu tale da fargli tremare di dolore tutto il braccio fino alla spalla. Per tenercelo per un istante dovette far ricorso a tutta la sua forza di volontà.

«Benvenuto nella dimora del Signore» disse una voce.

Succhiandosi il dito ustionato, Scambiastorie si volse verso colui che aveva parlato. Il suo abbigliamento era quello di un pastore di rito scozzese, o presbiteriano, come dicevano qui in America.

«Vi è per caso entrata una scheggia nel dito?» chiese il pastore.

Sarebbe stato molto più facile dire che sì, gli era entrata una scheggia. Ma Scambiastorie raccontava solo storie alle quali credeva. «Pastore» disse, «il diavolo ha posto la sua mano su quest’altare».

Immediatamente il lugubre sorriso del pastore scomparve. «Come potete riconoscere l’impronta del demonio?»

«È un dono di Dio» disse Scambiastorie. «Quello di vedere».

Il pastore lo scrutò attentamente, non sapendo se credergli o no. «Allora sapreste anche vedere se qualcosa è stato toccato da un angelo?»

«Se fossero intervenuti spiriti benigni, credo che potrei scorgerne le tracce. Non sarebbe la prima volta».

Il pastore fece una pausa, come se avesse voluto rivolgergli una domanda molto importante, ma avesse paura della risposta. Poi rabbrividì, il desiderio di sapere evidentemente lo abbandonò, e quando riprese a parlare lo fece in tono sprezzante. «Sciocchezze. Potrete anche raggirare la gente comune, ma io sono stato educato in Inghilterra, e queste storie di poteri segreti non mi fanno né caldo né freddo».

«Ah» disse Scambiastorie. «Siete un uomo istruito».

«Anche voi lo siete, a giudicare dal vostro modo di parlare» ribatté il pastore. «Inghilterra del sud, direi».

«Ho frequentato l’Accademia d’Arte del Lord Protettore» disse Scambiastorie. «Lì ho appreso l’arte dell’incisione. Giacché siete di rito scozzese, mi azzardo a dire che avrete visto un saggio della mia opera nel vostro libro di catechismo».

«Io non noto mai quel genere di cose» replicò il pastore. «Le incisioni sono uno spreco di carta che potrebbe essere utilizzata per parole di verità. A meno che non illustrino cose che l’occhio dell’artista ha realmente veduto, come le tavole anatomiche. Ma quel che l’artista concepisce nella propria immaginazione non ha maggior diritto di accedere al mio sguardo di ciò che posso immaginare da solo».

Scambiastorie seguì il concetto fino alle radici. «E se l’artista fosse anche profeta?»

Il pastore socchiuse gli occhi. «L’epoca dei profeti è finita. Oggi chiunque affermi di essere un profeta — come quel miscredente di Rosso orbo e ubriacone dall’altra parte del fiume — non è altro che un ciarlatano. E non dubito che se Dio dovesse concedere il dono della profezia anche a un solo artista, ben presto avremmo uno stuolo d’imbrattatele desiderosi di essere presi per profeti, specie se ciò procurasse loro più lauti compensi».

Scambiastorie rispose mitemente, ma senza trascurare l’accusa implicita nelle parole del pastore. «Colui che predica la parola di Dio in cambio di un salario non dovrebbe criticare chi cerca di guadagnarsi da vivere rivelando la verità».

«Io sono stato ordinato» disse il pastore. «Gli artisti non vengono ordinati da nessuno. Si ordinano da soli».

Proprio come Scambiastorie si era aspettato. Non appena aveva temuto che le sue idee non riuscissero a stare in piedi da sole, il pastore aveva fatto appello all’autorità. Quando arbitro della discussione diventava il principio di autorità, il ricorso alla razionalità diventava impossibile. Scambiastorie tornò all’argomento da cui erano partiti. «Il diavolo ha posato le sue dita su questo altare» disse. «Solo a toccarlo, mi sono scottato».

«A me non è mai successo» disse il pastore.

«Non me ne stupisco» osservò Scambiastorie. «Siete voi quello che ha ricevuto gli ordini».

Scambiastorie non fece il minimo sforzo per nascondere il disprezzo nel proprio tono di voce, e questo evidentemente punse sul vivo il pastore, che ribatté con asprezza. Ma a Scambiastorie non dispiaceva che gli altri se la prendessero con lui. Ciò significava che lo stavano ascoltando, e almeno in parte gli credevano. «E allora, visto che avete occhi così penetranti» scattò il pastore, «ditemi se questo altare è mai stato toccato da un messaggero di Dio».

Era evidente che intendeva metterlo alla prova. Scambiastorie non aveva la minima idea di quale sarebbe dovuta essere, secondo il pastore, la risposta giusta. Ma non aveva nessuna importanza: Scambiastorie avrebbe risposto sempre e comunque con sincerità. «No» disse.

Era la risposta sbagliata. Il pastore fece un sorrisetto compiaciuto. «Ah, è così? Ne siete proprio sicuro?»

Scambiastorie pensò per un istante che forse il pastore era convinto che le proprie mani consacrate potessero lasciare tracce che testimoniassero la volontà divina. La questione era da mettere in chiaro immediatamente. «La maggioranza dei pastori non lascia tracce di luce su ciò che tocca. Solo pochi di loro sono dotati di sufficiente santità».

Ma il pastore non aveva inteso riferirsi a se stesso. «Avete detto abbastanza» disse. «Adesso so per certo che siete un impostore. Fuori dalla mia chiesa».

«Non sono un impostore» disse Scambiastorie. «Posso sbagliarmi, ma non mentisco mai».

«E io per abitudine non credo a chi afferma di non mentire mai».

«Tutti quanti tendiamo ad attribuire agli altri le nostre stesse virtù» mormorò Scambiastorie.

Il viso del pastore s’imporporò di rabbia. «Fuori di qui, o dovrò ricorrere alla forza».

«Ben volentieri». Di buon passo, Scambiastorie si avviò verso la porta. «Spero di non dover più entrare in una chiesa il cui pastore non resta sorpreso nel sapere che Satana ha toccato il suo altare».

«Non sono rimasto sorpreso per il semplice fatto che non ci credo».

«Ci avete creduto, invece. Ma siete convinto che l’altare sia stato toccato anche da un angelo. È questa la storia che ritenete vera. Ma vi dico che nessun angelo avrebbe potuto toccarlo senza lasciare una traccia che io non potessi scorgere. E la traccia che vi scorgo è una soltanto».

«Mentitore! Voi stesso siete inviato dal demonio e cercate di compiere atti negromantici nella casa del Signore! Fuori! Via di qui! Vi ordino di sparire!»

«Sparire? Non credevo che un uomo di chiesa come voi praticasse le arti magiche».

«Fuori!» urlò il pastore, con le vene del collo gonfie fino a scoppiare. Scambiastorie si rimise il berretto e se ne andò. Udì la porta sbattere alle sue spalle. Risalito il pendio ricoperto di erba autunnale ormai essiccata, trovò il sentiero che portava verso la casa della quale gli aveva parlato la donna. Dove ella era certa che lo avrebbero accolto.

Scambiastorie non ne era affatto sicuro. In ciascuno dei luoghi che visitava, non faceva mai più di tre tentativi. Se al terzo non trovava una casa ospitale, ciò significava che era meglio levare le tende. Stavolta la prima sosta era stata insolitamente sfortunata, e la seconda era andata ancora peggio.

Ma la sua inquietudine non dipendeva solo dal fatto che le cose gli stessero andando male. Anche se stavolta gli si fossero prostrati davanti e gli avessero baciato i piedi, all’idea di restare da quelle parti Scambiastorie provava adesso una curiosa sensazione. Ecco una cittadina cristiana al punto che il più influente dei suoi abitanti non permetteva alla moglie di praticare le arti segrete, eppure l’altare della chiesa recava i segni del demonio. Ancora più preoccupante era il modo in cui gli abitanti s’ingannavano a vicenda. Le arti segrete venivano praticate proprio sotto il naso di Armor, e dalla persona ch’egli più amava e nella quale riponeva più fiducia; in chiesa, invece, il pastore era convinto che Dio, e non il diavolo, avesse preso possesso del suo altare. Che cosa poteva attendersi Scambiastorie, in quella casa sulla collina, se non altre pazzie, altri inganni? Una mente malata chiama l’altra, questa era la conclusione a cui Scambiastorie era giunto in base all’esperienza passata.

La donna aveva detto il vero. I ruscelli erano attraversati da ponti. Ma neanche quello era un buon segno. Costruire un ponte su un fiume era una necessità; costruire un ponte su un torrente, una cortesia verso il viandante. Ma perché costruire ponti così elaborati su ruscelli così stretti che persino un uomo anziano come Scambiastorie avrebbe potuto superarli con un salto senza neanche bagnarsi i piedi? Quei ponti erano costruiti a regola d’arte, ancorati nel terreno a una buona distanza dalla riva, e tutt’e due erano muniti di un tetto di paglia solidamente intrecciata. C’è gente che paga per dormire in locande meno riparate e asciutte di questi ponti, pensò Scambiastorie.

Sicuramente ciò significava che la gente che avrebbe trovato alla fine del sentiero non sarebbe stata meno strana di quella che aveva incontrato fino a quel momento. Indubbiamente avrebbe fatto meglio a girare i tacchi. La prudenza esigeva una rapida partenza.

Ma la prudenza non era una delle caratteristiche dominanti di Scambiastorie. Gliel’aveva detto anche il vecchio Ben, anni prima. «Caro Bill, un giorno o l’altro t’infilerai nella bocca dell’inferno, solo per scoprire come mai il diavolo ha tanti denti guasti». Quei ponti erano stati costruiti per un motivo, e Scambiastorie sentiva che lì sotto c’era una storia meritevole di essere scritta nel suo libro.

Non era più di un miglio, in fin dei conti. Proprio quando sembrava che il sentiero stesse per infilarsi in un bosco impenetrabile, piegò decisamente verso nord per fare ingresso in un podere che non aveva niente da invidiare a quelli che Scambiastorie aveva ammirato nelle pacifiche campagne del Nuovo Orange o della Pennsylvania. La casa era grande ed elegante, fatta di tronchi squadrati, il che mostrava che era stata costruita per durare, e c’erano capanni, fienili, stabbioli e pollai che ne facevano già quasi un villaggio. Un filo di fumo che s’innalzava sul sentiero a circa mezzo miglio di distanza gli disse che la sua ipotesi non era del tutto sbagliata. Nelle immediate vicinanze c’era un’altra casa, e i suoi abitanti usavano lo stesso sentiero, il che probabilmente indicava un legame di parentela. Qualche figlio sposato, senza dubbio, e tutti quanti coltivavano insieme la terra, per la maggiore prosperità di tutti. Era una buona cosa, Scambiastorie lo sapeva, quando i fratelli nel crescere continuano ad apprezzarsi a vicenda al punto di arare ciascuno i campi dell’altro.

Scambiastorie aveva l’abitudine di dirigersi immediatamente verso la casa. Meglio annunciarsi subito anziché aggirarsi furtivamente nei paraggi col rischio di esser preso per un ladro. Ma stavolta, quando fece per avviarsi verso la casa, si sentì invadere da una sorta di torpore che gl’impediva di ricordare ciò che aveva avuto intenzione di fare. L’incantesimo era così potente che Scambiastorie non si rese conto di essere stato respinto finché non si trovò a metà della discesa, diretto verso una costruzione di pietra accanto a un ruscello. Si fermò di colpo, spaventato, perché nessun incantesimo poteva essere così potente da respingerlo senza che lui se ne accorgesse. Quel posto non era meno strano degli altri, e lui non voleva averci niente a che fare.

Eppure, quando cercò di tornare sui suoi passi, gli successe di nuovo la stessa cosa. Si ritrovò diretto giù per la discesa, verso la costruzione dalle mura di pietra.

Di nuovo si fermò, e questa volta borbottò: «Chiunque tu sia, e qualunque cosa tu voglia, ci andrò di mia spontanea volontà o non ci andrò affatto».

Immediatamente alle sue spalle avvertì come una brezza che lo spingeva verso la costruzione. Allo stesso tempo capì che, volendo, avrebbe potuto tornare indietro. Contro la brezza, sì, ma avrebbe potuto farlo. Questo lo tranquillizzò parecchio. La costrizione alla quale era stato sottoposto, qualsiasi cosa fosse, non aveva lo scopo di ridurlo in schiavitù. E questo, lo sapeva bene, era uno dei segni distintivi di un incantesimo benigno… non delle catene nascoste di un aguzzino.

Il sentiero piegava leggermente a sinistra, costeggiando il ruscello. Qui Scambiastorie vide chiaramente che l’edificio era un mulino, perché c’erano la caratteristica gora e la struttura di una grande ruota che s’innalzava là dove avrebbe dovuto scorrere l’acqua. Ma nella gora non scorreva acqua, e quando si avvicinò abbastanza da gettare lo sguardo all’interno, oltre una porta larga come quella di un fienile, ne capì il perché. Non era semplicemente chiuso per l’inverno. Non era mai stato usato come mulino. Gli ingranaggi erano a posto, ma mancava la grande macina di pietra. C’era solo una base di ciottoli rullati, spianati, pronti, in attesa.

Ed era molto tempo che attendevano. A giudicare dai rampicanti e dal muschio sulle pietre, la costruzione aveva almeno cinque anni. Quel mulino aveva richiesto un sacco di lavoro, eppure veniva utilizzato come un comune fienile.

Proprio all’interno della grande porta, un carro ondeggiava mentre due ragazzi lottavano sul fieno che lo riempiva per metà. Era un incontro amichevole; i ragazzi erano evidentemente fratelli. Uno aveva circa dodici anni, l’altro forse nove, e l’unico motivo per cui il più piccolo non era stato ancora buttato giù dal carro e fuori dalla porta era perché il più grande non riusciva a trattenere le risa. Nessuno dei due, naturalmente, s’era accorto di Scambiastorie.

Non si erano accorti nemmeno dell’uomo in piedi sul bordo del soppalco, che li osservava dall’alto con un forcone in mano. Sulle prime Scambiastorie pensò che l’uomo li guardasse con l’orgoglio di un padre. Poco dopo però fu abbastanza vicino per vedere come reggeva il forcone. Come un giavellotto, pronto a colpire. Per un istante Scambiastorie vide con gli occhi della mente ciò che stava per accadere… il forcone scagliato con violenza che affondava nelle carni di uno dei ragazzi uccidendolo, se non subito, certamente in breve tempo, per cancrena o perforazione intestinale. Quello a cui Scambiastorie stava per assistere era né più né meno che un omicidio.

«No!» urlò. D’un balzo superò la soglia per fermarsi accanto al carro, alzando lo sguardo sull’uomo in piedi sul soppalco.

L’uomo conficcò il forcone nel mucchio di fieno accanto a sé, e sollevatolo oltre il bordo del soppalco lo gettò sul carro, seppellendo a metà i due ragazzi. «Ehi, orsacchiotti, vi ho portati qui perché mi deste una mano, non perché vi annodaste a vicenda». Sorrideva con aria canzonatoria.

Strizzò l’occhio a Scambiastorie. Proprio come se un istante prima nel suo sguardo non vi fosse stata quella luce omicida.

«Salve, giovanotto» disse l’uomo.

«Giovanotto proprio non direi» replicò Scambiastorie. Si tolse il berretto, in modo che la zucca pelata rivelasse la sua vera età.

I ragazzi si tirarono fuori dal mucchio di fieno. «Perché gridavate, signore?» chiese il più piccolo.

«Avevo paura che qualcuno si facesse male» disse Scambiastorie.

«Oh, noi lottiamo in continuazione» disse il più grande. «Permettetemi di presentarmi, amico. Mi chiamo Alvin, proprio come il mio papà». Il sorriso del ragazzo era contagioso. Dopo la paura che si era preso, e dopo tutte le oscure macchinazioni che quel giorno aveva visto svolgersi sotto i suoi occhi, Scambiastorie non poté che restituire il sorriso e stringere la mano che gli veniva offerta. La stretta di Alvin Junior era quella d’un adulto, forte e decisa. Scambiastorie gli fece i suoi complimenti.

«Oh, stavolta vi ha fatto la mano da pesce lesso. Quando strizza sul serio, se non ci stai attento ti schiaccia la mano come una susina matura». Il più piccolo gli strinse a sua volta la mano. «Ho sette anni, e Al Junior ne ha dieci». A vederli, si sarebbero detti più grandi. Tutt’e due emanavano l’odore acre e sgradevole dei ragazzi che hanno giocato, ma Scambiastorie non se ne curò. Era il padre a sconcertarlo. Quando aveva pensato che avesse intenzione di ammazzare i ragazzi era stato solo uno scherzo della sua immaginazione? Chi mai avrebbe potuto levare una mano omicida su due figli dei quali chiunque sarebbe andato fiero?

Lasciando il forcone sul soppalco, l’uomo scese la scala a pioli e si avvicinò a lunghi passi a Scambiastorie con le braccia spalancate come per abbracciarlo. «Benvenuto, straniero» disse l’uomo. «Io sono Alvin Miller, e questi sono i miei due figli più piccoli, Alvin Junior e Calvin».

«Cally» lo corresse il minore.

«Non gli piace che i nostri nomi facciano rima» disse Alvin Junior. «Alvin e Calvin. Sapete, gli hanno dato un nome che somigliava al mio sperando che nel crescere diventasse bello e forte come me. Peccato che non abbia funzionato».

Calvin gli diede uno spintone, fingendosi arrabbiato. «Per quel che ne so, lui è stato il primo tentativo; poi sono arrivato io, e finalmente sono riuscito bene!»

«Di solito li chiamiamo Al e Cally» disse il padre.

«Di solito ci chiamate ‘sta’ zitto’ e ‘vieni qui’» protestò Cally.

Al Junior gli mollò una pacca sulle spalle che lo fece ruzzolare nella polvere. Suo padre allora gli appioppò una pedata nel fondoschiena che lo fece capitombolare direttamente fuori dalla porta. Tutto per gioco. Nessuno si era fatto male. Come può essermi venuto in mente che qui si macchinasse un omicidio?

«Siete qui con un messaggio? Una lettera?» chiese Alvin Miller. Adesso che i ragazzi erano usciti e si rincorrevano gridando sul prato, gli adulti potevano finalmente scambiarsi due parole.

«Mi spiace» disse Scambiastorie. «Sono soltanto un viaggiatore. Una giovane signora, giù in paese, mi ha detto che forse qui avrei trovato da dormire. In cambio di qualsiasi lavoro vogliate affidare alle mie braccia».

Alvin Miller sorrise. «Vediamo quanto lavoro possono fare, quelle braccia». Gli porse un braccio, ma non per stringergli la mano. Afferrò Scambiastorie per l’avambraccio piantando il piede destro contro il piede dell’altro. «Pensate di potermi atterrare?» chiese Alvin Miller.

«Basta che prima d’iniziare mi diciate se per cenare meglio mi conviene atterrarvi oppure no» disse Scambiastorie.

Alvin Miller gettò indietro la testa e lanciò un grido selvaggio, da pellerossa. «Come vi chiamate, straniero?»

«Scambiastorie».

«Be’, signor Scambiastorie, spero che il gusto della polvere sia di vostro gradimento, perché è esattamente quella che assaggerete prima di qualsiasi altra cosa!»

Scambiastorie sentì la presa all’avambraccio irrigidirsi. Anche le sue braccia erano robuste, ma non come quelle dell’uomo. D’altra parte un incontro di quel genere non era solo questione di forza. Ci voleva anche astuzia, una risorsa che a Scambiastorie non difettava. Così cedette lentamente sotto la spinta di Alvin Miller, molto prima che l’altro dovesse far ricorso a tutta la sua forza. Poi all’improvviso tirò con tutte le forze nella stessa direzione in cui Miller stava spingendo. Di solito ciò bastava a far perdere l’equilibrio a un avversario più massiccio, utilizzando il suo stesso peso contro di lui… ma Alvin Miller era pronto e diede uno strattone nella direzione opposta, facendo volare Scambiastorie così lontano da farlo atterrare in mezzo ai sassi che costituivano la base della futura macina.

Nella mossa però non c’era stata cattiveria, solo amore del confronto. Scambiastorie aveva appena toccato terra che Miller già lo aiutava a rialzarsi, chiedendogli premurosamente se per caso non si era rotto qualcosa.

«Meno male che la macina non era ancora a posto» disse Scambiastorie, «o adesso sareste occupato a rimettermi in testa i pezzi di cervello».

«Che dite? Siamo nel territorio del Wobbish, amico! Da queste parti se ne può benissimo fare a meno, del cervello».

«Be’, mi avete atterrato» disse Scambiastorie. «Questo forse significa che non mi permetterete di guadagnarmi vitto e alloggio?»

«Guadagnarvelo? Nossignore. Non permetterò mai niente del genere». Ma il sorriso che aveva sulle labbra smentiva l’asprezza delle sue parole. «No, no, se volete potete anche lavorare, perché a tutti piace avere la sensazione di pagarsi da vivere. Ma la verità è che vi permetterei di restare anche se vi foste rotto tutt’e due le gambe e non poteste dare il minimo aiuto. C’è un letto già pronto che vi aspetta, proprio accanto alla cucina, e scommetto un maiale intero contro un mirtillo che i ragazzi hanno già detto a Faith di aggiungere una scodella per cena».

«Questo è molto gentile da parte vostra, signore».

«Sciocchezze» disse Alvin Miller. «Siete sicuro di non esservi rotto niente? Siete piombato su quei sassi come un bolide».

«Allora immagino che fareste meglio a controllare che siano ancora tutti interi, signore».

Alvin rise di nuovo, gli diede una pacca sulle spalle e gli fece strada verso casa.

E che casa. Un chiasso così non si sarebbe udito neanche all’inferno. Tra urla e strilli, Miller cercò di presentargli il resto della famiglia. Le quattro ragazze più grandi erano le sue figlie, indaffarate a svolgere una mezza dozzina d’incombenze a testa, ciascuna impegnata a condurre una discussione a tutto volume con ciascuna delle sorelle, passando da un litigio all’altro via via che il lavoro la portava in una stanza diversa. Il lattante che strillava a pieni polmoni era un nipotino, come i cinque bambinetti che giocavano a ‘realisti e cromwelliani’ sotto il tavolo da pranzo. La madre, Faith, sfaccendava in cucina apparentemente al di sopra di tutto. Ogni tanto allungava uno scappellotto a qualche ragazzino, ma per il resto non permetteva loro d’interrompere il suo lavoro… o il flusso costante di ordini, rimproveri, minacce e lamenti. «Come fate a mantenervi in senno con tutta questa confusione?» le chiese Scambiastorie.

«Senno?» ribatté lei aspramente. «Pensate che una persona con un minimo di senno sopporterebbe tutto questo?»

Miller gli mostrò la sua camera. Così la chiamò: «la vostra camera, per tutto il tempo che vorrete rimanere». Nella stanza c’era un immenso letto completo di coperte e cuscino di piume, e metà di una parete corrispondeva alla parte posteriore del camino, per cui era anche riscaldata. A Scambiastorie non era mai stato offerto un letto così sontuoso in tutti i suoi vagabondaggi. «Siamo sicuri che in realtà non vi chiamate Procuste?» chiese.

Miller non capì l’allusione mitologica, ma non importava, aveva colto l’espressione sul viso di Scambiastorie. Evidentemente non era la prima volta. «Noi agli ospiti non diamo la stanza peggiore, Scambiastorie, ma la migliore. E non ne parliamo più».

«Allora bisognerà proprio che domani mi permettiate di lavorare per voi».

«Oh, di cose da fare ce ne sono, se ci sapete fare con le mani. E se non v’imbarazzano i lavori da donne, mia moglie non rifiuterà certo una mano. Vedremo». Così dicendo, Miller uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle.

La confusione era solo parzialmente attutita dalla porta chiusa, ma era una musica che a Scambiastorie non dispiaceva affatto. Si era solo di primo pomeriggio, ma non seppe resistere. Con un movimento deciso si tolse lo zaino dalle spalle, poi si sfilò gli stivali e finalmente si distese sul letto. Il fruscio gli disse che sotto c’era un saccone di paglia che, ricoperto da un materasso di piume, era morbido e confortevole. La paglia era fresca, e le erbe essiccate appese alla parete conferivano alla stanza il profumo del timo e del rosmarino. Mi sono mai disteso su un letto così morbido a Filadelfia? O prima ancora, in Inghilterra? No, non mi è mai successo da quando ho lasciato il ventre di mia madre, pensò.

In quella casa le arti segrete venivano usate senza ritrosia. Il talismano era dipinto in bella evidenza proprio sopra la porta. Scambiastorie ne riconobbe il disegno. Non era un talismano pacificatore, creato per placare qualsiasi violenza che albergasse nell’animo di chi dormisse in quella stanza. Non era un avvertimento, e non era una difesa. Insomma, non era assolutamente inteso a proteggere la casa dall’ospite, o l’ospite dalla casa. Serviva solo ad assicurare benessere. Ed era perfetto, di fattura squisita, mirabilmente proporzionato. Un talismano basato sul numero tre non era facile da disegnare, ma Scambiastorie non ricordava di averne mai visti di altrettanto perfetti.

Perciò non fu sorpreso, mentre se ne stava disteso sul letto, di sentire che i muscoli di tutto il corpo gli si scioglievano, come se quel letto e quella stanza stessero cancellando la stanchezza di venticinque anni di vagabondaggi. Gli venne da pensare che sarebbe stato bello se da morto la tomba gli fosse sembrata comoda come quel letto.

Quando Alvin Junior lo scosse per svegliarlo, tutta la casa profumava di salvia, pepe e manzo stufato. «Avete giusto il tempo di usare il gabinetto, lavarvi e venire a mangiare» disse il ragazzo.

«Debbo essermi addormentato» mormorò Scambiastorie.

«È proprio per questo che ho disegnato quel talismano» disse il ragazzo. «Funziona, non è vero?». Quindi uscì al galoppo dalla stanza.

Quasi immediatamente Scambiastorie udì una delle sorelle maggiori rivolgere al ragazzo una serie impressionante di minacce. Il litigio proseguì a tutto volume mentre Scambiastorie usciva per andare al gabinetto, e quando rientrò non era ancora terminato… anche se Scambiastorie credette di capire che forse adesso a urlare era una sorella diversa.

«Alvin Junior, ti giuro che stanotte mentre dormi ti cucio una puzzola alle piante dei piedi!». La risposta di Al, che gli giunse attutita dalla distanza, provocò un altro scoppio di grida. Non era certo la prima volta che Scambiastorie sentiva urlare. Qualche volta era odio, qualche volta amore. Quando era odio, cercava di svignarsela il prima possibile. In quella casa, sarebbe potuto restare.

Dopo essersi lavato mani e viso, era sufficientemente pulito perché comare Faith gli permettesse di portare in tavola il pane appena sfornato… «purché non vi appoggiate il pane su quella camicia lurida». Poi. Scambiastorie prese il suo posto nella fila, scodella in mano, mentre l’intera famiglia marciava in cucina emergendone con la maggior parte di un maiale divisa in parti uguali.

Fu Faith, non Miller, a invitare una delle ragazze a condurre la preghiera, e Scambiastorie prese nota del fatto che Miller non aveva nemmeno chiuso gli occhi, anche se tutti i suoi figli stavano a testa china e a mani giunte. Apparentemente la preghiera era qualcosa ch’egli tollerava, ma non incoraggiava. Senza bisogno di chiederlo, Scambiastorie capì che tra Alvin Miller e il pastore di quell’elegante chiesa bianca non doveva correre buon sangue. Scambiastorie decise che Miller avrebbe forse potuto apprezzare uno dei proverbi del suo libro: «Come il bruco sceglie le più belle foglie per deporvi sopra le sue uova, così il prete scaglia le sue maledizioni sulle gioie più incontaminate».

Con grande sorpresa di Scambiastorie, il pasto non fu affatto caotico. A turno, ciascuno dei figli raccontò che cosa aveva fatto quel giorno. Gli altri ascoltavano, talvolta offrendo consigli o elogi. Alla fine, quando lo stufato fu terminato e Scambiastorie stava ripulendo la ciotola dalle ultime tracce di sugo con una mollica di pane, Miller si rivolse anche a lui come aveva fatto con tutti gli altri membri della famiglia.

«E la vostra giornata, Scambiastorie? L’avete trascorsa bene?»

«Stamattina prima di mezzogiorno ho camminato per qualche miglio, e poi mi sono arrampicato su un albero» disse Scambiastorie. «Da lassù ho visto un campanile, che mi ha portato fino a una cittadina. Qui un buon cristiano ha avuto paura dei miei talenti nascosti, anche senza avermeli visti praticare, e lo stesso ha fatto un pastore, pur affermando di non credere che io li possedessi. Però ero sempre in cerca di un pasto e di un letto, e dell’opportunità di lavorare per guadagnarmeli, e una donna mi ha detto che coloro che abitavano in fondo a una certa carrareccia mi avrebbero sicuramente dato ospitalità».

«Doveva essere nostra figlia Eleanor» osservò Faith.

«Sì» disse Scambiastorie. «Adesso vedo che ha gli occhi di sua madre, sempre sereni qualsiasi cosa accada».

«No, amico» ribatté Faith. «È solo che questi occhi hanno visto cose tali che da allora non è stato facile mettermi in agitazione».

«Prima di andarmene di qui, spero di udirne il racconto» disse Scambiastorie.

Faith distolse lo sguardo per mettere un’altra fetta di formaggio sul pane di uno dei nipotini.

Non volendo che gli altri pensassero che la mancata risposta di Faith lo avesse messo in imbarazzo, Scambiastorie proseguì senza esitare il suo racconto. «Quel sentiero aveva una strana particolarità» disse. «C’erano ponti coperti su ruscelli che un bambino avrebbe guadato senza difficoltà, e un adulto avrebbe facilmente attraversato con un salto. Prima di andarmene di qui, spero di udire anche la storia di quei ponti».

Anche stavolta, tutti distolsero lo sguardo.

«E quando sono uscito dal bosco ho trovato un mulino senza macina, e due ragazzi che facevano la lotta su un carro, e un mugnaio che mi ha scaraventato a terra come mai mi era successo in vita mia, e una famiglia che mi ha accolto e mi ha offerto la più bella stanza della casa, anche se ero un estraneo e non sapevano se ero buono o cattivo».

«Che siete buono si capisce lontano un miglio» disse Al Junior.

«Vi spiace se vi faccio qualche domanda? In vita mia ho conosciuto molte persone ospitali, e sono stato ospite in molte case felici, ma nessuna era felice come questa, e nessuno si è mai mostrato così contento di ospitarmi».

L’intera famiglia era ancora riunita intorno alla tavola. Alla fine Faith alzò la testa e gli sorrise. «Sono contenta che ci giudichiate felici» disse. «Ma tutti quanti ricordiamo anche altri tempi, e forse la nostra attuale felicità è resa più dolce dal ricordo della sofferenza».

«Ma perché avete dato ospitalità a uno come me?»

Stavolta fu Miller a rispondere. «Perché anche noi una volta siamo stati stranieri, e gente di buon cuore ci ha dato ospitalità».

«Ho soggiornato a Filadelfia per qualche tempo, e questo mi induce a farvi una domanda: appartenete forse alla Società degli Amici?»

Faith scosse la testa. «Sono presbiteriana. E così molti dei miei figli».

Scambiastorie guardò Miller.

«Io non sono niente» disse questi.

«Essere cristiani non è essere niente» replicò Scambiastorie.

«Non sono nemmeno cristiano».

«Ah. Un deista, allora, come Tom Jefferson». Un mormorio si levò intorno alla tavola alla menzione del grand’uomo.

«Scambiastorie, io sono un padre che ama i suoi figli, un marito che ama sua moglie, un contadino che paga i suoi debiti, e un mugnaio senza macina per il suo mulino». Poi l’uomo si alzò da tavola e se ne andò. Si udì chiudersi una porta. Miller era uscito di casa.

Scambiastorie si rivolse a Faith. «Oh, signora, temo che rimpiangerete di avermi accolto in casa vostra».

«Non vi sembra di fare un po’ troppe domande?» chiese lei.

«Vi ho detto il mio nome, e il mio nome è quello che sono. Ogni volta che sento che c’è una storia, una storia importante, una storia vera, non mi do pace finché non l’ho udita. E se me la raccontano, e io ci credo, allora la ricordo per sempre, e la racconto a mia volta ovunque io vada».

«È così che vi guadagnate da vivere?» chiese una delle ragazze.

«Mi guadagno da vivere dando una mano ad aggiustare carri, scavare fosse, filare la lana, qualunque cosa ci sia da fare. Ma il mio vero lavoro sono le storie, e io le baratto alla pari. Può darsi che in questo momento pensiate che non volete raccontarmi niente, e mi sta bene, perché non ho mai voluto ascoltare una storia che non mi venisse raccontata volentieri. Non sono un ladro. Ma, vedete, una storia l’ho già avuta… tutto quello che mi è successo da stamattina a ora. Le persone più gentili e il letto più morbido che io abbia mai incontrato tra il Mizzipy e l’Alph».

«E l’Alph dove sarebbe? È un fiume?» chiese Cally.

«Come hai detto? Vuoi che ti racconti una storia?» chiese Scambiastorie.

«Sì» rumoreggiarono i bambini.

«Ma non sul fiume Alph» disse Al Junior. «Non è un fiume vero».

Scambiastorie lo guardò, genuinamente sorpreso. «Come fai a saperlo? Hai forse letto le poesie di Coleridge raccolte da Lord Byron?»

Al Junior si guardò intorno, disorientato.

«Non abbiamo granché da leggere» spiegò Faith. «Il pastore tiene lezioni di catechismo, e loro imparano a leggere sulla Bibbia».

«E allora come facevi a sapere che il fiume Alph non esiste?»

Al Junior fece una smorfia, come a dire: non farmi domande alle quali nemmeno io saprei rispondere. «Non potreste raccontarci di Jefferson? Da come l’avete nominato si direbbe che l’avete conosciuto di persona».

«Certo che l’ho conosciuto. E Tom Paine, e Patrick Henry prima che lo impiccassero, e ho visto la spada con cui è stato decapitato George Washington. Ho visto persino re Roberto II prima che i francesi affondassero la sua nave nell’Uno, e lo spedissero in fondo al mare».

«Come si meritava» mormorò Faith.

«Se non più in fondo ancora» aggiunse una delle figlie grandi.

«E così sia. Negli Appalachi dicono che le sue mani erano così lorde di sangue che le ossa ne recano ancora le tracce, e neanche i pesci meno schifiltosi si azzardano a rosicchiarle».

I bambini risero.

«E più ancora di Tom Jefferson» disse Al Junior, «vorrei sentir raccontare del più grande mago che sia mai vissuto in America. Scommetto che avete conosciuto anche Ben Franklin».

Ancora una volta il ragazzo lo aveva colto di sorpresa. Come aveva fatto a capire che di tutte le storie che conosceva, le sue preferite erano proprio quelle che parlavano di Ben Franklin? «Se l’ho conosciuto? Be’, un pochino» ammise Scambiastorie, sapendo che il modo in cui lo diceva prometteva loro storie a non finire. «Ho vissuto con lui per sei anni soltanto, e ogni notte trascorrevano otto ore senza che io lo vedessi… per cui non posso dire di saperne molto».

Al Junior si chinò in avanti sul tavolo, gli occhi sgranati e accesi d’entusiasmo. «Era veramente un creatore?»

«Ogni storia a suo tempo» disse Scambiastorie. «Finché i vostri genitori saranno disposti a vedermi qui intorno, e finché sarò convinto di potermi rendere utile, resterò qui a raccontarvi storie giorno e notte».

«Cominciando da Ben Franklin» insisté Alvin Junior. «È vero che riusciva a tirare giù i fulmini dal cielo?»

X

VISIONI

Alvin Junior si svegliò in un bagno di sudore. L’incubo era stato tremendamente realistico, e adesso gli mancava il fiato proprio come dopo una fuga disperata. Ma non c’era modo di fuggire, lo sapeva. Restò disteso a occhi chiusi per qualche tempo, terrorizzato all’idea di aprirli, sapendo che quando l’avesse fatto quella cosa sarebbe stata ancora lì. Molto tempo prima, quando era ancora piccolo, l’incubo lo faceva gridare a squarciagola. Ma quando cercava di spiegarlo a papà e mamma, loro gli dicevano sempre la stessa cosa. «Ma se non è nulla, figliolo! Come mai ti fa così paura, se tu stesso dici che non è nulla!» Così aveva imparato a controllarsi, e ora quando l’incubo arrivava lui non gridava più.

Aprì gli occhi, e la cosa si ritirò immediatamente negli angoli della stanza, dove non era costretto a guardarla direttamente. Era già qualcosa. Resta lì e lasciami stare, disse fra sé.

Poi si rese conto che era giorno fatto, e che la mamma gli aveva disposto ordinatamente sul letto la giacca e i pantaloni di pesante lana nera e una camicia pulita. I vestiti per andare in chiesa la domenica. Quasi quasi avrebbe preferito trovarsi ancora alle prese con l’incubo, piuttosto che svegliarsi per una cosa del genere.

Alvin Junior detestava cordialmente la domenica mattina. Detestava vestirsi bene, così che poi uno non poteva sdraiarsi, inginocchiarsi nell’erba, o addirittura chinarsi senza che qualcosa si sporcasse, e la mamma gli dicesse di avere più rispetto per il giorno del Signore. Detestava dover girare per la casa in punta di piedi per tutta la mattina, perché era domenica, e di domenica non era permesso giocare né fare rumore. E soprattutto detestava l’idea di starsene seduto su una dura panca, in prima fila, col reverendo Thrower che lo fissava diritto negli occhi mentre tuonava sulle fiamme infernali pronte a inghiottire i malvagi che disprezzavano la vera religione e riponevano la loro fede nelle misere capacità di comprensione dell’uomo. Tutte le domeniche la stessa solfa, o almeno così gli sembrava.

Non che Alvin disprezzasse la religione. Disprezzava soltanto il reverendo Thrower. E tutte quelle ore di scuola, adesso che la stagione del raccolto era finita. Alvin Junior leggeva speditamente, e in aritmetica il più delle volte ci azzeccava. Ma questo al vecchio Thrower non bastava. Doveva sempre infilarci la religione. Gli altri bambini — gli svedesi e gli olandesi che abitavano più a monte, gli scozzesi e gl’inglesi che abitavano più a valle — venivano picchiati solo quando rispondevano male o facevano tre errori di fila. Ma con Alvin Junior sembrava che il reverendo Thrower desse di piglio alla canna a ogni minima occasione, e non per le materie di studio, ma sempre per la religione.

Naturalmente il fatto che la Bibbia continuasse a sembrargli divertente nei momenti sbagliati non migliorava certo le cose. Gliel’aveva detto anche Measure, la volta che Alvin era scappato da scuola ed era andato a nascondersi a casa di David, finché Measure non l’aveva trovato poco prima dell’ora di cena. «Basterebbe che non ti mettessi a ridere quando legge la Bibbia, e non ti frusterebbe così tanto».

Ma la Bibbia era divertente. Quando Gionata scagliava tutte quelle frecce nel cielo, e mancava il bersaglio. Quando Geroboamo non scagliava abbastanza frecce dalla finestra. Quando il Faraone trovava ogni sorta d’espedienti per impedire agli Israeliti di partire. Quando Sansone era così scemo da raccontare il suo segreto a Dalila dopo che lei l’aveva già tradito due volte. «Come posso fare a meno di ridere?»

«Immagina che il sedere ti si riempia di foruncoli» disse Measure. «Dovrebbe bastare a farti sparire quel sorriso dalla faccia».

«Ma non me ne ricordo mai finché non mi scappa da ridere».

«E allora probabilmente non avrai bisogno di una sedia fino al tuo quattordicesimo compleanno» ribatté Measure. «Perché la mamma non ti permetterà mai di abbandonare la scuola, e nemmeno Thrower ti lascerà mai perdere, e tu non puoi restartene nascosto a casa di David per sempre».

«Perché no?»

«Perché nascondersi di fronte al nemico è la stessa cosa che lasciarlo vincere».

Così Measure non aveva voluto farlo restare lì al sicuro, e lui era dovuto tornare a casa… e le aveva buscate anche da papà, per la paura che aveva fatto prendere a tutti scappando e restandosene nascosto per tanto tempo. Eppure Measure l’aveva aiutato. Era un sollievo sapere che c’era qualcuno pronto a riconoscere che Thrower era suo nemico. Tutti gli altri invece la facevano un sacco lunga su quant’era bravo e buono e istruito Thrower, e quant’era gentile a lasciare che i bambini si abbeverassero alla fonte della sua sapienza. Se ci pensava, ad Alvin veniva quasi da vomitare.

Anche se da allora Alvin durante le ore di scuola era riuscito a controllarsi di più, e quindi a buscarne di meno, la domenica era per lui la prova più terribile, perché gli toccava starsene seduto su quella dura panca ad ascoltare Thrower, per metà del tempo con la voglia di ridere fino a rotolarsi sul pavimento, e per l’altra metà con la voglia di alzarsi in piedi e gridare: «Questa è praticamente la massima idiozia che io abbia mai sentito dire a un adulto!». Tra l’altro, aveva una mezza idea che se avesse veramente detto a Thrower una cosa del genere, papà non lo avrebbe picchiato troppo forte, visto che anche lui non aveva una grande opinione del pastore. Ma la mamma… non gli avrebbe mai perdonato di aver pronunciato parole blasfeme nella casa del Signore.

La domenica mattina, concluse, era stata inventata perché i peccatori potessero avere un assaggio del loro primo giorno all’inferno.

Oggi probabilmente la mamma non avrebbe permesso a Scambiastorie di raccontare nemmeno la più breve delle sue storie, a meno che non fosse tratta dalla Bibbia. E siccome Scambiastorie, a quanto pareva, non raccontava mai storie tratte dalla Bibbia, Alvin Junior ne concluse che da quella giornata non poteva venir fuori niente di buono.

La voce della mamma squillò su per le scale: «Alvin Junior, sono così stufa di aspettare ogni domenica mattina. tre ore che tu sia vestito, che stavolta ti porterò in chiesa nudo!».

«Non sono nudo!» urlò di rimando Alvin. Ma siccome addosso aveva ancora la camicia da notte di flanella, probabilmente era peggio che essere nudo. Se la sfilò, la appese a un piolo e cominciò a vestirsi in fretta e furia.

Era buffo. Qualsiasi altro giorno della settimana gli bastava allungare la mano verso i vestiti che quelli si trovavano lì, ogni volta esattamente il capo di cui aveva bisogno. Camicia, calzoni, calzini, scarpe. Sempre lì a portata di mano, ogni volta che l’allungava. Ma la domenica mattina era come se i vestiti gli scappassero da sotto le mani. Cercava la camicia, e si ritrovava in mano i pantaloni. Allungava la mano verso un calzino, e regolarmente trovava una scarpa. Era come se i vestiti non ne volessero sapere di essere indossati.

Così quando la mamma spalancò la porta, non era solo colpa di Alvin se non si era ancora infilato i calzoni.

«Non hai fatto colazione! Sei ancora mezzo nudo! Se pensi ch’io sia disposta a far arrivare tutta la famiglia in ritardo per colpa tua…».

«…ti sbagli di grosso» concluse Alvin.

Non era colpa sua se la mamma diceva sempre la stessa cosa. Ma lei si arrabbiò come se lui fosse stato tenuto a fingere di essere sorpreso di sentirle pronunciare quelle parole per la novantesima volta dall’inizio dell’estate. Oh, era proprio sul punto di suonargliele di santa ragione, o di chiamare papà perché gliele suonasse ancora più forte, quando sulla porta fece la sua provvidenziale comparsa Scambiastorie.

«Comare Faith» disse Scambiastorie, «se volete intanto avviarvi insieme agli altri, ci penserò volentieri io ad accompagnarlo in chiesa».

Nell’udire Scambiastorie, la mamma si voltò di scatto cercando di non fargli vedere quanto fosse arrabbiata. In quello stesso istante Alvin cominciò a praticarle un incantesimo calmante… con la mano destra, in modo da non farsi vedere, perché se lei se ne fosse accorta gli avrebbe rotto un braccio, e quella era l’unica minaccia alla quale Alvin Junior credeva veramente.

«Mi rincresce di darvi questa seccatura» disse la mamma.

«Figuratevi, comare Faith» ribatté Scambiastorie. «Faccio così poco per ricambiare la vostra gentilezza nei miei confronti».

«Così poco!» L’irritazione era quasi completamente scomparsa dalla voce della mamma. «Ma se mio marito dice che fate il lavoro di due uomini adulti! E quando raccontate le vostre storie ai ragazzi… in questa casa ci sono più pace e tranquillità di… di quanto non avrei mai osato sperare». La mamma si voltò di nuovo verso Alvin, ma adesso la sua collera era più simulata che reale. «Mi prometti di fare tutto quello che Scambiastorie ti dirà, e che verrai subito in chiesa?»

«Sì, mamma» disse Alvin Junior. «Prima che posso».

«Va bene, allora. Mille grazie, Scambiastorie. Se riuscite a farvi obbedire da questo ragazzo, sarà più di quanto chiunque sia riuscito a ottenere da quando ha imparato a parlare».

«È un vero monello» disse Mary dal corridoio.

«Chiudi il becco, Mary» disse la mamma, «o ti caccio il labbro inferiore su per il naso e poi te lo cucio, per esser sicura che rimanga chiuso».

Alvin tirò un respiro di sollievo. Quando la mamma lanciava minacce impossibili, voleva dire che non era più così arrabbiata. Mary arricciò il naso e scomparve a precipizio nel corridoio, ma Alvin non se ne curò minimamente. Si limitò a sorridere a Scambiastorie, e Scambiastorie ricambiò il suo sorriso.

«Hai problemi a vestirti per andare in chiesa, ragazzo?» chiese Scambiastorie.

«Preferirei vestirmi di lardo e camminare in mezzo a un branco di orsi affamati» confessò Alvin Junior.

«Mi sembra che sia più facile uscire vivi di chiesa che da un incontro con gli orsi» commentò Scambiastorie.

«Non c’è molta differenza».

Poco dopo aveva finito di vestirsi. Ma riuscì a convincere Scambiastorie a prendere la scorciatoia, che significava tagliare attraverso il bosco sopra la casa anziché fare il giro seguendo la strada. Siccome fuori faceva un bel freddo, non pioveva da diverso tempo, e non pareva che volesse nevicare, non avrebbero trovato fango, e probabilmente la mamma non se ne sarebbe neanche accorta. E ciò che la mamma non sapeva non avrebbe potuto arrecargli alcun danno.

«Ho notato» disse Scambiastorie mentre risalivano il pendio coperto di foglie, «che tuo padre non è andato insieme a tua madre, a Cally e alle ragazze».

«Mio padre in chiesa non ci va» disse Alvin. «Dice che il reverendo Thrower è un asino/Logicamente non lo dice quando la mamma può sentirlo».

«Lo credo bene» annuì Scambiastorie.

Adesso si trovavano sulla sommità della collina, da dove lo sguardo poteva spaziare attraverso campi aperti fino alla chiesa e oltre. Il rilievo su cui sorgeva la chiesa nascondeva alla vista la cittadina di Vigor Church. La brina che ricopriva l’erba bruciata dal gelo aveva appena cominciato a sciogliersi, così che la chiesa sembrava quanto di più bianco potesse esistere in un mondo di candore, e il sole che vi scintillava sopra le conferiva l’aspetto d’un astro gemello. Alvin vide che qualche carro era ancora per la strada, e c’era chi stava legando i cavalli ai pali sul prato. Se si fossero affrettati, avrebbero potuto trovarsi al loro posto prima che il reverendo Thrower intonasse il primo inno.

Ma Scambiastorie non si avviò giù per la discesa. Si mise a sedere su un ceppo e cominciò a recitare una poesia. Alvin lo ascoltò con la massima attenzione, perché spesso le poesie di Scambiastorie gli facevano venire proprio i brividi.

Mi recai nel Giardino dell’Amore
e vidi ciò che mai avevo visto:
una cappella costruita in mezzo al prato
dove una volta usavo giocare.

E la porta della cappella era serrata
e «Tu non farai» era scritto sulla porta,
così mi rivolsi al Giardino dell’Amore
nel quale sbocciavano fiori profumati,

e vidi che il giardino era pieno di tombe
e lapidi sorgevano al posto dei fiori:
facevan la ronda preti intonacati e neri
e fra i pruni serravano gioie e desideri.

Oh, quello di Scambiastorie era proprio un dono, sì, perché mentre recitava quei versi il mondo intero si trasformò sotto gli occhi di Alvin. I prati e gli alberi sembravano adesso in pieno rigoglio primaverile, di un verde smagliante punteggiato dal giallo di diecimila corolle, e il bianco della cappella là nel mezzo non abbagliava più, ma era piuttosto il bianco polveroso e opaco delle ossa calcinate. «E fra i pruni serravano gioie e desideri» ripeté Alvin. «A quanto pare, la religione non vi dice granché».

«Io respiro religione ogni volta che prendo fiato» disse Scambiastorie. «Non c’è cosa che desideri più di una visione; e vado continuamente in cerca di qualche segno della mano di Dio. Ma su questa terra vedo più di frequente le tracce di un’altra mano. Una strisciata di bava scintillante che a toccarla mi scotta. Di questi tempi Dio se ne sta un po’ sulle sue, Al Junior, ma Satana non teme di rotolarsi nel fango insieme all’umanità».

«Thrower dice che la sua chiesa è la casa di Dio».

Scambiastorie restò seduto senza aprir bocca per un sacco di tempo.

Alla fine Alvin si decise a chiederglielo apertamente: «In quella chiesa avete forse visto i segni del demonio?».

Nei giorni trascorsi da quando Scambiastorie era arrivato in casa loro, Alvin aveva imparato che Scambiastorie non diceva mai vere bugie. Ma quando non voleva essere costretto a dire la verità, scantonava recitando una poesia. E una poesia recitò adesso:

O Rosa, sei malata.
Il verme invisibile
che vola nella notte
nella burrasca ululante

ha scoperto il tuo letto
di gioia scarlatta,
e il suo amore oscuro
distrugge la tua vita.

Quelle risposte allusive irritavano Alvin. «Se volessi udire senza capire, tanto varrebbe leggere Isaia».

«Musica per le mie orecchie, caro ragazzo, sentirmi paragonare al più grande dei profeti».

«Non mi sembra un gran profeta, se nessuno riesce a capire un accidente di quello che ha scritto».

«O forse voleva che tutti diventassimo profeti».

«A me i profeti non vanno molto a genio» disse Alvin. «Per quanto ne so, finiscono sotto terra anche loro, come tutti». Era una cosa che aveva sentito dire da suo padre.

«Tutti finiamo sotto terra, certo» ammise Scambiastorie. «Ma tra i morti, c’è chi continua a vivere nelle proprie parole».

«Le parole non restano mai ferme» disse Alvin. «Ecco, quando costruisco qualcosa, quella è la cosa che ho fatto. Come quando intreccio un canestro. È un canestro. Quando si sfascia, è un canestro sfasciato. Ma quando dico qualcosa, le parole possono essere distorte. Thrower può prendere le stesse parole che ho detto un istante prima e distorcerle in modo da far loro significare l’esatto contrario di quello che intendevo io».

«Pensala in un altro modo, Alvin. Quando intrecci un canestro, questo non potrà mai diventare nient’altro che un canestro. Ma quando dici qualcosa, le tue parole possono essere ripetute più e più volte, e riempire il cuore degli uomini a mille miglia di distanza da dove le hai pronunciate per la prima volta. Le parole possono ingrandirsi; le cose non sono mai più di quello che sono».

Alvin cercò di visualizzare la cosa, e, siccome era stato Scambiastorie a dirla, l’immagine gli venne quasi da sola alla mente. Parole invisibili come l’aria, che uscivano dalle labbra di Scambiastorie e si diffondevano passando di bocca in bocca, diventando sempre più grandi, ma restando sempre invisibili.

Poi, all’improvviso, la visione si trasformò. Vide le parole uscire dalle labbra del pastore, come un tremito nell’aria, che si diffondeva e s’infiltrava dappertutto… e ad un tratto quell’immagine si mutò nel suo incubo, nel sogno spaventoso che lo assaliva, da sveglio o nel sonno, inchiodandogli il cuore alla spina dorsale finché non gli sembrava di morire. Il mondo che si riempiva di un terribile, tremolante nulla che s’infiltrava dappertutto e distruggeva ogni cosa. Alvin lo vide avventarsi contro di lui come un’immensa palla che diventava sempre più grande. Da tutte le sue esperienze dello stesso incubo, Alvin sapeva che anche se stringeva i pugni quella cosa si sarebbe assottigliata fino a sfuggirgli tra le dita, e anche se chiudeva la bocca e gli occhi avrebbe cominciato a premergli sul viso insinuandosi nel naso e nelle orecchie e…

Scambiastorie lo stava scuotendo. Scuotendo forte. Alvin spalancò gli occhi. L’aria tremolante si ritirò ai margini del suo campo visivo, là dove poteva scorgerla per la maggior parte del tempo, in agguato appena fuori della sua portata, subdola come una donnola, pronta a guizzar via non appena lui girava l’occhio.

«Che cos’hai, ragazzo?» chiese Scambiastorie. Dall’espressione sembrava spaventato.

«Nulla» disse Alvin.

«Nulla non è possibile» disse Scambiastorie. «Tutt’a un tratto ti ho visto sbiancare di paura, come di fronte a una visione tremenda».

«Non era una visione» mormorò Alvin. «Una visione l’ho avuta, una volta, e so com’è».

«Davvero? E che visione era?»

«Un Uomo Luminoso. Non ne ho mai parlato con nessuno, e non ho intenzione di cominciare adesso».

Scambiastorie non insisté. «E adesso che cos’hai visto, se non era una visione?… be’, che cos’era?»

«Nulla». Come risposta era sincera, anche se Alvin sapeva benissimo che non era una risposta. Ma non voleva rispondere. Ogni volta che ne parlava con qualcuno, lo rimbrottavano perché faceva tutte quelle storie per nulla.

Ma Scambiastorie non era disposto a mollare. «È da quando sono nato che spero di avere una vera visione, Al Junior, e tu ne hai appena avuta una, qui, in pieno giorno, a occhi spalancati, hai visto qualcosa di così spaventoso che hai smesso di respirare, e adesso devi dirmi che cos’era».

«Ve l’ho detto! Nulla!» Poi, più calmo: «Non è nulla, ma io riesco a vederlo. Come se l’aria si mettesse a ondeggiare».

«Non è nulla, ma non è invisibile?»

«Entra dappertutto. Penetra nelle più minuscole fessure e poi sgretola tutto. Si mette a tremare, e trema finché non resta altro che polvere, e poi fa tremare anche la polvere, e io cerco di tenerlo lontano, ma quello diventa sempre più grande, ricopre tutto, finché sembra ricoprire cielo e terra». Alvin non riusciva a trattenersi. Adesso tremava di freddo, anche se era infagottato come un orso.

«Quante volte l’hai visto prima d’ora?»

«Da quando ho memoria. Mi capita ogni tanto. Il più delle volte mi metto a pensare a qualcos’altro, e in questo modo riesco a tenerlo lontano».

«Dove?»

«Lontano. Dove non lo vedo più». Alvin si tirò in ginocchio, quindi ricadde su un fianco, esausto. Si era messo a sedere sull’erba bagnata con i calzoni della domenica, ma neanche se ne accorse. «Quando avete parlato di come le parole vanno sempre più lontano… è stato allora che l’ho visto di nuovo».

«Un sogno che torna a presentarsi cerca di dirti la verità» commentò Scambiastorie.

Il vecchio era evidentemente così interessato che Alvin si chiese se si rendesse davvero conto dell’orrore della cosa. «Questa non è una delle vostre storie, Scambiastorie».

«Lo diventerà» assicurò Scambiastorie, «appena l’avrò capita».

Si mise a sedere accanto ad Alvin e meditò in silenzio per un tempo lunghissimo.

Alvin si limitò a restarsene seduto, piegando i fili d’erba fra le dita. Dopo un po’ cominciò a sentirsi impaziente. «Forse capire tutto è impossibile» disse. «Forse è soltanto una mia pazzia. Forse ogni tanto mi dà di balta il cervello».

«Ecco» disse Scambiastorie, senza nemmeno accorgersi che Alvin gli aveva detto qualcosa. «Ho pensato a un possibile significato. Ora te lo dico, e vediamo se possiamo crederci».

Ad Alvin non piaceva essere ignorato. «O forse è a voi che ogni tanto dà di balta il cervello; ci avete mai pensato, Scambiastorie?»

Scambiastorie ignorò il dubbio di Alvin. «L’intero universo non è altro che un sogno nella mente di Dio, e finché Egli è addormentato ci crede e le cose restano reali. Quello che vedi è Dio che si sveglia, che gradualmente si sveglia, e questo suo svegliarsi si diffonde nel sogno e disfa l’universo, finché finalmente Egli non si tirerà a sedere, si strofinerà gli occhi e dirà: ‘Santo cielo che sogno, vorrei potermelo ricordare’, e in quell’istante scompariremo tutti». Guardò Alvin con espressione ansiosa. «Che ne dici?»

«Se ci credete, Scambiastorie, allora siete proprio un idiota patentato, come dice sempre Corazza-di-Dio».

«Allora è così che la pensa, eh?». All’improvviso la mano di Scambiastorie guizzò in avanti afferrando Alvin per il polso. Alvin ne fu così sorpreso da lasciar cadere ciò che teneva in mano. «No! Raccoglilo! Guarda che cosa stavi facendo!»

«Stavo solo giocando, accidenti!»

Scambiastorie allungò la mano per raccogliere ciò che Alvin aveva lasciato cadere. Era un cestino minuscolo, non più largo di un pollice, fatto d’erba autunnale. «L’hai intrecciato tu, mentre parlavamo».

«Penso di sì» disse Alvin.

«E perché l’hai fatto?»

«L’ho fatto e basta».

«Senza nemmeno pensarci?»

«Come cestino non è un granché, sapete. Li facevo sempre per Cally. Da piccolo li chiamava ‘cestini da formiche’. Si disfano quasi subito».

«Hai avuto una visione del nulla, e hai subito dovuto costruire qualcosa».

Alvin guardò il cestino. «Penso di sì».

«E lo fai sempre?»

Alvin ripensò a tutte le volte che aveva visto l’aria tremolante. «Costruisco cose in continuazione» disse. «Non mi sembra così importante».

«Ma non ti senti a posto finché non hai costruito qualcosa. Dopo avere avuto la visione del nulla, non ti senti tranquillo finché non hai messo qualcosa insieme».

«Forse è soltanto per scaricarmi».

«Non è solo per scaricarti, eh, ragazzo? Spaccar legna non ti servirebbe a nulla. Raccogliere le uova, attingere l’acqua dal pozzo, falciare l’erba, non ti darebbe alcun sollievo».

Adesso anche Alvin cominciava a intravedere il senso di quanto Scambiastorie aveva scoperto. I suoi stessi ricordi glielo confermavano. Si svegliava di notte dopo uno di quei sogni, e l’inquietudine non gli passava finché non aveva intrecciato qualcosa, o innalzato un mucchio di fieno, o costruito una bambola di pannocchie di granturco per una delle nipotine. Lo stesso gli succedeva quando la visione gli veniva di giorno… non riusciva più a combinare nulla finché non aveva costruito qualcosa che prima non c’era, sia pure un semplice mucchio di sassi o un pezzo di muro a secco.

«È vero, allora? Lo fai tutte le volte, no?»

«Mi pare di sì».

«Allora lascia che ti dica che cos’è il tuo nulla. È il Distruttore».

«Non ne ho mai sentito parlare» disse Alvin.

«Nemmeno io, finora. Questo perché fa di tutto per restare nascosto. È il nemico di tutto ciò che esiste. La sua maggiore aspirazione è quella di fare a pezzi tutto, e poi fare a pezzi anche i pezzi, finché non ne resta più nulla».

«Se fai a pezzi qualcosa, e poi fai a pezzi anche i pezzi, non è vero che non resta nulla» lo contraddisse Alvin «Restano semplicemente tanti pezzi piccolissimi».

«Sta’ zitto e ascolta il resto della storia» disse Scambiastorie.

Non era la prima volta che Alvin glielo sentiva dire. Anzi, Alvin Junior era quello a cui Scambiastorie doveva dirlo più spesso, più ancora che ai nipotini.

«Non sto parlando di bene e di male» disse Scambiastorie. «Nemmeno il diavolo può permettersi di distruggere tutto, non è vero? O smetterebbe di esistere, esattamente come tutto il resto. Nemmeno le creature più malvagie possono desiderare la distruzione di tutto… desiderano soltanto sfruttare ogni cosa a proprio vantaggio».

Alvin non aveva mai udito la parola sfruttare prima d’allora, ma dal suono giudicò che doveva essere una brutta cosa.

«Perciò nella grande guerra fra il Distruttore e tutto il resto, Dio e il diavolo dovrebbero trovarsi dalla stessa parte. Ma il diavolo non lo sa, e di conseguenza il più delle volte si mette al servizio del Distruttore».

«Volete dire che il diavolo lavora per la propria sconfitta?»

«Questa storia non parla del diavolo» disse Scambiastorie. Una volta che aveva cominciato a raccontare, non c’era verso di smuoverlo. «Nella grande guerra contro il Distruttore, quello della tua visione, tutti gli uomini e le donne del mondo dovrebbero essere uniti. Ma il grande nemico resta invisibile, in modo che nessuno possa rendersi conto che sta involontariamente combattendo al suo fianco. Nessuno si rende conto che la guerra è la migliore alleata del Distruttore, perché manda in rovina tutto ciò che tocca. Nessuno si rende conto che il fuoco, le stragi, la violenza, la cupidigia e la concupiscenza spezzano i fragili legami che trasformano gli esseri umani in nazioni, città, famiglie, amici e anime».

«Dovete proprio essere un profeta» borbottò Alvin Junior, «perché non capisco una sola parola di quel che dite».

«Un profeta, sì» mormorò Scambiastorie, «ma sono stati i tuoi occhi a vedere. Ora conosco la sofferenza di Aronne: pronunciare parole di verità, ma non accedere mai direttamente alla visione».

«Ne state tirando fuori di cose, dai miei incubi».

Scambiastorie restò in silenzio, seduto per terra, i gomiti sulle ginocchia, il mento mestamente appoggiato sulle mani. Alvin cercò di cogliere il senso di ciò che il vecchio gli aveva appena detto. Certamente ciò che aveva visto nei suoi brutti sogni non era una cosa di nessun genere, e quindi parlare del Distruttore come se fosse stato una persona era solo un’invenzione poetica. Ma forse era vero, forse il Distruttore non era semplicemente frutto della sua immaginazione, forse era qualcosa di reale e Al Junior era l’unico a poterlo vedere. Forse il mondo intero correva un terribile pericolo, e Alvin era chiamato a combatterlo, a respingerlo, a tenerlo a bada. Sicuramente, quando faceva quel sogno Alvin non riusciva a sopportarlo, e cercava di mandarlo via. Ma non era mai riuscito a capire come fare.

«Supponiamo che io vi creda» disse infine. «Supponiamo che il Distruttore esista davvero. Io però non posso farci un accidente di niente».

Sulle labbra di Scambiastorie affiorò un lento sorriso mentre abbassava lentamente una mano per raccogliere il minuscolo cestino da formiche abbandonato nell’erba. «Questo ti sembra forse un accidente di niente?»

«È solo un ciuffetto d’erba».

«Era un ciuffetto d’erba» disse Scambiastorie. «E se tu lo strappassi, tornerebbe a essere un ciuffetto d’erba. Ma adesso, in questo preciso istante, è qualcosa di più».

«Un cestino da formiche, nient’altro».

«Qualcosa che hai costruito tu».

«Be’, sicuramente l’erba non cresce così da sola».

«E quando l’hai costruito, hai respinto il Distruttore».

«Non di molto» disse Alvin.

«No» disse Scambiastorie. «Hai fabbricato semplicemente un cestino da formiche. E di tanto l’hai respinto».

A un tratto nella mente di Alvin tutti i pezzi del rompicapo andarono a posto. Quello che Scambiastorie stava cercando di spiegargli. Alvin conosceva opposti di ogni genere: bene e male, luce e buio, libertà e schiavitù, amore e odio. Ma sotto tutti questi opposti si celavano quelli della creazione e della distruzione. E si celavano così a fondo che quasi nessuno si rendeva conto che era quella l’opposizione più importante di tutte. Ma lui se n’era accorto, e questo aveva fatto sì che il Distruttore diventasse suo nemico. Ecco perché il Distruttore lo perseguitava nel sonno. In fin dei conti, Alvin aveva il suo dono. Il dono di mettere le cose a posto, di dare alle cose la forma che avrebbero dovuto assumere.

«Penso che la mia vera visione parlasse della stessa cosa» disse Alvin.

«Non sei obbligato a parlarmi dell’Uomo Luminoso» lo interruppe Scambiastorie. «Non ho l’abitudine d’impicciarmi degli affari altrui».

«Volete dire impicciarvi degli affari altrui per sbaglio?» disse Alvin.

Era il genere di osservazione che in famiglia gli sarebbe costato un sonoro schiaffone, ma Scambiastorie rise soltanto.

«Avevo commesso una cattiva azione senza saperlo» disse Alvin. «Allora l’Uomo Luminoso mi è comparso ai piedi del letto, e prima mi ha mostrato una visione di ciò che avevo fatto, per farmi capire che era male. E io mi sono messo a piangere, scoprendo quanto ero stato cattivo. Poi mi ha fatto vedere a cosa poteva servirmi il mio dono, e adesso capisco che è la stessa cosa di cui mi state parlando voi. Ho visto una pietra, l’avevo estratta da una montagna, ed era tonda come una palla, e quando ho guardato meglio ho visto che era il mondo intéro, con boschi e animali e oceani e pesci e tutto quanto. Ecco a che cosa serve il mio dono, a cercare di mettere le cose a posto».

A Scambiastorie brillavano gli occhi. «E l’Uomo Luminoso ti ha mostrato una visione come questa» mormorò. «Per una visione così, avrei dato la vita».

«Solo perché avevo usato il mio dono per fare del male a qualcun altro, a mio esclusivo vantaggio» sottolineò Alvin. «Allora ho fatto una promessa. Ho giurato solennemente che non avrei più usato il mio dono per me stesso. Solo per gli altri».

«Una buona promessa» disse Scambiastorie. «Vorrei che tutti gli uomini e le donne del mondo potessero pronunciare un simile giuramento, e mantenerlo».

«A ogni modo, ecco perché so che il… il Distruttore non è solo una visione. Nemmeno l’Uomo Luminoso era una visione. Quella che mi ha mostrato, quella era una visione, ma lui, lì davanti a me, era vero».

«E il Distruttore?»

«Vero anche lui. Non è che lo veda soltanto nella mia testa, esiste veramente».

Scambiastorie annuì, senza mai abbandonare con lo sguardo la faccia di Alvin.

«Debbo costruire delle cose» disse Alvin. «Più in fretta di quanto lui possa distruggerle».

«Nessuno può costruire così in fretta» disse Scambiastorie. «Se tutti gli uomini che ci sono al mondo trasformassero la Terra in un milione di milioni di milioni di milioni di mattoni e si mettessero a costruire un muro lavorando giorno e notte senza mai smettere, il muro si sgretolerebbe più in fretta di quanto loro sarebbero in grado di costruirlo. Anzi, ci sarebbero parti di quel muro che crollerebbero prima ancora di essere costruite».

«Questa è una stupidaggine. Un muro non può crollare prima di essere costruito».

«Se gli uomini continuassero abbastanza a lungo, i mattoni si trasformerebbero in polvere non appena loro li toccherebbero, le loro stesse mani andrebbero in putrefazione e colerebbero dalle ossa come viscida melma, finché mattoni e carne e ossa non sarebbero tutti ugualmente ridotti in polvere. Allora il Distruttore starnutirebbe, e la polvere si disperderebbe nello spazio infinito in modo da non poter mai più tornare unita. L’universo sarebbe freddo, immobile, silenzioso e buio, e finalmente il Distruttore troverebbe pace».

Alvin cercò di trovare un senso in ciò che Scambiastorie andava dicendo. Era la stessa cosa che faceva quando a scuola Thrower parlava di religione, perciò Alvin la considerava un’attività abbastanza pericolosa. Ma non poteva fare a meno di provarci, come non poteva evitare di fare domande, anche se poi gli altri s’infuriavano. «Se le cose si distruggono più in fretta di quanto sia possibile costruirle, allora com’è possibile che esista ancora qualcosa? Com’è che il Distruttore non ha già vinto? Che ci stiamo a fare noi, qui?»

Scambiastorie non era il reverendo Thrower. Le domande di Alvin non lo facevano infuriare. Si limitò ad aggrottare la fronte e a scuotere la testa. «Non lo so. Hai ragione. Noi non possiamo essere qui. La nostra esistenza è impossibile».

«Ma noi siamo qui, in caso non ve ne siate accorto» disse Alvin. «Che razza di stupida storia sarebbe, se basta guardarsi in viso a vicenda per rendersi conto che non è vera?»

«Ha dei difetti, lo ammetto».

«Pensavo che raccontaste solo storie alle quali credete».

«Mentre la raccontavo ci credevo».

Scambiastorie sembrava così addolorato che Alvin allungò una mano e gliela posò sulla spalla, anche se la giubba del vecchio era così spessa e la mano di Alvin così piccola che il ragazzo non poteva esser sicuro che Scambiastorie avesse avvertito il suo tocco. «Anch’io ci ho creduto. A certe parti. Per un po’».

«Allora nella storia c’era un fondo di verità. Forse non molta, ma un po’ sì». Scambiastorie parve sollevato.

Ma Alvin non seppe rinunciare all’ultima parola. «Non è detto che solo perché uno ci crede, la storia diventi vera».

Scambiastorie spalancò gli occhi. L’ho combinata bella, pensò Alvin. Adesso l’ho fatto arrabbiare, proprio come mi succede col reverendo Thrower. Proprio come mi succede con tutti. Perciò non restò sorpreso quando Scambiastorie tese ambedue le braccia verso di lui, gli prese il viso tra le mani, e parlò con tale forza che parve volergli conficcare le parole nella fronte. «Qualsiasi cosa che si possa credere è immagine di verità».

E, strano a dirsi, quelle parole gli penetrarono dentro, e lui le capì, anche se non avrebbe saputo esprimere a parole ciò che aveva capito. Qualsiasi cosa che si possa credere è immagine di verità. Se mi dà la sensazione di essere vero, allora contiene qualcosa di vero, anche se non è completamente vero. E se lo studio a fondo, allora forse posso capire quali parti sono vere, e quali false, e…

E Alvin si rese conto di un’altra cosa. Che tutte le sue discussioni con Thrower si riducevano a questo: che se ad Alvin qualcosa sembrava assurdo, lui non ci credeva, e non c’era citazione della Bibbia capace di convincerlo. Adesso Scambiastorie gli diceva che faceva bene a rifiutarsi di credere a cose senza senso. «Scambiastorie, questo forse significa che ciò a cui non credo non può essere vero?»

Scambiastorie inarcò le sopracciglia e gli rispose con un altro proverbio. «La verità non può mai essere detta in modo da poter essere compresa e non creduta».

Alvin era stufo di proverbi. «Per una volta, potreste rispondermi chiaramente?»

«Il proverbio è la pura verità, ragazzo. Mi rifiuto di distorcerlo per adattarlo a una mente confusa».

«Be’, se ho la mente confusa è tutta colpa vostra. Tutti quei discorsi sui mattoni che si sgretolano prima che il muro venga costruito…».

«Non ci hai creduto?»

«Forse sì. Penso che se mi mettessi a intrecciare tutta l’erba di questo prato per farne cestini da formiche, prima di arrivare dall’altra parte del prato l’erba sarebbe tutta morta e sbriciolata e non ne resterebbe più nulla. Penso che se mi mettessi in mente di trasformare tutti gli alberi da qui al Noisy in case di tronchi, gli alberi sarebbero tutti morti e caduti prima che io potessi arrivare all’ultimo. E non si può costruire una casa con dei tronchi marci».

«Un momento fa stavo per dire: ‘L’uomo non può costruire cose permanenti con pezzi temporanei’. La legge è questa. Ma come l’hai espresso tu, era il proverbio della legge: ‘Non. si può costruire una casa con dei tronchi marci’».

«Ho inventato un proverbio?»

«E quando saremo a casa, lo scriverò nel mio libro».

«Nella parte chiusa con la fibbia?» chiese Alvin. Poi si ricordò che quel libro l’aveva visto solo attraverso una fessura del pavimento, di notte, una volta che Scambiastorie si era messo a scrivere a lume di candela nella stanza sotto la sua.

Scambiastorie gli lanciò un’occhiata penetrante. «Mi auguro che non cercherai mai di aprire quella fibbia con le tue arti magiche».

Alvin era offeso. Poteva guardare attraverso una fessura, ma non sarebbe mai andato a frugare di nascosto nelle cose degli altri. «Per me, sapere che non volete che io legga quella parte vale molto di più di qualsiasi fibbia, e se non lo capite, non siete mio amico. Non ho intenzione di ficcare il naso nei vostri segreti».

«I miei segreti?» Scambiastorie rise. «Il solo motivo per cui chiudo la seconda parte del libro è che lì ci scrivo io, e non voglio che ci scriva nessun altro».

«Allora nella prima parte ci scrivono gli altri?»

«Sì».

«E che cosa ci scrivono? Posso scriverci qualcosa anch’io?»

«Ciascuno scrive una frase riguardo alla cosa più importante che abbia fatto in vita sua, o a cui abbia assistito coi suoi stessi occhi. E, da quel momento in poi, quell’unica frase mi basta per ricordare l’intera storia.

Perciò quando mi reco in un’altra città, in un’altra casa, posso aprire il libro, leggere la frase e raccontare la storia».

Ad Alvin venne in mente una possibilità straordinaria. Scambiastorie aveva abitato con Ben Franklin, no? «Anche Ben Franklin ha scritto qualcosa nel vostro libro?»

«Ha scritto la prima frase».

«E quella frase parla della cosa più importante che abbia mai fatto?»

«Certo».

«Be’, e che cos’era?»

Scambiastorie si tirò in piedi. «Torna a casa con me, ragazzo, e te la mostrerò. E mentre andiamo, ti racconterò la storia in modo da spiegarti quello che ha scritto».

Alvin balzò in piedi tutto allegro e, afferrato il vecchio per la manica di stoffa pesante, quasi lo trascinò verso il sentiero che riportava a casa. «Forza, allora!» Non sapeva se Scambiastorie avesse deciso di non andare in chiesa, o si fosse semplicemente dimenticato per quale motivo si trovavano lì… Qualunque ne fosse la ragione, era più che soddisfatto della piega presa dagli eventi. Una domenica senza chiesa era una domenica per cui valeva la pena di essere vivi. Aggiungendovi i racconti di Scambiastorie e una frase scritta di pugno da Ben il Creatore, la giornata diventava pressoché perfetta.

«Non c’è fretta, ragazzo. Nessuno di noi due morirà prima di mezzogiorno, e ogni storia ha bisogno del suo tempo».

«Era qualcosa che aveva fabbricato?» chiese Alvin. «La cosa più importante?»

«Proprio così».

«Lo so! Le lenti bifocali? La stufa?»

«La gente gli diceva sempre: Ben, sei un vero creatore. Ma lui si ostinava a negare. Proprio come negava di essere un mago. Non ho nessun talento per le arti segrete, diceva. Mi limito a prendere i pezzi di cui le cose sono fatte, e a metterli insieme in maniera migliore. Le stufe esistevano anche prima che inventassi la mia. Gli occhiali esistevano anche prima che inventassi i miei. In realtà non ho mai fatto niente in vita mia, nel senso in cui lo farebbe un vero Creatore. Io vi ho dato le lenti bifocali, ma un Creatore vi darebbe un paio di occhi nuovi».

«Secondo lui, non aveva mai fatto nulla

«Un giorno glielo chiesi. Proprio il giorno in cui ho cominciato il libro. Gli dissi: Ben, qual è la cosa più importante che tu abbia mai fatto? Lui allora cominciò a dire quello che ti ho appena detto, ossia che in realtà non aveva mai fatto nulla, e io gli dissi: Ben, tu non ci credi affatto, e nemmeno io. Lui allora disse: Bill, mi hai smascherato. Una cosa l’ho fatta, ed è la cosa più importante che io abbia mai fatto, e al tempo stesso la cosa più importante che io abbia mai visto».

Scambiastorie tacque, procedendo a lunghi passi giù per la discesa, in mezzo alle foglie che gli frusciavano rumorosamente sotto i piedi.

«E che cos’era?»

«Non preferiresti aspettare fino a casa, in modo da poterlo leggere tu stesso?»

Alvin allora si arrabbiò sul serio, più di quanto avrebbe voluto. «Non sopporto quando la gente sa qualcosa e non me lo vuol dire!»

«Non c’è bisogno di dare in escandescenze, ragazzo. Te lo dirò. Ciò che scrisse era: L’unica cosa che io abbia veramente creato sono gli americani».

«Che assurdità! Gli americani nascono».

«Be’, ecco, in realtà non è così, Alvin. I bambini nascono. In Inghilterra esattamente come in America. Perciò non è il fatto di nascere a renderli americani».

Alvin ci pensò su qualche istante. «È il fatto di nascere in America».

«Sì, anche questo. Ma una cinquantina d’anni fa, di un bambino nato a Filadelfia non si diceva che era americano. Si diceva che era pennsylvaniano. E i bambini nati a Nuova Amsterdam erano olandesi, e quelli nati a Boston erano yankee, e quelli nati a Charleston erano giacobiani, o realisti, o roba del genere».

«È ancora così» osservò Alvin.

«Sì, certo, ma c’è anche dell’altro. Secondo il vecchio Ben, tutti quei nomi ci dividevano in virginiani, orangisti e gente del Rhode Island, in bianchi, neri e rossi, in quaccheri e papisti, puritani e presbiteriani, in olandesi, svedesi, francesi e inglesi. Il vecchio Ben vedeva che un virginiano non arrivava mai a fidarsi fino in fondo di uno che venisse dal Netticut, e che un Bianco non arrivava mai a fidarsi fino in fondo di un Rosso, perché si sentivano diversi. Così si disse: se abbiamo tutti questi nomi che ci dividono, perché non trovare un nome che ci unisca? Perciò giocherellò con un sacco di nomi che già venivano usati. ‘Coloniali’, per esempio. Ma l’idea non gli piaceva, perché questo nome richiamava in qualche modo l’Europa, e per di più i Rossi non possono certo essere chiamati coloniali, no? E nemmeno i Neri, visto che sono arrivati qui come schiavi. Capito il problema?»

«Voleva trovare un nome che tutti quanti potessimo usare».

«Precisamente. E una cosa in comune ce l’avevamo. Vivevamo tutti nello stesso continente. Il Nordamerica. Allora pensò che avremmo potuto chiamarci nordamericani. Ma era troppo lungo. Perciò…».

«Americani».

«È un nome adatto al pescatore che vive sulla selvaggia costa dell’Anglia Occidentale come al barone schiavista di Dryden. È adatto al capo Mohawk dell’Irrakwa come al mercante olandese di Nuova Amsterdam. Il vecchio Ben sapeva che se tutti quanti avessimo cominciato a pensare a noi stessi come a degli americani, saremmo diventati una nazione. Non soltanto un pezzo di qualche vecchio e stanco paese europeo, ma una nuova nazione unitaria, qui, in una nuova terra. Così cominciò a usare quella parola in tutto ciò che scriveva. L’Almanacco del povero Richard era tutto una chiacchiera sugli americani, gli americani qui e gli americani lì. E il vecchio Ben scrisse a tutti quanti lettere in cui per esempio diceva: ‘I conflitti sui diritti di proprietà della terra sono un problema che gli americani debbono risolvere tutti insieme. L’Europa non può assolutamente capire di che cosa gli americani abbiano bisogno per sopravvivere. Perché gli americani dovrebbero morire per le guerre degli europei? Per quale motivo in tribunale gli americani dovrebbero essere vincolati dai precedenti europei?’. Nel giro di cinque anni non c’era praticamente più nessuno, dalla Nuova Inghilterra alla Jacobia, che non si ritenesse, almeno in parte, americano».

«Era soltanto un nome».

«Ma è il nome con cui chiamiamo noi stessi. E che include chiunque altro in questo continente sia disposto ad accettarlo. Il vecchio Ben lavorò duramente per far sì che questo nome includesse il maggior numero di persone possibile. Senza mai detenere alcuna carica pubblica se non quella di direttore di un ufficio postale, quasi senza sforzo trasformò un nome in una nazione. Col re che conservava il possesso delle colonie meridionali, e gli uomini del Lord Protettore che governavano sulla Nuova Inghilterra a nord, nel futuro non vedeva che caos e guerra, con la Pennsylvania esattamente nel mezzo. Franklin voleva impedire quella guerra, e a questo scopo usò la parola ‘americano’. Fece sì che gli abitanti della Nuova Inghilterra temessero di offendere la Pennsylvania, e che i realisti facessero di tutto per conquistarsi l’appoggio della Pennsylvania. Fu lui a propagandare l’idea di un Congresso Americano che stabilisse le politiche di scambio e leggi fondiarie uguali per tutti.

«E alla fine» continuò Scambiastorie, «poco prima d’invitarmi a raggiungerlo dall’Inghilterra, scrisse il Patto Americano, e convinse le sette colonie originarie a firmarlo. Non fu facile, capisci… persino il numero degli stati fu all’origine di un’infinità di discussioni. Gli olandesi si erano accorti che la maggior parte di coloro che adesso emigravano in America era composta da inglesi, irlandesi e scozzesi, e non avevano nessuna intenzione di farsi travolgere; allora il vecchio Ben permise loro di dividere la Nuova Olanda in tre colonie, in modo che potessero avere un maggior numero di voti in Congresso. Con la scissione del Suskwahenny dalle regioni su cui accampavano diritti tanto la Nuova Svezia quanto la Pennsylvania, venne messa a tacere un’altra polemica».

«Finora hai nominato soltanto sei stati» disse Alvin.

«Il vecchio Ben si rifiutò di far firmare il Patto a chiunque, se non si concedeva all’Irrakwa di entrare nella federazione come settimo stato, con confini ben definiti entro i quali i Rossi si governavano da soli. Molti volevano una nazione esclusivamente bianca, ma il vecchio Ben non cedette d’un pollice. L’unico modo di assicurare la pace, diceva, era che tutti gli americani si unissero con pari diritti. Ecco perché il suo Patto non consente la schiavitù, e nemmeno la servitù della gleba. Ecco perché il suo Patto non permette a nessuna religione di proclamarsi superiore alle altre. Ecco perché il suo Patto non consente allo Stato di chiudere tipografie o d’impedire ai cittadini di esprimere la propria opinione. Bianco, nero e rosso; papista, puritano e presbiteriano; ricco, povero, mendicante e ladro… tutti quanti viviamo sotto le stesse leggi. Una sola nazione, creata a partire da un’unica parola».

«Americano».

«Adesso capisci perché la riteneva la sua più grande impresa?»

«Ma non è il Patto, la cosa più importante?»

«Il Patto è solo una sfilza di parole. ‘Americano’ è l’idea che ha creato le parole».

«Ancora però non comprende gli yankee e i realisti, e non ha nemmeno impedito la guerra, visto che gli Appalachi stanno ancora combattendo contro il re».

«Ma certo che li comprende, Alvin. Ti ricordi la storia di George Washington a Shenandoah? In quei giorni portava il titolo di Lord Potomac, e conduceva il grosso delle truppe di re Roberto contro quella banda di straccioni che era tutto ciò che era rimasto a Ben Arnold. Era evidente che il mattino seguente i realisti di Lord Potomac avrebbero espugnato il piccolo forte, segnando il definitivo fallimento della ribellione dei liberi montanari di Tom Jefferson. Ma Lord Potomac aveva combattuto al fianco di quei montanari contro i francesi. E in quei giorni lontani Tom Jefferson era stato suo amico. In cuor suo non riusciva a sopportare l’idea della battaglia dell’indomani. Chi era re Roberto perché in suo nome si versasse tanto sangue? Quei ribelli chiedevano soltanto di essere padroni delle proprie terre, senza baroni imposti a forza dal re che li dissanguassero a forza di tasse, fino a trasformarli in schiavi esattamente come i neri delle colonie della Corona. Quella notte non riuscì a chiudere occhio».

«Pregava» disse Alvin.

«Così la racconta Thrower» ribatté asciutto Scambiastorie. «Ma nessuno può saperlo. E quando rivolse la parola alle sue truppe, il mattino dopo, non parlò certamente di preghiere. Parlò invece della parola inventata da Ben Franklin. Quella notte aveva scritto una lettera al re, rinunciando al comando e con esso alle sue terre e ai suoi titoli. E quella lettera non l’aveva firmata ‘Lord Potomac’, ma ‘George Washington’. Poi la mattina si alzò, e di fronte ai soldati del re con le loro uniformi azzurre rivelò quel che aveva fatto, e disse loro che erano Liberi di scegliere, tutti quanti, se obbedire ai loro ufficiali e marciare in battaglia, o invece schierarsi in difesa della Dichiarazione d’Indipendenza di Tom Jefferson. ‘Sta a voi scegliere’ disse. ‘Ma per quanto mi riguarda…’».

Alvin quelle parole le sapeva a memoria, come ogni uomo, donna o bambino del continente. Ma adesso avevano acquisito per lui un nuovo significato, e le gridò con quanto fiato aveva in gola: «La mia spada americana non verserà mai una sola goccia di sangue americano!».

«E poi, dopo che la maggior parte dei suoi uomini si era unita ai ribelli degli Appalachi, con fucili e munizioni, carri e provviste, ordinò all’ufficiale di grado superiore tra coloro che erano rimasti fedeli al re di arrestarlo. ‘Ho infranto il mio giuramento verso il re’ disse. ‘È stato in nome di un bene superiore, ma ho pur sempre infranto un giuramento, e pagherò il prezzo del mio tradimento’. E lo pagò, sissignore, lo pagò con una sciabolata sul collo. Ma quanti, al di fuori della corte del re, pensano che sia stato veramente un tradimento?»

«Nessuno» disse Alvin.

«E da allora il re è forse riuscito a combattere una sola battaglia contro gli Appalachi?»

«Nemmeno una».

«Nemmeno un uomo sul campo di battaglia di Shenandoah era cittadino degli Stati Uniti. Nemmeno uno di loro viveva sotto il Patto Americano. Eppure, quando George Washington parlò di spade americane e di sangue americano, capirono che intendeva riferirsi proprio a loro. E adesso dimmi, Alvin Junior, il vecchio Ben si sbagliava forse nel dire che la sua più grande creazione era una parola?»

Alvin avrebbe voluto rispondere, ma in quel preciso istante lui e Scambiastorie si ritrovarono sui gradini della veranda di casa Miller, e prima che potessero arrivare alla porta questa si spalancò, e lui si trovò di fronte la mamma, che lo squadrò da capo a piedi. Dall’espressione del suo viso, Alvin capì di essere davvero nei guai, e ne sapeva il perché.

«Ma io in chiesa ci volevo andare, mamma!»

«Sai quanti defunti avrebbero voluto andare in paradiso» rispose lei, «e non ci sono mai arrivati?»

«È stata colpa mia, comare Faith» intervenne Scambiastorie.

«Sono sicura di no, Scambiastorie».

«Io e il ragazzo ci siamo messi a chiacchierare, comare Faith» insisté Scambiastorie, «e temo di averlo distratto».

«Il ragazzo è nato distratto» replicò Faith, senza mai distogliere lo sguardo dal viso di Alvin. «Ha preso da suo padre. Se non lo selli e gli metti le briglie e lo cavalchi fino in chiesa, non c’è verso che ci arrivi; e se non gl’inchiodi i piedi al pavimento della chiesa, un istante dopo è già fuori. Un ragazzo di dieci anni che odia il Signore è sufficiente a far desiderare a sua madre che non fosse mai nato».

Quelle parole colpirono al cuore Alvin Junior.

«Terribile desiderio, per una madre» disse pacatamente Scambiastorie. La mamma finalmente alzò lo sguardo sul viso del vecchio.

«No, non lo desidero veramente» disse alla fine.

«Mi dispiace, mamma» balbettò Alvin Junior.

«In casa» disse lei. «Sono venuta via di chiesa per cercarti, e adesso non facciamo più in tempo a tornare laggiù prima che finisca il sermone».

«Abbiamo parlato di un sacco di cose, mamma» disse Alvin. «Dei miei sogni, e di Ben Franklin, e…».

«L’unica cosa che voglio sentire da te» lo interruppe la mamma, «sono le note degli inni. Visto che non sei andato in chiesa, adesso te ne starai seduto in cucina insieme a me, e mentre preparo il pranzo mi canterai degli inni».

Così Alvin non poté leggere la frase scritta dal vecchio Ben nel libro di Scambiastorie, almeno per diverse ore. La mamma lo trattenne a cantare e a lavorare fino all’ora di pranzo, e dopo pranzo papà, i ragazzi più grandi e Scambiastorie sedettero a discutere della spedizione dell’indomani, quando sarebbero andati alla cava di granito a tagliare una macina da mulino.

«Lo faccio per voi» disse papà a Scambiastorie. «Quindi mi sembra giusto che veniate».

«Non mi sembra di avervi mai chiesto una macina da mulino».

«Da quando siete qui, non è passato un solo giorno senza che abbiate osservato quale vergogna sia che un mulino così bello venga usato come un volgare fienile, quando la gente della zona ha bisogno di buona farina».

«Che io ne sappia, l’ho detto una volta sola».

«Può anche darsi» ribatté papà, «ma ogni volta che vi vedo, mi viene da pensare a quella macina».

«È perché avreste preferito che la macina fosse al suo posto, quando mi avete atterrato».

«Non lo preferisce affatto!» esclamò Cally. «Perché allora sareste morto!»

Scambiastorie si limitò a sorridere, e papà a restituirgli il sorriso. E continuarono a chiacchierare di questo e di quello. Poi arrivarono le mogli con nipotini e nipotine per la cena domenicale, e Scambiastorie fu costretto a cantare la canzone della risata tante di quelle volte che Alvin pensò si sarebbe messo a urlare, se avesse udito un altro coro di: «Ah, ah, ih!».

Fu soltanto dopo cena, quando i nipotini e le nipotine se ne furono andati, che Scambiastorie si decise a tirare fuori il suo libro.

«Mi chiedevo se lo avreste mai aperto» osservò papà.

«Stavo solo aspettando il momento adatto» disse Scambiastorie. Poi spiegò come in quel libro ciascuno scrivesse l’azione più importante mai vista o compiuta.

«Non vi aspetterete che io ci scriva qualcosa, spero» disse papà.

«Oh, non vi permetterei di scriverci nulla, per lo meno non ancora. La storia della vostra azione più importante non me l’avete ancora neanche raccontata». La voce di Scambiastorie si fece più suadente. «Forse la vostra azione più importante non l’avete ancora compiuta».

A quelle parole papà parve un po’ irritato, o forse un po’ impaurito. A ogni modo si alzò e si avvicinò a Scambiastorie. «Fatemi vedere che cosa ci ha scritto di così maledettamente importante tutta questa gente».

«Oh» disse Scambiastorie. «Sapete leggere?»

«Per vostra norma e regola, prima di sposarmi e mettermi a fare il mugnaio nell’Hampshire Orientale, e molto prima di venire qui, ho ricevuto una educazione yankee nel Massachusetts. Può anche darsi che a uno che ha studiato a Londra come voi non faccia un grande effetto, ma state certo che non potreste scrivere parola che io non sappia leggere, a meno che non sia in latino».

Scambiastorie non rispose. Si limitò ad aprire il libro. Papà lesse la prima frase. «L’unica cosa che io abbia mai veramente creato sono gli americani». Papà alzò lo sguardo su Scambiastorie. «E questo chi l’ha scritto?»

«Il vecchio Ben Franklin».

«Per come l’ho sentita raccontare io, l’unico americano che sia mai riuscito a creare era illegittimo».

«Forse potrà spiegarvelo Al Junior» disse Scambiastorie.

Intanto Alvin si era insinuato pian piano davanti a loro, e adesso fissava la calligrafia del vecchio Ben. Non gli parve molto diversa dalle altre che aveva visto. Alvin provò una certa delusione, anche se non avrebbe saputo dire che cosa si fosse aspettato. Le lettere avrebbero forse dovuto essere d’oro? Certo che no. Non c’era motivo per cui sulla pagina le parole di un grand’uomo dovessero apparire diverse da quelle di uno sciocco.

Eppure non riusciva a superare la frustrazione dovuta al fatto che quelle parole avessero un aspetto così banale. Così allungò la mano e voltò la pagina, voltò molte pagine, facendole scorrere con le dita. Le parole erano tutte uguali, scritte in inchiostro grigio sulla carta ingiallita.

Un lampo di luce scaturì dal libro, accecandolo per un istante.

«Non giocare con le pagine» lo rimproverò papà, «o finirai per strapparle».

Alvin si voltò verso Scambiastorie. «Che cos’è quella pagina con la luce?» chiese. «Che cosa c’è scritto?»

«Luce?» chiese Scambiastorie.

Allora Alvin capì che soltanto lui l’aveva vista.

«Cercala tu stesso» disse Scambiastorie.

«Riuscirà solo a strapparla» commentò papà.

«Ci starà attento» disse Scambiastorie.

Ma papà sembrava arrabbiato. «Ti ho detto di lasciar stare quel libro, Alvin Junior».

Alvin fece per obbedire, ma sentì sulla spalla la mano di Scambiastorie. La voce del vecchio era ferma, e Alvin avvertì le dita muoversi in segno di avvertimento. «Il ragazzo ha visto qualcosa nel libro» disse Scambiastorie, «e voglio che me lo ritrovi».

E, con gran sorpresa di Alvin, papà si ritirò in buon ordine. «Se non vi scoccia farvi strappare il libro da quello sbadato di mio figlio…» borbottò, quindi tacque.

Alvin si avvicinò di nuovo al volume, e con cautela voltò le pagine una alla volta. Finalmente una di esse andò a posto, e ne scaturì una luce che sulle prime lo abbagliò, ma a poco a poco si affievolì finché Alvin non la vide provenire da un’unica frase, le cui lettere parevano ardere.

«Non le vedete bruciare?» chiese Alvin.

«No» disse Scambiastorie. «Ma sento odore di fumo. Tocca il punto che vedi bruciare».

Alvin allungò la mano e toccò cautamente l’inizio della frase. La fiamma, con sua grande sorpresa, non bruciava, anche se ne avvertì il calore. Ne avvertì il calore fino all’osso. Rabbrividì, mentre l’ultimo freddo autunnale abbandonava il suo corpo. Sentendosi dentro tutta quella luce, Alvin sorrise. Ma un istante dopo che lui l’ebbe toccata, la fiamma si affievolì, si raffreddò, scomparve.

«Che cosa dice?» chiese la mamma. Adesso era in piedi dall’altra parte del tavolo. Non era una grande lettrice, e da dov’era vedeva le lettere capovolte.

Scambiastorie le lesse ad alta voce. «È nato un Creatore».

«Su questa terra non esistono più creatori» disse la mamma, «da quando Colui che trasformò l’acqua in vino l’ha lasciata».

«Può darsi, ma questo è ciò che ha scritto» disse Scambiastorie.

«Chi l’ha scritto?» domandò la mamma.

«Uno scricciolo di ragazzina. Circa cinque anni fa».

«E qual era la storia che accompagnava la frase?» chiese Alvin Junior.

Scambiastorie scosse la testa.

«Avete detto che nel libro non ci lasciavate scrivere nessuno che prima non vi avesse raccontato la sua storia».

«L’ha scritto senza che me n’accorgessi» spiegò Scambiastorie. «Me ne sono accorto solo la sera dopo, quand’ero ormai lontano».

«E allora come fate a sapere ch’è stata lei?» chiese Alvin.

«È stata lei» rispose il vecchio. «Era l’unica, laggiù, in grado di schiudere il talismano che in quei giorni tenevo sul libro».

«Così non sapete che cosa significhi? Non sapete nemmeno dirmi perché quelle lettere le ho viste bruciare?»

Scambiastorie scosse il capo. «Se ricordo bene, era la figlia d’un locandiere. Parlava pochissimo, e quando parlava diceva solo ed esclusivamente la verità. Mai una bugia, nemmeno per delicatezza. La consideravano un po’ bisbetica. Ma come dice il proverbio, se uno dice sempre quel che pensa, il malvagio resterà alla larga. O qualcosa del genere».

«E come si chiamava?» chiese la mamma. Alvin alzò lo sguardo, sorpreso. La mamma non aveva visto le lettere ardenti; perché allora sembrava tanto desiderosa di sapere chi le aveva scritte?

«Mi spiace» disse Scambiastorie. «In questo momento non ricordo il suo nome. E anche se me lo ricordassi, non lo direi, né direi niente a proposito del luogo in cui viveva. A qualcuno potrebbe venire in mente di cercarla, per disturbarla chiedendole risposte che lei potrebbe non essere disposta a dare. Ma una cosa posso dirla. Era una fiaccola, e vedeva con sguardo veritiero. Perciò se ha scritto che era nato un Creatore, io le credo, ed ecco perché ho lasciato che le sue parole restassero nel mio libro».

«Un giorno vorrei sentire la sua storia» disse Alvin. «Vorrei sapere perché quelle lettere erano così luminose».

Alzò lo sguardo, e vide che la mamma e Scambiastorie si guardavano dritto negli occhi. Nessuno dei due abbassò lo sguardo.

E poi, proprio ai margini del suo campo visivo, dove riusciva quasi a scorgerlo, ma non del tutto, avvertì la presenza del Distruttore, tremolante, invisibile, bramoso di scrollare il mondo fino a distruggerlo. Senza nemmeno accorgersene, Alvin tirò fuori dai calzoni la parte anteriore della camicia e ne annodò i due lembi. Il Distruttore vacillò e scomparve.

XI

LA MACINA

Scambiastorie si svegliò di colpo. Qualcuno lo stava scrollando. Fuori era ancora buio pesto, ma era l’ora di muoversi. Si tirò a sedere, si piegò leggermente in avanti e provò un certo piacere nel sentire quanto fossero diminuiti in quei giorni, dormendo su un letto morbido, dolori e doloretti. Potrei anche abituarmici, pensò. Sì, potrei anche prender gusto a questa vita.

La pancetta che friggeva in cucina era così grassa che poteva udirla sfrigolare. Stava per infilarsi gli stivali quando Mary bussò alla sua porta. «Sì, più o meno sono presentabile» disse Scambiastorie.

La ragazza entrò con due paia di calzettoni di lana pesante. «Li ho fatti io» disse.

«Nemmeno a Filadelfia avrei potuto trovare calzettoni così spessi».

«Qui nel territorio del Wobbish gli inverni sono particolarmente freddi, e…». Non riuscì a finire. La timidezza ebbe la meglio, e Mary chinò la testa e uscì in tutta fretta dalla stanza.

Scambiastorie s’infilò i calzettoni, quindi gli stivali, e infine sorrise. Non si sentiva in imbarazzo ad accettare qualche piccolo dono. Lavorava duro, come tutti, e aveva fatto più della sua parte per preparare la fattoria all’inverno. Coi tetti ci sapeva fare; gli piaceva arrampicarsi e non soffriva di vertigini. Perciò erano state le sue mani a sistemare la casa; e fienili, stalle e porcili erano tutti perfettamente asciutti.

E, senza che nessuno gliel’avesse chiesto, aveva preparato il mulino ad accogliere la macina. Aveva caricato personalmente sul carro tutto il fieno che si trovava là dentro, cinque carichi abbondanti. I gemelli, che essendosi sposati solo quell’estate non avevano ancora molto da fare sulle loro terre, si erano incaricati di scaricarlo nel fienile grande. Tutto questo senza che Miller avesse dovuto nemmeno toccare il forcone. Scambiastorie si era occupato di tutto, e Miller non aveva insistito.

Altre cose, tuttavia, non andavano altrettanto bene. Ta-Kumsaw e i suoi Shawnee stavano facendo scappare un sacco di gente dalla regione di Carthage City, e tutti avevano i nervi a fior di pelle. Certo, era una bellissima cosa che il Profeta avesse una città sull’altra riva del fiume dove migliaia di Rossi non facevano altro che parlare di come per nessuna ragione al mondo avrebbero mai preso le armi contro l’uomo bianco. Ma c’erano anche un sacco di Rossi che condividevano i sentimenti di Ta-Kumsaw, e pensavano che l’uomo bianco dovesse essere ricacciato fino all’Atlantico e rispedito in Europa, con o senza navi. Spirava vento di guerra, e correva voce che Bill Harrison, giù a Carthage City, fosse sin troppo lieto di soffiare sul fuoco, per non parlare dei francesi di Detroit, i quali da un pezzo sobillavano i Rossi ad attaccare i coloni americani nelle regioni che secondo loro facevano parte del Canada.

Nella cittadina di Vigor Church non si parlava d’altro; ma Scambiastorie sapeva che Miller non la prendeva altrettanto seriamente. Secondo lui i Rossi erano solo dei buffoni, degl’ignoranti la cui massima aspirazione era quella di tracannare tutto il whisky su cui riuscivano a mettere le mani. Scambiastorie aveva già incontrato questo genere di atteggiamento, ma solo nella Nuova Inghilterra. A quanto pareva, gli yankee non riuscivano a rendersi conto che ogni Rosso della Nuova Inghilterra che avesse un minimo di spina dorsale si era trasferito da un pezzo nello stato dell’Irrakwa. E gli yankee avrebbero sicuramente visto le cose in tutt’altra luce se avessero saputo che gli stessi Irrakwa si stavano dando un gran da fare con le macchine a vapore importate direttamente dall’Inghilterra, e che nella regione dei Finger Lakes un bianco di nome Eli Whitney li stava aiutando ad attrezzare una fabbrica che avrebbe prodotto fucili a un ritmo circa venti volte superiore a quello fino allora ritenuto possibile. Un giorno o l’altro gli yankee si sarebbero svegliati per scoprire che i Rossi non erano tutti degli ubriaconi, e qualche bianco avrebbe dovuto mettersi le gambe in spalla per non perdere lo scalpo.

Nel frattempo, tuttavia, Miller non prendeva molto sul serio quei discorsi di guerra. «Lo sappiamo tutti che i boschi sono pieni di Rossi» diceva sempre. «Non possiamo certo impedirgli di giocare a nascondino, ma per adesso di galline non me ne sono sparite, per cui non lo vedo come un problema».

«Ancora pancetta?» chiese Miller. Così dicendo, spinse il vassoio sul tavolo verso Scambiastorie.

«Non sono abituato a mangiare tanto la mattina» si scusò Scambiastorie. «Da quando sono qui, a ogni pasto ho regolarmente mangiato più di quanto fossi solito mangiare in un’intera giornata».

«Bisogna che mettiate un po’ di carne sulle ossa» disse Faith mettendogli davanti senza tanti complimenti due focaccine calde spalmate di miele.

«Non riuscirei a mandare giù un altro boccone» protestò Scambiastorie.

Le focaccine scomparvero istantaneamente dal suo piatto. «Ci penso io» disse Al Junior.

«Non allungare le mani sui piatti altrui» lo rimbrottò Miller. «E poi non puoi mangiartele tutt’e due».

In men che non si dica, Al Junior dimostrò che il padre aveva torto. Quindi gli uomini si lavarono le mani appiccicose di miele, s’infilarono i guanti e uscirono di casa per salire sul carro. Le prime luci dell’alba stavano facendo capolino a oriente, quando giunsero a cavallo David e Calm, che vivevano a metà strada tra la fattoria e il paese. Al Junior si arrampicò sul retro del carro, in mezzo agli attrezzi, alle corde, alle tende e alle provviste. Sarebbero rimasti fuori per qualche giorno.

«Allora… aspettiamo i gemelli e Measure?» chiese Scambiastorie.

Miller salì a cassetta. «Measure è già sul posto, a segare alberi per la treggia. E Wastenot e Wantnot restano qui a fare la spola da una casa all’altra». Sorrise. «Con tutto quello che si dice dei Rossi e delle loro cattive intenzioni, meglio non lasciar sole le donne, non vi pare?»

Scambiastorie ricambiò il sorriso. Gli faceva piacere sapere che, nonostante l’apparente indifferenza, Miller non trascurava le precauzioni.

Per arrivare alla cava c’era da fare un bel po’ di strada. A un certo punto oltrepassarono i resti di un carro sfasciato, in mezzo ai quali giacevano le due metà di una macina. «È stato il nostro primo tentativo» disse Miller. «Ma nel fare la discesa un mozzo ha cominciato a lavorare a secco e si è bloccato, e il carro non ha retto al peso della macina».

Giunti a un corso d’acqua d’una certa larghezza, Miller gli raccontò che per due volte avevano cercato di portare a valle la macina su una zattera, ma ambedue le volte la zattera era affondata. «Siamo stati sfortunati» disse Miller, ma dall’espressione del suo viso sembrava una questione personale, come se qualcuno o qualcosa si fosse messo contro di loro.

«Ecco perché stavolta usiamo treggia e rulli» disse Al Junior, chinandosi sulla spalliera del sedile. «Niente può cadere, niente può rompersi, e anche se qualcosa si rompesse sono soltanto tronchi, e non ci mancherebbero certo i pezzi di ricambio».

«Purché non piova» disse Miller. «O nevichi».

«Il cielo mi sembra pulito» osservò Scambiastorie.

«Il cielo è un gran bugiardo» ribatté Miller. «Ogni volta che voglio fare qualcosa, l’acqua mi mette regolarmente i bastoni fra le ruote».

Quando giunsero alla cava il sole era già alto, ma mancava ancora parecchio a mezzogiorno. Il viaggio di ritorno sarebbe stato molto più lungo, si capisce. Measure aveva già abbattuto sei alberi grossi e sani, e una ventina più piccoli. David e Calm si misero subito al lavoro, ripulendoli dai rami e levigandoli il più possibile. Con grande sorpresa di Scambiastorie, fu Al Junior a raccogliere la sacca con gli utensili da tagliapietre e a incamminarsi tra le rocce.

«Dove vai?» chiese Scambiastorie.

«Oh, devo cercare un buon posto per tagliare» spiegò Al Junior.

«Ha occhio, per la pietra» disse Miller. Ma chiaramente non gli stava dicendo tutto.

«E quando l’hai trovata, la pietra, che cosa fai?» chiese Scambiastorie.

«Be’, la taglio». Alvin si avviò a passo lento sul sentiero in salita con tutta l’arroganza di un ragazzo che sa di svolgere un lavoro da uomo.

«Ha anche una buona mano» aggiunse Miller.

«Ma ha solo dieci anni» disse Scambiastorie.

«Quando ha tagliato la prima macina, ne aveva sei» ribatté Miller.

«Volete dire che è un dono?»

«Non voglio dire nulla».

«Allora vediamo se rispondete a questa domanda, Al Miller. Ditemi, siete per caso un settimo figlio?»

«Perché me lo chiedete?»

«Coloro che sono addentro a queste cose affermano che il settimo figlio d’un settimo figlio nasce con la conoscenza di come le cose appaiono sotto la superficie. Ecco perché riescono così bene come rabdomanti».

«È così che dicono?»

Measure si avvicinò al padre, gli si fermò di fronte, si mise le mani sui fianchi e lo guardò fisso, con evidente esasperazione. «Papà, che male c’è a dirglielo? Da queste parti lo sanno anche i bambini».

«Forse mi sono fatto l’idea che il signor Scambiastorie sappia già più di quanto io non abbia voglia di dirgli».

«Questo mi sembra veramente ingiusto, papà, nei confronti d’un uomo che si è già dimostrato più che un amico».

«Se c’è qualcosa che non vuole farmi sapere, non è certo obbligato a dirmelo» interloquì Scambiastorie.

«E allora ve lo dirò io» disse Measure. «Certo. Papà è un settimo figlio».

«E anche Al Junior» disse Scambiastorie. «Vero? Non me ne avete mai parlato, ma quando un uomo dà il proprio nome a un figlio che non sia il suo primogenito, non ci vuole molto a capire che è il settimo».

«Vigor, nostro fratello maggiore, è morto nel fiume Hatrack solo pochi minuti dopo la nascita di Al Junior» spiegò Measure.

«Il fiume Hatrack» disse Scambiastorie.

«Conoscete quel posto?» chiese Measure.

«Conosco tutti i posti. Ma, per qualche motivo, quel nome mi fa pensare che avrei dovuto ricordarmene prima, e non riesco a capire perché. Il settimo figlio d’un settimo figlio. Allora le macine da mulino le estrae dalla roccia con qualche incantesimo?»

«Noi non ne parliamo in questi termini» lo corresse Measure.

«La roccia lui la taglia» disse Miller. «Esattamente come ogni altro tagliapietre».

«Be’, grande e grosso com’è, è pur sempre solo un ragazzo» disse Scambiastorie.

«Diciamo semplicemente» precisò Measure, «che quando lui taglia la pietra, questa è un po’ più morbida di quando la taglio io».

«Vi sarei grato» disse Miller, «se rimaneste qui con noi e ci aiutaste a ripulire i tronchi. Ci servono una treggia bella robusta, e una serie di rulli lisci e perfettamente rotondi». Ciò che non disse, ma per Scambiastorie suonò chiaro come il sole, fu: resta qui e non fare troppe domande a proposito di Al Junior.

Perciò Scambiastorie lavorò con David, Measure e Calm per tutta la mattina e buona parte del pomeriggio, e per tutto quel tempo udirono il tintinnio regolare del. ferro sul granito. Lavorando la pietra, Alvin Junior dava il tempo al lavoro degli altri, anche se nessuno vi accennò.

Scambiastorie tuttavia non era tipo da lavorare in silenzio. Visto che sulle prime gli altri si mostravano piuttosto taciturni, si mise a raccontare. E siccome gli altri non erano bambini ma uomini adulti, raccontò storie che non erano fatte soltanto di avventure, eroismo e tragiche morti.

La maggior parte del pomeriggio, a dire il vero, la dedicò alla saga di John Adams. Raccontò di come la sua abitazione fosse stata incendiata da una folla di bostoniani dopo ch’egli aveva ottenuto l’assoluzione di dieci donne accusate di stregoneria. Come Alex Hamilton l’avesse invitato sull’isola di Manhattan, dove avevano fondato uno studio legale. Come nel giro di dieci anni fossero riusciti a convincere il governo olandese a dare libero accesso all’immigrazione dei non olandesi, finché inglesi, scozzesi, gallesi e irlandesi non erano divenuti la maggioranza degli abitanti della Nuova Amsterdam e Nuovo Orange, e una forte minoranza in Nuova Olanda. Come fossero riusciti a ottenere che l’inglese diventasse seconda lingua ufficiale, nel 1780, appena in tempo perché le tre colonie olandesi figurassero tra i sette stati che per primi avevano firmato il Patto Americano.

«Scommetto che alla fine gli olandesi non li sopportavano più» disse David.

«Erano politici troppo abili per correre questo rischio» spiegò Scambiastorie. «Pensate che tutt’e due avevano imparato a parlare olandese meglio della maggior parte degli olandesi, e avevano mandato i loro figli in scuole olandesi perché crescessero parlando olandese. Erano diventati così dannatamente olandesi, ragazzi, che quando Alex Hamilton si presentò alle elezioni per il governatorato dello stato di Nuova Amsterdam, e John Adams si presentò alle elezioni per la presidenza degli Stati Uniti, ambedue ottennero più voti nelle parti olandesi della Nuova Olanda che in quelle dove c’era una maggioranza scozzese o irlandese».

«Che ne dite, se mi presentassi candidato alla nomina di sindaco, riuscirei a farmi votare dagli svedesi e dagli olandesi che vivono giù a valle?» disse David.

«Io per te non voterei di sicuro» disse Calm.

«Io sì» affermò Measure. «E spero che un giorno lo farai davvero».

«Non può partecipare alle elezioni per la carica di sindaco» lo rimbeccò Calm. «Per avere un sindaco bisogna che ci sia una città».

«L’avrete» disse Scambiastorie. «L’ho visto succedere altre volte. Una volta che avrete messo in funzione il mulino, non passerà molto tempo prima che tra il vostro mulino e Vigor Church vengano ad abitare trecento persone».

«Credete davvero?»

«Per adesso la gente viene alla bottega di Armor forse tre o quattro volte l’anno» disse Scambiastorie. «Ma quando ci sarà anche la farina, cominceranno a venire molto più spesso. E per un po’ preferiranno il vostro mulino a qualsiasi altro venga costruito nelle vicinanze, perché avete una buona strada e solidi ponti».

«Se il mulino comincia a fruttare qualcosa» disse Measure, «papà si farà sicuramente mandare una macina Buhr dalla Francia. Nell’Hampshire Occidentale ne avevamo una, prima che l’alluvione distruggesse il mulino. E una macina Buhr vuol dire farina bianca e fine».

«E la farina bianca vuol dire buoni affari» sottolineò David. «Noi più grandi ce ne ricordiamo». Sorrise tristemente. «Eravamo quasi ricchi, una volta».

«Vedete?» disse Scambiastorie. «Con tutto questo andirivieni, non ci saranno più soltanto una bottega, una chiesa e un mulino. Giù verso il Wobbish c’è una buona argilla bianca. Prima o poi qualcuno metterà su una fornace, e comincerà a fabbricare vasellame per tutta la regione».

«Sarebbe proprio un dono del cielo» disse Calm. «Mia moglie dice che non ne può più di servire la cena sui piatti di stagno».

«È così che crescono le città» disse Scambiastorie. «Una bottega ben fornita, una chiesa, poi un mulino, poi una fornace. Che tra l’altro potrebbe produrre anche mattoni. E quando ci sarà una città…».

«David potrà diventare sindaco» disse Measure.

«Non ci penso nemmeno» disse David. «La politica non fa per me. È Armor che vuole diventare sindaco, non io».

«Armor vuole diventare re» precisò Calm.

«Questo non è affatto gentile da parte tua» lo rimproverò David.

«Ma è vero» disse Calm. «Se pensasse che il posto fosse vacante, proverebbe a diventare Dio».

Measure si rivolse a Scambiastorie. «Calm e Armor non vanno molto d’accordo» gli spiegò.

«Uno che dà della strega a sua moglie non mi sembra un gran marito» disse Calm.

«E perché si comporta così?» chiese Scambiastorie.

«Di sicuro adesso ha smesso» disse Measure. «Lei gli ha promesso di non usarlo più. Il suo dono per la cucina, voglio dire. È una vergogna che una donna sia costretta a mandare avanti la casa col solo lavoro delle sue mani».

«Basta così» disse David. Scambiastorie colse solo di sfuggita la sua occhiata ammonitrice.

Evidentemente non si fidavano abbastanza di lui per metterlo a parte della verità. Perciò Scambiastorie fece loro capire che il segreto era già in suo possesso. «A me sembra che lei vi faccia ancora ricorso, almeno più di quanto Armor non immagini. Nella veranda davanti a casa c’è un potente talismano fatto di cesti. E il giorno che sono arrivato in paese, l’ha calmato con un incantesimo proprio davanti ai miei occhi».

Gli altri smisero per un istante di lavorare. Nessuno lo guardò, ma per un secondo tutti restarono immobili, limitandosi a prendere atto che Scambiastorie conosceva il segreto di Eleanor e fino a quel momento non ne aveva parlato con nessuno. Nemmeno con Corazza-di-Dio Weaver. Che lui lo sapesse, tuttavia, era una cosa; tutt’altra cosa sarebbe stata una loro conferma. Perciò nessuno aprì bocca, e subito ricominciarono a sagomare gl’incastri e a unire i pezzi della treggia.

Scambiastorie ruppe il silenzio tornando all’argomento di partenza. «È solo una questione di tempo prima che le regioni occidentali abbiano un numero sufficiente di abitanti da consentir loro di costituirsi in stati e presentare richiesta di adesione al Patto Americano. E quando questo succederà, ci sarà bisogno di uomini onesti che sappiano rivestire degnamente le cariche pubbliche».

«In queste foreste non troverete certo gente come Hamilton, Adams o Jefferson» disse David.

«Forse no» disse Scambiastorie. «Ma se voi ragazzi del posto non prendete in mano la situazione, potete scommettere che non mancheranno certo i cittadini disposti a farlo al posto vostro. Fu così che Aaron Burr divenne governatore di Suskwahenny, prima che Daniel Boone lo facesse secco nel ’99».

«Ne parlate come se fosse stato un assassinio» disse Measure. «Fu un duello leale».

«Per come la vedo io» disse Scambiastorie, «un duello è solo un incontro fra due assassini che si mettono d’accordo per fare a turno nel cercare di ammazzarsi a vicenda».

«Non quando uno dei due è un veterano della frontiera vestito di pelle di cervo, e l’altro è un cittadino subdolo e bugiardo» disse Measure.

«Non mi piacerebbe affatto che un Aaron Burr cercasse di diventare governatore dello stato del Wobbish» mormorò David. «E Bill Harrison, giù a Carthage City, è proprio un tipo del genere. Prima di votare per lui, voterei per Armor».

«E io prima di votare per Armor voterei per te» ribatté Scambiastorie.

David grugnì, continuando ad avvolgere la corda intorno agl’incastri praticati nei tronchi della treggia in modo da unirli a croce. Scambiastorie era intento alla stessa operazione dalla parte opposta. Quando arrivò alla tacca appositamente praticata, Scambiastorie fece per annodare i due capi della corda.

«Aspettate ad annodare» lo fermò Measure. «Vado a chiamare Al Junior». E si avviò di corsa per la salita che conduceva alla cava.

Scambiastorie lasciò i capi della corda. «È Alvin Junior a fare i nodi? Avrei creduto che degli uomini fatti come voi potessero stringerli meglio di lui».

David sorrise. «Lui ha il dono».

«E voi non ne avete, di doni?» chiese Scambiastorie.

«Qualcuno».

«David ha un dono con le signore» spiegò Calm.

«Calm è un ballerino nato» disse David. «E anche col violino, non c’è nessuno che lo batta. Non sarà sempre intonato, ma fa viaggiare quell’archetto che è un piacere».

«E Measure è un gran tiratore» aggiunse Calm. «Riesce a centrare bersagli che gli altri non riescono neanche a vedere».

«Ciascuno ha il suo» disse David. «I gemelli hanno il dono di sapere dov’è che si preparano guai, e arrivarci giusto in tempo».

«Papà invece sa mettere insieme le cose. Quando vogliamo fabbricare qualche mobile, gl’incastri li facciamo fare tutti a lui».

«Le femmine hanno doni da femmine».

«Ma come Al Junior non c’è nessuno» concluse Calm.

David annuì gravemente. «Il fatto è, Scambiastorie, che lui non sembra rendersene conto. Voglio dire che resta sempre un po’ sorpreso quando vede che le cose gli riescono bene. Ogni volta che gli diamo da fare qualche lavoro, lui è tutto orgoglioso. Non l’ho mai visto fare lo sbruffone con gli altri perché il suo dono era più potente del loro».

«È un bravo ragazzo» disse Calm.

«Un po’ maldestro» aggiunse David.

«Non proprio maldestro» lo corresse Calm. «Il più delle volte non è colpa sua».

«Diciamo che intorno a lui gl’incidenti capitano più spesso del normale».

«Io però non parlerei di malocchio o roba del genere» si affrettò a precisare Calm.

«No, non parlerei di malocchio».

Scambiastorie notò che in realtà entrambi ne avevano parlato. Ma non fece commenti sulla loro indiscrezione. Dopo tutto, era la terza voce ad attirare la malasorte. Il suo silenzio era il miglior rimedio per la loro sbadataggine. E gli altri due se ne accorsero immediatamente. Anche loro restarono in silenzio.

Poco dopo, Measure e Alvin Junior comparvero sul sentiero. Scambiastorie non osò aprire bocca, giacché aveva preso parte alla precedente conversazione. Peggio ancora se il prossimo a parlare fosse stato Alvin, in quanto era appunto il suo nome a essere stato collegato col malocchio. Perciò Scambiastorie guardò fisso Measure alzando le sopracciglia, per fargli capire che doveva dire qualcosa.

Measure rispose alla domanda che immaginava Scambiastorie gli avesse rivolto. «Oh, papà è restato su. Di guardia».

Scambiastorie udì David e Calm tirare un sospiro di sollievo. La terza voce non aveva accennato al malocchio. Per adesso, Alvin Junior era al sicuro.

Adesso Scambiastorie era libero di chiedersi perché Miller aveva ritenuto opportuno restare di guardia alla cava. «Che cosa potrebbe succedere alla macina? Sarebbe una novità che i Rossi si mettessero a rubare pietre».

Measure gli strizzò l’occhio. «A volte succedono cose molto strane, specialmente quando si ha a che fare con le macine da mulino».

Stringendo i nodi, Alvin si era messo a scherzare con David e Calm. Evidentemente si sforzava di stringerli il più possibile, ma Scambiastorie vide che non era nel nodo che il suo dono si rivelava. Mentre Al Junior tirava i capi della corda, questa sembrava contorcersi e affondare nelle tacche praticate nel legno, rendendo ancora più solida la struttura della treggia. Era una cosa quasi impercettibile, e se Scambiastorie non fosse stato preavvertito non ci avrebbe fatto neanche caso. Ma era vero. Ciò che Al Junior legava, restava legato.

«Praticamente a tenuta stagna» disse Al Junior facendo un passo indietro per ammirare la propria opera. «Quasi quasi potremmo usarla come zattera».

«Be’, stavolta galleggerà sulla terraferma» disse Measure. «Papà dice che nell’acqua non ci vuole nemmeno più pisciare».

Poiché il sole era ormai basso a occidente, cominciarono a preparare il fuoco. Durante la giornata si erano scaldati lavorando, ma di notte avrebbero avuto bisogno di un bel fuoco per tener lontani gli animali e scacciare il freddo autunnale.

Miller non si fece vedere neanche per cena, e quando Calm si alzò per andare a portargli da mangiare, Scambiastorie si offrì d’accompagnarlo.

«Non so se è il caso» disse Calm. «Francamente non ce n’è bisogno».

«Ma sono io che te lo chiedo».

«Papà… preferisce non avere troppa gente su alla cava, in un momento come questo». Calm sembrava imbarazzato. «È un mugnaio, e quella che stiamo tagliando lassù è la sua macina».

«Io non mi definirei ‘troppa gente’» ribatté Scambiastorie. E poiché Calm non fece più obiezioni, Scambiastorie lo seguì in mezzo alle rocce.

Strada facendo oltrepassarono i punti dai quali in precedenza erano state tagliate altre due macine. In entrambi i casi le schegge di pietra erano state usate per costruire una rampa inclinata che andava dalla parete di roccia al livello del terreno. I buchi erano quasi perfettamente rotondi. Scambiastorie aveva visto molte cave di pietra prima d’allora, ma non aveva mai visto un taglio così… perfettamente rotondo, già nella parete di roccia. In genere si tagliava dalla parete un grande lastrone, che poi veniva adagiato sul terreno e arrotondato. C’erano diversi buoni motivi per agire così, ma quello principale era che senza prendere un intero lastrone non c’era modo di arrivare alla parte posteriore della macina. Calm non rallentò il passo, e Scambiastorie non ebbe la possibilità di guardare da vicino, ma per quanto aveva potuto vedere, non c’era modo in cui il tagliapietre, in quella cava, avesse potuto tagliare la faccia posteriore della macina.

Anche nel nuovo posto era esattamente lo stesso. Miller stava rastrellando le schegge di pietra in modo da creare una rampa orizzontale di fronte alla macina. Scambiastorie indietreggiò per studiare la parete rocciosa negli ultimi riflessi di luce diurna. In un pomeriggio, lavorando da solo, Al Junior aveva lisciate la parte anteriore della macina e, con lo scalpello, ne aveva tagliata l’intera circonferenza. La superficie della pietra, ancora attaccata alla parete rocciosa, era stata praticamente lucidata. Non solo, ma era stato già praticato il foro centrale in cui sarebbe stato inserito l’asse principale del meccanismo del mulino. Il foro giungeva fino in fondo. E nessuno al mondo avrebbe potuto infilarsi là dietro con lo scalpello per iniziare a tagliare la faccia posteriore.

«Ci sa fare con la pietra, il ragazzo» disse Scambiastorie.

Miller emise un grugnito di assenso.

«Ho sentito che pensate di trascorrere la notte quassù».

«Avete sentito bene».

«Vi spiace se resto a tenervi compagnia?» chiese Scambiastorie.

Calm roteò gli occhi.

Dopo un po’, Miller alzò le spalle. «Accomodatevi».

Calm guardò Scambiastorie sgranando gli occhi e inarcando le sopracciglia, come a dire: non si finisce mai di stupirsi.

Deposta su una roccia la cena di Miller, Calm se ne andò. Miller mise da parte il rastrello. «Avete già mangiato?»

«Vado a cercar legna per il fuoco» disse Scambiastorie. «Finché c’è ancora luce. Voi intanto mangiate».

«Attento ai serpenti» disse Miller. «La maggior parte si è già rintanata per l’inverno, ma non si sa mai».

Scambiastorie stette attento ai serpenti, ma non ne vide neanche uno. E ben presto aveva acceso un bel fuoco di rami, sul quale depose un grosso ceppo che avrebbe bruciato per tutta la notte.

Avvolti nelle coperte, si distesero alla luce del fuoco. Scambiastorie notò che allontanandosi dalla cava di qualche passo Miller avrebbe potuto trovare terreno più morbido, ma evidentemente per lui era più importante restare bene in vista della macina da mulino.

Scambiastorie cominciò a parlare. Tranquillamente, ma senza mai interrompersi, parlò di come doveva essere difficile per un padre veder crescere i propri figli, quei figli maschi nei quali aveva riposto tante speranze, senza però essere mai certo che la morte non venisse a rapirgliene qualcuno. Era l’argomento giusto per attaccare discorso, perché ben presto era Alvin Miller a parlare. Raccontò la storia di come il suo maggiore, Vigor, fosse annegato nel fiume Hatrack pochi minuti dopo la nascita di Alvin Junior. Dopo di che, parlò delle decine di occasioni in cui Al Junior era stato sul punto di morire. «Sempre l’acqua» disse Miller alla fine. «Nessuno vuole credermi, ma è così. Sempre l’acqua».

«Il punto è questo: l’acqua è malvagia, e per questo cerca di uccidere un bravo ragazzo?» disse Scambiastorie. «Oppure è buona, e cerca di distruggere un’entità malvagia?»

Era una domanda di fronte alla quale certuni si sarebbero infuriati, ma Scambiastorie aveva rinunciato a capire che cosa potesse suscitare la collera di Alvin Miller. Questa volta non s’infuriò. «Me lo sono chiesto anch’io» disse Miller. «L’ho osservato da vicino, Scambiastorie. Ovviamente ha il dono di farsi voler bene dagli altri. Perfino dalle sue sorelle. Le ha tormentate senza pietà fin da quando è diventato abbastanza alto da sputar loro nel piatto. Eppure non c’è una che non s’ingegni continuamente di fargli qualche cosa di speciale, e non solo per Natale. Sì, può capitare che gli cuciano insieme i calzini, o gli tingano di fuliggine l’asse del gabinetto, o gli riempiano di spilli la camicia da notte, ma non ce n’è una che non darebbe la vita per lui».

«Ho scoperto» disse Scambiastorie, «che certuni hanno il dono di farsi amare senza meritarselo».

«Anch’io ho temuto la stessa cosa» disse Miller. «Ma il ragazzo non sa di avere questo dono. Non ricorre a nessun espediente per indurre gli altri a fare ciò che vuole. Quando si comporta male mi permette di punirlo, anche se volendo potrebbe impedirmelo».

«E come?»

«Perché sa che qualche volta, quando lo guardo, scorgo in lui il mio Vigor, il mio primogenito, e allora non potrei toccarlo nemmeno con un dito, anche se fosse per il suo bene».

Scambiastorie pensò che probabilmente era vero. Ma sicuramente non era l’intera verità.

Un po’ più tardi, dopo che Scambiastorie ebbe smosso le braci per accertarsi che il tronco avesse preso bene, Miller si decise a raccontare la storia per la quale Scambiastorie era salito fin lassù.

«Ho una storia che potrebbe andar bene per il vostro libro» disse.

«Sentiamola» disse Scambiastorie.

«Non è successa a me, però».

«Dev’essere qualcosa che avete visto con i vostri occhi» disse Scambiastorie. «Certuni mi hanno raccontato le cose più inverosimili a proposito di amici di amici».

«No, no, l’ho visto accadere con i miei occhi. È una storia che risale a qualche anno fa. Ho avuto anche occasione di parlarne con l’interessato, uno degli svedesi che abitano a valle, che parla l’inglese quasi meglio di me. Lo abbiamo aiutato a costruire casa e fienile quando arrivò qui, l’anno dopo di noi. E anche allora ho avuto occasione di osservarlo. Insomma, questo tale ha un figlio, un ragazzino biondo, sapete come sono questi svedesi da piccoli».

«Coi capelli così biondi da sembrare bianchi?»

«I suoi ricordano la brina ai primi raggi del sole mattutino, bianchi così, e lucenti. Un bellissimo ragazzo».

«Mi sembra di vederlo» disse Scambiastorie.

«E suo padre gli voleva un bene dell’anima. Lo amava più di se stesso. Conoscete quella storia della Bibbia, di quel padre che donò al figlio una tunica variopinta?»

«L’ho sentita raccontare».

«Ecco, era così che lo amava. Ma un giorno li vedo camminare fianco a fianco lungo il fiume, e il padre all’improvviso fa come per buttarsi in avanti, urta il ragazzo, e lo spedisce a capofitto nel Wobbish. Per fortuna il ragazzo riesce ad aggrapparsi a un tronco, e il padre e io lo aiutiamo a tornare a riva. Ma quello che mi ha fatto paura è stato vedere come il padre avrebbe potuto uccidere il figlio che più amava. Non l’avrebbe fatto apposta, capite, ma questo non avrebbe reso il figlio meno morto, o il padre meno colpevole».

«Il padre avrebbe potuto non riprendersi mai più da un colpo del genere».

«Certo che no. Eppure, non molto tempo dopo, l’ho visto accadere di nuovo, e in più di un’occasione. Una volta il padre stava spaccando la legna, e la scure gli è sfuggita di mano, e se in quel preciso momento il ragazzo non fosse scivolato, quella scure l’avrebbe preso in pieno nella testa, e non ho mai visto nessuno sopravvivere dopo una cosa del genere».

«Nemmeno io».

«Allora ho cercato di capire che cosa stava succedendo. Che cosa poteva avere in testa quel padre. Così un giorno sono andato da lui e gli ho detto: ‘Nels, faresti meglio a stare più attento con quel ragazzo attorno. Se continui a maneggiare la scure con tanta disinvoltura, un giorno o l’altro gli staccherai la testa’.

«E Nels mi fa: ‘Signor Miller, non è stato un incidente’. Be’, il rutto di un lattante sarebbe bastato a mandarmi lungo disteso. Che significa, non è stato un incidente? E lui mi fa: ‘Non sapete quant’è brutta. Ormai sono convinto che una strega mi abbia lanciato una maledizione, o il demonio si sia impadronito di me, perché insomma io me ne sto tranquillo a lavorare pensando a quanto voglio bene a quel ragazzo, e all’improvviso mi prende una gran voglia di ucciderlo. La prima volta mi è successo quand’era piccolissimo, e mi trovavo in cima alle scale con lui in braccio, e ho sentito come una voce nella testa che mi diceva: Buttalo giù e io volevo farlo, anche se al tempo stesso sapevo che sarebbe stata la cosa più tremenda del mondo. Avevo una voglia spaventosa di buttarlo giù, come un ragazzo quando gli viene voglia di spiaccicare un insetto con un sasso. Volevo vedere la sua testa sfracellata sul pavimento.

«’Be’, quella volta sono riuscito a vincere il desiderio, a ricacciarlo indietro, e intanto stringevo il bambino così forte che quasi lo soffocavo. Alla fine, quando l’ho rimesso nella culla, sapevo che da quel momento in poi non mi sarei più azzardato a portarlo su per le scale.

«’Ma non potevo semplicemente far finta che non esistesse, no? Era mio figlio, e crescendo si è fatto così intelligente, bello e bravo che era giocoforza volergli bene. Se gli stavo lontano, piangeva perché suo padre non giocava con lui. Ma, se stavo con lui, quell’impulso omicida tornava a impadronirsi di me. Non tutti i giorni, ma di frequente, e qualche volta così in fretta che lo facevo prima ancora di rendermi conto di quel che stava avvenendo. Come il giorno che l’ho buttato nel fiume, è successo semplicemente che ho fatto un passo falso e sono inciampato, ma nel fare quel passo sapevo già che era un passo falso e sarei inciampato, e che gli sarei andato addosso, lo sapevo, ma non ho avuto il tempo di fermarmi. E un giorno o l’altro so che non riuscirò a fermarmi… non lo farò apposta, ma un giorno o l’altro quando mi troverò quel ragazzo sottomano, lo ucciderò’».

Scambiastorie vide la mano di Miller sollevarsi, come per asciugare una lacrima dalla guancia.

«Non è una cosa stranissima?» chiese Miller. «Un uomo che prova per suo figlio un sentimento del genere».

«Quel tale ha altri figli?»

«Qualcuno. Perché?»

«Mi chiedevo se ha mai provato il desiderio di uccidere anche loro».

«Mai, nemmeno di sfuggita. A dire il vero, gliel’ho chiesto. Gliel’ho chiesto, e lui mi ha risposto che non gli era mai capitato, nemmeno una volta».

«Be’, signor Miller, e voi che cosa gli avete detto?»

Miller respirò a fondo alcune volte. «Non sapevo che cosa dirgli. Certe cose sono semplicemente troppo grosse perché una persona come me possa capirle. Per esempio, il motivo per cui l’acqua cerca di uccidere mio figlio Alvin. E poi quello svedese con suo figlio. Forse alcuni bambini non sono destinati a diventare grandi. Non credete, Scambiastorie?»

«Credo che alcuni bambini siano così importanti da far sì che qualcuno — qualche forza al mondo — li voglia morti. Ma esistono sempre altre forze, magari più potenti, che li vogliono vivi».

«E allora come mai queste forze non si manifestano, Scambiastorie? Perché non arriva qualche potenza celeste e non mi… perché non va da quel povero svedese, e non gli dice: ‘Non temere più, tuo figlio è al sicuro, anche da te!’».

«Forse queste forze non si esprimono a parole. Forse queste forze si limitano a mostrarci ciò che sono capaci di fare».

«L’unica forza che si manifesti apertamente è quella che lo vuole uccidere».

«Non so per quel ragazzo svedese» disse Scambiastorie, «ma direi che vostro figlio qualcuno o qualcosa che lo protegge ce l’ha di sicuro. Da quanto mi avete raccontato, è un miracolo che non sia già morto dieci volte».

«È la verità».

«Sono convinto che qualcuno lo protegga».

«Non abbastanza».

«L’acqua non è mai riuscita a prenderselo, non è vero?»

«Ci è arrivata così vicina, Scambiastorie».

«E per quanto riguarda quel ragazzo svedese, so che ha qualcuno che lo protegge».

«E chi?»

«Ma suo padre, naturalmente».

«Suo padre gli è nemico».

«Non credo proprio» disse Scambiastorie. «Lo sapete a quanti padri capita di uccidere un figlio? Vanno a caccia, e per sbaglio parte un colpo. Oppure il ragazzo finisce schiacciato da un carro, o cade. Succede in continuazione. Forse quei padri semplicemente non vedono che cosa gli sta succedendo. Ma lo svedese è un uomo intelligente, capisce che cosa gli sta succedendo, e si tiene sotto controllo: ogni volta si coglie sul fatto in tempo».

Miller sembrava un po’ più speranzoso. «Secondo voi, allora, come padre non è poi così male».

«Se così non fosse, signor Miller, il ragazzo sarebbe morto e sepolto da un pezzo».

«Forse. Forse».

Miller ci meditò su a lungo. Tanto a lungo, anzi, che Scambiastorie si assopì, svegliandosi di soprassalto quando Miller ricominciò a parlare.

«… e la cosa non migliora, anzi peggiora. Vincere quegli impulsi gli diventa sempre più difficile. Non molto tempo fa, era in piedi su un soppalco nel… nel suo fienile, a inforcare il fieno. E lì, sotto di lui, c’era il suo ragazzo, e lui non avrebbe dovuto far altro che scagliare il forcone; sarebbe stata la cosa più facile al mondo, avrebbe potuto dire che il forcone gli era scivolato e nessuno l’avrebbe mai saputo. Scagliare il forcone, e infilzare il ragazzo da parte a parte. E stava per farlo. Mi capite? Respingere quell’impulso era difficile, molto più difficile di quanto gli fosse mai accaduto, e lui semplicemente si è dato per vinto. Ha deciso di cedere, di farla finita. Ma proprio in quel momento uno straniero è comparso sull’ingresso e ha gridato: ‘No!’, e io ho messo giù il forcone… è così che me l’ha raccontata: ‘Ho messo giù il forcone, ma tremavo in maniera tale che non riuscivo nemmeno a camminare, sapendo che quello straniero aveva letto nel mio cuore l’impulso di uccidere, sicuramente avrà pensato che sono l’uomo più crudele del mondo, per desiderare di uccidere il mio stesso figlio, non può neanche immaginare quanto io abbia lottato per tutti questi anni…’».

«Forse quello straniero sapeva qualcosa sulle forze che possono agitarsi nel cuore di un uomo» disse Scambiastorie.

«Dite davvero?»

«Oh, non posso esserne certo, ma forse quello straniero ha visto anche quanto il padre amasse quel ragazzo. Forse lo straniero è rimasto a lungo perplesso, ma alla fine ha cominciato a capire che il ragazzo era dotato di poteri straordinari, e che aveva nemici altrettanto potenti. E poi forse è arrivato a capire che per quanti nemici avesse il ragazzo, il padre non era uno di loro. Non era un nemico. E a quel padre avrebbe voluto dire qualcosa».

«Che cosa avrebbe voluto dirgli?» Miller si strofinò di nuovo la manica sugli occhi. «Secondo voi, che cosa avrebbe voluto dirgli, quello straniero?»

«Forse avrebbe voluto dirgli: ‘Hai fatto tutto ciò che era in tuo potere, e adesso le tue forze non ti bastano più. Adesso faresti meglio a mandare via il ragazzo. Da qualche parente rimasto all’est, magari, oppure come apprendista in una città’. Per il padre potrebbe essere una decisione molto difficile, perché grande è il suo amore per il ragazzo, ma lo farà, perché sa che vero amore è tenere il ragazzo lontano dai pericoli».

«Sì» disse Miller.

«Già che ne parliamo» disse Scambiastorie, «forse dovreste fare qualcosa del genere anche con vostro figlio Alvin».

«Può darsi» disse Miller.

«Non vi sembra che corra un po’ troppi rischi, con tutta l’acqua che c’è da queste parti? Qualcuno o qualcosa lo sta proteggendo. Ma forse se Alvin non vivesse più qui…».

«Almeno certi pericoli non li correrebbe più» disse Miller.

«Pensateci su» disse Scambiastorie.

«Mandare un figlio a vivere con degli estranei è una cosa terribile» disse Miller.

«Ma più terribile ancora è vederlo finire sotto terra».

«Sì» disse Miller. «È la cosa peggiore del mondo. Veder finire un figlio sotto terra».

Tacquero entrambi, e poco dopo si addormentarono.

Il mattino dopo faceva freddo e il terreno era ricoperto di brina. Miller non volle che Al Junior si avvicinasse alla roccia finché il sole non l’avesse fatta completamente evaporare. Trascorsero così la mattina a preparare il terreno dalla parete di roccia alla treggia, in modo da far rotolare la macina giù per la discesa.

Scambiastorie era ormai certo che per staccare la macina dalla parete rocciosa Al Junior avrebbe usato qualche potere occulto, del quale lui stesso non si rendeva conto. Scambiastorie era curioso. Voleva capire esattamente quale fosse la portata di quel potere, in modo da comprenderne più a fondo la natura. E siccome Al Junior non si rendeva conto di ciò che faceva, anche Scambiastorie avrebbe dovuto effettuare il proprio esperimento di nascosto. «E come volete rifinirla, la vostra macina?» s’informò Scambiastorie.

Miller alzò le spalle. «Fino a ora ho sempre usato macine Buhr. E hanno tutte una finitura a falcetto».

«Potreste farmela vedere?» chiese Scambiastorie.

Con il lato del rastrello, Miller tracciò un cerchio nella brina. Quindi disegnò una serie di archi che dal centro del cerchio giungevano alla circonferenza. In mezzo a ogni coppia di archi, tracciò un arco più breve, che partiva dalla circonferenza esterna ma non giungeva a più di due terzi della distanza dal centro. «Più o meno così» disse Miller.

«La maggior parte delle macine da mulino usate in Pennsylvania e Suskwahenny hanno una finitura ad angolo. Sapete com’è?»

«Fatemi vedere».

Così Scambiastorie tracciò un altro cerchio. Siccome la brina si stava sciogliendo, non si vedeva bene come prima, ma era sufficiente allo scopo. Dal centro alla circonferenza tracciò una serie di linee che invece di essere curve erano diritte, mentre le linee più corte si dipartivano perpendicolarmente dal centro di quelle più lunghe fino a toccare la circonferenza.

«Alcuni mugnai le preferiscono così, perché mantengono il filo più a lungo. Siccome le linee sono tutte diritte, quando si lavora la pietra è più facile tracciare un disegno regolare».

«Me ne rendo conto» disse Miller. «Ma non saprei. Ormai ho fatto l’occhio a quelle linee curve».

«Be’, fate come volete» disse Scambiastorie. «Non ho mai fatto il mugnaio, perciò non voglio mettere bocca. Io mi limito a raccontare quello che ho visto».

«Oh, non mi dispiace affatto» disse Miller. «Fa sempre piacere imparare qualcosa di nuovo».

Al Junior, in piedi accanto a loro, studiava i due disegni.

«Quando saremo a casa con la macina» disse Miller, «penso proprio che proverò questa finitura ad angolo. Mi rende l’idea che il grano venga macinato in modo più uniforme».

Finalmente il terreno era asciutto, e Al Junior poté avvicinarsi alla parete rocciosa. I suoi fratelli erano tutti più in basso a smontare il campo o a condurre i cavalli verso la cava. Solo Miller e Scambiastorie erano presenti quando finalmente Al Junior si accostò col mazzuolo alla parete. Gli restava da tagliare ancora un piccolo tratto di circonferenza, in modo che la scanalatura giungesse ovunque alla stessa profondità.

Con grande sorpresa di Scambiastorie, quando Al Junior appoggiò lo scalpello e lo colpì col mazzuolo, un’intera fetta di roccia lunga una ventina di centimetri si staccò dalla parete per sbriciolarsi a terra.

«Ehi, ma quella pietra è morbida come il carbone» disse Scambiastorie. «Che razza di macina se ne potrà ricavare, se è così debole?»

Miller sorrise scuotendo la testa.

Al Junior fece un passo indietro dalla parete. «Mano, Scambiastorie, come pietra è dura, a meno che non si sappia esattamente dove tagliare. Provateci voi, e ve ne accorgerete».

Così dicendo, gli offrì mazzuolo e scalpello. Scambiastorie prese gli attrezzi e si avvicinò a sua volta alla roccia. Facendo molta attenzione, appoggiò lo scalpello alla pietra, leggermente inclinato rispetto alla perpendicolare. Quindi, dopo alcuni colpetti d’assaggio, abbassò con forza il mazzuolo.

Lo scalpello praticamente gli balzò via dalla sinistra, e il contraccolpo fu tale che il mazzuolo gli sfuggì dalle dita. «Mi dispiace» disse. «L’ho già fatto altre volte, ma devo avere un po’ perso la mano…».

«Oh, è semplicemente la pietra» disse Al Junior. «È un po’ bizzosa. Le piace cedere solo in certe direzioni».

Scambiastorie ispezionò il punto che aveva cercato di incidere, ma non riuscì a trovare il segno dello scalpello. Quel colpo sferrato con tutta la sua forza non aveva lasciato la minima traccia.

Al Junior raccolse gli attrezzi e appoggiò lo scalpello alla parete. A Scambiastorie parve che l’avesse collocato nello stesso identico punto. Ma Al si comportò come se l’avesse collocato in maniera completamente diversa. «Vedete, è tutta questione di trovare la giusta angolazione. Così».

Diede un colpo di mazzuolo, il ferro risuonò, si udì la roccia sgretolarsi, e di nuovo i frammenti di pietra tambureggiarono al suolo.

«Adesso capisco perché fate fare tutto il lavoro a lui» disse Scambiastorie.

«Ci è sembrata la soluzione migliore» disse Miller.

Nel giro di qualche minuto, la circonferenza era terminata. Scambiastorie non fece commenti. Era curioso di vedere che cosa sarebbe accaduto adesso.

Il ragazzo depose gli attrezzi, si avvicinò alla macina e l’abbracciò. Le dita della mano destra si contrassero intorno al bordo. La mano sinistra esplorò la scanalatura dalla parte opposta. Alvin premeva la guancia contro la pietra, con gli occhi chiusi. Stando a tutte le apparenze, era intento ad ascoltare la pietra.

A bocca chiusa, cominciò a canticchiare una melodia improvvisata. Mosse le mani. Cambiò posizione. Ascoltò con l’altro orecchio.

«Be’» disse Alvin «non riesco proprio a crederci».

«Credere a che?» chiese suo padre.

«Gli ultimi colpi debbono aver fatto vibrare la roccia fino a schiantarla. La parte posteriore è già staccata dalla parete».

«Vuoi dire che la macina adesso è libera?» chiese Scambiastorie.

«Penso che adesso si possa farla dondolare in avanti» disse Alvin. «Bisognerà lavorare di corda, ma probabilmente riusciremo a tirarla fuori senza troppa fatica».

Arrivarono i suoi fratelli, con corde e cavalli. Alvin fece passare una corda dietro la macina. Anche se sulla faccia posteriore non era stato dato neanche un colpo di scalpello, la corda passò senza difficoltà. Poi un’altra corda, e un’altra, e ben presto si misero tutti a tirare, prima a sinistra, poi a destra, facendo avanzare lentamente la pesante macina fuori dal suo letto nella parete rocciosa.

«Se non l’avessi visto con i miei occhi…» mormorò Scambiastorie.

«Ma l’avete visto» disse Miller.

La macina era avanzata solo di qualche palmo quando cambiarono le corde, passandone quattro attraverso il foro centrale e attaccandole a un tiro di cavalli a monte della pietra. «Giù per la discesa rotolerà da sola» spiegò Miller, rivolgendosi a Scambiastorie. «I cavalli servono solo a trattenerla, tirando nella direzione opposta».

«Sembra pesante».

«Basta che non vi ci mettiate davanti» disse Miller.

Cominciarono a farla rotolare, pian piano. Miller aveva preso Alvin per una spalla e lo teneva a rispettosa distanza dalla macina… e sempre a monte. Scambiastorie era andato a dare una mano con i cavalli, perciò non ebbe occasione di osservare da vicino la faccia posteriore della macina finché questa non fu giunta in fondo alla discesa, dove l’attendeva la treggia.

Era liscia come il culetto di un neonato. Liscia come il ghiaccio in una tinozza. E la superficie era rifinita ad angolo, con una serie di linee perfettamente diritte che s’irradiavano dal foro centrale alla circonferenza.

Alvin gli si avvicinò. «Ho capito bene come doveva essere?» chiese.

«Sì» disse Scambiastorie.

«È stato un autentico colpo di fortuna» disse il ragazzo. «Non so come, ho sentito che la pietra era pronta a spaccarsi lungo quelle linee. Chiedeva solo di spaccarsi così. È stato facilissimo».

Scambiastorie allungò la mano e passò delicatamente il dito lungo il bordo di una delle scanalature. Sentì male. Si portò le dita alla bocca, e quando succhiò sentì il sapore del sangue.

«Un bel filo, eh?» disse Measure. Da come lo diceva, sembrava che cose del genere accadessero tutti i giorni. Ma Scambiastorie scorse il timore reverenziale nei suoi occhi.

«Ottimo taglio» disse Calm.

«Il migliore fino a oggi» disse David.

Poi, coi cavalli sempre in tiro onde evitare una caduta improvvisa, calarono pian piano la macina fino ad adagiarla sulla treggia, con il lato scanalato in alto.

«Mi fareste un favore, Scambiastorie?»

«Se posso».

«Riportate Alvin a casa. Il suo compito è finito».

«No, papà!» gridò Alvin. Corse da suo padre. «Non puoi mandarmi a casa adesso!»

«Non ho nessun bisogno di avere marmocchi tra i piedi mentre manovriamo una pietra di queste dimensioni» disse suo padre.

«Ma debbo tener d’occhio la pietra, per essere sicuro che non si scheggi o si spezzi, papà!»

I fratelli più grandi guardarono il padre, attendendo la sua risposta. Scambiastorie si chiese che cosa sperassero. Di sicuro erano ormai troppo grandi per essere gelosi dell’affetto particolare che Miller provava per il suo settimo figlio. E certamente tutti quanti si auguravano che il ragazzo restasse lontano da ogni pericolo. Eppure per tutti loro era essenziale che la macina arrivasse sana e salva al mulino. E non potevano esserci dubbi sul fatto che il giovane Alvin disponesse dei poteri necessari a conservarla intatta.

«Puoi restare con noi fino al tramonto» disse Miller alla fine. «A quel punto saremo abbastanza vicini a casa perché tu e Scambiastorie possiate andare avanti e trascorrere la notte sotto un tetto».

«A me va bene» disse Scambiastorie.

Alvin Junior non sembrava particolarmente entusiasta, ma non protestò.

Prima di mezzogiorno la treggia era in movimento. Due cavalli davanti e due di dietro per trattenerla, attaccati direttamente alla macina appoggiata sul pianale della treggia, che avanzava su sei o sette rulli di legno. Ogni volta che un rullo emergeva dalla parte posteriore, uno dei ragazzi lo sfilava da sotto le funi attaccate alla pariglia di coda, correva avanti e lo collocava immediatamente alle spalle della pariglia di testa. Questo significava che per ogni miglio coperto dalla treggia, ciascuno di loro correva per circa cinque miglia.

Scambiastorie si offrì di dare il proprio contributo, ma siccome David, Calm e Measure non vollero sentire ragioni, finì con l’occuparsi della pariglia di coda, con Alvin appollaiato in sella a uno dei cavalli. Miller invece guidava la pariglia di testa, camminando all’indietro per metà del tempo per accertarsi di non andare troppo in fretta e che i ragazzi riuscissero a tenere il passo.

Proseguirono così, un’ora dopo l’altra. Miller propose ai ragazzi di fermarsi a riposare, ma loro sembravano non conoscere stanchezza, e Scambiastorie notò con meraviglia la resistenza dei rulli. Nemmeno uno si spaccò contro una pietra o sotto il peso della macina. A parte qualche ammaccatura o qualche scheggia saltata via, non diedero segni di cedimento.

E quando il sole era ormai a non più di due dita sopra l’orizzonte, avvolto nelle nubi rossastre del cielo a occidente, Scambiastorie riconobbe il prato che si spalancava di fronte a loro. Avevano fatto l’intero tragitto in un solo pomeriggio.

«Penso di avere i fratelli più forti del mondo» mormorò Alvin.

Non ne ho il minimo dubbio, disse silenziosamente Scambiastorie. Tu che puoi staccare una macina dalla montagna senza nemmeno usare le mani, solo perché «trovi» nella roccia le fratture giuste, non c’è da stupirsi se i tuoi fratelli scoprono in sé esattamente la forza che tu hai loro attribuito. Di nuovo, come molte altre volte in precedenza, Scambiastorie cercò di comprendere la vera natura dei poteri occulti. Sicuramente il loro uso era governato da qualche legge naturale; il vecchio Ben lo diceva sempre. Eppure ecco un ragazzo che con la sola forza della convinzione riusciva a tagliare la roccia come il burro e a dare forza ai suoi fratelli. Sì, c’era una teoria secondo cui ogni potere occulto nasceva dall’affinità con un particolare elemento; ma quale elemento poteva dare ad Alvin i suoi poteri? La terra? L’aria? Il fuoco? Sicuramente non l’acqua, perché Scambiastorie sapeva che le storie di Miller erano tutte vere. Com’era possibile che ad Alvin Junior bastasse desiderare qualcosa, e la terra stessa si piegasse alla sua volontà, mentre altri potevano bramare qualcosa con tutte le loro forze senza far spirare neanche un alito di vento?

Quando giunsero al mulino e venne il momento di far rotolare la macina oltre la soglia, dovettero farlo al lume della lanterna. «Già che ci siamo, meglio sistemarla stanotte» disse Miller. Scambiastorie immaginò le paure che si agitavano nella mente di Miller. Se avesse lasciato la macina in posizione verticale, la mattina dopo sarebbe sicuramente rotolata giù per la discesa schiacciando un certo bambino che in tutta innocenza stava riportando due secchi d’acqua verso casa. Visto che la pietra era miracolosamente scesa dalla montagna nel giro di una sola giornata, sarebbe stata follia lasciarla da qualsiasi altra parte se non nel luogo che le era destinato, ossia sulla base di pietrisco e di terra battuta all’interno dell’edificio.

Così portarono dentro una pariglia e l’attaccarono alla macina, come avevano fatto alla cava per calarla sulla treggia. La pariglia avrebbe tirato in modo da guidare la discesa della macina verso la base.

Per il momento, tuttavia, la macina riposava contro un terrapieno eretto di fianco alla base. Measure e Calm stavano infilando sotto il bordo esterno i pali con cui avrebbero fatto leva, per sollevarla e farla cadere al suo posto. Mentre lavoravano, la pietra dondolava leggermente. David tratteneva i cavalli; sarebbe stato un disastro se avessero tirato troppo presto facendo cadere la pietra dalla parte sbagliata, fuori dalla base e con la faccia scanalata in basso.

Scambiastorie si era fatto da parte e guardava Miller dirigere i figli con inutili grida di: «Attento laggiù!» e «Piano adesso!». Alvin era rimasto a fianco del vecchio sin da quando avevano portato la macina all’interno della costruzione. Uno dei cavalli diede segni di nervosismo. Miller reagì immediatamente. «Calm, va’ ad aiutare tuo fratello coi cavalli!» esclamò, avanzando d’un passo nella stessa direzione.

In quel preciso istante, Scambiastorie si rese conto che Alvin, dopotutto, non si trovava affatto al suo fianco. Con una scopa in mano, camminava speditamente verso la macina. Forse aveva visto del pietrisco sulla base: meglio spazzarlo via, no? I cavalli indietreggiarono; le funi si allentarono. Proprio mentre Alvin spariva dietro la macina, Scambiastorie si rese conto che con le corde così lente, se per caso la macina avesse deciso di cadere proprio in quel momento niente avrebbe potuto impedirle di piombare sulla base.

In un mondo ragionevole non sarebbe certamente caduta. Ma ormai Scambiastorie sapeva che quello non era affatto un mondo ragionevole. Alvin Junior aveva un nemico invisibile e potentissimo che non si sarebbe certamente lasciato sfuggire un’occasione del genere.

Scambiastorie balzò avanti. Non era ancora arrivato alla macina che avvertì un movimento improvviso nel terreno sotto i suoi piedi, un cedimento del pavimento in terra battuta. Non di molto, solo di qualche pollice, ma sufficiente a far abbassare il bordo interno della macina e a farne oscillare la parte superiore di più di due piedi, così bruscamente che arrestarla sarebbe stato impossibile. La macina sarebbe caduta di schianto sulla base, là dove si trovava Alvin Junior, stritolandolo come un pugnetto di grano.

Con un grido, Scambiastorie afferrò il braccio del ragazzo dandogli un violento strattone all’indietro, lontano dalla macina. Soltanto allora Alvin vide l’immensa mole che gli precipitava addosso. Lo strattone di Scambiastorie fu sufficiente a spostare il ragazzo di qualche passo, ma non bastava. Le gambe si trovavano ancora sotto la macina. Adesso questa cadeva in fretta, troppo in fretta perché Scambiastorie potesse reagire, fare qualsiasi cosa che non fosse guardarla schiacciare le gambe di Alvin. Scambiastorie sapeva che una ferita del genere avrebbe significato morire, tranne che ci avrebbe messo tempo. Aveva fallito.

Ma in quel preciso momento, mentre guardava la macina abbattersi su Alvin con violenza omicida, vide una crepa aprirsi nella pietra, e in meno d’un istante diventare una lunga fenditura che attraversava la macina da parte a parte. Le due metà si separarono di colpo, ciascuna con un movimento tale da andare a cadere accanto alla gamba di Alvin, senza toccarlo…

E nello stesso momento in cui Scambiastorie scorse la luce della lanterna brillare nella fenditura, udì la voce di Alvin gridare: «No!».

Chiunque altro avrebbe pensato che il ragazzo avesse gridato per la caduta della macina, di fronte alla propria morte imminente. Ma per Scambiastorie, disteso a terra accanto a lui, mentre la luce della lanterna lo abbagliava attraverso la fenditura nella macina, quel grido assunse un significato completamente diverso. Incurante del pericolo, come spesso accade ai bambini, Alvin gridava nel vedere la macina spaccarsi. Dopo averci tanto lavorato, e dopo tante fatiche per portarla a casa, non sopportava l’idea che potesse rompersi.

E siccome non riusciva a sopportarlo, non accadde. Le due metà della pietra si riunirono di colpo, quasi fossero calamitate, e la macina piombò a terra in un unico blocco.

L’ombra della pietra ne aveva ingigantite le reali dimensioni. Non schiacciò ambedue le gambe di Alvin. La gamba sinistra, anzi, piegata sotto il corpo com’era, non fu nemmeno toccata. La gamba destra però era messa in modo che la caviglia restava di tre o quattro dita sotto il bordo della macina. Poiché Alvin stava ancora tirando indietro le gambe, l’impatto con la pietra spinse la caviglia verso l’esterno. Il bordo della macina strappò la pelle e il muscolo fino all’osso, ma non prese in pieno la gamba. Addirittura questa avrebbe potuto non rompersi, se sotto non ci fosse stato il manico della scopa messo di traverso. La macina spinse la gamba di Alvin contro il manico di quel tanto che bastò a spezzare in due tibia e perone. I bordi taglienti dell’osso ruppero la pelle e si fermarono contro il manico della scopa, serrandolo come le ganasce di una morsa. Ma la gamba non era più sotto la macina, e la frattura era netta, l’osso non era andato in frantumi.

Poi nel locale si unirono lo schianto assordante della pietra sulla pietra, le urla disperate degli uomini annichiliti dall’orrore, e soprattutto lo straziante grido di dolore di un ragazzo che non era mai sembrato così piccolo e fragile come adesso.

Quando gli altri lo raggiunsero, Scambiastorie si era già accertato che le gambe di Alvin non fossero rimaste sotto la macina. Alvin cercò di tirarsi a sedere per guardarsi la gamba. Ma la vista o il dolore della frattura furono troppo per lui, e svenne. Suo padre gli giunse accanto proprio in quel momento; non era stato il più vicino, ma si era mosso più in fretta degli altri. Scambiastorie cercò di rassicurarlo; con i tronconi d’osso appoggiati sul manico di scopa, la gamba non sembrava rotta. Miller cercò di sollevarlo, ma la gamba non cedeva, e sebbene il ragazzo fosse già svenuto il dolore gli strappò un gemito. Fu Measure a farsi forza e a tirare la gamba fino a liberarla dal manico di scopa.

David aveva già una lanterna in mano, e mentre Miller camminava verso casa col figlio tra le braccia, David gli correva accanto per illuminargli la via. Measure e Calm avrebbero voluto seguirli, ma Scambiastorie li richiamò. «Lassù ci sono già le donne, e David, e vostro padre» disse. «E qualcuno deve pur occuparsi di tutto questo».

«Avete ragione» disse Calm. «Non credo che papà vorrà tornare qui tanto presto».

Facendo leva coi pali, i due giovani sollevarono la macina di quel tanto che permise a Scambiastorie di sfilare il manico di scopa e le corde alle quali erano ancora attaccati i cavalli. Insieme, portarono tutta l’attrezzatura fuori dall’edificio, quindi condussero i cavalli nella stalla e misero via attrezzi e provviste. Solo allora Scambiastorie fece ritorno a casa, dove scoprì che Alvin Junior era stato messo a dormire nel suo letto.

«Spero che non vi disturbi» si scusò Anne.

«Certo che no» disse Scambiastorie.

Le sorelle e Cally stavano sparecchiando. Nella camera che fino a quel momento era stata di Scambiastorie, Faith e Miller, ambedue pallidissimi e tirati in viso, sedevano ai lati del letto in cui Alvin giaceva con la gamba steccata e fasciata.

David era in piedi accanto alla porta. «Era una frattura netta» sussurrò a Scambiastorie. «Ma la ferita… abbiamo paura che gli venga un’infezione. Non ha più pelle, sul davanti della caviglia. Non so nemmeno se con l’osso messo a nudo in quel modo sia possibile guarire».

«Avete rimesso a posto la pelle?» chiese Scambiastorie.

«Quella rimasta l’abbiamo tirata sull’osso, e mamma ce l’ha cucita sopra».

«Ben fatto» disse Scambiastorie.

Faith sollevò la testa. «V’intendete anche di medicina, Scambiastorie?»

«Quella che un uomo può avere imparato dopo anni trascorsi a cercare di fare ciò che poteva in mezzo a gente che ne sapeva quanto lui».

«Com’è potuto accadere?» disse Miller. «Perché proprio adesso, dopo tante volte in cui se l’è cavata senza un graffio?» Alzò lo sguardo verso Scambiastorie. «Avevo finito col convincermi che il ragazzo avesse un protettore».

«Ce l’ha, infatti».

«Allora questo protettore stavolta ha fallito».

«Non ha fallito» lo contraddisse Scambiastorie. «Per un istante, mentre la macina veniva giù, l’ho vista spaccarsi in due, e le due metà sarebbero sicuramente cadute in modo da non fargli alcun male».

«Come la trave» mormorò Faith.

«Anche a me per un attimo è parso così, papà» disse David. «Ma quando è caduta tutta in un pezzo ho pensato di aver visto ciò che desideravo accadesse, e non ciò che stava veramente accadendo».

«Ma nella pietra non si vede traccia di rottura» disse Miller.

«No» disse Scambiastorie. «Perché Alvin Junior si è rifiutato di lasciarla spaccare».

«Volete dire che ha rimesso insieme i due pezzi? In modo che gli schiacciasse la gamba, sfracellandogliela?»

«Voglio dire che in quel momento non ha minimamente pensato alla gamba» disse Scambiastorie. «Solo alla macina».

«Oh, bambino mio, povero bambino mio tanto generoso» mormorò sua madre, carezzando dolcemente il braccio del ragazzo. Quando arrivò alle dita, queste si distesero; quando gliele lasciò andare, tornarono di scatto nella posizione primitiva.

«È possibile?» chiese David. «Che la macina si sia spaccata e subito dopo sia tornata intera?»

«Dev’essere possibile per forza» disse Scambiastorie, «visto che è successo».

Faith sfiorò di nuovo le dita del figlio. Stavolta queste non ripresero la posizione primitiva, ma si estesero ancora, quindi si strinsero a pugno, poi si aprirono di nuovo.

«È sveglio» disse suo padre.

«Vado a prendergli un po’ di rum» disse David. «Per alleviare il dolore. Armor ne avrà certamente, nel suo magazzino».

«No» mormorò Alvin.

«Il ragazzo dice di no» disse Scambiastorie.

«Cosa volete che capisca, col dolore che deve provare?»

«Deve mantenersi lucido, se può» disse Scambiastorie. S’inginocchiò accanto al letto, alla destra di Faith, così da avvicinarsi il più possibile al viso del ragazzo. «Alvin, mi senti?»

Alvin emise un gemito che probabilmente voleva dire ‘sì’.

«Allora ascoltami. Ti sei fatto molto male alla gamba. Le ossa sono rotte, ma sono state rimesse a posto e dovrebbero saldarsi senza difficoltà. Ma la pelle si è lacerata, e anche se tua madre l’ha ricucita è possibile che muoia e venga attaccata dalla cancrena, uccidendoti. La maggior parte dei chirurghi, per salvarti la vita, ti amputerebbe la gamba».

Alvin scosse violentemente la testa, nell’evidente tentativo di urlare. Ne venne fuori solo un lamento: «No, no, no».

«Lo fate soffrire ancora di più!» disse Faith irosamente.

Scambiastorie guardò il padre, come a chiedere il suo permesso per continuare.

«Non dovete tormentarlo» disse Miller.

«C’è un proverbio» disse Scambiastorie. «Il melo non chiede consiglio al faggio per crescere, né il leone al cavallo per catturare la sua preda».

«E che cosa significa?» chiese Faith.

«Significa che non spetta a me insegnare a lui come usare poteri della cui natura non so assolutamente nulla. Ma poiché nemmeno lui sa come fare, debbo almeno provarci, non vi sembra?»

Miller meditò per un momento. «Continuate, Scambiastorie. Che riesca o meno a guarire se stesso, è meglio che sappia come stanno le cose».

Scambiastorie prese con delicatezza la mano del ragazzo. «Alvin, tu vuoi che la tua gamba si salvi, vero? Allora devi pensare alla gamba nello stesso modo in cui hai pensato alla pietra. Devi pensare alla pelle della gamba che ricresce, attaccandosi all’osso. Devi studiarla a fondo. Di tempo ne hai in abbondanza, disteso a letto come sei. Non pensare al dolore, pensa alla gamba come dovrebbe essere, integra e forte come prima».

Alvin restò immobile nel letto, serrando le palpebre per il dolore.

«Lo stai facendo, Alvin? Puoi provarci, almeno?»

«No» disse Alvin.

«Devi combattere contro il dolore, in modo da poter usare il tuo talento neh” aggiustare le cose».

«Non lo farò mai».

«E perché no?» esclamò Faith.

«L’Uomo Luminoso» disse Alvin. «Gliel’ho promesso».

Scambiastorie ricordò il giuramento che Alvin aveva fatto all’Uomo Luminoso, e si sentì invadere dallo scoramento.

«Chi sarebbe quest’Uomo Luminoso?» chiese Miller.

«Una… un’apparizione che ha avuto quand’era piccolo» spiegò Scambiastorie.

«E come mai non ne abbiamo mai sentito parlare?»

«È successo la notte dopo l’incidente della trave» disse Scambiastorie. «Alvin ha promesso all’Uomo Luminoso che non avrebbe mai usato i suoi poteri a proprio vantaggio».

«Ma Alvin» disse Faith. «Stavolta non sarebbe per diventare ricco o cose del genere, stavolta sarebbe per salvarti la vita».

Il ragazzo si limitò a scuotere la testa con una smorfia di dolore.

«Potrei restare solo con lui?» chiese Scambiastorie. «Solo per qualche minuto, in modo da potergli parlare?»

Scambiastorie non aveva ancora finito di dirlo che Miller stava spingendo Faith fuori dalla porta.

«Alvin» disse Scambiastorie. «Devi ascoltarmi attentamente. Sai che non ti direi mai una bugia. Un giuramento è una cosa terribile, e non consiglierei mai a nessuno di infrangere la parola data, nemmeno per salvarsi la vita. Perciò non ti chiederò di usare i tuoi poteri per te stesso. Mi senti?»

Alvin annuì.

«Allora pensa a questo. Pensa al Distruttore che se ne va in giro per il mondo. Nessuno lo vede compiere la sua opera, nessuno lo vede demolire e distruggere. Nessuno, tranne un ragazzo, uno solo. E chi è quel ragazzo, Alvin?»

Le labbra di Alvin formarono la parola, anche se non ne uscì alcun suono. Io.

«E quel ragazzo ha ricevuto un potere della cui natura non ha ancora la benché minima idea. Il potere di costruire, mentre il nemico demolisce. E ancora più importante, Alvin, il desiderio di costruire. Un ragazzo che reagisce a ogni fuggevole comparsa del Distruttore costruendo qualche piccola cosa. E adesso dimmi, Alvin, coloro che aiutano il Distruttore sono amici o nemici dell’umanità?»

Nemici, dissero le labbra di Alvin.

«Se perciò aiuti il Distruttore a distruggere il suo nemico più temibile, anche tu diventi nemico dell’umanità, non è vero?»

L’angoscia costrinse il ragazzo a parlare. «State distorcendo la verità» balbettò.

«La sto raddrizzando» lo corresse Scambiastorie. «Hai giurato di non usare mai il tuo potere per te stesso. Ma se muori, sarà solo il Distruttore a trarne vantaggio, e se vivi, se quella gamba guarisce, sarà per il bene di tutta l’umanità. No, Alvin, è per il bene del mondo e di tutto ciò che esso contiene».

Alvin gemette, più per la sofferenza dello spirito che per quella del corpo.

«Ma il giuramento era chiaro, no? Mai a tuo vantaggio. E allora perché non completare il primo giuramento con un secondo, Alvin? Giura che dedicherai tutta la tua esistenza a costruire contro il Distruttore. Se mantieni questo giuramento — e lo farai, Alvin, sei un ragazzo che sa mantenere la parola data -, se mantieni questo giuramento, allora la tua salvezza sarà veramente a vantaggio degli altri, e non solo tuo».

Scambiastorie attese a lungo, finché Alvin mosse la testa in un lieve cenno di assenso.

«Vuoi tu giurare, Alvin Junior, che dedicherai la tua esistenza a sconfiggere il Distruttore, rendendo tutto completo, buono e giusto?»

«Sì» sussurrò il ragazzo.

«E allora affermo che, secondo i termini della tua promessa, tu devi guarire te stesso».

Alvin afferrò Scambiastorie per il braccio. «Come?» sussurrò.

«Questo non lo so, ragazzo» disse Scambiastorie. «Come usare il tuo potere, questo devi scoprirlo da solo. Posso dirti soltanto che devi provarci, o il nemico avrà ottenuto la sua vittoria, e io dovrò concludere la storia della tua vita con il tuo corpo che viene calato nella tomba».

Con grande sorpresa di Scambiastorie, Alvin sorrise. Poi Scambiastorie ne capì il perché. Qualsiasi cosa Alvin decidesse di fare, la storia della sua vita si sarebbe comunque conclusa con la tomba. «È giusto, ragazzo» disse Scambiastorie. «Ma preferirei scrivere su di te qualche altra pagina, prima di mettere la parola fine al Libro di Alvin».

«Ci proverò» mormorò Alvin.

Se ci avesse provato, sicuramente ci sarebbe riuscito. Il protettore di Alvin non lo aveva condotto fin lì solo per lasciarlo morire. Scambiastorie non dubitava che Alvin avesse il potere di guarire se stesso, se solo fosse riuscito a capire in che modo. Il suo corpo era molto più complicato della pietra. Ma se doveva vivere, avrebbe dovuto imparare le vie segrete del proprio corpo.

A Scambiastorie venne preparato un letto nella sala grande. Quando sì offrì di dormire sul pavimento accanto al letto di Alvin, Miller scosse la testa: «Quel posto tocca a me».

Ma quella sera Scambiastorie non riusciva a prender sonno. Era ormai mezzanotte passata quando finalmente rinunciò, accese una lanterna con uno stecco preso dal focolare, s’infilò la giubba e uscì all’aperto.

Tirava un vento tagliente. Stava arrivando il cattivo tempo, e l’odore nell’aria prometteva neve. Le bestie si agitavano nella stalla. A Scambiastorie venne da pensare che forse lì fuori, quella notte, non era solo. Potevano esserci dei Rossi che si nascondevano nell’ombra, o addirittura si aggiravano di soppiatto tra gli edifici della fattoria, osservando ogni suo movimento. Rabbrividì, poi si sbarazzò della paura con un’alzata di spalle. Faceva troppo freddo. Persino i più sanguinari tagliagole Choc-Taw o Cree-Ek venuti a spiare dal sud erano troppo furbi per andarsene in giro in una nottata del genere, con una tempesta di neve in arrivo.

Ben presto sarebbe caduta la neve, la prima della stagione, ma non sarebbe stata solo una spolverata. Avrebbe nevicato per tutto l’indomani, Scambiastorie se lo sentiva nelle ossa, e l’aria che sarebbe seguita alla nevicata sarebbe stata ancora più fredda, così fredda che la neve sarebbe rimasta polverosa e asciutta, quel genere di neve che continua ad accumularsi un’ora dopo l’altra. Se Alvin non li avesse spronati ad arrivare a casa con la macina in un solo giorno, si sarebbero trovati a spingere la treggia sotto la neve. Il terreno si sarebbe fatto sdrucciolevole. Sarebbe potuta capitare una disgrazia ancora più grave.

Quasi senza accorgersene, Scambiastorie si ritrovò dentro il mulino a guardare la macina. Aveva un aspetto così imponente, sembrava impossibile che qualcuno avesse potuto spostarla. Ne toccò la superficie, facendo attenzione a non tagliarsi di nuovo. Le sue dita sfiorarono le scanalature poco profonde in cui la farina si sarebbe raccolta quando gl’ingranaggi della grande ruota a pale avrebbero fatto rotare in continuazione la mola sulla macina, con la stessa regolarità con cui la terra girava intorno al sole, un anno dopo l’altro, trasformando il tempo in polvere con la stessa implacabile determinazione con cui il mulino avrebbe trasformato il grano in farina.

Abbassò lo sguardo verso il punto in cui la terra aveva leggermente ceduto sotto il peso della macina, facendola inclinare e quasi ammazzando il ragazzo. Il fondo della depressione brillava alla luce della lanterna. Scambiastorie s’inginocchiò e intinse le dita in un mezzo pollice d’acqua. Doveva essersi raccolta proprio in quel punto, indebolendo il pavimento, portando via la terra. Non era tanta da rendere evidente la presenza di umidità, ma sufficiente a far sì che sotto quel peso immane il terreno cedesse.

Ah, Distruttore, pensò Scambiastorie, fatti vedere e ti costruirò una prigione tale da ingabbiarti e tenerti prigioniero per l’eternità. Ma per quanto si sforzasse, i suoi occhi non riuscirono a cogliere quel leggero tremolio nell’aria che si era manifestato al settimo figlio di Alvin Miller. Alla fine Scambiastorie raccolse da terra la lanterna e uscì dal mulino. Stavano cadendo i primi fiocchi di neve. Il vento era quasi cessato. La neve sfarfallò sempre più fitta, danzando alla luce della lanterna. Quando finalmente giunse a casa, il suolo era ricoperto di neve, la foresta invisibile in lontananza. Scambiastorie si chiuse la porta alle spalle, si stese sul pagliericcio senza nemmeno togliersi gli stivali, e cadde addormentato.

XII

IL LIBRO

Giorno e notte tennero acceso un fuoco alimentato con tre ceppi, così che le pietre della parete parevano ardere per il calore, e l’aria nella stanza era asciutta. Alvin giaceva immobile, la gamba destra, appesantita dalle stecche e dalle bende, che premeva sul letto come un’ancora, mentre il resto del suo corpo sembrava galleggiare alla deriva, ondeggiando, beccheggiando e rollando. Aveva le vertigini, e anche un po’ di nausea.

Ma delle vertigini e della nausea quasi non si accorgeva. Il dolore gli era nemico; le pulsazioni e le fitte gli distoglievano la mente dal compito che Scambiastorie gli aveva assegnato: guarire se stesso.

Al tempo stesso, tuttavia, il dolore gli era amico. Gli creava intorno un muro, così che quasi non si rendeva conto di trovarsi in una casa, in una camera, su un letto. Il mondo esterno poteva bruciare fino a ridursi in cenere, e lui non se ne sarebbe accorto. Era il mondo dentro di sé che doveva esplorare, adesso.

Scambiastorie aveva avuto un’idea molto vaga di ciò che Alvin avrebbe dovuto fare. Non si trattava semplicemente di lavorare di fantasia. Immaginare che la gamba fosse guarita non gli avrebbe arrecato alcun beneficio. Ma in qualche modo Scambiastorie aveva colto nel segno. Se Alvin aveva potuto penetrare nella roccia avvertendone i punti forti e deboli, dicendole dove spezzarsi e dove restare intatta, perché non avrebbe potuto fare la stessa cosa con la pelle e le ossa?

Il fatto era che la pelle e le ossa erano mescolate insieme. La roccia era più o meno fatta tutta nello stesso modo, ma la pelle cambiava da strato a strato, e non era affatto facile capire dove andasse questo e dove quello. Disteso nel letto a occhi chiusi, Alvin guardava per la prima volta nella propria carne. All’inizio cercò di seguire il dolore, ma questo non lo portò da nessuna parte, lo condusse soltanto là dove tutto era spappolato e squarciato e in disordine, così che non si riusciva più a capire che cosa andasse sopra e cosa sotto. Dopo lunghi e infruttuosi tentativi provò a cambiare strada, e cominciò ad ascoltare il battito del proprio cuore. All’inizio, dopo un po’ il dolore lo distoglieva bruscamente dall’ascolto, ma finalmente riuscì a concentrarsi sulle pulsazioni. Nemmeno si accorgeva delle distrazioni provenienti dal mondo esterno, perché il dolore impediva l’accesso a qualsiasi rumore. Al tempo stesso, quel battito ritmico impediva l’accesso al dolore, almeno in parte.

Poi Alvin cominciò a seguire i vasi sanguigni, prima i più grossi in cui il sangue scorreva con forza, poi via via i più piccoli. Qualche volta si perdeva. Qualche volta una fitta lancinante s’intrometteva richiedendo la sua attenzione. Ma un po’ alla volta, per tentativi, giunse alla pelle e all’osso sani dell’altra gamba. Laggiù il flusso sanguigno era molto più debole, ma lo portò dove voleva arrivare. Esplorò i diversi strati, simili alle bucce di una cipolla. Osservò l’ordine in cui erano disposti, il modo in cui le fibre e i muscoli s’intrecciavano e il modo in cui vi si collegavano le minuscole vene, la tessitura tesa e compatta della pelle.

Solo allora riuscì a farsi strada nella gamba ferita. Il pezzo di pelle che la mamma aveva ricucito era in gran parte già morto, e cominciava a marcire. Alvin Junior adesso sapeva che cosa gli serviva, se in qualche modo quella pelle doveva continuare a vivere. Andò in cerca delle estremità spappolate delle arterie nelle immediate vicinanze della ferita, e cominciò a stimolarne la crescita, proprio come quando voleva allargare le fenditure nella pietra. Ma la pietra era uno scherzo, in confronto a questo… Per spaccarla bastava colpirla, ed era finita lì. La carne viva gli obbediva molto più lentamente, e ben presto Alvin lasciò perdere tutto il resto, concentrandosi soltanto sull’arteria più grande.

Dopo un po’ capì che nella sua opera di costruzione il sangue utilizzava minuscoli pezzetti di varie sostanze. Nel frattempo succedevano un sacco di cose, di gran lunga troppo piccole e veloci e complicate perché Alvin riuscisse a rappresentarsele mentalmente. Ma poteva fare in modo che il suo corpo producesse ciò di cui l’arteria aveva bisogno per crescere. Poteva inviarlo là dove serviva. Dopo un po’ l’arteria si unì al tessuto in disfacimento. Ci volle un po’ di fatica, ma alla fine riuscì a trovare l’estremità di una piccola arteria ormai rattrappita e a collegarla alla prima, così che il sangue tornasse ad affluire nel lembo di pelle cucito.

Troppo presto, troppo in fretta. Avvertì sulla gamba il calore del sangue che sgorgava dalla carne morta in una decina di punti diversi; la pelle non riusciva ad assorbirlo tutto. Piano, piano, piano. Seguì il flusso del sangue, che adesso invece di sgorgare filtrava lentamente nei tessuti, e ricominciò pazientemente a collegare i vasi sanguigni, arterie a vene, cercando di riprodurre il meglio possibile ciò che aveva visto nell’altra gamba.

Finalmente era fatta, almeno per quanto poteva capirci. Il sangue poteva tornare a scorrere normalmente. Col ritorno del sangue, vari punti della toppa di pelle ripresero vita. Altri punti continuavano a essere morti. Alvin continuò ad allargare la rete dei vasi sanguigni, escludendo le parti morte e riducendole in pezzetti così minuscoli da non riuscire più a distinguerli. Ma le parti vive riuscivano a riconoscerli, ad assorbirli, a rimetterli all’opera. Ovunque si spingesse nella sua esplorazione, Alvin faceva in modo che la carne ricominciasse a crescere.

Finché, a forza di pensare così in piccolo e di lavorare così intensamente, la sua mente accumulò una tale stanchezza che senza nemmeno accorgersene il ragazzo si addormentò.

«Non voglio svegliarlo».

«Faith, non c’è modo di cambiargli la fasciatura senza toccare la ferita».

«Va bene, allora… oh, sta’ attento, Alvin! No, lascia fare a me!»

«L’ho già fatto altre volte…».

«Con le vacche, Alvin, non con un bambino!»

Alvin Junior sentì il cambiamento di pressione sulla gamba. Qualcosa che gli tirava la pelle. Adesso gli faceva meno male di ieri. Ma era ancora troppo stanco per riuscire anche solo ad aprire gli occhi. O a emettere un qualsiasi suono in modo da far loro capire che era sveglio, che li udiva.

«Santo Iddio, Faith, stanotte deve aver perso un sacco di sangue».

«Mamma, Mary dice che devo…».

«Sta’ zitto ed esci subito di qui, Cally! Non vedi che tua madre è preoccupata per…».

«Non c’è bisogno di sgridarlo, Alvin. Ha solo sette anni».

«Sette anni bastano a capire quando bisogna tenere la bocca chiusa e lasciar perdere gli adulti se debbono… Ehi, guarda qui!»

«Non posso crederci».

«Pensavo di vedere uscire pus a fiotti, come il latte dal capezzolo di una vacca».

«E invece è pulita come più non si potrebbe».

«E la pelle sta ricrescendo, guarda! La tua cucitura deve aver funzionato».

«Non osavo nemmeno sperare che quella pelle potesse sopravvivere».

«Non si riesce neanche più a vedere l’osso».

«Il Signore ci protegge, Alvin. Ho pregato tutta la notte, e guarda che cosa ha fatto per noi».

«Be’, allora avresti dovuto pregare di più, in modo da farlo guarire prima. Ho un sacco di lavoretti per lui».

«Non bestemmiare davanti a me, Alvin Miller».

«Mi dà proprio il voltastomaco, questo Dio che regolarmente s’intrufola all’ultimo momento per prendersi tutto il merito. Forse Alvin è anche un grande guaritore, ci hai mai pensato?»

«Guarda, con le tue eresie lo stai svegliando».

«Chiedigli se vuole un po’ d’acqua».

«Bere deve comunque, che lo voglia o no».

Alvin ne aveva un bisogno tremendo. Tutto il suo corpo era come prosciugato, non soltanto la sua gola. Ne aveva bisogno per recuperare ciò che aveva perso col sangue. Perciò bevve più acqua che poté, dal bicchiere di latta che qualcuno gli aveva accostato alle labbra. Parecchia gli si versò sul viso e sul collo, ma lui nemmeno se ne accorse. L’importante era quella che gli ruscellava nella pancia. Alvin si lasciò andare sui cuscini e cercò di entrare dentro di sé per capire come andava la sua ferita. Ma era troppo difficile tornare laggiù, troppo difficile concentrarsi. Si assopì prima di giungere a metà strada.

Al suo risveglio pensò che doveva essere nuovamente scesa la notte, o che qualcuno avesse tirato le tende. Non poté accertarsene perché gli era troppo difficile aprire gli occhi, e il dolore era tornato, lancinante; e poi c’era qualcosa di ancora peggiore: la ferita gli prudeva terribilmente, tanto che dovette fare uno sforzo per non allungare la mano e grattarsi. Dopo qualche tempo, tuttavia, riuscì a raggiungere di nuovo con la mente quella zona dolorante. Quando si riaddormentò, sulla ferita era ricresciuto uno strato di pelle, sottile ma completo. Al di sotto, l’organismo era ancora al lavoro per ricostruire i muscoli lacerati e saldare le ossa fratturate. Ma non ci sarebbero più state perdite di sangue, né ferite aperte che potessero infettarsi.

«Guardate qui, Scambiastorie. Avete mai visto niente del genere?»

«Una pelle liscia come quella di un neonato».

«Forse sarà una pazzia, ma a parte le stecche non vedo motivo per tenere la gamba bendata».

«Non c’è più traccia della ferita. No, avete ragione, non c’è più bisogno di tenerla bendata».

«Forse mia moglie ha ragione, Scambiastorie. Forse Dio ha avuto un ripensamento e ha concesso un miracolo al mio ragazzo».

«Preferisco non esprimermi. Quando il ragazzo si sveglierà, forse ci potrà dire qualcosa in proposito».

«Impossibile. Per tutto questo tempo non ha nemmeno aperto gli occhi».

«Una cosa è sicura, signor Miller. Il ragazzo non morirà. Ed è più di quanto sperassi ieri sera».

«Stavo per fabbricare la bara in cui seppellirlo, proprio così. Non vedevo alcuna possibilità che sopravvivesse. E adesso invece sta già bene. Mi chiedo proprio chi, o che cosa, lo stia proteggendo».

«Chiunque lo protegga, signor Miller, il ragazzo si è dimostrato più forte di lui. Il protettore aveva spaccato la macina in due, ma Al Junior ha riattaccato i due pezzi, e il suo protettore non ha potuto farci proprio nulla».

«Pensate che sapesse quel che stava facendo?»

«Sono sicuro che abbia una certa consapevolezza dei suoi poteri. Con la macina, sapeva bene quel che poteva fare».

«In tutta sincerità, non ho mai sentito parlare di un dono come il suo. Ho raccontato a Faith che cos’aveva fatto con quella macina, rifinendone la parte posteriore senza usare neanche un attrezzo, e lei ha cominciato a leggere il Libro di Daniele e a blaterare qualcosa riguardo al compimento della profezia. Voleva correre qui e fargli una predica sul pericolo dei piedi d’argilla. Non è incredibile? La religione la fa andare fuori di testa. Non ho conosciuto una donna che non fosse fuori di testa per via della religione».

La porta si aprì.

«Fuori di qui! Sei sordo? Te l’ho già detto venti volte, Cally! Dov’è sua madre, perché non riesce a tener lontano un ragazzino di sette anni da…».

«Non maltrattatelo, Miller. E poi, se n’è già andato».

«Non capisco che cosa gli abbia preso. Da quando Al Junior è in queste condizioni, vedo la faccia di Cally spuntare da tutte le parti. Come un becchino in attesa di guadagnarsi la giornata».

«Forse per lui è una novità. Che Al Junior si sia fatto male, voglio dire».

«Dopo tutte le volte che Alvin è scampato alla morte per un pelo…».

«Ma senza mai farsi nulla».

Un lungo silenzio.

«Scambiastorie?»

«Sì, signor Miller?»

«Da quando siete qui vi siete dimostrato un buon amico, anche se a volte avremmo potuto darvi motivo di comportarvi diversamente. Ma immagino siate ancora uno a cui piace camminare».

«Certo, signor Miller».

«Quello che vorrei dirvi è… non per farvi fretta, ma se per caso aveste in mente di partire prima che sia trascorso molto tempo, e se il vostro cammino vi portasse per caso verso est, pensate di poter recapitare una lettera per me?»

«Ne sarei felice. E non chiederei un soldo, né al mittente né al destinatario».

«Questo è molto gentile da parte vostra. Ho pensato a quello che mi avete detto. A proposito di un ragazzo che sarebbe meglio allontanare da certi pericoli. E allora mi sono chiesto se al mondo esisteva qualcuno di cui potessi fidarmi fino a questo punto. Nella Nuova Inghilterra non abbiamo parenti degni di questo nome… non vorrei certo che il ragazzo ricevesse un’educazione puritana, così da ritrovarsi ogni due secondi sul ciglio dell’inferno».

«Sono contento di sentirvelo dire, signor Miller, perché nemmeno io nutro un particolare desiderio di rivedere la Nuova Inghilterra».

«Se si ripercorre all’indietro la strada che abbiamo fatto per venire all’ovest, prima o poi si arriva a un ponte sul fiume Hatrack, a una trentina di miglia a nord dell’Etto, non molto lontano da Fort Dekane. Lì sorge una locanda, o almeno sorgeva, e dietro la locanda c’è un cimitero con una lapide che dice: ‘Vigor, morto per salvare il suo stesso sangue’».

«Volete che porti il ragazzo laggiù?»

«No, no, finché c’è tutta questa neve non lo manderei di certo. L’acqua…».

«Capisco».

«C’è un fabbro, laggiù, e può darsi che abbia bisogno d’un apprendista. Alvin ha solo dieci anni ma è robusto per la sua età, e penso che per il fabbro sarebbe un ottimo affare».

«Prenderlo come apprendista?»

«Be’, non sarà certamente il caso che glielo conceda in servitù, non vi pare? E non ho il denaro necessario per mandarlo a scuola».

«Porterò la vostra lettera. Ma spero che mi permettiate di restare finché il ragazzo si sveglierà, in modo da poterlo salutare».

«Non avevo certo intenzione di mandarvi via stasera! E neanche domani, se è per questo, visto che là fuori la neve arriva ormai al ginocchio».

«Non sapevo che aveste fatto caso al tempo».

«Quando si tratta di acqua, me ne accorgo sempre». Miller rise amaramente, e insieme uscirono dalla stanza.

Disteso nel letto, Alvin Junior si chiese come mai papà volesse mandarlo via. Non si era sempre comportato bene, dando il meglio di sé? Non aveva cercato di aiutarli in tutti i modi? Non andava forse a scuola dal reverendo Thrower, anche se questi sembrava deciso a farlo diventare pazzo o idiota? E soprattutto, non era riuscito a estrarre dalla montagna una perfetta macina da mulino, tenendola insieme per tutto il tempo necessario, spiegandole dove andare e rischiando una gamba solo perché non si spaccasse? E adesso volevano mandarlo via.

Apprendista! Da un fabbro! Ma se non ne aveva mai visto uno! Per arrivare dal fabbro più vicino ci volevano tre giorni di cavallo, e papà non gli aveva mai permesso di accompagnarlo. In vita sua non si era mai allontanato più di dieci miglia da casa.

A dire il vero, più ci pensava più la cosa lo faceva infuriare. Quante volte aveva implorato papà e mamma che lo lasciassero andare nella foresta da solo, e loro non gliel’avevano permesso! Doveva sempre essere accompagnato, quasi fosse stato uno schiavo o un prigioniero al quale bisognava impedire di scappare. Se tardava cinque minuti ad arrivare in qualsiasi posto, immediatamente qualcuno veniva a cercarlo. Di viaggi lunghi non ne aveva mai fatti; il più lungo era stato fino alla cava, le poche volte che c’erano andati. E adesso, dopo averlo tenuto rinchiuso come un’oca all’ingrasso per tutta la vita, avevano deciso di spedirlo chissà dove in capo al mondo.

Era una tale ingiustizia che gli venne da piangere, e le lacrime gli corsero giù per le guance fino a gocciolargli dentro le orecchie, e questo gli sembrò così stupido che si mise a ridere.

«Perché ridi?» chiese Cally.

Alvin non lo aveva udito entrare.

«Stai meglio adesso? Non sanguina più, sai, Al».

Cally gli toccò la guancia.

«Piangi perché ti fa tanto male?»

Probabilmente Alvin avrebbe potuto rispondergli, ma aprire la bocca e spingerne fuori le parole gli sembrava troppo faticoso, così si limitò a scuotere la testa, lentamente e con gentilezza.

«Morirai, Alvin?» chiese Cally.

Alvin scosse di nuovo la testa.

«Oh» disse Cally.

Parve così deluso che Alvin un po’ si arrabbiò. Si arrabbiò abbastanza da decidersi a mettere le labbra in movimento.

«Mi dispiace» gracidò.

«Ecco, non è giusto» disse Cally. «Io non volevo che tu morissi, ma tutti dicevano che saresti morto sicuramente. E allora mi sono messo a pensare come sarebbe stato se fossi stato io quello di cui tutti si preoccupavano. Tutti ti tengono d’occhio in continuazione, e se io dico qualcosa non fanno che dire: togliti dai piedi, Cally. Sta’ zitto, Cally. Nessuno ti ha chiesto niente, Cally. Non dovresti essere a letto, Cally? A loro non importa niente di quello che faccio. A parte quando cerco di picchiare te, e allora tutti quanti dicono: tieni le mani a posto, Cally».

«Per un topo campagnolo, a fare la lotta te la cavi mica male». Per lo meno, questo era ciò che Alvin avrebbe voluto dire; ma gli fu impossibile stabilire se le sue labbra si fossero mosse.

«Lo sai cos’ho fatto una volta, quando avevo sei anni? Sono uscito e sono andato a perdermi nel bosco. Ho camminato per un sacco di tempo. Qualche volta chiudevo gli occhi e giravo su me stesso per essere sicuro di non sapere dov’ero. Devo essermi perso per almeno mezza giornata. Forse che qualcuno è venuto a cercarmi? Nemmeno un’anima. Alla fine ho dovuto trovare da solo la strada di casa. Nessuno che mi abbia detto: dove sei stato tutto il giorno, Cally? La mamma ha detto soltanto: hai le mani sporche come il sottocoda di un cavallo, fila subito a lavartele».

Alvin rise di nuovo, quasi senza voce, col petto che gli sussultava.

«A te sembrerà buffo. Sei tu quello che vengono sempre a cercare».

Stavolta Alvin si sforzò di emettere un suono. «Vuoi che me ne vada?»

Per rispondere, Cally ci mise parecchio tempo. «No. Chi giocherebbe con me, allora? Solo quegli scemi dei cugini. Di tutti, non ce n’è uno che sappia fare alla lotta in maniera decente».

«Me ne vado» sussurrò Alvin.

«Non è vero. Sei il settimo figlio, e non ti lasceranno mai andare».

«Me ne vado».

«Sicuro, per come faccio il conto io, sono io il numero sette. David, Calm, Measure, Wastenot, Wantnot, Alvin Junior che saresti tu, e poi io, che fanno sette».

«Vigor».

«È morto. È morto da un sacco di tempo. Bisognerebbe che qualcuno lo dicesse anche a papà e mamma».

Alvin giacque immobile, quasi allo stremo delle forze per quelle poche cose che aveva detto. Cally praticamente non aggiunse altro. Si limitò a restarsene lì seduto. E a stringere forte la mano di Alvin. Poco dopo Alvin cominciò ad assopirsi, per cui non poté essere del tutto sicuro se Cally l’avesse detto veramente, o piuttosto non fosse stato un sogno. Ma lo udì dire: «Non potrei mai volere la tua morte, Alvin». E poi gli sembrò che avesse detto: «Vorrei solo essere te». Comunque fosse, Alvin scivolò nel sonno, e quando si svegliò era solo e la casa era immobile tranne per i consueti rumori notturni, il vento che scuoteva le imposte, le travi che scricchiolavano contraendosi per il freddo, il ceppo che scoppiettava nel camino.

Ancora una volta entrò nel proprio corpo dirigendosi lentamente verso la ferita. Ma stavolta non lavorò sulla pelle e sui muscoli. Lavorò sulle ossa. Restò sorpreso nell’accorgersi che non erano solide e compatte come la macina di pietra, ma una specie di merletto, piene di minuscole cavità. Ma ben presto capì com’erano fatte, e dopo un po’ riuscì facilmente a saldarle di nuovo in un unico pezzo.

Però in quell’osso c’era qualcosa che non andava. Nella gamba malata c’era qualcosa che non voleva tornare esattamente come in quella buona. Ma era qualcosa di così piccolo che Alvin non riusciva a distinguerlo chiaramente. Sentiva soltanto che, qualunque cosa fosse, faceva sì che l’osso restasse malato dentro; era solo una minuscola macchia malata, ma lui non riusciva a guarirla. Era come cercare di raccogliere da terra i fiocchi di neve; ogni volta che gli sembrava di aver raccolto qualcosa, in mano non gli restava nulla, o forse era soltanto troppo piccolo per vederlo.

Pensò che forse se ne sarebbe andato da solo. Che forse, se fosse migliorato tutto il resto, anche quel punto malato del suo osso sarebbe migliorato da sé.

Eleanor era andata a trovare i suoi, ed era tornata molto tardi. Armor non aveva niente da ridire sul fatto che una moglie mantenesse solidi legami con la propria famiglia d’origine, ma tornare a casa dopo il tramonto era troppo rischioso.

«Sembra che da queste parti si aggirino pellerossa selvaggi provenienti dal sud» disse Corazza-di-Dio. «E tu giri da sola di notte».

«Ho fatto prima che potevo» ribatté lei. «La strada la so trovare anche al buio».

«Non è questione di trovare la strada» la rimproverò Armor. «Per gli scalpi dei bianchi, i francesi adesso offrono fucili. Non sarà una tentazione per i seguaci del Profeta, ma a qualche Chok-Taw potrebbe anche essere venuto in mente di andare in visita a Fort Detroit raccogliendo scalpi lungo il cammino».

«Alvin non morirà» disse Eleanor.

Di solito Armor non tollerava che lei cambiasse argomento in quel modo. Ma la notizia era così sorprendente che sarebbe stato un po’ difficile non domandarle chiarimenti. «Allora hanno deciso di amputargli la gamba?»

«L’ho vista, la gamba. Sta migliorando. E nel tardo pomeriggio Alvin Junior era sveglio e ho potuto chiacchierare un po’ con lui».

«Sono contento che fosse sveglio, Elly, sono veramente contento, ma non penserai davvero che quella gamba possa migliorare! Una ferita di quel genere può anche dare segni di miglioramento, ma ben presto si può star sicuri che arriva la cancrena».

«Stavolta non penso proprio che vada così» disse lei. «Vuoi cenare?»

«Debbo essermi sbocconcellato almeno due filoni di pane mentre andavo avanti e indietro e mi chiedevo se saresti mai tornata a casa».

«Non mi piacciono gli uomini con la pancia».

«Be’, io ce l’ho già, e ti assicuro che chiede cibo come quella di chiunque altro».

«Mia madre mi ha regalato una forma di formaggio». Eleanor la depose sul tavolo.

Armor aveva i suoi dubbi. Per come la vedeva lui, se i formaggi di Faith Miller venivano così buoni ciò era dovuto almeno per metà al fatto che combinava qualcosa di strano col latte. Era impossibile trovare formaggio migliore nell’intera regione tra il Wobbish e il Tippy-Canoe.

Quando scopriva di essere in qualche modo venuto a compromessi con la stregoneria, Armor s’infuriava con se stesso. E quando era infuriato con se stesso non era assolutamente disposto a lasciar cadere la cosa, anche se sapeva benissimo che Elly non aveva nessuna intenzione di parlarne. «Perché pensi che la gamba non andrà in cancrena?»

«Sta migliorando così in fretta» disse Eleanor.

«Migliorando come?»

«Oh, in pratica è quasi guarita».

«Quasi quanto?»

Lei si voltò di scatto, roteò gli occhi, quindi gli diede nuovamente le spalle e cominciò a fare a spicchi una mela da mangiare col formaggio.

«Ti ho chiesto quasi quanto, Elly. Quanto gli manca a guarire?»

«È già guarito».

«Due giorni dopo che una macina da mulino gli ha portato via un pezzo di gamba, è già guarito?»

«Solo due giorni? Avrei detto che era passata una settimana».

«Il calendario dice che sono due giorni» ribatté Armor. «Il che significa che c’è di mezzo qualche stregoneria».

«A quanto dicono i Vangeli, Colui che guariva gli ammalati non praticava certo la stregoneria».

«Chi è stato, allora? Non venirmi a dire che tuo padre o tua madre sono riusciti a escogitare un rimedio di questa potenza da un giorno all’altro. Hanno forse evocato il demonio?»

Eleanor si voltò di scatto, il coltello ancora sospeso in aria per tagliare. Nei suoi occhi passò un lampo. «Può darsi che papà non sia esattamente un uomo di chiesa, ma in casa nostra il diavolo non ha mai messo piede».

Non era ciò che il reverendo Thrower gli aveva detto, ma Armor ebbe il buon senso di non introdurre anche lui nella conversazione. «Allora è stato quel mendicante».

«Si guadagna il vitto e l’alloggio lavorando duro come chiunque altro».

«Dicono che ha conosciuto personalmente quel vecchio mago di Ben Franklin. E Tom Jefferson, l’ateo degli Appalachi».

«Sa raccontare delle belle storie. E comunque non è stato lui a guarire il ragazzo».

«Be’, qualcuno sarà pur stato».

«Forse è semplicemente guarito da solo. A ogni modo la gamba è ancora rotta. Perciò non è un miracolo o roba del genere. È uno che fa in fretta a guarire, tutto qui».

«Be’, forse è uno che fa in fretta a guarire perché il diavolo si prende cura della sua genìa».

Dalla luce che le scorse negli occhi quando Eleanor si voltò, Armor fu a un pelo dal pentirsi di ciò che aveva detto. Ma poi pensò che non ce n’era motivo. Il reverendo Thrower aveva detto che quel ragazzo era perfino peggio della Bestia dell’Apocalisse.

Bestia o ragazzo che fosse, tuttavia, era pur sempre il fratello di Elly, e sebbene di solito sua moglie fosse la persona più buona e cara del mondo, quando le saltava la mosca al naso poteva diventare un’autentica furia.

«Ritira quello che hai detto» disse Eleanor.

«Suvvia, questa è la cosa più stupida che abbia mai sentito. Come faccio a ritirare quello che ho detto?»

«Dicendo che sai che non è vero».

«Ma io non posso sapere se è vero o non è vero. Ho detto ‘forse’, e se uno non può più dire ‘forse’ a sua moglie quanto gli pare e piace, allora sarebbe meglio che fosse morto e sotterrato».

«Sono d’accordo. E se non ritiri quello che hai detto, non dubitare che preferiresti essere morto e sotterrato!» E si mosse verso di lui stringendo una mela in ciascuna mano.

Ora, il più delle volte che Elly si avvicinava a lui in quel modo, anche se era veramente arrabbiata, lui si lasciava rincorrere per la casa e di solito dopo un po’ lei finiva col mettersi a ridere. Ma non stavolta. Gli spiaccicò una mela in testa, l’altra gliela tirò addosso, e poi corse di sopra in camera, si mise a sedere sul letto e scoppiò in un pianto dirotto.

Poiché Eleanor non era tipo da mettersi a piangere, Armor ne concluse che le cose si erano spinte troppo oltre.

«Ritiro quello che ho detto, Elly. È un bravo ragazzo, questo lo so».

«Oh, di quello che pensi non m’importa nulla» scattò lei. «Di queste cose non capisci un accidente».

Non erano molti i mariti che si sarebbero fatti dire dalla moglie una cosa del genere senza mollarle un manrovescio. A volte Armor avrebbe voluto che Elly capisse come lo spirito di cristiana sopportazione del marito tornasse tutto a suo vantaggio.

«Qualcosa invece credo proprio di capirne» ribatté.

«Hanno intenzione di mandarlo via» disse Eleanor. «A primavera lo manderanno a bottega da qualcuno, come apprendista. Lui non ne è affatto entusiasta, questo è certo, ma non si oppone, se ne sta li disteso nel letto e ne parla tranquillamente, ma da come ti guarda sembra voler dire addio a tutti quanti».

«E come mai vogliono mandarlo via?»

«Te l’ho detto, per fargli imparare un mestiere».

«Da come lo tengono nella bambagia, mi è difficile credere che gli permettano di allontanarsi».

«E non parlano nemmeno di mandarlo qui nelle vicinanze. Addirittura al confine orientale del territorio dell’Hio, vicino a Fort Dekane. Pensa, praticamente a mezza strada tra qui e il mare».

«Sai, a pensarci bene non è affatto una decisione irragionevole».

«E perché?»

«Con questi Rossi che cominciano a creare problemi, preferiscono saperlo lontano di qui. Chiunque altro può restarsene qui in attesa di una freccia in fronte, ma non Alvin Junior».

Eleanor lo fissò con evidente disprezzo. «Qualche volta sei così sospettoso che mi fai venir voglia di vomitare, Corazza-di-Dio».

«Non sono sospetti. È la realtà».

«Tu non sapresti distinguere la realtà da un cavolfiore».

«Mi toglieresti questa mela dai capelli, o preferisci mangiartela?»

«Sì, sarà meglio che faccia qualcosa, o me la spiaccicherai tutta sulle lenzuola».

Scambiastorie si sentiva quasi un ladro a partire prendendo con sé tanta roba. Due paia di calzettoni grossi. Una coperta nuova. Un mantello di pelle d’alce. Carne essiccata al sole e formaggio. Una buona cote.

E le cose che non sapevano nemmeno di avergli donato. Un corpo riposato, senza più dolori e ammaccature. Un passo disinvolto. Volti cordiali bene impressi nella mente. E storie. Storie annotate nella parte del libro chiusa da una fibbia, la parte nella quale egli solo scriveva. E storie vere, scritte faticosamente dalle loro mani.

Dal canto suo Scambiastorie aveva contraccambiato la loro generosità, o per lo meno ci aveva provato. I tetti riparati per l’inverno, altri lavoretti qua e là. Soprattutto, avevano potuto leggere le parole scritte di pugno da Ben Franklin, e poi da Tom Jefferson, Ben Arnold, Pat Henry, John Adams, Alex Hamilton… persino da Aaron Burr, prima del duello, e da Daniel Boone, dopo. Prima che Scambiastorie arrivasse da loro, erano parte della loro famiglia, parte del territorio del Wobbish, e nulla più. Adesso appartenevano a storie molto più vaste. La guerra d’indipendenza degli Appalachi. Il Patto Americano. Ora vedevano la loro marcia faticosa in quelle regioni selvagge come un filo tra molti, e potevano avvertire la consistenza dell’arazzo che con quei fili era stato tessuto. In realtà non era nemmeno un arazzo, ma un tappeto. Un buon tappeto spesso e resistente che generazioni di americani dopo di loro avrebbero potuto calpestare. C’era una poesia, là dentro; e, prima o poi, l’avrebbe messa per iscritto.

E poi aveva lasciato loro qualcos’altro. Un figlio amatissimo tolto di sotto a una macina da mulino che stava per cadere. Un padre che adesso aveva la forza di mandar via il proprio figlio prima di ucciderlo. Un nome per l’incubo di un ragazzo, in modo che questi potesse capire che il suo nemico non era una fantasia, ma una realtà. L’incoraggiamento sussurrato a un bambino ferito perché guarisse se stesso.

E un unico disegno, inciso con la punta d’un coltello arroventato su un’assicella di legno di quercia ben lucidato. Scambiastorie avrebbe preferito lavorare con cera e acido sul metallo, ma in quei luoghi sarebbe stato impossibile trovarli. Così si era arrangiato alla meglio, tracciando quelle linee a fuoco nel légno. Il disegno rappresentava un giovane travolto dalla corrente impetuosa di un fiume, che, impigliato tra le radici di un albero, cercava di riprendere fiato mentre il suo sguardo fissava impavido la morte. Nella sua semplicità, all’Accademia d’Arte del Lord Protettore quel disegno non avrebbe ottenuto che disprezzo. Ma quando comare Faith lo vide, scoppiò in pianto e lo strinse a sé bagnandolo di lacrime. E quando Alvin Miller lo vide, annuì e disse: «Ecco la vostra visione, Scambiastorie. Senza averla mai vista, avete disegnato la sua faccia alla perfezione. È Vigor. È il mio ragazzo». Quindi si mise a piangere anche lui.

Lo collocarono sulla mensola del camino. Poteva non essere un capolavoro, pensò Scambiastorie, ma era vero, e per quella gente significava molto più di ciò che un qualsiasi ritratto avrebbe potuto significare per un vecchio grassone di nobile o di parlamentare a Londra, Camelot, Parigi o Vienna.

«È ormai giorno chiaro» disse comare Faith. «Ne avete di strada da fare prima di sera».

«Non potete rimproverarmi se sono riluttante a partire, anche se sono felice che mi abbiate affidato questa commissione. Cercherò di non deludervi». Così dicendo, diede un colpetto alla tasca nella quale aveva riposto la lettera per il fabbro del fiume Hatrack.

«Non potete andarvene senza salutare il ragazzo» disse Miller.

Scambiastorie aveva rimandato il più possibile quel momento. Annuì, quindi si alzò dalla comoda poltrona accanto al fuoco e andò nella camera dove aveva fatto le più belle dormite della sua vita. Era bello vedere Alvin Junior con gli occhi aperti, il viso allegro, non più inespressivo com’era stato per qualche tempo, o corrugato dalla sofferenza. Ma il dolore c’era ancora. Scambiastorie lo sapeva.

«Ve ne andate?» chiese il ragazzo.

«Me ne vado, ma prima volevo salutarti».

Alvin parve leggermente irritato. «Così non avete intenzione di farmi scrivere nel vostro libro?»

«Non ci faccio scrivere tutti, lo sai».

«Papà ce l’avete fatto scrivere. E anche la mamma»

«E anche Cally».

«Chissà che meraviglia» disse Alvin. «Cally scrive come un… come un…».

«Come un bambino di sette anni». Era un rimprovero, ma Alvin non intendeva farsi intimidire.

«E perché io no? Perché Cally sì, e io no?»

«Perché alle persone io faccio scrivere solo la cosa più importante che abbiano mai fatto o visto con i loro stessi occhi. Tu che cos’avresti scritto?»

«Non so. Forse qualcosa sulla macina da mulino».

Scambiastorie fece una smorfia.

«Allora forse sulla mia visione. È stata importante, l’avete detto voi stesso».

«E infatti ne ho già scritto altrove».

«Ma nel libro volevo scriverci io» protestò Alvin. «Volevo che la mia frase fosse lì dentro, accanto a quella di Ben il Creatore».

«Non è ancora il momento» disse Scambiastorie.

«Quando, allora?»

«Quando le avrai suonate al vecchio Distruttore, ragazzo. Ecco quando ti permetterò di scrivere nel libro».

«E se non ci riesco?»

«Allora anche di questo libro non sarà rimasto granché».

Ad Alvin spuntarono le lacrime agli occhi. «E se muoio?»

Scambiastorie avvertì un brivido di paura. «Come va la gamba?»

Il ragazzo alzò le spalle. Battendo le palpebre, ricacciò indietro le lacrime. Un istante dopo erano scomparse.

«Non è una risposta, ragazzo».

«Continua a farmi male».

«Continuerà finché l’osso non si sarà saldato».

Alvin Junior sorrise debolmente. «L’osso è completamente saldato».

«E allora perché non cammini?»

«Mi fa male, Scambiastorie. E non smette. C’è qualcosa che non va nell’osso, e non ho ancora capito come rimediare».

«Troverai un modo».

«Ancora non l’ho trovato».

«Un vecchio cacciatore di pellicce una volta mi disse: ‘Per scuoiare una pantera non importa se si parte dalla testa o dalla coda, purché alla fine si arrivi allo scopo’».

«Sarebbe un proverbio?»

«All’incirca. Prima o poi un modo lo troverai, anche se non è quello che ti aspetti».

«Niente è come me lo aspetto» disse Alvin. «Niente va a finire come mi ero immaginato».

«Hai solo dieci anni, ragazzo. Sei già stanco del mondo?»

Alvin continuò a tormentare la coperta tra il pollice e l’indice. «Sto morendo, Scambiastorie».

Scambiastorie studiò il suo viso, cercando di cogliervi i segni della morte. Non ci riuscì. «Non credo».

«Quel punto malato nella gamba. Sta crescendo. Lentamente forse, ma sta crescendo. È invisibile, e intanto pian piano rosicchia la parte dura dell’osso, e dopo un po’ andrà sempre più in fretta e…».

«Il Distruttore avrà partita vinta».

Stavolta Alvin si mise a piangere sul serio, le mani tremanti. «Ho paura di morire, Scambiastorie, ma questa cosa mi è entrata dentro e non riesco a mandarla via».

Scambiastorie gli posò una mano sulla sua, per arrestare il tremito. «Troverai un modo. Hai troppo da fare su questa terra per morire adesso».

Alvin roteò gli occhi. «Questa è la più grossa stupidaggine che abbia sentito da un anno a questa parte. Solo perché uno ha delle cose da fare, questo non vuol dire che non morirà».

«Ma vuol dire che non morirà volentieri».

«Certo che non morirei volentieri».

«Ecco perché troverai un modo per vivere».

Alvin restò in silenzio per qualche secondo. «Ci ho pensato. A quello che farò se non morirò. Come quello che ho fatto per far stare meglio la mia gamba. Scommetto che posso farlo anche per gli altri. Posso toccarli e sentire cosa gli succede dentro e aggiustare quello che non va. Non sarebbe bello?»

«Tutti quelli che guariresti te ne sarebbero eternamente grati».

«Penso che la prima volta sia stata la più difficile, e quando l’ho fatto non ero particolarmente forte. Scommetto che agli altri potrei farlo molto più in fretta».

«Può darsi. Ma anche se guarisci cento malati al giorno, e poi vai da un’altra parte e ne guarisci altri cento, ci saranno sempre diecimila persone che moriranno alle tue spalle, e altre diecimila davanti a te, e quando tu stesso morirai, saranno morti anche quasi tutti quelli che avrai guarito».

Alvin girò il viso dall’altra parte. «Se so come guarirli, bisogna che li guarisca, Scambiastorie».

«Quelli che potrai guarire, farai bene a guarirli» disse Scambiastorie. «Ma non nel senso di farne la missione della tua vita, Alvin. Mattoni nel muro, Alvin, ecco che cosa sarebbero. Nient’altro. Non riusciresti mai a tenerti al passo nel riparare i mattoni che si sgretolano. Guarisci pure chi ti capita sotto le mani, ma la missione della tua vita è un’altra, ben più importante».

«Io so come guarire le persone. Ma non so come sconfiggere il Dis… il Distruttore. Non so nemmeno chi sia».

«Ma finché sei l’unico che riesce a vederlo, sei anche l’unico che abbia qualche speranza di sconfiggerlo».

«Può darsi».

Un altro lungo silenzio. Scambiastorie capì che era il momento di andarsene.

«Aspettate».

«Adesso debbo andare».

Alvin gli afferrò la manica. «Non ancora».

«Presto».

«Almeno… almeno lasciatemi leggere quello che gli altri hanno scritto».

Scambiastorie mise la mano nella bisaccia e ne tirò fuori l’astuccio impermeabile che conteneva illibro. «Non posso prometterti di spiegartene il significato».

Alvin fu lesto a trovare le ultime frasi, che non avevano ancora iniziato a scolorirsi.

Nella calligrafia di sua madre: «Vigor spinge un tronco e non muore finché non nasce il bambino».

Nella calligrafia di David: «Una macina da mulino si divide in due e poi torna intera, nemmeno una crepa».

Nella calligrafia di Cally: «Settimo figlio».

Alvin alzò lo sguardo. «Non si riferisce a me, sapete».

«Lo so» disse Scambiastorie.

Alvin tornò a leggere. Nella calligrafia di suo padre: «Non uccide un ragazzo perché uno straniero arriva in tempo».

«Di che cosa sta parlando?» chiese Alvin.

Scambiastorie gli prese il libro dalle mani e lo richiuse. «Trova il modo di guarire quella gamba» disse. «Non sei l’unico ad aver bisogno che torni forte. Non è per te, ricordi?»

Si chinò a baciare il ragazzo sulla fronte. Alvin alzò le braccia e lo strinse così forte che Scambiastorie non avrebbe potuto drizzarsi senza tirarlo di peso fuori dal letto. Dopo un po’, il vecchio dovette prendergli le braccia e allontanarle da sé. Aveva la guancia bagnata delle lacrime di Alvin, ma non se ne curò. Lasciò che ad asciugarla fosse il vento, mentre arrancava sul sentiero gelido e asciutto, coi campi di neve mezza sciolta che si estendevano a destra e a sinistra.

Si fermò un momento sul secondo ponte coperto. Giusto il tempo necessario a chiedersi se sarebbe più tornato in quel luogo, e se li avrebbe più rivisti. O se Alvin Junior avrebbe mai scritto la sua frase sul libro. Se fosse stato un profeta l’avrebbe saputo. Ma non ne aveva la più pallida idea.

Così riprese il cammino, dirigendo i suoi passi verso oriente.

XIII

L’ OPERAZIONE

Il Messo era comodamente seduto sull’altare, appoggiato con disinvoltura al braccio sinistro in modo che il busto restasse leggermente inclinato. Una posa così disinvolta il reverendo Thrower l’aveva vista assumere una volta a un elegantone di Camelot, un dissoluto libertino che evidentemente disprezzava tutto ciò che le chiese puritane di Scozia e d’Inghilterra stavano a significare. Nel vedere il Messo in un atteggiamento così irriverente, Thrower si sentì non poco a disagio.

«E perché?» chiese il Messo. «Solo perché l’unico modo in cui tu riesci a mantenere il controllo delle tue passioni carnali consiste nel sedere col busto eretto, le ginocchia unite, le mani delicatamente appoggiate in grembo, le dita strettamente intrecciate, non significa affatto che io sia tenuto a fare lo stesso».

Thrower era imbarazzato. «Non è giusto rimproverarmi per i miei pensieri».

«Certo che lo è, quando i tuoi pensieri mi rimproverano per le mie azioni. Guardati dall’hybris, amico mio, guardati dal vano orgoglio. Chi mai può ritenersi tanto virtuoso da poter giudicare le azioni degli angeli?»

Era la prima volta che il Messo si riferiva a se stesso come a un angelo.

«Non mi sono riferito a me stesso come a un bel niente» disse il Messo. «Devi imparare a controllare i tuoi pensieri, Thrower. Salti troppo facilmente alle conclusioni».

«Perché sei qui?»

«È qualcosa che riguarda colui che ha fabbricato questo altare» disse il Messo. E diede un colpetto a una delle croci che Alvin Junior aveva inciso a fuoco nel legno.

«Ho fatto del mio meglio, ma a quel ragazzo non si può insegnare niente. Dubita di tutto e contesta ogni affermazione teologica come se potesse essere sottoposta al vaglio di quei principi di coerenza e non contraddittorietà che prevalgono nel mondo della scienza».

«In altre parole, vorrebbe che le tue dottrine avessero senso logico».

«Non è disposto ad accettare l’idea che certe cose restino un mistero, comprensibile solo alla mente di Dio. L’ambiguità lo rende impudente, e il paradosso causa in lui aperta ribellione».

«Un ragazzo insopportabile».

«Il peggiore che mi sia mai capitato» ammise Thrower.

Lo sguardo del Messo lampeggiò. Thrower avvertì una fitta al cuore.

«Ho tentato» balbettò Thrower. «Ho tentato di rivolgerlo al servizio del Signore. Ma l’influenza del padre…».

«Chi attribuisce il proprio fallimento alla forza altrui è soltanto un debole» disse il Messo.

«Ma ancora non ho fallito!» esclamò Thrower. «Mi avevi detto che avevo tempo finché il ragazzo non avesse compiuto i quattordici…».

«No. Ti ho detto che io avevo tempo finché il ragazzo non avesse compiuto i quattordici anni. Tu invece hai tempo solo finché egli resta qui».

«Non mi risulta che i Miller vogliano trasferirsi altrove. Hanno appena sistemato la macina del mulino, a primavera cominceranno a macinare il grano, non se ne andrebbero senza…».

Il Messo scese dall’altare ergendosi davanti al pastore. «Lascia che io ti ponga questo caso, reverendo Thrower. Puramente ipotetico. Supponiamo che tu sia nella stessa stanza col peggior nemico di tutto ciò che io rappresento. Supponiamo ch’egli sia infermo, e giaccia impotente nel suo letto. Se guarisse, verrebbe condotto fuori dalla tua portata, e avrebbe via libera per distruggere tutto ciò che tu e io più veneriamo. Ma se morisse, la nostra grande causa sarebbe salva. Adesso supponiamo che qualcuno ti metta in mano un coltello, e t’implori di compiere sul ragazzo un delicato intervento chirurgico. E supponiamo che scivolandoti la mano, anche solo di un capello, il coltello recida un’arteria importante. E supponiamo che, indugiando tu anche solo per qualche istante, il sangue esca tanto copiosamente che in pochi istanti egli ne muoia. In questo caso, reverendo Thrower, quale sarebbe il tuo dovere?»

Thrower era inorridito. Per tutta la vita si era preparato a insegnare, persuadere, esortare, spiegare. Mai a compiere un atto come quello che il Messo gli aveva suggerito. «Non sono adatto a questo genere di cose» farfugliò.

«Non sei adatto al regno di Dio?» chiese il Messo.

«Ma il Signore ha detto: ‘Non uccidere’».

«Davvero? È questo ciò che disse a Giosuè indicandogli la via della Terra Promessa? È questo ciò che disse a Saul quando lo inviò contro gli Amaleciti?»

Thrower ripensò a quei foschi passi del Vecchio Testamento, e tremò di paura al pensiero di prender parte a simili imprese.

Ma il Messo non intendeva dargli tregua. «Samuele, giudice d’Israele, ordinò al re Saul di uccidere tutti gli Amaleciti… uomini, donne e fanciulli. Ma Saul non ebbe il coraggio di farlo. Risparmiò il re degli Amaleciti e lo riportò indietro vivo. Che cosa fece allora il Signore per punirlo della sua disobbedienza?»

«Scelse Davide perché regnasse al suo posto» mormorò Thrower.

Ora il Messo era vicinissimo a Thrower e lo trafiggeva col suo sguardo di fuoco. «E poi che cosa fece Samuele, giudice d’Israele, mite servitore di Dio?»

«Ordinò che Agag, re degli Amaleciti, gli venisse condotto dinanzi».

Il Messo continuò a incalzarlo, implacabile. «E Samuele che cosa fece?»

«Lo uccise» sussurrò Thrower.

«Che cosa dice esattamente la Scrittura? Che cosa fece Samuele?» ruggì il Messo. Le pareti della chiesa tremarono, le vetrate tintinnarono.

Thrower adesso piangeva dalla paura, ma pronunciò le parole che il Messo gli aveva richiesto: «Samuele lo fece a pezzi… dinanzi al Signore».

L’unico rumore nella chiesa era il respiro ansimante di Thrower che cercava di controllare il suo pianto isterico. Il Messo gli sorrise con occhi colmi d’amore e d’indulgenza. Un istante dopo era scomparso.

Thrower cadde in ginocchio davanti all’altare e pregò. O Padre, per Te sarei disposto a morire, ma non chiedermi di uccidere. Allontana questo calice dalle mie labbra, sono troppo debole, sono indegno, non caricare questo fardello sulle mie spalle.

Le sue lacrime caddero sull’altare. Nell’udire uno sfrigolio, Thrower fece un balzo indietro, spaventato. Le lacrime correvano rapide sulla superficie dell’altare come gocce d’acqua su una padella arroventata, fino a consumarsi e scomparire.

Il Signore mi ha respinto, pensò. Ho giurato di obbedirgli in tutto ciò che Egli volesse ordinarmi, e adesso che mi chiede qualcosa di difficile, che mi comanda d’essere forte come gli antichi profeti, scopro d’essere un vaso spezzato nelle Sue mani, incapace di contenere il destino ch’Egli voleva riversare in me.

La porta della chiesa si aprì. Una folata d’aria gelida corse sul pavimento inviando un brivido nelle ossa del pastore. Thrower alzò lo sguardo, temendo che si trattasse d’un angelo venuto a punirlo.

Ma non era un angelo. Era semplicemente Corazza-di-Dio Weaver.

«Non intendevo interrompere le vostre preghiere» disse Armor.

«Entrate» lo invitò Thrower. «Chiudete la porta. Che cosa posso fare per voi?»

«Non è per me» disse Armor.

«Venite. Sedetevi. Di che cosa si tratta?»

Thrower si augurò in cuor suo che la venuta di Armor proprio in quel momento potesse essere un segno di Dio. Un membro della congregazione venuto a chiedere il suo aiuto, subito dopo la sua preghiera… sicuramente il Signore voleva fargli capire che dopotutto lo accoglieva presso di Sé.

«È per mio suocero», disse Armor. «O meglio, per suo figlio, Alvin Junior».

Thrower si sentì attraversare da un brivido di terrore che lo gelò fino al midollo. «Lo conosco. Che gli è successo?»

«Saprete certamente che si è fatto male a una gamba».

«Ne ho sentito parlare».

«Non siete per caso andato a fargli visita prima che guarisse?»

«Sono portato a credere che in quella casa non sarei affatto il benvenuto».

«Be’, lasciate che ve lo dica, era proprio messo male. Un intero lembo di pelle strappato via. Ossa rotte. Ma due giorni dopo era già guarito. Non si vedeva neanche più la cicatrice. Tre giorni dopo camminava».

«Non doveva essere messo male come avevate creduto».

«Vi sto dicendo che la gamba era rotta e la ferita era brutta. In famiglia erano ormai convinti che il ragazzo stesse per morire. Mi avevano già chiesto di procurargli i chiodi per la bara. E, da quanto ci pativano, non ero del tutto sicuro che oltre al ragazzo non avremmo dovuto seppellire anche il padre e la madre».

«Allora la guarigione non può essere ancora completa come dite».

«Be’, in effetti proprio completa non è, ed è questo il motivo per cui sono venuto da voi. So che non credete a queste cose, ma vi assicuro che per far guarire quella gamba debbono aver combinato qualche stregoneria. Secondo Elly è stato il ragazzo stesso. Per qualche giorno ci ha addirittura camminato, senza stecche né nulla. Ma non ha mai smesso di fargli male, e adesso lui dice che nell’osso c’è un punto malato. Gli è anche venuta la febbre».

«Tutto questo può trovare una spiegazione assolutamente naturale» insisté Thrower.

«Be’, sarà anche come dite, ma per come la vedo io il ragazzo, con le sue stregonerie, ha fatto entrare il diavolo dentro di sé, e adesso il diavolo se lo sta mangiando vivo. E visto che siete un ministro consacrato al servizio di Dio, ho pensato che forse potreste scacciare quel diavolo in nome del Signore Gesù».

Tutte quelle superstizioni e quel parlare di stregoneria erano soltanto sciocchezze, beninteso, ma quando Armor aveva parlato della possibilità che il diavolo fosse entrato nel ragazzo la cosa parve a Thrower del tutto credibile e in accordo con quanto aveva saputo dal Messo. Forse il Signore non voleva affatto che egli uccidesse il ragazzo, ma che lo esorcizzasse in modo da purificarlo dal male. Era un’opportunità per redimersi dal cedimento di qualche minuto prima.

«Ci andrò» disse afferrando il pesante mantello e gettandoselo sulle spalle.

«Sarà meglio che vi avverta: nessuno di loro mi ha chiesto d’invitarvi in quella casa».

«Sono preparato ad affrontare l’ira degli infedeli» disse Thrower. «È della vittima delle macchinazioni diaboliche che voglio curarmi, non della sua sciocca e superstiziosa famiglia».

Alvin era disteso a letto, e ardeva di febbre. Adesso ch’era giorno, tenevano le imposte chiuse in modo che la luce non gli ferisse gli occhi. Di notte invece era lui stesso a chiedere che le aprissero in modo da far entrare l’aria fredda e poter respirare più liberamente. Nei pochi giorni in cui era stato in grado di camminare, aveva visto i campi coperti di neve. Adesso cercava d’immaginarsi disteso sotto quella gelida coltre per trovare sollievo dal fuoco che gli bruciava dentro.

Il fatto era che non riusciva a vedere abbastanza in piccolo dentro se stesso. Ciò che aveva fatto con l’osso, con le fibre muscolari e gli strati di. pelle, era stato molto più difficile che cercare le incrinature nella pietra, su alla cava. Eppure alla fine era riuscito a farsi strada a tentoni nel labirinto del suo corpo, a trovare le ferite peggiori, ad aiutarle a chiudersi. La maggior parte di ciò che gli succedeva dentro, però, era troppo piccolo e rapido perché lui riuscisse a comprenderlo. Poteva vedere il risultato, ma non riusciva a scorgere i diversi elementi in gioco, a capirne il funzionamento.

Ecco il perché di quel punto malato nell’osso. Si trattava semplicemente d’un pezzo d’osso che si stava indebolendo, decomponendo. Alvin riusciva a percepire la differenza tra il punto malato e la parte sana e robusta, riusciva a percepire i confini del male. Ma non riusciva a vedere quel che stava succedendo. Non riusciva a impedirlo. Stava morendo.

Non era solo nella stanza, lo sapeva. C’era sempre qualcuno seduto al suo fianco. Apriva gli occhi e vedeva la mamma, o papà, o una delle ragazze. Qualche volta addirittura uno dei suoi fratelli, anche se ciò significava che per venire aveva lasciato moglie e fattoria. Per Alvin era un conforto, ma allo stesso tempo un peso. Non poteva fare a meno di pensare che avrebbe fatto meglio a morire prima possibile, in modo che tutti potessero tornare alla loro vita abituale.

Quel pomeriggio, seduto accanto a lui c’era Measure. Quando era entrato, Alvin l’aveva salutato, ma poi non c’era stato molto di cui parlare. Come va? Sto morendo, grazie, e tu? Un po’ difficile continuare a chiacchierare. Measure gli aveva raccontato che lui e i gemelli avevano cercato di tagliare una mola per il mulino. Nonostante avessero scelto una pietra più morbida di quella su cui aveva lavorato Alvin, non erano riusciti a cavare un ragno dal buco. «Alla fine l’abbiamo piantata lì» aveva detto Measure. «Per avere una mola bisognerà aspettare che ti sia rimesso abbastanza in salute da arrivare fin lassù. Sei l’unico che ce la può procurare».

Alvin non aveva risposto, e da quel momento nessuno dei due aveva più detto una parola. Alvin se ne stava lì disteso a sudare e a sentire il marciume nell’osso che lentamente cresceva e si diffondeva. Suo fratello sedeva accanto al letto, e gli stringeva delicatamente una mano.

Measure cominciò a fischiettare.

Quel suono fece sobbalzare Alvin. Era stato così profondamente immerso dentro se stesso che quella musica gli era parsa venire da una distanza immensa, e ci aveva messo un po’ a capire quale ne fosse l’origine.

«Measure» disse, ma il suono della sua voce non era più forte di un sussurro.

La melodia s’interruppe. «Scusa» disse Measure. «Ti dà noia?»

«No».

Measure riprese a fischiettare. Era una strana melodia, che Alvin non ricordava di avere mai udito prima d’allora. A dire il vero non sembrava neanche una melodia. Non si ripeteva mai, ma continuava ad andare avanti con combinazioni di note sempre nuove, come se Measure la inventasse strada facendo. Mentre Alvin se ne stava lì disteso ad ascoltarla, la melodia assunse l’aspetto di un sentiero che avanzava serpeggiando attraverso regioni selvagge, e lui cominciò a seguirlo. Non che vedesse niente, come sarebbe accaduto nel caso di una vera mappa. Semplicemente sembrava che quella melodia volesse mostrargli il centro delle cose, e tutto ciò che pensava, lo pensava come se si fosse trovato proprio là. Gli parve quasi di poter vedere tutto ciò che aveva pensato fino allora, nel tentativo di trovare il modo di aggiustare quel punto malato nel suo osso, solo che adesso vedeva tutto da una certa distanza, come se si fosse trovato più in alto sul pendio d’un monte, o in una radura aperta, insomma un posto da dove riusciva a vedere di più.

D’un tratto gli venne in mente qualcosa a cui prima d’allora non aveva mai pensato. Quando si era rotto la gamba e la pelle si era squarciata, tutti si erano resi conto che era grave, ma nessuno l’aveva potuto aiutare tranne lui stesso. Aveva dovuto aggiustare tutto quanto dall’interno. Adesso, però, nessun altro poteva vedere la ferita che lo stava uccidendo. E anche se lui poteva vederla, non poteva fare assolutamente nulla per farla guarire.

Perciò forse stavolta avrebbe dovuto farsi aiutare da qualcun altro. Senza nessun genere di arti segrete. Con una normalissima, banale, cruenta operazione chirurgica.

«Measure» mormorò.

«Sono qui».

«Forse ho capito come fare a guarire quella gamba» disse Alvin.

Measure si chinò accostando il viso a quello del fratello. Alvin non aprì gli occhi, ma avvertì il suo respiro sulla guancia.

«Quel punto malato nell’osso sta crescendo, ma il male non si è ancora diffuso» disse Alvin. «Io non posso farci niente, ma penso che se qualcun altro mi tagliasse via quel pezzo d’osso e me lo togliesse dalla gamba, io potrei fare il resto».

«Tagliarlo via?»

«La sega da ossa che usa papà quando taglia la carne, penso che quella andrebbe benissimo».

«Ma se non c’è un chirurgo nel giro di trecento miglia».

«Allora credo che qualcuno farà meglio a imparare, e in fretta, perché altrimenti sono morto».

Measure adesso respirava più in fretta. «Pensi che tagliare l’osso ti salverebbe la vita?»

«È la migliore soluzione che sia riuscito a trovare».

«Potresti rovinarti la gamba per sempre».

«Se muoio, non credo che me ne importerà molto. E se vivo, ne sarà valsa la pena».

«Vado a chiamare papà». Measure spinse indietro la sedia e uscì alla svelta dalla stanza.

Thrower lasciò che Armor lo precedesse sulla veranda dei Miller. Gli sembrava difficile che potessero respingere il genero. Le sue preoccupazioni si rivelarono però infondate. Fu comare Faith ad aprire la porta, non quel pagano di suo marito.

«Ebbene, reverendo Thrower, siete molto gentile a venirci a trovare» disse, ma il tono allegro delle sue parole era smentito dal viso stanco e tirato. Negli ultimi tempi non sembrava che in quella casa si fosse dormito molto bene.

«Sono io che l’ho portato, mamma Faith» disse Armor. «È venuto solo perché gliel’ho chiesto».

«Il pastore della nostra chiesa sarà sempre il benvenuto in casa mia tutte le volte che vorrà farvi sosta» asserì Faith.

Così dicendo, li fece entrare nella sala grande. Alcune ragazze sedute in gruppo davanti al camino a tagliare i riquadri di stoffa per una coperta alzarono lo sguardo su di lui. Il figlio più piccolo, Cally, stava facendo esercizio di scrittura su un’assicella con un carboncino preso dal focolare.

«Sono contento di vederti scrivere» disse Thrower.

Cally si limitò a lanciargli un’occhiata da sotto in su. Nel suo sguardo Thrower lesse una vaga ostilità. Evidentemente al ragazzo non piaceva affatto che il maestro venisse a rivedergli i compiti proprio lì, nella casa che fino a quel momento aveva considerato un rifugio inviolabile.

«Sei bravo» lo elogiò Thrower, cercando di metterlo a suo agio. Calvin non rispose, ma riabbassò lo sguardo sulla lavagna improvvisata e riprese a tracciare faticosamente una lettera dopo l’altra.

Armor giunse subito al punto. «Mamma Faith, siamo venuti per via di Alvin. Voi sapete quali siano le mie idee sulla stregoneria, ma prima d’ora non ho mai detto una sola parola contro quello che voialtri fate in questa casa. Ho sempre pensato che fossero affari vostri, e non miei. Ma quel ragazzo sta pagando l’intero prezzo per quanto di riprovevole avete lasciato accadere qui dentro. Di sicuro ha perpetrato qualche stregoneria sulla propria gamba, e adesso dentro di lui c’è un diavolo che lo uccide lentamente, e io ho portato qui il reverendo Thrower perché lo scacci».

Comare Faith parve sconcertata. «In questa casa non ci sono diavoli».

Ah, povera donna, disse silenziosamente Thrower. Se solo tu sapessi da quanto tempo qui risiede Satana. «È possibile abituarsi alla presenza di un diavolo fino a non rendersene più conto» mormorò.

Una porta di fianco alle scale si aprì, e il signor Miller ne uscì camminando all’indietro. «No» disse rivolto a chiunque si trovasse nella stanza. «Se qualcuno deve tagliare la gamba del ragazzo, non sarò certo io».

Udendo la voce del padre, Cally balzò in piedi e corse da lui. «Papà, Armor ha portato qui il vecchio Thrower per ammazzare il diavolo».

Il signor Miller si voltò col viso contorto in un’espressione difficile da interpretare, e guardò i visitatori come se a stento riuscisse a riconoscerli.

«Questa casa è protetta da potenti talismani» affermò comare Faith.

«Quei talismani non sono che un richiamo per il diavolo» la corresse Armor. «Voi credete che proteggano la vostra casa, ma in realtà ne scacciano il Signore».

«In questa casa non sono mai entrati diavoli» insisté Faith.

«Certo non da soli» disse Armor. «Siete stati voi a chiamarli con le vostre arti magiche. Con la stregoneria e l’idolatria avete costretto lo Spirito Santo ad abbandonare la vostra casa, e una volta scacciato il bene, è naturale che i diavoli facciano il loro ingresso. Non appena scorgono un’occasione per far danno, subito si precipitano».

Thrower cominciò a temere che Armor stesse parlando troppo di cose che in realtà non capiva affatto. Sarebbe stato molto meglio che si fosse limitato a chiedere se Thrower poteva pregare al capezzale di Alvin. Adesso invece Armor delimitava il terreno per uno scontro che non sarebbe mai dovuto avvenire.

E qualsiasi cosa stesse accadendo nella testa del signor Miller, era evidente che quello non era il momento migliore per provocarlo. Miller avanzò lentamente verso Armor. «Stai forse affermando che chi entra a far danno in casa altrui può essere soltanto un servo di Satana?»

«Vi offro la mia testimonianza come quella di colui che ama il Signore Gesù…» cominciò a dire Armor, ma prima che potesse procedere oltre con la sua testimonianza, Miller lo aveva agguantato per la spalla del soprabito e la cintura dei pantaloni, e lo aveva costretto a girarsi verso la porta.

«Sarà meglio che qualcuno apra la porta!» ruggì Miller. «O tra un istante là nel mezzo ci sarà soltanto un buco!»

«Che cosa crederesti di fare, Alvin Miller?» urlò sua moglie.

«Scacciare i diavoli!» esclamò Miller. Nel frattempo Cally aveva spalancato la porta, e Miller, accompagnato il genero fin sulla veranda, lo scaraventò di sotto. Il grido oltraggiato di Armor venne soffocato dalla neve, dopo di che non fu più possibile udire granché perché Miller aveva chiuso e sbarrato la porta.

«Una bella azione davvero» disse comare Faith. «Cacciare fuori tuo genero in questo modo».

«Non ho fatto altro che la volontà del Signore» ribatté Miller. Quindi rivolse lo sguardo sul pastore.

«Armor non stava parlando per me» disse pacatamente Thrower.

«Se osi mettere le mani addosso a un uomo che indossa l’abito talare» intervenne comare Faith, «dormirai in un letto freddo per il resto dei tuoi giorni».

«Lungi da me l’idea di toccarlo» disse Miller. «Ma a mio modo di vedere, se io me ne sto alla larga da lui, anche lui farebbe meglio a starsene alla larga da me».

«Può darsi che voi non crediate al potere della preghiera» disse Thrower.

«Penso che dipenda da chi è colui che prega, e da chi è colui che ascolta» lo rimbeccò Miller.

«Eppure» proseguì Thrower, «vostra moglie crede nella religione di Gesù Cristo, alla quale sono stato chiamato e nella quale sono stato ordinato pastore. È sua e mia convinzione che se io pregassi al capezzale di vostro figlio, ciò potrebbe lenirne le sofferenze e promuoverne la guarigione».

«Se vi esprimete così anche nelle vostre preghiere» disse Miller, «c’è da stupirsi che il Signore riesca a capire quel che dite».

«Anche se non credete che le preghiere possano aiutarlo» proseguì Thrower, «certamente non potranno fargli male, non vi sembra?»

Miller guardò Thrower, quindi sua moglie, infine di nuovo Thrower. Quest’ultimo non dubitava che se Faith non fosse stata presente, anche lui si sarebbe trovato a mangiar neve a fianco di Corazza-di-Dio. Ma Faith era presente, e aveva già pronunciato la minaccia di Lisistrata. Un uomo con quattordici figli non può non provare una certa attrazione per la moglie. «Fate pure» cedette infine Miller, «ma non infastidite il ragazzo troppo a lungo».

Thrower annuì benignamente. «Non ci starò più di qualche ora».

«Minuti!» insisté Miller. Ma Thrower si era già diretto verso la porta di fianco alle scale, e Miller non provò a fermarlo. Se voleva trascorrere qualche ora col ragazzo, erano affari suoi.

Thrower si chiuse la porta alle spalle. Non era certo il caso che quei pagani s’intromettessero.

«Alvin» disse.

Il ragazzo era disteso sotto le coperte, la fronte imperlata di sudore. Aveva gli occhi chiusi. Poco dopo, tuttavia, le sue labbra si schiusero. «Reverendo Thrower» sussurrò.

«Proprio io. Alvin, sono venuto a pregare per te, affinché il Signore liberi il tuo corpo dal diavolo che ti ha fatto ammalare».

Di nuovo una pausa, come se fosse necessario un certo tempo affinché le parole di Thrower raggiungessero Alvin e questi potesse rispondergli. «Non è un diavolo».

«Non si può certo aspettarsi che un bambino come te sia addentro alle cose della religione» replicò Thrower. «Ma è mio dovere avvisarti che la guarigione premia soltanto coloro che hanno fede sufficiente». Dedicò quindi qualche minuto a narrare l’episodio della figlia del centurione e quello della donna che soffriva di perdite di sangue e si era limitata a toccare la veste del Salvatore. «Ricorderai le parole di Gesù. ‘La tua fede ti ha salvata’, le disse. Perciò, Alvin Miller, bisogna che la tua fede sia grande prima che il Signore possa salvarti».

Il ragazzo non rispose. Poiché, nel narrare i due episodi, Thrower non aveva risparmiato la sua notevole eloquenza, provò un certa irritazione all’idea che il ragazzo potesse essersi addormentato. Così allungò la mano e cacciò un dito ossuto sotto l’omero di Alvin.

Il ragazzo si ritrasse di scatto. «Vi ho sentito» bofonchiò.

Non era buon segno che dopo aver udito la parola illuminante del Signore il ragazzo potesse ancora mostrarsi così scontroso. «Be’?» chiese Thrower. «Allora, credi o no?»

«In che cosa?» mormorò il ragazzo.

«Nel Vangelo! Nel Signore che ti guarirebbe, se soltanto tu volessi ammorbidire il tuo cuore!»

«Credo» sussurrò Alvin. «In Dio».

Questo sarebbe dovuto bastargli. Ma Thrower conosceva troppa storia delle religioni per accontentarsi. Professare la propria fede in una divinità non era sufficiente. Di divinità ce n’erano tante, e tutte false tranne una. «In quale Dio credi, Alvin Junior?»

«Dio» ripeté il ragazzo.

«Perfino il miscredente saraceno prega verso la pietra nera della Mecca attribuendole il nome di Dio! Credi o no nel vero Dio, e credi in Lui nella maniera giusta? No, capisco, sei troppo debole e febbricitante per spiegare in che cosa consista la tua fede. Ti aiuterò, giovane Alvin. Ti rivolgerò delle domande, e tu mi risponderai soltanto sì o no, a seconda che tu ci creda o meno».

Alvin giacque immobile, in attesa.

«Alvin Miller, credi tu in un Dio privo di corpo, di parti e di passioni? Nel grande Creatore increato, il cui centro si trova ovunque, ma del quale è impossibile trovare la circonferenza?»

Il ragazzo parve meditare la questione per qualche tempo prima di rispondere. «Mi sembra che non abbia nessun senso» disse.

«Per una mente terrena è logico che non abbia senso» disse Thrower. «Ti ho chiesto soltanto se credi in Colui che siede sul Trono senza Vetta; in un Essere increato così immenso da riempire l’universo eppure così penetrante da risiedere nel tuo cuore».

«Come può sedere su qualcosa che non ha vetta?» chiese il ragazzo. «Come può qualcosa di così immenso trovare posto nel mio cuore?»

Evidentemente il ragazzo era troppo ingenuo e ignorante per afferrare quei raffinati paradossi teologici. Eppure qui non erano in gioco soltanto una vita o un’anima… ma tutte le anime che secondo il Messo quel ragazzo avrebbe condotto alla rovina se non fosse stato convertito alla vera fede. «È proprio questa la Sua bellezza» disse Thrower, lasciando che la voce gli si riempisse d’emozione. «Dio è oltre le nostre facoltà di comprensione; eppure, nel Suo infinito amore, ha acconsentito a salvarci nonostante la nostra ignoranza e la nostra stupidità».

«L’amore non è forse una passione?»

«Se ti trovi in difficoltà di fronte all’idea di Dio» riprese Thrower, «lascia allora che ti rivolga un’altra domanda, che potrebbe essere più appropriata. Credi tu nell’abisso senza fondo dell’inferno, in cui i malvagi si contorcono tra le fiamme senza mai bruciare? Credi tu in Satana, l’eterno nemico di Dio, che cerca di rapirti l’anima e trascinarti prigioniero nel suo regno, per tormentarti per tutta l’eternità?»

Il ragazzo parve rianimarsi un poco, e volse la testa verso Thrower, anche se aveva ancora gli occhi chiusi. «In qualcosa del genere potrei anche crederci» disse.

Ecco, pensò Thrower, allora è vero. Il ragazzo, del diavolo ne sa veramente qualcosa. «L’hai mai visto, figliolo?»

«Com’è fatto il vostro diavolo?» sussurrò Alvin.

«Non è il mio diavolo» disse Thrower. «E se tu avessi ascoltato le mie prediche, lo sapresti, perché l’ho descritto più di una volta. Mentre gli uomini sulla testa hanno i capelli, il diavolo ha corna di toro. Al posto delle mani, il diavolo ha enormi zampe di orso. Al posto dei piedi ha zoccoli fessi di caprone, e la sua voce è il ruggito di un leone affamato».

Con grande meraviglia di Thrower, le labbra del ragazzo s’incurvarono e il suo petto venne scosso da un riso silenzioso. «E saremmo noi i superstiziosi» mormorò.

Se non avesse visto il ragazzo ridere di gusto alla mostruosa descrizione di Lucifero, Thrower non avrebbe mai creduto che il diavolo potesse esercitare una simile presa sull’anima di un fanciullo. Quelle risa dovevano cessare! Erano un’offesa a Dio!

Thrower sbatté la Bibbia sul petto del ragazzo, mozzandogli per un attimo il respiro. Quindi, con la mano premuta sul libro, Thrower si sentì colmare da parole ispirate, e con maggior passione di quanta ne avesse mai provata in vita sua esclamò: «Satana, in nome del Signore io ti scaccio! Ti ordino di uscire da questo fanciullo, da questa stanza, da questa casa, per sempre! Non osare mai più d’impossessarti di un’anima tra queste mura, o la potenza divina si scatenerà devastante e implacabile fin negli ultimi recessi dell’inferno!».

Poi scese il silenzio. Eccetto per il respiro del ragazzo, che sembrava affannoso. Nella stanza vi era una tale pace, nel cuore di Thrower una tale esausta rettitudine, che il pastore fu certo che il diavolo avesse dato ascolto alla sua perorazione e fosse immediatamente fuggito.

«Reverendo Thrower» mormorò Alvin.

«Sì, figliolo?»

«Adesso potreste togliermi la Bibbia dal petto? Se lì dentro c’erano dei diavoli, penso proprio che se ne siano andati».

Poi il ragazzo cominciò a ridere, facendo sobbalzare il volume sotto la mano di Thrower.

In quel momento l’esultanza di Thrower si mutò in amara delusione. Il fatto stesso che il ragazzo potesse abbandonarsi a quella diabolica risata con la Bibbia ancora posata sul suo corpo, era prova sicura che niente e nessuno avrebbe potuto purificarlo dal male. Il Messo aveva ragione. Thrower non avrebbe mai dovuto rifiutare la nobile impresa che era stato chiamato a compiere. Gli era stata offerta l’occasione di uccidere la Bestia dell’Apocalisse, ed era stato troppo debole, troppo sentimentale, per accettare il richiamo divino. Avrei potuto essere un Samuele, capace di fare a pezzi il nemico di Dio. Invece sono un Saul, un pavido, che non riesce a uccidere chi per volontà del Signore deve morire. Adesso dovrò vedere questo ragazzo elevarsi grazie al potere di Satana, e saprò ch’egli prospera solo a causa della mia debolezza.

Il caldo nella stanza era soffocante. Solo allora Thrower si accorse di avere gli abiti inzuppati di sudore. Non riusciva a respirare. Ma che avrebbe dovuto aspettarsi? In quella stanza spirava il fiato rovente dell’inferno. Rantolando, prese la Bibbia, la sollevò come uno scudo tra sé e il fanciullo satanico che giaceva ridacchiando febbrilmente sotto la coperta, e fuggì.

Nella sala grande si fermò, respirando affannosamente. Aveva interrotto una conversazione, ma non se ne curò. Cosa contava la conversazione di quella gente ignorante in confronto all’esperienza appena vissuta? Sono stato al cospetto del beniamino di Satana in sembianza di fanciullo; ma il modo in cui mi ha schernito lo ha smascherato. Avrei dovuto capirlo anni or sono, quando gli ho toccato la testa e ne ho rilevato il perfetto equilibrio. Solo un falso può essere così perfetto. Quel ragazzo non è mai stato reale. Ah, se avessi la forza dei grandi profeti di un tempo, così da poter confondere il mio nemico e riportarne le spoglie al cospetto del Signore degli Eserciti!

Qualcuno lo stava tirando per la manica. «Tutto bene, reverendo?». Era comare Faith, ma il reverendo Thrower non sapeva come risponderle. Nel tirarlo, tuttavia, Faith lo costrinse a fare un mezzo giro su se stesso, così che Thrower si trovò a guardare il camino. Là, sulla mensola, vide un’immagine incisa a fuoco su una tavoletta di legno e, sconvolto com’era, sulle prime non riuscì a capire di che cosa si trattasse. Sembrava il viso di un’anima dannata circondata da un groviglio di tentacoli. Fiamme, ecco che cosa sono, pensò, e quella è un’anima che annega nello zolfo ardente, che brucia tra le fiamme dell’inferno. Quell’immagine lo angosciava e al tempo stesso lo gratificava, perché la sua presenza in quella casa era un chiaro segno degli stretti legami intercorrenti fra la famiglia Miller e le potenze infernali. Thrower si trovava in mezzo ai suoi più acerrimi nemici. Gli tornò in mente una frase del salmista: «I tori di Bashan mi fissano, e io riesco a scorgere le mie ossa una per una». Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?

«Su, su» lo esortò comare Faith. «Mettetevi a sedere».

«Come sta il ragazzo?» chiese Miller.

«Il ragazzo?» chiese Thrower. Quasi non riusciva a spiccicar parola. Quel ragazzo è un demonio di Sheol, e voi mi chiedete come sta? «Come c’era da aspettarsi» si limitò a mormorare.

Gli altri si voltarono per riprendere la conversazione. Gradualmente Thrower si rese conto di che cosa stessero parlando. A quanto pareva, Alvin avrebbe voluto che qualcuno gli segasse via la parte malata dell’osso. Measure era perfino andato nel capanno dove si macellavano le bestie a prendere una sega da ossa a denti fini. La discussione era tra Measure e Faith — che non aveva la minima intenzione di far operare suo figlio da chicchessia — e tra Miller e gli altri due, perché Miller si rifiutava di farlo, e Faith era disposta a dare il proprio consenso solo se a tagliare fosse stato lui.

«Se pensi che si debba fare» disse Faith, «allora non vedo come tu possa permettere che a operarlo sia uno sconosciuto, un estraneo».

«Non ci penso nemmeno» ribatté Miller.

Thrower capì all’improvviso che l’uomo aveva paura. Paura di affondare un coltello nelle carni del figlio.

«È lui che vuole te, papà. Ha detto che segnerà sulla gamba i punti dove bisogna tagliare. Non devi far altro che tagliare un lembo di pelle e sollevarlo; subito sotto la pelle c’è l’osso, e per eliminare la parte malata basterà segarne via appena uno spicchio».

«Non sono tipo da svenimenti» disse Faith, «ma confesso che mi gira un po’ la testa»…

«Se Al Junior dice che bisogna farlo, allora fatelo!» esclamò Miller. «Ma non posso farlo io!»

Poi, come un raggio accecante di luce in una stanza buia, il reverendo Thrower scorse la propria redenzione. Evidentemente il Signore gli stava offrendo proprio l’opportunità profetizzata dal Messo. L’occasione di avere un coltello in mano, di affondarlo nelle carni del ragazzo, e accidentalmente recidere l’arteria così da farlo morire dissanguato. Ciò che aveva ricusato di fare in chiesa pensando ad Alvin come a un ragazzo qualsiasi, adesso che aveva visto il Male celato sotto le sembianze d’un fanciullo l’avrebbe fatto col cuore colmo di letizia.

«Ci sono io» disse.

Tutti lo guardarono.

«Non sono un chirurgo» continuò, «ma ho qualche conoscenza di anatomia, e so qualcosa di scienza».

«Un esperto di bernoccoli» commentò Miller.

«Avete mai macellato un vitello o un maiale?» chiese Measure.

«Measure!» si scandalizzò sua madre. «Tuo fratello non è un animale».

«Voglio soltanto esser sicuro che alla vista del sangue non si metta a vomitare».

«Conosco il sangue» rispose Thrower. «E quando si tratta di salvare una vita, non posso permettermi di avere paura».

«Oh, reverendo Thrower, vi stiamo chiedendo troppo» mormorò comare Faith.

«Adesso vedo che forse è stata proprio un’ispirazione divina a condurmi qui, dopo essere stato tanto a lungo lontano da questa casa».

«A condurvi qui è stato solo quello scriteriato di mio genero» bofonchiò Miller.

«Be’» disse Thrower, «è stato solo un pensiero che mi ha attraversato la mente. Vedo bene che non volete affidarmi questo compito, e non posso darvi torto. Anche se significa salvare la vita di un figlio, è pur sempre rischioso permettere a un estraneo di affondare una lama nelle carni di un consanguineo».

«Ma voi non siete un estraneo» insisté Faith.

«E se qualcosa andasse storto? Il coltello potrebbe sfuggirmi di mano. Oppure la ferita potrebbe aver cambiato la disposizione dei vasi sanguigni. Potrei recidere un’arteria, e in pochi istanti il ragazzo morirebbe dissanguato. E io avrei sulle mani il sangue di vostro figlio».

«Reverendo Thrower» disse Faith, «non potremmo mai incolparvi d’un imprevisto. Non possiamo far altro che tentare».

«Se non tentiamo qualcosa morirà, questo è certo» intervenne Measure. «Alvin dice che dobbiamo tagliare subito, prima che il male si diffonda».

«Potrebbe farlo uno dei vostri figli più grandi» propose Thrower.

«Non c’è tempo di andarli a chiamare!» esclamò Faith. «Oh, Alvin, è proprio a lui che hai deciso di dare il tuo nome. Sei forse deciso a lasciarlo morire solo perché non vai d’accordo col pastore?»

Miller scosse miseramente la testa. «Fatelo, allora».

«Il pastore preferirebbe che lo facessi tu, papà» disse Measure.

«No!» esclamò Miller con veemenza. «Chiunque altro, ma non io. Prima che lo faccia io, è meglio che lo faccia lui».

Nell’espressione di Measure, Thrower scorse la delusione, se non addirittura il disprezzo. Il pastore si alzò e si avvicinò a Measure, che sedeva stringendo in mano il coltello e la sega da ossa. «Giovanotto» disse, «non affrettarti a tacciare gli altri di vigliaccheria, giacché non puoi sapere quali motivi si celino nel loro cuore».

Voltandosi verso Miller, Thrower colse sul viso dell’uomo un’espressione di sorpresa e gratitudine. «Dagli il coltello e la sega» ordinò Miller.

Measure gli porse gli strumenti. Thrower tirò fuori un fazzoletto perché Measure ve li collocasse sopra.

Era stato tutto così facile. In pochi istanti aveva fatto in modo che tutti lo implorassero di prendere il coltello, assolvendolo in anticipo di qualsiasi possibile incidente. Si era perfino guadagnato un primo barlume d’amicizia da parte di Alvin Miller. Ah, sono riuscito a ingannarvi tutti quanti, pensò trionfante. Sono un degno avversario di Satana, vostro padrone. Ho ingannato il grande ingannatore, e nel giro di un’ora avrò rispedito all’inferno la sua corrotta progenie.

«Chi reggerà il ragazzo?» chiese Thrower. «Anche sotto l’effetto del vino, il dolore lo indurrà a contorcersi, se nessuno lo regge».

«Lo farò io» disse Measure.

«Il vino non lo vuole» spiegò Faith. «Dice che deve restare lucido».

«Ha solo dieci anni» disse Thrower. «Se insistete perché lo beva, dovrà obbedirvi per forza».

Faith scosse la testa. «Meglio lasciarlo fare. Sopporta il dolore meglio di un adulto. Una cosa da non credersi».

Ci credo eccome, disse Thrower dentro di sé. Il demonio che è in lui sicuramente gode della sofferenza e non vuole che l’alcol ne diminuisca l’estasi. «Benissimo allora. Non c’è motivo d’indugiare oltre». Precedette gli altri in camera da letto, e senza esitare sollevò la coperta che copriva il corpo di Alvin. Il ragazzo cominciò immediatamente a tremare per il freddo improvviso, pur continuando a sudare per la febbre. «Dite che ha segnato il punto dove debbo tagliare?»

«Al» disse Measure. «Sarà il reverendo Thrower a operarti».

«Papà» disse Alvin.

«Gliel’abbiamo chiesto, ma non è servito a niente» disse Measure. «Non vuole e basta».

«Sei sicuro di non volere un po’ di vino?» chiese Faith.

Alvin si mise a piangere. «No. Basta che papà sia qui a tenermi».

«D’accordo» si arrese Faith. «Passi che non sia lui a tagliare, ma adesso dovrà scegliere se stare col ragazzo o finire su per il camino». E uscì come una furia dalla stanza.

«Avete detto che sarebbe stato il ragazzo a segnare il punto» ripeté Thrower.

«Vieni, Al, adesso ti tiro su. Ti ho portato un pezzo di carbone. Adesso tu segna sulla gamba il punto esatto dove dobbiamo tagliare».

Alvin gemette mentre Measure lo metteva a sedere, ma fu con mano ferma che tracciò un grande rettangolo un po’ sopra la caviglia. «Tagliate partendo dal basso, lasciando attaccata la parte di sopra» disse con voce lenta e impastata, ogni parola uno sforzo evidente. «Measure, mentre lui taglia, tu solleva la pelle».

«Questo dovrà farlo la mamma» disse Measure. «Io debbo reggerti in modo che tu non faccia movimenti improvvisi».

«Non ne farò» disse Alvin. «Purché a reggermi sia papà».

Miller entrò lentamente nella stanza, immediatamente seguito dalla moglie. «Sì, ti reggerò io» disse. Preso il posto di Measure, si mise a sedere dietro il ragazzo in modo da stringerlo tra le braccia. «Ti reggerò io» ripeté.

«Benissimo, allora» disse Thrower. E rimase lì in piedi, in attesa del passo successivo.

L’attesa si prolungò.

«Non avete dimenticato qualcosa, reverendo?» chiese Measure.

«Che cosa?»

«Il coltello e la sega».

Thrower guardò il fazzoletto ripiegato che teneva nella sinistra. Vuoto. «Che strano, li avevo proprio qui».

«Li avete appoggiati sulla tavola prima d’entrare» disse Measure.

«Vado a prenderli» intervenne comare Faith, affrettandosi fuori della stanza.

Gli altri l’attesero a lungo. Finalmente Measure si alzò. «Non capisco che cosa la trattenga».

Thrower lo seguì fuori della porta. Trovarono comare Faith nella sala grande, che, seduta insieme alle figlie, cuciva i riquadri di stoffa di una coperta.

«Mamma» disse Measure. «Non eri venuta a prendere la sega e il coltello?»

«Santo cielo» esclamò Faith. «Non capisco che mi sia preso. Mi ero completamente scordata perché fossi venuta qui». Presi la sega e il coltello, rientrò a passo deciso nella stanza di Alvin; Measure guardò Thrower, quindi la seguì con un’alzata di spalle. Ora, pensò Thrower. Ora farò tutto ciò che il Signore mi ha chiesto di fare. Il Messo testimonierà che sono un servo fedele del Salvatore, e questo mi assicurerà un posto in paradiso. Non come questo povero, miserabile peccatore, avvolto dalle fiamme dell’inferno.

«Reverendo» lo riscosse Measure, «che cosa state facendo?»

«Questo disegno» disse Thrower.

«Ebbene?»

Thrower guardò da vicino il disegno sulla mensola del camino. Non rappresentava affatto un’anima dannata, bensì il primogenito dei Miller, Vigor, travolto dalle acque del fiume. Aveva udito quella storia almeno una dozzina di volte. Ma perché se ne stava lì a guardarlo quando nell’altra stanza lo attendeva una grande, terribile missione?

«Siete sicuro di star bene?»

«Sto benissimo» mormorò. «Avevo solo bisogno di un attimo di raccoglimento e di preghiera prima di affrontare il compito che mi attende».

Quindi rientrò senza esitare nella stanza e prese posto a sedere sulla sedia accanto al letto nel quale giaceva tremante la progenie di Satana, in attesa del coltello. Si guardò intorno in cerca degli strumenti della sua santa missione. Ma non riuscì a vederli. «Dov’è il coltello?» chiese.

Faith guardò Measure. «Non li avevi presi tu?»

«Sei tu che li hai portati dentro» replicò Measure.

«Ma quando sei tornato fuori a chiamare il pastore, li hai ripresi» insisté lei.

«Davvero?». Measure parve confuso. «Debbo averli posati là fuori». Si alzò e uscì dalla stanza.

Thrower cominciò a rendersi conto che stava accadendo qualcosa di strano, anche se non riusciva a capire esattamente che cosa. Si alzò e si affacciò sulla soglia in attesa del ritorno di Measure.

Fuori della porta c’era Cally, con la lavagna in mano. «Volete ammazzare mio fratello?» chiese alzando lo sguardo sul pastore.

«Una cosa del genere non devi nemmeno pensarla» rispose Thrower.

Measure gli porse gli strumenti con aria imbarazzata. «Non so come, li avevo messi sulla mensola del camino». Poi il giovane scostò Thrower e rientrò nella stanza.

Un istante dopo il pastore lo seguì e riprese il proprio posto di fronte alla gamba scoperta, col rettangolo disegnato in nero.

«Be’, dove li avete messi?» chiese Faith.

Thrower si rese conto di non avere più né la sega né il coltello. Era totalmente confuso. Measure glieli aveva dati proprio fuori della soglia. Come aveva fatto a perderli?

Cally era ritto sulla soglia. «Perché mi avete dato questa roba?» chiese. In mano aveva gli attrezzi scomparsi.

«Domanda intelligente» disse Measure, osservando il pastore con la fronte aggrottata. «Perché glieli avete dati?»

«Non sono stato io a darglieli» scattò Thrower. «Devi essere stato tu».

«Ma se ve li ho messi in mano» replicò Measure.

«È stato il pastore a darmeli» disse Cally.

«Va bene, ma adesso portali qui» intervenne sua madre.

Obbediente, Cally fece il suo ingresso nella stanza, brandendo sega e coltello come trofei di guerra. Come l’avanguardia di un grande esercito all’attacco. Sì, un grande esercito, come quello degli israeliti condotto da Giosuè alla conquista della Terra Promessa. Era così che reggevano le armi, alte sopra la testa, mentre marciavano attorno alle mura di Gerico. E continuarono a marciare per sette giorni. E il settimo giorno si fermarono e diedero fiato alle trombe e lanciarono un immenso grido, e le mura vennero giù, e loro tennero le spade e i coltelli alti sopra la testa e si avventarono sulla città, facendo a pezzi uomini donne fanciulli, tutti nemici di Dio, così che la Terra Promessa fosse purificata dalla loro immonda presenza, pronta ad accogliere il popolo del Signore. Al termine della giornata erano tutti coperti di sangue, e Giosuè era ritto in mezzo a loro, grande profeta di Dio, con una spada insanguinata sopra la testa, e urlava. Che cosa urlava?

Non riesco a ricordare che cosa urlasse. Se solo riuscissi a ricordare che cosa urlava, capirei perché me ne sto qui in mezzo alla strada fiancheggiata dagli alberi carichi di neve.

Il reverendo Thrower si guardò le mani, poi guardò gli alberi. Senza rendersene conto, s’era allontanato dalla casa di un buon mezzo miglio. Non aveva indosso nemmeno il suo pesante mantello.

Poi la verità gli balzò agli occhi. Non era affatto riuscito a ingannare il diavolo. In un batter d’occhio Satana lo aveva trasportato fin lì per impedirgli di uccidere la Bestia. Aveva mancato la sua unica opportunità di raggiungere la grandezza. Si appoggiò a un tronco freddo e nero e pianse amaramente.

Cally entrò nella stanza reggendo coltello e sega alti sopra la testa. Measure si stava preparando a stringere la gamba con tutte le sue forze, quando a un tratto il vecchio Thrower si alzò e uscì dalla stanza con la stessa premura di uno a cui scappi improvvisamente un bisogno.

«Reverendo Thrower!» esclamò la mamma. «Dove andate?»

Ma Measure aveva capito. «Lascialo andare, mamma» disse.

Udirono la porta di casa aprirsi e i passi pesanti del pastore sulle assi della veranda.

«Cally, va’ a chiudere la porta d’ingresso» disse Measure.

Per una volta, Cally obbedì senza piantar grane. La mamma guardò Measure, poi papà, poi di nuovo Measure. «Non capisco proprio perché se ne sia andato in questo modo» mormorò.

Measure le rivolse un mezzo sorrisetto, quindi guardò papà. «Tu lo sai, vero papà?»

«Forse» disse Miller.

E allora Measure lo spiegò anche a sua madre. «Quelle lame e quel pastore non possono stare in questa stanza con Al Junior».

«E perché mai? Era lui che doveva operarlo!»

«Be’, adesso puoi star sicura che non lo farà» disse Measure.

La sega e il coltello riposavano sulla coperta.

«Papà» disse Measure.

«No».

«Mamma».

«Non posso» disse Faith.

«Be’» concluse Measure, «allora penso proprio di essermi appena laureato chirurgo». Guardò Alvin.

Il viso del ragazzo era soffuso d’un pallore mortale, ancor più impressionante del rossore della febbre. Ma riuscì ad abbozzare una specie di sorriso, e sussurrò: «Penso anch’io».

«Mamma, quel lembo di pelle dovrai reggerlo tu».

Faith annuì.

Measure prese il coltello e ne posò la lama sulla linea di base del rettangolo.

«Measure» sussurrò Al Junior.

«Sì, Alvin?» chiese Measure.

«Per sopportare il dolore e restare immobile, ho bisogno che tu ti metta a fischiare».

«E come faccio a restare intonato se intanto debbo tagliare?»

«Non importa se stoni».

Measure lo guardò negli occhi e capì di non avere altra scelta se non fare ciò che gli era stato chiesto. In fin dei conti la gamba era di Alvin, e se voleva un chirurgo fischiettante erano affari suoi. Trasse un respiro profondo e cominciò a fischiettare, ma senza seguire una melodia precisa, solo una serie di note. Posò di nuovo il coltello sulla linea nera e cominciò a tagliare. All’inizio con delicatezza, perché aveva sentito Al inspirare bruscamente.

«Continua a fischiare» sussurrò Alvin. «Fino all’osso».

Measure riprese a fischiettare, e stavolta tagliò in fretta e a fondo. Fino all’osso al centro della linea. Una profonda incisione sui due lati. Poi inserì il coltello sotto gli angoli per sollevare la pelle e il muscolo. All’inizio il sangue uscì copiosamente, ma ben presto l’emorragia si arrestò. Measure immaginò che per fermare il sangue in quel modo Alvin avesse fatto qualcosa dentro di sé.

«Faith» disse papà.

La mamma allungò il braccio, prese il lembo sanguinante di pelle e lo sollevò. Al protese una mano tremante e disegnò un triangolo sull’osso striato di rosso della sua stessa gamba. Measure depose il coltello e prese la sega. Nel tagliare, la lama produceva un rumore sgradevole e stridente. Ma Measure continuò a fischiettare e a segare, a segare e a fischiettare. E ben presto si ritrovò in mano un cuneo d’osso. Apparentemente non aveva niente di speciale.

«Sei sicuro che fosse il punto giusto?» chiese.

Alvin annuì lentamente.

«L’ho tolto tutto?»

Al sedette immobile per qualche istante, poi annuì di nuovo.

«Vuoi che la mamma ti ricucia la ferita?» chiese ancora Measure.

Alvin non rispose.

«È svenuto» disse papà.

Il sangue ricominciò a scorrere, ma appena appena, filtrando lentamente nella ferita. La mamma aveva ago e filo infilati nel puntaspilli che portava appeso al collo. Un attimo dopo aveva rimesso a posto il lembo di pelle e lo stava ricucendo con punti fitti e precisi.

«Tu continua a fischiare, Measure» disse.

Così Measure continuò a fischiettare mentre lei continuava a cucire, finché la ferita non fu chiusa e bendata. Alvin, nuovamente disteso sul letto, dormiva come un neonato. Tutti e tre si alzarono per andare via. Papà posò delicatamente una mano sulla fronte del ragazzo.

«Mi sembra che non abbia più la febbre» disse.

Mentre uscivano pian piano dalla stanza, la melodia di Measure si fece decisamente allegra.

XIV

LA PUNIZIONE

Non appena Elly lo vide, si mostrò affettuosa come non mai, spazzolandogli la neve dagli abiti e aiutandolo a togliersi il mantello, senza nemmeno accennare una domanda a proposito di ciò che era accaduto.

Ma quella sua gentilezza non faceva nessuna differenza. Prima o poi uno dei fratelli le avrebbe raccontato com’era andata, e Armor avrebbe perso la faccia di fronte a sua moglie. Ben presto la storia sarebbe corsa di bocca in bocca nell’intera vallata del Wobbish. Corazza-di-Dio Weaver, fornitore dei territori occidentali, futuro governatore, sbattuto fuori di casa nella neve dal vecchio suocero. Tutti gli avrebbero riso dietro le spalle. Ne avrebbero dette di cotte e di crude. Mai in faccia, si capisce, poiché in pratica non c’era nessuno tra il lago Canada e il fiume Noisy che non gli dovesse del denaro o non avesse bisogno delle sue mappe per comprovare qualche diritto di proprietà. Ma il giorno in cui nel territorio del Wobbish si sarebbero svolte delle elezioni, avrebbero raccontato quella storia intorno a ogni seggio. L’uomo del quale sì ride può ispirare simpatia, ma non rispetto, e nessuno avrebbe votato per lui.

Armor si trovava ad affrontare il crollo di tutti i suoi progetti, e la moglie aveva un po’ troppo dei Miller perché lui riuscisse a sopportarlo. Certo, per quelle regioni di frontiera era carina, ma in quel momento non gliene importava. Le dolci notti e gli affettuosi risvegli non avevano più importanza. Né l’aveva che lei avesse sempre lavorato al suo fianco. In quel momento gl’importava soltanto della vergogna e della rabbia che provava.

«Lascia perdere».

«Devi pur toglierti quella camicia bagnata. Com’è possibile che la neve ti sia finita anche lì dentro?»

«Ho detto di togliermi le mani di dosso!»

Eleanor fece un passo indietro, interdetta. «Stavo solo…».

«Lo so che cosa ‘stavi solo’. Povero piccolo Armor, basta fargli una carezza sulla testa, come a un bambino, e lui starà subito meglio».

«Potresti ammalarti…».

«Va’ a dirlo a tuo padre! Se mi prendo una polmonite, glielo spiegherai tu che cosa significa buttare un uomo nella neve!»

«Oh, no!» esclamò Eleanor. «Non posso credere che papà…».

«Hai visto? Nemmeno mi credi!»

«Sì che ti credo, solo che papà non mi sembra tipo…».

«Nossignora, è proprio come il diavolo in persona, ecco com’è! Ecco che cosa si aggira in casa vostra! Lo Spirito del Male! E quando qualcuno cerca di portare in quella casa la parola di Dio, lo buttano fuori nella neve!»

«Che cosa stavi facendo lassù?»

«Stavo cercando di salvare la vita a tuo fratello. A quest’ora sarà sicuramente morto».

«E come pensavi di salvarlo, tu

Forse non era intenzione di Eleanor parlare in tono così sprezzante. Ma non importava. Armor capiva fin troppo bene che cosa aveva voluto dire. Che siccome lui non possedeva alcun potere occulto, non era in grado di aiutare chicchessia. Dopo anni e anni di matrimonio, Eleanor prestava ancora fede alla stregoneria, proprio come i suoi familiari. Armor si era illuso di averla cambiata, ma non c’era affatto riuscito. «Sei proprio come loro» scattò. «Il male è talmente radicato in te che non riesco a scacciarlo con le preghiere, non riesco a scacciarlo con le prediche, non riesco a scacciarlo con l’amore, e nemmeno riesco a scacciarlo con le urla!». Dicendo ‘preghiere’, l’aveva scossa un po’, come a sottolineare le proprie parole. Dicendo ‘prediche’ l’aveva scossa un po’ più forte, facendola incespicare all’indietro. Dicendo ‘amore’ l’aveva agguantata per le spalle e le aveva dato un tale scrollone da scioglierle la crocchia e farle svolazzare i capelli. Dicendo ‘urla’ le aveva dato un tale spintone da farla cadere sul pavimento.

Non appena la vide cadere, prima ancora che lei toccasse terra, Armor si sentì invadere da una vergogna ancora più bruciante di quando il suocero l’aveva scaraventato nella neve. Un uomo più forte di me mi fa sentire debole, allora torno a casa e strapazzo mia moglie: proprio un grand’uomo, mi sto dimostrando. Eccomi qui, un cristiano che non ha mai torto un capello a nessuno, uomo o donna che fosse, e adesso sbatto per terra mia moglie, carne della mia carne.

Questo pensò, e stava per gettarsi in ginocchio sul pavimento per mettersi a frignare come un bambino e implorare il suo perdono. E l’avrebbe fatto, sicuro, solo che quando lei gli vide quell’espressione sul viso contorto di rabbia e di vergogna, non capì ch’era adirato con se stesso, capì soltanto che le stava facendo del male, e di conseguenza fece la cosa che veniva più naturale a una donna cresciuta come lei. Mosse le dita in un gesto di difesa, e sussurrò una parola per tenerlo a distanza.

Armor non riuscì a gettarsi in ginocchio davanti a lei. Né riuscì a fare un solo passo nella sua direzione. Non riuscì nemmeno a pensare di fare un passo nella sua direzione. L’incantesimo difensivo era così potente che Armor barcollò all’indietro, si precipitò alla porta, la spalancò e, in maniche di camicia com’era, uscì correndo di casa. Tutto quello che più temeva al mondo, oggi si era realizzato. Il suo futuro in politica era probabilmente segnato, ma questo era niente in confronto al resto: sua moglie praticava le arti magiche in casa sua, e lo faceva contro di lui, e lui non aveva modo di difendersi. Sua moglie era una strega. Una strega. E la sua casa era contaminata.

Faceva freddo. Armor non aveva addosso niente di pesante, nemmeno il panciotto. La camicia, già bagnata, gli aderiva alla pelle facendolo gelare fino alle ossa. Doveva trovare riparo, ma non avrebbe mai sopportato di bussare alla porta di qualcuno. C’era solo un posto dove andare. In cima alla collina, alla chiesa. Thrower vi teneva una riserva di legna, e lui avrebbe potuto accendere la stufa per scaldarsi. E in chiesa avrebbe potuto pregare, per cercare di capire perché il Signore non lo avesse aiutato. Non ti ho forse servito fedelmente, o Signore?

Il reverendo Thrower aprì la porta della chiesa e ne varcò cautamente la soglia, attanagliato dalla paura. Ora che sapeva di aver fallito, non riusciva a sopportare l’idea di affrontare il Messo. Perché il fallimento era stato soltanto suo, ora se ne rendeva conto. Come, altrimenti, Satana aveva potuto avere il sopravvento su di lui, scacciandolo da quella casa? Un ministro del culto, che agisce come emissario del Signore seguendo le istruzioni di un angelo… com’era possibile che Satana avesse potuto allontanarlo da quella casa prima ancora ch’egli si rendesse conto di ciò che stava accadendo?

Si tolse il soprabito. In chiesa faceva caldo. La legna nella stufa doveva essere durata più a lungo del solito. Oppure quello che avvertiva era il bruciore della vergogna.

Satana non poteva essere più forte del Signore. L’unica spiegazione possibile era che Thrower si fosse dimostrato troppo debole. Era stata la sua fede a vacillare.

S’inginocchiò di fronte all’altare e implorò ad alta voce il Signore. «Perdona la mia poca fede!» esclamò. «Il coltello era nella mia mano, ma Satana si è levato contro di me, e ho smarrito la mia forza!» Recitò una litania di autoflagellazione, passando in rassegna tutte le mancanze della giornata, fino a scoprirsi svuotato d’ogni energia.

Solo allora, con gli occhi brucianti di pianto, la voce fioca e arrochita, si rese conto del momento in cui la sua fede aveva vacillato. Era stato in camera di Alvin, quando aveva chiesto al ragazzo di pronunziare un atto di fede, e il ragazzo si era beffato del mistero della divinità. «Come fa a stare seduto su qualcosa che non ha vetta?». Sebbene Thrower avesse respinto quella domanda come frutto d’ignoranza e malvagità, essa gli aveva trapassato il cuore, penetrando nel nucleo stesso della sua fede. Le certezze che lo avevano sostenuto per la maggior parte della sua esistenza erano state improvvisamente mandate in frantumi dalle domande di un ragazzetto ignorante. «Mi ha carpito la fede» gemette Thrower. «Sono entrato nella sua stanza da uomo di Dio, e ne sono uscito colmo di dubbi».

«Davvero?» chiese una voce alle sue spalle. Una voce che Thrower conosceva bene.

Una voce che in quel luogo, in quel momento, il pastore temeva e bramava allo stesso tempo. Oh, perdonami, confortami, Messo, amico mio! Ma non mancare al tempo stesso di punirmi con l’ira terribile d’un Dio vendicatore!

«Punirti?» chiese il Messo. «E come potrei punire un simile glorioso esemplare di umanità?»

«Non sono affatto glorioso» balbettò Thrower.

«Se è per questo, a malapena ti si può dire umano» disse il Messo. «A immagine di Chi sei stato creato? Ti avevo inviato in quella casa a portare la mia parola, e quelli hanno quasi convertito te. Come posso definirti adesso? Eretico? O semplicemente scettico?»

«Cristiano!» gridò Thrower. «Perdonami, e chiamami di nuovo cristiano!»

«Il coltello era nella tua mano, e tu l’hai deposto».

«Non volevo!»

«Debole, debole, debole, debole…». Ogni volta che il Messo ripeteva la parola, la modulava più a lungo, finché ogni ripetizione divenne una sorta di cantilena. E, sempre cantilenando, il Messo cominciò a fare il giro della chiesa. Pur non correndo, camminava in fretta, molto più in fretta di quanto potesse fare un uomo. «Debole, debole…». Si muoveva così in fretta che Thrower doveva ruotare in continuazione su se stesso solo per seguirlo con lo sguardo. Il Messo ora non camminava più sul pavimento, ma scivolava lungo i muri, coi movimenti fluidi e rapidissimi di uno scarafaggio, poi accelerò ancora, finché non fu che una macchia indistinta e Thrower non riuscì a stargli dietro nemmeno girando come una trottola. Allora il pastore si accasciò sull’altare, rivolto alle panche vuote, guardando il Messo sfrecciargli davanti un giro dopo l’altro.

Gradualmente si accorse che il Messo aveva cambiato forma, che adesso aveva assunto la sagoma allungata di un animale, una lucertola, un alligatore dalle squame colorate e scintillanti, che si allungava sempre più, finché il suo corpo fu talmente lungo da fare l’intero giro della sala, un verme immenso che si stringeva la coda tra le zanne.

E in cuor suo Thrower capì di essere minuscolo e insignificante in confronto a quell’essere glorioso che scintillava di mille colori diversi, che risplendeva di fuoco interiore, che respirava l’oscurità per esalare luce. Io Ti adoro! gridò dentro di sé. Tu sei tutto ciò che desidero! Baciami col Tuo amore, affinché io possa gustare la Tua gloria!

All’improvviso il Messo si arrestò, e le immense fauci si avvicinarono a lui. Non per divorarlo, perché Thrower sapeva di esserne indegno. Il pastore scorgeva adesso la terribile condizione dell’uomo: capì di trovarsi sospeso sull’abisso infernale come un ragno aggrappato a un filo sottilissimo, e l’unico motivo per cui Dio non lo faceva cadere era perché non lo riteneva degno nemmeno della distruzione. Dio non lo odiava, ma lo disprezzava per la sua viltà.

Thrower guardò il Messo negli occhi e perse ogni speranza. Perché non vi scorse né amore né perdono né ira né disprezzo. Quegli occhi erano completamente vuoti. Le squame rifrangevano il bagliore accecante d’un fuoco interiore. Ma, negli occhi, non v’era traccia di quel fuoco. E neanche erano neri. Semplicemente non c’erano, c’era soltanto un vuoto spaventoso che vibrava, che non voleva restare immobile, e Thrower capì che quello era il suo riflesso, capì di non essere nulla, che continuare a esistere sarebbe stato un ignobile spreco di spazio prezioso, che l’unica possibilità rimastagli era l’annullamento, la completa distruzione, così da restituire al mondo quella gloria che avrebbe posseduto se Philadelphia Thrower non avesse mai visto la luce.

Fu la preghiera di Thrower a svegliare Armor, accoccolato accanto alla stufa Franklin. Forse l’aveva caricata un po’ troppo, ma gli era sembrata l’unica soluzione per vincere il freddo. Quando era entrato in chiesa, la sua camicia era ormai un unico blocco di ghiaccio. Avrebbe portato al pastore un po’ di carbone per sdebitarsi.

Armor stava per annunciare la propria presenza, ma quando udì le parole che il pastore stava pronunciando restò ammutolito. Thrower andava parlando di coltelli e di arterie e di come avrebbe dovuto fare a pezzi i nemici di Dio.

Qualche momento dopo tutto divenne chiaro. Thrower non era andato dai Miller per salvare il ragazzo, ma per ucciderlo! Ci dev’essere qualcosa di sbagliato, pensò Armor, se un marito cristiano batte la moglie, e una moglie cristiana getta un incantesimo sul marito, e un pastore cristiano architetta un omicidio e invoca il perdono divino perché non è riuscito a commettere il crimine!

A un tratto, tuttavia, Thrower smise di pregare. La sua voce si era fatta così roca e il viso così rosso che Armor temette che stesse per venirgli un colpo apoplettico. Ma no. Thrower alzò la testa come se stesse ascoltando qualcuno. Anche Armor si mise in ascolto, ed effettivamente udì qualcosa, come un’eco confusa di voci in un temporale, senza tuttavia riuscire a distinguere le parole.

Adesso capisco, pensò Armor. Il reverendo Thrower ha una visione.

A conferma della sua intuizione, Thrower disse qualcosa, e la voce lontana rispose, e poco dopo il pastore cominciò a ruotare su se stesso, sempre più in fretta, come per guardare qualcosa che faceva il giro delle pareti. Armor aguzzò lo sguardo, ma per quanto si sforzasse non riuscì a distinguere di che si trattasse. Era come un’ombra davanti al sole, qualcosa che non si vedeva arrivare e non si vedeva andar via, ma per un istante tutto si faceva più buio e più freddo. Ecco ciò che vide Armor.

Poi smise. Armor scorse un luccichio nell’aria, un riflesso vago, come quando una lastra di vetro coglie la luce del sole. Thrower stava forse scorgendo la gloria di Dio, come Mosè? A giudicare dall’espressione del pastore, era improbabile. Armor non aveva mai visto un’espressione del genere. Come quella di un uomo costretto ad assistere all’uccisione del figlioletto in fasce.

Il luccichio e i riflessi scomparvero. La chiesa era immersa nel silenzio. Armor avrebbe voluto correre da Thrower e chiedergli: Che cos’avete visto? Qual era la vostra visione? Era forse una profezia?

Ma Thrower non aveva l’aria di uno disposto a rispondere a nessuna domanda. A giudicare dall’espressione, in quel momento avrebbe preferito morire. Il pastore si allontanò lentamente dall’altare. Si aggirò tra le panche, talvolta urtandone una, senza guardare e senza curarsi di dove il suo corpo lo portasse. Alla fine si trovò di fronte alla finestra, lo sguardo rivolto al vetro, ma Armor si rese conto che non vedeva nulla; se ne stava semplicemente lì, con gli occhi spalancati, la morte dipinta sul viso.

Il reverendo Thrower sollevò la mano destra aperta e posò il palmo sul vetro. E cominciò a premere. A premere e a spingere tanto forte che Armor poté vedere il vetro flettersi verso l’esterno. «Basta!» gridò Armor. «Vi farete male!»

Thrower non diede segno di aver sentito, ma continuò a premere. Armor si alzò. Bisognava fermarlo prima che il vetro si rompesse e lui si tagliasse.

Con uno schianto il vetro andò in frantumi. Il braccio di Thrower vi s’infilò fino alla spalla. Il pastore sorrideva. Quindi ritrasse parzialmente il braccio e cominciò a farlo scorrere lungo la cornice, premendolo contro i frammenti di vetro ancora incastrati nello stucco.

Armor cercò di allontanarlo dalla finestra, ma il pastore pareva avere acquistato una forza sovrumana. Alla fine Armor dovette saltargli addosso in modo da trascinarlo sul pavimento. Il sangue era schizzato dappertutto. Armor afferrò il braccio insanguinato di Thrower, che cercò di sottrarsi alla presa rotolando su se stesso. Armor non aveva scelta. Per la prima volta nella sua vita di cristiano, chiuse il pugno e sferrò un cazzotto al mento di Thrower. La testa del pastore andò a sbattere contro il pavimento, e l’uomo perse i sensi all’istante.

Debbo fermare il sangue, pensò Armor. Ma prima di tutto bisognava togliere i pezzi di vetro. Alcuni dei frammenti più grossi erano entrati solo parzialmente, ed estrarli era facile. Ma altri frammenti, i più piccoli, erano penetrati in profondità nella carne, così che solo la punta restava visibile, e in più questa era resa viscida dal sangue ed era difficile far presa. Alla fine, comunque, Armor aveva estratto tutti i frammenti di vetro ch’era riuscito a trovare. Fortunatamente non c’era una sola ferita da cui il sangue sgorgasse a fiotti, perciò non doveva esser stato reciso nessun vaso sanguigno importante. Armor si tolse la camicia, restando a torso nudo nella corrente gelida che entrava dalla finestra. Ma non se ne curò. Strappò la camicia in modo da ricavarne delle bende. Fasciò le ferite e arrestò il sangue. Quindi si mise a sedere e attese che Thrower riprendesse i sensi.

Con sua grande sorpresa, Thrower scoprì di non essere morto. Era supino su un duro pavimento di legno, ed era coperto da qualcosa di pesante. Gli faceva male la testa, e soprattutto il braccio. Ricordò che aveva cercato di tagliarsi le vene, e pensò che avrebbe dovuto riprovarci, ma non riusciva a ritrovare in sé la stessa volontà di morire. Ricordava il Messo sotto forma di gigantesco rettile, ne ricordava i terribili occhi vuoti, però non riusciva più a ricordare ciò che aveva provato. Sapeva soltanto che era la sensazione peggiore che un essere umano potesse provare.

Il braccio era fasciato strettamente. Chi era stato?

Udì uno sciabordio d’acqua. Poi il rumore di uno straccio bagnato sbattuto contro il legno. Nella luce crepuscolare che entrava dalla finestra, riuscì a distinguere la sagoma di qualcuno che lavava la parete. Uno dei riquadri della finestra era chiuso da una tavola.

«Chi è?» chiese Thrower. «Chi siete?»

«Sono io».

«Corazza-di-Dio».

«Sto lavando le pareti. Questa è una chiesa, non un mattatoio».

Naturale che ci fosse sangue dappertutto. «Mi spiace» mormorò Thrower.

«Lo faccio volentieri» disse Armor. «Penso di avervi tolto dal braccio tutti i pezzi di vetro».

«Siete nudo» disse Thrower.

«La mia camicia ce l’avete voi, attorno al braccio».

«Dovete avere freddo».

«Forse prima, ma ora ho sistemato la finestra e ho caricato ben bene la stufa. Voi, piuttosto, siete così pallido che sembrate morto da una settimana».

Thrower cercò di mettersi a sedere, ma non ci riuscì. Era troppo debole; il braccio gli faceva troppo male.

Armor lo costrinse a restare disteso. «Cercate di stare giù, reverendo Thrower. Giù. Ve la siete vista brutta».

«Sì».

«Spero che non ve la prendiate, ma quando siete entrato ero già qui. Mi ero addormentato accanto alla stufa… mia moglie mi ha buttato fuori di casa. Oggi mi hanno buttato fuori due volte». Rise, ma senza allegria. «Così vi ho visto».

«Visto?»

«Era una visione, vero?»

«L’avete visto?»

«Non molto. Più che altro ho visto voi. Qualche barlume, se capite quel che voglio dire. Qualcosa che correva lungo le pareti».

«L’avete visto» disse Thrower. «Oh, Armor, è stato terribile, è stato meraviglioso».

«Avete visto Dio?»

«Dio? Dio non ha corpo e non può apparire a occhi umani, Armor. No, ho visto un angelo, un angelo vendicatore. Sicuramente lo stesso che vide anche il Faraone; l’angelo della morte che attraversò le città d’Egitto uccidendo tutti i primogeniti».

«Oh» fece Armor, perplesso. «Volete dire che avrei dovuto lasciarvi morire?»

«Se fosse stato scritto che dovevo morire, non avreste potuto salvarmi» replicò Thrower. «Il fatto che mi abbiate salvato, che vi trovaste qui nel momento della mia disperazione, è segno certo che debbo vivere. Sono stato punito, ma non annientato, Corazza-di-Dio. Mi è concessa un’altra possibilità».

Armor annuì, ma Thrower vedeva ch’era turbato da qualcosa. «Che cosa c’è? Che cosa vorreste chiedermi?»

Armor sgranò gli occhi. «Riuscite a udire ciò che penso?»

«Se potessi, non avrei bisogno di chiedervelo».

Armor sorrise. «Credo di no».

«Chiedete pure, e vi dirò tutto ciò che posso».

«Vi ho udito pregare» disse Armor. Quindi tacque, come se quella fosse stata la sua domanda.

Non sapendo dove l’altro volesse andare a parare, Thrower non sapeva bene che cosa rispondere. «Ero disperato, perché ero venuto meno alla volontà del Signore. Mi era stata affidata una missione, ma nel momento supremo il mio cuore era stato assalito dal dubbio». Così dicendo tese la mano sana per afferrare Armor inginocchiato accanto a lui, riuscendo solo a sfiorare la stoffa dei pantaloni. «Corazza-di-Dio» balbettò, «non permettete mai al dubbio di fare ingresso nel vostro cuore. Non dubitate mai della verità di ciò in cui credete. In questo modo spalanchiamo la porta a Satana perché s’impadronisca di noi».

Ma non era la risposta che Armor si aspettava.

«Chiedetemi quel che volete» insisté Thrower. «Se posso, vi dirò la verità».

«La vostra preghiera parlava di uccidere qualcuno» disse Armor.

Thrower non aveva pensato di dover rivelare a nessuno quale fardello il Signore gli avesse assegnato. D’altra parte, se il Signore avesse voluto tenere Armor all’oscuro del suo segreto, non gli avrebbe permesso di entrare in chiesa e udire le sue parole. «Sono fermamente convinto che sia stato il Signore Iddio a portarvi da me» disse finalmente. «Io sono un debole, Armor, e sono venuto meno a ciò che il Signore mi aveva chiesto. Ma adesso so che Egli ha voluto inviarmi voi, uomo di fede, per sostenermi e aiutarmi».

«Cos’è che vi aveva chiesto, il Signore?»

«Non certo di commettere un assassinio, fratello mio. Il Signore non mi avrebbe certamente chiesto di uccidere un essere umano. È un diavolo che sono stato mandato a uccidere. Un diavolo che vive in forma umana in quella casa».

Armor strinse le labbra, immerso nei suoi pensieri. «Volete dire che quel ragazzo non è semplicemente posseduto? Che non si tratta di qualcosa che si possa scacciare con un esorcismo?»

«Ho tentato, ma si è preso beffe del Libro e ha deriso le mie parole. Non è posseduto, Corazza-di-Dio. È la progenie stessa del demonio».

Armor scosse la testa. «Mia moglie non è un demonio, eppure è sua sorella».

«Vostra moglie ha rinunciato alla stregoneria, e per questo è stata purificata».

Armor rise amaramente. «Lo pensavo anch’io».

Thrower adesso capì perché Armor fosse venuto a rifugiarsi in chiesa, nella dimora di Dio: la sua stessa casa era stata contaminata.

«Corazza-di-Dio, vuoi aiutarmi a purificare questa terra, questa città, quella casa, quella famiglia, dall’influenza malefica da cui sono state corrotte?»

«Questo potrà salvare mia moglie?» chiese Armor. «Potrà porre fine alla sua insana passione per la stregoneria?»

«È possibile» rispose Thrower. «Forse il Signore ha voluto che c’incontrassimo proprio per purificare ambedue le nostre case».

«Per tutto ciò che è in mio potere» disse Armor, «sono insieme a voi, contro il demonio».

XV

PROMESSE

Il fabbro ascoltò Scambiastorie leggere la lettera dall’inizio alla fine.

«Ricordate quella famiglia?» chiese Scambiastorie.

«Certo» disse Makepeace Smith. «Quella del loro primogenito è stata una delle prime tombe del nostro cimitero. Sono stato io a ripescarne il corpo dal fiume, con queste stesse mani».

«Allora siete disposto a prenderlo come apprendista?»

Un ragazzo di circa sedici anni entrò nella fucina con un secchio di neve. Gettata un’occhiata al visitatore, chinò la testa e si diresse verso il barile della tempra accanto alla fornace.

«Come vedete un apprendista ce l’ho già» disse il fabbro.

«Ormai grandicello, mi pare» osservò Scambiastorie.

«Sì, più o meno ci siamo» assentì il fabbro. «Che ne dici, Bosey? Sei pronto a metterti in proprio?»

Bosey abbozzò un sorriso, si controllò, annuì. «Sissignore» rispose.

«Come maestro, non ho un buon carattere» disse il fabbro.

«Alvin è un bravo ragazzo. Lavorerà sodo».

«Ma obbedirà? A me piace essere obbedito».

Scambiastorie guardò nuovamente Bosey, impegnato a spalar neve nel barile.

«Ho detto che è un bravo ragazzo» disse. «Se lo trattate secondo giustizia, vi obbedirà».

Il fabbro lo guardò negli occhi. «Non sono tipo da commettere ingiustizie. Ai ragazzi che prendo con me non torco mai nemmeno un capello. Ti ho mai torto un capello, Bosey?»

«Mai, signore».

«Vedete, Scambiastorie, l’apprendista può obbedire per paura, come può obbedire per avidità. Ma se sono un buon maestro, mi obbedirà perché capisce che solo così potrà imparare».

Scambiastorie gli sorrise. «Niente retta» disse. «Il ragazzo dovrà guadagnarsela col suo lavoro. E bisognerà che vada a scuola».

«Un fabbro non ha bisogno di saper tenere la penna in mano».

«Non trascorrerà molto tempo prima che il territorio dell’Hio diventi parte degli Stati Uniti» disse Scambiastorie. «Il ragazzo dovrà votare, penso, e leggere i giornali. Chi non sa leggere, sa soltanto quello che gli dicono gli altri».

Makepeace Smith guardò Scambiastorie con un sorriso celato solo per metà. «Davvero? Non siete forse voi a dirmelo? Sicché non saprei quello che so, solo perché a dirmelo è qualcun altro, cioè voi?»

Scambiastorie rise e annuì. Il fabbro aveva fatto centro. «Io stesso mi guadagno da vivere raccontando storie» disse Scambiastorie, «per cui so quanta strada si possa fare a forza di parlare. Alvin sa già leggere meglio della maggior parte dei suoi coetanei. Perdere un po’ di scuola non gli farebbe gran danno. Ma sua madre vuole che impari a scrivere e far di conto come un professore. Promettetemi soltanto che non vi opporrete a che lui vada a scuola, se vuole andarci, e mi riterrò soddisfatto».

«Avete la mia parola» disse Makepeace Smith. «E non c’è bisogno di metterlo per iscritto. Un uomo che mantiene la sua parola non ha bisogno di saper leggere e scrivere. Ma uno che le sue promesse deve metterle per iscritto, dev’essere sorvegliato giorno e notte. Lo so per esperienza. Anche qui a Hatrack sono arrivati gli avvocati».

«La maledizione della civiltà» ghignò Scambiastorie. «Quando un uomo non riesce più a convincere gli altri delle sue bugie, assume un professionista che le racconti al suo posto».

Risero insieme, mettendosi a sedere su due grossi ceppi di legno collocati subito oltre la soglia della fucina, mentre il fuoco ardeva nella fornace di mattoni alle loro spalle e il sole scintillava sulla neve fangosa. Un pettirosso sfrecciò attraverso il piazzale erboso, pesticciato e cosparso di escrementi di cavalli, che si apriva davanti alla costruzione. Scambiastorie per un istante fu come abbagliato da quell’apparizione inaspettata sullo sfondo del bianco, del grigio e del marrone della fine dell’inverno.

In quel momento di meraviglia dinanzi al volo del pettirosso, Scambiastorie seppe per certo, anche se non avrebbe saputo dirne il perché, che sarebbe trascorso parecchio tempo prima che il Distruttore permettesse al giovane Alvin di giungere fin lì. E quando fosse arrivato, sarebbe stato come un pettirosso fuori stagione. Avrebbe abbagliato tutti, anche se non se ne sarebbero resi conto e lo avrebbero ritenuto altrettanto naturale di un uccello in volo, senza rendersi conto di quale miracolo fosse ogni istante in cui l’uccello restava sospeso nell’aria.

Scambiastorie si riscosse, e la visione svanì. «Allora siamo d’accordo. Scriverò loro di mandarvi il ragazzo».

«Non più tardi del primo di aprile».

«A meno che non pensiate che il ragazzo sia capace di comandare le stagioni, sarà meglio che non gl’imponiate termini troppo precisi».

Il fabbro brontolò qualcosa, licenziandolo con un gesto. Nel complesso, la trattativa era andata bene. Scambiastorie se ne andò di ottimo umore. Aveva compiuto il suo dovere. Spedire la lettera non sarebbe stato un problema; dalla cittadina di Hatrack passavano tutte le settimane carovane dirette a ovest.

Sebbene fosse trascorso molto tempo dall’ultima volta che si era recato in quei luoghi, riconobbe subito la strada che dalla fucina portava alla locanda. Era una strada ben battuta e non molto lunga. La locanda era molto più grande di prima, e più avanti, sulla strada, adesso sorgevano alcune botteghe. Un sellaio, un calzolaio, un ferramenta. Il genere di servizi utili a gente che viaggia.

Aveva appena messo piede sulla veranda quando la porta si spalancò e la vecchia Peg Guester ne uscì a braccia aperte. «Ah, Scambiastorie, troppo tempo siete stato via! Entrate, entrate!»

«Sono contento di rivedervi, Peg» disse Scambiastorie.

Horace Guester gli rivolse un grugnito da dietro il bancone della sala comune, dov’era intento a servire alcuni ospiti assetati. «Un altro astemio è proprio l’ultima cosa di cui avevamo bisogno!»

«Allora ho buone notizie per voi, Horace» ribatté Scambiastorie. «Ho smesso di bere anche il tè».

«E che bevete allora? Acqua?»

«Acqua, e sangue di vecchi grassoni» rise Scambiastorie.

Horace fece un gesto in direzione della moglie. «Tieni quest’uomo alla larga da me, vecchia Peg, hai capito?»

La vecchia Peg aiutò Scambiastorie a togliersi diversi strati di vestiario. «Ma guardatelo» disse, squadrandolo. «Con la poca carne che vi è rimasta addosso non ci si farebbe neanche il brodo».

«È perché di notte orsi e pantere mi lascino perdere e vadano in cerca di pasti un po’ più appetitosi» ribatté Scambiastorie.

«Venite a raccontarmi qualcuna delle vostre storie, mentre preparo la cena per la compagnia».

Seguirono chiacchiere e racconti, soprattutto quando il nonno arrivò per dare una mano. Era molto invecchiato, ma dava ancora il suo contributo in cucina, con notevole vantaggio per tutti coloro che ne usufruivano. La vecchia Peg era piena di buone intenzioni e lavorava sodo, ma in cucina c’è chi ha il dono e chi no. Ma non era per il cibo che Scambiastorie era giunto fin lì, né per la conversazione, e dopo qualche tempo si rese conto che al punto doveva arrivarci lui stesso. «Dov’è vostra figlia?»

Con sua grande sorpresa, la vecchia Peg s’irrigidì e la sua voce si fece fredda e scostante. «Non è più così piccola. Adesso vuole fare di testa sua, e non manca di farcelo sapere».

E a voi la cosa non piace affatto, pensò Scambiastorie. Ma il suo interesse per la ragazza era più importante dei dissidi familiari. «È ancora una…».

«Una fiaccola? Sì, certo, fa quello che deve fare, ma chi viene a chiederle aiuto non lo fa certo per piacere. Fredda e altezzosa, ecco com’è diventata. La conoscono tutti come una lingua tagliente». Per un istante l’espressione della vecchia Peg si addolcì. «Pensare ch’era una bambina così tenera».

«Non ho mai visto un cuore tenero indurirsi» osservò Scambiastorie. «Almeno, non senza una buona ragione».

«Be’, qualunque sia la ragione, il suo cuore ha fatto una crosta simile a quella di un secchio d’acqua in una notte d’inverno».

Scambiastorie si trattenne a stento dal dire che, se uno spezza il ghiaccio, quello si riforma immediatamente, ma se si porta il secchio dentro casa farà presto a sciogliersi. Inutile intromettersi in una lite familiare. Aveva una sufficiente esperienza della vita per considerare quel particolare dissidio un evento naturale, come il vento gelido e le brevi giornate d’autunno, come il tuono dopo il fulmine. La maggioranza dei genitori non aveva la minima idea di come si affronta un figlio non più bambino e non ancora adulto.

«Ho bisogno di parlarle» si limitò a dire. «Anche se mi stacca la testa con un morso, è un rischio che debbo correre».

La trovò nello studio del dottor Whitley, intenta a rivedere i conti del medico. «Non sapevo che t’intendessi di contabilità» disse.

«E io non sapevo che ve l’intendeste con i dottori» ribatté lei. «Oppure siete venuto qui per assistere al miracolo di una ragazza che fa somme e sottrazioni?»

Eh già, proprio un bel caratterino. Adesso Scambiastorie capiva come quel genere di spirito potesse mettere a disagio quelli — e non erano pochi — che da una ragazza si aspettavano che tenesse lo sguardo fisso a terra, parlasse a voce bassa, e solo di tanto in tanto scoccasse qualche timida occhiata da sotto le ciglia abbassate. In Peggy non c’era la minima traccia di falsa modestia. La ragazza lo guardò diritto negli occhi senza mostrare imbarazzo alcuno.

«Non sono venuto qui per farmi curare o per farmi leggere il futuro» disse Scambiastorie. «E nemmeno per farmi rivedere i conti».

E, come c’era da aspettarsi, al momento in cui un uomo le rispondeva nello stesso tono senza perdere le staffe, lei gli scoccò un sorriso così incantevole da far scomparire le bolle dalla pelle di un rospo. «Non ricordo che aveste granché da sommare o sottrarre» gli disse. «Zero più zero fa zero, mi pare».

«Ti sbagli, Peggy. Sono padrone del mondo intero, ma gl’inquilini non sono stati troppo puntuali coi pagamenti».

Peggy sorrise di nuovo e mise da parte il registro del medico. «Gli faccio i conti una volta al mese, e lui in cambio quando va a Dekane mi porta dei libri da leggere». Gli parlò di ciò che leggeva, e Scambiastorie cominciò a capire che il suo cuore spaziava ben oltre il fiume Hatrack. Vide anche altre cose: che Peggy, essendo una fiaccola, conosceva fin troppo bene la gente intorno a lei ed era convinta che altrove avrebbe potuto trovare gente dall’animo limpido come una gemma, che non avrebbe mai deluso una ragazza capace di leggere nell’intimo dei cuori.

È giovane, ecco tutto. Datele tempo, e imparerà ad amare ciò che di buono le viene offerto, e a perdonare il resto.

Poco dopo arrivò anche il dottore, e tutt’e tre chiacchierarono ancora un po’, e non fu che a pomeriggio inoltrato che Scambiastorie si trovò nuovamente solo con Peggy e poté chiederle ciò per cui era andato da lei.

«A che distanza riesci a vedere, Peggy?»

Sul viso della ragazza scese quasi palpabile la diffidenza, come una spessa cortina di velluto. «Non penso che mi stiate chiedendo se ho bisogno di un paio d’occhiali» mormorò.

«Mi stavo solo chiedendo che fine avesse fatto una bambina che una volta ha scritto sul mio libro: ‘È nato un Creatore’. Mi stavo chiedendo se tenga ancora d’occhio quel Creatore, ogni tanto, giusto per sapere come se la cava».

Peggy distolse lo sguardo da lui, fissando la grande finestra. Il sole era basso e il cielo grigio, ma il suo viso era soffuso di luce. Era una cosa che saltava agli occhi, pensò Scambiastorie. Alle volte non importava essere una fiaccola per capire che cosa si agitasse nel cuore di un’altra persona.

«Mi chiedo se quella fiaccola ha visto la trave che una volta gli è caduta addosso» proseguì Scambiastorie.

«Me lo chiedo anch’io».

«O una macina da mulino».

«Può darsi».

«E mi chiedo se in qualche modo non sia stata lei a spaccare in due quella trave, o a incrinare la macina in modo che un vecchio chiacchierone potesse scorgere la luce della lanterna dall’altra parte della fenditura».

Negli occhi della ragazza brillavano le lacrime, non come se avesse avuto voglia di piangere, ma piuttosto come se avesse fissato il sole e questo l’avesse fatta lacrimare. «Basta ridurre in polvere un pezzetto del cappuccio con cui è nato, e uno può usare gli stessi poteri del ragazzo per improvvisare qualche rozza creazione» disse sommessamente.

«Ma adesso ha cominciato a rendersi conto dei propri poteri, e ha disfatto ciò che tu avevi fatto per lui».

La ragazza annuì.

«Devi sentirti molto sola, a sorvegliarlo così da lontano».

Peggy scosse la testa. «Sola? No. Sono continuamente circondata dalla gente». Guardò Scambiastorie e sorrise debolmente. «È quasi un sollievo trascorrere del tempo con l’unico ragazzo che da me non vuole nulla, perché non sa nemmeno che esisto».

«Io però lo so» ribatté Scambiastorie. «Eppure non voglio niente».

La ragazza sorrise. «Vecchio imbroglione».

«Va bene, qualcosa voglio, ma non per me. Ho conosciuto il ragazzo, e anche se non riesco a leggere nel suo cuore come fai tu, credo di conoscerlo bene. Penso di sapere che cosa potrebbe diventare, che cosa potrebbe fare, e voglio che tu sappia che se mai avrai bisogno del mio aiuto per qualsiasi cosa, basta che tu me lo faccia sapere, basta che tu mi dica che cosa debbo fare, e, se è in mio potere, lo farò».

Peggy non rispose, né lo guardò.

«Finora non hai avuto bisogno di aiuto» proseguì Scambiastorie, «ma adesso il ragazzo ha maturato una volontà propria, e non sarai più in grado di aiutarlo come prima. I pericoli non consisteranno più soltanto in cose che gli cadono addosso o lo feriscono nella carne. Pericoli non meno gravi potranno derivare anche da ciò che egli stesso deciderà di fare. Voglio semplicemente dirti che, se tu vedessi simili pericoli e avessi bisogno del mio aiuto, puoi contare su di me».

«Questo mi consola» disse la ragazza. Era sincera, Scambiastorie lo sentiva; ma sentiva pure che in lei si agitava qualcos’altro.

«Volevo anche dirti che verrà qui il primo di aprile, per iniziare il suo apprendistato col fabbro».

«So che verrà» disse Peggy, «ma non il primo di aprile».

«Davvero?»

«E nemmeno entro quest’anno».

La paura per il ragazzo attraversò il cuore di Scambiastorie come una pugnalata. «In fin dei conti, allora, sembra proprio che sia venuto qui per sapere il futuro. Che cosa gli riserva? Che cosa accadrà?»

«Potrebbe accadergli di tutto» rispose Peggy, «e sarei una stupida a cercare d’indovinare che cosa. Il suo futuro lo vedo sempre come mille strade aperte dinanzi a lui. Ma pochissime di quelle strade lo conducono qui in aprile, mentre molte di più lo vedono morto con la scure di un Rosso piantata nella testa».

Scambiastorie si chinò sopra lo scrittoio del medico, posando le mani su quelle della ragazza. «Vivrà?» chiese.

«Finché avrò fiato per respirare» rispose Peggy.

«E finché l’avrò io» concluse Scambiastorie.

Sedettero in silenzio per qualche istante, mano nella mano, guardandosi negli occhi, finché Peggy non scoppiò a ridere distogliendo lo sguardo.

«Di solito quando gli altri ridono ne capisco il perché» disse Scambiastorie.

«Stavo solo pensando a noi due, e a che povero simulacro di congiura rappresentiamo, considerando i nemici che il ragazzo dovrà affrontare».

«È vero, ma la nostra è una buona causa, e la natura intera congiurerà insieme a noi, non ti sembra?»

«E Dio stesso» aggiunse Peggy in tono deciso.

«Su questo non ci giurerei» disse Scambiastorie. «Mi sembra che pastori e preti l’abbiano talmente imbrigliato con la loro dottrina che il povero vecchio Padre ha a malapena lo spazio di muoversi. Adesso che hanno interpretato la Bibbia fino all’ultima parola, l’ultima cosa che desidererebbero sarebbe che Egli facesse nuovamente sentire la Sua voce o mettesse la Sua mano nelle cose di questo mondo».

«Ho visto intervenire la Sua mano qualche anno fa, nella nascita di un settimo figlio d’un settimo figlio» ribatté Peggy. «Chiamatela pure natura se volete, visto che siete andato a scuola da maghi e filosofi. Io so soltanto che la sua vita è inestricabilmente legata alla mia, come se fossimo nati dallo stesso ventre».

La domanda successiva Scambiastorie non l’aveva pensata in anticipo, ma gli venne alle labbra da sola: «E ne sei felice?»

La ragazza lo guardò con occhi colmi d’una spaventosa tristezza. «Di solito no» disse. In quel momento parve così stanca che Scambiastorie non poté fare a meno di alzarsi e di andare al suo fianco e abbracciarla come un padre avrebbe abbracciato una figlia, tenendola stretta a lungo. Se piangesse o si trattenesse, lui non l’avrebbe saputo dire. Nessuno dei due pronunciò una parola. Alla fine lei si liberò dell’abbraccio e si chinò di nuovo sul registro. Scambiastorie se ne andò senza rompere il silenzio.

A passo lento, tornò alla locanda dove lo aspettava la cena. Lì, se voleva guadagnarsi vitto e alloggio, aveva storie da raccontare e faccende da sbrigare. Ma ogni storia pareva impallidire dinanzi all’unica storia che non poteva raccontare, all’unica storia della quale non conosceva la fine.

Sul prato intorno al mulino c’era una mezza dozzina di carri, osservati con occhio vigile dai contadini venuti da lontano per procurarsi farina di buona qualità. Le loro mogli non avrebbero più dovuto sudare con mortaio e pestello per macinare una farina di grana grossa buona soltanto per un pane duro e grumoso.

L’acqua correva impetuosa nella gora, facendo girare la grande ruota a pale. All’interno della costruzione la forza motrice della ruota veniva trasmessa, attraverso una serie d’ingranaggi, alla mola che girava senza interruzione sopra la grande macina solcata da un disegno ad angolo retto.

Il mugnaio versava il grano sulla macina; la mola, passando e ripassando, lo triturava trasformandolo in farina. Con una scopa, il mugnaio prima stendeva uniformemente la farina per un secondo passaggio, poi la faceva cadere in un cesto sorretto dal figlio, un ragazzo sui dieci anni. Il ragazzo versava la farina in un setaccio, che poi scuoteva in modo da riempire di farina bianca un sacco di tela; ciò che restava nel setaccio, lo vuotava in un cassone di legno. Quindi tornava al fianco del padre per riempire un altro cesto.

Strano a dirsi, mentre lavoravano in silenzio fianco a fianco, i loro pensieri erano all’incirca gli stessi. Ecco quello che vorrei fare per sempre, pensava ciascuno dei due. Alzarmi al mattino, venire al mulino, e lavorare tutto il giorno al suo fianco. Non importava se quel desiderio non avrebbe mai potuto realizzarsi. Non importava se forse non si sarebbero visti mai più, una volta che il ragazzo fosse partito per andare apprendista dal fabbro che viveva là dove egli era nato. Quei pensieri non facevano che accrescere la dolcezza del momento, che ben presto sarebbe diventato solo un ricordo, che ben presto sarebbe diventato soltanto un sogno.

RINGRAZIAMENTI

Voglio qui ringraziare Carol Breakstone per l’aiuto che mi ha dato con le sue ricerche sulla magia nella storia della frontiera americana. Il materiale da lei raccolto è divenuto una ricca miniera di temi e dettagli di vita quotidiana nel periodo pionieristico dei territori di nord-ovest. Ho anche fatto largo uso delle informazioni contenute in A Field Guide to America’s History di L. Brownstone (Facts on File, Inc.) e The Forgotten Crafts di John Seymour (Knopf).

Scott Russell Sanders ha dato il suo contributo mettendomi fra le mani una copia del suo splendido ciclo narrativo Wilderness Plots: Tales About the Settlement of the American Land (Quill). Il suo libro mi ha fatto capire quali risultati si possano ottenere da una trattazione realistica della vita di frontiera, e mi ha aiutato a mantenermi nella giusta direzione con il mio attuale progetto narrativo su Alvin il Creatore. E sebbene sia scomparso da lungo tempo, molto debbo anche a William Blake (1757-1827) per aver scritto poesie e proverbi che si sono adattati perfettamente alla voce di Scambiastorie.

Soprattutto sono grato a Kristine A. Card, per l’inestimabile valore delle sue critiche, dei suoi incoraggiamenti, del suo lavoro di redazione del testo e di correzione delle bozze, e per essere riuscita senza grande aiuto a fare dei nostri figli degli esseri umani saggi, gentili e bene educati, pronti a perdonare il padre allorché questi non era propriamente un esempio di simili virtù.

FINE

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